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Saturday, June 21, 2025

GRICE ITALO A-Z S SE

 

Luigi Speranza -- Grice e Sebasmio: la ragione conversazionale della classe romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sebasmio is a philosopher mentioned on a list of philosophers belonging to the Roman aristocracy. SEBASMIO.

 

Luigi Speranza --Grice e Secondo: la ragione conversazionale della gnosi romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Ippolito di Roma, a gnostic who believes that the world is divided into light and darkness. Secondo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Secondo: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Tacito. A Pythagorean, he acquires the nickname on account of a vow of silence he takes. Although some regard him as a Pythagorean, he appears to have led the life of the Cinargo. Even Adriano can not get to break his vow – although S. may have provided written answers to some of the philosophical questions Adriano poses.

 

Luii Speranza -- Grice e Selinunzio: la ragione conversazionale della scuola di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio Calabria, Calabria. Pythagorean. Giamblico.

 

Luigi Speranza --Grice e Sellio: la ragione conversazionale dell’allievo di Filone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Sellio. Pupil of Filo at Rome. Gaio Sellio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sellio: la ragione conversazionale del fratello – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Pupil of Filone at Rome – possibly Gaio Sellio’s brother. Lucio Sellio.

 

Luigi Speranza -- Grice Selvatico: la ragione conversazionale estense – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. Estense.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semerari: la ragione conversazionale e il principio del dialogo in Socrate – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo Italiano. Taranto, Puglia. Grice: “Whereas it would be considered in bad taste at Oxford, the Italians pun on names – and there is an essay on the ‘seme’ of ‘semerari’ Witty!” -- Grice: “Perhaps Semerari is right and the philosopher MUST metaphorise. What better title to an essay on Carabellese than ‘La sabbia e la roccia”?” -- Grice: “I like Semerari: His ‘principio del dialogo in Socrate” is reprinted in his invaluable collection on “Dialogo.”” – Grice: “In a way, we may say that Calogero, Semerari, and myself, belong to the school of the philosophy of conversation – not to mention Apel!”. Si laurea a Roma sotto CARABELLESE. Insegna a Bari. Collabora ad Aut Aut, Critica storica, Giornale critico della filosofia italiana, Clizia, Historica, Rivista di filosofia del diritto, Rivista di filosofia, Il pensiero, Archivio di filosofia e altre riviste specialistiche. Fonda Paradigmi. Si dedica per lo più a Spinoza, a Schelling, alla fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty e al materialismo storico di Marx. Altri saggi: Lo spinozismo,Vecchi, Trani; Storia e storicismo: saggio sul problema della storia in CARABELLESEC, Vecchi, Trani; Storicismo e ontologismo, Lacaita, Manduria, Dialogo, storia, valori: studi di filosofia, Ciranna, Siracusa; Interpretazione di Schelling, Libreria scientifica, Napoli; Esistenzialismo italiano (Grice: “This reminds me of parochial Warnock and his “English philosophy,” or Sorley for that matter!” -- Cressati, Bari; “Questioni di etica, Adriatica, Bari; Responsabilità e comunità umana. Ricerche etiche, Lacaita, Manduria; La filosofia come relazione, Quaderni di cultura, Sapri; Natale, Guerini, Milano; “Scienza nuova e ragione, Lacaita, Manduria; S., Guerini, Milano; Da Schelling a Merleau-Ponty; Cappelli, Bologna; La lotta per la scienza, Silva, Milano; Valerio, premessa di Papi, Guerini, Milano, Spinoza, Marzorati, Milano; Esperienze, Argalia, Urbino; La filosofia dell'esistenza in Kant, Adriatica, Bari; Introduzione a Schelling” (Laterza, Bari); Filosofia e potere (Dedalo, Bari); Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini. Per un razionalismo filosofico-politico, Bertani, Verona; La scienza come problema: dai modelli teorici alla produzione di tecnologie” (Donato, Bari); “Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, Milano); “La sabbia e la roccia. L'ontologia critica di CARABELLESE” (Dedalo, Bari); “Dentro la storiografia filosofica” (Dedalo, Bari); Sartre. Teoria, scrittura, impegno” (Sud, Bari); Novecento filosofico italiano. Situazioni e problemi, Guida, Napoli; “Scesi. Studi husserliani” (Dedalo, Bari); Filosofia Guerini, Milano Confronti con Heidegger (Dedalo, Bari); La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Bari, Frammenti di diario; l'anno di Istanbul, Schena, Fasano. “La cosa stessa.” Seminari fenomenologici (Dedalo, Bari); “Dommatismo e criticismo”, “Deduzione del diritto naturale” (Laterza, Bari); Pensiero e narrazioni. Modelli di storiografia filosofica” (Dedalo, Bari); Frammenti di diario; l'anno del Messico, Schena, Fasano); “Fenomenologia delle relazioni, Palomar, Bari); “Ragione e storia. Studi in memoria” Tateo, Schena, Fasano; Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo, Tatasciore, Guerini, Milano; ‘La certezza incerta” Scritti su Semerari con due inediti dell'autore, S., Guerini, Milano; Ponzio, Il significato della filosofia per S., in "BariSera", Niro, S.. Il problema morale, Atheneum, Firenze, Silvestri, Il seme umanissimo della filosofia. Sul pensiero di S. (Mimesis, Milano). Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Per la illuminata iniziativa del Prof. Antonio Corsano e con il consenso della Signora Irene Carabellese, appassionata e vigile custode dell’opera di uno dei più forti pensatori italiani del nostro secolo, l’Istituto di Filosofia della Università di Bari ha promosso e realizzato, con questo volume, la pubblicazione dei corsi organicamente tenuti da Pantaleo Carabellese su La filosofia dell’esistenza in Kant, negli anni accademici 1940-41, 1941-42, 1942-43, presso la Università di Roma e mai editi finora. Nel piano delle opere complete di Carabellese, annunciato il 1948 ma non più portato a compimento (uscirono soltanto i volumi Da Cartesio a Rosmini e Critica del concreto), era previsto, coi numeri 16-18, un « Kant (in parte inedito) ». Tale pubblicazione avrebbe dovuto comprendere unitariamente e il volume del 1927, La filosofia di Kant. L’idea teologica — frutto, con l’altro libro del 1929, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, delle lezioni degli anni 1922-1925 alla Università di Palermo — e i corsi romani del 1940-1943, La presente edizione è stata condotta su un testo conservato nella Biblioteca privata del Carabellese.e costituito da fogli dattiloscritti relativi ai paragrafi 1-7 e 38-104 dell’opera e da un gruppo di bozze di stampa corrispondenti ai paragrafi 8-37. Nel testo sono riprodotte fedelmente le dispense autorizzate dei corsi svolti dal Carabellese quale ordinario di storia della filosofia professore di filosofia teoretica a Palermo, Carabellese ha la cattedra di storia della filosofia a Roma e passa alla cattedra di teoretica, quando subentrò a Gentile. L’Autore non poté riesaminare, ai fini di una regolare pubblicazione, il testo. Sono pertanto restate, qua e là, delle ripetizioni Vv inevitabili, del resto, in un corso universitario che si è sviluppato, sul medesimo tema, per più anni di seguito. Anche lo stile della esposizione, talora un po’ trascurato, riflette la immediatezza e quasi estemporaneità di un discorso al quale è mancato l’ultimo ritocco letterario. L’approntamento del volume per la stampa è stato curato dalla Dr. Valeria Novielli, che ha sottoposto il testo a un’attenta e paziente revisione, rendendone più precisa la punteggiatura, emendandolo, nelle parti dattiloscritte, di numerose sviste formali, controllando e rettificando tutte le citazioni. Con la Dr. Novielli è doveroso ricordare i giovani, che con lei hanno diviso la non lieve fatica della correzione delle bozze: Teresa Angelillo, Teresa Massari, Cosimo Tinelli e Anna Verzillo. *o d*o* Nel presentare al pubblico questa grossa e ardua opera kantiana del Carabellese, mi corre l'obbligo di accennare brevemente al suo significato nel quadro del pensiero teoretico e metodologicostoriografico dell'Autore, sì che quanti vorranno studiarla o consultarla possano partire, nella lettura, col piede giusto. Sulla formazione della filosofia personale del Carabellese l’insegnamento di Kant ebbe influenza decisiva. Carabellese considerò sempre la sua ‘critica del concreto’ o * ontologismo critico’ il risultato di un ripensamento profondo e ostinato della dottrina kantiana. Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica del concreto, che è del 1939, Carabellese dichiarava esplicitamente che Kant gli « fu d’aiuto » a scoprire la ‘critica del concreto’ e aggiungeva: « questa mi fu poi d’aiuto a riscoprire Kant »!. Le suggestioni ricevute da Kant per la scoperta e la strutturazione della ‘critica del concreto” così come il ritorno a Kant attraverso tale critica precisano il carattere di lettura teoretica, che rivelano gli scritti kantiani di Carabellese. Convinto che il Kant della corrente tradizione storiografica, il Kant cioè raffigurato quale punto di convergenza e di fusione di razionalismo ed empirismo, fosse una falsificazione dell’autentico Kant e che, al contrario, la verità di Kant fosse l’affermazione della inesauribilità dell’ ‘essere’ o ‘cosa in sé’ rispetto alla na 1 CARABELLESE, Critica del concreto, Firenze, Sansoni tura, Carabellese ricostruiva Kant assumendo a criterio d’interpretazione l’esigenze proprie della ‘critica del concreto’: l’essere in sé (Dio, Oggetto, Idea) e l’essere in altro (Io, Soggetto, Esistenza). Il volume del 1927 era dedicato appunto alla ‘idea teologica’ ed era concentrato nell’analisi del processo onde Kant, pur nei limiti dogmatici e realistici del suo criticismo, aveva posto la idea quale oggettività e ragione e, quindi, la schietta idealità della ragione. Per intendere correttamente la relazione dell’opera del ’27 con La filosofia dell’esistenza in Kant, è utile ascoltarne un passo: « Per ora constatiamo che Kant ha finalmente scoperto la natura dell’oggettività nella sua distinzione dalla esistenza. L’oggettività è risultata la necessità e universalità di coscienza: ciò che nei singoli pensanti c’è di identico. L’oggettività dunque è universale astratto nella coscienza. Ecco la grande scoperta che Kant ha fatto, ma non ha visto. È l'America, che egli crede India. E con la scoperta dell’oggettività, Kant ha scoperto anche l’esistenza nella sua distinzione dalla oggettività. Infatti, l’oggettività, l’essere identico della coscienza è astratto, perché ci sono le singolari qualificazioni della coscienza nelle quali... ci è dato tutto ciò che di esistenziale può mai risultare » Non diversamente da Colombo che, credendo di aver trovato una nuova via per raggiungere un continente già noto, in realtà aveva scoperto un continente prima sconosciuto, anche Kant — pensava Carabellese —, incamminatosi nella ricerca critica intorno alla conoscenza, era approdato, senza rendersene adeguatamente conto, alla individuazione della dimensione oggettiva o ideale della coscienza e alla sua distinzione dall’altra dimensione, che è la esistenza, la soggettività. Questa 1‘ America’ scoperta ma non riconosciuta da Kant, che, « al di là di questa oggettività ed esistenza che ci risultano e che costituiscono la coscienza », si intestardiva « ad ammettere ancora una esistenza. che concretizza l’oggettività fuori della coscienza » 5.A giudizio di Carabellese, Kant, impegnato a risolvere il problema capitale della filosofia moderna, quello gnoseologico, aveva, di fatto, impostato vin nuovo problema, il problema della coscienza nella concretezza della sua struttura e delle sue esigenze trascendentali: universalità e singolarità, oggettività e soggettività, idea ed CARABELLESE, La filosofa di Kant. L'idea teologica, Firenze, Vallecchi CARABELLESE, La filosofia di Kant.ì esistenza, Dio e Io, ecc. Il ‘ vero’ Kant era ritrovato da Carabellese nella ‘Dialettica Trascendentale’ della Critica della ragion pura, dove etano stati definiti i grandi temi metafisici di Dio (idea teologica) e della esistenza (idea cosmologica, idea psicologica). La improponibilità di quei temi in termini conoscitivo-positivi, il loro eccedere dai limiti della ‘ Estetica’ e dell’‘ Analitica’, che costituivano formalmente il campo del ‘conoscibile’ e dello ‘scientifico’, davano a Carabellese la conferma che, con Kant, era accaduto qualcosa di nuovo e di rivoluzionario. nella storia della filosofia moderna, il passaggio di fatto, implicante un rovesciamento prospettico, dalla filosofia del conoscere alla filosofia della coscienza e del concreto, passaggio solo di fatto e non ancora di diritto, ché Kant continuava a restare impigliato nella logica della filosofia del conoscere, confondendo oggettività ed esistenza, di cui pur aveva sentito la distinzione a livello di coscienza comune e di sapere concreto. La filosofia di Kant « perciò s’incentra nei tre problemi della Dialettica, scrive Carabellese nella Prefazione all'opera, Di questi tre problemi adunque noi faremo centro per esporre criticamente il pensiero filosofico di Kant nella sua integrità, prendendo ciascun problema dal momento in cui esso si formula nella mente kantiana fino a quello in cui dal problema, risoluto o no, questa si libera. L’avvertimento di quella che, per lui, era stata la più originale scoperta kantiana e, insieme, dell’imzpasse logico in cui era stata bloccata dalle contraddizioni della filosofia ‘storica’ di Kant metteva nelle mani di Carabellese il filo rosso del suo incontrarsi e scontrarsi con Kant e fissava i termini e il metodo del suo discorso critico, che si veniva organizzando nei modi di una lettura, come oggi si direbbe, ‘sintomale’, di Kant, orientata a valorizzare, contro il Kant letterale, la sua scoperta critica liberandone il contenuto dall’involucro formale e linguistico della tradizione precriticistica, che ne distorceva il senso e ne strozzava lo sviluppo. Prescindere da Kant oggi, in filosofia, è fare opera nulla. Ora per una determinazione di problemi che non prescinda da Kant, io credo che bisogna rifarsi dallo stesso Kant senza trascurare quelle CARABELLESE, La filosofia di Kant che sono le conquiste dal kantismo, e non dallo stesso Kant, già fatte. Rifarsi quindi da Kant combattendolo nei suoi residui dogmatici. Ma per combatterlo appunto bisogna intenderlo nella sua profondità, e per intenderlo bisogna avere una concezione della realtà da contrapporgli (concezione sia pure nata da Kant; che anzi deve esser nata da Kant), bisogna avere un pensiero con cui indagarlo. Solo così si può fare la storia, sia essa della filosofia che di una qualunque determinata attività concreta dello spirito. In tal modo, Carabellese progettava la sua lettura di Kant come controllo di una più vasta e generale interpretazione del rapporto tra la filosofia e la sua storia. La filosofia, voleva dire Carabellese, non nasce se non sul terreno dei problemi maturati storicamente (impossibilità di filosofare oggi prescindendo da Kant e dalla storia del kantismo). La filosofia, nondimeno, non eredita passivamente dalla propria storia (necessità di combattere Kant nel suo superstite dogmatismo). Anzi gli stessi problemi proposti dalla storia non possono essere compresi fino in fondo, nella loro verità, se non si sia in grado di fare uso di un punto di vista diverso, andando al di là del giudizio strettamente storico con un giudizio teoretico (Kant non può essere combattuto, cioè proseguito e superato, se non venga prima inteso, e non può essere inteso, se non si sia in grado di opporgli un differente pensiero). Insomma, se la filosofia dipende dalla sua storia, questa, dalla sua parte, è anche condizionata e anticipata dalle opzioni teoretiche della filosofia. Il proposito di far emergere dall’interno della dottrina kantiana ciò che appariva essere il suo contributo più originale e importante, dando, per questa via, espressione a quanto Kant aveva lasciato inespresso, rendeva la indagine storiografica di Carabellese altamente drammatica e rischiosa, provocava il mutuo coinvolgimento dello storico .e del suo autore, al punto che il dovere di capire l’autore finiva col coincidere col diritto di correggere, reimpostare o risolvere i problemi da lui lasciati aperti, e sollecitava al salto al di là dei limiti della filologia, quando ciò sembrava necessario alla risolutiva espressione dell’inespresso. Lo stesso Carabellese era ben consapevole di ciò e non fu certo un caso che, introducendo il volume del ’29, difendesse il suo scrupolo filologico: « M’auguro che l’amore della tesi non abbia mai forzato l’in- [CARABELLESE, La filosofia di Kant] dagine storica ad una interpretazione che non sia quella voluta dalla intima coerenza logica dei pensatori studiati. Certo ho messo in ciò la massima cura. E perciò mi son sempre rifatto direttamente alla lettera stessa dei loro scritti, perché i concetti risultassero sempre nella loro maggiore possibile determinatezza. In definitiva, ciò che principalmente importa a una ricerca quale Carabellese proponeva e perseguiva non è tanto la relazione, che Kant ebbe con le sue fonti e coi suoi contemporanei, quanto la relazione che può instaurarsi tra Kant e i suoi successori e, soprattutto, tra lui e noi nell’orizzonte della odierna problematica filosofica. Era questo il senso della contrapposizione a un Kant morto, congelato nel linguaggio delle sue opere, di un Kant vivo che, diceva Carabellese, « io voglio rivivere e far rivivere, e col quale quindi io ho bisogno di discutere scendendo nelle profondità del suo pensiero e analizzando questo sia nei suoi germi nascosti, per i quali egli rivive in noi che con lui discutiamo, sia nelle grossolanità esplicite dalle quali egli non seppe e non poteva liberare la sua costruzione, e di fronte alle quali quindi egli deve rinnegare se stesso e darci ragione. A questo punto può essere interessante ricordare come un’analoga impostazione alla comprensione di Kant dava, due anni dopo la uscita del saggio carabellesiano, ma in totale indipendenza da Carabellese, Martino Heidegger con Kant e il problema della metafisica. Non è questa la sede per istruire il confronto tra il Kant di Carabellese e il Kant di Heidegger e illustrarne le differenze pur nella comune ispirazione ‘ metafisica ’ dei due approcci®. Vale, piuttosto, la pena di sottolineare la identità, nel metodo, delle due letture, che risalta oggettivamente alla luce della seguente dichiarazione di Heidegger: « Un’ ‘interpretazione ’, la quale si limiti a ripetere ciò che Kant ha detto testualmente è destinata in partenza a fallire il suo scopo, almeno finché il compito di una vera interpretazione resti quello di rendere visibile proprio ciò che nella fondazione kantiana traspare al di là delle CARABELLESE, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, Palermo, Trimarchi, CARABELLESE, La filosofia di Kant, Lo stesso Carabellese volle precisare tali differenze in una lunga nota della Prefazione alla Il edizione della Critica del concreto: cfr. Critica del concreto Xx formule. È vero che Kant non è giunto a pronunciarsi direttamente in proposito, ma è anche vero che in ogni conoscenza filosofica il fattore determinante non è il senso letterale delle proposizioni, bensì l’inespresso immediatamente suggerito dalle enunciazioni esplicite. Così, l’intento esplicito di questa ‘interpretazione’ della Critica della ragion pura era di rendere visibile il contenuto decisivo dell’opera, tentando di porre in evidenza ciò che Kant ‘ha voluto dire’. Nel seguire questo procedimento, la nostra interpretazione fa propria una massima che lo stesso Kant voleva veder applicata alla ‘interpretazione’ di opere filosofiche (...). Naturalmente, per strappare a quel che le parole dicono, quello che vogliono dire, ogni ‘ interpretazione’ deve necessariamente usar loro violenza. Ma tale violenza non può esercitarsi a caso, per mero arbitrio. L’interpretazione dev'essere mossa e guidata dalla forza di un'idea illuminante e anticipatrice. Soltanto in virtù di una tale idea, una ‘ interpretazione’ può osare l'impresa, ognora temeraria, di affidarsi al segreto impulso che agisce nell'intimo di un’opera, per essere aiutata a penetrare l’inespresso e forzata ad esprimerlo. È questa una via, per la quale la stessa idea direttrice giunge a rivelarsi pienamente, manifestando il proprio potere di chiarificazione. Chi abbia presenti i passi dianzi riferiti di Carabellese, ove si parla di discesa nelle « profondità » del pensiero kantiano, di « germi nascosti », a cui fanno velo « grossolanità esplicite », della « concezione della realtà » da contrapporre a Kant per capirlo e della necessità « di avere un pensiero con cui indagarlo », può rendersi conto di come Carabellese e Heidegger concepissero, entrambi, il lavoro storiografico, in filosofia, fondamentalmente come interpretazione, interpretazione da tentare come sforzo di esplicitazione del senso profondo e intenzionale, restato nascosto, delle parole espressamente dette. Di tale sforzo, la cui realizzazione può anche comandare l’esercizio della violenza sulla filologia, il pre L HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, tr. it, Milano, 1962, Silva, pp. 264-265. Nella Prefazione alla II edizione dell'opera, che è del 1950, così scriveva Heidegger: «C'è sempre chi si sente urtato dalle forzature che riscontra nelle mie interpretazioni. Questo scritto potrà offrire buoni argomenti per un'accusa in tal senso. Coloro che dedicano le loro ricerche alla storia della filosofia hanno sempre il diritto di muovere quest'accusa a chi tenta di aprire un dialogo fra pensatori. Un dialogo di pensiero obbedisce a leggi differenti, rispetto ai metodi della filologia storica, legata a un suo compito preciso. Più grave è, nel dialogo, il rischio di fallire, più frequenti sono le mancanze. supposto è un'anticipazione teoretica (non casuale, non arbitraria secondo Heidegger, necessariamente derivata dal filosofo stesso del quale si fa la storia, secondo Carabellese), capace di trasformare in parole chiare e determinate la ‘intenzione’ del filosofo oscurata e contraddetta dal suo stesso discorso storicamente esplicito. Secondo Carabellese, il compito della filosofia dopo Kant, nella misura in cui Kant veniva riconosciuto come ponte di passaggio obbligato nella storia del pensiero moderno, era di andare avanti sulla strada di una ‘metafisica critica’, che Kant aveva appunto dischiuso ma non percorso. Sin dalla edizione, che cura, degli Scritti minori di Kant, il Carabellese aveva fermamente battuto sul fatto che, a suo parere, il criticismo kantiano non rappresenta la liquidazione della metafisica, bensì la esigenza e anche il modello, in qualche maniera delineato, di una sua nuova, ‘ critica ’, reimpostazione. « Nello sforzo tenace e fortunato che Kant ha fatto per rendersi conto esatto della possibilità della filosofia come metafisica, cioè come scienza, che ha oggetti non dati dalla esperienza, si possono distinguere due aspetti: quello per cui lo sforzo tende, diciamo così, ad individuare con la maggiore possibile esattezza questi oggetti nella loro essenza, e l’altro, che è come il riflesso di quel primo, per cui lo sforzo torna continuamente a misurare se stesso » 1°, L’errore di Kant, il suo limite storico, a giudizio di Carabellese, era consistito nell’aver dimenticato che la Critica, nel suo stesso programma, era destinata a fungere solo da propedeutica (‘prolegomeni ’) a ogni futura metafisica e non poteva, perché non doveva, elevare se stessa a filosofia. L’errore del pensiero postkantiano era stato quello di non accorgersi dell'errore kantiano e di aver assunto come ovvietà non più discutibile né problematizzabile la presunta negazione kantiana della metafisica. Metafisica positivistica, criticismo metafisico idealistico, storicismo, attualismo, esistenzialismo, ecc. — tale era la convinzione di Carabellese — erano tutti prodotti diversi di un medesimo perseverare nell’errore di Kant: la confusione del problema dell’oggetto della filosofia (il problema cosiddetto esterno) col KANT, Scritti minori, a cura di P. Carabellese, muova ed., Scritti precritici, Bari, Laterza. problema del rapporto della filosofia con se stessa (il problema cosiddetto ‘interno. Esauritosi nel mero esercizio della Critica, finita col diventare fine a se stessa, Kant fu costretto a occuparsi unicamente del problema ‘interno’ della filosofia e non vide come la sua soluzione sarebbe stata impossibile fino a quando non si fosse affrontato e formulato correttamente, secondo le indicazioni della Critica, il problema ‘esterno’. « Il problema che Kant impostò riguardo alla filosofia », scriveva il Carabellese il 1929, «e che è sostanzialmente il problema di tutta la Critica, non fu quello della essenza, ma soltanto quello della possibilità di essa. L'essenza della filosofia come scienza era presupposta e dogmaticamente accettata. Perciò il criticismo kantiano non è la piena posizione di quello che abbiamo detto il problema interno della filosofia; ne è invece la posizione consentita da un preconcetto essere intellettualistico » !. In altre parole, Kant, nonostante la Critica, non seppe rinunciare al pregiudizio pre- e anti-criticistico di un essere sussistente al di fuori della coscienza e del soggetto e all’uno e all’altra contrapposto e continuò a pensare la filosofia come uno dei modi, certamente il più fallimentare, di raggiungere conoscitivamente questo essere. « Come Cartesio aprì quello delle origini, Kant ha aperto soltanto il problema della possibilità della conoscenza. E tutti gli indirizzi post-kantiani, che di Kant veramente tengano conto, cercano di rispondere a questa domanda, ma solo a questa. E a me paiono ora esauriti i tentativi per darle una risposta. È ora di cambiar aria, di correre verso una nuova dimensione dello spazio speculativo. A furia di dimostrare la possibilità della conoscenza, abbiamo finito forse col dimenticare, o meglio possiamo cominciare a vedere che cosa è questa conoscenza di cui vogliamo dimostrare la possibilità » 1. La ragione principale della filosofia di Kant, alla luce della interpretazione carabellesiana, stava proprio in quel bisogno di « cambiare aria », di conquistare « una nuova dimensione dello spazio speculativo ». Il che, per Carabellese, significava che Kant aveva toccato il limite estremo dello gnoseologismo moderno, da un lato circoscrivendo, una volta per tutte, l’area del conoscibile, di ciò che può essere ‘scienza’, e dall’altro provando che filosofare non è conoscere. li CARABELLESE, Il problema della filosofia CARABELLESE, Il problema della filosofia Che cosa la filosofia potesse mai diventare, dopo essere stata affrancata da compiti di conoscenza — questo, secondo Carabellese, era il problema posto da Kant, che Kant non ebbe la forza di risolvere, in quanto lasciò che i potenti strumenti della Critica restassero inceppati dallo stesso pregiudizio realistico messo in crisi appunto dalla Critica. Il pregiudizio restò ancora abbastanza saldo per la svista di Kant, che non si accorse della grande scoperta ‘critica’ e ‘metafisica’, da lui fatta, dell'oggetto quale universalità e necessità della coscienza e non più suo ‘al di là”. Proclamandola impossibile come scienza, Kant mostrava di considerare la metafisica pur sempre come ‘scienza’. Per lui, gli ‘oggetti’ della metafisica (Dio, anima, mondo) continuarono a valere come l’‘al di là’ della coscienza, conoscitivamente inattingibile. Eppure il senso della Critica spingeva a inglobare quegli oggetti nella coscienza, a ‘ immanentizzarli’ non quali ‘ contenuti” bensì quali ‘essere’ della coscienza, come la stessa coscienza nella sua originaria e necessaria struttura !8, infine come l’apriori metafisico di ogni determinato e concreto sapere, essere e fare. Dopo Kant, quindi, anzi attraverso Kant, fare metafisica, fare cioè filosofia e non soltanto propedeutica alla filosofia doveva voler dire, per Carabellese, null’altro che riflettere (riflettere, non conoscere), sempre più a fondo, sulla coscienza comune, sulla struttura del concreto essere/fare naturale e storico dell’uomo. Nello spirito, anche se contro la lettera della Critica e contro la dominante tendenza del pensiero postkantiano, Carabellese pensava tale struttura immanente e trascendente allo stesso tempo: immanente, perché intrinseca al concreto, trascendente, perché non esaurita né esauribile in alcuna determinazione del concreto (la inesauribilità della kantiana ‘cosa in sé’ rispetto al fenomeno o natura). Per rivalutare a pieno il kantismo bisogna guardare anche «.. coscienza è il sapere insieme, noi molti soggetti, un oggetto, nella unicità del quale conveniamo » (CARABELLESE, La coscienza, nel vol. collettivo Filosofi italiani contemporanei, Milano, 1946, Marzorati, p. 210). Oggetto umico e noi molti soggetti insieme costituiscono, per Carabellese, la struttura o essere della coscienza. Fusi e, tuttavia, distinti nella sinteticità originaria della coscienza, della coscienza l'oggezto è principio 0 fondamento e noi molti siamo i termini esistenziali. Tutto ciò Carabellese ricavava dalla Critica, ora direttamente ora mediandola storicamente, ma sempre sostituendo all’abituale lettura di Kant in chiave gnoseologistica la interpretazione ‘metafisica’ ossia, nel linguaggio di Carabellese, ‘ ontocoscienzialistica '. questi oggetti della ragione pura, non per tornare a ripetere la metafisica kantiana di noumeni sconosciuti e inconoscibili e pur validi come regolativi, ma per guardarli nel nuovo concetto di co- scienza maturatosi da Kant, e rivalutare così di nuovo il presup- posto trascendentale della esperienza. Del nuovo concetto di coscienza, in cui venivano trasposti e semanticamente rigenerati i vecchi oggetti metafisici della ragione, La filosofa di Kant. L'idea teologica e La filosofia dell’esistenza in Kant furono la riflessione, tematizzandone l’una l’aspetto oggettivo (Dio, Idea) e l’altra l’a- spetto soggettivo (Io, Esistenza). Le due opere furono i due tempi di una medesima ricerca, i due momenti di una medesima analisi e anche le due direzioni diverse di una stessa polemica. Infatti, ambedue — come, del resto, tutti gli scritti teorici e storici di Carabellese — rappresentavano altrettante prese di posizione nei riguardi di quelle che Carabellese pensa essere le conseguenze della mai denunciata svista di Kant e, più in generale, le manifestazioni estreme, nel pensiero contempo- raneo, del non ancora debellato realismo dogmatico. In partico- lare, il libro, attribuendo a Kant, tradizionalmente fatto pas- sare per il progenitore dell’idealismo moderno soggettivistico, la sco- perta della oggettività di coscienza, serviva a Carabellese anche come arma di lotta contro l’attualismo gentiliano — allora al culmine del suo successo storico —, che di quell’idealismo si protestava l’esito più coerente e rigoroso e che fu appunto il bersaglio permanente della polemica filosofica di Carabellese. Analogamente, La filosofia del- l’esistenza in Kant, con il discutere la confusione kantiana di esi- stenza e oggettività realisticamente intesa, consentiva a Carabel- lese di contrastare l’esistenzialismo, che in quegli anni si andava diffondendo anche in Italia, e di condannare in esso la sopravvi- venza del preconcetto realistico e dogmatico « che il singolare sia fuori dell’essere, e che l’essere sia al di là della singolarità » !9 e, soprattutto, l’errore teoretico di presupporre la esistenza senza chie- dersi che cosa mai essa sia, a quale esigenza strutturale del nostro essere/fare concreto essa risponda. Esula dal compito assai limitato e modesto di questa introdu- zione l’esame critico della ricostruzione carabellesiana della filo- KANT, Scritti minori, cit, p. VI. 15 CARABELLESE, L'esistenzialismo in Italia, in « Primato » 1943, p. 65. 16 V. segnatamente i paragrafi 3, 13, 43’ e 84 di questa opera. sofia di Kant. Tale esame, ove fosse tentato, implicherebbe l’apertura della discussione sulla generale metodologia storiografica del Carabellese e, quindi, sulla sua posizione teoretica, che di quella metodologia è motivazione, supporto e guida. A me premeva solo di dare al lettore alcune indicazioni elementari e, a mio avviso, es- senziali per un suo primo orientamento sull’impegno programmatico e sul carattere di questa opera, indubbiamente originalissima e ri- gorosa, in una epoca che, forse, non è la più favorevolmente di- sposta a comprendere un lavoro storico condotto con la tecnica usata da Carabellese e ad accettare un discorso teoretico redatto nel linguaggio che era proprio di Carabellese. Il lettore vaglierà e giudicherà per suo conto. Quali che siano, però, le conclusioni di ciascuno di noi, possiamo essere tutti sicuri che la intera ricerca di Carabellese, nella quale, in primo piano, si pone la sua lunga meditazione kantiana, è, per tutti noi, uno stimolo potente a li- berarci dai consunti schemi storiografici e a tirarci fuori dai luoghi comuni in cui la nostra intelligenza filosofica può essersi impigrita. Bari. Giuseppe Semerari. Semerari. Keywords: fascismo, Gentile, neo-idealismo come intrinseccamente fascista, Croce, Vico, intersoggetivo, io-tu, dialogo, dialogo autentico, comunita, valore comunitario, comunita umana, vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semerari” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semmola: I FONDAMENTI DELLA PSICOLOGIA RAZIONALE --  la ragione conversazionale della filosofia come istituzione – la scuola di Napoli – filosofia napoletana -- filosofia campagnese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I find it difficult to decide if Semmola endorses formalism or informalism in his monumental “Logica.”” Grice: “While Ayer never liked it, metaphysics is very popular in Italy, as Semmola’s monumental “Metafisica” testifies.” Grice: “It’s good to see philosophy as an institution, in the Italian way of using this word, as per Semmola, “Istituzione di Filosofia.” Uno dei più grandi esponenti della scuola napoletana. Partecipa ai moti di Marigliano. Saggi: “Istituzioni di Filosofia,” “Logica,” “Metafisica”, Biblioteca, Napoli. Mente divinatrice ardente spirito investigatore che nello studio della natura morbosa dell'uomo produsse miracoli di arte e di scienza scolare e presto emulo del suo gran più ai giovann conchiuse alla novità delle dottrine una sapienza antica procacciandosi fama in patria e fuori di sommo maestro in medicina ne rifulse lo ingegno incomparabile dalla cattedra nell'università napoletana nelle accademie e negli ospedali nei consessi legislativi e nei congressi scientifici nella parola negli scritti membro della commissione legislativa riunita in Firenze principale autore di un codice sanitario italiano inviato unico plenipotenziario alla conferenza sanitaria internazionale di Vienna deputato e poi senatore nel patrio parlamento onorato due volte di medaglia d'oro dal proprio governo per le cure ai colerosi da quello del Brasile per la guarigione del suo imperatore Socio di gran numero di accademie italiane e straniere Insignito di molti tra i maggiori gradi cavallereschi. Muore nella fede catolica avita. Questo marmo per voce del comune Si fa eco della pubblica solenne onoranza cittadina. Le spoglie mortali riposano nella cappella mortuaria di famiglia ove le vollero la vedova ed i figliuoli a rendere vieppiù paghi la loro pietà ed il riconoscente affetto. INSTITUTIONES PHILOSOPHICAE AUCTORE IN USUM SUORUM AUDITORUM I CONCINNATÆ INSTITUTIONES METPAHYSICES. Napoli Micliaccio. Superiorum permijfu y i PRÆCLARISSIMO VIRO CORRADINO marchiOni spectatissimo S. D. t T l itterario operi, PrjBclarifllme Vir jam jam (in publicam lucem prodeunti, nihil majus, nihil honorificentius ab Au« ^ore fuo exoptari poteft, et fehcius accidere, quam ut infigni aliquo nomina decoratum emittatur. Jam vero nullum illufirius, ac vere inclytum nomen, niii ^ quod Mentis prsfiantia, ingeniique 2 felicitate 'fit comparatum t quod dein integritate fumma, maxima lUe fapieQtia in graviflimis expediendis muneribus fit et >'perfe6lum, atque firmatum.* quod tandem egregio animi candore, atque incorrupta religione fit numeris omnibus abfolutum. Qui funt hujurce generis Viri, (funt enitn vero admodum pauci) fummi. profefto funt, &, vere magni.* hi cum ceteris emmeant, fintque de Societate be-. nemerentiffimi, jure ab omnibus fincere colendi.* et cum xqui fint, atque idonei rerum zftimatores, in 'eorum fententiam libentiflime reliqui defcendunt, ut nec au-. dax obtre£latorum manus alfurgere 'contendat. Solent et alia publicæ exiftimationis capita percenferi :at cu 2 a proprio cujufque merito non repetuntur, et fortunam, non jam virtutem comitem habent, natura fua et funt nimis fiuxa, et eb omnibus, qoeis cor fapit, parvi penduntur. Certe, qui ftulte hifce gloriantiir, haud recogitant Horatianum illud Ne cum forte fuas repetitum •venerit olim '' Crex avium plumas, moveat cornicula rtjum Furtivis nudata coloribus. Bene homines intelligunt, quid inter adfcitum, et proprium decus interfit; et ut huic juftam, meritamque habent venerationem, ita illud defpiciunt, et averfantur. Hinc fi qui fplendidis decepti_ nominibus aliquem hujufmqdi Vmum honefti laboris fui patronum inconfulte deleeerint, tantum abeft, ut bene rei fua! profpexerint, ut potius in fe publicam hominum tontemptionem ftultiffime concitent. Hsc quum ita fint, nemo proteao non probabit, cur tantopere exoptaverim, ut meus ifte labor qualiscunque Tibi, Przclariifime Vir nuncuparetur | tantoque conceffo honore fummopere mi caudeam', atque triumphem. Nomen enira tuum tot tantifque de caufis illuftre, at^ que cohfpicuum, eo profero illujtriuf jure, meritoque celebratur, quod mp*"* reliquorum hominum fortem, non nmofis imaginibus referta atria, non. gia majorum facinora, fed tu*. Te virtutes unice extulerunt. Tu apriraauiqu ætate fori curriculum ingrelfus, tantum ingenii acumine, legum fcientia, gravitate, pfobifque moribus ceteris prsluxifti, ut inde aufpicium faaum fit, Te ad ‘grandia natum, quod dein-mox comprobavit eventus. Re quidem vera, quum tot, tantarumque virtutum tuarum fama diutius fori ambitu contineri non potuerit, faftum eft, ut Ferdinanjjus providentiflimus ReXj nofter regiorum Hetruriæ prasfidiorum AflTeflorem, et mox etiam Auditorem in Teates, et Aquilæ Tribunalibus deftinaverit. Qua vero in hiice muneribus (apientia, integritatis, ac folida probitatis argumenta praftiteris, ex eo plane intelligi poteft, quod non multo poft Neapolim fis revocatus,, et in fupremo totius Regni Tribunali a fapientilTimo Principe Criminum Judex conftitutus.^Per holce veluti gradus fellinatis honoribus Te a fecretis Regni, Te Realis Camera Sanfla Clara Confiliarium, Te ternum Confiliarium, et fupremum Sa* erarum Rationum Curatorem vidimus. Tn vero omnibus hifce muneribus major, re olfendilli, Urenuam in laborando alTiduitatem tuam nec fene6lute remitti, nec negotiis opprimi pofle. Hinc illa eadem Regis Sapientia, qua Tibi probe cognito tanta demandaverat, ad majora protinus_ extulit. Te fibi a fecretis in Ecclefiafticis, et Sacri Patrimonii rebus afllimiit,ut in ampliori theatro collocatus clarius enitefceres. Qua duo graviffima omnium onera ira per Te adminiftras, ut et Principi probanffima procuratio tua femper extiterit, et reliquis omnibus admiratione digniffima. Tot, tantaqua dignitates cura honorum continuatione habita, eo Tibi majori funt Ihudi, quod certum eft, non gloria Majorum, non aliena ope, non caco /orruna 'impetu, non externis fubfidiis, fed tuis virtutibus, et fapientiflimo 'Regis Cbnfilio efle • confequutmn.vin hac tua tam multiplici, tara iolida honorum, 8c gloria fegete nihil fane erat, quod operi meo melius potuiffem optare, nifi ut tuo nomine fuperbum, tua claritate decoratum, patrocinio tuo tutum in manus hominum prodiret. Voti compos effe6lus, reliquum nunc eft^ ut Te facilitatis in me tua non poenitear, potiffimum cum Adolefcentium edu~ationr, cui tantopere, 8c fine intermif[ione ftudes, fit illud infcriptum'; et ego 3e tanta in me indulgentia gratias. agam immortales. Sis latus, et Te Deus virutum omnium exemplar fofpitet femper, ic pro publico hujus Regni bono in avum 'ervet incolumem. I I IN UNIVERSAM METAPHYSICAM PRAEFATIO. I. Icet MET^mSICES nomen forte olim fuifle cufum videa*|h e W tur; tamen facultati, quam elucidandam fufcipimus, apprime 51 ^ confonum cflfc, nemo profecto ambiget. Si enimPhyfices nomine a Græco vocabulo Sutrii tPhyJis, quod naturam fignificat, rerum fenlibilium pertractatio infignita fuit ; jure Metaphyfica dicenda erat, (itrei Titr puur ^ (cientia nimirum fupra Naturam, facultas illa, quæ res a materia (ecretas, neque fenfibiles rimatur, abftractionis et ratiocinii ope. II. Equidem, cum noftræ naturæ conditione fiat, ut prima; rerum omnium notiones e lenfibilibus, et materia concretis exordiantur, tum gradatim progrediendo ad infenfibilia afeendamus, et fecreta a materia; ordinis ratio poftularc videtur, ut nullus Metaphyftces T^erxXva\\2i adeat, nifi Phyficis cognitionibus antea inftructus. Atqui Majores noftri contrarium tenuere iter ; qui mos, poftquam ad nos ulqiie devenit, veluti lacer fuit, et religiofe fcrvatus ; quantum enim icio, nemo hactenus illum adgredi «ft aufus, five id nimia antiquitatis veneratione faftum llr, five ex animi imbecillitate, five alia quacumque ex caulfa. Nolim rectas licet sententias no-» •vitate in alicujus cadere offenfionem ; quilibet jure A uta a Jn Unlverf. Metapb. utatur fuo, &, quam libuerit, fequatur fcmitam. At illud faltem indigitare ex munere meo duxi, ut difcant Tyrones planum, et magis profuturum emetiri, quem alias lalebrolum experiri folent, ftudiorum curriculum. Quæ fupra fenfibilia adfcendunt, et a materiali compage funt fecreta, diverfa (refpicere poffunt, atque ideo non immerito hinc Metafhyfices partitionem defumemus. Nempe, quas fola mentis abftractionc affequuntur, fi quidem generales rerum omnium proprietates fpectant, Ontosophia, prima fcilicet Metaphysices parte, continentur, Quæ vero fpectant Mundum in genere, atque ideo extra fenfuum aciem conftituta folius ratiocinii vi agnofei poflunt, alteram ejufdem partem conftituunt, quam Cofmolagiam dicimus. Sunt vero quæ fuapte natura ab omni materijB concretione funt fejuncta, Mens fcilicet humana, et Deus, duafque alias fiftunt ejufdem facultatis partes, Pfycologiam fcilicet, et Theologiam Naturalem. Poftrema tandem pars hominis relationes erga Deum, feipfum, fuique fimiles expendens, quæ inde fequantur officia monet, morumque præcepta decernit tum artem edocet re6fe vitam inftituendi-, ut felicitatem confequamur j* eaque Jus natura y ifthæc Ethica nuncupari confuevit. Quinque itaque partibus Metapbyftca continetur, quarum priores quattior modo vobis exhibeo, Adolefcentes optimi, no» exuccas, nec vanis, garrulifque fubtilitatibus fcatentes, Icd doctrinis, quæ veram redolent fapientiam, refertas. Has partim quidem collectas, partim mihi in meis meditationibus fponte veluti fua Pnefatle 3 fua occurrchtcs, elucubrare, et ingenio veftro, quantum cognovi adcomodare fategi. Poftremain vero partem, favente Deo, mox ut otium ^ 8c vires fuppetent, adjiciam. IV. Ex ipfa objecti explanatione, quam modo breviter profcquuti fumus, abunde quifque intelligit, quanta fit hujufce facultatis, quam per, quam pro^ ba, ac JubaHa mediocris ingenii cultura trihua's, quam afiiduis, atque providentiffimis curis Praclarijftmi, ac beneficentifftmi Nolani olim %4nti~ flitis, mox vero, benemereniifftmi Panormitani */irA chiepijccpi, ac Sicilia Prafidis probatiffimi PHl~ LIPPI LOPEZ^Y ROYO in eodem Nolano Se• minario ‘ alumnus excepi. Equidem fi quid in litteris y In morum difciptma profeci y' libenti ac grato y/fnimd, ncc non ingenuo pudore fateor^ me Ei acceptum referre. Vale. \ jit ea pofita ponatur etiam id, cujus ed ratio sufficiens, fecus rurfum infufiiciens foret : quippe præter illam rationem aliud quidpiam modo requireretur ad ponendum illud, quod noa dum ed politum. NIHIL ejl fine fufficlenti ratione. Hnjufcc principii indubia veritas cuilibet fponte fua occurrere autumamus. Si quis vero demondrationem requirat ex principio contradictionis facile eruemus. Sane infit enti A quasvis affectio N præter effentiam, ita nempe ut Contradictoria affectio — N, vcl alia quavis diverfa M eidem ineffe poffit. Ex duabus contradictoriis affe6lionibus N, et N, quas feorfim in eodem Ente ineffe poffunt, nec non 'ex diverfis N, et M in eodem Ente asque poffibilibus, vel aded fufficiens ratio cur altera infit, vel non. Si primum, addruitur propofiti principii veritas.Si fecundum, A 4 quia ONtOSOPHIA. quia contradictoriæ affectiones N, et N, nec non diverfx N, &T'M lint in Ente A cx hypothefi seque pofTibiJes, vel utraque, vel neutra infidere deberet: par enim eft pro utraque ratio Sed utrumque eft contra hypotefim. Quare fi enti A infidet affectio N, cum, ejus infpecta natura, ex sequo infidere poiTet vel contradi£ioria affectio — N, vel alia qusevis M, id aliqua ratione, et quidem fufficienti, fieri oportet. Nihil ergo eft abfque fufficienti ratione. Hujufce principii veritatem quam maxime commendat illa in omnium animis ingenita prurigo quærendi femper cw hoc} cur illud} a qua numquam conquiefeimus, nifi fufficiens hujus, et illius ratio non occurrat. Eft hxc fine dubio tacita qusedam naturx vox, nihil effe fine fufficienti ratione. . §. lo.Ex diftis liquet, nullum dari, nec dari poffe furum Cafum. Puri cafus nomine intel-ligitur eventus, cujus nulla fit fufficiens ratio. Equidem hujufmodi notio nullo prorfus pa£fo concipi poteft, et ex iliis eft, quæ omni humanæ rationi pugnant. Quod fi quandoque plura cafu, et fortuna fieri dicuntur, id ex eo eft, quod cauffas p rationefque, e quibus illa continuo, et certo nexu pendent, minime pervidemus. Prop/er ohfcuritatem y fapienter Tullius ^q. *Acad. l. 2. ignorationemque cauffn^ tum fortuna efficit multa improvifa, nec opinata^ et Juvenalis Sat. lo. fed te Nos facimus Fortuna Deam, Coeloque locamus. Nempe, ne noftram ignorantiam fateamur, malumus fortuna inania verba proferre, et ita nosmet-. p ipfos deludenfcs, ignorantiæ noflr* acquiefcere. Inveftigatio fane cauflarum, et rationum mentis aciem exigit, et improbum laborem. Hinccft, ut qui minus ingenio valent, vel funt laboris magis impatientes, plurima cafui, et fortunæ tribuant, quæ acutiores, et laborioft per fuas rationes, et caulTas facile expediunt. II. SufRcientes rerum rationes invefligare proprium eft Philofophi. Nam ut inquit Genuen» iis „ populus renun phænomenis efl contentus/ „ philofophus in rerum cauflas, et principia in„ quire debet, quod egregie vocant Platonici „ mundum intelligibilem, et populo ignotum „ vedigare. Qua Philofopbia nihil validius eil, „ atque^ efficacius cum ad vitam pacate ducen-,, dam t um quoque ad reipublicx tranquillU „ tatem. /frop. Xy II. El. Met. par. prior, II. Caveant vero Tyrones I. ne aniles reputent fabulas omnia, quorum incomperta ed,vel impervia fufficiens ratio. Meminerimus imbecillitatis nodra;, et ingenue fateamur, innumera ciTe, quorum rationes neque perfpeximus ha6lenus, neque in sevum comperiemus. Ecquis hactenus novit cur Magnes ferrum trahit ? cur Gymnotus, non eseteri pifees, clectricitate polleat? cur Jovi quatuor fatellites, non plures, neque pauciores fint conceffi, tum feptem Saturno, nullus Marti, unus Telluri ? &c. Recogitemus vetus illud ac lapiens Epicharmi decretum „ Nervos ede fapientia:, nihil temere cre„ dere „ fed neque oblivifcamur nimis temerarium, immo dultum ede, rerum veritates ex xnodulo. nodro metiri. Itaque nihil gratis aderendum, aut gratis affirmanti concedendum * at ubi prxfto fint exteriora momenta, quibus aliquid fuperftruitur, hajc prius difeutienda funt, ne illud pertinaciter negantes temeritatis notam merito incurramus, et veritati fponte contradicere velle videamur. II- Haud putent Tyrones fufficientes rationes, quibus Cauflfæ ad agendum determinantur femper ipfis cauffis extrinfecus quærendas effie, quum pluries queant effe internæ. id quod præfertim de agentibus libero arbitrio pr*ditis di£lum velim. Qua de re animadvertant, quod licet ultro fatendum fit, fapientis elTe nihil agere, nihil deliberare, nifi ex omnium, quæ occurrere poffiunt, rationum calCulo : haud tamen putandum eft, has. rationes veram, et internam fufheientiam continere, qua liberarum cauflarum indeclinabilem live flagitent, flve extorqueant aflenfum. Equidem fl ita res fe haberet ( id quod vifum efl Leibnitianis ), cauflæ illæ nequaquam liberæ dici poflent. In ipfa natura cauffarum liberarum, five in ipfo earum libero arbitrio ratio fufficiens continetur, cur fe cieant, determinentque, quin ulla requiratur alia ratio. Externæ rationes, fi qux adfunt, fuam sufficientiam ex ipfo libero arbitrio confequuntur, fi quidem confequuntur. Sapienter Cicero de Fato c. I. Motus enim vohntarius tam naturam in feipfo continet, ut fit in nofira potefiatty nokifque pareat / nec id fine caujfa, ejus enim rei caujfa ipfa natura eji.De Ejfenfia ^ et Attrthuus, .Xj.y^Uamlibet nobis notam rem acutius per» 'V^/ luftrare velimus, notio Menti obveriabitur plurcs conceptus complectens/ cumque nihil fit abfque fufficienti ratione, mo« nemur hinc totidem veluti realitatibus rem ipfam conflare, feu totidem didinctis notis. Has duplicis ede generis, nofcimus ; aliæ Tiquidem perpetuo res fuas comitantur, aliæ non item : abeunt enim, pereuntque ipfa tamen re perma» nente, queis aliæ fuccedunt, atque aliæ, vel primæ iterum redeunt. Deinde notarum, quæ res perpetuo comitantur, quædam videntur veluti primæ, quarum nempe fufficiens ratio nequit ab aliis derivari ; et hæ appellantur profrie.tates rei ejfentiales. Aliæ, quæ ci primis fluere videntur, et in ipfis habere lufficientem. rationem, attributa dicuntur. Notæ vero rem non comitantes perpetuo, fed quæ continuo abeunt, et queis aliæ fuccedunt, mox vel numquam rediturz, modificationes, affeQiones., qua. litates, vel tandem accidentia folent nuncupari. Indivifibilis complexus omnium proprietatum edfentialium, quæ rei cuique infunt, dicitur ejufdem rei E(fentia ^dc quandoque etiam Uatura, licet minus proprie. Effentia igitur inliar unius coniideraiu^ venit, cui fcilicet nihil addi poted, nihil demi, quin ipfa res pereat j et alia atque alia continuo fiat: atque adeo notio eflentix pendet ab adsquata cognitione omeciei, et generis notione minime ingrediuntur ^ inter ie diferiminentur, facile intelligitur, efsentias ctmeretas magis compoliras efse, abftra^las autem fimpHciofres; feu, quod idem eft, primas plurium proprietatum else 'complexiones, fecundas autenx pauciorum.. qualis a nobis concipitur, conftituit- Hæc me. i rito fecernenda eft ab eflentia reali • quippe ip. Reales rerum dTentias omnes ad unam nos latere, aut faltem certo non conftare, ultro ' fateri debemus. Ecquis enim completam ullius rei notionem fibi comparaffe contendet ? Qui reddi poffumus tuti vel in ipfis magis obviis rebus nullam ruperefle adhuc latentem proprieta* tem ? Confer, quæ in Logica diximus. Deinde ea ipfa, quæ nolfe putamus, non funt nifi mentis noflræ phænomena, pendentia quidem ab objectis externis utpote renfuum fibras irritantibus ; fed quæ nulla prorfus ratione patefaciunt, quid intrinfecus ipfa fint objecta externa * qua de re alibi opportunius. Hinc quæ in Scholis definiri folent Effentiæ, notiones rerum fpeflant, non res ipfas. Cum ergo noflræ notiones, pr*fertira fubfiantiarum, numquam fint adæquatæ, tum varient quamplurimum pene pro numero mentium; facile intelligitur, quantopere in hominibus effentiæ rerum notionales fint tum inter fe diverfæ, quum a realibus diferepent. 7 iai»» GAP. II. De variis Entium generibus, ^.lO.^^Um Entis notio tum rebus, quæ actu exiftunt,;tum quæ non exiftunt quidem, at exiftere pofsunt,ex sequo conveniat; hinc P“ Entis vocabulum emphatice a Platonicis ufurpar tum w.^rOSOPHIA. IS prima, 5 c gcneraliffima Entis divifio cfl: in Ens Icu exiflens ^ et potentiale ^ leu pojjihite» zi. Ens actuale vel ita exiftit, ut tota fuat exiftentiæ ratio fufficiens in fua efsentia contineatur, feu ut ejus exiftentia in Iu* cfscntiæ conceptu includatur, et Ens a fe, feu Ens neceffarium appellatur. Hujuimodi eft foius Deus. Vel exiftendi fufficiens ratio in altero Ente continetur, et Ens alio dicitur, leu Ens cow-.'Hujufmodi funt przter Deum cætera quavis Entia - Utriusque entis caracteres alibi opportunius expendendos rejicio, ^.22. Quiecumque hujus Mundi Entia contemplari velimus, innumeris ea mutationum viciffltudinibus perpetuo obnoxia efse deprehendimus : interim in tanta pereuntium, ac fe invicem fuccedentium mutationum ferie, Entia illa adhuc perdurare intelliguntur. Merito hinc conficimus, tot tantifuue mutationibus aliquid perdurabile fubftare, cujus diverfæ fmt modificationes quotquot excipit mutationes. Porro primum illud fubjectum perdurabile, ac modificabile Subjlantia dicitur. Quod vero hujufce fubjecti modificatio efi, et concipitur, Modus appellatur. astum legimus, pro eo fcHIcet, quod ærernum eft, et perfeflilTimum ; hinc res facias non entia ^ fed entium umiras iidein appellarunt. Hajc equidem loquendi ratio fublimior elt, et vere philofophica ; Deus enim eft Ens abfolutiflimum omnes entitatis rationes in fe uno coniple« 5 lens. Quis ex factis Scripturis illam hauftam no» dixerit ! fane Exod. III. v. 14. Ipfe Deus, quis efset, fcifcitanti Moyfi refpondens, dis it: Ego Jam, qui fum. Primam fubftantiæ notionem ex entium contigentium contemplatione mentibus noftris informamus : hinc eft, quod fubftantiam concipiamus tamquam fubjectum aliquod primum perdurabile ac modificabile. Cæterum nequit hxc fubdantiaz notio ex azquo aptari Enti necefsario, nempe Deo, cui nullas inelsc pofsunt modificationes. Deinde animadvertendum notionem fub* ftantias mox traditam penitus abftractam efse: nullibi fiquidem reperire eft ejufmodi fubjectum, quod nullas actu modificationes habeat. Quot quot exiftunt, funt undique determinata, et fin» gularia ; univerfalia, qucd fxpe dictum eft, non 1 'unt nili Mentis noftræ abftractioncs. Cum fubftantia primum fit fubjectum &c. ^.2a.quodvis aliud fubjectum, cui infit,& inhxreat, excludit,-( ipfa enim fibifubftat, et fubjc6tum eft quarumvis modificationum, quas ei obtingere pofsunt) non vero excludit quodvis aliud fibi externum fubjectum, in quo fola infit fufficicns ratio fuas exiftentias. Quid enim implicat fubftantiam principium fuas cxiftentijc extrinfecus habere, interim vero ipfam fibi 1'ubftare„quin indigeat eidem principio inhzrerc ad inftar modificationum ? Ex, gr. decora Palladis forma, quam faxo infCliTp|am miramur, lui principium feu fufticientem exiftentias rationem ab artifice petit ; at interim faxo, non artifici inhsrret. Qui ergo fubllantia ab externo principio fufticientem fuas exiftentias rationem petens eidem principio inhasrere debet? porro ad differentiam modificationum ipfa fibi fubftare nihil vetat - f S' Dio»: V t/ E contrario MqM nequeunt Jpfi fibi; fubdare, feci neceflTario natura fua alicui Subjc£lo inhærere debent. Operæ pretium eft heic expendere impiam non minus, ac abfurdam Subftantiæ deii* Ditionem, quam Benedictis Spinoza ex fuo je« cinore c^mpo^’uit. Verfutus Homo pantheifti* eam molem flfuere contendens, definitionum, theorematum, ac corollariorum exteriori appa« ratu Geometrarum morem mentitus eB,utLe«, Cot ibus facile poffet illudere. Quare hanc præfniiit Subflantiæ definitionem : per Subjiantiar» ^intdligo id j quod in fe eji ^ et per fe- concipi’* tur ; tum explicationem fubdit. hoc efl, id, cujus conceptus non indiget conceptu alterius rei f s quo formari debeat. Verbis illis quod in fe efl duplex fubjicl poteft fenfus : i. quod in Je efl, nempe a fe% quamlibet excludens externam caufam, a qua producatur; a. in fe efl ^ nempe flbi ipfum Jubflaty quodvis intriniecum SubjeCum, cui in« hæreat, excludens, contra id quod proprie Modorum efi. Hic fecundus Subfiantiæ conceptus» verus efl, fed nihil Pantheifmo, cui fludet B Spi (a) Nemo mihi calumniam inferat eo, quod in au» guflilKnio Eucarifti* Sacramento, permanentibus panis et vini accidentibus, fide Divina tenendum fit, nullum re. manere panis, et vini fubjeflum. Nam, quos vulpo mo» dos, et accidentia in hoc Ven. Sacramento appellamus, >ro meris habeo adparentiis, et phsnomenis. Nen^, leficiente fubftantia panis', et vini, Divina virrute fup.,Ienrur in fenfibus noAris illz ezdem impreffiones, ou^ ierent a reali panis, et vini TubHantia. Hinc profe^Q (l, ut ilU fe^biles reprxfentationes oobis occiuraot. Spinoza, favet. Primus, cui foli pantheifticam molem inzdificare fatagit, falfus e(l, qui neque ab ipfo Spinoza, neque a quovis ejus Af* Iccla ha£lenus e(l demonfiratus. ir. Neque minus fallax e(l explicatio definitionis ab eodem allata. ( inquit ) concep» tus non indiget conceptu alterius rei, a 'quo foy mari queat, Si, conceptum Subfiantt^e prafcindi poffe a quovis alio conceptu, ultro coBtedimus \ fi vero intelligat, Sub/iant'ee cotf eeptum neceffario a-fs excludere conceptum alterius rei, a qua ipfa Subflantiq producatur, feu in qua in/it fu-fficiens ratio, princprum fue exijientia, et id gratis afferenti in zvutti negabimus. Tnterim ex allata poenitenda definitione illa fua oracula depromit catus Homo. Unicam in Mundo Subflantiam extare. Hanc unicam Subjlt.rt 'am ejfe Deum.’ Hujus deinde modificationes ejfe quotquot in Univerfo cernimus f^c. Sed hac de re fuo loco. 27. Ut poflibilis notio fiatuatur, quot non repugnare dicuntur prznotanda funt. Ea non mepugnare dicimus, quz fimul effe polfunt. Ex. gr. Triangulum zquifaterum, Subfiantia cogitans &c. non repugnare dicuntur, quippe triangulum *^cinn zqualitate laterum confiftere potefi : SubfWntia cum cogitatione, tanquam ejus pro« p^ietate. ' 28. E contrario, quæ fimuI effe nequeunt, ep quod unum eorum alterum excludat, et atnbo fimul fe mutuo deleant, e4 repugnare dicuntur: ex. gr. Circulus quadratus. nam notio circuli notioneni quadrati excludit, et ambas limuU. simul-fc mutuo delent. zp. Pojfibile dicitur quidquid in fui essentia nullam includit repugnantiam, quodque ade& concipi potcft. £x.gr.Mons aureus; triangulum -æquilaterum. E contrario ImpojjibUe dicitur quidquid in fui edentia repugnantiam involvit, quodque adeo concipi nequit ^ cujusmodi ed circulus quadratus, qo- Pojftbilis notio diligenter difcriminanda cfl a notione probabilis. Poffibilitas enim fpe£lat ipfam entis naturam/ Pxobabi^itas vero refpicit rationum momenta,jqjuibus,;|Mens ad affirmandum aliquid, vel negandum^ ^movetur; feu indicat datum Mentis judicaatis.de exidentia, natura, proprietatibus &c. Entis. Hinc Probabilitas locum.habet in exidentibus, poflibilibus, • infipoffibilibus &c. 31. Notio pdJifibills, pofitiva ed ; sidit enim aliquid Menti contempianti.-£ contrario notio Impojfibilis ed negativa, non enim fidit Menti aliquod ens, fed duo exhibet entia, quz fe mutuo delent, adeoque aon ens, feu nibil. 32. Poffibilium numerus faltem duplus ed numero impoflibilium. ImpofUbile enim coalefcit ex duobus, vel pluribus inter fe pugnan. tibus: d hæc fingula fecernamus, feorfim non -pugnabunt, adeoque erunt Ungula feorfim poflibilia. Numerus igitur poffibilium, ad minus im poffibilium humero duplus ed^ . fmpoffibilinm duo datui folent genera Alia enim funt intrinfecus, et abfolute talia ^ alia vero nonnifi extrinfecus^ et hypothetice. Primi generis funt quotquot contradi£Uonem in B 4 / voi- Yolvunt, de quibus ^.zp.ySc hxc metaphyjice int« ^olTibilia quandoque etiam dicuntur. Secundi generis funt, quæ nullam quidem in i'ui elTen> tia repugnantiam continent, pugnant vero ex> trinfecis quibusdam hypothesibus / ex.gr. prop* ter imbecillitatem cauflæ producentis, propter conditiones loci, temporis, &c. aliafque adpofi* tas circumftantias, Huc fpectant, quæ phy fiet impoffibilia appellantur, quippe quæ phyficis Mundi legibus* pugnant. Ex.gr. Lunam eccliplim pati extra oppofitionem cum Sole, hipotetibice eft impolsibrie^in! hypothefi nempe, quod Mundi curllis jfrxfi' confuetas leges cosmologicas pergat : flammam.in ære libero deorium dirigi: Virum obliteratum, et rudem acute, &. erudite de rebus di^cilibus difputare &c., 34. Ad Jiypotheticam impoffibilitatem ad cedit, quæ moralis nuncupatur. Illa nimirum moraiiter impoffibilia' vocare confuevimus, quæ intrinfecus infpefta. funt quidem poflibilia, non'nifi tambn raro, admodum difficulter effici queunt. Ex. gr. diuturna culpæ declinatio ia xnediis, et maximis periculis. Diligenter advertant Tyrones, quandoque in communi fermone fimpliciter impoffibilia appellari*, quæ folum moraiiter ' funt impoffibilia / idque potiilimum recolant in facrorum Librorum k£lione, ne in abfurdas incidant Sententias. 35. Sunt qui aliud impoffibilium moralium genus agnofeunt, idque Dei refpectu * definiunt nempe Ea efle, qux in fui natura. infpc£la, funt quidem poffibilia,at fieri pugnant 'Divinæ perfecti 0 imæ Naturas. £x* gr. mentiri in-. af inquiunt, cfl: quidem intrinfecus poflibile, at Deo impoflibile moraliter, quia fummæ ejus Veracitati pugnat ; fimiliter fe habet innoxium aternis addicere flammis, quod ejus Juflitiais op« ponatur. Sed hi parum penficulate hoc impoffibilium genus introducunt, cum revera ad im« pohfibilia abfoluta fpectent. Sane quid magis contradictorium, quam ju(litia,& iniuftitia, veritas et mendacium &c. ? porro in nifee, quæ vocantur moraliter impollibilia, collifio continetur inter juilitiam, veritatem, fanctitatem &c., qux in quavis Divina actione abfolute, et cITentialiter elucere debent, et inter injuditiam, iniquitatem, mendacium &c., quz eidem confociari ponuntur. Quæ ergo moraliter impoffibitia dicuntur, funt reapfc impolEbi lia mtr/w/ecMj, et fibfolute. Merito Divus Anfelmus.* quodvis minimum inconveniens efl Deo impojjibile, Sed juvat hic expendere quorumdam fententiam, qui poffibiie definiunt, omne id quod a Deo effici potefl. Iftorum fententia, nulla ed quærenda intrinfeca pofdbilitas in Ente, Ibla extrinfeca poffibilitas ex Divinæ Potentias menfura ed attendenda. Verum qui ita philofophantur, (i recte de Deo fapiuot, nulla dari impoffibilia Divinse Potentiæ refpectu datuant oportet' fecus enim, fi aliquid per ipfura Deum impoiTibile agnofeunt, totam fimul evertunt Divinam Omnipotentiam. Sane, fi podibile idcirco ed pofilbile, quia a Deo edici poted, erit a pari impoffibile, idcirco impodibile, quia a Deo eddei nequit. Quare, fi Deus omnipotens habetur, nihil pro impoflibili ftatui poteft. Quod fi c(l aliquid impoffibile, id nonnifi Divinæ Potentiæ defectu impoffibile eft, atque adeo Dei Potentia non infinita. Hæc perfpecte vidit Cartefius, qui propterea nihil Divinæ Potentiæ refpectu impoffibile effe affirmavit 38. At nihil efle in fe, 8f fui natura impoffibile, omnem evertit humanam rationem, et ad Pyrronifmum deflectit Ex. gr. Triangulum rotundum, Circulus quadratus &c. quippe tam clare perfpicimus naturam, notio, nemque trianguli corrumpere, 8 c excludere naturam, et notionem rotunditatis, et viciffim, ut de hoc vel minimum dubitare, idem fit ac humanæ rationi valedicere, et in Pyrronicorum caftra coin migrare. Dantur ergo intrinfecus impoffibilia, fui nempe infpecta natura. Quare, quæ funt poffibilia, hujufmodi funt pariter intrinfecus, et fui natura. Sed inquies ; Si funt aliqua intrinfecus, 8 c natura fua impoffibilia, hæc neque per Divinam” Virtutem effici pofTunt -quf ergo erit Deus omnipotens? Sed facilis eftrefponfio: Quod nequeat Deus efficere quæ funt intrinfecus impofi i fibilia, id non ex imbecillitate, et virtutis defectu, fed ex ipfius efi impoffibilis incapacitate, eo quod ejus componentia per fui naturam fe mutuo excludant. Horum componentium repugnantia cohibenda foret, atque delenda, ut pofTet, quod eft impoffibile, fieri; nempe delenda, vel mutanda ipfa ejus componentia. Sed modo, quod inde coalefceret, fieret intrinfecus poffibile, Sc omnino aliud ab eo,. quod impoffibile ponebatur. Sane 51. adverti muf Impofftbtle nfeo efle Ens, fcd Nihil, et negatio cujuslibet Entitatis. Qui ccgo Divini Potentiæ impoffibiiia fubtrahit, nihil fubtrahit ; cdque Divina Potentia femper infinita, quia omnia et Ungula» quæ iunt Entia, attingit. De Relationibus Entium. Singula Entia ne dutn abfolute^Sc ir$, trinfecusy qualia nempe funt in feiplis, confiderari queunt ; fed et etigm.relative, 6 c extrittfecus, qualia nempi^^ aliorum refpeftu ' concipiuntur. Quid abfolute, et intrinfecus fint quævis Entia » negatum mortalibus noffe; quippe intimas eorum effentias penitus latere totius Philofophiæ decurfus edocebit. Confer quæ diximus -ip. Reflat igitur jllas Entium' proprietates elucubremus quæ ex eorum ad invicem’ collatione elucefcunt. Has nomine re, lationum continentur. Quæ hujus funt loci ad tres clafles referri pofle videntur • ad relationes nimirum I. fimilitudinis : II. coexijlentia : III. dependentia. De Relattonibus Simii ItuiUnis, ^ fw/ 7 w appellantur Entia, quibus una, aut Mplures proprietates, qualitatesve ex communi iniidere concipiuntur. Eft ergo Similitudo proprietatum in abflracto confideratarum complexus, per quas Entia dicuntur fimilia. E contrario diJJimUia dicuntur Entia, quibus una, vel plures proprietates, qualitatesve ex communi non irteffe concipiuntuV. Ex quo facile intelligitur, quid dijfimilitudinis nomine veniat^ 0.“° plures funt proprietates, quibus Entia convenire deprehenduntur, eo major in eis elucet /imilitudo : minor, quo funt pauciores. Ex. gr. fi plures conferam figuras, quæ triangula appellantur, fimiies ftatim appellabo: de communi enim habent, ut tribus lateribus claudantur, tribusque angulis gaudeant. Si vero animadvertam ejufmodi effe illa triangula, ut communem quoque habeant laterum rationem, proprius fimilia vocabo. Ex Entium fimilitudine rationem de« fumimus, qua in determinatas clades illa re digamus. Cum enim hujus Mundi Entium tanta lit multitudo, ut nequeant fingula Mente di, iUncte complecti, ea ad certas clades redigere confuevimus : ita nimirum, ut quæ determinatani inter fe fimilitudinem habere concipimus, ad unicam revocemus cladem, et ad alteram clafiem rejiciamus,, quas aliam determinatam fimilitudinem exhibent. Deinde, cum Entium ad eamdem claflem rejectorum alia, atque alia intenfiorem, fen peculiarem inter fe fimilitudinem habere deprehendimus j numerofiorem illam claffem in alias minores redigimus. tum primam Genus, has fpecies appellamus. Ex.^r. Infinitas figuras tribus conclufas lateribus ad unam Claffem revocamus, et triangulorum nomine infignimus : tum animadvertentes ex hifce figuris quafdam majorem inter fe fimilitudinem habere, puta quod alia fingula latera inter fe æqualia habeant, alia duo tantum, alia finguJa latera inæqualia/ ampliflimam triangulorum classem in tres alias minores tribuimus, quarum altera triangula scquilatera, altera ifofcclia, altera tandem fcalena complectatur. Nihil vetat Entia, quæ fub aliquo rcfpectu fimilia funt, et vocantur, fub alio diflimilia efle, et appellari. Sic triangula, quæ modo pro figuris fimilibus habui ob communem proprietatem trium laterum, et angulorum, diffimiles mox appellabo, fi animadvertam non æquales angulos habere, neque eam. dem laterum rationem Quare intelligitur, ^ntium Genera, et Species, ex cujufque Mente conflitui pofle, ut ita Entium Claflis,quas Uni Species eft, Alteri fit Genus plures minores clafles, feu fpecies complectens. 4ec effe fuura, in aliis atque aliis temporum, -Jocorum &c. circumftarrtiis immutatum, feu non aliud habere, idem appellamus. Confidit ergo identitas numerica in Unitate t» boc effe Entis in aliis, atque aliis temporum, locorum &c.circumftantiis pofiti. Triplex vero ed Identitas numerica, metaphyftca fcilicet, phyjica ^ et moratis. ldentisas metapby/ica prædicatur de Ente, in quo nulla, vel ne minima, mutatio accidit. Soli Deo idhæc identitas convenit. Identitas phyjica tribuitur Enti cujus quidem qualitates mutationem Subierunt, led ejus elfentialia attributa immutata permanent. Mentibus, et Materiie idhæc con^venit identitas. Identitas tandem moralis confidit in unitate dnis, cui varia media.diriguntur, tum in perfeveranti ad idem habitudine.. Sic Lupus gregi druens infidias, tum Vigilum fugiens mi^ nas, idem moraliter lupus ed / non emendatus «nim fugit, et ed redire paratus Vigilibus fomno correptis. 53. Animadvertendum ed, vocabulum quandoque minus proprie in communi vitæ confuetudine ufurpari - -l^es enim eadem perfeverare vulgo cenfetur, licet- ejus locU alia, atque alia incontinenter iuccedat,!! tamen idhxc fuc cef- ccflio fenfibus noftris non pateat. Ita 'flumen planta, animal eadem hodie dicuntur efle, qux decem retro annis ; id quod proprie verum efle nequit.• fiemo noflrum idem ejl in /eneBute, gui fuit Juvenis.* nemo efl mane y qui fuit pri^ eiie. Corpora noftra rapiuntur fluminum more. Sen. epifl. 58. 54. Triplici expoflte Identitati . triplex opponitur diflin6IiOy numerica yjpecificaf 8 c generica. Primam tribuimus Entibus fu b eadem fpecie complexis/ alteram Entibus ad di« verfas fpecies fpectantibus, fed quz 'fub eodem' genere continentur * tertiam tandem Entibus ad diverfa genera relatis. Patet, adeo folam. Identitatem numericam efle cujusvis diflinctionis nefeiam. Identitatem vero fpecificam cum numerica diflin6Iione Identitatem genericant cum diflin6Iione fpeciflea optime copulari. Rurfus diflinctio alia efl realis, aliar formalis. Primim tribuimus rebus, quæ in feip« fis, et nemine adhuc cogitante funt diflin£læ. Quod n harum una alterius flt modus, appellant; qualis efl diflinctio inter corpus, &. fuam flguram.Secundam vero prædicamus de re^ bus, quæ in feipHs quidem unum, funt, fed quæ, diverfls mentis conceptibus complectuntur, ip& rei natura, quæ multiplex efl fuifleientera ratio* nem fubmihiflrante. Hujufmddi efl' diflinctio, quam ponimus intellectum inter, et libertatemr Mentis, Quod fi diverfi ejufdem rei conceptus nodt ex ejus natura, fed ex libidine intellectus ab*t definitione, genere 'ticinpc ^ 8c difFcren-’ tia conftaot.'" ’ 1 : 5 p. Triplici cxpofit* compofitioni triplex opponitur sJmpIicitks.liimirum physice jfimplex di. citur Ens, quod pluribus realiter difiin^is. ca* ret; hujusmodi ex- gr. Mens cft humana. Hanc abfolutam simplititatem efie, vari nominis nemo non videt.,Metapbysioe vero simplex.yt cujus eiTentia haud confiat ‘ pluribus' attributis, formaiiter difiin6Hs.* hanc fimplicitatsm Deot convenire arbitror ^ quidquid contra' Scotistx fentiant. Logice tandem simplex dicitur, cujuS) conceptus non coidlat genere, et differentia.tr hanc fimplioitatem de Geo prsedtcari pbfieplu* : ritni autumant.-* : ,^.^o.Perdiligenter animadvertaritTyrones, phyfice Compofita non nifi cx plfffice, et abfolute. fimplicibus elementis confieri ”,i Sane, cujusvis. Compofiti elementa vel funt compofita, vellunt abfolute. iimplicia. Sit hoc fecundum, con* liftit afferti veritas. Si primum, hujufrnodi) elementa, quia compofita, aliis elementis con-' A ari debent. De hifce fecundis elementis iterum qusBTO, funt ne compofita, an vere^ bc, ab-, folMe fimplicia Pquorfum evadat dilemma iftud per fe patet ; nempe, vcl progreffum compofitionum in infinitum comminilci debemus, vel exiftentiarn vere, et abfolute fimplicium elernentorum confiteri. At progreffus compofitiojnum in infinitum abfque fimplicibus elementis fecum ipfe pugnat ; in hoc quippe progrdfu' oecturrunt perpetuo compofi^ fine componentibus Quæ ftint itaque phy/icc Compofita, ex vtre, et absolute fimplicibus elementis conflari debent. » • !' • I ^.6i. Ex qiR) facile- deduoi poteft,- quamlibet fingularetn Subftantiam Sub/eflum^.effe pbyftca fimplex. Nam ' -• > Subflantiarum qualitates^ etfi e^dnOL liflt generis ) vel fpeciei, aliat tamen aliis prJt* ilant,* moles tnfiniy ta reputahitQr. ia.formica. Elephantis.rnoics magnitudineita' animakuli a P. Francifco de JL.a> nir obfervati, ideo ' ’j i nfinities infinita rrfpectu prædicti ianimalculi.r.Rurius (phse« nuy cujus diameter iGt.. intervallum t Saturni, a Sole /.infinita haberi potefi'' refpectU'i|Tclluris atque adeoi infinities infinita, refpecta.jElephaOr feu. InfinUttm ftcundi ordinlti dt iofinuies •infinifies infinita reCpectu laudati pdmiitn ajoi« malculin, tertii W/‘»/x.4'.Hujus^ modi comparationes longius proivehi pofifunt : ^et itaque : dari pluces, immo infinitos Infinitorum'.relativorum. ordine» Porro;, in ferie infinitorum Infinitum, -infensioris, onfinis tfi,in•finite parvum refpectu Infinitr ondinis fuperioris\ quod propterea appellatur it^nittfimumySc iafinittfintde. Poffibilis proinde, efi Scabies Infi> natefitBalium.y InfinitoiUoi ex utraque parte in. infinitum producta,. • ; !: ' »> Quantitates reales.) qux fint. abfolute 4t)fwitæ' repugnant,;; Quantitas enim nihil,. eft.«Itud quam plurium.* quæ funt eadem, c6l* lectio «. Sed qujacittnque pofita^hujufmodi colJectione, fempcr.tui»las adjici poteft; Perrnovara wo tUnitatis adjectionem Bd augumentum. Quantitas ergo natura fd» talis efl, ut..perpetuo augeri poflit. Sed quod perpetuo augftri poteft, perpetuo limites habet, (qjippe quodvis augumentumi fupponit (Imilem defectum antecedentem, adeoque limitem )/& quod perpetuo limites habet, infinitum efle repugnat. Quantitas ergo, quas fit actu infinita, repugnat. Ad rem fapienter Mosbemlus Syjlem. intel.Cud. feSi. I. cap. 5. 24. ». a. de numero, qui fpecies eft quantitatis, fic habet. Sciunt omnes numerum i» fe nihil effe, fed sd ires,.y.r. >.':r^ i •.infinitusf id quod implicat.Nulla ergo dari potefi extensio v^e.contanua * 8 c’ quam vulgo concipimus talem, pro phænomeno haberi debet. Sed de hac re - copiosius io Cosmo-, • > - ' i, • - *. • logia. Peculiaris, ac detcrrninatus modus, quo res infiar totius confiderata aliis flmul coexiftentibus coexiftit, dicitur ejus /ocus ; fitus vero appellatur peculiaris, aC determinatus' modus, 'quo rei partes præcipuæ aliis llmul coe« xiftentibus cnexiflunt. Si de libro A quæram ubi eft ? profefto locum flagito. Refponfum, quod petitioni pratflabitur, efit hujufm^i; Liber A eft' in tali bibliothfeci ordine, ferici primus, fecundus &c.. Si rurfufti interrogem, qud litu } refpondebitur, reBus\ invcrfus &c. Primum refponlum innuit determinat^um modum\ quo Jiber ’A aliis fimul coexiftentibus coexilTit.Secundum vero refponfum"'^innuit determinatum modum, quo libri partes J^quæ præcipu'e iii ipfq notantur, adjacentibus coexiflunt.'Quandoque tamen in communi fcrmonc fitus, æque accipitur ac locus. i V ' 81. Locus, ut modo definivimus ^ realh quidem eft, fed relativus, non ahfolutus.’Philofophi, qui pro fpatio vacuo rerum, omnium receptaculo communi pugnant, præter ‘ locum relativum, alium abfolutum agnofeunt. Ex horum nempe fententia lodjs cujufque rei abfc^ lutus eft illa fpatii vacui pars, quæ ab ipfa re occupatur. Nos vero qui fpatium vacuum abfolutum pro imaginario habemus 78. folum locum relativum admittimus, et fpatii nomine intelligimus Ibcoruth omnium collectionem « 'Hoc fenlu ipatium^reale quidem eft, sed relativum, non ablblufum, ut ita ablatis rebus Jocatis, nihil reale amplius remaneat ; ' fcd^ fpatium, E. contrario in expcctationis ftatu, vel tædii,,vel cujusvis doloris? breve clapfum tempus admodum longum videtur. (a) Sane in,. ^ • ' hi 00 Hic illud Poetæ obtindt: mifero longa, ff Itci Luvis, hifcc cafibus Animus raorjc, tædii, doloris impatiens, e molefta fenlatione fe fubtrahere continuo conatur* at irritis conaminibus, moleftia perpetuo recurrit. Adeft itaque velut interior colluctatio, et continuus conflictus mentis, et doloris. Continuu^i hicce conflictus loco eft continuæ fucceflionis, longum fluxifle tempus, exhibet. Quæ cum ita Gnt, continu is erroribus obnoxii elfemus, fertempus ex noftrarum cogitationum, fenlationumque ferie dimetiri vellemus. Hinc factum eft, ut tutiorem regulam, c^rtiulqus medium dimetiendi temporis fit quæsitum. Kihil huic fcopo opportunius vifum eft motu æquabili: oam licet quamplurimæ sint in Muhdo, luccefsivorum feries, hæ tamen, quia æquabili continuitate carentia, ad rem non videntur. Atqui nullibi forsitan rejjerire eft hujufmodi motum, qui sit vere æquabilis : conversiones attamen Solis circa Tellurem ad fenfum faltem videntur æquabiles. Ipfa itaque velut fuadente Natura, pro certa temporis mem fura, ad hujufmodi' conversionum fericra ‘devenimus.* tum singulas conversiones in partes minorem tribuimus, per motum artificialiter paratum, menfurabiles, Illas diximus dies natura* les, harum partes horas denominavimus : tum lingulas horas in minutiores, æquales partes tribuendo, mirtutortm cudimus.denominationem ad eas indicandas. §.8p. Ens pluribus continua ferie fibi fuccedentibus coexiftens, durare dicitur : eft proinde Duratio continu^ jTcu permanens eatis exi sten. . flentia, qua pluribus in continua ferie flbi^ fuccedentibus coexiftit, aut faltcm coexiftere per fe aptum eft, po. Duratio itaque non efl quid ab ipfa* rc durante rcaliter diftin£lum, neque quid ab-‘ iblutum, fed relativum; est nempe ipsius rei coexidentia ad plura fu^lsiva, sive hasc realia fuerint, sive tantum imaginaria. 5^r. Duratio cum Tempore confundi non debet : hujus notio in atquabili rerum luc. cefsionc consiftit ; illa e contraria in permanenti Entis, quod immutatum, et immobile concipitur, exiftentia. Fingamus unicum Ens existere, et in eodem flatu perpetuo manens nulli obnoxium mutationi : modo nullum fo. rct reale tempus / adefl vero realis duratio, quæ fat intelligi ex eo potefl, quod Ens per fe aptum efl coexiflere fuccefsivorum feriei. Triplex diflingui debet duratio. Vel enim interminata c(l, et inHnita, principio nempe carens, et fine, et dicitur ^eteynhas. Hasc non nifi foli Deo convenit. Vel duratio finita, feu terminata efl ex utraque parte, nempe principio, 8 c fine clauditur, diciturque fimpliciter duratio. Ha;c durationis fpecies optime tempore menfurari potefl. Cum enim tempus in æquabili, et continua entium fucceffioæ confiflat, ex quantitate fucceffionis, cui Ens aliquod coexiflit, hujus durationem certo determinare licet ; nec non unius durationem, cum alterius duratione, conferre. 'Duratio limplex omnibus naturalibus productionibus convenit. Tertia tandem durationis fpccies,, •. vum bi^ :. vum dititap y 'eflque illa j qiuap, initium qi;idem habet'V' attfine* careti. Hstt ad Materiam et Mentes fpectat, neque poicft tfcrnpore me«n furari,) etfi. djus initium tempori alicui^ veniat * >. / '•, • 'V r^ifl . r..'.: C..ruUbf f ;,.i >.i,i. De relationibus dependentitr, i*ii de Cauffif », * " ‘i ;• I Efr qiMcpiam ab alta pendsre dicjtur.j 'X^‘ li huic infit quævis alterius ratio^.,* ifth^’verb unius ad alteram relatio dspenden^ tia nomine. indicator. Ex. gri! Jiorologiijrnqtqs ab tappenfo pondere, vel ab intus -in,clufo,..elai firo ptfwrfefe I dicitur, quia pondus lappenruin., vel elaftrtrm rationem co.ntinei)t, cur in hpto^ logio motus-fiat. ‘ r«., *. Via, &c. Hujufmodi Cauffa remota, et media^ ta dicitur. E contrario proxima, et immediata ^ laudit, quam inter. et effectum nuHa interce^ dit alia: hujufmodi in adducto exemplo eff organicæ plantarum flructuræ insita. 1^. 'XI2. Si Cauffa proxima, 8c immediata de*, lerminationem fubeat ab intermedia præcedente, ^fimiliter iflhsc ab alta, Sc ita porro; Cauf* fm ftt^ordinata ^dicuntur t 8t connexam ferieiit i^nflituere. Hujus feriei prima appellatur, quasnulli przcedenn fubordi natur, cztene vero in« tcnriedise mediata nuncupantur. CauflTz in ferrem fubordiaata t]vSm6^ di ' funt vel effentiather, vd æcidentaliter. £/• fentialiter fubordinat» dicuntur, fi fubfcquen* |iuax actiones a præcedentibus fint excitz, dc M . P i2eterminat«. ^ccidentaliter vero fubordinatv appellaotur, 11 fubfequentes a prascedentibus ia fola exifleotia peodeaat, noo item in agendd. 1I4> De GmdSs ba^ potiflimum tenenda funt- '• I. Ex nihilo nihil fi*. Nullum Jioc* antiquius axiomate in pbysicis, atque cofmologi. cis facultatibus « magifque receptum communi Philolophorum confenOone. Sed rectus e)us £enfus Qoo ab omnibus zque acceptus. Ita pmrro antelligaat Tyrones c,IQibHnm nequit effe net tMuffa effieient, isrc materialis^ nee formatis^ ««. fue finalis ulliur roi, Sane nihilo nulls, funt proprietates, alias non effet nihil ; fi nulle proprietates nihilo conveniunt, nulla caufialitadd Ipecica tribui poteft^*, • 215«. Plures e Veteribus ita intelligendum autumabant, ut cuilibet productioni præcedens fubjectum, tanquam materialis caufia, ftatuenduna «tlTet. Hinc «ternum Cahos, e quo omnia ortum haberent illi imaginabantur, et. crcatioi nem ex nihilo, ex nullo nempe prascedei^ fiib* jecto, impofiibilem decernebant. De fenfii axioip^ mati a nobis tributo, nihil efi quod dubitq^ mus, fi indubium cfi contradictionis principium; at vero fenfus ab hujurmodi hominibut excogitatus nulli certo principio efi fuperexftructus. Creattonem ex nihilo in CofmolQgia vindicabimus ; illud tantummodo heic monemus, gratis iupponere Adverfarios, omne quod fit,,ex ali^ quo præcedente fub jecto fieri debere. Certe mp/ tus ell aliquid : interim contjnuo experimur, ipos varios motus de noyo in corporibus foln D 4 . voluntate producere jecto, tanquam ex.cauifa naateria-li r repeti. Ecquid^ ergoavetabit,hGau(Tam inii* alita efficacitate prarditara' fola •voluntate 4 ^ubftantias dt- nihilo condere? Certe nihil vetat, ficuti ex noto effectuum diferimine par diferimen inter Cauffa? ponere, ita ex cognito Cauffarum diferimine, funile dilcrimen inter effe» xtus iptereffe pofle, decernere. Id quod contra xos dictum fit, qui incogitanter allato exemplo objici, pofle putant, morum efle qualitatem, non fubdantiam 4 cum contra iubiiantiæ fint illæ, de quibus' quæflio vertitur, utrum ex nihite creari' peffint'.’ - ^.11 d. II. Omnis Cauffit debet effe prhr fuo effe. Siu. Sane Effectus exiftentiam luam tfonfequi» lur ab actione Caufsæ efficientis. Itaque efftetus natura fua 'cfl pofterior Caufla. «.•* e Duplicem diflinguunt Philofophi priol ritatemiif natura nimirum, et temporis • Cuni Calilsa tempore prafcedit effectum, hanc dicunt ^iifitatem temporis. Si vero ' nullo prorfus tvrtpore Cairlia fuum pra?cedit effectum ^ feu iiumquam Caufsa’fuo effectu fejuncta «xtitit^ modo nonnifi prioritate naturæ, feu ordinis gaudeti. Hæc naturæi'-priorit.s in eo coniiftit, quod effectus fuam rationem, fuumque princi*. pium- e caufsa petens‘ fine caufsa exifteotiam conftquiunequit : deinde in noftrarum idearum ofrdinc, taulfæ conceptus notionem effectus neceffario antecedit. • «. III. potefl effe cauffa efficiens fui fpfitis. Revera, cui tribuemus caulsalitstein » rei non adhuc productæ, vel rei )»m -effectæ? Non prjmuni, quippe res ^^on adhuc exiffens nihil { agere, poteff 114. Non fecundum, canf faiitas'qiiip|X præcedere debet, non fubfequi effectim; Quare Nthil poteft elTe cauisa efficiens fui ipfms. .. tiip- IV; Nequeunt duo Entia fibi mutuo effe eduffa ef^eientts, Sit primo -A caufsa efficiens B. 'A ‘erga:eft prius, B pofterius. i.i($.Sit xnoda B taufsa efficieii& -A,. Erit A pofteriuss B. anterius'; idem ergo A erit anterhis ffmuiy posterius ^B,‘i(f quod implicat. Igitur &Cv ' «xoi Vi^ j^Uqmd efi in effe&U y 'debet efi fe^ht>:eayffai^^9^yfofttttdite0‘'.y vei eminenten-J i2oa^ ^ tineeii f^rinutite^' OM " res iir ‘ altera ^ ‘ dicitur, fi illa irt hac continetur fecunduui ifusm ooncre^ tam: effentiam ' ita formaliter * contineri in fii* rnihe* dicimus futuræ •pI&ntai-^rndinTenta feri* cum in bombycis vifceribus &c. 'Eminenter vc* fo ^ wtuaiiter ^ B nonnifi virtus," et poten«^ tia ' fufficrehs.aUieri' iniit ^condendi aliam &qui9 exv dnodrit mdtum femaiiter in Anima, quas xllURl fiia ioluntate^ pradneip,- contineri ? equi^ defn folarViitus, &' ponnfia> motum; produceiid. di «iniiieff a^titBse pofitis^ifffaliquid eft' in fectu V quod'"non fft 'iii (C^ifa, r» aliquid vel^ efi mt alia caufla, vel ex nihilo. Hoc fecuifi «iuin r^giiAt t ^ 4 « Si' primum, effectus it* ei^ non cx utiich, fed-«ex duabus cauffisfociis, et confiftit veritas effati. IX f; -VI? Series 'omffdtium fuberdhtatarum^ q[MæU*dque ea fit, abfque ulla Cauffa prthha, et indeptn4ertti ^ muino tepugnat, etfi in infinitam J.1 produB/t concipi velit. In hac infinita fcrie qua* vis Cauffa cft cffe£Ius przcedcntis. Qui ergo fiatuit infinitam fcriem caulTarum fubordinata* rum abiqæ ulla prima Cau(Ta,8c independente, ponit infinitum numerum effe£luum -j- i ab* fi^ue ulla caufla; id quod evidentiflime pugnat. •§ iiz. Sed lubet Tyronibus, rerum mathematicarum fiudiofis, id ipfum alias exponere. In ierie caulTarum fubordinata rum, quziibet Cauf* fa determinatur a præcedente five ad exifiendum, five ad operandum 112. Nulla ergo caufia continet in fe ipfa fufficientem rationem fux exifientiæ, vel a£Iioni$ : adeoque nulla cauf* ! fa fufficientem, et adæquatam continet ratioæft | cau (Tz pofierioris. Itaque przdi6Ia feries in infinitum protenfa, e(l feries cauflarum ejus natu- i rz, et conditionis, ut in earum fingulis metum adfit nihil in ordine ad determinatam exiilen* ; tiam cauffarum pofieriorum. Summa autem om> | nium nihilorum, utcumque numero infinitorum j efi nihil. Jamdiu enim confiitit, illud Guidonis Grandi, ut ut fummi Geometræ, paralo* gifmura fuiffe, quo, ex expreffione feriei paral* klz ortz per divifioncra ~, intulit, fummam infinitorum zero effe revera squalem dimidio» Series ergo illa, ut ut infinita, omni caret fuf. ficienti, Sc adzquata ratione ad exifiendum, nifi ab Ente extra ipfam pofito, zterno, et a quovis alio independenti ad exifientiam deter* minetur. irq. Contra Atheos hoc pofitum ell theo rema delirantes, omnia in Mundo pendere [ab infinita cauffarum contingentium fcrie per im* JDca* p- :: --J. SP nienfam aternitatem produfta ; quafi nempe, quo longius, remotiufquc produ£tam imaginemur hanc commentitiam, fetiera, minus opus fit Caufla prima, et independente. At contrarium Tana exigit Ratio. Rem exemplo illuftrabimus, quo Atheorum dementia magis pateat.. Supponamus ferream catenam ab alto derivantem horizonti normalem,quam, fi lubet, in infinitum produ£tam imaginemur. Contendat vero aliquis, catenam iftam, immane quantum ponderanteral nullo fulcro indigere, ne deorfum tota ^uat * fed hujufmodi pofitionem perpetuo ex feipla fervare poffe, hoc herculeo a-rgumento. Primus, Sc infimus catenæ annulus, '^.e ruat, detinetur a fecundo, nec ullo indiget fulcro,* hic fecun» dus, quin et ipfe fulcro indigeat, detinetur a tertio, et ita deinceps in infinitum. Igitur tota catena, quin indigeat fulcro extra iplam pofito, perfe verare ex fe fola poteft in illa poutione. Profeao ita delirantem, non adducis rationibus, fed praftito quam citiflime elleboro, curare fatageremus.' En typus delirantium pariter Atheorum, qui feriem caufsarum fubordinatarum infinitam abfque ulla prima Caufsa, et independente comminifeuntur. Una eademque res p 9 te!} /tmuf ejfe Caujfa finalk, et effeBus. Eflfeaus nimirum non adhuc obtentus, fed mente præcognitus,» volitus, ipfam movet ad agendum, ut cfFe6Ium confequatur. Finis, irquiebant Scholaftici, ns intentione prior ^ in exeqttntione po/lerior, iEger, ut fanitatem confequatur, pharmacis utitur ab amico Medico præfcriptis. H«ic fauitas eft finis, qui in pharmacorum ufu intenditur, et quam pofthac xger coniequetur j eadem vero fa« nitas eft Caufsa asgrum movens, ac determinans ad pharmaca adhibenda contra fuafioncs guftus, et oeconomiæ. Infcite itaque Spinoza decrevit Etif. p. p. app, ad prop. Omnes cau fas finales, nihil, ntfi humana ejfe commenta: hanc de fine dbiirinam naturam omnem evertere nam id, quod revera caufa eft, ut effeSum confideraty et contra : deinde id, quod natura prius eft, facit pofterius. Nempe non diPtinxit Spinoza in« ter eflfe£fura in actuali ftatu conftitutum, et eumd^T.on ftatu ideali, feu in intelligentia Caulsæ efficientis comprehenfum. IZ5* Priufquam hinc abeamus, celeberrimam qiteftionem, de qua acriter Philofophi jam inde a Cartelii tempore decertarunt, paucis expendere juvat. Qjue vulgo dicuntur cauffa fecund(e-, feu atuffa creata, funt ne revera cauffa efficientes } gaudent ne infitts viribus, queis age» re Valeant, agant} Jfn ne' junt tantum oc» cafiones, cur Deus per ipfas, et in ipfis ftm» mediate agat, eofqua moliatur effeBus quos 0 vtrtbus creatarum caufjarum promanare putamus? Jz6. Primum negant Cartefiani, ftatuuntque creatas cauPsas omni prorPus agendi vi dcftitutas / nihil adeo ipPas agere, fed Deum omnia operari fecundum generales a fe conftitutas leges pro variis illarum occafionibus, nempe juxta illasmet leges, quas vulgo natur* dicimus. Impingat globus A in alium B* hic protrudetur, ilPe vero vel lentius perget, vel quiefcct, vel refle6lctur juxta Phyficæ leges. Ex *' 6i Cartefianorutn fentcntia truditur globus' B' non motu, &. aftione irruentis globi A, fed immediate a Deo, qui, juxta generales a Te fancitas leges, "pro occafione irruentis globi A,' alium B propellit : tum idem globus A occurrens in- globum B, etiam immediata Dei actione retardatur, ad quietem adigitur, vel reflectitur ; non ex reactione, vel elafticitate corporis percufli. Pariter non ignis pyrio pulveri applicatus, illum in flammam agit ' fed ‘ex oc>» calione admoti ignis, Deus pyrium pulverem inflammat • tum ex occaftonc conflagrantis pulveris, pilam e tormento' expellit, et pe^ parabolicam femitani ducit j qua in parietes impingente,' iterum liac'*occafione ipfe Deus parietes disjicit; rurfu?, ex ^occafione corruentium* parietum, fubftantert hominem perimit. Ita de cæteris quibufciimque aliis’*. Neque corpus humanum aliquid ih 'animam agit, neque anima in corpus / Deus lingulas in anima adfectiones gignit, quas e corpore prodire putamus, fingui lolque motus in corpore juxta animæ voluntatem’. Non moror Malebranchii opinionem ulterius pergentis, de qua alibi opportunius. • ^ lay. Cartefianorum sententiam ' longius, quam par erat, prolequuti fumus, quippe illam cxpofuifse, confutafse reor - Sane communem illa hominum fenlum, rationemque evertit. Tu ne, inquiet Cartehanus, præjudicia pro ratione obtrucljs } Perbelle | ii tara conflantem, univerfalemque hominum, turi^ philofophantium, cum naturali rationis ductu judicantium, fententiam, pnejudicii et falfitatis arguere velimus, o felices CartefKini, queis unice bonus fenfus, 8c recta ratio ceffit ! Deinde, fi vel tantisper Advcrfariis demus fententiam, quam tuentur, quan« tum ab Idtaltsmo ( putidum profecto delirantiun^ fomnium ) diftabimus? Unde corporum noftrorum, totiufque Mundi exiftentiam ultra rcfcicmus ? Sane in hoc fyftemate ^ cum nihil inter fe agant entia creata, fed omnia agat Deus, pronum erit fupponerc, nihil exiftcrc» aliud præter me, et iplum Deum. {a) ^ iiS. (o) Corporet Mundi exiftentiam noa aliunde, quam ex Mentis noArz fenfationibus nofcimus. Si has fenfationes non ex aiAione circumflantium, et ptementium corpo-‘ rum, fed ex Dei immediata adione fieri ponamus, nullum dein fupererit argumentum, quo contra Idealiflas Mundi exiflentiam vindicemus. Quod enim Occaflonaliflac fubdunt, fenfaticnes ex occafione circumflantium corporum a Deo Mentibus imprimi, quas numcuam infet-. ret nullis eircumexiftentibus corporibus, nimis leve eft, ^ et hypotheticum, e quo Idealifla facili negorio fe expediet i ita enim regerere poteft. Unde rejctvifii corpor0 extare * tum, juxta horum circumjltiniium varias occafiones, Mentem varias ex a&ionh Dsi Jati Jenfationesi Equidem de nofiris jenfationibus nulli dubitamus^ fed inquirenda tantum occurrit, quanam fit noftrarum fenfatienum eaujfa. Has ego ex immediata Dei aSione ref eto, quin quidpiam aliud extftere agnofcams quippe * illum fat potentem,^ Jdpientem ejje intelligo, qui ideaiis mundi fpeSaculum et /dat, et valeat menti mex exhibere, ProfeBo nec hilum prnfiat, aliquem realem mundum comminifci, qui et nihil ad meas fenfationes conferre poteft, quo nullimode Deus indiget, quominus idealem^ mundum menti mea reprafentet. Quare fi nofti, haud Deum decere, entia multiplicare fine wceffitate, UT fuos adfequatur fines; praclare me gero, dum nihil prater me, et ipfum Deum extare fentie, Neque. . t%S. Sed quibus tandem -argumentis Cartefiani hanc fuam conficere rentur opinationem? Duo præcipua adferam, nam cætera (lomachum cient. L Nequit omnino iiitelligi quomodo entia cneata jn fe agant, quidv^ fit illud, quod cjc uno tranfit in aliud, li. In idea rpiritus non elucet profecto conceptus vis corporum motricis. ' lap- I. At in primo uberiorem Logicæ peritum in Adverfariis eli, quod defideres. Nem iuvabit Occaiionaliftafn reponere, idealifmum cum Divina Boniute pugnare; nempe in ea fentenfia Deas grande Mundi rpc6laculutn Menti tam vivide repra^fentando, ut omnes proclives Hmus, et quali cogamur ad Ivniiis xealis mundi exillentiam adftmendam, nos profefto illuderet, fi nuilns exificret mundus ; Non,.inquam, id Occafionaliflas juvat ; ita enim merito refumere poteli Idealifta, fiiamqu.* cauisam conficere. Pape ! Ei tu adeo vecors, et audart, qui Deo tuos errores., ac deliria adjudicas \ eccur judicium tuum, me tibi exemptum prmbertte, haud cohibes l certe quas vividas fenf asiones te fati ajfeveras, et corporum extjlentiam, ut dicis, faseri quafi jubentes, et ego patiar s illud reliquum efl, ut ratione teipfum cohibeas, et ab errore fetves immuitem, ficmti ratione didicifti et alios plurimos profligate : ut ecce, te tua vi brachium, ac totum movere corpus, hujus mundi corpora invicem inter fe agere, colores corporibus inharere &c. Si hos errores Japienter rejicere Jategifti, neque unquam Deo adjudicandos agnovifii, quippe ratione duce profligantur, ita pariter eadem duce ratione veterem dedi f ce errorem, et prajudicatam expunge fententi emr, realem nempe mundum exi flere: tuaque ofcitationi, aic infcitia tribuas, nonDeo,q iod iu eam dementiam defcendifli: Itaque cum adeo facilisfit, ac brevis ab Occafionalifmo ad Idealifmum defcenfus, eadem cenibra ambx lignanda; filat fententia:, fcilicet inter furentium deliramenta reponenck. Nempe hsec duo • fececoenda cr fuimus, uno conceptu complexis, emereant, compofita dicuntur, Earum notiones, quippe quæ frequenter in tota Philofophia occurrunt, feorfim heic exponere, operæ pretiuna duxi. Sunt autem hujusmodi Ordo, Bonitas -, Perfecto, Pulchritudo. Plurium Entium five coexiftentium;, (Ive fe confequentium ita' connexa feries., ut iibique eadem ratio deprehendatur in 'modo, quo juxta fe collocantur, aut fc' invicem excipiunt, ordinata dicitur J ejufque abftraftum appellatur Ordo. Confiftit itaque' in fimiJitudine, qua plura' Entia juxta'-(e collocantur, aut fe confequuntur. Si fecus illa. fe> habeant, ita nempe fint Cohftituta, ut nulla- in eis eluceat fimilitudo five in coexiftendo five ip fibi invicem fuccedendo, inordinata, leu eonfufa dicuntur. Exemplum fumatis ex- bibliotheca. 132? Et quoniam fimilitudoi, quam ordinerp dicimus Entibus præter effentiam.convenit, ex aliqua 'profecto ratione pendere debet. E Ratio ifthcc ' Printifimn ordinis dicitur et PROPOSITIO ENUNTIANS communem illam rationem, ieu fimiliiiadioem, qua Entia co^xiftere iil» debeat, vel fe confequi conformiter>huic principio, Rtgulo ordinis appellatur. Ex. gr. Principium ordinis in bibliotheca cft :| Lilrros od comparandam eruditionem aptos in promptu ba~ here. Regula vero ordinis eft hujufmodi : J^ihri ejufdem argumenti Jimul componantur. igg. Atqui communis illa ratio, qua plura entia juxta le collocari debent, vel fe confequi,ot ordo^io eis eluceat, potell eife liBiplex, vel compofita. Hinc vel fimplex, vel compoHta eft ordinis regula, et ejufmodi pariter Ordo iple. In præcedenti exemplo limplex pro bibliotheca eft >6rdo, tum ordinis regula. Compofitus vero ^it, fi ifihaK compofita regula obfervetur ; jLihri ejufdem argumenti, /mgutSf ty retatis fimui collocentur. %• hibetur. Sub Bonitatis abfoluta nomine venit quidquid reale in quovis Ente concipitur; ejus nempe edentia, fingulæquæ proprietates. Huic opponitur Malum abfolutum, quod confidit in deficientia cujufvis realitatk in Ente : id quod, ut patet, nunquam fieri poted. Ipfe concep* tus entis, ed conceptus alicujus realitatis : nui* ' lun^ Eoa fua edentia expoliari unquam poted. £ 2 Sufboc itaque fenfu fingulia Euubua ahqua re/a./ua iis tant.m.ribm.ur ^ olinrum ablolutam bonitatem con et peteciunt, vel confervare, et perlervani, ^ v immediate, five medtate. E rela»;™» te]ligi potell, Mundi nomine intelligendum clTe Syftema Entium tum permanentium ^ cum fucceffivorum continuo nexu iater fe conjugatorum f quodque ad aliud Jimil e fyftema minime pertineat, ' Entium permanentium nexus eorum refpicit fitum, feu coexiftentiam, et ex CJauffis finalibus repetendus eft,*> feu ex fine, ad quem refpcxit Qui primo Mundum fabricatus efl, et unum Ens ad aliud ordinavit. Ita ex. gr. Tellus in ea difiantia a Sole locata efi eamque orbitam conficit, qua nec nimio ardo* fe metalla fundantur, vegetabilia, 8c animantia enecentur* nec nimio frigore rigelcant omnia, rurfumque pereant pjus viventia; fed ejufmodi in lingularum tempeftatum vicifiitudinibus tem* peraturæ 'limites 'perpetuo ferventur, qui et vegetantium,& animalium oeconomix conveniant. p. Entium vero fucceflivorum nexus tempus fpectat, firque per CaulTas eificientes y internofei vero poteft, quoties fubfequentis exiilentiæ fufficiens ratio in Entis antecedentis actione continetur. Hujufmodi ex.gr. efi nexus, qui inter fructus, et flores plantæ intercedit, tum ille, quem hos inter, et fuccos ab organica planta ftructura, ejufque peculiari phyfi elaboratos, nofeimus. IO- Mundi ergo in genere Eflentia pra?cipue confiflit in peculiari illo nexu, quo tum Entia permanentia, cum fucceflfiva inter fe vinciuntur : iiquidem ex ^variato nexu alius atque alius prodiret Mundus, licet Entia inter fe connexa eadem eflent. Ex. gr. fint A B C O &c. N &c. ’fuis tandem limitibus concludi illam debere, quQS ultra progredi nequeat, Nemo ambigere jpfbteft ^ Prima illa componentia, ex quorum coagmentatione corpus phyficum primo conftituitur, quxque ex aliorum nexu non funt conflata, Elementa corporum dicuntur r tum ipfa hxc elementa Mater'ut mundana nOmine veniunt. (a) De hifce elementis, quzremus I. funt ne extenfa, vel inextenla ? IX. similia, an diflimilia ? ACorpoYum Eltmtnta funt nt tnttnja, vet inext$nfa} 1 T^Ifcrcpantcs Philofophorum fenteaI J tlx ad duas QafTes, quod ad rem prxfentero attinet, referende videntur. Alii fiquidem corporum elementa vere fimplicia ponunt . ( 4 ) ElementoFum nomen diveifo plane Icnfu a Cbemi. cis ufurpatur. Defignant niminvn quafdam materiales fubfiantias ( non fenfu metaphfSco, fed vulgari fumunr fubflantijE nomen, vide ont. §/ 6i. ), omnino fimilarec, cum in fui toto, tum in fingblis partibus, quasque nulla artis, naturzque vi confiat, ^folvi in alias diverfas fpeciei. Has folent appellare etiam fn6ftaHti4$s fimpUees ; tum qwque prima carporum componentia. Vide quantum obiant notiones Metaphyficonun, et Cheroicorun tidan Vocabulo labjeAc ! So nunt, et inextenfa.• E. contrario alii extenft habent, et figurata. : • i I. In prima chfCc veteres Cunt Z*»onifl/e\ qui corporum* elementa punBa dixerunt fimplicia, et mathematica. At rifu a Sapientioribus excepta.hac lententia, ZerWt/ur, Vir equidem lummi 'ingenii, Monades dixit, fubftantias nempe vere flmplices, et omnino inexten* ias, natur^ fua aftivas, Ic diffimiles. Tum poliremus omnium Bofcovikhts inextenforum elementorum et ipfe Patronus punBa appellavit non mathematica, ut Zcnoniflas, fed realia ; quas viribus per vices attractricibus, et expultricibus juxta certas, et determinatas ad invicem diflantias gaudeant. Quid interfit difcriminis has im ter Icntentias, probe advertant Tyrones. II. Ad alteram claflem fpe£lant veteres De» mocritki, tum Epicurei, ^|.l' '. ' nere toitdem numero, quot idiomata funt, in quibus Jingulis omnes ejujdem idiomatts voces re» •perirentur^ qua quittem numero admodum pauca effent, difcrimine illo ingenti tot tam variorum librorum redaSio ad 'illud ufque adeo mitius di» /crimen, quod contineretur lexicis illis, haberetur in vocibus ipfa Icxica conjiituentibus. %^t inquijitione promota facile adverteret, omnes il. las tam varias voces conflare ex 24 tantummo do diversis litteris, difcrimen aliquod inter fe habentibus in duBu linearum, quibus formantur, quarum combinatio diverfa pareret omnes illas voces tam varias, ut earum combinatio libros efformaret ufque adeo magis a fe invicem di f crepantes. Et ille quidem si aliud quodcumque sine microfcopio examen inflitueret, nullum aliud inveniret magis adhuc simile elementorum genus, ex quibus diverfa ratione combinatis orirentur ipfa littera ; at microfcopio arrepto metueretur utique illam ipfam litterarum compositionem e punBts illis rotundis prorfus homogtneis, quorum fola diverfa positio, ac dijlributio litteras exhiberet. Deinde pp. ita concludit. Mac mihi quadam imago videtur effe eorum, qua cernimus in natura. T am multi, tam •varii illi libri corpora funt, et qua ad diverfa pertinent regna, funt tamquam diverjis con/cripta linguis. Horum quidem chemka analysis principia quadam invenit minus inter /e difformia, quam fint libri, nimirum voces. Ha tamen ipfa inter /e habent difcrimen aliquod, ut tam multas oleorum, terrarum, /alium /pedes eruit chemica analysis e diversis corporibus. Ultertus analysis harum veluti vocum j litteras mi^ nus adhuc inter Je difformes inveniret, et ulsi» mo jUxta theoriam meam deveniret ad homoge^ nea punBulay qua ut illi circuli nigri litteras ^ ita ipfa diverfas diverjorum corporum particulas per jolam difpesitlonem diverjam efformarent : ufque adeo analogia ex ipfa natura consideratiem ne derivata non ad difformitatem, fed confor» mitatem. elementorum nos ducit. ^5. Re quidem vera/ conflat inter Philofophos, diverfas ac multiplices qualitates, quas vulgo corporibus tribuimus, nihil elTe ali> ud, quam noflrarum renfationum phænomena * non vero fimiles entitates corporibus revera in« hxrentcs: id quod et in Logica monuimus, tum in Psychologia copiolius edocebimus. Rurfus condat, varias in mente gigni lenfationcs ex diverfo corporum in fenfus incurrentium ta£lu, feu ex eorum diverfa in fenfus no{lro^ a6lione. Atqui ex diverfo elementorum corpora conftituentium nexu, et pofitione ad invicem., op« time intelligitur, diverfas in elementis noftros fenfus conflantibus motiones cieri, quin et ele/• reriKX • licet rem alias ^explicarent, commentiti formarum lubftantialium theori* infiftcntes. Et diftis patet, omnium qu* in corporibus infunt, vel ineffe poflunt fufficientem rationem ex intima ipforum elementorum natura pendere, nec non cx diverfo elementorum, ouo invicem copulantur, nexu. Cum vero inter ^ \ Phi Erii elementa innumeros diverfos nexus, innumerasque varias inter fe pofiriones fubire queant 5 attamen quantum ex chemica corporum analyC haflenus datum ell nofse, videtur faltem telluris noftrs refpedu, hanc eis 1* a fupremo Conditore legem impofifam, ut nonnifi triginta tres primitivas combinationes, qus fint fpecifice diverfe, fubire queant. Sicuti nempe punftula illa nigricantia, de quibus §. 24., e quorum varia pofitione caraderes efticl pofsent, hanc debent fervare legem pro Boftro alphabeto, et feriptura, ut nonnifi in 24.. combinariones abeant I Sane nonnifi 35* m^erialia cqmpofita haftenus novimus, qu* fingula fibi femper fimilaria, et homogenea, nullo arris, et natura; molimine in alia diverfi generis abire confiitit. Hujufmodi fnnt lux ^ caloricum, fluidum eUQricum, oxygenium, hydrogentumy gezotum, ( quod ab aljis accuratius nitrogenium appellatur ) carbonium, fulphur, phofphorum., quinque terra f ftptemdecim metalla, foda^ et fotajfa. Cætera corpora funt combinationes fecundaria; ; nempe mixtiones, modi ficationes, vel tandem intimæ compofitiones prodictarum 5?. conibinationum primariarum. Ita ex. gr. Aqua et «ft intima corapofitio hydrogenii, oxygenii, et calorici. Acidum fulpburicum eft intima combinatio fulphuris,oxygenii, et calarici &c. Philofophos conveniat, ab ciTentia aufpicandam cfle fufficicntem rationem omnium, quat in qua> vis re infunt, vel ineflc poffunt i 6. ont. • per fe liquet, corporum effentiam in elementorum fimplicium natura, et vario inter fe nexu reponendam effe. At quis elementorum naturam, variofque ipforum nexus plane perfpectos habere præfumet ? Corporum itaque eflentia pro incomperta habenda, et verba efFutiiflc quotquot contrarium audacter prxdicarunt. y De Legibus cofmologicis T Egum cofmologicarum nomine veni^ unt certæ quædam naturales, ' ac infitæ determinationes virium materiæ, juxta quas et elementa, et corpora hifce conflata perpetuo in fe invicem agunt; tum gignuntur in Mundo omnia, pereunt, moventur, modificantur, et quibus Univerfi ordo continetur. Hæ genericis quibufdam propofltionibus efferuntur, quarum præcipuas heic exponemus. zg. Corporum elementa viribus per vices attrahentibus, repellentibus pro va^ riis a fe dijlantiis gaudent ^ quibus in fe mutue agen (d) Vis motrix in horologio certam habet determinationem ex ipfa horologii mechanica ftruftura, qua determinatos motus, et non alios, in indicibus gignit : ita vires elementorum infitas habent, ac cettas agendi determinationes, a quibus, ne iulum quidem, recute pof fwt V agentia in fensibiles, et extenfas moles concrefcunt - ( 1 Nifi enim hujufmodi viribus gauderent, quam facile corpora ex illis cotrfiata di flbl verentur, linde Univerfi moics in informe Cfaaos quam fubito abiret,^ Gaudent vero viribus at. trahentibus in majoribus didantiis, repellenti* bus in minimis. Primis fe >mutuo, petunt ad acceffum, ne fingula i diffluant, &*, dilabantur : fecundis vetatur intima eorum penetratio, ne fcilicpt eorum millena non majus occupent Ipatium, ^uam unum : id quod li folis attrahentibus vjf ibus. gauderent, extemplo » et neceflario fieret. Cura inter liraites harum virium cqrporuna elementa funt conftituta, conquiefeunt, et cohærent. Itaque hac lege mathematicus elementorum contactus / vetatur, &..fimul efficitur, ut coeuntibus illis ad minimas, &. inobfervabi^ les ; diffmtias, extenfa, et phyficc continua moles noftris fenfibus objiciatur. • Has autemt vires pro variis elementorum diftantiis pluries mutari, ut ita attractrices abeant in expultrices, et vicissim, diverfa corporum 'denfitas, tumidi-' veflb col^oefionis vis -exigunt ; id quod in Phy,fica uberius exponemus.•, 30. jLEX. II. \Singula Univirsi corpora Junt' antitfpa. > r ^aatitypiam intelligimus vim illam, qua corpus, quodvis alteri naturaliter refiftit, ne eumde,m occupet locum ;feu ne unius materies cum alterius materie intime immifeeatur. Hanc legem elfe cofrnologicam ex eo patet, quod antirypia e corporibi^. eorumque clerflcntis fublata, fingula ad unum indivifibi le punctum redigerentur, et Univerfi moles illico evanelceret, 31. Hæc fecunda lex corollarium eft pra;cedentis. Etenim elementa j ubi ad minimas pervenere tliftantias, fe mutuo repellunt, et ita ^ ut decrclcentibus ultra quemvis adfignabilem limitem diikntiis, e contrario, creicant fimiliter vires repellentes. Hinc profecto fieri d-bet, ut elementorum compenetratio fit naturaliter impolfibilis. Quavis polita extrinieca vi corpui ad corpus apprimente, unius elementa ad alterius elementa apprimentur, Sc quandoque utraque proprius accedent • at id nonnili ad determinatas ufque diftantias: quippe his ad infinitum delcrelcentibus, fimiliter augebuntur vires fingulorum repellentes. Singula Universi corpora funt inertia. Cum dicimus corpora effe inertia \ intelligimus nulla gaudere vi, qua fponte fua e quiete ad motum, et viciffim e motu ad quietem, vel^ ex una motus directione, Sc gradu celeritatis, ad aliam directionem, vel celeritatis gradum, tranleant. Si adeo 'fnoventur, nunquam, ni fi ob externas caulfas actionem, e motu luo dcfiftunt • fi vtro quiefciint, quietem perpetuo iervanf, donec imprefla extrinlecus vi moveri cogantur, Sane abique inci tia omnis mundanus corporum ordo, vel Iponte fua, vel minima quavis vi deleri poflet. Singula Univerfi corpora inertia else, quotidiana ^ edocet experientia. De corporibus quidem quielcentibus, gg. Newtoniani vocabulo inertiie alium prsBtcr expofitum, fubdunt lenfum* vis nempe, qua corpora five quiefcentia, live mota externis renituntur caullis iplorum ftatum live quietis, five motus perturbare conanfibus. Hac vi, ipfi inquiunt, fit, ut quarumlibet caudarum externas a6iioni aqualis femper refpondeat, et contraria rratlio. Hujus equidem effati veritatem fingula motus phænomena tedatam faciunt, ut de ca nullatenus dubitare liceat. Atqui non quod in materia illam comminiftamur vim, ut prasfat* veritatis rationem reddamus. Nimi* rum mufuis elementorum viribus repellentibus, quibus corpora ad mutuum, et mathematicum contactum devenire vetantur 2p. ; optime intelligitur, corpus quodvis in aliud incurrens, • ubi ad eam pervenerit vicinitatem, in qua vires elementorum repulfivx fe exerunt, hilce viribus urgere, et propellere illud in quod incurrit, unde flatus mutatio in illo neceffano iuboriatur. Similiter, cum repulfivæ vires elc men quic perpetuo quietem fervant, donec 'aliqua extrinfecus illata vi deturbentur, nullum forfitan movebunt scrupulum Tyrones 3 non item de corporibus ad motum aftis, qua: ad quietem alia citius, alia tardius £ua veluti fponte redigi obfervantur. Atqui fedulum ii fi infiituatit examen, deprehendent, corpora femel mota non fua iponte, fed' externis obfiaculis,in qua; continuo incurrunt, a motu defifiere, et ad quietem redici. Sane, quo adcuratius illa removentur, eo diutius in iuo perdurant motu ; ex quo faris inrelligi datur i quod fi omnia adeuratimme removeri pofscnt obftacula, perpetuo corpora in luo perdurarent motu. Sed de his- opportunius in Phyfica. mentorum corporis in quod fit incurfio, æque fe exerant contra incurrentis elementa, pariter in iftius motu mutatio fieri debet, et quidem in adverfam plagam. Eli autem una, cademque virium lex in omnibus elementis. duantam ergo (latus mutationem fubit corpus, in quod fit incurfio, ex repellentibus viribus incurrentis • tantam fimiliter patitur hoc alterum ex viribus repellentibus prioris : nempe Uniuf aBioni iC^ualis femper efl, et contraria alterius reaUiio. Sed quajrent Tyroncs^Qui funt inertia Univerfi corpora, fi horum elementa activa vi attractionis, et repulfionis prasdita diximus? zg. Activa quidem funt corporum elementa, fed ejufmodi naturas eft eorum vis, ut ex'trinfccus fe exerat, non intrinfecus ; (eu ut ronnifi acce(Tum, et rcceffum in extra pofita elementa juxta determinatam diftantiam moliatur. Nullum elementum hac vi ad motum fe unquam determinabit ^ ab externo principio urgeri, et determinari debet, ut directionem, et celeritatem alTumat. Num ne omnes magnetem inertem fenfu lupra expolito 3 -. diciniDs ? attamen alterum magnetem juxta certam viciniam, determinatumque (itum agitat, dum et ipfe viciflfim agitatur, ad accelTum vel recelTum mutuo fe determinantes. Itaque elementa, etfi vi motricc prædita,- funt tamen inertia, utpote qux nequeunt fponte faa ex motu ad quietem, et e contrario, a quiete ad motum determinari; (ed determinanda neceffario lunt ab aliis elementis in certa difiantia pofitis, vel ab alia quavis Cauffa. Singula Univerii corpora et magna, et parva gravitate pollent. Gravitatis nomine intelligitur vis, qua corpora ad datum punctum, quod ''appel latur, tendunt. Ita corpora terreflria gravia dicimus, quia fibi relicta ad Telluris centrum di, riguntur retenta autem conantur delcendcre vi fuse mairx proportionali, premuntque dcorfum corpora, quibus incumbunt • Id ipfum di, cendum de corporibus in' Luna, Saturno, Jove 8 rc. exiftentibus,* tendunt nimirum, et conantur ad Lunæ,.Saturni,‘ Jovis &c. centra. Sane nullum hactenus corpus conftitit, quod gravitate fuse maflse proportionali non fuerit præditum (A). Nifi ita fe res haberet, corpora terreflria ex -ipfius TeMuris vertigine, vel ex quovis alio impulfu, per immenfa vagarentur fpatia, neque reciderent in Tellurem • Hinc Tellus brevi, ex diflbciatis perpetuo corporibus, minueretur, ac tandem evanefceret. Idem de Jove, Marte, Luna &c. dicendum. Itaque Mundus in Chaos abiret corporum undequaque pergentium. . ^* (rf) Ita quidem ad aniuATim res fe haberet, fi Telluris figura fphierica foret :. cum autem oftenfum fit a Recentioribiis Phylicls et Mathematicis, Telluris figuram fpha:toldalem efse, elevaram nempe fub atquatore, et deprelfain fub polis; id nonhifi quamproxime l«cum habere potest. Sed alibi opportune hasc expediemus. (^) Lux, caloricum fluidum eleSiricum nullum ha61 errus prxbuere gravitatis fpecimen J fed temere hinc quis colligeret, isthjc fluida omnino efse gravitatis expertia., ' Sed et magna Mundi corpora vl gra*^ vitatis 'fua petere centra indubium eft. Nempe in noftro Syftemate Iblari Planeta? primarii S'ol«m petunt; et lecundarii primarios. Ira Luna Tellurem, Jovis, Saturni, et Urani 1'atcllitcs, Jovem ipfum, Saturnum, et Uranum vi gravitatis refpiciunt. Tum Mercurius, Venus, Tellus, Mars, Juppiter, Siiturnus, XJranus, aliaque 'ingentia Corpora 'in Solem tendunt. Nifi enim^ yi, gravitatis continuo erga lua ccntr.i Ibllicitarentur, nequirent curvas orbitas deleribere; Ijquidcm corpora curvas de[cribentia continuo a rectilinca directione, deflectunt, id qucKllbonte fua, line conamine gravitatis, nequeunt tfri. ccre. qy. Fit nempe tnotus curviliiieus, ut Pby-' fici docent, ex conjugatione duarum virium, quarum altera lingiilis momentis recta lirgct corpus per tangentem curva:, quam deferibit j altera Vero indelinenter idetij lollicitat ad aliquod punctum in curvæ area comprehenfum. Hauc'recundam v\vx\. centripetam dixere ; primam vero tangentialem^, qox fi motus initio conlidcrari velit, proj e^ i uni s fibi vin dicat, quippe quæ per projectionem corpori invprefla intellegitur, ab externa Caulla. Cum atitem Secundarii erga Primarios, et Primarii erga Solem ita cieantur, ut arq^s delcribant temporibus prop^ortlonales y hinc norunt Phyfici, v.im ce'nh-ipetnm indelinenter Planctas Ibllicijantem ad Primarios dirigi, fi de Secunc|ariis loquamiir, ad Solem vero fi de Primariis. Ambigi proinde non potefi gravitatem ad fingula.! no. peditur, cogiturque fingulis momentis erga iilud immobile punilum torqueri. Uaibus nempe viribus modo aj»I- > rur corpus, vi imprefsa projedionis, qu$ per cur tangentem fe exerlt ^ et vi qua ad immobile punitum per diftentam funem ' continuo retinetur. Hic fecunda vis ’ typus est et rniago iiljus,..quam ia Planetis dicimas ) vim gravitatis. ^, eoharent, frve' intime fommifcentur, aliis^ V^ ' ro non item. Eft vero duplex affinitas, aggregationU^ nimirum, Sc compo/ttionis. Prima co* haslioniem particularum ^fimiJari-um molitur, ex qua totum emergit undique homogeneum. Secunda intimam parit unionem particularum diverfæ fpeciei, ex qua. totum efficitur tertise fpeciei' omnino divcriæ, quin tamen particulæ iUæ ob hanc unionem, lua le exuant natura, ali^mque dijverfam fubeant.Ita ex. gr. Aqua aquæ cohæret 'affivitate, aggregationis, Acidum fulphurieuna magnefiæ intime unitur affinitate cOmpositidHIs y' 8 c,cottl\itu‘n folphatum magnefia, ( vulgo sai/anglicanum ),qii'vn acidum lulphuricurri, 8c m.ignefia naturæ lubeant mutationem* Si enim ^prsditio.iolphato. in aqua diluto potaf» fam fupereffundas, ex prævalenti affinitate potaifam inter ^ Sc acidum lulphuricum, mox fiet folphatum potaffiK, ( valgo tortarum vitriolatum ), et reftiiUidtur magnefia. Porro 'utramque affinitatem ad leges cofmologicas fpc6lare, nihil efl quod dubitemus. Sine affinitate aggregationis omnia corpora ffimilaria diffiol verentur, ipla adeo univerfi moles. Sine affinitate com politionis innumeras deficerent rerum fpecies diverfas.* et omnia, quantum ex. chemica analyfi 'hactenus, noffie datum? eft» faltem refpectu Telluris noftras, ad triginta tres fpecies* materialium, combinationum redigerentur j et hasc ipfa, fublata aggregationis affinitate, informem.-folutamque molem exhiberent. Vires tandem vegetationis, . s lot animalixationis fexta cofmolo^ica lege con-* tiitentur. ' Plantarum vegetatio foHs affinitatis viribus nequit expediri ; funt enim pjahf* corpora A’cre • ' organica, viventia, et feipifa ex femine reprodu* centia. In, viribus affinitatis, aliifque 'fupra ex-* ^ politis, hon inteffigitur fufficiens ratio' nec ve- ' ^ •. getajionis, nec reproductionis plantatum ex femine. Similiter dicas de animantibus, in quibus pra?ter vim affinitatis, 6c vegetationis, alia ' agnolicenda efl, t:^\xx: animalt 9 :ationis nomine infignitur. Vires de quibus hactenus haud exiflimandæ funt totidem di- • ftincta: vires materiei iniit», fed totidem determinationes unius, ejufdemquc viis. Ncfnirumvis ' a ftlmmo Conditore materiei, elargita ejufmQcli,eft'effiqta, et intrinfecus comparata, ut multi- '' ' plices modi^caliones ipfa fuapte natura- fuheat.juxta diverfas circumllantias, et occaliones. '. Cum porro intimam hujufce vis. naturam minime calleamus ; hinfc haud perfpicientes, qui unica illa vis tot diverfas jdetermi nationes affumat, facile nobis fuademus, has. totideni diftin£Iarum virium efic caracteres. Atqui funt totidem fpccies, fcu. formæ, feu modificationes, .unius,.ejuldemque vis ex jpfa ejus natura,flu» entes. Sicuti qx. gr. vis ipotrix in horologio.^plurimas fubiens modificationes ex mechanica horologii ftructura, multiplices gignit, ac diverlos effectus puta hofarum, et.minutorum oftenfiones, phalium lunæ, dierum hebdomedæ, • &c., quos infeienter profecto ex totidem viri G 3 bus, leu clateribus quis repcttrer. Vis tamen mjii-^ntionis nequit ioii materiei tribui, fcd potifiimum repetenda,eft. ab aiia fubfiantia ^ alius generis,, qua: materiei copulata illam modificat,^ agit, ^ evehit ad ipeciem animalem. ' >,,..,, Jllr De Mu fidi, Materia crigir7e. * ^ 7" E te res on^nes, quotquot de Mundi V origiite' philolophati l’unt,li folos ’ excipias Habreos KeVelationis lumine edo£los, Mundi materiam' xternam, improduQam, " in» dependentem, a le ipl'a, et natura,fua exiftentem poiuerunt. ('’ Epicurus, qui duplicem atomi* tribuit motum, rectilineum nempe ex naturali * atomorum pondere 'derivantem, et declinationi? alterum. 'Per inane' fpatium "concurfantes atomi duobus hifce motibiis in varias,*congeftjE 'for' mas niundum geriuere.Fere’ hanc ipfam fententiami jam obfoletam in fcenam feproduxit nuperus Auctor anonymus’impii' Syflmatis natura y qui ex «ternx, '& improductee- materiætiatura, ac viribus (ut ipfe inquit ) fæcundiflimis, Mundi machinationem, omniumque rerum feriem auf picatur. ' 4 ^. Orientales hanc coluere fententiam ; Deum aternum nempe, et actuofum principiuni æternam materiem undique pervadere, Sc cum ci intime commifccri. Hinc iners materia to G 4, lius d : tius ordinatilTimi mundi, Hngularumque proH^ 'ctionutn fascunda fit parens. At Xenophanes eleaticæ fectæ inftitutor abfurdam hanc fentelJtiam abfurdiorem reddidit, ftatueos unicam in Mundo exiflere iubffantiam asternam, immuta, 'bilem, immpbilcm^ tura unica? hujus rub/lantise diverfas^ effe modificationes quotquot diftincta, &’diverla Entia cernimus. Hoc paradoxon arripuit Benedictus Spinoza, quod geometrica methodo exponere -fibi fuafit. Docuit itaque upi-cara effe lubfiantiam actuofam, fimpHcem, in„divif]bilcra*f et infinitis prasditam attributis, quam tum Deum, cum materiam, appellat » De'indtf ex duobus ejus effentialibus attributis, infinita nempe cogitatione, et infinita extenfione omnia effe 0nfiata. Nimirum interna- unicas hujus rubfiantia? actuofi^ate; Sc natura; neceffitate, in varias, diverfarque evolvitur modifiqata^ nes tum estt^nfio, tum cogitatio: ExtenO^s ^modificationn funt quas appellamur corpora, cot • gitationis vero, quas funt entia cogitantia ^ $iicUti'..cera, quas.li interna vi agitari ponatur, -io, vatias abeundo modificationes, varia poteff. figilla exhibere. Abfurdiffima haBc fententia Pan- ttbifams audit, quippe ^uz confundit Deum cum Univerfo.. Xns aliquod aternum natura fud neceffititte ' exi flere ^ indubie demonflratur\ tum ejus ' pracipui carActeres expenduntur. . ' r- » $• * aliquod 'aternum exiflere, ^ quU dem fua necejfitate natura j, inter primas veritates qua: fponte fua cuiHbet ?- Equidem hæc veritas adeo per fe conat, ut ii ipli, qui de Divinitate peflime fenerunt, nec negare aufi fint. In determinanda natura hujufmodj Entis ajterni hallucinati funt, vel ex cordis malitia aberravere / fed aliquid aJtcrnum exiftere, omnes convenire oportuit. Nec leriem cauffarum in infinitum commimlcuntur, et ipli fuifmet doctrinis aliquid æternum exifiere revincuntur. Sane hi creationem ex nihilo impoffibilem ftatuentes, nomine feriei caulTarum in infinitum nihil aliud intelJigere poflTunt, quam infinitam feriem generationum, et corruptionum. Materia igitur, qu» iubje£furn efi harum generationum, Sc corruptionum in infinitum, aiterna efl, Sc improdu-cta. Coguntur itaque aliquid atternum, et improductum fateri. Atqui caracteres hujusmodi Entis, quod' æternum e/l II. j&wr, quod, fua ruttura-.necejfitate exiflit, omnibus 'pofftbillbus realitatibus., ftU perjekfionibus gaudere debet, et quidem ipja fui natlurd feu effe infinite, per feBum' extenfive, ut inquiunt, intensive. Id quoque cuilibet ingenue philofophanti'^ evidentiflimum- eft, quippe- nihiLnobilius, nihil excellentias ifta,natura excogitari poteft. At juvat metaphyficai^i demonftrationcm adferre. In Ente natur* fu* neceffitate exj (lente.. • ’ ' nulla nec efle, nec concipi potcft.ratio eccur aliquam a fe excludat entitatem, feu perfectionem. Nulla Entitas concidi ullo pacto. po* teli, qus natura fua litpitem expofcat, Se quam tranfilicndo fiat non Entitas^ vel cfetrimentum aliquod ptiatur. Riirfus nulla veri nominis, et pura Entitas alteri puræ Entitati repugnare. poteft,,,- earaque fe excludere. Igitur fi Ens naturæ tfuæ neceffitate actu non cft infinite perfectum;, 8 c inten/ive, nihil vetat per fici in infinitum poffe. At oftenfum eft præc efle intrinlecus impoflibile, Ens natura; fuæ neceffitate exiftens perfici pofie. Igitur de- ' bet actu effe infinite perfectum extenfive, inten/ive, » 54. Cum inter nobis notas. perfectiones præcipue emineant Sapientia, Bonitas, Patentia, quin hifce gaudeat Ens «ternum, ambigi nulliraode potcft, atque adeo effe beatiffimum. III. £«r fua natura neceffitate exl/leht debet ejfe pbyjlce fimplex. Ens quodvis, compofitum eft natura fpa mutabile : eft enim intrinfecus poffibile, fimplicia componentia alium, atque alium nexum affumere poflfe, unde. Ens compofitum, quod inde conflatur, fiat plane diverfum. Sed Ens fu« naturæ neceffitate exiftens eft intrinlecus immptabile 51. Quare Ens naturæ fuæ neceffitate exiftens debet effe phyficc fimplex. Deinde Ens phyfice corapolifum pendet a componentibus. Sed quod,fu«. aaturac neceffitate exiftit cft^ independens • igitur Ens naturæ fuæ neceffitate e:nfteDs debet effe phyficc iimplex. /» materia originem inqdiritur^ eamque ex nihilo conditam vi, &" potentia fupte>ni Na'minis inviæ df”^onJlratur. > • 5 ^* Entis «terni, fu* neceflt X tate naturæ exiftentis expendimus caracteres ; hos modo materiæ referamus, ut pateat, fi pro huiufmodi Ente haberi queat : Bru-' ta materies, muItiplex'^, generationum, et cor* ruptionum fe mutuo, et perpetuo excipientium, fubjectum, obftipa, iners, innumeris obruta defectibus, natur* fu* neceifitate exiftit, atque adeo immutabilis eft, unica et fimplex-, perfe- o ctiffima beatiflima, infinita fapientia, potentia, ^ bonitate pr*dita. Quid ! Cujus, h*c talia componendo ^ Mens non horret, Sc immanibus non refugit abfurdis ?, Quisquis equidem, ut ut levem rationis particulam fortitus eft, vcl ipfo primo obtutu agnofeit, ifth*c e genere cffe circulorum quadratorum, tringulopum rotandorum. Materies igitur, 'ex qua Mimdus 'hic- ' ce coalefcit,, nequit e(Te Ens *ternum,. natura fu* neceffitatc'exiftens, et improductum. Quare furentem hic potiuf infaniam, an fummam impudentiam demirer, nefeib, Au- ' ctoris anonymi Svflematit natura, nihil fef-. futire dpbitat, materiam exiftere necelfario,-ipfam fu*, exiftenti* fufficientem continere ratio- nem. Certe ex Petro Baylio ipfi non furpecto Auctore edifeere potuiffet exiflentintn necejfariam, ce« r D 'convenire pojfe fulfflanthe ( kilicet materui, de'qua fermo eft ), qits catcroqmn' onitfia efl \ et »>ieiique prentitur defeSibus, et imperfitiionibus, id efl quod evertit evidentijftmam 'notionem, nimirum Ent abjolute indspendens, et aternum, effe debere infinite perfeSium.Difi. hifl. art.Epicur. liem. T. '., 58. Sed quibus tandem rationibus fuader» ^utat profanus homo’, materiam neceiTario exiftcre, ipfam* Tuæ cxiftentiæ fufficientcm rariorem continere ? Supponendo rnatcriam ( ha;c ha- 1 bet ) produElam y aut creatam ab Ente ab ipfet dijiinilo^ ipfaque ma^is incognito, oportet Jentper dicere, hujufmodi Enf, quodcumjue tandem' fit^ neceffarium jtffe, feu in fe continere ca' dinem, eoncentum, quibus furrima et pulcKet*rima Univerfi harmotiia, flabilis et ornatifTiina magnificentia cbhtinetut, nequit latis admirari; Omnia fummo confilib, fummaque ratione ftatuta deprehendet / fingula tum maxima, cum minima, numero, pondete, et menfura conflare, ultra quam intelligentiflimus quisque adlcqui potefl, quam facile intelliget. Quum itaque omnium quz funt, vel fiunt, nihil fi* ne fufficienti ratione fit vel fiat, • prohuiri eft intelligere tyitam, tamque rhirabilem machinationerh j non atomorum.iiullo confilio, nullaque ratione pergentium opiiS effe, fcd Mentis ^ lumma fapientia, fummaque ratibhe utentis * tiic e^o rion tnirey, elegantiisime Tulhus fi Tu de nat. Deor. c. . effe queitiqudm, qui (jbi perfuadeat ^corpora quadam foilda, atque indruidua, vi et gravitate feni, mundumque effici ornatifftmum, et pulcherrimum ex eorum cor porum concurfione fortuita^ Hoc qui exiftimat fie• fi poiuijfe , non intelligo, cur non idem putet, fi innumerabilei unius et viginii forma literarum vel durea, vel qualeslibet, altqUo conjiciatur, poffe ex his in terram exuffis apnales Ennii, ut deinceps poffint, effici ‘ quod nejcio, anne in uno quidam verfu poffit tantum valere fortuna. 6^. Sed ajunt in poffibilibus atomorum combinationibus, hape, qua priefenS Mundus conflatur, contineri. Quid ergo mirum’, atomos per immenfam æternitatem hac et illæ concurfantes -, tandem aliquando in prafentem conformationem deveniffe ?, . 'Non heic ?qu4ritur j utrubi in possibilibus atomorum combinationibiis, -hæc, qat* præfens mundus conflatur, contineatur. Nifi enim contineretur, hiud præfens Mupdus condi potuiflet. S^;d illud inq^uirimus, an przfens atomorum conformatio, per cafum et fortqnam, ut Democrito placuit, fit poflibilis ; vel. per ipfa« rum- atomorum naturale pondus, vfrefque, ut Epicuro adrifit. Et sane primo vellem, fedoceret Democritus, vel quisvis ejus fectator, quid fi. bi velit hujufmodi Cafus\ 8 z., qua du ce, atomorum facta efl concurfio ? Equidem me non intelligeVe fateor, fatenturqu^ omnes', queis cor fapit,* iifcilicet verba funt inania', quibus 'nulla iubeft. notio. Tum atomos Jeternas natur* lu* vi exiftentes abfque lege vagari, et in-, vicem concurCari, fecum ipfum pugnat. Siquidem h* atomi' nonnifi ingenitis viribus, et naturæ fu neceflitate cieri poffunt, fi - quidem moventur. Deinde cum nulla omnium Iit origo, tum par natura, et.neceflitas, iingula' eadem directione, et celeritate profecto concurrere debent. Quid vero five n\onftruofi, five ordinati moliri queant atomi commetoi directione, et celeritate percit*, equidem non video. At"qui plura in hoc adfpecpabili ‘Mundo funt centra, circa qu* magna revolvuntur corpora :'tum> horum. fingula totidem funt centra minorum corporum : nec non vegetantium., et animantium elementa diverfis motibus cientur / finguJi tandem hi motus certis, fummoqUe confilio ftatutis legibus perficiuntur. Non ergo cafu j et fortuna, neq^ue c*ca nattr* fu* neceffitate’ in ordixiatiflimum fyftema coalefcere potuerunt ^ H 2 Sa ilapienter Cicero de nat. Deot. c. a, »nim hunc hominem dixerit, qut cum tam certos eali motus, tam^ ratoi aflrorum ordines, tamqut ’ om§^a inter Je conjiexd f apta viderit, neget in his uUam inejfe rationem ^ eaque cafu fieri di* . eat ^ qua quanto eonfiiio gerantur , nullo eotfiUi affequi pofiumus ? ^5. Hujus argumenti t-obur optime per* fpexi^ Epicurus, quod effugere fibi fuafit duplicem atomis tribuendo morurh j fectiilneurrl unum fcx. proprio, et naturali pondere derivantem ^ declinationis alterum (c) Hifce viribus* perfeverabunt quidem Pt anet a iif fufs orbitis, fed nioturn ipchqara rrfinitpe ppj^tergnt.* Yi; Neyvt, Ppif nat. Sch. geq,,. n ^ hacjeiius e^^pofutrous jabunde patet, nonnifi futnmi. et intelligentiffirrti Numinis confilio, ?tqiie potentia brutam matc^ri^m in elegantiffirtium ordinem ' congeri potuiffe, 8c prjefenteni ordinatitemurn Mundum conftitui Scilicet ille ipfe n^ateriaj Conditor omnipotens eft. Abundi rapientiffunus Molitor, et Artifex • Spinosa Syflema abfurdorum et contradi&ionur^ effe.cumti/urri, ojtettditur. d8. I. T^TNicam in Mundo dari fubftantiam fimplicem, et individuam caput eft ipinoziani fyftematis. Id vero adeo falfum eft, quam certum innumera efle corpora^ 3c hæe extenfa efte, et jdividua. Sane sive extcnfio pro fnbftantia. habeatur j ftve.pro fubftantiæ attributo, five pro ph^nomeno e plurium fubftantiarum coexiftentia derivante ( id quod) nobis arridet ), certe corpora non funt unica, et fimplex fubftantiaj fed.tot» fubftantiarum con-,. geries,, quot funt partes realiter diftinctaz in quas phyfice refolvuntur, ''vel,refoIvi tandem poflunt, • Juxta SpinoKatn, fubftantia hujus Mundi.uriica eft, et fimplex, quæ tamen inter cætera oftentialia attributa extenfipne fit prædita. Porro extenfionis natura fimplicitati opponitur, id quod norunt Omnes : tum, eflentialia attributa -non funt quid a rei efientia, et fubftan • > t • tia quot in decifi? habuimu? mpojjihih ejfe j /intui ejfe, et no» ejfe. ’, Sicuti unicæ, et fimplicis substantia utpote extenfe diyerfæ funt modificatione? Vni verfi corpora, ita ejufdem fu.bftantjæ utpote cogitantis diverfse fupt ippdificationes, quot ppyimus Entia, cogitantia, Facile intelligunt H 4 / Ty («) QuO. tempore cer® frustum fpsrica ex. gr. - figura ptsdirum agnofeirnua, cubica, conica, vel alia quavis llmul affici adeo ration; repugnat, ac unitatem efse mil- > lenarium : proinde fi 'quandoque plures intueamur diftinT ftas diverfafque figuras, protinus nulli dubitamus, totideni dfftinftis, diyerfifque fubjedis, leu fubftantiis illas adjudicare, ,. Ty/ones.hoc fecundum* ejufdem fiufuris cflTc, ac illud primum, quod pra:c. cxpofuimus. Itaque prselertim "vero Unica, eademque fubftantia cogitans Igjta erit et triflis ; volens et nolens idem : amore et odio idem fimul profequens objectum ; approbans et reprobans &c. Hxbreus ira mq^us, et Spinozas cultri ictum infers, ipfe idem eft Spinoza ciolo-r rem^-^perferens, et fanguinem ex vulnere emittens. V, Tandem, ne diuturniori mora in hoc abfurdiffimo confutando fydemate aliquid honoris eidem tribuere videamur, in memoriam revocemus, materiam, feu fubftarttiam hujus Univerfi, fubjectum e0'e infinitarum viciffitudinum, perpetuam 'gerere feriem 'generationum, et corruptionum, perpetuis prtmi collifionibus, et op» pofitis agitari viribus. Nil profecto ea vilius et deterius, ut ita omnes Philofophi veteres prope nihilum eam pplucrint. At eamdem divi'na conflate natura, perfectiffima, ik. immutabif Ii Spinoza edocere audet. Tegatur Bayliu? erit. art. Spind?a i \. De neau omnium Mundi Caujfarum ^ ^ effe6luum : ubi de Fato Juxta Philofophorum placita dijjferitur. "VTIhil in Mundo cafu, et fortuna ' J.\| fieri, nec immo fieri poflTe, in» ter primas cosmologicas veritates reponendum efle, Nemo, cui cor fapit, ambigere poteft. Omnia fane fuis fufficientibus rationibus, cauffarumque nexu contineri debent, fi ex nihilo • nihil fieri pofle conflat, nihiique cfie fine fufficienti ratione. Confer ont." 10. Sapienter Tullius nat. Deor. 1. i. c. 4. E/l enim ad^ mirabilis qutedam continuatio, fericfque rerum, ut alifB ex aliis nexa, et omnes inter Je apta,,, ^ colligataque videantur. Cujulmodi vero fit hif ' Cauflaru'^, et effectuum nexus, expendere modo juvat ; tum Philofophorum de f^atp fenteq», tias ad incudem revocare. Dt nexu omnium.Mundi CauJfarunj, et effectuum. * /^Uotquot Cauflas in Mundo noviy mus., ad duplicenv cladem recen fend* funt ; aliai fiquidem cogitatione ( ad intimum confeientite fenfum appello j ^ ali% fola VI raotrice agunt •, ( quotidia* nat njB id edocent obfervationes ). Atqui^, confcien tia teftante, cogitatio eft actio ipii cogitanti rei immanens • motus vero, experientia edocente, eft U'an(iens. Drverfi ergo generis, diverlis-;, que naturæ habendæ fu n{ Cauflæ cogitatione, et CauflTæ vi motricc agentes, Equidem alibi opportunius oftendemus cogitationem non polTe motu abfolvi, adeoque Cauffas fola vi motrice præditas non pofte cogitationem parere, Curn ergo,in Mundo motum, et cogitationem agno, fcamus,' duas diverfi generi? cauflas popere co» gimur, , CqufTæ fola vi motrice agentes ad materiam Ipectaiit, At materiam fiputi vi rno* trice’ præditam, ita.& inertem efte, fuo loco oftendimus §. Quotquot. er^Q e materia? viribus gignuntur, juxta earumdem virium mo* tricium legem efficiuntur, neque Jili^S ac pro-> deunt, fiuntque, per materije vjres fieri, ac prodire poflTunt, Revera hujiifmodi lex, quat^ tumque tandem ea fif, certa eft, ac determina-» ta live enim has vires e materi^ finu, na« tura emanare putemus, et erjt earum lex certa 3? determinata, ficuti certa. v determinata, ^ ex feipfa immutabilis eft materias natura ; fiv? ex Conditoris arbitrio illas vireq materias contingehter convenientes inditas, effe prbitremur, Sc neque modo poferit materia ex feipfa ilH? exui, vel eaffiem ne minimum quidem m^difi’ care j quippe qua fubjectum mere paffivuna nullis agitur aliis viribus, præter quas Condi-» tor indidit. Materia igitur fuarum virium le-» gem, ac naturam perpetug feqwi debet, neq^uq . >, ii3 vel minimum reniti potefl : atque adeo quotquot ex ea gignutur, fiuntque, nequeunt aliter gigni, ac fieri, q 6. Quff cum ita Cnt, facile perfpicitur, quod pofita pro quovis tempore determinata, ac certa elementorum coexillentia, quod deinde' gignitur, phyfica neceflitate ( a.virium motricii um lege, et e materiie inertia derivante ) c procedenti rerum llatu tale genitum eft, neque alias gigni poterat. Hoc autem quod modo ge. nitum efi:, undique determinatum eft tum reIpectu elementorum quibus conflatur, cum reIpectu loci, et temporis, feu refpectu ad nexu rn, et politionem coterorum corporum, quibus fti-^ patur. Qiiare quod fecundo hinc, gignetur, rurlus certum erit, ac determinatum, et phyfice neceflarium, ficuti certa et determinata eft corpot um mutua complexio, horum materiæ flatus, et nexus nec non phyfice neceflaria vi. rium motricium lex. Et ita deinceps in con. fequentibus generationibus - Nimirum quivis elementorum materiæ flatus gravidus eft lubfcquentis, neque hic alias prodire, per miateriæ. vires poteft, ac revera prodU : ut adeo, fi quis«^ vires ipfas, earumque legem adoquate nofceret, tutn «elementorum numerum, eorumque.pro quo-, vis tempore coejiiftentiam calleret, et ad calculum adducere fciret-, is fingulos confequentes effectus," ac futuros eventus in anteceffum edifferere poffet. Cum ex dictis quævis 'generatio phy^. fica neceflitate c præcedenti corporum", et materiæ ftatu pendeat, nec non virium motricium le V» ,\ lege; fi cogitatione ad Mundi uique prlm^rcll^ afcenclamus, facile nobis (uaclebimus, Unl-vtrfum, reJpeBu ad folam materiam habito, nihil e[pt aliud, 'quam eertum ordinem neceffariant Jet viem cauffanan, effectum, perpetuo, ac nsi cejfarto fe Cdnfrquentlum ^ Hiec aurem feries haud gutanda eff abfolute neccfiaiia, ut ita non potuerit alia effe, ab ea qua: modo efi:, aut femel incæpta abfolu* te nequeat modo, vel in pofierum, commuta^ ri/ vel perturbari. Cum enim quælibet genera* tio, fiatufque materiei pendeat o prascedenti, 8 $ rurlus hic ab alio antecedenti, et ita porro i nequeamus nutem in hoc progreffu ad infinitum afeendere, confiUerc tandem debeiVius in aliqiia Caufia^extramundana asterna, vi «fuaj natura exi* ftente, ctiju* imperio, et voluntate.Materies primum nexum, primamque conformationem fufeaperit. Series itaque ^ et ordo Caudarum qtfali^ modo exifiit, non abfoiuta neccffitate exiflh ^ Je4 tantur,} hypothetica, cx hypothefi n?mpe, quocj * Cauffa illa extramundana talis fiuie feriei exordia fua iibera voiuntafg conceiferit, et non alia, ^eis omnino diygrfe confequuta fuifiet Cauffarum, effectuiimque feries. Id rurfus intelligi datur ex co, quod- neque materies improducta eft. et æterna; vi nempe 'fuz naturas non exiftit 5utr 2 Equc in fe mutuo agere, queant j,hinc eft, ut altera alteram quamlæpc- modificet, ut ita rerum fe* ries, ac complexio, quts modo in Vniverjo pergit, aliqua Jaltpn fui parte diverfa ab ea sit, qi4‘^ pergeret, fl nihil in fe mutuo Cauffte ilLt' agerent, atque infiuerent. Sane v^. 8i. Humanos Animos non ceeea libidine, abique ulla omnino fufficienti ratione feiplos / cie. il 6. tierc, et ad agendum determinare, intimus cori« Icientiæ lenius abunde edocet. Fon-pis nempe rerum, quas ali^iiam boni, vel mafi fpeciem exhibent^ ad ^t^eiulUM excitantur, atque alii ciuntur. b« formas, quibus animus afficitur, a corporis fenfibilitatf, et temperaftiento, l'enluum valetudine > et tiatura objefforum- fenfus percellentium» pendent. Tum confilium rationis, quo actio vel non actio decernitur, ex praScedenti animi flatu |,feu habitibus, et ideis adhuc pendet ^ habituS vero, et idcifi ex corporis, fenluumque temperamento’, et circumllantium objectorum actione rurfus conflituuntur, vel modificantur. Cum pofro corpOris fenfibilitas, et temperamentum, lenfuUm valetudo, et circimvftantiuni objectorum natura e necelfariis Mundi Cauffis pendeaht j liquet inter ipfas Hominum æfioheS, et phyficum Mundi ordinem nexum aliquem interefTe ^ 8»; Hic autem nexus, quod fedulo animadvertatur velim, et multiplex efle potefl, eo quod multiplices lunt cauffas,* quas in nos agere poffunt » et nullus eft indeclinabilis, ac necefiarius.* id quod intimus confeientiæ fenlus, et noflraram actionum experientia lat lu« culenter ollendunt k Sane formis rerum non rapitur animus, utcumque percellatur etfi validioribus formis animus concitatus ad agendum, non cogi fe luculenter animadvertit, et adhuc retinere facultatem deliberandi,_quin immo a facta deliberatione, et ab ipfa jam fufeepta ^actione d^fiftehdi, et aliam ‘quamlibet edendi. Merito Tullius tuse. p^.l. i. Ck 23. Sentit ani. - / mus tif,kttts' fe y idque dum fentlty illud i jt*a non aliena moveri. Accedit,, quod quandoque datuttt pecullatem nexum Ivuraanas inter actiones, et fenfationcs ofrinino abhimpimus nulla alia ratione perciti, quam ut noftratn ' experiamur libertatem ; mus contra id quod temporis, rumqUe circumflantij^, et ipfaS fenfationes exigere videntur. Datur itaque nexus inter hominum actiones phy/icunt Mundi ordinem, fed efusmodi, ui illum moderari, fleflere^ determinate i abturnptre ^ tutn iterum tejlituere pro arbitrio pojjimus 4 \ t Sicuti humanz actioneS^cum neceffarlis Mundi cauffis connectuntur, ita materialium, Cb* necBfJariarum Mundi cauffarum series in aliqua sui parte, perturbari, nioderari, et fieBi pote/i Cauffarum 'liberarum labitu, O' providentia. Cum enim omne id, quod materialium cauffarum viribus gignitur pro quovis tempoVe, e ftatu prxcedenti pendcat . ftatum autem harum materialium cauffarum perturbare, & cOmmutare perfajpc valeant Caulis liberæ fuO confilio, et providentia pro peculiati faltem locO, et tempore ; quin, fimiliter futuri confequentcs effectus prafepediri, perturbari, et commutari poffint, nemo^profecto non intelligit. Ita fulmen, quod neceffatiis Mundi cauffis e nubibus excuUum regium palatium labefactaret, ibique degentes ertccatet, humana poteff providentia avertere, fi Opportunos adhibeat conductores 4 Agrum a i .puta, cum agi' loci, obiecto tis • 'dOSMpLOremum NinSm res omnes zterna, et immutabili • lege, nullios^ei {labita ratione, dccrevrfle docent; neque proptercSf qui^pian\ a/nobis libere fulcipi pb^e. Tertia cJaflis illos complectitur, Djeum fapienter, quidem-. verum.fataliter ac necefliirjo re» omnes' hujuS Univerfi dilpo • fuilTe fentiunt, Sc ex hac-, conffitutione omnia quotquot {in Mundo 6 unt, neceflaria et perpetua ferre, proficifci. At quia fati AflTertoresv divtfrfas,. quo 'quifque fuarVi fentehtiam conft^i-liret, femitas freflerunt i klcirco hon pigeat prxcipuas' .exponere, jc evekere ‘ vv. •- 'De Fat^i Democrifiip • ' ' Democritus (, e ‘quo fetura quod demoeritkum dicitur nomen fufcepit) nihil aliud.' prxfer innumeras^ atomos ihcreatas, Don fuerunt 'confequut*, hinc negatum drju ; nempee collapfi ftmt, . • -I '. > ac • f. ac diflbluti finguli ijli veteres Mundi. Pofiremus tandem omnium emerfit hic adfpeflabilis, et iple poft* fæcula diffblvendus. In hac itaque. •fententia% cum nihil præter brutam niateriam neceffitate fuæ natura? percitam exiftat/ 'omniaque fingularia Mundi entia neceflariæ fint illius modificationes, immite, et indeclinabile fatum. omnia agere perfpicuum e!l. Hoc fatum, quod, phy ficum alii appellant, definiri potefl ; Neceffaria, et bruta feriys omnium Mundi cauffarum, • atque effe£luum e natura, Sc neceffitate bciitæ materia; -manans.,. ! • Monftruofe hujus fententiæ refutatio longa non indiget oratione* cfl ea quippe con» geftus abfurdorum. Nequit materia effe increata /e^.II.Nequeunt fola; materiz vires ex ejys 'finu emanantes ouklinatiflimam, et riun-^ quam fatis admirandam Mundi compagem moliri. et feq. III. Praster maieriam aliæ alius, nalurte fubflantia; cogitatione, &• libero, arbitrio prxditæ exi'lunt..79. et feq. Equidem hujus ffntentia; abfurditatem Epicurus, atomorum cacteroquin feftatpr, agnovit ex’ ea parte, qu* humanam lædit libertatem,Quare illam emendare conatus’, atomis tribuit declinationis, motum, qui nec certo tempore, . nec- cerfa loci regione eveniret : ita nimirum abfoluta, et indeclinabilis neceffitas a Democrito* indufta abrumpi opinabatur. Hanc rationem ( declinationem fcilicet atomorum ) Epicurus induxit ad tam rem, ne Ji femper atomus gra - ' vitate ferretur natural'i ac neceffaria ^ nihil liheram pohis effet, cum' ita moveretur animus, ut atO" >morum motu. cogereturvTuUiuti de' f^to c. 10. At quain vaBum, et inficetiira,fit ’ hujufmo 4 i effugium, nemo non videt. Cdnfulatur 6 $. 1 De Spot(orum-Fato y.,« ' '>» •..... Fatum Sfoicorutn vulgo 'definitur, "ine* Juftabilis, ’ac.neceffaria rernn* omnium’ lefies.ex ne^efTaria,& immutabili -Dei voluntate •edo» 'ftituta v. fiuc ulla, ad hutftanam libertatctn accomodatione., ' ‘ ". ' §• pi- Quid fati homine,fibi voJue'rint- 5 foi^ ci, res eft perobfcura adeo: quam «nequiverint haflenus Eruditi extricare ; id quod- partim ib' lit« bujus Se£la diirentiohi, partim' locUtionir bus nefeio quid poetici, et erophatici continentibus tribuendutfi videtur..Te«erzfignificatioriem, Itaque futurorum eventuum præfagia in ftcllfs contineri, dicendum » .- quam, futile ifiud.fit, nemo non ' videt. Sane non minus infeite, quam arrogan*. . ter cogitari potuit I. Deum caslefiia figna, nonntJfiris propriis commodis infervienda condidiffe. II. Cum confequi non valeamus quam utilitatem illa queant nobis afferre, temere,^ incogitanter*colligitur,ad prafignificandos futuros eventus confiitufa/& difpofita fuilTc.Num- • ne pluri maraim^ rerum ad ipfam tellyrem,no^am pertinentium, quasque proprius nos fpectar^ putandæ fuiit, fines jiro^ynios minus ex. Plo-. I. ij 5 ploratos- habemus? Certe quilibet fans Mentis libenter affirmabit, plurima npftram Ip^Ure utilitatem, pofle,. quin refciamus modum, ratiorfemqtie calleamus. IU Atqui lunt P^netas totidem incolarum fedes non lecus ac Tellus iioftra, qjji omnes circa Sokm, tanquan^ commune centrum, torquentur 5. Sunt ve-. ro inerrantia fidcra totidem Soles, nempe centra filorum Syftematum planetanpru.m tbid. Sid de his in phyficis opportunitls, et copiolius. " oS. Q.uarn vero fatuum, atqye commentitium putandum lit iid ^ ^, oftendunt. I.. Nulla phyfica vi hominum Animt cngi-poffunt ; folis illi percientur formis, nettipe boni, raalique notionibus; tum neque iftis rapiuntur, nec indeclinahiliter Heauntur 79. et 8z. II. ^ quam lepida \ enim ef^, ^ ' fe puto ntft pueroi, qui ad globos i Hos terraqueosy aut igneos hac ferio referant. Omnem ve- • • ro leptditatem Juperat, quod, infani ampoflores prcedicant, quum ingenium nojlroritm animarftium Artetis,Tnuri, Leonis, Capri, atque id egenus altorum calejltbus conjlellationibus, attribuunt Cui. Calum, Plancta, Stella fixa vel mediocriter nota fuerrnt qtiam ifibac perridkula, ac putida videri debent. Ego vero nefcio, cur marmorefs fignts •, quibus aut homines, aut animantia ars humana exprimit, non. fimilher mores nofirosf aut brutorum animantium tribuamus}' uint.Gen. el. metaph. tom. i. SchoU prop. iSp. Atqui in fnajodbus ‘Univerfi corporibus univ^faJem, et mutuam vim agnovimus, qu* gravitat/onis vulgo dicitur! Hac equidem invicem Jntcr /e' agere queunt, et generati^um feries', quas fingula illa geftant, invicem modificare.* f atemur uniyerfalem. 'gravitatiobem corporum ' Umv^rfi ; fed nihil iftha»c fententiie adverfariorum favet, quin immo eam evertit. I. Hjec vis corporum efi, et in corpora diffunditur / fpiritus nullo pafto attingere poteft. II. Novimus' Illam fequi maiTariim jlireaam, et diftantiarum duplicatam inver/am rationem ; fit profero hmc, ut fi Solem,& Lunam exceperis, cztc. rorum planetarum nulla cenfenda fit in Tellurem a6lib.*quid porro inerrantium fiderum? De i Soleni &. luminis emiflione, et vi attraftionis in 1 ellurem ^^gendo quam maxime tprreftres genorationes, corruptionefqiJe mqderari, res ell, qua omni dubio caret. oimile regimen Lun* attribuerunt Majores poliri, De ‘Fato pantbeiflkq. ')• 100, Fatum panfheifticum, fivc Spinozifti» cum eft tcrum omnium neceflaria, et immutabilis feries ex ipfa-Dei natura per eflcntiajera emanationerfi neceffario prqfluens, Nempe hu'jufce fati aiT^rtorCs^^micam exiftere fubftantiam ponunt,- quapi Deum "appellant, sujus innume» » raj fiint modificationes quotquot Entia Mundum^confiituunt ; ‘has’ vero modificationes, ca rum ut 'adeo fuerint lunarium’ phafiitm diligentiflfimi pbferva-' tores : tum Gomeras, rrialorum' colluviem in Tellurem fiV» pfjefagtentes, fiv% afTefent;ps,-habebant, metuebantquie 'cane pe)us, angue.. At ex Kecentioribos 'plures utrarnque feritentiam, prayudicii redarguentes ^ ludibrio. V exceperunt. Quid, fentiam libere edifseram, I.. Qui' lunarem influxiun abfolute inter præibdicia amandarunt, fatis animum non intendifse. videntur in rnaris, aflus, qui Lunie motui circa Tellurem a.d amuflim, refpondentes, ex'ejiifdem attraftione in aquas ufque maris protenfd,, einni procul dubio repetendi. videntur. Quod fi ita fe 'haber, non video '«ccur ipfius l!uns vi ne-. queat terreftris atmoiphiera; alternas’ pari viclfiitudines.Cum vero e ftatu ^ et conftitujione atmofphaiftE pluri, muin modificari queant, qu£E in nofira Tellure fiunt ptodufliones, prpfeflo prono veluti alveo fluit, Lunas, vim. phyfiers produflionious aliqpid conferre pofse. Revera ærrefirem afmofphteram hmx vjjn peffenrifcere ex teorolqgicis obfervationibus Gl. Virorum Abbatis Frlfii,• et Thoaldl, aftronomias Prpfe.fsoris Patavini conftitit ; ut 'adeo nondifi ex prsjudicio fententia luparis influxus abfolute inter ptiejilQicla recenfita videatui'. Deinde, etfi me tniniinfe lateat, Lun$ plena» lucem cauftico fpeciilo coi- ' lectam nullam in mobiliffimo thermometfo mutationem afiS»rr&, tamen hgud confedum videtur, lucepi e Luna ih '. '. T-el e / iigS. ' rumque feriem ex 'ejufdern.unitæ fubftantije na- ' tur^ effentialiter et neceflTario fluere. • V-ide. 46. Hujufce fcediffimæ* labis parentem -faciunt Xenophanem Eleaticæ IcftjB Principem, quam. de- • Tellurem repercufsani nibvegerantiiim, et anlnianfium cecononliæ pri/lare pofse : nam rhermometrum nonnili r«/or/c/ liberi aclionem ollendere, et metiu poteft; at novimus, lucem aliud onmino efse a calorico, et jaluHmum.conferre vegetantium/, et aniluantium phyli, ac' fedenus credidimus. Nolim' vero quis cx diclis inierat, me lunaris influxus patronum eximium, referatque inter -adverlie immoderanrioris -fenrentix tautories. Ecquis, cui cor ;l'apir, calculo luo probabit-,. qua: eflutire folent infani et 'inficeri honiines ex fingulis.Luns.quadraturis, terreftrium phænomenorum vel vicilfitudines, yel pri-fagia fumerttes Quam fego ‘Luna: adiofjeih in Tellurem, agnofeo, generalis prorfus, et liaruta fua indeterminata, nec non una.eft, et qmdem minima ex innume-. ris caiilfis in. Tellure hofpitantibus, *qu3E prsfertim in’ calculo' lingularium phxnorænorum afsumenaa: perpetuo occurrunt. ' • ^ ' . II..Quod vero Cometas fpeflat, nuMus certa,’ riifi excors pavebit hæp corpora per oblongas ali ypfes incedentia, nec ab iis quidquam, boni, inalive iperabit, nietlietque. • Fieri autem quandoque pofse, ut in laudatum influxus fyftema aliquis eorum, adeenseri mereatur, ultro fateor. Etenim fieri poteft i. ut aliquis eorum longa infignitus *cauda,fuam trajiciens orbitam in Telluris vici; nia verfetur-; ex quo ‘fiet, ut mutuis attra6lionibus eoJnm armofphxrx turbentur. Dudum fane Aflfbnomis c(^- • ftitif-Saturni farellites’ab ‘artraflione Jovis in conjunflione^posirl, in fuis rurbari motibus, et vicIUJm. Ita ex vijrinia Comets tiflbari poterit Telluris muJP adeo nihil addere heic putemus, 'ne rem a£l»m reagere videamur.' . G A R De Naturali y C* Supernaturali Ua*vis mutatio quæ cuilil^t rei continoere 'poteft, IT ex principio, fi. rei interno manat, a^io appel ; ipii. latnr ; e contrario pajpo dicitur, G a principio eidem externo Gat, nempe ' ex principio alteri Enti infito ; illud vero princi^um, e qiio a£lio manat, nun^ciipatur. Singula fpc6Wbi!is Mundi Entia continuas fubire mutationes, equidem cuique conftat. Quare Gmplices hujus rnundi fubGantize’ ejufmodi offe debent., ut in fuis occurftbus, et. Gbus pati /jueant, et agere ; *feu patiendi potentia præditas eflfie debent, et principiq aliquo aftivo’, fcu vi gaudere. Non moror quidquid in contrarium* ^afferunt OccaConaliftæ. fecundæ hujus theorematis parti. Vide Ont. feq. Cerre Univerfurrj Philofophd nuHis præjudiciis præoccupato in fingulis fuis partibus perpetua objicit a6livitatis argumenta ; atque, adeof».. dubitare nullo • pafto fas ell,* ejus ' ftamina^vi . aai. X .e oportet aliqua pottat cx fequentibus conditionibus. T Nullam ede in > • univerfa natura caudam tanta vi. prjBditain. qua! illi effectui producendo potis sit • If. Sal- '*' • ' ' tem in’ dato cafu hujufmoldi.caudam defeqidc. - III. Effectum illum ede contra notas natu ra^ Te-, 1 ges / IV. pr*ter notum, eonfuetumquc orqi nem. Nam cum rerilm naturat cert». liat ac detcrmii • * ! natæ, certafque fingulæ fequantur l^ges^ a qui- ^ bus ne hilum.quidem dehifcere poflunt-; quo- • -> ties una., aut altera ex, dictis conditiomb.s in ' • dato effectu occurrat, certi.erimus ad iiniverfam naturam illum haud pertinere. Q_iiare ite* I rum patet^ fedula opus ede indagine, et accurata rerum naturali.um.notitia ubi decernendum • fit de naturali, Si fupernaturaLi... MuJra; qaian- • doque infanum Vulgus inter •fupernaturalia ad'. ! '. ceni rum hujus mundi vires cohiberi pofTe, quin fuos edant effectus, nil vetat : ipfa fane experientia perpetuo edocet, contrariarum cauffarum incurfibus vires collidi, ut ita vel effjctus earum præpediantur, vel omninp alii confequantur. Quare, quin etiam intrjnfecus fubftantiatiarum "Vircs deleantur, coerceri illas pofTe a Cauffa extra naturam univerfam pofjta', ne fuos gignant effectus, intrinfecus eft poflibile. In hac porro hypothcG effectuum confequutio plane contraria effet confueto nptur* ordini. Quare iterum conficitur, miracula intrinfecus effe poflibilia. Quod vero adextrinfecam miraculorum polfibilitatem adtinet, ille tantum negare eam poteft, qui prxter materiam nll aliud exiflere fiulte præfumit, cujufmodi funt Spinoza, et Athei csteri. Simulæ vero, recta cogente ratione popimus, præter Ipectabilem mundum Mentem effe æternam ipfius Mundi Opificem, infinitam, omnipotentem, pleno et fummo jure in res a fe creatas præditam, nihil dubitare poffumus, hujus vi, et actione innumeros edi poffe effectus et contra, et fupra Naturæ ordirem. Luce igitur meridiana clarius elucefcit cum interna, tum externa miraculorum poflibilitas. Sed audiamus Rouifpjum adverfariis, quibufeum agimus, non furpectom certe auctoi ctorem, 3. ^crlt. dt la Montaignt. fe. tejl ne Deus miracula efficere ^ idefl poteft ne legibus ab ipfo ftatutis derogare ? H^e qutefiio ferto pertrahat» impia foret, nisi »ffet abfurda. " M'. honoris, ei, qui silam negative folveret, flagris tribueretur ‘ Jatis effiet inter infanientes eum concludere. Re quidem vera, Ecquis unquam inficias ivit, Deum pofjfe miracula perpatrare ? oportebat Htebreum effe, ut qiutreretur, an Deus pojfet in. defetSo menfam ‘parate, 118. Atqui, quam futilia fint, ridicu la, quæ contra miraculorum poflibilitatem objiciunt profani homines, operæ pretium eft expendere. I. Inquiunt, nfiracula Dei op[)onuntur irrtmutabilitati : qui enimODeus immutabilis confiflerct, fi naturæ ordinejn 3 fe fiatutum mutaret? Accedit quod majeftatis deminutio cft, et confcffio erroris mutanda feciflTe. II. Miraculum eft legum mathematicarum, divinarum, immutabilium, æternarum violatio; quare miraculum expreffam involvit contradictionem. irp. Sed facilis ad hæc refponfio. I. Sicuti Deus æterno fuse fapientix confilio, æternoque fuse voluntatis decreto natur* ordinem fancivitj ita eodem conftituit, pro certo futuro tempore peculiarem jn aliqua univerf* naturas parte ordinis mutationem* inducere. Summa equidem providentia, Sc numquam fatis laudanda ! ut nimirum fopiti mortalium Animi, eventuum infolcntia commoti/ tum eauffarum naturalium' impotentiam animadvertentes, quæ Supremum Numen confilia panderet, venerabundi adorare moneantur.‘^Hinc patet, miracula nedum nihil Divinæ immutabilitati Occurrere, fed infuper Divinart Sapientiam, Majeftatem, ac Bonitatem iuminopere commendare. K 2 / %,; rumquc feriem ex 'eju(dern.unica» fubftantia» natur^ effentialiter et neccffario fluere. • V-ide 4(5. Hujufcc fcedilfimæ* labis parentem 'faciunt Xenophanem Eleaticæ dcAæ Principem, quam. deTellurem repercufsani nil*vegerantiuin,'& animantium cs(Jononli pri/iare pofse : nam titermDmetrnm nonnili cjiImici liberi aclionem oHendere, et metiu potefl; at novimus, lucem aliud omnino efse a calorico, et jalutimum jCon*'erre vegetantium/, et animantiuni phyli, ac *liadenus credidimus. Nolim* vero quis cx dictis inferat, me lunaris influxus patronuni eidmium, referatque inter • adverfte immoderantioris fententix fautores. Ecquis, cui cor ;lapit, calculo fuo probabit-,, qua: efiutire folent in-. fani et inficeti honiines ex fingulis.Lunie quadraturis, terreflrium phanomenorupi vel viciflitudines,,yel priefagia fumerttes ? Quam fegd *Lunuf acteo nihil addere heic putemus, 'ne a£lam rea» gere videamur.' Dff Naturali, O* Supernaturali... ^.loz./^Ua^vis mutatio quæ cuilibet rei \Lr contingere ‘poteft, iT ex principio. • ipfi, rei interno manat, appel lator ; e contrario pajfto dicitur, (i a principio eidem externo fiat, nempe 'ex principio alteri Enti infito ; illud vero princij^um, 'e qilo aftio manat, ^I^?/■z'K^M nur.cUpat^r.^ Singula fpcfWbiHs Mundi Enjia continuas fubire mutationes, equidem cuique conftat. Quare fimplices hujus rnundi fubfiantia:' ejufmodi effe debent., ut in fuis occurfibus, et iocurfibus pati /queant, et sgere ; *feu patiendi^ potentia praidit® effe debent, et.principiej aliquo a£livo\ fcu vi gaudere. Non moror quidquid In contrarium*.afferunt Occafionaliftæ. fecund* hujus theorematis parti. Vide Om. i- 5 * 5 ^ feq. Certe Univerfurt? Philofophd nuHis praijudiciis prazoccupato in fihgulis fuis partibus perpetua objici|t adfivitatis argumenta ; atque adeof dubitare nullo* pa^o fas eft,* ejus ' ftamina*vi aai. aftiva prodita cfle. Principium aQivum Enti internum cum patiendi potentia copulatum, /dicitur *ejufdem ’Entis :natura. Ita ex. gr.matufa planftB eft ‘principium ;feu' vis. a£tiva planta! intimam fuam fubftatitiam pervadetis, qua vjget, efflorefeit, fru6lus* gerit' &c., et patiendi potentia, qua fubditur aflionl' 'extcrnaru'hi caulfarum, puta lucis, æris, &c. Natura gen&rattm, ubi quid sit naturale edocetur. • ‘ i'T\Uoniam Univerfum inftar totius • confideratur complcftcntis omoia, . et fingula entia : pronum eft, ex naturis fingiriorum Entium notionem effingere uoiverfalis cujufoiam naturæ per omnia fufæ', &* 'Univerfum- percientis. Hæc itaque''notio ( quod perdiligenter aniifnadvertatur velim ), nihil re. apfe e(l- aliud, nifi generica quædam a6Iivitatis notjo ex a£li\itate‘fingularium* mundi entium mentis abflractione comparata Tta, quam dicimus' plantæ, animalis &c..naturam \ neque 'eft ani^a quædim fingutaris, et per fe con. ftans, plancam, animal 5 cc. pervadens, et veluti fufa per ifth*c entia compolitaj fed eft activjtas, qir$ conflatur ex activitatibus fe invicem modificantibus. fingul 9 rum fimplicium fubftantia^rum, quæ p/antam,. animal &c; coiiftituunt. '9 $. io 5.* jatn * Aterq qaamgluribus non fat cau- C (autis*^ a ^propriæ imaginationis illufiohe ab* reptis, univerfalis natur* nqrfiine non idolum ^ noQræ ræntis intelligendum efle placuit, fed* fubftantiam a fingulis mundanis rebus prorlus diftinctam, per fe conftantem, intime, omnia pervadentem, &' Univcrlum percientem, Hanc principium Hylarcbicum, t/frcheitra.Mundi, £»* ihelechiam y. Animam dcniqu* mundanam appel*. læunt. Nimirum Philofophi iiU Mundum^ veluti iogens Animal habuerunt ex Anima, et corpore conftantem ex ejus Anima fingu» las* fieri, quas obfertramus, rerum generationes, atque corruptiones. -Sed* in.definienda.hac. Natura, feu anima mundana ipfi ejus Patroni, in diverfas abiere lertteittias. Fuerunt qui com.-. mentiti* anvm* genus mveiligantes ufque adeo Hallucinati Vunt, ut eam Deum ipfum elfe de* finierint, ut ita Deus fit Mundi MenS, et J^lundus Corpus Dei. Hos ji Paotheiftis aflidere firmes, profecto non falleris. At Cudworthqs, doctiffimus equidem Vir, univerfali namr*Sc ' ipfc favens, genitricem et fi^rit^err, hanc appellavit, elque id muneris a fuo Conditore coinmiffum ftatuit, ut materi* difpofitionem,-tcm. perationem, et gubernationem fataliter moliatur.* tum#ordine, et ratione omnia.gerere iftam genitricem naturam pofuit, ipfam vero, confilio, ratione, et intelligenfia carere. S^d nihil folidi protuliffe vifus eft Cl,. Vir, quo hanc ' • •.. fuam .(a) In Dijfertatione de natura genitrice^ qua: legitur poft cap' j* Syji. intel. fuam conftabiliret feiitentiam. ' Mofhe-. inius /Vi ^otis /toc? fit,, > ' • IG7. Quotidiana edocemur experientia Ungularum rerum generationes, et corruptione? lub (hi^rminafis quibufdam, ac' conflantibus coqditioriibus fieri, nec non determinato quodam, ac cti^flanti modo. Determinatus hicce modus, rerum fiunt generatidnes atque corruptionesf, determinatæ iftæ &. conflantes, qux requiruntur, cOnditiones, id. funt, quod Ordinem natura appellamus / ^.cdnfequuti^nejja rerum, juxta hunc ordinem evenidVitium, natura curjum dicimus. Cum nulkis fit Ordo abfque ordini» • regula ^, 0«f., proniftn 'efl intelligere, da ri regulas' -leu normas quafdam, jucra quas Yi* res Entium’ hujus muntii' perpetuo.agant. Equidem, fi nullæ hujulnfddi flatura; ' forent norrnas a'Supremo CoYidinore nUllus confiflere pofle.t ordo.’, Icd Chaos perpetuum regnaret. Hz norm»,^eu ordinis r$gn'!z leyts rfatura ' a^jpellantur.ninc quivi^S effectus a naturjs, leu viribus . Cauffarum ad' hocce Univerfum lpectantiun> -, et juxta •'præfatas leges Agentium editus, wj-/»r mitlam peperiffe ^miratur y ts 'qucmodo, equa pariat y aut omnino quomodo natura par -, tttm animantium^ faciat, ignorat, Sed quod crebro L?'^?tur De*'a,Pira. Memoria /ulla pioggia della Mt!7ma caduta /« Sicilia, yidesis Ablh Dominicum Tata. PioggiA dt pietre mvvenuta nellji cartipagna Santst,. r X ( bvo vldety non miratur, cur fiat ^ nefcit: ' quod ante non indit ^ id fi evenerit often*um ejje cenfet. Secundum, quod ad miraculi notionem requiro, eft infolentia/ nempe non quofvis etFe£tus fuperhatiiriles miracula appellare folemus, Ced qui ob ir/olentiam, five ratione temporis, (ive adjunft iioim, extra omnem alias notum ordinem vagantur, et in admirationem rapiunt fpeftatorem.Ex. gr.. ita nemo miraculum appellabit animæ rationalis creationem et infulionem in humanum corpu,'^ jam organizatum in matris utero degens, licet omnes fateantur eflfectum hunc fupernaturalem effc. Graviflima licet folutu facillima heie occurrit quæftio de miraculorum po/Iibilirate, quampravæ mentis Philofophi impio conlilio exiufeitarunt. Hi nimirum non veritatis amore, fed revelatæ Religionis livqre perciti, nihil- ex jecinore fuo decernere dubitant, veri nominis miracula impoffibilia effe; quæque mitacula appellantur, phænomena naturalia elfe cen-’ fenda, ex ignotarum caulTarum naturalium concurfu genita. Longa equidem non indigemus ‘oratione, quo ifthæc lalcivientia ingenia confringa- • ' mus. Sane I. Subftantiarum hujus Mundi vires finitas efle tum intenlitate, cum extenfione, extra omnem dubitationis aleam pofitum efl. Qua,^ re infiniti Innt effectus intrinfecus poffibiles quos naturales fubftantiarum hujus Mundi vi! res attingere non poffunt. Porro ad hujufmod* effectuum genus- miracula fpectant. Miraculo ergo funt intrinfcchs poffibilia. II. ' Subfiantia- * • ' ^ ru^m . f.- 14gulas adcurate, non perfpexiffe leges ; fed peculiares aliquas et ignotas leges notis hactenus adverfari haud poffe, nihil dubitare poflfumus. Qiiz cum ita fint, concedimus quandoque incerta futura elTe noflra de miracu. lis judicia, adeoque cordatum Virunr haud przcipitem hac de re fe gerere debere, immo animis fjepe pendere fummum effe confilium j at alias tam clare patere miracula autumamus, 8c in ipfps veluti oculos fponte fua incurrere, ut excors fit oporteat, qui de iis fuum velit judicium cohibere, et irftcr ftupidps adcenfendus. Ut ecce fi Sol hominis obtemperans voci e fuo ciirfu defiftat, neque occumbere feftinet. Si ma. ris aquæ ex hominis imperio fcindantur, et con> tra naturalis aquilibrii legem ftantes liberum, iter fugienti populo per imum fundum præbeant,: fi hominis cadaver molle 8c jam fætens in vitam fanum et integrum revocetur abfque ullo omnino apparatu, l’ed fola jubentis voce ; fi mare procellis, Sc tempeftate jactatum quiefcat illico et indomabilem, qua furebat, iram deponens, ridentem adfumat tranquillitatem.* 8c innumera hujufmodi, quibus Sacra: redundant paginae. Si quandoque in mundo miraculum ^*^fi'^i'um, eflfectuumque feries, quæ poft. hac lequetur, alia erit ab ea, qux futura fuiffet, miraculo non patrato. Nam omnia, qu* in mundo fiunt, contexte, connexeque fiunt, et singula, qu« confequuntur ex præcedentibus determinantur Si itaque in hujufmodi connexa rerum ferie aliquid novi ingrediatur, quod fcllicct non fit ex ipfa fcrie, nova huic adcedet" determinatio » qua equidem citra !T\iraculum caruiffet. Subfequens ergo ferici |>ars propter novam fufeeptam determinationem non poterit alia non efle ab ea, quæ citra' miraculum futura erat. «v lai. Si itaque miraculo perpatrato fubfequens rerum feries eadem, ac qua; citra mira^ culupii fuiffet, pergere debeat j nonnifi novo miraculo reftitui poteft. Sane res, quæ miracuio mutatæ fuerunt, alios atque alios natura fua edid iffent effectus, alia»^ poflmodum feriern con %quentium conflitu^imt ; hæc ut deleatur, ^cipfque loco reffituatur Hia prior feries, nifi novo ^llfaculo fieri“ non poteft. ^0 Juvabit, ^uæ mox diximus, ^exemplo ab horologia petito', illuftrare. Sifigulæ, qu^ in horologio fiunt mutationes’ ex mech,a-' nica partium ftructura, et politione fiuunt^tum connrxai funt inter fe, et continua'' ferie fiunt, ut adeo, earum curfus hujus Mundi curfui conferri merito poffit. Ponamus.minutorum' indicem a fitu, quem hoc momento obtinet, aliquot minutis retorqueri : id ab ipfa mechanica horologii structura fieri quideni pugns^, nihil vero vCTat, ab extefna caufia fieri. Deinde retorto eum in modum minutorum indice, et horarius index proportionali ter retorquebitur, alia^que fient interius mutationes. l*ofthac- minutorum', et horarumr fignattones pro quovis tempore diverfæ omnino confequentiK*, ac fi nulla fact^ fuiffet in utroque incfice ^mutatio •. Qiiod fi reftituenda fit prior otriufque indicis poil. 1 poGtionum feries pro quovis tempore, illa Icilfcet eadem,.qu* confequtura erat nulla fafta indicum retorfione, iterum ab externa cauifa impellendi funt indices, et ad eam politionem con(lituendi) quam modo fponte fua obtinuilTerit, fi horologio fibi rclifto', nulla unquam extrinfecus illata fuiflct mutatio. Ita miraculum in mundo fieri et intrinfecus, et cxtrinfecus pofr fibile eft IIJ*,Sed mirapulo patrato confequentium eventuum feries diverfa occurret ^b ea', qiiz citra miraculum fuilfet izt. Hzc itaque fi reftituenda fit, pariter per miraculum nova rebus inducenda efi mutatio, ut eadem, et eodem ordine redeat rerum feries, qux per primum miraculum deleta' fuit. Fi»!s CofmihgU» I pAo, p-^-^ f-^-1 r^-n r^ r^ r-^ ff.W/KfiW rit 7. et 8., nec non fenfationum phænomena in noftra non furtt poteftate 18. Quod ad fecundum fpectat, fenfationes non funt im mifliones qualitatum ex objettis externis in ‘ animam adeuntium iz.Sc ig., neque Mens in fuis fenfationibus- mere paffive fe habet ^ Sed de hac re copioiius fuo loco. Qua sit [edes principii fensitiva facultate praditi. 22. '["'Ibrarum irritatio in organis fenforiis X excitata a quavis externa CauiTa, nifi ad cerebrum ufque propagetur, nullam in Anima lenlationem gignit. Pridem do experientiam - Sane obtruncetur nervus, vel fortiter ligamento comprimatur • quavis producta irritatione infra fectionem, vel ligamen, nihil anima experietur^ illico tamen fenfationem patietur, five ligamen relaxetur, five irritatio ultra nervi fectionem inferatur. Quare principium fentiens, feu Anima non ubivis in corpore refidet, et in quolibet organo fenlorio, led in cerebro, cx quo fuam originem nervi aj^fpicantur. At dua! heic occurrunt qua»ftiones 1. Quænam eft illa cerebri pars hac prærogativa c£bteris præftans, ut ad eam fint deferendæ fingulæ fcnfuum irritationes, quo in Anima fenfationes^ant ? hanc cerebri partem, commune ftnjorium, et Animæ fedem dixerunt. Qut fenfuum irritationes ex intimis corporis partibus ad cerebrum, vel potius ad commune fenforium deducuntur ? Quod ad primam adtinet, nulla cerebri pars pro communi Animæ fenforio flatui poffe videtur. Ut enim aliqua hujufmodi cenferi queat, illud prius conflare debe^, lingulos’ nervos, quot quot per fingulas cor poris partes migrant, et lon^e lateque diffunduntur, ex ea primam originem ducere.-Al nullam cerebri partem hu>ufmodi effe \ recen» tiflime conftitit ex obfervationibus fumma fagacitate ab Ab. Toffoli captis, {tom. Xlll- opujcoii fcelti [ulle feien^e, e Julle »Arti. ) Olfactorii nimirum in duo priora cerebri Ventricula pergunt. Guftatorii ad tertium. Acuftici e corporibus ftriatis labuntur. Optici e corpore calJofb emergunt. Somniavit ergo Cartefius cum Anim* federa in glandula pineali locavit : quippe ex pineali glandula nec unus nervus originem ducit’. 'Idem de Digby dicendum, qui ex glandula pineali in feptum lucidum animx fe. dem tranftulit. Neque adfentimur CJ. De la Peyronie, aliifque in corpore xallojo anima* fedem conftituentibus licet enim hinc emergant aliqui nervi, veluti optici, non omnes tamen. l6. Quo fecunda! qua*ftioni facerent fatis, Cdduxerunt Nonnulli exemplum chordarum, qux altera fui extremitate perculf*, illico alteri, extremitati motum fuum tribuunt ; at non fatis penficulate, Sane tremor in unam chordse extremitatem illatus, ad extremitatem alteram illico’ propagatur, fi tenfa illa fuerit, et in xjfcillando libera, ab omni fcilicet externo impedimento expedita. At neutrum de nervis dici potefl:, nullam tenfionem habentibus, et in lui ductu undique irretitis. Alii vero nervos ha. bent veluti totidem tubulos; quos purior, ac fubtilior fanguinis p&rs, qpam Jluidum nerveum, et 5c fpiritus animales vocant, perpetuo implet, ac pervadit. In hac porro hypothefi inquiunt, nequit nervus, nervulu/que contingi, quin aliquatenus prematur ; neque potejl^ ullatenus premi, quin ob dijlensionern fpiritus contentus' urgeatur, neque jpiritus il/e sic urgeri ^ quin pellat ^ feu potius repellat vicinum inflantem, ac pari ratione advcnientetn ex cerebro • neque ijle porro repelli, quin tota ferie ob' repletionem, continuitatemque compulfa, fpiritus exi flens ad ipfam originem nervi, nervulique in cerebrum quasi resiliat- Verba lunt Caffendi phyf, f. membr. . c. 1. Hujus explicationis exemplum ex tremulis æris undis Ionum deferentibus e corpore fonoro ad aures, facile eft defumere. Atqui hujulmodi fententia licet comjnuni voto veluti cæteris verofimilior excepta Iit, Iblida tamen caret demonftratione. Hac interea utemur, donec melior non occurrerit. GAP. Nuperus Audior Thouriy in dIfsertatione'Lugdur)enfi Accademiie exhibita, in qua qusftionem exiendir, utrum atmol'pha:ra eledricitas aiiquid in hunianum\ corpus influat &c. novum hac de re lyflema propofuit. Utraque, afserit, eledricitas, pofsttva nempe et negativa ifeorfmi in cerebro hofpitarur. Siibflantia corticalis puta pofitivam continet eledricitatem, negativam vero medullaris fubflantia. Utraque habet luos condudores, nervos 1'cilicet, quorum alii politiva; eleflrlcitari inferviunt, alii vero negativ*. Hi ex extremis corporis partibus eleilricitatem deferunt ad cerebrum ; illi vero ex cerebro ad mufculos, et ad extreouis partes. SenfatioiTes Menris fiunt ex appulfu ad cerebrum eledricitatis, quam nervi negativa eledricitati inlerxientes a corporibus in lenfus incurrentibus rapiunt, ocleruntque ad cerebrum. \iotus ve De Memoria. I j^.Uotidiana experientia edocemur, Mentem etiam remotis objectis, quibus afficitur, adhuc fibi prxlentem retinere poffe illorum ideam,. feu notionem. Hujusmodi Mentis actus coram reti- I nendi ideas, notionesve objectorum, etiam il» lis remotis ac absentibus, vocabulo contemplationis y^ockio duce, defignamus. Rursus experientia pat.efacir, Mentem persæpe occafione externæ cauflæ, persæpe suo veluti arbitratu, et imperio, antehabitas, con. sepultasque ideas, notionesve revocare. Hunc mentis actum, reminlfcientlam appellamus. Eadem experientia novimus, Mentem antehabituS ideas fibi recurrentes ut plurimum recognofeere,• scilicet animadvertere, illas ideas notiooesque haud elTc recentes, sed jam dlim habuiflTe. Hanc anima: conscientiam, seu anim.i.ivcr;ionem, recognitionis vocabulo exprimimus. qo. Tres modo rccenfitos Ment;s actus vulgo Memoria nomine complectimur. Itaque Me. mo vero mufculares cientur ab ele^trlcirate, quam Anima in mufculos immittit per nervos pofitivs eleflricitati d-'dinatos. Atqui clariffimus Au6lor in præfata difsertatione ar^qumentum ouidem fui ingenii præbet, non vero fui fyfiemaris. Ipfemet videtur iftud proponere pro imaginationis fpecimine ad rem perdifficilem, fi fuperis pbcfet, c:cp!ic aridam.morla ell illa Anima: lacultas, qiia retinet-, revocatque antehabitas ideas, ac recognofcit veteres effe. N • -De Contemplatione . *]A yCOtus ab externis objectis in no-, J.VX ftri^ fenfibus exciti, et ad cerebri fibras perducti Animam diverfimode 'modificant, live repræfeiitationem aliquam ( quam dicimus ideam ) five affectionem ( quam notionem appellamus,.),.ingerendo.. j^Quare pronum cft intelligerc, fibrarum cerebri commotionem eo ufque perdurare debere, quo illa notiq, vel reprasfentatio Animam occupat. Animaie itaque contemplatio' ex continuatione motionum in cerebri fibris efi repetenda/ atque adeo ad fentiendi facultatem fpectat. At continuatio motionum in cerebri fibris duplici ex- cauffa fieri poteft. 'Vel enim, fortior, et vehementior illata eft, concuflio in' fenfuum fibras ab externis objectis, et modo cerebri fibræ vehementius commotæ in eadem fufcepta commotione, etiam citra Animæ impc-' rium, diutius perfeverabunt. Hinc fiet, ut ea-' dem idea vel notio Mentem five lubentem, five invitam occupabit, et qtfidem vivide. Vel' fibræ leniter commotæ, ad quietem mox fu a' fponte redirent, quo cafu paullatim evanefeeret ‘ idea, et notio ; et modo ut in inchoata com-^ motione, illæ perdurent, Mentis quoddam velu-* M ti '• ' ti conamen adhibemus : hoc conamiiw fibras in inchoata commotione veluti foventur, con^ fervantur; atque hinc confervatur, et perdurat idea, et notio coram Mente. Vis, quas in plura difcerpitur, languefcit ; at in unum colkcta potior efficitur. Quare facile jntelligimus, eccur ad contempla* tionem faciliorem, diuturnioremqne confequen> dam,Mens ne ab aliis ideis, et prasiertim fe«« iationibus perturbetur, cavere debeamus. • r . MI. f » De Remintfcientia t 'I 'AIfficillima occurrit de reminifcientia inquifitio-. Hanc ineptiffime ^videntur -Metaphyfici vetcreS perlequuti fuilTe ; quasfierunt enim.* quo abeunt^ receduntqite ideat nothnefve, cum ab earum contem^atione Mens feriatur ? In ^nima ne, vel in cerebro confepediuntur ad sAnima imperium rediturai Ecquid funt confepuita idea ? Hiice quasftionibus ineptas re* fponiiones fuppeditantes, illud quah fuadere vel* Jent, penes Animam promptuarium eife, in quo ideæ conferventur iterum educendæ ex ejus imperio, quoties opportunum eflfe judicat, vel ex alia quavis caulfa. Audiant hi Ciceronem CICERONE (vedasi) egregie cos increpantem',*Qjiid igitur ? utrum capasitatem. aliquam in xAnimo putamus ejfe, quo tan~ quam in aliquod vas^ea^ qua meminimus infun~ dantur} %Abfurditm id quidem: qui enim fundus^ aut qua talis «Animi figura intelligi poteft ? aut > quæ tanta 't/fnimo capacitas? %4n imprirnt qua fi ceram, »^nimum putamus, et memoriam ejff fi' gnatarum rerum. in Mente vejligium ? Qua pofi funt verborum qua^ rerum ipfarum ejfe vejligia? \ tufc. qq. /. I. c.Ut frbi cavcanf Tyrones ‘ab hifce abi furdis opinionibus, fufficiat recolere, ideas, notioncfve nihil effe aliud, quam Animæ modifi« catioiies ex fibrarum cerebri commotionibus genitæ j ut ita ficuti fibris ad, quietem redeunti-* bus, ftatim illæ Animæ modificationes definunt, ita et ideæ, notionefve omnino evanefcunt. Cum ergo quæritur, quo abeunt-, receduntque ideæ, cum ab earum contemplatione Mens feriatur, optimum refponfum erit/ evanefcunt. Ubi confepeliuntur hi Anima ne, vel ip cerebro ? Nullibi.* nam ab Anima cui inerant, evanuere. Ecquid funt confepultæ ideæ ? Nihil. De Recognitione. A Memoriam proprie fpectat, quod jt\. dicimus idearum recognitionem^ Si enim veteres ideas.Menti recurrentes percipiamus, minime vero nobis confcii fimus, ilJas veteres effe, nempe eafdem quas olim percepimus, reiterata ifthæc five notio five perceptio ad memoriam nonnifi improprie referetur. Licet reminifcienti* cauffam incom pertam adhuc habeamus, recognitionis tamen idearum facilem explicationem exhibere autumamus. Duo funt principia*, ex quibus illam deriva, mus. r. Interior experientia, qua a teneris unguiculis novimus diferimen quoddSm inter ideas, notionefve Menti recurrentes ex reminifeientia, et ideas notionefve actuali fenfationc in Animam incurrentes. Licet enim verbis non poffct explicari diferimen' iftud, interiori tamen fenfu difeimus, alior prorfus modo Mentem affici Cx fenfatione objectorum prsfentium, ac ab 5 deis notionibufve eorumdem abfentium. Videtur hoc diferimen in eo |»ofitum, quod fenfatio Animam vividius, ac veluti intime afficiat* € contrario leviter commoveant ideæ, notionefve objectorum ''ubfentium, et quafi a longe ei exhibeantur. Lex ilia adfociatibnis idearum, qua fit, ut una recurrente idea, vel notione, fi. mul recurrant Menti una vel plures aliæ, quo. cunque tandem modo, priori adfociatæ. Sane recurrat Menti idea, vel notio objecti cujufvis j five id fiat ex interiori quavis cauffa, five ex externæ caufTæ actione. Vel in hujus \idea: recurfu excitantur in Mente ideæ ei adfociatæ ex priori fenfatione, vel non. *Si primqtn • ejuidem objecti idea in duplici illitarum ferie Menti obverfabitur ; in ferie lci*icet præfentium circumftantiarum temporis, loci, aliorumque objectorum^ adftantium, et fenfus percellentium, et in ferie idearum fociarum ex veteri fenfatione, qua; per reminifcientiam refiaurantur. G,m ergo altera feries, ab altera interiori lehfu dignofcatur prasc. n. i., facile eft recognofcere, objectum, quod modo Menti occurrit, alias quoque occurri Ife. 45. Si vero ex alicujus ideæ recurfu ( quacumque ex caufla hic fiat ), nullæ excitantur ideas focix temporis, loci &c., nulla fit recognitio, vel incerta admodum, et obfcura, fi nimirum obfcure, et confufe fuerint excitatæ ideæ focis. Experientiam appello. Hinc efi, quod fi hanc recognitionem claram, et difiinctam reddere qusrimus, conamur veteres circumftantias loci, temporis, perfonarum &c. revocare, vel ut alter commemoret, flagitamus. Hs ides Mentem redeuntes lege adfociationis veluti ftipantur illam, cujus recognitionem qu*. rebamus, ficque ipfa recognitio redit. Eadem eft explicatio recognitionis idearum reflexione genitarum. De Facultate attendendi, et reflectendi. 4^. "A ^^Entem a vividis, claHfquc five J.VX (enfationibus, five ideis veluti pertrahi, atque occupari; nec non iifdem libenter cedere, et conquiefeere, quilibet intimo fuo confeienti* fenfu edocetur. Atqui et interiori experientia non minus conftat Mentem facultate pollere vividis etiam, clarifqUe five fenfatlonihus, five ideis obnitendi, quominus iis afficiatur, feque' convertendi ad alias five ideas, fjve fenfationes etiam remiffiores, et hifcc elicito veluti conamine intenfius vacandi. Iflud Mentis elicitum veluti conamen, ^uo ipfa fe determinat, ac defigit in peculia, ri aliqua five fenfatione five idea perfequenda, attentio nuncupatur; et attendendi facultas illa'met Animæ vis, e qua illud conamen procedit. Attentionis vero translatio, quam feientes, et prudentes efficimus ex uno in aliud fucceffive objectum, vel ex una in aliam ejufdcm obje. cti partem, reflexio dicitur. Facultas adeo refleBendi illamet efl facultas quam attendendi dicimus, quatenus, nobis animadvertentibus, ac volentibus ^ plura fucceffive perluftrat objecta % ex uno ad aliud rimandum pergit, reditque ad alterum. Attendendi facultas alia putanda efl a facultate featiendi, etfi hanc perpetuo comitem ha. r ; r : tar ;;::tatem ad illam reflectendi revocandam eflc. RATIOCINARI dicimur, cum idearum A puta et C convenientiam, vel repugnantiam, vel quamvis aliam relationem intuitive non percipientes, iJIam deprehendere fatagimus per ioterpofitionem medi* ideæ B. Media porro hæc idea nonni/i ex reflexione', et analyfi primarum idearum A& C Menti occurrit. Hæc enim me« dia idea, vel una efl ex limplicibus, quæ in compofifis ideis A et B continantur • vel ejulmodi eft, ut dum alteram -puta A tontinet, ipfa tamen in altera B contineatur ex quo inferimus «tiam A in B contineri. Alterutro modo res fe habeat, evidens efl, Mentem fuam ratiocinationem nonnili reflexione abfolvere. Facultas generalium idearum nexam, 2^ relationem clare pervidendi, Ratio communiter appellatur. Hoc fane fenfu Tullius de ofF. 1. i. hoc vocabulum ulurpavit. Homo enim^ quod rationis eji particeps, per quam confequentia ctrnrt, caujfas rerum videt, earum progrefjus, et quafi antecejjiones non ignorat, Jimilitudines compa^ rat, rebujque pr' Huc’ IpeAant ' Ciceronis CICERONE (vedasi) verba /. 2. di divinat. Sanguinem piutffe ’ [enatui renunciatum eji clatratum fitniiufn fluxi^^e /anguine : deorum fudaffe fimulacra atque h(ec ;« lallo plura, ^ majora videntur ti^ mer^il^us ' eadem non tam animadvertuntur tn pace. ' byterum qutmdam Rejiltutum nomine lauJat 'n fuo tempore, viventem, qui, et fponte fua, et aly amicis rogatus adeo fe e fenfibus evocabat, •Ut non folum coram loquentes non audiret, led neque punctiones, neque inuftiones fuo cor* pori illatas lentiret, nifi cum ab alienatione Mentis ad fe iterum redib?kt. ^ ^ §. 67. Tandem cum imaginatio ex facili ^ cerebri irritabilitate dependeat,.confequitur, illam ex mutato corporis, et cerebri ftatu obtundi polle, nec non obtufam revivifeere. Id cum ex pluribus fieri queat cauffis, tum pras, cipue ex state, cibo, potuque plurimum pendet. At haud prstereufidum eft, morbofa aliqua cauffa fieri quandoque, ut imaginatio, et memoria alias obtufa, et difficilis', vivida fiat, ac facilis ex inducta' in cerebri fibris fenfibilitate, feu irritabilitate' majori. Nempe,, quas cerebri fibrs’ olim agitats propter craffiorem; conftitutionem, parvam aut nullam mobilita tem fulcipientes, minus apt* erant quominus veterem commotionem renovarent^ modo mobiliores, fenfibilioresque effects, illam diftin-^ cte queunt renovare ; adeoque, qus olim obtufa difficilis, vel nulla fubjbat Menti imagi-, natio, et memoria, clara fiet, facilis, et promota. Hinc ftupendi prorfus phsnomeni rationem' depromere facile poffumus, eccur nempe Rudes, et illiterati homines febri et delirio correpti plura quandoque loquantur erudite, et irllomate antehac iplis prorfus iirtomperto; tum hsc iterum ignorant, fi > N 3 I rio reliquuntur. » 6S. Ad vim imaginationis Mpjierum prægnantium referunt Nonnulli monflruofos et informes, quos illæ edunt quandoque partus, tum partuum infolentes macufas. Sed nolim ^ ego quidquam de hac re decernere. e I — i ^ I I. (Adolefcens quem Prarceptor ;nihil untjuam edocere poruir, quique nec callebat, ut vulgo dicitur, adjungere adieAivum fubjedlivo, pofl aliquot dies febris jnalignx, latine loquebatur, nil hsfitans; dodrinas antehac fibi ignotas recitabant, ideafque quibus eatenus caruerat, egregie edilarebaf. Medici», fepten. r. i. p« 88. Huart ( !*.«»»« «fcj’£/pr/>j)Ruflicum memorat bardum, qui ^lirio correptus, eloquenrlflimus evaflt: nec non quemdam famplum, qui craflillima: licet minervz, et ideis vacuus, morbo tamen laborans, cordatioris politicas eruditus apparuit. Erafmus italum cognovit, qut in morbi acce^onibus germanicum idioma, quod nunquam didicerat, loquebatur. Ac.. Hzc phænomena, et alia huiufmodi quamplura imperite, A olcitanter inter miracula, rejicerentur, vel magicos efferus. Sola fibrarum cerebri difpofitio vi mOrbi mutata hos omnes producit effedus. Nempe imprefliones olim habitie, at debiles, quominus fentibilem gignerent efi^tiun in cerebri fibris pamm mobilibus, novam majoremque vim nancifcuntur fibra irritabiliori, ac mobiliori per morbum efledfaj iienti pondus^quod machins rubiginofs adplicitum nullam in ea motum ciet, extenmlo tamen eamdem in morum agit, f! rubigitie TOlita fuerit, ejufque axes ex inunco #!fO mobiliores emciaotur. De Facultate appetendi, ejufque ' obje^o '. ubi de dffedibus fummatim. De Facultate appetendi j ejufque ob/eSle. 6 p. ^^Uique ad intimum fuas confcicntiæ fenfum attendenti fequentia liquent. I. Animus ex quavis Tibi objecta boni, malivi fpecie agitatur * neinpb erga objectum quod bonum cenlet incJinationem nilum vei ^ invitus experitur/ 'e contrario, declinationem a malo, et veluti renifum quemdam ad ei ob« fidendum. Illa Animi inclinatio,'& veluti nifus ad bonum ", appetitionis nomine defignatur / Sc contra averfatio dicitur Animi declinatio, æ renifu^ a malo ^ II. Quo majus Menti objicitur bonum, ma lumve, eo vividior eft appetitio vel averfatio/ et contra, ut ita fint appetitiones et averfationes in directa ratione bonorum, ' malorum ve Menti repræfentatorum., • III. Appetitiones, et averfationes non fiint in noflra potedate, nili quatenus Mentem ab objecta boni, maiive fpecie avertet^ polii m us. Cxterum licetd bonum minime profequamur, malumve fugiamus, intrinfecus tamen »• quali polient ratione, qua rerum naturam, re-. lationesque complectentes-, illarum.bonitatem"' malitiamve affequantur. Proinde: in perfpicqo «ft*, cctur tantum fit ijiter homines ' appetitio ' num >sVcHOlo6iA 4 T nnim, atque, averfationum difcrimen.Sanc quod uni bonum apparet, alteri malum videtur, et ^ Contra.'Quod uni voluptatem conciliat, alteri dolorem, tædiumque ingenerat' 'Ipfi nos fententiam de bonitate et itoalitia cjusdetn objecti pluries in hora, •& quafi momento tenii poris pronunciamus, et mox delemus. QuJ in "tanta affectionum, idcarurti ', et calculi difcre‘pantia ftare poffet appetitionum, averfationumque identitas? [Do not multiply identities beyond necssity – Grice e Semmola -- - Quæ appetitiones et averfationes Anima excitantur ex confufa bonorum, malorum- ’ ve repra?fentatione ope fenfuurn et imaginatio'nis facta, appetitiones carw/j/ex, feu animales "^diQUtitMT.Rationales e contrario appellantur 'iJlaSjj' quas Mens concipit ex clara, et diftincta bo-, noruni, malorumve fpecie ipfi exhibita 'a ratione. Porro p^fæpe fit, ut‘qus veluti bo-T na vel mala Menti reprefentantur ’ fcnfuum et imaginationis- ope, ea itidem' bona vel mala ex ratione dijudicemus. Hinc 'duplex iq Animo excitabitur appetitio vel avcrlatio, carnalis feu animalis altera, altera ' rationalis j modo amba;,hæ convenient. Alias contra fit, ut qua: tamquam bona* Vel mala" Menti fiffuntur fenfibus et imaginatione, tamquam mala vel bona ratio, decernat. Quare appetitio carnalis gum aVerfatione rationali pugnabit, et viciffim ^‘adeoque Mens in diverfa, &.con-, traria dillrahi experietur, et internum, luctamen, conflictumque patietur. Huc fpectant illi^. ApoftoU verba : Sentio aliam, legem ^ in memltris jneif, repugnantem legi Mentis Nem. Nempe in Apoftoli Anima ex fenfuum illecebris appetitiones excitabantur, erga objecta", quæ ipfc Apoftolus averfabatur ut mala ex monitu rationis. 75. Hanc pugnam ut explicarent vetcreg Philolophi duplicem diffinxerunt appetitum, animalem et rationalem : tum non uni eidemque fubjecto utrumque tribuerunt, fed diverfis. Opinabantur nimirum, duplici parte Animam conftare, wtelie£liva, leu Juperiori, cui appetitum tribuerunt rationalem, et fenjitiva altera, quam inferiorem dicebant, in qua animalem appetitum pofuerunt. Has Animi partes et revera diftinctas efle, et fecum ipfas pugnare, veluti Equus cum Equite fyquæ locutio Platoni in primis familiaris eft j, /autumabant. Atqui- doctrina ifthæc fenfui intimo, quo eum conflictumMn, uno eodemque individuo fubjecto ineffe experimur, repugnat. Accedit quod cum ^ Anima fit incorporea et fimplex lubftantia ( ut fuo loco evincemus ), vocabula partium inferioris et fuperioris, vocabula funt nihili. De Jiffefiibut •. ' ^» ' A‘ Ppetitio, vel aversatio vehemenjCX tior, 8c cum infolenti naturæ humanat commotione fociata,' affectus appellatur. Equidem quævis boni, vel mali reprpfeatatio appetitionem, vel averfacionem ciet': at aon qu*vis appetitio, et avcrfatio affectus nuncupatur / quæ incitatior eft, et intenfior hoc nomine denotatur. Affectus itaque nonnifi ex rcpræfentatione boni vel mali, quod gravioris momenti putamus, pendet, 70« Inlolens humanse natur* commotio, qua affectum comitatur, ex actione Anima affectu percita in commune fenforium leu cerebrum gignitur. Ex intimo enim vinculo, quo Anima, 5 c corpus conibeiantur, quoad homo vivit, fit, ut ficuti fingula corporis commotiones nervorum ope ad cerebrum traducta Animam afficiant, ita reciproce Anima commotiones ex reprefentatione bonorum, malorumve genita nequeunt in cerebrum non derivare, ipfumque determinato, quodam modo agitare. Cum porro e cerebro originem ducant quotquot per corpus dilabuntur nervi ; hinc intelligitur cccur ex Animi vehementiori appetitu vel averfatione, concitato cerebro, et nervis, 'infolentes natura humana commotiones oriantur (a). Ita ex terrore pereuHus Animus faciei pallorem, cordis pal-, pitationem, artuumque tremorem comites habet. Ex ira inflammatur Vultus, linguli tenduntur, atque convelluntur nervi. Ex amor* per. Non quavis Anima commotiones io fm^Ias cerebri partes derivant, neque eodem modo : fed fingula certas, ac.determinatas partes ceijelHi afficiunt, tk de*terminato.modo. Hinc unguli Anima affe^us determinatos cient in corpore motus, qui quandoque funt diverfi, quandoque prorfus oppofiti ^ Juxta affe^uum naturam ». et intenfitatem. ' ^ L (. I percurrit mollis flamma medullas Scc. Hinc in numera phy fica mala, qux fapientes Medici norunt ' Cum natura fua Mens in bonum te ratur, malumque refugiat, liquido conflat, aflectus humanam naturam, qualis modo efl, necefsario confeqai. Quid ergo fibi volebant Stoici, cum affectus, Animi morbos appd-. tlantes, in Virum Tapientem minime cader^ pertinaciter autumabant ? Num ne fapientia eo, pertingere potdt, ut hominem fua expoliet natura, 8 c alia prorfus commentitia induat ? At nemo unus ex Stoicorum familia ad hunc fa-. pientiæ apicem deveni(. Equidem qui in humana natura deleri affectus optaret, ille et vim qua Mens bonum naturaliter appetit, refu^it'' ' qqe malum, radicitus ab ipfa Mente avmlfam vellet »,Hoc femel conceffo, non video, quid, homo a crudo diflaret latere.* nempe hiccine erit Stoicorum Sapiens ? ^•7p. Atqui human.'> natura, Sc ut fit,& bene fityfibi non fufficit • bona proinde quibus caret, ^ profequitur oportet, declinetque ^ impendentibus malis. Bona vero profequi non potefl, Jiifl ipforum bonorum appetitu incitata j neque mala refugere, et propulfare, nifi odio percita erga mala, quæ funt inimica felicitati. Sunt itaque affectus nedum neceflaria humanæ naturæ -confectaria 70., fed ipfi 8 c ut fit, et bene fit omnino neceffarii_ clatere?. Sunt præterea affectus inftar vectium „ quorumdam, quibus mirifica in homine ex„.citatur, aliturque magnarum rerum effectrix „ vis, nec fine magnis affectibus quidquam f gre ‘ « g**cgjutn > et prsBcIarum unquam ab homini„ bus factum i R^tio in nobis recta, nullo im« j, petuofiori affectu concitante, conftantius ope„ ratur, et xquabilius,l'ed eximium qmdqbam, > „ et diftinctum ipfa per fc-fola efficiet niin’„.quarn. Eadem, ubi natura vehementiffime „ affecta eft / velut erigitur j ac, licet paullo' turbnlehrius efficit tamen quje mira viderf „ poffcnt’ nafurs humanæ vires omnes ignoran> tibus. Itaque Plato fæpe fcribit magnorum vircrufn fuifle neminem fine enthusiasmo ^ quodam^ ideft vehementio riaffectu; xAnt. Gtnu- ^ T enfis Metbaph. part. tertia, Scbol. prop. 4 ^* Boni,malive repraslentationes in Mente factæ five fenfuum renunciationibus, five rationis adminiculo non femper funt ‘ex æquo' conformes realibus concretifque objectis, qui- " bus ilias referimus. Quare neque., affectus ex. hujusmodi repræfentationibus 'r geniti fempet* proportione refpondebunt bonis, malifque realibus. Hinc duplex affectuum partitio ex eorum relatione» ad objecta Alii nimirum "funt veri, alii vero /«/>/. Veri dicuntur, qui objecta realia' refpiciunt, et ipfis realibus objectis proportione refpondent. F7 damus, quafi nihil ^dhuc ab aliis traditura . Mentem.humanam infita vi, et natura fujc neccffrtate bonum appetere, et aver.j ' ' fari malum, fuperius 70..,exporuimus ^ Mp»» nemur hinc, nos ita natura comparatos, >.ai; ad bonum in genere, feu ad beatitatem necessario, et indeclinabili pondere feramur,v et miferiam' relugiamus, quin valeamus vel-, „minirfium obfiftere. Perfpecte prpfecto. Divus Au», guRinus inquiebat : Beati effe •^olumui, et nti' feri effe non fotum nolumus fed nec velle -pofo /limus. At quid 'Anima contingat, quum aliqua boni j malive fpecie afficitur, operæ prætmm eR ex intimo 'conicientiæ fenfu perdili- ^ genter edtfcere : ipfo enim Magiftro in devia certe haud abibimus.. r. rntimus confeientiæ fenfus uberrime edocet, quod ficuti ex oblata boni, malive fpe» cie mox tu Auimo cietur appetitus, vel aversatio A J ^49 fatto in* ratione ipfius boni, vel mali repræTentati, ita hoii rapitur ab illa fpecie Animus, fed allicitur, vel t*dio afficitur. Non rapi ex eo I* intelligit, quod cuique appetitui', averfationi, quoufque durat, efficaciter obfidere* poffe, tum premjre, et infrenare, evidentiffime animadvertit : %. quod Ipfe fe ad bo'num perfequendum ciet, fi quidfem perfequafUr, vcl ad malum fugiendum. Sentit Sinimur præclare Tuilius mare fuo tuf. qq. 1. i. Cw 23. ‘Je moveri, idque dum fentit, illud una fentit, Je vi fua i non aliena moveri. Animus ex oblata boni fpecie alle£las, ' crampentem mox inclinationem quandoque extemplo fequitur j alias vero immoratur, &' appetitum cohibet, ut rationis conHlio adhibito ejC{>fendat, num 'bonum ei exhibitum revera bo-» /lum fit, atque amplexandum, afl %ero malum fub fpccie boni, adeoque refpuendum. Inito tandem confilio, et de bp^itate, vel malitia objecti monitus, fe ad illud perfequendum, vel avertendum ciet: animadvertit vero i. ipfum fe ciere, hon rapi/ z, etiam 'poflquam perfequi rapit, facultatem integram defillcndi penes fe, retinere, licet revera non dcfiftat; hanc ut experiatur, fufeeptam determinationem ex ^rte, vel ex integro quandoque remittit-, vcl, aliam omnino' diverfam, contrariamve elicit., Cum plura Menti exhibentur bona, quorum uno tantum potiri liceat, vel plura media ad idem* adfequendum bonum, rationis ad-' hibernus confilium • fingula undequaque expendimus, et quidem quo efficere pofTumus accu ratius. et acutius / media propoGta irfter h, et cum fine comparamus, ut. qu? Gnt aptioia perdilcamus. Hoc demum inftituto examine Td id quod melius videtur, fe inclinare, feu allici Animus perfentit; at inclinari, inquam, non 'i nam i. inclinatio illa m attum non Jodit, nifi ipfe Animus fc cieat, detcrminetaue ad'id,quod melius vilum^ cft amplexandum; 1 quia quovis' pbfito rationis confilio, Mens ‘oildvertit. le facultatem minus bonum fe determinandi ;.de hac facultate experimentum capere potett, quoties libet, ut fui' juris eife plene perdifcat. _ V Ex diais fequentia quam evidentiffime natent. I. Inefle Menti aaivara facultatem, qua ipfa fe cieat, moveatque ad bonumx pecu?hre perfequendum, ipfa fe avertat. a peculiari malo Hanc aftivam Anim* faculutem t^ohn^ " IMbulo dkliguamus. II. Aa.vam fa.-ultatem, nempe Voluntatem ratioms confilio equidem regi, at ei non lubeffe; rationem Ic«ui ducem et comitem, ipfam vero etfe fui Lminam, ipfam, f.bi Di vus Bernardus, de grat. ratio data voluntati, ut tnfttuat tlUm, non up ^cflruai ' deUræret auten /7 nece(fttatem ulla» i^roonere^. UI- Voluntatem, ^ tionis confilio, deu incitamento, fuam deter minationem fufpendere polTc,s’immo aliam pominationem mcitamen nere omnino contrariam ei, q * V. - ritionifque confilium fuadent. LilLt/r momine.intelligimus eam aaiv/poteht.a, indolem-..90,: nMlU natur* fo* ( V n^ceflState, nec ulla \extcrna coa6lione invincibiliter determinatur, ad a£liorverq.; redjipfaj fe determinat, 'ut ita, politis oninibus ^djiagpji^urn. requifitis, queat non agere, vel,aliud;5^qU9dvi^. a politis requilitis alienum. Qfiandoq^ IJbertatU nomine ipla a£Hva facultas, præfatx -indolis, et natur» intclligitur,.. f - 4 ' pt. Duplex adeo Libectas., diftingui folet juxta duplicem neceUttatem ; cui activa poten? tia fuhjacere poteft. Alia dicitur likfftfl cejfitaie y qu» confidit in immimitate. a quavis naturali, et interiori vi rapiente» et determi^ nante ad datam a£tiodem. Altera vero dicitur iibirtas a, et hase ia. immunitate a aliquo motivo nihil unquam vult, nihil advefatur. Sicuti ergo lanx ob impolita pondera inclinans nihil in fe inclinando libera eft, ita nequi' humana Voluntas, quas a motivis perpetuo determinatur. At duo præcipue heic reprehendenda occurrunt I. Mentem a motivis determinari. ' ir II. Lancis exemplum - Quod ad primum f|sew ctat, fedulo hæc duo' toto cælo' cliverla fecernenda funt : Mentem a.mdtivis determinari; Mentem feipfam ex calculo mottvonm determinare.Primurd' fi verum foret, actum eflfet de humana libertate. Atqui’ illud 'ita evideq^ter f.iffum' eft, quam evidens Animum lentire fe vi fua, non aliena moveri j fe. a' n?oti vis allici. quidem> 1’ed non rapi ; fc facultatem integram habere cuilibet appetitui efficaciter obljftendi/ ;fuiqtie juris perpetuo efle. Alterum vero utique At fjtram quadrare. Sane Lanx nulla aftiva vi eft£x. gr. Qui tonos a nervo redditos in. ejus tremoribus confiituit, nequit ‘multiplicium, ac diffimilium tono A norum rationem aliter expedire, nifi per toti* dem diverlos, ac diflimiles ejufdemque nervi tremores. -Si ab uno eodemque tremore plures^ac diflimiles tonos effici contenderet, infeite profecto fe gereret, nec» feipfum intelligeret; quippe in illa hypothefi necelfe eff^URum eumdemque tremorem unum eumdemque tonum perpetuo reddere. Ita profefto in hypothefi, qua Mens humana pro materialis fubflantiæ temperatione ffa-^ tuitur: cum ideæ Sc notiones aliud nequeant eiffe nifi moriones, tot diflin£tas puitiones, atque diverfas fubflantia cogitans fulcipii>t necefle eft quot diyerfiis, ac multiplices h:vbet ideas, notionefque. Neqpie juvat' reponere', Mentem ideam B, t. f:. B, 'qui coram adRat, poflc cum; idea A,cu-> jus remimfcentiam, habet, conferre. Quid enim cft^iRuci ideæ alicujus reminifeentiam habere,, nifi illam ideam habere præfentem ? Habebit igitur Mens bmul prætentes ambas ideas A dc B. Datur ergo quod a nobis pofitum eR. Humanat» Mentem haud effe temperatienem btu> mani corporis, ac pracipue cerebri^ inviBe y demonfiratur. I. externa Objecta noRri cor?* poris fenfus percellunt, '6brar* rumque irritationes ad* cerebrum ufque deducun»' tur, mox Anima (enCationes fufcipit. Sed h». fenfationes phasnomena funt,^ quas tnihibeommune habent cum fibrarum cerebri, St fenfuum* commotionibus, a -quibus toto c^l» differunt; ^^.iz.ij.Nequeunt ergo efTe ipfæ commotione^: atque^adeb nec Subjectum cogitationum eR cerebrum, nec Principium cogitans feu Mens eft. cerebri, humanique corporis temperatio. Ex intimo confeientiæ. fenfute.videntiflime docemur, Subje6Ium fenrattoaura, quas five* per unum idemque organon, five per fe invicem modificantibus, 5c collidentibus compofitam exprimi poteft, II. Indicatio horarum eft indici prorfus' extranea : ' Nobis- comparantibus indicis pofitionem ad va-, ria quolibet noftrum, haud foret unus et fimplex, fed adeo multiplex, quot funt illæ partes A, B, C. ' IIL Tertia tandem 'hypothefis evertit et judicii naturam ( num. I. ), et iotinram fenAita ( n. II. ) nec non fimplicitatem, et ilidivifi•bilitatem perceptionum (» iia, ). Regeri haud potefl, quo farta teffa fiat prior hypotKefis, illas partes A, B, C cpmmifeeri, vel in unam coire, -atque hinc judicium emergere. Non enim, nifi fumnrKa' ofeitantia, "effutiri ifta queunt. Quid fane iftud cft commifeeri ? profecto particularum fitus, pofitiooes, et tactus ad invicem immutari, et pei^ turbari. At non video, qu? hinc fiat idearum particulis illis feorfim infitarum collatio, et com. plexa omnium perceptio • adhuc enim funt illæ particulæ totidem diflincta fubjecta, et feorfim 'cxifientia. Illud vero akerum in unum coire pugnat cum naturali partium impenetrabil itate. Neque quidquam valet, quod incogitanter alii reponunt, cogitationem non partibus corporea? fubftantiæ convenire, fed toti fub* fiantiæ : non humani cerebri pattibus, fed ce* rebro,’ quod veluti unum totum confiderandmfi venit. Revera, quod totius nomine’ defignatur non eft aliud, nifi Mentis noftræ conceptus, plu* ra fimul fub communi aliquo figno, et notione, complectentis : atque adeo, quod dicitur 'P-2 *. • ' unum o ^8 psychologia' unum totum eft quid tantum ideale, non reale. Quod reapfe notioni totius refpondet, eft collectio plurium, qux propriam fingula, et ieparatam habent exiflentiam, quzque - proinde æque fe habent, five colIe£live, live feorfini cxillant. Ita' ex. gr. cum inquam, totus exercitus, totus populus &c., reapfe hifce. notionibus plurium, et diflinflorum fub;e6Iorum collectio refpondet, quat^, licet collecta,, adeo funt didi neta inter fe, ac fi forent fejuncta. Si propterea fubjectum cogitationis eft fubftantia corporea, plurium nempe realium fubjectorum collectio, jure, meritoque inferenda veniunt abfurda f^ierius notata. Quævis materialis fubftantia naturar fua eft iners,* modus autem agendi et cogitandi, qui humanæ Menfis eft proprius-, inerti* omnino pugnat. I. Nonne Mens vi fua, et fua libera fponte innumeros ii\ corpore gignit tn9tus, aliofque a caufta externa ipfi corpori imprelTos, vel ex mechanifmo pendentes cohibet, ac deftruit ? Atqui quid efl hoc, quod obluBatur corpori^ fi ni hU fumus prater corpus? cum fluvius decurrit in hanc partem, non potefi fua V» aquas fifterey aut retro flevere in contrariam partem. Materia nulla agit in je ipfam • nulla machina efl fuorum motuum, confei a ^ ex illa confeientia fuorum errorum torreBrix, et refor* matrix. Si errat, nefeia' pergit ^errare, donec ad‘ mota manu %Artificis, aut Domini in flatum reBum ordinatur f et reflituitur. Thora. Burnet. II. De stat, mort, O* refarr, c. J. II, Nonne %Animus fenth fe moveri, iJque dum fentit, illud et una fenth, fe vi fua non aliena moveri} Vividus'hic confcientiæ fenfus, cui contradicere nemo, nifi efFrxnati Pyrronii poffunt, Juculentiflime oftendit, humanam Mentem haud elfe poffe e genere fubftantiaruni materialium. Ipfe RoHflojus eo fenfu monitus, hanc veritatem fateri, coa6lus eft. Natura cuique animali imperat, et Brutum obtemperat. Homo eamdem Jentit imprefftonem,* at vero ft liberum agnofcit ad affentiendum ^ aut contra obnitendum ; et in intimo fenju bujufce libertatis ^nimtr fpiritualitas prafertim elucefcit In facultate volendi, vel potius eligendi, et in bujus facultatis fenfu nibil eji, quod explicari queat mechanicarum legum ope. Lockius, etfi non e grege Materiali-,ftarum, fententiam tamen coluit, qua non immerito vifus eft pluribus, Materialiftarum cauffam indire6^e egiffe.'Haud nempe conftare pronunciavit, num Deus vi cogitandi materiam ( subftantiam ex mente iua extenfam, multiplicem, inertem ) inftruere poffit, ficuti vi vegetandi ornaffe in comperto eft. Certe id opinans, aliquid humani paflus eft, nec fibi compar extitit : animadvertere enim facile potuiflet, Animx humanæ immaterialitatem ( fimplicitatcm ) fimili argumento conftabiJiri, quo ipfe,,Dei naturam immaterialem evicit (b)., u8. Porro Lotkianæ fententiæ falfitas ex P 3 ha- • * l, / J 'V* * /• V » ' ». Dircours sur l^inegalitedes iamiptefJ,part,p,'iQ^ (b) SJfai pbllof, cone. i'*nttiid, 'hum, l. 4. liancnus dl£)is luculentiffime patet. Rtvera » > cui no^ conflat, Deum non pqHe', qux fa«C intrinfecus iinpoffibilia efficere ? on$» ^8. Jam vero cagitandi^ 8 c agendi modus^, qui hu« manx Mentis eil proprius, nequit ulio pa£h> ConfiHere cum extenfione * foliditate, et drati ' diametros, elTe inæquales, contra vero ^ æquales diametros circuli. Ita in re noftra, fuf'‘ikit agnoviffe, cogitationem, fimplicitatem iqi 'Ente cogitante, requirere e contrario extenfiQ* nem, e pluribus coagmentationem : agendi facul- ^ tatem fua fponte, lua propria eIe6lione, et quidem libera ( qu* humanæ Mentis eft propria )- f^X iis, quæ haftenus profequuti fumus, difficile non eft. Mentis hu« ' manæ naturam et genus definire. Cum enim cogitationes, ac volitiones Hominis nequeant ef-fc e temperatione ODrporis: Rurfus> cum neque cogitandi, ac libere agendi vis, quæ hominis e ff propria, fubftantiæ extcnfæ, multi' plici, inerti,cojufmodi lunt quot quot ad ftnfibilem Mundum (peffant, cohvenire poffit ( art. 3. ): Agnofcere hinc cogimur fubje£fum noftratum cogitationum, et volitionum effe debere vere, & phyficc fimplex, ac alius prorfus generis, quani lunt 'Entia quævis fenfibilia. Neque fuipicari 'pofTumus, humanarum cogitationum, ac volitionum *fubje£lum e genere cfie elementorum corporflm., quæ ex noffra fentertia ( Materiali ftis tamen ncn accepta ), funt'& ipfa phyficc fimplicia,co/. Nam I. corporum elementa fola gaudere vi motrice ftatuimus, quemadmodum fingula phænomena edoctnt: cogitandi autem vis omnino alia eff a vi motrice, neque ut ejus 'temperatio quævis interpretari poteft. II. Corporum elementa funt natura lua inertia : inertiæ autem. pugnat illa cogitandi,* et libere agendi iacultss, qua fua natu« psy:hologia ‘ ra Mens humana juadet : id qiKxl ewncit quoI que, neque ex div na virtute corporum elemeB-'* lis Subjlantia nuncipari. 125. Opponunt Epicurei : I. Anima in ' corpus agit, et viciflim corpus in Animam. Similis ergo eft utriufque fubftantiæ natura: qut enim fubftantia extenfa in fimplicem, et viciflim, agere poflet ? II. Animi ftatus determinatur a ftatu corporis : ægra quippe eft Mens, triftis, lata, delira &c. juxta diverfos corporis ftatus • et e contrario, pluries corporis ftatus ex Animi ideis et modificationibus pendet. 12 ( 5. Refpondemus ; I. fubflantia extenja in Jimplicem agit ? (tf) Norunt’ ne melius Ad I nui ' Ii—. II l 1 i a K V Juxta opinionem quam in onrdiogia §. fequut^, fiimus, qu 2 v is fubftantia natura fua.fimplex eft, ipfa, corporum elementa vere fimplicia funt §.i6wC^/' stantiam ( fcilicet "Mentem ) agunt? In nostra ergo da* > fimplkitate elementorum tenrenria" evanefcftt omoino iHa' apparens contradidio, quæ primo occurrit, cum invicem^ conferuntur extenfio, qua; corporis est proprietas (( nem-^ pe_ phamomenun pendens ex plurium C0mristenria)^&fimpUeius; qu£ est Mentis.. \ .1 ’ ' •. Adverfarii, quf corpora invicon inter fe aganf, pufa, qu? magnes trahat ferrim ? Corpus equidem in corpus agit, neque ttmen de hoc phænomeno adeo fenfibus obvio, tot tantifque experimentis, et oblervationibu} undique expenib, probabilem, imrao verofimiicm explicationem protulere. Quid ergo mirum, fi æque ignorare nos fatemur, quomodo Mens ( fubftantia^firaplex ) in corpus, et corpus viciffim in 'Mejitem agat ? Itaque infeite nimis Epicurei ex hac «oftra ignorantia contendunt, unam, eamdemque naturam utrique fubftantiæ tribuendam. Simplicitas certe humanæ Mentis apodiftice cft dcnionftrata. Evidentibus ne demonftrationibus vai ledicemus, et in innumeras nos conjiciemus contradi6iiones, quia phænomenon, cui explicando pares non lumus, occurrit, aftio fcilicet Mentis in corpus, et corporis in Mentem ?( I -I ' * id) Mons fenfuuih confnetndir» abrepta nihil follicita 4St rationem, investigate reciproca; corporum inter fk aiflionis^ feque intelligere putat, quod profoiAo non inf teJiipit"*» Deinde reciprocæ aftionis notio, quam fenfuum ministerio nobis' comparavimus,* perpetuo stipata occurrit cum' idea fimilitudinis -naturse, Teu generis Entium inter /e a,{enrium. -ista idearum. adfociarione illuhs, tecl{HTOca Entium diverii generis inter fe a^io extra communes ideas vagari videtur ; atqui noonifi fumina infeitia, Si. temeritate inter impolIiblU» rejkl potest * $. * invenire (a) ? Sed d 6 hac re uberius infra €• differam. II. Harmonia, quam inter Animi, corporifque determinationes, et ftatus perpetuo experimur, non ex natur* fimilitudine, fed ex qua* dam reciproca utriufque fubffantix communicatione pendet. Sane cum Homo fit Ens mixtum, feu individuum ex Mente et corpbre conflans, ejus Au^or Deus utriufque fubflanti* naturas cudit, ac temperavit ejufmodi, ut mutuum inter eas intercederet commercium, alias biceps monftrum effeciffet. Commercium i(lud,feu mutua iftæc ani-. mæ, corporisque Temperatio in eo confiflit, ut nc- • queat Mens, quoufque in corpore degit, inlitarum fibi facultatum a 6 liones edere, nifi concomitantibus. quibufdam fibrarum cerebri motionibus.; et c- converfo, nihil queat in corpore ^effici, nifi affines in Anima refpondeant affectiones. Hinp fit, ut Anima flatura affumat corporis flatui affinem ; et e converfo, corporis flatus ab illo lyientis modificetur. Quo Adverfariorum oppofjtionibus aliqua poffer vis conGflerc, oftehdcn*. dum ipfis foret, impoffibile effe, fubflantias diverfi generis, et natur* in fe invicem agere, 8c quidem evidentibus rationibus, non infulfa, 8c ridicula captione : id haud concipi poteff, ergo eft impoffibile. De Commereto Animam inter Cf, Corpus attentionem ad ea, qusc 'in nobis ij perpetuo geruntur convertamus, deprehendemus I. Quoties renfuum organa rite funt -confHtuta, et actione 'externorom objectorum pultantur, toties Menti etiam n» appellatur. Præter hxc tria ^ nullum aliud lyftma nec eife, nec concipi poffe y videtur..... 4. Tria Jsc fyljcmata copcinna >fimilitudine, e-x duobii horologiis conlonantibus petita, illuftrari pount. Triplici equidem ratione fieri poteft, ut do horologia lint inter fe con. lonantia: i. per ifLuxum ^ fi nempe fecerimus, ut alterum in alrum 'agat ; alterum alterius motiones excitet ac determinet. %. Si quadam præordinafione it fapienter eas machinas perfecerimus, ut lingip luas exa£le legei fequentes, et quin in fe invjem agant, barmoriite fihi perpetuo refpondeani 3. Si opificem operi cwnitcm vigilem, ac perriuum 'adjiciamus, qiri fiugulis momentis alterii motum unius motui» attemperet, 3 c alterurex altero dirigat Erit modo opifex harrniæ inter utrumque horologium intercede s efficiens CaulTa, ipfa Vero horologia cauffauafionales. ff i • / V'' i ' sAdfi flentia SyfleMa.expendhu* f' ac' refutatHr. O Yftema adfiftw*ntk _^Malebranchium ‘ primum habet Aiflorem. Nc» torporm ( ita ille )non poffunt vera Cauffa ul' ' lius rei, Mentes etiam[ uciiiflima i» eadem ' verfantur impotentia. Nihil loffunt cogttofcere, nifi' Deus illas > illuminet. Nhil poffunt feriti're i nifi Deus- illas modijeet. Nihil pof' JuMt velle'' ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat, l' ‘. Cauffa naturales nor. funt vera eaufl ' t f a. Nihil funt \ quryn. Catffa oceafionales, qua non agunt, nifi vi, C? efficacia voluntadivina.. Hinc igitur concludendum efl, homines quidem.velle (movere trachium, fed Deum > Joium poffe, O" noffe illud nOvere. (a) r ^ 1^4. Alii moderatius opinantes lolam vim fentiendi corporis modificationes Animæ dene* . gant y et vira corporis motricem. Deus ; in* ', 'quittht, fenfationes Animat ingenerat ex occa. ” ^iione motionum corporis, nec non. motiones in corpore ex occafione volitionum, et affeflionum • Animæ, idque.conformiter legibus a.fe fiatutis: ^ Cæteras vero ideas ex (enfuu!n motidnibus miinæ- pendentes ipfa' libi Mens cudit meditatio ne, abfiaa^ione, ratiocinio ''&c. ex antehabiris tdeis a Deo imprciTis occafione motionum corpo. * i ' t-i r (a) Hecher. de' la veriti lib. fiuiem, chap, traif. /econd,>part. bG rfoph»nti vacuum, ac prorfuS ebramentititim videri" iftud OceaGonalidarum fyfteln^i’hihil dubito. Equidem, ut merito inquit Tullius, magna flultitia efi earumterum- Deos facere effe£hores\ 'Cauffas 'rerum nort quterere - quidquid enim' oritur, ' quaUcunque ilm tud sJt, cauffam 'hSbeat a ' natura^ neceffe eji. Sane Philolbphf V^ferum naturaliurii’' -cauffas ia« quirentes, haud Gbi proponunt primam', et uni« verfalem Cauifam determinare ( ecquis ignorat) rerum omnium Caudam primam, et univerfalem Deum eflel ), fed aliam pratter Deum quæ» runt, quæ Geuti a ‘Deo ipfo exidenttem lufce* pit, ita et ageriiii" facultate’ ab-e^em> prajdjta i propria, et i m mediata -phyGca actione effectum producat. ‘Porro in 'syflbmate-* adGftehtiæ" omnis bujurmodi caufla fubmovetur, Deus in raa* chinam advocatur. Vacuum^ proiade eft. hujufjmodi (ydfema’^, &“ philofopho indignum Nonno deridiculus eflet^^qui interroganti eccur Magnes trahit ferrum* eoalr" Maris aquas pene lenis quibufque horis '-intumefcaht, tu*!!! alternatim, ^tumclcant, gravittr refponderet, id ex ea ‘ Q.'' iti i, Dt' divinat.^ Si fieri, quod Deus, juxta ftatut.m fibi ipfi legem, ad magnetis prælcntiam, ferrum ad magnetem ipfum propellat, aqu s vero maris alternis vicibus elevet, ac deprimat ex occafione determinati aipe^us Luræ ? Ecquid philolophia iflEæe muliercularum infciiia, omnia ad immedia« tam Dei virtutem referentium, piæflaret? 1^6 Atqui, inquiunt, iniolubilis. alias eft nodus commercium Animam inter^ et corpus. QuaG nempe in adnilentiæ fyftemate perdifficilis hic nodus folvatur, non amputetur potius. Jam vero, quod Animæ, et corporis commercium fit, phænomenon inexplicabile, id trguit quidem,noftram ignorantiam, non, vero naturalis caiiOæ- deft£lum. Confer ont. - Deinde fi corpori.^ motiones nihil omnino conferunt ad diverias, Animi perceptiones, cui ufui dicemus fabricata fenluum organa ? Nempe,! inquiunt, iunt fenfuum organa eo refpe£fu, neceffana, ut ex. horum mutationibus, tanquam occsdk)nibus,.Deus juxta generales a ie fancitas leges determinetur ad Animaro diverfifnode modificandam:. Sed iUi^d yelim edoceant Occafionalilts,. mptationes, quas fenfuum organa fubitura Junt fiupt ne asione circumflantium, ac prementium corporum, tel immediate a Deo cx eorum occafione ? Si primum afTe> runt, jam cau^m produnt :. tribuentes enim corporibus a£f ivam- vim, qua inter fc agere queant, nuUo jure feofihus, deqegare pofTunt activam vim, qua in Animam agant. Alterum vero fi- fateantur. ( ut fciiicct ipfi jGbj fint confentanei ), inutilia efficiunt fenfuum, organa * quippe ex occafione circumflantium corporum 'poteft Deus illico fenfationes in Animam immittere, quin fenfuum motiones, ab iplb Deo>excitiaDdat intercedant. Nimirum in adverlariorum fyftemate circumdantia corpora lunt occafiones, Deo, ut motiones in fenfuum organis excitet ; deinde ha: motiones funt rurlus occafiones Deo, cur fenfationes in Animam immittat. Non ne breviori via, &' fapientiori confilio faftum. effet, fi 'leniationes immediate circumdantium corpo' rum occafionem fequerentur ex ipfius Dei aftione, quin fenfuUm. motiones intercederent ? Sane non funt multiplicanda, entia fine necelTitate, et fi^uftra fit per plura, quod fieri poteft per pauciora. Vel ergo. Deus inconfulto egit hominem fenfibus ornanda, vel noftrorum fenfuum, totiufque corporis exiftentia ludrica rescft. Con^ fer quæ diximus in nota iTq. ont..> ; 1. iir.. ' i ' ' Harmonia praflabilita fyflema a Lelkniti», . propqfitum’ exponitur y atque rejicitur.. i tV.' 1 i ; ' ' ' r i » i ' . T Eibnrtius, Vir et acumine, et fub^ ri*'-'!- limitare ingenii. nulli certe fe^ cUhdus, quo mirabilem Mentis, et corporis hatH moniam expediret, ita philofophatus eft. t Et r. quod ad Animas. fpe£lat, pofuit,i. Hominum Mentes vi fibi repræfentandi Univcrfum prædiras efre,& quafi mappam cofmographicam. interius geftare ; Nempe efle in continuata ferie cogitationum, et appetitionum ie ita excipiens Q, 2 tiura. ^4 PSYCHOLOGIA tium, ut quævis cogitatio contineat fufficfentem rationem fubfequentis : et quivis Animje flatus antecedens gravidus fit pofterioris. 2. Quamlibet Animam cx fua effentia, ac natura propriam habere cogitationum, et appetitionum, leriem, et cur potius talem, quam alteram.• Hinc Mentem automaton fpirituale dixit Leib; nitius., II. Quod vero humana corpora, refpicit, cen- fuit, I. quod vis corpus automaton effe vi, fibi. propria, et fua natura fingulas. fubiens motio-, nes etiam in continuata ferie, ut adeo quzvis: antecedens motio lufficientem habeat -rationem fabCequcntis : 2. nec noq ex fua natura habere, ut talem potius, quam aliam feriem motionum ceperit, profequatur, modificcfque juxta varias circumflantium corporum actiones, et cpnve-r njenter legibus mechanicis. III. Hilce pofitis principiis ita profequutus eft. Deus infinitas numero Merttes, et corpora fibi quam diftinftilfime repr*fentans, prxordinavit, eas': Mentes V caque Corpora confociai^, .quorum feries. operationum ac.flatuum perpetuo harmonicæ elfent, et apprime confentientes, Ex hat perfeftj operationupi utriufquf autotna^ ton harmonia fieri cenfiiit, ut videatur Anima in cqrpos-agerC, et vicilfim. At vero nihil inter fe mutuo agunt ; utrumque quam cepit ex lua natura operationum feriera, camdem vi fua perfequitur, et independenter a vi, et operationum Icrie alterius, quin nimirum, alterum in alterum agat: et ita, quidem, ut ufraque fubflantia. feu Autpmatop4^ Mcns fciJicct.^ corpus, eamdetn; operationum feriem cepiflTet, ac deinde perfequeretur, etiam Ci fejun£lim' altera ab altera exifteret, vel nonnifi alterutra tantum condita fuiflet. Ingeniofum equidem inventum, at extra communes ideas ; et quod nulli fuperex» fru£lum rationi, mere eft hypotheticum : Id quod et ipfe ejus Au£Ior, et acerrimi propugnatores WoJphius, et Bilfingerus ingenue funt falli. Sed expendamus utrum hominis realis naturæ, et phænomenis conveniat. 140. Principio ponitur in hoc fyftemate Mentem in continua verfari cogitationum feriO, quarum quælibet rationem fufficientem fubfequentis contineat / id porro eft, quod hominis realis phænomenis pugnare, et fine fufficienti ratione pronunciatum efle, perpetua experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*. nuenlis ; fumat quis i» manus Itxkum aliquod lingua alicujus, catalogum plantarum \ animan* tium, aut aliarum rerum, di£iionaria artium, fcientiarum, bifloriarum j intra- horam percurre» re poteji duo millia verborum idearum inter fs nullo modo connexarum, plantatum dljffimilium. animantium y artium, faStorum, hominum illtiflri* um. Quis ia omnibus his dixerit rationem pojte* rioris idea aut pereeptionis contineri in anteric» re y et non potius in imprejfionihus in fenfibus \ aut cerebro faflls ? Ex. gr. lego hac verba y '%/fa» ron,,Ari/lides y ^ri/lippusy * 4 verrobs y Buflris y Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y -Cefenates.^ Centaurus^.David y Delphus; Dido, Dantes, totidem,\obverfantur menti Q.‘i De Commento Animam inter &. Corpus attentionem ad ea, qua; "in nokis iJ perpetuo geruntur convertamus, deprehendemus I. Quoties fenfuum organa rite funt -confHtuta, et actione 'externorum objedto» rum pullantur, toties Menti etiam nolenti-* pras» fto occurrunt eorumdem notiones, et quidem > vivldai, vel confufæ in ratione irritationum in ipfis fenfuum, organis factarum, et ad cercbratn ufque productarum' II. Etiam Corporis.affe» ctiones in Animam redundare videntur,-_Mens nempe (latum adfumit corporis (latui afHnem 4 ita ex. 'gr.' 'læta eft, et viribus erecta-, (i corporis temperatio vegetior (it, et valeat • tridis e contrario, 5c veluti dejecta^^ corporis temperatione 'ientcfcente, torpentrbufque viribus; ha. bilis expedita in fuis obeundis operationibus, vel e contrario tarda, ac incerta,' juxta æquilibratam', Vel turbatam fui corporis conflitutioncm. ' III. VicifBm. Ex Mentis arbitrio extemplo’ torporis membra' motiones lubeunt, quæ nie-'^ ^anicJt- eorum (Iructutæ fuiit conformes, et io his r.|nvdiu durant, quatmdiu 'Menti libuerit. • ly. Nec' non Anjmj jdta:,& affectiones pluTimum modificant corpus', ut adeo in corpus ipfum manare videantur. Sic animo ira concitato rubent oculi, faciei et totius- corporis niu, fculi^tcpJunrur. Invidus alterius macrefcit rckus opirarn: &t..'-r, i»8. Hzc phainomena ne dum miram intercedere harmoniam oftcndunt Animam inter et corpus; fed et mutuam dependentiam ftatuere videntur, nec non arctiliimum vinculum, quo invicem inter fe con(ociantur. Equidem vinculum iftud, quodcumque tandem fit, ficuti præter noftri arbitrium feniel conftitutum cft:, ita prjeter noftri imperium, qupad vivimus, pergit, ac tandem diflblvitur. Ffthæc liartnonia, qua Animi affectiones, notionelque'* apprime rdpondent temperationi, ac motionibus corporis ab externa cauffa illatis,* et qua vicifiim corporis motiones atque ftatus, ideas, affectionefque Animi, feqUuntur, commercii nomine venit. Perdifficilis heic occurrit inquifitio; qui Commercium iftud Mentis &' corporis ablolvitur? Difficultas maxima in eo primum con* fiftcre videtur, quod Mens et corpus fint. naturæ toto cælo diverfæ ; deinde, quæ funt corporis, et fibrarum cerebri motiones, excitant in Anima perceptiones, notionesque ^ et viciffim, quas funt Animi ideæ, et volitiones, in corporis fibras, et membra, motum cient,. 'Definiuntur hypotbefes, ^ua hlfce fuperjirui pojfunt Metapb/fieorum fyfiemdta ad exptieandum Mentis humana > et Corporis commercium. y* mirabilem harmoniam Mentem humanam inter 8c corpus expen^ ». dens, ejus rationes inquirere fa i * tagit, protinus agnofcit jnonnifi alteram duarum sequentium 'hypothefiura pbfle affumi. I!, Vel nempe realem quamdam, et reciprocam in« ter utram que Tubllantiam actionem intercedere • ^ ut adeo Anima fua propria actione corpus mo» dificet, ac moveat: Sc viciflim corpus in Ani®i^m agens illam di verfimode aihciat, variafque excitet ideas : Vel II, nullum intereffe reale commercium • Animam inter et corpus, sed 1 tantum apparens • ut ita nulla fit Animai in, corpus a^io, et vicilSm corporis in Animam, Jicet^ ftabilem in utriufque fubftantiæ ftatu harv^moniam confiftere deprehendamus •'*, ' ^ Syftemata,qux priori hypothefi inædificantur ve/ pbyfici influxus de nominari merito poffunt, Altera vero hypothefis ad duo diverfi genens fyftemata abire cogit. V^l enim deveniendum eft ad quamdam prseordjn^tioncni a fupremo rerum omnium Opifice faflaip, qua dua! fubftantije, Anfma et Corpus, propri'i quidem vi, at fcorfim, quin altera ab altera ullo pa£lp pendeat, Tuarum aftionum fimilem -.A. « • 8c confonjtn lenem perhcientes, invicem lint confociatæ. et lyftema iftud harmoma ^rajlab‘f litte nomine defjgfcatur. Vel ftatuendum cft, Animæ, et Cor|^ri perpetuo adefle. vigilem et fatis potentem Cauffam, quse juxta corporis flatum', fingulafque fenluum determinationes, Ani- mam fimiliter afficiat, et conlonas iii, ea gigrtaf ‘ notionesj ac vicifim, juxta diverfum ' Anirr.as ftatum, ejufque dverlas determinationes limilitcr modificet corjbus, et varios in eo motus cieat' et hoc syft ma adfiftentite, vel- caUffa» rum occafionalium appellatur. Præter hæc triai,.» nullum aliud lyftema nec effe, nec concipi pofIc y videtur.., t. 4. 131. Tria h*c fyljcmata concinna \fimili- t tudine, ex duobus horologiis conlonantibus petita, illuftrari poffunt. Triplici equidem ratione fieri potefl, ut duo horologia fint inter fe coa» lonantia: i. per influxum^ fi nempe fecerimus, ut alterum in alterum 'agat ; alterum alterius motiones exciret, ac determinet, a. Si quadam præordinafione ita lapienter eas machinas perfecerimus, ut lingulaz luas cxa 6 le leges fequentes; et quin in fc invicem agant, barmoniee fihi perpetuo refpondeantj Si opificem operi comitem ' vigilem, ac perpetuum 'adjiciamus, qui lingulis momentis alterius motum unius mgtuir^ -attemperet, et alterum ex altero dirigat ‘. Erit modo opifex harmoniæ inter utrumque horologium intercedentis efficiens Cauffa, ipfa Vero horologia cauffa accafionaUs. n mod» ' corftrx ( ita ille )noa poffunt 'effe verg Cauffa ullius rei, Mentes etiam' uobHijfima in eadem ’ wrfantaf' impotentia. Nibil poffunt cognofcere ^ nifi Deus itlas^ illuminet. Nibil poffunt 'fentire / nifi Deus- illas modificet, Nihil pofjunt velle'- ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat. . Cauffa naturales non funt vhra eauf'V fie Nibil funt \ qutyn. Cauffa occafionaies, * qua non agunt, nifi vi, et efficacia volunii' divina... Hinc igitur concludendum efi, ‘' homines quidem. velle ^fio ne motionum corporis, nec non. motiones in corpoM ex occafione volitionum, 8? affeflionum ' •Animæ, idque^conformiter legibus a /e (latutis: ^ CaiTtras vero ideas ex ienfuum motidnibus mi^ ^1» ime- pendentes ipfa fibi^Mans cudit meditatione, abflEaSro&e, ratiocinio &c. ex antehabitis tfdeic a Deo impre,flis occafione motionum cor poRecber'. de la veriti lib. fiteiem. chap, treif. fecotui.-Part, t b,’.C *i’'‘i 8^ pdris Atqui Alii lyftemati caulTaruni occafio» nalium tenacius ‘adhærentes, has ipfas ideas a Deo 'infundi perhibent oc inodi lyftfema ; et philofopho indignum.' Nonno deridiculus effet'''qui interroganti eccur -Magnes trahit ferrumi' eocilr” Maris aquas pene lenis quibufque horis '-'intumefeant, tum alternarim ^tunfielcant, graviter refpohdcret, id ex ea ' ' Q ' " ' • -fie .(a) '• JL' i. De divinat. fieri, quod Deus, juxta ftatut,m fibi ipfi legem"'*, ad magnetis prælcmiam ferrum ad magnetem ipfum propellat, aqu s vero maris alternis vjcibus elevet, ac deprimat ex occafione deter« minati aipecfus Lunse ? Ecquid philolophia i Illise {nuliercularum infciiia, omnia ad iromedia^ tam Dei virtutem referentium, pt*Haret? i^S Atqui, ir^uiunt, infolubilis. alm eft nodus commercium Animam inter^ 8 c corpus. QuaG nem,pe in adfiftentis^fyftetnate perdifficilis hic nodus Iblvatur, non amputetur potius. Jam vero, quod Anim*, et corporis commercium fit,ph*nomenon, inexplicabile, id trguit quidem vjnoftram ignorantiam, non,vero naturalis catUiæ defe£lum. Confer ont. jzp. - J37. Deinde fi corpo^i$ motiones nihi^ omnino conferunt ad diverfas, Animi perceptiones, cui ufuj dicem.us fabricata fenfuum organa ? Nem{%,: inquiunt, iunt fenfuum organa eo refpe£lu. nccefTari», ut ex. horum mutationibus, tanquam occafiunibus, Deus juxta generales a fe fancitas leges }i MenS;fcili.cet et corpus, eamdem.: operationum feriem cepiflct, ac deinde perfe* queretur, etiam fi fcjun£lim' altera ab altera exifteret, vel nonnifi alterutra tantum condita fuiflet. Ingeniofum equidem inventum, at extra communes ideas ‘ 8c quod nulli luperex» fruftum rationi, mere eft hypotheticum : Id quod et ipfe ejus Auftor, et acerrimi propugnatores Wolphius, et Bilfingerus ingenue funt fafU.Sed expendamus utrum hominis realis naturæ, et phænomenis conveniat. §. 140. Principio ponitur in hoc fyftemate Mentem in continua verfari cogitationum fcric', quarum quælibet rationem fufficientem fubfequentis contineat,* id porro eft, quod hominis realis phænomenis pugnare, et fine fuffirienti ratione pronunciatum efle, perpetua experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*ruenfis : fumat quii in manus lexicum aliquod lingua aticujus, catalogum plantarum, animan* tium, aut aliarum rerum, di^ionaria artium, fcientiarum, bifloriarum j intra- horam percurre» re pote/i duo millia verborum idearum inter fe nullo modo connexarum, plantarum dlffimiliuni. animantium y artium y fa Siorum y hominum illujlrt^ um. Quis in amnibus his dixerit rationem pofie» rioris idea aut pereeptionii contineri in anteric» rcy et non potius in imprejfionibus in fenfibus i aut cerebro faSlls ? Ex. gr. lego hac verba, “i^a* tony tAri/lides, tAriftippuSy *AverroSsy Bufiris, Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y Cefenates..y Centaurus^ Davidy Delphus, Dido, Dantes, totidem.\obverfantur menti perceptiones y efl autem quis Adeo ineptus qui di» cat y rationem Jufficientem notionis ^ 4 rijlidis efft in perceptione fuwmi Sacerdotis » 4,ironis, */Triflippi notionis in i^rifiidey -^-verrois in x^ri/lip^ po &c,.... niji hac componant Leibnitiani y fciant y neminem effe adeo incogitantem, qui hac Jibi velit perfuadere. Sunt, inquiunt, rationes ^ uf^ fidentes, quas non pervidemus,* fci licet ita lu» dere cum pueris potuit renatus Pythagoras, ut jis una e(fet^.rat'Oy ipfe dtxit e at philofophis ut nova doSlrlna perfuadeatur, rationes faltem pro habiles reddenda junt rhefim rcfta in iciealifmum, tum et egoifi mum ducere. In animum quis ponat luum, Mentem automatoA elfe ejulmodi, ut vi et na. tura fua independebter a quavis extrinfeca cauffa in fua verfetur perceptionum fcrie, undcnam refcire poterit, fpe£labilem Mundum, ipfum* que fuum corpus exiftere ? Perceptionum feries, utpote ex Animi natura manans, eadem evolveretur etiam fa£la hypothefi, qua nullus exifle* ret Mundus, nullum ^corpus, nulla alia Mens. Equidem Animi ideæ realem libi vindicant exiftp^tiam, funt quippe iplius Animi modificationes, quas interiori fenfu perfentifcimus atque adeo de ideali Mundi exifientia certi efficimur. Sed cum hæ ideæ nullatenus ab extrinfeco pendeant, nullatenus conftarc poterit, extra ipfam Mentem cogitantem aliquid reale exifiere. Caujfalitatis jyfiema Peripateticum exponitur^ et exfufflatur.,. .,^^ AufTalltatis, feu phyfici influxu» V y iyflema a.Peripatericis peflime « Sc portentole expofitura i. duplicem Animas tribuit intelle6Ium, agentem unum, patientem alterum ; i. duplicem pojnit idearum, feu fpecierum naturam, quas imprejjfas dicunt, et expreffas. Hifce pofitis principiis, ita rem expediri putant. Externa objecta ftatim ac in corporis organa fenforia agunt, commotionem in fibris excitant, quz ad* cerebrum illico perducitur. Hanc fibrarum cerebri commotionem ideam materialem, et fpeciem imprejfam dicunt. Imprefla ifth*Ec fpecies ab agente intelleHu arripitur, et fpiritualiratur, feu in ideam vere talem, et perceptibilem convertitur, et in inteU ie$lu patiente exprimitur, a quo propterea percipitur • et hasc vpcatur idea exprtffa • Simili modo ungulas corporis affe£liones Animz communicantur. Quod vero fpe£lat corporis motiones ex Animi imperio derivantes, inquiunt, vim quamdam ‘ex Anima in corpus manare, et eorporatig^ari, ejufque membra agere juxta determinationem ab Anima acceptam. 145. Portentofam opinionem expofuifle, confutafie eft : neque enim operas pretium cft in ea diutius immorari. Alias ergo concipiendum cft caulTalitatis fyftema. Cauffalltatts fyjlema novo conamine expomtut, quidque tandem fentiendum fit de *^nima, Cr corporis commercio edocetur, 146. T Ictt cAuflaiitatIs fyftema feffime Gj i A a Peripateticis expofitum, Gaud tamen ab eo recedendum videtur j fed potius novo conamine, fi Superis placet purgatiori philofophia duce adriiti debemus. in eo, adornando. Sane cujufque phænomeni-'fua. fufficiens ratio effe debet. Cum ergo ratio fufficiens har* moniæ Animam inter-& corpus nequeat aliunde derivari, quam ex altero trium fyftemafum, feft cum coV. S cum ad hominem conftituendum natura fua fi deftinata. ;a. ; /«mnrU in ir. Quod vero fpectat " Animam, quid pugnat aflerere, A”'™" ' effe natur*, ut affici queat actione et tempe ratione corporis, ejulque y.m terminari ad vi T l^cu c)us natura fluentes a modificat, vl, et F^cu^ liari actione um ? (a) Nempe vis, qua fubftantia mate in alteram ejufdem natur*, agens ; receffum ( fcilicet motum ) gignit, m ulKra fubftantiam diverf* natur*, An virium, e qui“ if 1 r I I X.. ,^i, ' Nolim calumniam quis milii inferat ex hoc ex>•mplo. Quorfum exempla fpe^ent, norunt quotquot equo judicant )ove, quod femelmonuifle fufticiat. Quod ad prafens adtinet, aperte dico, vim plantjc vegetari* vam ex fumma virium omniurti fimplicium fubstantiarum, ftu elementorum, quibus planta coalefcit ) confla* ri i atque adeo yel diflblutis- planta; elementis, vel extra Ordinem pofitis, violenter aftis, diflbeiatis &c. v \s vegetariva deperit. Contra fe res habet de Anima, qiiat cum fimplex fit fubstantia j et una, viia^liva cogitandi expoliari non potest ; ad fummum in agendo obtundi poterit, neuriquam extingui j. fubstantiarum quippe natur* mutuis inter fe aflionibus modificari" quidem' poCftfht*J‘at deteri lifequeunt * i • bus actiones fluunt fubflantiarum, quibua vires, ipfa infunt, mutuæque excipiuntur actiones. At virium quarumvis incomperta nobis cft interior natura, et realis effentia, non fecus ac fubflantiarum, quibus illæ inlunt. Et quod ad præfens adtinet., fufflciat animadvertere, i,, fubflantiarum materialium nos 1 nihil aliud fci pe, nifi quod invicem in:> fe ij^^pt, et in feni' fus noftros y atque hinc varia^ Meati percipien». ti phænomena occurrere.^ 2. fimilit^ Jiumanæ Meritis nihil aliud no« fcire, nifi qnod.firnf* plex fit fubftantia, fentiens, attentjcns, fibi confeia &c. Cum igitur intimam realem effentiam ignoremus utriufijue generis fttbiftaqtiariHmyi. nec, non realem *:naturam virium ;iis ipfitprwinlU*'' hint profecto fierlt neqyit *, quia inexj^caubilCf fjt phænomenon commdrcium Animam inter et corpus, ejufque plendi foli^tio etttra hutnai nas ideas vagetur, ' , C^uo cpgo, inquies, philofophorun\ fpectant theoriæ, et fyftemata ? Nempe humanæ cognitiones jeapfe circa phænomena verfan-' tur, non circa phæriomenorum caufiTas. Cum enim phænomena vel quamdam inter ie habeant analogiam, vel qiKemdara nexum, tum alia fint aliorum modificatioæs* ; in eo totius- philofoi pbiæ fumma verfatur, ut phænomena peculia». rifl;.per pauca* quædam generalia, $c lingulis nota,' ex-po.oaraus, vel per eis fimilia, quæ, magi^ patent. Analyfis,ope Philofophi ex peculipri^ bus phacnomeYiis generalia,: quorum illa lunt, niodificationes ;; colligunt : tum inverfa metho»i do, quam fynthefim appellant, h?ec genepalifj phjEnomena pro principiis ponunt, 8 c in com. binationes, quas fubire pofTunt, inquirunt • atque hac methodo ratjonem adfignant peculiarium quorumvis phasnomenprum, qua; per illas combinationes poflibilia funt. Theoriæ itaque, fyftcniata, explicationes philofophorum &c. peculiaria refpiciunt phænomena ad certam claffem fpeflantia, quatenus ex primitivis, et generalibus phxnomenis derivari poffunt. Jam vero cuna quæritur, quomodo Anima in corpus, et viciffim corpus in Aninaam agit, patet, primitivi et generalis phænomeni rationem quæri, (icuti in phyficis fi quærerem, quomodo Planetæ in Solem, et Sol viciflim in planetas agit ; qui vegetantia, et animali^ feipia reproducant, et illa exhibeant phænomena, quaj cujufque funt propria &c. Cum ergo r. virium interior natura lateat * 1. nec generaliora, et magis fimplicia nobis pateant ejus generis phznomena, quorum reciproca Mentis, et corporis harmonia fit modificatio, nullam adæquatam, vel fufficientem illjus explicationem adfignare poterunt Metaphyfici. Quam ergo hac de re lupra expofuimus opinionem, et explicationem, mancam effe, et tenebris circumfeptam, ultro fatemur* fed ab ea haud recedendum putamus, neque ultra follicitos nos effe debere. 153. A£\ionem Animæ in corpus negant aliqui eo permoti argumento, quod ipHs ignota fit fibrarum cerebri textura, tum nervorum, et mufculorum per corpus dimanantium jorigo, quorum fcilicet ope finguls motiones cieri debent. At id nihil vetat, quominus Animam ex imperio (uum ciere corpus dicamus j quam enim ii£lioncm in corpus exercere Anima de* beat, et in quam cerebri partem, experientia edocetur, quin corpofis et cerebri texturam calleat. Sane videndus, pueros manus, pedelque &c. diu inordinate geftare, ad objefta parum, aut nihil dirigere Icicntcs, demum fuoram organorum ulum longa experientia edifeere. Concipe ab. ingeniafo qmdam tArtifice fontem quemdam ad artis mechanica, et hydraulica amufjim ita conJlruSum effe, ut quqmprjmum, ajfercuti, per quos aditus demum ad fontem datur, incedenti* um grejfu deprimuntur, occulto mechanifmo variarum rotarum y funiumque ope jub affer ibus a b-^ f condit orum, alia atqua aha mirifica f pectes, e fonte conjejltm profiliant y quales v. g. fontes Kirc herus, Sebottus, alii que dejeribunt. Concipe Jam tibi y puerulo ad hocce Jptbiaculum edmifjo.y cum hac adeurrit, "Neptunum cum tridente minaci obviam fieri y dum illæ, Nereides,* ex alia parte Glaucum marinum y alibi vero Delphinos ^ 0“ fic porro. Puer ifle mechanifmi abfeonditi ignarus, nec ad omnia praf entia attentus y non obfervabity fe revera asione fua producere bofce effe&uSy obfervabit tamen, ft adverfus eam partem procefferit y jemper fibi hoc potius, quam, aliud obviam fieri obJeCium : poterit igitur Jam pro lubitu hec phtrnomena moderari, ac fi v. g. Neptuni, ac Jceptri e/ufdem tricipitis contemplatione deleBetur y tff ere y ut prodeat y fi Jcilicet verfus certam plagam adeurrat. Nemo dubitaverity puerum horum motuum cauffam effe, ac aflione fua phre^ namena producere. Ve idearum, mfionumque nafura, afque origine. 154. TNquifitio, quam modo adgredimur, J. idearum notionumque naturam, atr. que originem expenfuri, adeo eft cum præce-’ denti, qu* commercium Animam inter, et corpus ifpe^abat, copulata, ut altera ab altera fejungi nullo modo poffit / et qui in una erra* veri t, in altera per devia pergat, oportet. Multiplices,'dilcrepantefque hac de re philofophorum fententia; nequeunt veritatis confecutionem difficiliorem, et abftrufiorem, quam reveræft, non reddere Quare hifcc modo pofthabitis, tres animadverfienes, quæ ad veritatem capeffendam fternunt viam, in anteceffiim exhibebo, tum rem ipfam expediemus; tandem prasx cipuas aliorum fententias fummatim exponemus, ^ breviter perftringemus,, \. ». i ‘ t/^nimadver/tones • prallmtnares ad idearum, ' notionumque natufam^ atque originem. ^ i'A •' expifeandam, ‘ 155^^ A J^trnadverfro I. Nihil Mens per’ " ‘jfjL cipere potaft nifi in feipfa. Id equidem loco axioraatj^ haberi poteft; five enim perceptiones pro aflionibus, live pro.paffioni» j- J bus Mentis haberi vcJint, funt profe£lo ) piius Mentis modificationes, et immanentes, non^effluentes. Nequit ergo Mens quidpiara percipere nifi in feipfa. • ' X ’ 155. % 4 mmad. IL Cum dicimus; Menteirt objefta externa percipere, ifthzc reapfe non* percipit. Si enim ita, cum nihil Mens pfercipere poflit nili in feipfa, vel Objecta, quæ dicuntur externa, in Mente *formalitcr contineantur oportet, vel ipfa Mens perceptis Objcftia intime fiat prasfens. Ambo hsc pugnant. ergo dicimus, Mentem externa obje 6 la pt^eiperc, reapfe oon percipit ipfa objcfta. §.rea' extra pofitas perci-^^ pere'. Nam i. Si ita: ubinam has rdeas, fcu imagines refidere' dicemus in Anima ne vel in cefibro Haud quidem in cerebro; nOi ^ * R quit l T> ai A( quit quippe Mens quidquam percipere, nifi.iii fcipfa i’ ; a. quævis rei -imago nihil eft aliud ^ nifi talis partium ^ difpofitio, ordo, figura, magnitudo &c., quæ fimilis fjt rei,.cujus eft imago. Si porro idtæ forent imagines rerum cerebro expictæ', minimæ cerebri,? fibrillæ tali ordine,>figura tu, colore &c. componi deberent, ut fimulacrutn rei Menti exhibere ppl^, fent. Sed nihil præter motum in, cerebri fibris adeftjcum Menti adfunt ideæ.Neqoeunt* igitur ideas efle rerum imagines cerebro expictæ.. Ad hæc g... qui Mens expictas cerebro imagines- iotuc'* retur, ipfum vero cerebrum nullo, modo? qua» fi,, nempe pofTit quifpiam pictas in tela figuras videre,. nec videre telanv ipfam, quæ eft figor»* rum fubjectum, ' Sed neque poffunt, ideæ efle. imagines Men* ti percipienti vinJi*ryites v Eft. «nim Mens fim pkx.fubftantia, icuinpfoinde addo pugnat. in faa(H| rere^imagines exfitbente6,aoagn»tudi«em, fig«9 wm, 'colorem ^ partiup ordindfn 8cc.^,. ac pu» gnat puncto gefwnetrico triat^lum, polygonum ^.&c. infcribi 4..Deinde rerum ideæ, cum Menti primo occurrunt, vel ; perpetuo eidem permanentes inhærent vel femel, perceptæ poft* hac pereunt, evanefcunt. Si primum Mens ' perennes, ac indeficientes habi^it...pesceptio* nes rerum olim perceptarum ; Qut -^aim.. fieri poteft, ut pictas, fibique adhærentes-, 8e immanentes ideas non -advertat? >Si altecuBL, cum- n*i queat Mehs-objecta- percipere nifi in ideis - hiic« cvanefcentibus, non poterit Mens ad eatumdem m nun modo abfcntium contemplatiojMlblvdire^ntfi iiu r». js.ite« Malebranchius omnem agendi vim Entibus creatis denegans, Mentibus etiam' ademit facultatem fibi cudendi' ideas. Hoc autem potiflimum argumento rem conficere fibi fuafit. R 4 Ide» («) Sed hac difficultas ipfum premit A uflorem ideas a perceptionibus fecernentem. Quis enim ignoti objefU expreflam imaginem intuens, objeftum illud in imagine recqgnofcere potest? Non magis profeCTio poterit Mens in idea feu imagine ipfi oblata objeilum, quod ignorat, recognofcere et perpetuo ignorabit cujus fit obj'efti iniago illa, qua ipfi obverfatur ^ nifi aliunde, feu extrinfe* cus moneatur. to+ Idea: :unt ver* realitato: imrao funt realiti-' tes ipfis corporibus nobiliores, quippe fpirituaJes. Harum itaque produaio nihii diftat a creatione Nequit vero Entibus creatis facultas ereandi ullo paao convenire. Nec iaitur humana’ p >*as libi cudendi. V Equidem Ide* funt ver* realitates. at Wa/es ut inquiunt Pbiloiophi, non Mfiam. ah, : feu non funt totidem fubftan- ' •’.P" j', lid totidem Mentis coptantis affeaiones,, feu modificationes, cu julmodi funt volmones, et nolitiones. CunC Itaque communi Phdofophorum fenfu creatio fit fubfiamiaimm ptodua.o ea nihilo: idearum pro. duaio toto calo dillabit a creatione, et „ihil vetabt.eam. Anima; tanquam effearici caufTa;, adjudicare. Re quidem vera, ide* refpcau Meo. tis perinde fe habent ac volitiones, nolitionef. que r utr*que enim funt >/us, modificationes. Si Idearum Produaiva facultas Animæ repugnat, que pugnabit ipfam Cbi ede iuarum volitiol num efreancera caudam, eritque.Mens crudus, putufque later. Quod fi volitiones merito Ani' Z’ 31 “"' f ‘"‘>“'"d* veni, unt nihil profeao vetare poteft, qui„ eidem adjudicemus facultatem fibi ipfi cudendi ideas. Quadam Pbtlofopborum placita, qttof idearum I JpeBant originem fy breviter exponuntur. \6j. idearum origine communior xn« I ^ fer Peripateticos Tententia fuit, Nihil effe in intelleBu, quod ^ius non fuerit in fenfu : omnes nempe ideas primam petere ori», ginem ex fenfuum minifterio. Atqui fententiam iftam per duplicem intelleftum agentem y ^patientem exponebant. ; qu* quidem hypothefis purum eft, putumque figmentum a communi abhorrens ritione. Malebranchius de idearum origine fingularem prorfus fententiam coluit. Hic fuo inh*rcns fydemati, etiam nobiliffmas,in ea ' verfari impotentia, ut nequeant effe vera cauffa ullius rei, commentus eft, nihil eas c»m gnofcere poffe y ni fi Deus illas illuminet 133. Nempe ut alibi {a) clarius.* Sciendum eft, Deum mentibus neftris prafentla Jua arhlijpme uniri » adeo, ut Deus dici poffit locus fpirituum y quem» admodum fpatium eft locus corporum. Mens itaque in Deo poteft videre opera Dei y dummodo Deus velit ipfi retegere id^ quod in fe habet, quod illa reprafentat opera y nempe ideas, quas in fe habet. i6p. Atqui Humanam Mentem omnia in Deo videre, adeo communi fenfui occurrit, ut ne - *..4 •' dU . R^her. de la verit. l. Jt p, z, ch. 6 4 nemo Sapicntum fententiam iftam adunco nor exceperit nafo : nec fine ratione, etfi injuriofe. de eo d:clum fuerit, Ipje, qui omnia in Dec cernit y haud videt fe injanire '{a). Quifque-^intciligit, fententiam iftam, præter cætera, quid* piam ftatuere, quod cum Dei bonitate et fapientia minime congruere potefl: *' tum rcfta ad pantheifmum ducere. 170. Plures e Cartefianorum familia triplex idearum genus (latuerunt:, qua* 'nimirum Menti occurrunt ex occafione motionum in organis fenforiis excitarum ab externis '^objectis; quas nempe Mens fibi cudit cx adventitiis ideis • tandem innatas, quas fcilicet, neque fcnluum fubfidio, neque reflexione partas, rentur : fed a Deo Mentibus noftris ab ipfo exordio veluti infculptas, ac perpetuo immanentes arbitrantur. Sed innatas, quas dicunt, ideas, commentitias prorfus e(fe, binis verbis oftendi poteft. Vel enim has ideas idem funt ac perceptiones, vel forms et imagines a perceptionibus realiter diftinctas. Si* primum, inerunt Menti tot perennes, et fimultaneæ perceptiones, quot funt ideas innatas j quod profecto interiori experientias refragatur. Si alterum, contra faciunt, praster alia, quas §. 158. monuimus. Deinde nulla cft fufficiens ratio, eccur præter adventitias, et factitias ideas, alias, quas fint innatas, agnolcamus' cum conflet, nullam omnino (a) Lui, qui voit teut ^en DitUy nt^voit paSf\qu* il eji foH.. ’ J no ideam Menti inefle, cujus exordia c fenlitiva, et reflexiva facultate nequeant quam facile repeti. Vide, fi lubet, fufe hæc pertractantem Lockiinn. Efjftff philof. cone- l' entend, htm. Q A p. X. Ve Animæ bumanæ origine. L ket humanæ Mentis natura, feu potius genus, philofophia duce. li quido confiet, ejus tamen origo adeo tenebris cft circumfepta, ut potius, quid fentiendum non Iit, qu»m quod tenere debeamus, intelligere detur * V. E veteribus Pythagoras docuit, Deum cGo •Animum per naturam rerum omnem inten~ commeantem,. ex q»o mflri animi car tum perentur (4). Huic turpiflkno.errori adhæfiife videntur Stoicorum aliqui, ut ex Seneca, et Epicteto difeimus/ eqmque jam obsoletum itenun exfufeitavit Spinoza. Hujufce fententiæ abfurditas.tam clare patet, ut illam refutare nec.operæ pretium duco,., Plato,. qui inter veteres cateris rc. ctius de Deo philofophatus efi, Animas a Deo conditas docuit, licet eas quafi partes Animat' Mundi totius habuerit Id vero Pythagoreis, et Platonicis commune erat, humanas Animas primum aftra incoluiffe, et felicem ibi yitam du- Tullius lib, I. ile nat. d«or. c. ii. tduxifle: hinc vero expulfas, et in humana corpora tanquatn in carceres, detrufas, quo commiffi criminis pznas lucrent: tum ad adra iterum redituras poft corporum diffolutionem, fi mortalem hanc vitam jufte, et fobrie duxerint, vel in deteriora corpora migraturas, fi novis criminibus fe obruerint. Hinc celebris apud ifios Philofophos Metemp^ycbo/is. Atqui Stoicis nec Animarum incolatus in aftris, neque earum de corpore in corpus migrationes arridebant ' fed illas pofl: terreni corporis fata ad Eteum, e ‘ quo' dificerptæ erant, iterum redituras afferebant» ^ 175.i^Orlgene^ nimio e.^ga platonicam philofophiam ametrtr’ abreptus Pythagoræ Plato, nis fententiam emendare ftuduit. Docuit itaque, Ani mas' nec Dei emanationes effe, nec partes ab Anima Mundi avulfas, fed a Deo ante corporeum Mundum’ oijines fimul conditas fuiffe cum intelligibili Mundo • has vero peccaffe a CxmJitort feceiendo'. hinc pro diverfitate peccatorum a Cteiis' ufqne ad terras diverfa corpora, qua fi vincula, meruijfe. Et hunc ejfe mundum eamque cauffam Mundi fuiffe faciendi^ non. ut conderentur bona., fed ut mala cohiberentur. Sed hacc deliria funt, quæ nec refutari merentur. Leibnitius, Animarum præxiftentiæ et ipfe favens, aliter rem explicavit. Putavit nempe, Deum ab ipfo rerum initio omne$ Animas creaffe, ac fingulas totidem organicis corDivus Augujt. Lib. XI. De ejvitat. Dei cap.sj* lop pufculis inferuiffe. Hzc iUnt germina humana, quJB juxta involutorum hypothefim, olim in JEv» ovario pofita, e Matribus in filias tradu- cuntur. Sententiam hanc Wolfius ambabus ulnis amplexatus eft.• tum Cl. Carolus Boanct fuam fecit. Atqui licet primo adipectu, quo ab hifce Auftoribus commendatur, haud philofopho indigna videatur, fedulo tamen pcrpcnfa, et fuas patitur difficultates. v Tertullianus, et Apollinaris putarunt, humanas AninTas e parentibus in filios per traducem propagari; hoc eft Animam >h ilii partem efle Animaj parris,' quæ 'filii corpufculo in matris utero delitelcenti communicatur, et /incffabilirer conjungitur. Sed ifthæc fententia cum Animæ natura, quæ fimplex omnino eft, et cujuivis phyficæ coagmentationis nefeia, nullo modo conciliari poteft. Communis tandem fententia, et profefto fanior, eft, Animas humanas in dies a Deo creari, et cum tenera fetus corpufculo copulari, cum iftud fufficientem partium evolutionem, et organizationem obtinet, qua par fit ‘ad præcipuas vitales operationes obeundas*.-i ! f ’ ‘i. Pa/igini/ff philofo^h. Annihilatio creationi, et confervationPe diarrietro opponitur. Illa erqoCaufia folum. potest aliquod Eas annihilare, quæ illud creavit, et perenni a^ioce confervat. Sed hujufmodi est tantum Deus: omnes ' tlniveiii Cauffie funt contingentes, quæ nec fuæ existenttæ, et confervationis fufficientem in'fe habent rationem. Facultas igitur. quidpiam annihilandi nequit ulli, naturafiuna cauffarum convenire. (c) Lib, L tufe, f. jp. ' •dubitare non possumus, nl/i pla*tf plumbei fumus, quin nibil fit %dnhnls adrnix» tum, ntbil concretwn, nihil copulatum, nihil ngmentatum ^ nihil duplex quod cum ita, fit y qette nec jecerni, nec dividi, nec difcerpi^ nec diflrahi pote/i, nec, interire igitur. EJI enim in» iefitus qua fi difcejfus,, &, fecretio, ac diremptui^ earum partium, qua ante interitum jun^ione 'gl poribus funt interfipta quod.rnimfdo : cum autem nihU erit prteter v/Ltimum, nulla res objeBa im^ pediet y quo minus percipiat quale quidquam fit. Ita eleganter Tullius tulc. 1. i. c. zo. {a) l et R T. ir. Mentem humanam ex fui Conditoris voluntate infpeBam immortalem effe, naturali ^ ratione affevitur, . T TUmanam Mentem natura fua in* J. X corruptibilem atque immortalem clTe, neque ullis^ naturalibus cauffis fieri pofle ut pereat f jam evicimus. Hzc ratio ingenue philofophanti fatis foret^ quominus de fuprerni Conditoris voluntate, illam immortalem fervandi f non ambigeret: nullum enim 'in uni verTa Natura occurrit annihilationis exemplum j nec quidpiam efl, quod^a fummo Conditore S z non (a) Plures eit antiquioribus Phiiofophis, et ex ipfis Ecclefia; Patribus, quibus incorporalitatis, et iinmoitalitatis Animorunj dogma probatum erat, opinaii funt, humanas Mentes nunquam omni corpore vacare:* ut adeo, cum ex ifthoc cra^o, et corruptibili corpore diflolvuntur, adhuc leviflfimum, ac tenuitTimuin, live æthereum, et incorruptibile corpus geftent, eoque lint perpetuo amidse. Sententiam hanc inter Recentiores litam fecit CI. Vir Carolus Bonnet, et communivit noti contemnendis rationibus ; quam, cum In pluribus locis, tum pr^fertim parte XVI. paligenifie philof. et.-. pofuit. Si quis in hanc fentenriam defeendere velit, ^ Adveriariis morem geret, et «na fjmul objeilain didir «ultatem elevabit. itS non fervetur juxta propriam naturam, et ad fuos non dirigatur fines. Atqui profani homines, eam non latis effe, contendunt, nec non dolofe effutiunt, Animæ immortalitatem problema efle, qjuod nequeat fola philofophia extricare: ad Divinam revelationem idcirco confugiendum neceffario effe, ut conflare queat, Deum pod corporis obitum nolle humanam Mentem delere, fed,''velle in æternum fervare. iSp. Ut iflorum levitatem perflringamus, animadvertant Tyrones, quod quandoque etiam abfque revelationis face, fed Ibla naturali ratione Divina Voluntas nobis conflare potefl. Etenim ficut naturali ratione plura nobis patent Divina attributa, ita conflat quoque, non pofTe Divinam Voluntatem ab illis attributis vel minimum defcilcere, fed iis plane conformem perpetuo '•effe debere. Si adeo quidpiam Divinis attributis repugnare clare nofeimus, tuto poffumus decernere, Deum nunquam id velle : et e contrario perpetuo velle ea, fine quibus farta tc6la conliftere eadem attributa non poffunt. Hujufmodi porro cfl immortalitas Animorum, quos fi pofl corporum diflolutionem Divina Voluntas deleret, nequiret Dei Sapientia, Bonitas, Juflitia, ac Providentia farta te61a permanere. Rem expendamus. ^ 1^. ipo- I. Naturali ratione pleniflime nofejqaus, potiffimam Sapientiæ legem eam effe, ut fingulorum Entium Naturæ fuis exa£le attemperentur finibus, ut ita nec a præflituto fine, deficiant,- nec ultra redundent, vel extra vageUtur V Quare ficuti ex noto fine, de Entium na Diuiii4tj . fuprerai Numinis revelationem. Audi ut h«c eleganter profequitur Romanus Philosbphus tufc. qq. c. Maximum argumentum ejl, naturam iffam de immortalifate Animorum tacitam judicare » quod omnibus curttf funt y maxime ^quidem y qua poft mortem f utura Jint: ferit arbores, qua alteri Jeculo projit, ut ajt St^tiut in Synephebis: quid fpetlans, nifi etiam poflera fecula ad fe pertinere ? Ergo arbores feret diligens agricola y quarum adfpiciet baccam ipje nunquam : Vir magnu» seges y injiuuta, rempublicam non feret i Quid propagatio nominis l Quid adoptiones filiorum f Quid teJlamentorum diligentia l Q*dd ipfa f^ultrorum monumenta f Quid elogia figritficant, nifi nos futura etiam cogitarel.-- Quid in hac republica toty tantof que viros ob rempublicam interfeSos cogitaffe arbitramur f iifdenx ne ut finibus nomen fuum, quibus vita terminaretur f Ne/no unquam fine magna fpe immortalitatis fe pro patria offerret ad mortem: licuit ejfe otiofo Themiftocli \ 'Jicuit Epaminonda y licuit, vetera y Cb* externa •moram, mihi ; fed nefeio quomodo inharet in trpinti%us quqfi feculorttm quoddam augurium futurorum; idque in, maximis ingeniis, dltijfmifque animis ^ exiJiit maxime, iy adparet facillime ; quo quidem demj)to y quis tam ejfet amens y qui femper in laboribuSy iir periculis viveret' \ loquor de pfinctf ibus : quid poeto t nonne poji mortem nobilitari volunt t Unde ergo illudf " Afpicite 0 cives ! Senis Ennii imagini’ formam; Hic ve*»rum panxit maxima fafta parnm). Mercedem gloria fiagttat ab iis, quorum patres ^ff)' terat gloria -, idemquey -• Nemo ire lacrimis decoret, nec funera fletu > Faxit : Cur? Volito vivu’ per ora virum. Sed quid poetas l Opifices pofl mortem nobilitari vaiunt quid emm fhidias fui fimUetn fpeciem inculfit ‘ • • >,. 'in-. ' ip2. IV. Ad Divinam Ipcflat JufHtiatn'^ atque Providentiam hominum virtutes muneribus ac prsEmiis ex merito cumuIafC : ficut c contrario condignis' poenis '“eorum fl gitia corripere. Eft enim duplex in Univerlo OrAn: phy~ ficus nempe, ac ^moralis 8c ad utrumque Homines procul dubio,, fpt£Iant Si quis hæc in "Controverfiam adducit, peflime fe de Deo.fendre^oflendit, quafi hic cardinem c*li ambulet, A n.oftra non confideret: et \r\'*athe'tfmum fivO IJrolapfum elTe, five jam jam prolabi. Sed experientia Pedante, Kominum virtutes, ac flagitia admodum raro condigna pr^mia ac p»na« copfequuhtur : ut adeo vetus Iit iquærela', latos idiu florere nocentes, vexarique pios. Divina ergo Juftitia ac Providentia utique expoftulant * poft torporum obitum Mentes adhuc • lervari ia .vilam, ina qua bene vel' male TaSIorum præmin /ecipiant, poenafve luant. Hajc cum naturali conflent ratione, concludere non dubitamus., 'plurali quoque" ratione conflare fu mmi Condi‘lofrs voluhtatem de ‘humana Mcnte in æternum servanda. ' / *in ! "-. l '• J 'i' i . ' ! 3. ' ".au ' :v. ( I»»» ^. 1.. III i mu iii m ^jWii I. Tufe. qq. I. I.. f. X6, '., \ib) ^, fr) Jn fomn. Scip. /. I. e, X4, > •., (,d) "XmIUhs Iw. cit, f. 12,, 1, w P */f R S ilu ^.R T ^ y’ Ei ‘ nomine inteJligimus Men» 'n 4 tcm naturæ fuæ nrceffitate ex i flentem, atque adeo aster aW,®>S af^isiiaSce AK -omni materiali coneretione fejunfbm, perfe^iffimam, effectricem et liberam Univerfi Cauffam, ' et omnia providentem. Equidem Dei notio fu^ conceptu primas Cauffas efficientis Mentibus noflris primum occurrit,* banc poflmodum rectæ rationis ope rimantes prolatamus, et attributis, quæ omnimodam continent perfectionem, locupletamus. Atqui tantum abcfl, nos adæquatam adfequi poffe pei notionem, eamqu.e verbis exponere, quantum finitum inter, et infinitum intercedit. Quf verbis complectemur-; quem natura iua et effentia undequaque infinitum nulla creata Mens comprehendere valet Hinc, ingenue fatendum, aul%*’^ nulla definitione Dei naturam contineri pofle. Facultas, quæ Dei exiftentiam, ejus«. que attributa rimetur, Theologia audit, quæ in naturalem^ et difpdcitur. Prima de Deo differit quantum naturali ratione adfequi poffumus. Secunda revelationis' face myfteria pandit, quæ ultra naturalem rationem lunt pdfita. Priorem heic perfequemur, quippe quæ fola ad Philofophos Ipectat, 4. Nobiliflimam vero, ac jucundiffimam hanc efle totius Mctaphyfices partem, nulftr* ambigere poterit. Quid enim pracftantius, quid- ‘ >e jucundius, quam rerum omnium Opificem, præfentiflimum totius Univerfi Moderatorem, ac noftri præferrim Parentem optimtim contemplari? Si quod ex cæteris difciplinis folatium, atquC' in adverbs perfugium, in fecundis rebus animi moderamen, et ornamentum capere poffumus.'inhatc profecto cynnia ex eapotiflimum uber- / Merito Thales Milefius, ut Tertullianus refert, a Crefo qua:fifus, quidvefTet Deus, post multas et multo, studio perquifitas refponfiones, faffus est tandem, fe nihil adeurare, quod ad rem quadrarer, dixifTe. Idem de Simonide testatur Tullius de nat. Deor. 1. zi.' Roges me, quid, aut quale fit Deus ? AuBore utar Simonide : de quo cum qu/efivijfet tyrannus Hiero, deliberandi cauffa fibi unum diem pojiu/avit. Cum idem ex eo poflridie quareret, biduum petivit. Cum fapius duplicaret numerum dierum, admiranfque Hiero requireret, f«r ita faceret : Quod quanto^ inquit^ d’utius confidero, tanto mihi res videtur obfcurior. Hinc perfpecte monuit divus Augustinus, nihil, quod de Deo accuratius prsdlcemos, nobis occurrere poITe, aiC quod U^oiopt^CniibUis fit. naturalis uberrime confequi poifumus, qu* omnium Lan. gitorem bonorum, rerum omnium [nfpectorem, et Proviforem optimum pandit, et in ^uo nos efle, vivere, et moveri edocet. Tum nihil ea utilius in univerfa vita civili.* nequeunt enim ! fine legibus, et religione in officio cives contineri n arbitror^ inquit, multas ejje gentes fic immanitate efferatas, ut apud eas nulla fufpicio deorum fit Cic. de nat. deor. c, 2 ^. Arbitrari fc, non noviffe, aut fando faltem inteUexiff?, repoluit. Nullas proptcrea tunc temporis innotuiflfc Gentes fine. Divinitatis perluafione, tacite fatetur. II. Lucianus, acerrimus equidem Divinitatis, et cujufvis religionis ofor, in dialogo, cui titulus Juppiter tragadus difputantem inducit Timoclem religionis cauflTam, et afferentem Gentium omnium hac de re confenHira; at quid Timodi reponit pamides, fub cujus nimirum nomine Lucianus 'latet ? Conftahtiffimam, percnnemque gentium confeufionem fibi objectam ne carpit quidem ; ejus tantum vim ad demonftrandum, et perfuadendum elevare conatur adductis futilibus omnino excogitatis, qua mox exfufflabimus. Si quas Gentes exleges, et a religione extorres Lucianus noviffet, aut fando audiviffet, nura ne fcirpum in ovo firaulaffet? illas profecto objeciffet, cum nihil hoc opportunius ad extenuandum Timoclis argumentum afferri potuiffet. Atqui in diverfa abit Lucianus * dat ergo quod afflv.Tamus, nullum unquam hominum genus Divinitatis notitia caruiffe. Adeo nimirum Eruditis quibusque innotuit, quod Piutarchus clegantiflime contra Colotem difputabat: Si univerjam peragraveris terram invenire quidem poteris urbes sim moenibus, sine litteris^ sine regibus, abfque teSio divitiis, abfque nummis, theatris, gymnasiis. urbem sine templis, ^ sine Diis, ^quie precibus, jurejurando careat. nemo Videt, nec vidit unquam. Quantum vero ponderis ad demon» ftrandum, et perfuadendura univerfali Gentium omnium confenfui tribuendum fit, in Logica aperuimus. Rc quidem vera, ea cfl hominum indoles, 8 c ingeniofum conftitutio, ut, fi de re vel minimum obicura, dubiaque judicium ferre de, beant, tot fere numerentur fententisE, quot capita : id quod totius humani generis, fed et præcipue philofophantium hiftoria edocet. Si itaque quandoque omnes Gentes quacumque tellus patet, omnefque Seftas', licet in cæteris admodum difcrepantes, convenientes omnes ad unam deprehendimus ; id, in quo conveniunt, vel communis naturæ lenium, yel naturalis rationis evidentiffimum præceptum, habere debemus. Eft vero omnium ubique Gentium univerfalis et perennis fententia, aliquem effe rerum omnium Opificem, et Rtftorem. Deum ergo exiftere, inter prima humanæ rationis fcita, vel potius ad communem naturæ fenfum referri debet. Ad rem noftram elegantiflime Balbus apud Tullium. Quid enim ejl hoc evidentius ? Quod niji cognitum, comprehenfumque animis haberemus,, »0» tam flabilis opt“ nio permaneret f nec confirmaretur diuturnitate temporis, nec una cum jaculis, atatibufque hominum inveterare potuiffet. Etenim videmus cteteras opiniones fi^as atque vanas diutuVnitatp extabuiffe. Opinionum enim commenta delet dies, natura judicia confirmat \ 12. Neque fcrupulum faceffat Tyronibus, j. quod quandoque penes hiftoricos athearum Gentium meotio occurrat. II. quod infignes ex t Ve 'i:^o Veteribus Phllofophi inter Atheos reccnfeantur ; Uti ex. gr Anaxagoras, Diagoras, Protagoras Anaximander &c., quæ fi vera lunt, haud conflare videtur univcrlalis humani Generis confen» liis de Supremi aircujus Numinis exiftentia. Hæc equidem nulJius funt momenti -I. Hiftorici etenim grajci, et lati ni, dum Africanas, aut Afianas qualdam Nationes inviferent, nec templa, idola, immenlumque externarum ca:rcmoniarum apparatum habere animadverterent, Velut quæ antiquo more fub dio, et fine ulla pompa Deo facrificarent, quemaamodum de veTuftis Parthis retulit Herodotus, in eam venerunt fufpicionem, nullos ab iis Deos coli. Quid quod iidem Hiftorici idem fecerunt cum Judæis, et Chriflianis ? Accedit eodem, veteres mercatores, aliofque itineratores aut infeies morum earum Gentium de quibus feribunt, aut non fatis peritos, ut pretium fuis mercibus, fuifque itinerariis adderent, atheilmi, et irreligionis infamia illas prafpropere notafle ; qu* deinde portentolse fabellæ novitatis amore, ut fit, creditæ funt Hujufce rei exemplum temporibus prope noftris de Huttentottis habemus. Hi primum pro Atheis in Europa vulgati funt, et habiti.* at fummum illos agnofeere Deum, reflatur Andreas Kolbi in hiftoria ejus nationis, quacum decem annis familiariter uius eft. Philolbphi veteres, qui inter atheos reputati funt Confulatur Johannes Albertus Fabricius in ApoJogia Generis humani adverfus accufationem atheifnu THEOLOGIA i?i funt, nonnifi fumma injuria hanc pafli funt infamiam. Conftat, Anaxagoram atheum e ffe habitum, quod Solem e Deorum numero expunxerit, et ignitum habuerit faxum. Conftat, Socratem de Divinitatis natura prx cacteris bene fentientem, (limma invidia, et lethali calumnia atheifmi accufatum, cicutani bibifle. Protagoras i inquit Tullius 1: i. de nat. deor. c, xq. cum in principio fui Irbri sic pofuiffet. De diis neque ut sint\ neque ut non sint, habeo di^ tere, ^Atheniensium juffu urbe et ‘ttgro eft exterminatus y librique ejus in concione combufti, quippe— atheus reputatus eft. Atqui, ut patet, Protagoras de diis, qui a plebe venerabantur vulgo autem Philofophis, qui præjudicatis opinionibus haud tenebantur, dcfpectui erant, lo» 'qjyitur; non de Divinitate, leu de Deo fummo rerum Opifice. Idem de aliis dicas.♦ folum Epicurus inter atheos recenfendus videtur, etfi de Epicureis nihil certo conftet, quippe Tullius 1. cit. c. qo ija habet, novi ego Epicureos omnia stgiUa venerantes. Jam vero quilibet, cui coit fapit, optime intelligit, hujufce gregis opinionem, etfi indubie Divinitati aveidam fuifle jjonamus, nihil communem perennemque humani Generis fententiam labefactare pofte. Sicuti enim in M-tindo phyfico peculiaria quædani monfira quandoque occurrunt, qua; nihil de ordine totius detrahunt: ita fimiliter in Mundo morali fieri poteft. Igitur inter opinionum monftra, febrientium deliramenta ifthxc Epicureorum fententia reponenda eft^, quæ nihil de communi humani Generis fenfu detrahere poteft. Allati fuperius ^ 10 argumenti vim non fugit profanos homines* hinc omnes intendunt nervos ed earh elevandam. Quare operæ pretium eft, quæ objiciunt potiora, referre, et explodere Inquiunt itaque I. Si ex Gentium confenfu aliquid confici poffet, equidem potius conficeretur, polytheifmum efle profitendum : nam huic coeno omnes infixas fuerunt • Atqui nihil magis Dei naturam, quam polytheifmus, evertit. Quare.neque Dei exifientia ex Gentjum confenfu adftrui poteft. Deinde quot quantæque et Gentium, et Philofophorum diferepantes de Divinitate opiniones ? deos ejfe dixerunt, inquit Tullius, tanta funt in varietate y ac diffentione ut torum “teflum sit dinumerare fententias, .11. Hujufce confenfus origo petenda eft ex naturalium phasnomenorum timore j quo peis culfi hominum Animi, quoddam terrificum Numen, fupremamque Virtutem ^ illa phænomena producentem, fibi effinxere: Primus in orbe deos fecit timor, ardua cato Fulmina cum caderent. Petr. in fat. Ad hunc adeeffit naturalium cauftarum ignorantia propterea quod Ignorantia caujfarum conferre Deorum CogiV ad imperium res, et concedere rt» gnum: Quorum operum cauffas nulla ratione vU dere Poffuntf bæ fieri divino numine rentur. Lucr. 1. 6, V. $1? Alias Divinitatis notio ex Legumlatorum calliditate conficta, et populis inculcata. Nempe quo ifti facilius populos legum jugo fub« mitterent, et in officio continerent, Deorum numine illas leges conferiptas efle, fibique concreditas tradiderunt. Ita Livio tefte, Numas Pompilius nocturnos congreflus cum Dea Egeria commentus eft, cjufque nurnine ritus diis gratiffimos fanxifle. Eamdem adhibuerunt artem Ligurcus, Minos, aliique, Confenfus ergo Gentium, ita concladunt profani homines., in' Divinitatis adftruenda exiftentia nullius eft ponderis. Ad primum refpondemus. Licet concedere quis vellet, omnes Gentes polytheifmi cceno volutas, nullo tamen pacto confici poffet, polytheifmum profitendum efle. Ut iJ concedi poflet, demonftrandum foret, omnes ad unam Gentes eofdem et numero, et fpccie D eos, et perenniter cognovifle; hi enim funt veri characteres perennis et univerfalis confenfus, quem natura; fenfum,8c veritatis vocem efle autumamus. At vero Gentes omnes nec fibi unquam convenerunt, nec quælibet fibi perpetuo conftitit, quot, qualefve Dii eflent colendi : ergo nonnifi perperam conficitur, polytheilmum Gentium confenfione firmari. Itaque Polytheifl* plures, diverfofque deos agnofeentes, Divinitatis declarant exiftentiam, quippe de qua omnes conveniunt* at vero fibi invicem contradicentes, tum in numero, tum in fpecie, et natura. deorum, fcipfos fanatifmi arguunt, fuofque deos T 3 fua 1 1^4 ' fu a e fle commenta declarant, Si.Phyficos de corporum eflentia, 'atque natura difputantes audiamus, non unas numerabimus, nec fine moleftia difcrepantes fententias. Quid ? num ne ifti de corporum cxiftentia dubitant ? Minime profecto,* exiftentiam corporum nifi perfpectam exploratamque haberent, tot non inftituerent de eorum effentia, et natura perpetuas concertationes ; jam vero, difcrepantibus fententiis, fatis clare innuunt, harum nullam certo -ftarc talo. Sane non heic quærimus qUam recte homines de Deofentiant,,fed fentiant quidquam, nec ne. Hæc duo mifcent Adverfarii rvon fine Logica imperitia, quæ funt omni procul dubio fccernenda. Quum poflremum conflet inter omres, invictum efl argumentum, cur Deum efle credamus. Ignorarunt enim vero, et turpiter hallucinafi funt, qualis eflet habendus, habendum tamen omnes conftanter tenuere. II. Atqui nonnifi fumma in Veteres injuria, vel faltem fumma hiftoriæ imperitia affirmant Adverfarii, omnes ad unam Gentes polytheismi ccsno infixas. Nam i. valde probabile efl, polytheifmum, et idololatriam antiquiorem non fuiffe babelica turri, i. De hasbraica Gente unum Deum colente nullus moveri poteft fcrupulus. De Gentilibus vero, fi ftupidam ple be- Eleganter Tullius more fiw. Itaque inter omnes omnium gentium Jententia conflat. Omnil/us enim innatum efl i ^ in animei quafi infculptum, effe Deos • Quales fint, variurri' efl : efl» item» negat. I. a. Indi, Sinenfes, ne quid dicam de Tureis, uni- ' cum fupremum Numen et Regem adorant. i^uttentotti, quai Gens nullo alterius nationis com^ ^ j mercio unquam ufa. eft, fummum hunc Deum intelligunt, etfi illi nullum offerant facrificium, nullas preces, quod ajunt, quum fit beatiffimus, nulla re indigere. Priufquam ad II. et KL objectum, refpondeamus, operæ pretium eft iummam, ac , pene incredibilem Atheorum vecordiam in an, ' ' teceffiim indigitare. Affumunt hi ingenioli oi, Iputatorcs, id de quo unice quxftio inftituitur nempe religionem commentum effe, &; fabulam : tum ui cauffas inquirunt erroris, j^rius-, ^ quam errorem effe demonftretit illud, cujus ori, j gines, et rationes explorant; quo quidem «e- i Icio an vitiofius, et ineptius aliquid effe pol-. ! fit. Sed expendamus utrum aliquid momenti infit in objectis.Si prima Divinitatis notio fingulas ; Gentes e ftrepentibus per æra fulminibus per- ^. terrefa6Ias invalit, quam profe£\o fortes Atheorum Animi, quos unice, nec fulmina terrent, 1 nec nubila fiftuntljam vero lemel pavore con cuffis hominum Mentibus, perpetuo ab eis di-. '., fcelfit ratio, et tam longe abiit, ut nunquam ' fepofito terrore rediret, difcuteretque prajudicatam opinionem ? nec feri Nepotes, iplis li-. ‘ ] w ig cet Atheis ducibus, et magiftris adnitentlbus, commentum Avorum nec rejecerunt, nec agnoverunt ? Equidem, quum conflet, diem hominum commenta delere, excutiifTent tandem aliquando Gentes prajjudicatam fententiam, vel haftenys faltem ad cor rediiffent. Sed contra efl; quo enim cultiores fuere Gentes ^ et Religioni magis incurabuerunt, et tenacius adhjefere. Deinde Divinitatis notio, quam ubique Gentes olim habuerunt, et modo habent, efl Numinis Uiiiverfi Rectoris, benefici Patris^^hominum felicitati non modo non invidentfs, fed cumulantis. Si ex terrore, e quo nunquam homines funt expergefacti, ortum duceret Divinitatis notio, profecto hac foret Divinitatis terrifica, hominum bono invidentis, eofque in tranfverfum agqntis : hujufmodi fane funt idese, qu2 animis ex terrore informantur. Nec minimum prodefl profanis, naturalium cauflTarum ignorationem afferre, quafi ex ea hominum Mentes fupremam Virtutem, feu D um fibi effinxerint. Si ita foret, effet notio Divinitatis, ac in hanc religio in inversa ratione feienti*, et cognitionis cauffarum. At contra efl : fiquidem Gentes literis florentiorcs, et Divinatis fludiofiores fuere.* fummi int^r ve^ teres Sapientes, Thales, Plato, Socrates &c..accur.itius de Deo loquuti funt, et religiofius fentiere ; inter recentiores Nevvtonus, Eulerus Scc. et fcripfere elegantiffime, et fumma religione, coluerunt. Quod ad *Iir. fpectat, perbelle efl obfervare, quomodo profani homines fuo fe jugulant gladio. Qui circumvenire alios fatagunt, ii Animorum affectiones, quas in hominibus extare vident, in rem liiam convertere adnituntur, non vero novas in eorum mentes introducere. Legumlatorum itaque calliditas ac vcrlutia, qua Divinos congrefTus commenti funt, ne lubjecti populi a legum propofitarum norma defcifcerent, edocet, populorum Animos ante imperium imbutos fuine Divinitatis notio, nc, nec non religioni addictos antequam de rebus publicis condendis quispiam cogitaret. Ita ex. gr. Numa nunquam colloquia cum Egeria finxi flTet, neque leges ac inftituta fibi ab hac Diva tradita fuiffe, mentitus effet, nifi in populo Ro nano animadvertiffet notionem Dei alicujus, et propenlionem ad religionem > alias qui impatientes, elafiicos, et fervitutis nefeios Romanorum Animos duplici graviflimo jugo et legum latarum, et Divinitatis vindicis fubmittere potuiffet ? Deinde, fi ab imperantibus in populos derivavit Divinitatis, et religionis notio, profecto omnibus retro fæculis ante conflitutionem civilis imperii Gentes et Populi, fuiffent Divinitatis ignari • nec non religione carerent qui nullis vivunt legibus, neque aliis parent. Atqui e contrario Nationes, quo primis Mundi cunabulis viciniores, eo magis religiolæ fuiffe comp.riuntur ; neque deficere religionis femina in illorum etiam populorum Animis, quos nulla civilis focietas colligavit, penes Doctos omnes confiat. Delirationes itaque funt, quæ ab Atheis afferuntur Cauflas univerfalis ^ ac perennis conienfionis Gentium cie Divinitate, ac religio, ne. Quod fi, Cepofitis Animi Audio, ac prai. judiciis, veras hujufce conlenfus cauAas inve. Aigare velimus, nullo negotio deprehendemus, has fuifle, I. Gentium omnium ex communi fti. pite, et protoparente originem.* II, Mirificum Univerli Ipectaculum fingulorum oculis perpetuo præfens. Ex prima equidem factum eft, ut Filii, ferique Nepotes a parentibus edocti, primam Divinitatis notionem lacte fimul exceperint. Ex fecunda, ne prima ifthzc notio parentum traditione Animis informata in oblivio- ' nem abiret, quin immo firmaretur in dies. Haic fecunda Caufia, profecto potior prima, et ipla fola focordes Animos, vetcrifque traditionis vel immemores, vel indoctas ab Atheifmi fomno fortiter difeutit, Deumque agnofeere cogit. De attrihufisy qva Dto ^ u^i Enti a . ' fe ^ conveniunt ', ; ' -v v t, » T~^Fi exiftentia fub notione primxre.1 J rum.omnium Cauflas effectricis adverfus profanos homines vindicata, illius modo naturam expendere, operæ pretium eft. Hant-equidem, utpote undequaque infinitam, finitis Alentibus et brevi admodum intelligentia prædi, tis, vetitum complecti, et adæquate introlpicere. Quare imbecillitati nofiras conlujentes theologia variis illam adfpectibus feorlim '^contemplandam fufcipimus, ut quoad fieri pottft, excellentio. rem iplius cognitionem aflequamnr. nue I ut Ens a (e ; II- ut Mentem ; III. ut huius Mundi liberam efficientem cauffam conCderabimus, et in pratcipua inculcemus atmbuta, feu* perfectiones, quæ ei tub hoc triplici adfpectu conveniunt. Re autem vera, quz icuntur Dei attributa lunt una et fimplex Dm na Elfentia : W vero nifiil vetat, quin leorfim ea expendenda fumamus, ne (cilicet u in ni tate Divinz naturæ deficientes, cæcutiamus omnino, nec dein quidpiam delibare valeamus. et Cum Deus fit prima rerum omnium CaulTa, eft idcirco improductus : nequit pro^ inde cxifiere nifi fua vi, et neceffitate luæ Naturæ - Si aliunde fufficientem fuæ exiltentiæ rationem peteret, non effet prima rerum omnium CaulTa. Patet itaque Deum, efle Ens 9 fe et neceflitate -fuæ naturæ exiftens. \ ni. Cum ex nihilo nihil fieri queat, neque quidpiam elTe poflit caufla efficiens fui ipfius It. 114, et “8 ; Ens, quod a fc eft, femper cxtitilTe neceffe eft. Deinde cum neceflitate et vi fuæ natur* exiftat, nequit Ii* bi deficere, et ficuti necelTario lemper extitit, ita et necelTario femper extabit. Deus itaque eji teternus. r i. - JI. Cum Deus neceflitate fuæ naturæ exiftat, quidquid ad Dei naturam fpectat, ne celTario pariter exiftit. Quare nihil, quod Uei eft, nec defecit unquam, nec deficere ullo mo’ do do pofeft * Dsus adeo eft immutabilis. Finge fane, Deum mutari pofle : necefle cft, cum aliquid de novo pofle adfumere, vel aliquid, quod habebat, ex eo decedere poffe. Utrum vis dicas, eflfet aliquid in Deo non æternum, nec neceflitate fuse natur* exiftens, fed contingens. Id vero eft abfurdum §. zr. Efl proinde Deus omnino immutabilis - Confer 51. cofmol, 24. Patet hinc i. nullos in Deo efle, nec effie pofle modos. Sane modorum fufficiens ratio in parte 1'altcm ab externa caufla repetenda eft ont. 16. Eft vero Deus omnino independens, alias non eflet Eris a fe. Nulli ergo funt in Deo modi. Quidquid proinde in Deo eft, ad ejus fpectat naturam, et eflentiam, et neceflarium eft. Ex utroque mox expofito theoremate patet 2., Deum actu efle, quidquid efle poteft, et neceffario, et ab sterno; nec ullam realem fucceflionem in eum cadere pofflp, cujufcunquc generis ea fingi velit. Sapienter Plato in Timso ERAT, EST, ERIT partes Junt tem» porrs, male transferuntur ad naturam ater^ nam. Huic EST tantum competit, ERAT vero, ERIT pertinent folummodo ad res in tempore fluentes ; Junt enim, motiones. Illa fem» per immutabilis Natura nec fenior, nec /unior ullo modo effe potej }., Contra Divinam immutabilitatem fequentia obftare videntur.!. Cum Deus Iit æternus, Mundus vero fit in tempore ab eo productus, ex non Creatore factus cft Creator.' reu actionem in tempore edidit, qua ab *terno feriatus eft. II. Cum tanta fit rerum hujus ;Univerfi novitas, 8c mutatio, caque Deum habeat Auctorem, haud illum eadem femper velle, oec eadem femper nolle, dicendum eft. III. Cum nihil Deus neceffitate fuæ naturæ velit, agatque, fed ex liberrima fua voluntate ; profecto quæ voluit, nolle : et quæ noluit, velle po. test; id quod certe cum abfoluta immutabilitate conciliari nequit. IV. Vel vanæ funt preces, fupplicationefque, quibus homines in fua vota Divinitatem pertrahere latagunt.* vel fi hac non inutiles fuum quandoque lortiuntur effectum, Deum mutari dicendum eft j quippe fua confilia, fuamque in homines providentiam flectit, attemperat &c. zy. Sed fingula ifthæc futilia funt, et bi. nis verbis exfufflantur. I. Quam dicimus crea, tionis actionem, nihil eft aliud, nifi Divinæ Voluntatis actus, quo Mundi exiftentiam efficaciter decernit. Hic profecto Divinæ Voluntatis actus æternus eft, ficut ipfe Deus r at vero ejus objectum, feu effectus a Deo intentus, Mundi fcilicet molitio, Tion pro æternitate, fed pro tempore intendebatur. Nihil ergo novi egit Deus, cum Mundus c nihilo apparuit. II. Tota rerum mutabilium feries, quanta quanta eft, unico, et fimplici, et æterno Divinæ Voluntatis actu continetur. Deus ergo immutabiliter vult mutabilia. III. Cum æterna fuerit in Deb ratio tum volendi quæ voluit, cum quæ noluit nolendi, ctfi nihil necesfitate naturse velit, nolit -V,. - it V ii VC • '.«i ve ; quz femel voluit, aut noluit ob camdem jtternjim rationem perpetuo volet, noletve. Sane incoftantisE, levitatis, vel infeitia e(l argu. mentum nolle quat olim funt volita, et e contrario, velle qux noiita funt. Sed nihil horum in Deum cadit. IV. Preces, fupplicationefque ad Deum, non Deum erga homines, fed homines erga Deum fle unt. Perpetuo manet Deus in amore Juftitiffi, et ordinis : prout ergo homines vel in ordine manent, vel abeo defeifeunt, vel ad eumdem redeunt, bona vel mala experiuntur ab imperturbabili et immota Divina Natura juxta ordinis leges agente. Nimirum preces, fupplicationefque &c. ad illum fpe£l:ant ordinem, cui Divina Voluntas atque Providentia perpetuo, et immobiliter adhasret. 28. III. Veus tft Etif infinite peyfeB^n extenrive, et intenfive. Si non eft infinite per, feftum, eft profecto natura fua perfeilibile. Cum enim Entitas entitati haud pugnet, quavis finita Entitas nova feraper augmenta lufcipere poteft' tum extenfive, cum intenfive. Sed quod natura fua perfectibile eft, hoc ipfo eft mutabile. Id ergo cum de Deo pugnet, necef. fc eft, eum omnem poflibiiem entitatem complefti,* atque adeo infinite perfectum efle et intenfive, et extenfive. Revera finis, feu limes non eft quid pofitivum, led negativum ; eft nimirum defectus majoris entitatis. Fiat hypothefis, Deum haud elTe infinite perfectum j et quoniam Is eft Ens necelfitate fua! naturæ exiftens et irm mutabile 1. 2^, erit Deus Ens cjufmodi, ut natur* fu* neceffitate fit finitum, et in fu finitionis flatu immutabile. Id vero abfurdum cft. Concipi enim nequit Entitas, quæ naturæ fujc neceflitate certam fui limitationem expofcat, certamque menfuram, quæque repugnet fui ipfius augmertto. Deus igitur eft Ens infinite perfectum 8 fC. Confer cofmot. Deus efl Ens fimpt}ci£imum. Ens compofitum pendet e comptinentibus. Deus vero eft Ens omnirvp independens. Nequit ergo effe nifi phyfice fimplex. Deinde quodvis compofitum natura fua eft mutabile. Deus autem cft immutabilis. Iterum ergo conficitur, Deum effe ens fimplex. 30. In Scholis difpufatum cft, an ntetaphyfica faltem. Vel logica compofitio Deo conveniat. Quod ad primum Ipectat, affirmativam fententiam . Scotiftæ tenuerunt, alferentes Dei attributa formalifer ex natura tei inter fe diftingar. At non fatis penficulate, quippe qupdvis Divinum attributum natura fua nequit aliud effe quam ipfa Divina effentia ^ in qua fapere ex. gr» idenr-profecto eft ac effe. Quod fi diftinctiones inter Divina attributa ftatuere folemus, id quidem efficimus imbecillitatis Mentis noftrs gratia, non quod fit quidpiam in Deo multiplex. Verbo, funt ilfjE diftinctiones virtutis feu rationis in Mentis noftras conceptibus fundamentum habentes, non formales in natura rei in fidentes J Quod vero ad alterum fpectat, ad quaftionem nominis tota res mihi perduci videtur. Cum enim iogica compofitio CX genere et differentia conffet ^ 2. ont. ^ Genera autem fint noftrx Men^ tis notiones abftractione confectæ appofitis nominibus defignatæ : has primum notiones ac# curate funt determinandas, atque exponendas, critque poftmodum facillima qujeftionis folutio. Ita ex. gr. li nomine quis intelligat, id quod in quaque re fjibftat, et adjunctorum fulcrum eft-, Deus fub genere liiblfantise haud comprehendi.poteft. Si vero illo vocabulo *intelligatur omne id,f quod ‘per fe fubfiftit modo Deus ' fubftantia eft. qi..,V. De«/ immettfuf. l. Quipiie pugnant Deo, utpote. Enti infinito, quavis mirationes ficati effentias_, ita et exidentist; at» que adeo ficuti infinitus cft in elTchtia,• ita iq exiftentia immenfus effe, debet.* II. Exifiat tenim vero Deus in- aliquo tai»r tum loco, non ubique. rSufficiens ratio cur. iq hoc potius rloco, et non in alio, nec ->ubivi| exifiat, vel in ipib loco.inefi, vel (ih Dei tura. Utram vis dicatur, non r; foret Natura Dei omniraodfiiindependens ; ejufque exiftentia cum iit d^termbato loco alligata, haudeffet' fibi fuiSr cientilfima et a fe. Hoc autem repugnat. Deos Igitur ubiquq locorum exiftat) 4 ^us oportet jfiiat immenfitate naturas., ^ qa. At opinemur illunt, fpatiofa magnitudiiie.. ubique diffundi., Qpa de rp animadvertatipr, 00.-« tionem 'Divinis.immenfilatis non pofTe ulfo pOf eto fecerni. a. notione fimplieitatis vetras, et ab# folutas : 'nequ«; Deum dici poffe ^imm.eofum, air ii et una J^ui fimplex habeatur 4 $ane guævia c. roa l,magnitudo minor eft in lui parte, quam in toto ; Deus vero per luam immenfitatem unus et idem ubique locorum eft, et rei cuilibet intime præiens. Certe immeiifitas, et limplicitas duæ lunt perfectiones puræ : amb adeo de Ente infinite per{pcto prædicandas veniunt. Cum vero utriutque perfectionis nec adæquatas nec pofitivas habeamus notiones / hinc ratio, fibi deficiens ab imaginatione exfuperatur,' quæ, immenfitatem cum fimplicitate pugnare, faJfo repræfentat. Quod fi clare pervidemus immenfitatem non poffe nifi Enti limplici convenire, ratio imaginationem corripiat, neque linat ab ea rapi. ^3. Deus ejl unus. I. Nulla adeft ratio eccur plurcs efle Deos putemus. Sane Dei notionem ex neceflitate primæ alicujys CaulTæ effeflricis nobis compatamus: lemcl ac (latuimus, aliquem exiftere Deum primam rerum omnium caudam, nulla adefl ratio cur pl u res Deos comminifeamur. Deorum pluralitas manifclliffime rationi contradicit. Quid lane Deorum nomine intelligi debet, nifi Entia natur* fuæ neceffitate exiflentia, atque adeo infinite perfeSla? . cof. ^.zS-tieol. Atqui duo infinita, non inquam plura, manifeftilfime repugnant. Sint, fi fieri poteft, hæc duo infinita A, et B. Infunt ne Enti A illæ- cædem numero perfe£liones, quæ infunt B, et viciiTim : vel non,? Si primum, illa duo Entia A, et B non funt reapfe nifi idem, et numero unum Ens. (’quot yel ad idealem coexiftentian>, vel ad idealerp fuccffljonem fpectant ex natura^ et complexione tot is syflcmatis, nec nOn ex nataris fingulcrum Entium syfleinaconfiantiura, V ‘ fiuc natur'alis fluere debent; nec aliter fluere, quam i pix Entium naturx, mutuzque ad invicem relationes exigunt. Hinc profecto efl, ut, vel ex ipfis exordiis cujufque Mundi intelligibilis, infinita Divina Intelligentia, cui p^enitiflime patent et naturas, et relationes ut ut minimas Entium ad illum Mundum fpectantium, perfpectiflime, et plenillinie nequit non attingere lingulas fuccefliones, et evolutiones ad eumdem Mundum fpectantes. Divina polTibilium fcientia, quam breviter modo expofuimus, fcientia fimplicis in^ telligentia folet nuncupari. Ejus fons et origo, ut patet, ipfa eft infinita Dei Entitas Divinæ Intelligentiæ pleniffime patens. Atqui gaudet quoque Deus completa fcientia omnium futurorum, quæ ad certa quavis et determinata tempora fpcctant ; quam vi/sonis fcientiam dixerunt. Hujus fcientia:, eo quod et futura libera complecti debeat, ex humanis ideis explicatio, acriter torfit Theologorum ingenia. Ita vero nobis exponenda videtur. Mundus hifce realis, quantus quantus efl (8c duratione, et extenfione, et intenfitate, expreffio eft et deferiptio uniiis ex illis infinitis tntelHgibilibus Mundis Divinse Menti longe lateque ab ipfa æternitate patentibus: illius feilidcf, cui JEterno, et efficaciflimo Divinæ Voluntatis decreto adjudicata fuit exiftentia in tempore confequenda.Nihil profeqjo eft, nec fuit, \ncc erit quidpiam in hoc reali Mundo, quod vel latum unguem ab illo asterno exemplari re. ' C« ceiendo alterutram denegare, quam fui imbecillitatem ingenii fatentes, utrique veritati acquielcere. Ho. rum nempe Alii, de humana libertate nihil hslitantes,futurorum liberorum feientiam ab sternitate Deo adimerunt. Alii vero, Divinam re, rum omnium certam et infallibilem prsfcien-. tiam pro rata, Sc indubia ftatuentes', Mentibus agendi libertatem eripuere,. Hi e Fataliflarum funt grege, qui Divinam prsfcientiam nobis neceffitatem imponere agendi qusciinque agimus, contra intimum confeientis fenfum effutiunt. lif* ' dem ElegamitHme Boethius confoUt. T« cun6ia fuperno Ducis ab exemplo : pulchrum, pulcherrimus IpP^ Mundum mente gerens ^ fimi lique in imagine forma'*^') FerfeSla/que jubens ^ per f edum abfolvere partes, ' y dem pene armis Utrique pugnimt,quo propSam tueantur fententi-sm. Hos audire et refutare ma. xiniopere infereft,.Inquiunt: I. Gum Dei fcientia certa fit, et infallibilis, quæ Deus prænovit, neque|int profecto non evenire. Sed qræ nequeunt non evenire neceflario eveniunt. Quæ ergo futura Deus prænovit, neceffario funt futura. Vel ergo ‘ nulla funt futura libera, vel fi aliqua funt tujufraodi, a Deo neutiquam funt 'prævifa. II. Et revera, facta hypothefi, Deum fingula ab æternitate prævidifllp,k ficuti fi modo aliquid fieret contra id, qu^ Deus pwevidit, actu Dei prævifio errori obnoxia foret : ita profecto, fi aliquid contra id. quod Deus prævidit, evenire poffet, Dei fcientia poITct errori fubjacere. Quum ergo Divina prasvifro, nec unquam a veritate, aberret, nec queat aberrare : dicendum' eft, rerum omnium et Cauffas, et effectus ne dum ita pergere, rUt Deus prajvidit, fed nec aliter pergere poffe. firmatur ita. que, vel nullam habere, Deum* certam feientiam futurorum : vel quæ dicuntur futura libera non effe hujufmodi nifi vtrbo tenus, reapfe tamen Jieceflaria efle. ♦ ' s? Ad fingula refpondemus. Ac I. diftinctione indiget, quod principio ponunt: qute Detts tranavit^ y nequeunt, non evenire." nequeunt profecto non.hypoihetice y 8 c confequen* ter y non item abfolute ^ et antecedenter. Quæ diWnctio ut in propatulo ponatur, fupponamus, me, omni illunonis periculo remoto, Petrum coram ambulantem intueri, profecto,, quandiu 1\ theologia . iUum a Abulantera intueor, fieritne^uit i ^uin deambulet,* non enim fieri potcft, ut idctn fit fimul, et non fit» At nemo non videt, 4ticirco fieri non-polfe, quin Petrus deambulet quia, ipfe fe &.ad deambulandum determinavit, 5c adhuc in, eadem, determinatione manet ; non quod neceflitatem aliquam tex.mea vifione paflus fit, vel actu, patiatur. Neceifitas itaque, qua Petrus actu deambulans nequit non deambulare, hypothetica eft, et co»/e^«»x, fluenS, nempe ex ejus libera^eterminatione, n deambulantem. certo«intuear, et cur nequeat ille actualiter et de facto non deambulare. lU porro tera (ejungi nulfo modo‘pofiit, patet, Deo Voluntatem tribuendam -effe i Revera cum hicce Mundus e nihilo Iit conditus, nonnift Divinæ Volitati ' tribui* poteft r, eccur inter « infiiiitos «lios «que polfihiles et fit electus, et fit ad exiftentiam perductus. '• 54. Dei.;autem 'Voluntas nequit effe' niff rectiffima, fcilicet infinita; fuæ Sapientia; iciris, æternifque rationibfus apprime* conformis. Cum enim Natura Dei fimpliciffima fit, ac perfectilfima qo., equidem fieri non potefi, ut in Eo aliud fit velle, aliud fapere. Sane qiitd magis ablonum quam, Voluntatem a Sapientia defcifcere, ac' Sapientiam erroris, levitatis, vel ofcitanrias Voluntatem' redarguere ? Profecto id everteret intimam Dei NatUram numeris omnibus abfolutiflimam. Divina Volyntas, qua parte objecta. extra fe pofita iritendir, lilxrrima eft, et immutabilis. Sane nulli externo fato potefi^ Deus fubjici, eum fit'omnino independens^ et a fe^t neque ulla neceilTtate naturæ, nulloque interno. impeto- rapi poteft ad profequenda (Ejecta extra fe, quum fit intrinfecus Sc natura fua bea- « tiffimus, nullumque licet minimum bfatit^t» nis augmentum advenire ei extrirtferuff poffit, Liberfima igitur Deus Voluntate gaudere debet. Cum vero nequeat Divina Voluntas noa effe i ni mutabilibus, ac asternis fua; Sapientiæ 'rationibus apprime conformis' præ., confeqiiens eff, illam nec unquam mutari nec mutari poffe- - ' ' Qpæ Deus vult, aut non^v^t / ab ' I æterno, ac lemper voluifle, aut noluiffe opor- ^ tet ; nec '^quidpiam ‘Deus velle poteft, quod ab æterno noluit, aut fnodo nolle, quod ab æter- 1 no voluit. Itaque Dei Voluntas non inftar facultatis concipi debet, fed infbarfimpliciffimi actus pci^petuo, et immutabiliter permanentis, -quo • ab ipfa æternitate voluit, noluitve fingula fi. ntul j, qux efie poterant fuæ Voluntatis objectum. Patet hinc nonnifi cx imbecillitatis noftraj modulo pl ures Deo tribui Voluntates, quibus res extra fe intendat, et quas Dei decreta appellare confuevimus.... iir., De attnhuus, qu(t Dvo, utpote primee rerufn omnium Caujfa, conveniunt : ubi dt confervittipne, bonitate, ' 0 providentid.De Conjervatione. «^ fingulæ hujus Mundi fubftantiæ . j non ex fe, et vi fua, fed efficaci Divina Voluntate olim exigentiam fint confequutæ^ fponte veluti fua inquirendum modo occurrit, qua vi ha^enus in Tua perdurarint exiilcntia, feu cui referenda veniat fuse exiflentise continuatio. I. inhæc exidentiæ codtinuatio nequit Entibus contingentibus vi propriæ effeftiæ con.^e^ire. Si enim cxiftent^id eorum effentiam pertineret, forent Entia illa immutabilia : contradi£lorium fane e(l,^quidpiam fua effientia exiiientiam, vei continuationem exiftentiæ obtine, re, et interim elTe, et beri pofTe aliud ab eo quod effiSunt vero Entia quxvis hujus Mundi ut origine fuacontingentia ^ ita &: ejulmodi in fuæ exiftentiæ continuatione. Exiflentiæ itaque continuatio nequit Entibus contingentibus vi propriæ*^^ eflentiæ convenire : atque adeo aliunde ejus fufficiens ratio repetenda venit. Ratio futiiciens continuationis in exi ftendo nequit alia effe a ratione fufficienti exiftenti* primo temporis momento confequutæ. Revera exiftentia fecundo, tertio 6cc. momento cjufmet naturas eft, ac exifteotia primi momenti ; immo una eft eademque exiftentia; nempe Entia contingentia fubfequentibus momentis {'uum ejfe haud aliud et diverfum habent ab illo, quod primo momento obtinuerunt. Igitur fufiiciens ratio continuationis exiftehtias Entium con fuam exiftentiam primo aufpicata funt. In hypothefi, qua Ens sternum niWl curaret entia a fe olim condita, fed ea veluti ipfa fibi relinqueret, nequirent profecto, ne minimo quidem temporis intervallo, perdurare, in nihilum illico abitura. III. Quum exiftenti® contiouatio, eofifervatio appellari foleat, liquet, illum ipfum“ rerum omnium Conditorem effe Carumdem Coa* Jervatorem optimum. IV. Rerum confervationem haud infcite continuatam creationem di£Iam effe: quæ phrafis haud ita intelligenda eft, quafi De« us fingulis momentis. reiteratos edat creandi aftus, led quod rerum confervatio non conliftit, nifr ex eodem Divinæ Voluntatis æterno, atque efhcaciflimo actu, e quo ilis luam cxi6- Quoniam Bonitas mora Bs ‘ condUit in‘ conforraitatc actionum liberarum cum prasferipto legis » botio bonitatis moralis fupponit legem a fuperiore latam ; potentiam in fubjecto morali delciicendi ab illa ; 3, necefiitatem illam lequendi, ut fuam confequatur felici-? tatem Atqui hx notiones • pugnant omnino^ cum Divina perfectiffima Natura, quæ et abfolute independens efl, et intrinfecus ac per fe beatiflima. Nequit igitur hujusmodi bonitas moralis Deo attribui. Divina bonitas eft Ordinis, cft plena Voluntatis confbrmitas zterno rerum Ordini ab «ternis infioitz Sap entiz fcitis atque re£liilimist, confiliis fluenti. Itaque non Bonitas Sapientiz ac Potentrz imperat, fcd Sapientia Bonitatem et Potentiam moderatur. Quare fi zternus ac iiqnentiflime conflitutus rerum ordo haud patia. tur>, homines in ipfis exordiis fuz immortalis vitz ( nempe in hac vita przienti ) plenam coflfequi perfcflionem, et beatitatem fu» nature congruentem ; fed exigat, refervandam eam ^e alteri feculo ; minime profecto Divinam Bonitatem redarguere licet quod nos non eflPecerit heie^enc felices,.fiveritque plura mala obrepere. Ita porro rem fe habere, facili argu. m«iu \ 6Oe malis, quz ex indeclinabili MiAidi ordine patimur, quseque contectaria iunt legum coimologicarum, nihil efl, quod jufte conque. ri poiTimus. I. enim ex ipfo Mundi ordine, iifderrique cofmologicis, legibus noflra pendet exiflentia, 8c innumera illa bona fluunt, queia in præfenti vita fruimur. II. Quod ita Mundi ordo ab initio (it conflitutus, ut omnium minima ^ pauciora mala irreperent, maxima vero, et plura bona : id quod pluribus demon* ftrare poflTemus per totum Mundi orbem mente difeurrentes I (J^uod fæpe numero voluptates doloribus adeq iinitimæ et conlequentes fint;po« fit*, ut hos fatis, fuperque rependere videantur. IV. Quod mala illa optima fu nt media quibus a nimio pr*fentis vit* amore revocemur, neve vit* voluptatibus irretiti ' faifq nobis fua. . deamus, permanentem heic habere civitatem, nihil de futura folliciti : tum legem fenfiium legi rationis praferamus. V. Quod>lunt illa auf przparationes ad virtutem ne peccemus, aut juflz punitiones fi peccavimus, ut a peccatis recedamus. Nulla fane utilior, atque eloquentior virtutis fchoia > quam malorum perpaflio j nec capitalior virtutum peflis y quam perpetua vit* profperitas; Mifyri/e toiSrantur, pcrfpcctc Tacitus inquit, felicitate corrumpimur. Ilf. Mala, qu* ipfi nobis confeifeimus ma. lo' five corporis ^vc Animi reginiine plurima equidem funt. Atqui h«c nequeunt certe D/o Sd' adjudicari nifi fumma inicitiav et stolida temc. ritate, quæ non verbis, led verberibus.corripienda foret. Quid enim, Deo ne tribuam fi doloribus, vel febri laborem ( ut id exempli loco auferam ) ex ingefto cibo, potuque ultra quam natura exigebat, et (lomachi vires patiebantur ? Profecto juRum eft, quod intemperan. tia! poenas luam : -nec eft, quod Divinam bonitatem redarguam, cUm e contrario maximopere commendanda veniat.. Hæc fane mala, mali nr ftri regiminis confectaria, fræna funt, ne in vitia corruamus,. et ad virtutem colendam caleatia tum juxtæ funt punitiones, fi hac contempta, in illa concc fieri mus. Reftant tandem mala, qusE 'e?c noftris fluunt præjudicatis opinionibus., ab effræna imaginatione. Quas ad /hanc fp^ctant clafiem, maximam malorum partem capiunt, et ea præfertim', quæ focialis vitæ felicitatem maximop,ere pertubant. Sed nihil hæc mala contra Dei Bonitatem faciunt, quippe fepientia et prudentia profligantur, ficuti e contrario sb inicitia et imprudentia gignuntur,-ScitifSme Epictetus in Encbir. cap. V. Pet^tnrbant bomirtes non res ipfa, Jed de rebus opiniones Cum- igitur ' aut perturbantur aut trifiamur ^ nunquam alium irtcujemus., ^ed nos ipfos, boe eji noflras opiniones. Verum vero inquient. Potuifict Deus in alia rerum (Siconomia humanum Genus conftituere, e qua perpetua bona fluxifient, quin ulla unquam irreperent mala /' Quod fi ita, haud fumme bonus-, in. bonitate, admodum parcus Deus fuitje videtur, qui illa podhabita ceconomia banc przfeutem ^ condiderit pluribus Icateutem naalis. 'j6. Sed facilis ad hzc refnonGo • I. ‘Non heic quzrijtur, quid Deus potuerit efficere, fed quid efficere eum decuerit ^ Jam vero, non, no« ' Ilrz caligantis intelligentiz e(l decernere a priori, quznam ex poflibilibus oeconomiis przdet ceteris, fitque Dei Sapientia ac Bonitate di« gnior. II. Nutn ne tantum noftri ergo Deum condere mundum oportuit? Equidem Deum horni, num non' demerentium felicitatem velle, i omni dubio vacat.* at Eum in Mundi creatione noflram plenam felicitatem primario intendifle vel intendere debuiHe, id ed quid' ^uidpiam ab illa ratione diverfum. Sed hanc rationem five verbis præclare definire, five pura mente complecti pofie, certe negatum mortalibus effe autumamus. Ecquis fane perfectiffimam, et undequaque infinitam Naturam Divinam perluftraverit ? Quas rerum ideas, quasve notiones adeo puras, et præcellentes mentibus noftris gerimus, queis Divina incomprehenfibilia arcana decentet relerare audeamus? Verum vero, utut explicanda veniat Divina ifthæc excellentiflima ratio, et finis ^ autumamus, creaturarum felicitatem, Divinæ- ^ que glorise manifefiationem illa ratione ccrtc contineri. Revera, haud aliter decebat Deum fe gerere, quam ejusmodi Mundum condere, In quo Hanc rationem et finem ut expedirent Platonici, aifeverabant, Deum ipfa fua infinita bonitate percitum fuilTe ad Mundum condendum, ut fcilicet effent, quos benignitatis, ac famma:,qua ipfe fruitur, felicitatis participes etiiceret : quaf fententia antiquis Chriftiani ccetus Dodorlbus non difplicuit. Procedente vero tempore ufu ienfun invaluit inter Theologos, ut Deos glorix fpf caufla Mundum condidi fle diceretur j quod rede explicatum, et intelledum, nec quidi-uam habet offenfionis, nec cum priori illa fententia pugnat. Nam ut perfpedt Cudworfhus Syflem. inrelled. Cap. V. fed. 5. Neq:lTet vel minimum obflare. Q^ua igitur Deus voluntate finem infendeb.it, profecto et optimum Mundum *legit ex infinitis poflibilibus, tum et opere complevit. Revera finge, hunc Mundum non effe optimum^ feu fini pr*4ituto non apprime congruentem ^ equidem vel defectui Sapienti*, vel Potenti*, vel Voluntatis in Deo tribui debet, quod non Iit conditus optimus Mundus. At 'priora duo Divina: pcrfcctiffim nanif* repugnant: ternum vero contradictorium eft,,: media enim ad finem confequendum eadem voluntate, continentur, qua finis intenditur. Quin ergo hic Mundus fit optimum, et ^ptifiTimum medium ad confequcuf dum finem a Deo intentum nullo pacto ambi, gi potcft. Sed hasc rerum Univerfitas fummd Divinas Sapientias confilio,'.ac pie niifima omnium futurorum ptasfcientia plim a Deo condi* ta, incelfanti actione ab eodem Deo perenniter confervatur, nec aliter confervatur, quam Men. te concepta fuit. 6 z, Deus 'igitur perenni ifthac confervatione curam oftendit, ut mun« danorum entium, syfiema illum confequatur fi» nem, cujus» olam gratia * mente conceptum, tura reapfe conditum eft. Et quoniam mediorum ad finem æcomodatiflimorum electio cura ne ab illo fine deficiant, providentia vocabulo dcfignatur.* Deum providentiffimum- plane effe ex modo dictis 81. 82. evidentiifime patet..Equidem Dei Providentia cx ipla ejus natura tam' arcte ac necefiario fluit, ut p^rfpecte Cicero de. Epicuro, qui Deos nihil mundana curare fluite effutiebat, dixerit, Epicurus ve tollit, oratione relinquit Deos (a). Certe omnes, Gentes, ficuti Sdpremi alicujus Numinis 'exiflentiam agnovere, ita et ejusdem providentiam hffx funt, et coluere.* quod adeo omnibus in eompertO/ efl ^ ut demonftratione non indigeat, Di nat. D eor.'l. i, - v. - 'At circa Dei providentiam plura occurrunt, quæ maximopere intereft animadvertere. I.. Dei providentiam. haud in eo confillcre, ut per lingulos dies,pcrque fingulas. horas perfpiciat quid. factu opus ht, et qua flectenda fit rerum feries, fi quuipiara erraverit, Abfurdiim id quidem, 8c infinita Dei Sapientia indigniffirnum. Potiflima Divinæ providentiæ notio codfiftit I. in illa rerum omnium præordinat io ne fapientiffime oliro conftituta ex ad^uata omnium futurorupa prastcientia, qua præordinatione fingula entia hujus Mundi fuas exacte leges fequentia tum ad fuos, peculiares fines pergunt, cum ad ultimum illum fipem, qui in Mundi molitipne fuit a Deo intentus. 1. Divina prexvidcHtia continetur in illa inceflanti actione, quam confervatiooem dicimus, feu io perenni illa et efficaci voluntate, qua fit, ut fingula Entia.perdurent, &“ pergere non definant juxta præordinationem in principio, factam. II' Syftema Divinæ providentiæ pror fiis incomprehenfibile haberi debet, ficuti enirn ' 3 * brutis., animantibus intelligi nullo modo poffunt quæ ah hominibus conduntur fyfteniata politica, mathematica &c., ita profecto multo minus comprehendi ab hominibus poteft lyftema gubernationis Mundi, quod eft opus ab infinita Sapientia attern* Mentis conditum. Revera hujusmodi lyftema ferienti complectitur omnium temporum, omnium entium, omnium eventuum fibi invicem cohærentium, et lele motuo. explicantium, duantum profecto eft nu jusmodi fyftema, et qu«m la;c patet i at qu^tn exigua illius pars efl, qux nobis innotdcit ! Tum, quantilla cft human* caligantis inteJligentiæ et vis et extenfio 1 quam manca, quam perverfa de quavis ut ut minima re noftra cognitio 1 Num ne rerum relationes, ac nexum vel longe perfpeximus ? Quam plura funt, qnse de unaquaque re ignoramus, quam qus novimus, vel potius quæ noviffe putamus? 86, III. Divinæ Providentiæ Syftema eo magis adorandum, quo minus illud comprehendere valemus. Hinc enim i. in admirationem rapimur Supremæ Dei Majeftatis, nec, fi lapimus, non poffumus venerabundi non adorare altitudinem Scientia ac Sapientia Dei, cujus adeo incomprehenjibilia funt judicia y invefli* gabiles via. a. Incerti de rerum eventibus probamur, et ad fummas virtutes fidei, fpei, et omnimodæ religionis excolendas incitamur. Totum Divinæ Providentiæ Sy-, Ilcma dno præfertim peculiaria ac minora Syfiemata complectitur inter fe fapientiffime, et mirifice connexa ; phyjicum nempe, quod ad brutam materiam fpectat, et morale, quod Entia ratione, et libero arbitrio prædita refpicit. Phvficiim Mundi Syftema phyficis legibus regitur, et ad pra^itutum a Deo finem recta pergit Sunt enirnvA-o phyficæ leges nihil aliud, nifi certæ determinationes viribus materiæ a Supremo Conditore imprelTæ, quibus phyfica neceflitate fiunt quæcunque fiunt, et hd smuifim infinitæ præordinantis Sapientiæ. De hoc phy£co Syftemate fatis in Co/. c. 4. Atqui Entia, Y quæ funt ratione et libero arbitrio prædita aliis omnino legibus profecto regi debent, quæ lint eorum natur* conformes j leges quippe, quas phydcas dicimus^ rationem et liberum arbitrium deftruerent. Determinationes, qu* Entibus ratione Sc li- bero arbitrio prxditis conveniunt, nequeunt aliæ cfTe, quam qu* ex illiciis bonorum, et amore felicitatis, vel ex horrore malorum, et mife- ri* odio fufcipiuntur. Leges itaque, quæ En- tibus libero arbitrio pr*ditis conveniunt, oc- queUnt aliud efle niti certa et immutabilia tita- tuta Supremi Conditoria, quibus bonum et felicitatem creaturis rationalibus in ordine n>a- nentibus præordinaverit, miferiam vero et in- felicitatem creaturis ab ordine defcifcentibuS. Ifthæc flatuta /e^ef morales naturales dicUntur^ * 88. V. Leges morales haud cenferi debent creaturis rationalibus extrinfecus et accidentaliter impotit*.* fed in ipfo Mundi ordine intit*, et in creaturarum naturis. Neque putandum eft, ex folo Conditoris arbitrio illas luam obtinere fan- ctionem, fed pr*fertim ex rectiffimis et infle- xibilibus Sapienti* fcitis, quibus omnis mun- danus rerum ordo primum conceptus fuit ^ tum demum Divina* Voluntatis efficacitate ad exi- ftentiam perductus. Nimirum generale Mundi Sytiema ea arte ab infinita Divina Sapientia conditum efl, ut indeclinabiliter ad felicitatem ducat Creaturas rationales ^ quæ fartas tectas fervant relationes, quas ad tingula qu*vis En- tia natura fua habeat, fuasque illis attempe- rant actiones: ticuti c contrario ad miferiam et in- lyp Sc infelicitatem efficaciter trahat illas Creaturas rationales, quæ eas relationes violant, corrum- punt, fuifque actionibus peffumdant. Requ dem vera nifi res ita le haberet, haud foret 'iVfua^ danum Syfiema ordioatiffimum, infinitaque Dei Sapientia ac Majefia^e dignum, fed opus na- tura fua hians, quod externis veluti prasfidiis pofimodum circumvallatum, infcitiam et im- potentiam in Conditore argueret. * Sp. £ mox dictis patet I. generale Mundi Syflema ne latum quidem unguem a præfiituto fine aberrare, five Creaturæ rationales in fuo maneant ordine, (ive ab eo defcircant. In fuo enim ordiiie manentes fuam confequuntur feli- citatem : a fuo ordine recedentes miferiam et infelicitatem nancifeuntur, et quidem in ratio^ ne fuæ aberrationis - At utrumque verum, et realen-i ordinem generalem confiituit : utrum- que ad generale Mundi syftema æque fpectat, et mirifice conrpirat fini, quem ^us munda- no syftemati przftituit. 2, Patet,Vmnem le- gum moralium naturalium notitiam aufpican- dam pfTe cx relationibus, qu® rationales natu- ras ad fingula quavis Entia nectunt. po. Contra morale syftema Divina pro- videntia objiciunt profani homines maximam ac increciibilrm pene rerum humanarum confu- fionem. Inquiunt, aque omnia eveniunt omni, bus: nrobis et improbis, religionis contemptori- bus et amicis idem imminet periculum, et aqua fors. Quin immo perjuri, facrilegi, et criminoii homines non raro melioribus gaudent fatis, quam optimi, et juftiifimi. Nullam er- Y 2. go naturalis go Deus, ita concludunt, humanarum rerum procurationem habet. pi. Equidem vis huic objecto confifteret, fi inter demonftrata foret noflrorum Animorum cum corpore mortalitas. Id autem cum tantum abfit, ut contrarium recta ratione dcmonftre- tur, ruit propterea objectum illud ipfa fui mo- le, tum facili refponflone exfufflatur. Ita præ- clare Auguftinus ia).' Placuit Divina providen- tia praparare in poflerum bona juflis, quibus non (ruentur injujli, mala impiis, quibus nofi excruciabuntur boni . Ifla vero temporalia bona et mala utri f que voluit ejfe- communia ut nec bona cupidius appetantur, qua mali quoque habere cernuntur ; nec mala turpiter evitentur, t^tibut et boni plerumque afficiuntur. Dein fuhdit. Si nunc peccatum (Deus ) manifefla ple&e- ret poena., nihil ultimo judicio Jervari putaretur.' rurfus, Ji nullum peccatum nunc puniret aperte Divinitas . nulla ejfe providentia Divina crederetur. Similiter in rebus fecundis, Ji non eas Deas quibufdam petentibus evidentijpma largi- tate concederet, non ad eum ifla pertinere dice- remus itemque,fi omnibus ea petentibus daret nonnift propter talia pramia ferviendum illi eJfe arbitraremur . pz. Qui Dei providentiam vituperant, quod mala et impia facta non llatim plectat, equi- dem fimillimi eorum (unt, qui videntes in fce- nsm prodire facinorofos ^ fceJeratofque homines, eof- de Ci vit. eofque per totum carmen in luis criminibus exulMre, tragicum Poetam incunctanter convi- ciis petunt } totamque fabulam ut Icclcratam rejiciunt . Tragoediæ exitum hos expectare opor- tet, mox enim illos dignis excipi fuppliciis videbunt, fuorumque fcelerum meritas poenas lue- re . Vera fabula prxfens efl vita : quilibet no- Urum luam in hoc telluris theatro perfonam fubflinet, et ita, ut de fuo femper aliquid ad- dat fabulæ. Atqui Deus totam fapientiffime fabulam moderatur, et regit . Is lapientiflime nectit noftras hujufce vitSB actiones cum fuis geftis, quæ in altera vita lequentur : eruntqua futura cum pr®fentibus ita inter fe apte Sc con- cinne connexa, ut fumma de rebus omnibus providentia eluceat . pq. Tandem, fi Deus in humanis rebus moderandis ubique fusE providentiæ vim, 8c, præfentiam extraordinariam oflendere vellet, ficuti Adverfarii infcitiflime et arrogantiffime poftulant • profecto miraculis cuncta elfent re- plenda, naturæque leges perenniter interpellan, dæ. At quæ fumma confusio rerum hinc pro- diret, quæ maxima perturbatio ! Edifcant ergo Adverfarii rectius philofophari : ficuti apparen- tes illa; perturbationes, et monftra, quæ in fyftemare phyfico quandoque occurrunt, nihil de ejus ordine et harmonia detrahunt, quippe ex ejusdem ordinis vi 3c legibus confequuntur, et in ipfum ordinem redeunt : ita nihilo fecius divina de rebus humanis providentia confiftit, licet quædam moralia monfira quandoque profilire et exultare videantur. Moralis quippe y q or. NATURALIS ordo, 8c providentia ex harmonia legum cosmologico-moralium, et ex nexu actionum hujus vitæ cum alterius futuræ vitæ ordinatione refultare debet. Finis Theologia, TOTIUS OPERIS CONSPECTUS Jn unlverfam Metaphyficam^ prafatio. i METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In Ontofopbiam prolegomena De effentia, et attributis. De variis entium generibus De relationibus Entium. Dff relationibus fimilitudinis. De relationibus, e coexifletftia dependentibus . De relatio.nibus dependentiis, ubi de Catijfis. De quib.usdam "relationibus compo/itis . INSTITUTIONUM METAPHYSICARUM PARS ALTERA In Cofmologiam prolegomena. De Corporum elementis. Corporum elementa Junt ne ex- tenfa, vel inextenja Similia Jint ^ qn diffimilia cor- porum elementa expenditur . . niTT De Legibus cojmologicis . De Mundi, Materia origine. sirr: Etis tttiquod aternutn natura fua necifjitate exi/iere, indubie demon- firatur j tum ejus pracipui c&araSleres expenduntur .In materia originem inquiri - tur, eamque ix nihilo conditam vi, potentia fupremi Numinis inviBe demonflratttr . I op Democriti, et Epicuri fenten» tla refutatur ; ubi Mundum potentia, et fapientia Entis aterni conditum effe evincitur . I £ 5 Spinosa Jyflema abfurdorum, et contradiBionum effe cumulum ofien - ditur . De nexu omnium Mundi Cauf- Jarum et effeBuum : ubi de fato juxta . Pbtlofophorum placita di [feritur De nexu omnium Mundi Cauf- /arum, effeBuum, lai P bilofophorum de fato fenten* tia enarrantur, atque refutantur. ia8 De Naturali, et jupernatu» De Natura gener at m ; ubi . quid fit naturale edocetur De fupernaturaii : ubi de Mi’ vaculis generatim Pinis Cofinologia METAPHYSrCARUM INSTITUTIONUM In Pfycbohgiam jtrole^omena . g CAPI L De Facultate fentiendi . j Senjitiva facultatis indoles at» que natura expenditur ^ &“ plura fenfa ^ tionum do^lrtnam Jpe^antla enucleem tu* . Qna Jit fedes principii fenji- tiva facultate praditi .De Memoria De contemplatione DV remintfcientta .De recognitione De facultate attendendi ^ et refle^endi, zS De imaginatione, De facultate appetendi ^ ejuf~ que objeElo : ubi de affe^ibus fummatim. De facultate appetendi, ejuf- que objeblo . ibid. De affeBibus . at, De humana Mentis Volunta* te, ac Libertate . De Mentis humane Natura.. . •^nimadverfiones ad invejiigandam %Anima humana naturam preeli- mtnares .Humanam Mentem haud effe ' temperationem humani corporis, ac pra^ cipue cerebri inviate demonjiratur Ct*tvU fubjlantite corporea in* trinfecus pugnare cogitationem, /Jw De idearum^ notionumque natura, atque ongtne %/inimadverfiones praliminares ad idearum,netionumque naturam atque originem expijcandam. Idearum origo ac, natura expenditur. Quadam Pbilofopbortm.placita, qua idearum /peliant originem, breviter exponuntur . Df tAunue humana orij^tne’ .De Mentis humana Immorta- litate . I loi Mentem humanam ex natura Jua infpe^am, immortalem effe, demon- flratur . Mentem humanam ex fui Con- ditoris voluntate infpeBam immortalem naturali ratione afferitur. METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In naturalem Theologiam prolefromena . Deum exi/lere invitiis rationibus demonflratur, et *Atheorum pracipua cavillationes difpelluntur . Deum exi flere met a phy fice de - monflratur . ibid. ART. II. Dei exiftentia morali demon- firatione vindicatur .De attributis, qua Deo, ut Enti a fe y conveniunt. 1^8 De attributis y qua Deo y ut Menti, conveniunt . Dei Scientia expenditur . ibid. Ds Dei abfoluta Beatitate, De Dei Voluntate. De attributis, qua Deo y ut - pote prim-rfetur, et fi merito typis mandari pnfit . Ac pro executionc Regalium Or- dinum idem Revifor cum Jua relatione ad nos di- rede tranf mittat etiam autographum ad finem', Datum NAPOLI ^ .»79d. FR. ALB. ARCHIEP. COLOSS. CAPP. M. S. R. M. J Uffu tuo accurate legi docfl-flfimi Viri Sacerdo- tis D, Mariani iJcmitula in^itut ones philofo- phtCas^ nempe infi/turiones metaphyfices, in qui- bus quxcunque a ienfibus funt remota ) leu le- ruin naturam, feu univerfi ordinem, Icu nafU- Tain animorqm, feu durina attributa, quantum i-tio »e adfequi licet, facili methodo dilucide per- tvadlantur ; atque infitutiones logices quibus, qu.ie ad hu minam mentem formandam fpeiflant, folide præcipiuntur, in his utrifque inititutionibus bu8 omnia fumma eruditione, Ir dodlrina, neo minori pietate explicanrur ; tantum abeft, ut qoidpiam aut juiibus Majeftati", aut boniS mon. bus advei ium commeant ; quare edi pcffe cen» fto, nifl aliter Majcftati Veftrae fuerit vifuin, NAPOLI MAJESTATIS VESTRAE. JlVmiliJtimuS addidi ffimus 6- obfequtl^ffimus, Jofephus Maffcjus Regius Profcffor. NAPOLI ec. Vifo refcripto S. R. M, fub die 5. currentis 'fnenfis, cSr anni, ac relatione U, J. Dodoris O, Jofephi lAafiei ^ de commijfione Reverendi ReffH. Cappellani Majoris, ordiie pr^fau Regalis Majejiatts &C» Reffjlis Camera S, Clara providet, decernit^ Mtque mandat, quod imprimatur cum inferta forma prafentis /upplicis libelli, ac approbationis dtdi revi fotis . R erum no<» publicetur ni fi per ipfun Revi/orem fada iterum reviftone, . ajir- metur, quod concordat ^fervata forma Regalium ordinum ^ ac ^etiam in publicatione fervetur' Re- gia pragmatica» Hoc fuum ec, JARGIANNI PECCHENEDA VOLLARO V. A. R. C. Izzo Cancelliere Rfg- fol, t?, tt u Pafcale Uluftris Marchio MAZZOCCHI P. S. C.& ceteri Aularum Praefedi tempore lub. impediti . EMINENTISSIMO SIGNORE .M trhele Migliaccio pubblico Stampatore fup- olicando efpone ali’ E. V. come defidera dare alle ftampe un’ opera tntitolata In/iitutionet, Philolophicte Auctore Mariano Stmmola . Prega percio 1 ’ £. V. a commetterne la reviiionc a chi piu le piace • Admodum R«v, Dominus D. Donatus GigUo St Th. Prof. revideat, et in Jcriptis referat. FRANCISCUS ROSSI CAN. DEP. Institotiones Philosophicae appofite ad Tyrona u captum a S. concinnatas, ea diligentia, qua tua juffa capeffere par eft. Princeps Eminentidime, perlegi, In illis, prxterquam quud methodo meridiana luce clariore argumen- ta tum unde unde exquidta, tum propriae penis depronua (apienter ad Philoruphiae firmanda dog- mata congerit Audior, in i!l ud porro omnes lol- lertix nervos intendit, ut et fandi di m a morum ratio redle libi condet, 8c jura Rei gionis, li unquam antea fufque deque habita*, nunc ut cum maxime pedimo fato divexatx, farta tedla fer- ventur . Qux cum ita le habeant, cumque nihil optimo Prxfult antiquius, fan^iufque effe debeat, ? uam ut adolefcentes fandlionbus, minimeque iibdolis fententiis imbuantur ( nam quo Jemel ejt imbuta recens, fervabit odorem Tejia diu ) in publica commoda peccatum iri 'rcor, fi hujufmo- di Opus minime Typis mandetur, Quare fi ita Z * Emi Sminenti* Tu® videbitur, publici jur» fieri pof- fe cenfeo . l-)ab. ^Alib. Seminat ii Urbani XV Iil. EMINENTUE TU.E, AddidiJP Obfequentijp, Ta/nuius iionatus Gigli, yy/ff ip is. Mariano Semmola. Semmola. Keywords: istituzioni di filosofia, l’istituzione della logica, l’istituzione della metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semmola” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semprini: implicatura cabalistica nel deutero-esperanto di Pico -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Giocodi H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Bologna). Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna. S. progetta una lingua internazionale su base latina che chiama “neo-latino” – “Rubrica del movimento interlinguista” --- e l'anno successivo ci prova anche LAVAGNINI (si veda) con l'Unilingue (o Interlingue) pubblicato nel Corso pro Corrispondenza d'interlingue od Unilingue in sette sezioni a Roma e ancora con MONARIO (si veda), dato alle stampe nel Corso de Monario prima e nell'Interlexico Monario. Italiano-français. English-deutsch poi. GIOVANNI  PICO  (vedasi) DELLA  MIRANDOLA. LA  FENICE  DEGL’INGEGNI  -- saggio di  S. nella quale si raccontano i casi della vita  del  principe-filosofo e s’espongono i segreti cabalistici magici e astrologici della sua esoterica  filosofia. Con un esame delle sue poesie in volgare e un ritratto fregiato da Carolis  ALL'INSEGNA DELLA CORONA  DEI  MAGI PRESSO ATANOR. TODI. Il saggio che offre al suo C. non ha la pretesa d’essere una monografia e molto meno uno studio completo della vita del Mirandolano. Esso, così come si presenta, porta l’impronta dei sentimenti e dei pensieri non sempre contenuti che in me sorgeno via via che il velo si discopre e la bellezza d’una vita intensamente vissuta per un ideale l’appare nella sua immediata freschezza. Ciò che  li mosse a scrivere di Pico non è, lo confessa, quella preoccupazione pella verità storica che spinge molti a travagliare per anni interi intorno a manoscritti, a cimeli, a documenti, pur di riuscire a determinare colla massima certezza le date della vita d’una personalità o d’un avvenimento storico. È stato il desiderio di conoscere, attraverso un personaggio quelle altre verità che, non  essendo sempre dì dominio del pensiero riflesso, le chiamiamo con altri nomi. Tale desiderio l’ha  portato a conoscere quanto Pico, al pari degl’uomini del suo tempo, fosse assetato di verità, e come più di tutti i suoi contemporanei avesse il senso dell'inanità degli sforzi umani e della vita stessa. Quanto egli, pur aspirando alla verità come luce rasserenatrice, fosse convinto, anche prima  di raggiungerla, che desso, purtroppo, non è il fine ultimo della vita, che c'è qualcosa di più alto ancora che più della cristallina chiarezza del vero esprime l'essenza della vita, e cioè l'amore. Non è tragico tale sentimento che rende inquieta l'esistenza di quest’aristocratico il quale, sotto la femminea placidezza del suo volto avvenente, nasconde un'anima irrequieta e nostalgica, non  già  agitata dalle passioni 0 dai perturbamenti del senso, ma dal dubbio della ragione, dal contrasto che sorge come nube procellosa negli spiriti meditabondi ogni volta che vedono l'inconciliabile opposizione fra il reale e l'ideale? E ciò che nel Pico rende insanabile questo dissidio interiore era il senso del mistero che in combeva su ogni manifestazione del suo vivere, il senso dell'arcano  per penetrare il quale s'illude, come gli spiriti profondamente mistici, che al di là della conoscenza comune, al di sopra delle nozioni volgari ci fosse una dottrina esoterica, accessibile a pochi, per mezzo della quale l'iniziato potesse inoltrarsi nei sentieri reconditi ove splende la luce che trasumana. Non so quanto sia riuscito nel suo assunto che era di rappresentare Pico quale mi si  rivela più che dai documenti d'archivio, dalle sue opere e dalle lettere del suo epistolario. Certo sarebbe per lui motivo di conforto poter constatare che il suo studio potrà essere stimolo ad altri a darci di Pico quell'opera completa che tuttora ci manca. Bologna, Villa Serena. In un'alba nasce nel castello della Mirandola Pico. Sua madre, in un sogno di fiamma, n’aveva presagito la bellezza  superiore a quella delle sue splendide figlie, e l'ingegno e l'amabilità che non aveva saputo riscontrare nei figli Galeotto e Anton Maria, in perenne lotta pella supremazia del feudo. Muratori, Amali d'Italia; Tiraboschi, Dizionario Top.; Bratti, Cronaca; Cronaca della Nob. Famiglia Pico, scritta d’autore anonimo, illustrata con note e documenti da Molinari, pubblicata in Memorie storiche  della città, ecc. Mirandola; Ceretti, Giulia Boiardo in Atti e Memorie della Deput. di storia patria dell'Emilia, Modena; Burckardt, La civiltà italiana nel ri-nascimento, Firenze. La prima biografia del Pico è quella scritta dal nipote Gianfrancesco e premessa in tutte le edizioni delle opere. La contessa Giulia, che aveva nelle vene un po'del sangue del cantore dell'Orlando innamorato, ci  si presenta una di quelle donne meravigliose del ri-nascimento, abilissime nei lavori muliebri e aperte a ogni manifestazione dell'arte, capaci d’accudire alle cure più minute della famiglia e di tener testa agl’affari più difficili dello stato. Questa donna, che altrove ci appare energica e severa, accanto a PICO,  rivela i caratteri più squisiti della maternità. Ora la vediamo tutta compresa di  tenerezza nell'atto che la nutrice mostra il bimbo in fasce a Merula, ospite durante il suo viaggio per Bologna delle figlie Lucrezia e Caterina. Ora notiamo lo sforzo della sua maschia natura per condiscendere a certi capricci e vizietti di PICO. Oh! la gioia di questa madre quando assiste alle prime rivelazioni di quell'ingegno precoce, che era pronto a cogliere sul punto qualsiasi istruzione impartita, che impara con rapidità sorprendente una poesia, che rivela sin dai più teneri anni una memoria prodigiosa. L'indole dolce e arrendevole che Pico aveva sortito da natura, l'aspetto quasi femmineo del volto che si tinge di rossore o impallidiva ai fremiti insoliti dell'età critica dell'adolescenza vicina, l’inclinazione agl’ardori d’un misticismo incipiente, dovevano senza dubbio indurre la contessa Giulia a provvedere per tempo all'avvenire del figlio, non senza quella trepidazione propria delle madri che vorrebbero vedere immutata l'ingenuità delle loro creature. A Giulia parve che lo stato ecclesiastico fosse il più adatto all'indole del piccolo Giovanni che, da parte sua, era più che mai disposto ad abbracciare uno stato in cui avrebbe potuto svolgere più agevolmente quei sogni che cominciavano già ad agitarlo. Giulia s'interessò per ottenergli la elevazione a protonotario apostolico, e appena il figlio ebbe raggiunto l'età di dieci anni, la contessa ne celebrò solennemente l'investitura. Alcuni anni dopo, nel 1477, Io mandò a studiare diritto canonico all'università di Bologna . La festante città dei Goliardi, la cui vita politica era guidata in questo tempo dalla potente famiglia dei Bentivoglio, poteva considerarsi per il suo Ateneo « il tramite per cui le idee umanistiche passavano dall'Italia all'Europa. Da ogni regione d'Italia e paese d'oltr'Alpe convenivano quivi numerosi gli studenti con le caratteristiche e i linguaggi delle loro terre; e quivi formavano corporazioni con statuti propri. Si deve far risa ci) SCARABELLI, Dell'antico studio bolognese, Bologna, 54-55; Gavazza, Le Scuole dell'antico Studio bolognese, Milano, 1896, 78. 4lire a questo periodo l'attrattiva esercitata sull'animo del Pico dall'ordine domenicano, che finirà per essere una delle mete sospirate. La chiesa di S. Domenico era il luogo in cui solevano radunarsi le corporazioni dei « legisti », i quali erano tenuti a intervenire processionalmente alla festa di S. Domenico e ad assistere dal coro alla messa dello Spirito Santo. Tra quei frati predicatori che, per la loro dottrina e il loro ascendente, avevano sì gran parte nelle cose dello studio, uno dovette attrarre l'attenzione del Pico, per le maniere semplici e rudi, gli occhi vivissimi, la fronte solcata da rughe e il colore bruno che contrastava col biancore del lungo saio. Questi era Girolamo Savonarola, giovane allora venticinquenne, già emaciato dai digiuni e dalle astinenze che a « vederlo passeggiare pei chiostri, pareva piuttosto un'ombra che un uomo vivo. È dubbio se fin da allora si stringessero rapporti fra i due, che dovevano in seguito legarsi coi vincoli di reciproca stima; certo da quel momento i loro occhi si saranno incontrati, non con l'indifferenza onde passano le innumeri fisonomie umane, ma producendo quella recondita impressione che rifiorisce presto o tardi negli scambi di idee e di sentimenti. VillAri, Savonarola, Monnier. È durante il tempo de' suoi studi di filosofia a BOLOGNA che muore a Pico la madre, e ci duole di non trovare alcun'eco ne' suoi saggi di questa sventura. Ma faremmo torto al suo delicato sentire se volessimo ciò attribuire ad uno scarso attaccamento verso la persona che pili di tutte lo ha amato. La contessa Giulia che si era portata a Bologna per stare vicina al diletto figliuolo, fu colpita da un malore che la trasse in breve, il 13 agosto 1478, alla tomba. La sua salma, trasportata il giorno seguente alla Mirandola, fu tumulata accanto a quella del marito nella chiesa di S. Francesco. Pico, forse perchè non si sentiva portato allo studio del diritto canonico, decise di recarsi a Ferrara ove lo invitava il Duca Ercole I, già imparentato con la sua casa, avendo sposato la sorella Bianca a Galeotto, fratello del nostro Giovanni. Quando nel maggio del 1479 giunse a Ferrara, che era allora una delle città pili popolose e ricche d'Italia, fu assai lieto di poter frequentare la scuola di rettorica e di poesia di Battista Guarino, che proseguiva con pari valore le direttive del padre suo, il celebre Guarino Veronese. Come un'aura di poesia doveva respirare nella città che della poesia cavalleresca ed epica stava per divenire il centro d'Italia, e come un'ebbrezza 6materiata di sensualità doveva ispirargli la tragica storia ancor recente di Parisina e gli amori un po' violenti del padre di Lionello e di Borso d'Este . Il Pico trovò modo di appagare più di un desiderio come ci attestano i frammenti delle sue poesie amatorie e Raffaello da Volterra ne' suoi commentari in cui parla anche del successo che conseguiva nelle pubbliche discussioni. Non ostante la simpatia ch'egli sentiva per Ferrara in cui aveva contratto varie amicizie cogli Nell'interno del palazzo accadono fatti spaventosi: una principessa, Parisina, è decapitata insieme col figliastro Ugo per adulterio (v. Muratori, R. I. S. lib. XX); principi legittimi e illegittimi fuggono dalla corte e sono minacciati anche all'estero da assassini inviati ad inseguirli, come accadde; oltre a ciò continue cospirazioni dal di fuori; il bastardo di un bastardo vuol rapire a forza la signoria al legittimo erede. Ercole I ». BuRCKHARD. Cfr. Solerti, Ugo e Parisina in Nuova Antologia. Ivi il Volterra dice di avere veduto il giovinetto Pico, vestito da Protonotario apostolico, discutere fra le acclamazioni di tutti con Leonardo Nogarola. Devono alludere a questo tempo le parole del nipote: « Prius enim et gloriae cupidus, et amore vano succensus, « muliebribusque illecebris commotus fuerat, foeminarum « quippe plurimae ob venustatem corporis orisque gratiam, « cui doctrina amplaeque divitiae et generis nobilitas ac« cedebant, in eius amorem exarserunt ». Opera, Vita, senza numerazione di pagina. uomini pili in vista del mondo letterario come col Guarino e con Vespasiano Strozzi, il demone dell'irrequietezza cominciò a fargli sospirare altre città, a comunicargli il tormento comune a tutti gli umanisti di allora pei quali la più gran gioia era quella di andare in cerca di nuovi codici, dì poter frugare conventi e biblioteche, di scoprire qualche nuovo volume. Benché ormai rimanesse poco o nulla da scoprire, dopo che, sull'esempio del Petrarca, il Filelfo, il Guarino, Giovanni Lascaris erano riusciti a riesumare tante opere preziose dell'antichità, non era peranco cessata la bramosia della scoperta di nuovi libri . Il Pico, spinto da un ardore che nasceva da uno spiegabilissimo sentimento di emulazione, non risparmiava spese nell'acquisto di libri, e intraprese anche dei viaggi per raccogliere o rintracciare qualche codice antico. Nell'autunno del 1480 troviamo il Pico a Padova , dove in data 16 dicembre di quell'anno Sabbadini, Le scoperte dei codici latini, Firenze, Sansoni. Cfr. specialmente i capitoli IV, 72, VI, 114. Anche il Muntz, Precursori e propugnatori del Rinascimento, trad. Mazzoni, Firenze, Sansoni, 1902, 76-78. II Pico rimase a Padova per un biennio. Cfr. Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, 1902, 749. 8 gli venivano rimesse le patenti ducali con le quali si concedevano a lui studente di filosofia nell'almo studio patavino, tutti i privilegi che vi potevano godere gli scolari. Pare che l'indirizzo di studi che si perseguiva in questa città e l'ambiente studentesco lo soddisfacessero molto, poiché in una lettera ad Ermolao Barbaro dice che, fra tutti i «ginnasii» d'Italia, quello di Padova era stato da lui frequentato più volentieri . Era il Pico allora in quell'età in cui la vita sorride più che mai all'occhio dell'adolescente che, nell'esuberanza delle proprie forze psichiche, non trova limiti al suo pensiero, e il bene e il male rientrano in quella sfera che li assorbe, direi quasi, li accomuna, cioè l'amore. Ciò che in altre età può sembrare scandaloso, indegno dell'uomo, è nell'adolescente tollerato; e anche quando l'uomo avanzato negli anni piange, come il Pico, i peccati della gioventù, sente nel-, l'amarezza del rimpianto il rimorso di così cari ricordi! E il Pico era troppo sensibile per non sentire questa vita fremente che gli s'agitava intorno, egli ch'era così bello, colle chiome d'oro svolazzanti sul volto radioso, quasi novello Ado « ex Italiae gymnasiis mihi sedem ad philosophiae « studium diligerem... » opera, 376. Cfr. DoREZ et ThuaSNE, Pie de la Mirandole en France, Paris, Leroux, 1879, 9. 9 ne, come ce lo dipinge il Ramusio in un carme latino. Testimonianza di questa vita goliardica di Padova, è la raccolta dei carmi latini di Girolamo Ramusio, ch'egli volle dedicare al Pico verso il quale si sentiva attratto, oltre che da tenera amicizia, da identico amore per lo studio delle lingue orientali e per la vita avventurosa , con un carme intitolato: Illustrissimo loanni Mirandolae principi ac concordine corniti benemerenti, Hier. Ramusius paiiper Ariminensis. Girolamo Ramusio, della cui memoria non c'è traccia nelle opere del Pico, benché nella raccolta delle sue poesie si trovino inseriti alcuni carmi di quel Donato col quale il Pico rimase in Ecco i distici del carme Lusus in Venerem: Pacem vultus habet, facies exorat amorem Membraque scytonia sunt magis alba nive. Cuncta dicent Divum, ut sydus ocelli, Et volitant circum tempora amata comae. citati dal Flamini, Girolamo Ramusio, in Atti e Memorie d. R. Acc. di Padova. Viaggiò in oriente in cui imparò la lingua araba, fu a Damasco nel 1484, morì a 36 anni il 5 giugno 1486^ mentre si recava da Damasco a Beiruth. Flamini, 1. e. Anche il Donato studiò a Padova nel 1476, conobbe Catta, amata dal Ramusio, e l'amore della fanciulla per l'amico gì' ispirò versi di rimpianto per la immatura morte, e in essi cerca di riprendere il Ramusio pe' suoi carmi lascivi. Assistendo alla laurea dell'amico nel 1476 scrisse una saffica per quell'occasione. Divenuto personaggio influente nella Repubblica di Venezia, protesse letterati e umanisti. 2 10 rapporti epistolari, era oriundo da Rimini dove fu caro a Pandolfo Malatesta; venuto a studiare a Padova quivi nel 1476 si laureò, come dice in un carme dal titolo: Dum subirem artium laurearti in collegio doctorum Ramusius pauper. Nelle sue poesie « di un'oscenità da disgradarne VHermaphroditus del Panormita... e che sono veramente nugae da giovani spensierati e scapestrati » canta gli amori per una bella fanciulla di Narni, di nome Catta, morta in età immatura, da cui pare fosse corrisposto. Al Pico indirizzò due carmi, nel primo dei quali si duole di non poter essere sempre con lui, a cagione delle strettezze che lo costringono a starsene a lungo in casa; nel secondo (ch'è una saffica all'oraziana) ne loda la bellezza, la dottrina, la liberalità . Si deve attribuire senza dubbio a questo periodo, in cui dovette influire non poco sulla condotta del Pico la convivenza con studenti del temperamento di un Ramusio e di un Donato, la composizione di gran parte delle poesie del nostro, le quali non dovevano essere diverse Flamini, op. cit., 19. Flamini, Delle donne amate dal Pico, due sono celate sotto lo pseudonimo di Marzia e di Fillide Peona o Pleona, morta quest'ultima in Padova nel 1481. Cfr. DoREZ et Th. op. cit., 16 e Della Torre, op. cit., 758, n. 3. 11 dalle nugae degli altri, se in seguito il Pico le diede alle fiamme. Ma non tutti gli amici del Pico erano del tipo suaccennato; ve n'era fra gli altri uno che per la sua anima candida e mite, per la sua profonda conoscenza della filosofia aristotelica, doveva lasciare traccie visibili sull'opera del Pico, e legarsi a lui coi nodi della più dolce amicizia. Eia questi Ermolao Barbaro che da alcuni anni era titolare di filosofia morale in quell'Università dove si era addottorato a ventitré anni nelle leggi civili e canoniche . Benché nei periodo in cui il Pico studiava a Padova, Ermolao stesse per lo più a Venezia, ove copriva importanti cariche pubbliche , pure, le poche volte che poterono vedersi, si sentirono subito due anime gemelle fatte per intendersi e per amarsi. Conoscitore profondo della lingua greca, Ermolao ri Nei Fasti Gymnasii Patavini, Patavii, del FacciOLATi, abbiamo Ermolao Barbaro prof, di filos. morale; Fr. Io. Battista ex eremitis di S. Agost. prof, di logica nel 1480, 114; nello stesso anno era rettore degli artisti Benedictus Ariminensis, 88-89. Cfr. Colle, Storia dell' Univ. di Padova, 1824. Apostolo Zeno, Disseri. Vossiane, Venezia, 1753, t. II, 368. Causa la peste a Venezia, ritornò in Padova ove si mise a disposizione dei giovani che lo pregarono d'insegnar loro il greco. In quell'anno fu creato senatore. Cfr. Colle, 12— poneva ogni suo intento a tradurre Aristotile, le cui dottrine solide e profonde erano un pascolo per la sua mente costretta sovente a ben altre faccende. Bisogna riconoscere che Padova, la quale era il centro del movimento intellettuale del Nord-est d'Italia e per l'insegnamento filosofico faceva tutt'uno con l'ateneo bolognese , esercitò sul giovane mirandolano un influsso le cui traccie si scorgono qua e là nelle sue opere. Anzi tutto ciò che vi è di scolastico e di medioevale nelle Tesi e in altri lavori filosofici del Pico, è dovuto a questi anni di studio nell'università patavina che ha continuato più a lungo di qualunque altra le abitudini del medioevo. Era Padova la rocca forte dell'Averroismo e uno dei professori piìi ragguardevoli, non privo di una certa originalità, fu Nicoletti Vernia che insegnò a Padova. L'insegnamento di questo averroista, che sosteneva senza restrizioni la teoria dell'unità dell'intelletto, non dovette svanire si tosto che il Pico, il Nel 1475 aprì nella sua casa alla Giudecca una scuola privata di filosofia, e aveva in animo di tradurre tutto Aristotile; peraltro tradusse V Etica, la Rettorica, la Dialettica e inoltre scrisse una parafrasi di Temistio. Cfr. Renan, Averroès et l'Averroisme, Paris, 357-58; Burckhardt, op. cit., 242-244; Mandonnet, Sigerete Brabant, 2^ ed. 111-112, n. 1; Windelband, Storia della Filos. trad. it. Palermo II, 16-17; Petrarca, Opera» 1581, Basilea, II, 1093. 13 cui soggiorno a Padova coincide con gli anni scolastici 1480-1482, non palesasse una certa indulgenza per l'arabismo da fargli vagheggiare l'accordo oltre che fra Platone e Aristotile, fra Avicenna e Averroè. Durante i due anni di studio a Padova si recava sovente nella natia Mirandola, la cui quieta e semplice vita paesana gli tornava sommamente gradita e dove amava invitare amici e maestri. Ma in quegli anni la pace del castello avito doveva interrompersi agli orrori della guerra fratricida scoppiata fra veneziani e ferraresi. Anche il Duca di Milano, i Bentivoglio di Bologna, la Repubblica di Genova e qualche altro staterello, erano stati attratti nell'orbita del conflitto; e i soldati mercenari coi loro cavalli e carriaggi taglieggiavano e smungevano, durante le loro scorrerie, i pingui contadi della pianura padana. La piazza di Mirandola, che era come una tappa sulla strada maestra, dovette senza dubbio subire tutti gl'inconvenienti che derivavano ai piccoli comuni incapaci d' imporsi alla forza dei più potenti, La visione di una realtà intrisa di sangue, quale può essere in periodo di Per la guerra tra Venezia e Ferrara, vedi Marin Sanudo, Commentari della guerra di Ferrara, Venezia, 1829, 7; Muratori, XXIV, 257. Du Mont, Corpus Diplom., Ili, 2, 128. Cipolla, Storia delle Signorie Italiane dal 1313 al 1533, Vallardi, Milano, 1881, 603-640. 14 guerra, così lontana da quella che i suoi studi umanistici rendevano idealmente gentile, avrà certo contribuito a far abbandonare al nostra ogni pensiero di partecipazione alla vita politica e di scegliere tra l'instabile carriera di principe e la missione di dotto, questa che gli apriva la via a una meta pili certa e duratura. Già fino dai primi anni aveva sperimentato la precarietà della vita principesca, quando poco dopo la morte del Padre, avvenuta nel 1468, i suoi fratelli vennero a contesa per la supremazia del loro staterello, e di cui si ebbe il primo epilogo nel 1473, avendo Galeotto fatto prigione il fratello Anton Maria. Questi, liberato dopo due anni di, carcere, si vide spogliato dei beni paterni e costretto a cercar asilo presso il Papa e il duca di Calabria, i quali con grandi sforzi e soltanto^ mediante l'intromissione di Ercole, cognato di Galeotto, riuscirono nel 1483 a farli venire a un accomodamento. Galeotto ebbe il dominio della Mirandola e del territorio e il conte Anton Maria fu ammesso a condividere il potere in moda che i due non dovessero pregiudicare alle ragioni della terza parte dell'entrata di detta terra che spettava al loro fratello Giovanni. Il nostro Cfr. Memorie stor. della ciità e dell'antico ducato della Mirandola, tomo unico, Mirandola, 1874, IL 15 per essere più libero di attendere a' suoi studi, declinò ogni inframettenza nelle cose che gli appartenevano, e incaricando il fratello maggiore dell'amministrazione di ogni suo avere, partì alla volta di Pavia col suo maestro di Greco, Manuello Adramitteno, mentre col compatriota di questi, Elia del Medigo di Candia, con cui aveva già cominciato a studiare ebraico a Padova, rimase in relazione epistolare. Il suo soggiorno a Pavia dovette essere di breve durata, perchè alla fine del 1482, lo ritroviamo ancora a Padova, di dove indirizza, il 22 dicembre, una lettera al Ficino, la cui fama d'interprete e volgarizzatore delle opere platoniche e alessandrine si diffondeva ovunque . Il Cassuto basandosi su alcuni passi ebraici di Elia, ritiene non risponda al vero la congettura avanzata dal Della Torre (Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, 1902, 752) che il Pico, partendo da Padova, conducesse seco Elia. Gli Ebrei a Firenze nell'età del Rinascimento, Firenze, 1918, 286. Proprio in quell'anno (6 novembre 1482) usciva la neologia Platonica del Ficino e il Pico nella sua lettera lo prega di inviargliene una copia e di assisterlo nei suoi studi i quali come erano stati indirizzati al peripatetismo, voleva d'ora innanzi integrarli col platonismo. Vi è in questa lettera del Pico una frase che fa sospettare che egli abbia veduto il Ficino tre anni innanzi e cioè nel 1479: « Cum enim apud te essem superioribus an« nis adhortationes tuae nec unquam ardenter magis, quam 16 « ex illa in hanc usque diem me totum literis addisci * id., 373, Ma dove aveva egli veduto il Ficino? Il Della Torre nella sua opera afferma a Firenze, ma senza portare nessuna prova di questo soggiorno del Pico nella città dei Medici. Egli stesso dice che il 14 aprile del 79 il Pico scriveva da Mirandola al Marchese Gonzaga che si recava a Ferrara e il 29 maggio era in tale città. Se coi mezzi odierni di trasporto il fatto non avrebbe oggi nulla d'inverosimile, non altrettanto può dirsi del tempo del Pico. Comunque il quesito resta ancora insoluto. Pico dopo aver fatto una nuova visita a Pavia e dopo avere soggiornato alquanto a Carpi, presso la sorella Caterina e il nipotino Alberto Pio, del quale era allora precettore l'amico Aldo Manuzio, si trasferì ai primi del 1484 nella città di Firenze. L'Atene d'Italia si trovava allora in quel mirabile meriggio in cui la vita sociale era fervida in tutte le sue innumeri attività e l'arte splendeva in ogni angolo della città, in ogni manifestazione del popolo. Lorenzo Magnifico aveva potuto, col suo tatto mirabile, rimettere in equilibrio la bilancia dello stato che aveva Poliziano, Episi., lib. VII, 7; Calori-Cesis, Vita, ecc., Modena, 1866, 14-15; DoREZ et Thuasne, Pie de la Mirandole en France, Paris, 10; Berti, Rivista Contemporanea, t. XVI, 1859, 9; Della Torre, L'Accademia Platonica, 747, n. 6. 18 momentaneamente tracollato con la congiura det Pazzi; mentre i suoi cortigiani e tali erano il Ficino, Cristoforo Landino, Giovanni Argiropulo cercavano di attuare un analogo equilibrio nel campo del pensiero e della religione, mediante l'Accademia Platonica, e il Poliziano teneva alto il nome dello Studio fiorentino con le sue affollate lezioni di letteratura greca e latina. Quando il Pico arrivò a Firenze non vi giunse come straniero in mezzo a gente sconosciuta, ma come un amico desiderato dal Magnifico e dal Poliziano, e come il benvenuto in mezzo a persone che nulla piìi desideravano che il vedere aggiungersi alla schiera dei ricchi borghesi e letterati un principe umanista che veniva a fare pìit bella la corona dei Medici. Tra i tanti letterati che convenivano nella casa medicea, molti facevano parlare di sé oltre che per la loro erudizione e dottrina per le produduzioni poetiche, filosofiche e letterarie. In Firenze il lavoro di preparazione, ormai matura degli umanisti italiani, cominciava a fiorire in creazioni originali. Il Pico sentiva la sua inferiorità, nonostante che i suoi tentativi poetici venissero lodati dagli amici; s'avvide che la stoffa di umanista si era ormai invecchiata e conveniva ristorarsi a quelle sorgive popolari cui attingevano il Poliziano e il Magnifico. 19 Fra quanti avvicinava, nessuno gii pareva brillasse di pili viva luce del Poliziano, e nessuno più degno d'essere preso a modello di un « novizio e quasi scolaretto», com'egli si giudicava, E c'è quasi dell'accoramento in alcune frasi della lettera critica alle poesie del Magnifico in cui, dovendo fare da giudice di un poeta « adolescente » esclama: «So purtroppo di non potere far parte « io pure di questo albo (di giovani poeti), nò di « essere così maturo da arrogarmi il titolo di «critico». La lettura delle poesie dell'amico lo aveva entusiasmato; scorgeva in esse i segni dei tempi nuovi: una certa « vivida luce », una nativa freschezza che sembrava scaturire in suolo vergine- In quelle poesie che toccavano tutte le corde della vita: laudi mistiche e religiose, canti satirici e burleschi, canoni d'amore e « carnesciali »., Lorenzo Magnifico gli si rivelava grande poeta. Tali poesie gli ricordavano i due pii^i grandi poeti della letteratura italiana: Dante e Petrarca. Aveva del primo la maestosa serenità del verso « aspro e stringato » quale si addice a poesia di argomento filosofico, senza però essere come quegli «impolito e rude»; del secondo la «molle tenerezza * propria della poesia erotica con in pili la maschia robustezza (iorosus) dell'uomo d'azione. Ciò che spiace nel Petrarca è il notare qualche freddezza e ridondanza nel verso e una 20 certa ostentazione nell'uso delle parole che tradiscono il lavoro di lima, mentre in Lorenzo ogni parola appare al suo posto «con naturalezza». Dante vola sublime e mesce con dignità severa le cose gravi dei filosofi cogli scherzi degli amanti, ma Lorenzo nell'aver saputo cospargere qua e là versi ilari e graziosi «sembra abbia superato Dante». Tuttavia se Lorenzo appare più fine, Dante resta più grande. Questa lettera scritta a Firenze nel luglio del 1484 per l'acutezza di alcuni giudizi, incontrò favore presso molti amici e fu uno dei primi passi verso la capacità critica del nostro autore il quale, se si è lasciato prendere la mano dal calore della prima impressione e dalla simpatia che lo faceva indulgere troppo verso Lorenzo bisogna del resto tenere presenti le circostanze singolari in cui nacquero queste poesie di Lorenzo, le feste pubbliche in cui giovinetti e fanciulle le cantavano, le mascherate in cui venivano recitate rivela tuttavia un acume penetrante e misurato. La frase quo mihi videris Dantem exsuperasse, potrebbe sembrare una Opera, 349-50. Cfr. Carducci, Cavalleria e Umanesimo, t. XX delle opere, 1909, 258; ROSCOE, The life of Lor., ecc., London, 1800, voi. II; Thuasne et Dorez, op. cit., 15; Geiger, Renaissance und Humanismus in It. und DeuL, Berlino, 1882. Vedi infine il bello studio di SCARANO, Le selve d'amore in Nuova Antologia, voi. 131, 1893, 49-66. 21 recisa dichiarazione circa la superiorità dell'ingegno del Magnifico, rispetto a quello dell'Alighieri, mentre si riferisce solamente all'espressione formale in voga a quei tempi che tenevano in gran pregio V hilaritatem gratiamque in cui Lorenzo era maestro. Naturalmente il Pico non poteva rassegnarsi a rimanere semplice amatore di poesia in mezzo a tanti dotti che avevano pagato piiì o meno il loro tributo alle Muse; voleva anch'egli dare qualcosa di suo per sottrarsi a quel senso d'inferiorità che gli era reso tanto piiì penoso quanto piii sentiva in sé lo stimolo della gloria e il sentimento della propria ca pacità. S'indusse dunque a pubblicare i suoi versi, distribuendoli in cinque libri, e inviò il primo ad Angelo Poliziano perchè lo correggesse e criticasse. « Voglia tu essere, gli scriveva, giudice equo non iniquo, cioè severo, non indulgente ». E il Poliziano gli rimandava il manoscritto corretto di alcuni versi difettosi, con questo giudizio che non è privo di grazia lusinghiera: «Ho corretto alcuni versi non perchè li disapprovassi, ma perchè sembrano cedere ad altri più belli». Il Pico lusingato sulle prime da simile benevolenza dell'amico per i suoi componimenti poetici, dei quali in un'altra lettera aveva Opera, detto: . Ecco la Conclusione Si quis in • opere prnecedentis conclusionls intellectualiter operabi • tur, per mcridiem li^^abit septentrionem, si vero mun • dialiter per totum operabitur, iudicium sibi opcrabitur ». 107. Conci. 21, Opera, 107. Conci. 11. 105-10^1. (4) • Non potest operari per puram Cabalarli qui non est « rationaliter intellectualis >. Id. 109. 112 mondo, compose il suo Heptaplus o settemplice spiegazione dei sei giorni della Genesi. In quest'opera del Pico, in cui l'elemento lirico prevale talvolta sulla serena spiegazione cosmogonica, i tre mondi: il divino, l'angelico, e l'elementare, sono legati da un'intima armonia. « Haec satis de tribus mundis, in quibus illud in « primis magnopere abservandum unde et nostra « fere tota pendet intentio esse hos tres mundos « mundum unum, non solum propterea quod ab « uno principio et ad eundem finem omnes refe« rantur, aut quoniam debitis numeris temperati et « harmonica quadam naturae cognatione atque or« dinaria graduum serie colligentur ». L'uomo, in questo sistema, è il compendio dell'universo, la sua figura rappresenta i tre mondi, l'intellettuale, il celeste e il corruttibile; è quindi un piccolo mondo . Ma l'armonia non dev'essere solo una legge dell'universo, un dato della realtà in tutte quante le sue manifestazioni, essa deve regnare anche nel pensiero dell'uomo, e ogni prodotto dell' in Heptaplus. Prefatio, id. 6. « Nam si homo est parvus mundus utique mundus « est magnus homo, hinc sumpta occasione, tres mun« dos, inteliectualem, coelestem et corruptibilem, per tres « hominis partes, aptissime figurai ».61. 113 tcllctto deve seguire la legge musicale. Come nei mondo esteriore all'armonia si contrappone il disordine, cosi anche nelle discipline intellettuali prevale molte volte la discordia, prodotta dalle basse passioni. È scopo nobilissimo quello di cercare l'armonia e di far notare la concordia anche nelle teorie più disparate. Questo scopo il Pico se lo prefigge nell'opuscolo De Ente et Uno. Era vecchia la questione se Aristotile si opponga a Filatone nella determinazione dell'essere e dell'uno. La scuola platonica ammetteva la superiorità dell'essere sull'uno (unum esse superius), mentre Platone nel Sofista ne proclama l'identità (!'. Com'è facile comprendere, i primi avevano preso l' ipotesi per la tesi, e attribuivano come pensiero del maestro ciò che non era in fondo che la loro erronea interpretazione. Quando parliamo dell'essere, intendiamo con questo tutto ciò che è al di fuori del nulla, e in questo senso Aristotile aveva detto che l'um» è uguale all'essere 2). « tnim vero in Sophistc in liane scntcntiam po« tius loijuitur esse unum et ens aequalia •. 243. « Quomodo usus est Aristoteles cum uniens ae. quale fecit. Nec dictionem absque ratione sic usurpavit. « nam ut vere dicitur sentire quidcm ut pauci. loqui autein ut plures debemus. Contro quei Platonici moderni che presumonodi avere dalla loro Dionigi l'Areopagita, possa affermare, soggiunge il Pico, che Dionigi è piuttosto della mia opinione, e gli avversari si trovano nel dilemma di dover dire che Dio è e non è nello stesso tempo. L'essere in sé che diciamo Dio, non è l'essere che noi intendiamo, vale a dire l'essere concreto^ ma quella superentità, che è la pienezza di ogni essere e che non procede altro che da sé stesso . Noi dobbiamo ritenere l'uno superiore all'essere nel modo stesso che si dà a Dio l'attributo dell'unità, principio di tutti i numeri. Cosi si spiega se gli Accademici attribuiscono a Platone l'affermazione che l'uno è superiore all'essere; senza dubbio intendevano parlare dell'uno principio di tutte le cose, che è Dio. Nel V Pico espone i modi secondo cui perveniamo alla divinità, i quali però sono sempre inadeguati a farci comprendere piena Sed et Dionysius Areopagita quem qui centra « POS disputant fautorem suae sententiae faciunt non ne• gabit vere a Deo apud Mosen dici Ego sum qui sum ».244. « Hac igitur ratione vere dicemus Deum non esse « ens, sed super ens, et ente aliquid esse superius ».245. 115 mente Dio (I). Questi modi sono qiiatii i li f^ico li chiama gradi dell'ascensione dialettica a Dio; essi corrispondono alle qualtro forme musicali che abbiamo analizzato. La prima forma, poiché si rivolge ai sensi coi suoni, ci fa conoscere che Dio non ò forma corporea, come insegnano gli epicurei e gli Stoici. La seconda che è l'ars numeranJi, ci fa intuire nell'essenza divina qualche cosa che va al di \h della vita, deirintelligibilitc^, e cioè la deità che 6 in sé. si raccoglie e si unisce non come uno fra molti, ma come uno innanzi a molti (2. Colla terza forma, che Pico fa corrispondere alla Magia naturale, c'imposessiamo delle leggi stesse che presiedono ai destini umani e nell'ordine mirabile dell'universo Dio ci appare non solo come la bellezza che traluce in ogni cosa, come il vero che può essere frammentariamente presente nelle più differenti dottrine, ma sopratutto come bontà, poiché l'universo rivela essenzialmente un valore etico. La quarta forma, che nella gradazione pichiana e la Cabala pura, ci • Deus enim nmnimoda et infinita pcrfectlo est. • Deus ipse sua unica pedectione. quae est sua « infìnitas. sua deitas. quae ipsc est, in se unit et colligit. « non sicut unum ex illis multìs, scd unum ante illa multa >.249. 116 mette in rapporto diretto con Dio, senza peraltro farcelo ben comprendere. Dio infatti non è solo ciò di cui non può pensarsi nulla di più grande, come dice S. Anselmo, ma ciò che è infinitamente pili grande di tutto ciò che può essere pensato. In questo quarto grado la nostra mente è come ottenebrata da caligine, si da poter appena intravvedere l'essenza di Dio elevantesi al di sopra della stessa unità, bontà e verità, e innanzi a cui conviene solo, come dice David, il silenzio: « Tibi silentium laus». Il silenzio! ecco la musica, la sola musica che convenga a Dio. Al filosofo musicale, è subentrato il mistico, l'uomo cioè che rinnega ogni armonia, ogni bellezza formale e si ritira in quel mondo chimerico in cui la tenebra ha lo stesso valore della luce, il silenzio ha uguale malìa del suono. Gli ultimi anni del Pico sono caratterizzati da una vita di fervido misticismo unicamente spesa per l'amore di Dio e il bene della Chiesa. A Dio egli dedicò lo scritto In Orationem dominicam ex oEx quibus colligi illud potest non solum esse « Deum, ut dicit Anselmus, quo nihil maius cogitari po« test, sed id esse, quod infinite maius est omni eo quod « potest excogitari. « Ego vero dico Chimaeram quam mente conci« pimus. 117 positio; per la Chiesa scrisse l'opera poderosa: In Astrologiam. Nella prima, che è un'analisi dell'orazione domenicale, preceduta da un'enunciazione delle teorie del Pico, l'elemento musicale è intimamente connesso a quel desiderio il cui obbietto è il sommo bene. Diremmo che quanto più la preghiera è elevata e disinteressata, tanto più è pura musicalità. Quando l'uomo prega non per chiedere favori o qualche bene immediato, ma per essere purificato dai peccati, per raggiungere la dolce contemplazione dei beati e conseguire la purezza degli angeli , allora egli è in contatto di quel profondo io, che, come si esprime il Tagore rivela l'intima natura dell'uomo « più che « il bisogno di sostentamento per il suo corpo, « più che la sua avidità di onori e di ricchezze. « E quella preghiera non proviene solo da lui, «essa è nella profondità di tutte le cose, è l'in • Scimus autem illud esse sumnie desiderandum « quod est summum bonum •. Opera, fol. a 1. Et monebimur ad petendum hoc efficacissime su« per omnia a Dee ut praeservet nos a peccato. Nihil aut « de rebus huius mundi, aut de gratiis gratis datis vel « desiderantes, vel a Dee petentes. Diximus igitur nihil « ex his honis... adiumento esse sicut scientia et dulcedo « contemplationem... ^fol. a 2. «cessante stimolo in lui deW Avih, dello spirito « di eterna manifestazione. Nell'opera contro gli astrologi, nel mentre il Pico ribatte uno per uno gli argomenti degli avversari che si erigevano a paladini dell'astrologia, prende occasione per esporre le sue idee sulla forma e le leggi degli astri, e per far rilevare anche quella superióre armonia in virtù delia quale si compone l'apparente disordine del cielo stellato. Intanto fa risaltare subito che è assolutamente arbitraria la configurazione dello Zodiaco, come fantastiche e ridicole sono le rappresentazioni animali di cui gli astrologi popolano il cielo. Bisogna premettere che l'opera del Mirandolano rispondeva a un bisogno del tempo in cui era tutto un rifiorire di pregiudizi astrologici, magici e negromantici. Il Pico che in questo tempo (1492) frequentava il Monastero di S. Marco, in cui convenivano (5) Tagore, Sadhana, reale concezione della vita, tradCarelli, Carabba, Lanciano. Cfr. Semprini, La preghiera nell' Imitazione di Cristo e suoi rapporti col misticismo, in Rivista di Psicologia. Quod nos in universum primo declarabimus, tum « singillatim, quascunque aliquis Astrologorum signavit co« niunctiones magnas, retulitque ad eventa rerum admi« rabilium, et falsas et falso supputatas et ad effectus falso « relatas, luce clarius ostendemus lanti ammiratori del Savonarola, dovette sentirsi stimolato dal frate ad impugnare quell'arma potente contro la pretesa degli astrologi, che consisteva nel far dipendere i miracoli dal potere diretto di Dio e quindi dalla sua grazia, non già dall'influsso degli astri. Era ben vero che egli andava con questo un pò contro le convinzioni care de' suoi amici, contro il fervore delle idee astrologiche del suo tempo e in parte contro certe convinzioni sue precedentemente manifestate. Ma appunto in questa serie di contrasti, la natura sua battagliera trovava stimolo ad agire e a incanalare le aspirazioni del suo cuore dietro le orme del Savonarola. Era propria dei popoli primitivi la concezione che il mondo fosse un vasto organismo le cui parti sarebbero unite da uno scambio incessante di molecole e di effluvi. Gli astri, generatori di energia, agiscono costantemente sulla terra e sull'uomo, e l'uomo ha il suo destino segnato in una delle tremolanti stelle che vibra nella sua corsa pei cieli insondabili in armonia con quell'essere umano. Tale concezione sopravvisse nel mondo greco, s'impose agli scrittori latini, ricomparve arricchita di una vasta letteratura nel medioevo e nel Rinascimento. Al tempo in cui il Pico scrisse la sua polemica il tema astrologico trovava dei cultori 120 appasionati e già Ambrogio Traversari, Paolo del Pozzo Toscanelli e Matteo Palmieri avevano preparato, colle loro discussioni nel convento degli Angeli in Firenze, la materia per i difensori e gli oppositori dell'astrologia. Era pur sempre in questi lontani e talvolta semplicisti precursori della Astronomia moderna, l'aspirazione a poter misurare il corso dei pianeti, ridurre in numeri^ in intervalli di tempo la danza delle infinite stelle i cui movimenti complessi producono « l'armonia delle sfere » . Ma il Pico, sebbene avesse avuto un concetto così grande della potenza dei numeri e avesse propugnato la sua ars numera/idi, quando vide con quale leggerezza fossero numerate le plaghe del cielo (universas coeli partes) e con quale baldanza venissero attribuite ad esse le diverse qualità della natura umana (diversas in rebus naturalibus proprietates), reagì con la voce del buon senso. È impossibile trovare un'affinità matematicamente determinabile fra le figure del cielo e le affezioni umane, com'è anche assurdo voler determinare dai segni, dalle case e dalle con Soldati, La Poesia Astrologica del Quattrocento, Firenze, Sansoni. « Erraticae stellae per zodiacum aequo cursu non « deferuntur, hoc est non acquali temporis intervallo... qui « igitur metiri illorum motus et dirigere in numeros volu«erunt ».561. 121 giunzioni degli astri, il sesso, le qualità fisiche e morali degli individui. Anzi il Pico sembra andar contro persino alla sua favorita idea dell'armonia che gli faceva vedere rapporti musicali non solo negli oggetti tra loro ma anche fra la natura e l'uomo. Egli crede che si voglia correre troppo quando si applicano questi rapporti musicali agli astri, poiché la loro infinita distanza rende impossibile qualsiasi esatta determinazione. Vi sono dei moderni, egli dice, che vorrebbero trovare delle dissonanze e delle armonie negli astri; come i musici le trovano fra le diverse voci del suono. Troverebbero delle assonanze, come tra la terza e la quinta, o dissonanze fra la quarta e la settima, anche tra i triangoli stellati della quinta e i quadrati della quarta. Ma è un volere, soggiunge il Pico, prendere per realtà ciò che non può essere che similitudine. Non vi sono spazi celesti muti, altri dissonanti, altri armonici, perchè il cielo non emette voce alcuna. Excogitata postremo neotericis quibusdam de « musicis consonantiis alia ratio, ex qua radios planeta« rum tum concinnere invicem, tum dissonare harmonia« rum quadam similitudine tradunt. Est enim, inquiunt, apud « musicos comprobatum ratione et experientia tertiam vo« cem et quintam primae consonare, quartam vero et sep« timam nequaquam. Nos vero ut omittamus istas in tam diversis re« rum generibus similitudines, efficaciam, rationem decla 122 Vi è sì l'armonia anche nell'universo stellato, la legge musicale vige anche in mezzo alle erranti comete e all'immobile fascia lucente della via Lattea. Ma questa musicalità è avvertibile da ben altri orecchi che non siano questi sensibili, essa appartiene a quel grado di cui la musica dei suoni è la forma più grossolana e, per essere gustata, richiede un processo laborioso della mente umana, un'elevazione spirituale che non a tutti è dato raggiungere. Nondimeno tale elevazione fu raggiunta e quei pochi tra i mortali che hanno potuto gustare il concento della sinfonia universale, si sono sforzati di tradurre le impressioni in quelle forme del nostro linguaggio che obbediscono più visibilmente alle leggi della musica. Nell'opera del Mirandolano contro gli astrologi si trova spesso citato il salmo XVlll in cui il profeta Davide fa risaltare la grandezza di Dio, richiamandosi all'armonia del firmamento. . E invero pochi brani delle varie letterature possono rivaleggiare con questo salmo che sintetizza e rende quasi, con sublime laconicità, il linguaggio' degli astri. « Coeli enarrant gloriam Dei, et « opera manuum eius annuntiat firmamentum. « rabimus non habere atque computationem et similitudi« nem non procedere... sed (coelum) nuUam vocem emit« tit ». Opera, Non sunt loquelae, neque sermones, quorum « non audiantur voces eorum. « In omnem terram exivit sonus eorum : et in « fines orbis terrae verba eorum». Il suono della musica stellare è cosi diffuso e riempie di sé ogni punto della terra, che non c'è creatura che non goda di una tale armonia e non esulti alla vista del re degli astri che • spunta fuori qual gigante per correre il suo cammino». La musica degli astri ha la sua scala e le note, di cui questa si compone, risuonano in modo diverso nel cuore umano. L'uomo, se è proclive ai beni frivoli della vita, non trova negli astri un'armonia diversa da quella che ci descrissero gli astrologi. Se intende l'armonia degli astri da un punto di vista naturalistico, considera il cielo alla stregua di tutte le cose create soggette a trasformazione. Le stelle percorrendo le loro orbite sono illuminate da altri astri a volte compagni inseparabili, a volte sconosciuti che incontrano forse una volta sola per non più rivedere nel periodo lunghissimo della loro esistenza, durante la quale mostrano la giovinezza nelle iridescenze del verde aranciato, la pienezza matura nella chiarità bril «In sole posuit tabernaculum suum: et ipse tamquam sponsus procedens de thalamo suo: Exultavit ut gigas ad currcndam viam •. Ps. XViiI, 5. 124 lante, l'agonia nel tremulo guizzo di porpora. Ma se invece l'uomo cerca nel cielo un simbolo, nelle leggi che regolano il corso delle sfere un termine di confronto per le leggi eterne che sgorgana dal profondo del suo io, allora egli non può non proiettare in questi mondi, così lontani dalla propria esperienza, la trama delle sue piij squisite elucubrazioni. S. Agostino ci ha descritto in alcune pagine delle sue Confessioni il momento in cui egli con la madre Monica, ragionando della felicità eterna di fronte al mare di Ostia, fu compreso da quelle squisite risonanze che sembravano provenire dall'alto. « Peragravimus gradis cuncta corporalia et « ipsum coelum unde sol et luna et stellae lucent « super terram ». Dinanzi a quella musica tutto quanto sapesse di suono era uno strepito^ anche il timbro della voce più cara parlante di cose spirituali: «Et dum loquimur et inhiamus illi, at« tingimus eam modice toto ictu cordis et suspi« ravimus et relinquimus ibi religatas primitias « spiritus et remeavimus ad strepitum oris no« stri, ubi verbum et incipitur et finitur. Tutto doveva finire e scomparire dinanzi a ciò che era la vera realtà, la musica celeste. « Si cui AUG. Conf. « sileat tumultum carnis; sileant phantasiae ter« rae et acquarum et aeris, sileant poli et ipsi * sibi anima sileat et transeat se non se cogi« tando. Sileant sommia et imaginariae revelatio« nes, omnis lingua et omne signum,et quidquid *transeundo fit, si cui sileat omnino ». Ecco espresso con linguaggio umano ciò che rappresenta la musica pura, il misticismo. Il silenzio profondo, ottenuto con l'astrazione da ogni flusso del tempo, da ogni ritmo che accompagna le cose viventi, da ogni procedimento verbale che esprime il pensiero, è indispensabile per metterci in contatto con V Armonia, che, come ben la definì il Pico, è quella legge suprema in cui si compone ogni discordia, si rappacifica ogni contesa, si unifica ogni cosa dispersa. Tale è la dottrina occulta del Pico, dottrina che, pur avendo nel suo autore diverse denominazioni : ars numerandi, ars combinandi, alfabetaria revolutio, si riduce a un concetto sempre chiaro nello spirito dell' autore: musicalità o armonia. Ciò che ci riempe di ammirazione per il Pico è il vedere come abbia saputo valorizzare tutto ciò che nel mondo e nella vita vi è di occulto € di misterioso, come protendesse sempre lo {!> AuG., Con/., lib. IX, cap. X. 126 sguardo suo curioso al di là della natura fenomenica e cogliesse da ogni dottrina, da ogni scuola, da ogni manifestazione del pensiero anche meno evoluto, anche più avvolto nelle favole e nei miti, quegli sprazzi di luce sulle arcane verità che accendevano ognora la sua fervida immaginazione. Ed è bello vedere questo giovane dovizioso e fervente compreso della verità di questa dottrina occulta che, pur essendo implicita nelle più antiche filosofie, dalla Pitagorica alla Platonica, dall'Egiziana (Ermete Trimegisto) alla Cabalistica, non ha mai trovato alcun assertore della sua importanza metodologica, di scienza, cioè, atta a farci penetrare nel sacrario delle segrete discipline. È bello pure vederlo sostenere la bontà della sua dottrina contro gli oppositori e i giudici del santo uffizio. Egli si sforza, è vero, di trovare qualche scappatoia per sfuggire alla condanna e si rifugia nella casistica della scolastica, quando distingue una Cabala vera (tradita) da una falsa, una Magia naturale, da una illegittima; ma, pur attraverso i suoi distinguo, egli afferma solennemente la lealtà delle proprie intenzioni, la sua sincera dedizione alla verità. Convinto che la sua dottrina esigesse da parte degli esaminatori una competenza in materia occulta, cioè una vera e propria iniziazione, egli prega gli amici e i nemici, i buoni 127 e i cattivi, i dotti e gl'ignoranti che vogliano leggere i suoi scritti, con quella purità d'intenzioni da cui era stato mosso nel redigere le Tesi. E poiché molte cose da lui dette potrebbero trarre in errore coloro che non hanno pratica di scienze occulte, spera che ciò che è stato scritto per gì' iniziati non venga esposto pubblicamente a tutti, perchè sarebbe come dare le perle ai porci e peggiorare la sua causa. Nel corso della narrazione vedremo come venissero ascoltate queste parole, e come rimanesse il nostro fedele alla sua dottrina esoterica . (Il «Oro igitur, obsecro et obtestor amicos et inimi« cos, pios et impios, doctos et indoctos... non explicitas « non legant, quando Inter doctos eas proposuimus di« sputandas, non passim legendas omnibus pubblicavimus ». Opera, 237. Parte di ciò che formava il contenuto di questo doveva essere pubblicato nella collana Ritmo f ndata da Diego Ruiz, alle cui idee originali sul concetto di musica, benché contrastanti con le mie, devo rendere qui omaggio. La pri:xioiiia del Pico in Francia. 8cc(MmIo soggiorni» a Firenze Pico clic riguardava la città di Parigi come un luogo in cui sarebbe più facile ottenere quel successo che a Roma non aveva potuto conseguire, s'incamminò sulla fine del 1487 alla volta di Francia. Innocenzo Vili, non contento degli ordini impartiti alle autorità religiose perchè denunciassero o impedissero ogni tentativo del Pico per divulgare le sue Tesi e la sua Apologia, si rivolse anche all'autorità secolare, come fece con un breve indirizzato ai sovrani di Spagna, fi) Bolctin de la Rcal Accademia de la tìisioria, Madrid, Pico de la Mirandula y la inquisición cspanola. Breve inedito di Innocenzo Vili, cfr. DoREZ et Th, op. cit., 71, n. 1. 130 perchè si procedesse all'arresto del Conte recidivo. Nel Gennaio dell'anno seguente mentre il Pico attraversava il Delfinato, veniva a conoscenza del breve del 5 agosto « essendo io nel cammino di Pranza», e fatto arrestare dal Signore di Eresse, zio del re di Francia e governatore del Delfinato. L'ordine di questo arresto si spiega subito: avendo il papa inviato in Francia ai primi di Gennaio due nunci di valore Leonello Chieregato , vescovo di Traìi e il protonotario Antonio Flores, per trattarvi affari di grande importanza, come il processo dei vescovi che si erano dichiarati contro la reggente, e il ritorno alla Prammatica Sanzione, incaricò pure costoro di far ottenere l'arresto del Mirandolano. Ed essi con una tenacia «degna di cagnotti polizieschi », riuscirono, malgrado che in favore del Conte intercedesse presso il re l'ambasciatore del duca di Milano, a farlo trattenere in carcere. La rocca di Vincennes nella quale venne rinchiuso il giovane conte, dovette ispirargli ben tristi riflessioni sul proprio avvenire con la prospettiva di una lunga prigionia. Forse allora piia che mai avrà sentita a sé (1,1 BERTI, /. e. doc. I, 52. Simeone Ljubic, Dispacci di Luca de Tolentis e di Lionello Chieregato, Zagabria, 1870, 9-11.Cfr. DoREZ. et Th. op. cit., 72, n. 2. 131 vicina l'ombra del grande Origene, le esperienze della cui vita egli ripeteva con non poca somiglianza! Ma se il Pico aveva dei nemici che tentavano ogni mezzo per perderlo, contava altresì amici che sinceramente lo amavano, e che non l'abbandonarono nella sventura. La figura del Magnifico assume, durante questa drammatica vicenda, un aspetto del tutto nuovo e simpatico, forse perchè ci è meno noto, e tanto meglio riconosciamo l'umanità del suo cuore, in quanto sta a lui di fronte l'anima intransigente di Giambattista Cybo, che portò sulla Cattedra di San Pietro i difetti della sua scarsa intelligenzaLa lettera che scrisse in questo tempo (19 gennaio) Lorenzo al Lanfredini, il quale non appare molto ben disposto verso il Pico, è una bella testimo (Ij Fu la sua bolla contro la stregoneria (1482) che elevò, per dirla col Symonds, a metodo la persecuzione contro disgraziate vecchie e idiote. Lo Sprenger nel Malleus maleficarum nota che, nel primo anno dopo che quella fu pubblicata, 41 streghe furono bruciate nel distretto di Como. Intorno alle persecuzioni contro le streghe nella Valtellina, vedi Cantù, Storia della Diocesi di Como, e Folengo nella sua Maccheronea. Non bisogna però disconoscere il debito che deve a Innocenzo Vili l'Università di Roma «sotto il quale co« minciò a respirare, e a riprendere in gran parte il vigore « e il lustro primiero ». RoviNAZZi, Storia dell' Università degli studi di Roma, Roma, 1803, 196-197. 132 nianza dell' affetto che Lorenzo nutriva per il giovane Mirandolano. Essa dice che le molte persecuzioni che in Roma si tramano contro il Pico, potrebbero menarlo per disperazione a « qualche via cattiva»; che è piiì facile riuscire nell'intento con le maniere dolci che con bolle e scomuniche, che avendo fatto esaminare l'Apologia a persone religiose e dotte e intelligenti, le quali non trovarono nulla contro la fede, non può comprendere perchè si voglia essere così intransigenti, massime quando chi ha scritto tali cose è un « giovane doctissimo et fresco su la doctrina». Meno nota ancora è la parte che ebbe in favore del Pico Chiara Gonzaga, sorella del Marchese Francesco di Mantova, la quale, andata sposa nel 1481 a Gilbert di Montpensier della Casa Borbonica, cooperò con insistenza presso il consorte, così che questi « motus praecibus et commendationibus « quae ex Italia mittebantur » , ottenne che il re Carlo Vili, che non nascondeva le sue simpatie verso l'illustre erudito, menasse le cose per le (Ij Berti, 1. e, 32. (2i « Numerose lettere gli arrivavano ugualmente dal« r Italia, in cui contava molti amici, tanto alla Corte di « Milano che a quella di Roma, i quali lo pregavano di « usare tutta la sua influenza sul re in favore della causa « del Mir. » Dorez et th,. op. cit., 97. V. anche nella stessa opera appena, doc. V, 4, 133 lunghe. I nunci, frattanto, la cui opera svolta in rigida conformità ai brevi pontifici, è ampiamente trattata col sussidio di preziosi documenti dal Dorez e dal Thuasne nell'opera piìi volte citata, dovendo lasciare Parigi per accompagnare la Corte « pour l'expédition des autre affaires dont ils étaient chargés », incaricarono il vescovo di Grenoble, Laurent Allemand, di volerli sostituire. Ma ormai era troppo tardi: il Pico, dopo una prigionia di circa un mese, venne posto in libertà, e potè passare il confine. Corse allora la voce ch'egli si fosse recato in Germania, avendo più volte espresso il desiderio di visitare la biblioteca del Cardinale di Cusa e di fare acquisto di libri. Si disse pure che fosse stato invitato dal re di Castiglia, Ferdinando, che si era mostrato desideroso di riceverlo onorevolmente nel suo regno . il vero si è che il Pico ripassò le Alpi e giunse all'ospitale Torino. Mentre attendeva a riordinare in questa città le sue cose, libri e ba ll i DOREZ et Th. op. cit., 92. Qual'era il movente di questo re, si domanda il Dorez, la cui slealtà e perfidia sono i suoi caratteri salienti, ad invitare nel suo regno il Pico? Forse per impadronirsi della sua persona e consegnarlo al Santo Uffizio per ingraziarzi Roma? l'ipotesi non è inverosimile. Op. cit., 99-100. 134 gagli, che durante la cattura erano stati manomessi, e a scrivere in tal senso a Filippo di Bresse e ad altri personaggi, di cui ora non aveva piiì nulla a temere 0); ricevette una lettera dal Ficino (30 maggio) che gli offriva 1' amichevole protezione del Magnifico e lo invitava a Firenze. Intanto nell'animo dei nunci si era prodotto un cambiamento singolare, come lo dimostrano le parole con le quali terminano uno dei loro rapporti al papa: « Existimamus qiiod bonum esset si Sanctitas Vestra « eius conversioni et ad gremium suum reductioni « operam darei » . Tuttavia l'animo del pontefice era lungi dall'essere placato e disposto a rimetterlo nella sua buona grazia; forse gli suonava sgradita la frase con cui il Pico lo aveva qualificato nell'Apologia: cui ab innocentia vitae nomen meritissimum. Si sa infatti che Giovan Battista Cybo, prima di abbracciare lo stato ecclesiastico, visse nella depravata Corte aragonese, conducendo una vita punto migliore dagli altri, ed ebbe due figli naturali : Teodorina e Franceschetto. Sebbene, come osserva il Pastor, non si abbiano testimonianze sulla sua condotta morale, allorché entrò nello stato sacerdotale, pure quando fu divenuto papa, Op. cit, 100-101. Docum. V, 6, cit. dal DoREZ et Th., op. cit, 162 € anche -correvano voci sopra altri figli, ed è notorio un epigramma del poeta Marnilo che taluno prese alla lettera: . Octo nocens piieros genuit, totidenque puellas; Hunc merito potuit dicere Roma patrem •. Del resto è con questo papa che si accentua quell'infausta politica che produrrà la piaga del nepotismo da cui tanti guai derivano all' Italia. Innocenzo Vili pone sulla scena politica il suo figlio Franceschetto, giovane più che mai dissoluto, il quale « commetteva disordini tali, che in «un figlio del papa doppiamente sconvenivano », a cui diede in isposa Maddalena de' Medici, stringendo così parentela con Lorenzo il Magnifico (l). Questi perorò insistentemente la causa del Mirandolano presso il papa, il quale da uomo debole ed arrendevole com'era, si lasciava con dì Pastor, 1. e, 197. Se Sisto s'era arricchito colla vendita di ogni sorta di grazie e di dignità, Innocenzo e suo figlio eressero addirittura una banca di grazie temporali, nella quale dietro il pagamento di tasse alquanto elevate, poteva ottenersi l'impunità per qualsiasi assassinio o delitto: di ogni ammenda 150 ducati ricadevano alla Camera papale, il di più a Franceschetto... Per Franceschetto la questione principale era di sapere come avrebbe potuto piantare tutti con quanti tesori poteva, nel caso che il papa venisse a morire. Burckhardt, op. cit., 126. 136 vincere dai malevoli per intentare qualche cosa di serio al Pico. Ad irritarlo maggiormente contribuirono alcuni famigliari del Mirandolano, i quali, avendo « troppo temerariamente e super« bamente parlato contro il papa » erano stati messi in carcere, recando così pregiudizio alla causa stessa del loro Signore. Questo incidente impensierì non poco il Pico, cui premeva che le dicerie esagerate a suo riguardo non finissero per alienargli la simpatia di Lorenzo, e in questo senso chiedeva informazioni al Salviati, fornendogli le prove della sua incolpabilità in tale faccenda. A questa lettera rispose il Ficino rassicurandolo della costante benevolenza di Lorenzo il quale soggiungeva « il tutto volentieri udì e per ciò po« temmo considerare che nell'animo suo non era « odio alcuno verso di voi, ma tutto amore » . Che così fosse lo vediamo in un'altra lettera del Ficino (30 maggio 1488) in cui narra che Lorenzo, pur nel dolore per la morte di una sua figliuola, trova modo di pensare al Pico, la cui sorte travagliata gli pare simile alla sua, quasi che un (1 « É ti fa l'effetto di un uomo il quale si lascia consigliare da altri più anzi che da sé stesso », scrive l'ambasciatore fiorentino il 29 Agosto 1484. 2' Come attesta una lettera del Ficino, lib. Vili, trad. Figliucci senese, Venezia, fato gravi sulla vita dei principi e degli uomini grandi, il medesimo, dopo aver accennato da «quanti pericoli sia questo giovane minacciato», rivolgendosi al Ficino dice: «E voi avete mai di questa cosa qualche più ascosa causa ritrovato ? » Al che il Ficino risponde, conforme alle sue teorie, che la causa risiede nelle essenze che presiedono, come ai vari ordini di uomini, alle congiunzioni dei pianeti; per cui essendo tanto Lorenzo che il Pico nati sotto la «copula di Saturno», i demoni di questo sono ostacolati da quelli di Marte. Tuttavia siccome Saturno è superiore a Marte, così i demoni che presiedono alla loro sorte, avranno il sopravvento su quelli avversari (1 ). Questa lettera illustra l'indole mistica e superstiziosa del Ficino, il quale dilettavasi di predire il futuro agli amici, e a proposito del Pico soleva dire che era nato l'anno in cui egli aveva posto mano alla traduzione di Platone, ed era venuto a Firenze il giorno e l'ora stessi della publicazione. Il Pico da parte sua si tenne sempre esente da queste aberrazioni, grazie a quell'amabile ironia insita nella sua natura. Ecco com'egli scherza sul significato del pianeta Saturno e sulla fede che l'amico dimostra nell'influsso delle stelle. « Forse, 1» lib. Vili, 119-120. 10 138 « dice, Saturno non è cosi propizio come voi as« serite, perchè il suo moto retrogado comunica « la stessa direzione ai vostri passi ogni volta «che v'incamminate per venire da me, perchè «per ben due volte siete tornato indietro*. Ritornando a Lorenzo, questi non si lasciava sfuggire nessun'occasione per rendersi utile al Conte. Essendo di passaggio per Firenze Anton Maria, fratello del nostro Giovanni, che si recava a Roma, Lorenzo lo incarica di « operare gagliar« damente per indurre il Pontefice a far venire a « Roma il conte Giovanni. A me piacerebbe que« sta venuta perchè forse (Giovanni) purgherebbe « questa sua calunnia et contumacia, et sua San« tità lo raccoglierebbe in grazia » . Veramente nessuno sembrava più indicato a perorare presso il Papa la causa di Giovan Pico del fratello Anton Maria, il quale godeva la benevolenza di Innocenzo Vili, ed era dal medesimo protetto in ogni contesa che, a causa della signoria della Mirandola, aveva col fratello maggiore Galeotto. Ma non pare che quegli si desse molto d'attorno per Giovanni, e il Papa era pieno di un si osti li) Epist. libr. Vili, 120. Dal carteggio mediceo, riportato dal Berti nel suo studio 1. e, 35. 139 nato rancore, che nulla valeva a migliorare la situazione del Mirandolano. Tuttavia le insistenze del Magnifico riuscirono alfine a smuovere l'animo di Innocenzo Vili, che accondiscese a permettere al Pico di venire a Roma a discolparsi dinanzi a testimoni, riservandosi di dargli quella penitenza che avrebbe creduta necessaria all'uopo. Il Mirandolano, cui era pervenuta una lettera di Lorenzo che si dimostrava contento dell'esito promettente delle sue premure, non sentendosi ancora disposto a fare il gran passo, credette più opportuno di fermarsi a Firenze. Quivi, nella città che aveva dato il primo spunto alla sua gloria, vicino agli amici che teneramente 10 amavano, si senti rinascere alla gioia dello studio, una gioia però velata da un'intima tristezza che gli derivava dal suo sogno svanito. 11 dissidio interiore che qualche anno addietro aveva provato nella città fiorentina, si era approfondito in un doloroso travaglio, che non toccava solo come allora una parte della sua attività, oscillante da una forma di espressione a un'altra, ma investiva tutto il suo essere, sì « Laurentius..., scrive il Ficino, praestantissimus, et « metuetur et Picum ad Florentem revocat urbem ». Opera. da portarlo, attraverso a una crisi spirituale, sulla via del misticismo. Pur in mezzo agli amici e alle persone dotte di Firenze che ambivano la sua compagnia, si sentiva inquieto come se qualcosa indefinibile ma necessaria gli mancasse; la parola «eretico», ronzando insistente all'orecchio anche tra i conviti e le adunanze allegre, gli dava un senso d'isolamento che lo rendeva malinconico. Gli amici, che notarono, senza forse comprenderne i moventi, l'avvenuto cambiamento, s'affrettavano a darne notizia agli altri lontani, in vario modo. « Il signor Giovanni Pico scrive « il Ficino ad Ermolao Barbaro che ora in Fio« renza alla filosofia attende, assai vi si racco« manda ». E Lorenzo che ha sempre per il suo Pico parole di tenerezza, scrive: «Il conte « della Mirandola si è fermato qui con noi, dove « vive molto santamente, ed è come un religioso, « ed ha fatto e fa continuamente degnissime opere «in teologia; commenta i salmi; dice l'officio or Knte et Uno». Appena il Pico ebbe terminato il suo Ettaplo l'inviò per primo a Lorenzo al quale l'aveva dedicato, e il A\aj:;nifico si affrettò a passarlo a Roberto Salviati, perchè lo facesse esaminare dai dottori, e poscia pensasse alla pubblicazione. Il Salviati risponde che l'opera del Pico, «primizia de' suoi studi', gli fece nascere un sincero affetto per il giovane, ben degno dell'amore di Lorenzo; perciò, essendo stata giudicata eccellentissima, sarà suo dovere di curarne l'edizione con la massima diligenza perchè riesca utile agli studiosi. E infatti, tosto che V Ettaplo fu terminato di pubblicare, venne dal Salviati distribuito a tutti i letterati di Firenze e inviato agli amici delle varie città d' Italia. Quest'opera armonicamente concepita, scritta in un latino 150 piano e scorrevole, non privo di colorito nei passi più salienti; con la fusione ben riuscita delle varie teorie che s'imperniano tutte intorno a un'idea centrale: la identità di pensiero che riusciva a svelare nei misteri di Mosè col pensiero di tutti gli altri filosofi che hanno fatto uso del velame arcano; infine con un'intuizione semplice e grandiosa del cosmo, che dalla distribuzione dei cieli, delle cose create e delle facoltà dell'uomo, accoglieva in una euritmica totalità il sistema cabalistico, gnostico, neoplatonico e peripatetico, non poteva non destare unanime ammirazione nei dotti di allora. Molte sono le testimonianze, specialmente epistolari, che attestano il grande successo ottenuto dal Pico, che ormai era ritenuto un vero portento dagli uomini piij rappresentativi di quel tempo. Al Salviati, che era l'editore più importante di Firenze, scrivono con espressioni d'entusiasmo per l'opera del Mirandolano da ogni parte d' Italia gli umanisti che avevano ricevuto copia dell' Ettaplo. Nella raccolta delle lettere comprese nelle Opere del Pico, troviamo quelle del canonico della Badia di Fiesole, di Baccio Ugolino, di Giuliano Maio di Napoli, del Poliziano, che non si stima degno d'essere avvici Opera nato al Mirandolano, di Ermolao , che confessa d'aver letto Vexameron tutto d'un fiato, del vecchio Cristoforo Landino, al quale pare di veder congiunte nel Pico la sapienza dei filosofi greci con la dottrina dei Padri della Chiesa. E l'eco di questa unanimità di ammirazione per V Ettaplo varca anche i confini d'Italia, come dimostra una lettera scritta al Salviati da Bartolomeo Ponzio, addetto alla Corte di Mattia Corvino, re d' Ungheria. Forse nessuna lode poteva tornare più gradita al Mirandolano di quella tributatagli dal suo antico maestro, Giambattista Guarino, il quale, scrivendogli da Ferrara, loda la vasta cultura profusa in picciol volume dal suo ex allievo (ex tuo praeccptorc factiis sum tibi discipulus). Il Pico era di quelli che nella gloria non dimenticano chi per primo ha aperto le porte dell'anima, illuminandola alla luce del sapere. Rispondendo al vecchio precettore, lo prega di non corrugare la fronte se lo chiamerà a partecipare della gloria che gli deriva dal suo Ettaplo . Ed era sincero, perchè non c'è soddisfazione più intima di quella che si prova al PoLiT. Epist. Opera Opera riconoscimento del proprio valore da parte di quegli che, essendo stato maestro nell'adolescenza, rimane impresso come un giudice equo e spassionato. Ma quanto favore incontrò V EU apio fra i dotti umanisti, altrettanto severamente venne accolto da parte dei teologi romani che vedevano in esso un'altra prova del persistere del Pico nell'attitudine contraria alle dottrine ortodosse della Chiesa. Non migliorava quindi la posizione del Mirandolano di fronte al Pontefice, il quale^ facendo suo il giudizio della Curia, assumeva un atteggiamento sempre più intransigente. Invano si adoperava Lorenzo per mezzo del Lanfredini a mitigare l'animo di Innocenzo Vili, e invano gli faceva pervenire uno schema di Breve, compilato dallo stesso Pico, per dimostrargli a quali condizioni il conte si sarebbe sottomesso. Il Papa era irremovibile e rispondeva al Lanfredini che « il caso del Pico era importantissimo » e che ben « altra cosa era gratificare Lorenzo del « figliuolo (accenna al cardinale Giovanni) o com« piacerlo non entra questi casi della fede». Berti, Op. cif. 39. Ecco parte della lettera del 27 agosto 1489 in cui il Pico dopo aver espresso la gratitudine sua al Magnifico, seguita: « Quello ch'io desidero « è un Breve, nella forma eh' io scriverò di sotto. Faccia » vedere la Sua Santità se per concederlo, ne li può na 153 II fratello Anton Maria aveva riferito al nostro Giovanni che un certo monsignore di Napoli lo accusava di due cose: che cioè egli aveva sparlato della Bolla a Parigi e che continuava a trattare di nuovo quelle cose che gli erano state vietate. II Pico allora si difende contro la prima asserzione, chiamando a testimoni gli stessi « ora« tori che erano in Pranza, se non vogliono tacere « el vero » : e contro la seconda che « non ho « scripto altro di nuovo che quella expositione « sopra el Genesi ch'io ho mandata alla M.^'^ Vo« stra, et Lei può far fede se è contra el Papa o « no, che tanto è distante dalle materie di quelle «conclusioni, quanto è il cielo da la terra». II Magnifico, infatti, faceva fede che l'opera era « stata veduta da quanti religiosi dotti ci sono e « uomini di buona fama e di santa vita e da tutti è « sommamente approvata, né io però sono si cat« tivo cristiano che quando ne credessi altro, me •« scere o danno, o vergogna, o scandalo alcuno nella Ec« desia di Dio, ch'io so gli sarà detto di no, se ne sa« ranno domandati huomini non passionati. Il Breve voria « che fusse in questa forma: Havendo tu già proposte per « discutere alcune conclusioni fu iudicato per noi che « il libro di queste non fosse Ietto, come in una nostra «tale Bolla si contiene ecc.». Dall'Appendice II, doc. I, nello studio del Berti, 1. e. 39 e 51-53. Berti, doc. I, Append. Il, 52-53. 154 « lo tacessi o sopportassilo. Sono certo se costui « (il Pico) dicesse il credo, cotesti spiriti malvagi « direbbero ch'è un'heresia ». La lettera poi accenna alla debolezza del Papa il quale, essendo occupato in molte altre cose, si lascia raggirare da persone malevoli che, « come diavoli lo ten« tano con queste persecuzioni e sono troppo cre«duti». Avverte che il conte è «un istrumento « da saper fare il male e il bene » così che tormentarlo sarebbe farlo deviare dal bene («e ul«timamente si era ridotto qui a vivere santamente «e con buoni costumi e quetare l'animo suo *) e fargli tentare cosa che « potrebbe essere di gran «scandalo». E conclude: «Se la forza gli farà « pigliare altra via, io ci perderò poco perchè in « ogni luogo dove anderà, so mi vorrà bene, per« che ne voglio assai a lui». Esorta quindi l'oratore a fare il possibile per riuscire nell'intento « che non potreste mai stimare quanto questa cosa « mi è molesta e che passione mi da » . Tutto inutile; il Papa era irremovibile e non sapeva capacitarsi a veder persistere uno che aveva ancora l'aspetto di scolaro imberbe, a sostenere cose di teologia, per le quali si richiede una lunga vita Lettera conservata dal Fabroni Laurentii Medicis Magnifici Vita, voi. II 291. Cfr. Berti in op. citata pag. 39. Id., 40. 155 di studio: «perchè, diceva il Papa, non si mette « a fare della poesia ?» Questa gli pareva un'applicazione più rispondente alla sua giovane età. Cotesta frase del Papa, che può parere ironica, ed è invece sprezzante, dimostra quanto poco ei sapesse comprendere quell'anima assetata di gloria e di luce, che coiu)Sceva tutte le ansie del dubbio e il tormento di tante notti insonni per decifrare, nei libri degli orientali, qualche sparso raggio della divinità. 11 Papa arrivò a dire, anzi, che V Ettaplo peggiorava la causa del Pico « essendosi trovata questa opera sopra il Genesi, « et vista per questi docti di Sacra Scriptura, «l'hanno dannata, perchè in molte parti entra « nelle medesime heresie, et quelle medesime cose * che sono state detestate per indirecto, lui le in« troduce in questa opera in molti luoghi». Bisogna poi aggiungere che il libro del Pico sortiva in un brutto momento per trovare in Innocenzo Vili un animo ben disposto, essendo in quel tempo amareggiato dai gravi scandali che Cit. dal Berti, I.. e. 39. Si deve convenire che contrariamente all'asserzione del Pico che sosteneva non aver tenuto ncW Ettaplo parola del contenuto delle conclusioni, abbonda invece di quelle idee che erano state condannate nelle Tesi. E noi abbiamo dimostrato come l' Ettaplo sia la sistemazione delle varie teorie che formano argomento delle conclusioni. 156 erano avvenuti proprio a Roma in seno alla sua famiglia. Stando cosi le cose, il Pico si rassegnò per il momento a rinunciare ad ulteriori pratiche e tutto s'immerse negli studi ch'erano forse l'unica cosa in cui trovasse continue e pure soddisfazioni. Riprese con gioia lo studio delle Sacre Scritture e in particolar modo dei Salmi, di cui voleva continuare l'esposizione esegetica. A farsi aiutare nel lavoro di traduzione dall'ebraico, il Pico teneva presso di sé un giovane ebreo, Clemente, il quale, essendo stato convertito al cristianesimo e indotto a vestire 1' abito di S. Domenico, è richiamato da Lorenzo come una prova dello zelo cristiano del Pico, e un esempio per stornare la vana calunnia di eresia . Grande Nell'anno 1489 venne scoperta in Roma una lega d'impiegati senza coscienza,! quali esercitavano un traffico lucroso con Io spaccio di Bolle papali falsificate. Franceschetto Cybo dava l'esempio peggiore e getta uno sprazzo di luce sulle condizioni morali della Corte pontificia. In compagnia di Girolamo Tuttavilla percorreva nottetempo le vie e per futili motivi aggrediva le case dei cittadini riscuotendo di necessità scherno e vergogna. Presso il cardinale Riario perdette in una notte 1400 ducati e si lagnava poi col papa d'essere stato raggirato. Pastor. L'accenno nella lettera di Lorenzo al Lanfredini è testualmente così: tra gli altri segni di vita cristiana del Pico, vi è quello « di aver convertito un ebreo, giovane 157 era l'aspettativa per questo lavoro del Pico tra i letterati e gli amici, le cui lettere di questo periodo vi alludono come a qualche cosa del genere dell' Ettaplo. « Ci aspettiamo davvero qualche «cosa di delizioso, scriveva Matteo Vero al Sal*viati, dagl'inni di David, ch'egli ò dietro a in«terpretare e a spiegare con grande premura. « A compiere il qual lavoro mi compiaccio che «in questo momento abbia scelto la quiete del « nostro Cenobio di Fiesole, dove il solo vederlo «e udirlo è una vera gioia». Siccome all' infuori del commento al salmo XV, di cui abbiamo già parlato, non ci rimane nulla, se non qualche frammento inedito, scoperto dal Ceretti, che possa giustificare l'ipotesi che il Pico facesse un Commentario di tutti i salmi, dobbiamo ritenere ch'egli continuasse lo studio dei salmi più tosto per un bisogno suo particolare, per fare cioè una specie di esercizi spirituali; e questo spiega anche perchè amasse ritirarsi nel Cenobio fiesolano. Ad avvalorare questa nostra supposizione ci soccorre la lettera ch'egli scrive il 13 gennaio 1490 « assai dotto in quella lingua, al quale faceva tradurre « certe opere in casa sua e colle armi sue medesime e « ridotto a farsi cristiano, che non sono opere da eretici ». Il Berti corregge il Fabroni da cui desume questa lettera e che publicata con la data del 1492 è invece del 1489. 1. e. 41. Cfr. anche Cassuto, 315-317. Opera da Firenze a un certo padre F. B. C. che lo esortava a una vita pia e virtuosa. « Vedrai, sog« giunge il nostro, che, quando mi sarà dato di « ritirarmi nella solitudine, allora potrò filosofare « piamente (pie philosophari) e congiungere la «pietà alla sapienza. Anch'io sono convinto non « esservi vera sapienza quando manchi la eterna, « poiché il trattare le varie discipline, può ben « dare il colore alla pelle, ma non farci più belli. « Ma la mente sana, ferma, gagliarda non si può «sperare che dall'integrità della vita, dai buoni « costumi e infine dalla santa religione ». Non dobbiamo credere che i soli salmi assorbissero il suo tempo; coltivava anche gli studi teologici e filosofici, certo anche quelli poetici, come si ricava da una lettera datata da Firenze l'undici febbraio dello stesso anno, indirizzata ad Aldo Manuzio. « Ti mando 1' Omero che mi hai chie« sto tempo fa; mi trovo così stretto dalle occu« pazioni, Aldo mio, che non ho neppure il tempo « di respirare. Mi sono dato alle lettere le cui « esigenze sono cosi grandi che ho appena il «tempo di rimettermi in salute . Tu che stai « per accingerti alla filosofia, ricordati che non Opera, 375. Questa frase indica che la salute del Pico doveva essere alquanto scossa, e forse si era ritirato a Fiesole anche per scopo di cura. « vi è nessuna filosofia che ci dispensi dalia ve« rità dei misteri: la filosofia cerca la verità, la «teologia la trova, la religione la possiede'». In queste tre sentenze il Pico ci dà, in ct)mpendio, il programma de' suoi studi, i quali andavano orientandosi verso quella fase finale della sua attività, che è, come in ogni processo della vita umana, la liberazione dello spirito dagl'impacci del mondo esteriore. E così avremo modo di notare come nel Pico questo processo si svolgesse con ritmo più accelerato che in altri, e il ciclo si chiudesse proprio nel periodo che d'ordinario separa il trapasso dallo spirito volitivo che cerca di fissarsi nel limitato, allo spirito libero che aspira all'infinito. Durante la primavera, per riprendere il vigore delle sue forze, usciva sovente con qualche amico a passeggio pei dintorni di Firenze: e il Ficino ci ha descritto con insolita semplicità, in una sua lettera a Filippo Valori, una di quelle passeggiate che i due filosofi solevano fare insieme, ragionando con poetico fervore delle comodità della vita . Ecco in che modo il Pico stesso faceva conoscere a Battista Spagnuoli come Opera, 359. « Alli giorni passati andando a spasso il nostro Pico « della Mirandola, uomo certamente meraviglioso e io per « gli colli di Fiesole, riguardavamo cosi per il cammino tutto 160 passasse il suo tempo. « Al mattino, dice, mi « applico assiduamente alla concordanza di Pla« tone e di Aristotile, serbo le ore meridiane agli « amici, alla ricreazione dello spirito mediante la « lettura dei passi e degli oratori, le ore della « notte le ripartisco fra lo studio delle sacre carte « e un breve sonno». Come si vede il Pico aveva intrapreso un lavoro che lo teneva occupato le ore migliori della giornata, e cioè la concordia dei due massimi filosofi dell'antichità. A tale intento domanda in prestito agli amici i libri che gli occorrono e, se non li trova a Firenze, li chiede per lettera a quelli che risiedono in altre città. Ringraziando in una sua Baldassarre Migliavacca di Milano delle copie dei libri greci inviatigli, lo prega di acquistargli il commento di Giovanni Grammatico sulla fisica di Aristotile e, se gli è possibile, anche la metafisica dello stesso filosofo . Nel mentre che si fa inviare dal carmelitano Battista Mantovano l'indice della Biblioteca di Bologna in cui risiede, gli chiede ragguagli intorno alla vita di Filostrato « il paese di Fiorenza, habitazione per certo felice, pur « che due soli incommodi si schivassero, cioè la nebbia «che l'Arno cagiona e i gran venti del monte che gli è « opposto ». Fi(;;iNO, Epist. voi. cit. lib. IX. Opera, 358-59. Opera, 370. 161 e del filosofo Zaccaria che il frate aveva conosciuto a Roma . Da tutte queste lettere traspare il grande affetto che ormai legava il Pico al Poliziano e nei saluti agli amici troviamo sempre congiunto il nome di lui. Scrivendo agli ultimi di luglio a Ermolao lo prega, con dolce rimprovero, di voler moderare le sue lodi {me iani qiiacso lauda modice) poiché gli è stato riferito dal fratello Anton Maria che Ermolao, lo portava a cielo dinanzi a lui, agli altri e « allo stesso Pontefice » : per altro lo prega di amarlo senza ritegno {diun iamen anies immodice) e termina la lettera: «Ti saluta il Poliziano amandoti e lo« dandoti sempre un immodico (immodicus) ". Ed Ermolao rispondendogli a sua volta da Roma il 13 agosto, dopo aver detto che a ciò è mosso da un prepotente bisogno di essergli vicino col pensiero, con la voce, con lo scritto, perchè trova più giocondo il dire che l'udire essere l'amico suo pieno di candore, di bontà, di umanità, termina lo scritto: 'Vale cum Politiano «meo^>. appunto perchè sa che così si rende più accetto all' amico . Anche nell' epistolario del Poliziano abbiamo la testimonianza di lei. 369.359-360. 391. 162 questo attaccamento reciproco dei due letterati. Degna di nota è la lettera che il poeta scrive alla «fedele Cassandra», dotta fanciulla di Venezia, la quale, desiderosa di mettersi in corrispondenza col più celebre poeta del tempo, gì' invia alcuni suoi lavori letterari (orazioni, epistole, versi, scritti di argomento filosofico ecc.); ed il Poliziano trovandoli scritti con eleganza, con gravità, e con una certa virginea semplicità, non priva di dolcezza, così la saluta: « Decus Italiae virgo», nuova Aspasia, Saffo, Corinna, degna di stare accanto alle donne più celebri dell'antichità. Ma non si appaga dell'ammirazione; egli vorrebbe contemplare il volto castissimo della vergine, vedere il portamento e le movenze della sua persona, bevere, quasi, con orecchi assetati, le parole ispirate delle muse, poiché allora trasumanato (consuinatissimus) dall'aflato suo, non temerebbe nel canto il Tracio Orfeo e la di lui madre Calliope. « Certamente finora, soggiunge, soleva am« mirare Giovanni Pico della Mirandola, come il « più bello e il più dotto dei mortali. Ed ecco « che ora. Cassandra, io presi ad amare te ancora «subito dopo di lui, anzi insieme con lui». Come si vede, c'era una differenza tra l'affetto del Pico e l'amore del Poliziano : in realtà quello POLITIANI Episf. del primo era un'amicizia che derivava da quell'ascendente che non può non esercitare un temperamento poetico, quand'anche l'esteriorità della persona non abbia alcuna attrattiva e del Poliziano si dice che fosse alquanto deforme — ; quello dell'altro, invece, era quasi un amore ispirato dalla contemplazione estetica di un giovane dalle forme squisite, tanto più ammirate in quel tempo in cui rinascevano, fra tante altre, le preferenze classiche per la bellezza androgina. Un fatto che in questo tempo tornò di sommo gradimento al Pico e a' suoi amici, fu la notizia dell'elezione a patriarca di Aquilea di Ermolao Barbaro. A lui, che da Milano, dove aveva rappresentato in qualità di oratore la Republica di Venezia presso Ludovico Sforza, era passato a coprire lo stesso ufficio a Roma, presso Innocenzo Vili, rivolge il Pico la seguente lettera: « Mi congratulo con te della nomina a Patriarca « di Aquilea dove potrai dimostrare il tuo valore. «Vi sono tre generi di vita: il civile, il contem Una nota simpatica di questo circolo di dotti fiorentini, al quale apparteneva il Pico, è l'assenza sia dalla loro vita come dai loro scritti di quell'immoralità che imbratta come viscido fango i nomi dei più celebri umaninisti delle altre Accademie. Per Pomponio Leto, che fu imputato di Sodomia, vedi la monografia dello Zabughin, Grottaferrata « piativo e il religioso. Esigiamo dal primo la « prudenza, dal secondo la dottrina, dal terzo la «santità. E tu per l' innanzi nel trattare gli affari « dello stato, ti sei dimostrato prudentissimo, e « gli studiosi, amandoti e ammirandoti, ti tengono «per loro maestro nelle buone discipline: e non « abbiamo dubbi di sorta che saprai del pari «svolgere le tue mirabili doti nella Chiesa». Ermolao risponde con espressioni di rimpianto per il bel tempo speso negli studi pei quali teme ora di non esser più libero di dedicarsi come nella vita secolare, e sopratutto perchè teme che l'alto ufficio che ora deve coprire, induca il Pico a tenere un contegno piii riservato verso di lui. E questo non vuole che avvenga per nessuna ragione. « Ti scongiuro, esclama, per quella be« nevolenza che mi hai sempre dimostrato di vo« lere far sì che anche sacerdote io sia tenuto da «te, se è possibile, per quell'Ermolao che hai « amato nel secolo e che ora, fatto soldato di « Cristo, desidero esserti ancor più caro. Sappi che « Aquilone mi ha trasportato oltre la verità, che « Favonio mi ha rapito oltre l'amore » . Chi avrebbe detto che il suo desiderio di poter attendere alla filosofia lontano dalle occupazioni, Opera si sarebbe cosi presto realizzato, ciie anzi, mentre egli diceva : Si hoc cveniut, ne avesse il presentimenio ? Difatti il Senato veneziano che si arrogava il diritto di nominare il Patriarca di Aquiiea, si sentì offeso dall'atto di Ermolao Barbaro, il quale aveva accettato la nomina da Innocenzo Vili, senza prima chiedere al governo il permesso voluto dalla legge; e per questo condannò il Patriarca all'esilio. Questa sciagura che privava Ermolao della speranza di rivedere la cara patria che tanto amava, fu però sopportata con stoica fermezza e ricompensata dal piacere di poter riprendere i dolci studi. 1 suoi sentimenti in proposito, che manifesta in una lettera al concittadino Calvo sono la fedele espressione del suo animo puro ed elevato, uno di «Nulla vi ha di più preclaro, nulla di più elevato della fortezza dell'animo. Essa brilla al disopra di ogni • altra virtù; essa è la migliore fattrice di voluttà e di pace, e mentre tutte le altre s'inchinano all'impero della • fortuna, la sola fortezza l'affronta e la pone in ceppi. « Ma fingi pure che io abbia ricevuto una ferita più pro« fonda ancora di quella che al presente mi grava; quanto « presidio, quanto sollievo non credi tu che a me rima« nesse da queste tenui lettere che sin da fanciullo ho coltivato? Godendo io sanità di mente e di corpo, quale • calamità poteva sopravvenirmi che m'involasse il con • torto degli studi ? Essendo questi sani e intatti la mia 166 quei nobili caratteri non abbastanza studiati. Frattanto il Pico, per meglio attendere a' suoi studi, fece dono, di tutti i beni che teneva nel Mirandolese, e della terza parte del Principato per la somma di trentamila ducati d'oro, al nipote Gianfrancesco, il quale con tanto amore doveva in seguito curare l'edizione delle opere dello zio e scriverne la vita. In quel medesimo anno il Pico, in compagnia del Poliziano e del Crinito, fece un viaggio nell'Alta Italia per visitare le biblioteche delle principali città, Bologna, Ferrara, Padova, Vicenza, e i particolari di questo viaggio sono riferiti dal Crinito(l). Senza dubbio il motivo di questo viaggio doveva esser quello di procacciarsi i libri che riteneva necessari per condurre innanzi il suo lavoro intorno alla concordanza di Platone e di Aristotile. Nella vita del nostro si alternano con una certa frequenza periodi di vivacità espansiva, con altri di calma e riposata solitudine. Così ora, mentre è tutto immerso nello studio dei due sommi « vita non può essere se non tranquilla, gioconda, ono« revole. Oh felice calamità che mi hai restituito alle let« tere e le lettere a me, anzi a me stesso ! » Dalle Epìst. del Poliziano, la traduzione è del CoRNiANi, / secoli della Letferat. Italiana, 279. Rassegna Bibl. della Leti. Italiana. filosofi della Grecia, si sentiva di ritornare alla pietà e al bisogno di quiete. Con minore assiduità prese a frequentare i convegni e le feste, cui Lorenzo per le sue mire politiche dava largo incremento; cominciò ad essere notata la sua assenza nei conviti in cui era solito accompagnarlo il Poliziano. Questi prova rincrescimento e per lusingarlo gli descrive ora lo spettacolo di una giostra {cquitum ccrtamcn hastis concurrcntium), al quale partecipa il fiore della gioventù fiorentina e in cui Piero de' Medici, ch'è divenuto il beniamino della moltitudine e la gloria della sua famiglia, ottiene la palma della vittoria. Ora invece gli descrive un banchetto offertogli da un certo Paolo Ursino, il cui figlio, bimbo di undici anni, si rivelò un prodigio (un enfant prodigi diremmo noij sia nel suono e nel canto, sia nella recitazione di prova oratoria, sia nel cavalcare un focoso destriero in singoiar tenzone con Piero de' Medici. « 11 fanciullo, soggiunge il Poliziano. « aveva dei capelli d'oro che gli scendevano mol POLITIANI Epist., « I Medici con« cepiscono una vera passione per la giostra... Già ancor « sotto Cosimo, e poi sotto Piero il vecchio ebbero « luogo in Firenze giostre celebratissime; Piero il giovane « poi per tali esercizi, trascurò perfino il governo e non « voleva essere dipinto se non rivestito dalla sua splen. dida armatura». Burckhardt « lemente sulle spalle, gli occhi vivaci, lo sguardo « intelligente, il portamento elegante e nel tempo « stesso marziale. E quando in mezzo al convito « prese a cantare accompagnato dagli strumenti « musicali, sentivo penetrarmi la sua voce soa« vissima nel cuore, e inondarmi di una voluttà «quasi divina». Questo brano ci dice quale ammiratore fosse il Poliziano della bellezza androgina; anzi quale affinità di sentimenti avesse con gli esteti dell'antica Grecia e sopratutto di Roma imperiale di cui abbiamo uno specchio nel Satyricon di Petronio. Ma il Pico era un mistico e non un sentimentale; non amava i festini e la vita gaudente che per un poeta come il Poliziano erano fonte di sempre nuove impressioni. Ormai il contatto delle cose esteriori cominciava a nauseare il nostro assetato di quella bellezza che trascende ogni forma sensibile. Pubblica il libro De Ente et Uno che volle dedicare ad Angelo Poliziano il quale, appunto in quegli anni, soleva intramezzare le sue lezioni di letteratura greca e latina con la lettura dell'etica di Aristotile o di qualche brano filosofico di altri autori . A tali lezioni inter POLIT. Epist. Isidoro del Lungo, Florcntia, Firenze, Barbera veniva talvolta anche il Pico e la presenza del dotto principe tornava molto lusinghiera al poeta di Montepulciano che all'amicizia univa una grande ammirazione per le qualità dell'ingegno del Alirandolano. Nella dedica il Pico ci fa sapere come l'argomento gli sia stato suggerito da una disputa sorta tra Lorenzo e il Poliziano sul modo di considerare Vesscrc e V unità. Il Poliziano stava con Aristotile che ne aveva sostenuta l'identità e il Magnifico coi Platonici che si erano pronunziati per la disparità. Il Pico si schiera decisamente coi primi e viene a dimostrare che anche Platone identifica l'essere con l'uno. Dove egli trova la più rassicurante risposta alla sua tesi, che nella mente d i Platone l'essere e l'uno si convertono, è nel dialogo del Parmenide, ove Platone dimostra non già la superiorità dell'uno sull'essere, ma la loro identità. Perciò Aristotile, che parte dal cuore della filosofia platonica e vi scorge questa identità dei due principi, non dissente aflatto dal suo maestro. Tuttavia il Pico che non era un superficiale conoscitore della filosofia aristotelica, non poteva nascondersi che il pensiero dello Stagirita è stato sempre su questo argomento ondeggiante, sia quando disse che « l'essere non è assolutamente 170 uno», sia quando, parlando dello stesso essere, l'ha definito ora in un senso ora in un altro. Lasciando stare l'equivoco di linguaggio a proposito della parola essere, che è impiegata in numerosi sensi, e che quella di sostanza è impiegata almeno in quattro, sta di fatto che la contraddizione è flagrante e ogni tentativo per eliminarla riuscirebbe vano. Ma il Pico, tendendo alla conciliazione ad ogni costo, concepisce quella superessenza che in sé comprende l'essere e l'uno, sorvolando sopra a tale contraddizione con un ragionamento che non è privo di acume. L'essere, egli dice nel quarto, si deve considerare come concreto e come astratto; nel primo caso l'essere, come partecipazione di qualcosa, è inferiore all'uno; ma nel secondo, cioè l'essere per sé, é un essere uno, superiore ad ogni ente (adeo est ut sit ipsum esse, quod a se est et sit ipsum esse, quod a se et ex se est et cuius partecipazione omnia sunt). È evidente che in questo caso l'essere è Dio, il quale, come l'unità, é principio di tutte le cose (Tale autem est Deus qui est totius plenitudo, qui solus a se est, et a quo solo nullo intercedente medio ad esse omnia processerunt). Così il Pico si spiega non solo la convertibilità dell'essere nell'uno, ma anche come l'essere e l'uno siano in Dio, il quale é un superessere e un 171 superuno, e, come dice Dionigi, quia unice est omnia. V indirizzo mistico dei suo pensiero porta il Pico ad operare la conciliazione di Piatone e di Aristotile mediante Dionigi e a convertire l'ontologia in una concezione teologica. Cosi l'assertore della dignità dell'uomo diviene il paladino dell'infinita potenza di Dio, al quale l'unica lode checonvenga è il silenzio. Il Poliziano fu molto commosso della dedica del libro e l'accolse con espressioni tali che parrebbero esagerate, o per lo meno dettate da un senso di adulazione, se non avessimo avuto agio fin qui di notare la sincerità della sua ammirazione per il Pico. « Arsi sempre, dice il Poeta, arsi forse un po' troppo, te lo confesso, dal desiderio di una perpetua fama, a! punto da ritenere per un niente le ricchezze, la dignità, la potenza e i piaceri in paragone di una gloria duratura. Ma poichò ciò che ho scritto non mi è valso molto a perpetuare il mio nome tu, Pico, sei apparso a prestarmi ciò che non avevo potuto da me, dedicandomi il tuo commentario De Ente et Uno, nel quale richiami le accademie alla vera sorgente e congiungi in una due filosofie e la nostra teologia. Che altro dovrei cercare per poter vivere nei campi Elisi, se vivrò per mezzo tuo e insieme con te ? La posterità narrerà un giorno esservi stato una volta un certo Poliziano, il quale fu tanto stimato da meritare che il Pico, luce di 172 ogni sapere, parlasse di lui nel bellissimo libro che tratta di cose sublimi. Ti rendo, dunque per l'immortalità, grazie immortali». Questi segni di affetto dei due letterati dovevano senza dubbio tornare graditi al sofferente Lorenzo che, ammalato da alcuni mesi, era assistito dal Poliziano, dal quale si faceva leggere ora alcuni passi del De Ente et Uno, ora s'intratteneva a parlare delle virtìj e dell'ingegno del suo diletto Pico. « Quanto desidererei, disse una sera l'infermo, passare quest'altro po' di tempo che Dio si degnerà concedermi, negli studi filosofici con te, col Ficino e con Pico della Mirandola. E quando fu presso a morire in Careggi (scriveva il Poliziano a Jacopo Antiquario) guardandomi dolcemente, come sempre soleva, Oh Angiolo, mi disse, sei tu qui ? — e insieme levando a stento le languide braccia, mi afferrò strettamente ambo le mani. Io non poteva trattenere i singhiozzi e le lagrime, cui nondimeno sforzavami nascondere, volgendo altrove la faccia. Ma egli, senza punto commuoversi proseguiva a stringere le mie fra le sue mani. Quando si avvide che il pianto m'impediva di parlargli, a poco a poco, quasi naturalmente, mi lasciò libero. Corsi allora subito nel vicino gabinetto ed ivi diedi POLITIANI Epist. ed. cit. 452. 173 « sfogo al mio dolore e alle lagrime. Poscia asciu« gatomi gli occhi e tornato dentro, appena egli « mi vide e mi vide tosto, mi chiama di nuovo « a se e mi chiede che faccia Pico della Miran« dola, gli rispondo ch'era rimasto in città, per« che temeva d'essergli molesto colla sua pre« senza. Se io, disse Lorenzo, non temessi che « questo viaggio gli fosse di noia, bramerei pure « di vederlo e di parlargli per l'ultima volta, prima « di abbandonarvi. Debbo io dunque, gli dissi, « farlo chiamare ? Sì, certo, rispose, e il piij «presto possibile; così feci, e già era venuto « il Pico e si era posto a sedere presso il letto. « E io ancora mi ero appoggiato presso le sue « ginocchia per udir meglio per l'ultima volta la « già languida voce del mio Signore. Con quale « bontà, Dio buono, con quale cortesia, dirò an« Cora, con quali carezze lo accolse Lorenzo ! « Gli chiese prima perdono di avergli arrecato « un tale incommodo, lo pregò a riceverlo come «contrassegno dell'amicizia e dell'amore che « aveva per lui, e gli disse che moriva piiì volen« fieri dopo aver veduto un sì caro amico». Il volto gentile del Pico era valso a calmare l'agitazione convulsa di quell'uomo in preda agli PoLiTiAN! Epist., ed. cit. 124-37. Vedi Berti, 1. e. 44-45. 174 ultimi strazi dell'agonia, resa più triste forse dal ricordo dei falli commessi durante la vita di principe; e gli occhi vitrei, prossimi a spegnersi per sempre, parvero rischiararsi alla luce calma e celeste che riverberavano gli occhi azzurri del Mirandolano. Il male di cui soffriva il Magnifico era di quelli che non perdonano, e il grande mecenate, r astuto politico, uno dei primi poeti del Rinascimento, moriva l'otto aprile all'età di quarantaquattro anni. Si discuterà sull'opera sua di governo, sulla sincerità o meno della sua liberalità e del suo mecenatismo, quel ch'è certo si è che Firenze e l'Italia godettero sotto di lui di una prosperità come poche volte fu dato nella storia della nostra patria; che tanti uomini d'ingegno lo amarono e lo riverirono non sempre per adulazione (e la lettera del Poliziano è una prova della più sincera devozione) ma perchè riconoscevano in lui oltre che un reggitore politico, un uomo dì cuore e d'ingegno. Valga la considerazione di ciò che accadde all'Italia dopo la morte di lui per dover ammettere che Lorenzo fu una delle personalità più spiccate e complesse del Rinascimento, un uomo che, come pochi, ha rappresen TiRABOSCHi, Storia della Letteratura Italiana, t, VI, part. I, lib. 1, cap. XV. 175 tato le sorti di una nazione. E il Pico fu di quelli che esperimentarono la generosità disinteressata di Lorenzo le cui lettere e documenti fanno fede dello spontaneo disinteressamento che sempre animarono ogni suo atto verso il giovane filosofo, al quale si sentiva legato da un affetto sereno e sincero. E se il Pico era sfuggito alle persecuzioni dei propri nemici, se aveva potuto trovare in Firenze un asilo comodo e sicuro, se era riuscito ad esplicare liberamente la sua attività di studioso, lo doveva a Lorenzo che per lui fu non solo un amico ma un carissimo padre. IX. Il Pico a Ferrara nel 14i>2. Crisi Uelii^iosa. L'Orazione Domenicale. Invitato dal duca Ercole I, si recò il Pico a Ferrara per assistere alla disputa che doveva aver luogo in occasione del Capitolo generale dei Frati Predicatori. Alcuni anni addietro aveva partecipato a un altro Capitolo, a quello di Reggio, dove era stato fatto segno all'aminirazione generale pel suo ingegno precoce. Né anche ora dovettero mancargli i segni di deferenza e di ammirazione da parte dei convenuti; ma mentre un tempo si sentiva accendere ai sogni della gloria e «all'uso di Gorgia da Leontini cercava fama, sostenendo qualsiasi cosa » ; ora molte foglie vedeva cadere avvizzite dalla sua corona, dopo che ne aveva sperimentata la vacuità piena d'ama — 178 ritudine. Anzi adesso provava un sentimento d'inferiorità davanti a quei frati il cui nome non sorpassava la cerchia ristretta delle conoscenze personali, ma la cui vita al compimento della quale mettevano in uso tutte le loro energie riteneva alla sua superiore. Questi sentimenti del Pico li leggiamo in una lunga lettera, in data 15 maggio 1492, ch'egli scrive al nipote Gianfrancesco. Ivi lo consiglia di non dolersi delle difficoltà che dovrà incontrare nella via del bene, giacché sarebbe oggetto di meraviglia se a lui solo fra i mortali fosse dato di andare in cielo senza fatica (sine sudore). E dopo avergli ricordata la massima di S. Giacomo: Gaudete fratrcs cum in tentaiiones varias incideritis nec immerito quidem, gli spiega come ogni stato sia irto di difficoltà e pericoli : così quello del marinaio, del mercante, del principe. Per questo egli ha scelto la quiete del suo studio, e nulla a mbisce in questo mondo i cui seguaci gridano unanimi: laxati sumus in vias iniquitatis, perchè le innumerevoli cure della vita li agita come un mare fervens quod quiescere non potestSiccome tutte le cose terrene sono caduche, incerte e vili, lo invita a rompere i lacci delle passioni, a rendersi piacevole più a Dio che agli uomini, a scegliersi la via stretta della virtìi che mena al cielo. Per fare questo, 179 gli consiglia due cose: a pregare, e pregare non solo con molte parole (multiloquio) si bene nel segreto della propria mente e di ascoltare nei penetrali della coscienza la voce divina che rischiara le tenebre ed unisce a sé coi modi più ineffabili: e infine che la preghiera non sia lunga, ma ardente e interrotta spesso dai sospiri. L'altro consiglio è di lasciare le favole dei poeti per aver sempre nelle mani le sacre scritture (nocturna versare manu, versare diurna nelle quali è nascosta una tal forza sovrumana, così viva ed efficace, che trasfonde, in chi vi s’accosti umilmente, un'ammirabile amore divino. Termina la lettera ricordandogli quanto gli ha detto altre volte, che cioè per quanto lunga possa essere la vita, si deve pur morire e che il cavallo che ciascuno di noi cavalca non ha da percorrere che un breve stadio. Quale passo ha fatto Pico di questa lettera, da Pico dell'epistola critica a Lorenzo cosi piena d'entusiasmo e di baldanza o dell'Apologia in cui scoppiettavano a volte un virulento sarcasmo, a volte espressioni così ardite e per quel tempo insolite! Questa lettera sembra scritta d’un padre religioso tanto è compenetrata di pensieri e di massime divote: il distacco dal mondo, gl’orrori dell'inferno, l'e Opera, . 180 sortazione alla preghiera, trovano un accento cosi fervente, che ci sembra d'avere innanzi un vecchio stanco della vita e anelante al riposo del sepolcro. Pico era ancor giovane, eppure il suo spirito era invecchiato, 0 meglio, poiché lo spirito non invecchia, era cambiato il contenuto della sua vita. Ciò che ora lo attraeva non era più la poesia e le sue lettere e i suoi sonetti ci attestano quanto egli avesse amato la poesia (omissis j'am fabulis nugisque poetarum cosi consiglia al nipote neppure forse piiì la filosofia e questa era stata la sua grande passione, quella per cui aveva rinunciato alla vita di principe, per cui aveva sofferto persecuzioni e prigionia ciò che ora Io attraeva era una vita più degna d'essere vissuta, per la quale voleva dare non solo una parte della sua attività, l'intellettuale, ma quella affettiva, quella pratica, insomma tutta l'anima. E dessa, è ormai evidente, era la vita religiosa. Ma gli era d'uopo conciliarsi con la Chiesa, dare al Pontefice un attestato persuasivo della sua nuova disposizione. Era quello l'anno nel quale avvenne l'espulsione degl’ebrei da tutta la Sicilia e molti si sparsero in ogni parte d'Italia. Uno di questi Opera (siculus quidam hebraeus) si era spinto sino a Ferrara, portando seco gran copia di libri ebraici. Pico si senti stimolato dall'antica curiosità ed attrattiva pel misterioso; per lui un libro nuovo era un tesoro, e Io legge colla convinzione di trovare in esso ciò che la sua anima vagheggiava e che tutti i libri precedenti non avevano saputo accordare. Ricorda, non senza tristezza, quali orizzonti aveva intravveduto nello studio della Cabala e quante notti aveva vegliato per decifrare gl’arcani dell'antica sapienza. Chi sa che anche ora non potesse scoprire qualche verità riposta nei libri di quel giudeo, il quale gli acuiva il desiderio di leggerli coll'annunciargli la sua partenza da Ferrara entro venti giorni? Al nipote che lo richiedeva di consigli, risponde che non si aspettasse per qualche tempo da lui nessuno scritto essendo occupato notte e giorno, sino quasi a perdere gl’occhi, su quei libri dell'ebreo, che conta di finirli prima della di lui partenza. Addio, conclude, temi il Signore e pensa ogni giorno che devi morire. Non Opera Alcuni giorni prima aveva scritto a Malvezzi ringraziandolo dell'invio fattogli del suo libro De Sortibus che aveva trovato diligente in quanto alla lingua, acuto nelle osservazioni e gli promette d'inviargli alcune 182 pare che da tali letture ne traesse il frutto che si era ripromesso e nemmeno la benché minima soddisfazione dello studio per sé stesso. Ormai era inclinato per quella via in cui si sentiva irresistibilmente trascinato. Si ritrasse da quei libri con una specie di disgusto, e come da ciò che si frapponeva alla sua vera méta. Riandando alle cause che determinarono il suo attrito con la Chiesa e il suo capo, il Pontefice, s'avvide che «buona parte della colpa era sua, « che aveva troppo amato la gloria del mondo e «trascurato quella che sola proviene da Dio*, e sopratutto perché all'odio e alla nequizia degli uomini, aveva reagito coli' impeto della passione, che é figlia di Satana. Non aveva ascoltato il precetto di Gesù quando disse: «Si vos hodio mundus habet, scitote quia priorem me vobis habuit»,e quindi aveva agito ciecamente per la violenza della propria consuetudine, come coloro che sono trasportati dall'impeto della corrente di un fiume. Non aveva riflettuto sulla sentenza socratica che se i nemici uccidono il corpo, non possono nuocere all'anima, e però non si era astenuto dalla vendetta che im sue quisquiglie (forse alcuni di quegli inni che in questo tempo andava componendo per ricreare lo spirito col suono della lirai, Opera pedisce all'anima di udir risuonare la voce soavissima di Dio, unica guida alla verità e alla vita. Oh ! come gli tornava spontaneo sulle labbra il gemito del profeta: «Delieta iuventutis meac «et ignorantias meas ne memineris: sed secun« dum misericordiam tuam memento mei propter « bonitatem tuam Domine » ora che, trovandosi a Ferrara, si risovveniva del tempo della sua prima gioventù non scevra di quei trascorsi che imbrattano la coscienza. " Pensa, figlio carissimo soggiunge rivolgendosi al nipote che la vita ò un punto, un istante; che i piaceri, le ricchezze avvelenano l'anima e la sottraggono al regno del cielo; che tutto ciò che forma la nostra gioia di quaggiù è incerto, umbratile, falso; pensa che una grande ricompensa sta preparata per colui che, disprezzando queste cose, sospira alla vera patria, di cui Dio è il re, la carità la legge, l'eternità il modo. Occupa l'animo in questi pensieri, che lo stimolano quando dorme, lo accendono quando e tiepido, lo rafforzano quando vacilla, e gli apprestano le ali quando tende al divino amore; di maniera che, quando verrai da me, che ti attendo con grande desiderio, ti possa vedere non solo quale sei, ma come voglio che sia». Opera. Questa lettera porta la data del 2 luglio, Ferrara. In questa lettera, improntata a una maggiore unzione delle altre scritte al nipote, il Pico ci si mostra ormai preso dal sacro fervore de! mistico. Ed è degno di nota il fatto che il nostro, le cui lettere agli amici sono di sapore, diremo così, profano, abbia scelto nel suo nipote il confidente delle proprie aspirazioni. Forse lo confortava a questo, oltre il legame di parentela che lo univa al figlio del proprio fratello, a cui non era del resto molto distante per l'età, la serietà di questo giovane principe che si era rivolto a lui con un abbandono e una devozione che non si smentì mai. Ad ogni modo il Pico, che pur tanti amici annoverava, non si aprì mai con alcuno come co! nipote, non fece mai nessuno partecipe delle sue ansie, dei suoi ardori delle note piìi intime che gli vibravano nell'animo; né mai nessuno ebbe a chiamare metà della propria vita (animae dimidium mcae) , perchè nessuno per r innanzi l'aveva compreso come il nipote Gianfrancesco. È senza dubbio di questo tempo il commento all'orazione domenicale che va sotto il nome: In orationem dominicam expositio. Il Pico fa rientrare l'orazione domenicale, che per i cristiani è la preghiera per eccellenza, nel n ; Il nipote si era già sposato. (2ì Questa espressione si trova nella lettera datata da Firenze, Opera quadro generale di una teoria della preghiera; quindi prima di tutto la definisce, poi determina lo scopo per cui si deve pregare , infine dà la norma che deve seguire colui che prega . La preghiera, dice il Pico, è sempre un desiderio, e ciò che si desidera è sempre un bene, e le cose le amiamo in quanto esprimono un bene. Siccome poi, al dire degli stessi teologi e filosofi, il bene sommo è Dio, dobbiamo perciò amare e desiderare prima, e al disopra di ogni cosa, Dio, e insieme con lui le creature che più a lui ci congiungono. Come dobbiamo regolarci rispetto a tante cose che pur ci dilettano (come i beni della fortuna, la bellezza, la forza del corpo ed altri obbietti sensibili) e nondimeno non ci uniscono a Dio? Col fuggirli, risponde il Pico; perchè non può essere buono ciò che ci allontana da Dio e ci fa peccare. E quando ci sono concessi tali beni da Dio? Allora, incalza il nostro, dob [\) «Orare non est aliud quam per elevationem men • tiset affectus excitationem sua desidcria Deo notificare -. i2i « Si ergo debcmus scire, quoniodo sit orandum, • oportet prius scire quid sit desiderandum. Scimus autem illud esse sumnie desiderandum quod est summum bonum. L' Esposizione di cui stiamo facendo l'esame è inserita in principio delle Opere del F*ico, edizione Basilea già citata. Mancando la numerazione delle pagine, citeremo per ordine numerico degli a che contraddistinguono i fogli. 13 186 biamo ricordare il detto di S. Paolo che ci consiglia di far uso delle cose di questo mondo, tenendo da esse distaccato il nostro cuore. Chi vuole distaccarsi da ciò che è caduco deve far uso della meditazione, della compassione, della imitazione. Poiché solo meditando la passione di Cristo, noi sentiremo il nostro cuore punto di compassione per le infinite sofferenze di Gesù ; ma a nulla gioverebbero le nostre lagrime se non cercassimo di imitarlo nella sua vita, nelle sue parole, nella sua inalterabile pazienza a sopportare i più grandi dolori. E non solo dobbiamo sopportare le afflizioni della vita, ma anche coloro che ci fanno del male. Se vogliamo che Dio rimetta i nostri peccati e ci preservi dalle tentazioni, accordandoci la sua misericordia, la quale è come la medicina per il corpo, perchè dovremmo negare al prossimo ciò che noi chiediamo a Dio, vale a dire la misericordia ? Se è vero che è per essa che noi siamo salvati e non già per i meriti nostri, a maggior titolo dobbiamo usare verso gli altri questa grande benevolenza che distingue gli animi eletti. Quando infine Cristo c'insegna adire al Padre, «liberaci dal male», non possiamo fare a meno dal non raffigurarci, nella rappresentazione del Demonio, l'insieme di tutti i mali, l'ipostasi di tutto quanto è triste e peccaminoso; ecco perchè noi dobbiamo 187 fuggire dal male, come da una bestia orrenda e rifugiarci nel seno del Padre nostro in cui riposeremo sempre che lo serviamo con santità e con giustizia. Il 28 luglio giunse a Ferrara la nuova della morte di Innocenzo Vili, e pochi giorni dopo, quella dell'elezione alla cattedra di S. Pietro del cardinale Borgia col nome di Alessandro VI. L'avvento di questo nuovo Papa che, per la larghezza delle sue idee e i suoi gusti estetici, era ben noto nel mondo letterario ed artistico, produsse nel nostro un senso di sollievo poiché, essendosi rivelato di un carattere del tutto diverso da quello del defunto Pontefice, sperava di trovarlo meno restio a concedergli la sospirata assoluzione. Un'altra circostanza si presentava intanto a lui favorevole: l'elezione del Rettore dello studio di Padova, il cipriota Podocataro, a segretario pontificio. Il Pico scrisse da Ferrara il 16 agosto una lettera di congratulazione al suo vecchio professore, rimettendogli una supplica per il Papa, colla preghiera d'intercedere per la sua causa . [\ I Opera, foL, a, 4. (2^ DoREZ, Giornal. Star. d. ietterai. Italiana, voi. 25, 1895, 355. Egli intanto si mosse alla volta di Firenze, per potere poi proseguire per Roma ove non gli mancavano amici e ammiratori, tra i quali il suo affezionato Ermolao, patriarca di Aquilea. A Firenze, essendosi imbaltuto in un fascio di libri greci (ex his graecorum librorum fascibus extricavero) s'intrattenne per poterli consultare. In questa città desiderava raggiungerlo il nipote che ormai non sapeva più vivere da lui lontano. Ma lo zio l'ammonisce di rimanere per due motivi: primo perchè potrebbe arrivare a Firenze nel contrattempo ch'egli sarebbe in viaggio per Roma (ut illuc mihi eudum sit, causam nosti) oppure per Mirandola ; l'altro che avrebbe dovuto lasciare per lui la moglie, verso la quale l'obbligavano dei doveri inerenti al matrimonio, cui egli non potrebbe sottrarsi senza venir meno al comando divino in cui è detto essere gli sposi un'anima sola. « Infatti, soggiunge, 'non puoi es« sere più tutto tuo dal momento che hai voluto « assoggettarti alle leggi nuziali, nondimeno puoi « essere tutto di Dio, al quale sei meritevole nello « stesso tempo che lo sei a te stesso ». Lo esorta infine a starsene in casa per attendere alle proprie occupazioni e alla meditazione delle sacre scritture e in special modo del Vangelo. A vederlo non istarà molto tempo, avendo in animo 189 di ritornare a Ferrara al cominciare della primavera . Siccome non arrivava nessuna risposta alle pratiche che aveva inoltrate a Roma, nò credeva riuscisse per niente proficua la sua andata in quella città, decise di trattenersi ancora a Firenze ove poteva almeno attendere agli studi. In questo periodo attraversava egli un momento di grande sconforto; aveva molto bisogno di affetto e di parole buone e in questo senso è improntata la lettera che scrive ad Ermolao nella quale gli chiede anche il volume di Tolomeo sulla musica . Arriva un momento nella vita in cui la mente nostra fa un cammino a ritroso e invece di guardare avanti e di sognare si volge indietro e ricorda. Fra le persone che conoscemmo ed amammo ve n'è sempre una che rimane nella nostra memoria coi caratteri indelebili di una bontà semplice e gioviale. Felici noi se, mentre la contempliamo in immagine, tale persona vive ancora e può accoglierci nel suo seno e ridirci la parola che consola. Il Pico era cosi giovane quando questo periodo era per lui arrivato che, si può dire, tutti coloro che aveva conosciuto nell'in Opera, 346-47 la data di questa lettera è del 27 novembre 1492. (2 Opera, . fanzia, erano ancor vivi e tra questi la persona che Io aveva palleggiato bambino tra le braccia, e che ora ricorda con tenero affetto nella sua lettera che gì' indirizza senza rivelarci il nome. « Nulla mi tornò più dolce e piij gradito, gli « scrive, della memoria della tua antica famiglia«rità e soavità di costumi. Se la sede dell'ami« cizia sta nell'animo, in noi allora essa è vera« mente, vale a dire, non c'è motivo, come scrivono « Platone ed Aristotile, perchè in noi possa for« mare un dissidio la distanza di luogo e di tempo. « Pensavo or ora in che modo poterti essere « vicino, né altro mi venne in mente che il farti H pervenire la mia elucubrazione de septiformi « in sex dies geneseos. Se noi partoriamo dei li« bri quasi come dei figliuoli, e il padre è in gran * parte nel figlio, vengo io ancora con esso lui « che ho generato. Ricevi dunque il mio figliuo« letto che viene a te com' io soleva ilare e fe * stante bambinello. Ti piacerà, lo so, perchè mi « ami, e ti dispiacerà anche perchè mi ami. Nam * eiusmodi pietatis est et eorum errata qtios ama«mus signanter introspicere ut emendemus et in*trospectis leviter undulgere ne vexemus*. Da ciò si vede che il Pico considerava V Ettaplo come il suo lavoro prediletto; e invero esso Opera e proprio figlio del suo spirito: tutto ciò che aveva studiato, sognato e amato, egli lo aveva trasfuso là dentro e se in qualcosa sperava ripromettersi perpetuità al suo nome, era appunto in esso, che rimane del resto anche per noi l'espressione più notevole del suo ingegno. Frattanto non tardò a venire la lettera di risposta del suo Ermolao, ch'egli trovava quale si era ripromesso, e cioè piena di sentimento e di parole buone, vera immagine di quell'anima semplice e mite, che, pur cosi erudito passava allora per uno dei più eletti stilisti latini — rifuggiva il plauso esteriore, pago unicamente della stima degli amici. In verità questi gli corrisposero e più di ogni altro il nostro che, esaltando i suoi meriti letterari, esclamava: «Voglio, o dottissimo Ermolao, « che tu sappia che ti sono amicissimo e che le • tue virtù mi accendono alla stima e venerazione • per te, così che a nessuno, anche se ti fosse • consanguineo, permetterei di amarti come ti • amo io». Ai primi del 1493 giunse a Firenze la notizia che Ermolao era stato colto dalla pestilenza che serpeggiava allora nel Lazio; il Pico e il Poliziano n'ebbero il cuore trafitto. Il Pico volle tentare di soccorrere l'amico invian do Opera, . dogli per mezzo di un corriere uno specifico da lui stesso comprato e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando l'espresso arrivò a Roma, Ermolao Barbaro era già spirato. Contava trentanove anni; con lui spariva una delle figure più amabili del suo tempo e più che per le sue opere letterarie fra cui le Castigationes plinianae erano meritamente celebrate, egli emergeva fra i contemporanei per le squisite doti del suo cuore, doti che solo in parte possono trasfondersi negli scritti e che la morte porta inesorabilmente seco. Per far meglio intendere l'indole di questo umanista, vogliamo riferire in parte la lettera che scrisse alcuni mesi prima di morire ad Antonio Calvo, il quale gli annunziava la morte del padre suo Zaccaria avvenuta in Venezia. Dopo d'aver detto il rammarico provato per non aver potuto dalla terra d'esilio andare a porgere l'estremo saluto all'autore dei suoi giorni, soggiungeva: «Forse egli andando sicuro incon« tro alla morte, era solo sollecito del mio dolore; « sono certo eh' egli non sapeva con che animo « sopportassi la mia sventura, perchè se mi avesse « veduto, oh allora, senza dolore sarebbe passato « da questa vita. Del resto mi conforta il pen« siero ch'egli abbia lasciato il mondo con la co« scienza d'avere fatto il proprio dovere e di avere 193 « speso la sua vita per il bene della patria e delia «famiglia. A te raccomando i miei fratelli, sii loro « consolatore in vece mia e che continuino ad «amare il padre loro oltre la tomba». La perdita di un sì caro amico gettò un velo di tristezza sull'animo del Pico; il pensiero di rendersi utile alla Chiesa divenne ora il dominante fra ogni altro. A farlo persistere in esso contribuiva notevolmente l'influsso che su di lui esercitava la vita austera di Girolamo Savonarola. Dopo la morte del Magnifico, colui che in Firenze aveva acquistato maggiore autorità era il frate predicatore, la cui eloquenza dall'intonazione profetica, la cui vita rigida e intemerata, cominciavano a guadagnargli le anime stanche della vita 0 desiderose di purificazione. Il Pico, che già da tempo conosceva il frate , ora che sentiva più urgente il bisogno d'una persona la quale piij che amica gli fosse guida nel nuovo cammino, si rivolse al frate di San Marco come all'albero maestro. Riprese con fervore le pratiche di pietà, passava le ore nella Biblioteca di S. Marco a conversare col Savonarola di cose religiose, riceveva con piacere nella sua abita li j Roma. Dalle Epistole del Poliziano. (2; Cfr. la Vita del nipote. 194 zione le visite di coloro che desiderassero intrattenersi in dotti e cristiani argomenti. In questo tempo, si legge nella vita scritta dal nipote, il portamento del Pico aveva assunto un fare più timido e contegnoso, il suo volto, di solito ilare e calmo (vulio hilari semper erat et placido) , sembrava ora trasfigurato dagli ardori mistici cui si abbandonava. Più volte fu veduto col flagello in mano (meisque oculis saepius [cuncta in Dei gloriam redeant] flagellum vidi) macerare le proprie carni per espiare i falli commessi e in memoria della morte in croce di Cristo. Più nulla poteva ormai commuoverlo dal suo proposito. Solo una cosa lo avrebbe irritato, se cioè vedesse andar perduti certi scrigni {nisi scrinia quaedam deperirent) ripieni delle sue elucubrazioni, frutto di lunghe veglie e che credeva tornassero di grande utilità alla Chiesa di Dio. Se il paragone non fosse irriverente, diremmo che uguale si presenta in intensità l'attaccamento per il denaro dell'avaro che tiene sul cuore le chiavi dello scrigno ove sta il suo tesoro, e dell'umanista per i libri e gli scritti che tiene nel suo studio : l'uno e l'altro ne morrebbero di dolore se vedessero andare distrutto ciò che considerano metà della loro anima, come. Cfr. la Vita del nipote. secondo Pontico Virunio, incanutì dal cordoglio quell'umanista che perdette in un naufragio la cassa contenente i libri che portava dall'Oriente. Maffei. Verona illustrata. Cosa tenesse il Pico nei suoi scrigni ce lo dice il nipote: una farragine di lavori incompiuti, scritti con carattere malagevole a leggersi «di modo che, come d'in • gegno, cosi fu si celere di mano che, essendo stato da « giovane ottimo calligrafo, finì quasi col non intendere • più egli stesso ciò che aveva scritto. Soleva anche scri« vere or qua or là scrivendo cose nuove sopra le vec • chie, molte opere interrompeva dopo d'averle incomin«ciate». Egli allora attendeva con più di proposito a un'opera in cui si prometteva di combattere i sette nemici della Chiesa: gl'increduli, i pagani, gli ebrei, i maomettani, i cattolici non osservanti a quello cui credono, gli astrologi e gli eretici. Di quest'opera solo la parte in cui prendeva a combattere gli astrologi « egli aveva, come • dice il nipote, compiuto e limato in parte, e noi con • grande fatica potemmo ricavare da un esemplare tutto • cancellato e stracciato » (Vita). Poiché il lavoro contro gli astrologi, che si compone di dodici libri è vastissimo, tenteremo di esaminarlo brevemente più oltre nel nostro studio. X. L'assoluzione del Pico. Risolazioue della crisi nel misticismo. Le « Disputationes » . Sua morte. Giunse al Pico, quasi improvvisamente, il sospirato Breve di Alessandro VI che lo assolveva in seguito alla relazione di una Commissione, composta di un vescovo, di due cardinali e del domenicano Paolo da Genova, professore di teologia e maestro del palazzo apostolico da ogni censura o nota di eresia- Il Breve, dopo aver fatto la storia della esamina delle 900 conclusioni, di cui alcune erano state condannate sotto Innocenzo Vili, perchè erronee e contrarie alla fede, viene alla considerazione dell'Apologia. « Inteso poi il detto pre« decesssore che tu avevi pubblicato un altro libro « apologetico, dove le medesime proposizioni in« terpretavi in un senso migliore e cattolico, e ne chiarivi l'intendimento giusta la vera fede, lo « stesso predecessore volendo impedire che le « premesse proposizioni corrompessero in qualun« que modo i cuori dei fedeli, vietò la lettura del « libro delle predette novecento proposizioni, però « dichiarando che tu non eri incorso per tutto « questo in alcuna censura, siccome più ampia« mente si contiene nelle stesse lettere, il te« nore delle quali vogliamo che qui si abbia per « espresso * . Qui potrebbe affacciarsi la questione se il Breve di Alessandro VI veniva a contraddire la Bolla di Innocenzo Vili,ma  noi  non  crediamo  necessario indugiarci  in  essa  che  ha  dato  campo  a  vivaci  polemiche  fra  alcuni  pubblicisti  rosminiani  e  gesuiti della Civiltà Cattolica. Ci basti dire che vera e propria contraddizione nei decreti dei due Documento citato da Berti nella Rivista  Contemporanea Leone spedì a Pico un Breve col quale permette al nipote di pubblicare le opere proprie e quelle dello zio. Per questo Breve vedi Civiltà Cattolica. E per la Polemica vedi Rassegna Nazionale; Civiltà Cattolica.Vedi anche Malavasi, Pico  della M. davanti al Tribunale della santa sede. Mirandola; Pagani, Rosmini  (an.  Ili,,  e Rassegna  Nazionale pontefici non  esiste; ciò che appai e invece e spiega tutto è la diversità di temperamento nei due capi delia Chiesa. Il primo, invero, non ha mai emesso un atto esplicito di scomunica contro Pico, ma soltanto tenne sospesa questa minaccia come una spada di Damocle sul capo  del Mirandolano, la quale vale a paralizzare la sua attività e a tenere in angustia lo spirito di lui credente; Alessandro, d'indole mono puntigliosa e meno proclive a cedere alle pressioni degl'invidiosi di Pico, i quali sono per altro diradati, e che in fondo non aveva nessun risentimento personale col  nostro (si ricordi la frase dei Pico a riguardo d'Innocenzo nell'Apologia), era portato ad  interpretare nel modo più indulgente l'operato del medesimo, il quale, del resto, era venuto sempre più accostandosi ai dettami di S. Chiesa con una vita veramente pia, e ad indulgere tanto più verso quelli che, per nobiltà di sangue, per sapere, per integrità di vita e religione ortodossa si raccomandano la cui quiete e reputazione ci sta a cuore quando con Dio è lecito. Questo Breve colmò  di giubilo il cuore del Mirandolano e valse a togliere quella specie di op Multa itidem vasa argentea prcciosasque supellec« tilis partes in pauperum usus distribuit. Vita ecc. pressione che gli si faceva sempre più penosa di mano in mano che si accostava al centro della vita religiosa. Questa era ormai l'unica sua aspirazione, l'ideale verso cui tende il suo pensiero e con cui spera di dare  inizio a una nuova vita. Riduce quindi al puro necessario le sue bisogna; la mensa rese parca e frugale, vendendo parte del vasellame d'oro e d'argento per distribuire il ricavato ai poveri verso i quali comincia a largheggiare in elemosine. Volle essere riconoscente coi fedeli famigliari, lasciandoli usufruire liberamente dei suoi poderi. Lascia all'amico Benivieni un fondo cospicuo onde  all'occorrenza alleviasse le persone piìi indigenti di Firenze, sopratutto dotasse le fanciulle bisognose, acciocché potessero maritarsi. Considerando poi chiusa la sua vita nel mondo decide di fare il proprio testamento che redatta  e rifece il primo settembre dello stesso anno e a cui fecero da testi Poliziano e Savonarola. Ivi dispone che l'Ospedale di  S. Maria Novella fosse erede universale  de'suoi beni immobili, mentre di quelli mobili elegge a erede il fratello Antonio verso il quale non voleva riuscire imparziale, avendo già soddisfatto largamente al figlio del fratello Galeotto. Sciolto  La vendita era stata fatta con strumento. Ceretti, Sonetti inediti del  C. G. P. Mirandola così da ogni legame d'ordine finanziario, si trovò libero di dedicarsi a ciò che piìi gli sta a cuore.  Due erano le tendenze che si contrastavano dentro di lui e l'imbarazzavano nella scelta: l'ordine religioso dei frati predicatori cui appartene Savonarola, e la vita del pellegrino più aspra di sacrifici e più libera nell'amore. Come luogo di ritiro pelle sue meditazioni, si era scelto la villa della Fratta dove pochi ammette, per non essere distratto dal suo raccoglimento: tra quei pochi era  Gianfrancesco. Un giorno, narra questi, mentre ci trovavamo a ragionare del divino amore in un giardino dal quale l'occhio spazia lontano le prospettive verdeggianti, mio zio proruppe in queste parole: Te lo confido in segreto, appena avrò terminato certe mie elucubrazioni, darò il rimanente de'miei averi ai poveri, e, giunito d’un crocefisso, scalzo, a piedi nudi, me n'andrò pellegrinando  pel mondo a predicare Cristo alle città e alle castella. Sembra che in questa missione egli trova la vera via alla sua anima irrequieta e bramosa di agire in conformità delle sue libere aspirazioni. Non altro che per questo egli si era  Spigolature in Giorn. stor. di L. I. Vita in negato una compagna, non altro che per esser libero egli visse sempre errabondo senza una stabile dimora, benché  abitasse più spesso a Firenze e talvolta a Ferrara. E quando gli ardori mistici s’acquetavano e l'anima sua si ricompone in quell'equilibrio normale di cui la sua fisonomia esteriore era la più soave espressione, pensa al bianco saio di fra Girolamo, alla maestosa gravità che traspariva dalla magra figura del predicatore, quando di sul pergamo del duomo colla mano che sembra scagliasse  folgori, colla voce annunciante l'ira di Dio, cogl’occhi accesi da quel furore profetico, suscita brividi di terrore sulla folla degl’astanti; allora sentivasi trascinato nelle braccia di quell'ordine che pare istituito per convertire a  Dio colla predicazione e la scienza teologica, gl’eretici e gì'increduli. A tale scopo cerca Pico di cimentarsi con quelle discipline che suggerisce l'ascetica, per  mettere a prova la sua capacità e l’attitudini richieste ad un apostolato. È forse in questo periodo ch'egli compose le dodici regole per eccitare e dirigere l'uomo nel combattimento spirituale. L'idea Vita, \n Regulae XII partim excitantes, partim dirigentes hominem in pugna spirituali, in Opera centrale di queste regole è la seguente: Non si deve rifuggire dalla via della virtù perchè il  cammino è aspro e difficile, poiché anche la via dei piaceri ò seminata di spine e d’avversità; se si deve sostenere in questo mondo una battaglia perenne, dato che la vita dell'uomo è una milizia – volontaria H. P. Grice --, tanto vale combattere per una causa giusta e santa qual'è quella che ci fa simili a Gesù Cristo il quale non ascese al cielo se non per il martirio. Perciò Pico viene a  riconoscere che fra tutte le tentazioni dell'uomo quella che si deve combattere e vincere è la superbia, radice di tutti i mali, contro la quale vi è solo un rimedio, il pensare che Dio stesso s’umilia per noi sino alla morte di croce. A\entre da una parte Pico per suo proprio uso scrive queste regole e cerca di metterle in pratica,  SI homiiii vidctiir dura via  \ irtuiis, quia continue oportet nos  pugnare advcrsus carncm. et diabolum, et mundum recordetur, quod quamcunque elegcrit vitam, etiam sccundum mundum, multa illi adversa, tristia, incommoda, laboriosa paticnda sunt. Rcf.  I. Sicut et caput nostrum Christus, non ascendit in coclum, nisi per crucem. Rcg.  Ili.  Quare super omnes tentationes, homo debet maxime se munire, contra tentationem superbiac, quia radix  omnium malorum superbia est, contra quod unicum remedium est, cogitare semper, quod Deus se humiliavit prò nobis usque ad crucem et mors. Rcg.  XII. non trascura dall'altra i suoi studi, massime in quanto potessero giovare in qualche misura alla Chiesa. Si propone, come abbiamo detto, di combattere i nemici della religione e in particoiar modo gl’astrologi, le cui elucubrazioni  piene di sofismi gli parevano incompatibili col dogma e colla fede. Poliziano, venuto a sapere che Pico s’era accinto a questo lavoro contro l'astrologia, s’adopera in qualche modo per contribuire alle fatiche dell'amico. In quel tempo legge nello studio agl’uditori il suo poema Rusticus in cui, fra le altre cose, fa menzione degl'influssi della luna sui vari lavori dei campi, conforme ai  dettami d’Esiodo. Ora, egli scrive a Pico, io cominciai fra me a dubitare se cotali osservazioni non avessero qualche fondamento nella legge della natura o piuttosto non fossero derivate dalla superstizione del volgo. Siccome tu stai scrivendo un libro pieno di dottrina contro gl’astrologi, dove tratti appunto argomenti che hanno affinità con quelli da me svolti  ad imifazione dell'antico  poeta, così mi è sembrato d\ fare cosa a te giovevole riassumere in una Quare quoniam tu nunc librum cum MAXIME – regole – H. P. Grice -- componis adversus astrologos multiplici doctrina, magnisque argumentis instructum. lettera ciò che si contiene nel mio poema e insieme anche le ragioni che dei fenomeni ivi descritti sono date da Proclo, da altri e da me stesso. Poliziano, che  dopo la morte di Lorenzo aveva rivolto tutta la sua devozione e il suo affetto al principe della Mirandola poiché egli era del numero di quelli che, avendo servito per tutta la vita, e si serve in tante maniere una persona, non possono rassegnarsi a vivere senza un protettore scrivendo all'Antiquario, gli dipinge così al vivo l'amabilità del Mirandolano, d’invogliarlo a sua volta a conoscere  l'uomo celebrato. Infatti l'Antiquario in una lettera a Riccio, dopo aver accennato all’orazioni e all’opere filosofiche di Pico, nelle quali si rivela un ingegno singolare, dice di sentirsi pieno d’ammirazione per uno che pello studio abdica alle dovizie del suo ricco casato. E Poliziano, rispondendogli subito dopo, gli dice d’aver fatto leggere la sua lettera allo stesso Pico, come a quegli che  era il vero oggetto delle sue lodi, e che riceve dal Mirandolano quanto prima una lettera doctani. Politiani et aliorum virorum illustrium, Epistolarum libri duodccim,  Basilea, POLIT.,  Epist.,  aciitam, cordatam, plenamqiie humanitatis. Il nostro infatti gli scrive da  Ferrara, ringraziandolo delle benevoli espressioni a proprio riguardo, sicuro che Poliziano sa interpretare il suo pensiero,  poiché alle muse non s’addice lo strepito d’un picchio anzi l'aspra voce d’un'anitra, com'è la sua, di fronte al canto di due cigni, quali sono loro due. Il contenuto di questa lettera di Pico, tradisce uno stato d'animo completamente estraneo a quello cui sono intonate le lettere di Poliziano e dell'Antiquario; qui si sente dell'artificiosità, fors'anche dell'ironia, prova che l'animo del nostro si  è ormai ritratto d’ogni attaccamento mondano e non vibra più a quell'entusiasmo che era si frequente nelle lettere anteriori. Questo risalto deriva dalla comparazione della lettera di risposta dell'Antiquario, in cui traspare quell'intima soddisfazione che nasce ogni volta s’ottenga un attestato di deferenza da parte di qualche personalità eminente. Egli dichiara che non ci tiene d'essere  paragonato a Poliziano, desiderando solo essere amato da Pico, per il quale nutre POLIT., Opera. un affetto e un'ammirazione più antica di quel che non creda, e il suo nome d’Antiquario ne è una prova. Ad ogni modo non nasconde questi sentimenti per non venir meno a ciò che l'animo sente, e la lingua esprime, e, d'altra parte, la di lui gloria 6 sì solida, che non ha bisogno di  adulazione, egli ch’ha conseguito tra i nati degl’uomini il nome di Fenice. Questo fascino ch’esercita la persona di Pico, invece di scemare, sembra andasse crescendo cogl’anni. Ad altri letterati si chiede un giudizio, un'espressione di simpatia, un apprezzamento qualsiasi; a Pico si chiede un sentimento d'amore; non s’ambiscono le sue lodi o la sua ammirazione, si desidera essere da  lui amati. E che veramente fosse felice l'Antiquario d'essere stato onorato d’una lettera di Pico quoniam me nuper tuis littcris exornasti, Io vediamo nelle parole scritte a Poliziano subito dopo. Dichiarandosi suo debitore per averlo messo in corrispondenza col Pico, soggiunge: sapevo ch'egli è un amabile compagno, ma non potevo supporre che divenisse così presto famigliare. Ho  proprio notato come le sue lettere rivelino, oltre ch’il sapere, l'innata bontà del suo animo. Quando lo vedi, digli che riguardi nelle PoLiT.,  Episf., ,  questa lettera e datata da  Milano mie lettere non ciò che vi è d'incolto, ma la mia  devozione per lui,  e m’abbia come antiquario fra i suoi amici, poiché la legge dell'affetto non può mai divenire antiquata. Il movimento decisamente mistico  che aveva per centro Savonarola, alle cui prediche traevano in folla sempre piiì  frequenti gl’uditori, aveva poco per volta attirato nella sua orbita tutti gl’uomini piìi in vista di Firenze. Benivieni, che diverrà in seguito il poeta, per così dire, ufficiale delle pie solennità colle quali il priore di S. Marco si studia di riformare i costumi, rimase così vinto dal fascino di Savonarola che poco  manca non desse alle fiamme le sue poesie d'amore, che esprimevano un passato di vita leggera. Anche Ficino si sente scuotere dall'eloquenza del predicatore, ch'egli chiama novello profeta, e rimane suo seguace finché la fortuna fu favorevole al riformatore; mentre quando si tratta di confessarlo nel  momento della sventura, egli l’abbandona vilmente con parole indegne d’un filosofo.  Pico piiì d’ogni altro subì l'influsso di Savonarola, al quale si sente legato da vincoli d’ammirazione di lunga data, e per richiamare il quale da Reggio a Firenze aveva speso i suoi buoni uffici POLIT., porta la stessa data,  Rossi,  Il Quattrocento,  Milano presso Lorenzo. Il frate aveva acquistato tale impero sull'animo del nostro, da permettersi aspri rimproveri al suo divoto che indugia  ad entrare nella vita religiosa, e gli presagiva gravi punizioni se non  rispondesse al più presto alla voce che veniva dall'alto. E Pico promette di vestire l'abito, appena avesse dato termine ai suoi lavori in corso, che in fondo, dice, sarebbero tornati assai utili alla Chiesa. Quasi tutti ormai sapevano dell'imminente pubblicazione dell'opera polemica del Pico contro gl’astrologi di cui se ne  faceva ovunque un gran parlare; e  Ficino che, come sappiamo oltre essere filosofo era anche medico, e la sua medicina aveva per fondamento molti postulati astrologici, comincia a pensare che l'amico suo non avrebbe certo risparmiato alcune di quelle  teorie che gl’erano care e che aveva sostenuto negli scritti. Senza por tempo in mezzo, scrive a Poliziano, che condivideva l’opinioni  del Conte e collabora alle sue ricerche bibliografiche, una lettera, nella quale, facendo le viste di convenire con loro, cerca di difendere quanto gl’era possibile salvare. Riferiamo parte della lettera singolare: Contro molti astrologi, che come già i Giganti a Giove il cielo torre tanto invano quanto empiamente si sforzano meritamente, Pico, figliuolo di Pallade e VlLLARI, voi figliuolo  d'Ercole, spesso felicemente combattete. E io, come in tutta la mia vita sempre sono stato del medesimo animo che voi, in questo studio ancora con voi m’unisco. Gli platonici le celesti imagini degl’astronomi descritte, non riprovano, né si studiano approvare. Ma Plotino di tali cose al tutto si ride, e io ne'miei commentari sopra di lui, come suo interprete ugualmente  me ne fo beffe,  parte nella sua  autorità confidato, parte perchè nessuna certa ragione ho di tal cosa. Ma nel mio libro della vita, com'io posso d'ogni luogo diligentemente ricerco; non disprezzo al tutto quelle imagini, né tutte quelle regole refuto e quivi narro le disposizioni dei segni e delle imagini non come appresso gli Platonici, ma come appresso gl’astrologi ho osservato oltra di questo nel libro  del Sole non tanto cose astronoonarola: il morto suo conhdente; egli che aveva reso acuto colle sue recriminazioni quel dissidio interiore che aveva fatto penare per tutta la vita il povero Mirandolano; egli che avevi esacerbato coi suoi  V,  ultimi giorni ed alteralo colla sua  .^ta dall’astinenze lo sguardo dolce e mansueto del  biondo. Ciò non  basUva: ei dove perseguitare anche nel  regn».  del riposo l'ombra di Pico e molestarla colle sue tetre predizioni. Ma coloro che l'avevano amato sinceramente, ne sentirono tutta l'amarezza del vuoto lasciato; e la sua morte immatura fa nascere più d'un sospetto. Si narra che (ierolamo  !  pel dolore della pi-rdila  dell’amico, fosse sui  .^i  darsi la morte. La frase di Savonarola non avrei mai creduto  questo, la descrizione della  malattia fatta dal nipote, in cui si parla del gonharsi delle viscere e d’una febbre  insidiosissima, inhne la e tfatta alcuni anni  dopo da e. ;;o di  Casalmaggiore d’avere avvelenato (. lo  tosegoc . dice il SA>arr()  nei  Diari.)  Pico di cui era segretario, sono argomenti tutti che inducono a credere che la morte del Mirandolano non sia stata naturale. Dorez che ha studiato sui vari  documenti la questione, emette due ipotesi: runa di carattere privato il cui movente era esclusivamente uno scopo pecuniario; l'altra di natura politica, e connessa coi Utrbidi giorni  del  94  in cui a Firenze si contrastavano partiti e tendenze diverse che mettevano capo, alcune al papa, altre a Pietro De' Medici o a Carlo Vili. Fra le molte vittime non è escluso che anche Pico, un tempo  amico di Lorenzo ed ora seguace del Frate, sia stato preso di mira come uno che aveva tradito la causa dei Medici, Giorn. Stor. ecc.  Un documento del vivo rimpianto che lascia dietro di sé il Mirandolano,  l’abbiamo in una lettera di Ficino, proprio dell'uomo che, pel suo carattere incostante, ci parrebbe il meno degno di fede. Se il medico-filosofo prova  mai il nostalgico affetto per  una persona amata, partita per sempre dalla vita, fu senza dubbio nei giorni che seguirono la morte di Pico. Questa lettera ci mette a nudo pell'unica volta forse, l'anima di Ficino, non spoglia però d’ogni finzione allegorica, parlante nel suo linguaggio tronfio eppure  accorato. Oh! Germano, scrive al Presidente della Sorbona, desideri aver la conferma della morte di  Pico,  vuoi  accrescere  il tuo dolore, poiché ora che non sei ben certo se sia morto, ti duoli amaramente, credo che ti dorrai ancor di più quando te ne sarai accertato. Ah, perchè, mio Germano, mi preghi di una tal cosa! Come vorrei essere ancora in dubbio, né posso compiere questo pietoso ufficio senza piangere. Il nostro Mirandolano ci ha lasciato il giorno stesso in  «'  cui re Carlo entrava in Firenze, e  compensava i gemiti dei letterati coll'esultanza del popolo ch'egli  liberava. Se non fosse stata la luce apportata dal re di Francia,  forse Firenze non avrebbe mai veduto giorno più oscuro di quello in cui si è spento il luminare di Mirandola. Con ilare fermezza passa Pico dall'ombra di questa vita come se passasse dall'esiglio alla patria celeste. Qualche rara volta i sacerdoti concedono  per un poco, agl’occhi dei profani, i misteri più riposti e tosto li nascondono, così  Dio concede ai mortali questo divino filosofo, Pico della Mirandola, e lo tolge. La morte di Pico tronca molte speranze e lascia in sospeso molti lavori di cui s’attende il compimento. L'erede spirituale di Pico, quegli che pell'ingegno e la non poca coltura, sembra più indicato a continuare l'opera del  filosofo, era il nipote Gianfrancesco; a lui s’appuntarono gli sguardi di tutti coloro cui sta a cuore vedere publicate l’opere inedite. Infatti il libro contro gl’astrologi, di cui il manoscritto era in caratteri cosi indecifrabili che lo stesso autore stenta a leggerli,  Gian«  francesco, al dire di Ficino, così pio, come  intelligente, si sforza tuttora, quotidie, di trarlo dalle  tenebre, e il medesimo  scrive la  vita e le opere dello zio. Da  te,  poi,  Gianfrancesco,  gli  scrive fra Battista Mantovano,  che erediti le virtù dello zio, quasi che il suo spirito si sia trasfuso nel tuo come quello di Elia in Eliseo, ci aspettiamo questo: che raccolga gl’opuscoli suoi i quali, benché lasciati imperfetti, causa l'immatura morte, non possono non essere dalla posterità degnamente letti, amati, adorati. Mantova. Il medesimo in una lettera del 3 gennaio dell'anno seguente, narrandogli un sogno avuto in una notte giocondissima, in cui il filosofo gli apparve, discutendo di cose arcane del cielo e della terra, lo esorta a scrivere la vita dello zio della quale nessuno è meglio informato di lui e più adatto a farlo, per essersi proposto d'imitarlo come un esemplare di sapienza  e di religiosità. Essa, conclude, riuscirà di grande conforto a tutti coloro che,  come me, hanno amato il filosofo e sofferto per la sua perdita un dolore più grande che per quella di qualunque altro. Mi sono doluto si della morte di Merula, mio condiscepolo e precettore e di quella d'Ermolao e del Poliziano, due uomini illustri; ma di gran lunga superiore fu il cordoglio per quella del nostro Pico. Piangono la sua morte l'eloquenza, l'arte, la filosofia e ogni speculazione,  che trovarono in lui un degno cultore; ma tuttavia egli non è morto invano, noi stimolati dal suo esempio ci sforzeremo di pervenire là dov'egli gode già di essere pervenuto. Tale era il rimpianto che lasciava dietro di sé il personaggio scomparso, tale la somma di pensieri, d’affetti, di care simpatie che, a guisa di scia luminosa, traccia nel percorso della sua breve vita. Egli scompariva  dagl’occhi di tutti in quel mezzo in cui s'incrocia col fascino della giovinezza non ancor sfiorita tutto ciò che vi è di bello e di profondo nella vita dell'uomo; e non è a stupirsi se nell'immaginazione dei contemporanei tanto alto assurgesse colui che, per la bellezza della persona, pell'ingegno favorito da una memoria prodigiosa, pell cuore sensibile a ogni impressione e per tutte quelle  prerogative che non si possono tramandare cogli scritti, dovette certo figurare uno di quegli uomini che sono il vanto e la meraviglia di un secolo Fu osservato che il Rinascimento è l'epoca delle forti individualità che spiccano con caratteri originali sull'amorfa moltitudine. Quelle individualità che, come Farinata degli Liberti, il Conte Ugolino, Pier delle Vigne, Francesca da Rimini,  emergono nel mondo delle ombre per opera del pensiero di Dante (e il pensiero precorre sempre l'azione) si realizzano in carne ed ossa nei condottieri, nei commercianti, negli artisti, negli uomini di Stato, nelle donne celebri del Rinascimento. Non pochi di questi personaggi giunsero sino a noi e sono ancor vivi nella storia, non tanto per quello che hanno lasciato, quanto per quello  che hanno fatto; non tanto per quello che hanno fatto quanto per quello che hanno suggerito ad altri di fare. Borgia non ha lasciato nulla che giustifichi la fama che rende celebre il suo nome, ma le sue gesta, il suo carattere, hanno gettato il loro forte riverbero nella mente del Macchiavelli, il quale fu tratto a scrivere il Principe. E cosi dicasi di tanti altri uomini di quel periodo glorioso  la fama dei quali giunge sino a noi per opera di scrittori e di biografi. Altrettanto può dirsi di Pico della Mirandola, ir quale, se lasciò non pochi scritti, non è già per questi che è ricordato, ma per le lodi di cui è stato insignito dai contemporanei. Siamo qui dinanzi a un problema che non sempre è stato valutato adeguatamente. È proprio vero che la grandezza di un uomo si debba misurare da ciò che ha lasciato, da ciò che anche per i posteri può essere materia di esame? Se si dovesse risolvere il problema in modo affermativo, allora molte figure storiche dovrebbero relegarsi nell'oblio, fuori del quale esse rimangono tuttavìa chiare e sempre splendide. Ben disse il Balbo che Cesare appare piìi grande di Pompeo per quello che ha lasciato, ma non per quello che ha compiuto;  certo in questa assegnazione del compito non sempre la storia si rivela giusta e imparziale. E non ci sembra privo di significato il detto del Leopardi quando afferma che la gloria di un uomo dipende più dal caso che dal merito. Ma noi crediamo che la vera soluzione del problema si abbia quando si tenga conto, oltre di ciò che può da noi essere giudicato, anche dell'elemento di  quell'unanimità che è possibile riscontrare nei giudizi dei contemporanei su di un dato personaggio. Perchè, torniamo a ripetere, non tutto ciò che vi è di bello e di profondo nella vita può sempre tramandarsi cogli scritti, nei quali molte particolarità che rientrano nella componente di una personalità storica, possono essere trascurate o, comunque, taciute. E nel caso del Pico non tutto ciò  che vi era di nobile e di affascinante in lui, che lo rendeva così singolare in vita, si può vedere negli scritti suoi. Quindi il nostro giudizio finale sul Pico oltre che da un esame della sua dottrina doveva essere integrato da quanto scrissero e giudicarono i contemporanei. Ecco perchè nello svolgere la sua vita e le sue opere, non potemmo trascurare anche le lettere e i giudizi di alcuni  uomini del suo tempo, massime di quelli che vissero con lui nei pii!i intimi rapporti. Inoltre per meglio ritrarre la figura del Mirandolano, abbiamo voluto seguire un metodo che, contrariamente a quanto avviene negli studi d'indole storico-filosofica, seguisse lo svolgimento del suo pensiero procedente di pari passo con lo sviluppo storico della sua vita. Forse non saremo riusciti nel  nostro intento, e la monografia-profilo tra gli altri difetti presenterà quello di essere inordinata, sconnessa, e poco chiara. Ma non dovremmo sperare indulgenza se in cambio potremo dare la sensazione di essere rimasti sempre fedeli allo spirito del nostro autore? Noi ci siamo adoperati a mettere in rilievo sopratutto ciò che nell'opera del Mirandolano rispecchia fedelmente gli stati del  suo spirito, travagliato da una crisi interiore che si rivela piij intensa che negli altri contemporanei. Il Ficino visse più del doppio del Pico e pure, benché si parJi della sua conversione nel tempo in cui prese gli ordini sacri, non offre esempio di quel doloroso dissidio che fece soffrir tanto il nostro autore. Il Poliziano trasse sino alla tomba l'inalterabile serenità della sua anima ellenica. Il  Pico che si era spinto col pensiero nei vari campi del sapere, perseguendo un ideale che gli sfuggiva sempre, la concordia di tutti i filosofi e di tutte le scuole, cominciò a provare quella specie di disillusione che subentra con la coscienza dell'inanità dei propri sforzi. Dall'aere rarefatto in cui l'avevano portato certe sue elucubrazioni, senti il bisogno di abbassarsi un poco più vicino alla  solida terra dell'esperienza e di restringere i suoi studi a quegli argomenti che si fondano sulle incrollabili basi dei pochi ma sicuri scrittori, le cui opere hanno sfidato i secoli. E infine, non trovando più neFlo studio che aveva coltivato con tanta passione, la pienezza cui anelava la sua anima irrequieta, pensò di darsi alla vita attiva del religioso e di confondersi umile e negletto tra i  semplici del volgo dai quali aveva cercato di distaccarsi colle sue aristocratiche teorie. Non v'è figura forse nella storia che, come quella di Pico della Mirandola, si contrapponga con tanta evidenza al dottor Faust. Mentre questi, nauseato dei libri e degli alambicchi della sua stanza solitaria in cui era invecchiato precocemente, abbandona lo studio al quale invano aveva chiesto la  soluzione degli enigmi piij affannosi, e si slancia nella vita festante dove sorride il volto soave di Margherita; Pico invece lascia giovane e bello la corte principesca con le sue caduche frivolezze, per il fascino di ciò che vi è d'imperituro e non declina come la luce del giorno, per le idee che illuminano i nascosi sentieri della verità a coloro che sanno formare in se stessi gli organi atti a  contemplarle. Ciò che infine piace nel Pico, è di vedere in lui compendiati molti caratteri singolari della stirpe italiana, che più di ogni altra sente il fascino della bellezza, della gloria e sa per esse immolarsi. Questa nostra stirpe ha sempre dimostrato, fin da quando nel Pantheon dei Cesari accoglieva tutte le divinità, di saper comprendere ed apprezzare le manifestazioni religiose degli  altri popoli; e anche quando unificò gli spiriti nella religione cattolica romana, diede prova della sua tolleranza in quella stessa Roma, in cui all'ombra del Vaticano, potevano vivere indisturbati gli ebrei, che altrove erano perseguitati e vilipesi. Ogni volta poi che questa stirpe fu colta da quelle profonde crisi che non risparmiano alcun popolo, essa ha saputo riformarsi senza cadere in  quegli eccessi che fanno rompere ogni rapporto col passato 0 che, abbandonandoci al caos rivoluzionario, ritardano, invece di far avanzare, la civiltà. E noi assistiamo sovente a questo fenomeno che come nella massa della nostra gente, si avvera nei singoli, e cioè, che quanto più il volo della fantasia o lo slancio dell'ingegno li porta a varcare i confini della tradizione e delle leggi civili  e  religiose, proprio allora succede un ritorno o, meglio, un più forte sentimento di amore e di venerazione per la religione e le usanze dei padri. Se è vero che nell'individuo sono compendiati tutti i caratteri della specie, possiamo ritenere che, come pochi, riesce il Pico a compendiare queste caratteristiche della razza italiana. Onde, nel modo istesso che egli soleva dire che, se fosse vera  la teoria pitagorica della  trasmigrazione delle  anime, avrebbe creduto che in Marsilio fosse redivivo Platone; cosi noi potremmo dire, in senso metaforico, che in ciascuno di noi rivive un poco dell'anima entusiasta e pugnace di Pico (iella  Mirandola. Concludendo, il nostro j^iudizio sarà diverso la quello pieno di rimpianto che di lui  e delle ne opere formularono i suoi contemporanei,  se)ndo I quali la morte precoce impedì al suo ingegno di raggiungere la pienezza degli anni maturi. La monografia -profilo che abbiamo tentato di fare del Pico, ci induce a scartare, come assolutamente infondata, questa opinione che potrebbe anche apparire a un esame superficiale ilella vita del Mirandolano. Noi siamo del parere che il Pico non mori quando la sua carriera letteraria  era a mezzo, ma piuttosto quando era compiuta. Se la morte lo sorprese, fu soltanto tlla svolta della sua vita, quando già egli era per intraprendere un nuovo cammino. Il Pico se fosse ancora vissuto, si sarebbe dato alla predicazione, a una vita di apostolato in servìgio della religione cristiana: egli insomma non avrebbe più lavorato per la gloria del mondo e quindi per la scienza, ma  unicamente per la gloria celeste e cioò per la sua anima. Già gli ultimi frammenti della sua produzione letteraria, accusano i sentimenti di un morituro alla vita del mondo, di un nascituro a quel genere di vita che, rinnegando il mondo e le sue comuni  soddisfazioni, è una preparazione a una buona morte. Il Pico poeta. Come abbiamo detto, tra la farragine di scritti che teneva ne' suoi  scrigni, egli aveva le Disputationes e i versi raccolti in più libri i presumibilmente cinque); a quelle egli diede pubblicità, e questi volle consegnare alle fiamme. Tuttavia qualche cosa sfuggi all'incendio: una trentina di sonetti in volgare che, scoperti contemporaneamente dal Dorez e dal Ceretti, furono publicati sulla fine del secolo scorso; e in latino alcuni distici ad esaltazione della  Bucolica di Benivieni  i2j;un  breve epigramma laudativo a Poliziano  i3), e un carme elegiaco. Dorez  li pubblica in una rivista romana la Nuova Rassegna e il Ceretti a Mirandola. Sono stampati.  ^Ac.  74b delle opere del Benivieni stampate a Venezia per Nicola Zoppino e Vincentio  Conipapagno) e in Opera. Poliziano espresse il suo dolore in un epiragmma slg  "còv  tcìxov perchè  il  Pico diede alle fiamme le sue poesie. In ed. Del LUNGO, pagina 217,  num.  LUI. Opera, Dei quattro carmi latini due: De expellendis Venere et cupidine e  In martyrem Laurentium Hymnus publicati nei Carmina  III. Poet. appartengono al nipote. L'elegia In Inudem Dei et prò oratione ad Deum facienda. Siccome poco o nulla possiamo dire del Pico come poeta latino,  soffermiamoci alquanto sui suoi meriti come poeta italiano, attendendoci all'edizione dei sonetti curata dal Ceretti. Il nostro scopo in questo breve esame non è quello di risolvere una questione estetica e molto meno di offrire un testo critico delle rime in volgare del Mirandolano; esso mira unicamente, in coerenza all'indirizzo che abbiamo seguito nel corso del nostro studio, a indagare  se anche nei componimenti poetici si rivela qualche nuovo "lato della personalità del nostro autore. I sonetti del Pico appaiono più esercitazioni scolastìche che espressione di stati d'animo; essi trattano per lo più argomenti d'indole filosofica e morale. L'intonazione petrarchesca si rivela sin da principio: Ed io sono esemplo al popol tutto il qual verso richiama il noto sonetto del Petrarca  che incomincia: al popol tutto Favola fui gran tempo. Cosi dicasi del primo verso di quell'altro sonetto: Spirto che reggi nel terrestre bosco che ricorda il petrarchesco: Spirto gentil che quelle membra reggi. Tuttavia anche in alcuni di questi sonetti come nel quarto della raccolta citata, non è difficile notare qualche sprazzo di luce, un afflato poetico che dimostrano come Pico sapesse  talvolta elevarsi colle proprie penne e l'ode Ad Pctrum Medicem  =>  (che insieme all'epigramma per il Poliziano si trova nel cod. Laur.  XC,  sup.) sono d'argomento religioso, moraleggiante. G. Bottiglioni, La Lirica Latina neUa  2. metà del secolo XV in Annali della R. Scuola Normale di Pisa, nel cielo della poesia 5  . Un indice che il Mirandolano era anche uno studioso di  Dante  lo abbiamo nel sonetto V, in cui tenta di esprimersi con lo stile forte e solenne del Poeta, come nella quartina:  Quinci colei, da cui mai non iscampa Scese nel mondo e in alto precipizio Guida chi del gran primo benefìzio Grata memoria non riscalda e avvampa. Nel sonetto VI c'è un'eco delle sue ansie di mistico, del suo sospirare alla patria lontana che forse il presentimento della morte  vicina rendeva tanto bella al pensoso giovane: Non  m'accorgeva, dico, ahimè infelice! Esser qui in viaggio, esser qui posto in bando; Altrove esser la patria e la mia stanza. C'è qui anche una visione tetra della vita che oscura le cose più leggiadre, come i fiori che intristiscono sul loro stelo, le balde esistenze discoloro che avanzano frementi di speranza e finiscono tòsto per cadere: E  che quando l'uom crede ch'egli avanzi Spesso al suol cade ed e'gran sonno dorme, E che seccarsi e diventar può informe Subito un fior che verdeggiava dianzi. Ma se il suo pessimismo se così può denominarsi) è appena momentaneo, egli non poteva ancora essere assalito dal dubbio assillante dell'autore di Amleto, ne da tutto il travaglio del pensiero critico che troverà la sua espressione  nelle poesie del Leopardi. 11 Pico era ancora in quell'età in cui l'uomo appena s'inoltrava nelle vie del  (5. Ci atteniamo airedizione del CERETTI, Sonetti Inediti del Conte F G Mirandola, 189». Non hanno notevole interesse la canzone e .1 sonetto che si trovano nella raccolta Delle Rime Scelte di GABRIEL  G.OLITO, Vinesia, dubbio, sì ritraeva tosto inorridito e abbracciava la croce  come un'ancora di salvezza. E mentre al  mio passato erro pensando Tengo fermo nel cor l'alta radice Di carità, di fede, e di speranza. E ci descrive anche quando egli si distilla il cervello per decifrare gli antichi codici cui spera di carpire qualche segreto; e come al chiaror della lampada, nell'alta quiete della notte, fisso in quei punti oscuri che arrestano ogni slancio del pensiero, egli  provasse l'ansia, il dolore fino alle lagrime per ciò che invano sospirava di poter chiarire: Versan lagrime sempre le mie luci  E pur quand' altri posa, il sol si parte, Non men quando al ritorno scuote l'ombra Mentre il sudor distilla in qualche libro Pel caldo a cui non trovo aura né ombra. Abbiamo accennato altrove come il Pico non fosse di forti passioni, se si esclude quella per la gloria;  non ebbe una forte passione per la donna, e anche quando ne parla, non esprime nulla di suo e cade nella rettorica. Tale ci appare il sonetto che incomincia: Era la donna mia pensosa e mesta nel quale il Pico fa apparire il suo cuore nudo a guisa d'un messaggio a Madonna che, mossa alfine a pietà, nell'umido suo seno allori'accolse. Né riesce più efficace quando per colorire meglio dei    sentimenti che non  provava, ricorre alla mitologia. Così nel sonetto  fX)  Per quel velo che porti agli occhi avvinto, pieno d' invocazioni a Venere, a Psiche e a Cupido. Notevole nella sua forma esteriore è il sonetto che  incomincia:  "Io mi sento da quello ch'era in pria Mutato da una piaga alta e soave, che, anche tecnicamente, è uno dei meglio riusciti del nostro autore. Non privo  d'interesse è il sonetto a forma di dialogo tra Pa e Po, il quale appare anche nella Raccolta di Poesie italiane inedite di duecento autori di Trucchi. Nel  sonetto  XII  sembra abbia coscienza della sua incapacità a trattare di amore, perchè mettendosi a celebrare un grande personaggio del  tempo forse un Papa o Lorenzo il Magnifico immagina che Apollo Io consigli a lasciare Amore e a  cantare  d'un chiaro splendore che alluma l'universo; e riconosce che quando vuole emulare altri Petrarca riesce meno abile: e fatto emulo altrui Spesso ad altrui mi fa parer men chiaro. Non privo di grazia appare il sonetto nel quale Pico, che si ora innamorato di una donna da altri amata, la paragona a una cerva inseguita da due cacciatori e incerta se fuggire o gustare il dolce miele.  A\a  il poeta, commosso della sua sorte, poiché era In pericolo di cadere vittima del traditore, esclama:  Ed  io di ciò me ne affanna molto Che m'accortala del ricoperto fele, E mentre me ne doglio ella disparve. Forme e modi, come si vede, convenzionali, come convenzionale è pure il sentimento della natura, non diverso da quello che ci forniscono i modelli classici. Ecco come II Pico  dipinge nel sonetto la campagna che si ridesta al soffio primaverile: Chiara gemma più assai che chiaro Sole Quando apre l'anno verde, e rivi e colli Orna di fresche e pallide viole! Ed ecco come parla dell'estate nel sonetto XV: Era nella stagion quando il Sol rende A' due figli di Leda il bell'uffizio. Quando ch'io giunsi all'ombra d'un ospizio  Ove natura le sue forze estende. L'amore  ei lo fa nascere: Quando la terra Si riveste di un verde e bel colore;  242 e questo amore è il dio platonico che non muore mai: Ojfendeti la morte o la vecchiezza? No, che rinasco mille volte al giorno. Ma quando il suo pensiero da soggetti frivoli o comuni, passa ad argomenti più elevati, per esempio a quello di patria, allora pare che si ridestino in lui i nobili sensi della sua stirpe  guerriera, e la sua penna sa foggiare parole taglienti come lama acuminata. Dopo avere notato come il prestigio che un tempo aveva l'Italia stia per passare oltr'Alpe, e specialmente in quella Gallia che doveva, proprio nel giorno della sua morte, mettere il piede ferrato sull'Itali^  egli allora guarda la patria italiana come a un'ombra dell'Inferno dantesco: Allora mi parca come del ceco   Regno di Dite stanno i spirti bui; Che si conosce un ben quando é perduto. Ed è pieno di reminiscenze dantesche la chiusa del sonetto: E quando il danno tuo fìa conosciuto Intenderai, se avrem da pianger teco. Dicendo: non sai più quella eh' io fui. Anche le competizioni di parte, le lotte intestine, le guerre fratricide tra città e città, tra regione e regione, trovano un'eco nel sensibile suo  cuore. Egli, che aveva studiato e agito per trovare una conciliazione fra le idee, per perseguire il suo ideale di pace fra gli uomini, deve constatare che questi non cessano di combattersi fra loro in forma violenta e sanguinaria.  II sonetto  XVII è l'espressione del suo cuore angustiato di figlio di questa misera Italia, e sebbene si senta l'ispirazione di Dante, pure il Pico sa rendere abbastanza  la sincerità del suo sentimento. Misera Italia, e tutta Europa intorno Che il tuo gran padre Papa giace e vende. Marzocho a palla gioca e lunge stende. La Biscia è pregna ed ha in sul capo un corno. Fernando infuria e vendica il gran  scorno, San Marco bada, pesca e poco prende, La vincta Biscia ora S. Giorfiio offende, La Lupa a scampo veglia notte e giorno. Nulla di notevole  preserftano i cinque sonetti che compaiono nella seconda parte della raccolta; prevale in essi l'intonazione filosofica. Ciò che si rileva è l'aspirazione del poeta ad elevarsi dagli amori frivoli e passeggeri di questo mondo a quell'unico amore che arde sempre nella inalterata beatitudine. Egli che aveva provato le pene, le gelosie, i languori degli amanti: Uno star divoto più che divino   Basi, sussurri, risi: in un momento  Mi han fatto servo: e dir non so di cui. ebbe però anche la forza di dominarsi e di drizzare l'occhio alla contemplazione del sempiterno bene: e degno obietto Nel guai ogni sua forza ha posto il Cielo  E veramente pur me stesso lodo Che a tanta electionc hebbi intelletto Levando totalmente a gli occhi il velo. Dopo questo sommario esame dei sonetti,  la figura del Mirandolano ci rivela un altro lato della sua caratteristica personalità. E se alle opere filosofiche egli deve maggiormente la sua celebrità presso i contemporanei, e se per esse lo riteniamo degno di studio noi moderni, non dobbiamo misconoscere anche i suoi meriti letterari. Noi riteniamo che non sia lecito tacere del suo contributo, modesto quanto si voglia, alla letteratura  italiana, le cui manifestazioni se furono cosi splendide nel cinquecento, ciò si deve al solerte lavoro di preparazione, di prove, di conati che caratterizzano il quattrocento, del quale il Pico se fu  l'ultimo in ordine di  tempo, non fu l'ultimo per merito e importanza. Sul contenuto e sul valore delle poesie del Pico esiste un lavoro di Testa, Pico della Mirandola e i suoi contributi in rima alla  lirica del Quattrocento, Aquila, che noi non  riuscimmo, per quante ricerche fatte, a trovare. In Rassegna  Bibliografica  d.  L.  Italiana, an. Vedi  la  recensione del Flamini alla publicazione dei sonetti fatta da Dorez e da Ceretti. Cfr. pure Giornale stor. di  Leti. Italiana, e la Rivista Abruzzese. Vedi infine  Giorn. stor. di Letteratura Italiana. Giovanni Semprini. Semprini. Keywords: il deuteuro-esperanto di Grice, PICO (vedasi). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semprini.” Semprini.

 

Luigi Speranza -- Grice e Senea: la ragione conversazionale della scuola di Caulonia – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorian cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Senocrate: la ragione conversazionale della scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean. Giamblico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Senofante: la ragione conversazionale della scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean – Giamblico.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Serbati: la ragione conversazionale del divino nella filosofia italiana – la scuola di Rovereto -- filosofia trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovereto). Filosofo italiano. Rovereto, Trento, Trentino-Alto Adge. Important Italian philosopher. Frequenta  l’imperial regio ginnasio. Studia a Padova. A questo proposito i famigliari raccontavano come, fin dalla più tenera età, legge alla luce della sua aureola.  E in occasione della venuta a Rovereto del vescovo di Chioggia per consacrare le chiese di S. Maria del Carmine e di S. Croce, appartenente all'omonimo monastero, che, prendendo parte alla cerimonia, ottenne il diaconato. Mostra una profonda inclinazione per la FILOSOFIA, incoraggiato in tal senso da Pio VII.  Si trasfere a Milano dove strinse un profondo rapporto d'amicizia con Manzoni che di lui ebbe a dire -- è una delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità. Manzoni assistette S. sul letto di morte, da cui trasse il testamento spirituale "Adorare, Tacere, Gioire". La sua filosofia destarono l'ammirazione, tra gli altri, anche di Stefani, Tommaseo e Gioberti dei quali pure divenne amico. Dopo aver dovuto lasciare il Trentino, per motivi di forte ostilità per le sue posizioni incontrati da parte del vescovo di Trento fonda al Sacro Monte Calvario di Domodossola la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità, detta dei "S.ani". Le Costituzioni della nuova famiglia religiosa, contenute in un libro che cura per tutta la vita, sono approvate da Gregorio XVI. A Borgomanero svolge la sua attività di insegnamento e di guida spirituale in un collegio S.ano, il "Collegio S.", regolato dalla Congregazione della Provvidenza S.ane. Svolge una missione diplomatica per conto del Re di Sardegna Carlo Alberto presso la Santa Sede. E presidente dell'Accademia Roveretana degl’Agiati ed il suo posto, anni dopo la sua morte fu assunto da Paoli, suo segretario ed esecutore delle volontà, già direttore di Casa S.. Tra le sue volontà del vi e anche quella di donare a Rovereto un terreno nell'attuale zona di S. Maria per costruirvi l'ospedale cittadino, e Paoli onora tale decisione. Porta avanti tesi filosofiche tese a contrastare sia l'illuminismo che il sensismo. Sottolineando l'inalienabilità dei diritti naturali della persona, fra i quali quello della proprietà privata, entrò in polemica con il socialismo e il comunismo, postulando uno Stato il cui intervento fosse ridotto ai minimi termini. Nelle sue teorie il filosofo seguì le concezioni di Agostino e AQUINO, rifacendosi anche a Platone.  I suoi esordi filosofici si ricollegano a GALLUPPI, sia pure polemicamente, in quanto S. avverte con ogni chiarezza come risulti insostenibile una posizione di integrale sensismo gnoseologico.  La necessità di concepire una funzione ordinatrice dell'esperienza, e a questa precedente, porta S. a guardare con interesse la filosofia di Kant. Tuttavia non è soddisfatto di ciò che lui chiama l'innatismo kantiano, legato ad una pluralità imbarazzante e precaria di categorie. Le quali, d'altra parte, gli sembrano fallire lo scopo di far conoscere il reale quale esso è, per la necessaria introduzione di modifiche soggettive nell'atto stesso del conoscere.  Il problema filosofico di S. si configurava perciò come quello di garantire oggettività alla conoscenza. La soluzione non potrà essere trovata, stante il rifiuto della trascendentalità kantiana e dei connessi sviluppi, se non in una ricerca ontologica, in un principio oggettivo di verità, che riesca ad illuminare l'intelligenza in quanto le si proponga con immediata evidenza, universalità e immutabilità.  Questo principio è per S. l'idea dell'essere possibile, che da indeterminato contenuto dell'intelligenza, quale originariamente è, si fa determinato allorché viene applicato ai dati forniti dal senso. Essa precede e informa di sé tutti i giudizi con cui affermiamo che qualche cosa particolare esiste. L'idea dell'essere, dunque, costituisce l'unico contenuto della mente che non abbia origine dai sensi, ed è perciò innata (“Saggio sull'origine delle idee”).  Ma qui i problemi del kantismo, che sembrano superati o almeno messi da parte, si riaffacciano con urgenza: di fronte al mero ricevere dati, di cui parlava il sensismo, ha chiarito che la mente umana nel suo uso conoscitivo formula giudizi, in cui l'idea dell'essere ha funzione di predicato, cioè di categoria, e la sensazione è il soggetto, di cui si predica qualche cosa. Nel giudizio, inoltre, il predicato si determina e la sensazione si certifica: se questa è la funzione propria del giudicare, ogni concetto non può sussistere che come predicato di un giudizio; né a questa necessità sembra potersi sottrarre il concetto di essere, che è dato solo nell'attività giudicante, come forma del giudizio.  Tuttavia non accetta tale riduzione, ed esclude proprio il predicato di esistenza della funzione del giudizio, continuando ad attribuirgli una natura oggettiva e trascendente. È l'essere trascendente che si rivela all'uomo, lo illumina e gli permette di pensare. Chi lo nega come il nichilismo cade in una vuota posizione nullista.  Accanto a questa ontologia la sua etica si sviluppa come etica caritativa (Principio della scienza morale). Dedica alla politica una breve ma intensa fase della sua vita. Seguì Pio IX riparato a Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica Romana, ma la sua formazione attestatasi su ferme posizioni di cattolicesimo liberale e tale per cui e costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore, a Stresa. Tuttavia, quando Pio IX vuole istituire una commissione incaricata della preparazione del testo per la definizione del dogma dell'immacolata concezione, nonostante ben due suoi saggi (Le cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale) sono all'Indice. Chiamato a prendere parte a tale commissione, e favorevole allo stato liberale (vagheggiando la monarchia costituzionale), al costituzionalismo e anche alla separazione tra stato e chiesa, sebbene non assoluta. Critica lo Statuto Albertino proprio per il suo porre ancora il cattolicesimo come religione di stato, elogiandone comunque il tentativo distensivo nei confronti della Santa Sede. Critica la legge laicista ed anti-clericale. Si convince della sostanziale bontà della maggior parte delle conquiste dell'età moderna, criticandone solo le modalità: in tale ottica, critica sia la rivoluzione francese che l'Ancient Regime, riconoscendo invece la sostanziale bontà dei princìpi sanciti, distinguendoli dalle successive de-generazioni rivoluzionarie, in polemica con chi, da una parte e dall'altra, sostene una società perfettista. Continua a vivere a Stresa, fecondo nel perseguire il perfezionamento del suo sistema di pensiero con saggi come “Logica” e “Psicologia”. Ratzinger, quando la questione S.ana era ancora ben accesa, nell'ambito di una serata organizzata a Lugano, dice. Nel confronto con le parole classiche della fede che sembrano così lontane da noi, anche il presente diventa più ricco di quanto sarebbe se rimanesse chiuso solo in se stesso. Vi sono naturalmente anche tra i teologi ortodossi molti spiriti poco illuminati e molti ripetitori di ciò che è già stato detto. Ma ciò succede ovunque; del resto la letteratura dozzinale è cresciuta in modo particolarmente rapido proprio là dove si è inneggiato più forte alla cosiddetta creatività. Io stesso per lungo tempo avevo l'impressione che i cosiddetti eretici fossero per una lettura più interessante dei teologi della chiesa, almeno nell'epoca moderna.  Ma se io ora guardo i grandi e fedeli maestri, da Mohler a Newman a Scheeben, da S. a Guardini, o nel nostro tempo de Lubac, Congar, Balthasar quanto più attuale è la loro parola rispetto a quella di coloro in cui è scomparso il soggetto comunitario della Chiesa.  In loro diventa chiaro anche qualcos'altro: il pluralismo non nasce dal fatto che uno lo cerca, ma proprio dal fatto che uno, con le sue forze e nel suo tempo, non vuole nient'altro che la verità. Per volerla davvero, si esige tuttavia anche che uno non faccia di se stesso il criterio, ma accetti il giudizio più grande, che è dato nella fede della Chiesa, come voce e via della verità.  Del resto io penso che vale la stessa regola anche per le nuove grandi correnti della teologia, che oggi sono ricercate: teologa africana, latinoamericana, asiatica, ecc. La grande teologia francese non è nata per il fatto che si voleva fare qualcosa di francese, ma perché non si presumeva di cercare nient'altro che la verità e di esprimerla più adeguatamente possibile.  E così questa teologia è diventata anche tanto francese quanto universale. La stessa cosa vale per la grande teologia italiana, tedesca, spagnola. Ciò vale sempre. Solo l'assenza di questa intenzione esplicita è fruttuosa. E di fatto non abbiamo davvero raggiunto la cosa più importante se noi ci siamo convalidati da soli, ci siamo accreditati da soli e ci siamo costruiti un monumento per noi stessi.  Abbiamo veramente raggiunto la meta più importante se siamo giunti più vicino alla verità. Essa non è mai noiosa, mai uniforme, perché il nostro spirito non la contempla che in rifrazioni parziali; tuttavia essa è nello stesso tempo la forza che ci unisce. E solo il pluralismo, che è rivolto all'unità, è veramente grande. Pio VIII dice a S., in udienza. È volontà di Dio che voi vi occupiate nella filosofia. Tale è la vostra vocazione. Ella maneggia assai bene la logica, e la Chiesa al presente ha gran bisogno di filosofi. Dico, di filosofi solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugl’uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del Sacro Ministero. Gregorio XVI, successore di Pio VIII, in risposta alla lettera che S. gli aveva indirizzato. Diletto Figlio, a te il nostro saluto e la nostra Apostolica Benedizione. Abbiamo volentieri e con animo lieto ricevuto la tua lettera con i sensi della tua devota sommissione a Noi e alla Sede Apostolica in cui ci parli della pia Società, chiamata Istituto della Carità e che con le tue fatiche è stata fondata nel territorio della diocesi di Novara con l'approvazione del Vescovo. E soprattutto ci hai anche informato che il medesimo Istituto è stato da poco chiamato anche dal Vescovo di Trento nella sua diocesi e che qui molti ecclesiastici, di provate virtù, vi hanno aderito. Per questi fatti davvero rendiamo il nostro umile grazie a Dio autore di ogni bene. E quantunque questo Istituto non sia stato ancora confermato dall'autorità di questa Santa Sede, tuttavia speriamo in bene di esso e ci allietiamo che lo stesso si dilati con il consenso dei nostri Venerabili Fratelli nell'Episcopato. Quindi, per quanto riguarda le Sante Indulgenze connesse a questo istituto, che domandi siano concesse, ricevi diletto figlio il nostro Rescritto unito a questa lettera, da cui sicuramente comprenderai che rispondiamo positivamente alla tua richiesta. Ti assicuriamo anche che ci è pervenuto il libro sopra i Principi della Dottrina Morale da te edito e mandatoci in omaggio e ti dichiariamo il grazie del nostro animo per il dono. Tuttavia per la tensione nelle gravissime fatiche del Governo Apostolico non abbiamo ancora letto lo stesso libro, ma siamo certamente persuasi che esso sia in tutto conforme alla più sana dottrina e utilissimo alla sua difesa. Continua dunque, diletto figlio, lo studio e prosegui a spendere le tue fatiche ad onore di Dio per l'utilità della Chiesa; in Cielo sarà copiosa la ricompensa per la tua opera. Frattanto la paterna carità con cui ti abbracciamo nell'umanità di Cristo sia pegno dell'apostolica benedizione, che sgorgante dall'intimo del cuore ti impartiamo.»  (Da Breve pontificio di Gregorio P.P.XVI,) Pio IX rivolgendosi al Vescovo di Cremona dopo il decreto Dimittantur opera omnia parlando di S. disse:  «Non solo è un buon cattolico, ma santo: Iddio si serve dei santi per far trionfare la verità. Leone XIII, al tempo delle aspre e dolorose lotte che si svolgevano intorno al pensiero S.ano sul finire del diciannovesimo secolo, in una lettera indirizzata agli arcivescovi di Milano, Torino e Vercelli, fra l'altro scrisse: Ma non vogliamo che con questo abbia a patir detrimento il religioso Sodalizio della Carità; il quale come per lo innanzi spese utilmente le sue fatiche a beneficio del prossimo, secondo lo spirito dell'Istituto, così è desiderabile che fiorisca in avvenire e prosegua a rendere ognora più abbondanti frutti. Col decreto del Sant'Uffizio "Post Obitum"firmato da Leone XIII, vennero condannate, in quanto "non conformi alla verità cattolica", XL proposizioni contenute nelle opere del S., le quali la sacra congregazione romana "giudicò doversi riprovare, condannare e proscrivere, nel proprio senso dell’autore", chiarendo inoltre che non era lecito "a chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non vengono condannate per questo decreto, siano per veruna guisa approvate".  Giovanni XXIII, negli ultimi anni della sua vita, meditò in ritiro spirituale le S.ane "Massime di Perfezione Cristiana", assumendole come propria regola di condotta. Anche Paolo VI prestò interesse nel S.: in occasione dell’anniversario di fondazione dell'Istituto della Carità inviò un messaggio all'allora padre generale, in cui elogiava l'intuizione del S. nel dare un grande peso alla missione caritativa già nel nome del nativo istituto religioso, appunto l'Istituto della Carità. Pubblicamente Paolo VI lo cita durante il discorso tenuto alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana  riguardante la cultura cattolica e l'Europa. Inoltre sotto il suo pontificato venne tolto il divieto di pubblicazione dell'opera Dalle Cinque Piaghe della Santa Chiesa.  Alla morte di Paolo VI venne eletto Giovanni Paolo I, laureato in sacra teologia alla Gregoriana con il saggio, “L'origine dell'anima umana”. È bene precisare che Luciani e fortemente critico nei riguardi del pensiero S.ano, solo successivamente cambiò opinione, rivolgendo nei riguardi di S. parole di ammirazione e stima.  Tuttavia fu con il pontificato di Giovanni Paolo II che il pensiero S.ano ha potuto liberarsi delle aspre critiche e delle condanne che accompagnavano l'Istituto della Carità fin dai tempi della sua fondazione. Nella Lettera Enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II l’annoverato tra i pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e Parola di Dio». Ne ha inoltre concesso l'introduzione della causa di beatificazione, conclusasi nella sua fase diocesana novarese.   Ratzinger da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede emana il famoso documento Nota ai Decreti dottrinali sul Rev.do sac. S.. La nota si concludeva confermando la validità del decreto Post obitum sulle quaranta proposizioni, e allo stesso tempo con la riabilitazione di S.:  «Il Decreto dottrinale Post obitum non si riferisce al giudizio sulla negazione formale di verità di fede da parte dell'Autore, ma piuttosto al fatto che il sistema filosofico-teologico del S. era ritenuto insufficiente e inadeguato a custodire ed esporre alcune verità della dottrina cattolica, pur riconosciute e confessate dall'Autore stesso. Si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum di condanna di quaranta proposizioni. E ciò a motivo del fatto che il senso delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo decreto, non appartiene in realtà alla sua autentica posizione, ma a possibili implicanze. Resta tuttavia affidata al dibattito teoretico la questione della plausibilità o meno del sistema S.ano stesso, della sua consistenza speculativa e delle teorie o ipotesi filosofiche e teologiche in esso espresse. Nello stesso tempo rimane la validità oggettiva del Decreto Post obitum in rapporto al dettato delle proposizioni condannate, per chi le legge, al di fuori del contesto di pensiero S.ano, in un'ottica idealista, ontologista e con un significato contrario alla fede e alla dottrina Cattolica. Il documento ribadisce la diversità di linguaggio e apparato concettuale del sistema S.ano rispetto al tomismo, l'assenza di apparato critico nelle opere postume e la permanente "difficoltà oggettiva di interpretarne le categorie, soprattutto se lette nella prospettiva neotomista".  Benedetto XVI autorizza la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo della guarigione di Ludovica Noè, attribuito alla sua intercessione. Tra quelli portati dalla postulazione dei padri S.ani, si è scelto di dare maggiore impulso a quello della guarigione della suora sopracitata, poiché il medico che la curò si convertì in seguito all'accaduto.  Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, a margine del Convegno sulla sfida educativa tenuto a Milano, ha tenuto un intervento intitolato "Istanze educative e questione antropologica" in cui riconosce le sue istanze pedagogiche. A. Bagnasco ha presieduto a Stresa la celebrazione eucaristica per il suo Dies Natalis. Nel corso dell'Angelus domenicale e ricordato per la sola carità intellettuale e perché testimonia la virtù della carità in tutte le sue dimensioni e ad alto livello. Avversario del sensismo e dell'illuminismo e mentore e maestro intellettuale di quattro pontefici eletti consecutivamente: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II.  Nulla osta della Congregazione per la dottrina della fede che consente l'inizio della causa di beatificazione. Apertura del processo informativo diocesano dopo la nomina dei censori teologi e delle commissioni storiche in Novara. C. Papa diventa postulatore della causa succedendo a Belti, storico dell'Istituto e già Direttore del Centro di Studi S.ani di Stresa. Chiusura del Processo informativo Diocesano. Consegna del Trasunto alla Congregazione per le cause dei Santi. Apertura del Trasunto. Decreto di Validità del processo diocesano. Schema per la stesura della Positio. Consegna del lavoro sul Post obitum curato dal Postulatore. Il Relatore generale approva il lavoro sul Post obitum e il lumen oculorum tuorum Consegna del lavoro sul Post obitum alla Congregazione per la Dottrina della Fede.Il giorno dell'anniversario della morte di S. viene pubblicata sull'Osservatore Romano la Nota della Congregazione per la dottrina della fede sul valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do sacerdote S., a firma del cardinal Ratzinger e di mons. Bertone.  Rilascio del Nihil obstare per la Causa di Beatificazione.  Il Relatore approva e firma la Positio.  Conclusione della stampa e consegna alla Congregazione per le cause dei santi della Positio. Consegna del Trasunto super miro alla Congregazione per le cause dei santi. Validità dell'inquisizione diocesana sul processo super miro. Presentazione fattispecie super miro. Revisa della fattispecie con firma del sotto-segretario. Relatio et vota del Congresso Storico (con esito positivo). Relatio et vota del Congresso teologico super virtutibus (con esito positivo). Ordinaria della Congregazione per le cause dei santi: esito affermativo. Ponente della Causa  Fisichella.  Benedetto XVI autorizza la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto di esercizio eroico delle virtù. La Consulta medica della Congregazione per le Cause dai Santi, si esprime con esito affermativo (all'unanimità 5 su 5) circa l'inspiegabilità scientifica dell'evento di guarigione avvenuto a Noè. Il presunto evento miracoloso è avvenuto. Al termine del dibattito, i Consultori si sono unanimemente espressi con voto affermativo (7 su 7), ravvisando nella guarigione in esame un miracolo operato da Dio per intercessione Benedetto XVI autorizza la pubblicazione da parte della Congregazione per le Cause dei Santi del riconoscimento della virtù eroica di S.. A Novara si celebra la beatificazione dando lettura del decreto di Benedetto XVI che l’iscrive tra i beati. La beatificazione è avvenuta a Novara: appositamente è stato fatto allestire il Palasport della città, unico luogo capace di raccogliere un numero di fedeli così significativo.  Con il pontificato di Benedetto XVI le beatificazioni vengono preferibilmente celebrate dai cardinali, per rendere ancora più piena la comunione tra loro e il successore di Pietro, e viene privilegiato il luogo in cui il candidato agli onori degli altari ha vissuto. Così, in qualità di delegato pontificio, la celebrazione è stata officiata da  J. Martins, allora prefetto della congregazione per le Cause dei Santi. A fianco dell'altare erano disposti gli spalti da cui hanno concelebrato circa 400 sacerdoti, non soltanto S.ani.  A prendere parte alla processione e celebrare sull'altare, insieme al preposito generale Flynn c'era il segretario generale dell'Istituto Domenico Mariani con gli allora componenti della Curia Generalizia dell'Istituto della Carità, il Vicario per la Carità SpiritualeCrish Fuse, il Vicario per la Carità Intellettuale Taverna Patron, il Vicario per la Carità TemporaleDavid Tobin, l'allora preposito della Provincia Italiana don U. Muratore (profondo conoscitore di S.) e il postulatore della Causa di Beatificazione, Papa.  Hanno partecipato alla celebrazione anche il cardinale ex prefetto della Sacra Congregazione per i vescovi Re, il cardinale arcivescovo di Torino S. Poletto, il vescovo di Novara, mons. R. Corti, l'arcivescovo di Trento, mons. Bressan, il vescovo S.ano mons. Antonio Riboldi e fra gli altri anche G. Zaccheo (che sarebbe improvvisamente scomparso due giorni dopo), vescovo della Diocesi di Casale Monferrato, mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea (che durante la III sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II fece per primo il nome di S.), l'allora segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana G. Betori, G. Lajolo, presidente del Governatorato della Città del Vaticano, l'allora rettore della Pontificia Università Lateranense, mons. Rino Fisichella, il Vicario Episcopale per la Vita Consacrata dell'arcidiocesi di Milano monsignor Ambrogio Piantanida e il preposito generale dei barnabiti, padre Villa.  Tra i numerosissimi fedeli (più di diecimila) accorsi da diverse parti del mondo per presenziare alla celebrazione, hanno preso parte anche personalità politiche.  Tra queste il senatore a vita Scalfaro, l'allora presidente del Senato, Marini, e Parisi, al tempo Ministro della Difesa. S. è il primo beato della Provincia del Verbano Cusio Ossola.  In occasione della beatificazione sono stati moltissimi i quotidiani e periodici italiani e esteri che hanno dedicato articoli, pagine e interi numeri alla figura di S.. Sono numerosissimi i suoi saggi. Certamente il più importante a livello ascetico e spirituale e le “Sei massime di perfezione”, su cui anche Giovanni XXIII fa delle riflessioni prima di morire. Gli costarono la messa all'Indice dei libri proibiti le opere "Delle cinque piaghe della santa chiesa" e "Dalla costituzione secondo la giustizia sociale". In filosofiia meritano di essere ricordato il “Saggio sull'origine delle idee”. Altri saggi: “Principii della scienza morale”; “Filosofia della morale”; “Antropologia in servigio della scienza morale”; “Filosofia della politica”; “Trattato della coscienza morale”; “Filosofia del diritto”; “Teodicea”; “Sull'unità d'Italia”; “Il comunismo e il socialismo”. Le sei massime di perfezione sono formulate per definire il fondamento spirituale sul quale ogno uomo puo avere un cammino nella perfezione. Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (Matteo 5,48). Desiderare unicamente ed infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto. Orientare tutti i propri pensieri e le azioni all'incremento e alla gloria della Chiesa di Cristo.  Rimanere in perfetta tranquillità circa tutto ciò che avviene per disposizione di Dio riguardo alla Chiesa di Cristo, lavorando per essa secondo la chiamata di Dio.  Abbandonare se stesso nella provvidenza di Dio.  Riconoscere intimamente il proprio nulla.  Disporre tutte le occupazioni della propria vita con uno spirito di intelligenza. Di particolare interesse e “Le cinque piaghe della santa Chiesa". Mostra odi discostarsi dall'ortodossia dell'epoca. Per tale ragione il saggio fu messo all'Indice e ne scaturì una polemica nota col nome di "questione S.ana". L'opera eriscoperta al Concilio Vaticano II. Il primo a parlare al Concilio di S. e Bettazzi. Mi sia consentito ricordare S., molto legato ad Aquino. Ma anche studioso e amante del suo tempo, e che certamente guadagna a Cristo non pochi uomini. Tutto questo mi sembra si accordi con le cose che sono state già dette da non pochi padri su questo schema in generale, che cioè gl’uomini non si aspettano dalla Chiesa soluzioni particolari, ma piuttosto la presentazione di valori che li aiutino a trascorrere questa vita umana più nobilmente e con maggiore sicurezza. Parlando della libertà, esaltare i valori dell'umiltà. Parlando del matrimonio, il ruolo della fortezza. Parlando dei problemi economici e di molti altri problemi, l'efficacia di un certo disprezzo delle cose. Occorre dunque mettere in luce la necessità dell'ubbidienza, della castità, della povertà, non solo nella vita e nell'esempio (e nella Bozza di Documento!) dei religiosi, aiuto agl’uomini di questo tempo, perché possano vivere la loro vita umana nel modo migliore e più efficace. Il primo e principale compito dunque per gl’uomoni che coltivano la sapienza dev'essere, alla luce del Magistero, l'amore delle Scritture e l'amore di questo mondo in un colloquio franco e aperto. Paolo VI dice. I suoi saggi sono pieni di pensiero, una filosofia profondo, originale che spazia in tutti i campi: quello filosofico, morale, politico, sociale, sopra-naturale, religioso, ascetic -- filosofia degna di essere conosciuta e divulgata. È stato anche un profeta. Le Cinque piaghe della Chiesa (una volta la chiesa non aveva piacere che si mettessero in luce le sue mancanze, le sue debolezze). Previde partecipazione liturgica del popolo. La sua filosofia indica uno spirito degno di essere conosciuto, imitato e forse invocato anche come protettore dal Cielo. Ve lo auguriamo di cuore. “Delle cinque piaghe della santa chiesa” è suddiviso in cinque capitoli corrispondenti ciascuna ad una piaga, paragonata alle piaghe di Cristo. In ogni capitolo la struttura è la medesima:  un quadro ottimistico della Chiesa antica segue un fatto nuovo che cambia la situazione generale (invasioni barbariche, nascita di una società cristiana, ingresso dei vescovi nella politica) la piaga i rimedi. La prima piaga e la divisione del popolo dal clero nel culto pubblico. Nell'antichità romana, il culto era un mezzo di catechesi e formazione e il popolo partecipava al culto. Poi, le invasioni barbariche, la scomparsa della lingua dei romana, la scarsa istruzione del popolo, la tendenza del clero a formare una casta hanno eretto un muro di divisione tra il popolo e i ministri di Dio. Rimedi proposti: insegnamento della lingua romana, spiegazione delle cerimonie liturgiche, uso di messalini in italiano. La seconda piaga e l’nsufficiente educazione del clero. Se un tempo i preti erano educati dai vescovi, ora ci sono i seminari con piccoli libri e piccoli maestri: dura critica alla scolastica, ma soprattutto ai catechismi. Rimedio: necessità di unire scienza e pietà. La terza piaga e la disunione tra i vescovi. Critica serrata ai vescovi dell'ancien régime: occupazioni politiche estranee al ministero sacerdotale, ambizione, servilismo verso il governo, preoccupazione di difendere ad ogni costo i beni ecclesiastici, schiavi di uomini mollemente vestiti anziché apostoli liberi di un Cristo ignudo. Rimedi: riserve sulla difesa del patrimonio ecclesiastico, accenni espliciti di consenso alle tesi dell'Avenir sulla rinunzia alle ricchezze e allo stipendio statale per riavere la libertà. La quarta piaga e la nomina dei vescovi lasciata al potere temporale. Compie un'approfondita analisi storica sull'evoluzione del problema e critica i concordati moderni con cui la S. Sede ha ceduto la nomina al potere statale (e, accenna prudentemente, per avere compensi economici). Rimedi: propone un ritorno all'elezione dei vescovi da parte dei fedeli. La quinta piaga e la servitù dei beni ecclesiastici. Sostiene la necessità di offerte libere, non imposte d'autorità con l'appoggio dello Stato, rileva i danni del sistema beneficiale, propone la rinuncia ai privilegi e la pubblicazione dei bilanci.  A Rovereto gli ha dedicato il liceo che frequentò quando ancora si chiamava Imperiale e Regio Ginnasio. Borgomanero ospita l'Istituto S.. Domodossola ospita il liceo delle Scienze Umane "S. (istituto parificato). Roma ospita la sede dell'Istituto Comprensivo. Torino ospita la biblioteca Antonio S. del polo biomedico universitario che in passato fu un istituto scolastico attivo fino alla fine del XX secolo. Trento, dove si trova il liceo "S.". Farina, Prosser  Prosser Bonazza, L'Accademia Roveretana degli Agiati, su agiati, Accademia Roveretana degli Agiati, «Paoli  artefice della rinascita dell'Accademia e suo president. Ragionamento sul comunismo e socialismo, Grondona, Genova, Questa tesi fu messa in discussione da Abbà a cui S. controbatté nel Diario filosofico di Adolfo, Riv. S.ana, Pagani Rossi. Nota sul valore dei Decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere).  Angelus: S., esempio per la Chiesa, su agensir, Biografia di S. su vatican.  Istituto S., su S. borgomanero. Liceo delle Scienze Umane su cercalatuascuola.istruzione. Istituto Comprensivo S., su ic-S.  Biblioteca S., su biomedico campusnet.unito.  su vivoscuola. M. Farina, Gl’Agiati, Brescia, Morcelliana Edizioni,  Italo Prosser, El pra' de le Móneghe: cronistoria del monastero di S. Croce nell'antico comune di Lizzana, Rovereto (Trento), Stella, Approfondimenti Sciacca, La filosofia morale di S., Torino, Bocca, Pusineri, S. (Edizione riveduta e aggiornata da  Belti), Stresa, Edizioni S.ane Sodalitas, Dossi, Profilo filosofico di S., Brescia, Morcelliana, Valle, S. Il carisma del fondatore, Rovereto, Longo Editore, Marangon, Il Risorgimento della Chiesa. Genesi e ricezione delle "Cinque piaghe" di S., collana Italia Sacra, Roma, Herder, S., Frammenti di una storia della empietà, a c. di Cattabiani con una nota filologica di Albertazzi, Trento, La Finestra, Giorgi, S. e il suo tempo. L'educazione dell'uomo moderno tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa Brescia, Morcelliana, Dossi, Il Santo Probito, La vita e il pensiero di S., Trento, Il Margine, Gomarasca, La forma morale dell'essere. La poiesi del bene come destino della metafisica, Milano, Angeli, Paoli, S., Virtù quotidiane, Verona, Edizioni Fede e Cultura, Paoli,  Maestro e profeta, Milano, Edizioni San Paolo, Sapienza, Eclissi Dell'educazione? La sfida educativa nel pensiero di S., Roma, Libreria Editrice Vaticana, Giuseppe Goisis, Il pensiero politico di S. e altri saggi fra critica ed Evangelo, S. Pietro in Cariano, Gabrielli, Comunità di San Leolino, Una profezia per la Chiesa. Verso il Vaticano II, Panzano in Chianti, Feeria-Comunità di San Leolino Muratore, S. per il Risorgimento. Tra unità e federalismo, Stresa, S.nane Sodalitas, Bergamaschi, S. La perfezione della vita cristiana, Stresa, S.ane Sodalitas, Malusa, S. per l'unità d'Italia. Tra aspirazione nazionale e fede cristiana, Milano, FrancoAngeli,. Domenico Fisichella, Il caso S. Cattolicesimo, nazione, federalismo, (Roma, Carocci); Muratore, Apologia della fedeltà. In difesa dei valori etici e spirituali, Stresa, S.ane Sodalitas, Malusa, Stefania Zanardi, Le lettere di S., un "cantiere" per lo studioso. Introduzione all'epistolario S.ano, Venezia, Marsilio, Zanardi, La filosofia di S. di fronte alla Congregazione dell'Indice Milano, Franco Angeli. Treccani Dizionario di storia, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Crusca. In S. l'attenzione ai fatti di lingua e la speculazione sul fenomeno del linguaggio furono non meno vive di quelle di Manzoni, esercitate però con sensibilità, impostazioni e modalità differenti26. L'origine del linguaggio, in particolare, seppur poco appariscente, è un tema delicato e importante del suo sistema filosofico e ricorre a varie riprese lungo tutta la sua opera, talvolta con brevi cenni indiretti talaltra in forme più estese.  Una trattazione piuttosto ampia si trova già nel saggio Sui confini dell'umana ragione ne' giudizi intorno alla divina Provvidenza che costitusce il primo libro della Teodicea, ai capitoli 17-21, sotto la rubrica della 'quarta limitazione dell'umana ragione', la quale recita:  «La mente umana non può produrre a sé medesima veruna scienza, senza che gliene venga dastraniera cagione proposta la materia»27. Questo implica che prima della azione degli esseri sussistenti' la mente umana è una tabula rasa, incapace come tale di astrarre senza lo stimolo di segni che in qualche modo rendano sussistenti gli astratti (88-89). In altre parole, «l'uomo  conosce solamente quello che a Dio piace di manifestargli  naturalmente  soprannaturalmente, ossia il mondo fisico e i contenuti della rivelazione.  Dono di Dio non può che essere anche il mezzo per passare dall'uno agli altri, ossia il lin-guaggio, perché la rivelazione - principio paolino - si fonda sull'udito e inoltre presuppone già esistente la facoltà di astrazione: pertanto «l'uomo non potea dare a se stesso il linguaggio: onde egli ripete dal Creatore anche questo mezzo di conoscere.  La funzione semiotica è condizione necessaria della conoscenza, in quanto l'uomo «senza i segni non potea né pure concepire gli astratti; e qui, diversamente che altrove, segni vuol dire senz'altro parole, e precisamente i nomi di qualità. È questo il punto cruciale della questione: non c'è astrazione senza segni-parole, ma i segni-parole presuppongono le astrazioni. Evidentemente, dunque, l'uomo riceve dall'esterno, cioè da Dio, il primo nucleo motore, già formato, di segni-parole. La tesi dell'origine divina, già nettamente delineata,  trova così la sua enunciazione esplicita:  Erano necessarj all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se stesso, mentre per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate; queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana  mente. Tali 'voci', prosegue S., poterono essere i nomi che, conforme al racconto biblico, Dio attribuì a ciascuna delle opere della creazione al fine di renderle conoscibili, e costituirono le prime astrazioni, in grado di mediare tra il visibile e l'invisibile.  Non dovette trattarsi insomma di un insegnamento esplicito del linguaggio, bensì della sua trasmissione indiretta unitamente alle verità della salvezza: «Quindi le eterne verità furono, io mi credo, al linguaggio incorporate e con esso insieme insegnate, e con esso altresì, «nella forma materiale della lingua quasi in arca ben chiusa», custodite e tramandate di padre in figlio pur nel variare storico dei sistemi linguistici. La sapienza e il linguaggio,dunque, «furono dati all'uomo congiunti nella stessa guisa, sarem per dire, come furon creati congiunti alla materia i suoi accidenti. Non per nulla la Bibbia attribuisce allo Spirito santo il dono delle lingue: Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e sussistenti; ma un passo insuperabile, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, giacché gli astratti non li percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui li mostrasse. Nel Nuovo saggio, com'è ovvio, quello delle funzioni del linguaggio e della sua origine, nel senso gnoseologicamente ed epistemologicamente più pregnante, è un tema cruciale che sarebbe interessante seguire analiticamente lungo le quattro edizioni dell'opera curate dall'autore stesso. Non potendo farlo in questa sede, e riconoscendo che «S. non è tutto nel saggio», mi limiterò a qualche annotazione utile nel prosieguo del discorso.  Intanto, occorre rilevare che la critica alla teoria sensista dell'origine del linguaggio non è sviluppata nel capitolo espressamente dedicato a Condillac (del quale lì viene discusso unicamente il Traité des sensations) bensì di fatto nel capitolo su Dugald Stewart, dove S. avverte che il discorso svolto contro di lui, ovvero contro Smith, vale né più né meno per tutti i sostenitori del romanzetto di questo selvaggio» inventore e segnatamente per Condillac, al quale peraltro riconosce il merito di «aver chiamata l'attenzione de' filosofi sulla mutua relazione della favella e del pensiero. E notiamo per inciso che alcune delle contestazioni al «misterio metafisico del lockismo, e il tono ironico con cui sono avanzate, torneranno molto simili nelle pagine di Manzoni.  Per mostrare come nel 1830, data della prima edizione, l'impostazione S.ana siaancora sostanzialmente quella del saggio poi confluito nella Teodicea, riporterò soltanto due brani. Il primo è la conclusione di una nota facente parte della lunga critica alla teoria della precedenza dei nomi propri sui nomi comuni, sostenuta da Stewart sulla scorta delle Considerations concerning the first formation of languages di Smith; il punto, osserva  S., è sapere come la mente possa pervenire alle prime astrazioni, e conclude:  Ora la mia opinione sopra di ciò la espressi già nel Saggio sui confini della ragione umana. Io dimostrai in quel luogo, che l'uomo avea bisogno d'essere ajutato e mosso a ciò da qualche segno esterno (lingua), che segnasse la cosa astratta da se sola; e tale che fosse atto a eccitare e tirare la sua attenzione e nella sola qualità astratta concentrarla. E fu di qui che io dedussi l'impossibilità che avea l'uomo d'inventare da se stesso un linguaggio completo e accomodato a' suoi bisogni.  Il secondo brano, anch'esso in nota, rientra nella dimostrazione del linguaggio quale ragion sufficiente per l'astrazione, e accanto alla presa di distanza da Bonald, presenta una distinzione molto importante. Avvertasi - scrive S. - che qui non è mio intendimento d'investigare, se il linguaggio sia d'origine divina od umana; avvegnaché da quanto fin qui ho ragionato la cosa manifestamente apparisca»; ed ecco la nota:  È impossibile inventare il linguaggio da una mente umana che non possegga idee astratte; perciocché nessuno può mai dare un segno ad idee che non ha. Quindi è vera e bella la sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio, senza il linguaggio»; se non che conveniva restringerla entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee astratte riguarda, la quale è la più nobile, e formale parte delle lingue. Non essendo stata fatta questa divisione, Rousseau potè intravedere una verità rilevantissima, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig.  Bonald), data una rigorosa dimostrazione. Ma restringendo la proposizione di Rousseau alle idee, e vocaboli astratti, io credo che mi sia riuscito di dare quella dimostrazione rigorosa che può tor via ogni dubbio dalla questione; ed il lettore può ben da sé ravvisarla e comprenderla ne' principi che espongo in questo articolo sul linguaggio, e da ciò che ho scritto nel Saggio sui confini dell'umana ragione.  La distinzione in realtà apre nel tessuto teorico della tesi una smagliatura le cui conseguenze vedremo poco oltre; e Manzoni avrebbe potuto ripetere che nelle 'condizioni necessarie per essere una lingua' non si danno gradi, nemmeno di astrazione: si è o non si è una lingua».apparire fra le pieghe del discorso nell'Antropologia soprannaturale, dove l'autore sta al gioco condillacchiano di immaginare la condizione umana primordiale, e scrive:  Supponiamo adunque l'uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sé non avrebbero potuto avere nessuno sviluppamento; e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella colla qual solo vien tratta all'azione la sua potenza di riflettere e d'astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovarla egli medesimo.  La fictio speculativa si prolunga - poco manzonianamente, in verità! - in una minuta discettazione intorno alla lingua primitiva dell'umanità, «argomento bellissimo. Basato sull'ipotesi «che Iddio abbia il primo parlato all'uomo primitivo insegnando in tal modo agli uomini ad astrarre, il gioco ha termine con la conclusione secondo la quale «la lingua primitiva è parte divina, e parte umana. Una conclusione conciliatoria e però rischiosa, ma che permette a S. di non entrare in contraddizione con se stesso, perché se è vero che la parte umana è, come aveva scritto nel Nuovo saggio, la più nobile e formale', la parte divina è quella primaria e fondamentale.  Pur con qualche sfumatura, dunque, la posizione iniziale del saggio è mantenuta lungo tutti gli anni Trenta, e la si ritrova immutata ancora al momento della riedizione come primo libro della Teodicea. Senonché di lì a poco tale posizione risulterà modificata in un modo assai significativo, se non capovolta. Possiamo fare un primo tentativo di ricostruzione, se non di spiegazione.  Se torniamo ai due brani già citati della Teodicea e li rileggiamo con le correzioni apportate a mano dall'autore (praticamente le sole modifiche di contenuto in tutto il libro) su un'esemplare dell'edizione Pogliani, troviamo un ragionamento più articolato e in definitiva una tesi differente. Primo brano della Teodicea (le modifiche sono evidenziate in corsivo):  Erano necessarj all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se stesso fin ch'era solo, ché per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. E dato ancora che, aggiunta la sua compagna per le necessità del convivere, avessero i due coniugi trovati, con un solo attocomplesso, i segni e gli astratti; qual lungo tempo ci sarebbe bisognato ad arricchirsene in qualche copia? e con quella scelta che era necessaria pel progresso morale, e per elevare le loro menti alle cose invisibili? Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate;  queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana mente.  Secondo brano della Teodicea:  Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e sussistenti; ma un passo difficilissimo, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, ché gli astratti non li percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui si mostrasse. Come si vede, la conferma dell'origine divina si accompagna all'ammissione di una pos-sibile, seppur poco probabile, formazione umana. Resta fermo che ai segni-parole l'uomo non può pervenire con le sole proprie risorse né da solo (entrambe le condizioni sono importanti); ma ai fini dell'innesco della conoscenza, oltre all'intervento esterno da parte di Dio mediante il dono dei primi segni-parole, in linea di principio è sostenibile l'ipotesi che l'uomo acquisisca i segni-parole in società coi suoi simili mediante degli atti unitari complessi semiotico-astrattivi.  I due brani tratti dal Nuovo saggio, rimasti inalterati lungo le prime tre edizioni, subiscono nell'edizione definitiva un adattamento analogo, e anzi più marcato, per apprezzare il quale il solo corsivo non è sufficiente ma bisogna leggere insieme le due versioni. Primo brano del Nuovo saggio:  Ora l'uomo ha bisogno di essere aiutato a ciò da qualche segno esterno (lingua) che segni la cosa astratta da se sola; e tale che sia atto a fissare la sua attenzione, e nella sola qualità astratta concentrarla. Di qui l'impossibilità che l'uomo solitario inventi da se stesso col suo puro pensiero un linguaggio, che a ciò gli serva.  Nel secondo brano del Nuovo saggio cambia anche il testo a cui la nota è apposta: Avvertasi, che qui non è mio intendimento d'entrare nella questione del fatto, se il linguaggio sia d'origine divina od umana; e né pure nella questione filosofica della possibilità»; ed ecco la nuova nota:  È impossibile inventare il linguaggio ad una mente umana prima che posseda delle idee astratte; ché nes-suno può dare un segno a idee che non ha. Quindi la sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio senza il linguaggio» si deve restringere entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee astratte riguarda. Non essendo stata fatta questa distinzione, Rousseau potè intravedere una verità, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig. Bonald), data una rigorosa dimostrazione. Restringendo dunque la proposizione del Rousseau alle idee, e vocaboli astratti, ell'ha un fondo di verità. In primo luogo non si può inventare il linguaggio da alcun uomo segregato dalla società de suoi simili, nel quale stato né egli ha l'occasione di comunicare i suoi bisogni e pensieri agli altri, né gli altri possono comunicar i loro. Ponendo poi un individuo umano coesistente con altri uomini privi di linguaggio, due questioni si possono fare. La prima, se quegli uomini potrebbero inventare un linguaggio prima d'aver formate alcune astrazioni, o potrebbero formare queste astrazioni prima d'avere inventato qualche linguaggio o de' segni, e rispondiamo negativamente. La seconda, se potrebbero fare queste due cose contemporaneamente, cioè trovare de' segni e coll'atto stesso formare delle astrazioni», e questo non lo crediamo impossibile.  Una considerazione più attenta della natura costitutivamente sociale e altresì sistematica del linguaggio ha condotto S. a modificare il proprio convincimento iniziale: non si tratta più di singoli individui alle prese con singoli segni-parole, bensì di comunità che danno forma a un sistema linguistico. Scrive infatti nell'Antropologia soprannaturale: Se prendiamo una parola isolatamente dall'altra non mostra veruna similitudine coll'idea, che per essa si esprime. Ma all'incontro pigliando l'intiero discorso, cioè una serie di parole avvedutamente ordinate, trovasi tosto una corrispondenza colla serie de' pensieri. Egli è per questo, che le lingue sono sistemi di segni così eccellenti che possono esprimere tutte le cose.  Può aver contribuito al ripensamento in questa direzione lo studio attento delle prime produzioni linguistiche della nipotina Marietta, consegnato nelle analisi e riflessioni - semplicemente straordinarie - del paragrafo del Rinnovamento della filosofia. Ma non escluderei un'eco teorica dell'insistenza manzoniana sul concetto di 'interezza' delle lingue; la si sente risuonare ancora, per esempio, nella definizione di lingua data nella tarda Logica: un sistema di segni vocali o vocaboli stabiliti da una società umana, adeguato a significare i pensieri che i membri di quella società si vogliono comunicare reciprocamente»36.6. Con il brano dall'edizione definitiva del Nuovo saggio siamo già alla posizione assunta e sostenuta nella Psicologia, che del resto la precede. Sappiamo già che la funzione dei segni è quella di «offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l'attenzione», permettendo in tal modo la formazione delle idee astratte. Ora S. è interessato a scoprire come questo avvenga, a vedere cioè «con qual progresso e fin dove l'uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio.  Il momento iniziale è dato dall'istinto, che spinge l'uomo ad esercitare le proprie facoltà vocali naturali e, mediante esse, a produrre dei suoni indipendentemente dalla loro capacità significativa, la cui scoperta avviene in un secondo momento; «questo - osserva S. - è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l'astrazione propriamente detta non c'entra ancora. Che tipo di parole sono queste prime emissioni verbali umane?  Riprendendo la tesi lungamente sostenuta nel Nuovo saggio, S. ripete che la loro natura è di nomi comuni, salvo a precisare però che vengono u s a ti come nomi propri: una concessione di non poco conto all'opinione che Stewart aveva tratto da Smith, precedentemente avversata. Da qui la ricostruzione, al tempo stesso filogenetica e ontogenetica, di come «un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti » di una stessa classe, un tipo di nomi che andrebbero definiti sostantivi qualificati anziché aggettivi sostantivati.  L'attribuzione dei nomi comuni però non comporta ancora l'attività eminentemente intellettuale dell'astrazione, che è successiva e richiede altre condizioni. Per illustrare le quali, S. esplicita e spiega il proprio ripensamento sull'origine del linguaggio:  Noi abbiamo altrove espressa l'opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua. Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità. È indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l'avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua. Ma trattandosi d'una semplice possibilità metafisica, se l'umana famiglia (non l'uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l'umanointendimento.  I pochissimi astratti (forse di divina origine) rinvenibili nelle lingue antiche non esimono insomma dal domandarsi come «l'umana famiglia potesse giungere da se stessa agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi. La risposta di S. consiste sostanzialmente nel fare appello al meccanismo cognitivo elementare della metafora a base metonimica: avendo già gli uomini coniato un nome per il braccio in quanto arto anatomico, per nominare la proprietà della forza che distingue quell'arto dagli altri, invece di inventare appositamente un nuovo nome, adoperano la designazione primitiva estendendone il significato. Un'illustrazione nobile di questo meccanismo semiotico la si trova nel commento al prologo del vangelo di Giovanni:  Pare, che primieramente gli uomini abbiano nominata la parola esterna e sonante come quella che cade sotto i sensi. Più tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna non era che un segno che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo dunque nominare questa cosa interna significata in vece di imporle un nome proprio, vi adattarono lo stesso vocabolo che significava la parola esterna, lasciando, che il contesto del discorso chiarisse quando a quel vocabolo convenisse dare il significato antico di parola, suono proferito cogli organi della voce a significare; e quando gli si convenisse dare il significato nuovo della cosa interna nello spirito colla parola significata. Questa maniera di estendere alle parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini estendono le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perché esigge uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini, oltrediché le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione con le idee o cognizioni precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono, e più agevolmente si prestano al ragionamento; giacché i nessi fra esse e le notizie più antiche e più famigliari sono pronti. Solamente più tardi, quando la mente è già sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole nuove e proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le parole vecchie da comuni diventano proprie perdendo il primitivo significato, e ritenendo solo il nuovo 38.  Ma restiamo sul testo della Psicologia, che nel procedimento descritto vede la chiave naturale per poter accedere alle astrazioni: Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell'astratto. Giunge così a termine l'indagine sul modo in cui «comincia a formarsi naturalmente una lingua. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll'aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura,quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane n a tu -  ral ment e spiegato.  Nessun ostacolo logico dunque impedisce di ritenere la lingua un prodotto umano, inventato al doppio fine, cognitivo e comunicativo, di dare slancio al pensiero individuale e di socializzarne le acquisizioni: Nel che - conclude S. - è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell'uomo l'istinto, e di più gliene ha egli stesso comunicati i primi elementi. La conseguenza del nuovo atteggiamento di S. è che il linguaggio sparisce progressivamente dal suo orizzonte speculativo. Anche a non volersi spingere così oltre nella spiegazione del fatto, il fatto resta: non c'è paragone tra la ricchezza e l'importanza delle riflessioni semiotico-linguistiche disseminate nelle sue opere fino alla Psicologia, e — se ho visto bene - la scarsità di spunti, pur interessanti, presenti al riguardo nell'immensa Teosofia, che lo impegnò negli ultimi anni. Torniamo ora per finire allo scambio epistolare da cui siamo partiti. La mia convinzione è che, dopo il silenzio seguito, non sia stato Manzoni a convertirsi all'idea dell'essere, della quale poteva già essere ben persuaso, salvo ad esitare davanti alla 'question di cominciamento'; è stato piuttosto S. - messo in allarme, grazie ai dubbi di Manzoni, circa il possibile esito pansemiotico della propria posizione gnoseologica (evitato in maniera del tutto estrinseca mediante il ricorso all'origine divina del linguaggio), che in sostanza avrebbe identificato pensiero e linguaggio compromettendo la ricerca sulle idee la cui origine, risolvendosi linguisticamente, non avrebbe più costituito un problema - a ridurre la portata cognitiva del linguaggio esteriorizzandolo e tenendolo sotto il controllo della ragione in modo da poterne postulare l'origine umana, sia pure in uno con la capacità di astrazione.  Non per niente il ruolo del linguaggio ai fini della formazione delle idee astratte passa dalla necessità nel Nuovo saggio («necessità del linguaggio per muovere la nostra intelligenza a formare gli astratti) alla utilità nella Psicologia («fu da noi provata l'utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti), per di più con la restrizione: «utilità che in altro non consiste se non. E pur considerando che questo paragrafo della Psicologia iniziadistinguendo il problema della pensabilità di un'idea dal problema della sua formazione, la sua conclusione sull'errore dei nominalisti consistente nel ritenere che le idee astratte non siano «né possibili a formarsi, né pensabili senza i segni del linguaggio» è in palese contrasto con l'enunciazione netta di Teodicea 100 secondo la quale «senza i segni non potea neppure con c e pir e [che qui equivale a formare] gli astratti»; un contrasto non sanato e forse nemmeno rilevato, che del resto si mantiene nella stessa Psicologia: «gli astratti sono pensabili per se stessi senza bisogno dei segni, e contra: «le astrazioni hanno bisogno di segni per pensarsi. S. passa così in qualche modo dalla coimplicazione di pensiero e linguaggio, o quanto meno da una loro stretta correlazione, alla strumentalità del secondo rispetto al primo, chiaramente attestata dalla Logica dove chiama i segni, o meglio i sistemi di segni, le gambe e anzi le stampelle o i trampoli del pensiero.  Per quanto riguarda specificamente il nostro tema, riprendendo i termini degli studi recenti di storia del pensiero linguistico moderno, possiamo dire che, dietro la spinta di Manzoni, S. parrebbe convertirsi dal 'genetismo' alla 'storicità'40; ne potrebbe essere un indizio la progressiva presenza nelle sue pagine di diverse sfumature: l'insistenza sulla socialità quale fattore costitutivo dell'essere umano, l'accento sulla totalità strutturata del linguaggio, l'attenzione verso il funzionamento del linguaggio in atto.  Si tratta però di una conversione non perfettamente articolata. Il suo esito paradossale è infatti che nella Psicologia S. finisce col pervenire, come s'è visto, a una tesi di sapore condillacchiano: il linguaggio nasce su base istintuale dai segni (vocali) naturali, che solo in un secondo momento si istituzionalizzano nella loro funzione semiotica, con applicazione all'ontogenesi); e Manzoni avrebbe poturo ripetergli la stessa postilla apposta a un passo di Condillac: «Si tratta proprio di sapere come le grida possono diventare segni» (Postille) 41. Ciò facendo S. capovolge anche, di fatto - malgrado la distinzione fra  'natura' e 'uso' di essi -, la successione dai nomi comuni ai nomi propri originariamente sostenuta nel Nuovo saggio. Pur mantenendo l'opinione che i «pochissimi astratti» delle lingue antiche siano «forse di divina origine, spiega l'astrazione come un processo di metaforizzazione di metonimie dal referente fisico: ecco «n a tu ralm ent e spiegato» il «cammino della mente. Questa attitudine appare palese nella conclusione già citata di Psicologia 1532, dove cerca di salvare l'unione di entrambe le tesi genetiche asserendo che l'origine del linguaggio è umana e che Dio ha assistito l'invenzi on e immettendone l'istinto e fornendone «i primi elementi».  In conclusione, mentre la propensione storica orientata sui 'fatti' linguistici, al fondo,faceva negare a Manzoni non tanto e non solo l'origine umana del linguaggio ma in primo luogo la legittimità stessa di una questione di origine a proposito del linguaggio, l'impulso alla confezione di un 'sistema' filosofico complessivo fece passare S. da una tesi ad un'altra ma sempre all'interno di un'ottica di ricostruzione genetica originaria delle  'proprietà' del linguaggio. Ma è la prima prospettiva quella che nella svolta dal genetismo del  Settecento alla storicità dell'Ottocento si è rivelata vincente e ha dato nuovo impulso allo sviluppo delle scienze del linguaggio.. i .mi OPUSCOLI riLOsopci  m^ OPUSCOLI FILOSOFICI OPUSCOLI FILOSOFICI VOLUME IL MILANO DALLA TIPOGRAFIA FOGLIAN MDCCCXXTIU. .# f  (g 7*aiiliim abtst ut seribi cntra noa noUmuj ut id eliam maxime opUmus  in ipsa enim Gnecia^ phUsophiit uuUo in honore nun" quamjiuei, pisi doetMmanm cpfiter|- Uonibus distensionibus^ue viguitset. Cic, Tusc. q, II, 2. N, 1 KL Volarne preaeale si contengono due Opu- scoliy aopra i promessi. Em non prendono gi a trattare dimltamente nessun nuoro punto di fiio" s(^a , ma sono pi tosto indirizzati a sgombrare la yia dagli ostacoli che si frappongono agli avan zamenti della Tera filosofia* Uno di questi ostacoli^ e non certo il meno dannoso,  la disacconcia maniera onde gli umini dedicati allo studio talora comunicano insieme i pensieri e le diverse loro opinioni. Questa vor- rebbe pur essere serena e tranquilla, quale  ne- cessario di onservare la mente e l'animo ac- ciocch sieno- idonei alla verit; ma in quella vece  bene spesso commossa, azzuffata e turbo* leuta; e in molte scritture ohe si pubblicano presso di noi di letterarie controversie, egli par di vedere anzi le idee sollevate in tumulto a difesa dello scrittore o a rovina dell' avversario^ che lo scrittore stesso sorto alla propugnazione delie idee salutari e della verit.  a tor via 160 TI un vizio s nocevole ai progressi del vero^ a torlo via massimamente dalla italiana letteratura , che dovrebb^ essere essenzialmente sincera ed essen- zialmente gentile 9* tende uno de^ due Opuscoli aggiunti^ intitolato: Galileo de' Letterati, L'altro^ che ba per titolo: Eresie esposizione della filosofia di Melchiorre Gioia, procaccia di mostrare in tutta la sua nudit ed abbiezione la filosofia di Elvezio', riprodottsl sgraziatamente in veste italiana da taje^ che se avesse, in vece di copiar servilmente il male dagli stranieri, ricer- cata liberamente col suo iogegaola verit, mon avrebbe giammai prescelto d'estinguere^ qoant^era da lu, nell'uomo l'intelligenza riducendoia alla sensazione, e la morale rivocandola tutta al pia* cere. Come tutto ci che pu render nobile la filo* sofia teoretica, si  la distinaione dell' /cfea dalla sensazioney cos non v' ha nulla nella filosofia pratica di elevato e di sublime,. che noi discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge cke obbliga, ed una semplice inclmazione che alletta. Se non v'ha nulla nell'umano intelletto che diffe- risca essenzialmente dalla sensazione, non v'ha n pur liulla che costituisca una differenza essenziale dell'uomo dai bruti-, e se non v'ha altra legge morale che l'inclinazione a ci che  piacvole,  tolto via con questo ogni ^znVto^ e non- esiste che un fatto. Una tale filosofia distrugge adun- que V umanit, e non lascia per oggetto della filosofica investigazione che V animale: ella  dunr ^ Masij perch nuiiGa^li llqo;(ia^due oaaratteri cfae dMiDfiiono la yer filosofia ^xCM>' (a). ..  . i. . 'i '  .-.. '>. . : ; Ini fatti ^ ridiioendo essa alb seassione eorpe^ lea tutto ci che  nello spirito uoianO;^ non le reatai adlog^etto- del suo sapere che lab: materia^ 0 per' meglio dre^ i puri ociden della ^^nlate^ ria (3): e la materia  suhhiefcto di. divisione- an^ definita^ e non :pu^ somminiatrare^alla ideate/ al- cuna Qosione di vera noit; gli' accidenit perdono aoehe quella unit che ayer pob^bbero ove ven gaoo dal; subbietto divisi nel quale esistano^: o per parlare pi aeciiratamente, del quale for* mM0 il mode d' esistere. Solo' lo spirito  il fonte della unit; e salo le; essenze che per lo spirito esistono y sono quel legumii intim ; e .spi/ (i) Vedi la PreCsizone al L"" Valams, paj;. s. (a) Ivi, pag. XI. &\ Ycd* ili.* Volarne, pag.. 87. Iftfll UuiUcke mizzano^pei^eooi dire, yeraceinMAe k cose i,\ le  iMenze ^md' avdr possiamo uo sublnetto unico, indivisibile , e onde la* materia -stesfta che di natura sua indcfinitamenle ai moltiplica e sperdyvesto'juna. .fopina semplice e CMtante, e render dx^nea ia fsirsi oggette de^ nostri in- iQUettuali. ooneelli e de^ nostri ragionamenti Qamdi ilellil filteofia* 4eUai*eeiisazione  a35, a;^ 4 altrove pure ai roonoaceva il medesimo vero; che forza a conosoerlo i'esperensa di un decadimento precipito0) sofferta dall^ umanit Mito F educa-* isione materiale de' sofisti ^ cio sotto un' educa^ zione parziale e priva di scopo 3 e cosi si di* ceva  Scoprire il segreto (1) di questa grande  armonia interiore^ tale  lo studio cbe deve  tempi , i' quali ostentando nna fiilaa modestia (a), affeimafrano (i) If. Organ. I, 120. Va pensiero simile abbiamo is ma delle lettere di' Seneca : ecco le pargole : Viinam ^ f uemcutmodum unwtrti mundi facie$ in tonspeetum ve- flit, fi pkUowphia tota potiti oceurrerty tiirdUimum MUNDO spcetaadtml Prqfcto enim omnes mortales in admirtionem sui raper^^ r^UcUs hitj qum nune magna, magnorum ignorantia^ credimus (Sen^^ ep. LXXXIX). Unniverso, Topera della divina Previdenza, presenta il tipo della vera filosofia, dotata de^ due caratteri, deHa totlitl^ e della vmwk^ perfetta. Un gentile non poteva che fame no desiderio^ Bacone ne parla pia snimosamente e piJL SttUimeiaente , percb cristiano. (1) U buon senso italiano non si lascia gi sempre ia*' porre da una simil modestia. Egli i gran tempo che iL Lami ossenrsf a, che questa gente  piena di contraddi- noni , e che si trova intricata nelle proprie idee senza sa pere onde uscirne: indi qual maraviglia che sia modesto dii si sta ravviluppalo ncHa rete e vi sbatte innlUaeiiUt Ecco le parole del Lami in occasione di rifoiire le cose del GerdiI contro alia Lockiana filosofia: Facendo qui eH  nosccre il P. Gerdii le cootraddzloni qoas cootinae dol  Locke, cessa Ut maraviglia di vederlo A propenso a d->  btare^ e m scuopre chiaramente Porigiae ; dr qneU mo  desUa , per la quale riene egli tanSo elebrato  ( iVb ^sUc UUer.^ T. XII , n. 39). Questi dobb perpetui , queste die r uomo non pu cooo^oere quegl'  intimi e enefico nella  civilt;  dovuto visibilmente alla direzione e e che sola merita il nome di sapienza^  propria del solo Dio, come ho detto nel I.^ Vo). degli Opuscoli (pag. 248 e sef;g. e pag. 64 e segg ) : e P nomo non pu appren- derla che mediante la rirlarione dirina, dalla quale egli jriccFe quelle uidme proposizioni sommamente a lui ne- cessjirie ^ che sons il risultato di tutta la scienza^ e la ve* riti delle quali Dio solo pu a lui garantirla perch co nosce tutte le cose (Voi. I, pag. 76). I gentili medesimi nel tempo che conoscevano la vera scienza non poter es- ser che quella fornita de' dae caratteri della unit e della UMUtd^ sentivano il bisogno d una rivelazione per averla, t dicevano: Sed hmc maior es$e raii^ f^idtiur^ qudun ut hominum possit sensu^ aut cogitationt eomprchen4i ( V(d. la nota qui sopra, pag.. xxvii.). La filosofia i T amore e la ricerca della sapienza, come eipraac V origine della parola. Che cosa dunque vorr dire una Filosofia fornita de' caratteri dell' a/iil e della tota>' Ut? Nient' altro, se non una. filosofia diretta alla vera icienza : un amore , ana ricerca mediante la qaale Tuomo si studia colla propria ragione di avvicinarlesi pia ch'egli possa , di avridnarlesi indefinitamente quasi a limite de^ suoi voti e de' suoi pensieri. (1) Ved. Voi. I, XII e segg., 70 e segg., a4S e segg. (1) Il march, di Beavfort ne^ suoi articoR sopra la G* visitazione. XKt ^ aUMhflueisa oompoteate della sovranit spi  rituale. I disordini che impediscono la societ  di pervenire aliar sua perfeone y non hanno  altra causa che la ribellione contro, il potere   tutto occupato a dimostra* re le limitazioni dell'umana ragione ne' giudizi intomo la divina Proi^idenga; come si i^de fino dal titolo ) 5. {Uaatore benissimo si cura di sapere fin dove la Rivelazine permeUe, e fin dove proibisce il cercare le ragioni della divina Provi-- denza^ e tratta a lungo que* sto argomento intutto ilpri* mo Saggio. Essendosi curato dUnddgare un punto s ri* levante^ egli ritrov che la Rivelazione i.^ ni proibisce interamente V indagare le ragioni della divina Piwi* denza , a. n permete che l'uomo le indaghi ilHmita* tamente e temerariamente). (i) Come inai parlare di filoiofla chi non ta n poire che eomprea^ dot D9n ignifica.je non perfittamente conoscere? t elU questa vera motim parlare aenteiiiioMaiente d tali argomenti aema saper n |Hire il significato delle pi ovvie parole Jiloeofickef  ^ fe duoqiie falso che ci che  ncompreneibile f esclada qualunque oogoiiionc, qualunque ricerca, l confondere i diversi gradi del oonosenvi pia  eoo oscuramente, fu Parte di cui tanto abusarono gtUocreduI^ per hr credere agli sciocchi , che la religione proponendo delle ooir in* ^ttmprtneHiUy proponga con ci delle cose di che sia impofiibllo irere qualunque specie di cognifione. Il vesso drgt^nerMlttli  qat alitato dair autore delP articolo della Biblioteca Italiana: lungi da e r attribuire allo 9tuo i sentinenti di quelli, de* quali egli co- pia e ripete le insulse obbiesioai. (a) Con tatto questo discorso sembra che Pautore delParticoIo della ^I. Teglia stabilire che badando alla Rivelasiooe si deve sospendere cfaalanquo estrciiio di ragione umana iutorao alla dirins Providenaa. *% xxxri Ptti forse mostrarci Tautore degli opuscoli che Dio ab- bia voluto soddisfare alla no- tra curiosit o non piuttosto prescriverci di venerare una Maest occulta infinita e di osservare i precetti della giu- stisia^dciPonest e della ca- rit? Di d non si cura Pmu* tare degli opuHoU* I. La Rivtlatione non proibisce la ricerca delle ragioni della Proyidenza. Pag. 4* Proibisce forse il legislatore sapientissimo che ricerchiamo le ragioni delle leggi onde i beni ed i mali dispensa, se siamo da tanto? Ansi a ci tutti c'invita. Pag. f. Egli  appunto col permettere che insorgano nMla mente delPoomo delle dobbiesse o per dir meglio delle difficolt, che (Iddio) riscuote la inenia di Ini, che lo provoca alla riflessione ed alla tnvestigasioDe del vero. Pag. 6. Non vuole dir tutto egli stesso Pottimo Creatore delP uomo , perch P uomo Primi, stabili che ti deve are dtla ngioiie, e mi imputa oome gnvsuno peccato l'aver io voluto assrbirey eom^egli spaccia, ogni pernier  umano nelVadoriione religiosa e conquistar tutto Vuomo eolla eoi/de speda' . La roiuegaenza di ipiette me propotiiioiii sarebbe, che dnoque non si dttre badare alla Rivclamone perch in tal modo si proibi- rebbe al P nomo il pensare. Rilevando stmili oontraddiBioD io non voglio attribaire (lo ripeto') ^entmeoti cosi empi e funesti alPaotore delParticdo della Biblioteca italiana: conosco troppo gli effetti della disatteoaioDe sollc conse* fvente delle scnlenie che si pronnnciano,  so quanto abbia d^iti- Aienta P istinto della iinitasione, comVsso apra Padito in certe menti a tutte quelle idee che si credono nooete correnti f e metta sul lab* bro delle parole convensionali che si rpetoifo perch si odono, e che scusano de^ solidi pcmieri e delle dottrine di un acquisto diA* ile e faticoso. Quanto al merito della cosa. Il nostro avviso espresso a lungo nel Volume I degli Opuscoli, si  che nella Rivelatiooe ci sia deiroscu- rit d'^adorare, e nello stesso tempo immensi campi di Inoe pe^ qnaK spaziare liberamente quasi a dclitia romana iaielligenu. XXXVII non flt rimanga neghittoso ed inerte: e d^ altro iato non ^ ama di levare alla sua cre'a tura diletta il nobile piacere ^- ed il merito d^instruirai in pi cose da se medesima. Per questo fine air uomo diede la facolt di conoscere 9 ac ciocch^ egli potesse onesta* mente rallegrarsi nello svol- gere a se stesso la acienca) ncir essere egli medesimo in parte il proprio maestro. Pag. rxy. La ragione, creata tutta per la verit ^ rattamente anela ad imbere quel raggio celeste, che solo F appaga. Pero amico di e^sa  il Cri- stianesimo^ ed i Pastori della Chiesa (1) eccitarono mai sempre gli uomini dotati d^in- gegno ad fiutare con questo la umana debolezza , che fa Poomo immaturo a ricevere pienamente le rivelate dot- trine. Cosi Leone X, nella Vili sessione del Concilio V Lateranese , imponeva sapien- temente a^ filosofi de^ tempi suoi di escogitare gli argo- menti che il puro lume na- turale offerisce^ co' quali ri- futare ed abbattere gli errori degli Arabi che allora ap- (1) Questi tono i maestri che noi vorremmo posti salU attedra  al palpito : ro^2iBio fivf tof Zim 1 fmtrs immuo / pro/trM di fauanf xxxTin punto danneggavan la Chic- aa  conciossach , diceva |  non potendo il vero essere tf giammai opposto al vero,  tutti gli argomenti loro  sono colla pura ragione  solubili  Pag. 35. Dalla sola cogni* zione di queste vie e di que- sti sentieri ( della divina Pro- vidensa ) ^ aspettava il reale Salmista quel conforto di che r afflitto suo spirito abbiso- gnava^ dalla cognizione, come espongono Eusebio e Teodoro Eraclense, degli scopi della Providenza> delle lontane ve dute , secondo le quali Iddio comparte i beni ed i mali (i). II. La Redazione proi" bisce la temert e la pre sanziona neWinvestigarc le - ragioni della Providenza. Pag. ij. Il primo modo d*u sare della nostra rsgione in- torno la Providenza divina* t proprio di loro che eoa animo reo e con mente dura o superba investigano le di- vine disposizioni ^ bramosi , quasi direbbesi, unicamente di potere in quelle trovare onde condannarle, e quinci coglier cagiono di negare av- vero di formare quel Dio (0 Questo diaortra w noi fum, ripntum udU oUa rtUffone di indentare U ragkim umana* che non amano, e che, con perpetuo loro affanno , fiera* mente paventano.   colpa di costoro tutto il disprezzo e tutta Tonta, onde poscia si rcnoprc dal pubblico grido questo bene preclaro , la ra gion*^ questo ampio fonte di consolazione, il sapere. Pag 37. Le Scritture me- desime, che pure imprendono ad addottrinarci ne^ consigli della Providenza divina , raf- frenano la foga e la baldanza della nostra avidit di cono- scere, e n'avvisano cht per inuoltrare della nostra mente nelle pia alte cognizini, essa verr sempre finalmente ad una ultima u linea, la quale di trapassare con inutile fa- tica travaglier. Coree que* sta linea fatale fra il finito e r infinito assoluto (i)^ e (1) Qaesto limita da noi tts|ilito alla ragione nella divina Provi* deaza^  rooato contso.di noi ia queste jparale Chiederemo a lai  come mai uno icrttore posta ra^anare dei coDMgli della divina  ProvaUnaa osse se egli fosse Pintimo eonfidcnte dei pepaieri di JDo-  owneddia nell^tto cliVgli pone 'osse teorema fondaioentale  eh  le intelligenze create non possono avere il coneetto dello siruo Et*  sere diTino ? A coi e facile rispondere oosi a Se noi poniamo per  limite delU -ragiona nana nei giudisi iolomo alla divina Provi^ densa la annoanaa. d^ooa idea pcMtiva ed.adegwita di Dio, perch  Il quteha cosa non tuoI ^ir tatto : i loflsti H^ineontro vanno i due eeoMt) ore iembre ohe tutto li eaiMpM eolP amuia ragione, ore che non si ooooma nvla. 00 E qu^lo' diittotCra he nel tenpo che noa vogliaio annientare la i*agloe uavaiia , oon la- Togliano n pur rendere temeraria. (S) Presmne donque troppo la mia regione r non  danqae Toro ehe io la voglia difttroggere. (f> Riirocedere da mia falsa strada  aTansaret Torrete dafique voi ehe lo sprito umano avanii coHamemnt ft^ quMUJda stradm intta, fmU eoi petet 9i miiet Per salvare P animo vostro, debbo pensare che non sapete M he vi dite. 3.^ilfteoatiiiio ilUaiUlD Opus. Fil. T. JL voglioDO risaoDiC cari , rsuo- nar enerati ai lontani po- steri. Pag. VII.  rivolto il quinto .Saggio  a dimostrare le agi- tazioni del cuore umano , quando rifuggendo dalla pa- tente luce del Cristianesimo^ iTOam souTAaio iHDiE^ao sui passi gi fatti dalFuman genere, e ai costituisce iso- lato fra nazioni pagane, s^ ab- bandona alle loro Uusom come alle loro abbominazioni: egli percorre tutta la serie de gringanni; e finalmente cerca orrbilmente Ja requie non mai trovata, neiringanno stes- so, che perpetuamente rinasce e perpetuamente svanisce. {Alla pag.igesegg.si parla a lungq del continuo progresso Mia societ urna* na^ che det^e essere aiutato e promosso ). IL Circa la ueechia filo* sofia scolastica^ ecco quello che io scrissi, Pag. g6. Perchi questa (la filosofia) ritomi in amore ed in credito appo gli uomini, io credo che bisogni riconci* liarsi in parte colle opinioni degli antichi, e in parte dare ad esse il metodo de' moderni, lo stile facile, le applicazioni pili larghe e vicine alPumana f XLII fta, e fioalmente Ponicne dd tutto ed il oonpinnnto. E forse gli scolaatci caleati A al basso aono Taneilo che rag- giangele filosofie antiche colle moderoe, e che conviene dili gentemeote conoscere. Per- ciocch la scolastica era ia vero degradata, diventata pue- rile e ridicola negli ultimi tempi ^ ma non cosi appari- sce ne^ suoi grandi scrittori, fra^  xtlll iste nel non confndere il lume naturale, col lume so* prannaturale^ che pur sem- pre debbe rimanere distnto. Io ammetto che tutti e due vengano immediatamente da Dio, tuttavia ii distinguo spe- cialmente dalia diversa na- tura de' loro oggetti : que- sta distinzione  ci che se- para immensamente , come ' altrove ho osservato , il si- stema platonico dal sistema cristiano. Pag. 57. Tutte queste li- mitazioni e tutte queste leggi, da cui r intelligenza umana . vincolata e ristretta, non portano alcuna alterazione ne- gli oggetti che da lei ven- gono percepiti, immediata- mente^ ond'essa si rimane sempre un istromento atto alla verit. Le fatiche che questa nostra potenza sublime  ob- bligata di fare, onde perve- nire alla verit e onde fruire pienamente del suo aspetto divino y i sentieri anche tor- tuosi che talora debb'essa calcare, la luce immensa, in cui finalmente s* immerge e da cui resta vinta e beatifi- cata^ tutto ci non toglie punto che non sia tutto verit pura e semplicissima quanl' ella giunge a vedere^ non toglie XLir che r nomo non possa assi' cararsene, anzi ch^cgli final- mente non possa non assica- rarseiie. Onde noi conosciamo la distidzone della verit dal Perrorc? Se le nostre facolt intellettive create non fossero per la luce del vero; chi mai insegnato ci avrebbe che il vero esste; chi ci avrebbe fatto nascere il dubbio che ci che percepiam sia men- zogna? Non avremmo avuta giammai alcuna inquietudine sul vero e sul falso de^ no- stri concetti, se le nostre in- tellettuali potenze non fossero al vero ordinate. Lo scettici- smo adunque, il pi assoluto pirronismo  un sistema che non potrebbe esser inventato se non da u essere creato per la verit* Egli rende per- ci testimonio contro se stesso; egli dimostra e che il vero esiste, e chVgli  P oggetto delle potenze intellettive del- Puomo, e che queste possono di lor natura al ver perve Dire a cui tendono incessan- temente; mentre ogni potenza i proporzionata al suo og* getto : ogni potenza , se non  guasta da accidentale ma* lore e se  direttamente ado- praU, alP oggetto suo na- J. Sili permesso di domaa- dargli una risposili ai seguenti quesiti : I. Se alla causa della re* ligione nuocano pia le di* spute teologiche, od i sofismi de' filosofi (^)  XLV taralmente e infallibilmente coDgiungesi (i). ly. (Circa il Teocratismo^ mi rimetto a ci che ho scritto nella nota^pag.xwu). 7. ( / nostri sentimenti sulle questioni furono i se* guenti). Pag. 2191. Le quali parole esortano gli uomini alla li* bera comuncazion del sapere, a mettere insieme d che sa ciascuno , d che eia* senno seppe , per fame un pubblico e ben assicurato te- soro; terminando questa mo- lesta propriet esclusiva d'una sdensa individuale, per la quale T individuo aspira a nulla meno che alla tirannia alla spede intelligente, e i molti individui dsputantsi lo stesso scettro immaginario alla distruzione fra loro: e le na- zioni ed i secoli pugnano pur fra loro in tanto pazza e in tanto /eroce battaglia. Pag. 979. E la variet delle opinioni in tutte le parti della filosofia insegner alla troppo celere e confidente giovent la cautela in giudicare, U (1) Questo non  un mettere sulla cattedra maestri die annientano Itrafione. (a) Le dispute teologiche, come pure le filosofiche, ove sieno fatte con amore della Venia e drgli uonini, possono essere giovevolissime: i sofismi non aono giovevoli mai XLVI 8. II. Se la causa della religione eaiga di aDuientare la ragiope umana. 9. Uordine poi delle cose fuori di noi ai  quello per cui siamo costretti a portarci d?un tratto quasi con ni" pidissimo volo aW ultimo anello della catena di fotte le cose^alla ragione uUimaf a Dio. Questa doUriua della totale abdicasione di se stessi e dello assorbimento totale nella causa del tutto vien predicata anche dai Bramini indiani ecc. tardit in condannare, la lar ghezza in comportare opinioni contrarie alle proprie, e il pe- ricolo dello stringersi sover- chiamente ad alcuno degli umani sistemi : dalle quali virt nasce la urbanit e la dolcezza delle dispute, la fa- cilit della convivenza, e la scoperta stessa della ritrosa verit. 8. {Fed. i passi arrecati di sopra ai num. i , 3 , 5 ). 9. I. (Ecco ilpa^so non mutilato ) Pag. a35. Lo spirito del mondo 0 togliendo dalla na- tura Dio, 0 a lui non pea* sando , 0 pensando mozza- mente a quello che gli con- Ycnga , non pu concepire la grande unit e semplicit del- l'ordine di tutte le cose^ ma introduce in esse il disordine e lo scisma. AlP incontro i cristiani cammitiando al gior- no della fede vedono colla mente loro tutte le cose com- poste in un rdine solo ri- splendente di mille pregi , ma accolli tutti in perfettissima unit, mirando alla quale noa  lor conceduto giammai di limitare i pensieri fermandoli dal loro corso in qualche og- getto sparso in sulla via che XLVII percornHM^ na moo coatietti a portadi Pan tratto quasi 00 rapidiasimo volo alPuU thno anello th catena di 'tutte le cose, alla ragione altima, a Dio. IL SuU'akdicazione di se stessi gone poscia condiaeende ai bisogni ed alle infermit della non adulta e perfetta natura umana. lla sa bene, cbe V no- moin questa vita, dove il con- sidera come sempre fanciullo, non pu tasere col suo spi- rito attuato continuamente nel solo Do, e per tempera il gran precetto di dovere sempre orare e vegliare in s dolce modo, che non di^ vieti Fuso delle cose umane, degli amminicoli necessarii a questa povera vita, e altres delle cognizioni intorno alle opere di Dio, qnando per qule cose nelF animo del- IVoihio tengano oonlinua sog- gettone e av^amento a quel solo fine di tolte le eose, per qudPiinico mexzo. Pag. 95a. La Religione in- coraggia tutte le scienze e le arti anche quelle ch'hanno per ' dcopo gli onesti godi* menti di qusta terra. Xl/VIfl iwft.fii cootengona nella ma opera, per \ l^ai o^aret pnwao ^hicdiesaia col dimostrare , mentendo , la ma ^ilm^\pfsdc^sa ed imprudente (pag. 269, Feb- braio i-Sft&tdiAla'iiBibl. *ltal.)- Quanto a me, io non rico- ;-9aiC0'jMiUa..>.di. e che vibra incessantemente contro alle ^ tenebra liiftiDaiiriwa che queste giammai la comprendano. SULLA SPERANZA CONT&O ALCVNE IDEE DI UGO FOSCOLO SAGGIO QUINTO. PIUEtOKDU FAarfJI QUASr ROTA CARRI: ET QUASI AIIS VERSATILIS COGITATITS ItLIUS. EceleiiMrtictJ^ma. LIBaO FRIMO DELLA SPERANZA INGANNEVOLE tem fifoni tMfertfacUi$ ^ mu fino sa certo- aegao e a certo tempo, fino cbejawraaieiite non ha ^tlato il dono inappreabiie della aua likfert^ di*fieata forza aaraviglioaa e miaterioea ebe il solleva 9 tate la natara aieccanica: via. dopo di c& egli  condiiienalp dalla floa innata tendenza a segatre il bene cV^gti ti ha pre- sentato , ch^ egli ha costituito a se medesimo. Non  in ano potere sognire an bene od nn male; quantunque aia in suo potere acguir questo o pur quello oggetto, rendendosi Fune 0 P aitilo bene o male a se stesso. Conservata adunque al- Tuomo la libert di appetire e di abborrire i diversi og getti, di scegliere- fra la virtA e fra il vizio; fermiamoci VD momento a considerare quella tendenza che lo porta al bene, e non lo lascia * cende; e in somma veggo d' essere anch'io nh pezzo  qncUa grande rappresentazione. In me pet sento altres le canse d^l muovermi , i fini deir'^rreoarml in ' qhesta e in qaela banda , perch- a qulP 4rz usoii , toroai a qn^ at^ altra: n panni trovare in- ci mislerio- di sorte.; ApAe stessa. Laonde il non volere star male , lnafli uoafB>^ sembrano escludere da lei la n^fiofM, anti ra ^Kww  n&iura pure le faQciano cose opposte. Ma ogni qual volta eolla parola natura Togliono intendere Vessenza delPuomo, non pot- tono eseluderne la ragione senza dar nelP errore. La nostra natura in Ul senso  formata principalmente dalla ragione. E questa ra- gionevol natura sente P intima Necessit di amar Tonello per se tflssoy e senza- interesse) anzi di pi essa trova il suo bene, e perci interesse massimo nel massimo disinteresse: cose ebe sem- brano disparate y e pur son congiuntissime. Dei conformarsi alla natura nn antico scrive: Beata est ergo vita conveniens naturcc juee:  non ideo tamen qxdsquam fiUcia dxerit, quibuM non est ft* Ucttatis inuUectun.  Status enim nemo dici poust extra rn^iTATEU proiectuss beata ergo pifa est in recta certoqu indido stabilita ef iRiRutoiiif. Seneca, De i. beata. % u imwm due a b ateaMi: il tuoJntarav 4 U mio^ ab- tf Mina u cuoi di cigMle nobilt tut imporUnaa ^ qd l'amore cbe mDvei tuoi. paAi' nel filagio, xU mpla^ a a' miei nel tagiirio^ qed priedipifr iM il^wo ^ateoza  le tae aplendide sollecitudini,  quello cbe d Peaiataiva  alle mie occsure: motb da usa eomuM lorigiae attn it giano U motore la Tta ainredua . Ricoaftici perci ia tf me il tao inule ji.. . Che te eguali nm tulli gli*^09u. i queata Mommk voglia di migliarar at ateas  dfi .abbeaociare qaaute. .atta Felicit appaffiitne^iO panaaM pparteoert^ tutti altvcal debbono awecs il diKitla .di aoddiaarU. Di pi: poicb quaata i la vaca- pia feiiC) e che in mi gianaaai nan laee^ dalla KaUura; qiHadi  anelli il {n. Carta e il pi geoaraU lfitlo , a queilrt: quelle perdo finiacane in sa atease^ afiia portano, 8 ilicdite csteti ^it, In si il loro oggtttb^ U'wcoofro U cognirionc  la libert rapiicoao a s oggetti aoche fuori Ji e iDedei.OiWlc se io qnelle vi  una 6sica necessit che otteogano J fiie loro, in ' fosse n di conoscete . ii volere.  dunque l'oggetto sempre in relazioac colla facolt sua : sicch in quella maniera che non s saprebbe n pure la esistenza di lei^ se non avesse un oggetto in cui operare^ GOtt sapendosi la esistenza sua , conchiuder si debbo che P oggetto esiste. E se aodie non vi avesse qnesU ragione, indotta dalla costante analogia che si vawsa in tutte le cose della natura, e dalla necessit di riconoscere le trae* ee di una sapienza che presiede alla medesima v > dii eonoace un Cnatore nonpu^ non essere chiarissimo, che un desiderio essenziale alla nostra natura, quando oggttto alcuno possibile non avesse (i), Paccuserebbc di crudelt e di stoltezza: dacch egli ci sarebbe un etemo afanno, e un aEanno cornano, all^uomo piik giusto come al pia reo; t avremmo tutti noi una natura stolta, perch. braaseNbbe eternamente V impossibile. Ma ohe esser vi debba nell^ universit delle cose alcun oggetto, o alcun essere, il quale satoUia piemsttm rumano desiderio dcHaFelioit; dico, che non solo  vero, ma che  anche un vero si chiaro e si necessario, che nessuno riut mai negato n pu negarlo. \. > ;'-.. III.  bens avsvenuto, che nello stabilire P oggetto di questa Fdicit gli uomini abbiano commessi errori infiniti, ed abbiano concepito stravolti pensamenti oltre ad ogni credere; 0) Si parla di unt fimpoMibiliU atsolutft^ eoBM sarebbe M ma&- caite V oggsl|Oy ehe si potesse render feli^. 9 Gi gfi anticldf AmoS, nUe liro divcne sriitaiMe, affer WWQ i 6li principali di tutte le poatibili opinioo ed i pos- sibili errori in tale argomento. Poich cU la poae nel pia- cere come gli Epicurei , chi nella rirt come gli Stoici , chi nelU contemplanone delle eMena:^ come Platone^, e ehi in latte queste cose insieme come Aristotele. Ma queste quattro gran classi delle opinioni intomn al-* P oggetto della Felicit amm^tomo innomerevjoli particokri, che in gran parte sono stati svolti , e talora come nuori trotati proposti si dagli antichi che da' modemL d an^ cera nel particoUveggiare quelle generali senteoae.si cctt*^ pano tutti , anche i plebei *) che in ci lutti filosofimo \ r nessuno in cosa tanto stretta con s , e necessaria , pu statai dal seguire aVcona seulensa. E per voi stulile ih ^olgo parlarti seo^pre di hcoe e di male, o veniie ideun* dori f pi grossolane e diwene FtUt^ e chi psedicam heato il rcqo perch possiede riccheaze , chi creder laie il voluttuoso perch ha copia di piaceri cosporei^ chi l'oosh fato perch ne pasce Tambirione, e chi uno e chi altro; nascendo cos tante FelicitA quanti sono i cervelli, o an* cora di frequente quante V ore del di : sicch al pvanao v' ha chi la tien nel cibo , ma colmo di questo la oceca nel sonno, e cos d^ una in altra cosa la nsegue. Anche fra i moderni questa questione fu trattala molto,  con gran sottigliezza e verit. Ma non mancarono i so- fisti, che scrissero in questo argomento, come in lutti gii altri delle cose pi stravaganti che mai, e pia ignobili i ogni plebea credenza. L' arte intiera de' quali consiste ad iraveslire cose vecchie ^ volgari, con molto artificio e gusto del tempo. IV. Di questi  uscita la pi desolante e strana sentenza aolP oggetto della Felicit, una sentenza che parrebbe im- possibile a primo aspetto poter cadere in capo umano, ma che pie attentamente esaminata, si trova comune quari direi C^ust. FU. a. 10 fra gli uooiioi : voglio porkre della sentenia che eoHota la felicit unana nella speransa^ fttoah Tesser felici debba risolverai oon in tltro che in m coRfinao sperare di eoa- segaire felicit. l)i cos singolare opinioiif ,  eontradditoria cor se mede- sima (i), non awei io fatto TargooMito di questo Saggio se, Ctonie dicefa, ella 'non fesse pi che non paia diSiisa fra gli ttoaiini, almeno praticatMute^ e se non Cosse stalo anche in Italia in questi nostri tempi tale, a cai piacque di profondere una non volgare acutezza d^ingegno a soste- nere ei 9 che altre tolte avrebbe procacciato titolo di for- sennato: il qual vezzo tuttavia di gittarsi alle opinioni pi nuove- e pazze, non  un raro fatto v giacch egli seokbra ohe questo tempo voglia toccate da tutte le 'parti le estre- ntttt e che si compiaccia di abbracciare in se medesimo oose, penone^ virt, visi, opinioni e caratteri disparatssimi , scuole perfette di morale sublime, e di pazzie squisitisaime: le quali due manieve di cose sono per atte egualmente a dimoatrare quel continuo viaggio, sebbene opposto, nel quale . spinto innanzi, e forzato infaticabilmente lo spirito Per tanto i sostenitori dalla sopraddetta. sentenza., cho ripone la Felicit nella speranza, spiegano il loro concetto in questo modo. Essi affermano, stare la felicit in qu^lo sforz che fa P uomo, mosso dalla iperanza di conseguirla^ cono, la vita esser nel moto, nella quiete la morte con- sistere: e perci quanto Tuomo  pia agitato, sia di do^ lore sia di piacere, tanto pia esser''felice> come quegli ehe ha pi' vita^ sebbene n T animo debba mai Conseguire i suoi piaceri, n Pintelletto la verit, perch allora ces CO II Savio d^ Aquino preride qualche cosa di simile a questa opi- niene Ik dove dimostra colla sua solita acute iza , di' egli  assurdo ammettere una ^accessione interminabile di fini, e che perci ri debb* essere una felicit, vmjine tltimo dell* umana rite. Vedi nella Parte I. della II. Q. I. art. IV. le sue sottili conaideraiioni sopra dj ii saodo d'operare, ogni tiu e neil'intdktto e BtfU'tnivo  spegnerebbe (i ) - Chi coniidera nuetto teitenca n poco addentro , per ripagnante ch^ella sembri atF aoiana rampone ^ trova eh' ella pu sorgere assai naturalmente oel cuore d aleoot uomiuij giaccbPaomo assai pia che da' priocipii astratti della ragione, deduce te. suo coodasiotii da d.ehe cspetimoata in se stesso quotidianamentei U che considerato , si aMotra assai naturale , che cadano in quella scntcnsa , ehe la F^ licita nella sola speranta racchiude e nelP assiduo moli- mento per conseguirU, tst^ coloro^ che n i bem deBa calma hanno mai esperimentaCi, n quelli d'un armonioso moto delle umane heolt. Questi avvezzi a ternbtle guersa intesthia per lo sbilancio delle facolt proprie, prodotto di solito da eccedente immaginativa , credono in tutti gli uo- mini dovervi avere- quella . agi tasione di desiderii continua^ e di sforzi, e quella* vice di dolori quando non si soddi* slanno, e di piaceri quando soddisfatti ripullulano. E cosi del correr sempre senza asai giungere alla meta, fanno gP io- felici la loro gloria , e del faticare senza corre mai il frutto delle fatiche, fanno il loro premio : fingendosi per (i) Qifita infeKe teodenaa che hanno gli uo mni ad ingannarsi perpetuamente suU' indole della felicit e ad. inseguire successivamente delle sempre vane,speranee. Questo fatto,  l'inclinazione che ha P uomo alle occu- pazioni clamorose. L' anima , diee questo scrittore , non riaviene in s niente che l'appaghi^ anzi niente vi scorga (he non rattristi. Per questo ella s'ingegna di dissiparsi*  Nella educazione, a' giovani s' insinua la cura dell'onore e de' beni.  Si stancano collo studio delle lingue , delle scienze, d^ii esercizi, dell'arti. Si aggravano d'af&iri,si dice loro non potere esser felici  se non s' adoprano in conservare l'onore e la fortuna.  Ecco, direte, maniera ajsai strana di farli felici, che farebbesi di pi per renderli infelicissimi Z  Basterebbe, io vi rispondo, tor loro tutte ({aeste sollecitudini^ che allora vedrebbero s, e a sd pen- serebbero : cosa loro insopportabile. Che per , prosegue , dopo essere caricati di tanti af&ri, se hanno tempo di sol- lievo^ procurano perderlo in divertimento che gli occupi tutti, e li tolga da se medesimi. E inoltrandosi nel ragio- nare, perch (viene egli ctiicdendo) disgusto tale ha l'uomo t4 di s quando dalk reKfpoie non * locoono, w im pa- che in fl* rinfieft! n oggtUo disamabile , debile , HMKro ? Che in vero il disgustarsi di una cosa , e il trovare disgu- stosa la cosa stessa , torna al medesimo* Si , chi solo  tratto dagli affetti che ritrota nella sua natura, impossi- bile e , che viva in quel ripose , che gli d luogo a con- siderarsi. Gran cosa! queir uomo che non ama che s, niente teme quanto tfovaim solo eoa s. Egli nulla ricerca se non per s, e nulla fugge quanto s ^ perch se si mira, non si vede qusl dcAidera, ma s^ abbatte in un cumulo di miserie incvitabftt, ed in un vto di beai reali, che  in- capace dt riempiere. E qui Pascal disamina, le umaoc oou- dizioni pi riputate felici , e vede che in tutte , quesU supposta* Felicit mettesi io cose esterno, r^ditvitfl abbiano di tor noi da noi stessi^ e che in qualunque affluenza di beni anche rcgSi, infelice  Puomo se non  distratto, ma sr lascia a s ritornare. Che v^ha, dice egli, di pi lusio- ghevole per un re, che V aspetto di sua grandosza?  bene, se ne faccia prva. Lascisi' un ro tutto solo, senia. solle- citudini dello sprito , senza compagnia , con tutto V agio di pensare a s che  s grande. Vedrassi, un te che mira se stesso, essere uomo pien d miserie, cui risente al pari d'ogn' altro (i). Quindi 'gran curai si pone a impedire ch'egli si trovi solo , col non lasciare mancar cortigiani, che i piaceri fac- ca^no succedere agli* affari: sicch non vi sia per esso un momento proprio. Per questo stesso dagli uomini s^ amano (0 Non sembra cbe abbia tolto il Pascal questo tratto dal libro Della consolazione altributo a Cicerone? Ecco il luogo: Stdfac He- gem esse a bellonan imptu, et a castrorum puluere remotum, sua pacate pssidentem , nulla hottiwn incursione vexatwn s suin iecirco tutiorf a miseriis seeuror? quia immo^ ut otvm aatt^H^ s^tvba jrotf FEJI7, ipte sibi molestiamy ac soUicitudinem exhibtit. nam aut de augendis t>cctgalifus , aut de produeendis finibus ^ deque urbius ad imperwn acquircndis , aut de iungendis cum potentiorius propin- quUalibus atque amicitis cogitabit. quee qui animo agitai^ stMc a mo- zw^rr^ ifBEK EST, nec alios securot ac quUtos esse siniu i5 i pie msoisi soHaari , ta caccia^ 9 ballo^ e altri mmil^ e per giiesto la prigione  un Mipplizio co^i orrendo. Ecco Pirro che si propone goder la quiete co' suoi binici, dopo ay^r conquietata gian parte del mondo. Cinica lo con- ligiia d'anticipar egli medeaimo la felicit u, godendo tantosto quella pace senza andarla cercare per mezzo di tanti percoli In fatti che contraddisionei cercare le fatiche per avere il riposo? Piace il riposo immaginato e lontano, dispiace il presente. Dalf una parte tutto si fa per una qliete, dalP altra si cercano i rumori che tolgano da questa quiete. Cosi v' hanno due tendenze nelP uomo. L' una gli dice, Nella tranquillit e nella pace  il tuo bene. L'altra il disgusta della pace ^ lo tira al moto, lo stimola a fug- gire da se medesimo. ... VH. Qiesta strana e opposta lusinga , che trova l'uomo in se stesso , fu osservata sempre. Vedete Orazio , non mcn filosofo che poeta, esaminarla nella 1. Satira. Tutti sono io moto, dice^ ognuno desidera .lo stato altrui^ trava- gliano sempre : domandategli perch? kac mente laborem Sese ferve y senes ut in otia tuta recedant, Aiunt Paivula^ nam exemplo eH , magni formica laboris^ Ore trahit quodcumque poteste atque addii aoer^o^ Quem st'uii haud ignara , ac non incauta futuri. E bene, dice il savio poeta; la formica . cessa al fine dal suo lavoro, trova il riposo^ e voi lo trovate? Mai^ * > mm te njauefon^idus aestus Demot^eat lucro , neque hiem$, ignis^ mare, ferrumy ^il obstei tibi, dum ne sii te ditior alter (i), (0 NcirOde XVI del lib. II osierva U csa stessa, riflettendo di pi , che le copidit deiranimo rendono X aomo nemico di s e qaiodi i6 Cos Epicuro ed Aristippo poman ntambi la Felicit nel* piacere* Ma quegli ossenrava, che Paomo ha per ai- timo scopo di tutti i tentativi suoi la quiete^ e jperi di- cea, il piacere stare nella oxiosk^* del corpo e deU?.ani- ma (i): Aristippo alFoppoato vedea Tuoni tirato a godere il faDDo contiMiaBcnte testar di fuggire k te ttesM, inmergemlo in ooenpzioBi tnmultvose. Io queste, Ira Oiille nuli che trova, de- sidera quella quiete che fogge. Veggasi se non  questa U MTa r^ ^^S9(De di Orazio nef versi seguenti : OTifim DQS rogai in pdUrai Prewtus AEf^eeo , simul atra nubes Condidii Lunam, neque certa Jugertt ' Sidero-nautis r Otwm btlUfitriosa 7%race, Otwm Medi pharetra decori ^ Grosphe^ non gemmi ^ ntque purpura f^tf* naie, neque auro. Non enim ga%ty neque consularis Summouet lctor miseros tumuUus Mentis , et curas laqu^tHa cireum Tecla ifolanUs.  '7 degli attuali di1fct&, t per facfa consistere il piacere nella veemenza delPatto del godimento (i). Vili. Fra i moderni nessuno ha confessato pia chiaro di El- vezio questa verit. Egli senxa accorgersi la svolge assai bene nella Sezione Vili del suo Uomo :  L^ artigiano y K dice, non v'ha dubbio,  sposto al travaglio. Ma il  ricco ozioso alla noia. Quale di questi due mali  mag*- tf gioTe  ? Dopo , prova che il travaglio non  male. Ma perch? u Perch con esso si sfugge il mal fisico della  noia  {i). Non  questo V istesso pensiero di Pascal ? Voltaire fa qui una osservazione al ragionamento da Pa ical insttuito, e vi scopre una inesattezza^ ma per lo scopo nostro egli, lungi da scemare, aggiunge forza al medesimo; giacch egli non nega quel fatto che a noi importa di fare osservare, quella perpetua inclinazione che ha Fuomo di fuggire da se medesimo , e di spargersi al di fuori nelle (i) Questo Tiene a significare anche Lattanzio, lib. Ili, e VII, ficendo: Epicirus iwnmum bonum in ifolupiau animi ttse cen$et, ristippus in 4^upuae corporis. Poich hk priyaiione di dolore, aia Ite! corpo aU neirahimo, ottiene quella pacateaza delPoomo, che (hU^ animo  gustata; alPincontro le Tolatt corporee, disgustando r animo, terminano nel' corpo. {2) tt La noia  ansi malattia deiraninui. Quale ne e il principio f 4 La mancanxa di sensasioni assai vive che ci occupi ao *. Cosi TEI Clio, iri, e. VI. Questo autore mette tatta la felicit nelP occupa- me, cio I.* nelle sensazioni viye quando ^disfacciamo ai bi iogni corporei y e a. soddisfatti questi , nella fuga dpUa noia che isrge dalPozio. Egli annorera totti i trovati del mondo per iscaur *tf qaata noia delP abitar seco stesso, assai pi minutamente che ^ Pascal. Nessuno di qnelll pu soddisfare quando non si cerchi ietto iptrito del Crbtianciimo. In questo T avrebbe trovato VEU nio, come trovoUo Pascal, se avesse preso a disaminarlo. E per ^ fare in Inogo di ci un Capitolo sopra idee vaghe e false di re legione, come fece nel X/I di questa Sezione? Esporre qualche riflesso sopra rarle religioni in generale, noA  penetrare nello spi- nto di verana. Opusc. Fil. T. IL 3 i8 occupazioni esterne e clamorose^ ^li anri lo contesU^lo dichiara intrioseco all' umana natura , necessario. L'errore di Pascal non era di aver male osservato ^ era di volere inferirne dalla sua osservazione una conseguenza che necessariamente da quella non proveniva. Dall' ^sser Puomo insufficiente a se stesso, dal non poter viver con s solo , dal sentirsi dentro un insuperabile impulso che lo caccia al di fuori , che lo fa cercare nelle esterne cose agiUzione, svagamento, felicit^ egli volle inferirne la sua miiera.* bastava che si fosse contentato d'inferirne la sua limitazione. Quindi VolUire ebbe campo di riflettere, che V uomo  portato alP azione fuori di s necessariamente : che le sue stesse potenze sono cosi costituite , che abbiano gli oggetti al di fuori: che dentro a s col pensiero non pu stare che un imbecille ed un insensato ^ in cui P at- tivit sia morta, e le potenze sieno ottuse ed inerti. In vero nella mente di Pascal V umana limitaone, e V umana miseria (i) si confusero insieme^ e quella venne messa nel luogo di questa, o pure di tutte e due ae no fece una cosa: facile e sottile errore, ma prolifico d'altri errori innumerevoli. Nello spargersi che Puomo fa al di fuori di s, noi dobbiamo distinguer due fatti, che per essere insieme, senza molta diligenza ed attenzione non si disccrnonp. i .* L' uno di questi fatti  il non potere in so medesimo trattenersi e d s bearsi, e questo non prova che y umana limitazione $ a.** P altro  lo spargersi al di fuori nelle creature per modo ch'egli cerchi. e speri rinvenire in quelle il bene che appieno lo appaghi^ il che apporta alPuo* mo un interminabile inganno, e dimostra PecceS&o della sua miserici. Questa miseria dell'uomo, questa illusione fatale, questo inganno ripullulante che si osserva negli uomini mon* dani, non pu essere che P effetto di un disordine originale e primitivo. Ma quel bisogno di uscire da s, d'avere un altro oggetto in cui trasfondersi , doveva essere proprio di CO Chi bene sserva trover, che non  quello tanto un errore del- Puomo, quanto della scuola di Porto Reale. 9 lui Dche sttjyponenclolo in uno stato perfetto e intero. La dflrrnza non consisteva se non in ci, che nello stato di na- (orale integrit ed innocenza egli si poteva trasfondere in un essere maggiore di lui e perfettamente eccellente , capace di Ratificarlo; mentre netto stato di disordine e di corruzione, perduta la traccia che a quest^ essere lo conduceva, egli si rovescia naturalmente nelle cose materiali di lui minori, ed in esse vanamente cerca Itf' felicit che non pu giam- mai ritrovare. Il riversarsi e smarrirsi al di fuori d sf nel . Bendo visibile, negli esseri limitati,  il fonte de' suoi errori come de' saoi affanni: giacch  portato a ci da ona fatale speranza ch^ essa stessa  un errore^ e che viene continuamente frustrata, e cosV produce un affanno: que- Ito peso che lo tira , che lo abbandona alle creature , lo abbassa e lo avvilisce al di stto della sua dignit e della sua n2tura primifiva. Ma Taver bisogno d'un essere fuori di s che lo beatifichi^ nel tempo che Io mostra limitato, che lo fa vedere incapace di supplire e soddisfare a se stesso ,  altres il germe della sua grandezza : egli appa* lesa con ci V immensit de' suoi voti , la nobilt della sua destinazione : Puomo, o dir pi tosto qualunque crea- tura intelligente, non  grande se non perch ha un grande oggetto fuori di si a cui intende incessantemente, e nel quale si slancia co' suoi desiderii. Se qualche cosa dentro in noi potesse appagarci , se a noi bastasse quel poco onde la nostra natura si compone; le nostre facolt non avreb- Wro alcuno sviluppo; noi saremmo infinitamente pi& li aitati, pi poveri che non siamo: al pi saremmo uomini-, aa , come dice Voltaire , uomini imbecilli ed insensati. V uomo adunque non ha n pure ad inorgoglire di sua grandezza , se questa nasce dalla sua limitazione: non ha una natura eccellente , se non perch essa non basta a se medesima, e verso un altro grand' essere migliore si spinge fuori di s: l'uomo non  grande, se non perch f%\\  bisognoso. Come per dalla limitazione dell'uomo, da questo bi- sogno ch'egli ha di godere di un oggetto fuori di s e di abbandofitrvisi iDtieramente, avviene fa aaa grandczia, quando pu soddisfarai e pu trovare quelFoggetto s grande che valga ad empire il suo voto , a saziar la sua fame ^ cosi quella limitazione stessa e quel bisogno si cangia in miseria, ove il sublime oggetto che richiede gli sia sot* tratto, e tolta la possibilit di rinvenirlo. . Egli  questo lo stato presente delPaomo che non si vuol giovare de' beni della religione. Iddio  l'oggetto richiesto dal suo cuore ^ quel solo che pu quasi direi compire V umana natura, e toglierle, unendosi ad essa, quella limitazione necessaria, che la rende scontenta di se medesima, e he la spinge , non conoscendo quest' oggetto , a scorrere nelle cose umane e diffondersi in esse cercando sempre, e sempre in vano, u surrogato all' oggetto da lei smarrito, e dai suoi sensi in- teriori scomparso. E in questo stato lo analizzava Pascal. E scegli errava non distinguendo ci che a lui era natu- rale , il bisogno d' uscir da s , con ci che a lui era acqui* sito per un disordine deplorabile in lui avvenuto, la gra- vezza che continuamente lo prostra ed inclina a spargersi "per le creature e a perdersi nei clamorosi sollazzi \ non  per manco vero, manco profondo il fatto osservato da Pascal, quella contraddizione perpetua onde Tuomo mon* dano fugge dalla quiete per gittarsi ad un moto incessante ^ e tuttavia non si d al moto se non per la lusinga d^una quiete futura, balestrato continuamente quiqci e quindi, e sempre ingannato da' suoi desiderii , giacchi la quiete presente egli abborre , ma s' ella  futura la vagheggia , la vede abbellita di felicit, e sperando di conseguirla, per essa affatica. IX. Ma se tale i l'indole del cuore umano, se di due con- trari uno solo pu esser vero, quale de' due avr la ra- gione? quegli che pensa di trovare nel travaglio la feli- cit, o chi se la immagina nella quiete/ L'uno e l'altro, risponde Pascal istesso, suppone, che l'uomo si possa ap- SI pa^r di i, e de* beni sot piteteoU, senza ri.eiBpicre il Tto del suo caore di speranze immagiiiare^ il che  falso. Ecco adunque di d la necessaria conseguenza : quelli che non conoscono ci che fienipie il gran voto del cuore mano , debbono per necessit conchiudere , che V unica felicit dell'uomo consiste nelP illusione* E seguono tutti gli uomini mondani queste illusioni pra- ticamente, come si dicea^ cercando torsi da s, darsi alle cose Tsibili fuori di s, e sperando sempre ne' disegni futuri e neUe intraprese di rinvenire appagamento: e quelli fra questi, che con ingegno pi elevato osservano, che pur mai non lo trovano , ignorando ormai che dirsi f conchin- doQo: appunto in questa continua agitazione di cercare il bene state la felicit delP uomo ^ di questa illusione gio vam la natura per renderlo operativo ; e se T uomo tro vaase qtuiato cerca , dover oire di operare,' e pejc a lui dovere mancare la vita, Qam distinguer ion si debba la vita che sta nel cercare, dalla vita che sta nel godere, e questa a quella non meriti di preporsi. X. Quanto dunque  miserabile il sistema di quelli , che la religione non voglion conoscerei Sono costretti a met- tere la felicit umana nelle illusioni e negl'inganni. Non arrossiscono tuttavia di questo sistema, ma pale* semente, il producono quasi ingegnosa invenzione. Se per confessano, che ogni felicit dell'uomo si contiene in il* lusioui della immaginativa, in fantasimi che a lui sommi* Distrano i sensi , in isperanze da cui viene continuamente ingannato, e che appunto per tale inganno egli si sostiene , vive e opera ^ non confessano dunque , che gli oggetti tutti che loro rimangono (esclusala religione), aono chi* menci e falsi ^ Ma se all'inganno, e alla falsit si abban- donano , e non lo niegano \ non dovrebber vedere, che il contrario del falso  il vero, il contrario dell'inganno la sicortaza ? Perch adunque vogliono pascersi d' inganni 7 ^rch appagtrsi di chimere ? Donandate perch {  ben chiaro. Temon la faccia del vero. Se anmctteMero veri i beni della religione, non riporrebbero ia felicit nelle il* Insoni. Ma dato non si vogliano riconoscere- i|uesti beni, altro non resta che o negare qualunque felicit, o fin^^er- sene una immaginaria. Negare all^ uoom> ogni felicit,  im- possibile^ perch ogni uomo ne sente ia propensione nata con s, ogni uomo la cerca ,#ogni uomo buono o malva* gip, religioso od empio va sempre dietro a quello che stima a s bene, fugge sempte quello che stima male. Coloro dunque che i beni veri della religione non cre- dono , altrove cercarla non possono che ne^ beni terreni. Ma quanto  facile riconoscere, che in tali b^ non v'ha pregio assoluto, ma solo un pregio .immaginario, chimerico, ^ ingannoso  Che cerca ogni uomo l di soddisfare a' desi* derii di sua natura. Ma nessuno coi beni umani non  con- tento mai. -S^iiumagina chi non ha beni di fortuna, che avendo ricchezze, troverebbe in quelle un perfetto appagamento. Le ottenga. Allora si mette in capo , che avendo quel dato , posto, niente pi bramerebbe. Consegua anche quel posto. Tantosto quegli pensa a qualche cosa altro, e di cosa in cosa va ideandosi la felicit colla mente, non la ritrova mai in nessuna delle ottenute, ma la vede e la vaghegpa in quelle che ancor gli mancano. Tutto questo  facilis- simo ad osservare nella vita. I filosofi adunque del^ mondo, che ci considerano in altrui, e provano in se stessi, non sanno pia come spacciarsi. Dovrebber conchiudere , se vo- lessero ascoltare il buon senso e la ragione: Ah non  fatto Tuomo per queste cose, vi debbe essere un* altro ordine di oggetti maggiori di questi visibili , dove V uomo possa soddisfare quesU sua gran facolt di felicitarsi, perch  assurdo che v^ abbia facolt senza scopo. Essi all'incontro, lontani dal conoscere cosa alcuna fuor degli oggetti sensi- bili, conchiudono tutto diversamente, e dicono : La natura fa federe alP uomo di trovare in una e poi in un'altra cosa il suo bene, e' cosi lo inganna sempre: e con questo con- tinuo inganno, con questa continua speranza il sostiene , e il rende felice. - i3 Ebbts vide la cm steist : senti ciie P uqid6 mondano, i/ guaio tatti  suoi beni ripone m questa vita^ non cerca k sua boatitudine cbe in un snccessifo inganno : e non voIcAdo al lutto riconoscere altra specie di beni ^ yen por* tato al sistema di sapporre che lo sperar sempre e V in- gannarsi tempre sia qualche cosa che il renda felice. Ecco le sue parole: u Convien sapere, che la felicita della vita  preacnte non consiste gi nella tradqnillit e nella requie  deiranimo>-*-Non pu vivere colui,  dederii del quale  sieno pervenuti al lor fine, non pi che il possa quegli  di cui i sensi, la memoria sono periti. La felicit .uii tt continuo progresso d^ una cupidigia alleai tra.  i^accj^ui* u sto di ci che prima s bramava^ non  che la via al- ce r acquisto di ci che si brama da poi  (i). U sistema. adunque che ripone. la felicit neUa ^eranea, e che da Ugo Foscolo fu introdotto neJla letteratura ita liana (2), non  gi nuovo: ma egli fu suggerito sempre agli uomini riflessivi dalia natura stessa delle cose , quandi dalla religione ssquo dipartiti e ubarono fde al mondo invisibile. Allora per essi T universit delle cose  ristretta a quanto cade sotto i lor sensi : questo solo  V ambito dentro* al quale qualche uosa per essi esiste, qualche bene che li consoli. Egli  vero che tutto trova ao fragile, tutto illttsoTto: ma possono essi forse negare a se stessi ogni bene? Non gi^ percioccfai noi consente la loro natura, che senza la vista 0 P aspettaiione di qualche bene non potrebbe sostener Resistenza. Ridotti cosi fra questi due estremi, cio fra il bisogno di esistere d^una parte e di ammettere perci una felicit ^ e fra T evidenza dalP altra della impotenza delle visibili cose a felicitarli^ non potendo n fuggire da una parte perch serrati da una legge della natura, n fuggire dall'altra, perch forzati dair evidenza della ragione} non resta loro che di anunettere una feli- ce leviathan, P. I, . XI. C3) In fatti dopo il Camm dei StpoUii t furono ben molti ^ che  piac({uoro di ripetere ed aVudert alle stetae idee. 4 cita illmorit, e apingarc cori tTMiti il lor traviamento da dover credere, clie nella sola illosione conaiaU la fe- licit ) diffinendola un moto eontinuo ^ an pnigtosiD ntor*^ lainable da uoa alPaltra ItuiDghevok capidigia. XI. Ha il sofista 4 Malmesburj, sponendo tin simigllante si* stema, ne reca una pia particolare ragione osi soggiun- gendo :  La causa di questo fatto si  , che P oggetto u deir umano desiderio non pu essere gi con ristretto  che basti siruomo goderne una sola volta e quasi pec  un momento solo di Aempo; ma egli vuole rendersene  sicuro il godimento anche per tutto il tempo futuro.  Laonde le azioni dell'umana volont non tendirioio sla*  mente a procacciarsi il bene, ma ben ancora a render* tf selo certo in perpetuo. Le quali azioni per non proce  dono sempre per la stessa via , per la variet delle' pas u sioni da cui gli uomini sono spinti, e parte ancora per u la differena^a delle opinioni circa le cause da cui il bene ti desiderato pu esser prodotto  (t). In somma un bene sicuro^ immuuMle^ perpHuo desidera Puomo; e non pu renderlo beato a pieno se non un og- getto che sia fornite di queste doti. Le cose umane e vi- sbili, se non avessero che questo solo difetto di essere cio incerte, mutabili e corruttibili, non potrebbero per questo solo esser atte ad accontentare P animo umano, che uno im mutabilmente fisso, e imperdibile oggetto sospira. IVIa il dirle inette a produrre felicit,  cosa impossibile, come dice- vamo, a colui che non ha nulla a sostituire alle medesime, che ci dicendo si nega la possibilit d'esser felice, e si rende assurdo P esistere. Questi adunque si volger a tentare perpetuamente di supplire alPincertezza delle cose col rammassarne quante pi pu, di rimediare alla loro uutabiiit col variarle incessantemente ,' e alla loro corru- p) Leviathan, P. I, . XI. Mue ed :WMfoe dtht Mzktt deUe ,-vefsdiie ide' empire MMW , a|i|citL Man a itIimtalaqciiUf ^ffatjcaB sepza -troYjir mai u tefflpei^.e 4n|vagliar.(^r.c%sa cketmai n pieoq noo gli, riesce n riu8Cf0Mg|i.piiP:y'qiiiiti si guttcf >fin^e^tc.a. saBclttMkne,'ch0:&Uo ateaso bavaglio inces^aote, io qce- ^o.aot, in iinesl'agilBteiie, io . queste perpetuo iogjiniu la natura Jb^oeficat dichiarata tale per disperazione, il tnie dW 'gMmo. att^^al^o via pia iiyianf i , lo liofie 9qcpato ,. divagalo^ iperanaata-, e ^ gK d tutto quel b^e, tutta' 7ieUi| feliciti dr cai egU  jac((ttiMl ma solo un optai aiiniLcao delia feiiert (9)? Non avc ripone Seneca ad insegnare^ CO Plm., ^mpos. , Rh- IV. q. 4. ii) Ariiiot: , Sthi^.y X, 9. F>iis tnim immrtaHu$ Mmi vita kettt^ WtquMi|' ombra di felicit, che a lei era concesso descryere. Peri vedete Epicuro stesso seriamente decretare , che la laorte non s abbia per un male (2), e n pure i dolori e fiUcUattm suam fmdtngna^, Neft^jn^i^ nos #olof 'g^cr^ |r^r^ inviare: jf iftsfi Stilponis obiut^^itor . Epicurus , simiUm UU pocmh. emi^ p- SL cui , iw^uit, %\x\ non videhtub amplis^^ma, licet totius nfuodi dpminus st, tamen miser est -^ Ut'iciat hum ho^ heriU^ . ' . I^'e^t beatvA^^ene e qui non ^tat, . . , , \.\ :*.:; : M vi* - " .:  ;  . - ;  Sogginnge ner^ che i) solo ; sapiente pu credersi beato,  che omnis sfldtia jtahortdyasiiiio sui] con cui egli confessa, che non basta que- sta "opinfbne d. ficitli , ma he bisogna possedeila Teramente. Or ete 9^ ne' aei^ piino pu egli credersi lnetol Non solo cfaft. si fltvde.miseft, ma qiM*gli che pu credersi, tale tten j sppitpo.felio. (a) Epiouro, nelP Epistola a Mepeceo ao^j^iyrv^taci 4a Diogene Laer* zio Jib. X. Efcquisita portx) notia, quod mors nihil perlneat adnos^ prwstatf ut hac vita mortali Jr^amur, no^ quidpiam incerti' temporis adjicikns, ted bupidiiate'm ihiMortdtitatii bjiiiens, Arendo tlta la' fitosoea stMoa per iscojjo' la feWdt, tutti dovettero cercare, ette i'vnmo di9prc9asse la morte, selAene per diverse rie. Sed hoc ibie4 ditatum ab adolescentia tkbct esse, dicea Catane presso Tullio ( />e SettecL XX), mortem ut mgligamus; sine qua mediuuin troi^uilio A^ ^nim9 nemo potest. Ma come potevano ci fare con vere nagioni , ^ fi^. p9ltof((^c#n QpDiooi inoerte, nientre non avevano rralasione cicnF altra vita? Mtle imsert idefitaWi (i);rcfae anzi si ^irdtio piene di heai^ 'i^i^i'teiiia l'ioftfmoj n si cceda (3):.repicureo'Z* none ed' ^AlistppO'- sUsao rolere ^ cbe si ^avazai ne' presnti dttett^ n, si estendanola domani le core ^. ma si rada il. fa* taro dalla mente, acci non vengano molestie. o.ttnon(3)c quasi tuMf gridare^ nella ^ moderazione dei desiderii slajrf la regola de4r ornano 'contentamento: e fai ogni isfqirs^ con pomposi detti per sottrarre Puomo airincastaosay ed alla fallacia- dei beni esterni, dalla quale instabilit e 'in* soffieienza a sasiare^ son tutti amareiggiati, e in veri mali convertiti: per il che que^ Savi costretti ..ai tmvavaoo 4i conefanadere, che se torre potessero alVuomo i mali suoi, crederebbeto- di avergli fatto toccar V estremo della poi- (O Ctc; lusij. dispai., liK'in, 3: Epicuro aidem placet ^ opU rdon mali etgritudintm eie, non natura, ut t/uicumque intUBatur, in aHiquad ntaiut auduaif si i4 ^i^ acdisse opinetur, sii contimi in ^egritudine Vedi la sopraccitata lettera a Meoeoeo preaso Laertip, e Cicerone TViJCu/. lib. Il, e Seneca Epist, 78. (i) Per questo dogma di noa ammetter P inferno, credea Epicaro di lerar dalla vita anuioa il timore; ed eooo come ne vien' lodato da Iiucresio: 1 k Primum Graus homo mortaleis tolUre conCra Est oculos ausus , primuufue obsistere- eontra :  Quem necjamadeumy necJuUmna^ nee nattnti .. . Murmure compressit a^lum, ssd eo magis mertm^ yirtutem irritai animi y confiittgtra ut arcta " 1 '. JPfatwxp primus poriarum claustra cupireU Ma credeva Plutan:o esaere pia facile dificare una citt soUe mihi , ch^ costituire uno stalo senza credenzar delle cose divine (^Contra Coten. ). Onde il rimedio di Epicaro non guarir mai gli utteiai dalla paura. 0) Qicehone (TWc. 1II>, scendo la mente delPepicureo 2eMne, dice: Ehun esse beatum qui prasentibut iH}luptatibu3 Jruo^ttUTf co>tt' ri0SasTquM, sefrmiurum aut in omni aut in magna parte tritai do- ore non interveniente f aut si intervenireii si summus fimei ,fuiumm hrwemf iproduciior, plus haiturum iummdi quam maiif haa^cah ^tTAfTEM ' /ore beatum , prasertim si Anta prmceptis oms * ^^tt^ necmpriem nec Deoa extimasttPtU stbile felicit (i). E Zenone, prin quasi morbis vobdt earers sapiauem. Cie. tib. I jcad,, e da per tutto nelle lettere di Seneca.  13) Cicerone stesse in qnetU sentensa dicea: A maUs mors Mkt^ eit, non a bonis (^DispuL TascuL lib. I ). (4) Seneca, Epist. 75. Non eupidUas nos, non timor pellet ; inagitaii terroribus, incorrupti voluptatibus, nee mortem hombinms, nec ds ; sdemus mortem maIwH non esse, dbs maias kov bssm. Vedi anche He/ra. If,e. XXVII. . '  I : . . Ma perch noor ^- tum hoc quo oontinmmrf et num est et Dems estt et sodi ets H membra sumus. (i) L** orgoglio stoico somigliava al Fariseismo presso gli Ebrei. Queste due sette incinavano agli stessi tzi, essendo somiglianti nellef dottrine y come alleata Giuseppe Ebreo nella sua vita; Qum $me secUL (PharismoramytUi Stoicortun ap%id Gracos maxima est eonsenUnea. ii) In generale gli Stoici medesimi bdo credevano possibile il loro piente fra gli uomini , e distinguevano da hii il ffrofienUf cbe era pcMsibile 9 come da per tutto nelle lettere di Seneca. AHrave per lo ammetCOBO. Jfon estj t/tmet Ocm^ scrive Seneca stesso (^De Constant. Mp. e. V1I>) ife ut soes, kune sapie^tem nostrtmn muquam tiventH- If OH fingimms istud humam ihgefdi vamam decus , nee ingenlem ima* pnemJaUes rei concipimu: sedifuaUm cot^rmamus ExmiBirimtrs et UBtsBttfts. Rarojrntan etc. L^amore alU felicit loro faoea imma- gimiie possibile fuello, che l'amore al vere ler mostrava impossibile. Ilecetsaeiiiiente dovea 1* uohm allora easaare in oontraddirione. (3) Uo dubbio su tutto sMntradnsaeaneke'iMU^iiecademia; mentre cos avea scritto Platone ; ^eritsu prqfieto tum Diis tum homubus dm omnium eet honorum': cuius quifiUs eatustfuejiuurus ett, sta mab ihilio partieeps sse debet, HI in penate plurimmm tempii' iam ogat (^[h ieg, lib. V). Eooeoi di nuovo fra Scilla e Cariddi.  riunite queste sentente non fanno una confeMoee degli antichi, che impossibiie era loro oeooscere'la felicit, a ohe hi felicit da lare da- critta era perci immaginaria f 3o noi (come Apelle^ cbe noti nu6cendd a piafeDe la sqbniiaa ad un cavallo, stizzato gett nel quadro la spugna ove net tavai pennellile questa lasci intorno alla bocca del ;ca- vallo la schiuma egregrameote osprtasa) neg^do di dare assenso ad opinione* aUii^a , cheioscjgni il tranquillo vi- vere, conseguiamo la tranquillit delP ani|Lo fuori, de)le agitazioni di.-qojeali filosofi conten^eftli (i)* r Sicoli tutti gli antichi Savi 0 neUfc opiniooi poneant F.eaaeci felici , o. liegayaoo. poter coaosc che dalla divinit di t{aesto si debba ripetere la diversit de^ s* stemi. Qui autem de summo bono dissentita dice Gicereoe {De fif^^ 3t ck firtt qii^ites^AlMlze netta MUira Mossa del^nonoy 111' altro lume, trovavano cootra^diaione ed ostacolo*. Poich s rintrt^ttt de' lieiii'foto^ aaggervaiqosIFo* miaio , ; .o l'ngam yei , quod animos hominum immhi tdie tue cNdiuf^bmUin rroj fico mihi Auncarroreai; quo dtUctor^ ^*w..' Ci^ Lan9l,.CMeJl)(. . .> . . ; ,i |C)) Vii. \f Q(ie* XI.. Ditme cbe si possa slonufe Ja ipcmte datfii* turo colla for^ {Ielle sposaxioni preseiDti ^ ma cessate queste ^ giacch non possono dprar sempre, come si riterr il pensiere deir avvenire? Epicaro, contraddicendo a qnell sentenza di non pilsar che al pre*' aenle', inftegaa nella ietter A'Menfo diasMMfarsIcoila'meditaxiotie alla morte : pensando, che niente di noi sar pi. Si appaga il nostro aaimo di Gi6?.Ecoa come quesO anioio risponde eoa Cieerooe (^Pa* radox. II) : Mon terri^iUs est iis , ifuorum cum witm anmink estingutmf tur; e nel libro De SenecL e. XXIII osserva, he T amore di lasciara al mondo una gloria di noi  an sentimento chq.ha Toomo della Im* mortalit. dare debent {i)' ' * : r.'v  .. -i .>{;.,. , .^  Ancora il noa potere satollar V igjni^Q^ dcaderip del cuot nostro preeetlaya, la niod^s^figM^ sfi %C4{V|i dico al poeta tcssd usKivitur pofVQs .^ca^m^^ pakiT^uai ^^pUfuUt immensa tenui saUnum. (a)Jla:iiit|vi^o.Up)9r? imi^?^ l.eontrario negli i^nstt degli tiominit^-i^gli^spKwiavji a4.a(yefe! aempre pi^ e {a IoAofii stessa cke era costretta.^ njptkr/o, noni a questa natura.^ ad altri face^.cQa^o^larJa vastifi delPaman cuore, che da nulla s'empie , e tende al sommo ^ e dettava a Senecb, Magna Hgn^rosd resesi nin^ms: humanusz nlts siH poni , nisi eommunes eum Btit rmins patitur{3) i e noti s contentava per nulla 'di ifp^a feliciu negativ^i, e condanna^va altrove quella sentenza, Omni.pmaiioM dahrif -^terminari swnvtfim vo^Uk-^ tem {i^)ymai aggnsafSi'st beai reali e^poailjv; e diceva,* laprrazion del dolore esser comiine colle* pietre '*e -con tutti gli esseri privati di sen^o, * distinguersi da tutto il mondo la vpce piacere da quella ai privazion ili Solor^' perch conchiiide^^ con Tullio^ ^uf Epi4iru4r,,qf^idt^sjit volaptasy^iamnes morialesquiuii^uesantyAes^iuU (5)J N qiiegK'Scetfid\ osservatori di tadte eontrddiEotii e di tante ineettezze' nella natura i^^ e hll ragione, tro- varono partito miglidre col sostenere rsscnso da oghi sen- tcn^:. dacch Jnsiaigaii d'evitare gjli. scogli,, che quinci, e, quindi vedevano possi dalla no8tca Seneca Ep. CU. (4)Cic Defin,\h, I,c. XI. e/&t. lib.ll,c. III. 33 Pirrotif^ quando segava il .vero^ irtttj et bummwji hoscjntum. Cicerone, De fin, , lib. V , e. VII, dico, che la prudenza della vita dipende dal sapere il fine dei beni, il quale consiste in d, he il primo di tutti ioTiti a se Tappetilo dell'anima} dice appresso: ttafity ut, quanta differentia est in principiis naturaUus , tanta sit in finibus honorum mahrum^ que dUsimiitudo; cio, quante sono le prop rifa un>iinmaginario rimedio? Se  dunque reale il retiti- mento , che nelP anima noatn dimaodU fe^thr^' ab fe- licit reale ai richiede per satollarlo. XV. .. 1-.  Ma voi altri, che vi date taoto al fantasticare, vai altri che disperate della felicit, e aaaerrte gravemente^ ilPome esser solamente conceduta una lusinga di lei , un^Msbra che sempre sMosegae e non si raggiunge mai; vi che* per- ci con una disconostenaa inaudita verso lanatmraye-verso Dio, nominate falso e mensogtiero il seotimentb, eh^'^alla felicit sprona tutti i mortali^ sapete voi a quali conseguente reca il vostro sciagurato sistema ? sapete vei che cor ci tron* cate fino'dalla radice qualunque amore virtuoso, qvialunque nobile passione^ rendete bugiarde tutte le virt, e indegne perci che a loro si dia retta (i)^ N certo vi sar uomo*, (i) Lett al Pmid. Bisletherbes (s6 geirn. 176'). L'illusione e r inperCezionf di tutti i piaceri del mondo  cos Tillenlf^ die apehf dai pi mondani filosofi si confessa. Che elogio non fa-Di4^rol (.Ved. Philosophie ancienne et moderne par H. Naigeon^ art Dide- rot. )y come a una gran verit^ a quel detto di Lucrezio medio de Jhnte 'Upo Siurgit amari aiquid qm4 vhe con annK> btn ^Uspoato amerete voi la patria ciif aiief tenete in.'ipii i sentimenti doieiasimi della fattiglia,7 gii affetti di padre, di '.aposo 7 che coltimete le difiqc virt della benecenaai[,. deiramicizia , e di lina tenera compas- sione /che trova il ano bene nel mescere ir proprie lagrime con quelle ei miaaii? CI tare io affreava il pasto e misura che mi avvicinava eX fine del u mio viaggio: 'rgg e scrivo R e natie:  qusto 'Punico mw-cdrf* u /rto. Oh ocM' ttii sono gravi pe^le t^egUe^ la mia mano 4 stanca u sK scriver, eM tmo cuore  tonsum^io dal(e,cure^ Bramo di essere u CQ^oscMSt/9 d ffosur^ i fpvp, ci non mi venga fiM^t suro cono- u sciato dal mio secolo, o almeno dagli amici miei. Sarei skUo pago u di poter io conoscere me stesso f,ma in questo non riuscir mai n Dopo di ci il Postolo immediatamrnte soggiunge  k chp pr'' ona u riHa cosi spesa?, a cpal ftnetaBie notti vigilate, e tamil giorni li la- a boriosi ? tanti saggi di n nobila genio, e d; un onora bene^lon? Cosi bisogna che dimandi il segnace del sistema della speranna ttu- soria: egli non pu vedere nn fine, un premio della Tirt; questa' drvenU un trtiviglio ^atnilo, una soHeitodiae' vems hsebsati: Per nna eooUuddisiBe peii ssmi fsHcis o safol II rsaeMoutAgti slessb nellii prattaH MO isteaiat s^^mcW oi laan pin siiggf delle eoe f- Iklke letterarie^ dove wh menar appariso un gmO|ardentoli molta contenzione a sforao di spirito ooii Ut natura ricalcitm aA governo deHa ragione trarlata.  (t)  iittposfibile Ae L'uomo non ai la verM^. Goiie ^sque malti eridensKpte la odiftao? Ho ncontiatA, TsjMinde Ay^stinoy ^ben molti, ebe, voWno.iogannare; nessuno mas che volesse Siert tt ingannato.*-- La ii{eiti si ama in modo tale, che tutti qaellhe tt imano qualcosa altro fuori* di. lei, vorrebbero ohe ciniche diano tt fosse la rarit: e non volendo csserai ingannati y moatrano coA ei di na Toler n pure ifev- UifutMUfannatori; Onde odiano hi verit par iitili altrui, nestreiaegate la atessa utilit? Che se rptete,>neDMo|^aarsl appunto ctooststoie V utile; la vostra eneficema. dunque si.cidurri in ttn^arte d^ ingannare gli aitar. Cb aoUit pertanto di simtire. po- tr in voi essere^ se le pi belle virt siete astaettildi avffle per frodi ? e chi con questo nero concetto della virt si chiamer virtuoso , se anche ne esercitasse gli atti este- riori? Ma non pu esercitarli senza lipugo^za. Non pu adunque un uomo, pieno delle vostre chimere ,. ae. con se stejtso consente , sentir aua le pure sensaaibni delta virt; ma essa gli 'dovr parere sempre cosa odisa, nauseante, putrida. 0 dovete adunque depoir P inganno, 0 tibuttare da voi come una ipocrisia della natura ogni santissimo ambre di lei.  appena che vi sentita sorgere i pijimi moti e nr iti a iir*bie agli altri, aeeodo il vostro aiatema dovete (i> JSri librJMrino MitolslO lUumt IttUn^.i Mcopo.Oriis, lUutort Imi 4e8elcitto si yIvo!} SmmUmim^ftOtU eh psmofie smoroM ia a 9MTaiietAaBiiente.f li uomini per T ardore di e  sere- riamate, saranno sempre Tittime tordi pontile della lofo \  credulit 9. 9 rifuinlarl  r pirla del wto, e Cfr.tii* i^j., che ia lui tolo.  ir Miro beii. Si rinfim (n. U plebe nel gmdino intoni tlk felici^ (cio oC^ra al tetto dell' Mmo) i pi saggio, ed  pia ghitto del 6h^ Mfo spoglio di reltgwie, 0 ta^clM fibaofo ti diMmi^ aedito ^piesto cose^ e A tu stoSM se, cladend Prec* ckio alla Matara, non li metti sotto ai pi A ignorante dei. Aoftali ! pcrdKB dificile non  aU^aoBio pi ignonurie^iw- dere, che io non pooso eradtf Woe quello ^ cbe viro .no, iredo^  se piesto  nn ercore, crrisaio pure bnvelD* ticri, memve enra eoa -noi Um^ura^ii geaero* imbabo (), ma con noi U Venta. .,j: ;. XIX. Ma ie i^gltni vedere cdnie afeono possa gnogefe a qael penaste Cosi rovescio, che il & cjirnefee di se stesso} a noi bis6gn' discendese nel fondo d^i aniali, e cercare le moHe segrete che M maovooo^ E non  dobbio elcan che V Orgoglio e la * Libidine sieno le piA potenti forte inianislie deir amanita {%).* Pei* che Otto apj^to corranone del principio pi nobile,  del principio pie doke dell^ nomo r cio POrgogK^  orrniioiia del deatderip di altessa , ' e Iti 'Libidine  corninone AA desiderio di godimento. E qaanio migliore  ki cbsa ohe ci corrdmpe,' tanto  peggiorer corvueions di li^ clfti di quella porte deiruomo ^ che pM gK  eslsle, bia^^ rtmenfo  pi& funesto il cor^otnpi mento: conle anche ogpitlio^ vede nel corpo nman, che il guasto d'un piede n^  si grave cosa come quello del petto* o dei visceriy E perch 'quel nobilissimo*desiderio di sitesa allora I' corrotto, che ad una ltezaa Cilsa ci reca; e quel eoa (0 Con$uliku stf ti rrandimk es^ tfuod cum ipt9 mre hum^n^. "rare pidtamur, S. Aug. De ud. crtd. e. VII. CO QaesU coMy essendo stata sempre, fu anche sempre conosciuta. Cosi dieetttfS^ Glo. Griaostono (Jin MtUk. Hom. LXXa)t /UUiite- srm; cmum inereduUiais ut, rtTd nempe coBMUPtJdf et 4t.tM jaMs Opusc. FU. T. II. e viBsimo dcrierio di godimeirto pmneote  guito, qiMda ci porte ad un falso godimeato: gli  di ncccniil, be se queste due tendesse in ooi si coirottpoiio , >deMa^ avere degli oggetti illasorii ed apparenti: e qatadi tiaaec che in. quest fabi beai alcuno si apinga. A^eoc ancora, che da coloro, i quali hanno ingegno pi perspicace ,  viconoaeano qne' beni per falsi ed illasorii ^ e quindi, o  abbandonano ae tanto vigore ha in loro la rsa del lero^  ^i$i Luxuriam uuun in PhUosopkUe simi ^hHmuim$, SeDeciyi)F. kmUk, .  a finir qtiril vanto; Taonio gi  sovrertito^, t eome fnri Aimico dtV amverso. E se d queste beke mafiie a vantaggioso nudrre i mondo, Pins^gnao i principi sbatzat dai troni, e la societ di tanti popoli orribiimcvte confusa. XX. Che se i veicoli ne piace trascorrere per cui si arriva a tal fondo ,  da sapere , che POrgoglio e PAmore disor- dinato irretiscono con piacere di tale indole, che pad cre- scere a grandissimo termine. L* orgoglio gode di nna grandezza immaginata: e cosi queir amore gode non solo della sensazione corporea at taale'(che forse  la cosa minore, perchi sola e mornen* tanca), ma cP infiniti icfofi di bellezza, dt fusin/^he tenaci sime, di desfderff e sperane petulantissime. Poich sebbene tutte It creature della immaginativa sieno o richiami delie godute sensazioni, o immagini delle aspettate; tuttavia queste sono pia (orti , o pi tenaci almanco di quelle stessei non sol perch si moltiplicano al sommo, in ogni parte perseguono , e da per tutto' rinvengono nutrimento , ma ben ancora perch a discrezione delP avidissima fantasia elle s^ ingrandiscono, e si rinforzano: ^i guisa che qusl piacere, che goduto  come' uno, sperato e indoleggato diviene come cento , e come mille. Quindi il diletto del- F amore cosi vivo, cosi moltiplica ^ cosi rinascente, cos necessario alP uomo che se n'  reso schiavo , viene tolto da quest'uomo per h sola felicit^ e dalPistante che la felicit umana non si vede e non si trova altrove che in questa specie di amore, e tutta in essa si chiude, forz'  che al- meno col tempo P uomo riconosca che tutta la sua felicit  illusoria e sfuggevole , com'  illusorio e sfuggevole quel VITO diletto nel quale egli la fa consistere (i). E in questa (0 Confessa Io ttes Ugo Foscolo rabhandoDO necessario che hi d* suoi seguaci una speranza illusoria posta nelPamore, cosi parlando 4i tfutania aeiw ceoigewi vflgoa a netteni ippaai pec ft m^vilP^nto turale dfl Uro anrno e de' Ijorcf pepsieri, 4i cui OOP ctnoscoQO le coDRgipfnsei^gli uqidui die. alla dolceMI ddU easibli c^ ^affeiionano ed in quella auasi diattenti alcuna volta si soffermano. Sicch non i a stupire se la societ del prigioniero di S. Elena dopo aver letto un tratto della Nuova Eloisa discorrendo^ come avviene, conversevolmente delP amore, conchiudesle che' m 1! amore perCptto er^ la felicit ideale, che s Pano che m TalUa erano egualmente aerei, egualmente fuggiti^ # u egualmeiiiU miafterioii , eguaimcole injesplicahiU.' (t). XXI. La felicit riposU nelPamore dell^ltrt H9U i una aen- tenza di tetU V antica poesia , eove pure la confessione deir illusioiie si di quesU che di quello. LUwed^ra di Psiche^ applicata 4a^ poeti greci agli amori uiMtfii, coutieoe la Slesia dottrina 5. che un elegantf scrittore, descrivendo quella Civola dipinta da loascenzo^ Fvaucucci nel Casino della Viola di Ferrara, cosi espone: u Que^ trovatori di  favoleggiato senno C0i^ideraf. Seggi sul Porareay pag. 327. Per altro il Petrarca ebbe sempre anche ne' snoi vaneggiamenti una sponda a cui attenersi , nella religione, e non darsi gi in queir abisso ve condurre V avrebbe potuto la sua seguace passione. 0) Las Cases, Memorial de Stante- Hlne , T, l, 7 De. 181 5. 45 u mdo ftU'iuftika m^ltkiidiiie cbc si stoplsce alle pene, ff alle inosUn9e,ai pfntmenti di lui, si stupisce allWio tf o.ai dispretzo 4: al vergognaisi clie lo accompa^^naiu) 0 a gli succedono,: si stupisce in vano , e non conosce la tf natura di amore. Essi con beiiissimo avvertimento ce la tf mostrarono in quella favola di Psiche, ossia delP anima *t inoamorata : dove ci rivelarono , Amore non esser altro  che illusione, colla quale ci figuriamo delP amata per- ir aooa mille beai. E petch' malagevolmente pu questa e illusione trovarsi aguale ad un medesimo tempo in due^ if quindi rarissimo Tamore ptenamente ed ugualmente re-  ciproco. Tanto poi maggiore la dffiiolt che alla iUn* a sione succeda nello stesso punto in entrambi il disin* ' Iranno: qumdi A dolore e i lamenti deU\io(eUcissimo , m che dofo il ravvedersi deir altro si continua all^ amato U' errore.  secondo .queste inteozioni dicevano di Psiche,  bellissima e semplicissima giovinetta , che avendo sprtito  no spasa giocondissimo , il proprio figliuolo della bel*  lessa , sbbe da lui precetto che stesse contenta al go-  derlo, fuggisse di conoscerlo; ed appena P incauta cu- u riosit vide, ed esplorato con attenta lucerna conobbe e l'aatoffe di tanti diletti, Pamore crucciato battendo Pali  faggi. In vano s affatic la dolorosa fanciulla^ di rte-  nerlo pei piedi* Ella cadde. E le furono intorno tre an- te celle della madre di Amore^ AiWJtfmuoiUy Malinconia^ a Inquietudine y che maligne tormentavano la poverina.  Cosi la favola fiivoleggii di Amore, il cui impero qnasi  non evitabile a ninaa giovent, spesso tiranneggia Peta  dedite alla pandenaa, alP ambiaione , alP avarzia .  ad ingrandire P idolo di quesP amore illusorio e Pim* maginato godimento opera tutto il sentire delPuomo, per altro nobilissima prerogativa^ si^ quello che viene dalla vivacit de^ sensi , aia dall' abbondanza della fantasia , o sia dal pensare medesimo per altro nobile , eccellente^ vi** goroso. Poich quegli che pia sentir 0 le sensazioni cor- poree, o le immagini della bellezza interna ed esterna, o le ragioni dello stesso pensare filosofico) che sopra di quelle accresce luce; questi avr pia metri di mpiilicsBii fj^m magtnati godimenti , e modi di retiderseli pie credibili , pi antoreToli^ e fino (con eccesso d'Uiganno) augusti e sacri.  non sono i titoli di aagvsti  sacri , dTni ^ cbe essi danno ai pia stemperati amori? XXII. Lo stesso aumento del bene idoleggiato soccele per fona di fanUsia nella passione delP ambinone e delP orgoglio. Prestano aiuto aiP immaginaria grandezza delPamUsioso o del superbo tutte le sue intellettuali potenze, la forza del P ingegno massimamente col corredo delle sue cognizioni: sicch quale bs pi dMntdletto e di sctenza , tale ha pi modo di amplificarsi e scolpirsi e rendere a se mederimo verisimile la immaginata eccellenza di se stesso , p proba* bile il concupito ingrandimento. Ma quanto  poi facile riconoaeeme PiUttStoiie?  Il  suo matrimonio, dice Las Cases dei pi fortunato guer* cr riero de' nostri tempi,. era P ultimo tratto della for* u tuna: d^ allora egli non aveva avuto altro malcontento,  se non quello che nasccvi^U dal non esseve soddisfatta a P ambizione, ci che si trova in tutte le classi, o quat  che vegliardo intrattabile, o vecchia femmina piangente  la sua passata influenza  (i). Ma pi delP ambizione P orgoglio, pi di una immagi* naria grande/za fabbricata e immaginata nelle cose este- riori sovverte Puomo la baldanza interiore, quella cupa per- suasione di una eccellenza tutta sua propria ed indipendente da quanto  al di fuori. Quanto  tristo, quanto  labo- rioso questo inganno che PorgogKoso ingegnosamente tesse a se stesso^ altrettanto  sottile, e come una tela di ragno ai propri occhi si squarcia in alcuni momenti riposati nei quali Puomo stanco  visitato e sorpreso quari direi dalla Verit, che anche dopo molte ripulse ritorna. (0 Memorial de SahUe-Hlne^ T. I, i6 Kov. i9i5. 47 XXDL Ma col lungo miftere^ col costante rifiuto di quella anoreTole visitatrice , diventano certi uomini , a cui grande ingegno e grande sentimento accresce la miseria, cosi eb- bri e cesi firiliottdi nella doppia . passione ^ che a s. non veggono pi Scampo (, n a  s^ dato per intiero ad ma cosa, non ha pia io s vigore per altra ^ essi giovano a s medesimi di volere in quelli. alare io eterno, e aumentarsi quegli spassi, che in loro hanno presa tutta la. signoria, ed hanno occupata ogni parte del loro cuore* Onde non gustando , n per conoscendo piacere veruno fuori che. i loro, U negano tutt^ e percM escludono h vel^^one, die appunto, stabilisee ima pienena' di piaceri ila quelli divani: e jier^ eh a loro niente  ptA assurdo d inconcepibile, quanto altri piaceri (2) ^ perci quella Religione , che ipsegoa la beatitudine, essi la chiamano assurda ^ e la condannano come quella che renda gli uoojiqi tristi, mettendo -freno ai piaceri loro f ed iamascherandolL Sicch di l appunto donde dovrebbe essere la religione amatissima come ap- portatrice d^ogn bene,  odiata al sommo come crudia e nimica ! E tal diventa V uomo infedele , giudicando men* zognera la religione perch, stabilisce dei beni da lui non 0) Ia iMsrione del wnto  quell cke pi avviliioe P omo 0 def^rada. Dovrebbe pere anefae umilierlo $ e pure fk qa enpre il contruio. Il diifolnlo confesaa la tua debolema, e a oulrrla io* steme d'or^pn^lio. u Nob pure  quasi impoMibile, dice egli, retiitere.  alle attratiTe di bella donna ; ma non y'  che un imbecille che ri o pOMa Tcnstere i>. leti, CabaL^ T. IV.  Gonfesaano aempra che etti non intendono i beni della wligione { cbumaogli inoonoepibiii , e di coi non t^ abbia idea veruna, eone ti ^^S8 non si afIi colla ragione d' un sano : e questo dire  egli forse ingiusto ? Non vi sono adunque delle regole nella ragione, per cui si pu federe se quanto si fa e si dice sia ad essa conforme o difforme l .Per tal modo  vero e chiarissimo che quelli vaneggiano, e hanno un sentire e un immaginare ammor- baio che fa lor sentire e vedere diverso dal veto: e vero  , che meritano compassione di si enorme paazia : e vero per  ancora , che se egli Ut conoscono^ dovrebbero amane la mediana e Ja salute*  se non vogliono esser eondao* nati j come non si condanna ichi ha una febbre ( a loro atessi per m'appello se pura sia la volont nell'acquistare s fatta Cebbre ) ; almeno amar dovrebbero d' essere com passionati e oompianti(i). Ma se U compiangete, vi dicono scimunito. E questo appunto  l'effetto del male, non d'un male del corpo (si noti), ma di un morbo dell'anima. Anzi che si pu dire di pi miserando, se questo morbo dell' anima ha la sede sua nella volont , cio in quella parte che presiede alio scegliere delle cose, e al determi- nare il bene e il male/ Onde chi pu negare, che s'essi (i) Alicuni scusano le eccessive passiooi col dire che sono una feb- bre. Cosi rIvezio Dello Spirilo, e P autore delle citate Lettere del- r Ortis. Anche S. Ambrogio conviene con essi a Ftbris  Gli artifici degli uomini malvagi sono gi tatti onoidnti e svelati in millcn anco ch'egli  si grande , $i eccelso^ si dieao, che se potassero inie i contpmsto e invaderio^ avrebbero una vittoria di cui non saprebbero immagiaara la maggiore* Impotenti sforai l voi ricadete seoipre sopra voi sterni, vi trucidate colle proprie maut, stabilite solidi simameole quel Cielo cbe vorreste annullare l Non sapendo dunque come vofgersi per torsird^attorao lo spavento che li pcrsegoe, non pongono per gi la Spe* rama, eziandio che nel fondo dell'animo la sentano smen^ tta e confosa#  per questo tal gente si pronta ed avida a* nuovi si* sterni scientifici, che ad ogni voce di novit nelle dottrine, pare che loro baleni un raggio di inta nel cuore, lusingati di ritrovare sempre nel nuovo la condanna del veediio viao^ e qualche opinione o scoperta cbe li giustifichi, o almeno alcuna apparenza cbe li sostenga colla maschera del sofi (0 Lueresio, lib. I. Jtque, dice S. CtprADO (/> idol uanit,^ hac t9t summa kUey mllm jghoscme qnm oxomjme o mssss^ Qpusc. FiL T. IL 8 sma^ e iBufo  mondo cosi por no poco prolnggi la loio infamia. Por queito stoaio i eattoKci vori vc^i li vedete p coDtiderati e aggi nel disaminare, p knti neirab* bracciare opioiooi sulle quali il tempo non ha recato sen- tenza y e scevri 4a quella smama pr le alraneise sdenti- fiche e per gb assurdi che ricompariscono ogni giorno in vestito nuovo e con maniere spesso seducentissime. Quo* gli che  appagato e contento dei proprio sislema non pu& esser inquielo e fomeKco di qualche altro. E se di solita li veggono gP increduli essere in suIF avvilire plcheiamente i placiti (Uesofici del tempo addietro, ( petchi pia in quelli non si nutre )a Speranza di una vera od apparente apo* logia: essendo dalP universale gi o provati vori e cosi 4 loro sfavorevoli, o nascherati , se Clsi, e cos loro non favorevoli. Por tanto il mutare ogni giorno' dogmi filoso&Q  una confessione quotidiana che fanno deU' ignoranza e dello scontento che loro opportuna sempre le proprie opnionL Ma oh leggieri tanto , che come foglie sempre vi mena un* aura di speranza &Uace ! confidate dunque negP ingegni degli nomini , che vi daranna principii a giustificare e rappattumare voi con voi stessi, e a torvi il timore che v' agita , mentre vedete , che quanti uo- mini al proprio intelletto s^aQidano , tanti eorsi prendono per arrivare al luogo stesso, e nessuno v^ arriva mai? e se fra le tante contraddizioni a sistemi nuovi ve n^ avesse pur uno capace d^acquetsre Paniino umano; perch, non fu scello ancora^ 0 perch non lo scegliete tutti unanimi^ ma vi partite in quella vece secondo mUe diverse lusinghe? Se ciascuno vanta il suo pensare , chi avr ragione? Non vuol dire che se tutti differite gli uni dagli altri , gP in- telletti vostri non sono valevoli a reggervi? cheijerrate ten tone senza guida e lume 7 dacch quando una stella co- stante serrisse a voi altri di conduttrice, n^andrestea corso uniforme : ed  chi erra H>certo , e non ha regola n co* gnizioQ di via , che pef mille andirivieni lontano ai aggira smarrito. Debole speranza pu esser quella che uomo ap- poggia al suo ingegno! Un tale barcoller sempre a caso^ e senza la religione  peggio assai che nave al Tento af- fidala, dacch il^favore dell' aria la puA sospngere a riva: ffla aclasa k religione ^ esclnde T ingegno vostro tannico vento a s propisio. Vale Piligcgno pel vero , e non il vero per P in^gno. Tolta per la religione alF ingegno,  come 1 occhio privato delia Ince. Egli non vi giover a niente: non v'insegner ai la maniera di ammansar la paara, per- ch sebbene la cerchiate sempre, sempre ancora la esclndete, rifaggendo da Dio (i). Poich donde nasce ella questa paura se non daHa Divinit offesa f voi l offendete^ e poi coMro di lei cercate uno scherno. Ecco la sorgente d'ogni timore , e la ragione d 4{aeUa confessioni spontanee onde ?! dichia* rate a4- un tempo aenz'avvedervene e colpevoli e timorosi ^ com' ^ ipiesta del Militare Filosofi} che trova impossibile Fartiar Dio , e che dimanda  E come potrei amare nn a Signore dei gaale io debbo infinifameote pid temer che  sperare j (a)? IV. In 6tti gli Umini. iireBgioal sentitono sempre dentro a se stessi questo timore enorme* Essi giammai non sono cosi eloquenti come qnando ra- gionano di Ini : ce lo dipingono A come belt orribile che inferocisce nell^uman genere. Che dice per opposito l'd- man genere ? che dicono i buoni intomo a Dio  Voi ve- drete mai sempre j quanto  Puom pia perverso | pi esa- gerare il timore che la Divinit ingerisce air uomo: e quanto  Tuom pi retto e pi pio, pi Cavellarvi di soavi consolazini, di non mendaci speranze^ che deduce dal medesimo fonte. Ecco T Epicuro romano che cosi canta ' Praeterea, cui non animus formidinc diputn ' Contrahiiur? cui non conrepunt membm pauorty (0 IHxenirtf i>eo: Mectd a nMs. Job. jXl. 6o Falminis horribiti cum phga iorrin uUui Coniremit, ei magnum pereurruni murmum icoelum f Non populiy gentesque tremunt ? regesqu supai Cnripiunt divum perculsi membra timore ^ Ne quod o admissum foedcy didumve superbe Poenarum gfwe sk sohendi tempus adaetiun {i)f Ecco Didrrot sserirvi u II pensate che non vi  Dio non e ha nai spavenUto nessuno^ bens il pensare che ve n^  uno tal quale si propone dalla fede  {i). Sentite voi in queste parole come lo spavento che hanno al solo pen- siero d^ un Dio, ^ la cagione che muove a negarlo? Ma il negarlo , il pensare che non vi sia non ha m spaven- tato nessuno ! qnesto pensiero 6glio dd timoie non i egU quello che lo accresce, die ne rende incalcolabili le Sae Ibrse? S)^ il pensare che non vi ^ Dio genera il timore^ non un timor dolce , ma un timor disperato di Do^ come lo genera sempre il delitto. Le stesse cose dalPautore del Sistema della Natura^ e da tutti quasi gP increduli si ri* petono (3). Le loro descritioni* del terrore della Divinit dimostrano n^ animo .silerrita. Ma mentre asseriscono costoro da un canto con inore dtfail franchccca^ che tutto U mondo si giace miserabile setto questo ferreo pavento \ non sentite voi dalF altro Puomo retto e trtaoso^) che nel suo Dio ha tutte le sue rcchesee ed i uoi 4sifocti? I.pi& onesti fra gli stessi gea* 0) Lib. V, V. 1217. (2) Penst Philosophique , n. 9. (3) P. II e. I e III. Il Raynal d molti luoghi fa pittare nerissime  4i bi]i->. Vedi e. XIX della tua Sioria filosofica e politica eoe. Simili terrori t^ incontrano per tutto nel P opere di questi pavidi eroi: e singolarmente nelle Bioerche sul dispotismo omenlale p che si pu in v^ero chiamare un monumento innalsato alla tristezza ed alk) spaventa. 6i tib TI spingono IddUo colpii mabifi colori: yi parbiife tldia sua ptoTridehia iopra ikll^nomo on amaiirabiU d scrisioni. Ve lo Kceno Jbaono, g^neroto , ienefioentiiMio (i)f a imitarlo vi apronano {%) ^ e yr iosno nangnaTano^ die JoveVa ossero IP uomo g usto ia morte dolco perch V aira cogli Dei (i), Vlatone se e andava ancora piA innanzi, e nei godimento di i>ip lipooeva la felicit (4)* Ho  dttn J^ol. J>er^1ib. II ddxx ) rimo la fioe. . (a) Era fpraocllo cpedaloMole 4e(U Stoiei TMutaiiofM 4 Dm, onte 91 pu vedere in Seneca, in Cieevonei id Apnlek oc, cke tOer* maVano-, Dio fare ielaneate del bene, e non noocera a vernno. An* ohe Platone, e prima l'ilagara InsegnaTtno Vimiimct di Diot e tt Vangelo ci eomaoda Zar del bene  tatti 4i appunto, dice, perdi u anche il voitio Padre elette fa orsere il ole tanto so^ buoni che m tu^ cattivi (.MMUh. V). XJuelli ee u meritano j/i aitifo, ricooo- aoio ^Innqae il male da te tetti (S) y. il Fedone di Platone, ed il Sogno di Stipiant o a libra Detta veodu%9a di Cicerone. Fra fjL Stoici alenai tenevano, che r anima umana si ricongiongette , ttaocata dal -corpo, a Hio, di ni U facevano parte. Laerxio lib. VII , Cic Tute, l tea , Cf) PUaoniei dkcnral, beatwm #j hominem fitunUm Dto, non l'cait torpore i^tl stipao fivitur animus , aui sictU amicut amico ; sed cnt btce oaUus. Aug. lib. VII! De C D, Vedi Platone nel Timeo. (S) Indirsaarooo tempre oottoro le loro tpeculazioni filotofiehe a rnTenire nn modo di torti- la paora della Diyinitii; perch qaetta  idea per Joro di feUdtli, ettsr liberati dal timore Giordano Brani, 6% btti altro scopo noti avte in tali $km che di alleggerire 01 stessi della paura: sapete to quaoto caro coalerebbe al ttMiiido quel bene ridicole, che volete fare a voi stessi t quanti cooforti toimte vq^ agP infelici, quanti sollievi a^ giusti, quanti rifiigi agP innocenti perseguitati, togliendo via la Religione? L^uomo virtuoso, che fedele. aUa giustiiia rha sostenuta nella sua vita, Pha difesa, P ha preferita a tutti i beni della terra, vede con. occhio imperterrilo ^ ami con viso ridente (nerela credensa d^un giusto Dio) il punto della sua aorte, come il punto dal gttiderdone'{i); prefionore de^ moderni  nel libro della Cmim , principio ^ ed uno (^y inezia i584), confessa anch'agli d'avere volto il tisieilia suo a torre la paura delV inferno, a attesoch, dic^, lei toglie il fosco velo  del passo sentimento rca POrco, e P avaro Caronte, onde il pi  dolce della nostra vita ne rape e avrelna n. Tatto il Sistema della Kamraf e i libri simili a  , lutt non liberavano punto da questa paura, e che ami erano la sor- gente di leti e per questo le condannava (V. Laert. in Epicuro, e Cie. De Fin. lib. t): l dove ai novelli Epieofel piace U principio, e non la conseguenta. Ma quando animettestero la conaeguenta, non importerebbe loro pia niente i quel principio. Cosi sono condannati a contraddirsi sempre Differisce ancom V autore del Sistemm delle Naturm da Epicuro beH^ ammettere una necessit , di coi Mirabeau rende sebiavo Puomo con tutte Piltre cose (par. I, o. XIV). Epicuro aiP incontro teder, che questo altres era un contraddirsi: e- che se si temevano gli Dei, che si possono fendere amici col ben fare, o phar ed* preghi; molto pA si -debbo temere una neoeaiit sorda ed inesorabile. V. la lett a Meneceo, e i Gomentar a questo luogo del Oassendo. ' (i) La Natura ingannerebbe Puomo giusto, che nelPintiOfo senso ^i promette Un premio della sua wiit forte nelle persecusioni. Non dispiaceranno di sentire a questo proposito i bei veni laUni di Aonio Paletrio, De hrim. Jnimor. lib. II, v. 4i3. jtf n uen> tot muneribus fiUciter enetuM Ifet/dapiom , ad lacrjnaas tantum natura tuUaet HUmahum geniti f 6 e qami^ al mortale^ aiPappieatare^di quel terribil lao* menCo, vengooo meno tutt^ le cose j e s aaoera la laoe ^ e ceata b ItHnga di tatti i heni,  Mote a poco a poco r abbaii4oDO voiversak : ah oottCorto iinica e potenlissimo il penaiere e la sicureiaa di naacere alkra aUaia appunto ad una Tta nuova, e ala|rik| e iieata etemamestc! Fino io queato istante ultiaio acoompagaa la Religiose V uomo infelice, e terge le lagrime degli occhi suoi: e gli dice negli orecchi con tocc autorevole, oonsolntisttma, di ri- pararlo fra unvpoeo a dovizia di tutti i torti soateputi, di tutte le ingiu9tbio jofikrte, di tutte le angosoie di questo vivere mortifero e travagliato. Quale v^ avr dunque vicenda nella vita delPuomo misero, cod rea, sopra eui la Reli- gione non isparga un balsamo divino? Ma qnal conforta avr il mortale giusto -e infelice dal filosofesche domanda;   che potreble dirsi del nostro aspettare Fimmort^ tf lit, che tutto non sia compreso p spiegatc AeUa e^ ft> gueole invoca^nonf della Spe^uiza?    a Assisa, o Dea, sorriderai sicura V Su le rovine, e atlumerai tua face  i^ la funerea pira db Natura  (t). Vedi per tanto, o incredulo, quanto male tu fai al monda per torre a te una molestia! tu levi agli infelici ogni con* forto: tu introduci nella terra la dispecazione, Oon quanta barbarie adooi confiwid e' vi amiDtttolisces Voi non sa- pete aodalr nnansi fta plesso nello spiqpre la tt$akvLk e l^artificio del minimo 4e^ suoi predirtli^ non feiftte tispod^ dere al tninimo quesito die ti propone^ e (fui hanm fine le Yostfe ventose declamazioni. Vllf. Quando adunque vantate , che il timotv a to sisgonl'* bra datr animo perch conoscete la natura, e sapete spie gare i fenomeni di lei; allora mostrale appnnto ^ non conoscerla niente anche per^iqaeslo solo, olle anpponele possibile liei petto di un. uomo pottcsi osotenere le lio^ chea^e delb scienau delt^nitvaso^ poidr su non le avete in voi raccolte t(|e , gi vi wstaiiu delle cose acofa a spiegare. . ' Ita v^ ha di pi. tn qocMa tessa speransa che avete di. trovare cosa che tolga a voi il timor di Dio collo studio naturale, mostrate dMgnoftre al tiitto P indole di questo studio , e la logica si sana e retta , per cui i moidenri dotti (espulse le ipotesi) s sono veramente inoltrati nella scoperta di molti fenfheni -e loro leggi. Sappiate dunque che per quanto s^ osserva e si studia' la -natura , ella non ci d ' che de* fatti ; uva uniformi ora varii , ma sempre i^TTi. Quando adunque voi assegnate le cause di questi fatti, ella  una operazione della vostra mente, un luzio- cinio^ una ipotesi che componete pi o meno adeguata per ispiegare i fatti che vi son dati. Per modo d^ esempio i corpi celesti tendono d* avvicinarsi P uno alP altro: questa universale gravitazione  un fatto, e questo itto ve lo mo- stra la natura. Che la forca poi sia aderente al corpo, o sia faori del corpo e venga da quuiebe altro essere, que* sto la natura non ve lo dice^ e siete voi che lo supponete, e ve lo create io testa per ispiegar que* fenomeni. Newton stesso non vide mai nella gravitazione altro che un fatto, e tion ^eteM d^iDie^rc eoj(petta UQt C4Ufa; e 4e*prc^ teso lo aveise, JNewton avrebbe errato. QttM4 nkenlD di cantici al loro Creatore pr le infiaiCe aoaravglic che contiene , taiyto nel pia piccolo de* vermi, ch^ nel ]ii vasto degli astri (s): eHa Igrda perci tcfriirife flnts^gli empi, ed avvera continannte - ^oel detto divinai i^^^pmc it aun ilio ^rUi terrmum oAtitE- insmsuosi^). . . Ma voi altri, die Aon per lo stdio della natura, coA cai si malamente vi coprite, ma per P impulso delta ver* stra fantasia agitata aggibngete delle forze agli enti natu- rali, le quali pur debbono essere inTisibHi, perch la na^* tura non vi' mostra mai cause, ma sempre effetti, come dicevamo: voi , dico, die contro tutti i principi del retto ti) V. Gie. ^cc. ], 4 -- Tme. V. 4* C>) FunNiO Mritti molti libri,  Sap. V 70 pcn^Mt ifltrodMto nella Kisici^ i in^dcmi | puntate delle tM}c(JiM ipotesi per tor via b Beoenil di un Dio, e USerUe girafuitamente tolte le coae (i): come poi le fon* date queste ipotesi, coive le vestite di verisimiglianu f come mostrate la probabilit di queste nuove vostre immaginazioni aopta P antckissimo e universale dogma deU^esistenaa di- vina? Per sostenete F ipotesi prima, ne chiamate in soc- corso flelie altre, sentendo voi stessi, die non -basta intro- durre nella natura delle cause o forae invisibili aderenti agli esseri naturali, in vero similissime alle qualit occulte de^ 'Peripatetici ^ ma che vi  necessario peporr^ delle, al- tre ipoiiat, da cui sieno fiaBchcggiate : colle qqs^li aasal- liate il sistema noiitrario. Quel sistema dunque cbe si so* ateue. edn lrgnaentiiid? ogni 'aorte , voi pensate di tter- tarlo eolie ipotesi^ siiiili a que^ visionari che combattono c'tron&no degli eserciti che veggono correre la nptte nel P^ria. . . Ma dn guarda oltre .91 d^* queste ipotesi, le vede fog giate* tutte pet modo^ ohe ^lesaoo da qual &m^sia spa ventata >procedaRn.s^: hanno tsolore nero e terribile. Voi vi deliziate in tutto ci che trovate di orribile nelP anti- chit : voi trapassate i termini d^ ogni memoria , d^ ogni possibilit: ci fate descriaioni orrende di catastrofi imma- ginate: la vostra mente perturbata d caca d^Ii spavento- sissimi ^convol^menti del globo, gli esagera e fi dipinge odie tinte pid oscure, tacenti le stori^. Lo stile fosco e quasi tragico dUn Boulanger e d^un Mirabeau ci opprime colle diaav^'cnture , che conghietturano avvenute alla terra ne' tempi antM^issimi : essi vigono in quella oscurit| in (X) li signor Castilhon nella confutacioiie del Shtema della Wd^ 9urm toglie s Mostrare fra le altre cose, che aminettendo tale sistena si debbe ammettere altres grattiitameote otto misien, cio otto snppo Stsitfiii ioeapItraMii, nella ola ^rma parte defr opera ; e dando fede sUa iecotada biogoa credersi de^ misteri pia che due cotanti : di che eoDchiude n; rischUtra^  lalaee.del K mondo' essere slata smarrita, il cdrs del sole e d^ pia^ u net alfet^fo; 'tin regno, d' iiiieeiKli , ' innoadarf^rti ^ Ur^*  muoti  tenebre^ traboc  esercitare il potere fatale di perdermi senza rimedio, ol- tf (raggiando o disconoscenda V arbitro di mia sorte l non  avrebbe Dio mostrato meglio la bont sua onnipotente  Terso me, e operato pi efficacemente alla propria gloriai^. tf se m'avesse forzato a rendergli t miei omaggi , e quindi i  meritarmi un bene infinito 99? Non si vede lo stesso fine ne' tanfi sforzi, che si trovano pe' libri di .tali scrittori,' cio di degradar 1' uomo alle bestie , e renderlo schiavo > solo di brutale istinto? Kn  vero, che da per tutto ap- parisce = che gfttdicand da se stessi? 0 almen cke si vo gUono ingannare^ se potesse essere , per timuoversi quella molestia dello -spavento ? Che ha fatto a costoro la propria libert per cosi odiarla ? u Qaesta libert , il confessava u un'altro dei loro numero, non  considerata come dono  fatale snon da quegli, che sono tentati di abusarne  (i). Ma se siete liberi^ perch non fate* bene, e perch amate piuttosto di meritarvi l' ira di quel Nume che vi spaventa  se la vostra miseria viene dalla libert, come dite^ non  questo un male da voi procacciato, mentre potete schivarlo? Ah s i Gentili talora si mostrano dubitosi se fosse bene o male una intelligenza per essi (l) , sfenturati com'erano ed erranti nel buio , presentano con, ci un fatto quasi direi naturale, oti argomento anzi del - nulla dell'umana natura abbandonata a se stessa , che una colpa lor pro- pria^ ma che cosi dicano quelli che nacquero nella luce delCritftianesimo, sarebbe al tutto inesplicabile, se non vi avesse appunto n^ir uomo ' quella forza sublime della li berta eh' essi talra negano , talora odiano , ma che sempre CO Beliate, PhU, Nat. T. I. C3> CotU presso Cicerone, lib. Ili De NoL Deor. e. XXVII: IJaud scioj dice , an mtlius fuerit humano generi , motiun istum celerem co- g^txitUmis , acwnen , solerlam , quam raonem focamut , tjitoniam ptsjera tit mlth , paucis admodum talutaris^ non dari omnino quam tam munifice et tam large dari, Opuft. FU. T. II. 10 74 contestano, colla, quale r||tlano il lcpe vero, e da} male se ne traggoao, se ne creano ano illusorio, e si rendono cosi possibile V amore del male ! m. Ma se si concede a cost. e non sono pia avversi d^ ammet- tere un Dio. RoQsseau in questo caso trae anzi partito dalF altra vita: sente allora anch^ egli, che quella pu essere un bel sol- lievo per gP infelici. Vi dice tosto cosi:  Ah troppo io ho  sofferto in questa vita per non attenderne un^ altra* Tutte cf le sottigliezze della metafisica non mi faranno dubitare ce .un momento delU immortalit dell^ anima, e d'una prov- tf videnza benefattriGc. Io la sento, io la credo, io la vo- ^ glio, io la spero ' (i). Ma come non Of^riscono qui i soliti terrori? Ye lo dice Rousseau nella lettera, stessa.  EgU  a credere, son sue parole,, che gli avvenimenti a particolari di quaggi sieno un nulla agli occhi del pa- ce drone dell^ universo; che la sua provvidenza  soltanto u universale; ch^egli si contenta di. conservare i generi  e le specie , e di presedere al tutto senza darsi inquie-  indine intomo al modo, onde ciascun individuo passa  . questa breve vita. Un re saggio , il quale vuole che eia-  senno viva felice negli statf suoi, ha egli bisogno d^in-  formarsi se i bettolieri stieno a dovere  (a) l Se perd a. Dio si leva il castigare gli empi , come gi ,dair esser tiranno) , e tanto pi caro amico, quanto  pi grande e potente: poich per ci appunto libralissimo e misericordiosissimo. Ma si parla e si scrve da molti del Cristianesimo senza conoscere il soo spirito I (a) Lo stesso, eap. Ill^ dopo altrettali che aveano detto il simi- gliante. 11 Montesquieu osservava il contrario nello Spirito Mie Leggi lib. XXIV, cap. III. u La religione, dice, fra i cristiani rende u  principi meno timidi, e perci meno crndeli. Il prncipe si affida u ai sadditi , e i sudditi al prncipe. Cosa varamente ammirabile l u La religione Grstiana, la quale sembra avere per solo oggetto la ce felicita deir altra vita, forma la nostra felicit andie in questa  s( La religione Cristiana ha impedito che il dispotismo si stabilisse ft neU^ Etiopia, non ostante la vaitit delIMmpero e il viiio del dima. 77 quale igoMe sensazione della pftnra maggiori sono i se- cali presso questi forti, qnando viene il punto della morte ^ de' quali aoao piene le loro vite^ come tutti sanno. Allora quelli che osano dire, essre il timor di Do il principio della paz;Ba, cominciano a riconoscere come possa essere il principio della aa^enxa (r). Bla ben pi felici coloro p che non aspettassero, tal punto a ^cessare dalle bravate \ e eoi darsi rinti a queir avversario , che non pu perdere, A rendessero una volta vittoriosi , e annientassero la ra gione di quelP infausta paura, amicandosi T oggetto stesso che tanto li fa temere. . XIV. Ma  ben ridicolo d^ altra parte , se pur vogliono 'se gtttare nella lor vita piena di paura , che capovolgano tutte le cose e i nomi loro tanto, che fortezxa nominino s) grande vh. Pure; se si disaminano i contegni e le parole di costoro intorno le mutazioni pubbliche , di cui sono sempre aridi e promotori , non si scorge in vero sentimento alcuno in essi, die, spogliato di un certo .fasto, non sia proprio dei popo- lari.  Tale  la natura de^ popbli, dice il nostro storico u immortale Guicciardini, inclifnata a sperare pi di quel a che si debbe , e a tollerare manco di qul eh'  neees-  sano,, e ad avere sempre in fastidio le cose presentii (a). E questa natura i di .costoro. Non disaminare diritti,,, non consultare ragioni, non prevedere danni e steroEiinii, mw sentire voce di' prudenza , di piet, di misura:- ma ogni  ed hft portate nel messo delP Affrica i cotaau e le leggi europee , Qaaoto aia la rrigione nostra opposta alla Bchiavity V. netto stesso autore lib. XV e VII. , 0) Il Boalnger, che nel Ofion^Mio s$eUao scrsse, che il ti- mor di Dio, dtto dalla Serttara il pnocipio della sapienza,  pi losko il principio de 11^ pania ; all' oltimo della vita si eoaverti a Dio, e detest i snoi errori. 0) LK IL 7 cosa gridare insopprttblU , ogni leggo ingiiwti , ogni stato presente crudo e barbaro , nel futuro sempre spe- rare felicit e rgeneraaioiie , ascoltare in sottaa P impeto delle passioni, ehe f della plebe piik ^e al tatto proprio, ed  anche d costoro ; n Uro da quella differMono che dal grado della pertersHA , tenendo in essi IMngegno guasto il luogo , che In essa tiene V ignoiransa e la ros* sena (i). (0 La oorratlela profonda de^ costami non solo ^ il germe delle rlbelliofoi coiitro g] stati, ma ben anco delle ribellioni eentr I Chiesa. Grande istruzione debb^ essere it governi il vedere oome la medesima causa che forma i nemid della religione  qodla che forma altres i nemid deir ordine politico. Della corrottela di quelli che si ribellarono alla Chiesa, innumere- voli Catti si potrebbero addurre: bastino i seguenti de^ quattro prn- dpali riformatori del secolo XVI. *- i.^ Lutero eomind la sua rtfoma olio sposale el iSaO Gattevnm de Bore, giovane religiosa, ehe aveva fatta uscire del. suo oowrent due anni prima per 4techiiuila e per sedarla. Cristiano JancW , dotto sassone y d ha conservato odia vita di Lutero la preghiera che soleva fare dalP abbondanza del cuore: u Mio Dio, per vostra bont^ u provedeted di abiti, di cappeitt, d cappotti e di mantelli'; d vt- u telli ben grassi, dU tmidi* Ifouioneru.im PUardM $cnmm et rerum pintt- umuntnwmmmia! in ilUs oAm hodU JtgUur Jo^mnem hwc Colpi* u man, todom^ cowicium, ex EffUecfi et MapsttatMU imbdtfentia u solo stigmate in tergo notatwn, urbe exceetUte: nec eiutJkmiUm  homettissimi viri adkue sUf^erstites] imparare kacunu poiuerwit, it M hiugjacti memria, qam totijkm&im nttam aUqstmm imirii, e u ciuids ilUs monumends ac scriniis eraderetur . 3.* Zoinglio, fondatore della riforma Jllvetiea, ben dimoitr lapu- rtii del motivo che P impegnava ad abbraodare il nuore evangelio, posando una ricca vedova. Ecco la confessione fatta da lai stesso  Io non saprei dissimulare, cos scrive di s, 0 fuoco che-mi bru* iGBNT (i). Laonde se questi tali , come dicon talora, cercassero gloria, dovrebber vedere che M feili ni hanno troppo tinto addotto dei rimproveri ditonoranti  nelle chiete f> (/ra Parenae, ad Helt^eL T. I, pag. 1 13). 4*^ Ol archiTi del Gabinetto di Saiot-James contengono un gran nomer di monumenti della parit de^ costumi di Enrico Vili fon^ datore della chiesa Anglicana: etti attestano, dopo trecento anni, che saetto principe non si separ dalla Chiesa cattolica se non perch Roma condann la tua unione adulterina con Anna de Bonlen^ che egli Bpoi vivente la sua legittima sposa Catterina d^ Aragona, colla quale era vivoto congiunto dieiott^annl Appresso, tocco dalla bellezsa di Giovanna di Seymour, fece mozzar la testa ad Anna di Boulen. Morta Giovanna di parto, le surrog Anna di Cives, della quale si lisgott dopo sei mesi e la ripudi sostituendole Catterina Oward ; ma fatta questa decapitare nel 1543^ prese Catterina Parr, giovane vedova d** una beiletia rara, e che fu presso a subir la sorte d quella che la precedette nel talamo di Enrico. Tali uomini si separarono dalla Chiesa; ma prima daUa morale:  una contraddizione rimaner attaccati al maestro quando se ne ab- bandona la dottrina, ed amare il giudice quando si conculca la legge. (0 ^MC lib. IV. Altra sentenza dello stesso Tacito  : Sapientibus ifuUtiM H rtipubUca cura\ lantgimuM quisque tt futuri nprouidus spe vana Umuns, Multi adflcta fide in paQt , ac turkatis rtbus jXucmms, et per mmcxt^ tvtssimu Lib. J. questa no  gran fatto rtda ched ena mni, ma beiai che calcano M cnticro , cai quahmque utmo Tlisaflao pa calcare , e ha foraa che basti per superale la prpria natura, che gK proibisce di esacre scellerato. Ma Tagioae pi alta mette in moto costoro : lo sfogo dell'interiore animo , e il non Tedeare di fuori se non quello che dentro sentono, e l'andare in traccia dovunque di una immaginata vendetta* contro qntHa vkaiT', che per tatto sta sicura dalle lor' furie. ^ ^ ' \ * LIBRO TE&ZO^ DELLA RELIGIONE CHE TOGLIE. LE ILLUSIONI DELLA SPERANZA E GLI AFFANNI DEL TIMORE Ptrftct caritasjhrag mUtit tbnortm. Jo. Ep, I . IV. .Al^dilino pevlaolo filiti i monarchi qaesiic ireriCi Con* sderio it torna a conto colle loro leggi promuovere nna razza di genle^ cbe-neUe convulsioni del loro animo ri pongono il loro bene , ed in un continuo moto di aperanzo creato dalla fanUsia^ e guardino se egli non  cosa na tarale, che costoro anche al di fuori tutta tentino per som* muovere le pubbliche cose , e agtaro in ogni parte le Caci della discordia. Conciossiach sono le esterne inquietudini che danno U pascolo, e saziano, se esser potesse, le in* teriori. Ma dopo di questo pronfondino di pi i loro pensieri; cerchino la radice ultima di tanti mali nella natura me* desima degli uomini : pensino a quello che diceva il Pa scal, che, quando ancora terrai a costoro le loro dottrine si disperate , e solo riguardemi V uomo come egli nasce , rinverrai sempre in lui un incitamento di pervenire alle medesime, se guarito non  dalla religione. Poich qua looque uomo , ancora che non sia di capo stravolto , tttt tavia per sua natura non pu vivere con solo se stesso , e cerca il moto e V agitazione esteriore. E qa^^p moto lo cerca per una quiete, E questa quiete , s'  in cosa umana, la fugge , perchi lo disgusta. Per {a quiete nojo la scena Opusc. FiL T. II. n 8a mii veramente; ma fia due sceglier sempre un moto tpn' lonque sia : perch in qaesto  sostenuto e ricreato da una quiete, che vede in lontananza abbellita yagamente dalla speranza, e dipinta sempre co^ pi bei colori della immaginativa: laddove la quiete, se ella  disgustosa, come trova essere tutte le umane, non ha n pure conforto di q>eranza veruna. Di pi un tal moto si suole accelerare tanto , quanto r nomo vedesi ingannato nelle speranze; quasi per risar* cir il tempo perduto, o per una ira che gli nasce, o per arrivare pi presto al fine. Cosi di sua natura V uomo  un essere mobile e instabile; e se non  diretto dalla re* ligione, se ne va sempre pi veloce  sfrenato di tracollo in tracollo. No , non valgono niente, o princpi, i rmedii negativi contro agli estremi, ove  addotto Puomo da questo impulso alP agitazione : sodo snervatissimi e frivo- Kssimi tutti i vostri provvedimenti onde impedire i disor- dini delle societ, se non prendete Puom pel suo verso , non appagate la sua natura procacciando ^odienti, onde sia illuminato, e acquietato in quel bene positivo, che il suo cuore ricerca. Questo solo P avrete col fare fiorire lo spirito verace del Vangelo : non punto con mezzi forzosi, o legali e politici, che son- freddi, atolti e gettati; ma con caldo e sincero amore, col quale solo fu diffuso il Van* gelo a principio, e piantato ne^ cuori. Cristo  la luce unica che dirige gli uomini ne* loro avviamenti; che acquieta le loro angoscie ; che tempera gP impetuosi trasporti del cuore umano, appagandoli. Oh Religione santssima di Ges Cristo ! Religione benefattrice! Quegli che ti disamina ti trova la conoiliafrice delPuomo con se medesimo. Tu con verit spieghi al mortale la ragione perch fugge se stesso, e perch cerca sempre se stesso: gli mostri perch sia un esser debole, misero, impotente; e ci colla storia di sua origine, e del suo primo padre: gH sveli perch egli senta ^ se stesso una forza, che il tira al disordine, mentre ha una ragione che lo chiama alP ordine; e perch aenza di te egli venga sempre atterrito, e non mai conso- 83 lato da/le poterne infimbili. Dici ancora alF nomo perch , elle d tutte le cose del mondo persegua continuo la 6cC senza troTarla mai mai^ ed in fine tu gliela apri questa tanlo sospirata felicit , e tanto nascosta ^ e T ac certi cosi) ohe non  la Speranza V ultima Dea^ ma ve n'ha un^ altra non vacua, non menzognera, non cruda* Vuomo che staggir da te lontano, sente il bisogno che ha di te , e pro^mpe involontario in darli mille Iodi. Io veggo V infelice Roossean nella sua solitudine di Montmo- renci fastidiato degH uomini cercare il suo riposo ed il suo appagamento nel seno della natura campestre. Un lago, e de^ bei colli, e de^ campi rdenti danno in vero ampio pascolo alla brillante sua immaginativa, e alla fona del uo sentimento, tanto pi suscettibile delle sensazioni sem- pliei della campagna,  (t) AtuoB. Carm. SO9 84 ^ IL Ed  cosi. L'uomo desideri, P aomo vuole una cosa che [appaghi, e non sa che ma. Quando tatto gli venisse coq* cesso ci che dionanda, ancora  scontento. U solo lame della Religione rischiara le tenebre del suo coore, e spiega a lui medesimo le sue voglie: e gli d la ragione di queste tenebre e di queste inc^rte*e: gK ia intendere come non pui trovare nella terra la felicit , perch tutte le cose della terra sono assai ppicciole della mente e delP animo suo; e con ci lo certifica della sua eccellenza, gli a c* noscere la grandezza delle brame della natura sua, e quel vasto vto del suo animo in cui tP ingoiano tutti i beai finiti senza giamm empirlo. E quel nuovo ordina di beni infiniti, eterni, puri, e capaci di riempierlo, che egli e sospetta, e desidera, e non conosce, gli schiude davanti^ e 111 qiirati  che gli promette la quie&e che cerca, e gliela descrire non molestata da alcuna voglia che il punga, n illanguidita da saziet che V annoi , n deturpata da iner- zia che rinvilisca; ma gliela descrive quale appunto la desidera P animo suo^ cio pienissima, e scevra dagl'in comodi deHa fatica, e alacre, e gustosa, e senza Tim- portunit di nuovo desiderio, e attivissima in grado sommo senza il languore della inazione. In somma egli gliela di- pinge come un amore e non come un desiderio, come un godimento e non come una speranza: e tatto questo infi nito, pieno, soverchiante. Ed una Religione che parla all'uomo in tal modo; che soddisfa nelle sue promesse a' segreti pi riposti della na- tura di lui; che non lascia parte ne' desiderii, nelle incli- nazioni, nelle molle di tutto questo maraviglioso essere, su cui consultata non dia risposta all'uomo, che piena- mente gli soddisfaccia e l'appaghi: una Religione tale, non si palesa solo per questo evidentemente vera e divina ? Quale Religione fuori di quella di Ges Cristo soddisfa tanto a tutte le umane necessit , alle necessit pi intime che 1' uomo il pi perspicace del mondo appena discuopre? 98 Fui eifef questi idTciaotte d^ altri fuori .ek^ i dotar , che fece V umana natura / e pot adattarvi per questo una Iteiigione aulle stesse basi eterne ^delia pif^pria osMRxa*? Quando anche dnnqre non sapessimo cke cosa questa. Re^ Kgone Usantenga^ da qoeild che prometleisolo ia dobbiamo credere divina : perch Olie sue promesse si nteiio de iufiota e compiuta sapienza (i). - r  f , '  '   IH.- '-; Ma oltre a ci la Cristiana Religione d una caparra atichc a questo mondo delfe sue proiesse alT altro. Sicch quantunque queste promesse sole per la loro sa^ pienza e profonda conveniensa colla natura nostra, chia' rumente mostrino la propria veritik'; futtaria eUa non- si contenta di eiiy. riha al cttore delTuomo fa pfesaggiare delle dolcezze, che Ibdamo si crSAirebhe^ imiijfgtnare da quelli che non le avessero sentite inai. Una profonda tranquillit delT animo, una cahnia di tutte le passioni ree, nn^ armonia di tutti gli affetti , una serenit e chiarezza della mente, una tenerezza di cuore che niente invidia a nessuno e che* a tutti profondere vorrebbe quel concento che dentro innonda, un 1uon testimonio delia propfk co* scienza^ immagini lietissime di tutte le cose, purit ed ele-i vatezza di sentimenH , sicurezza d' essere caro al Cirfo e a tutti i buoni della terra ! Ed una amabilit della voce di Ges Cristo che sempre dentro risuona ^ e una fratellanza , e diffusione di carit universale^ e un gaudio, e una gioia, (i) Trovo tale argomento accenoato ancora da Mauperluis nel suo Sggio di Filosofia moraU e. VII. a Se io voglio , dice , iitrairmi  neir eternit: una pace in somma, una deliiia, un'amorosa estasi, sensa noia, senza amarezza, senza termine! E questo godono i buoni quaggi su questa terra, dove vivono da questa tena stac cati,  spesso ancora privi d'ogni bene che dakiveoga; e questo io mostrano negli aspetti ridenti, e ne', volti pla- cidi ed affabili, e ne' contegni pieni sempre d'ineffabile amore: quantunque ignorino si, e non credano ponto tali cose coloro, che mai non le gustarono in se medesimi. Ma  peri tutto vero. E con qntsjtii ft^ligione piena di delizie  solo che l' uomo non fogge $^ stesso, perch in s non trova volo, ma  pjenp di filo.: con pibtts vis barjmr ladetf Belloramqe /dees^ empiale in pace rapinae, Nec ius forte daUan potrit preiiove repensunt In^ictos anhnos et E^ra frangere corda (i). E M sostengono tutto Ptmpotente sforzo delle umane cose^ ma nei loro petti hanno la Verit, cbe le condanna con occulto , e peri pi terribile giudizio. E noir portano negli occhi un fosco e truce vetro , eoo cui gli empi veggono per tutto nero , e la societ ilnion di belve , e i regni ti- rannie,  quei the presiedono fiere immani. Ma giusd- danno i aegtnd di Cristo a tetti il sooi e mentre aoHe^* vano gli Bomiai dalPiagionlo, giogo della ecbiknt& (y^ non hanno d^tra parte bisogno di perturbazioni a nudrir le furie, che in s tengono i trati ^ e per cui anelano scam** par da s , subissandosi, le potesse ssere, nelle rovine del mondo. IV. Nessuna Religione quindi ha tanti testimoni, die salla propria esperienza depongano in suo &vore: che depon* gano essere propriet di lei quello infondere nelPuomo una allegrezza ed un gaudio, e da ci stesso aoa gran* dezza e magnanimit di animo, come la nostra. Tutti i Santi dicono unanimemente, che la dolcezza da loro sen- 0) Scip. Gapcii De Princ. rerum Uh. il.  vandovi nulla di terreno. Cosi propone agli uomini que^ pratici esercizi delio spirito e del corpo, i qtfaK ad un teiapo invitino a godere detto sprito e del vero, e rr- chieggano svestito V amore alla carne ed al lasto. Basterebbe per tanto che Tempio risolvesse darsi a buon frutto : e saprebbe ben ella la sapienza di questa Religione come far pullulare e fiorire il suo buon desiderio, e nu drirlo con pratici esercizi, che essendo acconcissimi e a spegnere insieme il ilso amore e ad accendervi il vero, mostrano chiarameute in lei una coerenza con se stessa ed una sapienza senza confine. vni. La sola spiritualit finalmente della ReKgion cattolica basterebbe a provare la divinit sua. Perch non pu ;essere invenzione d' uomo qiielh Reh- gione, clic propone un fine, e richiede un operare sopru* mane : in modo che dimanda un sacrifizio di tutto Tuomo per beatificar V uomo. ^ Se V uomo creasse una religione , porrebbe a fine natu- ralmente se stesso , e non tenderebbe mai a sacrificare se stessow Non  adunque uomo quegK che fece tal Religione; la quale  cosi spirituale , che iPuomo per attaecarvisi ve- ramente , debbe abbandonar tatto col cuore. Poich se que* sto bene spirituale fosse niente,  assirdo che un uomo atesae inventato di privarsi d^ogiA suo bene per un niente; e se egli non  un niente, debbe anche esser cosa mag* giore di tutto il mondo perch a tutto il mondo la ante* g6 ponga. Dunque la Religione  ver^i e non uouoa. Tanto pii che questo bene apirituale, ben conosciuto,  diverso da tutto il mondo in modo, che non vi ha nessuna  Tutti 1 pmsM ^nmti con astriMo nel detto ippme^io, sono ag- fiftmti dopo useUa Im ritpoata villana del signor Giou 1 (3> ImM il suo libello lUfpost agli Oirtrogoti. (jSy n din u il mio Uologo ha rMUt di mmdre n,  pia ingiu' rioto che il dire u f^ci avtU meniiio n. Questo modo esprime una mm^ 90gna$ itfuel primo esprne tma prefissione di menufgnd unita al^i- pocrisia rifposm. (4) Pretenda che ahbia rubato da lui injtto di morale, cosa strana f Per altro y GaoUbtt TtcuD oonm latrone jator. (5) I>ieendo ad uno u direte detto uno sproposito da frusta n^ vei $2 Su ch^egU  degno difiusta. Per altro non prmdiamo la cosa a rigore , essendo principio del JGioia che u chi non esagera non desta che ite npreMione  ( N. G. , pag, 34o)* ^ ^ impretsiont . c& i dSepf cercane non la terital rie (i): cose tuUe che io^ sona ben lungi dal ci" Ure ai tribunali^ a dal fare n pure seria ri* sposta {2)y bastandomi di far osseruare che una simile irritabilit i imprudente (3). Essa mi d per un diritto di cui io user y ed i quelTo di scufirre pi francamente gU errori* perniciosi di (jutsf autore a vantaggio pubblico , senza' que^ rlgUi^ che ct^ewz prima dowiti alla sua huoiia fde ed atta sua dottrina j ed ai quali gU viene nd^ avere col suo imbfzzrrire rinunziato. Col secondo y' terzo e quarto opuscolo che se* guon al primo ^ intomo i sig. Gioia ^ io comincio *  ''^t\QumA t^ t$egna ftet iUnv* CahUO au il diseorto , per u, ^f/^/iNuu!^, 119M -tucestario che da ingumoMo, e die la u$nt et, noa perde alcun diriw> ijuando  presentata con modi gentili $* Ci.^ed. Mitan,\pag. aA(); iUorad nttoca protra della verit del t^erso ^Ofifidctf.VlBo tMliom proboqun cletfiionk scqoor 9. . (l) SeiHf^ndoci jUU^ 7)l)ifi del ^a ad fllustrare il Galateq de' ietterati^ non U preeendamo no( per risposta : atnremmo saputo dir H^io, Jt at^stim tUu rfspndem,  Il Gima d, pt' cfdcoUute Ufi^giw'^ i dm eUmenli seguenti : u"* gravit 9 %.^ pubblicit (N. GaL^ pag. 5$). Quanta alia gravit egU non pu credere di JUrd grande ingiuria tacciandoci di bugiardi ^ perch ammette che si possa talora cercar rotile  pMe 4i4la -Velata ( N. Gal., pmg. 3$7). Se suri avessimo tro^ tOo il nostro onta a mBttitn, mvmhih seguito il suo prinei/fia ,  meriteremmo la su hdb't U dirci hiar. i%ii ha ternata eerto d'ingimiarci pubbiUamenUt ma grafie alla toerefnm th^suei prineipH che si distruggono pugnando seco medesimi, l^inguia gU  evanita in mano. Potendosi mentire per utitit , col dirci bugiardi ci ha detto prodenti e sari: pecceito che 4fuesta tod iiuale sarebbe secondo i suoi prtcipii,  ecreditata gi neW ongtne^ uscendo dalla bocca d^uno che si dichiara mentitore!  ad usare di questo irtky; ed in ragione cK e^ mi insulter, io prosegua F esame delle sue opens con tutta la franchezza e F aperta mani/estazione della inerita, senza per contraccambiare nessunm parola gratuita d^ ingiuria (i>, e per rendere vantag- gioso al pubblico il torto che a me vien fatto. Che se l'autor nostro muter stile j e si render pi umano e ragionesH>le} anch' io mi creder in dos^ere di usargli giustizia y e di tornare a trattarlo con qu^ riguardi e con quel rispetto che e dos^uto ad un uomo i cui errori non sono V effetto d un per- vertimento^ ma della labilit y di cui tutti esp&- rimentiamo tante prove, della ragione. 0) Non crtiamo di far* ingmra ^fuondo mostriamo gli errori S uno scrittore: sebbene dai medesimi venga a lui ntessariamenU ata> disonore maggiore o minore secondo che sono pi o men gravi. Questsi specie di pena the siamo eostretU di far soffrire al nostro at^uersamo^  inevitabile t noi non possiamo se non proustre che non vogliamo entrar punto nelle sue intenzioni pia di 4fUeUo eh' egli sUsso ne^na- Ttt/sta. Cosi ipmndofacdam vedere le male conseguente degli errori^ non t'Odiamo gf attribuirle aW autore de^ errori : nuUa c'interessa Vuomoi la perita sola ci sta a cuore. D'altro lato  egli possibile difndersi da uno che vi d a torto il titolo di bugiardo y senza che il facciate ricadere sopra di lui? Supponete che io poglia dimostrane Vabbienone e la materialit U questa /rase , tanto assurda quanto empia f colla quale il Gioia vi assicura u che una buona digestione u pale cento ante d'immortalit n , pretendendo che u la salute co^ u porle sia f oggetto pia interessanU per gli uomini n (Jf. Gtlate% 4.* ed. Jlfit , pag, 355): potrei io farlo senza che pi avesse V apparenta ch'io volessi collocare il sig. Gioia nel filosofico gregge dei porci? B pure io sono intimamente persuaso che molte e molte volu in sua vita egU avr anteposto ai fisici i piaceri intellettuali e morali, e^che forse V amore delle scienze o deljar bene a^ altri uomini jgfi Mvn fhtt^ dimenticare se stesso, e la sua salute corporale. * AUeCTIORIS INGENU INDIGIUtf EST , COBPOMS STUDIO IM910&AR]. ^pidU Man, e XL. 1 ESAME DELLE OPINIONI DI MELCHIORRE GIOIA IN FAVOR DELLA MODA A DON PAOLO ORSI Vi mando ^ come Toi mi avete chiesto^ un piccolo esame di quegli argomenti con cui Mel- chiorre Gioia nfl suo Nuoto Galateo {*) tolse a difendere la moda rispetto alia onest de' co- stumi. Procede questo esame per brevi osserva- zioni y le quali ae sono giu^e , come a me pa- iono^ mostraiip ben chiaro come anaorsi i rari ingegni) fra^ quali onoriamo il Gioia ^ non sieno giammai abbastanasa sicuri da quelle apparenze di vero in cui s spesso il falso s' involge ^ quando forse per soverchio ardore di novit ^ abbando- nano il senno antico fermato dalla esperienza. E mi duole vedere assai di frequente nelF opere di questo - chiaro uomo delle affrettate conclu- sioni^ e degli errori di pensare; ma questo Sag- gio ^ che n^ picola prova ^ non c'insegni gi a far minor conto di lui^ m^ a non presumere troppo della mente umana. A Dio. C) T. I, pag. i33 e legg., Milano i8ia. Opus. FiL Z Jl. j4 ARGOMENTO DI MELCHIORRE GIOIA IN FAVOR DBLL MODA BliaUAlOO ALLB CLAaiI POPOLARI  ^e la donna fende ^ dunque b d^nopo che TaoBio et possegga i mezzi per comprare.  I mezd debbono essere tanto maggiori, quanto  mag- tf gore il costo de' regali da presentarai. tf II costo di queste cose cresce in ragione delle varia- u sioni della moda. u Ora i mezzi per comprare nelle, classi popolari ( escluso  il caso de' ladri ) non si ottengono oke col lavoro.  Se dunque la moda induce la donna a vendere , in tf duce Puomo a lavorare. a Ora aunMBlo di lavoro  uguale a deeremen|o di cor-  raziono . OSSERYAZIONE I. Il Gioia considera la moda da due parti; do daparA della donna . e da parte * dell' uomo. Ora da parte della donna egli concede a' suoi avversari, chela modaijn&iee  vendm. Comincia, pare a noi, da una oooeessione poco bene pondemta per la migfiore della sua causa. OSSERYAZIONE H. I Rispetto all' uomo: Jumento di Iwor^  uguah a A* cremento di corrusioffo. Accordo , quando non m lavora per corrompili. io8 Secondo il GMt a* ivafnta il livoro per aumeDtare T mein da comperare. Io primo luogo adunque il lavoro si smairiace dal suo fine legittimo , e si volge a fine pravo. La moda guasU perci il bene che per s suole apportare il lavoro, in se- condo luogo y non ascendo da^ principii del Gioia , il suo avversario ba luogo di fargli questa argomentanone : Aumento di lavoro  pari ad aumento di messi da coni* perare : Aumento di mezzi da comperare  pari ad aumento d corruzione. ' Dunque aumtento di lavoro , nel caso del Gioia ,  pari ad aumento di corruzione. Non dovea concedere tanto all^ avversario, se voleva so- stenere la causa, da lui assunta. OSSERVAZIONE IH.  egli poi vero che la moda induca l' uomo a la^om fwre , e udii: aumento di Iworo ^ o lo prova il Gioia nel suo argomento? . r ' : 'T  Quanto pia sono gli ostacoli che si frappongono alP ot- tenimento d^ una cosa , tanto meno di quella .cosa si con-' segue. Se poi in ragione degli ostacoli cresce in noi il de- siderio di ottenerla 9 e per la forza di propulsarli, allora otteniamo egualmente di quella cosa. Ora il Gioia afferma, the la moda incarendo la comizioiie, mette im ostacolo di pi a conseguirla. Se avesse diiuso qui Pargomento infe- rendone, che dunque Tuomo ne' tempi di moda otterri nono di corruzione, perch ha un ostacob di piada sai deir intrigo, industria rovinosa per le naaioni, mentre U  non produoe gi, ma solo entra a parte dei prodotti altrui? Da tt quel punto l'uom tristo mette fuori tutti gP ingegni del suo dispre- u gevole genio; il litigioso specola sulP escurit delle leggi; il p* u lente iFcnde alla frode ed alla malvagit, la protezione ch^egli deve cef ' 11 sig. Gioia ei dice che se s'introduoesse fra' selvaggi r fra"" turchi la moda ed il lusso, si diminuirebbe l'efiemi- ri8 %atec2a e cornirion di que' popoE Ma  ella passibile , io vorrei dimandare al sigoor Gioia, questa ntrodustone? Quando presso i Romani la moda ed il lusso avea dis- seccati i fonti deir industria, e resa impossibile la ripro- duzione per un consumo immenso che non si poteva equi- librare con quella ^ quando il lusso giunse per tal modo a distrugger se stesso; quando perci nell^ impero romano si fini per troppo lusso a non esservi pia n moda n lusso ; se alcun economista si fosse levato a dire u Noi t siamo cosi miseri, cosi corrotti perch non c^ il lusso  e la moda: guardatevi addietro e troverete che mentre  c^era il lusso e b moda noi non eravamo in tanta velenare e mortificare la coltura, ed il sofisma tende di oscuraire la verit. * Per altro ritornando all'argomento del Gioia, che sup- pone il capitale disponibile per la corruzione essere cosi tao fisso e eastante, cbe quanto pi nQ oomo iconsuma io mode , Unto eno coosttBi a comperare la corrasione^ merita di osservarai come il sao errore provenga dal non aver roc- chio fisso che io casi particolari, e da qicsti volerne in- dorre generati teore. I popoli pi corrotti sono quelli, da cui trae gli esempi ; e non pens che i popoli pi corrotti formano pia tosto Teccesione che la legge. Egli pot della Turchia presentare il quadro seguente  Serraglio delP imperatore, per es. looo donnt^ tt de' bascii lOO tf de' signori . .   5o tf de' mediocri cittadini 3 a 4  Nella Pentapoli cirenaica *   i it (i). Da questo quadro cpnchiuse , la cornicione essere in ra- gione del capitale disponibile. Per vederne l'errore baste- rebbe sostituire la |tessa scala coi nomi de' signori di un'al- tra nasione non corrotta^ il che non si potrebbe fare senza insulto al sovrano e a' ricchi proprietari di quella , e sensa u' evidente falsit. Il capitale adunque disponibile per la eornizionc  solo fisso l dove la nazione  corrot- tissima (a) ; allora un tal capitale  aguale o almeno pro- porzionato all' intera sostanza delle famigfie, come in Tur- chia (3)^ e in tal caso non il lusso e le mode capriccioK bisognerebbe introdurre per ovviare a quel male, ma la coltura dello spirito e del cuore, che porterebbe pur seco (i) iV. Galateo, 4' ediuone Milanese, pag. 6^3. (7i) La Turchia $ pu dire corrotta relatTamente alle oailoD ou^ reprr { si pu dire non eorrotta verso eerti popoli selvaggi  ruzione sia uguale al capitale disponibile per essa. * Non  P uomo una macchina. La ricchezza e la corra* xion dell' uomo non sono due fluidi che debbano sempre livellarsi in un tubo a due braccia: oltre l'istinto, v'ha la forza morale e libera che presiede nell' uomo all' uso delle ricchezze. Ci) If. Prospetto delle Seknzs eeonrnche^ T. IV, paff. 81. 4tpiiS. FU. T. IL 16 * Rendete Vnomo pi iUniito, e voi dalla vanit deVfe ' mode e dalla prodigatila del lusso lo condarrete alla mo- derazione e ad ana savia economia, sena bisogno che diminaiate le aue ricchezze^ che gli sottriate questi aeasi che non sono necessariamente mezzi i corrompemi. * Rendete Toomo pia i^irUOso, e voi senza bisogno che lo sproniate alla leggerezza della moda e ad on lusso stolta, r avrete reso liberale e benefico : egli user de' suoi led- diU, ma con sapienza: se non comprer delle cuffie o de^ sciali^ stabilir de' premii per le opere virtuose : se noa empier la sua casa di bijou ^ far scorrere le lagrime ddU gioia in sugli occhi dei miseri, animer le arti, costruir delle opere pubbliche, migliorer Tagricoltura, e insieme con una memoria immortale lascier a^ suoi figliuoli un patrimonio onde potranno imiUre e perpetuare i suoi esempi, miglior retaggio dello stesso patrimonio* " In somma se ne^ nostri tempi prevale F economia e pre- vale insieme la ricchezza^ se non si rinnovano pi quegli obbrobri degli Apici e dei Lncnlli, e quelle stolte magni- ficenze di Semiramide e di Cleopatra:  perch la ragione umana ri  riformata pel corso di duemiP anni ^ perch il Cristianesimo ha portato la luce nel mondo ^ e perch  predicatori del Vangelo declamando costantemente con tro la vanit, contro le pazze pompe, la moda ed il lusso, come contro tutte le altre umane follie, hanno eccitata V industria fli pari passo che hanno aumentata ^ V intelli* gonza, e per mezzo della virt hanno condotte le umane ric chezae^ in una parola hanno migliorati gli uomini. OSSERVAZIONE Vili. La moda ^ dice il Gioia , diminuisce il capitale dis-* ponibile per la corruzione. Se quello che trae di saccoccia al ricco la moda, lo cava dal capitale disponibile per la corruzione; alloca, ri- spondo, non lo diminuisce, ma lo consuma pi presto. Quando un economista ommette di calcolare il tempo, sba- 123 gfiri sempre tutte le ragioni. Qii adopera ia tre me mille zecchini, cotisoma il qaarto pia di colui che in u anno iie spetidesse tremila. La moda  Inirabil nell^ ac- crescere Tcloclt a^ danari che escono , e nel fare andar le famiglie di galoppo in malora.  veto che diminuisce il capitale disponibile pet la corruzione ^ perch la casa non ispnd piA , quando pi& non ne ha * Per aver noi osatb di scriTcre queste parle, il Gioi% ci dichiara autorevolmente ignoranti in econoitiia pubblica. * L^ errof'e , secondo lui , consiste a non vedere che  la e moda scioglie le ricchezze straordinarie di pochi, e le a distribuisce con minore sproporzione sopra molti (i)^. * Noi Uc^iettiamo di buon grado il titolo insieme col ignor Say, il quale scrive in questo modo  Che se  si pretendesse che il sistema che incoraggia le prodiga- la lit, non fiiverendo che quette dei ricchi y tendesse a  produrre un bene, la dilninusione della ineguaglianza u nelle fortune \ mi sarebbe facile di provare che la pro tf fusione de' ricchi trascina dietro a s quella delle classi  medile e delle classi povere ^ e son queste che toccano *f pii presto i limiti della loro entrata: di guisa che la  profusine ' generale aumenta aiizieh diminuisca Pegua- u gtianza delle fortune n (a). ' Non avendo trovato il Gioia da opporre che delle gra- toite affermazioni a questa dottrina, il Saj ed io riter- remo enza incomodo, intanto ch'egli studia qualche cosa di maglio , il titolo che ci ha fatorito OSSERVAZIONE IX. Aficota : Quello che si mette ne' cocchi , ne' casini , ne' teatri, in abiti, e orologi, e gioidU , o altre leggiadrie 0) i^. GaL^ 4* edis. Mil., pag. 619. Si pu vedre UlU risposM pi estesa a qusta obbiezione nel Sa^io BoUa DifflniMCpe tklU (a) ThtiPconamie politique , T. II. 4 ne^ teapi di voda , pai privare il Gom ,  provi die He^ tempi dove le mode boq sodo^ i spenda tatto cgaaU nente^ e tutto oeUa comittone/ Se hon prova questo , che vale il auo argomento? Se qoeate speae le h. are la moda, dove non  la moda non sarebbero queste spese. Il dire che tutto si volgerebbe a comperare altra merce ^  gratuito. E s potrebbe forse pi facilmente provare il contrario^ non essendo, pare a noi, difficile dimostrare , che la moda con tutte le sue Itggerezxe snerva ed effe- mina V uomo, e apre un veicolo , o piuttosto mille voi* coli, per cui il cuore se ne va a^ turpi desiderii. Soste- nere il contrario sarebbe un affermare che il sottoporre agli occhi de^ ghiotti cibi e manicaretti lavorati con tutta Parte d^ fuochi, esaurisca e acqueti in parte: i desiderii del palato avvezzato alle ghiottomie. Tutte le raffinatezzi; deUa moda sono stimoli m* desideri! ^ sono spese le quall^ dove anche non si dicano fatte a comperar? immediata^* mente la cocrusione, provocano le spese che immediata* .mente la corruzione comperano Ed avviene in ci spesso come al vtUano , a cui la prima mezzetta di buon vino ^ che beve in citt, non tempera gi il suo desiderio ^ mt r ammaestra ed affina, e il trae spesso nella citt, e non solo alta onesta mezzette^ ma al boccale degli ubbriaooni^ OSSERVAZIONE X. Accorda il Gioia, che si spende di pi ne' tempi di mode ^ e per noi  chiarito come anche con quelle spese n cotaipera. Gli si potrebbe dimandare: Chi i disposto a fare mag gior sacrificii per avere una cosa, non d segno che ama pi quella cosa? Dunque se in tempo di moda i .ricchi sono acconci a spendere di pi per comperare, ci che equivale a corruzione, amano pi la corruzione. Ora presso il filosofo, e anche presso Puomo di buon senso, amorp di corruzione  corruzione 4on9 l^ stessa C9sa* 195 Ma fi Oiei tembra che non eooMca altra corruzione jche. fsterna ,  ignori come la corrasione delf uomo con Mta nelle disposisiooi del suo animo. Egli ce la i da ecoDomisf a , e crede di mia?irare la cerrusone umana come n niiaurerbbe il frumento. Ikllissima e utiliasima scienza  la pubblica economia^ ma non so onde avvenga ( e non vogliamo tacerlo ). che i seguaci suoi vogliono si spesso recarla per tutto, e specialmente l dove meno bisogna, e farle fare, maU vista, ed acquistare mala voce, quando colle partite delle industrie del mercatante, o del colono, entrano a ragguagliare le diverse ragioni del cuore del- r uomo. OSSERVAZIONE XI. IMce il Gioia, che regnando la mode, il capitale del r6Go viene impiegato in cocchi, cavalfi, casini, teatri^ abiti 5 orologi , gioielli , e simili altre inezie : e che ci gkc si spende per un cappello non si pub spenderlo per unaa^fiay e ci che si d ad un tappezziere non si pu darlo ad una mcrdrice. Di quelle spese che la moda ci fa Care, altre aono intorno alla dama , coU^ altre il damerino adoma se stesso. Sospetto alle prime il Gioia ci lascia un dubbio ^ poi* che sembra , che fra i tempi di mode , e quelli in cui le mode non reggino, egli ponga una sola 'differenza; cio che ne^. secondi si comperi coir4>ro, e ne^ primi si comperi colle cose. Quando dunque ri compera un gioiello o una cuffia , allora non si paga, secondo il Gioia^ la me* retric : e pure per chi si compera il gioiello, per chi la cuffia? per colei a cui si dona. Perci anche quello che se ne va. in gioielli ed in. cuffie, si spende in egual modo per la corruzione. Rispetto alle seconde, perch il seguace della moda com- pera quelle molte inezie per s f perch vuol farsi avve* nente e amabile e grazioso. Sarebbe forse questo, in vece di imperare colle c^se, un comperare eolPayvenenza stessa ii6 della persona ? Se s'adoma perch sia veduto , ae vuoi esser veduto per piacere , se vuoi piacere per avere aniquali si pu trovare la sensibilit fisica delP uomo , cio nello stalo di nullo diletto, e in quello di soverchio diletto; e avrisiamo che quello appetito nello stato di mezzo, dove le diletta- zioni non sieno n troppe n scarse , s* acqueter prima che negli estremi. Non avere alcuno sollevamento  incre Kcvole alPttom, sempre mai stimolato dalla ueceasil in '*7 Btta di Motire; t ^ti dove, non abbia aollaiio onesto^ cercher il diaoneftQ : Paveme troppi  intemperante , e fiiappa nella stessa natura del nostro senso quel morboso appetito che jpl vede ne* ghiottoni , e in tutti gf intempe* rant , ed  quasi direi il piziicore dello scabbioso , e la sete dell^idropico. Questo sarebbe stato da dire^ m;^ que- sto Don insegna lasciare ire la moda sensa alcun. freno e governo , e n pure a struggerla interamente , bui a lem^ perarla (i). ' U errore in questo caso de^superfirali moralisti  si- mile a quello de^ superfidali idraulici. Quando V ha un fiume che fa delle rovine, questi sono pronti a suggerire di dividerlo in pi canali, sperando che le acque cosi di- vise debbano indebolirsi. Intanto il fatto succede contrario alla loro povera previsione: ed avviene che Tacque rem * Qui per modb inteDdo TelofM usile fogge dd rtrtire s iktP fernimentl. Oi) L'errore dei Gioia Tiene da ira errore pia aRo, da qael tue solenne principio o Si pu riiguardare la teBtibiHtk-deir aemo come  una quantil/^oftUnte in tuttr i secoli n (if. Gat, 4*. ediz. Milanese, peg. 5 IO): principio di cai non adduce la snenoma pcova. Sopra ma tal ipiOui egli fabbrica ininiti errori. K oi non possiamo trsKenewi i>8 che passa nel fiaoc oresee, o eab seconde U[ eeleritk^ e perci sftcondo il maggiore o minore sfregamento che sof fra nel fondo e nelle pareti de^ canali , ed altre civco* a mosCraiT rrrrore d'una nmile aMenialle, ma ei conl^leremo di oMcnrar, i * che  vn falfo tnetodo di ngiooare qaello di piantare nu^ ipoten gratuita, e poi fabbricar opra etaa dei aistfmi} %.^ che il principio lupposto dal ig. Gioia  coii contrario al aenao cooiiune, che fu impossibile al sig. Gioia stesso di non lo smentire in pi luoghi delle sue opere. Bastino i luoghi seguenti , tratti dal suo Prt^ spetto ddU Seienge tconotmcluy T. I , pag. ai , s).  A misura che ti CI sviluppa la nostra sensibilit , s** allarga progressiramente il eiroolo u degli oggetti pregiati , s' estende di paele in poeta, giunge ai con- tt fini del gif bo , e s^ aTania sino ai punti lucidi del firmamento con u coi si rof ttooo in contatto i telescopi! \ ed  noto che il marinaio u il quale ci adduce i prodotti de^ climi pi rimoti , abbisogna in u meno ai deserti delT Oceano di eonsaltare i satelliti di. firioTe n. Se la sensibUiU si sriluppa a tal segno a seconda della cTitiiiaaionc^ dunque n6n ti pu nguaidare oome una 4pantii cattante in cum' s JTCOl. u La somma delle cose roereate per bisognoJuico eotianU comune  a tutti gli uomini sta alla somma delle cose ricercate per Npomodb  e per piacere, oome uno a mille e pi ; quindi il numero delle aaioni  cresce indefinitiTamente negli stati nciTiiti , ed  quasi nullo in u molte aitoaxioni selTaggie. V  pi movimento in un giorno di la- te Toro a Londra, che non T^era pel vastissimo impero del Per pria u della sua scoperta t. V* ha dunque i.^ un bisogno fisico comune a tutti gli uomini il quale  costante, e a.* v'ha per opposto una aeit- ibiUt crescente a seconda della cTIixiaiione che moltiplien le asioni degli uomini in ragione dei luoghi e dei tempi pi incTlitt: 9o& si pu adunque, in generale parlando , considerare la teositlU come una quantit costante in nati i secoii. a I meni prmarii per u accrescere la ci? iliiaazione d' un paese consistono nelP accrescere  r intensit e il numero del bisogni e la cognizione degli oggetti che u li sodisfanno. Siccome la somma de* desideri  sempre maggiore e della somma degli oggetti acquistati i quindi aocresoendo  primi si  tiene Tuomo in uno stato costaste di carestia, stato che diriene u caum di moto perpetuo . Per quanto contenga di falsila questo principio, egli dimostra per l'opinione delP autore che i desiderii delPoomo si possano accrescere indefinitamente, e che perdo ia eensihiUi costanU in ditti i secoli sia e non sia ^iniooe del gnor Gioia. sUnze (i). Le paidoD dunque delPuomO) da cui viene stabiiile il ca|Atale disponibile per U eoiruzioiK, sono. bene., spesso cosi perenni e cosi inesauste ^ come sono le (boli cbe alimentano i fiumi. * Perci il GioiaijDon mostra meno imperizia nella scienza idraulica che nella mocale, quando, volendo persuadere che col moltiplioar gli oggetti delle passioni si diminuisce la loro forza verso ciascuna^ rassomiglia la passione umaiia ad un fiume, le cui acque si diramino in pi canali (a)^ OSSERVAZIONE XUL Il Gioia dice, che nel regno della corruzione tanto Vuomo vale Quanto spende^ e il risparmio  un gran ri^aU P)oich, come abbiamo detto ^ il legn della cprrazione non ha sede altrove che nel cuore umano / mi parrebbe da dire , che la corruzione si misuri non da quanto spepde Tuomo, ma da quanto vorrebbe spendere e com* pelare. Il Gioia ha fissa la mente ne^ contratti di merca* tura ^ ma nel regno della corruzione questi contratti non sotio sempre lucrosi ^ ma bene spesso gratuiti 9 o per dir inolio non sono sempre cambi di merce e danari, 0 d^una con altra merce , ma di una merce con merce dello stesso genere: del qual genere di contratti non  esempio nel-. (0 DoTendo passare per ogni sezione perpndiooUre del fiume in ogni tempo la medesima quantit d^ acqua, egli  necessario ehe dove r acqua Incede pifi lentafainte, iti 1^ mole diraeqnS sia maggiore. Ora, accrscendo i tauftli^ n dimiuisoe lacderiU perch si aamii- tano la superficie fregata dalP acqua e gl'intoppi, e perci il ano corso ti rallenta. Questo rallentamento dovendo essere compensato dalla mole dcir acqua che passa in ogni tempo, pu avvenire, e benissimo avviene che questa mole erapisca il nuovo eanale senza togliere 'I danno che faceva il primo. Ca) Il Gioia usa di qneela sinuliladHie del flome diramidO> n^ PT, Gaiaieo^ 41 edia. Milante^ pag. 619. (^US. FlL T. IL 17 iSo Pecotitfmia civile. Le regole danque delP ecttftooii pttb* blica j et il Gioia ha endpns in mente, Dot Biipolivap- pBcarle bene al caao noitro. u Consultando la toria trovavio, che ne^ tempi di roz-  zezt i feudatari, ne^ quali erano concentrate le rie- achezze, si riservavano deMiritti solle donne plebee clic v attualmente farebbero orrore; i loro emissari andavano a (c comprare la bellezza ovunque ai ritrovava ^ e la compra 'u doveva essere tanto pi frequente quanto pi i corn- ee pratori erano disoccupati , e la loro sensibilit fisica ^ meno distratta. OSSERVAZIONE XIV. Il Gioia appella alla esperienza de' tmpi barbari , e attribuisce alla mancanza ddla nfoda t diritti che i feuda^ tari si riservavano sulle donne plebee , e altre simili cose. In qudla scienza cbe n'apprende il pensare noi'abbiamo questo isegnamento, ch'essere due cose contemporanee non  Pistiiisso , the essere l'una cagione dell'altra, debito  dutiqu del Gioia dimostrare come i vizi enormi di qne' signorotti venivano dal non regnare allora la moda. Per isventura di sua causa egli si dimentica al tatto di &rlo. OSSERVAZIONE XV. Dice che in que' rozzi tempi ed oscuri t compratori di lurpezi eraiio disoccupati^ e l loro sensibilit fisica meno distrala. V uomo uccupato per il Gioia sembra essere l'eroe del Panni (i), 0) * fai AMti 11 liff. GidA Mii iMuia uells alPsrini tasto resto eon- tro alla taiitistiina morale figlia della moda , t cosi lo garrisco  Il i3i Se la sensibilit fiica di que^ sgoort fosse meno di- stratta, questo parr un problema proposto, ma non isciolto dal Gioia , a coloro che sanno come que' castellani, erano ravvoili mai sempre in guerre o private delle case, e pub- bliche deir imperio, o degli altri maggiori partiti ne^ quali si mettevano, e spesso ancora in giostre ed in pompe, e somiglianti sollazzi.  MSK Parini doTera ooQtentani di ofaemire i Tisi dtlllt nobikk u del tao tempo, e il mmpo era ben aalo. 9Ca questo grand^ amo ti mi iembra cha cada nel difetto di Plinio e di Seneea , aHoreh a ecrca di far ridere il suo lettore a spese de* purpurei tivalctti^ u delle sottilissime bende, dei diKeati nngnenti , della serisa zt- Ifoi el alten'amo pia toste*alP antorit di Piim'o , di Seneca, di tatta Panticbit, del senso cornane, che a quella individuale dell^u- Core della TWta cMg t penU Al Divoniot Per altre non  gi ebe il Gioia' non sappia la piceaUmm ifidet che suppone la moda in quelli ebe vi perdono dietro la vita. Egli anai la mette nel suo Galateo airarticolo u Scrfdito per atti infellt* u toali , e cosi ne para : er mostfvre ebe dopo averne parlato contro^ ne * ben anco parlare in fayore. Per altro nel modo di difender la ptccolesM ddU idu cerio gU ha conseguito la lode di quel retore, ebe nel tempo stesso che dava i precetti delP eloquenra, ne somministrava ancora gli eseayfl* / i32 OSSERVAZIONE XVI. Perch vttole il Gioia attribaire U acostamatexia Ae^tea- datari ne' baasi secoli alla sola mancanxa della moda t La prima causa (i) che ci viene in mente d' an fatto, i (i) * Qai il Gioia mena grande fracasso perch noi ahbiam detto ch'egli aurihuitce ala mancanza di mode la scostamatezaa de^ (tv- datari de^ secoli di meno (i\r. Gal, 4*. ediz. Mil., pag. G6o). Egli vuol abusare d* una sottigliezsa metafisica circa il valore delle parole, che il buon sen^o de^ leggitori dispreger, rendendo a noi giostiiia. In fatti il ano argomento in favore della moda il segiMnte:  La u oorruiiene e uguale o proponiontU al oapiUle disponibile per essa. La moda diminuisea il capitale disponibile. Dimifoe la moda u diminuisco ^ eomisione. Perci i feudaUr se aiftsa^ro avuto ce la moda sarebbero sUti meno corrotti it. Ora il buon senio dt^ leggitori giudichi se alPassenia della moda egli venga o non venga con d ad attribuire la oornif ione dif feudatari II Ooia scolastica- mente risponde un bel m pistingoo: come a pprine| e di tirsi esempia di magnanimo e pubblica ravvedimento. Era necessaria una nobilt ^ una grandezza di spirito , che trionfasse dei riguardi estemi mediante un amore intenso della verit e della giustizia , peir assogget- tarsi agli antichi canoni penitenziali ddla Chiesa e per piangt^re i propri eccessi pubblicamente: a questi grandi atti , a queste umiliazioni che sona quanto V umana na- tura pu aver di pii grande e di pia dignitoso, nessun tempo e cosi paco acconci come quello ove ha piantato il suo impero il lusso e la nloda, la morbidezza e la dis* soluzione. In qusto degradamento si riceve come neces* cessario sistema L^iNDiFrsENa (a). lP emendazione ^ al (i") Io sono bea langi dalP abbracciare tutte le epinioni del signor Bonald. (9) Quanto pi s' accresce la corhixione , tanto pi si spegne Pin- telligenza e rtma la barbarie. Vindifirerua  il primo passo verso r imbarbarimento ^ coin la stupidit  il Ibtomo della consumata aaWaticbexia. E poich Vindjffrtnza  V ultimo grado della falsa col- tura ddlfe quale insurperbiscono gli uomini fuori della religione:, perci UJlsa cUwra si pu dif&nire  Firenze regnando la 1/ casa de' Medici^ la Francia sotto Francesco I e Luigi XIV u sono esempi che provano la gran verit , che la volutt a marcia di pari' passo colla mollezza e col lusso (e per ce colla moda), e che per eonseguenza l'una  il ter- u materiali y o irEMere raprenumente iotdligentts indi aaice che  il materialisnio conduce alP indifferenza speculativa , e per conte- u gaenia alPimbrutioiento, nel mentre che la Religione innalzando tt Taomo a Dio, famigliarszandolo coi pia alti pontieri e colle dot-  trine pi tpiritoali, perfeziona alTinfiaito la tua intelligenza, e non M gli concede dVttere indifferente topra nulla di  che lo interetta tt ettenzialmente fi Opusc. Fil T. IL i8 i38  mometro delP altra  (i). Qaesti eiempi e^ parr cbt valgano di pi del aob aempio de' barbari feudatari. Potr rispondere il Gioia , che quegli cbe si oppone sia nemico della civilt. A noi pare, che quegti non faccia che parlare di fatti, i quali a lui non ibt infingere o mutare: e che con questa allegazione di fatti egli non si mostri gi nimico della civile , ma desideroso che altri in vece di fare V apologia alla moda cos in genere^ e senza ve-, run limite (a) ( quella che non si pu &re), avesse pensato dar regole per iscansarne i mali, e volgerla a bene: pro- prio officio di un savio che procaccia co' suoi scritti Tati* lit degli uomini (3). Il sig. Omodei j giacch siamo in medicina , nel suo Giornale medico (4) i^ostr che la propagazione de' can i posti si sieno recati da H06 che erano , a 63o v. Kn^ Italia e nella Spagna non t^  apparenza che il numero de^ pazzi aia tanto accresciuto , r*me in quetle tre nazioni. Dopo % anni che H Dott. Esquirol arca scrtto V articolo che ci- tiamo sulla pazzia, tratt P argomento dell'aumento de^ pazzi in un discorso a parte, e lo stamp nelle Memorie dM Accademia reale di mdicinm di quest'^anno 1838. Egli mostra bensi nel medesimo die i nigliorameati fatti agPInstitnfi de' pazzi concorsero in Francia a fame credere il numero aumentato ancor pini che non sia realmente^ ma per oouchiude che vii est incontestable que les vicea, que les ex-'  cs inseparables dea progrcs de la civilisation , ont fait augraenter (c le nombre dee faisenas \ mais eette augmsntation est lente et pr*  greasire^ i4o questa parte (i), sciagara che fa osservato gi pEocederc sempre di f/Sri passo colla coltura ^ E se fosse utile il nascondere questi fatti, sarebbe egli onestai sarebbe egli possibile t Ma non v' ba che ona cosa sola di veramente utile, la perita; come non vMia che una cosa sola d ve ramente dannoso, l'errore^ e T orgoglio delPuomo, unico padre, in ul li n>a analisi, itW errore {t). (0 Ogouno conosce il gran nomer de' suicidii saocetii Panno scorso nella sola citt di Milano. (a^ Il sig. Gioia stabilisce per principio, che bisogna cercar V utile anche a spese del vero ( N.GalaUo^ 4*- ^i'* Milan., pag. 389, 388 \ ed ammette che vi sieno dei casi in cui la menzogna sia pi utile della va-tt. Ci posto noi siamo eerti che il sig. Gioia dioe sempre ci che crede utiUy ma non siamo certi che dica sempre ci die crede pero. Quindi si spiega assai bene perch noi meritiamo da lai il titolo di ostrogoti e mi! T altre rillaoic: egli  perch osiamo palesare i mali che ha seco congiunti la civilt: che sebbene sieno rari, non debbono esser t^erij perch non  utile il dirli perL Egli non pensa che a dar risalto, cornagli si esprime, alt attuale ineuilimento iN. Galateo , pag. 5oi >; dunque tutto ci che non gli d risalto, debbo esser falso per naturai conseguenza. Per altro il suo  ano di que' principii della moderna filosofia che hanno bisogno d** esser tenuti secreti, perc^ valgano qualche cosa t s* egli lo palesa, che gli varr affermare che noi siamo ostroigoft, e assi- curare che lutto va bene neWattuale eitfilt? Facendo sapere cfa^egli regola le sue parole secondo V utilit, egli viene con ci a dire a^ suoi leggitori: ce Amici, la cosa  cosi i io bene ve ne assicuro; ma arri- u cordatevi di non credermi n ( Ved. il GaL d^ Letterati^ e IL  io> egg.). Se a Rousseau sfuggi che *> la menzofpa non sarebbe vizio se p*  tesse esser utile i, ^gli mise almeno in dubbio  pi tosto neg che sia mai utile. Il Gioia adimqoe non ha le idee di Rousseau he  noi attribuisce, perch egli le ha peggiori. Per altro relativamente ai mali della civilt e ai beni della barbina non  Rousseau 9, ma Leibnizio che scrive cosi u Conviene (x>nlesoca de^ sofisti, creando di baonsi fede la Terit, n avendo biaogno di sostenere il pr ed il coa- tra d*ogni cosa, videro quanOera pericoloso l'attingere gli esempi diP leoeli barbari , dove I* umanit > per cosi dire, rovesciata fuori dalle sue leggi.  Exempla, dice Grozio , quo meUorum sunt Umportun tic /opttlonim, eo plus habent auctoritatisi ideo Graca et Romana yetera^ u cmUris prmudinms n (l>e iure et ,' Proleg. n. 4^.)- Conriene stndiwr la natura dove non  alterata , per conoscerla , e poterne indicare Opusc. FiL T. IL ' 9 H Gm tripaM a vtdere la com da un altro lato.  L'amore, dic,  di su natura esckisiTo; egli vuol a esaere proprietario assoluto, e oenaa divisione. cr Aumento di affezioni amorose  dunque aguale a .di ii minu2ione d godimenti comuni. u Ora in generale le affezioni amorose crescono in ra- tf gone della bellezza . OSSERYAZIONB XXI. Alla prima di questo tre propomioni non  che rispon- dere , ma solo da fare un'aggiunta per dare un liimc mag- giore alla natura dell' amore sulla quale il Gioia innalza U suo argomento. L'amore si deve considerare ndFamante e nell'amato. L^amante non vuole li conoorreotr, n emuli, .  Vuftddtk di Elena  trattatat bea pi aoleaiie-  mente. Meaeiae  oKraggiatov ma san v^ka akimo che a cerchi io  1 i5i OSSERVAZIONE XXV. Crede il g. Gioift ohe la poligaua aia il segue certo della connnione d^iHtt gente? Se lo crede, a'iiiganoa. Pei- che dove U paligania aHsaiete ajpfoee, ok^elia , beacb sorgente in se stessa d disordini , non ne prodace p^r tali e taiit^, si eke gK nofliiBi aprendo da se slessi f^ occhi j B* indacano ad estirparla. La poiigana sarebbe V ultima rovina d^ una nazione colta e raffinata : e s i(i tale naaipne fosse permessa ^ dimostrerebbe quegli uomini venttti all' ltm grado oli inciviliti j poich questa operazione doloro-  9fUf(^ ricercano ed ambiscono 4t gii anM di nune o ^^^ilXi meU^Ho^ i ptni di ttetr^ ed altri corpi  iitcmii,  c^ amali fs|f^QSA la/ronu, |e fionce, le orecchie, le na- u fUijt^ (e. IMm w adornane. La passione per gli ornamenti non e u durufue un ^elia della cwitizzazionen {^N. GaL^ ediz. 4-* Milanese, pag. 5o5V Orquici l|a fericfio cho V Apologista della moda venga alle aniie^ pcicb questi toglie alla civilizzazione il me* rito della passione per gli ornamenti : e mette questa passione nel numero de* vizi. Certo V Apologista deUa moda non dichiara il signor Gioia QD tm/rmlista ptdant^t uo utocents, un ostrogoto. Non c^ altro che il pfwcipM d^ utilit b^i intesa che possa conciliare questi due strani pecsonaggi I (^O ^ JBlla insaUaUcherebbe : t^e  il caso de^ selyaggi. Questo caso da noi qui afioinoato il Gioia ce lo porU contra di noi. I selvaggi non sono popoli nwff^mente roa^ i, come tante volte abbiamo avuto Tocca* sione di dire , ma corrotti a^zi degradati. La poUgasa  toUerabik in n popolo nascente , che sia rozzo , ma oan eorrptto: in qyiestp caso l' esistere di essa  una prova della bont di quel popolo Se questo popolo si rende adulto e corrotto, e s^introduce in esso qualche specie di* eivilizzaaione o d raffinamento, allora deve succe* (dere x. o che la corruzione la Ynca sui^ principii morali e sulle \n^ ^e&to tlB si ^te solo quasi Dell^ esordio delle nssioni ^ quando yivendo nella semplicit e neUa rozxesza ^ no cercando ne^ maritaggi rhe la prtipagasone della specie , e ti soddisfacimento di questa ioclinanooe aatorale.  qoq istmotata dall^arte,  loro deskiani erano moderati e eoo* iCitasioni, e in qnesto ciao qqeste aono troppo deboli per abolire la folifainia: elli resU, e mluppa 4t* danni incaloolabiU che condueono la naoDe di grado in grado fino alT ultimo imhnitimento ed alla sai- Taiichesia} a.* o die trovandosi pi forti i principii morali e intel- lettuali della corruzione , si risolTe di mettere de* provTedimenti all crescente corrusione, e di far delle leggi che Tanno a togliere la po- ligamia ; e queste seno le nazioni che hanno poi un corso lungo e glorioso, elevandosi ad un grado pi o meno alto di vigore intellel- tnale, di polenta e di gloria; 3.^ o finalmente non ai giunge a sradi- care la poligamia, ma solo a metter de* ripari ai mali disella apporta^ formando de* serragli, come in Turchia; e queste nazioni non possono arrivare ad  sa grande cirilt , come le seconde, a per diaeendona al totale imbrutimento come le prime. Ecco le osservazioni di Montesquieu al nostro proposito sulla po- ligamia.  Ne*gran& stati vi sono per necessit grandi signori. Quanta u pi sono agiati di beni di fortuna, tanto pi trovanti in 'grado d tt tener le donne in un* esatta dausnra, e d* impedire che entrino  nella societ. Per questo appunto negP imper dd .Tureo f di Per-  sia, del Mogol, della China e del Giappone, nirabiU aono i os  stumi delle femmine n (a)  Non pu dirsi lo stesso delle Indie, che I* infinite isole, e la sW  tnazone del terreno, hanno divise in infiniti piccoli stali, che dal  grandissimo numero di cagioni , ch*io non ho qui agio di riferire^ tt vengono fatti dispotici li. tt Col non vi sono che miserabili che rubano, e miaerabiK che aon u rubati. Coloro che chiamauiii grandi, hanno piccolissimi modi:qnelK tt cJm diconsi ricchi, pi non hanno della lor sussistenza. Non vi pn^ tt essere si esatta la clausura delle femmine; non vi si possono pren-  dere precauzioni cosi grandi per contenerle; vi  mconcepibile fai  corruzione de' costumi  In Patana la lubricit delle femmine vi tt  ki grande, die gli nomini sono costretti a farai certe guerniture tt per ripararsi da* loro attacchi. Secondo il sig. Smith le cose noa tt van meglio ne* piccoli regni di Guinea. Pare che in qn* paesi i tt due tessi pevdano fino le proprie leggi w. Lib. XVt, e. X# () Noa biiAB , aa ainbK rcUtivaate  i* clic polrebbre eMre. Si cftvoM i53 tentabili. Per qoeslo la troviamo anche nello sUto patriar- cale permessa da Dio , usata da uomini santi y e la tro- viamo nella legge di Mos. Laonde quantunque si opponga la poligamia alfa perfezione e alla natura del matrimonio , tuttavia ella pot essere tollerata sul principio delle nazioni , nella stato in cui non erano ancora corrotte: e per  il segno bens della loro imperfezione , ma non della loro corruzione.  E cosa naturale, dice il Montesquieu ( Spir.^ ce L. XVI, e. IO. ), che l ove il vino  contrario al clima, tf e quindi alla sanit, l'eccesso ne sia punito eoa severit  maggiore che ne^ paesi ove f ubbriachezza produce po a chi effetti cattivi . Ma che la poligamia non sia segno della corruzione d'un popolo, ma della sua imperfezione , e insieme della primitiva e naturale sua semplicit ed in-- nocenza , lo ha provato un sommo scrittore , a cui io mi rimetto, il sg. Bonald, nella sua opera sopra il DivorzK), cap. yi.  Nella rozza e feroce Sparta P adulterio avea perduto tf il carattere del delitto : neir incivilita e umana Atene tt V adulterio non era ignoto , ma V opinione pubblica e e le leggi lo comprimevano r*. OSSERVAZIONE XXVI. Non intenderanno que^'aavi lettori, a cui corra aott' oc- chio questo brano del Gioia ^ come egli introduca- Atene per dimostrarci che la civilt e T umanit non conducano alla dissolutezza de' costumi: e crederanno ch'egli dovesse farlo , avendoselo proposto , con qualunque altro esempio prima che coli' esempio di Atene , nella quale si trova in tutti gli scrittori deUe sue storie ,' che di pari passo colla civilt e coltura mont la dissolutezza, e oe^ tempi di Pe- ricle come non vi fu citt alcuna pi colta , cosi parve . che non ve ne fosse alcuna pi dissjluta : nel che trova- rono sempre i savi la ragiume principale della sua caduta^ Opus. Fil. T. II. 20 i54 OSSERVAZIONE XXVIL Dair esservi leggi io Atene contro T adulterio , e non io bparU, ai potr inferire che fossero pi' frequenti gli adttlterii presso gli Spartani che tra gli Ateniesi f E non sa il Gioia ^ che k leggi e i costumi di solito stanno in ragione contraiffo? non sa che le leggi si fanno contro i disordiniate solo allora che questi traboccano f Secondo r argomento del Gioia si dovrebbe inferire che vi fosse stato minor lasso in Roma negli ultimi tempi della repub- blica che nei primi, perch in questi ultimi tempi vi erano molte leggi suntuarie che proibivano il lusso , mentre non erano ne- primi tempi ^ ma ci prova appunto tutto il con- trario. * Wallace cadde nello stesso errore del Gioia, quando si mise a provare la grande popolazione degli autichi dalle leggi che la incoraggiavano, iAogaa conoscerli. E per nasce che dove  pia conoscenza, vi sieno anche vizi maggiori \ dove  pA ignoranza , come ne^ ppoli rozzi, ma non ancor guasti, vi sieno henA miaoti virt ^ Bla insieme minori vizi , cio minor corruzione. Perci sapientemente Giustino scrive, che meglio giov a^ barbari V ignoranza de' vizi, che ai Greci la conoscenza delle virt, , OSSERVAZIONE XXXIL Lo stesso  a dire de' Germani antichi. Non si pu con uno, Sciocchezze f distruggere tutto quello che racconta Tacito in favore de' Germani (i). Se il Gioia avesse detto che Tacito pu aver^ esagerato nella narrazione della con tinenza germanica per fare arrossire i suoi concittadioi , sarebbe stato da comportare; ma negare tutta intera quella virt , chiamarla un mero infingimento d Tacito , spac- eiare anzi tutto il contrario di que' popoli, questo  troppa ingiura al snno di quel sommo istorlco. Poich non avrebbe certo ottenuto che i suoi cittadini vergognassero di se slessi, ma rdessero di lui narrando fatti patentemente falsi ; e presumere altramente sarebbe stato da sciocco. Si ram- menti il Gioia , che i Germani ne' tempi di Tacilo erano gi apprsso i Romani sufficientemente conosciuti per le guerre , che in qne' luoghi vi avevano fililo, e vi facevano. rende degno nuovamenle di omparire, come noi, Ostrogoto agU oc- bi di colui , i cui meriti Terso atla civilinazione sono d^ aver ritro- vato il modo d'^nnestarr la morale, e la veriti come rami sai tronco della pubblica econonia! (Ved. il Galat. U^ ZetUraii, e. IV,  ^ ). (i) "^ Tacito ha autorit solo quamlo parla a sfavore de^ Geriuani. Allora il Gioia lo clU con rispetto (iV: GaL^ edit. 4.* Mil., pag. 5o4, 5o6). Eccellente principio di eritica, uon dar fede agli lrtori ed ai fatti che quando favoriscono il proprio bittema!  ^arte crtiea che i) signor Gioia idiegna ai gioranetti; i6i OSSEBYAZIOIfE X2CXIIL JNbn  lsolo Taeito, che descriva i costami ieyeri e cod* tneoti dei GermaBi. Anche Cesare ci dice diiaro: Infra ani9um rigesimum foeminat notitiam habuisse^ in tur* pisMmis kaent rebus; e ancora poco innanzi: Qui dia* tissim impuer&s permansisrunt maximam inicr suos ferunt kauUm: hoc ali staturam^ ali hoc 9rcs neryos* ifue confirmari putant (\)\ e Quintiliano nella declama* zioue in favore del soldato Mariano la cui pudiciia era stata offesa : Nihil tale nouere Germani , et fonetius apu4 Oceanum t^iVifur. Ma senza le autorit, non conviene con questi austeri costumi tutto il modo di loro vita? Poich essendo dati i Germani interamente alla caccia ed alle armi, ogni mollezza rifiutavano' e avevano in obbrobrio : vita omnis 5 dice Cesare io questo luogo Ut$so , in i^cnatio^ nibus y aiqufi studiis rei militaris conwtit: abpan^utt$ labori oc dariiiaa student. OSSERVAZIONE XXXIV. Ma basta un pochissimo di filosofia per intendere, ri* lossc le autorit, pur col solo ragionamento, come il ri* gido clima della Germania dovesse raffrenare la lussuria^ ed esser questa meno nel settentrione che nel mezzogiorno. Lo sviluppo del corpo ne^ climi freddi  pia lento, e per pia lenti sono gli. stimoli della libidine, fion solo Cesare ci dice come fardi loro la pubert, ma anche Pomponio Mela (a) chiama la loro puerizia lunghissima*, a cui a capello risponde quello di Tacito: Sera iuvenum venus coque inesausta pubertas nec iHrgincs festinantur (3), Laonde la narrazione di Tacito ha il suggello della espe^^ rienza e della filosofia. CO De httto Gali lib. TI.  De GirmmdL Opus. FiL T. IL ai OSSERVAZIONE XTST. Quanto sippifeaie interno a' Germani antichi ai alEk colia torii 4i tatti i popoli roai ,' ma non ancata corrotti^ t in particolare eoA ({Utilo cha  detto de' Lacedemoni. 'Po* che leggi e poche canlet contro aHa dissoluteraa, peacM $9d oh errnm neccaiarie. Non aolo Tacito e Cesare ci dicono la lavo ondili^ e  promiscui hitacri me^ fiumi ^ ma ancora Seaeca e Mela od altri. B mwafigiano quegli an* fichi t civili scrittori come questo non fcsa cagioite di gravi sconei; e gli adulteri! fossero rarsslB^esolto l'anno vigesimo ittrplsrimo fosse appreasp di loro , e pere molto di rado awefilsae, che nomo avesse avut notlis di donna. Narrando le quaH cose Filippo dtvetia nella Germania untica, e considerati i costumi de' suoi tempi) non si tiene dallo sdamare: Sed pn>k dolor quanta rnukitol Nane fere sla Germania inter Europaeos . . . non modo brachia ac lacertosa sed omnem pect0ris pmrUm tegit^ nuditatemque heic in aliis gentibus miratiir et abhor- rei: non tamen rtm^ 9enus ittieita^ non rara adulterio. Tegere omnem eorporis partem in gemina quae libi- dinem irritare possit , laudabile equidem est^ maxime' 'que pudicitit eondwsibile: at ubi animus eosrtxputs est, neqaid^uam vestii egit , quae ille adpetii. Il che torna a quel fenedesinio che tioi osserviamo, cio che ne' popoli rozzi la libert del vestire e del conversare bench sia no- cevole , non  Cosi nocevole e ruinosa come ne' civili , per- ch meno corrotto hanno P animo. OSSERVAZIONE XKXYL Una riflessibne aocora in- su' popoli rozai, au non guasti*^ ed  questa. Gli stessi popoli rozzi conoacono qoeslo danno delia civilt 9 il quale s'intromette facilmente nelle nazioni che si fanno civili, e prima d^li tessi beai che essa ad duca: conoscono cioi come la civilt apporti mollezza, e  snervi i costumi. Quando Catone temeva he le greche lei* terc c9nmfi$89to la giofcnti fMPftaM^ e ahciata^ro k Kepablklica, vfdeva ndU natura 411 Go#e, e' G dalla coltura sta il raffioameato del vizio; alta qual oo^a dchbe atteoderr il savio e Boufiascoadcrk)^ ma studiarao  ria^dii.   un fatto .attestato ad uoa voce dai viaggiatori, che  la degradasione delle donne cresce in rsgioBa della liar-  barie aaaionale ^. OSSERVAZIONE XXXVII. Non neghiamo il fatto, dove per la parola degradazione a* intenda assoggettamento a dure fatiche, e vita penosa. Quest' awilimeiito delk donoe certamente  un male ^ ma non segno d maggiore dissolutezzji. Mi pare siogoiara trovare doe aomiai ,  quali conveneodo in uno stesso fatto, ne tirino due ooosegoenae totalmiente opposte. Questi sono il Gioia ed il fionald. U Boaald nel* r opera sai Oivoryio ohe abbiamo di 9efee ditata, vede odio stato di avvilimento, in oui atamio le donne pres^ i po Nel Saggio auIP Idillio e eaUa^iaova Lettiratora Itatiana, ho partioolamieiite avuto lo mira di tcatUre la rUzione fra la Veliera* tura e la inerita. Lo scopo principale di questa eperetta  di trattare la relazione che ha colla t^erit la gentilezza, Parmi che pi si medita pi ancora si troya e intimamente si conosce come tutto ci che in- teressa Puomo in ultima analisi si risolva e termini nella (verit. Questo risultato , che senza che io me lo proponga vedo per sem- pre presentarmisi spontaneamente nella fine delle mie ricerche fifo- sofidie , giustifica e spiega ci che ho dett nella prefazione del primo olome^ pag. X e segg.{ eio che Tuno de^ due caratteri della filo- sofia da me seguita  una incessante tndenza che conduce alla URITA^ ove non il sapienle ma si vegga il piccolo ambizioso abu- sare dellMngfgno a trovar qualche artificio rettorico, qual- che luogo comune , qualche vigliacca ingiuria di cui af- fliggere Tavversario , intenebrare il vero, ingannare momen- taneamente il pubblico pi volgare sul grado d'onore da s e dair emulo meritato^ allora tutto il bene  perduto che 0 dairuso de' giornali o d'altro modo di pubblica corrispondenza potrebbe e dovrebbe la nazione, e princi- palmente l'italica^ aspettarsi ed esigere. E pi volte io ho concepito in' animo il desiderio, che alcuno si levasse contro tanta domestica ignominia ^ traendo sicuramente in palese e additando singolarmente i modi spiacevoli e le sconcezze tutte, che fanno cosi sovente non che agresti e barbare, ma parer ben anco scurrili o turpi le scritture de' letterati presso di noi , e cosi fanno inutile, fanno disorrevole e pernicioso alla nazione un eser- cizio di sua natura utilissimo , la libera e nobile comu- uicazion del pensiero e delle varie opinioni. Di che ne sa- rebbe riuscito quasi un piccolo codice della letteuria ur- banit, un galateo de' letterati ^ ed io medesimo, ov' altri non ponesse mano a tal opera , di dar ad essa alcun av- viamento , secondo la mia possibilit , divisava. Ma veg- gendo come lo scrvere sarebbe tornato vano e perduto l dove coir evidenza degl' indegni esempi , de' quali e libri e giornali gran copia mi avrebber fornito, non avessi com- mosso il pubblico ad un giusto disprezzo di coteste lette- rarie batoste che tutto di c'intronano col loro strepito e ci annoiano colla loro sciocchezza ^ indugiavami a ci per non dovere spiacere forse a troppi involontariamente , a cui il vero tornasse grave , e io non fossi altrui parato un cer- cator di brighe con quello stesso trattato che per ispe- gnerle dettava. Del quale impaccio una buona occasione che mi si d innanzi ora mi trae , la qual cogliendo ,' quella operetta io far che divisava: mettendo in vista le maggiori scon- venevolezze e le villanie che imbrattano principalmente le dispute de' letterati , i quali pur dovrebbero esser fiore di 174 dvilt: e qui almeno , oel^baon volere di aiutare il venire avanti di qoefta, ai parr il mio amore per lei: che noo poco ella gHadagnerebbe, ove altri gungeaae a mettere in univcrsal odio i modi radi e orgogliosi, e sbandirli dalle letterarie contese, e a far che i letterati gareggiassero in- sieme qoinci innanxi di gentilezza e di generosit, e le parole, T abito de^ lor pensieri fosse tntto cosi mondo e decente ^ quale Ila verit , a coi solo qaelli tender deb- bono, si conviene. Ma io debbo, prima di por mano al lavoro, render conto della occasione che mi vien dafa , per la qaale io m^ho acquistata ricca materia da illnstrare  peccati che mi conviene accennare contro il galateo de^ letterati e contro la vera civilt , con degli esempi reali , nuovi e solenni. Sono adunque pochi anni, che nsciva in Italia U teria ediaione di un libro assai pernicioso al retto pensare ed a' buoni costumi (i), e forse pia die T altre opere deU Fautore stesso; non perch egli non avesse anche in ana, nessun acume o puntura , sebbene la grossezza degli errori l'avrebbe potuto altri suggerire: m'ingegnai di conciliare, quanto io sapessi , la causa della verit e la minor vergogna del- P autore che ae ne allontanava: mi sono fatto un devere di non accennare a ncssui^ mala conseguenaa morale e reli* giosa che venir potesse da que* principii , consapevole, che ci che l'uomo ha di pi delicato e di pi prezioso  la sua morale riputasiooe: e per una delicateaza che potrebbe (0 Esmme deUe opinini "di Melchimre Gioim in/kiffm Mia moda ioterilo fra le Mtmari di Ri^oney di Morale e di LeUeiulura che ti itaai^iio m Modrna , Tomo VI. Qarsto Eiabm* si 'ciU nel preseate Qllro wetono la namerata di questa edizione la quale contpoe uo^ Ostenraiioiie di pi Mi' ediiione Modenese. (a) T. 1 , pag. i33| e m> dMk tersa edisioue del Nuovo GaUteo. 176 parer soverchia , noo ho fatto pare ob motto di quelle sue espreasiont (h trivio e da bordello , nelle quaK aporca lo alile, cosi impolite e achfoae^ apecialmente in un libro pe' giovanetti (1)9 e delle allusioni satiriche cosi rancide e inette contro d(f' religiosi (a): per non dovermi partir giammai da quel grave carattere che aveva assunto di semplice e quasi freddo ragionatre : parendomi d^ una parte che pr* vata la falsit de^ principii, il lettore medesimo avrebbe potuto conostem^ il danno, e dalP altra, che la muder- xione e il passartni di tatti gli accessorii, mi avrebbe do voto conciliar l'animo dclF autore medesimo, del quale d^ altro canto mi riputai obbligato di dichiarare con can- dore chMo onorava l'ingegno e le cognizioni, e di prote- tare, che mettendo fuori gli errori dov'egli era incespi- cato, io non intendeva dar mostra del suo personale di- fetto, ma di presentare una nuova prova della labilit della umana ragione (3). 0)11 portare della soostamateua aotto la i&iHtadioe di oq mercato che fanno di se donne ed uomioi,  maniera la pi laida e la pi ri- buttante. Sembra che non si calcolino per nulla i gradi intermedil Mia oormiione, e che si Yoglk spingere sempre P immaginanone agli oltimi gnidi deUa medesima: sembra che non ci aia altra oorru- aioae che dei bprdclli} o pure che tutto il mondo non sia che un Tasto bordello. Con quelle espressioni in fatti scriverebbe con pro- prit^ta ^h parlasse della immoralit di questi luoghi di prostituzione $ ma non gi chi ragiona della scorrezione de^ costumi' nella comune eriet; H molto meno dii ha in mira le societ colte e gentili, pe^ membri delle qnali si suppone fatto pi^che per altri un Galateo. (^a) Il Gioif  in collera co^ poeti satirici quando dicono mal delia moda : allora essi per  colpire fortemente V immaginaaione de^ loro u lettori , sono costretti ad esagerare , e nelle loro pitture violar tutte  le gradasioni ff. Quando satireggiano i religiosi, od altre cose atte* nenti alla religione, o checchessia non piaccia alPumore del sig. Gioia; allora essi 'fanno testo. Tutto il IfuoVo Galateo  irigrossato de^ loro ersi : v*  taglinazato dentro il Salvator Rosa cogli altri che si di* wtbhe proprio aver il Gioia composta Popera sua in comune con essi. Scartare i poeti satirici perch passano nelle loro pitture tutte le misure; fare nno'smnurato abuso de' poeti satirici: eooo il ofiata. (pi) HeiU lettera che precede le Ouervasiom. 77 Ora Pautore scritexootro quelle osservaiioiii (e parche ttedifaase tre anni) ud Capitolo (i), che di RipoU noa ha che il titolo^ perch ttttta la sostanaa  fatu di villa- nie, le quali ha saputo co^ beue iuaieme agggruppaie ^ che io poco spaaio mi offeriece uoa nuova e copiosa miaiera d' esempi, onde io possa chiarire e mostrare cornee in realt ogni maniera di sozao fallo quasi direi che mi venga O) Es  intitolato RUpona agli Ostrogoti. Noi tiamo Ottrogod perch pensiamo dTersamente del Gioia che  la Civilt in persona, come ognun veda. Qoesta bella parola. Ostrogoti, gli va ioftnitamento a fangoe , e molto si compiace delP invenzione : gi eredeai in poa- aesso d^ un talismano generale per annichilare tntti gli avversari suol^ ed anche quplli che non gli sono avversari ^ questi per una cotale valentera. Ma se le parole vote di senso operarono grandi coae a' d nostri, e incantatono gli ifomlni eiviliisat^ siccome hiscie al sonato del cefrelano; giover nulla d meno oiK inventore di questa il non Carne troppo sdalacquo, com'egli ci paro ne &|Dcia, poich'ella per* iiercbbe ogni suo prestigio. In fatti la generosit con cui distribuisco il titolo , fa crescere sempre pi il numero de^ nostri compagni Ostro- goti : e poco fa oon un suo decreto dichiar siccome noi Obtrogoti anche tutti gH autori della Betnu Bhcjrciopdufue, Il nuovo eroe della Manica non teme d^ ingrossare le no8ti barbariche schiere: u Orazio sol contro Toscana tutta * ! ta promulgatrice del decreto inesorabile fu la Biblioteca Itslian| e la Ifet^ue (mai, 1898) osando dir qualche ooaa in diacolfMi, comincia coti  Le Cahier de mara 1838 de la BibUoiUe^ ftmtiana^ qui se po- MblieMilan, contient un artide, ou pi.ot4t vsb m^Taiis, de a M. lelchior Giou contre un article de la Revtu ncjrclopdi^u , u intitute : De Pobjet et de VutiUti des statistiques. '4 cette occasion , w nou sommes compars  une acadmie d^Ostrogoths , et Tauteur ts de Farticle (H. J. B. SAY) est veprsenU comme un swicmi d!is u humres. Il 7 a va pbu o'ivoaATrnmB ^nunaas; car lea ouvrages a de li. Say , tool ennemi qn'il est dea lumires , oiyt foomi  u M. Gioia une bonne partie de lon livre anr rconomie politique, '  QVI b'bST qV^JiMM MKOVB PBArsaASB DBS BOBS AOTaUBS 9OI OBI u icaiT sua cbtts matibbb .  dopo aver dato un saggio della dia- triba del Gioia, senia perdersi pi oltre a confntaria conchiode u xa U mAme JVSTICB WS fcA MMB lOMS ffOI SS SSIBOWBIIT 1i3H%^WS AOT* a BBS CaiTl^UBS 9^ Op^isc. FiL T. li. a3 in capo contro la letteraria ari>afii(: delia quale miniera io penao^ cia dicea, di giovami. Bea ni dnole cbVgtt volesse vedere nello scritto eontro di Ui un atto ostile , dor gli sarebbe stalo tanto agevole' di ravvisar solo m. caosa delk verit trattata con rettitadDe, iKacTezione ed amore : e che con uno atik armto d* ira e di citationi siasi consigliato far mostra contro il pacifico avversario de^ suoi errori , di tutti gli argomenti di chi ha il torto. Che chi ha il torto ) e non vuole o non sa riconoscerlo,  ne- cessitato a dimostrarsi incivile, e quasi solitario e forestiero nel genere mano. Non essendo egli io grado di far uso in propria difesa della forta della verit, non gli rimano che dar di piglio per sostenersi a^ bassi artifizi di una falsa eloquenaa, ove per si sente sempre che manca qual- che cosa, cfae ha un cerio vano, una certa inefficacia ii^ e medesima^ che la rende inetta a produrre na piena, un^ intima persuasione^ quegli stesso che la adopera per quanto si creda ingegnoso e potente a prestigiare le menti colla sua loquacit, tuttavia  conscio di ^uellMntima de- bilezsa che conservano le sue parole: egli si sforza di ac- crescerne il calore naturale, egli esagera, egli si sdegna, egli pronuncia pi francamente quanto pi si sente sfug* gire di mano la verit : egli scarica finalmente nn rovescio dMmpropori suir avversario , che non debbe essere cosi indiscreto da risentirsi di quelle ingiurie, le quali anzi che nn^ animosit personale contro di lui, sono uno sfogo ed un soHie^ che cerea Fumana natura aggravata: sono una confessione spontanea della natura ragionevole in ossequio delU verit, 'confessione onde Tuomo espia involontaria- mente la propria volontaria ostinazione nell^ errore. Attinger adunque a questo fonte tutti gli esempi de^ vizi che offendono IV urbanit e la letteraria gentilezza , e mi studier di laceorli come sapr in questo pccol trat* tato, ove i letterati veder possano^ quasi in un quadro^ quelle sconvenevolezze che loro  bisogno sfuggire per non parer forse, senza ohe infinita erudizione gli scu^^ sca- bri e selvaggi^ e le loro lettere, principaioMnte juelle che 79 umane oievaosi dirq anticamente, or qnasi con yiao ar- dgQd e 4>a?cntevole non isgaoiAotina e caccino da si. gir uomini y manii grazio^/e tA amorevoli^ e tntle cidentl gP in- vitino a s , ed aflabiUnent^ li tnggano. C per dare alcnn ordine aUa materia, toccher prou alcune di q,aeUe brutture che macchiano la %eM de^ pen* eri, cio le parole e lo stile , e mostcano aoimo sco#tu mato e rozzo: posqia on poco pi addentro mostrer quali %no i segni della zotichezza negli argomenti co^ quali gli scrittori cercano dMnsDuarsi negli animi de^ leggitori, e d' ingerrri prevenzioni a s favorevoli, agli avversari con- trarie, ma che troppo spesso a contrario effetto loro rie- scono : e finalmente caver fuori le principali incivilt che si commettono nel anodo di trattare lo stesso assunto prin- cipale dellescrittiire: e da questa analisi delle letterarie scoQvenieose ^ kk alcuna dette -quali troppo icile  dMn- eappaie agli scriUoti s soj^a di. s molto non istanno, ukimamonte fac prova a^ vedere .9t cj vico dato di sol levarci ad un principia unico deUa bella cosIfimatefaUi, e ad un nnive^saU concetto del gainteo, cio delParte della gentilezza e della urbanit. CAPITOLO II. Scow^eniea^t melle/erme sodo U quali si presentano U proprie idee. Pefcfa nQi veliamo quali ieno. i modi soan e plebei che Mubrattpno le parole e In stile 91 egli baator ^e noi poniamo V occhio a vedere* e notare ci , che pia xauta^ mento sfuggono* qiielk, die di gentili e colli sciittori so- gliono av^ grido* ^ e quali' cose fur4)no e aono tuttavia* pi avute a schifo e punite: di pregia da quelle nasioni e da que^ tempi, ove la cirilt fu* ed i pi in fiore ^ e il senso di ci che  notabile e bello apparii pi fino, dlicato e qaasi sdegnoso. Il qaal principio qnasi tome regolo noi osando a reet et che diritto e ci che torto sia in ragione di civilt nelle maniere dello scrittore , troreremo che nb' tempi pi colti e nelle societ Tenute pi innanzi ne' progressi del iver civile e nel gusto di ogni gentilezza,  modi che ora IO diro A nel parlare come nello' scrvere sono mai sem- pre come sconvenevoli e vili riprovati e sfoggiti. Ed essi son quetti che ora ad uno ad uno enumerer Segni iP ira. Il primo  P usar parole iraconde: poich Tira fa sen- tire in se medesima un non so che' di triste e d* irrazio- nale ; come alP opposto la placidezza rallegra gli uomini, dimostrando in essi al di dentro un animo lieto ed una mente serena. Laonde saviamente il Gasa mette fra^ modi da evitare nella privata conversazione il lasciarsi prender dallMra in altrui presenza^ perch, egli dice,  come gli  agrumi che altri mangia te veggente, allegano i denti  anche a te , cosi il vedere che altri si cruccia , turba te^ fi (i). ^r quanto pii. da sfuggire questo vizio dagli scrittori che non in presenza di piccola brigata , ma por in pub- blico e in cospetto di tutti gli nomini conversano e stanno colle loro scritture? e le parole de^ quali si suppongono non uscite improvvise al momento del bollore, ma lunga- mente appensate , e corretto dalla meditazione ? L' officio del letterato oltracci esclude essenzialmente ogni turba- zion dMra: perciocch pare cfa^egli non consista in altro, che in una piena e continua ragionevolezza, se pure  vero che lo scriver de' libri altro non sia che un grave e un perautnoiltie lugionare ad utilft degli nomini. CO S 3^ i8i Laonde noiosi e molesti al pubblico riescono xjaegli scrit- tori , che incontanente che vengano contraddetti danno se gni di grave dolore , e imbiuarriscon contro il loro av- versario ; discuoprendo cosi inawedatamente agli occhi del pubblico una spiacevole deformit e debolezza in se me- desimi ; com^  quella di non saper resistere a' moti della passione non pure in secreto, ma n anche in palese ; e dandosi a credere di dover tenere a bada il mondo di questo loro privato dolore d^ essere contraddetti , mentre pur non dovrebbergli parlar d^ altro che d^ suoi grandi intereari, come esige da essi, della verit^ e di tutto ci che rileva al bene universale. Vero i, che difficilmente riesce velare il proprio risen* timento a chi se ne lascia dentro in6ammare^ perciocch quella brutta perturbazione si riversa al di fuori e traspira da se medesima dondechessia , e non solo in aperte in- giurie , ma ed in motti pungenti ed in sali ed in ironie , e sopra tutto nelle esagcrarioni , e fin nel colore dello stile, e neir atteggiamento e positura delle parole. Laonde lo scrittore che vorr esser. puro di questa schifezza, avr una sola regola sicura, quella d^essere moderato e imper- turbato interiormente. Lo scrittore del Nuovo Galateo con queste parole annun- zia di essere stato impugnato:  Fenne im mente alPautore a delle Memorie di religione, di morale e di letteratura, tf che si stampano in Modena , di farvi voluminosa con- ce futazone ^ ,(i): e quel t^ voluminosa 9, quel solo tf Venne in niente n basterebbe a svelare lo sdegno chV- gli ne prese ^ perciocch quella  maniera particolarmente di sprezzo , la quale sembra significare che le idee del- r avversario non sieno da alcun vigove d^ intelligenza go- vernate, ma come a caso svolazzino in qua e in l, quasi nella mente di un fatuo , e le prime che a lui s^ affac- clano^ quelle egli abbracci. Con si poco uom turbato tra- -disce e teuopre se medesimo ! Or quanto pi d trista idea CO Paf. 6ia 18% di s a^ l^gitori qodio scrittore di cosi iicile levatura ^ che brontoli da un capo all' altro della sua risposta col- r avversario t E molto pi che que' piccoli e ({Man indiretti indizi di collera, voglions da' costumati scrittori sfuggire le maniere apertamente colleriche ed esagerate^ come sarebber que- ste del Nuovo Galateo :  Egli ( V avversario ) va ingol- a fajidott in sempre piA dense tenebre h :  Precipita di tt abisso in abisso  :  Dimostra la pi supina ignoran- ^ za M (i)  ed altte cotli viUanie, di cbe l'autore del Nuovo Gabteo ad ogni pie sospingo regala il suo avver- sario: i quali modi turbati ed eccessivi ptostrauo un uomo mollo pien di s , ed offendono U modestia , mettendo fuor quella petulanza c^ pronuncia in propria causa e previene il giudizio de' leggitori v da' quali , direbbe il  vecchio Galateo , siccome da diritti e legittimi giudici tf non si dee 1' uomo appellare a se medesimo  (a)*  >. Mansuetudine simulata. E lasciata un tratto apparir fuori l' ira da cui lo scrit- tore  dentro turl^ato^ a v6to egli cerca poscia con accon- ciate parole di ipedicare il fallo : e d' indurre nel pub- blico suo giudice persuasione, ch'egli sia anzi che ad altro tutto composto ad amore e a beoevolenza nel suo avversario da lui svUaneggiato : il che voler dare ad inten- dere  pur solo da zotico e idiota , e dal colto pubblico 4 spregiato. Il costi^mato scrittore adunque sar sollecito ebe tutte le sue parole sieno. d''un tenore^ e bea consenta- nee insieme ^ ipostrando per tutto benevolenza ; perciocch ove pugoino sconyenevolmente fra loro sicch alle maniere sprezzanti e irose succeda qualche ricercatura di amore- di non per maliaia, ma per trascurag-  gine e per cattivo uso ^ non di meno perch egli si mo- ie strerebbe superbo negli atti di fuori, converrebbe cb*egli  fosse odiato dalle persone: imperciocch la superbia non   altro che il non isdmarc altrui^ e . . . ciascuno appe- 4 tisco di essere stimalo ancora che egli noi ^glia * () 5- IKmostraMion di 4chioeekezta. II BMi mostrar di sapere come alla propria causa imoca mai sempre la presunzione e Tinsolensa,  una dimostra* ion di sciocchexta. E non  peccato che pia rigorosa- nenle il pubblico castighi negU scrittori, della scioccheaza: perciocch per essa egli si' trova ingannato e frustrato nel fin? che si propone in leggendo , il quale non  altro che V istruzione e il piacere intellettuale. E avvegnach tal di- fetto si perdoni forse negli altri uomini illetterati, quando per la stolidezza loro non venga dalla presunzione, che allora  in tutti schifosa ^ ne^ letterati non si rilascia giam- mai: a quella guisa che non si rimette P ignoranza del proprio mestiere' a chicches4a , eziandio che iion si faccia colpa a veruno del non sapere P altrui.  in molte ma- niere pu lo scrittore parer sciocco , ove sottilmente non iitisuri le sue parole: ma non ve n^ha forse alcuna pi sgraziata di quella di promettere assai, e non attenere^ (0 s 34. 187 pcfciocdi PaatoiVsi ssol gMdiair mai wmpre da ci che propon di fare : e cosi chi promlteMe di racchiuder in UD 90 volume tutto il sapere umano colle aue particolarit, o di essere iofallibile, questi come sciocco 0 pazzo si scher- nirebbe, eziandio che per altro molte belle cose dicesse , ma per questo solo ch^cgK non fece ci che propose, e non mantenne il promesso^ che nella promessa  il tema che espone egli medesimo , e la legge secondo la quale vuole essere giudicato. Ridicolo ancora  ove altri volendo difender s ed.offeader altrui, dice cosa che toma al con* irario > e senza ch^ egli se n' avvegga si d della zappa in , sul pie : della quale incivile disavvedutezza non pochi esempi m potrebbero trar foori dalP autore del Nuovo Galateo, ma baster uno. A lui non conveniva, volendo abbassare lo scritto delP avversario , nominarlo i^oluminosa confuta-' Mione (f): perriocck^ con quel rimprovero egli richiama alla mente de' kggitori cosa , che in suo grave danno ritorna: i quali veggeudo, quella confutazione essere scritta con breve e conciso stile, e non esser che una semplict enumerazine d errori manifesti, forte si maravigleranno ^ome tuttavia ella crebbe a segno, di dover fs^ere t^olumi^ nosa. E .poscia , per chiarirai meglio , osservando  tro vaodo come in quella confutaneoe, che vkn denominala voluminosa per vituperio, si rilevino pi di quaranta sviste ed errori massicci (a), e nello spazio di sole quaranta pa- gine si dimostrino: e come alP incontro fautore che pres^ a rispondere alla medesima, e che dclU esser vohmUnosa volle farl^ un^ignominta , n^empie dlie pagine pia di cin- quanta^ e non gi trattando tutti gK argomenti di quella, ma restringendosi a parlar di due proposizioni accessorie alla question principale (3)^ essi non si potranno tener Ci) Paf. ei& (a) I#e Ot^ervsiioBi sopra ^JpoU^m tUUa mtda, tentalA di fare e DOB iatta d] tig. Gioia, aono 44* Ognuna contiene per lo Meno una ivisU od errore. Ma alcune ne oooleugona due o ire. (3) Il ftig. Gioia dimeMica, o motira dimeniicare cbe VJpohgim 4elU mok  T nonio prncipals. Lasciati aduo^ae pmdciiCeaieole dalle risa, e dirantto seco BiedatH : Or redi oottin, cIm 8i i^la oelk propria tete. 6. Indole /erita. Si riaiaiie adaoque addietro oella cirilt qaelio scritlove diiattcoto^ che volendo schcmir rawersaro, non a^accorge di olEHider ae aleaao ; e ai fa rimile a quella gente dan- nate di cai dice il Poeta  che col maao sbnffa.  E colle paline ae medeama picchia . Ma via maggiornanle della sdocdietsa offende Tindole benigna della civilt certa teaipera leriia e crodele, la tL prte tut^ ali aifopupiti to' fiMli e^ dilige drettneole la mocUf perch mostrali soppicar  I. Ommettere il confronto de^ beni e de^ mali delle eose: qoi farne il panegirico e l la satira separatamente $ a.** accusare di menzogna V aTversario {>ereli oensera H panegirico isolato , addioendo per iscBsa che in altro kioge n^ ha ttto la satira; S.* stxgHere Patten* ' 2one de' leggitori dal pisnto ptincipide della questione dove si senti la propria dcficenta, e richiamarla sopra oa aeetis&H dove si crede d'ayer ragtone 9 affenaando francamente die quert* actessari  il punto principale : ecco 1} sofiita. 9 filale dalla ptmia dell' inrbano acrittore trae de' modi 9gfr e iomnaiM , pe' ^ nafi direbbesi a Che tiene an^T dei monte e del nacigno . La qale fiereaaa a cbi vira nella calla naatra aociet aesz'easera potuto mai matnvare  perder la nativa acer* beaza ,  impatata a difetta d' muna anzi ehe d' altro ^ e i dtfetti delP animo^ oome moraK de&nnilk , amai piik ribattano e nnettecevoli sana che non quelli della nat|^ra e dello intelletto: fra' qnal potrebbero mattarsi  nominati di sopra, V ira e V arroganza e la sciocchezza^ giacch  proprio vizio di natura rustica emere amara ed irosa, come quella nella quale la ragione a raffrenar le passioni  an- aora impotente, ed  piaprio viaio dalF intelletto Pigno^ ranza : ma il desiderio del nuocere  una cotale tristezza propria di animo fiero, che amnmamefte apiace, eome scortese e brutale. Qaando adunque li accade di dover dire :  Questo i u un cmr. grave, tu guardali dal dire cali' autore del Nuovo Galateo:  Questo i uno sproposito da frusta  (i); se pure non vuoi dar segno d'animo dadla presente civilt al tulio strano e pecoresca; perctocdi quel modo appena ohe si comportasse nella bocca di un moszo di stalla: es aendo disonesto a pesare, non che a dire, che gli errori dell' inteUeOa.umam) aUiiansi a punir colla frusta, come gli scappucci de' oavaUi e de' muli. E aempre l'usar modi onde senifara f eziandio che eii non s'ahbki nell'animo ) che si tengan gii uoiMtti in conto di mandre , d indizio di tristo o vile , o per lo meno selvaggio animo: .e la buona societ so ne tien vilipesa : perciocch come l'idea dq[li uomini suol, farsi da quelli co' quali si uai; cosi il trattar gli nomini da bestie egli sembra non poter tuet che di oohtt, il quale abbia menata la vita sua tutta in ad uonnni bestiai ; se pur non abbiasi a dire ^he (I) Pag. 655. 9 a taluno, tnco ntmd^ colle ttinik |ieioiic, non mn mai fatto di disboscare o dissodare il ao terrea dom^ al quale zoticone in mesao alla universal civilt converrebbe me- glio che la penna e t libri , studiar la vanp e aaneggiare a traverso gli armenti suoi il vincastro. Egli awmi poi che lo aoriltort si asiM|{i aatmlvente in s) ridicole minaect t faismnrio,. k quale plon d^ ar- nento, ove ima retta coacienza lo avvisi finftmsf niente die Allibile  r tfNio ; e die non iat bene a neasano di fare a* filli altrui ma troppo severa legge, eha poA ntaiocfii alcuna volu in danno di Ui medofiaao.  y. . . . 4 rigor smmtl^ Nessun eWile srrittoiie forra adunq per io awiao a fir da giudice criminale sol suo avversario, evolto meno a condannarlo senza precesso alla frusta de' maMittori e de* somari: ansi eviter ogni rigor soverchio, non aolo perch agP inciviliti uomini suol far ribrezzo fit vedere altrui metter tosto luor Pngae, e ogni tiUto saostrwrco- stuBM di animale feroce anzi che di benigno e damealco^ ma perch ancora quella rigidezza e femeia incita a farne vendetta ^ e provoca il pubblico a gfqdfcar con maggior severit , e puoir d^tnfamia ove trovi Ontta queiParroganza e furor leimino non essere da ragiott aonretto, ma pur nato dalla troppo viva ragione delP avversano , |a qnale laloc balenando non vale a vincer le tenebte doiP ahmi miei- letto , ma ad accender V esca delf animo orgoglioso. ' E tutto eie che sa di puntiglio , o di aommo diritto , o d' iperbolica nel tassare le colpe dell' avversario^ ai sfng* gira come contrario aHa oifilt ed. alla modestia dal ben creato scrittore. Laonde quegli , a citi la' gentilezza del viver civile abbia levato d* addosso le scaglie della nativa rozzezza , non vorr dir tosto del suo avversario , come suol far V autore del Nuovo Galateo ,  Egli ha men- 9 tf tHd  (i) ^ qoand* in vece potr dir di Jai  Egli mi  ha naie kiteso, e Mi ha mate piegato n.Hi ac lo tro^- yer coDvenire con lui ia qualche concetto , V accuser per questo immantinn aspra n y come insegna il vec chio Galateo^ molto men si conviene che col pubblico, al quale  richiesta pia di riverenza, si faccia sentire il suono d^ un animo fiero e quasi sanguinario.  ci che parr qui mirainle si ^ che come i delatori sono sempre lo scolo pitt fetido delia societ^ cosi quegli scrittori che ap pongono altrui con tutta facilit le meosogoe , sogliono essere i pi bugiardi (3): e quelli che si querelano che CO Pag. 616. Chi Ma il bugiardo, se il Gioia o il tuo avvertano, apparir nel corto di qoetio piorol trattato. (X^ Pag. 619. Si potrebbe domandare te tia furto rubare a] ladro. In fatti io vorrei domandare al sig. Gioia che cosa crede d** aver in- ventato egli di nuovo circa i limiti della moda , che non sia frtto e rifritto in mille libri tcritti prima di lui ? Se il convenire in que. te dottrine , che a dir vero non tono peregrine, egli chiama forte, viene con ei 1.* o a dar mostra dMnconcepibile ignonmta, ereden* dosi il primo inventore di un taper vecchio^ e che il solo boon tento taggeritce, 3.* o a condannar altrui di furto in malajide^ o almeno tenza accorgerti che topra di lai cade la ttessa condanna : anzi sa tolti gli scrittori che espongono delle dottrine comuni , tenza inten* der per qaetto di dichiarartene autori. I.* Immaginarti dVttere autori di cote rance ; 9.* pretendere ehe gli altri tieno venuti da t a prenderle, mentre le poterono attingere dallo spaccio generale dlle medesime o dal proprio buon tento , e gridare arrogantemente , AI ladro : ecco il to&sta. Itfa di pi vedi la nota (.0 alla pagina seguente. C3) Che il Gioia voglia mentire io noi dir, perch non entro nelle ine intcnzbnl non avendone il diiitto : che gli sfuggano innomera* bili falsit dalla penna, apparisce da tutto ci che siamo per dire. lor ria rubai j nAe volte baoiio coia die da loro ter ai vokase (t):  ae pur ne faaiiDo alauu, ella  piava po ticda, rabacchiata qua e li da queste comacckiaccie a* pavod. 5 8. Meccanismo nel compor l^ri. Cornacchia vien detto un autore, i libri del quale non aieno da capo a fondo che un centone e un ricucivAento d citazioni : cornacchie  facitori di zibaldoni \ V arte de^ quali  d fare in brani, quasi direi come il capo dlp- polito, ogni libro capiti loro alle mani, e spargerne le squarciate membra in tante cassettine numerizzate, classi- ficate: e indi da^ que' sepolcreti del sapere, al priego forse di stampatori disoccupati, cavar qua e l di que* morti brani , e raggiungerli insieme ili varie forme e mirabili , e cosi dar esistenza a nuovi mostri lettera'rii: arte vile, ma^ benefica , direbbe qualche corto economista , perch fa sentire il dilettevol ticchio d^ esser uom letterato a chi non r avrebbe sentito mai^ nuovo guadagno nella somma de^ pubblici piaceri^ e perch schiude un novello fonte di la- voro e di traffico fra librai e scrittori , e nutre ambedue queste classi di pane a spese de^ semidotti, che pascono intanto le loro menti di vento: crescendo il lavoro e sce- mando P ozio degli uni e degli altri , e de' terzi ancora mediante una cattiva occupazione : e finalmente perch mette in celere circolazione le cognizioni positive ed i fat- tarelli inesatti , i quali dove fossero inaneggiati solo da chi l trae fuori a proposito e li racconta con esattezza , avrebbero un moto troppa lento e quasi stagnante, e non   (t): perocch parmi che con questa debilzza di consentire a' pi importuni, volendo evitar noi uno scoglio , rompiamo nel suo contrario^ e per non riuscir forse molesti a quelli che irragionevoli sono e non degni (0 Quo3 cbc lor si badi , con noi medesiii e colla Ymtk noi ci rendiamo inginsti e &bi , e perci a tutti i colti e savi uomiai akresi piacevoli ^ cbe  troppo maggiore incivilt e yiUania di quella prma : e di tanto, di quanto la verit  pi reverenda degli uomini , cio infinitamente ^ e di quanto lo piacere a cl ha ragione,  pik villano peccato cbe lo piacere a chi ha il torto.  se quelle parole di Monsignore csiandio pel conversar privato sembrano peccare io queato , ohe insegnano una soverchia condiscendenza ^ jDoUo meno agli scrittori si conviene mostarsi ddicati di soverchio , ed al vero timidi amici \ ma nobili debbon es sere ed aperti, e seguire il documento di Galileo , il quale Yolea cbe nelle sciillure de^ letterati  si pariasse con quella u libert che molto ngionevofanaite dee potersi usare da u qucUi , ohe piA ansiosi sono della verit cbe della osti*  nazione  (i).  que' letterati che non soffrono d^ essere mai contrad- detti, fanno grande ritardo aUa civilt, pecche impediscono la nobile Iranchcsza , colla quale pi insieme trattando ma- terie scientifiche, si vuol venire a conoseenia perfetta delle medesime. E se neUa privata societ  1' esser tenero e u vexaoso anco si disdice assai ; e massimamente agli uo  mini ^ peiqjiocch V usare con si fatta maniera di per- c' sene non pare compagnia ma servit ; molto pi nella societ pubUica, e non a' volgari :ma a^ dotti questa mor- Lidezza disdice e nuoce : che l'aver da ir con essi scri- vendo altro da' lor pensieri  ninna akra cosa  che im-  pacani fra tanti ^^^(tilissimi vetri ^. Sicch a recano le u persone a tale, che non johi li possa patir di vedere^  perciocch troppo amano se medesimi fuor di misura  (&), e troppo si mostrano nimici alla vera ed alla comune ci- vilt. Ma se rutile verit occultar non si debbe per -non dis- gustar altrui cbe forse non Fama ^ il che sarebbe pec- co Opa^, T. Ili, pag. 381 . w s 43. cito  u vano alle carte ^ e rappreaentavano anche delle commedie: ma in it messo a questo abbandono di gioia esse si rispettarano , e dagli  uomini erano rispettate. Mai un gesto , una parola , uno sguardo ai non oltrapassara la barriera delicata che separa la libert dalla li- et censa ; e la loro vi'gnale ihnocensa non fo mai contaminata dal m pi leggero alito ddio sciAdalo e del aospetto m io non ao, come diceva, fin dove si pssa credere a questo racconto, che solo la na- tura del clima rende in parte credibile. Or quelli che escludono Pi- fluensa di questa cagine sugli amam costumi , che consegaensa trar^ niDBO da nn simil fatto ? Questa. Egli fu possibile a Losanna, dunque debb^ esser possibile dovecbessia : vi vorranno perci instituire a foraa qdla soet di ftiactr in tutti i luoghi delia terra egualmente, e oosi sacrficheran'kio al loro errore ostioato rinnocansa e la costuma- tessa d^tnnomerabile giovent. Togliete air incontro un uomo non si- atematico, come il sig. Gioia, un uomo che segua Pesperienia, e che aecondo i riunitati di questa dia peso altres al clima neiaistemi dVdu- catione; egli dob cadr gi in falli s perniciosi Ecco come scrve Madama Campan rel^vamente ali^educasione da temperarsi ai dimi de^ diversi paesi : u Esiste a . Londra un altro uso che io ben mi  guardai dadP imitare. La domenica il ballare essendo vietato dalla  Chiesa anglicana, tutti i sabbati per terminare i lavori della sett-  mana nivanai insieme delle pensioni di maschi  dalle penuoni di femmine^ ma the fpreauboy e thejroung must deglMnglesi u hanno n prolungamento d^ infanzia di tre o quattro anni, effetto u del dima e dei costumi del paese. In Francia tali unioni sarebbero troppo pericolose . 1 fatti adunque recati dal Gioia per provare che sotto i climi fred- dissimi si trovano de^ popoli dissoluti, non valgono a distruggere Pinilaensa del dima sulle inclinazioni umane: ed il voler tor via questa inAnensa a dispetto della natura, non fa che produrre un n^ tUmm falso che porta le pi gravi e pi foneite pratiche cooseg> ^^> Qaalclie>olU ^ la debo- Ifzza di mutare le parole d rali: ceco il tao solito vezzo' (Oasery. ztiii ). Egli come non aTCsic inteao, attuine nella tua risposta il tuono di maestro, e si propone dMnsegnare a^ giovanetti Paso logico de^ fatti: poi accusa altrui dello stesso Tiiio. Egli m^Trebbe aec osato dS^iifto se io avessi fatto altret* tanto!! ^11 E ftle ttgione. Ndla qttettitiie della contioenia gema- Bica e della romana trattavaai a cki doveate darti il van* faggio de^ fcuon costumi , se a' Romani , o a^ Gersani : la questione era de' tempi antichi di Cesare e di Tacito,  in qael Umio. Or V uno de' de scrittori grida baldan- zpsamente aU' allro : Tu sei ano scempio: tu hai dimen* teaii i primi ekmenti di geografia moderna/ (i)  Geografia moderna? non parliam noi di tempi antichi, di popoli nascenti? -1- Eh sciocchezze le tue: odi i miei estratti di giornali e gazzette, ch'io ben te ne scioriner un cen- tinaio  Ma , amico , stam fuar d' argomento  Nalla monta, .pedante, teologo che tu se': Nella Svezia  pa- renti non restano offesi (e qui una trombettata d'estratti e di citadoni che ammazza ). -^ Ammiro invero la vostra fatica \ e ben mi vincete colla lena de' vostri polmoni: ma se voi volete a tutta forza che parliam di tempi moderni, ebbene, io son con voi: Con vostra buona pace, leggete meglio la mia scrittura: leggete particolar- mente l'Osservazione XXXV, e vedrete che, trattata prima la questione de' tempi antichi, ivi discendo appunto ai moderni : ed ivi medesimo reco un passo lampante di Fi- lippo Cluverio a provare qnadio i moderni costumi de^ Grei^ mani sieno rimutati dagli antichi , e la corruzione sia pur entrata anche ne' climi freddissimi ; e come anche col la scostumatezza possa montare ad of^i maggior grado, ove la licenza del vestire e del conversare e l'altre cause morali rendano inutile il vantaggio del clima rigido e quasi direi continente. Laonde se noi non vogliam dire che questi sbagli ma- dornali e che portan lo scrittore incivile a mirar fuor del segno , e come a dire a tramontana in vece che a mezzo- CO Vuoilo Galateo , |Mig. 696w Egli non sarebbe mica credibile die un uomo poteste Unto sragioaare, e anzi uscire al tutto d^ gan- gheri y come qi)i fa il Gioia , se non se n^ avesse documento stampato cornee cotesto che ognuno pu^ vedre  rivedere a Mia posta cogli #cchi suoi ! ^1% giorno , sieno prette malitie e gaglioffaggini ; nflo. Popoli rozzi ma non corrotti sono state tutte le grandi nazioni nei loro esordio ; e debbono a quelP antica incorruzione lo sviluppo t^ loro posteriore grandezza. Popoli rozzi  corrotti ci presentano t secoli di mezzo, imbararki dalle orde settentrionali e marciti nelia eoltiira meridionale. Il popolo corrotto pu essere rosiso e coito. Popolo corrotto e rozzo sono i selvaggi che toccano V estremo sa della rozzezza che della corruzione. Popolo corrotto e colto erano i Romani al tempo dei Gestri: la loro eorrusione avrebbe distrutta la loro cottura se anche non foa- aero sUti vendati ai barbari dalla propria moUezzm e dal propri epicureismo. Considerando questo marciume Cicerone che Tdeva un poco pi addentro nelle cose politiche della sua Repubblica del no* stro Gioia, diceva che la repubblica apparentemente si conservava , ma in sostanza era gi perduta da lungo tempo : rempuklicam specit qwkmTetinmmu f re autem un pridak tumimm. nire, e mm gli staaiooarii o gi fraeidi: e H pia ivi ai afferma , che dove la corruaione si mette in un rozzo dch polo, come ne' selvaggi e se' settentrionali quando inval- sero IMmpero romano (i), quella debV esser un male di (i) In eemisione dei eolu romam non si difTase ne* barbari inra- sori itttantaneainenlej ci wm polea pssere; ma penetr io essi net corso di alcani secoli dopo che stabiliti si furono nelle contrade del mezzod, e solo ne* secoli X e XI, essa sembra essere giunta al suo colmo. Perci ,r autore del libro De gabematione muntU, attribuito a Salviano, ebbe ancora campo d fare, nrl V secolo, arrossire i romani coprt col confronto della barbarica castumaUzza, e di giustifieartt la Provvideaaa rendicatrtce della loro estrema perversit. Egli non parlava, come Tacito, di popoli lontani , ma presenti, i costumi de* quali eran sotto gli occhi di tutti ; e in tra V altre cose diceva : inter ptidicos barbaros impudici swnus. Plus auBiuc dicof offnduniur barbari ipsi impuritfOibus nostris. Esse inter gtHhos non licei scoria* torem goihum: soU inUr eos iiuUdo, pretiisdicio nationis et nominis parmiituntur iit^mri esse. romani. Et 4fiue nobis rogo spes ante Deum est? Impudicitiam nos diiigfmus; gothi txecrantur: puritatem nos fu* gjum*Si illi amani. QckPSte autorit universali e costanti di tutti gli asttichi scrittori in favore de' costumi de* barbari a preferenv de* romani , valgono un poco pi di tatto il disprezzo filosofico che ne ostenta il sig. Gioia, sostenuto da chiacchiere interminabili e da ira* conde sentenze, ma privo pwr di una menoma autorit comtempo- ranea od antica, cio fornita di qualche peso. Mi si permetta ancora 'un* osservazione di confronto fra il buon senso deir autore citato e aJUosofia inappellabile del sig. Gioia. L* autor citato, di un basso secolo com*egli , confronta i due popoli e diee Tuno pudico, Taltro impudico non assolntanvcnte ma r^ativamente r il Gioia, nel nostro tempo, si dispensa da ogni confranto. L* autor itato non crede di do- ver chiamar corrotti i goti perch v*abhia fra essi qualche donna pubblica ; ma anzi di far osservare che quelle donne fra* goti veni- vano pubblicamente dichiarate tali, infamate, segregate  mentre i romani erano si guasti , che il loro solo nome bastava a dar loro II diritto di prostituirsL L*osscrFar queste differenze che segna il diva- rio fra la debolezza umana e la innoltrata corruzione, o^ostra buon senso , e mette sulla via per discernere quando la prostituzione in un popolo sia prova di corruaione e quando non sia. Il Gioia si abbatte al fitto di Tamar nella Scrittura, e senz* altri esami grida: Ecco ba- fascie: ecco corruzione; e cos mostra che la filosofia da lui seguita tira assai pi cotto dell* antico buon senso. Finalmente qual segno d 1* autor citato di corruiiono? Vamore della medesima} non un fatto ai6 tslti grtfistBO, e quui ineptribile, perch Tumm oom guasto neir animo non ht n pure vn vi?o lane dallo in- telletto che gli mostri la brattexsa de^ mali sno, e la strada d^uscime. N le parole colle quali affermavasi darsi de^ popoli rozzi insieme e corrotti, erano oscure ed incerte; perocch cosi dicevano:  Un esempio di questi popoli u rozzi insieme e corrotti si ha nel medio evo, quando u i barbari usciti da^ loro confini, e datisi alle conquiste  delle contrade incivilite , bevvero tutti i vizi che vi tro- te varono^ e questi stessi vizi^ senza sapere imitare le virt tf che distrussero , recarono alP eccesso , come nasce iie^ u barbari aiutati dalla licenza e dalla baldanza militare u nella vittoria. E sempre quando una nazione rozza viene tf insegnata ne^ vizi, non ha pi modo^ ma allora i il  tempo in cui alla nativa rozzezza congiunge la corrut- u tela  (i). Delle quali io non so che cosa aver vi p* tesse di pi chiaro :; n quelle erano da ribattersi con isto* rie di selvaggi, cio di popoli venuti alla corruzione noQ solo , ma allo stesso degradamento: n con tutte quelPal- tre lunghissime tiritere e narrazioni d^ infamit commesse da genti rozze ^ perocch quand^anco quelle provar potes- sero che esiste scostumatez^a sfrenata senta incit^ili^ mento (2), come si propone di provar Fautore, non rom-  V altro visioto. Vedete un popolo che pecca, ma mottfs nello flteaao tempo eiecrasione ed abborriraeDl^ del peccatot dite eh' egli  un p* contro il ieCleralo , che frequentemente si mostra subdolo e ingannatore., non trova grazia n pare allora che dice il vero , eccetto forse da quelli eh' egli liscift , o da' set- tari! e EMitori suoi; ed il civil pubblico incontrandosi ne^ suoi libri a cosa buona e vera , parr sempre acconcio 9 ptesto di dir di lui quelfe^ che una gentildonna diceva d' nn cavaliere che solca spesso mentire : il c|nale affer mando un giorno non so io che, e nessuno a lui voten- dol credere, wd, alcuno della brigata ad accertar che pure era il vero ; a aoi- Ha incontanente : li E s' egli  tt il vero j ioggiinse , perch  veniamo ad altre incivilt. Il pariar laido e sboccato  pure ripresa A vecchio Ga- lateo, il qual dice:  N di alcuna bruttura si dee favel-  lare, come che piacevole cosa paresse ad udire: per- qpiu. FU. T.IL ^9 2^ tf ciocchi alle ncsle pers^De non ial bee (i). Il qual pre* cetto avvegnach non cos appuntino e sempre Posservasae quegli tefso che il diede j appar non di meno giusto e ragionevole ^ ed egli forse pi attentamente vuol guardarsi ne^ tempi presenti che in altri mai , come in quelli ai quali sembra la diffusa civilt aver aggiunto. una singolare dilicatesaa e quasi moQessa morale (non piccola lode a dir vero ) , per la quale dalle nobili noatre brigate noi reggiamo aversi sommaaiente a schifo ogo? ombra d^ im- purit ne^ ragionamenti 9 e pi al vivo conoscersi e acn tirsi quasi con finissimo tatto spirituale quanto indecente e sconvenevole sia di cotale materia metter discorso ^ cha oltre aver nna cotal turpitudine In se stesai quando senta bisogno se ne parla o motteggia,, esce.altrea molesta agli orecchi ben- costunmti come al naio cosa che puzzi ^ ed inquieta e imbarazza T altrui verecondia e dignit. IL perci .n anche il nobik^ acfftt^re nstt se ne debbe mo* strar ago, nut anzi quanto e^ poissa la af^gif^ e dove non posfa al tatto perla necessit deVar^mento, almeno con si coperti e dilicati nands ne tratter, che il suo li- bro possa tuttavia leggersi. liberamente., se^za.che pure il giovinetto e la giovinetta nella lezione a quando a quando debba arrossare : e massiinamente se iljibro vuoi dirin gersi air innocente e aopor .candida ^t. Il non saper toccar la passion d'amore con dilicate pa- role ed oneste, e non fermandosi mai alle gradazioni ondi gli umani costumi da quella leggiadramente e variatamente si colorano, correr sempre a toccar le ultime sue estre- mit che pur sole d' un velo coprir si dovrebbero ^ suole parimente essere usanza di malcreato e di plebeo se non di scostumato uomo : perciocch egli pare che quegli che cosi parla non abbia giammai avuto occasione .di vedergli accidenti delP amore in alte e genlili persone ^saa pur nel* r infima e pi vii classe della societ, o peggio, ancora; 0)44. , , ove Pamore in somma  ridotto al positivo ed al mate- rialr^ e delPelevato e dello, spirituale nulla conserva: nel quale stato egli  spoglio di ogni buona gentilezza e di- gnit, e s mostra nelU forma sua pi abbietta e quasi disadorno ed ignudo:; nella qual forma non di porgerlo al- trui da considerare quasi piacevel cosa , ma di rimuoverlo dalPaltrui attenzione, come schifa e deforme, ogni urbano scrittore quanto pu il pi procaccer. Perciocch, senza contare P altre ragioni, di un cotal vizio del favellare la buona societ se n^ offende , quasi a lei ingiurioso : egli pare allora o il letterato non curarla punto , e non iscr- vere per altri che"" per treccole, sensali, mondane e simil gente ^ o reputare anche t costumati cavalieri e le nobili ed oneste donne d^uaa stessa fazione con quella greggia, e degli stessi cosumi, e a coi uno stsso parlare ^asso e sboccato si confaccia. Laonde intollerabii cosa sarebbe che un precettore , il quale a gentili donzelle in qualche nobil casa insegnar dovesse i belli e buoni costumi , cos loro incominciasse, ammaestrandole, a favellare: Signo-  rine mie riverite , voi belle e graziose siete ^ e potrete  certamente a molti e molti piacere. Ma se badate a me, a io v'insegner a vender pi cara che non sappiate far a da voi stesse, qaesta vostra mercanzia. Perciocch saper  dovete che in generale s' abbassa il prezzo delle cose u tuUCy a misura che il bisogno di i^endere a pi pa- M lesi segni si mostra hel vendiiore. E perci sebbene a io dal vendere non vi sconforti, che anzi Parte ve ne tf intendo insegnare ; tuttavia voi dovrete infingervi cosi  sottilmente, come sanno far le pi accorte donne, quasi tf di essere mercantesse non aveste pensiero alcuno. E per tt questa ragione il pudore ne' vestiti vostri , e il tener  mezzanamente coperte le merci molto vi raccomando, tt Che aspettando i compratori, il 'mercato della roba vo- tf atra meglio si condurr , che non andandoli voi mede- a sime ricercando .(i)* (0 Egli sembra incredibile cbe con rimile parlare prenda il Gioia ad ioatilUre il padore alle giovantttt nel ano Galateo; ina perch n8 Or io bcD credo j che e il eaialierB o la geotildoima, a evi qll LBiuUe fossero figlie, a qaella lecioDo prestoti si ritroYafscfo, eoa ragicoe si sdegnerebbero fieramente ^ Doredibi non tembri, ecco le sue parole, che trarrete alla ptf. i5S dflU 4-* edUonr df 1 Nuovo GaUtMu u La dpona fa dalla aatarm u dotata di tali sentimenti, che vuole unir P onore della difesa al u piacer delia sconfitta; u La donna, come sai , ricuta e bramai  Quindi, allotrch ella, per coti dite, aaMdc in vece d'^eaiere ama  lita} allorch, ih vaca dUpbtta.iis i coifPfiiToai, va  aiCBaoLaLi, u mostra speciale bisogno di vendere. Ora in generale s** abbassa il u prezzo delle cose tutte , a misura che il bisogno di vendere a pi 4t palesi segni si mostra nel venditore 9. Per eccitare maggiormente le donne a conservare il pudore , nella faccia preacdenle avea recnto loro V esempio della celebre Poppea. Meritano di esaere sentite anehe quelle parole ^ perch meglio s^ intendano le filosofiche ragioni di cui si arma il nostro predicatore del femminile pudore: a Esse (,le tto giaeerri una diaiolateita pA cbe altrove rotta^ casi gi patefser per cpealo aolo ne' lor coatMii pi ^ieta- nent^ dormire e pi aaporkameote. Le qaak villaoie $om tutte . recate a aioda da' aafisti , ckt nel secala passata borosaiBcnte filosofi voleaao essere Boninati^ i quali corrappsro U gusto de' dTiii costumi del letterato^ e nella letteratura ntrodassero i modi fai e Tillani o turpi , de' ifaz gi non pochi fin  SnppoQamo che io Volessi qui riportare la lista di tattr i pro cessi criminali , e di lutti i delitti eommessi nello spasio di soli io anni in qualunque delle nationi pi colte d^ uropa : sup^ouiamo di pi cb^ io mi restringessi anche al solo regno Lombardo* Veneto. Certo io presenterei de* misfatti che fanno orrore^ degli eccessi da fremere, rrei forse prorato con ci che il regno Lombardo- Veneto  il paese de^ popoli errottif Non gi. Ora il Gioia vi ffaette faori una lista di scelleraggini che empiscono quaranta o cinquanta pagine: pren- dendole da tutti i secoli ; perch comincia a raccoglierle da! princpio del mondo fino al nostri tempi, da tutti i popoli antichi e moderni j e ci per prorarri che i popoli rossi sono correttissimi. Ecco quali qitao gli argosoienti de^ sofisti l!I fer; non perch quelli aleno tali sceondlo H TaikMr della, parob ^ ma perch  peccati e V ntetna corr azioB di que* sii nolla si contano , a quelK paragonati. AUa stcfloa guisa chi dicesse, che i desdier del povero tono pi derati d qae del rieco , non von*ebbe etcludere ne^ po^fcri rin* temperala de' deaiderii^ ma vorrebbe solo dire che il ricco, come quegli ebe pia beni alle mani ha e tuttod ne esperimenta, pi altres ne desidera, pi coooscendono; e pi bisogni , che il potere, patisce l ove qoelli gii ven* gan meno (i):-meii*re il povero laen cenooct e men brama. Dalla vilbMia dinKfue e sconvenevolezaa neltr materia re ligiose non  mai scompagnata nn^ altra deformit , che consste nella mancanza di vn ben connesso vagioftamento e di cortesia. CAPITOLO HI. Sconi/enienze negli ateessorii al priocipaU mrgwaenu^, E non le parole aole e le maniere del dire , ma i pcn* aier ancora contengono una cotal bellezaa e graaia lor propria onde piacciono agrintelletti, ower^ nna deformit e disgrazia onde a qneU dispiacciono: e i letterali che di dar altrui quel piacere o di allontanar quel dispiacere co^ loro scritti punto noq corano^ parimente incivili si pos- son chiamare^ e a tanto maggior ragione, quanto che ad una pi eccellente facolt dello spirito amano si fanno molesti e rncrescevoK. Se non die quel merito lor de^ pensieri pe^ quali graditi si rendono e cari ,  nna bel* lezza di uu genere lur peculiare , che dalla verit si scorge Ci) Le contraddizioni del Gioia sono noqmerabili : per esempi egli dice, pag, G^a m In queste situaeioni economiche (dor si esige e nelle cose, che sparge in esse l'amabiliti e F amore, e dbe^lBama latto il genere ummio ad na immensa uniformit, e risponde al potente senti* mento di nna immnaa esistenia sociale. Ove il principale argomento di alcuna scrittnra sia vero, pu dirsi , eh* ella abbia quasi un* anima retta  buona in se medesima : ma ove sia lalso ., essa pu somigliarsi ad un essere invasato da ano spirito immondo e malefico, che tolta la contrafflk e ritorce , e in tutte k sue parti la ioaozza. Poich quegli che favella o scrive, tiene in tutto rocchio rivolto. at suo principale argomento, e ad esso tutto il resto del suo discorso che prende colore e forma da 4|aeIIo V ^ perci s'egli  ialso, falsifica altres que'auoi accesaorii onde si suol preparai F adito alla persuasione del prtiictpale, e pur le maniere e le frasi aUo stesso aceoii sentono, e auicchiate appariscono d^una medesima falsiti e quasi complici dello stesso delitto. E giacch circa le parole e k naaniere delle scritture gi vedemmo a qnai segni si riconoscano per falsate^ e perdo per incivili al tres e guaste ^ ora veder dovremo quak sia la falsit e la incivilt da sfuggirsi negli argomenti accessori! , e come questi vengano a dar di s brutta mostra , ed a rinscire al colto e savio pubUieo noisi e molesti. a38 Indur prevenzioni a danno deW a^ersario. Il gentile letterato adunqae si , e gli argomenti poi non debbano esser che purissima luce. A lui parr che dove Ma P errore ivi stiano le tenebre , s dove sta la ve- Opusc. FU. T. II. 3i rit iti itia k loce : e che per dimostrar quelle osserva- zioni esser cope e tenebrose , come si predicano , non ci avesse altra via sicura che di mostrarle falise ^ via abban- donaU dair autore del Nuoro Galateo. 3. Luoghi comuni. Una spiacevolezza che cagionano i letterati incivil ,  al* tresl quella di usar troppi luoghi comuni e vieti , a so- stentare de' soEsmi e deprimere P avversario. Perciocch sebbene la verit sta sempre bella e mai non sia antica , non assi per a credere avvenir il medesimo delPerrore; che questo non ha alcuna amabilit e vaghezza in se me- desimo, ma ne trae talvolta dalfesser nuovo, e ingegnoso: colla qnal novit e ingegnosit gli riesce di sorprender gli uomini e di allucinarli. Ma un gran bene  , che per quanto ingegnoso esser possa V errore , e sottilmente tra- mato y tuttavia dandosi tempo agli uomini da pensare^ que- / sti penetrano nella sua falsit e la discuoprono *, e cosi conosciuto e svelato, nessun pi credito ha n piacevolezza alcuna. Laonde il regno deir errore  labile e breve, e se non fosse che degli error nuovi continuamente si surrogano ai vecchi,  quali rinnovellan T ingann, in breve volger d' anni la verit sola regnerebbe pacificamectte ; ma per quella moltiplicit che delP errore  propria , onde come la testa dell'idi! egli rinasce, v'ha sempre di contro al trono del vero eretto qui in sulla terra quello del falso : se non che su questo i regnatori giustiziati per dir cosi Pun dopo l'altro si succedono rapidamente; l dove su quello la verit senza successione alcuna sebben perseguitata regna immortale. . Molto pia degli error vecchi, i quali hanno perduto fede , sono d' aversi in conto di villania e d' inurbanit  lor puntelli, come sono le accuse gratuite contro i difensori a43 del vero, gi dal tempo corro e guasti. E di questi grande caso facevano i sofisti francesi poco fa , cpiando abbatter volevano h religione e i loro errori sostenere: I quali per molto usarli, come arliao con tonm da oracolo? ( N, G, pag. 652). 45 quasi da un eto ri sentoo ripetere. E non vaele sapere il leggitore se le osseryaxioni eontro di voi sien netafisicht 0 fisiche o d^ altra scienxa j ma a* Ile sien vere o pur 61se. E se 2 peccato rotto e villano contro il proprio avver- sario questo battargli in faccia anti che ragioni la iac- a d'esser involto in una tenebra metafisica^ molto pia  colpa contro la oniversal civilt quello sforco incessante de' predetti sofisti d' impoverir V universo scientifico d' o gni soperior ricerca o circa lo spirito umano , o circa k pi sublimi nature: ma le verit vitali pia che dagli uo- mini stessi sono lor conservate da una fatai prowidenta. N per questo meno peccano quelli, se ancor ve n'hanno fra noi, i quali non tendono a meno quanto  da s, che di decurtare l'umano sapere nella sua pia gran parte ^ e che seriamente sembran vietare agli uomini di non pen- sare e d non sollevarsi alle pi eccellenti ricerche del loro spirito, sotto pena della loro indegnacione^ ma di costringersi nello studio degli oggetti naturali e sensibiK^, che  il primo passo onde l'uomo estingue la propria in- tdligenta, e da se stesso pitnendosi pettoruto discende a collocarsi nella linea de' bruti. N altra scusa hanno-, fuorch non veggono il termine al quale d'avviar cercano 1' umanit ^ che le sciente si rimarrebbero estinte ed il mondo indubitatamente inselvagirebbe, ove il principio n(.o* rale si spegnesse dalle menti degli uomini : quest' anima d tutto il sapere ^ questa luce, che si difibnde a ravvivar la natura e che tien viva l' intelltgenta : poich da quel solo morale principio a tutte le cose sensibili (i) superiore e da tutte indipendente, l'intelKgenza si puA dir che nasca e che continuamente si accenda. E questo avviso giovi mas- simamente all'italica giovent: si guardi da quelli che in tutti i tempi cercarono di spegnere quella luce e quella rital, e U riconosca a questo segno. Non si lasci limitar da eo  a foggia della vite, cio mettendo in- sieme co^ fruttiferi de^ tralci inutili e superflui, i  islituzioni assai libere peih sieno in armoni^ coU^ indipendenza 256 aperta ai nobili seiitimeiiti , men carante di f e pi ddla dignit della 8oa azione (i)? forse in quello tato dove il piacere dei aensi T ubbriaca, ed abbriacato fonda teore cbe sollevano questo piacere ed ssere il principio ed il solo termine delPacione e deiresistensa/ La stessa me mora dov'  pia tenace e pii tnpft, oolla giovent o nella vecchiezza dei popoli (2)? E cbi sono i'veri autori finalmente degli stessi beni della civilt, se non quelli che ingratamente poscia dai poster infiacchiti e lassi si o de^ nostri spiriti , bm atsai mofisrchiche perch soiteD^no la de- fli bilena dei nottr cottomi t. In somma la deipocraxia fin qui oonosdqta  un sistema pabblioo, he non pu sussistere in una nazione avansata orila civilt, per la stessa ragione onde non pu sussistere nella medesima il sistema do- mestico della poligamia. Si Ptino che Paltro (prescindendo rispetto a questo secondo da altre ragioni maggiori ) hanno in s una impera fiiioru cagione d^ insopportabili mali in popoli che abbiano una pro- fonda cognitiotu d^ 1^ come sono i popoli colti $ ed air incontro cagione di minori mali e sopportabili in popoli che abbiano ancora Vignorartza d^ p^ e delle abitudini semplici ed innocenti. Ha il sig. Chateaubriand , autore del passo riferito, sar anch' e^U sicuramente un Ostrogoto! Il (i) u Per un popolo ammollito dalla dvlinaaione sovvsaiKK  il u pi grande de^ mali ; per li popoli nella giovent dello stato so- u ciale e che consumano i loro giorni ne^ pericoli e nelle lotte fisiche, .  la virt ? La disinteressata virt non trova grazia appresso il Gioia da poter formar parte delP incivilimeoto: tutti gP interessi terreni ^ en- trano: la rirt sola  barbaral!! Serva questa osservazione a non laaciarti abbagliare dalle belle parole di rojgMiie eUU che dichiara madre della civilt alla pag. S. Gerealene la spiegaiione , e voi tro^ verete che questa ragion sodU nella boooa del Gioia non  ohe sn cmlcoU d^ uiility e non gi un Auam$ ^ cittitk a6 la politezza soddisfa ai bisogni esteriori ed aDeort li crea, li noltiplica: ma che alPiDContio la civilt risponde ai saprenii bisogni delia intelligenza e della moralit, bisogni immatabili in tutti i tempi come la stessa umana natura, come T anima Immortale; ai bisogni, dico, di una giustisia interiore, di lina coscienza stiblimemente tranquilla > di una grandetta e quasi onnipotenza edificata ndP uomo dai rispetto costante alla inflessibile verit, alta legge eterna, e dalla incessane adorazione deU^Ente degli enli  dunque una stoltezza ifichiarare incivili le case de' patriarchi perch eran pa-^ Btor , e i disordini che in quelle avvennero recarli i mezzo come frutti della incivilt nella quale erano que* virtuosissimi e perci civilissimi:  una stoltezza mostrarsi cosi cbbrio della mollezza ridondata in noi da tutte le arti fiorenti, la massima parte delle quali e le pi importanti  dovuta ad invenzionf fatte dai nostri maggiori, mostrarsi, dico, ^oai cbbrio da mettere in cielo il nostro , e tutti i secoli scorsi air inferno : i setoli scorsi in monte , que stMdea cosi confusa (i): quasi che sessanta e pi secoli, che tanti n' ha il mondo , cosi vari di civilt e di poli- tezza , dove tante nazioni sursero e caddero , fiorirono ed isterilirono , presentarono tanti aspetti e tante vicissitudini , si possano rammassare insieme come un sol tempo tutto d'u solo colore e d'una sola barbarie, e raffrontare in poche pagine , e con alquanti fattarelli piccanti, sfrondati delle lor circostanze, scelti tutti d'una stessa mena, e appareggiarli col nostro tempo, e mostrar questo infinitamente a lor supe* riore, per dar cos una lezione di maneggiare logicamente i fatti e cavarne conseguenze^ sicure a' giovanetti inesperti; o pi tosto, a me sembra , per mettere in piena luce la propria mancanza d'ogni criterio, e dar un segnalato ^esempio dell' abn^o de' Catti , acciocch imparino ad evi* 0) Il Gioia parla teiB|ire A* secoU sconi cosi in monte ; e in po- che pagine setrrte per Piomwnao campo dilla storia eome nn poledro, Qf ihaente e di buon umore. i6i tarlo , come ricura cagione  fidiaci e danDoemime con- legaenze (i).  " False idee sul progresso della dinli e della politezza.  perch P errore i fecondo d'errori; questa confaaione delb cTilt colla politezza, questo sarrogamento di questa a quella , V agiatezza alla virt : questa baldanzosa spe ransa ehe ingenera ne* cuori degli uomini superficiali V a farebbe una fatica infinita ed inutile f ci& Tergognerebbe beoA T au- tore, foa non farebbe neMon Tantaggie alle maaaime le quali sole aono lo aoopo e la ragion per cai ti debbo scriTere. Egli vi trascegli  presenta tenpre I fatti e le circostanze pi debbio ed incerte della storia on nn^ assoluta ctflrtcna, oone fosse stato egli presente agli Tvenimenti ; qvando per^ fanno per tL Ognuno se ne potr con- vincere da s quando abbia la parzienia di esaminare criticamente i soli fiitt della storia romana come sono narrati dal Gioia , e special- mente que^ de' luoghi segnati pag. 64o, VI, VIII5 64a, XII5 643, XIVi ^4, XV, XVII) eB, eoe. eoe. 0^ indotte a credere che k dtiltit ti polesfe misurtre ed esprmere quasi per una progression contioua in ragione dclPet che lia il genere umano. Quindi il sistema 'oppo- sto a quello racchiuso nel verso tf Declina il mondo e peggiorando invecchia  : il quale senz^ esser vero, non rende vero il contrario. Semplice a dir vero  il sistema. Volete voi segnare i gradi della bar- barie quasi eopra sicnro termometro ? Divideteli in ragione do? tempi: qnanto pi vi arfctrerete dal secol nostro, tanti passi far^ altres indietro dalla dvill degli omini Ascendete a' primioaia^ li trovenle o bestie, o vicini alle bestie (i)^ 0) n Gfoia ve ne Mseuni.  Ut* primordi dell sorH, egli ia m in generala , g U oomM aon si diilIngvoDO gran fittlo dai bratt  ( pag. 0a6 ). Voi vodcle qui e m tanti altri logU tegviCa dal Gioia 1^ ipotesi d* politici leorat del secolo tcorao, che partono dallo stato di natura y e succeuTameote conducono rumaoiU alla coltura pi faffinala, dandosi a credere che l'uman genere segua proprio le leggi di' essi trovano bene di prescrivergli colla loro fantasia. Questi sono i dottori che pretendono insegnare la maniera di adoperare i fatti a cavarne delle stenns ooiianio sta'bilite da Dio, e nacque la comunit delle donne e gli accoppiamenti fortuiti : ae farete loro osservare che 41 medesimo debbo esser succeduto dopo il diluvio la seconda voltai ina solo paqrfal mente: e che fu solo quando alcuni popoli ai aol leva- rono da questa sccoada estrema decadenza di oeUame per ritornare 963 a alia {[eneront de' n^tri filosa parr di far tal graaia col lasciar loro ancora un tantoim di ragione, e non tatH porli o pesei o belve rampicanti in quattro piedi, o meno ancora', eaaeri inaenaati prima, oirganiaaat poada, e animati per ultima da na operazione interna, arcana, nelle viscere della terra operata, d'una terra dotata aUora di una portentosa fecondit che ba perduto per sempre. I pt generosi peri e cortesi, come dicea, vi faranno gli uomini muti, dal solo iktinCo diretti; pi fortanati dell' altra belve perch perven nero i primi ad inventare il linguaggio e a prevalere ad esse e a tiranneggiarle. In somma eccovi in quel singolare stato di natura, che i il aero del loro termometro intellettuale e civile. Q'oesl' quello stato di natnra dal quale partendo il genere umano a'imials grado grado fino alla presente ci* vilt , tutto opera della sua portentosa scaltreaaa , e della sua pia portentosa organisaaaionei quello stato di natum sol quale si soo edificate tante chimere morali e politiche, incognito ai monumenti piA antichi del genere umano , ma non a iadabitstsme ntt meaio di contro a sostCBer^v Mud vilUAm ed odiosimml f^i nodi del oAita^ meatvt yie$cmto cari e pregiai questi el gentHe scrittore : i tfmtH nessans digml  , nessma eievatma n modesti, lA verit u tir ti ^ hi cpicsti luce ini oare sentimenlo d mantf deearo , im sobBnie disiateresse , quasi direi una dimemioaiiia A at stesso , ed una dilicatiasivia sotKeituw ditte delia Tetki , delk giostiaia, della paressa di sue p rok , le quali Aon al i^ento ma si rnrolge al genere mayn ttttegpa^ di qaella riveitiuca e di qaelP aaiore eke a laciea uditola  derulo. Laonde peee Paiftore' del Nuoro Galateo^ il quale er- dendos ripreso (i) dellUrtr fatto f apologia della oukd^^ tolse a giosti&eursi dPermando ehe a farla fa mosso d^ vedere come t dal pergamo Hnefm giormmlmenU da m^ensmu n (%} : quasi P esser nua cosa oeHe ohteK cai- toliche ogtfR \ biasiouta, sid usa bvona tagion di lodarb; ^ P addurre Ihnie Scusa noo rechi altrui a rsgionevol ao- spetto ehe a un Sale autor piaccia diconpurire la seimia di que' sofisti oltramontani , pe* quali eerto non era ra gion mq[ltor o pi eficuce di fevoreggiare uaP opinione che deHP essere dalla rdigion riprovata ^ o dieondaunkda  vilipenderla , cbe dtlP esser dalla religione approvata  favorita. Egualmente frvolo riesce ^1 sario pubblico qur- st^ argomento delP autor nostro :  Altri scrittori biasima- ^i>  db OMervani some tifile OMervsionl f Ate IPApotogia deOa odo, io BOB iipefor la mia opinione u pr n contro la mtdesiuia ae non in senerale diotodo , ebe e*  da dir qaino e quindi, e che il risaltato non pu trovarti ae non da chi calcela esatlamente ci ebe sta per le due parti. In 000 le OstaH^tiom non danno alcuna doMroa intorno alla moday ma solo dimostrano che P^/roIcgifM fwn t ha djjfis* kaH% il che ivi mi sembro dimostrato 'Uno all^ evidensa. VauloM del Nuovo Galatto senza* badare a questa ritenntena di Tarlare , si scaglia col suo impeto barbarico contro di me come un nineo dichiarato della jnod!a non solo, ma ben anche di ogni cM^i/tyl: ^tiasflh la causa della moda e queUa deUa civilt fosse proprio la UBdesiman (a) V*^. 61^. ^6  TOQ la moda ; danqae io la voUi difeodcM  (i). Bella ragione da vero! ella vai quanto uo dirvi manifesto:  Sap  piate che io sono nn sofista r> \ perciocch non possono essere se non i sofisti ed i pasci che diCendoiio ua^ opi- nione perch altri la biasimano. E come nessuno vuol mai comparir pasto , cosi nessuno dovrebbe voler comparir u sofista^ e dovrebbesi vergognare non che a dire ma pur a pensare dC egli scriva alla foggia di un avvocato ( come avwen di dire al nostro autore )^ acciocch il publ^lico uditi gli altri e udito lui , poscia giudichi (a). Certo il pubblico  giudice degli scrittori^ ma giudice in appello. Guai a .quello scrittore che non ha prima giudicato se stesso! Laonde ciascuno a cui  caro V esser avuto per gentile ed oaes^ , non ragioni e scriva se non ci che V intimo sen- timento gli detta per vero e per buono, e sfugga quasi iu ima ogni anche minimo indirio di que^ modi e di que^ costumi del nauseoso sofista^ e chi da un sofistico spirito  preso, guardisi almeno dal aon perdere anche il pu- dor, dal non far quasi professione pubblica di sofista , dal non arrossire a palesarsene come femmina svergognata , M vantarsene^ dal pubblicar siccome qu^lo sia un me- stiere lotto pro/N)rzJoiiato alle sue Coiue ed al suo gusto (3). (3) Ecco tutto il passo del Koovo Gaaieo alla pag. 617; a Altri CI scrittori ayendo fatto la crosura della moda, e, buona o cattiva, . 69 $ >. ConsMerur te cose da un soio lato. Detto aotico i j che tutte le cose sono come degli orriaoU a dae manichi. Questi due manichi sono cariasinii a' ao- fisti, perocch possono pigliare cosi ora uno ora T altro aecoodo che meglio loro incontra al momento. Come noi abbiamo veduto, essi giammai non cercano l'ultiasa con- clusione di o argomento , quasi integri giudici , ma eome mercenari awocat arringando per una sola parte. -Questo ataneggiare o mostrar le cose da u lato solo , acconcia loro assai per pi ragini: prmieramente se cos iion fa- cessero non potrebbero sostenre il pr ed it contira di tutto, a piacimento degli orecchi a cui parlaho o delPesi- - gema loro: di poi ci d loro campo di mostrK piA sotti- gliesia, e potenza di lingua , e di comparir nella mento della plebaglia quasi direi gli arbitri del vero e del falso, che muta faccia e natura nelle lor mani; il che  pur sem pre il supremo punto a cui aspiri rumano orgoglio: finalf^ mente tal modo loro presta un'apparente difesa ' scheinio quandochessia a tutte le obbiesioni che contra kr si mo vesser; perciocch a chi li rimprovera di eccesso in qual* ehe .assunto, eccoli acconciati a rispondien : n Mentite scioccamente ji, e a Vedete ci che bo detto in quelPak -tf tro tempo ,  ci che ho scrtta in quelP altro luogo , e a troverete il contrario!  avendo essi sostenuta ora una. cosa ed ora un'altra. I quali aftificii tutti e giochi sebbene- possano essere ingegnosi^ sono tuttavia spregevoli, e p* sticci senza rad)ce alcuna^ e non fanno impressione %nona sugli animi de' civili uomini^ ma cagionano loro grave e jintoUerabile molestia , ed eccitano un gravissimo tedio e fastidio dello scrittore csi garrulo y e ardito e villano. Tal vesso incivile degli scrittori sofistici V imit ed espresse, pi vivamente che non bisognasse V autore del Nuovo Ga- lateo: di che dar un solo esempio. Gli veniva fatta la. censura di un suo capitolo intitolato jpotogia della moda^ i t fra r altre cose gli si notavi ch^egli per fare qnelPa^ pologia rafpooevolmente doveva prima d^ogo^ altra cosa Mtter la moda dentro i sno giiuti limili y e o stabilita chiara e precisa la tesi, difenderla. Or egli risponde e grida: Alla mmiaogaat Mai menzogna !   perch? forse dia voalf Apotagia restrisgetc voi la moda entro certi e ginati kmMt ^^ QiMsto do ^ ma  , . .   Cke volete dire cai^ ftfsato ma^- cke non esclade il primo mo -^ ehm cpi.e arbarel sui quali non si pu mercanteggiare u accre- scer' la ricchezza degli stati ? o pi tosto il moto della rie- chezza t che ignoranza di politica economia ! far cos poco conto degli abbigliamenti di moda f che cattivo gusto! Ma quello che  pi,, ia rmgione si , ptr u che una distoluiezza ne tim eeeo sempre unlakran, I bisogni adun- ca SKtnaati dal sig. Gioia, che discordano dal sistema della poli- gamia , non vengono gi soddtfiitii da qwaliinque altro sistei^ j e ^ella serie di desiderii non discorda gi fftu dalla roonogamia che Bon faccia dal suo sistema contrario: n perci frono bene cratte risiati qoando li chiam u bisogni e desiderii discordanti dal sistema u della monogamia n.  Opus. fL r. IL 36 a2 ed intanto tragittar gli errori. Rousteau per altro non era almeno , come quelli , interamente perverao e finto : era sofista; ma una bolgia meno gi di costoro. N tutto ci ohe Rousseau scrsse, fu falso ; talora bello e buono. Qua! timore, a ragione d'esempio, pi nobile e pi rispettabile di quello eh' egli dimostra qua e li per T estinzione della moralit ne' nostri tempi materiali ? qua! cosa pi vera , pi evidente che la descrizione de' filosofi de' suoi tempi (i)? Quale domanda pi dignitosa, pi importante di questa, qub DEVIENDRA X.1 VERTU QUAMD IL FAUDRA s'BHRlCHia A QVELQOK PRix QUE CE soiT? La qual sola basta ad annullare de' vo- lumi in quarto di dna brodosa e materiale politica eco- nomica. Le quali cose , tutti i savi le sanno. Laonde non pu fruttar troppo bene al nostro autore il fare l' avver- sario suo seguitator di Rousseau, senza dire in che pajte^ se nel buono o se nel cattivo : senza citarne un passo : tutto confidente di spaventare i leggiti timorati con lina sola voce, col nome di Rousseau, cosi come le femmine ^aolevan gi fare impaurendo i fanciullini col nome della l^efana. 7. Principio deW interesse. E sebbene l' intendimento di questo piccol libretto non sia quello di entrare addentro nell' intime ragioni delle (0 II Gioia dovrebbe 1.* dimottrare quali aieno le proposiiioni in eui il suo avvertano conviene con Botmeao \ a.^ dimottrare che quelle tono falte. Egli dimentica di fare ti Pnna che P altra di qaette due ootet grida che il tuo awenario  tegnaoe di Rontteau, ed i tcimu- niti Patooltano, e c^'edon la cauta finita. In prova di ci eoco le parole della Biblioteca Italiana. Etta an* nuDsiando la quarta editiooe del Nuovo Galateo, con mirabile tem. plicit coiii dice : a Nella ftitpotta agli Ottrogoti P autore impugnando  i tofitmi di Routteau contro delP incivilimento , risponde ad un mpo alle obbietioni che (atte furono contro la tua Apologia della i possa dedurre i loro doveri verso i ma- te gistrati che queste foi^ giornalmente mantengono, e quindi inne- u stare questo ramo di morale sul tronco della pubblica economia *. Io tengo per certo che il Gioia non avverta il male che contengono qtirste parole: e perci lungi da me Pimputargli male intenzioni. Ma lasciando sempre da canto le iotension, e favellando solo del valore delle parole, non posso ommettere le seguenti osservasioni. i.^ Ci che caratterizza il diverso sistema di quelli che aromettons una morale di fatto, e di quelli che l'ammettono solo di nome ma nel fatto la negano, , che i primi ritengono la morale come il tronco, e l'economia e le arti di piacere come rami da innestarsi in su qnel tronco s mentre i secondi ammettono recononia o qualche arte di piacere come il tronco, e la morale vogliono renderla un ramo d questo tronco. a. Quando la morale  cangiata in un ramo di economia f essa  distrutta : alP incontro quando V economia  innestata sulla morale e resa un ramo di lei , questa non  distrutta , ma  conservata insieme la morale e Veconomia : di pi, P economia acquista allora una nuova dignit; ella viene si pQ dire santificata. 3.* Quando voi volete innestare la morale sulla economia, facen- dola diventar niente pi che un ramo di questa ; voi adombrate il moralista; voi lo costringete a far guerra alP economia come ad una scienza usurpatrice. V innestare alP incontro l'economia sulla morale vi guadagna lo stesso moralista , che diventa il difensore della eco- nomia come di untarle buona e benefica. Dite lo stesso d tutte le altre scienze , ^di tutte le arti utili , di tutti i piaceri della vita *. vo; lete salvarli? costringeteli ad entrare nei loro confini: ad ordinarsi , e a non azzuffarsi colla morale. Voi allora sarete benemerito verso P iiman genere perch non P avrete lasciato privare di questi beni i glieli avrete conservati , ed egli se li potr godere in pace e senza hotiL  scusare gli aitnit difetti aache a spese della ve r rt, aHorch non ne viene danno ad altri n (i); egli vi mette per lionite alia noda' il. pudore^ ma carne nn meczo onde le femmine possano rendere piA forti i loro vezai, e signoreggiare gli nomini (a), facendolo do A ser- vire al loro interesse : e perch tutti gli altri limiti ^son pure all' interesse ridotti , non resta limile alcuno vera- mente morale che T autor nostro ponga alla moda^ e quindi quand' anche il suo avversario Tavesse di qaeslo tassato (3), rimorsi: ro in Ul modo arrete generalizzati que^ godimenti perch i buoni tessi ne godranno in comune coi cattivi. Filosofi che dispreuate la morale, cercando solo il piacere! t ricorda Tonnipotenza della morale : non la offenderete impunemente : se non vi prirer dei vostri beni , li sparger di un amaro che ve li render disgustosi e fonesti. (i) Nella nota alla pag. BS7, conferma il suo principio colla sen- tenza di un re, riferita da Mustadin Saadi , la quale  la seguente: u La menzogna che fratta an bene f vale pid della verit she pro- it duce un danno n. Ha sapete voi tutte le conaegaense di una meo- zogna, e tutte quelle della verit? Qoal uomo pu calcolarle? Ecco a che si riduce il principio deir inurtsst : ognuno crede di bene in* tenderlo; intanto perch fosse ben inteio bisognerebbe avere una sa- pienza divina che calcolasse tutta la catena delle cause e degli effetti: che intendesse in somma a fondo il satenui intiero delP ontverso , e la natura deH' infinito che  il punto su cai si sottiene. Intanto la presanzione della falsa filosofia che non vede questa difficolt, dopo arer distrutta la morale ridncendola air economia, distrugge in egoal modo la ferit, ridncendola aWinteressej e ci ^necessariamente, giacche la t^eril  il principio della morale. (9) Pag. 1 5i iSS. Fa da ridere il Gioia quando nelP Apologia della moda, dopo di^arer parlato delle donne oome fossero tutte da chiasso, , si scusa dello stil poco delicato dicendo che 1 difendendosi dai la-  dri, non si pu pensare alla delicatezza del sentimento w (pag. 178). Sono i soli ladri che a lui fsnno paura: fi comperare e'il vendere fra uomini e donne  >ene incoraggiarlo :  un ramo di pubblica eco* nomia!!! Per questo forse usa lo stesso stile da per tutto nel suo libro y anche quando non confata obbiesioni e non si difende dai ladri, come alla pag. i5i 153. Vedi ci ehe ho osservato pi soprm cap 11,8 5. (S) Il suo avversario gli rimprover non aver egli messo limiti alla moda nella sua Apologia, e nnll^ltro : il far supporre di pi  im^ impostura del signor Gioia. non poteva dirsi memognero sensa riientre: e se rantore^ forte del suo princpio dell'in terease, reputasse qaesla stessa calunnia da lai apposta al sao avversario esser cosa mo* rale ,. secondo il solito abuso' che h di questa voce per- ch a lui utile ; non iscinvcrebbe per questo la figura di stolto ) giacch non gli pu essere appresso g^ intendenti se non dannosa: poich  impossibile opprimere P inten- dimento del genere umano , schiacciare il cervello con ona parola di tutti gli uomini. CAPITOLO V. Prncipii generali del Galateo. Ora che, enumerando le impolitezze letterarie, abbiamo procurato di ridurre il raziocinio a sensazione cogli esempi che V autore del Nuovo Galateo ci ha riccamente fomiti ^ prendiamo commiato da lui, e con sua buona pace tea* tiamo un tratto di sollevarci un poco pia so, se ci riesce^ ad alcune idee universali, le quali ci possano condurre ad acquistare un chiaro concetto di quest' arie delle buon creanze , di cui molti scrissero , ma pochi si diedero cura di direi precisamente che cosa ella sia. $ I. Il mezzo proprio e perfetto di comunicare colta societ pubblica  la scrittura, come il proprio mezzo di comu- nicare colla privatr  la parola. Laonde il nostro Galateo de^ letterati alla societ pubblica appartiene, cosi come quello del Casa o altro tale spetta alla privata. La societ privata vien prima a qualche grado di per fezione, che poscia comunica alta pubblica. La societ pubblica cosi migliorata , finisce di perfezionar la privata , e fa insieme la perfezion di se stessa. Perci era naturale che prima si scrivesse il galateo della privata societ: e molto dopo quel della pubblica: sebbene questo sia di molto maggior rilcraiiza , e poaia iolo einilur quello alU soa peifexione. . Il galateo della societ pri?aCa-, ed il griateo della so- ciet pubblica non possono essere, rigorosamente parlando, che due parti d^ un' arte stessa, perch con uno stesso nome di galateo* si possano convenevolmente chiamare. N un'arte stessa sar, se non vi avr nn.solo princi- pio il quale sostenga : due applicaaioni per forvia, che, ap- plicato alla societ privala, ci dia quella serie di avvertenie e di precetti che, raooolti issieoie, galateo della societ pri- vala si nomina, ed applicato alla sociel pubblica ci ge- neri pure un'altra serie di documenti che fiarmino la so* stanza del galateo della societ pubblica. M. Uintendimento di questVte, ohe noi con una sola voce ' di Galateo chiamar soffiamo, non altro pu essere che quello di ammaestrarci a renderci piacevoli e cari alle persone colle qoaU noi uspmo o tcattiamo^ al che ottenere il V buon senso del Casa tocca un principio assai generale l dove dice che  le nostre maniere sono atfera diette- tf voli, quando noi abbiamo riguarda alPallrui, e non. al tf nostro difetto  (i)r Certo tal principio  comune tanto al galateo che insegna a gove snar le maniere che si usano colhi societ privata , quanto al galateo che i modi addita convenevoli da tener colia pubblica , perch o sia da quella 0 sia da questa noi siamo. tvilti cari ed amati e riveriti. E Pesperienza ci mostra che questo principio dagli scrit- tori gentili  naturalmente seguilo^ c.in quef tempi e in qne' luoghi ove V urbanit e k buona piacofoleaza  in fiore, v^ne pi A sottilmente/ osservato. Veramente quanto V uomo  pia wwao , tanto aeao cgb  conoeio di tra* sporUrsi colla sua immaginativa negli altri iioniini, e, in- nanzi di proferire o d^ agire, considerar quello ch^esot sieno disposti di giudicare di sue parole ed aaioni: e al- r opposto  pi inclinato a giudicar ciecamente tutti gli altri da se steasoy e ad.atlrilNiir loro le proprie passioni f le sue accidentali pertorkaiioni (i). Mbdesimameate i tempi ed i popoli roazi avvertono mena a questa rotieaxa degli scrittori, dove anche questi la mo^ strino: mentre d popolo gi molto kmansi proceduto nella eiflt, di molto s^ adonta se Tede quella groaseaza della scrittore di non sapere uscir di si , di applicar a tutti le proprie afierioni , di non aceo^nt cbe * aL pubblioo doa cale punto de- suoi particolari interessi , che non ha ra fione d'esoeme impegnalo e riscaldato siccome Tha egli. Quindi i civili popoli sono dilieati censori di tale quasi inerzia di mente , e non la perdonano a verun patto ^ Iad dove i popoli che poca coltura hanno, sono cogli scrittori loro indulgenti^ sicch questi riescono senza quella fina deHeatezza ed avvertenza che tanto piace in quelli di na- soni coltissime Cos la coltura detta nasone esige e forma quella dello scrittore , come d^ altro lato pu lo scrittore correggere e limare in parto h scabrosit deHa nazione. I peccati contro il Galateo de^ letterati, che noi ahhiamo in questo Khretto raccolti , tutti eritar li potavbbe quello scrittore che quest' unico principio, di riscontrare Je pr** prie parole col- giudisio che hanno diritto d'aspettarsi dalk pubblica aoeiel, e col piacer 4i questo, timtM sempre presente. M.   '  .  Tuttavia troppo vag4 ad indetennato  ancora questi^ principio, perche irgli nom d mastri e facda conoscere ci (0  il principio del Vico t u L'uomo per P indiffiniU natura della Beute umana, ove qnesU si roveaci neiri|oonuiza, egli fa. s regoU dell' universo n, Sdana tTutH^a^ Ljb. L 1 6he iBi sociel pkbblicrMglia coaumcineate pi|oeitt.X2er- chtMiofie adanque un altro pi alletto, che ci fia cgme di criterio col quale poaaiam discernere ci che alla ab** ciet pakbiiea piaccia, e ci cbe dispiaccia. Il priueipio 0 il criterio 'che a ci conoscer ci acorge, sar in generale, che gli omini a richieggono che nelle tf maniere di coloro co' quali usano , sia quel piacere che u pu in cotale alto essere i (i): il cbe  ragionevole e giosto. Perocch maggior piacere che quello che pu es- sere in tiascnh atto , nessuno pu ragionevolmente desi. derare^ che  cosa impossibile^ e ehi ne d minore che V atto possa riceverne in se medesimo , gli pare che de- fraudi gli altri d^un bene che potrebbe loro senza suo in* comodo dare, il cbe suol esser tenuto poca gentilezsa o^ beifevolenaa. N si fatto principio  manco del primo ac^ coficio a' due galatei , che distinti abbiamo : ma govecb che alleandolo brevemente :al trattare cosi colla sodet privata cbe colla pubblica, veggiamo come nella sua ap plicaafpne esso si m^odifichi , e da esso i due galatei, o se si vuole pia rigorosamanle , le due distinte parti d'un m),d\i|QmcM^.. palla qatpn, e d' infinito nella stessa divinit. E cii^ cbO'OsveffiaiBo de^ ragiosttmeati privati  pabbUci, fi pn parimeote.osfrsvarp- della privata vita e delia pub* Mica. Poichtaebibeno la verit^ la betlesia e la virtA ornar debbono tatti gli atti 'della nostra; vita privata, che aoo 4aUa|.cogmxiono 4lel v^^, dalla por^^M del bello ^ e d^tt'f^rciaio dfUCi^nctto. al njeva sopra quella degli alta aniaMliV'tiillavia  nella eoeiot pMUili^a. ohe .questi nobi* Ussiini: beni.ddl^ apinto apiegfmo tuttavia loro.magnifi- i;cmsa , e lo ^pet^colo iootmparabile dalle loro attrattive, fuan la semplicissima baos' del vero io tante cooseguenio, in. tantc^applicasisnf ella SrOpre e biiUa in na vagbea&a ipqin^T^ e iMci^ ve variate, veMe U pia soblime catat- tere , ed innalza la libert df Ilo spirito su tutto |^i pMrtQ^  la cosa dall'uomo presen- tata y. quel nuovo, vero, quella statua, quelU virt, che sono t4itte eoas amabili indipen4e]le2za e dellf virt^. La dolce, la pia benevolenza che impone il Galateo, vien per fai modo a maneggiare con mezzi dilicatissimi e onestissimi T altrui amor proprio onesto^ laonde si appeo a do^ bisogni naovi, e a procurar nuovi coniodi e piaoerir il piale aitmanle 4i 4iUiUidinbe soperare le altre tn dottrina o probit, senza che pf^ qusto neceisiTfamente le su|^erasse in richetxa nel senso pr- . -p^otMi fitttU. La dbttrna, tk verit e la virtA sono eerto pi che ta riecheita mmtaiatej tn. non formano f oggetto della ficono- mfa ak non in qdanto esse tnfloiscoBo solla ricchzza nutkriaU , o l^ehsM aiutano Ta phubtoin,  perch si possono coli quella aMual- tbedtSe cofliauitare: per propria natura quei behi' apt^^rcengono al altre scienze. Vi sono delle virt e delle scienze che non influiscono se non in minio asai lontano sufi* Ecoliomia , e che non soddisfanno meno par questo d^ ^erf bisgni detl kpirto. Quando si rolease parTare in Conomia di tutto ci Att  atto a soddisfare un bisogno, o a pi^urar all^nomo un piacere , converrebbe in essa parlar di tolto: eira Vioscirebbe una ieseoknt confusa d^ idee svariate, ^di- .strnggeuftbbc, assorbendoli in s, tutti gli altri rami ilei sapece. Il Ciota che (in va pA intero esente da questo difetto nel modo di trattare la scienza economica , deve il medesimo alla sua 'filosofia ^ssa e materiale { qiiesta rduc^ tu^to 1* uomo al suo corpo,  perci tittk ta sapienza umana a d^le specufazioifi economiche. ^^ In terzo luogo ^ vi i^aasono essere degli oggetti materiati die soddisfacciano a dei bisogni e producano dei piaceri , e che tMttsrvia 3 IO ^ 3.'' I truporti del qobmmMo, il qaale fteando i pr- dotti ddr^^icoltuia e dellUrti ne^ luogU pii aocpod ad emtft contattati. oMia diaCributndoli m ragme dei ksogai e dl deaidoni, li reode eoa ci.pi4 otti a aod- disfare si qoeUi cbe questi) giacch veagooo a' medesifl accostati e qaasi applicati ^ mentre restando loataoi da essi on polevabo giannai rispondere alle esigeoie. Questa maggior attitudine o /acuit di soddisfare de' bisogni e di prodorri de^ piaceri  ai valofe ed una ricdieasa ag* giaata o al tatto di- nuovo creatar per questo solo non si considerino come ogfetto dell' EooDomia: Ule  Paria y il sole eoe ComiiM^no questi a direntare oggetto della EcoiuNDia, solo dal momento che comincaoo ad esigere della spesa o dfl travaglio .p^ mantenerli, o che oonviene diffnderli dai troppi eonaumatori: in tal. caso possono essere Tsodalti comperati, Fino cke abbondano'a ti\|lti senaa spesa s traTaglio, ncMuno  dUposlo a cambiar con essi un^altra cosa per minima eh^ella sia, non hanno vn prezzo, sebbene gi suppliscano ai bisogni pi (grandi della Titar in tale stato sono csdosi dai novero .delle eoseappresubUi, di che tratta P Economia. , La riccutaa adunque^ in quanto  il oggetto deirqsnomia ed in un senso ancora alquanto largo,  formata i.^ da quelle cose ma- Uriali che sono atte a soddisfare un bisogpo p procnrare^nn piacere, o. da quelle cote tpUitnaU che influiscono sulP aumento di quelle; quando per ottenere quelle o queste si esiga ui^ qualche 4pea o travaglio, o insomma perdita di altra cosa che costituisca Iqro il l^rrsao mmirole, e le renda atte a4 esser mutate ad essere con^e- rate e vendute Una definizione stretta e precisa della rochena  che deteni|ina reggette del P Economia, volando trattare qnesta scienza con ^me- todo rigoroso sarebbe, secondo mio credeif , la seguente: ** Quegli  oggetti materiali che sopravanzano alla sussistenza propria , e che  possono essere usati nc^ propri piaceri od essere impiegati alla suf-  sistenza ed ai bisogni altrui, formano la ricchezza n. In questa de- finizione, oltre evitarsi i tre difetti accrpoati^ i^ si determina, in qualche modo dove comincia ci che si pu chiamare abhondaiitAf a. sMnchiude Pidc^ della possibilit attuale d'ausare ci che sover- chia alla sussistenza: il qual uso o Atvt^) apportar piaceri % wt.o hy consstere nel cambio con altre cose , ioch quel sorerchio ptsa essere oggetto (delP altrui affezione. Su 4/ Tatte I abilit personali qa^tde possono aeddi- sfare un bisogno, 0 produrre on piacere, od eaaer can- giate con cose he haDOo qoest'attitiidD6, e infloir in qualunque maniera a produrle. ' In tutu questa enumeraiione si vede che P lenenlo principale che costituisce la ricchezza,  V attitudine di un oggetto qualunque a soddisfare de* bisogni , o ad p- portare de* piaceri. Di pi : Vattitudine che ha un oggetto a soddisCne de'U* sogni o a produrre de* comodi e de' piaceri, pu essere immediata o mediata. Il pane ed il yino, le vest, V ailii di un cantore quand' presente, o di un medico sono cose che hanu. attitudine immediata a soddisfare de* bisogni, e procurarci de* comodi e de* piaceri ; poichi noi non abbiamo che a mangiare il pane e bere il vino per 'riparare alia fame e alla sete, non abbiamo che a porte indosso la roba gi costruita per ripararci dal freddo, non ha il cantore ed il medico che ad aprir la bocca per dilettarci gli orecchi il primo, per consigliarci sulla nostra salute il secondo. AU* incontra il frumento non ha un'attitudine immediata a nutrirci , ma deve prima esser ridotto in pane ^ la lana ed il lino non ci vestono se non dopo che sono stati tra* sformati in abiti ^ VaUlit delPorologista non ci procac- cia il comodo di conoscer le ore se non mediante 1* oro* logio jche costruisce ^ e lo scrittore di musica non ci di* letta Et non mediante il cantore 0 il sonatore che esegui- sce la sua composizione. " Le aUitudini dopo di d possono essere mediate pi o meno, secondo che hanno una serie pia 0 meno lunga di mezzi o di pasi da fiire prima di pervenire allo scopo prefisso delta soddisfazion de* bisogni , e deU produaion  de* piaceri. Se jrumento ha bisogno, a ragion d^esem- . jno,, di (are un passo per nutrirci, cio quello di essere con- ertito in pane ^ 1* abiUt del coltivatore del frumento ha Pattitudine di nutrirci mediante due passi, o P intervento di 3i due DMzii^ d i/ b prodncione del {mment, %.^ U fili- masknc del pane: PabUil dello scrittore che imegpa li DgiUre collivatioae del fruaientO) contribuisce a nutrirci mediante tre passi, ossia usando una serie composta di tre messi ^ tio) i/ P istruzione sua comunicata alPagncoltore^ x* Peper delPsgricollore che produce il frumentp , 3/ Po mia in molti errori Uq^ altra conseguenza dlie cose dette si  che rkchttsM pro- priamente parlando non sono che gli oggetti atti immediatamente a soddisfare un bisogno e produrre nn piacere t 'tutti gli oggetti die tendono a ci mediatamente, non sono riechtMa gifirmataf ma solo istrumenti onde si forma: sono ,/Wi S ricchtzza, ma non rie* chetUj esattamente parlando. Come per nella causa si contiene r effetto, cosi si pu dire ricchezza in un senso meno rigoroso anche a quegli oggetti che hanno VattitudinB non di soddisfare i bisogni e ^i apportare i piaceri, ma di influire afi^caistenia di qnelli che la hanno. Opuse. FU. T. II. 4^ 3i4 tnerolmente nelP inventario delle ricchezze di una na* zione* Vuso adunque di qualunque oggetto che pu fermar parte della ricchezza,  doppio: i.^ o aoddiafa de^biaognt e produce de^ piaceri, a.*^ o influisce alla produaone d altri oggetti eaffaci di soddisfare de^ bisogni o di produrre de^ piaceri. Neir ano o nelP altro di questi due modi onde si uaaoo le ricchezze j succede Tono o Paltro di questi tre acci* denti: i.^ o che la cosa usata  migliora, come le forze e le abilit di un agricoltore o di una cantatrice, usate con discrezione, si accrescono fino ad un certo segno; a.^ o che la cosa usata mutando interamente di forma, si consuma del tutto, come il frumento che si consuma interamente sotto la prima forma quando si cangia in pane, o il pane che si consuma interamente quando si mangia; 3.* o final- mente che la cosa non si consuma interamente coir usarla, ma solo in parte, come gli anelli che si portano in dito ,. o Paratro onde si fende il terreno; nelPoso de^ quali oggetti il consumo  insensibile, malconsiderato in lungo tempo distrugge interamente. la cosa e rientra nel secondo degli indicati accidenti. Egli  evidente che i.^ rispetto alla cosa di cui si t fatto uso nel primo accidente, vi  un guadagno; a.^ nel se^^ondo e nel terzo vi  una perdita, essendovi la distra- rione di una ricchezza o totalmente o parzialmente. Ora qual  il compenso  JV Pro-tnettO, T- I, pag. 390^ 3ao Mon  dunque pia h riccbeiia V miuifsa delie OMe atte a produrre le senaarioD aggrtdevoli , aa oia sano le scnaazioni stesse che formano la rcchena. In questo caso ben comprendo che chi pia gode, chi pi si procaccia sensazioni aggradevoli, quegli sar il pii ricco: quindi per esser ficco in questo nuovo senso, P un- nico modo  di moltiplicare i consumi di lusso che ap- portano piaceri : egli  vero in tal caso che i consumi di lusso lungi di nuocere aHa riccbesza, sono quelli soU che la producono. L\ avaro , quando ci sia, che ha colme le arche di oro accumulato , o il grande speculatore che am* massa i suoi tesori ne' fondachi e sui navigli , sono gente povera ^ V uomo dissoluto che d fondo alla sta facolt moltiplicandosi i piaceri, il prodigo che tutta la spende per acquistarsi dtle set^azioni Aggradetfoli j sar Tuomo ricco a giudirio del sig. Gioia. Basta annunciare una si- mile teoria per sentirne P assurdo, per conoscere che  contro il significato aggiunto da tutto il mo^do alla parola ricchezza ed alla parola povert , che in somma in un tale ragionamento si chiama ricco il povero e povero il ricco, si chiama produttore quegli che consuma e con- sumatore quegli che produce ed ammassa. E pure questa  una delle maniere onde il sig. Gioia difende i consumi di lusso, una delle maniere onde ne L il panegirico. Ella  cosi strana ed incredibile , eh' io mi credo tenuto di dover arrecare pi passi del nostro autore dove ripete lo stesso argomnto, perch non aem* bri chMo lo calunni e che gli apponga quello eh' egU non disse. Alla pag. 293 del T. I del Nuo90 Prospetto opponendosi alla raccomandazione di risparmio che fanno gU scrittori di Economia, e di accrescere i capitali anzich consumare i redditi, quando si voglia aumentare la ricchezza^ egli si fa a dimostrare il contrario. A tal fine pianta la sua nuova definizione della ricchezza cosi: tf La ricchezza pubblica si riduce ad una abbondanza  di piaceri diffusi per la massa nazionale 1. 3i Qaindi icile gli discende la confotazione degli a^yersari. Dal momento che la ricchezza si riduce a' piaceri atesai e non consste pia nelFammasso degli oggetti atti a produrre j piaceri ed i comodi e a soddisfare i bisogni , egli  ben delle dimostrare ch/c V accumulazione de^ capitali non  il modo di rendere una nazione pi ricca, ma anzi il liberale impilo de^ medesimi. Perci egli prosegue cosi : tf L'accumulasione d^una specie di questi oggetti, oltre  di npn essere seguita da una accumulazione corrispoii- c dente di piaceri, ci toglie i mezzi di procurarci gli altri di cui siamo suscettibili. "^ Se di fatti voi moltiplicate allVccesso gli abiti, le scar- tf pe, le camicie, la mobiglia ... (i)^ voi non avrete un  cuoco che vi cucinile rivande, un servo che vi rassetti  la stanza, un barbiere che vi rada la barba .  . , una tf bella sinfonia, una rappresentazione drammatica, un u fuoco d'artifizio^ tutto ci che solletica momentanea-  mente l'odorato, il gusto, F udito > sar estraneo albi  vostra sfera vitfle  SI, sar estraneo alla vostra sfera imitale tutto ci che solletica Inodorato, il gusto y V udito \ sarete privo d'una moltitudine di comodi e di piaceri : ve lo accordiamo : non  questo che negano gli economisti : la questione non ist punto qui: si tratta solo di sapere se dando voi tutti questi solletichi al vostro odorato, gusto ed udito, sarete dopo di ci pi o meno ricco f si tratta di decidere se dopo aver impiegata, in procacciarvi tali diletti, parte della propria ricchezza, vi siate reso ancor pi ricco di qiiel che sardbbe se aveste quella ricchezza posta a frutto , impiegata a com* perare e migliorare de' terreni, ad instituire ed ampliare (i) GN scrittori di eoonomt non niooMiiaiidno 4i aoeomalar io  , qwstia^ O'edtoty dico, non  dhe P opinione ddftf rechesva, lapofeensa dt aver queU quando d voglia, in una parola una potaibililli di potsi- bilit. Gli uomini sistematici che Torfebbero clie hi natura delle cose fosse semplice come le lono teste, eclodono queste diMlnziont reali e le mettono* nel novero delle soolastiehere, per nessun^altm ragiono se non perch sono loro incomodo. Bil possono formarsi un mondo adattato alla loro eapaoit, ma non mutart il teslc^ 3^4 prodoce ima tilit in gnere,  tmvagUo' produOore . i produttore d'an piacere ancke qael travaglio che (anno le naacelle de' ghiottoni qnando divorano i cibi, e quello che &nne le gambe de' baUerni che non per altrui ma per proprio aoUazio si dimenano danzando. Ci per d cui oi tratta si  di sapere qaal sia il travagUo produttore di ricchezza j,i), giacch qnesto-^ Pargomento deU'economi sta^ e non qual sia un travaglio produttore d^zuiilitd in genere. Ora il travaglio produttore di ricchezza noa produce il piacere che indirettamente, cio creando quella ricchessa che diventa mezzo onde chi la possiede pub conseguire i piaceri. Fermo in questo errore il Gioia oppone a Smith e agli altri scrittori che raccomandano Veconofiia (2), ossia i ri sparmi annuali, come mezzo di aiutare il progresso della ricchezza aumentando i capitali necessari alla produzione della medesima, oppone, dico, che questo  un volere a che u si lavori senza godere n (3).  1 proprietari del suolo e i (i) In fatti la denominazione di travaglio produttore  alquanto inleteroiinata : questo diede luogo al sofisma. (a) il senso eomone ohe ha. attaccato a questa |aro1a di JBconomi il Talore di risparmio, depone in favore di Smith. Il senso comune rderebbe di un Economista, che parlasse contro T Economa. (3) Contro Paccumulaiione de^ capitali raccomandata da Smith, fra l^altre cose il Gioia die che i prodotti delle fabbriche institiiite con que^ capitali y agli esteri noto si potranno vendere giacch ti predica a $U99a twria anche ad esn (T. IV, 78). Ma oltrech tutte le naiioni , dato anche che eenoscessero egualmente questa teoria 9 non la potrebbero eseguire egualmente per la variet de^ prodotti ne^ di- versi climi, e delle diverse abilit, abitudini e geni degli uomini, sicch mancherebbe sempre ad uno ci the alPaltro abbonda; oltre a ci, dico, conviene osservare quanto sia falsa T obbiezione del Gioia anche per un altro lato. Sopponiamo pure predicata a tutte le nazioni la teoria de^ risparmi ; che ne verr? che tutti la eseguiranno? Nulla pi di quello che eseguiscano la legge morale : per essere a tutti comunicata, non da tutti  adempita, n in egual grado. Quindi le nationi meno pigre, meno corrotte, e pi industriose, pi econome, saranno quelle che avanteranno J^ altre in rcchessa: la provvidcnaa promicr eon ci 1$, loro laboriosit, in loro inteUigenca e la lora 3a5 jr Gt^taUili^ tgli ioggiiMige^ pBttcrud ciMcan tao  PeccedeDle della loro rendita al sao aumento, vedreb^ m htfo ciaflCVD anno aceumularsi i loro capitali, senza e/*  sere pia /lici ^ simili alFavaro che nella contediplaiionoi tf de' suoi tesori gosta tutti i godimenti, assomiglia la pos*  siblit alla realt, la sopposizione al fatto, essi non  sarebbero 9^enunenU riechi che al momento in coi de*  ponendo V idea dell' attmento indefinito, darebbero ai loro tf capitali altra direnone a (i). Quando tutto ciibsse vero, non sarebbe meno evidente che il Gioia nei passo citato esce intieramente della questione economica: qui non si esamina gi in che modo l'uomo riesca ad essere pi/- UcCf ma in che modo egli pu aumentare la sua ricchez" sa / non si pu . coufondere V idea di felicit e l' idea di ricchezza.* il pi ricco pu benissimo essere il pi misero. Se l'avaro  infelice, questo non toglie ch'egli poasa in sieme possedere molte ricchesse: sar immorale la sua avi dita 9 0 il suo esclusivo amore posto in un bene materiale come  la riccheasa: il Moralit per questo, o pu es- aere anche V Eudemonologisia ( mi si permetta di dire con una parola greca il maestro dell'arte d'esser fielice) lo cor- regger: davanti all'economista egli non  colpevole se non quando contempla la om ricchesaa giaoenk ne' forzieri in luogo di larla fruttare e produrre dtra ricchezza coU'am- tempertnsa. Qoindi ma emnlsstone baona fra le naoni: ena pad- fica gaerra non fatta colPame, ma eoli* industria : U quale a oneiCa fino a che T amore della rodimia li rimane rafoBevole, i neisi che ^adoperano per superare sodo giotti, e la contensiona scambleTole non entra negli animile non t semina la gelosie nasiooali, i paaa orgogli, le inlmidaie: Il Gioia eoi suo argomento direbbe ad un Go- Temo, che si occupasse a rendere la naaione pi forte e pi munita col migliorare la tattica o la discipltna militare, u Chi vi ba inse* M gnato.di migliorare la disaiplioa militare, vi ba data una fidsa tee*  riat tanto e vero che predicando la stessa cosa a tutte le naiioni, mt*  gliorerebbero tutte egualmente lo stato delle loromilisief e perci M nessuaa si renderebbe proporzioniltamente pi forie n. Bravo uomo d Slato cbe sarebbe il nostro economista! . (0 iV^. Protpttto^ T. IV, pag. fi. 36 j^Have i c0Biiepei, tender U flibbriditf, e Mirare la cohura d^ nrc^ih Dt^ cM m Peeoooflitata tmm ncdrjp rfgi bada aoiafo, e d'afta affnione awMaa, eebbma ai^aato aiate daanihiala. Questa teda ao nen fogNanio a lu soenarla : se' P abbia tutta: dielaaiO' safo che la tali kofM spastse l'economi- sta, ed entra ne* giardini della Slosoin Ctf alla pag. 79 del T. 1 9 dchr egfi> stesso conviene dei daatfo the nasce alla ric* ohfe f aix>l?atio, ma mA&jrimetr n**loro'or-edii; slfinooiftrO'ildiMflore d*diia MtMoa'dt panni da eoi, por etempo, eseono Sooo pene air anno, noe proliice aieaa piaoeM immedisto ne* sensi del proprietario, ma in fine dell^aano, riuscito lo amcrcio, empie a Ini le taaohe di sonanti lE^tttiini. l97 ^acMe f (Mie idi Imm in far puoir piantagioni , in ac ifusidri , stau y c^ehi , ehiaea^ gUere: allora caochiudet Ecco qiiaato ricco attorniato di una mollitttdine di piaaeri che non aveva prima 1 adeiao ai cb' egli i meramente ricco (). Ma m quel a|^ora, dopa (0 ^' Pr^tptao, T. IV, pa|[. ^9. Ca) Quetta spresfione di veramenU ricco e luatt dal Gioia pnr Cor inteadere la ao I4ea ^el pMio cbe ebbiano llegaie di aopra pag. 3a5. Egli  comp ae dtceave tt Chi h^ aolo le ^iodkeYze  rioco faameote^ u ma qufgli che le uaa  ricco reramente . Il bisogno d^aggiangere queVatfverbio, ipdica che quello che gode  piaceri non s dice ncco nel senso proprio della parola , nia in un senso traslato che bAogoa aTyertire con una spiegazione: come, con un altro traslato pu Lu- creaio diiamar ricchezza la parvit della vita , avvertendo la muta* zione del seniio dato a yicehetze coirepiteto grandi^ Ditfititg grandet homini nmi, vi^^ert pm^e JBquo animo . 3S dito il consglio M Gioia, gli lifpottdMe 'u fligoor Ectt- u DomisU, voi mi volevate ioaegaaie ad eaoer pie ricco r  per altro in fine alP anno io ho conattmatn lo aleaao :  m vero che i miei prodotti ai anmentnono, ma ^nctto aa- u mento secondo voi non mi h pie ricco: io debho in- j piegarlo in ahri oggetti d piacere per esser tale. Onr r per giacch non trattasi che di caogiar piacerr con  pisceri , sappiate che la mia sanit da voi riconoaciatai  come fonte dj onesti piaceri, Irioo pia soddirfslla col mio u imponente seguito di cavalli e di servi , che con tatti f gs6 a e diletti che mi sngfgerite. Che volete chMo vi dica? io u sar forse di cattivo gusto: ma quando si tratta di gusti tf bisogna lasciare che ognuno segua i suoi i. Io non credo certo che questo ricc^ U ridke#M cominerciale, T. I. L^ MUt de^ artisU  I suoni e i canti gi eseguiti non possono certo Cur tf parte della ricchesia nazionale, come non lo possono Iure  lo zucchero consumato, i liquori bevuti  i merletti dt u strutti j ma i suoni e i canti che si possono eseguire^  e di cui il suonatore ed il cantante hanno ripiena la te* u sta , loro fondaco o bottega, faranno benissimo parte della u ricchezza, nazionale , se vi saranno de' compratori, come  lo faranno i liquori del caffettiere, le cuffie del modi* tf sta , se qualcun! vorr farne acquisto  (i). Con queste parole il Gioia risponde al sig. Simonde^ Popinione del quale , come vedemmo, che VaUlit del sonatore e del cantante sia bens ricchezza , ma uon i canti ed i suoni che dilettano e non arricchiscono. 11 Gioia non si contenta che sia^messa V abilit del cantore o del sonatore fra le ricchezze nazionali^ vuote che sieno messi fra le ricchezze nazionali anche i suoni ed i canti possibili: i quali a dir vero essendo indefiniti, faeebbero essi- soli una ricchezza interminabile (a) (0 if. ProspeUo dette Seienu eeonomi^^ T. I, pag. 990. ii> Ciatevio rte che il Gioia s condotto in questo tofiaina dal- 1^ ftbnto 4r0i aalntli I suoni ed i canti peeiili non sono die un^attnisione : essi non esistono reslmenle oome esistono le sedie, i 336 Ma m aik amrda di oMdeiuc ciUf Amt \ diverse i."" rabilil del cantore e ilei ianalore, %."* i canti ed i Moni possibili, viene smentito tosto appressa dal Gioia medesimo : il quale perduta di vista la ridicoh distiBone, non parla pi di suoni e di canti possibili, ma deU^ abi- lit stessa del sonatore e del cantore, cosi soggiungendo dopo le pargle surriferite  In somma V abiUt del suo^ 'u motore e del cantante si eambia con tanta bcilil io ' danaro (i) con quanta le oCelle ed i confetti. Un ter u reno anco sprovisto d'alberi e di frutti  una riccbciaa.  ed ha un vidore, perch  scuscettUUc di prodotti^ eoa u il musico ed il cantante debbono* essere valori , perch a capaci d'eccitare sensazioni che, sebbene momentanee,  si comprano colla cessione delle cose pi,pretiose (a) j. sof, I fonieri  ftlegnime oettmiti e che Mspiono la soa bot- tega. Che osa aono adanqae i no potMUt Non altro che l'abi- lit ttesM del cantore acconcia a produrli: questa solo v^ di reale. Quando adunque il nostro filosofo si d vanto di seguire fedelmente la via de^ fatti, egli ci fa delle prometse di buon me^Mlo, che non mantiene. (i) Quando il sonatore od il cantora venda i tuoi anoai o ^nti ai sooi oonnasionali, allora segoe un cambio fra ricchessa e piacere : la riccheaia nazionale non si aumenta punto, ma solo cangia di luogo: ci pu ben rilevare per la dittribworu della ridie%zaf ma non sucofde con ci veruna produzione. Quando il sonatore ed il cantore vende i canti ed i sooni ad una nazione estera , e tortia a casa con nolta riocbf zza ; allora  aecresoiota la riccbezza nasionale. Tale an- laento per  solo relativo alla nazione del sonatore o cantore, gi** che d^altretlanta ricchezza venne a scemare la nazione da lui diver- tita colla sua perzia in quesl^ arti di piacere. N pure in questo caso adunque Vha una vera prodazione} v^ha solo una trasmutazione. Come nel primo caso era seguita una trasmutazione da indTidoo a Indivadoo,. cosi nd seoondo segui ana trasmuUziene da nazione a nazione. Conviene adunque dlstingnere Panmento di riccbezza rato- tiyog dail^auraento di ricchezza assoluto s nel primo caso trattandoai solo che una nazione acquista d che Paltra perde, non c^ alcuna vera produzione $ mentre questa. cV nel seoondo. Siodi si pn.dire a tutto rigore che le arti di piacere non Steno mtii propriamente produttrici di riochcva in un modo 4iit(to , di che noi p^^**"*^ 337 Ma obi ha negato che H moaico d il eadtante non sieno ricchezza? Questo s accorda: la questione sta a vedere se il musico ed il cantante , cio V abilit loro , sia una ricchezza distinta dai canti e dai suoni possibili : giacch gli eseguiti non sono ormai pi igicchezza , a detta del Qioia medesimo. Nel caso del confetturiere, oltre VatiUt sua ossia oltre le confetture possibili ^ si debbo calcolare, per ricchezza narionale anche i confetti gi fatti. La bottega di falegname  piena di mobili, coin la testa del can- tante ^ piena "di canti. Ebbene: in questo secondo caso i canti possibili che empiscono la testa del cantore, sono la stessa cosa che l^MUi del cantore^ allMncontro  mo- bili cegitt dal ialegqiiM, sono cosa diversa 4McAiUt AJkUgname osrfa da quelli ch'egli pn.a sua volont esHeguire. ^Per tal modo .con una serie di sofismi v^n molto acuti a dir vero, ma lidi per a cui, come mostra resperienza^ non pochi disattenti leggitori presso di noi restano tutto di pMN^ il Gioia t GalaUo, |>ag. $09. {Ed. 4.* mil.X Sauth, Saj e Daaoyer looo dichiarati nemici de* governi europei Ut 39 EU mk pMvft idet r*polgi^ ceonoaiet dei piaem, del hsiOy deUft eda, ad iniegoerci Fartt di godere prefu* euKDle ,' e di readerd vme i Mairi ecost BberaU. Noft iniitakiii, perehi troppo evari eone a eoo gindieie gli uo* mini del ostro lecoio oalcolatore ed austero ! Egli peri da queeta cenfoeiette dMdee, e da qiieoto dppio eeoeo che in diverse parb ddP opere eoe attriboi* sce alla voce ricehezMa^ rorioa necessariasiente in molti akfi errori e contraddizion Poichi qnegK che si i impe* gnato nella diCraa di un sistema assmrdo, non pai stare tanto vigilantemente in guardia di sae parole , ehe la ve- rit sfiiggenddglt repentina dal labbro , noi HMtta alle mam con se medesimo. Cosi nel eoo Prihma di ^lUtfiare PaUuuUe miseria del popolo in Europa {\)y egfi venne sensa avvedersi condotto a distioguere nella naaione ona miseria reale, e una miseria apparente; e ad affermare ehe tf la miseria tt d'nna naaone  reale qaando i tolto agli individai il  potere di spendere, la miseria d'una naaione  appa  rente, qaando la sospensione della spesa dipende da  alterazioni nel volere . Come aduaque vi sono dae mi- serie secondo il sig. Gioia, Fona reale P altra apparente j cosi vogliono esservi due ricchezze , Tana reale P altra ap- parente. Questo era Tunico modo di conciliare in qualche modo fra se stesse le sue due definizioni della riccbezsa. Egli viene a dire, che piando ha riposto la ricchezza nel* r oso delle cose, nel lusso, nel maggior nnmero de' con sumi apportatori di sensazioni aggradevoli , allora ha de- finito la ricchezza apparente: e quando Tha collocata neirammasso delle cose usabili , allora ha definito la ric^ tketza reale. Concedo anchMo che quanto pi la nazione  brillante per il grand' uso di tatti gli oggetti di lusso, e quanto pii si veggono ori, argenti, gemme , finissime stoffe , e mense imbai\dite di ci& che tributano alia mol- lezza i pi lontani climi \ tanto pi i a' sensi visibile upo  ehe cootendcvano seriamente a sapere a ck di -loro apparteoette Pinveozioiie di mangiare il fegato del Poca ingrassata a merle ^ e rigoairdandola cen ecobe fib- sofico j trova . di paragonarti al bedefioo trovatore delP in- nesto delle piante (i)! i lisci ed i serdidi imbeliettamenti delle femmine, i soawsmi unguenti, de^ quali aspersele galanti donne romane lasciavano dopo di s un Inngo e durevole solco nelT aria , onde attirare nel loro passaggio anche gli uomini che non le avevao vedute , non hanno la menoma colpa, n pectano punto contio V economia n contro la morale , a sentimento del (iioia ! Cos la dignit umana  sparita dagti occhi suoi, cos  smarrita la mo- rale , e dietro a questa tutto ^ e P economia stessa  per* modirmwione dal tig. Gioia predicata!! Le panie di loaio e di pisoeri ehe SODO indicate pii sotto, non hanno pur case nulla che ceceda 1 limili che il sig. Gioia pdne alla vanit ed al fasto piacevole I Guai per a chi dicesse chVgli eccita ad un lusso sfrenato: questi sarebbe un bugiardo: il Gioia stabilisce anzi dei limiti, predica anzi una mo- derasion al lusso, alla moda, al piacere!!  poi vietato Tesaninare ae questi tieno veri od apparenti: sarebbe ci un inoltrarsi troppo addentro nei segreti del sig. Gioia e di tutti gli altri sofisti , che con parole indeterminate, avciti comunemente un senso buono, cuoprono egoarentiseno agli occhi della moltitudine le dottrine pi false e le massime pi depravate. (i) a Assolvo quindi da ogni laooia le pia gentili e galanti donne u Romane 9 se di grati e soavissimi unguenti asperse lasciavano dopo  di a un lungo e durevole solco neli^ara^ onde attirare nel loro  passaggio anche gli uomini che non le avevano vedute n ( If. Pro- spetto, T. rV, pag. 47')$ il che Plinio, autor gentile, riferisce come ar- gomento di UBA estrema oonruttela morale. Il nostro astore proseguo col solito suo tuono assoluto u JE cmrio wn nurkovano deun nm^ u prot^gro allorch ai tempi di Tito e di Vespasiano onwvano le M chiome grondanti di unguento con corone, Indiane di seta a vari- u color, e intrecciate con foglie di nardo n. Voi udiste ? Il sacerdote della dea volutt usa la parola solenne, Aatqhfo s il filosofo della ci- viliaiiasione pronuncia cd tripode della sua ragione J? cerio non aie- rU4wano. BasU cosi! osereste voi timre il fiato mentre si promm* esano tali accenti sovraumani? sareste nn barbaro: un Ostrogoto, 34^ aata. Il JSaarlm che m ddoh ti ripigMi che fa 4i sotto il Mo flDoa ima; i^Ma di toa, sarebbe il piik oseritarote di lotti i nisrtsB, gioila la teerb de' piieri del aaatro astore , se con qaesta slia stosibtiit eecemva effi mm et esponesse poi anche a nake seosaaioni disaggradeil(i). Ma per tecaare alPeeooosia, di vena che per latta qve. sia rieebesaa appaiente che agli occhi dei Gioia a ona mpressioDe cosi dilelteTole che P abbaglia, nsa so che aosBCBlo Mila- naaiove sia per acquistate la rechetsa reale. Spora fofse die oeHa dissohileasa de' costami fiartscaoo le case , e 1^ naaione che delle case sngole si eompoae, ne- sea pia dovinosa? Intanto converrebbe essere eeceasWa* niente ciechi nel lustro delle esterne cese^ per non vedere che questa licchetaa apparente di natura sua  un cooti- Buo consumo della reale. Certamente ricchissima era Roma delle spoglie di tutte le nazioni , quando per V eccedente lusso , secondo Fespressione di Sallustio , sono i oostoaii in modo di torrente precipitati. Laonde in quel fatto avrebbe avuto almeno il Gioia da poter dire che quello sfarxo, queiP apparenza di ricchezza et segno non Callace di rie* chezsa reale. Ma QpuUntia politura max cgfisiaUm / i%ylS(iN,Pr9MpmOy T.IV,pftff. 47, dke: Si pu rignariaro one u tovercba U mc^lesaa del SiiMmU, che onricaioM aopra un strato  oopcrta' i rate, dolettsi d'alcuna faglia ripiegata sotto il sii# fian-  co, giacch questa sensibilit cooessitra lo esponera a moiCB teiisa*  tioni disaggradevoli, o lo oaodamiava ad osa perfetto ommImIM m Di questo poco di biasiiDa cbe il Gioia d al Sibarita, ^en questi eompensato in altro luogo, doro il uottro amabile scriCtore toglie a difendere il esatoaie che era fira^ Sibaritt, d^inyitar le donne  ai fe u itioi e pranti pubblici un anno prina, acdocch avessero iMipo u di prepararsi e coasparirvi con tutto lo sfarao della belletta e daf^enx td^ tccdeot ricckeiM id tetta 'cttte , di Ligi OUV? Ma aMlanetile oaflcnif' i(Saj)  o. u- ambe 1ealiioiiib iMracc deUa icdiil,qiikla sasiatav: per gli nogobri sfarai di fiie):iiilklalrtava i|iif I dMo ^, tfMo feci alla Francia povart.rtrowAi^Xtttlocfar amlarpii A tranefaotrJo sbi lanctt ideile fioMn ooUdkuiM il fdebit: Ji deUlo codmai ilmakaotealot iAflaakaaltnl'iprl Maone a.ipial bm- lioi|riiiidi pmMan' e aibisMi ui avem il lisao ^adasiniA aUmcQtafti^ e fi.k)l hiuialdai^ft'iKtli/le Msnli'Vevcol w voiire(:fM -U frandaaiq^lfttadMci., detta ftfolazianr. Il liHMi adi|M > DM* . di tinliiai se .inw iL sgno the la rie* cbesaa f iy.etli?ella]flid dicbena .leeei'^ aapfxribi di:i^ifdni|tof^ciie.ta^ tempkllsff odale? dai 4naliMei^'BliUpi,^a ^pnai Ihtiti gli. aadiph aarittaria !( aonnnabaa^ bei pdagi e h atataev o:tlti gii ^MMuaantJ niialfii jJU^arti batte, a i giaacfai ,10 yfmaiffi, a ttatle ifei^oUeaariidel i?ae, eraaa'piB aaiiHatloi detti; ateasa ipUica]llfel:doniiaaMe ^ cbe voleva coprire agli occbi del volgo le veraci miserie dello slato, e far tacere il foi^ip ilb .pagha .pl^fipOde 344 di cifoj CQDcioiMckii fa iCMpte al.popob, e fra il p- Itolo fate che qui :si jQe8C0U.ii lig. Gioia, argoneoto dalla prosforit Dauooaky la navonak, o dir j^ onBeote la ettadineica ed^minlataza.  Lo teito amore di vedere la nasione pattoeto brllaote ohe rcca^ e. di con&indere la riccheva appaiente colla reale, oiaiiifeata il nostro fieooooista quando teoto buh ttras lusingato e sedotto dal moto e ddla Mito Agi Itoti tnoJern II moto e la^ vita degli stati oiidenii  iit> vero una aeosasione ii|[|[nKlevle: ma aoa so eoa quanta* ragione il Gioia ae ean ima lode^ al lusso do* rodii in jpiesto niodo:i  li' ambialone de^riehi cke profondoiio , a die* egliy Sem* d'esca ai'vogli|siid*rricebirsi. DalPab* tf *bassanieotQ di iodtdiiv ribcUo^daU^elevaziofle A indi- ca vidni.lab9rosi ed -economi:, deriva Pemulasione di tntte u le dami , la sperafesta df sdrpaUami , la migiiora di tolte tf le condizioni f il mnco^e la vita degli Stati moderai (i). Non v* ha dubbio iebt; per mm 'ptpvvida - legge mceate dalfai aatmra'idtUe cooo^- noU' tragga il supremo Prowisore molti beai'dagfi eM mutamenti dielle fortune , dagU atessi rvro^tmeoti de' popoli y^ daHs stesse guerre pia accanite ohe allagano la terra di' oangne^ fa osservato,' che 'per una - rrvobisiono die' awnnga , si sregla lo spirito nasio fiale, si la pia enesgicaianaiiaaey si- sviluppano talenti di molti gremii 4 '.:.:.,.... . : estiano i Per oqminciart da queat^althuo parola la aMda adunque nuoca al pofero: la moda nuoce a tutti quelli de^ quali fomentando m va- niy e mettendoli in voglia di gareggiare co' ricchi signori senz^a* T^re il modo di farlo, mandano in malora le proprie famiglie per KMnltre a* propri capried fuspiratt dalla maapna fede.- In qiianto ai fl^n patrimoni, scegli aia un bene o no che vengano diminuiti, noi non vogliam ora deddere; questo olo d basU, fl dire che se anche fosse bene che venissero diminuite le fortune co- lossali; non sarebbe per mai un bene che veiiissero diminuite me- diente i vili /mediante un eceessiTO lusso, >ddle oBd^eaprieooie} ma solo mediante la liberalit, la beneBoenaa, e la carit ohe  U modo indicalo dal Vangelo per togliere le noeyoli dianguaglianae ra gli uomini. La moda vana ed il lusso soverchio resteranno sem- pre riprovevoli, e non saranno degni di una seria apologia; come il vizio resta sempre vizio ancorch produca indirettamente qualche bene, e come la corhuione reste sem|>re cetruiiene anoordi dipi- iiaisea i soyefdiiamente piogui patrimoni. 347 Ma con perpetua coi(tra un fine : ecco la prima idea deli^ intelligenza e dell^ in- tf dttstria.  pig- 3o ejeg.> Opusc. FU. T. U. 45 354  L^Ddustria del canarino risalta da dae ide associato (i ). te i.^ Il pane bagnato nelP acqua s^ ammollisce ^ tf %^ Il pane ammollito si mangia meglio  (a). II. Llntelligenza delPuomo non dififerisce che per gradi da quella del canarino e della scimmia. Dal numero tuttavia delle idee associate  si scorge Firn* tf mensa differenza che passa tra intelligenza delie bestie u e quella degli uomini. I mezzi de^ quali fauno uso le  bestie, non sogliono oltrepassare le due o tre idee, men- tf tre ne' mezzi umani compariscono le venti, le cinquanta^ u le cento. Per toccare con mano questa dififerenza , pa- u ragonate V arte natatoria de^ pesci e delle oche , colla  sublimit della nostra liautira, le tele di ragno coi finis- ci simi veli di cotone, le grotte de' castori coi maestosi r> nostri tempii, il canto degli usciguuoli colle arie di Pae-  si'ello 0 Pergoiesi ecc.  (3). (i) Il Gioii TI aaserisoe francameot che li cagione di qoesti movi- menti del canarino mdo delle idee a$$ociaU, n poteva dir altro non ODOioendo la vera distiBiione fra le $en*taiomt le idui se Paveue conesduta, si sarebbe contentato di riporre quella cainone ndle.jcn^ Mttiwd asaodaX, Non si ferma per qui : wM^JStereio ogieo diatri- baisce anche i vari gradi d^ intelligenia bestiale , e molta egli ne d alle cimici, alle tignnole, alle sanzare, alle foehe ecc., e^e gli vor- ranno certo saper buan grado della sua generosit. Sembra j^er che dubiti dairDgpgno delPoca, ma non dubita punto del suo cuore, giac- ch, Hiee, a Si pu disputare seriamente sull'intelligenza deiroca,  ma nissuno porr in dubbio la sua affeiione pe' suoi Bgliooletti n (pag. 149;. Noi da vero nob osiamo metterci in una disputa tanto seiia. (2) EUmen di Filosqfia, Milano i8aa^ T. I, pag. ia5. (5) Elementi di Filosofia^ 1, pag. 127 e segg. Ammesso il principio, he quando negli atti ,  (i)- IV. Veduto, che P intelligenza dell' nomo non  gi es senzialmente diversa da quella delle bestie^ e che i gradi di estensione maggiore, che gode l'intelligenza dell'ani- male uomo sopra quella degli altri animali, si spiega 6e- nissimo colla organizzazione pi perfetta che ha il corpo dei primo, .e co' suoi effetti^ bisogna ora che vediamo, che cosa sia questa intelligenza. Ecco perci la spiega- zione dell' intelligenza.  Un garofano e una viola agiscono sulle mie narici ^ io  sento l'uno e l'altra: ecco due sensazioni prnUtye: u sento che l'ima  diversa dall'altra: ecco una sensazione tf secondaria. Giedicare si riduce a sentire (a) i rapporfi u tra due sensazioni primitive. CO Ia Mgooe per U quale le bestie non parlano,  perch hanno meno giudizio e meno paura delP uomo. NelP uomo u il maggiore u giudizio e la maggiore paura debbono fargli apprezzare Potiiit u che pu trarre daH aooeorao de^ suoi timil  Quindi da per tutto une trovato un linguaggio articolato pi o meno perfezionato^ cbe e facilitando la reciproca comunicazione de^ bisogni, facilita Peier- u cizio de^ mezzi di aoddisiarli ^ linguaggio tempre meno imperfetto *t di quello che si osserva tra gli animali  {EUmend iU Filosofia p T.Il,|iag.a39). (a) Il rapporto di due teasamoiii  egli una sansazione ? E ae la senmziooe  una modificaone della materia nervosa, il rapporto fra due *modificasioni della iMiteria nervosa , sar egli pare una mo- difieaaiaae della nuteria medesima 7 Un rapporto congionge insieme i dae termini fra cui egli si trova t dunque se il rapporto fra due modificazioni delia materia nervosa  pure una modificazione di essa, le due prime modificazioni saranno nello stesso htofp di quest^ ulti- ma. Ma le due senaacionl o le due modificazioni della materia di coi si cerca il rapporto, stanno t$tt nello stesao punto della materia? o* non possono essere sensazioni di diversi organi ? queste dufe modifi- cazioni come ti trasporteraoDO in tal caso in u solo ponto materiale? 96o  Tatti gli oggetti de' nostri giudizi , OMit fatta P iin  mensa massa ideile sensazioni primitive^ o eceitate o ri*  chiamats, pu essere ridotta a tre classi: i.* sensizioiii come tnsporlindori in un solo ponto materiale noe si coofondemiBo insieme, ma tenendoti aepantq e distinte produmone ana tersa mo- dificasione nello steaso pasto poro non confusa, anxi ben distinta dalle duo prime ? Questo sono delle diffiooll, a ed il nostro aatoro Bon credette iil^s di rispondere (Zmeoa'dk'/^tojo/^T.I,p^ i4o). Ignoro per, se in un** opera posteriore ( JErsrctsio logico, BG- hno i8a4) egli abbia inteso di richiamar ci che dice nel passo so- praccitato, giacche in essa cosi si esprime: u La facolt di comUnare  U sensatmi  dlrorsa dalia JkeU di scntirt. In fatti  1.^ La iacoll di soalire pu rimanere intatta, mentre  alterata  o parsisi mente o totalmente la facolt di oooabinare, come ai vede  negr imbecilli e ne^ passi j u a.* Si pu giudicarti combinare, riflettere sensa prorare alcuna # sensasione n ( psg. 33). Qaal  per questa di?rsit riconosci nta dal nostro autore fra la facolt di combinare le sensasioni, e la facolt di sentire? Egli  la apiega con una similitudine, a Queste operssioni, egli dioe poriando a del combinare insieme sensasioni , non si possono confondere colle  semplici sensasioni, come le macchine che uniscono, Tagliano, u crivellano il grano, non si possono confondere ool grano stesso n  egli solo pu essere astratto.  tesi bene spesso assurde, come quella che abbiam toccato: ma eooone qui alcune messe in riga : I.* ipoUsi gratuita ; che i nerridel corpo umano terminino latti in un solo centro , cio in quella mirabile particella unica die aU tende i e quindi sia quella stessa che a tutte le operazioni umane : a.* i/K>tW gratuita : che una particella del cerrcUo possa esser aemplioe , mentre fra i filosofi per lo meno si dubita ancora ae en- tono degli elementi materiali semplii ( d^ altro lato t^ sUa non fosie 363 ^ BM stessi^ die cola m la. noitra editenzi, die da cm die ^ abbiam veduto , non pui easer diversa esseoaialiiieQte da semplice, non sarebbe uni particella sola , ma molte, t quindi sta- rebbe a Tedere qaale di qaeste t qaeila che attende ") : 3.^ ipeua gratuita : ebe una partoella di oiateria sempliee, ciofi qacat^csaert ipotetico rieeTm couleaiporanflBaent pia impalai i 4.* ipiOesi ff-attsUaz che reafiica ai medesimi impaM senta con- fonderli insieme , ossia che nella reaxione congianga in s pia moti in diverse direzioni , se nxa che tatti questi moti non si distruggano n si confondano in un solo : 5.* ipoten gratuita ; che la reasioat di on corpo loeeo da nn altro corpo, cio on mto sia lo stesso che VattenaiaUf ipotesi che  tanto intelligihile quanto queat^altra a Supponiamo che il peso di due M oncie sia lo atessso che il color bianco 1. Se una sola di queste ipotesi  trovata falsa, la teora del nostro au- tore stramxxa; onde ciascun vede qoant' ella aia Mirabile , cammi nuido so cinque piedi ideali , ipotetici ed assurdi. Belle cinfune ipotesi indicate quella che sembra meno assurda delle altre si  la pWpa , la quale per  come f altre quattro gratuita perfettamente, dee che i filamenti nerrost vadano tutti a terminare in un centro, che gli anatomisti non ha^no giammai scoperta ' tato,' come fa il noatro' antere, pi'otestandoti per altro di esser ieguaoo df iitt metodo rgoraso, e del fatti. Dico, che  la meno assurda pren- dendola in un senso grosiolano , cio non intendendo per centro una particela veramente semplice , come rchiede 1* unit df I subietto aenxienfe e intelligente , man punto fisico , una parte del certello minala seUiene non semplice; che e quanto dire un ctntro che non  centro, in fttli se * intradesse tana fMnrtioella veramente semplice ( quand* anche qoeMa fosse pOaiblle)| non potrebbero terminare in essa i nervi senza che le loro estremit si confondessero in on punte, qnasi fossero linee matematiche: in qul punto non' potrebbe nascere n pare vcruMi laiprteMione, n ammetterebbe in  alcun cangia- mento, giaeeh eaiendo privo di parti non potrri>be avere un molo dentro- di so, e quindi n pure modificasione di sorte. Ma se non assorda , ipotetica  pure la supposixione di nn punto fisico, in cui i diversi nervi si concentrino $ giacch questo non f . L^amiaettero il midollo allungato oome il punt in eoi confini- seno le origini di tutti i nervi,, non  ancora ' ridur le orgini di tutti ad Uba soh. I progressi delPanatomia sembra che ci allontanino amiche avvienarci a^ rinvenire ima origine comune de^ nervi del 364 ^adla di tuoi gli altri caieri animati: il che dpo & eke fa detto, ntn trova difficolt a dacoprff.  Tutta la nostra esistenza  un movimento contimi u d sensazioni i.^ eccitate o reali, primitive e seconda* u rie; a.^ richiamate o immaginarie, cio idee e sentii u meati. u Da una parte tutte le sensazioni primitive traggono tf orgine dai sensi  ; dalP altra, qualunque idea o seoti- u mento si spiega colle sensazioni reali richiamate dalla a memoria , modificate dalP immaginazione  (i). corp amano. Gali e Sponheim ctederano d^air ritioyala che la sottanaa cinerea foMf la matrice t\ ncrrL Ma le onore OMcrrasiom deir italiano Rolando sembrano prosare in contrario, che oiaacnn tessofo ha un organitmo proprio, una propria nutrnoiie, cheper* ci ripugna che un tetiuto dia origine ad un altro. E se il fenomeno del sentire non comincia se non quando rimprcMone  portata nel supposto orntro de^ ner?i, se questo centro ooUa smreaaione  quello che sente, a che fiorerebbero .i diversi tessuti, mentre un oeiitro semplice non pu esa^r toMoto o organiaato in nessun modo e non. pu reagire se non con una reaaiooe senpliory con una reaiioiie che non prende se non, egualmente un punto? In somma cooTien ccnchiudere che nitsuno  riusciio a s^rigre, come dice il nostro Gioia, in che modo la reaaione della materia possa essere V atUnMUme : perch una cosa assurda per ogni lato  inesplicabile. Questo almeno ! sar di vero nella dottrina det no-* stro autore : egli vi dice a Sappiate che la rtagione dd oerrello   ci che si chiama attenilones la oosa sta osi, sebbene non solo a non v^ argomento ehe ci sia, ma non ^ n pura ai^menlo u onde si prori che ci possa essere } ?e ne tono anai motti dke lo dimostrano impossibile. Vedete in che consista la modestia filosofica ? in confessare che non si sa spiegare la possibilit di ci che si sa Icancamenle asserire. (t) EUnun di Filosofia^ I, pag. i4o. A primo aspetto aembrerebbe difficile ad intendere eonie in questo sistema si apieghi colla ala aen- saiione reale de^ suoni rintelKgensa stessa delie paroles ma ci che  impossibile di spiegare colla rtgione, ri riuscir famliitiBa a apie- garlo se adnprcrete in vece la vostra fantasia. FigarateTdie*.il pen- siero sia come un oerpicciuolo^ il quale dopo aver attraversalo l'aris ' ondeggiando per essa sostenuto e portato dal suono delle parola quasi da piccole ali o da navicelle leggre, venga approdando ne* vo- stri orecchi eiiattcndp io essi i ecco il pnukro portalo negli orecci 365 Ora se i. fotta la noatra esistenza censiste nelle sensa* aioD^ se 2.^ le sensazioni tatte vengono dai sensi ^ non resta se non a vedere che cosa sieno questi sensi: allora noi cooosceregio noi stessi perfettamente.  1 sensi sono parti del nostro eorpo, che delle qualit u delle cose esteriori ci avvertono, e di quanto neirin* m temo della nostra macchina succede i (i). VI. Concludiamo adunque: i.^ i sensi sono parli dlao atro corpo ^ a.^ i sensi venendo modificati dalle qualit dei corpi esteriori, e da quanto nelIMntemo della nstra mae china succede, producono insieme colla reazione del cer- vello le sensazioni^ 3/ lo sensazioni formano tutta la nostra esistenza: dunque la nostra esistenza consiste in certe inodificazioni della materia: quod erat.demonsirandum. Questo sistema apporta un bene notabile, ed , che le bestie non sono pi esposte al pericolo di elevarsi in su* perbia pretendendo* a quel ((rado di esistenza, al qmle Punititi delFuomo filooofe a diffevensa dei volgo ignorante e prosontooso si abbassa. con Hn InUe immaginuione lo Mpiagtctteal cervello, il qoale rcMiffodo frk Tatlo drIlVUnBtiawo occettcrio a riceverlo. Che co v'ha ora .di pie facile e di pi lffia4^ dell' intcllgeBM delle pa role ridotta alle sensaiioni reali ? Tale  la apieganone iofegaosi- aioM delPoutor nttroi a Setiaa rddito, dic^egli iacedo l'elogio di  questo sento , l^ueno sarebbe ridotto al linguaggio d^asioae, e m  jiM ntelligeMa avrebbe gli stessi limiti cbe il soo linguaggio. Non a sono in fatti soiamciite i ramori pia o meno farti, i svoni pia o meno- u meMioai , le aDoiiie|iia o meno araioolche die V edito fa giasgero .  a noi } il pennm^ jAmso lnuM#o mUra^ert de^ria ^fmg al no- ( tiro orscdkio n ( JBwrciaio logico^ pag. 96). Chi sa che col pragreaso dello sdente natarali non sMoventi un microscopio cosi perielio da pater vedere anche il pensiero che attraversa Paria leggiadramente per ventre a colpirci Torecchia? Intanto per che s^iaventa la macchinetta, colla qaala' si possa aocorgerai deU'*esisleoaa di questo oorposcoTo che nuota insieme col suono nelParia, e che si chiama pensiero , Ibrs^ ammetterla per ipotesi: giacch in tal modo noa rbione. della fanta- sia si rende un esaere reale s e quindi un esacre necessario al sistema c;he apiega tatto clle aensaaioni reali, e che il nostro autore 1^ assi- cura esser verissimo. io Elementi (U Filosofia ^ I, pag. 1 1. PARTE PRATICA L Nozioni preliminari. VII. Come fatta T enstenn delPoemo ti rdaee a delle MttBakiom ^ cosi a delle sole sensarioni ai ridocooo gii sti- moli del stto operare, e tolta la morale^ cbe egli avr co-^ mmie cogli altri animali suscctiUiili di seosaaoo (i). Vili. Qoiodi ai conosce Pignoranaa di tutti i moraKst antichi e moderni , che hanno cercato V origine dei doveri in ttttf altro che noi piacere (y). (0 Sebbene parli  lango il nettro autore delle rirtm vere o top- poste degH tniroali e de* loro riti , e tttrbttisen toro ! potenst cal- colabriee de* piaceri e de* dolori ( Eserefio iogieoj paf. i39 e aeffg.), nella U aaa morale; tuttiTa qfli TTeffe ehe  Pi a scrittori trasformarono i corti di storia natarale in altrettanti cale* u chismi di morale. Questo metodo, trasmessoci daLIUnticltk , natte a con giudizio pu essere utile, ma conduce ad errori quando  ma-  neggiato daHa preTeniiofie. Avidi di migloTare P uomo col pnn- ttgolo della vergogna- , pareedri nalnnlisti athibuirono alle bestie ir de* prf^i immaginari onde far arrostire qnlU cbe ne sono privi tp i. Erravo logico, XIT). (py. Ecco il dispresto , di cui la modetta superiorit del nostro filosofo carica gli autori di morale e di politica ia generale, m Gli an- tt tori , die* egli, cominciano le loro opere con addurre io scena le beiK il ImgM, cene ablnni detto ^  uno staio inifimto e doloroso i nostri otgani, e perci non  anch^essft che ant modificasiotte del corpo ^ tot* Uvia diftingueremo tre maoiere di biaogoi, fisici^ inUl^ kuuaii^ morali (i). (i) JBUmenti di FUo9ofia^ II 9 pff- 9ii. SMotraileri aae ci m potsibUe da ci che gerire il noslro autore aiiUe enuiiooi: u Le aensazioni richiamate o tono una riprodaiione fedele , nna  pittura, onMmmagine delle sensazioni reali, e le chiano lee; ot* u vero sono combhailB delle sensazioni reali, ma dTerse da case u nel nimero, nelP iateml , nella ditposiiione, e le dico^Sutfoste.  , avvezzi a rispettare qne^ Tooiboli ,.per Passociaztone delle idee rispetteranno altreo le nostre dottrine , e riceveranno pi dolcilmente ^li utili sofismi. In scnma Tom delle parole accrediUto pu essere utilissimo per acquie- tare gli scrupoli sopra le dottrine pia screditote. Se alle dottrine di Aristippo e di Elvezio il nostro autore non aveue fatto che aggiin- ;ere una veste di vocaboli joocsti e generalmente uditi eoa riverenza 369 XII. Dalla nnggior vivacit della memoria e della m magiiiazione , come abbiamo vedata ( n."* Ili ), nasce che' ^ ruomo abbia due classi di bisogni in vece d'ana sola, do i.^ i bisogni naturali comani colle bestie, 3.* i bi- sogni immaginari propri delP uomo : a queste due classi- si riducono tutti i bisogni umani ( n.^ IH ).* I bisogni naturali comuni alle bestie sono i.^ i bisogni fisici, a/ parte de^ bisogni morali ^ come il bisogno di aociet (i). I bisogni immaginari propri delPuomo sono i.^  bisogni inUUeUuali , a.^ parte de' bisogni morali. Egli  evidente che noi , ammettendo queste due ultime specie di bisogni, non contraddiciamo a ci che abbiamo detto siili' uomo^ che tutto in lui finisca e si riduca ai nervi ed al cervello j supposto centro de' medesimi (a). e con amore dagli uomini, egli sarebbe per questo aolo tmmenfamentc benemerito di quelle t si come  altamente benemerita delle agaaldri* nelle quella attuta vecchia che loro insegna a yettinf oen deeenia e a contenrare un esterno pudore pe meglio aodalappiare nelle dolci reti i merlotti. (0 Bementi di Fliotjl, II , pag. ai 1. (a) tt II eentro, in eui s^uniseono te sensatlonii o fl cerrello negli t animali che lo posseggono , abbisogna 4elP asiane da^ nervi, eome u le maeclitne abbisognano delP asione de' motori. Ma se vorrete spie  gare i dirersi prodotti di qaeste , fark d* nopo che esaminiate e I 4 motori eie macchine; giacch, per es., la stessa acqua pn mnorere . Alla po gina 909 e seguenti dello stesso libro parlando a lungo delle qua- lit affettive degli animali a sangue ealdo e a sangue freddo, d  agli uni cbe agli altri la prtitiont ^ fiau^ bisogni , la sensiilii Me oUn syenturef il daidmo del bene altrui , e la capacit di fare d/ *9erifiM eroici i  quali cose tutte sembrano supporre , nel sistema del nostro autore , un calcolo di piaceri e di dolori. (a) Teoria dtnU e penale del divoraiot Milano i8o3, pag. 93. Que- sta neUia di vk Umtmsdmo av^mbrt k utilissima immaginazione per rendere pi piaccroU i successivi btanti che compongono questa vitiu 374 vita presente , quanti pregiaditi cadono a terra d^ nn ob colpo! Ogni aostert di morak perisce: e vengono distro tte quelle massime severe  con cui un perfido asceticismo u corrompe la mente da molti secoli  (i). Essendo la virt figlia del piacere (a), o pi& tosto nello stesso piacere insistendo, si riguarderanno per cause delia virt solamente quelle che accrescono i piaceri della vita.  Inarcheranno per istnpore k ciglia i pedanti, mora"  listi f\o dir cfat le nostre virt sono figlie della va- tf riet introdotta n^li alimenti e nelle bevande non iib  briacanti, della coltura ne^ giardini, dell' eleganza ne* (O Ttmia U  penale M umrm^ pig. VL Ghianando un perfido atcelicUmo tutte le leggi monli, die io vece di piegarsi al piacere de^ tenti si uniformano alla severa ginstsia ed alla yeriU, si ottengono due vantaggi nel sistema del nostro autore: i.^ si copre di dispreuo la morale della radume , a cui si Tuoi sostituire quella d^ eenei i a.^ si dii una botta al Crstianeaimo, che troppo rigido sostiene i diritti ^la ragione e predica alPnomo T onest in vece del piacere. . Par che dubiti pure della morale delle beitie, giacch dopo aver par- lato delle loro y'itt , mette n paragrafo con questo titolo  AUre u wrt euppoete o reali n ( Eeereixio logico y pag. aai). Questa titn- bansa espressa con qualche sfuggevole parola , che sembra insorger nelP animo, del sig Gioia quando si tratta di dedurre delle oonse- guenxe d^ suoi principii, non si ravvisa per nelP ammettere i prn- cipii medesimi : in questi ci sembra costante i * La senssxione cor- porea  ci a cui tutti si riducono i fenomeni, e forma il principio della sua filosofia teoretica ; a. Il piacevole corporeo  c a cai tutte si riducono le aiioni umane , e forma il principio della aoa filosofia pratica. Il giocare di parole e di sofismi utili , non rende meno chiacm ed espressa tale costanaa del aostro eotore ne^ saoi principii 375 M mobili a negli abbigUanenti ^ dei progressi sella ma- tf sica nella letteratura e nelle scienze  (i). Di pi. Chi tf predica V astinensa dai piaceri va spar-  gendo pel mondo il seme de' Vizi pi grandi e delle  passioni pi nocive ff (l)  ^. L^ astinenza  dai piaceri, . la mortificaiione dei sensi , V ansterit ' della morale ,  come ci vengono prssentate dagli antichi e moderni stoi- M ci j non solo svolgono i semi di tutti i vizi , ma chi-  dono la fonte delle pi dolci virt  (3), In una parola V esistenza delP uomo non essendo che sensazioni , e tutta la sua morale un calcolo de! piaceri , ne viene che u vergognarsi di cedere al piacere e al do lore  vergognarsi d' esser uomo n (4). XYIIL Ora giacch il piacere  V unico stimolo deU V uomo (5) , ne viene che al piacere tutto il resto deb- b' essere sacrificato , non esclusa u pure la merita. (0 Temn'm cnU  pmutU M dwniOf paf. 77. Ca) Ivi, pai?.. 79- (3^ lyi, pag. 83. Gli antichi 4 i modtnd stoici e ant di qndle de- nominazioni odioie che sostitaite in luogo di ragione , fanno il loro buon effetto, e sono guttlficaUdlU utiKti. C4)Ivi,pg. 8:^. (5) Secondo il nostro autore a in qnalnnqae istema mm ti dk ae  non per ricevere n (Pel mero eoe., I, pag. i85). Egli non vede ne pur powibile che Tuonw dia ^s|ohe oeaa alPaltr^uotto te non pel fine di riceverne il cmbio. Ittuatra' il tuo detto nel modo aeguentes u Ho d^to che in qualunque siatema non si k se non per ricevere. u In fatti il prncipe pi A saggio e pia buono dando earche ed onori u alle persone pt accreditate e piA- degne d'esserlo, riceve la pub* iVrcrt, appunto perch essa non  piacere. {}).&, Agostino. Ca) JM merito 'e ddU rieompenu^ 1 1 aS i. $77 Mustadin SaaJi nel suo Ihsarum polticum riferisce che un certo re condann a morte uno de^ suoi schiavi: a cui un suo cortigiano tent salvare a vita con una men- zogna.  Un altro cortigiano, iniquo per carattere,, facendo  rimproveri al primo, gli disse che non conveniva ad  un uomo del suo rango il mentire alla presenza del * re  Il re offeso da questa gratuita e inopportuna mal- tf vagita. Ci pu ben essere, replic^ ma la menzogna  che voi gli rimproverate, pia che la vostra verit  prege*  vole^ giacch con questo mezzo egli procacci di salvare  la vita ad un uomo, mentre voi tentate di togliergliela : tf ignorate voi questa massima f La menzogna che /rutta  un iene 9 i^aU pi della ^ferit che produce un ,a danno  (1). XX. La verit si pu^ sacrificare al piacere tanto allor- ch ci si rende vantaggioso al piacer nostro, come se si rende vantaggioso alP altrui. In quanto al piacer proprio.  Alfieri neg d'essere autore bell'opera intitolata Del  principe e delle lettere ^ quando lo svelarlo avrebbe  prodotto un delitto di pi contro le lettere, nissun van^* u taggio reale al pubblico, e sommo danno all'autore (s). XXI. tf Allorch poi si tratta di verit che, dette ad u ztx, frutterebbero loro dispiacei^e senza corrispondente (.1) N. Galateo y 4.' eduione milanete, pag. 387, (a) Del merito ecc. ^I, a3i. Perch tante rettrizioni ? Il mtenu del piacere  semplicissimo di raa oatara. $fi il piacere  V aniea re gola deir operare , basta che il negare d^ etser antere d* un libro , ili cui si  autore, faccia evitare il dolore, apportando insieme il maggior piacere. Il vantaggio del pubblico non pu entrare in que- sto sistema che come una cosa piacetele al nostro bugfardo\ il quale se non ha il enso per un tal piacere, chi mai lo potr condannare, mentre non c^ altra regola , secondo la quale giudicarlo , se non la sensazione piaccTQle ? L^ introdurre adunque nel nostro sistema il vaniamo del pubblico, lo scredita: pare che P autore ne senta l' insof fidenza , e tenti d* inserinri ancora alcnno di qie^ vecchi prncipii moraii proclamati da que' moraUsU pedanti ehe seguivano la ragione anzi che la sensazione. Oput. FxL T. II. 48 37 u vantaggio, non v^ motivo di seguire la masamai degli a Esaenj i (i) , che  facevano voto di prendere a^mprc u il partito della verit (a). 0) t^ merito ecc., I, 23t. Cai) Del merito ecc., I, aSi. Pereuer oerenti nel sistema del piacere^ onrerrebbe dire i .' che se il dispiacere altrui a noi  iodi/fn-eotr , in tal cas non c' ragione di dire altrui pi tosto parole piaoerol che dispiaoevoli , pi tosto rere che false : a.^ se il dispiacere attrai m. BOI  spiacevole, dovreno dire altrui parole piacevoli, tieiio poi vere o-sieno false , questo  indifferente : 3.^ se poi il dispiacere ahrui a noi  piacevole, dorremo cercar parole che altrui dispiaooiano , es* tendo seapre indifferente che sieno vere o che sieno false , parche ottengano questo fine del piacere. Questo terzo caso sarebbe  care l'altrui bene pi tosto che Taltrui danno, se oltre non fesser. dannoM) il bene altrui, non ci  altres piacevole: a. che qaando  egualmente piacevole la verit e la menzogna, si debba anteporre la verit} e pure non c^  alcuna ragione di far ci nella detta ipotesi: noi non potremo \d tal caso nulli pi che essere indifferenti alVana ed alPaltra. Altrimenti il dire che noi dobbiamo preferire il bene altrui anche nel caso che egli sia a noi indifferente,  un tnpporr che il bene altrui sia rispettabile anche indipendentemente dai pia- cer nostro: il dire che la verit, sopposta egualmente piacevole della menzogna , si deve preferire a questa,  un ammettere qualche pre- gio assoluto nella verit, diverso dal piacere t  un ricadere in quel perfido asceticismo che ammette un'altra fonte delle obbligazioni morali, diversa affatto dal piacere, e che corrompe da tanti secoli U morale de' sensi, e quelle dolci virt che colle bestie accomunano gli uomini. ^79 te L^oomo buono scusa gli altmi difetti anche a spese ti della verit, allorch non ne viene danno ad liltr y> (i). XXIL La licenza che accorda il nostro autore di poter dire delle menzogne,  comodissima. Siete in tempi di per- secazioni? le menzogne (i) vi aiuteranno a acamparne. Eccovene un esempio:  Parecchi tra i primi Cristiani, detti libellatiei^ imitarono CI in qualche modo la condotta di Bruto ^ ecco in quali  occasioni. I governatori delie provincia romane, troppo  prudenti per non combinare lo zelo pel paganesimo a col loro interesse (3), vendevano ai Cristiani, in tempo u di persecuzione, de' certificati  de^ libelli^ ne^ quali  Questi govemator prudenti conoscevano asMi bene la morale, d^ piaceri. ro- scrivere agli nomini- ci che lor debba piacere? Non lo sapranno eaai stessi quello che a loro piacer ? E se a loro piacer , lo faranno j altrimenti nessuno avr il diritto di ooslrngerli a far cbecchesaia. L^ esser loro piacevole questo o quello,  un fatto, e non pu esser dovere alcuno: perci ognuno nel sistema del piacere rimane nella piena sua Ubert. Tanta  questa libert, che alla fine il piacere stesso, quand'anche fosse una persona in carne ed ossa, non potrebbe imporre dovere alcuno. La sua roce non sarebbe che questa: a La tal u cosa  piacevole, dunque tu falla , se vuoi godere; ma se non ti tt cale di godere , sei dispensato n. Ecco la roce di un legislatore di nuova specie: VobUigatione morale in somma  sparita;  rimasta sola la inalinasione a ci che diletta, che di natura sua resta in u> bitrio delPuomo. (1) Del merito ecc. , I, psg. a33. (a) Perch mai il nostro autore preferisce la verit air errore , quando con quella si pu ottenere un utile uguale ? Forse perch la verit ceeteris parOfus sia pi utile ? questo  escluso dalP ipotesi : abbiamo supposto egualpsente ultlt Terrore come la venta. Forse perche la yert abbia un pregio in se stessi indipendentemente dal- l'utilit che ne pu venire alPuomo, il quale la renda venerabile a preferenza dell' errore? in tal caio il nostro autore assdereUie al piacere qualdie altro principio morate ^ e contraddirebbe al fou^ mento del suo sistema , la sentawme reaU, 383  a.* Che tra le opinioni erronee, ia parit d^effieacia, u fa d'uopo scegliere quelle delle quali  impoisibile o qaasi  impoasibile dimostrare la falsiti nella data situazione u della pubblica intelligenza;  3.^ Che  permesso ricorrere alle accennale opinioni u soltanto n^ casi d'utilit manifesta e d'importanza spe ' ciale (i);  Da ci segue ad evidenza (a) che , siccome le idee  erronee perdono l'efficacia a misura che l'opinione publ- ic blica si illumina, perci non conviene far uso nel se- tt colo XIX di quegli espedienti che riuscirono nel X  od XI  (3). XXV. Ma per abbattere maggiormente il pregiudizio de' teologi pedanti, che suppongono esistere una distinzione morale fra la verit e la menzogna, mentre non esiste che fra l'utile e il dannoso, e piil propriamente fra il piacere e il dolore; sentiamo altres le ragioni con cui il nostro autore difende la risoluzione del sopraddetto problema. Ecco quali t^Mit sono: (0 Prdi Bei soli cui ^imporUuita speeialeT Se U verit non ]ia nulU di preferbile aV errare iDdipendentemente dalPatile che apporta, egli  ragionevole di servirti deirg. aSS e s^;. Skxlie , perch i governanti possano mentire Uberamente, si richie^ i.^ che la menogna sa olile a loro giadtxio, su** che non possano essere scoperti o basMatL Ca) Questa massiba, non c^ meizo alouno, o oonTene rniet* lerla in tul|a la sua generalit , o bisogna condannarla del tutto. I prineipii de! nostro autore stanno per la prima sentenza, percii i.** il solo piscere  il 6ne di tatto, e a.** anche la mensogna la riconosce Sita  apportare il maggior piacere. (3) Questo  il calcolo che ne fa il nostro ntore : per altro al ConsaTi sar sembrato pi piactifoU il contrario. In tal caso c^t potr condannarlo, te il baicelo del piacere gli  riuscito diverso? ehi pu aspmre in sisiili caleoli alPinCrillbilit f ' (4) IM mefii eoe, |, pag. nBS. (5) L^ onesto  ci che si deue fare : l'utile  ei che ^mee di fare. V*ha donqoe distiniSon essenziale fra l*ntile e Pooesto: ed  falso ebe coloro che riconoscono (|nesta distniiryiie, dhnentiebino di consi- derare che altro  T utile inoifBsnto/ieo ed altrt> flauro. Essi affer- mano che tutto Potile momentaneo e di pi il futuro, losse pare di tat infier questa vita, nofi mUoritta nessuno a tidre i ano do* Vere; questo dorerc po^ esiitere indipendentemente dal piacere, per* 88^ fi kn^l&t tdativaoiCBt il progetto di temistocle, sul  quale questi non vi)Ue spiegani che a lui solo. 'Il pro  getto di Temistoc^  ntilisaimo, disse Aristide, al popolo fi adunato^ ma  ifeigiustiaBinio. Si crede di seorgeire qui^ K aggiunge Bentham, un'opposizione decisa tra Inutile t  il giusto, e si inganna^ qui aftro non v'ha che un con-  fronto tra i beni e i mali. Ingiusto  una parola chtf  presenta 1^ linipn di tutti i nali risultanti da una situai  ziooe^ in cui gli uomini non possono pi fidarsi gli ni u agli alfri (i) Aristide avrebbe potuto dire: Il progetta a di Temistocle  utile al presente, ma nocivo pel future^  ci ch'egli vi d  nulla a fronte di ci che vi toglie  (a). che il dovere viene di Una te^e cti^ I^aomo riceve dal di fuori ^  die  bon diverst dalla sua* aen$aiione. Dico nari auaritia^ perch it dire obbliga sarebbe nna eontraddizione ih termioi, secondo Tespres* sione de^ logici (O Falsa defihitione^ ma tile ^ secondo ^il giudizio delPautor no- stro ! in fatti , ella ha per iscopo V utilit stessa. La definizione vera della itigiustizia , sebbene meno utile ^ giacche 1^ utilit  da essa lclasa in quel mado che nna essenza esclude Paltra, sarebbe questa!  Ingiustizia  H tort*e fdUrui 5:'per esempio, levando to la yita ad un uomo che passa con voi per una foresta, nella quale nessuno "Vi ved^y nessuno vi scopre, Voi siete iogiusto, sebbene vi arricchiate impunemente delle ricdhezze ond^ carico qucll^innocente viaggiatore. >, avesse potuta dire a  utile al presente, ma nocivo pel futuro n $  una asserzione he non si prova , ed oso dire , che non si pu& provare. In fatti il progetto di temistocle era quello di abbrnciare i vascelli de' Greci tutti raccolti nel porto Giteo, onde assicurare T imperio del marei e perci il dominio della GrecU agli Ateniesi. Aristide esamin que sto progetto, e non fttrono gi le conseguenze del medsimo che lo impaurirono : ansi egli vedeva che il progetto poteta riuscire, e che poteva assicurare la grandezza di Atene. 9e egli avesse temuto qual- che conteguenia fuifestat per Atene dalP incendio della dotta greiia^ non v^ha dubbio che avrebbe parlato diversamente agli Ateniesi i egli avrebbe detto loro: u 11 progetto di Temistocle ha a dir vero  una utilit apparente^ ma In realt  molto pericoloso, perch io M ben prevedo che trarr seco delle funestissime conseguenze n. Ma- egli nulla di questo diste, si bens: a Ateniesi^ nalia Ji pia atiia 388 XXVIII. T ha feto di pi& io furore della falsila. Essa  colkgaU s tKtUmcDtc; col Utema del piacere, che u io rtrTO M progetto di Teaisloele, ma nnlU di pUk Dgiiuto  Il pretende che Ariftide dicesM co^ non pereb Tette nn^idee delP onest, distinta esseniialmente da quella dcH^ utilit, ma tolo perch prcyedctse delle coniegueuM sinistre da quel progetto,  cos gratuito, come tutto ci che si jUsume dalla storia per far serrire al proprio sistema colla tiolena logica, propria degli uonni state- natid. Aristide in Ul caso ayreUe parlato contro il sento eomape e oontro il valore comunemente attribuito ai Tocaboli. Di pia, altre sono le basi da assumersi Tolendo gMidicare n pro- getto simile a quello di Temistock, contrario alla giustiaia; ed altrt Tolendolo giudicare contrario alla utilit. Per giudicarlo contrario alla giustizia , bastaya rilerarc i.* che era un riolare la propriet altrui sema bisogno di difesa, na per una anbiiionc d'*ingrandi mento; a.^ che era un Tiolarla perfidamente* AlP incontro per giu-^ dictre che quel progetto fosse stato contrario alP utilit, bisognava prevedere le oonseguense del medesimo, e calcolare, tconcSo In Te- risimiglianaa , come U cosa sarebbe aildata a finire. Sono dunque cose diverse T utilit e la giustizia, esigono nn krtn edcola e dipendono da diversi prncipii. Io richiedo ancora se si sentirebbe in caso il Bentham, o U Gioia tuo seguace, di dimostrare veramente che il progeUo di TemUio^U sarebbe italo dannoso agli Atenies Per me io lo credo impossibile tanto pi che trattandosi di calcolare le conseguenze di un>^peni- zione, opn si pu in nessun modo instituire una vera dimostrazione f ma non si pu che fare un calcolo di mera probabilit: un calcolo, che appunto perch non si tratte che di probabilit, ya riera in tenti modi quante sono le teste che lo fanno : un calcolo, nel fare il qoale un uomo forse si avviciner pi delP altro, secondo che possiede maggiore esperienza, e maggiori cognizioni delle minute ciroatlanze delle cose e delle persone ; ma che si pu per sempre francamente asserire, essere superiore a tutte le foi^ze delP ingegno umano ritro- yarne il risultato certo s perch nelle cose future contingenti vi tono tempre delle circostenze occulte e nascono teli accidenti impreye- duti, che fanno trovare poscia in errore i pi grandi cakolater. Per tei modo il pretendere che V uomo trovi ci dhe  giusto mediante Il calcolo di ci che  utile,  un piretendere P impossibile :  nn yo* lergli far prendere una yia interminabile, quand'anche queste ci fisse e menasse allo stesso termine, in vece d^una comoda e breve^ Il so- stituir poi alla giustizia P utilit, oltee che  un annientar quella fino nella sua essenza j  ancora a abbandonar gli uomini a tcguira 38^ secondo ijuesto aiateifla,  in essa che coesiste la ^lA b^a parte della morale , e la pi umaua viiit. ei giudifi Tarid>ilMiiii e faHaeftsimi, i quali DOn potrebbero in alcun BMdo atcre in a ci che si richiede per formare qoaklio iihh rale auCorit. Ma di nuore, e non poteya forse rlascr ntile afii Ateniesi Pn* giusto progetto di Temistocle anche in futuro? Chi mai presume di veder tanto nel futuro da poter affermare indubitatamente il con- trario ? Non T^ ha dubbio , che i Greci da quel fatto sarebbero stati degnati. Bla c^i pu assicurare che non s fossero potute rinvenire delle vie per calmarli 7 Intanto la fona sarebbe rimasta tutta nelle mani degli Ateniesi : in questo Aristide era d' accordo con Temsto* eie: agli altri greci non sarebbe rimasta che la ragione diMumaim, HM-Vepiniotu stessa chi pu affermare che non si fosse potuta divi* dere ed elidere col tratto del tempo ? Chi pu dimostrare che gli Ateniesi non avrebbero potuto inventare qualche pretesto specioso, cbe tirasse molti a dar loro ragione ? Supponiamo che avessero dt- iliiarato di far ci per loro difesa , per difesa di tutta la. Grecia con- tro la prevalente potenxa degli Spartani , che erano alla testa della fona navale. L^ odiosit gettata sopra questo popolo guerriere ed aspirante anch^egli realmente al. dominio delia Grecia, ben colorita^ resa verisimile con dei fatti interpretati astutamente , con degli aned* doti inventati I con delle parole equvoche raccolte e interpretate aalisiosamente dagli Ateniesi $ non avrebbe egli potuto diminuire in gran parte l'esecrazione del tradimento i se non fors'anco eangiailo in un pubblico bene6zio ? Sarebbe egli assurdo che gli Ateniesi dopo quel fatto avessero mantenuta la loro prevalenza sopra tutta la Grecia a quel modo stesso che la mantennero i Romani, pubblicando aolennemente a suono di tromba la libert greca, e facendo ricevere il beneficio della medesima dalla magnanimit de^ vineitori , o pi& tuiiii ingiusfina universale. In fatti un principio  di natlun toa umventolc: ora cangiata nello menti degli nomini Pidettdella ginetii in qneli deHPutilitii, deve nascere nna teoreta dMtnza , e m qocHo stalo che presenta p V unione di tutti i mali risullaAtI da na titnaaioney in cui gli u^k* ^ mini noti pottono pi fidarsi gli noi agH altri w In- tal caso il t- ftlk# th^iHitU e ingidit, findi^^tepMido i printipq di'cgla sto iMc  il dmpo dcHa monle nwoM (o.* HI),  diJTc- rcmia deUa bestiale ^ giacch le bestie smo melasse nel mondo reale. L^ illusione apporta on piacere immensamente pia grande della realt \ perci egli  evidente T importanaa della il Iasione sili nostri doveri, i quali tutti consistano nel ten- dere al piacere.  In itti vi sono paracelHe aitnasiomi d^aaimo e d'ii-  telletto , nelle quali talvolta Pinten'sit delle idee vere  u minore dclP intensit delle opinioni erronee od afTenoDi  coQtr^e  (i). Ed abbiamo gi veduto come ci che ffimpaginaaiane aggiunge alla realt delle cose, aia immcn'r aKrb" consiste la ntntna dignit, tanto superiore alla dignit Bestiale. XXIX. Nel sislema morale del piacere , tanto adunque  kmgi che si debbano distruggere k fidsit, che anai non ai deve se non ae occnparsi ad aoeiescere le falsit ^ta- ret'ofi facendo goerra solo a quelle che sono piacem^li, It piacere i di sua natura individuale (a): Puomo sa- riebbe:. un perfetto egoista ae non avesse qualche illusione Misoet cgK ha ia M il geroM del proprio anlb: e rotilitk , dopt aver liflnitU la giaatiiia, laogi .dal poter godere delP morpoU ti- muiu, dtmgge kimansiite te laedetiiiu: aa rende tino inpot* Jibile la propria eitoUnia. L^ ammetterti dal aotlro autor la menwogmm come atile in akeoiM aai, e lo tabiiint il ealcolo deVutilit per prDcpio della morale , dimoitMcbe egli parla deiruii^ii raodiua dentro a^ limiti deU vita preaeDtej giaoekae & trattarne delb futura, non ai narrerebbe air utilit per eonoaaece oi ebe  giuttOy ma ai ricorrerebbe aOi ifiattiaia per ooaotceic ci obe  utile. Ho aggiunta questa dichiara^ mone a si lunga aola per togliere altrui apcbe la voglia di cariUare. eiiti iiB't|ipareiiza che noi rispettiamo gli altri coitar /&t| ina ella non  che apparrnia) in fondo noi non possiamo nella teoria de^ piaceri che considerar gli altri come mtzii : essi rispett a noi non sono propriamente persone, ma cse. D** altro lato il nostro au- tore sembra oooTenire in pi luoghi , che si debba considerare come un assurdo morale riguardar gli altri come fossero cose e non per^ sohe. Ma chi pu indovinare che cosa egli intenda per persona ? le bestie possono certo aspirare alla personalit : nac non differiscono che in gradi dair uomo. 0) Distrutta in noi ogni altra fonea f eccetto il piacere , non resta he una orribile idea delP umanit : la feroea dei ragni  ben poco a confronto di qiiest^ uomo umiliato dalla filosoGa. Tale idea triste e desolante  quella che presenta dell' uomo il Mostro autore. Ma dopo ayer cosi avvilita V umana natura , sembra che si compiac- cia ad insultarla aggiungendo alla sua similitudine del fagno queste parole: u Sema calunniare la -natura umana si possono spiegare i 4 pi generali fenomeni del mondo morale^ eombinando P azione 4 degli interessi personali col concorso delle, circostanze esteriori ; ecco come : if Due galliae amorosissime ilatino in una capponaia : finch^ io pre- t sento loto della carne in modo che tuttaddue riescano a pascersene 4 a beir agio , restano tranquille , quiete , amiche , attendendo eia- 4 scuva ad empirsi il gozzo a pia non posso : ma se io presento la 4 carne da una banda ed in maniera che una sola gallina giunga a u beccare nella mia mano ^ quella che ne rimane priva , picchia col 44 becco r altra e tenta di caocia*rla per eollocarsi al di lei posto. S^io 44 torno colla carne nel mezzo della capponaia, le galline si mostrano ft di nooTO tranquille , pronte per ad inimicarsi s^ io ritorno colla 44 carne ad un angolo. Eoco gli uomini : essi sono nemici quando un *4 solo pu corr il vantaggio cho molti vagheggiano, e tornano amici t4 quando il campo resta aperto egualmente a tutti n (^DW ingiuria^ dei danni ecc., II, 3iS). L^ amore che possono avere que^ losofi che a principio della mo- rale hanno il solo piacere, e Palnora di qoeste galline! Se volete ancor meglio conoscere la natura di un tale amore, aggiungete al fiero istinto dei cibo delle galline Varnhizionsy la vanit, V amore delle ricchezze, r avidit in una parola de* piaceri illusorii propri delP uomo , co^ quali questi sopra le bastie si eleva \ e voi ben vedrete , come gli. Opasc. FU T. IL 5o 394 (( ragni che corrono addosso a qialiiii. (3) Qui il nostro autore va negli astratti : la Jbrza pubblica non pu essere che una collezione \for%e private. La forza privata ossia il piacere, unica forza morale^ pu tendere al bene altrui -per va- nil  per compassione istintiva ; in questo caso sembra che il no- stro autore la chiami^orza pubblica. Ma se altri non avesse il pia- cere della vanit o della compassione, chi gliene far un dovere? nessuno: perch il dovere non emana che dal piacere: se questo non c^, il legislatore  assente, o dorme, o al tutto non esiste.  il caso in cui ajbna sottentra al diriho , come vedremo pi a basso. (4) DeW ingiuria y dei danni ecc. , II , Q17 , 3f8- La vanit qui rf suppone che sia diversa dalla virt. E pure questa vanit  utile. V^ ha dunque qualche virt diversa dalP utile? v'ha qualche C019 nella vanit di deforme , anche quando ella apporta delle utili con- seguenze?  questa una di quello tante confessioni involontarie, colle quali la ragione smarrita ricomparendo nel nostro autore , dichiara falsa la sua teoria dei piaceri:  in tali confessioni , nelle quali per XXX, La aoit  qd* illoaioDe ntite^ ana neccamii, pcrcb V uomo tia Trtuoso dcI sistema del piacere, cio  acciocch sottrigga qualche cosa al bene penonalc a tf vantaggio del bene pubblico n (). L'autore dice, che la causa per la quale le fanaioni dell' animo possono essere egualmente aggradevolt che quelle del corpo ,  si rifonde nel piacere d'essere applaa- a dito, ammirato 1 ricompensato  (a): di che la virtA che uiometiti ifag^eToli la ragiru riprende il posto usurpatole dal pia ceref che il nostro autore  accomuna coi teologi pedanti e coi jbo- rmlitti ciarlatani. (i) Dicendo u i sentinenti rirtuos, o sia le sottrazioni al bene u personale a yantaggio del bene pubblico n (^DcW ingiuria It, ai^^, sembra che il nostro autore non riconosca virt nell'uomo indlT- duate, ma solo ^elle sue relazioni colla societ; il che  ropinione di Elrezo. D^altro lato egli d dei doveri all'uomo disfiafo dal cic- tadino (Elemtnti di Filosofia y II, ao8 e segg.); e airabitttJine di eseguir dei doveri sembra che non si possa negsre il nomi? d tnri. (^Jtfiy pag. 31^. Questa contraddizione non si pu spiegare ae non col sistema del nostro autore :  utile di adoperare il nomerai doveri e di virt in sensi diversi per imJ)arazzare il le|tore e persuadergli dei sofismi utili ; dunque questo  un dolere nella morale della utilit. (a!) Elementi S Filosofia, I, 189. Sebbene qui riduca tutti i mo- tivi , pe^ quali V uomo ama d'*aoqustare i pregi delP animo u nel pia-  cere d''essere applaudito, animato, ricompensato , tuttavia altrove con una felice incoerenza riconosce la fona delPidea astratta della giustizia :  Portare l'idea astratta delia giustizia a tale ioleosit che a riesca a superare le forze associate della vanit, del P ambizione,  dell'interesse, delP amore della vita,  un Jhnonuno infinitamente *t raro , e che solo air influenza abituale della religione pnossi attr- u buire e delP onore n (^Del merito ecc., I, !i79)b Se alla parola gin- clizia non si annettesse che l'idea del piacere; questo periodo non avrebbe alcun senso: la vanit , P ambizione, l'interesse, U viCa, in quanto soho accozzati insieme per modo d^apportarc il maggior pia- cere, sarebbero gauiixia. Potrebbe per darsi che sotto la voce di giustizia intendesse il nostro autore un' illutione, una cJUmera for- nita di un piacere suo proprio, diversa dagli altri piaceri: il anppor ci  l'unica maniera d conciliarlo con se stesso, ma noi non v^ , gliamo abbracciarla. 397 . nasce dalla morale del piacere  'laminosa, perchi. sarebbe impossibile di operarsi alP oscuro (i). L^ illusione della vanit per tal modo  base della virt I.* perchi accresce i piaceri, a/ perch  un motivo ne- cessario deir umana benevolenxa: 1.^ tf La somma delle sensazioni aggradfveli che la  natura ha destinata alPuomo, non  eccedente; quindi M in vece di censurare t modi d^ accrescerle (a) , conviene u lodarli. La vanit sa corre queste sensazioni si da og- u getti di nessun valore come da oggetti d^ valore aN u tissmo (3). a.*  La serie degli ornamenti che va riproducendo co*  staotemente la moda , presenta perenne occasione di la* (0 L^ illustre autore delle Osstrytmcni sulU MoraU CattoUca 'parlaodo d ci che narra l'anonimo che tcrase la Tifa d^ElTezio, cio che queati disse al suo cameriere, testinionio d'alcuni suoi atti benefici,  Vi proibisco di raccontare quel che ave^e veduto , anche u dopa la mia morte n\ soggiunge  Qaestai scrittore non ricorde- * rehbe una tale ciroostania se non fosse d^ opinione che la Tolont u di celare i heneficii che si fanno,  una disposiione Tirtuosa. Essa   tale senia dubbio; ma nel sistema di HcWetius  impossibile das- u sificarla fra le virt n. Il Gioia stabilendo che nella finzione, se questa ^ piacerote, possa consistere la virt, c'insegna un modo a noi molto spiaccTole dUnterpretare la modestia d^Elvesiot egli Ter- fobbe a Csrcl credere che TElTeiio fosse Trtuoso in quelle parole per averle dette aocioochc poi fossero pubblicate e fors^anco regi* trate, come furono, nella sua vita. (a) La sentenza  assoluta e illimitata, come quelP altra che di- chiara buoni egualmente tutti i mezzi, purch acconoi al fine, il quale  il piacere. Osservate che il nostro autore qui si appella alla natura^ e che egli solo ha il diritte di questo appello: a^ suoi avrcr- sarl che qualche volta osarono di appellarsi pur essi alla natura , egli rispose oo|i u Ignoro profondamente cosa sia la natura , e mi  rido de^ suoi dettami, quai ch>ssi sieno h ( Teoria dei Divorzio ^ pag. ay ). V uso della parola natura in sua bucca  com fri'qnente come quello di filosofia:  la natura stessa,  la filosofia slessa in persona, che parla per la bocca di tale che rinnega la natura, e che estingue la filosofia. 0) I{ Prospetto delle Seienze economiche, T. IV, pag. ^. 398  voro a pi arti e nestiert. Le persone superficiali non tf veggono che la causa della dimanda^ la Tant (i}^ ii  filosofe che segue questo' movimento ne' suoi cffetd, ac-  certa (n) che se il ricco non fosse vano, il povero mo*  rirebbe dt fame  (3). Laonde u in. delicatezza degK u oggetti consumati, o la inanit in chi li consuma, non le olirono motivo di censura, e la parola lusso  aoa pa- ce rola insignificante  (4)*  Come osserva elegantemente Rayna)*; il travaglio della u fame  limitato come essa ^ il travaglio delP ambizione  cresce con questo vizio stesso  (5). (1) Se la vanita non fosse male, giudicata secondo i prncipi del senso comune , si potrebbVIla condannare anche vedendola sola ? e sVIla  male, potr scusarsi pe** buoni effetti ? E nelt^uno e nell'altro caso sarebbe un confessare che ella ha nna deformit in se stessa, che ella  male; i) che nuocerebbe alla filosofia del nostro aatorcf come quella che autorixzerebbe il male. (q) La filosofia del Gioia nmi sa dubitare: egli vi' accerta che tatto cb che a Ini apparisce vero ,  indabitabile. (3) If/ProMpetto, IV, 93. Il nostro antore non distinguendo, o al- meno non potendo distinguere senza contraddirsi, gli onori dal giusto o dair ingiusto, ma solo dal piacere e dal dolore, suppose cke tutti egualmente sieno cagione di un piacere che egli chiama con nome generico di vam'fd M Non dimenticando, egli dice, che qualunque a ricompensa pubblica porta seco un sensibilissimo piacere di vanit, u perch ci rende oggetto degli altrui sguardi, pensieri e discorsi, u andr svolgendo qurlle aggradevoli sensazioni fisiche, colle quali u \ legislatori tentarono di trarre a se la Tolontli de"* popoli e di ft convalidare P azione della vanit con quella de^ gusti sensuali n (^Del merito ecc., Il, i83). In alcuni luoghi parla con dispregio de- gli uomini vani, e della Tanit: si concili egli con ae medesimo; che noi abbiamo tolto ad esporre le sue opinioni, quali sono, e non a conciliarle insieme : Frigida pttgnabant calidis , humentim siceit . . . (4> N. Prospetto, IV, 57. (5) Pel Gioia  massima assoluta questa  4umrRto di lavro   uguale a decremento di corruzione  (iV. Gal,, pag. 174). Quindi rambiiione  la madre della virt, e nella teoria del piacere le mas- sime morali sono le segueqti u Quanto siete ambizioso, taOto siete  (f sioni che seducono $ perci a filo^fia non pu biasimare la brama  di stima pubblica , la quale sostituendo alP interesso naturale lau- a guentc, un interesse ariificiaU pi sensibile e pi costante, diviene  stimolo airesecuzione de^' doveri, fonte di servigi importanti, osta- u colo a mali innumerabili n (^Del merito , I, 245). Secondo il nostro autore , perch noi operiamo costantemente il bene anche in que* casi in cui noi vediamo connesso col nostro in- teresse, fa bisogno che succeda in noi un inganno utile, ed ecco quale : u Siccome P avaro comincia a ricercare Poro pe* beni che rappre-  senta, poscia, quasi dimentitando i beni, ricerca Poro per se stesso,  e la sua fclicitii cresce o decresce, secondo che crescono o decre* u scono le raccolte monete ; cosi nella roerca della stima , anehe non ti vedendo distintamente i vantaggi sociali che la seguono, rt^stiano  che le imma-  gittate:  'Qaanto si mMtfa man y tanto  pi bella * ^ a giacch la ftintasia , allarch inuDagina una cosa , la  veste , l' additia di tutti i pregi , e si compiace a co- u lorirls -) n questo succede quando la fantasia si trova (f dai limiti della realt circoscritta : il perch Ltcui^ , ti il quale voleva diminuire il potere delle donne tair a-  nivM degli nomini, permise che qaelle dannssero ignude. tf  Il qaadto d' Aczione, che rappresentava le nozze di u Alessandro e di Rosane, ed in cai vedcvasi Efestione che u portava le faci d^lmeneo, quindi Imeneo stessono finalmente  una trba d'Amorini, alcuni de' quali intomo alle armi u d'Aiossandffo scherzavano, mentre altri sollevavano il velo  di Rosane , e parte de' suoi vesti coprivano e delle sue a attrattive , questo quadro , dico , inebbrio V animo de' tf Greci di pia voluttosa sensazione , che non il quadro d tf Parranio, il quale rappresentava Atalanta immersa nelle  pia sozze dissolutezze dlie donne di Lesbo  (i) XXXIV. Una finta pudicizia ed un finto pudore nella morale del piacere deve raccomandarsi alte donne non solo pel piacere degli uomini, ma anche pel maggior piacere di loro medesime.  In fatti la donna Ai dalla natura dotata di tali sen- tf timenti, che vuole unir l'nore della difesa al piacere  della sconfitta: tf La donna , come sai , ricusa e brama n (a). (0 ^'  vincoli di fa- ci miglia^ gelosia di possesso, e Parte della, civetteria o (^Esereizio logfc, pag. i53). CO iV. Galateo, pag..i53. (a) jy. Galateo, pag. i5j| 16^ I|ifQitr9 aqtere insegna alle dqnpt i loro interessi , ossia la morale ben di frequente nelle opere sue. Nel- l'opera Del Meritq ecc., I, 3o5, cosi ripete u Sarebbe desiderabile che u tutte le donne intendessero gPinteressi della loro uttnit come Pop>  pea y la quale, secondo P espressione di Tacito, si mostrava tfelata  parte orie, ne eaiiaret aspectum fel quia sic deeebaL Le donne  che svelando tutto allo sguardo escludono il gioco della fantasia ,  btWingiuria, ilei Janni ecc., II , 137. (a) K. GaiaUo, |m^ 1731 173. 4o5 tf Le TDYetixioni della musica e della pittora, per essere u finte ed illasorie, lasciano forse d'essere piacevoli f.  Producono lo stesso effetto le invenaioni della moda  cr I fior che adornano i cappelli , i nastri che agita il u vento ,  crini che scherzano sulla fronte , i vrl che i datori. u SopDopeie un uomo yelU akeMaf:Cfi)tiMq9,JWNK>nfre, per a esempio, un c^o^ero odl'altioio spq j^eijoda Iq questi pfj|i Je it medicina iion si permrtte altro. che l'uso dell'oppio in dosi, gene-  rose.  egli permesso fare qualche cosa di pi ? u Considerata l caso entra i HimH d^ rapporti sociali , Inatto 'che u troneaaa la vila, sara|>be, oaU^eMitto, uguale a oriiaiAeDe 'dl^toic tt nel paziente e orali aslaot^ e oeUa q^fMik MHf^ y^\f^ ^V ^^ u che taglia on braccip spenato od. infetio  ^fiel asrtto.c^c, I, 236). La limitaEione posta entro i lfttU de* rappfifU sociali. t sup^prfloa, i.*^ perch la virtii non isr clie ne^ rapporti sociali, a.*^ perch la ragione che si d  un oalcdio  piaceri e' tK idofOri, a eoi tutto 'dere cedere, e in cui tutta la morale consiste, la rnora}^ inlad del 'no- stro autore. L^esempio di ci che ai fa colle bestie troaca fiaalmcote ogni questione. In fatti  unMngioria tuatti^? r.ilWi^^Qma aj grattano i bruti, per esempio come uo bufi perch, qgli fiOii .multiplo nel aup Talore di un apimale bru(o), bisagoa' tratlnvlo 9ome cfU fosse uo dieci buoi, un mille buoi: t^n h\fQ\p^, ^ c^gpne. d^esfipD dif- tt ferisce come 10 dal boa che tira rimira nnf^^V?- >l profcssfire dif- tt ferir dalle stesso animale cpme>ilOQAr (Jteif ftfgiuri^ t dfs' dan- ni tee, 1, 34X Ma quesU 4iffereo;|a oan foglie. c^e^i p^i^a af^ic^re all'uomo quella ragipqe per Ui quale. s^^pimi^zaoo ihrut f:rili a morte: anzi quella ragipne di^eoM^ pirfor|enpes i?uof|io c|ie.equi- rale a io, e talor ^ncb* a ioeo,l^>i^ti. i.r  ., . ; ... Jn.tal modo  meiaa in laeiftpr.P9flt|.l9 digpi|^- oimo^ ! 0) Teoria ci$^i^ f pejifdf 44, 49f7m \8f S5- i . ' 4o7  li divorzio latokindo* k^sflbHttM U potosa i gasCare  attri jpieeri fisici > faorlt, deVe ^slir- un fondo tl^m^ K mortiztazioii ^^ Vaghi ed '^rriMti d^es&drii che li ri* u coreano  (i). XXXIX. Ed infanS ottd' (tei pacire equiftito de' priu iatati tV Unione nfeariul ? Prtacipalmente dalla illuskim'e. '  L' allegrezza attaale degli sposi novelli  prodotta te dalVillusione della speranza (a), la quale promettendo a, loro una felicil indefinita , impedisce alla fantasima di  scorrere soUe Aoie, suHe dissensioni, sugli odti che te segaofto costanteBienre il matrimonio inissoliAile (3), (X) Teoria duiU e penale del divorzio^ pag. 62. Qiyi\ sistema delP illiisione della speranza  qaello in cui neccn- saramente eade V uomo clip abbandona la giustizia e la yerii, come ho mostrato nel V degli Opuscoli fllosfici. Ugo Foscolo e Melchiorre Gioia sono verniti a! mededmo centro da due vie dlverse: il primo seguendo Hobbes, fi secotfdo ElVezfo. (3) Quando si supponga Aie due sposi non possano esser congiunti dhe dal piacere e* ensi , 10 ^daTle illusioni dlia fantasia; qnando non ai conosca quen** unione indissolbile che nasce fra due esseri morali da un sentimento doveroso e veram'enUe morale >, il quale santifica tutti gH altri legami, e che rendendo le persone giuste, le rende in* sieme infinitvaente l' una afl'' altra rispettabili e care , le rende forti a sopportarsi quanto sollecite a prevenirsi, e )e rafferma in una ele- vata ed invariabile volont di stringersi ognor pi insieme co^ bene- ficii : questi, privo della cognizione di un fatto importante della na- tura om^na, deve necessariamente discendere nella sentenza , che V odio segua cstantemeMe alP amore negli indissolubili matrimoni , e che le noie e le dissensioni succedano ai piaceri ed alla pace ap- parente prodotta dalla novit dei piaceri. L^ illusione svanisce di sua satura , il piacere manca : i due sposi sono sciolti per P essenza della eosa , se altro non era il loro vincolo che il sensibile godi- ineniOa Che cosa  in tal sistema la fede coniugale ? Un effetto del pia* cere, o per dir meglio il piacere strsso. Quand^ he ^Jelicit de- $ gli Sposi ( dimanda il nostro autore ) e quindi la fede coniugale u gtmgotto 1 maximum ? Quando l'amore  vivissimo, a me sem- u bra. Parimenti , pare che V una e V altra languano e s* estinguano u a flusura che P amore si rtifredda e s^ annienta.  Siccome  legge 4e8  L^ illuMone dIU peraasa po paragoatrsi all'UlwioiK  dell^ occhio, il quale riguardando da lungi un peata ia  prmavcra, induce ranimo a crederlo una anperficie con* tf tDua di fiori senza permettergli di pentare alle erbe u molto pia numerose che sono loro trameazo (i). Se fra gli sposi in fatti non v^ il saldo glutine di una virt diversa dal piacere, come pretende la ciurmaglia del coor umano che T amor* vada lanf oendo , languir dunque q- u che la felicitk , e quindi la fede eonlugale n ( Teoria eunU e fM- naU del dit^or^ pk^ 6S, 64 ). Se non T^ha alU fona che M ^Mccre, aita a tenere uniti gVi i poai , il raiioctnio  giuatMinio : ma se si Am- mette che oltre il piacere t^ abbia la coscirnsa del proprio dovere, in tal caso si spiegher un fatto che tutto di avviene fra i coniugi buoni e cristiani, cio, che sebbene fra di loro seeniino i piaceri sen- ibili col progresso delP et , tuttsTia si r|^forti T attaocarocnto e la fede mutua , e cresca P unione de^ loro spiriti talora io ragione oon- irara appunto a quella de^ corpi : come pure qoesO altro fatto, che V amore ^it^iatimo delP et giovanile non sia punta scompagnato da in- fedelt. Ma nella supposisione AA nostro autor^ che, scemando i pia- ceri, debba scemare la coniugai fede, egli tro?a utile il divoreio, perch alla mancanza di frde rimedierebbe, fino ad un certo segno, ooP im- pegnar le donne a MmuLare per interesse quella fede che non hanno nel cuore: u II div4irsio, egli dice, le costrnger a regularsi aeoondo f i prncipii d^ogni calcolo commerciale  pagare per avere del ero- u dito  esser vero per ottener oonfidensa  servire per essere ser- u Tito n (^Teoria e. e p. del dwartioy pag. 5o). Infelice il giovaac marito , persuaso di una simile filosofia ! egli non creder alla fede della sua sposa che oome crede alla durata de^ suoi gioranili piicert Egli sa ci di che il nostro autore tanto istantemente P avvisa, che tt credere alla perfezione delP oggetto amato, credere alP eternit  della passione che si sente e che s^ inspira, sono illusioni perdo* u nabili a due ragazzi nell^accecamento delP amore n ( Teoria ce p. del divorzio j pag. 19): egli oonchiude dicendo a se stesso: Ahi questa bella yeiie costante non e diversa da questa illusione fugace! Dispre- gevole oggetto che  alP occhio di questo filosofo una sposa piena forse delle pia sublimi virt e per una eterna bellezza morale ama- bile oltre il sepolcro! una sposa che sarebbe custodita come un og- getto venerabile  sacro da un marito probo e religioso  non addot- trinato nell'abbiczione di tale filosofia! Certo se il divorzio potesse giustificarsi , egli sarebbe per la spasa di un filosofo materiale \ (i) Teore^ e. e p, del diyoro, pag. 33. e' moralisti (i): se il solo piacere  ci che pu tenerli insieme^ egli i evidente che l' unione verr a mancare allo scemare della piacevole illusione che gli occupava, il luogo della quale pronta occupar deve la noia.  L'esperienza giornaliera dimostra che il poeta aveva  ragione allorch disse: . Ca) Nella teoria morale del piacere non si studiano gi i fatti per istabilire un diritto, ci che fu rimproverato a Grow noi non po- siamo passare una linea oltre de^ puri fatti: essi sono tutto, perch tutto  il piacere y e il piacere  un fatto. Fra le ragioni, onde T autor nostro commenda il divorsio e P eco- nomia $ perch cosi egli ragiona: u l fisici e morali appetiti (dei ma- tt rito annoiato della sua moglie ) non soddisfatti coniugalmente, ri- ci chieggono una secondai spesa per soddisfarli con unioni fortuite > ( Teoria e. e p. del ditnir. 9 pag. 9 >. Questi appetiti moraU che hanno bisogno di unioni fortuite per essere aoddisfatti, fanno ben intender quale aia V idea della moralit che ha il nostro aatore. ^1.  scrivesse le donzelle , le levatrici , le edueatrici , le co- u nosceaze , le amicizie , le parentele . . '. Dunque noa  potendo la legge impedire il concubinato, deve sancirlo  0 tollerarlo soltanto (i). Aggiunge che unb fra gli altri bni del concubinato sarebbe quello  d^ iniziare molti ce tf libi al matrimonio, e di ritenerli fors^anche a vita y> (2): iniziamento santissimo a ricevere un sacramento ! XLI. Conscguente alle sue idee V autor nostro fra gli altri fonti di secure. noti aie , che suggerisce a^ giovanetti, indica le donne prostitute (3). XLII. Stabilito che la morale deve ndtirsv tutta al pia- cere; che la venti non ha alcun pregio se non relativo al piacere ; che la falsit  preferbile , quando questa si reputa di magi^iori piaceri feconda; finalmente che, la mag- gior parte de' piaceri umani trovandosi neir indefinito campo delP immaginazione , la illusione  un fonte infini- tamente pia ampio che la realt , di piaceri e di felicit per gli nomini: tutte queste dottrine, l'una colPaltra in- dissolubilmente congiunte, da noi stabilite e fermate; re- sta a ve4re in che modo si faccia Jl calcolo de' piaceri , per rilevare in ogni accidente della vita, qual sia la somma maggiore che di essi si possa ottenere. NoQ esistendo al mondo che individui , questo calcolo non pu esser fatto cbe da individui : quindi egli deve riuscir diverso, secondo che gli uomini hanno pi 0 meno di abilit nel calcolare, e massimamente in certi casi difBcilt. Grave  a la difficolt def calcolo allorch vogliamo tf confrontare beni e mali s per intensit che per specie M diversi, giacch sebbene tutti si riducano a sensazioni  dolorose 0 piacvoli, ci non ostante non  cosa agt*  vole il porli in equazione. Un giovane lacedemone si  spezz la testa piuttosto cbe abbassarsi i servigio degli  schiavi ; eguale calcolo non avrebbe fatto un Perdano ^ (.1) Teoria e. e p, del divorzio, pag. 187, 188. (2) ivi, pag 189. (3) Elmmti di filotofia ad ma de* gfd^anetUf T. I , fBg. 9$* 4ia  e i Romani al Mmpo d^Annitek calcolavano b^i djer u sameote che al tempo d^ Alarico  (i). Quale avr ragione di questi diie? chi ha fatto meglio il calcolo i^ Poieh questo non pu dipendere che dal gtado di piacere e di dolore^ e poich v'hanno de' piaceri m- maginarii come de' piaceri reali, non si trova nna tegola onde poterlo giudicare, altro che il gusto de^ singoli: ae al Lacedemone fu pi piacevole quell'atto di estrema fierexza che il vivere, ebbe tanta ragione, quanta n'ebbe il Per- siano, al cui gusto riusci nullo il piacere di quell'eroismo^ e piccolo il dolore della schiavit verso al piacere del vi- vere E di vero il pretendere che gli altri si conformin ai nostri gusti,  un assurdo nella teoria de' piaceri: bi- sognerebbe che potessimo mutar loro gli organi corporei, la memoria, l'immaginazione, e le altre facolt clie dal l'immaginazione procedonp. XLIli. Quello che  certo si , che ridacendosi tutte a le determinazioni degli uomini a cambi di piaceri e di  dolori  (a) , nessuno pu avere per fine altre che se stesso: il suo doyert (3) non pu consistere che nel pr- CO EUm, di fi, II, ali. (a) DeiV ingiuria^ dei danni eoe. , T. I, pag. xiu. (2) Kitengo la parola dovere, perch il DOitro autore troTa utile di tenerla. Per altro, secondo Posserrazione gi d^ noi fatta altre Tolte, questa paiola non ha senso nella morale del piacere. In hti cbi di- cesse questa praposition  L^aomo det^e acure il piacere , e si volesse esprimere eon quel deue un dovere morale , si potrebbe ri- spondere cosi u Come provate voi che l'uomo deve seguire il pia- cere, se il piacere solo  Punica forxa che determina l'uomo? a La vostra proposizione, sostituendo il significato ohe .date il db- tt fere, s? potrebbe tradarre in questuai tra: a L'uomo ha il piacere tt di segnire il piaeere , il che  un nen-sensor O dovete adunque u cettre la ragione del doverfuri del pi4u;ere: o pare dorete oon- u venire che perdete ogni diritto di usare una parola, a col voi nos ce annettete alcun senso diverso dal piacere stesso 99. Forale dunque convenire, che ogni qual volta il nostro autore usa la parola dx^en, egli pronunzia nna parola o^ata e rispettata , a cui sottrae colla tua teoria ogni significato,' e colla quale egli copre P estinzione di ojni morals e ranQuliomento fino della psfsibilt de^ doreri. 4i caccarif i maggiori piaceri de' senai , e ctnsare da si piik ch'egli possa i doleri corporei. Se per non vi pai essere an cakolo fisso e generale dei piaceri e dei dolori , a cai latti gli nomini si debbano conformare; giacchi il giudice di questo calcolo ciascano lo porta ne* propri organi e nella propria immaginazione: e perci se non si d ana legge sola morale , ma altretr tante quanti sono i gusti e i capricci umani; potremo al meno esporre quale sia il gusto particolare, in questo fatto, delP autor nostro , quale il calcolo ch^ egli arriva a fare coir acume del suo ingegno sul piacere o dovere (percioe* . che queste due parole riescono sinonime ) degli uomini. XLIV. Io posso avere dei piaceri e dei dolori tanto da me stesso come dalla societ d^li altri nomini: il -calcolo sui piaceri e sui dolori che posso avere da me stesso , cio dalle mie facolt, produce que' doveri che s possono chiaM( 44 XLVI. la qoante al primo, cioi ad accrescere le pr* prie facolt, ^ la sanit  la base di totti i piaceri; ie ma- le lattie sono fonti d^incessanti dolori. Senza la sanit, tatti u i beni altro frutto non danno cke il dispiacere di oon u poterne godere (i). tf La debolezza del corpo trae seco la debolezza dello e spirito, la pusillanimit e tutte le piccole passioni che u r accompagnano. tf Le care che richiede un corpo valetudinario, sono ff altrettanti momenti sottratti^ ai piaceri dello spirito. tf L^obbligo di accrescere le forse intellettoali  appog- giato a motivi forse maggiori. a Se la vita delfaemo ignorante  un tessuto di timori  abituali ^ se i timori abituali , oltre di diStruf^ere la  felicit ^ impediscono *le azioni produttrici e conserva-  trici;;  chiaro che il primo m^zzo per esser felice  tt r istruzione  (a). L'istruzione  necessaria in molte maniere ad accre- scersi i piaceri , le ricchezze , e la stima altruL (0 Cm pure ndropera Del Merif ecc., T. I, pag. 64 a La Tta es- ci tendo la condisione neoeasaria al coDaegainaito d ci stolte, sebbene i, sommamente difficili, e x^ rispetto agU al- tri sommamente utili. Non pare che nel suolo sacro d^ Italia un sistema cosi filosofico possa allignare:  Vi  negli uomini una potenza, dice un Italiano,  ohe gli sforza a disapprovare tutto ci che appare loro esser falso ^ u e come essi non possono disapprovare le virt disinteressate, cosi a vogliono. un sistema, nel quale esse entrino iiome ragionevoli n iOsserfaxioni sulla Morale Cattolica, Gap. III). (3) Elementi di Filosofia, II, ai 5, 316. Del timore, dal quale  sono sempre affaccendati di liberarsi i sofisti, senza mai rivacnie/ fa ngionato a lango nel Lil|ro XI del SasQ titUtC SpprantUL , 4*5 XLTII. Le ragioni del econdo dovere, cio d^mpiega^e le proprie forze ^ secoDdo il calcolo dell' autor nostro so^o le seguenti: tf Non al gusta il piacere del riposo se non da chi ha tf traTagliato , come non s gusta il piacere del cibo se non  da chi ha fame. ^^  Inattivit  ottimo antidoto contro la noia che  la u pi mortale malattia di quelli che non fanno nulla.  U occupazione  uno de* pi sicuri preservativi ^con- tf tro i disordini ed i languori dell' animo.  Ella  una tf verit dimostrala dall'esperienza, che nell'ozio noi siamo tf pi sensibili ai mali fisici e morali (i)^ e i pensieri mo- M lesti fissandosi nell' animo -^ degenerano in pazzia. tf L' inazione fa che irrugginiscano le facolt dello spi* tf rito, come irrugginiscono gli strumenti che non s'ado-  prano -*- ; il che equivale a perdita d* eventualit fa* ^ vorevoli e a realixgazione di eventualit sinistre.  L' ozio e P inerzia sono disposizioni che conducono  infallibilmente al vizio. Senza desiderii , senza progetti  -  la vita non  che tristezza e languore (a). (i) Come un buon mcito di fuggir P osio , il noitro tutore eoiD menda le occufMiiiom della moda : 19 Del resto ( ecco le sue parole ')  tale   r indole delP nomo, che d^ oocupaaione abbisogna e di (t trastullo: T uniformit lo annoia , la novit lo diletta. Gli orna*  menti dcHa persona sono una specie di trattenimento per lo u stesso selvaggio: nel dipingere figure sul suo corpo ^ forse pi al (I bisogno di sentire egli cede che al desiderio di piacere. Per le u persone che la noeessit non costrnge a lavoiare per vivere , ere* u scerebbe la somma de^ momenti noiosi, e quindi gli stimoli alla  corruzione, se intorno a"* loro a^ilx, a^ loro vezai, alloro gioielli.  seriamente non ai oocnpassero  '^fwwo GmUUeo, pag. i6a  163>. Non  adunque il. nostro autore troppo severo quando prescrive di fuggir Fozio; menti concede che si fugga co^ trastulli della va* Dita, e colle ineiie della moda. - C^) Sebbene queste ragioni possano essere tutte buone, quando si propongano come siharo alla coscienia de^ propri dot^er , oome stimoli aoc(*ssoriji al piineipale che  V obUgauon morale ; tuttavia esse diventano litibcoln e nulle in quel sistema nel quale il dovere non esiste, l'obbligauone morale non  che rlnelinssione al piacere 4i6 tf Un nono che lascia passare il teaupo seaza aegnario tf coD atti utili,  un uomo che rilene nello scr^oo il  denaro in vece di trafficarlo y o lascia il campo senza u coltura. it Un uomo attivo trova de^ soccorsi, perch pu pce- 'starne^ ottiene de^ capitali a credilo, perch pu resti- u tuirli i  chiamato api incumbeoze lucrosf ^ perch pu tf disimp^guarie (i) u U uomo oiioso , riguardato come un calabrone cbc a vive a spese delfapi,  dispreazato da tutti.  V indipeodenia  il primo bisogno del saggio  ^ dan-  que se i vostri meati di sussistenza sono scarsi , appli- tf catevi ad un mestiere per accrescerli y. al quale, appunto perch e una tempice inclinazione, ognano puh aensa al alla quale la yert sua la condanna. Ma IHllusione  momentaiiea: qua e l ella sparisce; allora la filosofia insegna ad ogni individuo d^ isolarsi da tutti, e gli dice di non isperars che in se stesso, (pi) Questa ragione non ritrari*k molti dall'eccesso de^ piaceri; p^ rocche chi si persuader che la disgrazia di diventar pazzo tocchi  lui ? chi non riputer anzi pazzi gli altri che se stesso ? Pure ella sarebbe buona se fosse presentata come la sanzione di un dotter morate s ola ove questo non esiste , poca forza pu essa avere : la paz- zia non che una crudelt, una imperfezione dellf nostra natura,' un male fisico senza una colpa che lo spieghi. Opuse. FU. T. IL 4iS a quelle, accondo Fodere, che favoriscooo di fk il de- tt aiderio eoccMvodi onori e di ricchezze (i). ce Tra i poveri , le caase principali del delirio aoBo la tf spefattsa o la tentazione di divenire ricchi acna lavoro, u ed il libertinaggio (2). u Le profcaaioni che esgono un esercizio cooIdoo di  corpo sono quelle che garantiacono di pia da qneaCa tf crudele malattia (3).  Ove finisce il bisogno ivi coaaincia la saziet 9 e chi  non sa moderarsi ne^ piaceri , vede qnesti appasre nel-  Fatto che voleva coglierli. Tale si  la coatitozione de? u nostri organi 9 che  necessario un. intervallo tra la aod- u dis&zione d'un bisogno e la sua riproduzione (4). u Si osservano effetti consimili nell^abuao di tutti i pia- ce ceri fisici , e aono i seguenti : ce 1.^ Diminuzione di forze fisiche. A misura che ace- cc mano queste, i beni della vita si riducono al rincresci- ci mento di non poterne far uso^ non si pu pi A andare ce al teatro quando si vuole ^ fa d' uopo privarsi d' una ce conversazione che si bramerebbe ^ riesce impossibile d^as- i sistere ad un pranzo d' amici ce a.^ Malattie d^ ogni specie pi 0 meno dolorose.  ce Ciascuno pu vedere xhe gli uomini intemperanti im- ce piegano una parte della vita a rendere infelice P altra, ce e ad aCTrettaroe il termine. Oltre i dolori di cui ci zg^"  vano qua^ vizi, ed i piaceri di cui ci privano , fa d^oopo CO N per questo ti prmadeninio gli uomini d* smart  poco meno gli onori e le rioclietsp , che tono i mezzi dei dmfm mttL mth raU del nostro autore, cio de^ piacri, (a) N piire i poveri corranno lasciare per quecto il mmriio M* rarriocfaire osando i meta pi comodi al ^ne loro; merito ce viene loro assicurato dai principii del nostro autore. (9) EUm. di Filos., 11 , a^O e segg. (4) Vuol (Kre che le fibre non contiene tenerle in continuo moto, ma lasciarle rallentare, perch'ielle possano di poi esser tocche pia piaceirolmente. Qui non c' in vero quell* austerit bpida di morale che Tigeya in secoli pregiudicati- 4'9 u ealeolare i lucri cessanti per impedito lavoro , e i danni  emergenti per spete di medicine e aervizio, senza par- u lare del fiore della bellezza che si perde pria della con-  sueta et , e dclP alito fetido cui talvolta ci assogget- tf tano/  3.^ Diminuzione di forze intellettuali.  4*^ Pericolo d^eseguire azioni nocive agli altri, quindi u soggette alle leggi penali,' come succede spesso per ub- a briachezza e lussuria (i). u 5.^ Perdita, di piaetri sociali. a. 6.^ Perdita di eventualit lucrose. cr ^.^ Da un lato decrescendo i beiti colPabuso de^ pia* c ceri, dalP altro crescendo il bisogno colP abitudine, si ce gioDge ad urto stato oostantetnente penoso.  8.^ L' intemperanza diminuisce il piacere delle anime  nobili, la libert; giacch esausto il nastro fondo, o u non contenti di esso, andiamo mendicando soccorsi od a impieghi, cio vendiamo il nostro teuipo per una libbra  di carne od un boccale di vino. ff Alla fine de' conti si trova che talora , rendendo i tf piaceri meno frequenti, si guadagna nelP intensit cii  che si perde nel numero; e che talora si pu accre- u scere il numero moderando P intensit  (a). In uba parob P uomo deve godere fino dbe le forze fisiche del suo corpo gli ba^no-, sensa peri guastarle, e senza che incolga in altri mali (3y. (i) EUsehdo soggetto He U^ penali , tu ti esponi a un dolore : quindi pecchi se nuoci, con tal pericolo, agli altri! Un'altra cosa sa- rebbe se le leggi penali non fossero, o tu avessi modo di sottrarti ad esse. (a) EUm. di FiL, II, aaS t te^^. (3) Qaodi la temperanza  notabilmente diversa per uot Ubo robusto , per un poUnte ecc. Il primo potr arrivare assai pia nire nelP uso de^ piaceri, che un debile : non dico gik ne^ piaceri leciti so- lamente , perch la distinzione fra il lecito e V illecito  una pedaa teria de"* teologi : fin dove V uomo robusto pu arrivare evitando g)i scogli descritti, v^ arrivi:  sempre nella temperanza della cosi detta morale del nostro auter^. Il medesimo dicasi del pottrUe, che p\i 4^ E di pi 8i def osservare , che  le cure per la coa^ et servazione delle forze fisiche possono giungere alTeccesso u e degenerare in vilt: allora si cambia il mezio in fiae^ u giacch noi cerchiamo la salute per travagliare e go- te dere , mentre quella pusillanimit sacrifica il travaglio a e il godimento alla salute  ed imita V avaro che cerca u il denaro per se stesso, non pe^ piaceri che pu pr- ce curargli  (i). A malgrado di questo  la salute  P oggetto pia infie- ti ressante per gli uomini  {^}\ e quindi  i miglonUbr u di morale sono i libri di medicina  (). Ed ecco quanto  pi semplice questa morale nostra di quella de^ pedanti: questa diminuisce i libri inutili, e le sciente chimeriche , una delle^ quaU era ci che s chia- mava fio qui inorale: la medicina sottentra in suo luogo: e V economia viene in appresso a suppUre a carte part, a cai la medicina non si estenderebbe (4). L.  L^economia  alcun poco diversa dalla temperaiue. u La somma de^ piaceri compatibile colla temperanza si  estende sino al punto in cui restano intatte le nostre  facolt^ la somma de^ piaceri che permette reconona evitare i mali delle leggi: il calcolo de^ piaceri saoi puh tutrio enere pia liberale che quello delle persone plebee: giaceb le tesse Icfgi civili ooo sono che reoomandate dal calcolo de^ piaceri. (I) Elsm. di ni, JI, aia, aSS. (a) Nuot^o GalaU0, pag 355. Ci che aggiunge qui il nostroantore, tt che una buona digestione vale pid di cento anni d^ immortalit i, mostra quanto poco calcolino I sofisti P Ulusiont, su cui Togtion pura aTTare la perfettibilit del genere umano: in fatti cento anni ^im- mortalit, d* una immortalit che yal meno di una buona digeitone, non pu essere che una mera illusione, (3) lem. di FU, li, aag. (4) Ma perch tuttavia osfiuarsi a ritenere questo nome di morale, s'odia non  alla fine che la medicina, e P economia Dseme con- giunte? La ragione di ci  per far nascere con q sesta parola una illusione utile: sentendo risuonare ad ogni tratto questa parola mo- rale, gi consacrata a delle idee venerabili e indistruttibili , il Tolgo crede che l'autore che ne fa uso, ve le aggiunga pure; ed inlaotr 4" f  alquanto minore : V uomo economo si risparmia. Puso ^ di beni che sarebbero innocui, per due ragioni (i): a 1.^ Per avere un fondo o pi larghi che quelli messi a^'inedesimi dalla medicina. (q) JOementi di Filosofia 3 U, 2. . ? \ .. . ' E qui pure si ha il vantaggio di eliminare la moralt t^olgarte surrogare ad eisn l' economia che , iosieme colla medicina^ la morale de^ sfistT, morale che rdoceado ogni motivo al piacere ed alP interesse , sterpa dalPaman cuore ogni elef ato e pur motivo delP operare , e inaegna loro a perseguitare fieramente i teologi , la pedantera de^ quali vorrej^ condur gli uomini dietro la ragione , senza accorgersi delPimpossibilit del loro malinconico tentatiTo. IIL Doytri del eittadino. LL  La somma totale delle azioni umane tende a far u cessare un dobre od a produrre un piacere, qnalun- 9 que ne sia la specie. DaiP ottentotto che vegeta sta-  ptdamente nelia sua capatina , sino al SfosoA cbe m^- ce dita sul sistema delF universo, non v^ha altro principio u d^ azione  (i). LII. Per questo principio,, tutto cip che dobbiamo alla aocieti , BOB  poBlo altro che i piaceri che dtrfditBmB a Boi stessi. ' I piaceri, come abbistB veduto, dipendono AzWau' mentare, impiegare^ e conservare le proprie /cot:h societ aluta a far , d : dunque ci torna a conta il rispet^ tarla: ecco Pobbligo, secondo il calcolo del soste autore, che abhinmo terso la societ. LU. Che la societ ci aiuti a far ci, il nostro autore cos lo prova : -  il.bi&ugno di procreare, inernte alla natura umana, ce avvicina il maschio alla Commina come il ferro nlla cala*  mila, e dandio nascita alla prole , sviluppa il sentisaentn  della paternit.  La societ non 2, non fu e non sar giammai altro  che. un mercato generale, in. cui ciascuno vende le sue me dunque sostitai al dolere il pia- cere, eosi por disse che il rimorso non  altra cosa se non la vista dt* dolori a cui il delitto ei espone. L^Ehrzio, che Tiene dal Gioia qua e li punzecchiato quasi ininiicoy e copiato da per tutto^  anche in questo la stella del nostro filosofo. Ci che questi riconosce negli scellerati,  u dilBdesza abituale^ sonni u interrotti da neri fantasmi , laceraxioni d' animo risultanti da ri*  membranae atroci, da vergogna attuale, da timori, figli della per- u suasione che meritando P altrui esecrazione | le altrui foric pot- u sano rivolgersi contro di noi  (^Jhl merito, I, 364)* Parlando di Lord dive, che ci per le sue concussioni ed avanie feoe perire (, u cVgli') due o tre milioni d^ Indiani n, attribuisce le sue smanie, i suoi furori, il suicidio a u quel sentimento di dolore che in noi  nasce dalla vista deiraltrui dolore  .Quegli infelici, scarnati dalla  fame 9 cadenti per languore , in atto di chiedergli alcune on^ie di M rso, si riproducevano al suo pensiero e gli rendevano odiosa la M vita n {Del merito, I^ a4o). La coscienza della iriolazionfi dlia legge non s"* introduce a spiegar que^ rimorsi : s' introduce solo la r^mpassione di que^ miser in un uomo spoglio di ogni compassione. 4*4 a nito , t^ndo sempre possibile un cambio tra com da  u sieme eonftiw*,' ed  neoeataria qoalehe destreua di calcolo per u separarle, onde scoprirne la differenza n (^Teoria ettnle e penala del diifanio, pag. VI). Se questo non  parlare da aracolf non  che manchi il tuono assoluto , inappellabile :  che  un parlare da ' eco, che ripercuote i suoni del Lucrezio oltramontano: e Pltalia allorn solo perde tutta la sua dignit , rinnega tutto quel buon senso che le  si proprio 9 quando ad una volontaria servit assoggetta il raro dono del suo pensiero, e mette il sue genico net ceppi stranieri. Opuse. FU. T. II. '54 4i)6 tilit e sui propri gesti (i)^ queiti diiirefn eaUoli momU, eo' {uali ttgeiiQo considera solo se stesso, csercitaorfo Catta la ttioraie filosofia, SMllerebbsro a pericolo Pesstessa del- V uman genere. Ci vuol dunque una forza, colla quale si sottomettano lutti  gusti ad un gusto solo, e il calcolo di ciascuno sia obbligato di arrendersi ad un calcolo solo, fatto da UBO o da pia , secondo che la farsa prevalcotc  nelle mani di un solo, ovvero di pia: nel qoal caso questi 0 devono distruggersi fino che prevale il gusto d^tm solo , ovvero ciascuno far deve qualche sacrifizio del pro- prio gusto, perch dal gusto di tutti (n) riesca un solo gusto che passa in legg. Perci  se voi oscite dalla societ, voi nou vedote pi it che bisogni rinascenti e focosi da una banda, braccia e (0 NoDie il vieU avrati U legge civile: nwkVobkU^i^ perch non tttie; non la^^nuii^gale, perch  fVM. d^aoo Uto a fneiU anteriore. (a) Non e**  nna ragione nalla morale dal piaeera par istabilre die aia pi giusto queato Moood modo nel qnate i goati di luUi lono insieme ooniemperaiU in modo che n^ana un aolo, anaidi il primo , nl quale il gusto d^un solo si renda prevalente, perch non esiste n pura T idea di ^utaia. Il dire che  giusto aver riguardo a^ gusti degli altri cosi assolatamente,  assordo nel satcma dal pis> aere: si deve aggiungere a m il badare ^ guai olCni  soaopid il vostro gusto: s^egU vi accresce il piacer voskro. Perch mai PoUiona bader al giuto * suoi aahiavi, ai quali non garberebbe dVasar get- tati nelle peschiere di movono ohe mantneva oUe loro ovm', men secondo l'autor nostro: (i) Eitrdsio logico ecc., pa^. 3oi. ei Jlftriooe.J, IO I i.IlcoDtcstoconqi]eIlodiefeg;e,eooB tutto il tUtf ma del nostro autore, d luce a queate ed aHe preedenii parole. (4) AbusTamente , cio contro il senso della pareb ai chiam^ di' riuo ci che noB  che una/nM $ un fatto. Nel liateaMi del noitrs 4^4  Ancora pi strani (coti egfi) sono i ragionamenti di  Rousseau contro lo stabilimento della propriet (i). Egli cr pretende ohe V idea della propriet supponga anteriori u progressi nelle cognizioni e neir industria, e quindi un a lungo corso di generaiioni , a coi la propriet era ignota* a  Mi pare che il sentimento della propriet (a) sia ine* tf rente alta natura d' ogni essere sensibile , si sviluppi ne^ tf primi istanti della Wta e divenga presto abituale. In autore non restano chetiti, eome pi yqlte abbiamo 088frrato:'i ritti noD tono n pur possibili $  una parola affatto Tla di senso ,  una chimera della fantasia. Ma il dire apertamente che non si am* inettono che dt^/atti,t non t? diriui^ nuocerebbe alla propria causa la quale apparirebbe qual  : couTien dunque parlare sempre di di ritti y come pure di dweri, di tnrij di moraU ecc., ma spiegar tutte queste parole in modo che altro significhino dal senso ordinario : e poi dichiarare , che a le diverse opinioni religiose estesero il signi-  eoe eoe (^Elementi di Filosofia^ II, 1 13). (0 Ecco qual  in due parole la caom di Rousseau e del nostro au- tore. Rousseau cerca il modo , onde gli nemini stabilissero quel S* ritto di propriet che  presentemente nelle societ stabilito : egli trova dilGcilissimo il dedurlo da principii di ragione. Non paija mica Rousseau di un possesso di fatto , di un attaceame nto di affetto ad una cosa , possesso che si difende anche colla forza ^ e che hanno an- che le bestie. Per ispiegar P orgine di questo possesso di fatto non si richiede alcun principio di ragione, ma solo la sensibilit, P istinto r abitudine : n ci voleva tutta V erudizione del nostro autore per sa- pere che gli uecelli difendono i loro nidi , le fiere i loro covili ecc. In questa causa il nostro autore dissimula il nodo della questione, non essendogli utile il manifestarlo : suppone che la questione prima non esista: che diritto voglia dire possesso di fatto, e nulPattro, ed esclama u Chestranessa di Rousseau a trovar tanta difficolt nello spiegare Pori- e pia forte cbe riusc a levar di bocca V osto ai piA debole : non c^  oaibim qvi di propriet , ma solo di un possesso diJaUo (3) Le parole metaforiche eredit, Muurpatoref assdio e hoooo, tolt^ da ci che fanno gli uomini secondo i principii di giustizia e di ragione, e trasportate a significare ci che fanno l. op nnm^ cMnmmo'dk farti pplQare il detto cvangtl^co uEficeprimuM tteaken 4r4JruFt ud n, - iO'BtroitiQ lgiso co., pag. k53 e  oolo d^ esser colto dalle leggi penali? tarebbe un dUiUo V atsalre? tarebbe on c^srs Della morale del nottn autore ? Certo : qoesb espressione , entro i limiti dMm difisOy non discende da' suoi priocspb: egli r avr trovata vecchia nella memoria, adita forse da qculcifte p dre predicatore in saa gioTent. Tali incocrense don ti possono spie gare in altro modo in un nomo che vi assicura ohe ogni Morale di- versa da quella del piacere ,  nna morala da prgmm , com^ egli a suole esprimere. (3) Eatra forse fra questi anche il primo che disse : DiUgtt M^ micos t^stros, hmefaciu hit qui oderuni nof , tt ermte pr pen' bero provato nel primo, ed  u rinfitnuaa la fiat eoniugaU i^Ttor, ciV. e ptn, del dw.j pag. 161 ). (3) Due sono le dottrine circa ia morale ; T una  la morale del piacere, P altra  il Vangelo.  mirabile la tendenza* e P effetto di- Terso d queste due morali. La morale M piacer  tolta sollecita nel fare il calcolo dt* pis- ceri, per riosrire ad ottenerne la massa maggiore $ e in questo unl^ alndio # tutu oacnpaU, n in altro che in questo essa conais^e. 436 k parie il mal del delitto, o Ut vergogna risoltanle  dair insulta. Voi dite elisio aono un pitocco^ io traggo La morale evangelica anf i \ limitar T oomo a qoesto solo ilcol^ fP infonde quasi un obblia de^ propri pacfr e di te stnao: Poont eoD qu^fta morale abbandona la causa della tua felicit ai ano Crea- tore y ed egli antieb de' snei /riViorri si occupa solo de^ oi dbpcri. . Il calaolo de^ piaceri conduce il seguace deUa morule dei piaont a trovar necessaria la fiereasa contro i propri ocuiici, u raccDaMnWjr la rendetta, Podio, la persecusione de^ medesimi. Il Tanto della bravura soatenut dalla punta della spada. L^ oasenrania de* propri doveri conduce il seguace del Vangf^o al pcrdone delle ingiurie , alla diletione dei nemici , ad una nnsncla* dine dichiarata dai moralbti del mondo debiletaa e pasci. Qual  1' effetto di questi due sistemi di morale , rispetto al bene degli uomini nella vita presente T esaminiamo i fatti. Il sistema della vendetta dura fino al Vangelo ; e con questo prin- cipio, onde gH uomini sUrgomentano di procacdarri la maggiore y- Kcttf non esiste in sulla terra, per quaranta senili, che Mtrocitk e barbarie : con^istatori e conquistati, tiranni e schiavi, inplics perch privi de^ piaceri, e pi infelici ancora perch in possesso della forza. Il sistema della dilezion de' nemici si generalitsa coUa diffusion dd Vangelo ; e con questo principio gli uomini s* argomentano di pr* cacciarsi la maggiore wirt, e non che dimenlicbi, ma ai naoatrano Uno ad un certo segno inimici de^ piaceri de^ senti : io tanto i piaceri retcono alP umanit in ragione che questa eoo oocIho aaatero H mirat un aumento di benevolensa universale calma le ire , rannoda i cuori , mette una pacata luce nelle menti , e gli uomini ai ricono- aoono simili, si proclamano fratalli, si riabbracciano con un amore |Mri  qnello di due amici che ritornano da nn lungo viaggio e pica di sciagure, e che ai riveggono rioonoacendo Pano nelT altro le an- tlche sembianse. htJiUmofiM ( cosi detta ) tent^ di fare a  cf di tasci m pugna d^ oro  vi confonilo (i): yoi dite  chMo sono n pile {)i io gnoino la spada e mi no*  st^o disposto a battermi. ) Ifi cotale atto alto la fronte e o guardo fiso quella capagtia ohe , ioooraggiata dai vo tcsivoea pOttiaU cht fitere i OMCttr  e i propagatori della miseriai t quelli chf non peoMo the a lui, troTno soli la frlcit di cui sem- brano ti neghinoli; aerioorb apparisca the a lui ubbidicce il tutto e ch*^ egli ha posto con sapiensa aH^CTaTters le atte leggi (0 Quett^atto plebeo di cavar fuori un pugno d^oro per moAtfArai ricco; non ptoTA abllai: il pia grii'igiiorQBotidiTrlN-mi f|ugno d'oro, DCofliediaiiBDjpe] no pepe, in ap^oooia ; e qualcJie mezza camicia , come ai dice in qualche parte d"* Italia, portando aero tutto ci che possiede o in proprio o a prestito , potr benissimo darsi un ruAo cosi insulso y cosi insolente, csi sofistico. (a) Per una piiiohi voi TtHefe tffetMggei^ la filn'd^fi'4aio zi meglio ^maseare gli altrifcbfteofftirQ d'iesfer qhieii^to vie^i Tale e la oonsegueosa-deUimff^e: del^iqoirt: di qifeWe morale che i^see dal eonaMerar V nomp come un peiao di materia ^  che finisce col trorarPapice della felicit ne^ piaceri iUutorU, in tal' calo ancb;^ queste due atllabe di cui  composta la parola mie, possbno essere ntt^ offse  maggion della morte, giech Pilliisiooe M iia confini \ wme-i^ 'eltt sillabe, elee |perela Aravo, poaaotie' eontenere in s la Toslni felMt , se -rpi #iele 'cos p^i^ao ti riuTenire in esfc colla ina'magina- sione tutto il paaooo della Tostra vanit. In fatti la morale del pie- nere suppone seriamente che colla pania gli uomini possadiO^formafe le loro felicit, u Non pochi st troyano in quella situasione d'animo, ft dice il nostro autore, io coi troyaTasi il passo Ateniese , il quale u rigeerdendo come sue propriet tutti i faseelli che entraTano nel  Pireo I enfiUce pel si|0.atesio errore: sarebbe stato barbarie il *i disingannarlo (Dei Afitrilo eoe, I^aSa). Questo esempio poetico egli  lo prende a rigore ^lofofice e ne indo^ pi che non comprenda, do non solo ohe taWre non si debba disingannare altrui , ma ben ' eneo che ai debba ingannere, come pi ^pra accennai  Per altro lo | orrei redeee un aofirta, nud reggcntesi della persona per effetto della morale dc^ piaeer, chiamato iFle da un ^rm^. colla spada alla mano, a i haBoees della stra4a a beffeggiarlo | e son persuaso che in tale frangente aaprebbe ben egli trovar delle buone ragioni per dimostrati he la brafura delPuomo non ist nella robustezza e nella destrezze del corpo,  ch'egli non resterebbe d'essere quelPacuto' sofista chVgli , etbbene non asppia o esi ebbia il ore di baUersi 0S u stri detti ^ iraa iotiaiorita ndaUfl Itgff^ disponeva a fcr-  veg^arn, t eilinguo od di lei an4iio le naie voglie 9 (t). LXIV. in. La terza eonsegueosa 4eUa morak, a cui il piacere e la forza sno i due perni su. cui rigira ^ sar r elogio della maldicenza che pu supplire alla Corta se questa vien meno l>ia ma naggiore io matto, e purch giovi al nostra piacre^ '  hie ei nmac,  utile a se stesso ? Che cosa arrerrebbe da d, se non queUo cho abbiamo vcdolOf o che Teggiamo aTTcnire tatUyia f 44t hnqve cravensiMe fri gli iitoiinL Neisoao  Ubligito a lare alle convemiooi con proprio daono^ ae non fosse per evitare un danno maggiore.  ISon personificate adunque la conifgtuiotu temo avete  personificala la niUum {i)y t rieordatevi che la fona  di naa convenzione non  la oonvenxione alessa, ma ti a vantaggio mutuo delle parti contraenti: colla scorta  di questo vamta^io si distinguono i casi, ne* quali la u convenzione debb^ essere conferauta, dai. casi , in cui  defab^ essere disciolta; Se la convenzione facesse , a cosi  dire , lgge per se stessa, avrebbe sempre lo stesso ef-  fetto^ma se la sua tendenia perniciosa la rende nulla,  dunque la sua tendenza utile, ed essa sola la convalida*  giaeah  il pia- cere che crea e distrugge la medesima vcritii. Opuse. FiL T. IL 56 4** a cadono da loro stesse. Pretendere Topposto, i pretendere  che una pietra priva, di sostegno, resti in aito io vece u di cadere (i). ^ ce Ma gii obblighi finiscon forse, quando finisce il pia-  cere? Si, e no, si pu rispondere^ d, quando la aomma  degli obblighi , ossia degfi aggradii (s)  uguale alia  809nia de^ piaceri ottenuti^ perci cessa nei servitore u TobbKgo di. servire il suo padrone, quando questi cessa  dal pagargli 1^ onorario (3)^ no, quando i piaceri otte-  nati sono msggior degli aggravi! sofiferfi^ perci conti- tf nua nel marito robi>tigo di mantenere la moglie nel u declinar delP et dopo aver colti nel di lei seno i pia- ce ceri deir amore nelPet pi fresca (4)- LXYII. VI. La sesta conseguenia sar che non essendovi m giusto n ingiusto, ma solo piacevole e dispiacevole, il legislatore dovr oreore gli obblighi, cio degli a^frarii fer- mati dalla fona , non secondo de^ prncipii intrinseci ed immutabili di giustizia, ma unicamente i pi piacevo/i che per lui si possa, secondo il calcolo ch'egli sa &nie (5).  (i) Teoria cU e penale del dHnrtio , pag. 3x (a) Ma non itt egli meglio chi gli rimane pi piaceri die aggrtTi? perdi dovr mitehiarc i piaceri ottenuti oon degli aggcaTi di^ ei pn afaggirer parlate rat di an calcolo di piaceri, o di equiif  Ecco la legislazione personificata: sciogliete questa persona pia* tonica in uomini reali: questi non si propongono altro problema che di pascersi di tutti i piaceri possibili. Ecco i legislatori! (a) Anche i desideri! della corruzione origi|iale, riconosciuta dal nostro autore , sono desiderii costanti :  da ei he il nostro autore cava V elogio della vanir,. deiramMMORe eoe. per non opporsi ad un desiderio costante. 444 u eoa Ittita r impeto da quel ada meato , die on resta u aperto (i)* Secondo il detto calcolo, y^Ie $ iark il bosIto au- tore ( porche il calcolo varia oecondo k aUlil de^ cal- colatori), coBoegiie che il desiderio eostanfe die ngavdt Tuaione de' sessi, non po eisere soddisblto eolia maggiore utilit mediante vincoli indissolubili. E per aiutare il legislatore nel calcolo de^ piaceri , il nostro autore somministra i seguenti principii : 1.  Tale  T indole del cuor umano^, che la facolt (I di soddisfare un appetito qualunque, ne secma la lorsa,  eome Tmpossbiiil pi viokolo lo rende, nitimur in u iFttiUun n (i): di che converrebbe senza lmitaaioDe la- sciar vagar gli appetiti. a."" In altro luogo pori loda bens il lasdarli vagare , ma non senza confine. tf U divonio dohb' essere permesso, ma iv cm precisi u e ben determinati dalla legge: h filosofia non richiede CI nulla di pi. Ella sa che P inquietudine del deadeni e tt inerente ^ necessaria , inseparabile dairuomo; perci u dia permeUe aUa speranza d^ errare sopra vario evea-  tualit , persuasa che queste scorse (3) siano taofle sot- M traaioni alla forza recalcitrante degli umani afi'ttis (4). 3.^ Bisogna avere una morale rilassata, perch una mo- rale severa  hnpossibile, giacch il solo piacere  ia molla dciruomo.  La morale austera paeey  yero, ia teoria (5)| perch (0 T99na aU^Ue  penU dil dltfoniof pay. rx (s) Teorim duiU e f^enaU del ditHtrtio, pag. 6i. (3) Queste scorte, questo errore nel cogliere i piaceri, confema quanto dicevamo , che la monile del nostro autore non estendo che mediciaa ed eoooomia, proibisce Peeeesao dcgK atti imtnorali, ma noi alcuni y che possono crescere ano al limile della salate e della borsi (4) 7*eori4i cwiU  pamU del Stnrtio, pag. 6g, C5> Qui send)ra che il Gioia conceda che la morale anstcn meltt e* innaliii riconosce adunque qualche pregio intrinseoo in essa: noe  dunque che per manoanM di coraggio di^ egli la rifiuta. Dove ci: ia, io mi asterr bene dal dirgli file, perch non mi sfidi al dutlh* 44* m piace tutto che o mtlt c^innaba a malto ci deprime.  Sia che mi pingiate eoo forti colori il saggio degli stoici u ohe sta ritto e fermo aolle rovDc del mondo ; sia che  mi atrasciaiale al Cmmo de^ sepolcri , per mostrarmi i fc miserabili avanzi delP umano orgoglio, siete sicuro di tf piacerini j e questo piacere fa tutto il successo dei pre-  dicatori da pergamo (i). Ma non si tratta qui dei tuo-  ghi topici della rettorica , ma delle basi su cui deve u inalzarsi la morale e la politica, tfra consultate la sto*>  ria (u) ed dia vi ^r die una morale severa destando  solo una steifle ammivaiiofie non  mai seguita in pra- u tica che in drcostanze momentanee d^ entusiasmo n (3). 4.* Finalmente dovendo il governo secondare tutti gli appetiti perch non ha forza bastevole da raffrenarli, deve sacrificare ad essi anche la verit : la veriti egualmente come r errore) conviene ohe all^utik dia tributo.  Collocato al centro di tutte le opinioni,  governo (* deve prestar a tutte la stessa protesone , perch in ma*  teria d^ opinioni, Terrore ha gli stessi dritti della ve- ce rit*-^La sola difficolti consiste nel decidere quali sieno  le coae indlEerenti. Si trova per sempre la soluzione  di questo problema in un esatto catalogo dei piaceri e ce dei dolori privati e pubblici (4). (1) Almeno em predicHM mb he molte e^innslta : to eonfetMte ^ allenerriy col non ndrii, s c6 che t abbaMS. (,> Siamo dfi nooTO nei generali s la storia pgrtrdficaUi Cve n^ao- certa P autor ooitto) depone od tcaftimotiio IsTOrevole alla morale de* piaceri. E non t^ ha dobbioi porche ii cancellino da csm dician- noTe secoli , quelli del Gratianeatmo. (X) Teoria eiV. e ptn. del Suortio, pag. 80 ai. Ghi mmclU le illaaioni delk fantasia come fnti di piaceri  condanner ogni itm- Mjfiio pel vero 9 pei bene? Qoando ci& fotae, io non la direi una contraddixiones "nn tale entusiasmo  ben altro ehe una illusiono. (jO TVotmi etV. e /ren. del dwwmOf pag ni. Ghi potr tessere que- sto esatto catalogo de* plaeeri ? chi prevederli tatti f che cosa sono i piaceri pobblid ? forse piaceri, di cui gode qulebe ente reab ehe si ohiama pmikU^o? o non pit tosto una aoHtzione i ffiaceri prpioi 446 LXVin. Ma vediamo meglio qol sia roficlo dd kgj^b* tore. SappoDamo primieramenU ^ ci che  oasurdo nella morale de' piaceri , avervi ano o pik legialatori, che eateoclo pazzi atlisimi e commeodabiliaaimi (1)9 s propongano di (1) Queit Mrebbera paisi nel sUtema M pnere, peicfa fMve rebbro contro ragione: in fatti ad una chimera, ad ona iibuione, ad una lemplice idea senza nessuna realt, sacrificherebbero il proprio piacere reale. La filosofia del piacere tottaria l trova commendabi- lissimi, perch sono quelli che accrescono i piaceri fra gli ltr ao. mini, cio Tutilitk comune. Per meritar lode, secondo questa teoia, bisogna esser iUusi, bisogna operare cxmtio la realtk delle ooae, con- tro ragione. Per altro questa filosofia impone essa un dolere a questo legisla- tore d** illudersi stoltamente ? questo  impossibile nel senso proprio della parola dovere t come tante Tolte abbiam detto, non c^ che il fatto in tale sistema ; manca il principio per provare che debba esi- stere questo stimabile pano: egli  un todente, che un uomo ab- bia il gusto di esser tale: o l^nomo ha questo gosto d^ esser boopo, o non lo ha : non e**  luogo a censura od a lode,- se pur forse non convien fingere anche una censura ed una lode perch  utile , cio oonvien lodare o biasimare quello die non ha nulla in se stesso che il renda lodabile o biasimeTole ; e ci di nuovo perch  lile, per creare un interesse illusorio vantaggioso a molti Ma chi  qae^ sto Filosofia che eosi prescrive? Una femmina non credo, sebbene pur seduttrice di molti. Egli  un uomo, che parla come fosse la Fi- losofia in persona; e vi assicura di predicare questa dottrina unica- mente perch gli piace. Ma siete voi obbligato di badare a quest^ uomo coperto sotto la maschera femminina d^ioa idea astratta ? solo se "fi piace, perch non potete far altro che seguire il piacer vostro. Ma se una dottrina predicata non ha nessuna ibrza in se stessa di strngervi , nessuna necessit di ragione o di morale^ perch predicarla? perdi posbono esser pia;evoli anche le chimere, le visioni, i sogni, sebbene non contengano alcuna ragione da creder loro. Quando sia cosi , a me non piace di abbracciare simile fikwofia ^ A belPagio: badate quello che dite:  se piacesse a^ filosofi che la predicano, di tempestarvi d'insolenze e d'ingiurie perch oon siete del loro gusto? se vi vomitassero addosso tutta quella bile, che  la sanzione unica delle loro parole .... ? Come il loro ffusto li porta a stabilire la societ civile sppra i due elementi del piace^ e della Jrzoy e come da questo connubbio del piacerf* e della forza vogliono figliato tutto ci , a cui em danno il nome di diri^ 0 di dotterei 447 ottenere colle loro leggi la massima felicit divisa pel mag gior numero , e ci costantemente , anche in que' casi , in cui il loro interesse privato viene in collisione con questo loro irragionevole (i) ma nobilissimo scopo. Ecco ci che queste persone, che hanno in mano T autorit perche hanno in mano la forca prev^ente, dovranno fare per soddisfare a quella loro illusione che li fa esser curanti della fe- licit comune pi che de^ propri piaceri e della propria dicit. V interesse priifat ^ secondo il nostro autore , non va d^ accordo .coir i/ilercM6 pabtUco. Ma Tuomo non pu agire che per interesse privato: dunque il legislatore deve colle pene e colle ricompense creare un interesse artifi* ciale priifato , cio far diventar utile al privato ci che  utile al pubblico (2).  Siccome la tendenca dell^ uomo a farsi centro di tutto tf agisce gi naturalmente contro Pidea dei doveri (3) ; per- cosi qatl maraviglia che non piaccia loro di striogere in una simile schiaTit di ferro anche il mondo letterario , come vi hanno stretto il mondo civile , e che sieno gelosissimi di qaei diritti che nascono loro dalla potenza di una vile ed insolente loquacit maritata al pia- cere di un orgoglio che aspira a trionfare della ragione? CO Se non si d qualche fede ad una illusiene, di essa non si pu godere $ e il dare ad essa alcuna fede,  irragioneyole essenzialmente, perch  un assenso dato alla falsit. .(-ai) Il nostro autore non  mai obbligato di esser coerente a se stesso, giacche il piacere ama la ^arUt. Non  dunque maraviglia se in altri luoghi parli in modo da far credere che T interesse pub- blico sia sempre immedesimato coir interesse privato.    forte uno de^ siatemi pia caratteratki delta depravaaioBe d? im  popolo. In altri tempi ai pu off^'ndere la virt; ci non natante  te ne riconoioe ancora la sua autorit , quando le ti aiaegnano de^  limiti f ma quando si giunge sino a spogliarla del auo noBe^ ella  perde i suoi diritti al trono , e il Tizio se ne impadronisce e ri ti . a.* Altri pretendono bens che VmUres$e prpoSo di natura sua roiocida e sMmmedesimi oolP interesse pubblico, ma non credbo che i privati conoscano da se stessi questo interesse : t^ interesse pri- ato non coincide colP interesse pubblico ^e non quando  ben intesOf 0 non  cos facile ben intenderlo, n tutti bene Pintendono. Quindi debbono gli uomini esaere istruiti sul loro interesse privato, perch questo, diretto maeitrerolmente, riesca una cosa collMnteresse oo* mune. 3.^ Altri sostengono che quand'anche i privati sapessero calcolare perfettamente il loro interesse, e perci lo intendessero benissimo; ne pure in questo caso P interesse privato e l' interesse pubblico coior ciderebberoy ma sarebbero, in un gran numero di casi particolari, opposti fra loro: e questa  P opinione (IclPautor nostro, sebbene egli non sia sempre coerente con s medesimo, e parli talora per forma da far credere che P interesse privato, purch sia ben inteso, formi lo stesso interesse pubblico, aenz''altro. Or dunque non con- venendo P interesse privato ed il pubblico di lor natura, fa bisogno^, dice il nostro autpre, che il governo crei un interesse artificitde, me* diante delle pene e delle ricompense; il quale interesse giovi a fare che dovunque P interesse privato s'* allontana dal pubblico , incontri nn dolore, dovunque con esso coincide incontri un piacere prevalente :  in tal modo si renda artificialmente il bene pubblico di tal qualit, ch^ egli sia sempre anche il privato. Questo sistema y se non foss^ altro, riposerebbe sopra una sa))po*> sizione gratuita, cio che sia possibile nel fatttf una eoincidenza r- 45a fi siderando non alconi momenti della vita d^ vn individuo y a ma la somma di tutti i momenti ossia la di lai intrra et esistenza , si pu affermare che non v* ha nomo , il qaale ^  per quanto dipende da lai, non tenti di sacrificare la tf parte, che gii tocca nelP azienda pubblica al suo inte- u resse privato (i)  Restando dunque con tutta ragione tf fissate delle pene ai delitti e delle ricompense alle vir^ a tu (a), crescono i motivi che s^ oppongono ai primi, e a promovono le seconde. LMdea delia pena reagisce con- a tro la spiata del delitto 9 e T estingue in molti animi ^  Tidea della ricompensa reagisce contro T inerzia gene-  rale , e rende V uomo pia attivo (3). tificiale de^ due intereisi coti perfetta che ti aTTcri per dascun uoaM in particolare, e in tatti i momenti della sua vita. L^eaperema oom aomminiatr mai P esempio d'una tal tociet, che larebbr il preteso sialo giuritiieo di Kant ; e tutto ei che abbiamo oasenrato nella nota precedente a quetta, lo dimostra irapoitible. Scegli poi fotte patti* bile, sarebbe lo stato di una inaudita servit del genere umano, e della pi inesorabile tirannia. (1) Eitmenti di Filosofia, U, 373  973. Cosi dovrebbe esaere nella morale del piacere: e se fosse, la societ sarebbe impossibile: ma la societ esiste; dunque gli nomini non operano pel solo piacere. (^a) Pene e ricompense aensa colpa e senza merito: punire colui che non pu che seguire il suo piacere, perch Io segue! colui che seguendo II suo piacere esercita dei doveri morali ! Cosi la societ he si vuoi erigere sulle sole due basi della fona e del piacere, ae anche non fosse assurda , sarebbe un edificio che si erige sui supplizi degli innocenti ! sarebbe un patibolo ertto dal piacere ! ed a chi ? non alla coi^a, ma a se medesimo: perch egli solo esiste: il piacere di alcuni uomini sacrificato al piacere di altri nomini , ecco tutta Is legislazione, tutto il secreto della societ de^ sofisti. (3) Elementi tH Filosofia , Il , 27$. Questo avverr in gesurale; ma in particolare milla fa al nostro caso. Perch F uomo sia tirato co- stantemente al ben pubblico, bisogna che non si poika mai trovare in casi in cut la pena o la ricompensa noi segna : bisogna eh' egli non abbia mai in vista un interesse maggiore della pena minacciata , o della ricompensa promessa :* bisogna che quelli che hanno In mano P autorit pubblica, abbiano sopra di t un'altra autorit, altre pene, altre riaompense, altii magistrati: nel secolo scorso ^ sono prese* tati i sofisti ed hanno gridato all'* universe, Questi aaagiatratl tm 453 LXDC II nostro autore peri s* accorge che ae  neces- saria nna data distribusone di pene e di riconpense per dare^una direzione alP interesse privato tile al pubblico; dunque ih descrivere i vantaggi della societ civile in ge- nere , come fece di sopra , non  un sufficiente motivo per impegnare gli uomini a rispeCtarb: conviene di pi chVssi ne sieno costretti d fatto dalh presenza continua della forza e del piacere fattizio (i): ed in questo la tendenza noi. Era il topo che veniTa s porlur Pdefante che porta ralla soa schiena la terra. Ci) Nella teoria del noatro autore gli aomini dovranno riapettare i diritti altrai ed eiegoire i doveri solaiaeote allora quando k ocfefd ciVile in cui vTono sarii eoitituita per forma ctie rkiteretsc pabbliro e rtnteresie privato verranno neeetiaramente e perfettamente a coin- cidere: in fatti  impossibile in detta teoria che l%iomo prefeiisca l'in- teresse pubblico, fino a tanto che il suo interesse privato vuole altra mente } e il nostro autore vi assieora che non v^ha n por un nomo solo che ci& faoda, considerando la sua vita in generale  .non qualche mo- mento d^entnsiasmo Cn.^ LXXIII'). La morale aduoqae deirantor no* stro  una morale pel tempo futuro , per qoH tempo lontano lonta- no, indeterminato, a cui  sperabile che T umana perfettibilit con- durr il genere umano. Intanto contentiamoci di rimanere scusa morale t contentiamoci di mcriftcare il ben pubblico al 'ben nostro privato in tutti quei casi ne^ quali crediamo dia questi due beni non Tsdan d* accordo. Ella  por bella quella prcvidenta filoaofica che prepara nna morale ai nostri posteri, una morale che sar solo ap- plicabile dopo una lunga serie di secoli, quando verr qnel tempo felice che  ancora Incerto, quello stato di cose che non si sa an- ora se sia possibile, quella conformazione di societ che probabil- mente non i che un sogno filosofico, un arbitrario sistema, una spc- rania illusoria senta realt, ma cara, troppo cara ai leggiadri sofisti, perche intanto li dispense realmente da ogni legge, e li scioglie da ogni obbligazione. Gente benemeiita dell^ umanit t iXaCro Ul regala del hr piactrt , unica forza attiva dell^uomo, essi intanto fanno tutti i tentativi y tutti gli sforzi per ridurre la societ presente in uno slato tale in coi T interesse privato ogni qoal volta tenta di diverger dal pubblico abbia una pena.  per riuscire a ci ch^ essi si vantano gli amici , i protettori dei governi esistenti , e accusano di nemici di questi tolti quelli che non pensano come loro (if. Gml- , pag. Sog). Ma come ? essi non hanno altro modo che le pene e le ricompense  per far coincdere Plnteresse privato col pubblico, e pensano di rio- 454 continui deir interesse privato a sottrarsi ^ qaette dae bar- riere, trover. bene spesso via 4i sormontarle ioooccote- menle: a cui risponde cosi: scirri ? chi  qa#ta idea ^olfettra a cai dal^ il nome di pubbUea^ e non PuDoiie di molti privati? Mniono qiH^sti privati ch^ {ormano d che chiamate pubblico, il mtggior numero? ma perch il ma^or Somaro dovr prevalere opra il minorf ? per qiial principio T per quello del piacere? ognuno ha il tuo gusto, e come dimostrereste voi che il gusto dei molti debba prevalere sopra il gusto dei pochi ? perch^ egli  pi retto ? ma che regola avete voi da mianrare questa rettitudine se non lo stesso piacere? perch il maggior numero  pi forte ? ma perch non pa& esser la forca prevalente nelle mani del minor oomcvo? sar egli ci iugioslo? ohi v^autorssa a dirlo se non ammettete nessun principio di ginsticia che vi diriga in que- sto giudiio ? volete forse per pubblico intendere il bene di tutti ? sa* rebbe gratuitamente: ma in tal caso ogni astone di qualunque citta- dino dovrebbe riuscire d\m vantaggio a ciascun altro , o non dovrebbe reeare nessun dispiacere ai gusti, ai capricci ^ alle passioni di neasoa altro t giaech rimossa la ra^ontf a lascialo il ^'cerv, questo trovasi ancora ne^ eaprieci e nelle pi scellerate passioni. Pretendere ci sa- rebbe impossibile t giaech ciascun nomo rimarrebbe nelle catene pi4 dare: mentre n v^  quasi nessuna aione particolare (e tolte aono particolari, non essendovi aaiooi astratte) che giovi a tutti egualmente, o che con oertetia s possa asserire non dover recare dispiacere a ve- runo, n pure alPinvidioso , n pare al tristo Questo principio por- terebbe I.* una schiavit di ciascuno, non solo insoffribile ma ancora impossibile assolutamente; %? tenderebbe ad una uguaglianza per- fetta in tutto, cio ad una chimera impossibile: uguagliansa consi- stente appunto in una uguale assoluta dipendenza e schiarito di cia- scuno da tutti , si qufoto alle persona che quanto alle cose: I fautori filosofici della rivolnzione francese nel. mentre che si pro- ponevano una assoluta libert ed assoluta eguaglianza nelle loro menti alterate da una immaginazione eccitata soverchiamente; lavoravano senza accorgersi nel fatto > e tutti i loro passi tendevano a sacrificar l'uomo reaU ad nna chimera chiamata pjubblico: essi avrebbero rea- lizzato, se la natura umana avesse potuto tollerare un progresso naa^ giore |Ie^ loro piani a lei ripugnanti, questi due ultimi termini: I.* una schiavit di ciascuno piena y assoluta: a.^ una uguaglianza perfetta in questa schiavit o nel troncamento di tutti i piaceri pri- vati, cio a dire di tuoi i piaceri ^ nel rigoroso senso della espres- sione, perch i piaceri non sono che, essenzialmente privati. Bla le pene e le ricompense onde si vnol realizzare questo sistema, non vT u Si dir che se P interesse privato s'oppone spesso al- le r interesse pabblico, cosicch  necessario reprio^ere e quello colla minaccia di sensazioni dolorose, noi veniamo  a distraggere i vantaggi della societ che abbiamo van- tf tati di sopra. CDtrano che come un Murdo i in fatti si le pene che le ricompense ioiio beni e mali che si fanno soffrire o godere ai privati; esse alte- rano adunque Passoluta uguaglianza: esse non sono di quelle axioot che a tutti egualmente piacciono, o che a nessuno dispiacciono. Non  dunque possibile che sotto il nome astratto o collettivo di pubblico si voglia intendere realmente tui, nessuno eccettuato, i cui piaceri si debbano procurare egunlmente^ i coi dolori egualmente rimuovere. Bester adunque che i pochi debbano esser sacrificati ai molti, o per dir meglio i deboli ai forti. Voi non potete gi dire che r colpevoli solo debbano essere sacrificati : perch chi sono i colpevoli , secondo voi , se non quelli che fanno azioni dannose air interesse pubblico ? Se dunque il senso della parola pubblico non  altro che Punione di quelli n.elle mani de* quali  la forza prevalente, ne verr che quelli che hanno la forza in mano potranno dichiarar asi'om' criminose, o delitti tutte quelle che si oppongono a^ loro gusti , a^ loro piaceri , e questi non diretti da regola, se non dal calcolo che fanno essi me- deiimi de^ lor piaceri ; ne verr che questa sar quella immedesima- tione delP interesse privato col pubblico a cui tende la perfettibilit umana, e a cui aspira P immaginazione de^ nostri filantropi: una im- medesimazione in cui I. P interesse privato di ala'uni  sacrificato (^BCnza nessun riguardo aliatigliela, perchj' questa resta esclusa fin dal principio del sistema) u\V interesse di alcuni altri il quale si chiama interesse pubblico, perch  sostenuto da una forza prevalente; a.** che i privati che non hanno la forza prevalente in mano , noti hanno altri diritti n altri doveri , che quelli di una ubbidienza Jr- zata quale vien loro comandata dal volere di queHi che hanno la forza in mano, il qual volere si chiama legge civile^ 3.^ che quelli che hanno la forza prevalente in mano, i quali pochi o molti che sieno e ragione o torto che abbiano si chiamano governo , il oui in- teresse privato si denomina interesse pubblico , il cui volere ha II ti- tolo di legge civile, possono piantare questa massima : la somma legge della societ  l'interesse del pubblico: tutto debbe cedere a questa legge: non c^ altra giustizia che quella che da questa legge suprema come conseguenza risolta. Si osservi che questa conseguenza fu carata da quelli stssi che hanno formeto questo mostruoso sistema. L^EIrezio stabilisce preci* pamente come conseguenzn la massima seguente : a tutto diventa 456 u Alla qaale obbieoae ti rispondk che ebbene tatti i u tass ^ di coi  composta ana casa, tendano a cadere (t)^ u non ostante la casa i ottima in?enaione , perch ci r-  para dalle intemperie delle stagioni e ci difende dagli u animali feroci^ per la stessa ragione, benck cno ne*  cessane delle pene per enere in piedi V edifio della A CI Icfgittino ed anche Trtuoto per U mI vetta pubblica n {De tEtprUy Oifc. II, e. VI). Questa matsima fu roerata cune principia a^ noatrt giorni t la pratica della aedetima Ten a torrenti il pi paro tan^ue della Franda: il nostro autore , e vuol esser coerente a se stesso, non ha nulla a rimproTerare a xpielli che V hanno versato l^oissencs. Secondo PElTCtio, mal fecero gringlesi ad annoyerare fra i Bartiit Carla L Essi avrebbero  dovuto farlo considerare come una Tittiois u immolata al bene generale  (Ds VMtpritf Disc, li, e XXII). Non si tratta di giudicar la sua causa : il suo interesse privato scom- pare agli occhi del pubblico: diritti privati non ce ne sono : trattasi di sapere quali viitime il k^ne gm&raU esiga, questo bene misterioso, q4esto nuovo nuo^l filosofioo, a cui certo altro non piace che il pi pingue sacrificio, che delle Tittime le pi prelibate, delle carni e del sangue umano. (0 La similitudine va soggetta a qualche cooetione. l sassi di cai  conposta una casa tendono tutti al centro , ma vi tendono in uni sola diretone : quindi  facile sostenerli collocandoli gU uni perpeih dicolarmente sopra degli altri. AlPincontro gli uomini non sono sassi: ooncfdendovt anche che tutti tendano in generale al centro del pro- prio bene, tuttavia i.^ questo bene non e gi un punto fisso e de- terminato come il centro a cui tende il sasso, ma  vario indefioita- mente, e indefinitamente variabile secondo che i diversi nomini, nei diversi. istanti della loro, vita, mettono il proprio bene, cio il pro- prio centro f ora in una cosa ora io un^altra. Voi dunque dicendo che Pttomo tende al bene come al proprio cenljro, abusate, secondo il vo* stro solito, di un termine generajej in vece di andar dietro alla realt delle co^ ^ voi andate dietro ad una idea tistratta e dietro a qnelU vi smarrite in un sofisma ridicoloso. Questo bene  bens una parola sola, ma con questa parola sola voi significate cento mila cose e pi, cio tutti i beni veri e chimerici che poesono essere sraati dalPuomo. I centri adunque deIPnoao reali, cioe'i beni a cui egli pu tendere, sono infiniti ; e non  gi limitato a quel termine unico a coi  lin- tato un grave nella sua caduta. a. L^uomo non e comparabile si sasso anche per la moltiplicit dellf vie o de* ess, pe^ quali tende si jSne che si  propot9- Snpponele ehc tatti- i sassi di cui  con- 457  aodet, ci non ostante la vita sociale  infinitamcote  superiore alla vita errante e selvaggia ^ (i)*  IV. Religione. LXX. L'nomo non ha altro motivo impeUente che il piacere e il dolore , o questi rducansi a delle sensazioni reali o ad immaginazioni. La verit non ha nessun pregio ae non relativo air utilit cio al piacere e al dolor/e. JSoi^ si deve dunque n si pu cercare quale sia la re* Kgione vera, qwle la falsa, ma qual sia la religione utile, quale la dannosa agi' interessi della vita presente (2): posU U casa voUrt diveQtaMei:9 vivi alPifUnie e riceveMero un'^anina e una potensa di muoversi come hano* g!i uomiiii, e tutti Tolessero coottani al centro della terra: starebbe essa in ppdi la vostra casa ? o come ritarretie voi i tassi che da tutta le parti vau via ? agoi s^sso vedendo che gli  iippedito di sef aire la via perpendicolare, uscirebbe ipimaQ^inente dal suo luogo, e prendendo una via obli(|ua, andrebbe per la pia oonoda a collocarsi io sul terreno. Voi potreste circondar qualche sasso da dfgli altri che il ritenessero da tutte le parti : ma come siterrete questi che hanno la atessa voglia di fuggire al bssso 7 l.a supposta aoeieU civile fatta di uomini che non tendono n pos- sono tendere se non al ceptro del piacere ( s^nsa rguarde a nessun altro prioelpio di giusti^a) starebbe in piede appunto come questa casa incantata, le cpi pietre rese vive scappano da tutte parti. Gonvieii dire che i nostri sofisti fabbrichiao di somiglianti castelli, perch '^im- magioano che gli uomipi sieno pietre^ e questi loro castelli faooo paura I hanno dentro il foretto, viaggiano i tetti e camminano le muraglie 9 e il potvero fabbricatore trovasi sempre a cielo scoperto occupato in  meditar qualche nuova fattucchieria che tenga a dovere i diavoli stessi,  (i> ELemend di Filosofia ^ U  276. (9) Non essendovi altra molla neH^uomo che il piacere 9 non ^6 succedere se npn che T individuo scelga queUa religione ch'egli cal- cola pi oenfacente a^ suoi piaceri, e, se reputa pi^ confacente ne*- suna averne, che tutte le abbandoni. Al mondo non esistono^realmente che individui : dunque con ci k detto tutto ci& che pu avvenire. Ma per descrivere le diverse mo- Opusc. FU. T. l. 58 458 u La storia di tutte le societ presenta questo muJfato;  Don s d associazione civile senza culto. i Merito eoe II, 17$.) Quindi la necessit della pena e della ricompensa, perch anche il gusto re- ligioso de^ particoleri si arrenda al pubblico bene, cio al gusto de^ pi forti. Quindi s^ intende perch la religione filosofica sia essen- zialmente intollerante. Questa religione filosofica  una parte della legge eivile : e la legge civile  quella che crea i doveri col mexzo della forza: quindi anche la religione cnU non  che  fotta, rirotm. al pubblico bene, cio al bene di quelli che Phanno in mano , i quali non possono far altro che seguire il proprio piccere nnioa forza at- tiva che li muove. Pu ben darsi il caso che questi nomini pi forti degli altri fingano una passione anche pel bene ovvero pen^ zieno aueoondati andic i gusti altrui , giacch P e^rienza fa loro oono- aoere che in questo modo otterranno maggior rispetto e maggior pia- cere, ti l rispetto ff (alP autorit) cosi insegna il nostro autore u scema u a misura che si veggono prevalere i gusti privati e personali sulJa a passione pel pubblico bene o snllo scopo cui  diretta P autorit  i Del Merit ecc., II, ^5). Questa passione per gli gusti oomnni i.^ basta che sia finta; ed  essenzialmente finta ogni qnal volta non nasce che da un calcolo del proprio piacere; e quindi, 3.^ non pu essere che finta in un filosofo seguace ((ella filosofia del paere, poi- ch In essa non vede alcuna dignit e bellezza, n^ solo vi aerea i buoni effetti per se medesimi ; 3. pu esser yera in qualdbe teologo pedante, il quale nel fiir bene altrui trova una essenziale bellezza , indipendentemente dagli cffetjti che a lui vengono da quel bene chVgli fa, V dalla contemplazione di quella, cava un diletto squisito che il fa dimenticare se medesimo per gli altri : in tal modo il nostro con* templatiTo  utile a tutti , perch non  filosofo e non ha per unico principio P utilit ,* 4**^ finalmente anche qualche Btosofo delP utilit sente alcuna volta le attrattive di ci che  conveniente, varo, retto, giusto , benefico, in certi momenti della Tta in cui la filosofia Pah- 459 tf Quasi tutti  calti ammisero una vita futura nella  quale stanno preparate pene ai delitti e ricompense alU  virt : tf Bisogna rinunciare al senso comune per non rcono- u scere i uaniaggi di questa idea. In fatti la presensa  d' un ^ere onniscio e onnipotente , giusto e buono :   I.* Tende ad atterrire quelli che abusano del potere  a danno de^ popoli, e pu agire sul loro animo pi che  n^n agisce Pidea delP infamia e della gloria presso i u posteri (i) :  2.^ Sparge il balsamo' della speranza (a) sulle rina'- iMindoiui, da sua natura trionfa, $ensa ch^egli possa resistere, della sua mente , di quella sua mente tutta ingombra di una spregiudicata filosofia che tende a distruggere la natura. Tornando air intollepmsa della religione filosofica , ecco la diffe renza coir intolleranza del Cristianesimo. La filosofica dice agli uomini: u Voi .dovete professare questa re-  Ugione non gi perch sia vera o sia falsa, ma perch t^ ha chi la u giudica conicenle al pubblico bene : quindi chi non la professa sar CI reo di stato, sar punito colle tali pene fisiche n. Lai Chiesa cattolica dice agli uomini :  Voi dovete professare que- tt sta religione perchVIla  vera, e perch Dio stesso Tha data agli M nomini: chi ricusa di professarla non ha nessuna pena corporale, tt ma  solo escluso dalla partecipazione de^ doni spirituali di questa u religione nella presente e neir altra vita n. Ecco le due intolleranze. Di pi : la filosofia pretende di ottener colla fhrza fitioa dagli uor mni rimpossibilet in fatti egli  impossibile alla natura umana di professare una religione non perch ella si creda %fera , ma solo per- ch essa si creda utile: egli annunzia con ci di fare pi che mira- coli, giacche annunzia di fareNci che  contradditorio in se stesso. Non si pu oonchiudefe se non che questo annunzio sia ya^o, e ch^ essa intenda distruggere ogni religione servendosi di una /al" sita utile. (i) Nel solo caso per ch^essi ammettano la religione come fera ^ e non solo come uU : in somma nel caso che non professino la filo- ofio del nostro autore. (a) Si tratta qui d^una speranta ih^oria o reale? Nel sistema del nostro autore non pu essere che illusoria, e per tale riconosciuta; ae la religione non  scelta che seguendo futilit e. non la verit^ sar in tal u nna spgranMi ht maUa tperu, ptrcb n^lia orrM sulla verit, u risolta che un uomo onesto non predicher mai deUe raaa- u sime contrarie alP utilit pubblica, ma. non s^ impegner in una  guerra civile, come si racconta de^ Russi, per fare il aegno della  croce con due dita piuttosto che con tre  {Del Merito eoe, I, pag. a3a'). Cosi  resa pari la causa della uerii con quella. di nna esleron religiosa: come di sopra ha resa pari la causa de IF fsnbrifd f^i> gosa colla religione medesima. Dico di una esinioni wjyoNi , per- ch il Gioia si ferma ai segni estemi : dalPisUnU che ai pu^ mentire, 1p parole, i riti, le cerimonief i simboli, tulli in somma i segni p^ quali succede la comunicazione de^ pei|sir, non sono clw mere inezie: 46i  crificare il fine al mezzo , itaittaDclo V avaro che eomD- lora in esso V ignoranza popolare che u sostituisce le chimere u della imaagioasionc alla reaU delle co^e n. Bla il aittema dd no- stro autore consiste forse 4n volere ridar P uomo alla fredda realt delle cose? non mai: egU pose per carattere distintTo delPaomo sopra le bestie i maggiori prodotti della immaginazione, e mostro come i bisogni delPaomo ed i suoi piaceri procedano immensim^nte pi abbondanti dalla fonte della immaginazione cbe daRa realit d^lle cose. Perch adunque qui s' abbaruffa colP ignorana volgare percbc alla realt delle cose preferisce i prodotti della immaginazione ? Ma osservate: tutto ci che trova nelh religione, e di cui egli non vede P utilit sociale , fraMcamentt ve lo dichiara chimera della immaginazione: il vero od U falso egli non cura: cura sola l^ utiie sociale, e 1' utile calcolato da lui, il che non pu esser altro , per- ch ciascuno che parla on pu giudicare che colla sua mente. Or bene; e^iisro  ci che egli non vede itttVs. N^n si accorge dun^pie che eolla parola chimera egli fa uso di quella riprovazione naturale, che d non dir P uomo, ma 1' umana nstura a ci.ch4 jalao^ per rendere odioso ci che  disutUe 7 Cosi strappa i suoi diritti alla ye- fity per darli alP uttiir; ma nello stesso tempo rende testimonio a quella, giacch usa della sua autorit i delPapprovazione .che danno a quella gli uomini in favore di questa. Ma finalmente che osa  dunque ci che nella a^ligionc non  chimera della fantasia secondo il nostro filosofo? Forse ci che  vero e non lalso ? nulla meno; ma ci che  utiTe, sia poi egli vero , sia falso. Anzi il aooJaUo resta che non sia chimera , mentre una religione che non si consideri che come mezzo all' utilit sociale ,  essenzialmente /a2a e chimerica. Per tal modo chi dice falso al vero ,  costretto di dir poi vero al falso. Il 'nostro autore dichiara chimerico nella religione tutto ci che non sia mezzo alP utilit sodile; dice peixi chimerica It religione considerata sotto il solo aspetto di una giustizia che gli uomini rcn* dono a Dio; dice falso al vero: egli  costretto dopo ci di dire vero al falso : non rimanendogli nelle mani che nna reUf^ume finta dagli uomini , egli  costri>tto a dichiarare che questa sola non  dmerica, pereh^ ella possa pure essere qualche cosa, A tali contraddizioni conduc4 il sistema di Elveaio ; ed il Gioia non  il primo ad essere stato spinto e infrantosi in esso. Ssint -La* bert, il cantore delie stagioni, e Pautort della vitandi Elvezio ebbe l sventura di seguire il suo amico, e di comidcrare U religiatto come 463 ad essa si debbano antepone i ponti e le strade perch caie pi reali della religione.  Debbono ottenere ne^ consumi la preferenza qaelle cose  cbe migliorano FesisteBaa fisica, e procuraio piacere in  ogni tempo  Sarebbe strana cosa cbe presso una naee a'^cate doTCttero rettituir tutto eie che hanno preto o pnre imparato dalla (fgitlasiooe di Giottiniano. . (3) E te altro richiedo lo ttito, dtro la religione, come dunque Tolete tottomettere la religione allo atato ? Tolete oon fio ^Iraggert ci ehe rehiede la religione? Se la religione alito ricUedo ctacn ?iolBrnte perch adunque afTemate talora- che qnetta debba mt* fterfif 0 P uno o Taltri deye annullarti. 467 (x  nazioni delP nniverso  (i). Quindi *tf introdurre qae- u itv  qtfelPidei teltgrosa nella costruzione dell' edificio tf civile  introdurre delle parzialit nocive , ed esporlo ti agli ^ti derP i^ctsi e del nitM  (ol). Ma se non si deV infrodcrrr msstkna idea religiosa nelP edificio civile, come il governo' ptotr servirsi deflsT retfgfone in iftHfSr pubblica , e ^rch avr e^Ii , o in' che modo di- rigeli ({neHa specie d^impirgati che vuol il nostro aufr eh' esso abbiar ,  cb s? ^aoiafnlo clitb 1 LXXIV. Intanto die iT nostiro autore trova mdor di ri- spondei'e'  questa dotnaifida, noi seguiamo  sentir da lui quatl sta il catcol' de'* piaceri che il fegislatoVe , se (os- /e^, forgerebbe nella scelta delle reKgloni. Ili generale egli ^infsegn che  se il govern fsse u costretto a de'cilei'si per qualche opinione rIigio ,  egfi non dovrebbe da^ h preferenza n alla pi severa,  (4). LXXT. Quindi 1^ autor nostro vi loda egualmente TI ^a- gane^Amo ed il Cristianesimo, dov, secondo il suo calcolo, trova che 0 quello coUa superstizine 0 questo coa ye rit accresca la ioifama de* piaceri : in fatti abbiamo gi (i) Teoria dviU  p$riaU del dit^cnUo , Vili. Ca) Teora tiyte e pnale dedltforzio, tl. I tDDistri della reli- fione non possono esistere fuori dello stato, non pouono formare uif cffo da $e (Ved, MKTI)! nello ^toada si deV intrbdiirre neuuna idea religiosa: 1 rdifione ilkibque iF neessaVianrenti 1hS*>' ^lla tetra abitala da* aoftsU^  da odMk adb foto dotr* trine edificate. ^ 0) Deir esser vera o dell^ esSer^ai^a u pure una parola > io non hi d4 far nuUa. (4) Teora eitnU e penale del divortio, pag. i|3  il 4- H calcolo  hnpossibile a. farsi, eome yedemmo: ma si eonosce eg|i impo|sibiUtk da^ sofisti? e non hanno la massima sjjeditezxa a fare qualunque cal- colo if possibile ? seosa dubbie: la loro aritmetica  il proprio gt#: il calcolo e infaUibile. 468 slabilito pi& sopra che il gveroo deve anebe iagaonare il. popolo se ci crede utile, o non cevcare di trarlo d'in- ganno. u Convien dunque trarre partito da queste forze diverse  (deir opinione), e talora associarle alla forza deir inte*  resse, talora farle agire isolate^ acci Fattivit e la vita u circoU per tutte le vene del corpo sociale , e ciascan u istante, sia fecondo d^ un nuovo prodotto. Cosi il saggia 4 Numa , per esempio , impieg F apparecchio imponente a della religione per accostumare i Romani a far oso del u pane , od almeno a mangiare il loro grano cotto , in  vece di mangiarlo crudo. Ad imitazione di Numa ano u scrittore inglese propose come nezzo d^ aumentare il u commercio dell' Inghilterra ^ di spedire de'. Missionari u presso i Negri ed i Selvaggi del nuovo mondo. Il pro-  getto di questo scrittore ^ o per dir meglio negoziante, tf non tendeva ad estendere P impero della fede, ma ad tt indurre i Selvaggi ad abborrre la nudit, quindi a ve* a stirsi, e perci consumare stofie inglesi, indi assumere tt il gusto delle superfluit che accompagnano il vestito ; ,tt in somma creare in essi de' pungenti bisogni , i qu^  gli inducessero a lavorare', affine di procurarsi i mezzi tt di soddisfarli fi (i). La superstizione e la falsit fecero dei gran beai al mondo nelle mani de' filosofi!  Allorch Numa servendosi et delle idee popolari per farne sostegno ai diritti, converU tt  termini de' poderi in altrettante divinit (2), rese un tt servzio tf i. Che si estendeva a tutti i proprietarii erettamente, u ed indirettamente a tutta la nazione ^ tt a.^ Che nella valutazione comune supera tutti gli al- tt tri servigi, se si eccettuano quelli che salvano la vita^ tt 3.^ Che doveva decrescere col tempo, a misura che. 0) Nuwo Prospetto eoe, I, 372. (a) Queste diyinitk noa sod chimere^ sono cose reali perckc/idtt ma ttfi7f.  te inen feioci i cosliiui e rinfomto P ordine sociale, tf n potesse sostituire Ma /alsa^ idea di Nunui il timore tf della legge che panice i ladri e dlP opinione che gli V infama * (i)* iir incontro qoegli che non approvasse in simili casi V idolatria y e cercasse di togliere la sapcrstizione, sarebbe un teologo pedante e non nn filosofo, perch avrebbe 1 seiocchezaa di preferire la inerita M^ utilit. Eccone il caso.  Diocleaano innalz presso Elefantina un tempia e de  gli altari comuni' ai Romani ed ai Barbari, acci la par  tecipazione alle medesime preghiere ed ai medesimi sa  crifizi gK unisse coi legami d'un' amicizia sacra ed in  violabile^' scemarono cosi le discordie, le liti^ gli omi i^-) Del Meri ftfM.,1,1%5. 47? non d^utiKt, e dichiarando Taltie religieiii false, ella diTcnMrl daimdsar ai piacevi e dstoiber la (Mce d^gU omoni:  Tanto pggio ptp la ReK]{ne cattobca^, oosl if a nostro autore, sVssa fosse intollerante. Ella mefitereU>e  PeBtr proscritta da ogai paese, eome gi Ai pi^cnUs m Jati'IngtteiVa. Ma, beridb i di lei ninistri abfcwno  predicata la tolteranz qtAoilo an deboK , Vimifrm^ tf quando divennero pallnti , ci non ostante r pniieipii di u questa Religione sono toUerantissiiBi -^ L^aMsite d di^  in^rve s dimoallra q4iindi cosi ignorante nella RelgaQe i che diisndc, darme fttrvn* cittadino. Giacch sP^ip^e- a tende che la aa ReK^one proscriva tolle le altn*, eia*  cana di queste araMT' la' steasa pvetaaar, edr eco orga-  nifefeataf la gaerra civile*  (i). Non  per chu ai de^ crefenw i) filbofe oovIfo tl krahte come qa  diinostlra : egli condanna UniUroHza dei falso, perch vuote sotifnSta Invera intoHeranxa fiJo- sofica, che"  qi^^a- cht tion toliera ci che spoppane al piafoere, ^ia eaao verit osia falaft: di cb^ baciano fde le partfli^ ohe imnfedatattKente snasegoono alle rferke', & che aono tate ainro cKe foUefnntissimt a Quiio teologa tf cbo Viene a prdlcard uns^ religione intollefWnle , me- u- ffiur d' esaere trattata M governo cio r ciaciatanl, che  spacciano delle droghe nocive  (2). In fatti ciarlatani sono tatti quelli cbr spargion il i^ero, droga nociva aozi mortale alia falsit ntile de* sofisti. V'ha dt pi: qui aopra egli vi dice chc( i principi! della setigione oattolieia sono ottn^ntisnmi^ e d il eoo voto (f) Teoria auiU e penale del divorzia^ pag. 1 16! N'on ci pa s- serp guerra civile proditU da una religioBe che non ha altro ib" lineiti aicetici ri promettono mever eento per no^ e pi che cento. oc il ealeolo gi latto dal loro apo e maettro : u Ognuno che la* u teiera la eaia, oi fnitatli, o le soralle^ o l^padre, o la madre,   come il ooatro autore VaooeEta, non aveva alcon traTaglio flaico n iolellettuale n morale, o Dol reato  anche grilletlerati ateaai negli eremi aoqniatarono le cognizioni oe-  ceaaarie alla lor perferiono per le ialmzioni, che gli aomta dotti u della aolitudine loro facevano o ttelle viaite acambievoK, o aeile  radunante ordinarie n iM coiimi tifi aiMcaraia egam e #- naci, operetu del Con. F. C h\ .  3* TVof agito morale t Se per monde a^ intende il eakolo dei* pia- ceri de^ aenai; l'oraaiene e reaereizio della carit del proaaimo naato dagli anacoreti della Tdbaide, cerio non erano alcnn morale traTaglio. 0) Tali impoatmre atili non meriterdibero d^caaere coofatate. Senta dir nulla della atorinra de* prncipii, aceonttntiamocf di ret- tificare i fatti, a Qoeate manifatture n (^parla delle manifattore degli ' anacoreti egisiani e airiaci) u erano portate a laoghi abitati da per-  Bone y che^ prendeane cairn dei aolitarii , riportando ai medeaimi il u lor biaognevole, come pane, aale, olio, libri, abiti. . . Ordinaiia-  mente quegli uomini indefeaai lavoravano aaaai pi di quello, che u abbiaognaaae al loro tenuatimoaoatentamenlo, e tutto il aaperflott a veniva dai medeaimi proearatori d^li anacoreti diatribdito in li- ei moaina ai poveri  I penitenti che vivevano in aociet, ovrcio i  monaci , avevano V iateaaa maniera di vivere coi propri aadori  Queati eaercitavanai in fonnare aporie, atuoie, corde, ed altre ai> a mili coae , che portavanai alle citt per vendere, e molto andavano  anche nel coltivare le terre. I poveri dei pacai vitini a tali rada- ci nanie d monaci laboroai e caritatevoli, aolevano aentirae molti  aoeoorai $ poich la loro paraimonia nel vivere e nel vestire ren a deva molte volte aaperfloe le loro fatiche, e queste erapo desti* I nate in tali limoaine i ( Bh, opera eitaU).  non quando diviene stimolo alle nostre fotze, come non   lodevole la speranza di vincere nel soldato quando ne u scema la celerit e il coraggio. a Se  certo eh' egli ( il Creatore ) lascia agire le cause  Del Merito ecc. , II , 78. Sono un mesxo di ottenere da Bio le grazie \ non unicamente di eccitar V uomo al larroro. 9 Cf) 7Von ciV/e t pwnaU d$l dirwo f pag, tofi. 486 Egli d lo stesso litoh di magit^ a certe stfpenliom de' Turchi:  Regna in Twcka ropkione che la rvafe, tt ripetendo perle parole miilenose e ftceodo alcsoe ce-  rioione magiche alIMslante iella celebra^Me d^ un  matrmoDto , pei riaociM ad ingaimare i desiderii degli ff sposi e sospendere reserciaio delta virilit  (f). E pianta per massima universale la s^ucnle:  In gc u nerale , siccone le parole in qqahwqoe modo pranno*  ciato e i moti della mano noe possono nvHa su? corpi  inanimati e distanti, perci patri dirai tanto maggiore  P ignoranza qnanto maggiore sar 1* effetto ch'essa a tf questi attribuisce i (2). LXXXX. Quindi si pu conoscere Fides del nostro r ri- stiano intomo la fde , principio del Cristianesimo :  La  fede^ die' egli, eonsideratat in ae stessa, non  un me- tf rito, giacch le manca l'elemento della difficolt Wota ^3).  In fatti, lungi che P intelletto umano sa rentfeiHea cre- *t dere, vi k indinatissimo ; non v*  alcono sArro nel cre- (0 La eerimoBla de'* Tordii  certo una lupmticiooe: ma ai pu^ eonahadere da est alla maasiffia generale cbe il noitro autoce tuoIc stabilire? (a) Jkl Menu fa., I, 33$. Parlando il Dfstro autore eH Padre Trtael incaricato della difTufioBc dcUe indulgenze dalla aaola S^c, lo paragona  ai ciarlatani che Tantano V effioacia indefinita delle loro tt pillole, droghe, elixir, apeciftci, segreti . .,nCDel Merito ree, n, 16). Gli oa ganti che osa la Chiesa cattolica, rgli II collocs aef an- nero della tupcrslizioni ^ a per far cradert, al suo solila, cii'e^K non tooca ci ohe fa la Chiesa presentemente, ne parla codio di uas illusione di s. Gregorio papa che Tirer nel seoolo VI 1 acooinpa- gnando Taooaaa saa di lodi in questo sodo: h Si pA dire che Gre- tt gorio trovayasi al ponto pia devoto dello spirilo umano od VI se* u colo. Ora se un cosi gran uomo, del quale aissmo pu porre ia  dubbio la buona fede, ai ksoiaya illuder da idee falae  auppo- u nera nagli olii nn' effioacia ohe aan esiste, in quali rortici teoc tt brosi di falsi gindisi non mtwMtu nIroTara le oacati delle daasi Ci inferiori n? ( Pel Marito ano., I, 921). C3) Se ci fosse ?ero in tutta l'estenaioo della propomtoae, le- atcrebhe da spiegava un fioio che avviene giovnaflicDle  Perch  ^* (^aL , pag. 63o e segg., eoe eoe >. Quando qualche ooaa non gli acoomoda, egli la eniuneni fra i sofismi de padri della Chiesa. ( Ved. Del Merito eoe., Il, 8). Le decisioai della Chiesa qaaado non gli Tanno a grado, Te rigetta aUrbuendole ai teologi, agli ascetici, ai fflonaei, agl^ iiitisi dei sacerdoti ecc., come abbiamo aToto occasione di vedere in alcuni hio- ghi. di sopra arrecati. (a) J>el Merito, eoe , Il , 46. (3) Mille Tolte fu risposto a questo luogo comune degP increduli, rhf> nei rTflati misteri c^  tanta loee quanta b^ita per sredcre, e 489  sotttniialiti del Verbo, fai precessione dello Spirito Santo, u la maternit divina di Maria cose tutte rispe^*  tabilissime e che hanno infinitti peso sulla bilancia della ce teologia , ma che non sembrano influire nella pratica a delie tirf sociali (i).  Richiamate qy gli Ussiti che si batterono furiosamente  nei XV secolo per essere comunicati sotto ambe le spe-  eie , come us ne' primi tempi della Chiesa ^ il the fu  u Un iota, con egli, agganto o sottratto vi faoera di- tf vcDre grande o piccolo  dotto o ignorante , buono o tf malvagio , angelo o demonio (i) u Vi toglieva la carica e Vi cacciava in esilio u LMmperatore Costanzo, se nel vostro siii^>0lo entrava la u parola homoouMs, ce Teodosio homoHisios,  A giudizio del primo eravate ignorante, bciceone, reo a di stato (2) y se davate al Figlio il titolo d^ uguale , u un ?ejr dottore n ecc. {pel Merita ecc., I, Q7*f N, GmlaUo , ecc. ). (1) Del Merito ecc., II, a5. (%) Nulla di tutto questo y ma solo ereiioo. (?)D$lMerit0 eocl, II, 25. FRAMMENTO DI LETTERA SULLA CLABSmclZIORB DE' SISTEMI FILOSOFICI  SULLB DISPOSIZIONI NECESSARIE A RITROVARE IL VERO SAGGIO DECIMO. FRAMMENTO DI LETTERA JLe qoestieni fitoaofiehe che mi pro^^nt nella sua Ut- fera , eome Ella nedesima ben vede , potrebbero estere soggetto non che di una lettera famigliare, ma di un li* bro , ami di molti. Ella sa quanto le varie parti della filosofia stieno connesCie fra di loro^ come ciascuna riceva lame da tntte P altre ; ed a pena che io mi creda p* tersi rendere al tatto chiara qualche verit, qnand\lia non ai mostra a suo luogo , non si espone insieme eon tutto il sistema delle verit a cui quella appartiene: ciascuna di questo verit  piccolo membro a un gran tutto*, ni sMn* tende a fondo, o almeno non ci pare d' intenderla a fondo, se non si concopiace non solo la sua natura , diri cosi , ma ben anche le sue relazioni, quelle verit che la pre cedono o che la susseguono, e delle quali essa o  la ra* gione   la conseguenza. E tuttavia non posso negarmele a esporle con brevit akane cose che io penserei sulle questioni proposte, pregandola, non gii a ricevere queste eonsiderazioai che io esporr^ come quelle che a me soddi* sfacciano compiutamente, e molto meno come quelle che esauriscano le importantissime risposte da Lei desiderate, ma solamente come quelle che mi concede nna lettera fa- migliare e la brevit del tempo. La sua prima dimanda riguarda la clasiificaaione dei diversi sistemi filosofici Mi sembra, a questo proposito, che i sistemi filosofici si possano classificare in due maniere : i .^ o col nome de' loro inventori, %^ o colla diversit dei principii che pongono. 494 1U mostra nella sua lettera i seguire il pcimo neCoiIa. Ma sebbene io ai tutto non U rigetti, tuttavia n pure M esso non potr mai essere recato a quella csattesca^ e fornito di quella distinzione precisa che nelle dottrine filosofiche  desiderabile e necessaria.  bens semplice , e, come il primo che viene alla mente, fu commieneale adoperato. Ma questa divisione mi pare che riposi, se Le debbo dire il vero, in quel soverchio d'autorit, che io altri tempi fu conceduto ad alcuni maestri, i quali per le loro dottrine essendosi partiti dai comune degli uomini, furono dagli uomini, veggendoli si alti, venerati quasi altrettante deit.  di questo soverchio d' autorit io dubito non {orse ancora si ritenga V effetto nel tempo nostro , senza che noi pure ce ne avvediamo, e bene spesso anche ma- ritando questo difetto col suo opposto, cio con quello d una frunchezza soverchia in portare giudizio di uomini gran- dissimi' certamente, e delle dottrine loro, giacch nello spi- rito umano simili contraddizioni non sono rare. E veramente questo modo di partire le filosofie co' nomi degli inventori, suppone che i diversi maestri ed in ventor di t8$e sieno sempre coerenti con se medesimi per tal maniera, che Tuno s'abbia un corpo di dottrine al tutto compaginato e perfetto , e diviso da tutti gli altri corpi 0 sistemi di dot|rine.  comunemente quelli che hanno voce di fondatori di cotesti sistemr, procedono cosi alti nelle loro promesse, almeno in tutta qaella parte nella quale confutano le dottrine altrui, che mostrano di non vo lere aver nulla di comune cogli altri , e presumono di avere cavata tutta intera da s soli, quasi facendola esister dai nulla, la filosofia. Promesse di prosunzione umanal Se noi gli esaminiamo imparzialmente , massimamente l dove, dopo aver distrutti gli altrui sistemi, cominciamo a edifi- care i propri, veggiamo che per quanto procurino di di- vidersi dagli altri con nuova disposinone di cose, vengono per sempre ( negandolo essi ) presso a poco ne^^i stessi sentimenti: talora ponendo alcun principio diverso , non consentaneo ad principio, deducono le conseguenze^ ed en- 495 trano, senza pare avredenene, nel stateaa altrui. Per quanto io abbia riflettuto, non mi.  occorso giammai di vedere un sistema al tutto compaginato e stretto con se medesimo e perfetto i almeno mi riesce impossibile il credermi in caso di affermare , che questo sistema vi sia : per dir oi do- vrei credere, che vi sia qualche libro, il quale contenga tutti i procipii necessari! per iscioglere qualunque pr* biema della filosofia. Come adunque  nomi di due filo* sofi sono totalmente diversi T uno dalP altro ^ cosi venendo a classificare i sistemi secondo questi nomi , sembra cho si supponga , i sistemi stessi essere interamente P uno dal F altro diversi, ci che non si avvera o difficilmente si pu verificare, essendo cosi vasta la filosofia. Di vero la filosofia, e anche se vogliamo, la sola me ta fisica  un aggregato di pi scienze (i)^ e quando an- che due filosofi in alcuna di queste scienze realmente e non di sole parole discordassero, potrebbero concordare in qual che altra: laonde co' nomi degli autori potr bens distin- guere materialmente i libri dello filosofie, ma non mai formalmente le stesse filosofie. Poich quando si vogliono dividere le specie , non debbe entrare nelP una quello che neir altra, altrimenti non sono bene divise. Per sono ve- nuto pi volte in questo pensiero, cho non si possa aver giammai una classificazione perfetta, ed una storia della filosofia , fino a che non  stata fermata la perfezione stessa della filosofia. Allora raffrontando alla perfetta filosofia le altre non perfette o false, si potr determinare in quali parti discordino: e di ciascuna discordanza si potr formare la base di un sistema falso , e quasi il germe di tutlo il sistema (). (0 Sebbene So creda che le seieoie filotofiche si posMne 'ridurre 4 HD solo prDdpio f onde acquisUno quella unit che di molte una sola scienza superiore a tutte > della quale quelle sono parti, ne rie* sce; tuttavia a me non  noto che questo sia staio ancora fatto per* rettamente da nessuno. (a) Anche gli errori  necessario che sleno dassificati e registrati direi qustfi negli arduvi dello spirito nm|io : sono gli scariche fanno Ma pf rohi queste* cose skno ekiirits d alcm pio, prcndiame nsn |p tutta la filosofia^ pokhi oon  stata ancora ridotta ad un aenpiice pracipio^ e no ^eac Significata con questa parola una acienaa aub^ au pren* diamo por usa parte della filosofia^ che di an aulo pnn pio , o da una soia questione dipenda. E sia Quella di cai pi s occupa oggid il Aondo y e che Ella aii tecca Bella sua lettera^ deU^ origiae delle ideo. Queda  liduoe ad un solo principio, o per dir laegiio ad una aula dimanda: In che modo lo spiritn nostm venga in possesso delle idee. Le (ar una classificazooe di alcune delle prDcipali opi nioni tenute sulla questione. Queste opDioai dTerae o questi principii diversi, riduceifedosi ad un solo oggetti , dTeo- tano naluralmeiite germi d vari sistemi, i quali, scno o non sieno abbracciati dagli autori ^ aono per fra d loro totalmente diversi perch sono figli di un priilcipio solo totalmente diveno E prmieramente osservo ebe alcuni filosofi m aono il pie occupati ad eaamkiaito la potenza di produrre o d^avere le cognizioni delle coa e le idee: altri hanno fetmatal aaag* giormente la loro attendoae sui messi o aiuti ealenit onde quella potenza ha bisogno per operare, l sistemi adunque suir origine delle idee si possono dividere d4 questi due capi di divergenti opinioni : A. dalla diflerenza dello opi aioni de^ filosofi intorno la poUaza di conosoeie, B. e daBa diifereaza delle opinioni intorno gli aimi storni della po- tenza di Qonoacere* A. Cominciando dal primo capoy . I. Alcuni peosatlono che bastasse davo aH*aaima ufaapo* te'jsa o facolt , e per oggetto di questa potenza le sen* . sazioni ricevute per gli organi corporei. Cosi prima delle aensasToni, non posero nello spirito umano nessua traeeia di cognizione: Di questi Ella vede cho  il Locke, ) Coa- Miste ecc. rlevare i chAri,* aoiif gli seogUcd i buncbi di leua aeaaaU sulle earU ^c^ navigaiifti. 497 n. Altri dissero che la facolt di pensare non bastava concepirla nell'uomo prima del suo sviluppo , come una mera potenza, ma bisognava dare a lei qualche traccia di cognizione non ricevuta dai sensi, lasciando poi d^esa* minare se questa cognizione innata formasse parte essen-* ziale e s' immedesimasse colla stessa facolt di pensare , 0 si dovesse dbtnguere fra la facolt di pensare e questa innata cognizione. Ad ogni modo costoro non si appagavano di cousiderare la facolt di pensare come una potenza in genere e quasi diremo di natura incognita, come i Lockiani; ma volevano protrarre pi A innanzi la loro investigazione (i), e non sem- CO Vedendo da questo lato il Bstema di quelli che ammettono nelto ipjrto umano cfotlche cosa dMnnato, apparisce chVgli e meno eontrario al Loekismo di quello che si crede comunemente ; e che roppoeiiione fra i Loc^ini e gli altri  minore fhe non si sfonano di far credere gli itessi contettd*nti. Io prendo il Loekismo quale si troTa ne^ iMiont scrittori ^ e non disguisato e guasto dai materialisti: di pia, non parlo di tutte le proposisioni di Locke, ma della princi- pale proposiiione del suo sistema, o per dir meglio, parlo di ci che un tal sistema ha di positivo, e non di ci ch^esso ha di negdtfo. Quando il Lockiano dice agli altri .  FUosqfi chg ammetu qualche cosa d^in- nato : u Or sareste to disposto di entrare con me ad esamioAre cfa (I qualit e requisiti debba ayere la potenza di conoscere, perck^ella a sia atta a giudicare e fare gli altri atti che le s altribuWoono*?  Lockiano: h Questa questione possiamo bene trattarla: io aono^ u eon voi n. Ora sapponiamo che i due filosofi entrassero in questa ricerca , e ohe quegli che ammette qualche cosa d^ innato nello spirito amano, conducesse il Lockiano a convenire che quella potenza di oonoacere cb^ egli ammette nclP uomo, per esser Uje, per poter fare gli atti a cui ella  destinata deve aver qualche cosa di peculiare da tutte le altre potenze j e contenere in se medesima qualche primitTa na- sone : che cosa creder il Lockiano di buona fede d^ aver fatto con ci? Forse mutato il suo sistema? Non gi; almeno a prima giunta. Egli piuttosto M accomiater contento dal filosofo che lo ha tirato in lina tanto sottile ricerca, cosi dicendogli: Vi ringrazio che m'*avete (c condotto a conoscer meglio la poienza di pensare , che io anunet-  teva bens nelP uomo, ma che non mi dava poi cura di esaminare u ulteriormente di che maniera ella dovesse esser fatta , e di quali  propriet fornita; bastandomi d^ ammetterla tale che possedesse in  s tutto ci ohe e oecefsaro a fare gli atti alla stessa appartenenti, - ^> tentiamo da Leibnizio stesso il genuino suo sentimento: a Si l'ane reaacvibloii   ces tablettes vuides, les rerit seroient en nona somme la figure ft d^Hercule est dVns un marbr, quand le marbr est tout  UH A indiff^rent  receyoir ou celte figure ou quelque autre. Mais s^^il j  avoit dea veinea dans la pierre, qui marquaaaent la figure d^*r- . cule prfnblemcnt  d?autjres fignrea erfete pierre j seroit piw  deterraine , et Hercule y seroit oommc ione eo quilfoe fa^a , tt quoy qu^il fallt du trarail pour dcouvrir ces veines et poor Ir  nettoyer par la politure , en relranchant oe qui les empche de tt paroftre. Cest ainsi que les idees et les reVileVs nous sont innes, u oomme des Indo'ations , des dispositions , des habitudes ou dei u rirtualits naturelles, et non pas eomme des adtonsi qonyque ee$  Tirtualit^s soient toujours accoiqpagaes des quelquea artions so a rent insensibles, qui y repondent n {Nouveaux Euidt jtir fEn- Undement huniain etc, Amsterdam et Leipzig MOCCLXV , pg 7 - In queste passo egli sembra che Leibnizio contrapponga la simit- tudine del pfzzo di marmo colle vene nel suo intemo che detemi- nano le figure, alPaltra similitudine usata da Hobbes della stallia eoo tenuta nel marme senztf che fesse in esso tracciata da Tcae. Ecco k Sol btto si creasse per ttna fotta dciraoiflM detemiiiata col presentimento o coU^iaslioto aUc idee, E parai questo il sistema di Leibaizio. lY. Ka^t pu ayere avuto da qnesti instinti, omie Leb* niaio iceva T anima mossa alk idee (i) (quasi queste idee stesse fossero potenze separate che si riducessero ai- Patto per una forsa Uro intrnaeca ), it primo concetto deUe sue forme iwiate,.le quali mm soao dltro ehe determina- zioni dello spirito venute a lui dalla sua propria atura ^ per le quali egli  costretto a veder le cose in un deter- minato modo subbiettivo, vestendo tutti gii oggetti si del senso esterno cke del senso interno , come delP MteUefCo, e della ragione (secondo la divisione ch'egli & delle fa- colt delP anima), di queste forme; o per dir meglio con- siderando tutte le cognizioni come fenoaseni dello sprito. A questo viene Kant; e faciloMnte Ella comprende come abbia chiamato filosofia trascendentale It sua dottrina, giacchi parla della forma di cui tutte le nostre possibili cognisioni nef^essaris mente sono vestite, della quale perno non le possiamo giammai svestire; sicch il parlare di esse piglia un oggetto che trascende lo stesso conoscere; e vede ancora perch la sua principale opeiia egli la denomini: Critica detta ragione fura^ assumendo a fare la critica prole di. qoest^altimos Mend ergo ium^ et totitts Mundi fiUa Phi- htofim in u ip$o tstf nontbumJrtasttJqiftraUiy wed gtniton Mundo quaUs 0rat in Prindffio ifrmi simitis. Faendum srgo Ubi ut quod jaciunt statiutriif ifui maUriam excupentes suptr^acanemm ^ Imagi* ntm non/kciuni $ed weniunt ^Lettera al Lettore, premetta alla tea Filotofia^. Per aKre la timiKtiidine materiale che ate Leffmizio, per la rpiale P anima e pangonata ad un marmo deteimioato a firme partkolari da delle vene interne ^ mottre ebisramsnla P origine del pirronkmo eritieOf natcente come abbiamo altrove veduto, dall' applicare allo tpirito df Ile lifoitazioni timili a qaelle di cui  fornita la materia. Ved. Volume I degli Opuscoli, pag. g e teggi (f) Kant approfitt assai da Leiboixio^ e leggendo le opere di que- sti due aiotofi attentamenSr, si vede ebe II primo copia bene spesso le frasi del secondo e le immafoi sensa ctairls. 502 Ila stessa ragione^ o a sciorre la questione, prima di tutt^ se questa stessa critica sia possibile. Questi quattro sistemi differiscono, come diceva ^ dal di- verso modo onde considerano la facolt di conoscere: il primo ristringendosi a considerarb come ana meta potenza di conoscere, senza esiger pi oltre; gli altri tte Radi- cando necessario di considerarla altres nella soa peculio natura : e fra questi 41 primo pretendendo che in ea sia . necessario di supporre ancora delle idee al tutto forviate; il secondo a volere che queste sieno solamente certe po- tenze che si attuano quasi instinti primitiri; il terzo final-  mente insegnando' necessario il concepire la ragione for- nita di modi 0 forme venienti dalla sua stessa natara^ - e dicendo questi tre ultimi d^ accordo che non pu spie-  garsi come P uomo si procuri le cognizioni col solo im lagioare una potenza conoscttlva, se anche non ne disa- . mina la natura. B. L'altra classe di ideologi si divide non tant per la diversit nella quale considerano le stesse facolt di pen- sare , quanto per la diversit nella quale conriderano la necessit di oggetti primitivi , su cui operando la facolt di conoscere, ecciti o formi o crei a se medesima le cogni- zioni. I. E di questi alcuno vuole che non bastino le sensa- zioni ricevute per gU organi corporei , ma gli oggetti da cui viene affetta. la facolt di conoscere, e da^ quali colla sua attivit crea a se medesima la scienza, sieno, oltre le sensazioni, tutti i sentimenti interni: ed Ella riconoscer in questo , per nominare alcun recente , il Laromigniere. II. Altri esigono , oltre gli esterni oggetti influenti sul- r animo, un continuo lume della divinit che a ki ri- splenda: e qui vede il Malebranche. III. E Platone aveva certo veduto il sistema di Male- branche, e travalicatolo, aggiungendo i molti lumi delle sue idee eterne sussistenti quasi esseri al di fuori della divinit, emendato in questo da s. Agostino, che fece la via al filosofo francese dcU^ Oiatorio. Soi IV. Alciioi poi ( maisiinanente fra' moderni) non oon- teot di quelli vari peosamenti, giunsero a credere che. alia facolt di conoscere, oltre le seosarioni, ci voleva, un altro aiuto anch^csso esteriore fra il sensibile, dir cosi, e r intelligibile, cio una favella, e dissero che Puomo non poteva accorgersi del suq pensare giammai senz^ avere l'espression del pensare. Di cui nacque al visconte di Bo- nald il suo sistema. E si avvicinano a lui alcune sentenze di Platone e di Socrate ; e molti altri lo avevano gi prima traveduto. Tra' quali il vide, prima di fionald, un Italiano che ne fece un orrendo abuso. 11 quale in alcun luogo scrive ; u E questa facolt di articolare la voce applicandone i u snoni agli oggetti,  ingenita in noi , e contemporanea tf alla formazione dei sensi esterni e delle potenze men-* tf tali, e quindi anteriore alle idee acquistate da' sensi e a raccolte dalla niente: onde quanto pi i sensi Pinvigo* tf riscono alle impressioni, e le interne potenze si eserci- if tano a concepire, tanto gli organi della parola si vanno tf pi distintamente snodando . E in altro luogo ancora dice cosi: t La ragione, che avvertita continuamente dalle tf alterne oscillazioni del piacere e del dolore, equilibra a e dirige per mezzo del paragone e della esperienza tutte ^ le potenze della vita, ove fosse destituta della parola, u non sarebbe prerogativa dell' uomo , ma , come negli K altri animali, ridurrebbesi all' instinto di misurare i beni it e i mali imminenti colla forza delle sensazioni 9). Tutti e due conoscono T assoluto bisogno del parlare per dare origine ai pensiero; se non che il secondo non vede da questo di necessit assoluta, che il parlare sia velluto al > Puomo da tradizione; mentre.il Bonald crede cop .ci stesso diffinito, che come la facolt di parlai;e  in noi nativa, cosi l'arte di parlare sa io noi acquistata: quan- tunque poi dica:  Soit que PlLtre supri&me ait cr Thommc (f parlaut, soit que, par des moyens qui nous sont incon-, u nus, et qu'il nous est inutile de connoitre, il lai ait u donn($ la parole apris Pavoir cr " Sai Questi altri quattro sistemi admqve differiacono Ab ariet dfgli oggetti ed aiati ^ da cai credono cbe sieM . essere assistita la facolt nostra di pensare, perdk elb giunga al pensare. Ora essendo questa questione delP orgine delle idre nnca e semplice, si possono benissimo, com'E//j recfe, classiS^are con tutta esattezza i diversi sistemi saNc me- desima anche per mexzo dei nomi degli aator ^ aeoaa dare loro una soverchia autorit , e presupporli DCalilxIt nel tirare le conseguenze dai diversi princtpt.  danque necessario, prima di classificare i sistemi della filosofia o di qualunque altra scienza, di rdur quelli ad un principio solo, 0 se questo non si pu&, di ridurle a quel minor ou- mero di principii che  possibile , e poi per ogni princpio fare una diversa classificazionoi In tal caso poich da un semplice priocipio nasce va sistema di conseguenze direi quan infinite, quando io ho classificati i principii , vengo ad avere ancora ,'classificato accuratamente i sistemi che o sono stati giustamente tirati da quei principii, ovvero si possono tirare da qaelli. Iton m^ allungo con altri esempi per non essere infinito: ma diri solo , che chi volesse classificare i sistemi aeeonde i sommi criterii della certezza, allora avrebbe on^ altra questione pure semplice onde potrebbe cavare una esatta classificazione. Che se poi dimostrasse, che tanto la que- stione deir origine delle idee , cose la questione del sommo criterio della certezza dipendono da an solo prin- cipio antecedente, allora avrebbe trovato il modo di di- atinguere con qna classificazione i sisteibi che vengono dalle due proposte questioni , non formando esst in questo caso se non due parti di un altro sistema maggiore. E facilmente Ella da questo intende, come, se tutta la filo- sofia potesse ridursi ad mi solo principio , allora solo si po- trebbe ben classificare tutta la filosofia con una sola das- aificazione , bastando distinguere bene le dtrerse opinioni sol principio da cui dipende. So5 Ma  .ben tempo che io passi a dire una parola snlla seconda richiesta che Ella mi fa, colla quale aspetta la mia of^iniooe sopra i vari sistemi della filosofia. Ella vede, che la risposta che io Le posso fare, dipende atrettameate dalla prima che le ho fatto. Sarebbe forse possibik rspoodtre bene o male aopra qualche panto della filosofia partieolare^ ma sopra i vari sistemi di tatta l filosofia non. mi pare che si possa dir naila di ferino e aenxa equivoco, meotrt trovo, come dissi, tanta difficolt solo in cnvenire io che differiscano questi sistemi. D' altra parte,, per mio credere, non si pu giudicare con siciireaza e senxa pr.'^onzione degli altrui sistemi se non p^r mcazo di un altro sistema gi formato j pel quale sia veivita in animo grandissiaia persuasione di aver con seguito la. verit che  sola giudice dell' errore: e quando anche alcuno fosse venuto a questo, sarebbe cosa assai ar* dua esporlo chiaramente Oelle angustie di una lettera. Mi conceda adunque che in luogo di risposta io attenda pia tosto P indieasionc d qualche questione particolare , sopra la quale Ella desiderasse sentire quello che mai mi riu* scisse dirle : e per questa le faccio una sola osservazione generale. Io credo giovevole e iodesta cosa considerare i sistemi de' filosofi, coir occio pi Civorevole. Mi  parato di ve- dere che quasi sempre essi sieno caduti in ergere per im- perfezione dUdee, non per bbaglio nel ragionamento; e per che tante volte bastasse aggiungere in luogo di mutare ^ e ricondurvr alla naturale interezza i germi che ossi hanno posti in luogo di distruggerli e gettarli di nuovo. Molte volte ancora due filosofi trattano di un argomento diverso, e credono di trattare lo stesso argomento , e vengono alle mani come inimici \ mentre che V uno batte una strada , e r altro ne batte un' altra , sensa incontrarsi (i): Pano chiarisce un punto deU'urliaao sapere, P altro ne chiari* sce un ahco a quello contiguo bens, ma che non  quel- 0) VedL un sicmpio di ci ila noU (r) della pag. 497- Opusc. FU. T. IL 64 5o6 lo : e perch sono nelU stesso tenritorio , mt !}?* UD^at- tra parte di esso , si avmaoo di combattere. iiMese per lo stesso ponto di terra. Li conduce a questo ^ ootifcssis- molo ingenaaflMnte , mio caro Signore ed amico , qaeli presunzione e quella baldanza che Unto insensatamcote entra nell^ animo delPuomo che aspira al conquisto della scienza , senza arer ricevuto e portalo il soave giogo della venti. Peri mi riesce dolorosa cosa e importevole il v^ere come .tutti quasi i filosofi si assaliscano e oaordano scam- bievolmente: vogliano che tutto sia nuovo ne' loro libri; 0 basta che rinvengano nuove vesti ad un aulico pensiero per dichiararsi creatori di un nuovo sistema, e scopritori di una verit non isplenduta giammai agli occhi de|^ uo- mini che gli hanno in terra preceduti.  queste male disposizioni si proprie de^ mortali non i a dire quanto impediscano i progressi del vero sapese, e eolla discordia ddle sette quante verit venute li* aperto non rimettano forse per secoli novellamente sotterra colla derisione e collo spregio del sistema nel quale enuio coo- tenote; Cosa lontaniasioia dal dolce e concorde spirito che mette in noi solaJa Religione della verit! E cosi non facevano il grande Agostino ed il gran Tomaso, n al* euno dei sommi splendori della Chiesi , che ^puuto per questo sono dalla. piceoleaaanfiaila. degli' uomini tenuti meno in pregio di filosofi e men seguiti perch non hanns spacciato se stessi a fondatori di sistemi, solo partecipi della verit e di tutti gli altri sistemi distruttori* Ed Ella vede che con questo stesso io ho cominciato a rispondere alla sua terza interrogazione: Come arrivare alla scoperta del vero. . Le belle disposizioni delP animo suo, mi pnre, sena alcun dubbio le ||^i precipue di tulle: di poi la eleva- tezza, della mente: la fermezza sulle basi della Religione cristiana, che quanto pia si studia, piA fa creseer Tali al* V ingegno. e spiegarle ai metafisici voli: nel medesimo tempo la libert dai ceppi tatti che mette ^I progresso dell^ in- gegno la piccolezza degli uomiai : avezzai|i a contemplale Soj le idee stesse prive delP involucro delle parole, degli schemi, de' metodi: sapere avvisare la verit sotfo qua- lunque forma e colore; amarla sotto tutti: abborrire la setta e il sistema in quanto limita queste forme della ve- rit , e studiare assai nelle parole. Nelle parle ( questo vero discende dalle osservazioni di Bonald, e prima so- nava alto nel Vico ) nelle parole sono contenute le scienze delie nazioni: per guardarsi dairakerarne il /senso fisso lore dai popoli , dir di pi dalla Providen^ , da Dio : la propriet delle parole strettamente conservata,  Panico mezzo alla chiarezza delle idee, a fisiarlf , a concordar- le. Di questa propriet fu sottilissimo investigatore, fermis* Simo mantenitore s; Tomaso. Il volere alterare il valore delle parole fu Parte di molti antichi e moderni. sofisti, e di molti filosofi profani : appena ^ inganna il mondo ie non con questa alterazione : di quasi tutte le parolo filosofiche e politiche si abus, e t mostramento di ci furono fatti molti scritti. Chi osservasse gli errori venuti dalP abuso della parola zTtcr nella scienza del diritto e della morale, dlie parole siRSAsiom, pugiiui^ solorc nella metafisica, delle parole vouiGLunzA e libkrta^ nella poltica', della parola rigchbzz nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso pie estieso del senso dato loro dal eomane uso; avrebbe raccolto le orgini d'incredibili in- ganni alla mente, o d'incredibili guai alla Umanit.. . t Pi Eeverelo, il M i ol^brt i8^. i n E INDICE i^aggio sulla Speranza contro alcune idee di Ugo Foscolo  1 LiB. I. Della Spendn^^ ipgann^t^oU. . . n 3 LiB. IL Del timore che si mesce alla Spe* ranza ingtinne^ole >* 55 Li. lU. Della Religione cke toglie le iUu- sioni della Speran^^ e gli affanni del Timore n 8i Arrso sui quattro Opuscoli seguenti . . n loi Esame delle opinioni di Melchiorre Gioia in fasfor della Moda. ...,. io5 Galateo de* Letterati *> 169 Cap. I. Occasione di quest^ operetta. . . .  17 { Cf. II. Scom^enienie nelle fonne sotto le quali si presentano le proprie idee, n 179  1. Segni d^ira  180 $ a. Mansuetudine simulata. .... 9 182  3. Ingiurie  184  4' Asserzioni gratuite  i85  5. Dnostrazion di schiocchezza. . .  186  6. Indole ferina  188  7. e rigor sof^erchio  190  8. Meccanismo nel conipor libri. . .  iga $ 9. Lusinghe del pubblico '^ ^94  IO. Bugie e imposture I. Famiglia, Tran" camenti di luoghi, .... 2^5  ifi. Parlar^ irreligioso. >.  . .  . ^ 229 Cp. III. ScQni^enienze negli aceessorii al principale argomento i> a36  I. Indur prei^enzioni a danno deWav* versano " ^38  a. Continuazione  a4o  3. Luoghi comuni y !i4^  4* Disprezzo dell'alta metafisica. . . i> ^43  5. Accusa di odiar la civilt. ...  14^ $ 6. Continuazione. ........ 9 a49 $ 7. A/^e idee intorno la civilt. . .  !i5o  8. Continuazione  25i $ 9. Causa della civilt confusa colla causa de' tempi 9 aSy  10. Mancanza di distinzione fra la ci" vilt e la politezza  a58 11. False idee sul progresso della ci' vilt e della politezza 9 261 Gap. IV. Sconvenienze nella trattazione del principale argomento. . .- . . . n a64 $ I. Ignorare la dignit della letteratura, m a65  a. Considerar le cose da un solo lato, n 269  3. Continuazione 9 271  4- Mancanza di definizione. . . . .  273  5. Abuso d^ fatti.  276  6. Abuso d? autorit  278  7. Principio dell'interesse  282 Gap. y. Prineipii generali del Galateo. - Pa. s86 Saggio sulla definizione della Rtcehezia. n 'oy Partb I .. ^ .'.... 3o8 Vkwsm II. . .  33 Breve esposizione della Filosofia di Mei* chiorre Gioia  335 Parie Teoretica Parte Pratica. .........  ^^^ %L Nozioni preliininari* .  . . \ $ IL Doveri dell'uomo  ^li $ III. Doveri del eiuadino^ n 422 $ IV. Religione.  n ^Bj JFhtnunenio di lettera sulla class^razione ds? sistemi filosofici e sulle disposizioni necessarie a ritrovare il vero. . .  4^ AVVISO  prtgmo M po^sudt il primo pUmui 'dtgU OpuMoli iloMiei 4 fiune tul unduimo ie spgmn c^rrmord importami. OH Paf. ziL lin. 7. pia v^ la  98. te medesimi cMi medesimi 38. n. aSw colefta questa sa ^ 9 iu tua 88. n M> penrtrsitk noireirmlil .. 96. i . Dl primsipio  Del mn nel principio e nel Anc 111. n i3. edato poco aTTedato ai& n , \, Porgano formato . Porgano .fonnato aa3. aeeonda . tutti proclamano U prima 378. n 18. i quali suscitano rma iUnti nel bene che la a4. n II. dell^rdire dalP ordine ^9- ranmenlargliene a54. 99 a5. cada alle aoffcrrnie ceda alle sofferense !l6l. n 9; che ingenera evi ingenera ^ 471- n 17. tacer a voce  tacer a voi 373.  i3. qaeati scaltretcamante si qnellt scaltrcicamente si taodono tMDdono ^^ ' 6. ttnito fcnao 399. n 99. iiell*oBo dairnoBO m 4r* >6. iionie aecresoe nome noti nocreaoe 374- 9 4 oMflte ' morale tl n 92. d^esso eaclutiTamente 1  .  * V . d* esso solo eadoiTa- mente ti. 9 37. piacevole piacere lA.pMaeme.Qfyera e posto sotto la aalvagoarda delle leggi* et* praaorivoao. ^ -.f Dalla libreria Pogliani si trottano ttndibiU le seguenti Opere dello stesso autore. Delle lodi di 8. Filippo Neri. Venexia 1821. Del modo di catechizzare gV idioti , libro Ji 6. Agostino volgarizzato. Idem 182 1. Saggio sopra la felicit. Rovereto 1822, in 8. Volgarizzamento della Vita di s. Girolamo , testo di lingua. Roveredo x824) q 4- Breve esposizione della Filosofia di Melchiorre Giojd) raccolta dalle sue opere. M<l. 1828. (  una Confutazione di questo Autore ). Nuovo Saggio suirOrigine delle Idee. Roma i83o, tom. 4) Q S* Principi della Scienza Morale. Mil. i83i, in 8. Della Ecclesiastica Eloquenza. Discorso pronun- ciato nel Seminario di Trento il sgMarzo iSSi.  I. . DELL' ABATE A  / ' KD8SMBI1  aiMMH swu 8TAB22*2JBlTrO TU. E OAXiO* VI OAKC S4?8XiZ*I I OCSHT. Largo 3. Giovanni Uaggure I. 30. 1844. Digitizred by Google Dgitzed by Google FILOSOFIA DELLA i aj  a & b a VOLUME IV. Piatit eci by Google Digitized by Google Digitized by Google Digitized by Google DEL PECCATO ORIGINALE IN DIFESA SS> GRASSA? S&&A GSgSS87SA CONTRO IL FINTO EUSEBIO CRISTIANO. Digitized by Google Digitized by Google A 'accoglie questo volume alcuni scritti co' quali f autore rispose a degli avversari che attentarono di mettere in dubbio la sanit della sua religiosa dottrina. A ha non parve di dover tacersi in cosa s principale, eziandioch alcune censure a lui fatte fossero e di poco peso e in modi sconvenevoli esposte. Perocch la verit cattolica  la vita degli scritti suoi ; ed  persuaso eh' esser debba la vita degli scritti di ogni persona, a cui abbia la divina Bont conceduto di possedere si pienamente la ve- rit, da appartenere a quella Chiesa che n  la colonna ed il firmamen- to. Laonde ehi potesse dimostrare d un tale scrittore, che dalla purezza e pienezza della sapienza cattolica si allontanasse ; avrebbe gli scrini suoi ferito a morte, e resi imitili quelli a cui pure sono rivolti. Concios- sinch a chi altri possono essere indirizzate principalmente le parole di un cattolico, se non ai fedeli della sua Chiesa ? E che altro intendimento Rosmini Voi. XII. 425* Digitized by Google pu egli avere , in iscrivendo, se non di difendere, illustrare o sviluppa- re la dottrina eh egli, con essi, credendo, professa ? Troppo avventurati sono i figliuoli della vera Chiesa di Cristo, pel deposito che hanno delle salutifere verit ! e troppo han ragione di ser- barsi gelosamente un tanto tesoro, che loro non pu venir meno, guaren- tito neir unit deir apostolica cattedra a cui sono discepoli ! Non fluttua- no essi neir oceano tempestoso del dubbio, come pi o men di fare  mestieri a quegli infelici, che dalla beata societ loro stanno divisi. Ai quali non resta se non il laborioso travaglio di cercare la verit, men- ir essi ne godono gi il possesso, la meditano e contemplano, e quasi ali- mento saluberrimo in propria sostanza la cangiano. Onde non  uopo a' cattolici di tornar sempre addietro nello studio della sapienza , e rimet- tere in questione continuamente ogni cosa, come se nulla conoscesser di certo, e fosser sempre ai primi elementi del sapere : questo desolante gioco rimane bens a fare all umana filosofia, se sola e senz aiuto di fe- de procede ; la quale va, va ; ma su' lunghi suoi passi incessantemente ritorna, incerta com ella  sempre d averli ben posti. Di che apparisce che l' attenersi alla cattolica verit non  solamente necessario alla sala- le, ma condizione altres indispensabile al certo progresso della scienza. N perci l argomento di questi opuscoli si limita alla difesa della dottrina dall autor professala : anzi questi volle cogliere altrettante oc- casioni di svolgere pi ampiamente qualche punto speciale di essa ; pro- curando in tal modo di aggiunger loro qualche importanza anche per que' lettori che quella difesa non curano, o di cui non sentono alcun biso- gno , e questi non saranno per avventura pochi, certo i migliori. Cos a ragione d'esempio il primo opuscolo , che  anche il pi este- so, toglie ad esporre c la dottrina del peccato originale i, che  si gran Dgitzed by Googl XI porle delia cattolica fede, tanto importante a tutte le dottrine morali. Ri- volgendosi a una verit rivelala s misteriosa, l' umana filosofia trova quella luce di cui ella non pud far senza, nei buio stesso pi profondo della Fede. Gli opuscoli seguenti del pari, in difendendo le dottrine dall' autore gi esposte, svolgeranno qualche nuova parte detta morale filosofia  on- de non senza ragione il volume ha per titolo Opuscoli Morali, e fa parte della Classe di opere appartenenti alla filosofia della Morale. Digitized by Google Digitized by Google LETTERA lieti llltislriss. e Reverendi. ss. Signor 1). Paolo Gio. Ilerlolozzi , Canonico detta Metropolitana di Lucca , ali abate D. Antonio Rosmini Serbali , Crepolilo Ge- nerate deli htituto della Carit (1). Chiarissimo Signore ^^he dopo tanto tempo dalle relazioni fra noi sospese, anzi adatto cessale dot Giornale di Pragmalogia, io le faccia rivedere i miei caratteri, parr forse un po stra- no ; ma v ha circostanze alcuna volta , che aperto carteggio , e contralta servit e obbligazione, come avviene di me verso la stimatissima sua persona, non  possibile il tacere. Mi muove a scriverle l' interesse che ho grandissimo per lei, cui ho sempre a memoria dopo le usatemi cortesie, talch come io mi compiaccio se altri loda il suo merito , cos mi rattristo se la sua fama venga da qualche suo emulo attaccata ; e di questi ne ha molti, che la virt e la scienza eminentemente posseduta desta l invidia e l rancor de malevoli. Or non pu credere in quant amarezza d animo io sia ca- duto per essere stato assicurato che gira un opuscolo che attacca una sua opera mo- rale, cui non conosco (e credo non sia pervenuta in Lucca), come una piazza inve- stita da ogni Iato, e di cui si vuole comunqne 1* intera mina. Mi si dice da chi lo ha letto, provarvisi che questa sua opera ridonda da capo a fondo ci inesattezze , d' ar- rischiale proposizioni, di manifestissimi errori; che vi si riproducono le massime di autori gi solennemente dalla Chiesa condannati ; che I' eresie, le proposizioni erro- nee di Baio , di Quesnello , di Giansenio, di Calvino , di Lutero apertamente vi cam- peggiano, vi si rilevano senza molto studio; e si conchiude che il Rosmini, quel s famoso scrittore.... che il mio Rosmini  traboccato nelleresia! Mi si dice inoltre che quest opuscolo assalitore  scritto con evidenza di tali ragioni , che previene e svi- scera sino al midollo I ascosa mente dell Autore, e dichiara il mal uso e lo strazio eh egli fa della dottrina di s. Tommaso e dellApostolo per colai guisa da non restare all Autore medesimo che o rendersi a discrezione , o capitolare vergognosamente, purch ne campi la vita. Tanto mi  stato detto con assicurazione. Fra pochi di spero di vedere questo audace scritto ; ma non fo intanto alcun giudizio contro di lei : rispetto (1) Quota lettera e la seguente fu pubblicala in Lucca, e ristampala a Torino e n Nove- ra, o inserita nel Propagatore Rcligioto. Stimasi bene ili premetterle qui come una colale in- troduzione storica alla seguente risposta. Rosami Vol. XII. 4-G Digitized by Google 2 e venero nel signor abate Rosmini un prete non pnr dottissimo, ma cattoRcissimo e zelantissimo. E non  quel desso il Rosmini che or fa sei anni scriveva all* infelice de la Mennais una lettera tutta carit, stringendolo coi vincoli della ragione e della reli- gione, ed esortandolo a rientrare nel perduto sentiero? E donde mai si partiva quel- 1 unzione di che tutta la famosa lettera ridonda, se non dallo spirito di Dio il quale investe, muove, rapisce sol qoeche son pieni della sua carit? D' altra parte, chi  costui che, stando in aguato, avventa colpi alla riputazione d' un uomo s conto nella repubblica de' dotti, e s chiaro nella Chiesa ? Perch s intnge di nome, perch stampa alla macchia? Ei dunque teme tanto il Rosmini da non tenersi salvo che con ascon- dersi perfino alle ricerche del tipografo ? Sar, io dico, che il suo scritto abbia ogni apparenza di verit, e supponiamlo anche vero in tutto quanto il sabbietto; ma come egli apparisce all esterno con intera la sembianza della calunnia, oos non pu fare cne tutti, fino almeno conosciutala verit, non si accordino meco a tenerlo calunnia- tore, o a ristare, per la men trista, su quanto egli francamente ci vuol far intendere ; perci dissi scrino audace. Perloch io ritengo che colui a chi sta in cuore il vero, e brama sia conosciuto dal mondo, non dee vergognare di palesarlo a fronte scoper- ta, o se , non cercando il rnmor del mondo, ne piace la modestia, taccia pure il suo nome, ma noi mentisca, e non commetta solo al millesimo l edizione del suo scritto, sul costume del secolo scorso , quando il regno de' miscredenti andava in fooco di guerra contro i Gesuiti e la sacra Inquisizione. In effetto non picciola ombra ne offre l epigrafe che mi si narra posta sulla coperta dello stesso libercolo, tolta dal Purga- torio di Dante, canto xvm :  Drizza, lettor, ver me le acute luci , ecc. (1). A persone dabbene che vorrebbono trattati gli uomini colla carit evangelica, troppo increscono questi modi scortesi. Mal s' incomincia un ragionamento , e mal si pre- viene il cauto e discreto lettore a danno dell autore e dellopera stessa, se al primo gittarvi so l occhio accada vedervi manifesto il sarcasmo. Ragion di pi per non cre- der all' annunzio che vuoisi dimostrato della caduta veramente orribile falla da uu uomo sommo dall altezza e dall' apice della gloria nel pi profondo abisso deli igno- minia e dell infamia. No, mio caro signor Rosmini, io non credo a s grave infortunio ; non credo che chi ha dato lungo saggio al mondo di virt, di scienza, di zelo, di vero spirito ec- clesiastico , che ha faticato nella vigna del Signore eoo tanto utile delle anime , che ha ritornato nella via della salute tanti traviati, che perfino da pi del patibolo donde nn miserabile pendea per soddisfare alla terrena giustizia , colla rispettata c temuta sua voce ha santamente scosso la gran moltitudine degli aspettanti quivi concorsi ni tremendo spettacolo, non credo affatto che abbia potuto di rovescio balzare nellere- sia. Che ammirazione, che scandalo in tutta la Chiesa di Dio non ne vorrebbe, dato caso che ci fosse !! A questi tempi soprattutto, che altri chiama felici, cd io li chiamo infelicissimi per la quasi universale corruzion de costumi e delle massime morali  religiose, per le manifeste persecuzioni che si muovon alla vera fede, qua} rumore non menerebbe la caduta d un uomo la cui fama non basta solamente all Europa , tanto  smisurata! Ma ben mi ricorda in proposito i disastri incontrati da monsignor di Fnlon ; c l invidia mosse contro di lui aguzzando la lingua e accoccando gli strali, perch non polea sostenere tanta virt e tanta scienza. Ebbe il povcr uomo alcuni terribili mo- menti che il posero fieramente in battaglia , ma ne usc vittoriosamente. Furono mo- ti) Ila sentila parlare duaa nuova edizione di quest opuscolo , nella quale sarebbe lotto tutto ci ebe sera di pungente contro il (losmini. Digitized by Google 3 menti dalla Provvidenza eletti a depurare la sua virt. E pure tuttoch straziato, percos- so, avvilito per ingegno de malevoli, qual  oggi la sua fama? intera. Tutti ricono- scono nel Knlon I' uomo virtuosissimo ; le sue opere girano portate in varie lingue per tutta Europa, e sono avidamente lette, altamente pregiate. Solo le sue Maxime* de* Saint* trovnnsi registrate nell'ludice; ma si legga l' istoria, vedaosi le sue lettere di discolpa , e chiaro apparir non avere la santa Sede pronunziato contro di lui, se non perch posson correr pericolo d esser male interpretate ; e pi il potevano allora per il Fervore de suscitati partiti. Coraggio , signor Antonio ; chi sa che questo non sia un cimento donde abbia del pari a uscirne glorioso come quel degno Prelato? e meglio ancora, cio superar gli attacchi senza passar per la grave umiliazione da lui ottenuta?  Ecco intanto il perch le ho scritto. L'opuscolo in proposito essendo di recente stampato, non so  se pervenuto sia per anche nelle sue mani ; pi probabilmente s, e potrebb essere gliene Fosse fatto dall'Autore stesso il dilicato presente. Nel dubbio in ch'io andava ondeggiando, presi la determinazione divertirla: qualche amico me ne sconfortava; ma io era sempre li fitto col pensiero d e notte, non senza profonda puntura d ani- mo nello scorgere s malamente concio un uomo insigne, a coi mi professo d altra parte obbligatissimo.  Se colla gravezza del mio dire, o forse anche con inoppor- tuno divisamelo mi son fatto troppo ardito e increscevole, deh mcl perdoni! Se mi vedesse il cuore mi dispenserebbe al certo da ogni scusa. Perdoni altres qualunque frase o espressione men ponderata, perch ho scritto in fretta c a molte riprese dalle molte faccende che mi pongono giornalmente al torchio. Lucca, 23 aprile iS4-i. Devot. obbligai, servitore Paolo Ci. Can. Ukutolozii. e Digitized by Google Digitized by Google &X.SP@TA DELL" ABATE il O S M I V 1. Reverendissimo signor Canonico La sua cara lettera  un pegno di vera cristiana amicizia, uno di que pegni che non si dimenticano mai. Io ne la ringrazio con lotto il caore. L opuscolo di cui ella mi parla come messo in giro anche cost, ma da lei non veduto, neppur io potei aver- lo ancor nelle mani. Ne seppi lesistenza solo pochi giorni fa: una persona lo port alleminentissimo Cardinal Tadini, arcivescovo di Genova, il quale lo mostr ad un mio amico. Questi nand in traccia per Genova affine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti nc parlavano, ninno seppe dirgli dove fosse, donde lo potesse ave- re. Ho ragione di credere che una copia ne sia stala recata altres all arcivescovo di Torino, e ad altri prelati e magistrati. Tosto che mi verr fatto di procacciarmelo, po- tr dirle qualche cosa del coulenuto. Le posso per parlare Gu dora del pi im- portante. Il pi importante  la mia fede, che, come sento, si attacca. Io non pretendo gi di essere infallibile; ma goai se la fede cristiana dovesse riposare sullinfaliibili- l dell'uomo ! Essa riposa tutta sull'autorit di Dio rivelante, il quale ci fa conosce- re la verit per mezzo delia santa Chiesa. Sa questa autorit la mia fede, come quel- la di ogni altro fedele,  basata : ella  dunque indipendente al tutto dal ragionamen- to, ed io non ho mai fatto de miei ragionamenti ( Dio me ne guardi! ) il sostegno e lappoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa da questa diver- sa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso qoel ragionamento che fosse anco me- nomamente opposto all'autorit delia Chiesa; cos, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che seuza accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso 3 uest infallibile autorit, ci proverebbe bens in me dellignoranza e della fallacil i giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono gi nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, n mai a questo fu- mo ho rivolto le povere mie fatiche ; ma sono nato bens per esser credente, e fallo degno delle promesse di Grato, qual Ggliuolo devoto della sua chiesa. Da questo el- la conoscer, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che ella mi dice avermi per 1 addietro acquistala, e che Tesser io convinto digno- ranza non  quel che mi pesa. Il mio tesoro  la santa Fede e qui  anco il mio cuo- re. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la santa Sede Apostolica mia maestra e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il far qualsivoglia pubblica dichiarazione che rendesse la mia intemera- ta credenza pi luminosa, giacch tutto ci che io avessi detto contro questa credenza T avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi, non farei altro che esprimere quel pensiero immutabile che io mebbi sempre fermamente nel Digitized by Google G cuore, e solo correggerne l'espressione esterna manchevole a renderne con esattezza quell intimo mio pensiero, voglio dire la mia piena fede. Che anzi le dir di pi. A chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio, io professai sempre gratitudine, come vo- leva il dovere, n alcuna difficolt sentii mai a correggerlo, per amore di quella ve- rit che sola voglio ed amo in tutte le cose mie: e se questo feci e fo nelle cose pi indifferenti, come noi farei io in od ponto si capitale com' quello della mia Religio- ne ? dove, oltre l'ffendere la verit c nuocere allanima mia, mesporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa bo io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertir io stesso? e ad oc- chi aperti ? Iddio noi permetter mai, io ne ho tutta, e in lai solo la fiducia: in lui che minfuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni del- la santa Sede Apostolica; in Ini che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d esser caduto iu un involontario errore, purch senzaltrui danno, per potergliene rendere una confessione pi alta e solenne. Ma questo involontario errore ci sar egli dunque nelle vostre opere ? ella mi domanda.  Le rispondo con s. Paolo : AVA/ mi hi conscius sum, sed non in hoc justificalus sum.  Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Ciansenio, di Calvino e di Lutero ! Il solo sentir questi nomi mette, a dir vero, rac- capriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d eresia, so- no state condannate giustamente dalla Chiesa : io le ho sempre condannate e dete- state insieme con essa ; e com egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia essere aneli io un tralcio reciso dalla vite, buono da pittarsi solo sul fuoco? Dio mio! 1 udir questo  certo una grande umiliazione.  Le bolle de sommi PonteGci, che condannarono il giansenismo in tolte le sue diverse gradazioni, sono certamente sot- to i miei occhi ; e pure io non veggo che n no solo de sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel Trattato della Coscienza che, come credo, si prende specialmente di mira, s approssimi ai sentimenti condannati di qne novatori. Che anzi pi volte io citai le proposizioni condannate in essi, affin di mostrare qual sia la strada perversa io cui quelli eransi incamminati, e qual sia perci la contraria che noi dobbiamo percorrere ; pi volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intor- no a ci il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse ? qual progetto ci cova nascosto ? Vuol ella che le dica in Gne di pi ancora ? Vuol ella che le apra tolta l intima mia persuasione ? Vuol che le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente pre- vede dover avvenire da quest aggressione alle spalle che or mi si fa ? Mascolti beni- gnamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza c il testimonio interiore dellanimo depone in me stesso, ed a lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo che secretamcnle si sparge, sar stalo mosso da buon zelo per la purit della fede; ma egli  probabile assai che siasi grandemente riscal- data la lesta, e che mal pratico delle dottrine filosofiche; e dello stile rigoroso, che io stimai bene d adoperare nel Trattato della Coscienza come nelle altre mie opere, per ridurre le quistioni complicale a' loro semplici principi, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli  facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qual- che periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio ; come  facile comporre un centone di passi, che dicano tutti insieme precisamente l opposto di ci che volle dire 1 autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si pu be- nissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perci ? Certo che dee nascerne neces- sariamente da nna tal frode qualche susurro per ogni canto, massime che ci sono anche assai di quelli a cui bucinano da s gli orecchi. Questo dee portare di consc- guente una costernazione ne buoni, un gaudio ne tristi, un colai sospetto nella mol- titudine che non pu giudicare in merito, de partiti ardenti, uno scatenarsi delle paa- 7 sioni ; ci appunto che voleva l inimicus homo , qui superseminaoit zizania- Io ne addoloro pel ben comune : per veder quelli che doveano essere meco uniti , cosi di- vidersi. Ma iuGne ? Se si tratta di mere calunnie, bench sottili e potenti le temer io ? Eh ! non vive egli Iddio ? Non regna egli Cristo ? Non vede i cuori ? non cono- sce egli i suoi servi ? Non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa ? Che c  a temere? Gli dar io cagione di dirmi : Modicae /idei, attore dubitasti ? No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario ? Il Pa- pa non  egli assistito e condotto dallo Spirito santo ? I giudizi della santa Sede han- no forse niente di comune coi giudizi precipitosi c riscaldati di alcnni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scienliam ? Ecco dunque ci che avverr. La san- ta Sede tutto esaminer colla sua solita posatezza, imparzialit, prudenza e sapienza; ella andr al fondo della cosa e giudicher con piena cognizione di oausa.il suo giu- dizio  stato sempre la mia regola, sar tale ancora. Io amer egualmente una re- gola si cara, s dolce, s certa, s sicura , qualunque ella sia, qualunque cosa ella prescriva o a seconda o contro della mia persuasione. La quale per non le voglio lacere qual sia. Sio nulla veggo, la santa Sede, giudicando sane le mie dottrine, le render pi utili ai miei prossimi, pe' quali io le scrissi, confidato di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; di pi, accrescendosi, mediante questa contro- versia, lo studio ai esse, si verr a conoscere che vi si contengono degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Bajo, Quesnello, ed altri sopra nominati ; e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma ella ritenga sempre, che questa mia persuasione, dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggiera delle materie ne' miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede, la quale  semplice, e in altro non fondasi affatto che in Dio, e nella santa sua Chiesa. Sono coi sentimenti di sincerissima stima e grata riconoscenza suo Slresa, 28 aprile i84i- V utilissimo e obbligatissimo serto A. Rosmini-Serbati Pi epos lo Cenante dell' Istillilo della Cari l. Digitized by Google Digitized by Google RISPOSTA AL FINTO sosaa-is sasssa&st Et ne aufertu de or me o vertuta venienti usguequague. fa. CXVUt. 1. L^t nomo che impose a s slesso il nome di Eusebio Cristiano, che Tiene a dire on Cristiano pio e religioso, pubblic alla macchia un virulento opuscolo contro di me, il qnal da prima in varie citt dItalia segretamente fu sparso, e a poche e certe persone confidato : di che uscitone il rumore, parlandone tutti, rari erano tut- tavia quelli che letto o veduto lavessero : di poi, resosi pi comune, anche alle mie mani pervenne ( 1 ). Non avrei obbligazione di rispondere, n risponderei certamente, se I* incognito autore avesse combattute delle mie opihioni indifferenti ; attesoch le sopraccresrenti mie occupazioni mi tolgano il tempo e le forze da entrare in discus- sione con quelli che di loro osservazioni m onorano. Ma non  una placida discus- sione a cui m' inviti Eusebio Cristiano : anzi volgendo a me, come a reo convinto, uno sguardo severo, m intima la capitale sentenza, e colla maggiore solennit an- nunzia al pubblico che io ho travialo ( 2 ), e fa sapere a tutti eh egli ha finalmente scoperto il tsco delle mie dottrine mortifere (3), c scrive solo acciocch i suoi na- zionali noi succino : queste mortifere dottrine mie esser colali che convengono a ca- pello con quelle orribili di Calvino, di Lutero, di Giansenio, di Molinos, ai Baio, di Quesnello, e se altri vi sono nomi pi esecrati nella Chiesa ! In fine per, sfogatosi, fa voti al cielo perch io conosca gli umani miei errori, e la radice funesta d'onde son pullulati (4) , per la quale radice pare che egli voglia intendere la mia super- bia, che egli vede naturalmente nel mio coore cogli occhi suoi ; continuando per a credere, come dice, che il signor Rosmini abbia erralo senza delitto di sua vo- lont (5), e che parli con verit quando fa la bella protesta c di voler mantenere i . (2) R. Ad. HI, face. 13, nella noia. (3) Nella citazione che Eusebio fa d questo passo  corso un errar* di stampa indican- dosi malamente il capo, c non il libro ( che i il prioto, cap. XV ) dlie Ritrattazioni del Dot- toro di Ippona : il che dimostra che degli errori occorrono a tutti i lipograli, e che egli  ben piccolo il vantaggio che si argomenta di cavare ( face. 5 del libello nella nota ) dall essere sta- to stampato morale in vece di mortale io un luogo del Trattato della Coscienza. Le parole dt a. Tom mas;, nelle quii cadj q iella parola malamente stampala, sono subito dopo riportate i.u Digitized by Google 14 Eusebio vuole, senza che egli se u accorga; dimostra oio che la parola peccato non sempre significa, secondo sani' Agostino, una vera colpa da cui sia libero alla per- sona il guardarsi, ma significa ci solamente quando trattasi di que peccati che sono meramente peccali, e non quando trattasi di quelli che, oltre esser peccati, sono an- che pena de peccati, come egli  appunto il peccato originale. Ecco il passo apertis- simo : Definitili peccati qua diximus , Peccala r n est volutila retinendi vet con- sequendi quod justilia velai et unde liberum est abstinere, proptkrea vera est , quia iti definilum est quod tan tum modo peccatesi est, non quod etum poeua peccati (i). Laonde per sant' Agostino non ogni peccato  tale unde li- berum sii abstinere , ma ve n ha di quelli unde liberum non est abstine- re , qual  appunto l originale , il quale est peccatum et etiam poena pec- cali. Se dunque non ogni peccalo  tale che in s racchiuda la libert propria della persona a cui aderisce , e della qual sola sempre si parl e si parla ; quando non vogliasi cavillar vanamente, conviene pur dire che chi dee definire il peccalo nel suo genere e non nelle sue specie , chi lo dee definire in questo suo ge- nerai significato, e non in quello in cui si usa a significare la specie delle colpe, con- verr che escluda dalla definizione del peccato la libert della persona a cui esso pec- cato aderisce. Maravigliosa cosa  il vedere come un uomo che con tanta franchezza interpretando Scritture e Padri fulmina anatemi a chi non gli acconsente, come fa il nostro Eusebio, non abbia saputo intendere un pas-o cosi chiaro e cos palmare di sant Agostino chegli stesso produce! e in quella vece abb a potuto sentenziare uni- versalmente cos  dunque secondo santo Agostino,  dottrina della fede cattolica comprendersi ne! concetto di peccato ( senza distinguere i significati diversi della parola) il concetto di libert e di colpa ! La qual maraviglia dee accrescersi tuttavia, se si considera, che quello che os- servammo circa il terzo de' passi di sant Agostino citati da Kuseh o nella nota alla faccia i3 e i4, vale egualmente pe due primi; i quali non sono che quella stessa definizione, chegli poi nelle sue Ritrattazioni , onde  estratto il terzo passo, dichiara esser vera non gi per ogni peccato, ma solo per quella specie di peccati i quali sono meri peccati e non anco pene di peccati. Il quarto passo finalmente del dottore d Ippona, lungi dall esser contrario alla dottrina da me esposta, la conferma espressamente; perocch ivi si ammette un pec- cato (loriginale) il quale aderisce a persone che non l'hanno liberamente commesso, e che perci in queste persone considerate da s sole non  colpa, la quale ritrovar non si pu se non riccorrendo ad Adamo autore libero d quello; il che  appunto quanto io volli dimostrare ( 2 ), A che dunque si riducono le autorit citate con s magistral sicurezza di sant Agostino? IV. Egli  chiaro, che chi vuol definire iid genere % non dee far enlrare nella definizione le differenze che cosliluiscono le specie. Perci se vuol darsi una defini- zione del peccato in genere, si fallnmenle che abbracci le due specie di peccati', lori- ginale' e fai Ina le, converr non fare enlrare in essa la libera volont di colui a cui il peccato aderisce; converr anzi che essa abbracci tanto quel peccato unde liberum latino, e in esse trovasi stampato mortale o non morale ; le stesse parole sono anco da me tra- dotte in italiaoo, e Della traduzione legges stampato mortale o non morale. Ma tutto ci si ta- ce. e con questa buona fede procedendo, non si manca di . avvertire il lettore che potrebbe be- nissimo essersi commesso queliYrror di stampa con frode. E poi falso che scrivendosi ue| te- sto la parola mortale in luogo della parola morale , esso non avrebbe nulla provato al propo- sito , perocch non volendosi ivi provar da ma se non che la colpa non si d senza I uso del libero arbitrio, riesce del tutto indifferente quella parola. titanio poi allo sbaglio occorsomi d'avere acrillo cu/pam in vece di peccatum nc parler pi sotto. (1) Rettaci. !, c. XV. (2) Li mia questione era qucsla : c Se si possa dare nell' uomo uno slato di peccalo non imputabile a colpa ni loi stesso i ( Veti, il Trattalo delta Coscienza, face. 33 Digitized by Googh 15 est abslinere , secondo la maniera di parlare di sant Agostino, quanto quello unite liba um non est abslinere. Onde quella definizione generica che abbracci entrambi quelle specie di peccali, dovr prendersi da ci che il peccato originale e il peccalo attuale hanno di comune, il che  I' avversione da Dio, e non da ci che 1' attuale ha di proprio, che  la libert. Perocch il proprio del peccato attuate si  il potere che I* uomo ha d evitarlo, quando rispetto all originale la cosa non va cosi e per non  libero. Ond io dissi, che i nella nozione di peccalo in genere che ci d la  Scrittura e la Chiesa, non entra l'elemento della libert, ma bens quello della vo- ti lont . In qual maniera entri l'elemento della volont nel peccalo in genere, lo ve- dremo pi sotto, dove dimostreremo che la volont dell'uomo pel peccato originale trovasi da Dio avversa, indebolita, ed al male inclinata. Intanto quelle mie parole misero in sulle furie il nostro Eusebio, il quale grida:  I testi delle sacre Scritture,  sui quali il signor Rosmini fonda la presente osservazione, alludono tutti al peccato  originale, che non  gi il peccalo in genere, iua una specie di peccato parlicoln-  re  (i). Verissimo che i testi da me addotti alludono al peccato originale: verissimo che il peccato originale  una specie di peccalo, e non il peccato in genere;  forse per questo, che quei testi non dimostrino qual sia la nozione del peccalo in genere che ci danno le Scritture ed i Padri ? Anzi, appunto perch il genere abbraccia tutte le specie, esso dee abbracciare anche quella del peccalo originale linde libertini non est abitinere, come le Scritture e le sanzioni della Chiesa ce lo descrivono; e per dalla definizione del peccalo in genere dee escludersi quella libert onde l'uomo pu evitare il peccato; perocch questa non  che la differenza specifica del peccato at- tuale. Ecco come un po di logica avrebbe risparmialo al nostro Dottore quello sfogo dira irreligiosa che egli manifesta Delle pagine a coi noi rispondiamo, e quei sospetti ingiuriosi di cui avvelena ionvvedutamenle le note apposte appi delle medesime ( 2 ). V. Ma per darci Eusebio un'altra prova irrefragabile deila sicurezza sua ndl'lu- lenderc ed inlerpretare gli ecclesiaslici autori, dopo aver egli detto t essere indubitato  fra* sacri Dottori che neppure nelloriginale delitto non si fa dalla Chiesa distinzione  di sorta Ira colpa e peccalo 1 , reca a provarlo due testi de sauti Tommaso ed Ago- stino, i qnali quando calzino bene al suo assunto si potr vedere da questo. Luno  il passo di s. Tommaso, peccatuin essentialiter consistit in actu liberi arbitrii.W quale n contiene la definizione del peccato originale, n quella del peccalo in genere, mu so- lamente quella del peccato attuale, come ognuno pu scorgere sol che l'esamini nella I. II, Q. LXXVU, art. vi, dove il santo dottore cerca ulrum peccatimi al/evietur propler passioner , e per manifestameole parla de soli peccati allnali (3), a quali  certamente essenziale il libero arbitrio, 0 , come dice sant Agostino, unde libertini est abslinere. Se poi abbia recato pi a proposito laltro testo di saut Agostino mede- simo, basta a vederlo il considerare che quel testo non  se non la slessa definizione del peccato sovraccennala (Aon esse peccatimi nisi provimi libcrae voluntatis as- ii) H. AflT. VII, foce. 29. (2) Fce. 2-30. (3; E per,  4 I 1 vero colpe. Laonde io non avevo ragione alcuna da importarmi, che a. Tom- maso in quel testo scrivesse pi loslo percatum che dica ', giacch usandosi spessissimo pec- catum per culpa , come ho gi detto, e come io stesso lo, quel testo prova egualmente ci che 10 volevo con oso provare, cio ha colpa non si di senta libero arbitrio. Vero i che nel Trattato della Coscienza, face, -li, fu stampalo per isbaglio culparn in ecco di peccatum ; ed Eusebio Cristiano mi fa lonore di stimarmi capace tin di alterare i testi de santi Dottori ( e conseguentemente degno del bollo do falsari ) per provar con essi le mie opinioni, a cui cosi cercherei, a dir v e ro, un sotido appoggio ! 1 aosi non cootento di mostrare di me s bassa opi- nione, giudica con sorprendente temerit clic quello sbaglio assolutamente non pu esser colpa del tipografo ma si dello scrittore ( face. 5, nella nota ) Do trattar cosi vite e scortese si suol rinvenire ben di rado negli scrittori di questo secolo , eziandio che non sieoo n Eueebii , n Cristiani. Che anzi nelle discussioni loro, sogliono assai sposso dimostrare urbanit c stima scam- bievole, siccome  dovere d ogni costumata persona. ized by Google 16 aensum: eum inelinamur ad ea qtiae jusitia velai , et un de libere si est arsti- nere), definizione che esso sani A postino ne suoi libri delle Ililraltiftioni restringe, dichiarando non esser vera se non applicata a peccati che sono meramente peccali, c non ancora pena di peccati, com' appunto loriginale : propterea vera est, ripetiamo le sue parole, quia id defi ni tu tt est quod t anturi modo peccatesi est , non quod est etiah poena peccati. E pure Eusebio, compiacendosi di aver trovato de' testi cos concludenti contro di me, non dubita di affermare, che un solo di essi atterra e distrugge la strana dottrina del nostro autore ! ( i ). VI. Ma andiamo aranti, seguitando a vedere quanto alla cattedratica franchezza di Eusebio, risponda di quella perizia eh egli pur millanta nell intendere gli ecclesia- stici autori. Spicca veramente nna franchezza maravigliosa in que' suoi modi di parlare asso- luto co quali me intende onorare:  Si comprova evidentemente bugiarda chi afferma, che l'Angelico nelle cose  morali faccia distinzione tra la voce peccato e quella di colpa > ( 2 ).  E falso che l'Aquinate distingua nelle cose morali tra peccalo e colpa  (3). Io avevo detto che s Tommaso distingue fra il concetto ( ratio ) di peccato e quello di colpa (4), e mi ero fondalo su queste proprie parole dell'Angelico, che sono tanto chiare che noi possono esser pi, ben inteso, a chi sa latino: Sicut malum est in ptrs guata peecatum , ita peecatum est in plfs quatti culpa. Ex hoc enim dicitur actus culpabilis , tei lauda bilie , quod impulalur agenti : nihil enim est alitid lauda- ri vel culpari, guam imputaci alieni maliliam tei bonilalem sui actus. 'fune enim actus impuiatur agenti , quando est in palesiate ipsius ita quod habeal dominium sui actus: hoc autem est in omnibus aclious volunlariis (liberi, come s intende da quel che segue). Quia per votuntatem homo dominium sui actus habel. Il che viene a dire, che il concetto di male  pi generale del cornetto di peccato, e il concetto di peccato  pi generale del concetto di colpa , e per sono concetti diversi: viene a dire ancora, che  incolpare significa riputare altrui la malizia 0 la bont del suo  atto ; onde vi dee essere ci che costituisce prima lalto malizioso, acciocch poi questo si reputi a colpa del suo autore: ci che costituisce latto malizioso precede adunque di necessit, nell ordine de concetti de quali parliamo, ['attribuzione di colpevole che indi ne riceve il suo autore: questattribuzione succede eome conseguen- za dell'alto reo. qualora il suo autore sia libero; onde in ogni colpa vi ha peccalo, perch la colpa non  che l' imputazione del peccato ; e perci il santo Dottore dice, quod libitum vel malum in solis actibus volunlariis (liberis) constituil ralionem lau- di s vel culpae; in quibus idem est reatum, peecatum et culpa ; come dissi appunto (1) R. Air. VII, race. 29 ( 2 ) II. Aff I, face. 9. (3) R. Aff. Il, face. Il, Ecco le parole che ro ottennero da Ensrbto il titolo di bugiardo eoo tolto il resto : c Di qui nasce la disi azione clic trova di dover fare s. Tommaso fra il ctocbtto di peccato c e quello di colpo. Il santo Dottore fa consistere il concetto di peccato in un atto della vo-  (face. 6). Or se confessate che 1 Ange- lico distingue questi concetti, perch poi dite ora che egli ( esclude adatto la distinzione apposta- gli Ira colpa e peccato > ? Distingue, ma non distingue : che parlare  cotesto vostro ? N con- fondete, maestro mio, pi questioni insieme : qui trattali di saper solo se s. Tommaso distingua  concetti di male, peccalo e colpa : pi follo poi tratteremo anche 1* altra questione, se diasi in fatti uno stato di peccalo che non sia anco stato di colpa : questa  questione totalmente dalla prima diversa. A torto poi chiamate la distinsion de' concetti una cosa grammaticale : la gram- matica non c entra qui per nulla : ella  proprio una dislinzioo logica, sebbeu si pentito daver dotto il valor logico , a cui sostituite il valor letterale ( Vedi in fine al libello d Eusebio la suo corresiuni), che non ba nulla a faro colla monte del santo Dottore : quella gran meDte so- leva bens distinguere i concetti accuratamente: ecco ci eh' egli fece,  che noi a lui devoti vogitam mantenere. iioSMINi Vol. XII. 428 18 essere pi incolpabile di un altro , e che quindi la colpabilit dee distingnersi dal peccalo che riceve l' incolpazione, perch quello pu esser lo stesso, e questa varia- re. Nella risposta poi il santo Dottore dice cos, soda bene : In peccato aditali duo possumtts considerare , scilicel ipsam substantiam actus, et r.atioseji culpae. Dunque, secondo s. Tommaso, la ragione della colpa non  la stessa sostanza del- l'atto disordinato, clic peccato si dice. E prosegue : Ex parte quidern subslantiae actus palesi peccatici aditale aliquem defediti n corporalem causare sicul ex su- perfluo cibo aliqui infirmantur et moriunlwr: ecco qua un effetto prodotto dal pec- cato non nella sua qualit di colpa, ma semplicemente nella sua qualit di peccato , di disordine reale. Seri ex parte colpak, seguita a dire, privai gratta, guae datar homini ad reclifcandum animae actus : ecco un altro effetto del peccalo in quanta egli  colpa, non in quanto egli  un atto sostanzialmente disordinato. La nozione ndunqne di peccato  manifestamente diversa dalla nozione di colpa, secondo 1 an- gelico ; e senza nna tale distinzione importante, molte dottrine teologiche si rende- rebbero inintelligibili. Vili. Ma Eusebio, fermo tuttavia nel suo assunto, si volta da unaltra parte : d di piglio ad allr arme.  Affinch, non ti sembri indifferente cosa, egli dice, il  sostenere, che nel concetto di peccato non si comprenda la colpa c la libert ;  rammenta essere dalla Chiesa dannala la proposizioue 46 di Baio che difendeva  una simile sentenza : /td rationem et deftnilionem peccati non perline I volunta- c rium, nec definitionis quaestio est, sed causae et originis , utrum orane peccatum  debeat esse voluntarium  fi). Rispondo, che io condanno questa e tutte laltre proposizioni condannate di Baio, come le ha condannate la Chiesa, e altrettanto quanto le condanna il Signor Euse- bio ; ma essa proposizione non fa menomamente al coso nostro, perocch la medesi- ma non paria che di quella specie di peccali che sono vere colpe, i quali esigono si- curamente la libert: parla di que peccati linde liberum est abstinere, e non di quel- li uiulc, essendo anco poena peccati, liberum non est abstinere. Certo poi che anco i peccali venienti alluomo in pena di altri peccati come sarebbe l'originate, hanno avuto nn principio libero nel primo padre; ma non cos in colui a cui vengono comu- nicati, e a cui aderiscono, giacch neU'oomo che nasce vi ha il peccato bens inter- no, proprio, aderente, quod mors est animae, e tuttavia manca la libert. Ora la proposizione da me proposta, e dal signor Eusebio nascosta, non fu, per dirlo di nuo- vo,  se si possa dare nell uomo uno stalo di peccato non imputabile a colpa j ; ma fu bens,  se si possa dare nell'uomo uno stato di peccato non imputabile a colpa di lui stesso  ( 2 ) proposizione grandemente diversa dallaltra, giacch ('articolo di cui questa  il titolo nel mio libro, tende benissimo a dimostrare che il peccalo ori- ginale viene imputato a colpa del primo padre, e che perci in causa fu libero. Che se si volesse prendere la parola voluntarium , usata nella proposizione di Baio, per quel che suona, cio per volontario semplicemente, per volontario in genere; or do- ve trover mai il nostro Eusebio, che noi abbiamo detto un cosi grosso errore, qua- le sarebbe quello, che dar si potesse peccalo dove nulla vavesse di volontario, quan- do anzi il peccalo  per noi, come sompre diciamo, una stortura della volont? pi tosto potremmo ben noi ritorcere, ed il faremo pi estesamente di sullo, quella pro- posizione condannata contro di lui medesimo. Noi dicemmo solamente, che si pu riconoscere un peccato nel suo generico signileato, e non nel significalo speciale di colpa nel quale lo prendea Baio, anche prescindendo non dalla volont della perso- na a cui esso peccalo aderisce, ma s hene dalla attuale libert di questa medesima persona; dicemmo adunque con ci, che voluntarium , pcrlinct ad rationem et defi- tti K. AIT. t, face. 'J, nula. ; !) Trattalo ih. Ha Coscienza, face. 3 j. Digitized by Google 19 nitioncm peccali, e che questa questione, se il volontario appartenga al concetto ed alla (leGnizione di peccato, non est quaestio causac et originis ; il volontario cio co- stituisce propriamente il peccato, e non solamente la causa e lorigine del peccalo; c questo il signor Eusebio col nega. Laonde quella proposizione condannata di Baio, presa in questo senso, proverebbe e suggellerebbe la mia dottrina dal signor Eusebio impugnata; dottrina che si far ancor pi chiara sciogliendo 1 uno dopo laltro i sofismi tutti eh' egli le contrappone, e dimostrando quanto necessaria sia la distinzio- ne fatta da s. Tommaso e da tutta ('ecclesiastica tradizione fra il concetto di peccato e quello di colpa, ad esporre la genuina dottrina cattolica intorno al peccato origi- nale, coma tosto prendiamo a fare. Digitized by Google Digitized by Google QUESTIONE II. SE Si POSSA DARE NELL UOMO UNO STATO DI PECCATO NON IMPUTABILE A COLPA DI LUI STESSO. IX.S^on queste precise parole io proposi la questione nel Trattalo della Coscten- xa, dove oe ho anco definito accuratamente lo slato (t). Tutto ci Eusebio Cristiano dissimula: contentandosi solo di riferire e riprendere acremente queste mie parole come contenenti di gravi errori :  Secondo la dottrina cattolica, pu esser nell uomo c vi  uno stato difettoso  della volont, che in s ha la nozione di peccato e non quella di colpa i . La quale affermazione non feci io gratuitamente; anzi a provarla, oltre a vari altri argomenti che il nostro Eusebio lascia d 1 un canto, io adoperai altresi lesempio del peccato dorigine, il qoale non pu chiamarsi certamente colpa se non in rela- zione alla libera volont del primo parente che lo commise, di maniera che la que- stione da me proposta e risoluta affermativamente ,  se si possa dare nellaomo uno stato di peccato non imputabile a colpa di Ini stesso  , chi ben la considera ,  iden- tica a quellaltra,  se si possa dare il peccato originale . Ma il signor Eusebio, che ha una special sua dottrina intorno a questo peccato, lo nega, e dice in quella vece, che  il peccato originale, se si consideri solo nell uomo che ne partecipa, e si astrag- * ga dalla volont libera dell nomo primo che ne fu l autore, secondo s. Tommaso  non ammette in s neppure la nozione di peccato a ( 2 ) in genere, cio per con- trapposizione alla nozione di colpa. Non posso io a meno di far qui una osservazione sulle ree intenzioni che Euse- bio si piace di supporre in me, pel distinguer eh io feci i due concetti di peccato e di colpa (3). Nino calore io posi a sostenere quella distinzione : la proposi come cosa dell'Angelico. Egli ne infuria: ci vede tutti gli errori. A che un tanto zelo? Ve lo dir; quella distinzione  fatale al sistema da lui abbracciato intorno allorigi- nale peccato. E se questo suo sistema fosse erroneo? oh, non sarebbegli allora ve- rissimo che tutto l impegno eh egli dimostra di scancellare dalla Somma dell Aqui- nate la distinzione di peccato e di colpa, avrebbe in lui qoel perch appunto, che cos malignamente vuol sospettar in me ? Ora se il sno sistema intorno al peccato d ori- gine sia tanto cattolico quanf egli vanta, noi lo vedremo : procediamo gradatamente, cominciando dal dimostrare , come , secondo 1 Angelico, abbia il peccato dorigine in s la nozione di peccalo , e relativamente ad Adamo , suo libero autore , anche quella di colpa ; e come perci non sia punto vero quanto afferma Eusebio, che luna e l altra nozione consista nella semplice relazion con Adamo. (1) Face. 35 e segg. (2) R. AIT. face. io. (3) Egli cori ii esprime : c Si penserebbe, essersi posto prima cotanto studio in voler distia- ( guere fallacemente urite morali azioni fra il concetto di colpa e  (R. Aff. XI, face. 43). Digitized by Google 22 X. Intanto dall' accennata distinzione di s. Tommaso fra il concetto di pec- cato e il concetto di colpa, risulta, per dirlo di nuovo, che il peccalo ( preso sem- pre come genere , e non come specie )  qualche cosa che essenzialmente sta ine- rente alt uomo ,  un disordine morale esistente nell uomo, una sua stortura, unae- versione da Dio (i) , una deviazione dalt ordine di ragione ( 2 ): laonde non pu darsi un peccato pro/rrio dell' uomo, se a lui non islia inerente quel disordine che ne forma 1 essenza. Cosi , a ragion d' esempio , il peccato originale non potrebbe esser proprio del bambino che nasce , come ha dcGnito il Concilio di Trento (3), se non fosse inerente al bambino quel disordine che forma appunto 1 essenza del peccato. All' incontro la colpa consiste in nna relazione fra il disordine inerente all'uomo e formante 1 essenza del peccato, e il principio libero che lo produsse e a cui s' im- puta. Laonde questo principio libero, causa del peccato e a cui simputa il peccalo ( per la quale imputazione il -peccalo diventa una colpa), non  necessario che sia sempre nella persona stessa a cui il peccato aderisce, potendo anzi esistere in altra persona: come pure non  necessario che si trovi in quella per tutto il tempo durante il quale a lei aderisce il disordine costituente il peccato, potendo essere che nella per- sona peccatrice continui il peccato, e cessi tuttavia la sua libert. Cos, nel caso del peccato originale, il principio libero, causa di esso, non trovasi nel bambino che na- sce infetto da quel peccalo, ma sta collocato in un' altra persona, cio in Adamo ebe liberamente il commise, e perci solamente in relazione alla volont di Adamo il pec- cato originale dicesi colpa. Perci giustamente fu condannata la proposizione 47 di Baio, Peccalum originis vere habet ralionem peccali, sine ulta raiione ac respectu ad voluntalem a gua originer habuit, perch Baio parlava del peccato in senso di colpa, non nel senso generico delia parola che abbiamo di sopra spiegato ; e fa ben maraviglia, come, avendo io stesso proscritta e condannata questa proposizione nel 'franalo della Coscienza a face. 4z, 43 ( e non 55-36, come per errore di stampa dice il mio correttore (4) ) , il signor Eusebio tuttavia osi dire di io parlo il lin- guaggio di r/ueir eretico (5)! Laonde i teologi pi insigni (bench ignoti come sembra, al signor Eusebio), conoscendo a pieno la necessit di distinguere nella originale infezione ci che la costituisce un peccato, da ci che la costituisce una colpa che  limputazione, tratta- rono di questi due punti in separato, considerando prima la macchia originale nella sua qualit di peccato, e poscia rispetto alla sua imputazione a colpa; c valgami per tutti il celebre Nicol Lirano, il quale, nel suo Commento sull epistola di san Paolo ni domani, enumerando i capi a cui si pu ridurre la dottrina cattolica intorno al peccato originale, dice cosi : Primum est quid sii originale peccalum.-  Secundum (1) Defechi  peccati consistit in aversione a Deo. S. !I. II, XXXIV, 11 . (2) Jtlenditur per deviationem ab ordine ralionis ad Jinem communem humanae vilae. S. I. Il, XXI, ir. (3) Si qui t hoc Adae peccalum, quod origine unum est , et propagatone , non imitai ione transfusum omnibus ini sr raicniQni rsopaicx , eie. Sess. V. (4) 11. AIT. 11. face. 2. Chi potesse malignare potrebbe credere che, citando erroneamente qui o in altri luoghi il mio libro, volesse il sigoor Eusebio imbrogliare i lettori, impedendo loro di andare a vedere in fonte le mie parole. Afa non voglio io imitarlo certamente in tali piccoleiic, ma sol mostrargli che anchegli ita bisogno di quella indulgenza che nega a noi con tanta fierezza. (5) Ivi, nella nota.  I.a proposizione di Bajo  erronea anco sotto un altro aspetto, cio purch ella nega che la macchia originale sia peccalo in senso stretto, cio colpa ( vere habet ralionem peccali), prescindendo affano dalla volont di Adamo ( sine ulta rottone ac respectu ad voluntalem a qua origine m habuit ). Ora il voler torre olfatto ogni relazione con Adamo,  un rendere inesplicabile l esistenza del peccato ne discendenti ; e perocch questo peccato nei discendenti procede, come da sua causo, dal peccato adamitico, il togliere dalleffetto ogni rela- zione colla causa,  un rendere lctTcto impossibile, c per conscguente un togliere lo stesso effet- to. Ma nulla ha da far ci colla questione che noi trattiamo. Noi nen prescindiamo da qualunque relazione del peccato de discendenti colla volont di Adamo. perch anzi nc riconosciamo da quel- la la propagazione. Dlgitized by Googl 23 est r/uomodo peccatum Adae posteria imputatur (i). E in fatti prima egli parla del porcaio d'origine, c poscia dell' imputazione del medesimo a colpa. Ma veniamo a S. Tommaso. XI. A provare che s. Tommaso insegna che il peccato originale non  colpa se non in relazione al principio libero che lo produsse, cio ad Adamo, io addussi lart. i della Q. LXXXI della I. II, della Somma, nel quale il santo Dottore cerca se il peccato del primo padre si traduca per generazione ne posteri ( ulrum primum pec- catimi primi parcntis traducalur per originem in posteros)', e la difficolt che egli trova da superare a dimostrar che traducesi, consiste tutta nello spiegare come quel peccato ne posteri abbia ragion di colpa. Perocch egli dice : Dato quod aligui dcjectns corporale s a parente transeant in prolem per originem , et etiam ali qui defectus ANI MAE ex conseguenti propter corporis indispositionem ( sicut inter- dum ex faluis fatui gencrantur), /amen hoc ipsum quod est ex origine aliquem depectu m habere, cidetur escludere rationem culpae, de cujus ralione est, quod sit voluntaria (libera). Unde etiam posilo, quod anima rationalis traducere- tur, ex hoc ipso quod infectio animar prolis non essel in ejtis voltoliate (nella sua libera volont, come spiega altrove ( 2 ), amitterel rationem culpae obligan- tis ad poenam : quia, ut Philosophus dici! in 111. Eth., nullus improperabit caeco nato, sed magie miserebilur. Il che viene a dire : c a spiegare coin per la generazione trapassino i dfetti corporali ed anche l infezione dellanima, non  gran fatto difficile; ma il difficile sta a spiegare come questa infezione dell anima possa imputarsi a colpa obbligante a pena nel generato 1 . Ecco la difficolt. Non  qui la distinzione fra il peccato (in un senso generico) e la colpa? Ira ci che sirn- pula, e l'imputazione stessa? Che cosa  che s' imputa a colpa net generato? Il pec- cato, che Et inest proprium, come dice il Concilio di Trentoi I infectio ani- mae (3), come dice s. Tommaso. Dunque l infectio animae, il peccato,  cosa che sta inerente all'auima del bambino,  una cosa propria del bambino che nasce. non  il peccato di Adamo inerente ad Adamo. Ma questo peccalo, questa infezione dell'ani- ma del bambino, non ha il principio libero che lo produsse nel bambino, ma fuori del bambino, in un altra persona, cio in Adamo primo padre. Dunque il peccato pro- prio del bambino  inerente al bambino, considerato in relazione col principio libero di Adamo suo padre, riceve il nome di colpa, cio viene imputato ad Adamo, pec- catore attuale e libero, e viene castigato Adamo; ma essendo Adamo capo e padre della nmnna stirpe, il castigo di Adamo ridonda in questa, e si dioe anche questa colpevole insieme con lui, perch unita e formante una cosa stessa con lui suo primo padre. Laonde s. Tommaso usa due similitudini a spiegare non il peccalo, coin peccalo in senso generico, ma l imputazione del peccato ( che  il medesimo che la colpa) : I una (ulta dalle leggi civili, che considerano gli uomini di una comunit come un corpo solo : Omncs homincs qui nascunlur ex Adam, possimi considcrari ut iinus homo, impiantimi corweniunl in natura quam a primo parente accipiunl', se- cimi limi quod in civilibits omnes homincs qui sant unius communitatis, repulanlur (1) la cap. V. ad Hom. (2) t.aue et vilvperium (teli culpa) coneeguuntur actck voldntaricm sxccndcm prutrECrAN voLVKTAim ritiokeh, dichiara nella (. 11. Q. VI, 11, ad 3. La perfetta ragione del volontario  allorquando il volontario  libero. S. Tommaso adunque riconosce un volontario diverso da quello clic produce l'imputabilit, la colpa; un volontario cio non libero.  Tutte queste cose io le Ito spiegate a lungo in vari luoghi delle mie opere, e specialmente nei Trattato che precede imme- diatamente quello della Coscienza , elio ha per titolo Antropologia, a Cai rimetto il lettore (L I V, c. si). Di tutto ci Kusebio Cristiana mostrasi perfettamente ignaro:  mala fede o ignoranza^ Levi la maschera, e mostri a tulli ciiiaro che non  la sua mata fede; ed io goder a favor suo. (3) Si noti esser dottrina di s. Tommaso elle quidguid peroenit de corruplione primi pec- cali ad animarli, /label rationem culpae ( S, 1, II, L \XXYIU , ) cio a dire; ha la ragion di peccato imputabile a colpa. Digitized by Google 24 quasi unum corpus ; et Iota communitas quasi unus homo : l altra tolta dalle mem- bra del corpo umano, che formano una cosa sola colla libera volont dellaomo, che le muove, onde dice: Homicidium quod manus commitlit, non imputabktur ( par- lasi dunque di ci che forma Incolpa, l'imputazione) manui ad peccatum (i), si con- siderarelur manus secundum se, ut divisa a corpore: sed imputa tur ei tnquan- tum est aliquid hominis , quod mooetur a primo principio motivo hominis ( 2 ). Questa  certo lunica maniera, per quanto a me pare, di spiegare come possa imputarsi a col- pa il disordine di cui nasce infetto il bambino. Il disordine adunque costituente il pec- cato (3) essendo inerente al bambino, passar deve per generazione, al modo duna f- sica imperfezione ; la colpa poi, che consiste in una relazione all autore libero del peccato, passa colla natura umana; perocch quanti individui nascono di questa natu- ra, si d luogo ad altrettante relazioni col primo padre peccatore, e per ad altrettante imputazioni, ad altrettante colpe: allo Btesso modo, per continuarmi coile similitudini di s. Tommaso, che se ad nn uomo condannalo ad esser tanagliato nascessero di mano in mano delle nuove membra, il martirio si estenderebbe a queste, e queste sarebbero straziate siccome ree non pel delitto proprio.ma per quello del loro capo. Laonde non si potrebbero trovar parole a significare pi acconciamente la trasfusione del peccato originale, di quelle di s. Paolo citate dal sacrosanto Concilio di Trento (4), Per unum hominem peccatum inlmeit in mundum, et per peccatum mors ; ila in onuies homines mors pertransiit, in quo omnes pcccavcrunl; le quali parole, inerendo alla dottrina sopra esposta dellAngelico, potrebbero tradursi :  per un solo uomo entr nel mondo a il peccato, e per il peccalo  (venendo imputato al padre comune, e perci a tutta la natura umana)  anche la morte u (pena conseguente dellimputazione 0 sia della colpa): 1 cosi in tulli gli uomini pass ia morte da colui net quale tutti peccarono : perch imputandosi il peccato a colpa di lui solo, ed a lui solo dandosi la pena, es- sendo egli capo del corpo dellumanil, veniva quella colpa e quella pena di neces- sit a ridondare in tutti (3). (1) Qui peccalo  preso in senso stretto, per co'pa : il contesto lo spiega. Inutilmente adunque per ia sua causa , o fuor di proposito il signor Eusebio dice : t lo questo medesimo s articolo lo stesso santo Dottoro chiama colpa ioditlercotemenle e peccato ta macchia di che , che era la questione da me proposta. XII. Ma il signor Eusebio muove ogni pietra, e non la perdona a bugie per le- vare dal mondo quella distinzione antica e fermissima fra la nozion di peccato e quella di colpa , che si gli cuoce ; perocch essa sola il suo erroneo sistema distrug- ge, come accennammo, intorno all' originale peccato. Conciossiachc, per dirlo qui in prevenzione, a niente meno egli mira che a negare alla macchia originale la no- zion di peccalo, lasciandole solo quella di colpa, sperandosi di coprire poi facilmentn il suo madornale errore, col dire che colpa e peccato  del tutto una cosa medesima; quasich la colpabilit esister potesse senza che esistesse il peccato di cui 1 uomo s' incolpa. E di fatti egli stesso in appresso, con un secondo errore pi grave del primo, riduce a nulla la colpa stessa originale altres ; e cosi il dogma dell' origi- nale infezione  del tutto annullato, tanto nella soa qualit di peccalo, quanto nella spa qualit di colpa, dal zelante nostro controvertista. Ma prima di venire esponendo le falsit che egli dice, ovvero le illusioni che egli prende intorno a ci, giover che togliamo a considerare la cosa pi dall alto, mostrando in generale che dee distinguersi il bene ed il male morale, dall' imputa- zione di quello a lode e merito, e di qncsto a colpa e demerito. Ella  cosa indubitata e decisa dalla Chiesa, che a poter meritare o demeritare si richiede la libert : Ad merendum vel demerendum in siala naturar, lapsae non requiritur in homine libertas a necessitale, sed sujfpcil libertas a coactione ;  la terza proposizione condannata di Ciansenio ( 2 ). Ma un altra questione si , se, ol- s. Tommaso, non dica che inordiiutio quae est ir. ilio homine ex Adam generato ( ecco il peccalo in genere ) non est volualaria ( libera ) voltoliate ipsius, seti v oluutale primi parenlis ( onde dinen peccato colpevole, colpa ) fui motel hotiohk usibuiosis omnes qui tx ejtis origine dericanlur ! (1) Nella risposta alla arconda difficolt del citato articolo l'Angelico ripete e conferma questa distinzione, dicendo : Per r irtutem semini traducitur Humana natura a parente m pro- le* 01 , et sihcl ctM narra*, nate sa* usriCTio ( ecco ci che e inerente al bambino c che ba ra- gion di peccato): ex noe entm ( ecco il passaggio alla colpa, ali' imputazione ) fit iste qui na- scitur consors cCLPar primi parentis ( sicch il fondamento della colpa 6 il peccalo : vi dee essere il peccato nel bambino acciocch queslo possa riferirsi al principio lbero in Adamo , e Cosi divenir colpa ), quoti naluram ab eo sartitur per quondam generalicam molionem. (2) La condanna di questa proposizione fu da me addotta per argomento a provare la ne- cessit del libero arbitrio per meritare, nella Filosofia della 'morale voi. Il, face. 325: ne bo dimostrato l'erroneit in moltissimi luoghi delle mie opere. Tuttavia Eusebio, che si dee credere non aver Ietto che poche pagine di mio sfacciatamente m'accusa di consentirvi, e senza punto intendermi, mi rinfaccia d'aver detto che I quando l'uomo si procaccia la coscienza morato, le . E ne induce, c Dunque, se- c condo Rosmini, le operazioni nell uomo hanno merito c demerito anello sema coscienza s Ll- c okrtas (face. 46). Egli ci attacca del suo quell' ultima parola, z libzht*, affermando con ar- ditissima menzogna a goffissimo errore ( debbo dirlo , e mcn duole ), clic io abbia dello che lo operazioni dell' nomo possano esser meritorie senza i.ibzhta. lo lo sfido qui pubblicamente ad indicare un solo luogo delle mie opere, dove egli abbui trovalo detto da me un tale sproposito-, ma chi sfido io ? ahi una masche ra I ebbene, eh' egli arrossisca della sna impostura sotto la sua stessa maschera, ovvero, se non  impostura la Sua, tragga gi dal volto la maschera del Goto nome, ed a viso aperto dica: mi son ingannalo. Cosi prover che lerrore fu in Ini aenza col- pa. Quanto poi al poter l'uomo aver merito o demerito senza coscienza, non mai senza liber- t, questa c una questione diffcile e sottile ; ma volendo andar per lo brevi, mi dica egli : lm proprio coscienza di tutti i suoi meriti e di tutti i suoi demeriti? c quando opera, ha proprio il siguor Eusebio coscienra di tutte le segrete molle del suo cuore, che lo fanoo operare? So mi ilosMtM Voi. XII. 429 Digitized by Google 26 Ira il merito ed il demerito, ci abbia un altra forma inorale, cio una forma di san- tit, o pure una forma contraria, aderente alla persona, distinta, e talor anco indi- pendcute dal merito di questa: se ci abbia quindi ima forma di santit che consista, poniamo, nella unione dell' uomo con Dio senza che attualmente I uomo sia libero -, ovvero uua forma di ingiustizia che consista, poniamo, in un avversione dell uomo da Dio senza clic, di nuovo, attualmente l uomo sia libero. Ora, che si dia questa forma di santit e del suo contrario, egli  indubitato nella dottrina cristiana cattolica ; e (ale verit niente aifalto pregiudica all altra ve- rit, che merito o demerito non si d senza libero arbitrio : perch una verit non distrugge mai l ultra. Che poi sia ci indubitato, il dimostrano ad evidenza le se- guenti ragioni. A Dio non pu mancare la maniera di comunicare s stesso, la sua grazia, la giustizia, la rarit e tutti gli abiti delle virt teologiche all anime intelligenti da lui create, bench queste non siano ancor pervenute all uso del libero arbitrio i e cosi di fatto accade ne' sacramenti conferiti ai bambini o agli adulti fuori di senno, i quali non porgono alcun obice alla grazia, appunto perch sono incapaci di libera elezio- ne, e perci non possono porlo. Si guis dcerli, cosi il Concilio di Trento, sacra- menta unirne legis non conlinere graliam guani significant, aul graliam ipsam non ponenti/nis obicem non conferre, gitasi sigila tantum externa sin l acceptae per /idem grilline vel justuiac.et notac guaedam citrini ianae professioni, i, gmbus aptid homines discernunlur Jideles ab infidelibus , analhema sit ( i). E si noli, che la grazia che conferiscono i sacramenti non  la semplice remission de peccati, ma  di pio ima santit e carit inerente allanima, come lo stesso sacrosanto Concilio dichia- ra : Si guis digerii homines juttijicari nel sola imputai ione just itine Chrisli, ve/ sola peccatori] m reuissione exc/usa grada et charitate qvae in corui- JWS EU RUM PER SpiRITUM SanCTUM VIFEUNDATVR ATQUE ILLIS INUAEREAT; aul elioni graliam gua juslifkamur esse tantum favorem Dei ; analhema sit ( 2 ). Dunque vi sono dei beni morali, coni*  la giustizia, la carit c I altre virt increati all anime intellettive, dilfusc nel cuore dell' uomo dallo Spirito santo ; il qual cuore uon  gi il cuore carneo c materiale, ma il principio volitivo dello spirito ; e quei beni morali stanno nell' anima senza bisogno alcuno dell uso del libero arbitrio, e perci senza merito della persona in cui essi si trovano ; ma bens provenienti dal merito, e dal principio del merito, esistente in un'altra persona, cio nella persona di Ces Cristo, redentore e salvator nostro. E dico, che la carit, che il Concilio di Trento dice, con s. Paolo, tlilfusa ne cuori dallo Spirito santo tanto negli adulti quanto ne bambini che si giustificano da sacramenti, informa il principio volitivo in quanto questo appartiene all essenza dell' anima umana, perocch, come accon- ciamente dice s. Tommaso, charilas secundum guod est virtus non est in concupi- scibili, sed in folcntatb (3). Ma di questa volont, che in qunnt  radicala uel- l essenza dell uomo viene sunliGcala dalla grazia di Ges Cristo, parleremo in appresso. XIII. Debbo fare qni una digressione, per difendermi da una ioconcepibile ac- cusa che il signur Eusebio mi d relativamente a questa dottrina della giustificazione e della grazia che 1 uomo riceve da sacramenti ex opere operato e non ex operp operande. Volendo io dire che 1' uomo giustificalo e santificalo da qupsta grazia ha in s un potere, col quale gi pu vincre lutti i suoi nemici spirituali, se vuole, c conseguire la salute, cosi mi espressi : ilice di no , mi d ragione ; se mi dice di s , si sporr allo risa di quanti udiranno la sua ri- (1) Sess. VII, cao. VI. (2) Sew. VI, cao. Xl. (3) . I, LXj ni) ad 3. Digitized by Google 27  Se dunque la giustificazione che Dio opera nell' nomo mediante il battesimo,  si fa nell intima essenza dell'anima, che vien riabbellita di grazia, e crealo in  essa un istinto soprannatorale, una virt di volere le cose divine; la cooperazionf.  da parte nostra a una si fatta giustificazione in questa vita si fa nella parte su-  periore della volont in noi rinnovata, sebbene la concupiscenza seguiti il suo co  stume di ripugnare, e di ricalcitrare alla legge divina (i). Ma entrala nell' essen- n za dell anima la grazia, e aggiuntavi la cooperazione del semplice nostro vo- li lere, la salute umana  sil urata, dicendo s. Paolo : n Se Dio sta per noi, chi con  0 tro di noi ?  Chi porter accusa contro gli eletti di Dio ? Dio  quegli che giu-  stifica  : e per mostrare la saldezza di questa giustificazione, ed anche limmO-  bilit di questo volere superiore, soggiunge Imperocch io son certo, che non la  morte, n la vita potr separarmi dalla carit di Dio, che  in Cristo Ces Signor  nostro i (2). E dopo queste parole tiro immediatamente la conseguenza, che  il principio superiore delluomo  il germe della salute di tutto l'uomo , concltiti- dendo con queste parole di 8. Paolo: t Laonde, o fratelli, noi non siamo debitori alla  carne , da voler vivere secondo la carne. Che anzi se vivrete secondo la carne,  morrete : ma se collo spirito mortificherete le opere della carne, vivrete  ( 3 ). Or chi mai potrebbe indovinare la terribile accusa che mi d il nostro signor Eusebio? Uditela attentamente, o cortesi lettori. i Si legga il canone 16 della sess. VI del Concilio Tridentino , cosi egli, che  dice anatema a chi, senza speciale rivelazione divina, afferma di avere il dono dol- ) Ecco un altro saggio dellardita e falsa maniera di parlare o dargomentare del no- stro Euseb o ; c Quando il vclcuo  manifesto, non ha duopo di molti argomenti per indicarlo. Digitized by Google 29 dai dire che una cosa opera per necessit, non conseguita che la libera forza delluo- mo non possa impedire quella operazione di natura sua necessaria.  Ma perch non fate vi menzione, mi replica, di quanto dice il sacrosanto Concilio di Trento intorno alla coopcrazione del libero arbitrio delluomo nel prepararsi e disporsi a ricevere la grazia del'a giustificazione?  Perch non faceva a proposito del mio discorso.  Dun- que avete negato quanto decise intorno a ci il sacro Concilio di Trento, e siete in- corso ne' suoi anatemi.  Falsissima conseguenza: lormnetlerc ci che non fa al pro- posito del discorso, non  un negarlo: il discorso era dell' infusione della grazia del santo battesimo principalmente ue bambini , non anco arrivati all uso della ragione: voleasi dimostrare che essi sono in uno stato di santit prima ancora di far uso del libero arbitrio: perch appunto, come dicemmo, havvi una certa forma di santit che aderisce allanima senza attuale libert dellanima stessa, come havvi una forma di peccato c d iniquit per l opposto , che aderisce all anima del bambino senza alcun atto di libert fatto dal bambino stesso. Anche negli adulti la grazia del santo batte- simo opera ex opere operato, e perci in un modo fisico, necessario ; ma essa pu tro- vare I obice della mala volont, ed esige certamente che I uomo col suo libero arbi- trio vi ai disponga specialmente cidcm gratiae libere asscnlicndo et cooperando. Io dico ancora di pi ; stimo cio opinione conforme alla piet , alla tradizione ed alla ragione, che come nell adulto coopera alla grazia la volont dell uomo in un modo libero, cosi nell'infante cooperi la volont (bench egli non ne abbia coscienza, giac- ch la coscienza e la volont son due cose diverse ) attratta dalla grazia, come le pa- glie dall'ambra, spontaneamente e necessariamente verso di lei movendosi. Intanto, se il nostro Eusebio  teologo , non pu certamente ignorare , che ci che io dico della grazia santificante che viene infusa ne' bambini pel santo battesimo posso dirlo a un di presso anche in generale di quella grazia che santAgostino, e gli scrittori eccle- siastici dopo lui chiamarono operante ; non pu ignorare, che questa grazia operante viene definita indeliberatus motvs intellectus et volvntatis coclitus ini- missns , per quem Deus incipit bonum opus in nobis (i); e che di essa dice sant Ago- stino : Ut ergo tclimus, 31 NE nobis opcratur(2)-,e che quel sine nobis egregiamente viene spiegalo dal Totirnely, dicendo: Non ijuidcm sine nobis physicc ac vilalitcr agenti- bus, sed sinc nobis libere conscnticnlibus ( 3 ). E s. Tommaso : In ilio  cjj'ectu, in quo mcns nostra est mota et non movens, solus attieni Deus, movens opcratio Dco tri- builur (4). Nella grazia operante adunque la volont si lascia movere -, ella non opera con libert , ma con isponlaneit ; e questa dottrina sta benissimo insieme con tutto ci che decide ed esprime con divina sapienza il sacrosanto Concilio di Trento sulla parte che negli adulti ha il libero arbitrio eccitato dalla grazia a preparare e di- sporre 1 uomo alla giustificazione. Dico a preparare e disporre I uomo alla giustifi- cazione , non a produrre la stessa giustificazione. Di questa noi parlavamo, c dove- vamo parlare; e il nostro censore riottosamente ci rampogna come avessimo quello negato. Intanto, per ritornare a noi, e parlare della stessa grazia della giustificazione dell empio, e non delle disposizioni che la precedono, giovi qui il ripetere, a gloria del Signor nostro, eh ella  un dono del tutto gratuito, e non dalia libert nostra n da meriti nostri derivante, ma unicamente dalla ineffabile bont di Dio e da me- riti del Signore c redenlor nostro Ges Cristo: Gratis autem juslficari ideo dica- tnur, per usare le parole dello stesso sacrosanto Concilio di Trento, quia nihil eorum c  Siccome oggi unge, clic la grazia di Dio a* infonde nell 1 uomo per necessit, egli eriJente-  Quelli che hanno Ietto tutte le cose mie potranno dire s' io parto senza distinzio- ni : conriensi poi avvertire il signor Eusebio , elle al Trattato della Coscienza io bo mandato avanti un trattato degli alti umani, intitolato Antropologia, dove egli polca rinvenire, se avesse saputo clic esistesse, tutte le distinzioni chegli accenno, cd altre molte ebe io credetti necessa- rio di far andare avanti ni Trattato della Coscienza, c elio in questo suppongo gi conosciute. Fra le distinzioni esposte nell Antropologia v hanno altres quello che riguardano la libert, ei diversi significali in cui i sacri scrittori e i teologi presero questa parola , dimostrando come  giansenisti abusarono di alcuni passi di santAgnstino per non avere distinto bene quo vari sensi ne' quali egli adoper le parole di libert o di libero arbitrio ebe vanno spiegate dal contesto ( Anlrop . face. 216  227 ). Fra questi vari sensi della parola libert io bo notati quo' duo elio distinguono i teologi colle maniere di libertas a coactione , c libertas a necessitate , e nel Trattalo della Coscienza ho detto clic Tesser la volont libera da ogni coazione o violenza  una propriet sua essenziale : laonde c in gczrro senso la volont  sempre libera essentialmcn- t le  ( Trattalo della Coscienza, f. 34, SS, nota ) : ma non  alt' incontro una propriet sua essenziale Tesser ella libera da ogni necessit, soggiungendo per che c tuttavia nell uomo non  ( sopprime qui il religioso nostro Cristiano, come ognun vede, le parole importanti, in questo senso, che dichio. rano tutto f equivoco eli' egli ' introduce ! ) : c Che nell uomo non manca mai la libert po-  ( il. f. 25). Or perch mai queste parole , spiegate dal contesto , sono niente meno che perverse cd ingan- nevoli/ S ascolti T uom caldo:  Dizsi parole perverse, perch c condannala dalla Chiesa la , non incorrono nella proposizione condannata , perch spiegano ai qual libert parlino. Chiamar adunque perverse le parole di chi vi dico che la vo- lont  essenzialmente libera di quella libert che esclude la violenza, come di nuovo insegna s. Tommaso ( S. 1, VI, iv )  del pari ua oltraggio da uom scimunito. Se il signor Eusebio  di buona fede, come io voglio sempre sperare, rilegga il contesto, e medili un po' pi, e gli so- prabbaster a convincersene. Se poi egli non  di buona fede, lo rimandiamo a leggere per so- prassello la face. 217 del trattato nostro che precede immediatameote quello dellu Coscienza , dove a confusione della sua impertinente ignoranza trover scritto cosi : c I teologi distinguono due specie di libert, 1' una delle quali chiamano libert da violen- ( za ( libertas a coaclione ), c chiamao V altra libert da nccessi ( libertas a necessitate ). c Beuch poi all* una e all altra specie applichino il vocabolo di libert, tuttavia insegnano  che preso questo in senso assoluto senza nulla aggiungervi , non pu applicarsi propriamente ( a una volont che sia libera da violenza, ma tuttavia necessitata. c Sicch, a line di evitare ogni cquivocaziooe, gioverebbe distinguere (a spontaneit dalla c libert. La volont non pu operare mai altramente che in modo spontaneo ; ma tuttavia non ( opera ella sempre in modo del tutto libero. c N per avventura egli  di lieve importanza il distinguer loperare al tutto libero dal- ( 1* operare spontaneo: e nella chiesa questa distinzione venne solennemente sancita dalle decisioni c de Concili e de' Sommi Pontefici, i quali condannarono la dottrina di Calvino, di Giansenio e di  ( Antropologia , L. Ili, Sci. li c. VI, a u). (1) Giustamente insegna sanlAgostino, che la volont umana allora  pi perfetta, quando in lai modo viene spogliata della sua libert, ebe non pu pi peccare, perch tutta stabilita nel bene, come accade ne' celesti comprensori. I passi di sani Agostino furono da me recali c spie- gati nci' Antropologia, face. 2 1 6-224. 32 da prima sema lor merito per sola misericordia di colui, che prior delexit noti in questi tali si avvera quello che dicemmo, che talora la santit aderisce all anima senza un'attuale libert di questa, e per senza che quella santit sia uo nuovo me- rito -, non potendosi essa chiamar merito se non solo in relazione al principio libero col quale luomo precedentemente oper il bene, e si merit qual premio del suo ben operare una santit cotiGrmata ed inamissibile. In altri celesti comprensori con solo manca la libert attuale, ma non lebbero mai, n pure virenti in sulla terra. Tali sono tutti i bambini battezzati, morti innanzi di giungere allet della discrezione del bene e del male, o altri anche adulti che mai non ebbero il pieno uso della loro ragione c il dominio della propria volont. La forma della loro santit  dunque indi- pendente dalla libert che in essi non  e non fu mai: ella  diversa dal merito, ncn avendo quelli mai meritato. Laonde quella loro rettitudine, virt e giustizia, non a 1 imputa ad alcun principio libero che sia, o sia stalo in essi ; ma si al principio li- bero che fu in altra persona, cio nella persona di Ges Cristo Signor nostro, pe me- riti del quale essi hanno conseguito la salute, la santit, la vita eterna. Altro  dunque la forma morale della santit e della giustizia, ed altro  l'impu- tazione a lode e a merito di essa : come altro  la forma morale del peccato c della iniquit, ed altro l imputazione a colpa e a demerito di esso. La forma della santit e della giustizia aderisce necessariamente alla stessa anima intellettiva, quando il princi- pio libero a cui s imputa pu essere stato in essa solo io nn tempo precedente, ovvero esser fuori di essa, trovarsi in unaltra persona-, come del pari la forma del peccato non pu che aderire allanima che n il soggetto, quando il principio dell'imputazione a colpa pu o essere stato solo in essa ad un tempo anteriore, ovvero trovarsi in altra persona. Dobbiamo ora noi, chiarite tulle queste cose, richiamare il ragionamento al peccalo originale, e rispondere all altre difficolt e male intelligenze del signor Eusebio in una dottrina cos importante. Che cosa  la giustizia? che cosa  la santit aderente all anima? XVII. Se si parla di una giustizia naturale, questa consiste nella rettitudine di tutte le potenze di cui luomo  composto, di maniera che la parte superiore, la vo- lont, imperi e diriga la parie inferiore, secondo il dettame della ragione ; e la parte inferiore, risultante di senso e distinto, si lasci dirigere e armoniosamente a quella consenta. Ma questa non  ancora la giustizia soprannaturale, la santit. Ivi giustizia soprannaturale non consiste nella gola rettitudine c armonia di tutte le potenze natu- rali delluomo, ma in una vera influenza e comunicazione di Dio all' uomo, in una pa- rola  una giustizia informata dalla grazia, per la quale I* uomo non pur conosce spe- culativamente Iddio suo principio, ma lo sente, e il conosce ed ama per suo ultimo fine e sommo bene, e pu goderne, unendo volont a volont, e al piacer di lui con lutto s stesso tendendo. Laonde il sacrosanto Concilio di Trento insegna, che la causa effi- ciente della giustilicazione si  misericors Deus , qui gratuito abluit et sancii ficai, signans et ungens Spirita promissioni sondo, qui etl pignus haereditatis nostrae-, c che unica forma liti causa est justitia Dei, non qua ipse justus est, sed qua nos juslos facit , qua vidilicet ab eo donali, rcnocamur spirita mentis nostrae-, e an- cora, che id lamen in hac impii justificatione fit, dum ejusdem sacralissimae pas- sionis merito per Spiritual sanctum charitas Dei diffunditur in cordibus eortim qui juslificantur, atque ipsis iniiaeket (i). Che se l'uomo giustificato ha luso del libero arbitrio, egli accrescer pu la sua santificazione stessa colla cooperazione e colle buone opere, e tutta questa parte di santificazione, e queste buone opere che, liberamente cooperando alla grazio, s accumula, vengono riputate a lode e merito di lui, clic  il libero autore delle medesime. Altro  dunque la santit , maleria dell imputazione, altro l' imputazione al (I) Scsi. VI, cop. VII. )igitized by Goosfe 33 principio libero che, in qualche modo,  causa di quella. Polrebhe mancar questa ed esservi quella ; ma non potrebbe mancar quella eil esservi questa, perocch non si pu dare imputazione, se non si dia prima la materia di essa. Cosi ne bambini rige- nerati nel fonte battesimale vi ha santit, non vi ha ancora in essi imputazione ; ma in nessun uomo adulto pu darsi imputazione a merito, se non v' ha in lui la cosa buona che a lui, come ad autore, s' imputi. Passiamo al peccato. Che cosa  l' ingiustizia, l'iniquit, il peccalo ? L ingiustizia, l' iniquit, il peccalo si e la stortura della volont, il disordine delle potenze dell' uomo, che si pu considerare o rispetto a Dio, o rispetto alla di- sarmonia delle potenze fra loro. Il disordine nelle poleoze amane rispetto a Dio, non consiste gi in una involontaria ignorazione di Dio (t), il che non sarebbe peccato, ma in un avversione della volont da quel Dio a cui 1 uomo  ordinato. Il disordine morale rispetto alle potenze havvi ogni qualvolta la volont dell' no- mo, in luogo d' attendere al giusto mostratole dalla ragione, opera l'ingiusto sedotta dal senso e dall istinto. XVIII. Altro  donqoe il peccato, l iniquit, materia dell imputazione, altro l' imputazione stessa di lui al principio libero che u l'autore: limputazione al prin- cipio libero ( la colpa ) sappone dinanzi a se il peccalo, che  la materia dell im- putazione. Che cosa adunque si pu imputare a colpa ? Forse un azione iodilferente ? no. Forse una qualit o propriet dell' anima priva al tutto di malvagit ? n pure. Egli  necessario che se uo azione, o leffetto di essa, una qualit, o propriet, o stalo d unanima, s' imputa a colpa al suo autore, quell'azione o quell' elTetto sia malva- gio ; altrimenti sarebbe impossibile ed assurda l' imputazione, perocch mancherebbe la materia di essa. Applichiamo tali principi evidenti al peccato originale ne bambini non rigenerali dal santo battesimo, il quale s imputa a colpa del libero suo autore, il capo dell umana generazione, Adamo. Acciocch questa imputazione sia possibile, conviene che nel bambino esista la materia dell imputazione ; e questo non pu es- sere che un disordine, un male morale, in ona parola, un peccato. Il peccalo adun- que  presupposto dalla colpa , giacch colpa non  ohe peccato imputato al suo au- tore, e, come dice s- Tommaso, pcccatuin est in plus quam culpa ( 2 ); qualunque cosa sia questo peccato, egli dee essere inerente al bambino e proprio di lui, com  deciso dalla Chiesa, e come risulta da paragoni che usa In divina Scrittura a spie- garlo ; fra gli altri da quello d immondezza ; onde Giobbe, citalo da sant Agostino e da Padri comunemente secondo la versione de LXX, ebbe a dire : -/Verno muntiti t a sorde , nec injans ctijus est unius dici vita super terroni (3). Il che se  deciso,  del pari deciso che  nell' uomo si d ono stato di peccato non imputabile a colpa di  lui stesso , e che agli stessi duerni della Chiesa si oppone il sigoor Eusebio con- tendendolo, com egli fa, e negandolo. XIX. Noi ben vedremo pi sotto i suoi vani effugi ; noi ribatteremo gl impo- tenti suoi sforzi, che sembrerebber diretti ad annullare il peccato originale conver- tendolo in un mero nome, e rendendone cosi impossibile anche l imputazione, o sia la colpa ; vedremo ancora coni egli si lascia inutilmente scappare tali parole, le quali (1) Infitielitas pure negativa in hit, in quihus CAristus non est praedieatus, peecatum est. E la prop. 68 condannata di Bajo. Come pu difendersi il sigoor Eusebio dall urlare in questa condanna, egli che dichiara ?cra colpa la semplice privazione ne bambini neonati della grazia santificante? (2) Meritorium namque, dice il Card. Gaetano, eupponit et praeexigit laudabile : et laudabile rectum : et REcruM , bonlm moralitkr. In S. I. II , XXI, li. La medesima cosa pu dirsi del demerito , della colpa, del peccato e del male morale, perch contrariorum eadem eet ratio. (3) *C. ^LIV.  Laonde Tertulliano dice assai acconciamente di ogni anima: peccatri.c auleta quia tmmunda ( L. De anima, c. XL ); l dove si dovrebbe dire il contrario di Adamo, il quale fu immundue quia peccator. IOSMINI VoL. XII. 130 34 struggerebbero anche il nome di quella colpa e la pena a lei conseguente ; e tutto ci in atteggiamento di campion della fede, che combatte a visiera calata, per pre- cauzione, e a dritta e a sinistra mena colpi spielati, che  una maraviglia a vedere. Ma per non uscire di via, proscguinm ora a dimostrare con nuovi argomenti la proposizione eh egli impugna come contraria alla sana teologia, la proposizione cio che  si pu dare nelluomo uno stato di peccalo non imputabile a colpa di lui stes- ti so , o anche che,  secondo la dottrina cattolica, pu esser nell'uomo e vi  uno  stato difettoso della volont , che in "s ha la nozione di peccato e non quella di v colpa . Fra gli altri esempi di questo stalo, io ho recato quello evidentissimo de dan- nati, ncquali la volont  perversa, ma non pu pi demeritare perch priva di li- bert ; al quale argomento risponde il signor Eusebio unicamente cosi : i Stimerem-  mo perdita di tempo dimostrare ci che  gi troppo manifesto per le autorit arrc-  cate  (i), e ci senza avere recata in mezzo n pure una sola autorit che parlasse dello stato delle anime de dannati, n dettane una parola. Non  questa una maniera assai comoda di trarsi d impaccio ? XX. A confirmare il mio assunto intorno allo stato di peccato in cui sono i dan- nati, bench non possano demeritare, addussi ci che ne dice san Tommaso \ ed egli scioglie la difficolt in asserendo senza esitare c senza provare , che da quel testo  non si rileva alTatto la distinzione fra peccalo c colpa a (2). Ma se non la rileva egli, la rileva bens qualsiasi uomo di buon senso ; e gio- ver riporre qui sottocchio pi alla distesa quella dottrina dellAngelico. Questi inse- gna espressamente che i dannati habent necessitale m peccandi, ma che perci ap- punto perch sono necessitati al male, essi sono scusati dalla colpa , perch necessi- tai peccandi  excusat a culpa; tuttavia essi sono colpevoli in causa dello stato di peccato in cui sono, perocch il principio libero a cui , come a causa , simputa la loro volont ostinata nel male, sebbene non si trovi in essi presente, fu in essi in pas- sato, quando vivevano e peccavano sulla terra, et sic tolum demeritum sequentis cul- pae videtur ad primam culpain pcrtincre ( 3 ). Chi non sente in tulio ci la differenza chiarissima fra il peccato in cui i dannati sono ostinali, e la colpa, clic  l'imputa- zione di quel loro peccato alla volont libera che avevano in sulla terra? Tutti lo sen- tono, fuori d' Eusebio. Vha ne dannati una volont difettosa, perversa, ostinata nel male, che perci ha in s la nozione di peccalo. Sicut in bcatis in patria , dice s. Tommaso, crii per- fidissima charitas , ita in damnatis crii perficlissimum odium (4) : dice ancora che Dcum pcrcipicntes in cjfcclu justitiae , qui est pocna , cum odio habent ( 3 ) ; c che tanta erit invidia in damnatis , quod etiain propinquorum gloriae invidebunt (6) ; che superbia eonim asccndit semper (7) ; che voluntas malitiac peccati in eis rema- ne, t (8), c che ininuitatem volunt (9) : in somma la volont de dannati  infetta da lutti i [leccati. Vi ha dunque uno stato di peccato in essi che non  stato di colpa ( se non in causa ), perch privo di attuai libert. Laonde egregiamente s. Tommaso conchiu- de, che perversa voluntas in damnatis ex obstinationc proccdit, quac est eorum poe- na;crgo perversa voluntas in damnatis non est culpa , per quatti dcmcrcantur { io). (1) r. act. ir, r. u. ( 2 ) Ivi. (3) Supp. XCV1I1, VI, ad 3. (*) Ivi, iv. (S) Ivi, v. (li) Ivi, V, ad 1. ( 7 ) Ivi, v, Se d contro. (8) Ivi, 11. (9) Ivi. ad 1. (10) Ivi, vi Seti contro. Digitized by Google 35 Concludiamo: secondo la mente di s. Tommaso e la dottrina della Chiesa ri ha una forma d iniquit e di peccato diversa da quella della colpa e del demerito, chec- che piaccia di dire in contrario al nostro signor Eusebio. Ma tolto ci verr maggiormente confirmalo e ribadito dallesame che ci resta a fare della dottrina di lui intorno al peccato originale : al qual esame a malincuore pongo mano, perch non gli potr tornare troppo onorevole : ina naccusi s stesso : egli me ne costringe caricandomi d' orrende imputazioni da cui debbo pure giustifi- carmi ; n il posso fare senza dimostrare lui stesso in errore. Digitized by Google Digitized by Google QUESTIONE III. SK SIA VERO CI CHE PRETENDE EUSEBIO, CHE LA NATURA E LA VOLONT UMA- NA DAL PECCATO ORIGINALE NON SIA RIMASTA INFETTA NE GUASTA, MA SOLO PRIVATA DE DONI SOPRANNATURALI. -Avendo io dunque affermalo che s. Tommaso non fa consistere il peccalo origi- nale in una mera negazione (i), il signor Eusebio acremente m'assale come avessi bestemmialo, pronunciando che t il santo Dottore a malincuore di chi lo nega, ri- ti pone precisamente 1' essenza del peccato originale in una privazione, come fanno  tutti i cattolici ( 2 ).  Qual sia la mente di san Tommaso sull' essenza del pec- cato d origine lo vedremo tosto : mi valga qui prima osservare. i. L ignoranza o malizia del signor Eosebio, nell' aver sostituita la parola pri- vazione a quella di negazione da me adoperala.  Ciascuno che abbia solo delibata la scolastica teologia sa troppo bene che negazione si prende per una semplice man- canza, che dicesi anco carrntia ; l dove riserbasi la parola privazione a indicare la mancanza di ci che dovrebbessere in un soggetto, e parlandosi di cosa morale, che esser vi dovrebbe secondo la sua propria morale esigenza (3); per il malo  sempre una privazione, e non una mera negazione- fi) Ecco le mie parole che mossero nel signor Eusebio quell' atra bile di cui non ai vede a primo aspetto il perch :  Ved. U. f. 18-20. 34, 33. (2) II. Aff. IV, f. 19. (3) Si noti bene questa clausola : te manca ad un soggetto ci ebe la sua natura morale esige, vi ha privazione morale, male morale. Perci qualora la natura dell uomo fosse perfetta, e sol priva di quella grazia che alla sua natura non  dovuta, non potrebbe dirsi eh' essa aves- se una privazione morale, un peccato. Di che procede una siogolare conseguenza, ed  che il signor Eusebio non pu dare una spiegazione ragionevole della sua maniera di pensare intorno all originai peccalo, se non precipitando in quel Baianismo eh* egli a ine imputa. In questo si- stema la grazia santificante diceva! dovuta alla natura umana : 1/umanae naturile eublimatio et exaltatio in coneorlium divinile natura debita fuit interritali primae candilionit, et proin- de naturali i dicendo est , et non eupematuralie :  la prop. 21 condannata di Baio ; e il me- desimo viene a dire la prop. 26. Ora se la grazia santificante fosse dovuta alla natura umana, di guisa che si potesse dire un elemento integrale di essa, e perci naturale, come pretende Baio ; in lai caso s* intenderebbe benissimo come la sola privazione di quella grazia lasciasse questa natura imperfetta moralmente e difettosa, io istato perci di peccato, il ebe sostiene il si- gnor Eusebio. Ma avendo la Chiesa deciso che la grazia  una esaltazione delta natura umana a lei indebiia ; egli  chiaro, che qualora zi supponga che la natura umana sia prescDlemente spogliata della grazia, ma del resto perfetta, come se Iddio l'avesse creata in islato di natura sana ed in- tera, non potrebbe mai dirsi ch'ella fosse moralmente difettosa, eli ella avesse iu s un'alfezione peccaminosa.  Risponder il signor Eusebio con altri , che la grazia  dovuta alla natura ex or- dinatione Dei , non ex exigentta naturo e.  Ma l' ordine da Dio stabilito non pu obbligare se non quelli a cui fu intimato, e perci Adamo era certamente obbligato a conservarsi io grazia, perch conosceva che questo Iddio voleva da iui ; ma ci spiega come Adamo si potesse incol- pare della grazia da lui perduta a s ed alla stirpe , e come la stirpe sua dovesse restarne pri- va ; ma non come la sola privazione della grazia nella stirpe acquistasse la nozione di vero pec- cato , inerente a ciascun individuo , unicuigue / roprlum. So dunque il siguor Eusebio pretendesse Digitized by Google 38 a. Il dire che tdtti i cattolici mettono il peccato originale in una mera priva- zione,  on dire che dunque non sono cattolici tutti quelli che non mettono l' es- senza del peccato originale in una mera privazione. Non  temerit questa? non  intolleranza di tante opinioni teologiche permesse dalla Chiesa? Che diranno lotte 1 altre scuole cattoliche che vengono da questo nostro arcifanfano cosi recisamente scomunicale? (i). XXII. tgli vi dice ancora,  (cos egli, quasi ci che egli afferma fosse un dogma), che ,   ma che  in realt, come nel corpo, cosi nell anima (i), ora nasciamo e siam tali, quali  nasceremmo e saremmo se fossimo stati da Dio creati nello stato di pura natura  (al. Anzi, in pena della falsit con cui egli cit questautore, fora anco senza conoscerlo soffra che noi gli rivolgiamo aoanto quegli dice del Pighio : Quam forte distinctio- nem { tra il senso formale, e il senso materiale della espressione : giustizia originale) si inspexisset Pighius et sui, nunquam mficias icissent , IN nobis INESSE originale peccatum : e il pubblico misuri anche da questo esempio il valor vero delle eusebia- ne affermazioni e citazioni. XXX li. Al quale esempio aggiungeremo il secondo, ancor pi bello, se pu essere, quel del Gaetano, che Eusebio vuol tutto per s. A malgrado di questo soo buon volere, il sentimento dellacuto commentatore (1) Lo stesso Eusebio Cristiano cita queste parole di >. Tommaso alla face. 11 dot suo li- bello, qwdquid percenti de compitone primi peccali ad anima m, hakel ralionem cutpae; ma io realt , qui dice, Illune corruzione pass ah' anime de discendenti di Adamo. Dunque in lealt Diente vi Ila in questi che abbia ragion di colpa I (2) Si confrontino le precise parole di Pelagio , conservateei da sant' Agostino, e da questo aaoto Padre condanoate per eretiche , colle parole di Eusebio Cristiano, e si vegga quanto i duo zelanti difensori della fede ortodossa se l intendano. Le parole d' Eusebio sono le riferite, eh* ( io restii, come net corpo, cos neiC ma ora nasciamo e siam tali, quali nasceremmo e sa. c remino se fossimo stai- Da Dio creati nello stato di pura natura s. Le parole di Pelagio sono: Sine ulta malo , se utio e ilio parvuloe nasci , et hoc eolurn in et# cete , quoti De u candida, non sviaci guoD immetti utruxix. S Aug- De Pee. Orij. cantra Pelag. et Cdmi, c, XV. Digitized by Google 46 Hell'Aquioale  a lui oppostissimo. Osserva il Gaetano, che s. Tommaso espressa- mente insegna (i) che I nomo col peccato fa privato non solo del dono della grazia santificante , ma ben anco del vigore delt anima col quale egli teneva a s soggette le parti inferiori ; il qual vigore essendo essenzialmente naturale, bench da Adamo fosse posseduto gratuitamente insieme col dono dell' originai giustizia, non pu man- care alla natura umana senza che questa rimanga, non pi intera, ma guasta e cor- rotta : Quia igilur vigor iste possessive est gratuilus, quia non habetur nisi in con- junctione ad statum gratuitum originalis justitiac : et essentialiter est natura- li s, quia vigor est supcrioris partis animae noslrae secundum naturata rationalem ad solum et omne bonum rationi proportionatum se extendens : ideo sic adiunctus puris naturalibus constituii statum naturae INTEGRAR, et per istius deperditionem natura est corrupta. Non trattasi aui dunque della privazione della sola grazia santificante, a cui Eusebio riduce tutto loriginale peccato, e a udirlo, anco  tutti i pi celebri dottori cattolici  con esso lui, anzi  tutti i cattolici a dirittura ; trattasi secondo il Gaetano, da lui citato qual dottore celebre in prova delle magnifiche sue asserzioni, di corruzione nella natura stessa umana, trattasi d svigorimento di questa natura, ridotta a cos mal termine, da non poter pi operare n pure il bene natura- le interamente, costretta di conseguente a cadere di quando in quando in peccalo. Vero , che questo vigor naturae non trovasi ne principi costitutivi dellumana nata- rn separatamente considerati; e che egli non  a lei essenziale, ma solo un'acciden- tale perfezione. Ed  questo che trasse forse in errore il signor Easebio, il quale non saccorse, che il Gaetano per islalo di catara pura intendea la natura umana co suoi costitutivi soli, e non punto pi. Perci il Gaetano dice benissimo, che a questo stato da lui immaginato di pura natura non si appartiene larmonia delle potenze fra loro, e il dominio della parte superiore sulle inferiori; e quindi che da un tale stato imper- fetto non differisce il presente, se non come differisce luomo spogliato dall'uomo nudo. Ma che perci? dice forse egli altrettanto della natura integra, cio della natu- ra umana senza peccato e senza grazia, ma fornita per di quell'ordine e di quellar- monia che le  naturale, e che Iddio avrebbe saputo darle nella sua sapienza c bon- t, acciocch ottenesse il natarale suo fine, l'onest e la felicit, nellordine della na- tura, se a lui fosse piaciuto di crearla cos senza grazia e senza peccato ? Questo noi dice egli; anzi dice il contrario: dice che la natura, qualor non sia integra, ma svi- gorita, giustamente corrotta si chiama: Vocabulum quoque integri et corrupti, ratio- ni consonai : quoniam natura integra est, quando NIRIL naturauum non solum coslituentiurn naturata et Jluentium ex ea, sed rcquisitorum secundum caia decst: corrupta autcm si quid horum perdidcrit, dictus autem vigor secundum naturam est rational. Laonde lo stato di pura natura, secondo il Gaetano,  uno stato in cui luo- mo non pu osservar sempre lonest naturale, fine della natura razionale, t'ita fiu- mana in et ex puris naturalibus pera gi non palesi absque peccalo, et hoc ex intrin- seco dcfectu virium animae : al quale stato difettoso e manchevole  pari certamente I nostro, non a quello della natura integra priva solo della grazia santificante, qual  quello che Eusebio pur ci descrive. Et quia aequalis, est sujficientia naturae la- psac, et naturae in puris naturalibus consequcns est, quod appellationc naturae in- tegrae non intelligatur in lilera in puris naturalibus: sed intclligitur natura in stata consono naturae rationali, qui addit sopra pure naturalia vigorem rationis scu su- periori. r partis animae ad conscrvandum statum rationi in nullo dissonum. Che que- sto vigore della mente non sia una parte essenziale della natura umana, cosicch scu- zesso non si potesse questa pensare, niuno lo nega; come niuno nega che non sia es- senziale al corpo umano larmonia perfetta delle sue membra, di guisa che qualor anco un braccio fosse pi luogo dell altro, non riuiarrebbesi per questo il corpo dal- (1) S. I. Il , XCI. vi. VjuL 5 gle 47 lavere i snoi naturali costitutivi. Ma che fa ci? riman sempre fermo, che quel corpo sarebbe privo di sua naturai perfezione, se sproporzione vi avesse fra le sue membra, Molto pi la natura umana sarebbe imperfetta, so non gii fosse dato quel vigor della mente da poter l altre potenze secondo ragione dirigere, evitar il peccato ed ottener pienamente il sno fine. Perocch se l'aria e la luce e gli altri elementi, che pur non entrano nella natura delluomo, son per tali che senzessi l'uomo non vivrebbe di vita animale, e per Iddio li cre insieme coll nomo; cosi molto pi il vigor della men- te, col quale l'uomo creato nellordine della natura, potesse infrenar sempre le infe- riori potenze e vivere secondo i dettami di sua ragione, appare necessario cotanto al fine di questa razionale e morale creatura, chegli  troppo da credere, che non glie- l avrebbe negato Iddio, qualor senza grazia gli fosse piaciuto crearla. Imperocch sia pure che le parti della natura prese a parte, imperfette a s stesse e insufficienti si dimostrino; ma il complesso per di esse, l'uoiverso intero vedesi ordinatissimo a tale, che all' insufficienza delle stesse parti  mirabilmente sopperito e provvedalo, di guisa che della natura universale parlando, pu applicarci a ragione il detto, che natura noti deficit in nccessariis (i). Lumana natura adunque in coi la ragione di comandare pienamente alle parti inferiori fosse incapace, imperfetta e reanchevol sa- rebbe; e per soggiunge il Gaetano: Per naturam corruptam, com la nostra pre- sente intelligitur natura privata dono justitiae originali s et vigore rationis, ac per hoc privata dono supematurali, et DONO NATURALI non fluente ex natura, sed sccundum naturam debilis sibi. Ed  per la privazione di questo natoral vigor della mente, non per la sola mancanza della grazia santificante, che ne discendenti d'Ada- mo si sfren la concupiscenza: Propler defeclum quippe talis vigoris, sumus desti- tuii in nostra pronitatc ad malum , quae concupiscentia habitualis superius nomina- ta fluii ( 2 ); dalle quali parole pu anche Eusebio imparar di passaggio un altro vero ch'egli non sa, cio che alla concupiscenza appartiene non solo la carne, ma altres lo svigorimento della mente e la debolezza della volont voltasi male; cose che det- te da me a lui parvero grossi errori. Conchiude adunque il Cardinal Gaetano, che la natura umana com'ella nasce presentemente non solo  spogliala della grazia santi- ficante, ma, con buona pace d Eusebio, anche guasta e vulnerata in s medesima; Est igitur fiumana natura sibi derelicta, sublata originali juslia, VULNERATA, ac per hoc infirma in naturalibus , id est in his quae sunt sbcundum natu- rasi, id est in habilitatibus ad virtutis bonum, et hoc per apposilionem : integra auleta in naturalibus, id est in natura, et his quae sunt a natura, id est principili et potenliis et inordinationibus ex parte subjecli: quia nihil per subtractio- nem ablalum est (3). E gi prima ancora avea detto,* che naturalia  elsi non sinl ablata a nobis , sunt tamen infirmata (4). Di che si vede- esser ben lontano il Car- dinal Gaetano d'accordare ad Eusebio che  (5), 0 che  il santo Dottore (Tommaso) t a malincuore di chi lo nega, riponga precisamente 1 essenza del peccato origi-  naie in una privazione, come fanno tutti i cattolici'  (6) ; ma si contenta pi to- sto il buon cardinale d' essere scancellato dal libro in coi Eusebio registra i cattoli- ci: dichiarandosi continuamente, e senza equivoco alcuno dicendo, a ragion desem- pio : Intendit ( D. Thomas ) peccatum originale esse tam n abito m , quam di- spositionem in CORRUPTIONE consistente si ; il che importa qualche cosa di positivo, come la malattia. E bench Eusebio non vorrebbe sentir paragonato a un (I) S. Tommaso, S. I. CXVIII, ir. (2/ Io I. II , CIX , n. |3) Io I. II, LXXXV, iu. (il Io I. Il , LXXXil , 1 . (5) R. Aff. Vili , f. 35. (6) R. Aff. IV., {. 19. Digilized by Google 4S mal Osico l originai porcaio, tuttavia egli mi perdoni se, essendosi egli appellalo al rnnlinal Caetauo, io debbo lasciarlo segailare a parlare, come parla, cosi: Sicut enim aegritudo est habitus cansistens in eorruplione humorutn : ita peecalum ori- ginale est habitus consistens in eorruplione parlium animae. Corruptionis enim nomea, ut palei in octavo Physicorum, ad omnem alicujus desitionem extendi- tur : et sic corre pt io contra Pii rasi prieationf.m distinguitur in litera. Privalio enim dici i negationem in subjeclo opto nato : corrvptio vero a unir positi r usi contrarivi t, fvnda ns iLLAM negationem. Non sanavi enim pri- vatine dici t sanitatis negationem in corpore capaci sanilalis. /Egrum vero di- cit humores corruptos per contrarias dispositiones ad sanitalem : ac per hoc et dicit aliqvid positifvm, et est habitus corro ptus, id est in eorruplione con- sistens.  Et simile est de peccato originati, qui langv or est naturar (i). E da ludo ci impari di nuovo il signor Eusebio, che col cilar falsamente delle auto- riia a proprio favore, comegli fa, quando gli sono contrarie, nulla egli guaJagna, se non del ridicolo. XXXI11. Ma passinm pure oggimai dal discepolo e dal commentatore, al mae- stro ed al testo ; voglio io dire all' Aquinate: e bench anche i soli luoghi del santo dottore allegati fin qui basterebbero a mostrare che forse Eusebio nulla in fonte ne lesse ; lottavia mettiamo di tal guisa la cosa io chiaro, che ciascuno la possa, per cosi dire, palpar colle mani. Avend'io detto, che l' Aquinate non pone l'essenza del peccalo dorigine in una semplice negazione (2), il signor Eusebio, non contento di darmi gi per lo capo il I tolo di correttore di s. Tommaso (3), mi vuol Gn escluso dal numero de' cattolici (4). E pure, che la cosa sia come vuole d signor Eusebio, cio che s. Tommaso  eviden- temente dica che il peccato originale sia dna privazione soltanto , non pare a me, n credo possa parere a chicchessia abbia letto I Aquinate, se pure il signor Eu- sebio non mi neghi che le seguenti parole sieno proprie del santo Dottore: peccate m non est pura prieatio, sed est actus debito ordine privatasi). Mi deve negare ancora, per sostenere la sua tesi, che di s. Tommaso sieno quest altre: peccatum non SOLUM Si gnificat IPSAM PRIE ATIONEM boni, quae est inordinatio : sed significai aduni sub tali urivatione, quae habel rationem mali {6). Deve egli an- cora radere dalla Somma dell Aquinate quelle parole, colle quali, applicando laccen- nato principio, che il peccato non est pura privalio, alla macchia del peccato d ori- gine, scrive che macula non est aliquid positive in anima : nec significai pri- eationem soiam, sed significat privationem quondam niloris animae in ordine ad suam causarti, quae est peccatum (7). Non basta : gli conviene stracciare unal- tra pagina della Somma di s. Tommaso, quella cio dove il sunto Dottore dimostra evidentemente essere gaglioffaggine I evidenza dei sig. Eusebio. Imperocch come poteva il Bantu manifestare con pi di evidenza la mente sua al nostro proposito, che scrivendo cos : Sicut aegritudo corporalis (8) habel aliquid de privatone in gttan- tum toltitur aequalilas sanitatis, et aliquid habel positiee, salice t ipsos humores (1) lo S. I. II. Q. LXXXtl, 1. (2) Trattato detta Coscienza , f. 38 , noia. (3) . Tommaso che la sommissione delle po- terne inferiori alle superiori in Adamo era 1' effetto della grazia santificante , ne viene dunque secondo sao Tommaso che nello stato di para natura in cui mancata la grazia dovea esistere la mala concupiscenza; ma noi accordando che in Adamo T armonia delle umane potenze dipen- deva dalla grazia santificante elle possedeva, neghiamo al tutto la conseguenza che se ne vuol trarre, cio che la mala concupiscenza esiztesse in un uomo creato da Dio senza grazia a prin- cipio e senza peccato, come esporremo piti sotto: sialo che se non ti vuol chiamare di pura natura, pu benissimo chiamarsi di natura integra : non dovendosi questionar di parole ma s di cose. (1) De nuptiie et mneup. L. Il, c. XXXV. (2) lei, L. 11, c. IX. (3) Ivi. (4) De miptiie et concupite. L. Il, e. XXVI.  Ved. ancora il cap. XIV di questo stesso libro, e De peccato orig. conira Pelag. et Caeleel. n. 4, dove distingue accuratamente il santo doUorc ci che aUVztmto detta natura appartiene, o ci cbe al disordine della concupiscenza. (a) R. Aff. I, f. 8.  Per tutte prove della sbadataggine ( dico cosi per sua scusa) del nostro Eusebio basti notare, che adirandosi egli meco perch io dissi che talora T istinto nelle operazioni sue precorre la ragione e la volenti, sostiene che con ci io m oppongo alla senteoza Digitized by Google 56 tanlo sdegno per aver io dello che  avvenir pu, che nell uomo anche desio operi  ii solo istinto animale, senza clic la volont concorra positivamente colla sua azio-  ne  (i). Non si oppongono queste parole mie certamente alta sentenza di s. Tom- maso , che membra non applicantur operi, nisi per consensum ralionis , come s. Tommaso non si op|tone a s stesso quando dice che conctipiscenlia (/uac tran- scendit limite ralionis, inest homini contro naturata ( 2 ); e non si oppone n pure n sant' Agostino, ii quale, dopo aver dello: sin non etiarn mine in ccrpore morti s htijus imperatur pedi, brachio , digito, labro, linguae, et ad nulum nostrum con- tinuo porrigunlur ? soggiunge: Quanto ergo J'acilius atipie tranquilli^ obedicnti- bus qenitalibus corporis partibus et ipsum membrum porrigeretur,  nisi homi- nibus illis l'nobedientibus tnembroruni istorum inobedienlia justo supplicio redde- rettir (3)? Perocch Giuliano pelagiano sostenea pure, altrettanto quanto Eusebio, che le membra non si movessero che col consentimento della ragione, ad vo/untaiis pror- sus nulum membra in hoc opus creala famulari (4) ; e preteudea di trovare in con- traddizione saut Agostino seco medesimo, per aver questi detto che. la disubbidienza delle membra del corpo era pena conseguita alla disubbidienza dell' nomo a Dio , e poi aver tuttavia nominale certe membra , che a volont dell' uomo si muovono: al che saut Agostino risponde: Hoc ego dix, genitalibus utique exceptis, quae corpo- ris nomine nuncupavi: ac per hoc et corpus voluntali servii in aliorum motione membrorum ; et corpus voluntali non servii in motibus genitalium. Non stinl ergo verbo mea inter se contraria, quamvis te palianlur, vel non inlelligendo, vcl alias intclligere non sinendo, contrariata (5). Laonde ben posso anch' io dire al signor Eusebio col medesimo sauto Dottore : Multum guidati laborasli , ut hacc mvenires , di >. Tommaso, membra non applicantur operi, nifi per consemum rationie ; ma nello stesso tempo egli mette a pi di pagina il testo intero eli* contiene la limitazione dallAngelico apposta al suo detto, ed : Quanooqce vero  ratio poteet passioner escludere divertendo ad alias co- gttahoncs, vel impedire ne euum consequalur ejfectum ; quia membra non applicantur operi, nisi per ronsensum ralionis. Se quandoque , dunque non sempre!  Avesse etnica letto il signor Eusebio l' articolo precedente nella Somma di a. Tommaso ; egli avrebbe trovato che il Santo vinsegna come appetitile sensilivus potest se h aber e ad liberum arbilrium et astecedinteb, et conseqiienter. Antecedenler quidem , secundum quod passio appetitili sensitivi trahil rei in- clinai rationem, vel votuntatem, ut supra dictum est ( S. I. li, LXXVII, vi) ; il che 6 eppunto ci che io dissi.  Nella sua inconsiderata passione adunque ( non so se precedente , o conse- guente in lui all uso della ragione, Iddio lo sa ) il signor Eusebio si consigli di mordermi co- tanto onninamente da metter lino in sospetto T esattezza della mia morale I E il tent anche altrove ( R. AfT. IV, f. 19, 20). Ma quid projicil tantum ne fai ? mio caro Eusebio, perch cosi sprecare il vostro vipereo veleno? (1) Tratl. della Coscienza, 32, 33.  Questo io dissi, non quello che mi fa dire la ba- loccaggloe (perch voglio sempre sperar bene delle sue intenzioni) del signor Eusebio. Parlavo io de primi moli, e dicevo che talora  ( Trattalo della Coscienza t . 32 ). A provare come possa essere che listinto prevengo la ragione, io dissi che z so si esamina la natura dell' istinto ani- mate trovasi chesso per operare non ha bisogno dell eccitamento della ragione, di maniera che se si suppone che questa si stia del tutto osiosa, ancora pu benissimo concepirsi un'operazione nell uomo, perch fornito come le bestie appunto dell' istinto i. Si parlava del poter fisico dope- rare; e il signor Eusebio mostra a!l incontro dintendere che con ci si volesse signi beare elio potesse l'uomo lecitamente lasciar dormire la ragione, ed operar l istinto a suo grado! Osa dun- que d' attribuirmi, o tenta alinea di far credere a'suoi lettori, che venga per me liceniiato listin- to a faro tutto quello che pu, tacendosi la ragione ! Deb, mio signor Eusebio , perch mai vo- lete che il lettor vostro dirizzi verso di voi le acute luci del suo intelletto ? per veder forse la vostra ignoranza? basta a vederla delio luci non punto acute. (2) S. I. Il, LXXXII, in, ad i. (3) De nuptiis et concupite. Lib. II, c. XXXI. (4j Parole di Giuliano riferite da sani Agostino. Conira Julian, Pclag. llb. V, n. 20. (S) Ivi, n. 19. 57 nuac conira le pollus quarti contro me (licerci : sed in tali caussa non libi asci ne- cessarius labor , si adesset pudor (i). XLI1. Ma qui mi si conceda un intramesso di alcune poche osservazioni, che giovar dovrebbero a dar maggior forza alla verit.. Il signor Eusebio regala altrui con maravigliosa generosit il titolo d eretico, calvinista, luterano, giansenista, baianisla, molinosista, eccetera, eccetera: con qual fondamento poi, ogni uom di buon senso sei pu vedere. Or pazienza lutto ci, scgli fosse ben sicuro d' aver nette le mani di lai sozzure ! Noi credo io gi un ostinato eretico: credo tuttavia non ponto cattoliche molte delle sue frasi ; e certo le dottrine da lui poste con aria s magistrale nel suo libello pussooo ribattersi ottimamente con diversi di quegli stessi argomenti, che sant' Agostino adoper ad abbattere la pela- ciana empiet. E quantunque io stimerei mio dovere risparmiargli un si odioso con- fronto, qualora egli avesse errato di buona fede, o avesse- ragionato o anco sragio- nato con cristiana modestia; tuttavia rinunziando egli con un Vi ingiusto e villano procedere a riguardi dovuti agli onesti, e dando tanti probabili indizi di mala fede ; ragion vuole eh' io parli a dirittura quello che pu meglio giovare alla causa del vero e della cristiana fede, usando a dirittura di quella legge chegli fece a s medesimo. N alcuno si creda perci, che io miri n pur da lontano a fare onta a qualche scuola cattolica ; ch tutte io le rispetto altamente. E bench apparisca assai chiaro, che il signor Eusebio spera di salvar le spalle appoggiandole appunto ad una delle cattoliche scuole, alla quale i giansenisti diedero a torlo per addietro ed ingiuriosa- mente il titolo di pelagiana ; tuttavia egli non sar troppo sicuro per questo ; giac- ch neppnr quella scuola, io credo, di cui egli si mostra alunno, il vorr riconoscer per suo ; ch, se io non erro, egli esagera e storce le dottrine di essa ; e le dottrine di una scuola qualsiasi esageratc e storte, si possono pi dire dottrine a quella scuola appartenenti (a) ? Ad ogni modo io dir aperto quanto nel sistema del signor Eusebio intorno al- I' originale peccato a me paia vedere d assai vicino al pelagianismo ; n questa sar pi che opinione privata, lino che la Chiesa non parli ; ma pure sar opinione degna a' d nostri che ben si consideri. Perocch abbattuto il giansenismo, qual mai errore rman pi a temersi nella chiesa di Dio? Il razionalismo (3) : ceco il nemico vero dell et nostra. E che cosa  poi egli il pelagianismo, se non un ramo del raziona- lismo ? Laonde si vogliono anche oggid distrutti i misteri, si esalta fuor di misura la potenza dell' umana ragione ; e s inclina sempre a scegliere infra le sentenze cat- toliche, non quelle che abbiano pi fermo e costante appoggio di ecclesiastiche au- torit, ma quelle che meno incaglino il corso del proprio umano superficiale ragio- namento (4) : lo quali una sola linea pi in l del dover che ,si portino, fanno tra- boccar nell errore. Ora son di nuovo con voi, Eusebio mio. (1) Ivi n. 20. (2) Per esempio v' hanno ite' teologi che , senza negare che U volont deli uomo sii in- clinala al male lin dati, nascita ( quando il signor Eusebio va in collera perch io pongo un guasto originala nella votomi), dicono lullavia che il guasto della volont c solo un effetto del peccato dorigine e non levaenna proprio di esso. Ora un tal parlare  ben altro da quello del signor Eusebio; o come si vedr a suo luogo, non mollo differisce dal mio conccUo, nel quale si distingue V inclinazione al male, dal guaito onde quella iDcliDozioue s'origina, e in questo, Don in quella riponcsi t essenza formale dell* originai peccato. (3) lo ho distinto due sistemi di razionalismo, il filosofico ed il teologico. Ved. la mia tetter al professor Polli, inserita nel Progreuo di Napoli, e pi altre volle stampala. (4) Lo stesso Bolgeni , autore per altro eh* io stimo, dichiara di scegliere le opinioni cat- toliche, con questo criterio delia ragione, rigettando quelle, sebben del pari cattoliche, ebe alla ua ragione non si affanno. a trb, sed ex mlndo est ; cujus mundi princeps dictus est diabolus : qui eam in Domino non invenit , quia Dominus homo non per ipsam ad homines venit. linde dicit etiam , ipse , Ecce venit princeps hujus mundi , et in me nihil invenit : ni hit utique peccati , nec qtiod a nascente trahitur , nec quod a vivente additar, liane iste noluit nominare in his omnibus, quae commemoravi/, naluralibus bonis , de qua etiam nuptiae confunduntur , quae de his bonis omnibus gloriantvr. J\am qtiarc tllud opus conjugalorum subir hitur et abscondrtur etiam oca hit JUiorvm , nist quia non poi- stmt esse in laudando commistione, sine pudenda libidine ? De hoc erubuerunt etiam qui primi pudenda tererunt , quae prius pudenda non fuerunt ; sed tawquam Dei opera praedt- canda atque gloriando. Tunc ergo tererunt , quando erubuerunt : lune autem erubuerunt , quando post inobtdientiam iuam inobedientia membra senserunt. ( De nuptiis et concup. L. II. c. V ). jOOgle 59 dottrina di sant' Agostino e di s. Tommaso intorno al disordine della concupiscenza, considerata non coin uno spogliamento di qualche dono soprannaturale, ma come un vizio e un morbo della natura, agli occhi miei  di fede, min solo perch da tutte le Scritture e da tutti i Padri attestata ; eccetto forse da qualche moderno scrittore, che fuor del debito assottigliandosi, cerca schivare le chiare decisioni ecclesiastiche; ma ben anco pel decreto positivo del Tridentino Concilio, il (piale non chiama gi la concupiscenza una parte, una condizione, un effetto della umana natura; nel qual caso verrebbe da Dio, autore della natura ; ma bens la fa procedere dal peccato, ex peccato , e lanatema pronuncia contro chi dice il contrario, come venite a dir voi, mio teologo sopralCno. Itane concupisccntiam , quam aliquando A postola! pec- catum appellati sancta Synodus declami , Ecclesiam Catholicam nunquam inttlle  fisse peccatum appellaci, quod vere et proprie in renalis peccatum sii , sed quia zi pece Aro est, et ad peccatum inclinai. Si quis aulem conlrarium senserit ; analhe- ma sit (i). Or perch mai colpisce questa concupiscenza il sacrosanto Concilio, men- tr ella gode pure la protezione dLusebio nostro, campione s zelante della parit della fede? Se la natura presente dell'uomo non ha nulla in s di vizioso, sol che  spogliala de' doni superni, perch il Concilio colpisce una parte di questa natura uma- na, la concupiscenza, e dell'altre non parla? Se dal peccato  venuta una parte della natura; dunque anche  altre : dunque la natura tutta procede da un cattivo princi- pio. Vedete voi, mio Eusebio, in che modo la vostra novissima teologia vi conduce da un errore all altro suo opposto, e dopo essere stato pelogiano, vi fa divenir ma- nicheo? vedete voi, che se non ammettete un vizio originale insito nella natura, voi dovete o tutta lodarla, come facevano i pelngiani, o vituperarla nella sua essenza, come facevano i manichei? ( 2 ) Scegliete dunque : se col Concilio di Trento fate ve- nire da nn cattivo principio, qual  il peccato, la concupiscenza; dunque tuttala na- tura umana, per esser voi coerente al vostro principio , derivar dovrete dallo stesso principio cattivo ; essendo tutta egualmente intera e sana in s stessa, egualmente spoglia rispetto a doni soprannaturali. Se poi volete co pelagiani che nella natura umana nulla vi sia d'infetto, dovete, contro il Tridentino Concilio, come fate venir da Dio gli altri elementi della natura, far venire da lui pore la sozza concopisceaza , della anale  scritto che f non viene dal Padre  (3). XL1U. 2 .* Che se la natura umana  cos intera e sana in s stessa, quale sareb- be se fosse uscita dalle mani di Dio priva di grazia a principio, ben s' intender come I uomo possa produrre un altro uomo spoglio de' doni divini ; ma non s intender mai come l' infante debba uscir peccatore alla luce ; c questa era un' altra obbiezione, che facevano i pelagiani contro la propagazione delloriginale peccato. Dovete dun- que, mio caro Eusebio, rinunziare a quanto sant Agostino e la tradizione tutta co- stantemente professa, che dal seme virile nou naturai, ma vizialo, vien 1' uomo pro- dotto, semini'ius ex orijine litialis; ne quali semi riconosce pure sant Agostino che tutto  buono ci che appartiene alla mera natura, e non al vizio da essi contratto, aggiungendo : in qttihus bona est ab ilio (Deo) creala subslantia (4). Perocch egli da per tatto distingue la sostanza del seme che da Dio viene, dall infezione di esso che vien dal peccato. A 'eque nunc agitar, come altrove dice, de natura seminis, sed de nrro. Illa quippe habel auctorem Deum, ex isto autem trahitur origina- le peccatum (5).  Niente affatto, ripete il nostro Eusebio, prendendo il tuono di teologo zelantissimo della fede : quel preteso vizio del seme di cui parla sant Agosti- pi) Si-k. V, Decr. de pece. orij. (2) Manie turni t/uidtm naturai n humanam detertaliliter vituperai ; lei tu cruitliUr lau- dai. ( De nupliii et concup. L. Il, c. Ili ).  (S) I. Jo, II. iG. (4) Cantra Jtdan. Pelag. L. VI, 0 . IX. (5) De nuptiii et concupite. L. Il, c. Vili, Digitized by Google 60 no, non  che nn naturai Jifotlo, e l'uomo l'avrebbe avuto anche creato da Dio col- ta sola natura, spoglio di grazia ; ella   una naturale condizione nostra semplice- mente, che ora mirasi come un guasto, una ferita, una degradazione, una pena  (t); ma non  tale se non di nome, non  tale se non pel confronto allo stato soprannatu- rale, in cui 1 ' uom si trovava e si dovrebbe or trovare. Invano sant Agostino s affa- tica a provargli, che dalla corruzion di rjuel seme vien comunicalo il peccato dori- gine ; invano vi reca i testi manifestissimi della Scrittura divina, i quali accusan nel- T uomo non una sola mancanza de doni che eccedono la natura, ma una intrinseca naturale malizia ; in vano domanda : Aam si semn ipmm nulium hahel titium ( parla del semen ipsum, non della natura tutta spogliala de' doni ), quid est quoti scriptum est in libro Sapientiae :  Non ignorans quoniam nequam est natio lito- ti rum, et natcralis malati a ipsorum , et quoniam non poterai mutavi cogita- ti Ito illorum in perpetuimi ; semen enim era t maledictvm ab inilio  (a) ? sog giungendo : Nempe de quibascumque dicat ista, tic hominibus dicil. Quomodo est ergo cuiuslibcl hominis it aliti A naturali s et sejuek maledictvm ab indio, iti- si ad illud rcspicialur, quod per unum hominem pcccatum intravit in mundum , et per peccatum mors , et ila in omnes homincs pcrlransiit, in quo omnes pcccavcrunl (3) ? A queste domande il nostro Eusebio non degnasi di rispondere meglio che non faces- se il pelagiano Giuliano; e pur vanta egli solo d'iotendere sanamente, egli solo d' avere per le sue opinioni il suffragio de pi celebri dottori cattolici, e dell' Aqui- nate massimamente ! Che se io citassi uno o l altro' di que moltissimi luoghi del dot- tore angelico, dov egli insegna, consentendo a sant Agostino e a tutta 1 ' ecclesiasti- ca tradizione, che libido transmittil pcccatum originale in prolcm (4) che caro iivpi- cit animam  inquantum est principium acticum in gcnc.ratione ( 5 ), che in semine corporali est pcccatum originale sicut in causa instrumcntali , co quod per virtutem activam scminis traducitur pcccatum originale in prolcm simvl cum natura Auma- na (6); povero a me ! che griderebbe allo strazio indegno chio faccio di s. Tommaso, e direbbe  Apprendi, apprendi la cautela con coi van Tette le opere del Rosmini!  (7), e giurerebbe che s. Tommaso c a malincuore di chi lo nega  (8), non mette infezione nella natura se non di nome,  ma in realt ( son sue parole ) come nel corpo, co- si s nell anima ora nasciamo e siavi tali quali nasceremmo e saremmo se fossimo k stati da dio creati nello stato di pura natura  (9). Anche nello stato dunque - rire, come un saggio di quo mollissimi luoghi de' Padri e altri scrittori autorevoli , che senza alcuna fatica potrei riferire al proposito. Ecco come espone la vera dottrina il grandissimo Papa accennalo: Ex semnibut ergo porcina atque coanvrui ccncipitur corpus corruptum pariter et foedalum, cui A sua tandem infusa coam'MPircn el rorniTCa: non ab integritale et munditia quam habuit , sed ab integritale et munditia quam haberet , si non uniretur foedato carpari et corruplo , quoniam et creando infmditur , et infondendo crealur. Sicut enim ex vare cor- ruplo liquor infusus corrumpitur , et pollutum contingens ex ipso eonlactu polluitur : sic ex contagio corporis anima corrumpitur et foedalur ( Ad Ps. IV ). Lanima  guasta dunque, non perch so nesca dalle mani di Dio priva de doni soprannaturali , corno vuol Eusebio; ina perch si guasta al contatto del corpo infetto , come vuote il papa Innocenzo con tutta l Chicca. (5) De peccalo originali cantra Pelogium et Coelesl. cap. XXXVII. (6) Iti, c. XL. ri by Google 62 nell' uomo di presente la sola natura pura, ma si bene il viz : o , onde il demonio re gna sulluomo non rinato, non in quanto egli  uomo, fattura di Dio, ma in quanto egli  dal peccato corrotto, recava in mezzo il rito della Chiesa d'esorcizzare i bam- bini prima ancora di battezzarli ; perocch anche i pelagiani dichiaravano colle pa role di rispettare i riti della Chiesa ed i sacramenti, bench nel fatto ne annullasser l effetto: quac ( sacramenta ) tam priscae traditionis aucloritate concelebrai, ut ea isti ( Pelagiani ), qunmvis in parvulis existimcnl si u viatorie POT/US QVAM SE baci ter fieri , non t amen audeant aperta improbatione rcspucre (l). Cos credeva il grand'uomo dabbattere leretica pravit,  Ma ora insorge il nostro Eusebio, e francamente vi dice, che non va presa cosi la cosa.  Ma come adunque?  Con- vien concedere, prosegue, a Pelagio e a Celestio, che nella natura umana com'ora ella nasce, non v'ha vizio alcuno di pi di quello che vi sarebbe nella natura umana uscita dalle mani stesse di D o se egli l'avesse creata senza la grazia. Cos  affer-  mano decisamente i pi celebri dottori cattolici i ( 2 ).  Ma se concedete tanto a Pelagio, se gli concedete elte niente di ci che vha nella natura umana al presento sia corruzione; ma tutto pura e vera natura umana; or come potete poi rispondergli, quando domandavi in che modo il demonio domini una natura in s medesima pu- ra, e che non ha niente che da Dio non provenga ?  Posso rispondergli assai meglio di santAgostino, Eusebio ci replicher  con tutti i pi celebri cattolici dottori  ; perocch io dico, che Lumaca natura quantun- que realmente non punto guasta, la si mira e la si considera siccome guasta, c per la ragione stessissima la si considera e la si mira come se il demonio la possedesse; e ci lutto perch ella  semplicemente ignuda de' doni superni!  Ah ora ben io ca- pisco ragione onde, essendo voi, mio dolce Eusebio, un logico si sottile, scriveste in su' cartoni del vostro libro, come foste la teologia In persona ,  Drizza, Lettor, ver me le acute luci  Dello nlelletto !...  N io certamente, n tampoco sani Agostino, n la Chiesa cattolica, per quantio cre- do ( e di credenza di fede ), ha quelle luci cotanto acute che bastino a raggiungere i vostri voli. Ecco dunque il vostro sistema. Iddio, in pena della colpa di Adamo, spoglia Adamo e tutti i nascituri suoi figliuoli de' doni gratuiti. Qaesti nascono perci spogliati ed ignudi di tali doni, ma del resto realmente perfetti senza macola e senza difetto. Or Iddio, dopo averneli spogliali, dice loro :  Dovevate nascer vestiti  ; e cos imputa loro a colpa la inevitabile nudit. Poscia Iddio ancor soggiunge :  V'ho spogliali de' doni miei, e l'ho imputalo a colpa vostra; ora, essendo voi colpevoli, il diavolo sar il vostro padrone I   Niente affatto, Eusebio, che vedeli cos scoperto, risponde; voi non mavete inteso, lo non dissi che (ulto ci sia, ma che si mira, si considera come se ci fos- se.  0 mio dolcissimo Eusebio, scegliete adunque: o un tal sistema, che dal vostro principio dell' ignuda natura discende,  cero, o finto .- sia che mi rispondiate l'una cosa o l'altra, io non so come aver possiate ardimento di nominarvi, non che catto-  lico, ma pur cristiano. Consideriamo pure ciascuna delle due risposte che sole dar mi potete, e reggiamo ci che ne viene. XLV. Se voi mi rispondete che quel vostro sistema  vero , cio che Iddio sottrae ai nati d'Adamo i doni soprannaturali, n vha altro peccala loro aderente; e che imputa loro veramente a colpa la lor nudit, bench del resto s'abbiano la natura umana sana e perfetta ; e che in conseguenza lasciali veramente in balia del demonio (1) Ivi. (2) H. Aff. VI, f. 54, 55. Digitized by Google 63 fino die non vengano battezzali ; in tal caso, voi cangiate Iddio nel pi stollo, ingiu- sto e crndele tiranno. Ed in tal caso, come potevano parervi cos  crude dizioni  (i) le mie, in paragone di queste vostre, quand'io, descrivendo gli effetti dell'originale peccato in quelli che nascono e che non sono per anco rigenerali, dicevo che  lutti  sono guasti gli uomini nella volont. Non ci ha bisogno di condannarli, basta la-  sciarli in preda al loro guasto : con ci non si fa loro torto, lasciando loro il suo :  questa riprovazione  come a dire un mal fisico, che ci viene sopra inevitabile per  conseguenza dellu colpa del primo padre  (2) ! Non dite voi forse assai pi col si- stema vostro, se parlate da vero ? D'altra parte considerate un po con quest' occasione le mie ragioni, per le quali io mi son cosi espresso, lo rassomigliavo a un mal fisico,  vero, la riprovazio- ne originale; ma il facevo perdio a un mal fisico appunto la rassomigliano i dottori ed i Padri tulli: un morbo, a ragion desempio, la chiama sant Agostino (3): a uu mal fisico s. Tommaso la paragona : Est enim quaedam inordinata disposilo :  sicut eliam aegritudo corporalis est quaedam inanimata dpositiu corpuris , sccun- dum quain solcitur acqualitas, in qua consisti t ratio sanitatis : unde peccatimi origi- nate hwguor untume dicitur (4). Infine la Chiesa chiam sempre e in tutti i secoli 0 morbus , e languor naturac la originai perdizione; ed  una verit di fede colesta , che questa ci venga sopra quando nasciamo , siccome un mal fisico inevitabile, ap- partenendo a' soli eretici il dire il contrario (5). Ma oltre di tutto ci, non havvi certo cagione perch tanto dura espressione vi deliba sapere questa di un mal fisico da me usata, se a voi piaccia di considerar bene il contesto del mio discorso. Descrivendo io condizioni s crude, come voi dite, ma pur verissime, fumana disgrazia, miravo pare a fare risaltar maggiormente il divin benefizio della nostra redenzione; peroc- ch quanto  pi grande l'abisso in cui luomo pel peccato primo  caduto, tanto pi splende la gloria della misericordia del Padre, e il trionfo di Ges Cristo Salvatore, ebe alla sanguinosa croce affisse il chirografo che di tanto con vince vari debitori. Laonde dopo aver io detto che  questa riprovazione (del peccalo originale)  come t a dire un mal tisico, die ci viene sopra inevitabile per conseguenza della colpa del  primo padre , soggiungevo immediatamente :  Ma sia introdotto un altro prin-  cipio nell'uomo, non per opera di libera volont, ma di nuovo per necessit, venga f cio infusa la grazia. La dannazione  tolta incontanente  (6). Volevo io cos es- primere quello di s. Paolo : Conclusit scriptum omnia sub peccato , ut promissio ex Jide Jcsu C liristi daretur crcdcntius (7) Ma voi, mio Eusebio, per inavvertenza forse anzich per malizioso artificio, distaccando del tutto le prime mie parole , che descrivono la miseria de* figliuoli dAdamo, dallaltro che a quelle susseguono, e che descrivono labbondcvol rimedio da Dio posto ad essa; prendeste occasione e di con- dannar per soverchia la grandezza da me descritta dellumana sciagura (S) dallacol- pa prodotta del primo padre, come se io detraessi troppo con ci al libero umano (1) U. Aff. Vili, f. 33. (2) Troll, delta Cose. Tace. 46 0 seg. (3) linde ilio magno primi homi tua peccato , natura ibi nostra in de ter tua commutata ( sentite qui che  la natura stessa elio soffri detrimento, non le iole sesti di cui essa era or- nata?), non solum facta est peccatrix , verum eliam generai peccatorea : et tamen ipte languor quo bene vicenni virt a periti non est ctiquk natura, sed Tirasi (badate bene a queste parole): ticut certe mala sa corpore taletcoo (che  il mal fisico di cui io parlavo, se intendete la- tino) non est ulta tubstanlia vel natura , ttd titum. (De nuptiis et concup. L. IL c. XXXIV). (4) S. I. II, LXXXI). 1 . (o) Onde il sommo pontefice Innocenzo III esclama: Oh gravia nccessitas, et infelix con- d lio ! Antequam pcccemus , peccato coatringimur , et antequam de/inquatnus delieto tenemur / ( De Contempi. Mundi, L. I, c. IV ). (6) Trattato della Coscienza, f. 46 e seg. (7) Gala!. III. 22. (8) R. Aff. Vili. Digitized by Google 04 arbitrio, o la dichiarassi inevitabil nel Tallo ( 1 ) ; fi di condannare poi, in altro luogo del vostro libello , per soverchia egualmente la grandezza da me celebrala della re- denzione e della grazia battesimale infusaci pe' meriti del Signor nostro Ges Cri- sto ( 2 ), come sio volessi con ci .di nuovo al libero arbitrio detrarre quello che pur gli spetta. Io volea mostrare che tutti gli uomini hanno bisogno della grazia delSal- vatore a salvarsi, e che questa grazia  pura misericordia, noti ci vien per diritto che alcnno se nabbia : laonde dicevo: tutti sono c guasti nella volont: non ci ha biso-  gno di condannarli : basta lasciarli in preda al loro guasto : con ci non si fa loro  torto, lasciando loro il suo. Questa riprovazione  come nn mal fisico che ci viene  sopra inevitabile per conseguenza della colpa del primo padre , mal fisico che non si sana (3) se non per la grazia , che a noi viene infusa pure con operazion necessa- ria, cio pel sacramento del battesimo, ex opere operato; in una parola, per la po- tente salutifera virt di Cristo. XLVI. E qui di passaggio ancora ^ osservi quanto inesattamente s esprime il nostro Cristiano. Volendo egli dimostrare che senza la libera sua volont niuoo dan- nasi, cosi dice:  Raccordiamo noi collApostolo (4).  (quanto sta male lApostolo, si grande preconizzatore della grazia di Cristo, in bocca d Eusebio 1 ) ]. Perocch senza i meriti di Cristo potevano c dovevano dire anche que'santi antichi, col profeta Isaia; Et facli sumus ut immundus omnes nos, et quasi pannus mcnstrualac universae justiliae nostrue (3); e anche di essi pot del pari dir'CKS Cristo: Omnes quutqiiot venerimi , fures sunt et latroncs (4). Della salute loro adunque fu causa la divina piet, a cui quegli uo- mini corrisposero col libero lor volere, venendo per questo stesso eccitato e aiutato dalla grazia; n tuttavia poterono evitare i peccati veuiali , l'un solo de' quali , fin (t) Sess. VI. De juelif-, cap. VIt. (2) llaebr. XI.  Divinamente descrive questa fede il sacrosanto Concilio di Trento, dicen- do :  Credente e pera esse, fune ih finitile revtlala et promisea sunt : ttJi/uc iiut in chimi-,  tiro j unti firari i m/ i u m pan uairusi rjus , per redem/tlionem fune ist tu Cintelo Je*u : e/ tinn ptixUToais se eeee rnle/Uyenlee ( non adorni delle virt per le quali vuole il signor Ku- sebm clic gli antichi piacessero a Dio e si salvassero ), a mi nine juifiliae timore , tjuo uttUler roneutiunlur, mi cnneiileratt'ltim Dei Miscaicoaui sm se concerlrndo. in epein eriijunlor, Jden - tee Uria stai paoprsa Cuaiircst paopiuuM rosa, eie. (S*ss. VI, De juelif., cap. VI). Tanto  lungi adunque elle gli antichi piacessero a Dio c si salvassero pus l>: luso vinr , elio ami tutta la loro salvazione dovea incominciare dal ricont scersi spogli di virt c di meriti, c dal peccalo aggravati , aspettando la- loio saluto unicamente dalla divina siisEatconuiA , la quale avrebbe e loro condonate le culpe , c loro dalc le fmz.i ad osservare i divini cuiuaudameuli, o loro infuse le virt ; a colie forzo o colie virt ricevute, sempre pi, cooperando alla graziai avrebbero meritato. (3) Is. L,\lV. (4) Jo. X. Hosmini Voi. XII. 434 G6 che non  rimesso, basta od impedire l' ingresso nel cielo fi); ed nuche mondi dalle veniali colpe, per gli meriti sempre del Salvatore, non poterono per meritar di pi che di scendere ni limbo, (ino che il loro liherntor generoso Ges Cristo vonissse a trarli di quella prigione, senza del quale non potevano uscirne. Che dunque il solo peccalo originale che vien nell'uomo senza sua volont trag- ga seco di necessit la dannazione e la servit dell'uomo sotto il demonio fa), questo  di fede; come  di fede, che il Redentore del mondo port il rimedio di peste cos mortale e vinse il demonio. Ora dicevo io,  ella Torse piu eroda questa mia sealenza, o della Chiesa piuttosto, di quella del signor Eusebio, qualora egli pretenda che il bambino venga al mondo schiavo veramente al demonio per cagione non dun peccalo a lui inerente nella sua propria natura, ma duoa mera colpa posticcia, per cos dire, imputatagli cio da Dio, perch ignudo de doni suoi, c ignudo perch egli glieli sot- trasse in pena del peccato del primo suo padre ? 1,csser pi cruda l una o laltra di queste sentenze, non dipende gi dalla gravit della pena; poich noi supponiamo in tale ipotesi una pena uguale, supponiam luno e 1 altro che il neonato sia al demo- nio in preda; ma dipende dal rilevar se la pena sia inflitta pi ragionevolmente nel sistema mio, cio ia quel della Chiesa, o in quello d Eusebio. Nel mio sistema il fi- gliuolo dAdamo  guasto, non  sol della grazia privalo; ha una volont a Dio av- verso, che impedisce la grazia ( perocch la volont nelluomo anche bambino non manca mai): egli  morto perci nellnnima, mortale nel corpo: Iddio adunque l ha in ira: il demonio ha su di lui un colai diritto di conquista, se lice dirlo, essendo egli stato causa, qual seduttore, della perversione della creatura : Iddio dunque gliel la- scia come gi suo, fino che non gliel ritolga con nuova conquista. Nel sistema vo- stro allincontro, Iddio abbandona al demonio la sua creatura, che nou ha iu s vizio alcuoo, e sol perch  spoglia de doui ch'egli non le ha conferiti: qual crudelt, quale assurdo non  cotesto ! XLYII. Ma voi, gi ben veggo, rigettate quest' ipotesi, e mi rispondete nel se- condo modo de due possibili, venendomi a dire che  tutta Irnslata la vostra manie- ra d esprimervi; e che voi dite bens, a) Che ne discendenti d'Adamo havvi peccato; ma per peccato intendete il me- ro spngliamenlo de' doni soprannaturali, che non  in s peccato, ma che mirasi per tale relativamente alla sua causa, il peccato alluulc d' Adamo, il quale Tu perdonato e quindi non pi imputabile se non per modo di dire, di guisa che se  si astrag- (1) Della giustizia degli antichi santi parta santAguitino di. frequente. Il lettore potr eoo- suilarc De gratin Chrieli cantra Pelagium et Cacle*t>um, c. XLVIIf, dose dice che la giusti- zia guae ex tege est, in etercoribne et detrimenti s i/eputavit.   De peccato originali . , cap. XXIV e XXV.  De nuptiis et concnpi.icentia , c. XI. (2) Dicendo dannazione , non foglio io qui dichiararmi per l* una o l'altra delle sentenze cattoliche, die pi o meno alleggeriscono le pene a* bambini morti senza battesimo. Or il signor Eusebio non devi* credere per questo, quasi leggendo col suo cannocchiale nella mia mente, che a me piaccia di scegliere fra esse la pi severa. Vero , clic io ho adoperata, anche parlando del peccato originale , la parola dannazione usata dalla Chiesa ; ma ci era bisogno di andare Inni* in collera per tal cagione ?( Vcd. R. f. 32, 33). E non dite voi stesso clic t il non andar c dopo morte a godere dell* ctt-rna soprannaturale felicit, se si muoia senz'essere rigenerati, c c lessere esclusi affatto dal cielo, si riguarda come una positiva dannazione? j (R. 33). K se si riguarda come una posila va dannazione , perch salile dunque si sconciamente >n sulla bica per aver io adoperata questa parola senza aggiungervi spiegazione alcuna, ma lasciando che ciascuno la si prendesse per quel che gli piace ? INon la usano forse i Padri , non la usa sant* Agostino continuamente, come, parlando* del peccato originale contro Pelagio c Ccleslio, l dove dice. Ac per hoc Deue hominem damnat propter titidm quo natura dehokkstatuk ,* non propter natlium guae vino non aufertur ( De peccato orig. contro Peiag. et Coeleet. c. XL )? Cessale dunque dal solito vostro vezzo di sognare che io dica quel che non dico, imputandomi i sogni vostri morbosi, e volendomi estinto ia pena di questa strana vostra imputazione. Ma su di ci tornerai! fra poco. ized by Google 67  ga (i) dalla volont libera dell'uomo primo che nc fu laufore,  non animelle  in s neppure la nozione di peccalo  (a): b) Che v'ha nell'uomo com'egli or nasce, guasto, ferita, degradazione, pena e colpa; ma che tutte queste cose sono solamente  i naturali difetti dell anima e del  corpo nostro, che nello stato di pura natura si sarebbero dovuti mirare come na-  turali condizioni nostre semplicemknte ; ora che decademmo si mirano come un  clic spieghino il passo del* T Apostolo in cui dice che i noi siamo per natura ligliuoli n t l l 1 2 3 4 5 6 ira  Come pretende il signor Eusebio. Quanto all* Angelico poi da lui nominalo in particolare , se non  sozza menzogna la sua, egli  certamente un delirio! Le proprie parole, colle quali l'Angelico nel suo Commenta- rio sulle lettere di s. Paolo ( Epln-s. II, 3 ) spiega il Cum essemus nalure filli trae, sono pre- cisamente queste : Peccatum vero ori (finis insinuai dicens : c Et eramus rtalurd filli trae .  c Eramus nalur  , id est , per originem naturar, non quidem natiuae et natura est, quia sic bona est 1 1 a Do, sed katcrie u f vi ti at a (intenda bene il signor Eusebio) : c fitti rae , id est vindictab poexae, f.t geiiekme et hoc sicut , et ceteri , id est Gentilcs. Vegga il lettore se si potrebbero trovare parole pi ellicaci di q teste a prostrare I errore noli-cattolico del signor Eusebio della pretesa natura umana non viziala ! vegga ancora Cno a qual segno una velenosa passione possa traviare la mento c la lingua d' un uouio ! (6) S. Aug. De nu pliis et concupisc. L. Il, c. V. Digitized by Google 68 pura natura umana, e se naturala hominis ipsc (diabolus) non condidit (i), perch dunque quella che  (ulta opera di Dio nasce ora schiava del diavolo?  li so ancora che saut Agostino gli rispondeva, non cos ideo teneri (a diabolo). quia homines sani, quod naturae nomea est, cujus auctor diabolus non est ; sed qma peccatore! sunt, quod culpac nomea est, cujus diabolus auctor est ( 2 ) ; ed Ancora : de vitto hic agitar, quo est depravata natura bona, CUJUS vi tu auctor est diabolus ; non de naturar ipsius bonitale, cujus auctor est Deus (3). Ma il nostro Eusebio non potendo risponder cos, perocch egli comincia dall accordare generosamente a Pelagio, elio l'umana natura di presente non  viziata, ma sol nasce spoglia della grazia santi- ficante, e quest  tutto ci che in essa per colpa si mira (4) : che cosa altro potr a quellempio rispondere, se non, il diavolo esser autor del peccato, doversi interpre- tare  co pi esatti dottori  per tult'altro da quel che suona ; e, nascer l'uomo schia- vo al demonio, doversi intendere semplicemente per nascere da Dio disgiunto, cio privo semplicemente della sua grazia, senza per essergli in disgrazia ed in ira? Non dice veramente Eusebio questo in espresse parole ; ma implicitamente cel Fa co- noscere. E da prima assolve egli il diavolo con sottile argomento dall' esser autor del male, perocch scrive:  I traviamenti morali ci sono: e quanti! Chi se ne dovr  qual conseguenza del peccato d'origine , riducesi ad uoa maniera di dire che lutlallro significa; la parola poi dannazione , come toccai pi sopra,  pel cuore di lui, dolce (in col demonio, tale nn eccitante , che lo mette in convulsione, e dal suo tesoro il fa eruttar su di me villanie copiose e menzogne. Ilo io sol nominata quella parola, senza spiegarmi di pi ; e perci sol mi condanna co- gli eretici al fuoco. Non contentasi egli di decidere ex cathedra, che quella parola intender si deve per  non andar dopo morte a godere delleterna soprannaturale fe- c licit,  ed essere esclusi all'atto dal cielo  ( 2 ). Se di questo solo appagato si fosse, mi basterebbe dirgli : c Fratello nel mio Trattalo della Coscienza che voi straziate non trovasi pure un mollo n in favore n contro a questa vostra sentenza: lasciatemi dunque in pace, poich io non sono entralo, n entrar voglio con voi in tale questione >. Ma va pi innanzi: egli mi morde e dilacera per aver io nominato semplicemente le voci di dannazione, di perdizione e di riprovazione, riferendo e spie- gando alcuni passi dell Apostolo, de'quali egli riporta, non so io se per iscaltrezza o per la sua solita semplicit, solo il seguente: Usquc ad legem enim peccatum erat in mundo : peccatum autem non imputabatur cum lex non csset. Sed regnanti mori ab Adam usquc ad Moyscn dia in in cos, qui non peccaverunt in similitudmcm prue- varicaiionis Adac (3); dopo di che cosi mi rimbecca:  Dov' qui la dannazione, la (I) Pelagio ammetteva che si dovessero battezzare i bambini : aon volea orlare colla Chie- sa ; iua realmente a' riti battesimali sottrata la virt , riducendoli ad ima simulala e vanissima cerimonia. ( Ved. santAgnstioo Ve peccato orininoli ecc., c. V ).  ( Eph. II ): non dice clTeravamo figliuoli del giudizio ; non ti parla di un giudice che pro- c noncia una sentenza ma di un padrone incollerito, a cui il servo  odioso. Cosi pure: t Tutti ( quelli, dice, che hanno peccato senza lo legge, pehiha.i.no sema la legge; e tutti quelli ohe henna 70  perdizione, la riprovazione, di che parla nel suo commento il signor Rosmini?  A cui rispondo, che il signor Rosmini non cit dellApostolo quel testo solo, ma prima immediatamente quesfaltro: Quicumque enim sine lege peccaverunt, sine leje pe- ri bunt ( i ), dove l'Apostolo nomina la perdizione : rispondo ancora, che in quello stesso passo dal signor Eusebio recato, pu trovarsi benissimo la perdizione, senza op- porsi menomamente alla lista d interpreti che bugiardamente egli cita, dequali mette alla testa, coninGnila impudenza, sant'Agostmo : la quale impudenza trarr io in luce fra poco.   Come pu trarre egli quindi, cosi prosegue a investirmi, la generai de- s dazione, che tulli gli uomini, senza eccettuare n pur coloro che non peccarono mai  con colpa attuale e libera, sono guasti nella volont?   Tutti gli uomini, senza eccettuare u pur coloro che non peccarono mai con colpa attuale c libera, come i bam- bini, sono pur peccatori per conseguenza dell'eredit funesta dell'originale peccato: Omnes dec/inaverunt , simul inuti/es facli sunt (e). Ora nel sistema d Eusebio, in cui loriginale peccalo non  alcun vizio aderente a ciascun che nasce, gli uomini che non abbiano attualmente e liberamente peccato, non debbon certo essere guasti nella po lenza morale, che  la volont, come non son guasti nell' olire; ma lutt'allro nel si- stema dell'Apostolo e di sant' Agostino, nel quale la natura umana  tutta viziata, cujus vilii auctor est diabolus (3). Nel sistema dell'Apostolo e di sant' Agostino si dice, che vulnus  quod peecatum rocatur , ipsam vitam vulnerai , qua rf.c.te Vivebatur (4); ed era certamente colla buona volont, che vivevasi rettamente pri- ma dell originale peccato; et lamen t'pse languor quo bene vip indi virtus pe- ri it, per continuarmi colle parole chiarissime di sant Agostino, non est utigiie na- tura, sed yiTiuM (5); laonde non solo  perita nella volont umana la virt di operare soprannaturalmente il bene, al che si richiede la grazia , ma  debilitata al- tres ( quantunque non al tutto perita ) la virt in essa volont di operare il bene onesta naturalmente ; e nel catechismo imparammo esser noi lutti al male inclinati. Laonde il signor Eusebio rinunzia veramente al catechismo, negando che noi siamo ni male inclinati e per guasti nella volont ; e dee far si che anche il mondo vi ri- nunzi prima di persuodersi della sua teologia; come pure sar uopo clic rinunzi alle decisioni del sacrosanto Concilio di Trento, il quale cosi si esprime: opirtere ut iirus- quisque agnoscal et Jaleatur; quod cum omnes homines in pracvaricatione Adae c peccalo nella leggo, per la legge idratino giudicati  ( R >m. II ) : dove a quelli clic erano senza c legge attribuisce la perdizione, e a quelli che aveano la logge attribuisco il giudizio; dislm- C guendo cosi sottilmente fra la dannazione e la imputazione , propriamente c strettamente della.  Anzi, sebben gli uomini peccatori perivano anche senza la legge, c* per avanti al a logge, lul- c tavia s. Paolo dice espressamente clic aranti la legge il peccalo non ' imputava. c Fino alla leg- c ge, cosi egli, vera nel mondo il peccato ; ma il peccalo non s 'imputava, non essendoti U legge > C (Rom.). Non rera dunque imputazione secondo la maniera di parlare dell'Apostolo ; ma v' area C tuttavia dannazione e perdizione , soggiungendo : c Ma regn la morte da Adamo fino a Mos  anche in quelli che non peccarono alla similitudine di Adamo i (Rom. V ). cio olla colpa c attuale e libera, come pecc Adamo, Vi avea dunque peccalo abituale e originale , v* area C dannazione; non per ancora in istrctio senso imputazione; la quale esige il libero arbitrio, C che specialmente si sriiuppa colla cognizione della legge positiva. Tutti adunque sono guasti C gli nomini nella volont. Non ci ha bisogno di condannarli, basta lasciarli in preda al loro  (Usai. Ili) Troll, della Cote pag. 44> e seg. (1) Rom. II, 12. (2) Adopera questo testo s. Paolo (Rom. IH) a dimostrare Puniversal corruzione prodotta dall* originale peccalo. (3) S. Aug. Ve nupliit et concupite. L. Il, c. IX e c. XXVIiI. Il d atolo non pu sot- trarre la grazia di Dio agli uomini, j rocche della sua grazia  disposare D.o solo; tua lidia* volo pu ben viziar la natura che a lui si d in preda col peccato. (4) De nuptiit et concupite. L 11, c. XXXIV. (5) Ivi. Digitized by Google 71 innocentiam perdidixsent (i), fatti immondi ( e non solamente ignudi di grazia ), et, ut Aposlolut inquii, natura filli trae,  usque adeo ss un f.rant peccati et sub potf.state dia boli ac mortis ( attendete bene, signor Eusebio, alla forza di tulle queste parole, che fanno tutte per voi), ut non modo gentes per virn nata - rae, sed ne Judaei quidem per ipsam eliam litleram letjii Moysi, inde liberati ' , aut sorgere possent ; torneisi in eis libertini arbitrium minime exlinctum esse t , viribus licet attenuato M, et inclinatosi ( 2 ). Dalle quali ultime parole non vi pare ora a voi di rapire in che stia il guasto della volont prodotto in tutti noi dal- loriginale peccalo ? Ma il signor Eusebio, stizzito tuttavia, che, dopo aver citale quelle parole del- lApostolo, regnavit mors ab Adam usque ad Moysen , io abbia nominata la parola dannazione, cosi continua mordendomi :  Chi prende qui la voce morte per sinoni-  la parola regn io carattere corsivo ; ma ci non dee avere eccitata I attenzione d' Eusebio. ( 7 ) Ivi. Digitized by Google 72 E se non basta ancora, rechiamo un altro luogo del santo Dottore, dove ili nuovo spie- ga l apostolico, testo : eccolo: Sed  regnavi!, inquit, mors ab Adam usque ad Moy- sen i : id est. a primo /tornine usque ad ipsain edam legem qitac divinitus promulgala est, quia ncc ipsa potuit regnum mortis auferre. Uegxvm cnim morti S riLT INTEL- ligi, quando ila dontinatur in hominibus rcaltts peccali, ut cos ad vi t ani aclernam, quae vera vita est, venire non sinai, sed ad secondisi etiam , qvae poenauter aeterna est, MORTESI trauat, e poco appresso: Ergo in omnibus  ( It. A ir. Vili, f. 33 ). Il mio signor logico  fuor di casa : it dire che I uom va soggetto ad un male , non c un negarne la medicina. N ho io mai dello che manchi ogni aiuto di grazia attuale ai non battezzati, come egli sugna ed afferma. In qnat maniera poi la grazia del Signor nostro esiga la coopcrazione negli adulti del loro libero arbitrio, ella  una questione separala del lutto da quella di cui si trattava , c intro- dotta da voi, voglio credere, non per malizia, ma per quella lurbazioue , iu cui mostrate, per Vostro male, d'aver la mente. (S) Cornai. D. Tk. in h. I. Digitized by CjOO^Ic 73 della Ipro interpretazione! Dovea veramente esser riserbalo al nostro secolo il pr- durre uo ingegno s sopraffino, clic contro di loro con illazione mirabile conclu- desse:  Chi prende qui la voce morte per sinonimo di dannazione e perdizione, d  a sospettare di volere mandar dannati tutti quelli che vissero nella legge uatu-  rate. > Dunque voi, .santi Dottori miei, siete lutti sospetti. Tremate, o sapientissi- mi miei maestri, sotto un imputazion criminale cos assoluta che il signor Eusebio v' intimai Io per me, omiciattolo come sono, intanto che con voi altri leroe combat- te, mi sto queto queto nascosto sotto un gherone del vostro trionfai vestimento. L. 5." Ma a nuove iancie pon mano Eusebio, dopo spezzate le prime, per con- figgermi siccome eretico marcio eh io sono , perch con inaudita temerit e novit nella Chiesa, dichiaro fin condannati i bambini non ancor rigenerati dal santo batte- simo, e d una dannazione che viene lor sopra, se muoiono , siccome un mal fisico inevitabile ! '  Quando la dannazione sia come un mal fisico  ( udiamo colla debita atten- zione il profondo suo ragionare )  che ti vien sopra inevitabile per conseguenza della  colpa del primo padre: e tu non la puoi schifare, come non puoi schifare la morte c del corpo ; come si avverer quel che dice Dio por Osea (111): Perduto tua Jsruel :  lantummodo in me auxilium. tuum ? E nel di del giudizio non potranno pi dire * tutti i riprovali : Hos insensati. Ergo erravimus .  invece di dire al Signore : J it- ti stus es Domine , et reelwn judicium tuum ; dovran ripetere: . Questa  certamente una dannata bestemmia ; quella all 1 incontro  un'opinione per- messa : ani Agostino la tenne, l dove scrisse : Qui non in regno , procul dulo tn iguem ae- ternum ( Sorrn. CCVCIV ). S. Fulgenzio del pari : Jgnibus arsuri sunt sine baplismate nut- riente s pannili, qui nihil boni aut mali egerunt ( Ve ventate pr ardesti nat. L. I. c. XIV ). Il papa s. Gregorio M. pure dice , che perpetua quippe tot menta pcrcipiunt qui nihil ex propria voluntate peccaveruni ( Moral. L. IX , c. XXI }. Il papa s. Strino del pari raccomanda che si battezzino i bambini con ogni sollecitudine, ne  exitns unusqutsque de sacculo et regnum perdat et vitata ( Ep. 1 ad flimer., c. Il ). Giovanni Vili del pari loda quel padre che battezz il bam- bino morieote, ne ammam perpeti/d morte peaecntem dimitteret ,  ut eutn de polestate auctor t mortis et tenebrarum eriperet { Dccr. Graliaoi, I*. II, caus. XXX, q. I, c. vii. La Chiesa che ha dato ai parrochi il Catechismo Romano acciocch ammaestrassero i popoli nella sana dottri- na, ha fallo scrivere io esso, che miri per Baptismi gratiam Veo renascanlur , in sempiternam mtseriam et interitum a parenlibus  procreentur . Quam legem non solum de iis qui adulta oetate sunt , sed etiam de pueris infanttbus inlelhgenuam esse , idque ab apostolica traditione Ecc testami acce pii se , commoms patkom sententi* ir alctoaitas conpiemat ( De Bapl. Sacrarn. ). E la ragione di ci, si  quella addotta dal Concilio di Trento , che : etsi ille ( Christus ) pr omnibus mortuus est, non o ranci tamen ejus benej ium rccipiunt t sed ii dumtaxat quibus me- Kosbini Yol. XII. 435 Digitized by Google 74 Questi sono appunto gli stessi argomenti, che usarono lutti gli eretici, c tutti gli empi che presero ad impugnare il dogma delloriginale peccalo: pretesero essi sem- pre di dimostrare che un lai dogma  un assurdo, un ingiustizia , una crudelt da parte di Dio. Non sono adunque io che ho qui lonore di essere assalito dui signor Eusebio, ma la Chiesa stessa. A me soprabhasta di poter opporre alle mal consigliale chiacchiere del nostro Eusebio la semplice fede del carbonaro, e di dirgli : Io credo, perch mel dice la Chiesa, che in ogni bambino che nasce vi abbia un vero peccalo, nna vera colpa, una vera pena: credo che esso bambino, finch ri- generalo non , bench privo delluso del libero arbitrio, s' abbia pur contro /rara et indignalioncm Dei , nltjiie ideo nuirtem,  et cititi morie captivilatcm sub cjus po- tcsiatc qui inorlis deinde habuit imperium , hoc est, diaboli (i). Dico anchio, perdo- natemelo signor Eusebio, Si quis  inquinatum illuni (Adam) per inobedienliac pec- catimi, mortein et pocnas corporis tantum in omnc genns humanum transfudissc, non aulem et peccatimi, pi od mors EST Atti MAE', anathema sii (2); dico che se il bam- bino muore prima di rinascere col santo battesimo, passando dalla morte alla vita, strappato de potestate tenebrarum (3). egli si rimane in eterno morto nell anima, e schiavo del peccalo c del demonio. Dico questo perch questo  di fede (4); ma non dico di piu. LI. Alla vostra domanda poi, signor Eusebio mio dolce :  Come questi dannati Ila morte eterna ed alla eterna schiavit del demonio, colpa c pena che viene lor sopra senz attuale loro demerito, potranno riconoscere la giustizia di Dio, e non do- vranno anzi dire: Dove  Signore la vostra giustizia?  rispondo: che questa che voi mi Fate, si  uninutile, temeraria ed empia domanda; rispondo che egli  certo essere Iddio, quanto verace in ci che ci rivela dA credere, altrettanto giusto in ci rrVum passionia rjvs communicaltir ( Scss. VI, Dtcr. de jutlif. ). Or non  eli* un temeri- t inconcepibile quella del signor Eusebio elle mette insieme con Citrino quanti afTcrmann die n. Ab hac igitur potestate tenebrarum , quorum est diabolus princeps, id est a potestate diaboli et angelorvm tjuSy quis quia erui cum bai lizantur ne g aver il parvvlos , ipsorum Feci e sia e sacramentorum ve- ntate convtncilur , quae nulla ha eretica novilaa in Ecclesia Christi auferre v et mutare per - snitiitur , regcntc atque adjurnnle capite tatuai corpus suum , fiustllga cum magnis ( S. Aug. De nuptiis et concupite. L. I, c. XX ). Digitized by Google 75 che egli opera; rispondo ancora, non avere voi pnnlo inlesi i lesti che prognate in- serendoli in quell indiscreta voslra dimanda, Perditio tua Israel ecc., e No . t insen- sati ecc-, i quali testi agli adulti solo appartengono, e non ai bambini; e finalmente rispondo, che se voi la ragion non trovale da spiegare a voi stesso la condotta divi- na nella trasfusione dell'originale peccato e delle conseguenti penalit, ci non dee far maraviglia alcuna, pprch voi non mostrate poi d'essere, come snol dirsi, fin- ventor della polvere; e quand'anco foste, adeguar non potreste mai I alterca dogiu- dizt divini, e vi converrebbe credere ed adorar tuttavia, se pur vi piacesse salvarvi, senza negare apertamente il dogma o con sottigliezze vanissime pervertirlo, quel vo- stro capo abbassando, che va si curioso di pur sapere quel che non pu- Lll. Smgolar cosa  a vedere, come non avendo io io alcun luogo spiegala la mia opinione in solla sorte de' bambini non battezzati, nondimeno Eusebio Cristiano sia tutto fuoco contro di me, immaginandosi i mei pensieri! Veramente che questi sieno contrari ai suoi, non s  ingannalo, dovendo io cosi da Ini separarmi, .per rslar colla Chiesa. Ma odasi con elle buon -proposito venga egli di nuovo a parlare di que- sta materia sua prediletta, a face. 35 del suo tremendo libercolo. Dopo aver detto;  Ma in realt come nel corpo cosi nell'anima, ora nasciamo e stani tali, quali fia- li Beeremmo c saremmo se fossimo stali da Dio creati nello slato di pura natura.   Questo si trac dalle definizioni medesime della Chiesa  ; egli viene a recare iu mezzo queste definizioni, e tre ne riporta. S' ascoltino bene , perch certo meritano grand'attenzione le decisioni di santa Chiesa. La prima .consiste nella proposizione 55 condannala di Bnjo, Deus non poluisset ab indio totem creare hominem , quali* mine nascitur a la seconda  la decisione dot Fiorentino Concilio , ebe n chi perde  leterna felicit solo per lo peccato originale, non patisce le pene medesime di chi  va dannato por proprio personale demerito: puenis tamen imparibus cruciandos ; c la terza finalmente si  la dottrina condannala del Sinodo ili Pistoja, che vitupera- va come una fola de Pelagiani il limbo de' pargoli. Non si sa veramente , come da queste tre definizioni della Chiesa il teologo nostro intenda dedurre, che noi dunque nasciamo colla natura umana perfetta, c solo Senza la grazia santificante. Ma fallo sla, ch'egli tosto cosi conchiude:  Dalle quali cose tutte ben pesate  appare che  noi non siamo stati ingiustamente puniti per colpa non propria  (i); per la qual colpa non propria , egli non pu intendere qui altro che l'originale peccato, che lut- to, secondo lui. al primo padre riportasi, c di cui solo parlano le definizioni del Fio- rentino Concilio, e della Bolla /tue torcia Jidei da lui arrenate ; e la dice non propria, come prima avea detto che non  nostra , senza punto temere gli anatemi dei Triden- tino Concilio che dichiara espressamente il contrario, cio loriginale peccalo inesse unicuitpie propriusi  La sua conclusione dunque riducesi a questo entimema: Tesser puniti per colpa non propria  ingiustizia : dunque quelli che muoiono colla colpa originale senznitro peccato attuale, non essendo quella colpa lor propria ( secondo lerronea supposizione di Eusebio ), non debbono essere puniti : dunque quelli che muoiono senza il battesimo non hanno alcuna punizione. Egli vuol dimostrare che non hanno punizione i bambini morti senza il battesi- mo, (raendulo dalla supposizione falsa ed eretica che non abbiano colpa propria ! Ma qual circolo  poi questo suo? Perch vuol egli dimostrare che non hanno punizione quebambini?Per ritrarne che  in realt come nel corpo cosi nell'anima, ora nascia- i mo siam (ali, quali nascerenuno e saremmo se fossimo stati da Dio creati nello '  stalo di pura natura , il che  quanto d : re, t senza colpa propria  , e colla sola imputazione della colpa del primo padre, perocch  il peccato originale, se si con-  sideri solo nell uomo che ne partecipa,  non ammette in s neppure la nozione * di peccato  (a). Or chi non vede qui il circolo in cui naggira? A d'iuostrnrc che (1) R. Air. Vili, f. 33. (2) R. AIT. I, f. io. Digitized by Google 76 1" noni che nasce non ha colpa pi opra, prova che egli non ha punizione nell'altra vita: e a dimostrare poi che non ha punizione nell'altra vita, prova che non ha col- pa propria, perocch, argomenta, il peccato originale consideralo solo nell'uomo che ne partecipa  non animelle la nozione di peccato, i Loica maravigliosa! e che sanit di dottrina! che  evidenza della cattolica ve- ri , secondo t il parere de' pi celebri dottori!  Pure a me, caro Eusebio, lasciando a voi lutti i sottili ragionamenti, cooviendi nuovo dichiararvi che eleggo di sentir colla Chiesa. Questa, d'infallibile autorit dotata, mi dice die il peccato d'origine  proprio di ciascheduno che nasce, ed io il credo. Quanto poi alla pena di tal peccato nellaltra vita, attenuatela quanto volete, non vi contrasto: ma quando pur mi diciate che quel peccato non porla punizione di sorte alcuna, se non di nome, allora non posso pi tenermi dal dirvi : havvi qui errore, fiatcl mio, havvi eresia manifesta. E non ho bisogno, a provacelo, che delle aatorit che voi stesso mi date in mano. Bella a dir vero si  quella del Fiorentino Concilio, portata da voi, come sem- bra, a provare che i bambini non abbiano punizione, n insita colpa! Ise parole di quel Concilio, che voi non osaste addurre tutte intere, sono pur queste : lllorum au- tem animai, quac in n duali mortali peccato, vcl solo ORgtnalt decedunt, mox in infermali dcsccndere, pocnii tamen disparibus puniendas. Basta udirle, e la questio- ne  decisa : parlano pur d' inferno, parlano di cruciali anche per quelli che il solo originai peccato hanno in sull' anima ; sebbene di cruciati minori (cura  ben giusto) rhe non per gli altri ; dunque ciascuno che muore non rigenerato dall' acque battesi- mali, porta in s stesso e una colpa, e una pena eterna. Dunque ha peccato proprio il bambino, dico io, come dice il Concilio di Trento, eziandio che non abbia ancor libert; perocch la libert dell nomo che ha in s il peccalo, non  necessaria a co- stituire il suo peccato, come dissi nel Trattato delta Coscienza con tanto vostro ram- marico, ma  necessario un libero suo astore a renderlo imputabile, cio a far si che acquisti la nozione di colpa. LUI. L' altra autorit che arrecate  la condannata dottrina del Sinodo di Pi- stoia, il qual rigettava siccome min favola pelagiana il Limbo de pargoli ; e anche questa dehnizione della Chiesa, avendo voi avuto giustamente paura di- recarcela in- tera, vi siete fatto lecito d addurla mezza, lasciando fuori, gi s' intende, quelle pa- role, che del tutto prostrano il vostro errore. La qual definizione della sapientissima Bulla Auclarem Jidei , restituita alla sua integrit,  per avventura cutesln : zzivi. Doclrina, quac r eliti fabulam Pclagianam explodil locum illuni infero- rum ( quem Limbi pucrorum nomine Falde* passim designant ), in quo animae dc- rcdcntium nini sola originali culpa pocna damai dira pocnain ignis punianlur ;  Perinde ac si hoc ipso quod qui poenam ignis removeot, imlucerent locum  If.LUM, ET STATUII MEDIUM EXPERTEM CULPAE ET POESE 1STKH REGNU DeI, ET S D.iM.NATIuNEM AETERNA V, QUALE KAUULASTBR PkLAGIANI  (l), Falsa , temeraria, in scholas calholicas injuriosa. (I) Tulle queste parole in carattere rotondo, che dichiarano tolto quale aspetto venne con- dannata la dottrina del Conciliabolo listojrso, vennero del tultn ammesse dal signor Kutebio; te per incolpevole distrazione o per mola fede, pensi ehi tocca. Certo  per altro, clic di tutte le propoaixiooi condannale ch'egli adduce in copia nel suo libello, non si mostr mai sollecito di ricercare il vero senso nel quale dalla Chiesa vennero condonnale, prendendole materialmente, o interpretandole a fantasia: bench il cercarlo sia estremamente necessario, massime trattandosi delle proposizioni di Bajo, di cui disse la Bolla stessa elle le condann, guamvis nonnulla! ali - */uo paolo mtineri posimi-, e le sruole cattoliche disputino fra di loro del lenso in cui talune di esse fu condannala. Cosi sogliono fare tulli quelli che Tua de parlili e non cercano la verit. Digitized by Google 77 Avole ora inteso in che consiste la favola pelagiana? Non neHammeltere il Lim- bo de' pargoli ; ma si bene  neH'amniellere on luogo e stalo medio privo di colpa e  di pena, fra il regno de'cieli e la dannazione eterna.  Che dite di questa parola dannazione eterna, che vi fa tanto paura, applicala ai bambini, e per la quale, es sondo stata da me applicata a quelli che muoiono col solo peccato originale sull'ani- ma, mi volete scomunicato? E ondale gridando come un forsennato:  Dov' qui la  dannazione, la perdizione, la riprovazione di che parla nel suo commento il signor  Rosmini? >  C benissimo, io vi rispondo, fratei mio; come c nella Rolla Auctorem /idei, a cui voi appellale per provare che l'applicarla a coloro che non peccarono mai con colpa attuale e libera,  un grosso errore! Voi siete dunque di quelli che volete accettare la Bolla Auctorem Jitlei negli utili, come dicono i legali, non accettandola poi ne' disutili: volete accettarla quando dichiara che il Limbo de' pargoli non  una favola pelagiana ; ma non parlale pui dammetterla, quando del pari dichiara che  una verissima favola pelagiana  lani-  mettere nn luogo e stato di mezzo, privo di colpa e di pena, fra il regno de cieli  e la dannazione eterna.  I! voler dunque, come voi fate, che quelli cl;e muoiono co! solo peccalo d'origine in sull'anima senz altra colpa attuale e libera, non vadano in eterna dannazione,  bella e buona favola pelagiana , condannata dalla Rolla Auctorem /idei, che per vostro male allegate: e per, secondo quella Bolla, voi pu- tite di Pelagianismo. Egli  pur singoiar cosa a vedere, come sempre quelli che ebbero dannoti er- rori a sostener nella Chiesa, .simularono d'essere zelantissimi della cattolica. verit, e invocarono a lor favore le decisioni della Chiesa medesima, come voi fate, signor Eu- sebio, sopprimendone cio ano parte, unaltra contraffacendone, o astutamente inter- pretandone. Sempre quelli sfacciali apposero la taccia d'eretici ad altri, massime a quanti contro a' loro coperti e' subdoli errori difesero il dogma cattolico; e cosi i santi Ambrogio ed Agostino furono dalleretico Cioviniano, e da Pelagiani e Celestini per eretici accusati. Perch voi dunque, Eusebio, imitate costoro? h date a me la glo- ria, bench non la meriti, di sostenere con que'gran luminari del cattolico mondo la stessa calunnia, e di poter dire anch'io ci che risponde il Dottor della grazia , tac- ciato d' eretico al pari di sant Ambrogio, fios cum ilio homine Dei ( Ambrosio ) pa- licntcr ve Ara male dieta et com'icia sustinemus (l). E dunque deciso, per tornare a noi, dalla Bolla Aucloremjdei che non  un errore quant' io dissi nel Trattato della Coscienza si calunniato , che il solo peccato originale senz altra colpa attuale c libera irne dietro a s dannazione, perdizione, ri- provazione, et qitidcm aeternam, come aggiunge la stessa Bolla :  deciso che anzi  nn error il negarlo, come voi fat : ell' appunto l'antica favoliT.de Pelagiani i quali anticamente dicevano darsi  nn luogo e stalo di mezzo tra il regno di Dio e la dan-  nazione eterna, luogo e stato privo di colpa e di pena ; in onta alle stesse parole di Cristo, che dichiar, senza mezzo alcuno, qvi non est mecvi . contea me est. Non temete voi dunque ancora, mio caro Eusebio, che il pubblico, schietto, comesser suole, v intimi forse qoel detto stesso di sautAgnstino a Giuliano : frustra Jngis inipctus fulminanti s, cum spircs fumuni potius fulminali. (2). (1) De nuptiit et concupite. V. II, c. V.  Ved. . Ambros. Ep. LXXXI. ad Siricium.  Ogni eretico imput sempre ai cattolici ali errori contrari a quelli ch'egli professa. Cosi so Gioviuiano diceva ssnl'AgO'lino essere Manicheo, gli Ariani lo accusavano di essere Sabelliano.  Vcd. s. Aug. De nuptiit et concupite. L. II, c. XXtlt ,* et Operit itnp. contro Jui. L. V, cap. XV. E chi sa che quando Eusebio mi nomina coli* aria delta derisione 1 il tloveretano 1 ( K. AtT. X, f- 41), non si creda egli di fare una qualche altra felice imitazione di qoel Giti* liano, che chiamava santAgostino per contumelia pocnus diiputalor (Ved. aanl'Agost, Cantra Jul Pelatj. L. Ili, n. 32). (2) Operi 1 imperfecti contro Jul. L. IV, c. CXVIII. Digitized by Google 78 Troppo celebri sono le fallacie che us Pelagio per ingannare l' apostolica Se- de, e troppo lastuzia onde al papa Innocenzo scrivea in quella lettera che fu poi consegnata, lui mono, ni suo successore Zosimo, se ab hominibus infamasi, quod neget parculis baphsmi Sacramenlum, et absque redemptione C liristi alitpiibus eoe - lorum rcgnuin pronai tal. Perocch Pelagio n negava a bambini il sacramentale lava- cro, come voi pur noi negate, n apriva a chicchessia le porle del cielo senza la re- denzione di Cristo, come voi pur non le aprile (l): ma qual era adunque lerrore che si opponeva a Pelagio? Quello, fra gli altri, che si pu anche apporre a voi, stando alle parole ed ai sensi del vostro fibello: Objicitur autein illis ( Pelagianis ),  santo Agostino che il dice, quod non baptizatos parvulos NOLVNT damnatio ni primi homi ,\/s ornoxios confi turi (2). Tale  appunto n pi ne meno il vostro er- rore, signor Eusebio, quando fate a me tanta guerra, per aver io colla Chiesa catto- lica confessalo, non baptizatos parvulos vamnationi primi'hominis obnoxios. LI V- Ed anche in tutte f altre maniere vostre d esprmervi, voi stale pure ai Pelagiani molto dappresso, stiracchiando le espressioni dalla Chiesa osale, e in tutta lecclesiastica tradizione, a significar tutt' altro da quel che suonano. Se incontrando voi per via un uomo spogliato da ladri delle sue vestimento, gli diceste, c Voi siete macchiato  ; ed egli vi rispondesse:  lo non ho macchia alcuna ; voi poi gli replicaste :  E vero, ma io considero come uun macchia la vo-  sira nudit > ; probabilmente vi volterebbe le spalle il tapino, dicendovi :  Siete un pazzo.   R la Chiesa disse sempre essere loriginale peccato una macchia ; or voi rispondete : No, egli  una semplice nudit della grazia santificante, ma la si con- sidera come macchia, perch essere non ci dovrebbe. Con una tale stiracchiatura non intese certamente lAngelico la macchia del peccalo, il quale cosi sapientemente la spiega : Habcl antan anima hominis duplicati nilorcm : unum quidem ex reful- genlia LUM1NIS NATVRALls rationis , per qnam dirigitur in suis aclibus; alium vero ex rcjidgcntia divini luininis .  Linde ipsum detrimentum niloris macula ani- wae mciaphoricc vocatur ( 3 ) : con che dimostra lAngelico, che per macchia non si pu intendere solamente la mera privazione del lume di grazia, ma ancora la dimi- nuzione del nitore veniente dal lume naturai di ragione, il qual pure resta dal pec- cato diminuito. Se diceste a quello slessuomo: t voi siete ferito  ; egli direbbevi :  M hanno i ladri nudalo, si, ma non ferito: son tutto sano  ; e voi replicaste;  cat- tiva alla volont, possa farle prendere  no atteggiamento propenso o ritroso al be- ne ed a Dio  (2) : Natura, dice sapientemente I' Angelico, etti sii prior quatti voluti- tarla aclio, tamen BABET INCLINATIONKM Al) QUA N DA il VOLO NT ARI AH ACT/O- neh : unde ipsu natura scctindum se non variatile propter variationem voluntariac aetionis : sed ipsa inoli natio e a ria tur ex illa parte qvAe ordinatvr ad del 11 (3) ; e tosto appresso spiega la mala piega della volont da questo, che ap- petitus SEnsitifus inclinat rationem et y olu ntatem (4). l-aonde se l'ap- petito sensitivo fosse nella sua integrit e perfezione, come sarebbe nell uomo creato da Dio nello stato di sana natura -, egli non potrebbe inclinare al male la volont ; ma dalla volont retta essere prevenato ed inclinato. Egli  dunque provalo che secondo I' Angelico non fu l'uom solamente pel peccalo adamitico spogliato de' doni sopran- naturali, ma olTeso altres nella sua stessa natura, ci che la ragione stessa conosce dover essere conseguente al peccato, d accordo coll esperienza, elle conferma nascer ]' uomo con una volont debole, guasta, ed al male inclinata. LVIf. E qui veggasi nuovamente come il nostro Eusebio, senza saperlo, vada tuttavia ricopiando gli artifizi di Pelagio nelle forme del suo parlare. Afiin di velare sotto oneste parole, la schifezza della sua sentenza che vuol 1' umana natura non pun- to viziata, si guarda bene di non nominare il disordine della concupiscenza;  ma Id- c dio, die egli, avrebbe potuto creare l'uomo in quello stalo medesimo in che ora na- ( sce, privo cio di grazia santificante e colle naturali tendenze che ha di preseti- * te in s stesso  (5). Dice ancora che  1 naturali difetti dell anima e del cor- c po nostro, che nello stalo di pura natura si sarebbero dovuti mirare come natura-  ut condizioni nostre semplicemente, ora che decademmo si mirano coin un gua-  sto  (6) Ora io potrei dire al signor Eusebio, altrettanto quanto sant Agostino al- leretico che confutava, perch nominale naturali tendenze, naturali difetti, naturali condizioni, e non nominate libidine, concupiscenza della carne, ed altre tali parole che propriamente significano la piaga prodotta dal peccato nell' umana natura? Questo in fatti faceva Pelagio, evitando con somma cura tali parole quando volea provare che f umana natura non era infetta, ma tutta intera opera sol di Dio ; nominava i cor- pi, i tessi, le unioni, cose buone perch naturali, ma non nominava il disordine che in tali cose si mescola, cosa cattiva e contro natura : Sed inter tot nomina bonarum rcrum , id est corporum , sexuum ; conjunctionum, libidinem vel concupisccnliam car- nis iste ( Peiagius ) non nominai. Tacci , quia pudet : et mira ( si dici potest J pu- doris impudenza, qvod nominare pudet, laudare non pudet (7). L veramente (1) I. Il, LXXXV, 1. (2) Trattale Arila Coscienza, f. 38, nota. 0) I. Il, LXXXV, 1, ad 2. f4; Ivi, ad 3. (5) R. AIT. Viti, f. 34-  Lt proposizioni- 58 di Bajo Deus non poteisset ah inilio tale m creare hominem tjuatis nunc nateli ur.  anello da me romlannala come la condanna la Chiesa ; e ben pretto vedremo in qual tento ella tia siala proscritta. (fi) Ivi, nella noia. (7) S. Aug, De nuptns et concupite., L. II, c, VII. Digitized by Googh 81 il Tnr passare la concupiscenza della carne e la libidine gotto il bel nome di naturali tcmlenze , come fanno Eusebio e Pelagio, e il pretendere che quelle cose sozze si troverebber nell uomo creato da Dio colla sua sola natura, il chiamarle iu tale stato  naturali condizioni nostre  (l), egli  manifestamente un lodarle, un dichiararle in s buone, come buone sono tutte I' opere di Dio stesso ; quindi medesimo un in- giuriare altamente questo Dio santo, autore rendendolo di quelle cose, quac pudent ( 2 ). Laonde sant Agostino, continuando a smascherare l'astuzia di quelleretico, dopo aver recalo un passo di lui dove coonestava colle parole di naturali tendenze tutto ci che accade nellunione maritale, soggiunge : Ecce iterum diccrc noluit, carnis concupisccntia cognovit uxorein, sed naturali, inquii, appetitu : ubi adhtic possumus intclligere ipsam toluntatem justam et lioncstam, qua toluit filos pro- creare, non Ulani libidinem, de qua iste (parla forse di Eusebio Cristiano?) sic cru- bescit, ut ambigue nobis loqui matit, quam perspicue quod sentii cxprimcre (3). Pe- rocch tutto l'artificio -di Pelagio consisteva nel far passare ogni cosa che  presen- temente neH'aomo, per una naturale tendenza, e quindi per cosa buona; e lutto lo studio di sant Agostino per lopposto vdlgevasi a costringerlo a riconoscere che nella presente natura umaoa v ha qualche cusa di naturale e qualche cosa di vizialo; e gli adduceva in prova il santo Dottore ci in cui il vizio si mostra pi patente, e che leretico stesso negar non poteva che fosse vizio, senza doverne cosi facendo arrossire, ed era che motus eorum ( qenilalium membrorum ) non est in homin palesiate (4). Laon- de, per non venire a questo punto, Pelagio non nominava mai tali coso se non in sulle generali, chiamandole naturali tendenze , naturali condizioni e simili, come appunto vien facendo pudicamente il nostro Eusebio. Onde anchio posso lodare la modestia del suo parlare, come santAgostino la loda in Pelagio, e dire di lui altres ; Ita q tappe iste (Eusebius) sibi circumlocutionis hujtis obstacula, sicut illi ( Adam et va ) succinctoria consueruni (5)1 Lasciando dnnque le sottigliezze d'Eusebio, noi professiamo di crdere con tutta lecclesiastica tradizione sulle Scritture stesse fondata, che lumana natura fu in con- seguenza del peccalo originale non pure de doni superni spogliata, ma vulnerala al- tres e viziala in s stessa; e in questo senso intender devesi, pare a noi, il canone del Tridentino, che dice che se alcuno non confessa tolto Adamo per illam praeca- ricationis ojjensam seccndum corpus et animasi in deterius commutatum tuisse : ana iberna sii (6). (1) R. Air. Vili, f. 37. (2) Avendo Pelagio recato il testo del Genesi, et erunt duo in carne una gli sfuggi dalla peana che il prof.-ta ; Mose) arca scritto ci senza pericolo d* offendere il pudore. Oode sant A- gostino il c> ( R. AfT. IV, f. 20 ). Egli parla del male che volontariamente facciamo , ma sc- ia ragiono  buona per un tal mate , eUa  buona egualmente per quella che noi ereditiamo. Tanto pi che egli dichiara con assoluta sentenza, che ripugna agli attributi divini che I nomo aia condannata senz attuai suo demerito. Le sue parole sono assolute. 1 Si oppone troppo alla c giustizia e alla bont infinita di Dio, ed alle sue divino dichiarazioni ( Futi orane# luimiaes c salvo* fieri), il concetto di no Dio, che come per un colai male fisico inevitabile mandi lao- I ma alla dannazione, stara avvero sco nwtairo s ( R. Alf. Vili, f, SA I. Queste parole nel senso in cui it signor Eusebio le dice, cio parlandosi delta dannazione conseguente ai peccato d'origine, contengono, per quanta a me paro, una formate eresia; essendo ni reni, cho al pec- cata originala anche solo (senza attuai demerito \ segue la dannazione in quelli che muoiono non rigenerati, e che questa dannazione viene lor sopra come un mal fisico inevitabile, e che perci non ripugna niente tutto ci alta giustizia cd alla boot di Dio 1 . Tutto fin qui  di fede: ie opinioni teologiche cominciano l dove si tratta di stabilire quali sieno le peno annesse atta dannazione de* morti col salo peccato originale sullanima. (3) De nuptiis et concupito. L. I, c. XVIII. (+) Contro Julianum Pelag. L. VI, c. VII. (5) Corpus tnim quod corrwnpiftir, sono parole delta Scrittura, aggravai animam et terrena inhabiuitio deprimi! scnsum multa cogilantem (Sp. Vili, 15). (6) Ad P. IV. Pocnitcnlial. Digitized by Google 83 ma a Padri e da tulli gli scolastici ripetuta. Vero , che a primo aspetto riesce dif- ficile assai lo spiegare come il vizio del seme, non essendo peccalo, diventi poi (lec- cato nell' anima. Ma questo per  spiegabile, in sulle vesligie de Padri e de'leolqgi, conciossiach non  punto assurdo il pensare che possa il corpo viziato dare allani- ma una mala pendenza (i). Tutta adunque l'ecclesiastica tradizione ricorse al vizio del seme ed al disordine della concupiscenza che rimane tuttavia ne rigenerali dopo il battesimo, per ispiegare come anche questi comunichino ai loro figliuoli I origi- nale infezione. Ma non pu pi darsi aPclagiani una tale risposta nel sistema eU et, ut homines ab uno originer traherent, decretiti, fltorum corpus futurum simile corpori patri* , oc e astieni plus mima impressione* habiturum ; animam autem corpori unilam, quibusdatn inclina- t toni bus futuram esse obnoxiam , quo tiescumque ejus corpus quasdam suscepissel impressione s, dummodo tamen exterior causa illas non immutarsi. Sis Adamus rum peccato suo harmoniam corporis immotasse t, atque perlurbavisset , leges ideirco ante peecatum constitutas permutare Deus opportunum minime judicavit : quibus le gibus existentibus y Adamus necessario jilios suo* torpori* viliati participes fecit , et animae bisce corporibus conjunctae costiera depravata contro- xervnt inclinati ones. Uinefit , ut animae Jiliorum, antequam in vii am ingrediunlur,habitu in res creata s propensae evadant , easque ameni eodem fere modo , quo homines s osculi etiam cuti j somnum copioni , diligunt mundum (Prosp. ah Aquila, V. Peecatum originale, IV). (2) Sess. V. Decr. de peccai, orig. (3) Se si considera il solo scuso, egli pure inclina al suo bene; te poi si considera il senso 84 dice s. Giovanni (i), inclina, secondo il Concilio di Trento, al peccato, ad peccatum inclinai. Tema dunque il signor Eusebio la conclusione che pone il Concilio di Trento alla esposta dottrina: Si jais autem contrarium semerii, anal/iema sii/ LIX. E temendola, converr forse meco, che l'umana natura non virala dal- 1  originale peccalo, ma solo nudala de  gratuiti divini favori  (2), non  per av- ventura credenza  di tutti i cattolici 3 ( 3 ), come imperterritamente asseriva , dichia- rando gi traviati ( 4 ) e recisi dalla sua comunione quelli che il contrario tenessero ; ami penso io, che i cattolici tutti deploreranno piuttosto in lui un errore, che tanto diminuisce il pregio della redenzione, e l' efficacia del santo battesimo. Imperocch se noi abbiam ora una natura in s stessa perfetta, e solo priva del soprannatural vesti- mento, ci  stala dunque utile la morte di Cristo, ma non necessaria. E se colui che viene rigenerato coll ncque del santo battesimo, altro non riceve da queste che i doni soprannaturali e la conseguente soprannatural beatitudine; dunque il battesimo viene conferito bens por utilit, ma non per necessiti Cristo adunque non  pi uri medico di cui sabbia -l inferma natura umana bisogno per risanarsi , ma  solo un Signor liberale che regala ornamenti alla nostra natura gi sana. Non la sentono certamente cosi, n mai la sentirono i veri cattolici, i (inali, grati al loro Redentore c Salvatore e al medico delle profonde mortali lor piaghe, sanno e confessano Don poter avere in modo alcuno, senza di lui, n sanit n vita, o siano adulti o sian anco bambini. S'o- dano i sentimenti de' cattolici esposti da sant'Agoslino, e si confrontino ad essi quelli d Eusebio : Catholici dicunl humanam naturam a creatore Deo dono conditam bonam , sed peccato cilialam medico Cbrislo indigere.  Pelagani et Coeleslia- ni dicunl humanam naturam a bono Deo conditam bonam , sed ita esse in ria - scentibus parculis sax am, ut C/iristi non habeant necessariam in illa aerate ie- dicikam ( 5 ). Eusebio Cristiano dice, che  in realt, come nel corpo, cosi uell ad-  ma ora nasciamo e siam tali, quali nasceremmo e saremmo se fossimo stati da Dio  creali nello stato di pura natura >, cio in quello stalo, comegli spiega , nel quale ci poteva ben creare Iddio ( 6 ): di che avviene che niente manchi a questa natura , ch'ella debita aspettarsi dalla morte di Cristo, se non solo di essere innalzata da una condizion buona, ma naturale, ad una condiz : one migliore e soprannaturale. E vera- mente egli pare che Eusebio, il che  al suo principio pur conseguente, non solo as- solva i bambini, morti prima dessere rigenerati, da qualsivoglia pena, ma loro con- ceda di pi una naturale felicit ; giacch egli dice, che 1 il non andar dopo morte * a godere dell eterni soprannaturale felicit , se si muoia senza essere rigenc-  Galal. Il, 21. (3j  non dissimulanter sed apertissime guanti* palesi disputando viribus agii ( Pela- gius), ut u Mura /umana in pattuii* nullo modo ex propagine mura crzdatcr cui arro- gando satulem . invidet eihatobe*. ( ih pece. aria, conica Pelag. et Coeiest. c. XXI. ) (4) De pece. orig. c. XXIH, (5) Operi* t rnperf. centra Julian. L. IV, c. LXXII. (6) Chi Tuoi f ar uso con efficacia di tali proposizioni condannate , dee prima istruirsi del la maniera , onde te intendono c spiegano le varie scuole cattoliche , e qualora vi abbia fra queste diversit d opinioni , senza che sia intervenuta I autorit della Chiesa a deciderle , per quel rispetto che li dee appunto atte cattoliche scuole, e che la santa Sede impose sempre agli scrittori, guarentendo a tutti selle cose dubbie la libert dopinare, non conviene menar colpi all impazzata, n pretendere di condannare e anatematizzare a proprio capriccio. Se io dovessi imporre alla temerit del signor Eusebio una penitenza ( perdonatemi anche questa ) , io vorrei mandarlo a leggere tutto intero il dottissimo Cardinal Norisio , il Belletti , il Berti ed altri tali autori i pi opposti alla sua scuola, acciocch costretto egli a considerare le cose setto tutti i lati e gli aspetti , venisse formandosi no po di quel giudizio e di quella discrezione , che ora tanto gli manca. Rosmini Voi. XII. 437 gitized by Googl 90 grazia santificante, non passa pi diilerenza alcuna:  sono tolti e due, come dice, ignudi egualmente  (i), la differenza non trovandosi nelluomo stesso, ma nella cau- sa ; giacch nello stato di pura natura sarebbe stata la volont spontanea di Dio crean- te che avrebbe fatto luomo cos; e nello stato presente il peccato d'Adamo avreb- be data a Dio loccasione di cos farlo. Bench nel sistema d Eusebio  Dio stesso auche di presente, che, in pena del peccato di Adamo (scontato per mediante la pe- nitenza ( 2 ) ), sottrae la grazia santificante a suoi figliuoli , e cagiona in essi quella privazione in che Eusebio mette lessenza del peccato, non essendovi altro peccalo, che la grazia impedisca. Laonde  in realt  , ripeteremo anoora le precise parole d Eusebio, f come ne! corpo cosi nell anima, ora nasciamo e siara tali, quali nasce-  remmo e saremmo se fossimo stali da Dio creati nello stato di pura natura t (3). Egli pare a me, che essendo questo del signor Eusebio un tirare conseguenze alla scapestrata; non faccia poi bisogno duna grande scienza teologica per poterlo assicurare, seDza temere d'incorrere nella sentenza pronunciata giustamente contro Bajo e contro Giansenio, delle seguenti cattoliche verit : a ) L'anima dell'uomo che viene al mondo e che non  rigenerato nel 9anto bat- tesimo, ha in s il peccato originale che inest unicit/ue proprium ( 4 ).  Perci la Chiesa col condannare la 55 proposizione di Bujo non ha certamente inteso di deci- dere n che questo peccato pi non esista, ne che esso consista solo nella mancanza della grazia santificante, n che Iddio potesse creare an uomo con un anima a cui fosse aderente il peccato , come le  di presente : 6 ) Lanima a cui aderisce il peccato originale  morta di morte eterna, e non pu essere richiamala alla vita per nessuna opera sua buona, ma solo pel santo bat- tesimo, o pel desiderio di esso, secondo il canone del sacro Concilio di Trento: Si quii dixerit, sacramenta ttovae letjis non esse AD saluteai necessaria, sed su- perflua ; et sine eis, aul eorum voto, per solata Jidem homines a Deo graliam itati- ficationis ad/pisci; licei omnia singulis necessaria non sinl: anatherna sii ( 5 ).  Perci la Chiesa col condannare la 55 proposizione di Bajo non ha certamente inteso di decidere che Iddio potesse creare un uomo collanima morta qual di presente egli nasce (6) ; (I) R. Aff. Viti. r. 34. (2; Si osservi come serpeggi lerrore in lutto il libello ti* Eusebio ; a eoi debbo a mio mal gra- do rispondere. Egli sostiene, die avendo Adamo fatto penitenza, non possa essere oggimai pi aggravato dette conseguenze del seo peccato. Parlavasi ( R. Aff. Viti, f. 20 ) dille conseguenze necessarie del peccalo originate, come sono i primi moti, che si possono dire, in nn senso , peccati volontari ma non liberi, e si riducono al peccato dorigine, come vedremo, col quale in- sieme, cessano ne battessati , sicch il discorso d Eusebio ha unegnal forza anche pel peccato originale. Ora vuol forse diro che la semplice penitenza dAdamo labbia potuto riconciliare con Dio senza i meriti del Salvatore? Cosi parrebbe ; perocch altramente niente varrebbe la aua argomentazione. Perocch s egli  pur vero, com di fede, che qualunque penitenza fatta da Adamo niente potea valere da s sola a giustificarlo appo Dio, ma tulio il merito di quella pe- nitenza dovea rcnire da meriti del futuro suu Redentore; dunque la penitenza di Adamo non poteva impedire la passione e la morte di Cristo, che b una pana e conseguenza del suo pec- cato; non potea n pure impedire le altre pene ebe derivarsi doveano ne discendenti, fra le quali il peccato dorigine e le conseguenze di questo: dunque Adamo ni poteva giustificar s stesso, n essere giustificaio e purgalo dalle conseguenze della sua colpa, se non oon quell'ordine, che prima quelle conseguenze (la trasmissione del peccato e delle pene) realmente si avverassero e gli fossero altres realmente imputate, e poi fossero rimesse a lui pur la morte di Cristo appli- catagli col gratuito dono della grazia, cooperante il suo libero arbitrio e producente cosi le opere della penitenza, come vengono rimessi il peccato originate e gli attuali ai singoli suoi figliuoli, a cui si applichi il inerito della passione di Ges Cristo. (3) R. Aff. Vili, f. 33. (4) Conc. Trid., Sess. V. De pece. orig. (5) Sess. VII. De Sacrata, m gen., can. IV. (6) Lanima dell'uomo creato in istato di pura natura, bench priva della grazia santificante, non si potrebbe mai dire morta, perch la morte dell'anima  una conseguenza del peccalo, qaod more eet animar. (Conc. Trid. sess. V. Dtcr, de pece, orig.) 91 c ) Lanima a coi aderisce il peccalo  oggetlo dell ira di Dio, in quel senso nel quale le Scritture attribuiscono a Dio l ira, che esprime la vendetta della  enon piu (3).  Perci la Chiesa col condannare la 55 proposizione di Bajo non intese certamente di ordinare che le parole dell'Apostolo, eramus natur filli irae, si debbano inten- dere, come le spiega il signor Eusebio, contro l'universale consenso; n che Iddio po- tesse creare degli uomini che uscissero dalle sue mani c per natura figliuoli dellira  come nascono di presente : d) Luomo peccatore, in istalo di morte e dira di Dio, come viene ora al mon- do,  in potest delle tenebre, e dal demonio posseduto, onde la Chiesa co'suoi esor- cismi lo scaccia in virt di Cristo da quelli a cui conferisce il battesimo.  Perci essa Chiesa col proscrivere la 55 proposizione di Bajo non ha certo volnto dichiarare che 1 uomo non viene pi al mondo soggetto al poter del demonio, n che Iddio po- tesse creare nn nomo sotto la potest e in balia dell angelo ribelle: e ) L nomo ora nasce condannato, nam judicium ex uno in conderrmationem, dice s. Paolo (4): non viene al mondo scritto nel libro della vita, e, se egli non  rigeneralo, deve soggiacere alla pena, Qui non inventile est in libro vitae scriptus, missus est in stagnum ignis (5).  Perci la Chiesa col proscrivere la 55 proposi- zione di Bajo non ba certo voluto dichiarare, che l'uomo che entra nel mondo non sia condannato, o che Iddio possa creare un uomo gi condannato : J) li uomo ora nasce colla concupiscenza : la quale non   il solo istinto ani- t male vizialo; ma qnesto con aggiuntovi la debolezza e la mala piega della volont, c che s abbandona agevolmente a consentirgli s (6), e quindi, come dice s. Giovan- ni  lucurrieeeque (Adam) pir offeneam praetaricationie hujusmodi tram et indtgnalio- ntm Dei. (2) Traci. XLIV in Jo. (3) li. Air. Viti, f. 35. (4) Rom. V, 16. (5) Io non voglio conchiudere da onesto testo, che ai bambini morii sema il battesimo sia ri serbata la pena del fuoco : essi potrebbero esser messi in stagnum Igni* sema tuttavia sentirmi il dolore, poniamo, se atti non fossero a patire ab hujusmodi activts. E troppo autorevole e ra- gionevole ci che dice sant Agostino: Si enim qu od de Sodomie ait (Metili. X, 15; XI, 24), et utiqus non de eolie fntelligi voluti, attui alio tolerabilius in die jdieii punietw : quis  (R. Aff. V, 21). Dove ba egli trovato che io nella concupiscensa faccia entrare s .'atto dilla volont che >' abbandona a consentire al perverso appetito? > lo lo sfido ad indicare nn aolo luogo della mie opera, dove si trovi l'errore ch'egli qui inventa. Chi ba un po dintendimento dee distia- 92 ni, non viene ex Patre (i), dal qual viene la natura umana ; e lungi da esser cosa naturale,  contro la natura umana, come la chiama s. Tommaso co' Padri ; peroc- ch la umana natura chiede anzi che la ragione abbia autorit e vigoria di coman- dar senza sforzo alle inferiori potenze. Che anzi la parola stessa di concupiscenza esprime questa relazione di disarmonia fra l appetito e la volont , questa lotta, traendo origine , comegli pare , I" uso di quella parola dal luogo dell' Apostolo che dice : Caro concupisci't adverstis spiritum ( 2 ) , n d nna bestia mai direbbesi che concupisci!. Laonde il sacro Concilio di Trento dichiara che la concupiscenza , 1 appetito insultante e lottante colla ragione infiacchita non viene ex natura , ma bens che ex peccato est, et ad peccati- m inclinat (3). Di pi, lo stesso sa- crosanto Concilio non riprova, anzi veramente mostra di favorire 1 opinione di quei teologi, che in quella concupiscenza che 1 uomo porla al mondo nascendo, nella con- cupiscenza cio di quelli che non sono ancora rinati pel santo Battesimo, ripongono 1 essenza delforiginale peccalo, perocch decidendo : eccleuam catholicam nunquam intpllexisse pecca tum appellari\concupiscentiam )  quoa vere et proprie in j.ena- tis prccatum sii (4). viene ad immettere, che dunque la concupiscenza ne non rinati sia i eminente e propriamente peccato, come tante volle dice sant Agostino, in quel senso che pi sotto dichiareremo. Che se si prende la concupiscenza non per /' abi- tuale conversione dell' uomo alla creatura, ma per V inclinazione ad operare il male , che da quella conversione procede, s. Tommaso colla piena degli scolastici ri- pongono in essa la materia del peccato originale; e per la fanno un vero elemento c una vera porzion del peccato fino che ella sta colla forma del peccato congiunta: dalla forma poi staccala, non  pi elemento, non pi porzione di peccato ; perch la materia dalla forma disgiunta cessa dallessere porzion del composto: e tale la con- cupiscenza rimane ne battezzati : ne' quali tuttavia ella  un male, un impedimento al bene, e quasi il corpo inanime del peccato. Laonde ella rimane altres il veicolo, pel quale si traduce loriginale (leccato nella specie umana di generazione in generazione, come dicono i Padri, Ex hac car- mi concupiscentia ( user anche qni le parole di Agostino ), quae licei in regenera- tis jatn non deputeiur in peccatum , tamen naturai: non acci di t nsi de pec- cato  ex hac int/uam concupiscentia carmi, tamquam vili a, peccati et quando illi ad turpia consentilur , eliam peccalorum maire multorum , quaecumque nasci- guere  la debolezza e la mala piega della volont clic a' abbandona agevolmente a coosentir-   un male abituale, a cui i pu resistere ; e resistendovi si merita , anzich si pecchi. Per questo lo stesso sacro Concilio di Trenlo dice che ad agonrm relieta, ett ; non sarebbe relieta ad agonem , se non costasse nulla il vincere l'appetito; c nulla costerebbe questa vitloria se la volont non fosse al male inclinata; n l'appetito sarebbe perverso, se non lusingasse la volont a consentirgli.  dunque riposta la mala concupiscenza non gii nell ap- petito solo, che ne'bruti  natura, come dice sant Agostino ; Tantae enim excellentiae etl m cnmparatione peeorit homo , ut vitium homini, natura sii pecorit ( L. 11. De pece, orij., r, IV ) ; ma nello tgutltbria fra le forze dell appetito e quelle della ragione e della volont , per guisa tale clic quelle sono pi forti del dovere, rispetto a questo che son del dovere pi debo- li. quindi poi il maggior merito di chi vince dalla grazia aiutato. Ma tutta lira del signor Eu- sebio nasce da questo, che io ho supposto lappetito viziato, e la volont ioclinata at male, ed egli vuole l'uno e l altro perfetti, come sarebbero nella sana natura, lo per mi sto assai pi volentieri col Concilio di Trento, che avendo detto della concupiscenza che ad agonem rettela etl, non consider l' appetito solo, ma lappetito in relazione e in lolla colla volont, e indic quel disordine ebe non viene dalla natura, ma si dal peccato cd al peccalo inclina, ex pec- cato est et ad peccatum inclinai. (1) I Jo. Il, 16. (2) Gal. V, 17. (3) Sess. V, De pece. ortg. (4) Ivi. Digitized by Google 93 tur proles, originali est obligala peccato, itisi in ilio renascalur, quem sine isla concupiscentia Virgo concepii (i). Convien danqae dire di nuovo, che la Chiesa col proscrivere la 55 proposizione di Bajo non ha inteso di dichiarare che la concupiscenza della carne contro lo spi- rilo, come sta in noi di presente, o certo almeno come sta in quelli che non son ri- nati alleterna vita, sia un elemento necessario della natura umana nello stato di sua perfetta sauit, e poich quella concupiscenza noturac non accidit nisi de peccalo, la Chiesa non intese n pur definire che Iddio avrebbe potuto creare un uomo con que- sta conseguenza rea del peccato'. In una parola la Chiesa, condannando la proposizione 55 di Bajo, che dice. Deus non potuisset ab imtio talcm creare hominem qiialis mine nascitur, ha indubi- tatamente inteso di deGnire che Iddio avrebbe potuto creare luomo nello stato pre- sente, con tutti i suoi principi e limitazioni naturali, eccetto per il peccato e quelle appendici che dal solo peccato, non da principi della stessa natura sana e ben ordi- nala, come Iddio la farebbe, provengono. LXl V. Vero che vhan de teologi i quali sostengono che la stessa concupiscenza proceda necessariamente da principi naturali dell'uomo; ma io mi sto con quelli che il contrario pensano, i quali certo dalla Chiesa non furono, per quantio so, ripro vati, ed anzi a me sembra che le due opinioni si potrebbero insiem conciliare. Perocch i primi mostrano evidentemente dintendere per concupiscenza il solo istinto animale, non dcGnendo poi di qual grado e di qual modo; e che un istinto animale ci dovess essere anche nello stato di sana e pura natura, ci non si nega da noi dipendendo questo dalla natura stessa della materia e dellanimalit. Ma i secondi non intendono per concupiscenza, come dicevo, il semplice istinto animale, il quale da s solo e nella sua natura considerato non  vizi, se non dege- nera: intendono bens il muoversi quell istinto nell'uomo e linsorgere a dispetto della ragione, che uul vorrebbe, e che noi pu a tal raffrenare che almeno non ne senta l'insulto, onde ebbe a dire lApostolo : Si quod nolo ( n\alum ), illud facio, j am non ego operr illud , sed quod habitat im me peccatosi ( 2 ): intendono la maia influen- za che quellistinto esercita ora, quasi altro serpente, sulla volont delluoino, lu- singandola, seducendola, traendoia a falsi interni giadizj sul valor delle cose, e quindi ad esterni peccati, perocch e quo' falsi giudizi sono peccati, c peccati sono 1 opere a que falsi ed iniqui giudizi seguenti : alle quali lusinghe con tanta difficolt luomo da s solo, 0 anche in niun modo di presente, senza la grazia divina, e l'ora- zione che quella gli ottenga, resiste. Onde sautAgostino ebbe a dire : .Ideo in pcco- ribus malam non esse concupiscentiam , quia non adversum spiritino concupiscit (3) : e altrove nega che la concupiscenza sia semplicemente il sentire che fa lanima la di- lettazione, non cnim scnsus est morbus , niti dice che la concupiscenza ilio scnsus est quo nos morbum habcrc scntimus (4). La concupiscenza adunque, nel senso di questi secondi teologi di cui parliamo,  la lotta della carne collo spirito, c pi ancora, ella  una tal lotta, in cui perde lo spirito se colla grazia non si difenda, 0 avendola gi, come lhanno i rinati che non ricaddero, o chiedendola ed acquistandola se ancora non lha. Perocch dice sant Ago- stino di una tal lotta : Volunlas ergo ipsa nisi Dei gratta libcrctur a servitale qua facta est serva peccali, et ut pitia superct, adjuvetur; recte pieque vivi a mor- tali bus non potest (5), ed ancora approdare falsa pr veris ut crrct invitus et resistente atque torquente dolore carnalis vincali, non posse a libidinosi s operbus (1) Ite nvpiiis et concupite-, L. I, c. XXIV. (2) Hom. VII, 20. (3) Contra Jul L. IV, c. XIV. (4) Contra Jul., L. V, c. XIV. (5) Kctract. I, IX. Digitized by Google 94 temperali, non est NATURA INSTITUTI noni NI S, sed poena damnati (i), e di nuovo : Nam quando tale est (peccatimi) ut idem sii , et poena peccali , quantum est quod vaici voluntas sub dominante cupiditale , nisi forte, si pia est, ut OREt apri- Liuti ? ( 2 ). Dove chiaramente apparisce che sant Agostino nega che possa essere, ( natura di un uomo da Do istituito , quella condizione in cui l'uomo nasce di pro> sente colla sua volont, la quale senza la grazia non pu osservare a pien la giusti- zia; e chiaramente insegna che ci non pu essere se non pena di un precedente peccato (3). S'ammette per che la sommissione della carne allo spirilo in Adamo non era ( 1 ) De Iti. arbitr., L. Ili, c. XVIII. ( 2 ) Retract. I, XV. ( 3 ) Distinguati adunque quella concupiscenza de non rinati, incoi sant' Agostino ripone IV#- senza dell originai peccato; da quella, che i una conscguvnsa della prima, e che rimane nei rioati, i quali gii converti a Dio, indi traggono ancor la fona da vincere la lusinga del se sibilo : ijvae ad agonem rettela est. Or che Iddio non potesse hreare l uomo con quella prima concupitecela senza dargli la gracia e laiuto da vincerla  fuori di controversia; se Iddio poi potesse creare ! uomo colla seconda, dandogli per aiuto e grazia da vincerla (si noti bene que- sta conditioDe), sicch l'uom fosse atto a mantenere la giutlisia o naturale 0 soprannaturale a condoch a quella ovvero a questa venisse ordinalo, eli  lult'allra questione. S. Agostino, n i teologi cattolici, credio, non mosscr mai quella prima: il Dotlor della grasia tocc bens in- direttamente la seconda. Dico indireltameute , perch non domand gi  ; giacch per po- tersi lodare l'autore duo opera batta che l'opera sia buona, quantunque ottima anco non sia, quamvis, ignoratala et dJficullas, eliamti esimi hominis primordia ttaturalia, nee rie evlpan- dus sed loudandus esse 1 Deus. (lletract. I, tx ). Cunvieo riflettere, che sant Agostino parlava contro i Manichei, i quali non volevano per nulla riconoscere il peccato originale, e per ispie- gare i mali, da' quali luomo vederi afflitto, ricorrevano ad on principio essenzialmente cattivo, autore del male. Laonde sani Agostino cosi ragiona con argomento ad hominem :  Quantunque  : questa quistione riguarda l  essenza del peccato. Voi conFondeste , acutissimo come voi siete, questa seconda questione con quella prima ; ed essendovi scontrato in aleu- ti) Gen. Vili. (2) Sci. VI, De juttificat. can. X.  Si dee attentamente osservare elio la giuslticazionc clic riceviamo per gli meriti del Salvator nostro a noi applicati non consisto solo nella sempli- ce remission de peccati, per la quale cesserebbe l' imputazione a colpa, ma consiste di pi oel- 1 infusione della grazia di Cristo , per la quale vien sanato lutto ci che ha ragion di peccato a noi aderente. Che se fosse vero che noi non avessimo alcun peccato a noi aderente , come vuole Eusebio , ma che ci venisse solo imputato a colpa il fallo di Adamo, potrebbe operarli benissimo la nostra giustificazione coll esserci solamente rimessi i peccati , cessando cosi l im- putazione, la colpa ; in tal caso noi ci troveremmo nello stato di pura natura senza peccato , o per atti ad avere una giustizia naturale ; ma il Concilio di Trento dichiara che non cosi viena operala la giustificazione nostra; noi non possiamo ora essere giusti, se oltre esserci rimessi i peccali, e cos cessare l  imputazione (la colpa), non ci sia data ancora la grazia che tolga da noi qnel peccato clic inesl unicuigue proprium , e cosi ci restituisca allo stalo di giustizia so- prannaturale, che solo  per noi possibile. Si quis dixerit iomines fuslijicari vel sola imputa- Itone justiiiae Chrisli, vel sol* peccstohim bemissioks, exclusa gratili et charitate , qua e in cordihus eorum per Spirilum sanrtum dijfundalur , alque Ulti inhacreal ; aut citarti gratiam , qua justificainur, esse tantum favorem Dei : anathema sii ( Sess. VI, De justific., can. XI ). Ecco adunque di nuovo, come sia necessario distinguer bene la nozion di peccato da quella di colpa anche per intendere la dottrina della giustiiicaziono esposta dal Tridentino ; di che nuo- vamente appare l error d f Eusebio die rifiuta tale disliazione. (3) De gratta primi hominis c. V. (4) E questa eccezione del peccato non manca mai di farla sant* Agostino come li dove di- ce quae peccala  non nisi propriae roluntati ea rum ( animarum ) tribuenda sunl, neo ulta ullerior peccatorum causa quatrenda, dopo di cho passa a parlare dell igooranza e della dif- ficolli ia quanto sono effetti del peccato, o non peccato ( Vcd. De lib. Arbitr. Ili, XXII ). by Google 99 ne parole del Bellarmino e degli nitri autori citati, che restringono {'effetto del pec- cato d'origine allo spogliamento dei doni e dicono la Datura del resto non vulnerata; credeste a dirittura d'aver in mano un'autorit calzantissima, per provarci che dun- que V essenza del peccato dorigine non consiste, giusta quegli autori, se non in questo mero dispogliamenlolll Ma no, mio caro, nou affibbiate i vostri errori a uo- mini tali, giacch cos calunniereste quelli per la troppa buona voglia di calun- niar me. Per altro se noi toccar vogliamo anco la questione non dell eviene del peccato, ma dell 'effetto ( che pure non e la nostra ), potremo ben veder chiaro, come n pure in questo il Bellarmino e gli altri valentuomini stien con Eusebio: che nessuno di essi neg giammai, che il peccato sia egli stesso una ferita profonda della natura, e non un mero dispogliamcDto ; sicch la question che propongono fa sempre a questa ferita eccezione, e riguarda propriamente l altre ferite: riguarda gli elementi essen- ziali dell' uomo ; non la loro armonia e buona attitudine ni ben morale. E nel vero, l dove dice la natura umana non esser di presente ferita, parla egli evidentemente deso/i principi costituenti essa natura, e per cita quel passodi s. Tom- maso, linde factum est , ut primo hominc peccante, natura humana t/uac in ipso crai, sili ipsi rclinqueretur , ut consisterei sccundum conditionem suo rum principio- rum (i). E vedesi ancor ci manifesto dall' argomentar eh egli fa da quanto accadde a' demoni, perocch dice : Naturalia in dacmonibus post casum ( teste Dionysio ) mansisse integra. Quod idem sine dubio de homine quoque intclligi dcbebil ( 2 ). E re- ca a provarlo questo passo di s. Girolamo in Osea Dcmones qui lapsi sani a propria dignitatc et nihil antir/uae gratiae possidentcs aridi runt et velcri siccitafe marcen- te! (3). Sul qoal passo cosi argomenta : Si cnn nomine gratiae dona naturalia intel- ligeremus, consequcns esset, ut Angeli nihil naturalium dononim post peccatum re- tinerent, atquc adco ad Ninnisi redacti essent (4). Il qual discorso non pn valere se non a provare che 1  uomo, come gli angeli, dopo il peccato nulla perdette de principi costituenti la sua natura, nulla della sua sostanza , nel che siamo piena- mente d accordo; perch la questione nostra non ist qui. 11 peccato non  che un accidente della umana natura, come sant Agostino in tanti luoghi lo chiama; non  per fermo n una porzione di sostanza, n un deperimento d'una porzione di sostan- za. In questo senso e s. Tommaso, e gli Scolastici, e il Bellarmino dissero, e dissero il vero, che naturalia non pcricrunt. Ma de vedersi se la volont  ora torta e svi- gorita s o no pel peccato pi che ella non sarebbe quando fosse innocente , bench priva di grazia, di maniera che ella ora non valga pi a contenere a pieno le infe- riori potenze quanto potrebbe a ci valere se un uomo perfetto fosse da Dio senza grazia creato, il (|ual uomo n fosse scaduto dalla sua naturai dignit, n fatto servo ai peccato, come e l'uom di presente, n al peccalo venduto, come ancora lo chiama lApostolo: ecco la question tutta. Certo, se da quello che avvenne agli angeli pravi dobbiamo argomentare a quello che avvenne alluomo, la soluzione vien facilissima. Agli angeli pravi avven- ne che non pure furo privati della grazia santilicante, ma perdettero ancora la na- turale facoli di volere il bene onesto proposto dalla ragion naturale, e come dice il Damasceno citato dnH'Aquinale, Hoc est enini hominibus mors, quod angclis casus (li), onde sunt in peccato obstinali ( 6 ), ili guisa clic adirne manet in diabolo peccatum quo primo pcccavii quantnm ad appetitimi ( 7 ), onde l'appetito e il libero arbitrio de de- (1) In II sent. D. XXXI, q. J, a. I. (2) De aralia primi /immuta, c. VI. CS) In 0*., c. 111. (4) De gratin primi hominia , c. VI. ti>) Orludoxae. Kid. L. Il, c, IV. : cose manifestissime in filosofia, dalle quali appar chiaro, che chi vuol trovare inerente al bambino qualche cosa che di peccato possa ragionevolmente avere il concetto, dee ricorrere alla virt volitiva non uscita all' alto, ma nell' essenza del lanima contenuta. Dico alla sua virt volitiva nellessenza dellanima contenuta , perocch so io bene, che 9. Tommaso sottilmente e giustamente afferma, non essere la volont come potenza, ma lessenza dell 1 anima, il soggetto proprio dell'originale peccato. E per questo appunto anchio dissi di sopra, soggetto delloriginal peccalo essere f aniina intellettiva e volitiva. Perocch io soglio distinguere due volont, Cuna contenuta nell essenza dell'anima come nn suo elemento, e questa  quella che , a mio pare- re, il soggetto dclloriginAle peccato ; e f altra poi che comincia ad uscir fuori e ma- nifestarsi come potenza dall'essenza distinta. Quella  la radice di questa; questa  quella stessa, ma in virt ancora nellanima esistente, ma pure realmente esistente.  che questa sia anche la mente dell Aquinale, vedesi manifesto da quella questione, dov egli esamina se 1 originale peccato possa essere nella carne come in suo sogget- to; e prova di no, ma sol Dellanima, dandone questa ragione, che la carne non pu essere il soggetto della colpa, ma bens l'anima: Sic igilur curri anima possi! esse subjeclum crt/pae, caro aulem de se non habeat quod sii subjectum cu/pae : guicr/uid pervertii de corruptione primi peccati ad animam, habet rationem cul- pae (2) ; quod autem pervenit ad carnem, non babel rationem cu/pae, sed poenae : sic /itur anima est subjectum peccati originalis , non aulem caro (3). Ora perch mai f anima potest esse subjeclum cu/pae, se non perch ha in s la virt dell in- tendere e del volere ; essendo la virt volitiva qaelia in cui finalmente pu stare ogni moralit, sia essa buona o cattiva, sia spontanea 0 sia libera, sia la forma di santit che necessariamente aderisce all anima, 0 sia il merito che l anima colle proprie li- bere operazioni si procaccia? Vero  che questa volont da prima  immersa nell es- senza dell anima, e, come dice sant Agostino, la parto razionale c volitiva del bam- bino  quasi in lui consopita, ma esistente per. Conciossiach il santo Dottore il dimostra dicendo. Parvu/us vero , in quo a liate ralionis nullus est ttSiis (nega che vi abbia luso della ragione, non la ragione), voluntate quidein propria nec in botro est, nec in malo ; quia nullam in a/terutrum cogitationem versai ( nega che la vo- lont operi, non che esista), sed vtrumqve in ilio consopitvm vacat, et rio- num naturale rationis (clic sono le delle potenze), et malusi orici nave (1) C. Ut. (2) [Son  egli piacevole il sig. Eusebio, quando egli stesso cita questo parso a tace, si del- . lo sue Riflessioni ? e lavrebbe egli citato le lavesse inteso, (3) S. 1. Il, LX XXIII, 1. Digitized by Google 108 peccati ( clic  il vizio delle potenze ). Seti anni s aecedcntibus , cvigilante ratione (ecco la prova che esisteva), verni mandatimi , et rcriviscit peccatimi: quoti adeersus crcscentcm cum pugnare cocperit , Urne apparebit quid in infante latueb/t, ri ani vinci t, et tianmabiUtr ; aut vincitur et sanabur (i). Conciossiach stanno in noi certamente delle cose nascoste a noi stessi ; onde anche leggasi della sapienza di Cristo, che ipse cnim sciebai quid esset in homine (2); e se il signor Eusebio fosso porr da tanlo, potrebbe facilmente convincersi di una verit da me dimostrata , che in tolte le potenze umane, ed anche nella volont, molte cose sono e si fanno senza che l'uomo n abbia pure coscienza . LXXIII. La qnal verit risultante dallo studio dellumana natnra, opportunissi- ma torna a mostrare la sapienza divina della religion nostra, la quale co dogmi del peccalo dorigine, e della infusion della grazia nel santo battesimo, quella verit suppose, siccome a me pare, ancor prima che essa fosse chiaramente dall umana fi- losofa conosciuta. La qual verit travide di nuovo snnt Agostino, e la indic colla solila sua acutezza quandebbe a parlare della maniera onde lo Spirito santo s'in- fonde nellanime de bambini senza che questi punto sei sappiano; intorno a che il santo dottore si esprime cos: Dicimus ergo in baptizatis parvulis, QVAUriS m ne- sciant , habitare Spiritimi tanclum. Sic enim cum ncsciunt, t/uamvs sii in eis, QVEMADEODOM NESCIVNT ET MENTF.M SVAU\ CttjuS VI CS ratto, qua ulinondum possimi, velati quaednm scintilla sopita est, c.rcitanda actals successa ( 3 ). Vi ha dunque la ragione, vi ha la volont ne' bambini , ed essi non ci riflettono , non ci pensano; cos del pari nella ragione vi pu essere un minore o maggior lume, o un lume daltra specie ; nella volont una maggiore o minore inclinazione al bene dalla ragione mostratole ; e tutlo questo senza bisogno alcuno di propria consapevolezza. Che anzi pi profondamente investigando un fatto cos importante e misterioso , ma pure al vero filosofo indubitabile, altri veri al servigio della religione preziosi si scuo- prono, de' quali indicher qui io alcuni' 1.* che appena che esiste l'anima, in quan- i' intellettiva, ella ha un lume, un oggelto cio universale che la fa intellettiva , in cui snllissa, ed esso  l'essere in cui e per cui tulle I altre cose poi vede; 2.* che del pan appena che esisle lanima, in qunnt volitiva , ella ha -una tendenza che verso 1  essere universale la porti, dalla mente naturalmente intuito , e cos l'essere divien suo bene, ed  questo un primo atto universale che cosliluisce la volont slessa 0 potenza di volere, dalla quale tulli gli altri atti poi sortono , come da loro originaria virt ; 3 ." che I* uomo, fatto cosi intelligente e volitivo, tostoch  uomo, muove subitamente e la ragione sua e la sua volont, dietro loccasione de sensi, le muove segretamente ed efficacemente ; e sol pi tardi egli si forma poi la coscienza di s medesimo 0 delle proprio sue operazioni ; cio allora che egli comincia su di s e di esse a riflettere e ripensare. Le quali tutte cose in vari miei scritti , de quali |l signor Eusebio , bench pubblici , mostrasi del tutto ignaro ( 4 ) , io di propo- (1) Contro Jtilian. Pelag^ h. Il, c. IV. (2) Jo. II, (3i Kp. CLXXXVH, ad Dard. c. Vili. (4) Da questa ignoranza, spero io, pi tosto che da piena malizia si dco derivar la calun- nia di che il sg. Eusebio m* incarica, osando egli dire, come anche di spra hn notato, ch'io orti meda un mento c anche gonza coscienza e libert  ( R. A(T. XII, f, 40, (B) ). Senza li- bert no, noi dissi i6 mai, ed  tutta giunta del gentilissimo sig. Eusebio, per potermi condan- nare, comegli fa, per giansenista marcio. Senza coscienza si,  questa c luti altra cosa. Peroc- ch certo io non credo che i santi abbiano coscienza di lutti c di ciascuno i meriti clic s* ac- quistano, n credo tampoco clic gli emp abbiano coscienza di tutti e di ciascuno i demeriti che pur s* acquistano. Nesrit homo utrum odio an amore dignit sii etc. N egli fa bisogno cono- scere lutti i nostri peccati per averne la remissione, che con un allo ri amor perfetto o col sa- cramento della penitenza ci son rimessi ( Vcd. s. Tore moto, S. Il, LXXXVI1, i). Ma oltre qursla impostura, le riflessioni che il S g. Eusebio pone sotto I' affermazione XU, tono Me IIP Icsauio d'insolenza c di tuUil, che assai bene dimostrano se la causa del sig- Eu- 100 silo discussi c provai ; c ad essi rimollo quelli clic bramassero saperne, o portarne giudizio. gebio sia quella della purit della dottrina cattolica, com'egK ostenta, ovvero tati* altra. Guai se la nostra santa fede avesse solamente di tali difensori ! Annoverer qui alcune delle asserzioni false, che compongono un tanto imbratto. I menzogna.  Dice che io c con istupenda franchezza do implicitamente il titolo di volga- f ri, a quanti non sono della mia scuola, compresi tutti i Padri e i Dottori 9  lo lo sfido a mostrar dove o implicitamente o esplicitamente io abbia dato il titolo di volgari a un solo de Padri o de 1 Dottori della Chiesa, o ad altro scrittore ecclesiastico; ovvero io invito a ritrattarsi. II menzogna.  Dice che 1 0 quanti non sono delta mia scuola, compresi tutti i Padri e i Dottori appongo che tengano senz'altro, che ogni bene c male morale nell'uomo dalla coscien- za, come da sua causa, derivi 9  lo lo sfido a mostrare dove abbia trovato che io a tutti i panni v dottori abbia attribuito tal cosa; ovvero lo. invito a disdirsi. Prima di andare avanti nell* enumerazione resa necessaria di queste frascherie , sar piacevo! cosa l'udire che cosa egli soggiunga alle parole con cui m' attribuisce d'aver io imputato a tutti 1 padri e dottori quell'errore: c Poich (d ; ce cg!i gravemente) ci non  vero in tutti i son- c si, n in tutti i sensi si pu dire, n da noi si dice 9 Adesso intendo! Siete voi dunque un Padre o un Dottor della Chiesa? non lo sapevo davvero, n potevo saperlo lenendovi masche- rato per pura modestia. Ben potrei qui esclamare con s. Basilio: Deh! che Padre, che Dottore ignorante! Ili menzogna. Dice che  la comune definizione della coscienza sia quella eh* egli ripor- la, nella quale non si trova nominato il giudizio pratico 9, venendo cosi a negare che nella co- mune definizione della coscienza non si adoperi 1 espressione Jumciuu pbacticum. Dove sono due le falsit unite insieme, 1." luno che la definizione ch'egli arreca sia la cornano, fl. laltra che nella comune definizione (giacch la comune  quella che egli apporta) non si definisca la co- scienza un giudizio pratico. IV menzogna.  Dice che c io stabilisco che ogni altro che non son lo, 0 della mia scuo- c la, per coscienza intende un' aziono pratica, o cosa che si riferisce all* azione pratica senza c pivi 9. Non liawi qui una menzogna sola, ma un gruppo di menzogne legale insieme con uo bel nastro d'ignoranza, che  una cosa clic consola! i. d menzogna.  Io non ho dello che tutti intendano cosi com'egli dice la coscienza, ma ho detto che c comunemente si suote appellare la coscienza un giudizio pratico 9 ( TraU. della Cote . , f. i4 ), e questo  innegabile; n ci vuol dire, che la chiamino cosi tutti quelli che non sono io o della mia scuola. 2. 4 menzogna.  Io non ho detto mai n che lutti, n che n pur un solo de* teologi morali r per coscienza intenda un'azione pratica, 0 cosa che si riferisce all'azione pratica 9. Ma ho dello che c comunemente la coscienza s' appelli un giudizio pratico 9 , cadendo la mia osservazione sull' appellazione che si d alla coscienza, appellazione che, com* io notai, non esprime bene quello che per essa i teologi intendono. Questo  il nastro d' ignoranza con cui Eusebio lega le gemme delle sue menzogne. 3/ menzogna.   Io non dissi mai, n mai sognai, che nessan uomo al mondo, per isci- munito che fosse, intendesse per coscienza c un'azione 9. Dissi bens che la parola praxis si- gnifica azione; non dissi, n poteva dire, che la parola coscienza significhi azione 1 ell'invcn. ziooe uscita di pianta dal cervello limpidissimo del sig. Eusebio. 4." menzogna.  Io non dissi c azione pratica 9 : altra scempiaggine che il sig. Eusebio coni a posta per regalarmene. Se pratica vuol dire attiva , qual buassaggine non sarebbe que- sta di azione attica ! Ogni parola adunque della sopraccitata a [Formazione dEusebio  una val- uta ben rotonda. V menzogna.  Dice che io ho detto cosa che equivale c a questo detto : c tutti gli altri clic hanno dato, la definizione della coscienza, non si accordano n colla ragione, n colle dot- trine dogmatiche del Cristianesimo 9. Non avendo io mai detto, n sognato tal cosa, lo sfido a indicare dove egli I' abbia trovata, o a ritrattarla, con tutte le altre sue sviste. Ora le parole mie, che lo hanno fitto cosi imbizzarrire, e eh egli mette l staccate al suo solilo dal contesto, sono pur queste ( f. 4 ( 2 ); se pure dal mimer de catto- lici non Sbandisce s. Tommaso, il Bellarmino, e ludi quelli che sentono con questi due antori anzi che con lui. Che se gli piace di porgere ancora i suoi rispettabili orec- chi ad una parola che s. Tommaso vorrebbe dirgli su questo proposito, ella  qua ; la rumini a suo bell agio : In infectione peccali originali . '1 duo est considerare : primo inhaerentiam ejus ad suhjeclum : et secundum hoc primo respicit essenliam animar , ut dicium est- Deinde opnrtet considerare inclina t io neh ejus ad actusi : et hoc modo respicit potentini animac. Oportet ergo tjuod Ulani per prius icspiciat, tjuae primam inclinationem hahel ad pcccandum : BAEC AUTem EST FO- LE NT AS, ut ex supradiciis palei. Un DE PECCAI USI ORIGINA LE PER PJUUS RE SPI- CIT FOIUNTATEil (3). LXXV. Le quali parole chiaramente distinguono il soggetto dell originai pec- calo, che  l'essenza dellanima in quanto in essa trovasi insita e immersa per cosi dire l intelligenza e la volont, dalla potenza che ne prova la prima i funesti effetti , la qnale si  la volont gi uscita e quasi emersa dallessenza dellanima ; la qual ne riceve la proclivit al male. Ferita cosi e guasta la volont, le altre potenze che a lei tutte dorrebbero pel bene servire, si rendono restie e contumaci ; e quindi inco- minciano que'  molti disordini morali che avvengono attualmente nell uomo di ne- t cessila , i quali al signor Eosebio dispiace aver io nominati e averli delti t effetti  ed alti del peccato d' orgine (4) >- Ma che il peccato originale abbia i suoi effetti ed atti, se il nega Eusebio, il dice per s. Paolo, le cui parole sfuggite, come pare, agli occhi d Eusebio, io recavo nel Trattato della Coscienza. Perocch lApostolo usa appoolo di queste espressioni : Peccato * 1 per mandatum operatosi est in me omnem concupisccnliam (5). Nunc antan jam non ego operor itlud , sed tptod habitat in me pecca TU! (6). Peccato occasione acceptd per mandatum, sedu- xit me (]). Sed peccatosi, ut apparcal pcccalum , per bonum operatum est situi mortem : ut fiat supra moduin peccans peccatosi per mandatum (8). Code (1) R. Aff. )V, f. 19. ( 2 ) u. Atr. iv, r. 19. (3) S. I. II, LXXXIII, in. (4) R. Aff. tv, f. IO. (5) Rom. VII, 8 . ( 6 ) Ivi, 17 . ( 1 ) Ivi, 11 . (8) Ivi, i3. Digitized by Google 112 il peccato originale secondo 1' Apostolo, fa nell' uomo suo operazioni ed atti, e por- tavi i suoi effetti. Ma anche ne rigenerati ?  S, rispondo sant Agostino, e tutti i cattolici con lui bench in minor grado   Ma non  morto egli ne rigenerati ?  E morto , e pur non cessa di operare come un cadavere che, non seppellito, ancor opera col suo puzzo ed infetta l aria. Quomodo eniin peccatimi mortuum est , cura nuilta opcrctur in nobis rcluctantibus nobis? quac multa? itisi desideria stilila et nenia, tpiae con- senltenles mcrgunl in intentimi et perditionem: qua e utique perpeti , eisque non con- sentire ccrtamen est, eonflictus est, pugna est. Quorum pugna, nisi boni et mali , non naturar adoersus NATURA, sed naturar adversum vitium (l),jam mor- tuum sed adhue sepcliendum, id est omnino sanandum (a) ? LXX.VI. Ecco qua Agostino con laolo concorde , e discorde tuttavia non da Cristo, ma da Cristiano, il (piale sempre cogli anatemi e colle scomuniche in pugno, vuole sterminarmi per avere io detto che n il fomite di che parla s. Tommaso e il  Coni ilio di Trento, soprastante io noi anche dopo il battesimo, non si dee creder u che sia il poro istinto animale vizialo : ma questo con aggiornavi la debolezza e In  mala piega della volont, che s abbandona agevolmente a consentirgli > (3). Ben mi duole di dover qui far notare un nuovo avvicinamento fra gli eretici pe- lagiani, ed il nostro signor Eusebio. Perocch quelli sostenevano quanto costui , che la concupiscenza non era che il senso solo, il solo istinto dell animalit : o che l'ab- bia egli appreso da essi, o che uno stesso spirito gli ammaestri e diriga entrambi. Onde, tacendomi io, iascer che sant' Agostino, quasi aocor vivente Tra noi, dica ad Eusebio quel medesimo, che un giorno disse a Giuliano: Quid loyueris ignorai. jAliud est scnsus carnis , aliud concupisrcnlia carnis quac scntitur scnsu et in un t/s et carnis (4). Il senso della carne noti  disordine;  bens disordine quella concupi- scenza che la mente stessa nssalisce, e la fa talor vacillare. Questa produce  de' desideri stolli e nocevoli  ; i quali non possono essere clic nella voIodI, bonch indeliberatamente ; non avendoli mero istinto animale de' de- sideri, ma solo delle fisiche propensioni. Che anzi sant' Agostino osserva continuo , che noa  nella carne, come carne, che la trista lotta si tiene ; ma noi stessi siamo quelli che combattiamo contro noi stessi , istigati da una parte dalla carne, dall'al- tra dalla intelligenza sostenuti :  sempre I anima umana, sempre la volont die lot- ta , e in questa lotta appunto la concupiscenza consiste. Molibus igilur siiti ani A, dice, quos habet secundttin Spiritimi, advcrsalur aids molibus sui s , quo s habel sc- cuudum cameni, et rurstts motibas jais quos habet sccundum carnati, adversatur aliis molibus suis, quos habet secundum spintimi : et ideo dicilur: Caro concupisci i ailver- sus spiritum, et Spirilus adeersus cameni (j). L anima stessa adunque seco combat- te da due parti tirata quinci dalle coso carnali, e quindi dalle spirituali. Or non vi pare , Eusebio mio, come ne pare anche a me, una goffa ignoranza, il menare le ma- raviglie, e il gridare alla novit di dottrina, per aver io scritto che  il solo istinto (1) Pormi a dir vero inconcepibile come v'abbia qualche scrittore, che pure s 1 ostina a vo- lere che santAgostino non riconosca vizio nella natura, ma solo spogliaim-nio di grazia, quando da per tulio il santo Dottore distinguo accuralissimameolc tre cose , la grazia , la natura e il vizio, o corruzione di questa 1 (2) S. Aug. contr. Jul. Pclag L. IU n. 32. (3) R. AfT. V, f. ni.  Ro gi indicato di sopra con che malizia il signor Eusebio, im- possessandosi di queste ultime mie parole, e ommeltendo destramente la parola agevolmente che esprime ad evidenza la facilit di consentire al male, c non io stesso consento : osa calccin'o- bamentc ovvero IGNORANTEMENTE attribuirmi, che io comprendo nella concupiscenza anello ri con- senso, cio f atto delia volont consenziente, c sotto le qual voce, egli dice , fallaecmente oom- c prende ( il Rosmini ) anche l t atto della volont elio si addandola a consentire al perverso  appetito  ( Ivi nota (j) ). (4) Opcrit imnerf. cantra Jul. , L. IV. C. LXIX. (5; Contr. Jul. } L. VI, c. XIV. Digitized by Google 113 animale ,  rimossa da lui ogni relazione colla volont, siccome sia nelle bestie elio  di volont sono prive, non pu ricevere nome di peccato  (i)' Sarebbero pure innu- merevoli i passi de' Padri che io vi potrei addurre, se fosse prezzo dell' opera, a d- mostrare che per concupiscenza , chiamata dall' Apostolo anche peccalo , s intende la volont inferma, la quale si lascia facilmente sedur dalla carne; s intende l ani- ma che dalla carne riceve conlinna molestia c guerra ; e non la mera carne, n l mera animalit che, in s stessa considerata, non  cosa che all ordine morale appar- tenga. Ma ancora un luogo almeno di sant Agostino concedetemi di riferirvi. Nel li- bro  della Continenza  egli scrive filosoficamente al suo solito in questo modo: Ca- ro enirn nihil nisi per animam concupiscit. Seti concupisccre caro adversus Spiritimi dicitur, quando anima carnali concupisccnlia Spirititi rcluctatur. Totani hoc KOS suina s (2). E poro appresso: Igilur ipsc ego- ego mente, ego carne: sed mente Si l- vio legi Dei, carne autem legi peccati. Quomodo autem carne legi peccati? num quid eoncupiscentiac consentendo carnali ? sthsit: Scd UOTUS DESIDERIOHVJU IL- UC H abendo ( jiios habcrc rtnkbal, et tanica habcbal (3). Conciossiach noi in quan- to siamo di volont forniti non siamo sempre e dei tutto attivi ; ina bea anco passivi; e la volont nostra non opera solo liberamente, ma bea anco talora con semplice mo- to spontaneo: come accade appunto in qne desideri di cui parla sant* Agostino, clic insorgono in noi pfr (spontaneit, bench per libert ad essi noi ei opponiamo. Laonde nega espressamente san Agostino* che il combattimento sia un effetto natura- le e inevitabile dell'accoppiamento delle due contrarie sostanze la materia e lo spirilo; perocch, quantunque a diverse leggi soggette nc! iuro operare, niente vieterebbe pe- r, che fossero state bene insieme compaginate e connesse, come Iddio fati avrebbe nella soa infinita sapienza e potenza creando !' uomo in istato di sana ed intera na- tura: nel quale stato lo spirito sarebhesi potuto servir della carne a pieno suo grado II* eseguimento della naturai legge, e al mantenimento ed aumento della naturale felicit. Dice adunque cosi il Dottore della Grazia : Qtiod ergo caro concupisca ad- versus Spiritala, quia non habitat in carne nostra ho num, quia lei in membri s no- Slris rcpugnal legi mentis , non est dvarum NAturarvm ex CONTRARUS factA PRiKCiptis coMuiXTio,setl vnius adversus scipsam , propter peccati meritata fac- ta divisto {4). Ed io confirmavo la stessa verit, che non 1' istinto solo animale costi- tuisce la concupiscenza, ma la relazione di esso alla volont, coll autorit manifestis- sima di s. Giovanni che nomina t la volont della carne  (5) a fare intendere che trattasi della volont nostra dalla carne lusingata, e non della mera carne ; ma il no- stro signor Eusebio, trovando 1' osso duro a suoi denti, postosi in snssiego, se la pass con queste sole due gravi parole:  Abbiam lasciato il passo di s. Giovanni, che pa- ci re dall autore non  bene spiegato, perch nos fa al presente proposito  ( 6). Ipsc dixit.  Passiamo or ad un altra non meno bella (7), LXXVIf. Dopo aver egli recate le parole di s. Tommaso da me pur citate, Re- mane tamen peccatum originale actu, quantum ad forniteli*, qui est inordinalio par- lium inferiorum animae et ipsius corporis, sccundutn quod homo generai, et non se- ti) R. AfT. V, f. * 1 . (2) C. Vili. (3) Ivi Ved. ancora *, Aue. contr. Jutian- Pelaa. L. VI, n. iG e asce. (4) De Contine alia, e. Vili. (3) Jo. I, .3. (6) Le mie parete, commesse dal sig, Eusebio all' Atfermnzione V. son queste:  E indi vie - ( ne anco la giustezza dellespressione di S. Giovanni die nomina Ja volont delta carne ; la i quale non  ad intendersi puramente dell istinto carnale, ma si delia volont cedevole a quei-  l' islioto ; come la volont dell'uoiao, pur nominala dall* Evangelista, deesi interpretare della vo- * lont umana cedevole alle illusioni di felicit e di grandezza umana in esclusione ed io oppo- I lizionc delta giustizia 1 . Trattato della Coscienza, face. 33). (7) R. Aff. V, f. *3, (cc). Rosmini Voi. XII. 410 Digitized by Google 114 cundum mcntcm, un queste parole argomentando da quel loico maro tiglioso eh' egl i , mmum pruder ipsum qui peceatum non habuerit infantilis aelalis ex~ orlo. (Conte. Jui., L. V, c. XV).  LAngelico del pari: Jn quo quidem statu (hominis re- parati ) potesl homo absiinere ab omni peccato mortati.  Aon autem palesi homo abslinere ab omni peccato veniali piiuptkii cOBBi:er!ONi.il iNpcniosis ippsrircs skissualitatis, cujus motus sin - gutos quidem ratio reprimere potest (et ex hoc habent ratwnem peccati et volontari! ) non nu - lem omnes: quia dum uni resistere nttilur. Jbrtassis ahus insurgit : et eliam , quia ratio non semper potest esse pervigil ad hujusmodt motus vitandos eie. ( S. 1. II, CIX, vili ).  V. il Pallavicino, Istoria del Concilio di Trento , Lib. VII, c. IX. (2) S. 1. II, LXX.tV, iti. ty Google 115 10 de' molli die uddur potrei ne redimo uno, il quale mi prester pi servigi, laria 11 santo della malizia contenuta nell'originale (leccalo cosi : Malilia contrada nihil aliud est quam destitutio foliintatiS ab originali justitia , et inde incarni omnem phonitatem ad mula ctigenduiti(i). Nelle quali parolesi comprendati due cose : i. la malizia della volont che perduta l'originale giustizia entr nello stato d ingiusizia, e 2 ." la inclinazione die prese la volont al male, incarni omnem pr- nilalem ad mala eliijendum. Ora nella prima di queste due cose metto s. Tommaso la forma del peccato originale, in cui per rimali nini' qui di passaggio ci clic pi sopra fu da noi ragionato, entra benissimo la volont di dii nasce, secondo I' Ange- lico. Nella seconda poi, cio nella sdrucciolevolezza della volont al male, mette la materia di quel peccalo. Ed ora sapete voi come chiama s- I umiliasi) questa sdruc- ciolevolezza della volont? concupiscenza appunto, con vostra pace. Ecco le Parole che immediatamente a quello prime susseguono: Et sic, seeun lam praemissa. ma- lilia se habel in peccalo originali ut / ormale , conce Pise UNTI A autem ut mate- riale ( 2 ). Volete pi chiaro? Non si pu; ma egualmente chiaro  per quest' altro testo, Peccalwn originale ex ea parte, qua inclinai in peccata adunila prAecipue peiit/net ad polii NT at usi , ut dictum est \ sed ex ea parte ; qua traliicitur in proietti pertinet propinque ad poleniias praedictas , ad folvnt atesi autesi remote (3). Il guasto della volont c entra sempre, sia clic si consideri I" inclina- zione al peccare, sia che si consideri (in anco la traduzione del peccalo clic si la per generazione, centra, o prossimamente, o riumtamenle almeno. N rucn chiaro s. Tommaso parla a chi lo legge in quell'altro luogo ove dice che in malis, inferior pars animae priucipalior invenilur quae uiinuuilat et traiiit rationem  Propter hoc peccatum originale inagis dicilur esse concupisceutia quatti ignorati- tia (4), cio il peccalo originale si dice essere pi tosto concupiscenza, che igno- ranza, perch la concupisceuzu non  il mero isliuto animale in s considerato, ma  quello consideralo in relazione alla parte supcriore dell uomo , quae obnubilai et tra/iil rationem. LXXIX. Ma qui il signor Eusebio propone una difficolt che ha piti apparenza di vero deUullre tulle precedenti, e confesso die se io avessi preveduto la eavillazio- ne elio egli seppe trovare sopra alcune parole mie, ini sarei spiegalo diversamente. Dopo aver io detto che la coucup.iscenza  l'istinto animale, aggiuntavi la debolezza e la mala piega delia volont, cosi mi continuai : i Altramente l'Apostolo non avrebbe potuto dire con propriet , che iuabilava a in lui il peccato; perocch il solo istiuto animale, rimossa da lui ogni relazione  colla volont, siccome sta nelle bestie, che di volont sono prive, non pu riceva-  re nome di peccato; sebbene egli sia guasto e morboso, e gli si dia acconciamente a il nome di male o di disordine ; tuttavia non gli si dar quello di peccato o d im- c moralit , che involge sempre una relazione colla potenza intellettiva di volere. E a indi viene anche in giustezza dell' espressione di san Giovanni, che nomina la vo-  lont della carne ; la quale non  ad intendersi puramente dell' istiuto carnale, ma  s della volont cedevole a quell istinto ; come la volont dell uomo, pur nominata  (i). Or qui il sig. Eusebio prontamente mi rimbecca di aver detto il contrario appunto ap- punto del Concilio di Trento, il quale dichiara Ecclesiam cat/iolicam numqnam in - tel/exse ( concup'scenlinm ) pccatum appellari , quod pere et proprie pec- cate ti sit (?) ; di me poi cotichiudpndo :  E non lo atterriscono gli anatemi dal  Concilio quivi medesimo fulminati  (3j? mostrando cos ignorare, che gli anatemi non possono atterrir coloro, che non hanno intenzione alcuna d' incontrarli. Rispondo adunque primieramente richiamandolo alla regola di logica e di equit dal romano diritto posta all'interprctazion delle leggi, Aon oportere ( scriptum vel d cium ) calumniari , nerjue verbo ejus captare , sedQUA mente quid diceretor animadverlere ( 4 ) : la qual regola, se egli  mestier che si osservi , nell' interpretare le leggi, scritte con tale perspicuit con qual sapenno i romani legislatori; troppo pi egli  uopo e dovere, che agli scritti privati si applichi, le cui parole non hanno uf- ficio n forza di pubblica legge. Trattiam prima della questione delle cose, e poi di quella delle parole. Pretende dunque il signor Eusebio che quando il Concilio di Trento, parlando della concupiscenza di cui parla s. Paolo, dichiara: la Chiesa cattolica numquam intcllejcisic pcccatum appellali quod vere et proprie pccratnm sit , parlasse di quel peccalo di cui parlavo io dicendo che l'Apostolo disse con propriet che inabitava in lui il [leccalo? Egli ben  facile di vederlo se sin rosi ; perocch il Concilio di Trento ha parlato chiaro. Di qual peccato intese parlare il Concilio ? Lo ha espressamente defi- nito questo peccato a fine ai togliere tulli gli equivoci dicendo : quod siors est ani- mar (5). Ed avrebbegli il signor Eusebio fronte da sostenere, che io col dire che 1 Apostolo ha parlato con propriet quando afferm che inabitava in lui il peccato, intendessi per peccato quello che  morte dell'anima, di maniera che credessi >ho l' anima dell' apostolo Paolo fosse morta della morte del peccato ? Se non ha egli fron- te di sostener tutto questo, vergognisi adunque di venir intimando si male a proposi- to gli anatemi del 'I ridentino ; i quali non si possono incorrere se non da chi preten- desse la concupiscenza essere un vero e proprio peccato di quelli che all anime dan- no morte. LXXX. Che se anche a questo arrivasse, a confonderlo potrei io addurre via meglio di cento luoghi del solo Trattato delta coscienza, dov'io dichiaro espressamen- te il contrario : potrei dirgli, continuale un (ratto la lettura l appunto dove 1  avete lasciala, perocch immediatamente dopo le parole da voi censorale, seguita la spiega- zione di esse da voi taciuta, lun o laltro, o da bel minchione, o da tristo; scegliete. Conciossiach le parole che seguitano a quelle da voi addotte son proprio queste:  La-  onde l'Apostolo, favellando di s dopo giustificato, e dicendo che ) Un volont inclinata, non  una volont che consente nel peccato, come mimputa quell ira bugiarda ond Eusebio prende In sue ispirazioni. (7) Tratl . delta Coscienza, f. 39, 4*1'   In questa stessa faccia si leg"- ancora elio i mo- ti della concupiscenza non sono im/.nlahiti perch non liberi ; sempre posio clic non vi si ag- giunga il consenso. E nella faccia seguente cosi di nuovo sia Berillo : ,  laltro nominava ( la volont della carne a ; eziandiochc in que- ste loro espressioni si riconosca avervi del traslalo. LXXXII. Ma nell altro senso della parola propriet pn egli dirsi che s. Pao- lo parlasse con propriet quand egli chiam la concupiscenza peccato in lui inabi- tante ? Rispondo di si, e lo dimostra il vario uso delle parole ne* vari tempi. Perocch avviene che quelle parole che da prima significavano propriamente una cosa, in un secondo tempo vengano applicate a significarne un allrn per traslalo, e in un ferzo tempo perdendo affatto o quasi affatto 1 antico significato, rimangono nell'uso come proprie di questa seconda cosa, che prima signiiicavano per traslato. E cosi la pa- rola peccalo era in origine propria usata nel senso di qualsivoglia difello anche nascente nella materia inanimata, come poniamo nn bozzacchione , che sarebbe un peccato del susino. Ma pi tardi fa ristretto il significato ai mali morali , ed ancora pi, a que soli mali morali che guastano la volont personale dell uomo, c che per- ci sono morte dell anima, talor anche a soli peccali attuali commessi dalla persona di libero arbitrio fornita. . E 2 uasi in ogni faccia delle seguenti si ripeto lo stesso sentimento, citandovi anco lo precise parete eli Apostolo che ni hit damnationis ut in iis ywae sunt in Chritta Jesu, come alla face. 87. (1) Scss. V , Dece, de pece, or ir/. (2) Trutt. della Coscienza , face. 45, (3) S. Aug. Hctroot., Li. I. igitized by Google 118 In lulli questi sensi la parola peccato fu adoperala con propriet ne vari (em- pi, come si potrebbe dimostrar facilmente facendo la storia di essa parola. Riprendia- mo tutti e quattro gli accennati significali. I Sant Agostino, che dieue del peccato varie definizioni ( il nostro Eusebio non mostra di super che la sua ) secondo i quattro significati che abbiamo distinti, ha fra le altre questa ancora : Peccatum est trasgressi a legis (t). Qui il peccato \ i  definito secondo il primo ed originale significalo: Quae de finii io, dice il Bellarmi- no, generalissima est, et conventi in peccata omnia non snluin morum sed etiam naturae et artis ( 2 ). Onesto significalo della parola peccalo, che fu proprio in ori- gine, quasi intieramente pass, restringendosi essa ad esprimere de' mancamenti o di- fetti morali ; e a manca menti e difetti morali si riferiscono appunto gli altri tre signi- ficati. 2 . * Il secondo significalo, e il primo de morali , si  qnello in cui 1 adopera 6. Paolo a significare il fomite della concupiscenza sussistente anco ne rigenerati ; il peccalo in questo senso non  morte dell'anima, ma  tuttavia un male appartenente allordine morale; e questo significato  proprio considerato in relazione al prece- dente, nel quale la parola peccalo significa ambe un difetto delle natura e dellarte. Ed  appunto iu questo senso che io dissi clic s. Paole chiama la concupiscenza pec- calo con propriet, consistendo la propriet del parlare dellApostolo in questo, che egli usa quella parola non gi a significare nn mancamento 0 vizio di qualche cosa inanimala, o di qualche essere privo dintelligenza ; ma bens di un essere intelligente e morale quale si  l'uomo, e un mancamento che appartiene allordine morale. Il signor Eusebio mi negher qui forse che la concupiscenza sia un male spettante al- lordine morale? Quando mel niegtii riuscendogli nuova tal cosa, io gliel prover chiaramente: ma mi lasci ora procedere. 3.  Il terzo significato, e il secondo de morali,  quello che si definisce e carat- terizza ultimamente per t morte dellanima , quod est mors animar , e questo ab- braccia il [leccato originale e l attuale. Vero , che secondo 1 uso presente della pa- rola peccato, ella riesce pi propria adoperata in questo terzo significato, che non aia ne' due precedenti ; c perci il Concilio di Trento giustamente dice che la concu- piscenza ne rinati non si chiama peccato quod proprie et vere peccatum sii , appun- to perche, secondo 1 uso, chiamasi or peccato propriauieule quello che  morte alel- I' anima. 4." Il quarto significalo, e il terzo de' morali,  quello della definizione che por- la Eusebio di santAgostino, come fosse Tunica di questo santo Padre, non esse pec- catimi misi prarutn libere volunlatis assensum. cum inclinamur ad ea quae justi- tia velai et linde liberum est abstinere, la quale saulAgoslino stesso dichiara nel primo libro delle Ritrattazioni non abbracciare il peccato d origine, ma esser sola nien- te vera applicata a quel peccalo che  sol peccalo, e non ancora pena del peccato come si  pur l originale, propterea vera est quia id definitimi est quod tantum modo peccatum est, non quod est etiam poena peccali. Questa definizione non espri- me adunque che il peccato attuale in ispccie, non il peccato in genere come quella del Concilio di Trento, e il pretendere che non vi sia che questa specie di peccati, che cosa  egli altro se non un negare il peccato originale? E tuttavia l'uso dimostra che anche in quest'ultimo significato si adopera la voce peccalo con propriet altret- tanto, se non pi ancora che nel precedente (3). fi) De contenni Evangclitl. , L. 11, c. IV. (a) De tlalu peccati, L. 1, c. I. (3) Nell definizioni! del peccalo di sant' Agostino, clic dice Factum rei tticlum vel eoncu- pitum cantra legati actcrnam Dei ( Lib. Il canlr. Fatiti., c. XXVII ), qualelie teologo diman- da perch il sauto Uotlonr non facesse intervenire la vuluut. A cui ltosia risponde _ c uni ititi Digitized by Google 119 Nella propriet dello parole ai possono duflqtie distinguere diversi gradi, c in diversi significati possono le parole stesse propriamente adoperarsi. Ora non vha nessun dubbio che, presa ne' due ultimi significati, riesca pi propria la parola pec- cato che ne precedenti ; ma non v ha dubbio ancora, che nel secondo significato, col quale s' indica pare un vero male morale, sia adoperata con propriet relativa se non assoluta; cio a dire in paragone col primo significato; sicch il dire con s. Pao- lo alla concupiscenza peccalo,  pi proprio che il dirlo al nascer gnerclo, o zoppo, o rattratto della persona. Ed ecco in qual senso io dicevo aver l'Apostolo parlato con propriet, e lutto il contesto del mio dire chiarissimo lo dimostra. Volevo io dire: c non doversi credere che s. Paolo avesse chiamato peccato un dirotto o guasto materiale del corpo,* il che Sarebbe stato impropriet, ma egli os la parola peccalo a significare la concupiscen- za, perch quest  un male che appartiene allo spirito, alla volont, allordine in una parola delle cose morali . E tuttavia se il signor Eusebio si fosse accontentato di dirmi: ( Fratei mio, il vostro sentimento  chiarissimo ; tuttavia potrebbe parere a chicchessia di trovare nelle vostre espressioni una colale opposizione a quelle del Tri- dentino : # Vi ringrazio, io gli avrei riposto, ella  stata nna mia inavvertenza non averlo preveduto, ed emender la frase o la dichiarer pi ampiamente in un altra edizione del mio libro . Or, quantunque egli non mi abbia parlato n ragionevol- mente n amicamente, tuttavia le sopraddette parole io ben voglio avergli dette, e gliele-dico ora, e gliele confermo. LXXXIIi. Per altro ben veggo eh egli, in vece dandar pago dell accettar che io fo in questo la sua osservazione, egli mi guarda tuttavia bieco, per aver io afier- mato la concupiscenza esser pure un male morale , bench non un peccato nel senso del Tridentino. Perocch, secondo lui, non  che  una naturale tendenza ,  nna naturale condizione deil'umana natura , (fi cui  luomo   provveduto tanto per-  fellamente, quanto sarebbe se fosse stato creato nello stato di pura natnra, n pi  n mono  (i); di che avviene, come abbiamo osservato pi sopra, che, essendo Iddio l'autore della natura e di tutte le tendenze insite in essa, anche la concupiscen- za sia I opera di Dio stesso, e per buona: Vidil cuncta quae fecerat, et erant cal- de bona. A spegnere tant ardore d Eusebio tutto in favore della concupiscenza, ver- siain ancor dcll'acque di scienza attinie dal gran padre snnt'Agostino ; e mostriamo come il santo Dottore ( nella cui bocca pu realmente dirsi che parli in questo punto la Chiesa ) concepisca la concupiscenza per un male nell ordine morale. Hoc ergo concupiscentia carote, egli dice, nunguam concupiscitur bominis uflnm bonum, si VOl.UNTAS CARNI 3 ( 2 ) 071 CSt itomillis bonittl , ac per hoc MALA EST CONCUPI- SCENTI A, itisi ab tllicila voluptate fraenetur (3). Male si dice qui espressamente es- sanctum Augusti num abstinuisse in defini tione a mentione voi uni arii , ut comprehent/eret quo- que pecratum materiale , quod nullum exigit voluntarium ( De perenti in genere, Disserl. I, c. I). Non piace per a me una tale risposta, Perocch, non potendosi operare contro la legge eterna se non colla volont, parali che questa vi sia gi compresa. (1) R. A(T., f. 34.  Non mi posso tenere di rivolger di nuovo al nostro Eusebio le pa- role di saalAgostino a Giuliano: Ecce adhuc diris c concupisccntiaiu naturalcm , ecce adhuc quantwn potes , susceptam tuam , ne possit quae sii inlelligt\ contegis ambigua veste verborum .  Isto autern nomine ulens, et appellane eam t concupisccntiam naturai em, inter rjus opera c locare , conaris , qui ut dics. et rerum ri/,  mundum fcct et corpora : cum dicat eam Johannes a Patre non esse. Deus quidbm mundum fecit et cofipoua prohsus omnia: sed ut con* PUS CORRUPTIDILE AOGRAVET ANIMAM, ET CARO CONCUPISCA r ADVERSU* SPIIUTUM, NON EST PRAECEDENS natura hominis iflSTirOTl , sed consequen* POEMA damnati. ( Opcr. Iinperf. corilra Ju!., L. IV, c. LXVII). Si possono desiderar parole pi chiare di queste a significare che la concupiscenza non appartiene allordine naturale delluomo, chella non  una condizione della pura natura, ma una corruzione di essa? (2) Osservi qui nuovamente il sig. Eusebio come nella concupiscenza entri la relazione col- la volont. (3) S. Aug. contr. Jul.. L. IV, c. XVI. Digitized by Google 120 sere la concupiscenza , a cui per vuoisi far resistenza, itisi ab illcita voluptatc fraenetur. E mostra sani Agostino come ella sola la concupiscenza sia e sar mala fin che nell' nomo si conserver e non si torr via colla distruzione del corpo. Sunt ergo in nobis , dice in un altro luogo lo stesso Padre, desiderio mala , quibus non consentiendo non vivimus male : sunt in nobis concupiscentiae peccatomi n, (juihut non obediendo non perficimus malum, sed eas n arendo, nondvm per- eictmcs no xu m ( i ). E quest' appunto la dottrina dell' apostolo Paolo e la ragion vera per la quale egli diede alla concupiscenza la denominazion di peccato, con quel- la propriet che di sopra dichiarai, e non con quella che il Signor Eusebio ni' attri- buisce, in quanto cio trattasi di un mal morale: dottrina che seguila a spiegare egre- giamente santAgosliuo cos: L'irunqite ostcndit Apostolo, nec bonum lue perfici, ubi inalimi concupiscitur; nec malum lite per /lei. quando tali concupiscentiae non obedilur. llud quippe oslendil ubi ait: l'elle adjaccl mi/ti , perficere autem bo- num, non. Hoc vero ubi ait: Spirita ambulale , et desiderio carnis ne perfeeeri- lis. Aeque enim ibi dici!, Aon sibi adjacere faeere bonum : sed non perficere-. nc- que /tic dici t: Concupiscenlias carnis ne habuerilis : sed ne perfecerilis ( 2 ). Laon- de conchiude: Fiunt itaque in nobis concupiscentiae malae, quando id quod non licei , libel: sed non perficiuntur, cimi, legi Dei mente serviente , libidine s continen- tur. F-l bonum fit, quod id quod male libet, vincente bona delectationc , non fit: sed boni perfeclio non implelttr, quandi)/, legi peccati carne serviente , libido il- He, et quameis continealur, lumen movetur. Aon enim opus esse t ut continere- tur, itisi moverelur ( 3 ). LXXXIV. E pure, replicher qui il signor Enscbio, questa concupiscenza non pregiudica a battezzali.  Distinguete, signor mio; non pregiudica, se vi si oppon- gono; e se no, ella pregiudica. Sentile la condizione dalla bocca dello stesso Concilio di Trento: A ocere non consentientibus, sed viriliter per Coristi Jesu grati am repvgnan ti bvs, non valet (4). Si dee dnnque non consentirle, ma ripu- gnare; dunque  moralmente cattiva. Perocch  al peccato che non si dee acconsentire,  ni peccato che si dee ripugnare. Questa  pur maniera di parlar comune. Ed or non v accorgete voi, che qui havvi pure qualche propriet di parlare chiamando peccato la concupiscenza, bench ella da s sola non sia peccato, quod vere et proprie pec- calttm sii, consistente nella morte dell anima ? Piacciavi adunque distinguere cos: Ne battezzati la concupiscenza si pu con- siderare r. da s sola; c come tale ella  un male dellordine morale, all'uomo seb- bene battezzato inerente, la quale perci chiamasi peccato dallApustolo, quia e.c peccato est et ad peccatimi inclinai ; 2 . o in relazione coll' uso del libero arbitrio dell uomo; c in (al caso se questo, aiutalo dalla grazia, la vince, trae da quel male il bene del merito e la corona della riportata vittoria , avvenendo allora in lui clic qui legitime certaverit coronabitur, e che virtus in infirmilQle perficitur ; se poi cede, acconsentendo alla concupiscenza stessa ed alle sue opere, egli pecca , perch cede al (leccato, e il suo peccato s imputa a colpa di lui, che nc tu vera causa. E tuttavia dice santAgostino, elio anche in quelli che vincono la concupiscenza  un male, perch impedisce loro la perfezione del bene.  Convien dnnque ricor- rere anche qui alle due forme di bene e di mole morale di sopra da noi distinte, lima che aderisce a noi senza I' opera della nostra libert, l altra che nasce dall opera della libert nostra, e questa seconda  il merito ed il demerito. La concupiscenza impedisce che sia perfetta in noi quella prima forma di santit che ci santiiica col .(1) De continenlia, C. Viti. (2) Iti. (3) Ii. (4) Srsi. V. Decr. ite pece. orig. Digitized by Google 121 solo aderire alle anime nostre ; ma ne rigenerati ella non impedisce il inerito, anzi presta ad esso bella occasione , n impedisce gli eliciti del merito, i tpiali sono an- niento di grazia, e affinamento di virt e- sempiterna mercede. Ond' clic ipieslii ( il merito ) va vincendo ogni d pi ne giusti il male di quella ( la concupiscenza ) e indebolendone le forze fino che, deposta la carne corruttibile che n  il principio, sia tolto ogni impedimento alla perfezione del bene; e ricuperata una carne incorrut- tibile nella risurrezione, che anche rigenerazione  delta acconciamente da Cristo, in tutto luomo trionfi Cristo, lutto l'uomo sia rinnovellato ; riportato il fruito compilo della sua redenzione: F.rit quandoque eliam perfectio boni , per continuarmi sempre con santAgostino, quando erit consumplin mah: illud erit summum, hoc crii uul- lum. Quod si in isla morlalitate spcrandutn pulamu s, fa/timur (i). Fallimur , di- ce il. santo, perch qui dobbiam pugnare con quel vizio che ci rimane anche dopo il battesimo, bench ogni reato di esso sia tolto, et cujtis mali realu jam eliam sotti- tus per indti/genliam, ne (itene existimel esse quod fedi , ad/iuc cusi svo vitio pugnai per continenliam ( 2 ). Ma quel vizio  poi tolto del tutto nella vita avvenire, e iu questa stessa va miouendosi, perocch Atnil  ut sint ella vitia in illa quae futura est pace regnantibus: quandoquidem in isto bello quolidte minuunlur in proficienlibus , non peccata solum, sed ipsae quoque concupiscentiae , cimi qui- bus non consenliendo conjligitur, et qtiibus consentendo peccatur (3). E per in quella pace beata, in cui regnando i giusti si trovano, sar pienissimamente retta la lor volont appunto perch le cesser anche l' inclinazione che per natura e per ne- cessit, ripugnando e dolendosi il libero arbitrio, verso il male ella tiene quaggi : quibus duobus ma/is gene ribus omnino pereunlibus, quorum est unum praeceden- tis iniquilalis, aherum consequenlis infelicilatis , erit uomikis siete olla pra- vitati:, volo nt as recta ( 4 ). LXXXV. Laonde che la volont resti al male inclinala anche ne' battezzali non  c ano ereticale svarione s (5), come lo chiama il sig. Eusebio Cristiano, ed  pi to- sto un ereticale svarione raffermare il contrario. Perocch non solo sant'Agostino dico che la concupiscenza inclina al male anche la volont de* battezzali, bench, combat- tuta loro non noccia, ma lo stesso Concilio 'di Trento lha espressamente definito col appunto dove dice che ne' rinati rimane il fomite che ad peccatvm incuti at: alla qual decisione risponde a pieno il senso di quelle mie parole che Eusebio condanna siccome eretiche, e che riferisce alterate al suo solito (6), le quali restituite alla loro in- tegrit, sono queste :  Rimane ( ne giustificati ) la volont naturale inclinala al male  ( concupiscenza ) ; ma ella non  oggimai pi cagione alluomo di dannazione 1 ; u queste altre:  In tale stato esister il peccato, ma oggimai senza dannazione, cio (ec- co la spiegazione che esclude Gn I' ombra di quel peccato, quod est rnors animae )  cio esister una inclinazione al male della vulunta naturale, ma questo non danne- c r pi luomo . Ma il signor Eusebio s attacca a quelfocciMAi, e cosi argomenta: Se ne battezzati oggimai la concupiscenza non  pi cagione all uomo di dannazio- ne ; dunque ella  cagione ne non battezzati. Ma la concupiscenza non  cosa libera nell'uomo, ma necessaria. Dunque voi incorrete nella proposizioue condannata m (t) De ContinenUa. C. Viti,  (4) ivi. (5) R. Aff. XI, f. 45.  Leggasi la noia ( u u ) in relazione alle parole del lesto che co- minciano. ( Si porga mente ad un altro non meno ereticale svarione ecc. i. Nella questione seguente risponder pi ampiamente alle maligne c false imputazioni contenute nell Alfe bina- zione XI. (6) Si confrontino queste parole anali sono riferite da Eusebio face. 43. del suo Librilo , c quali sono nel mio Trattato della Coscienza f* 58 c jt, e leggasi sopra tutto il couleslo. Rosmini Vol. XII.  ili Digitized by Google 122 Michele Bajo: Homo peccai elnm damnabiliter in co r/tiod necessario facit (i). Non  magnifica questa argomentazione (>.) ? Peccato che egli non abbia ioteso la forza di qoell in renatis nel decreto del Concilio di Trento, che risponde a capei- 10 al mio oggimai. Itane cnncupiscenlam , dice il Concilio  Sanila Synodtts de- clorai , F.cclesiam calholicam nani/ nani intcllcxisse peccatum appellar i, r/uod ve-, re et proprie in rf.natis peccalum sii. Ne rinati, dice il Concilio di Trento, og- gimai la concupiscenza non si chiama pi peccalo, quel (leccalo che  veramente e propriamente tale, cio che d la morte e la dannazione allanima. Povero siero Con- cilio di Trento, che siete venuto alle mani di Etisrbio mio, il quale colla sua logica are-finissima vi convince di essere gi incorso in uria proposizione dannala in Bajo I Esse non sono baje da vero; perocch, avendo voi detto che la concupiscenza non  quel peccalo vero che d morte all'anima ne' rinati-, dunque ne non rinati, secondo voi, la concupiscenza  quel peccato vero che uccide 1 anima. Ma la concupiscenza non  gi nell'uomo libera. Dunque voi aficrmnte ci appunto che Baio afferma, cio che Homo peccai etiam damnabiliter in eo quod necessario facit. Scioglietevi o sa- crosanto Concilio, da lai legami, in cui il terribilissimo Eusebio meco vi siringe, se voi potete (3)1 (1) Si noti ebo lerrore in questa proposizione sta tutto nella parola damnabililer , o per questo fu giustamente condannala. (2) Il sentimento da me espresso, che  la concupiscenza e i disordini da lei necessaria- C mente e non liberamente derivanti sieno effetti cd atti dell* originai peccalo, e in questo, co- c me in loro causa, si possoa ridurre , mi valsero dal sig. Eusebio due censure fra lor con- trarie. Qui vuol applicarmi la sentenza condannata di Bojo, Homo peccai etign i damnabiliter m eo quad necessario facit , e vuole che io mandi tutti all inferno per queste opere inevitabili della concupiscenza. Alcune faccie prima del suo libello mi dava la taccia opposta, intraveder do in quel mio sentimento l'errore chio volessi salvar tutti, anche quelli che commettevano peccati attuali e liberi, col pretesto del peccato d* origine. Non si cbiarna questo avere le luci acute ! 11 trovare i due errori opposti nel sentimento medesimo d* un autore I E odasi con quanta pene- trazione rinvenga errori si contrari. Alla face. 19 dico cosi:  Quando il sig. Rosmini fa con- c sisterc l essenza del peccalo originale anche in molti disordini morali che nascono in questa c vita t ( grazie sig. Eusebio, de* bei regali che continuamente mi fate ! dove avete trovalo mai eh* io faccia consistere l 'essenza del peccato originale in quei disordini eh io anzi chiamo effetti ed atti di esso? perch andarvi pascendo nelle maligne tenebre del vostro cuore di tali bugiarda Bciempiaggini ? ma andiam pure avanti ) c Quando il sig. Rosmini fa consistere l* essenza del  (2), rendo oscuro il mio dire  avvolgendolo quasi in frasche 1, e con  un certo mio contorto fraseg- giare inganno altrui Gno a farmi creder ragionatore 1 ( 3 ). ' Et quid plora, fratres t Hoc est peccatum naturar, fu od est Jumut acuti, quod feltri cor- pori, quod dulctssimis fonhbut amara alttdo ( Serro. Ili }. reggasi di nuota come tutti que- sti effetti del peccato dorgine si descrivono, quasi fossero il peccalo stesso originale operante. Ma, per non esser infinito, bastera.nmi addurre ancora la testimonianza di s. Bernardo, il quoto dice che I originai peccato  un veleno che ai diffonde per tulle le eli della vita : W et atiler nihilo minuM in vniversam dilatatur uetalem , ab ca ecilicet die , qua tua qucwque conciali, usque ad Cam , qua communi s eum recipit maler. Alioquin linde grave jugum super omnes et tota Jiiiot Adam, idquc a die exitue de ventre mairi* eorwn , usque in diem aepuUurae in matrem omnium 1 In tordibus generamur , in tenebri canfovemur , in doloribu parturimur leccatum ex uno in conderouationem : gralia autem ex mullis delictis in juslificalionein. Et grave guider omnino delictum itlud originate, quod non *oiurn personam infecit, ted et na- turai ( Feria IV hebdom. penosa de Passione Dom. ). (1) Relract., L. Il, XII, - (2) R. Aff. Ili, t 15, (o). (3) Ivi.  Per dimostrare meglio quanto io confonda le idee, e quanto egli ben le distin- gua, dice : c Talora confonder ( Rosmini ) I appetito animalesco dell uomo coll appetito in- , quasich la coscienza non fatta possa dirsi coscienza, quando anzi, in contraddizion meco stesso, io pur riprendo l' espres- sione di c coscienza dubbia > siccome manchevole di propriet. La punta del vostro ingegno , signor Eusebio, dee esser certo acutissima, perch voi, mirando, non vedete solo le cose mini- me, ma anco quelle che sono del lutto invisibili, non esistendo. Enel vero, dove ho io mai di- stinto la coscienza in quelle due specie che voi sognate, cio nella coscienza fatta , c nella co- scienza non fatta f Quello che io distiosi furon gli stati delf animo t cosi dicendo : i Qui si ( scorgoao adunque due stati dell* animo nostro relativamente apa coscienza, il primo quello ( nel quale lanimo ha la coscienza fatta , e il secondo quello nel quale I* animo non ha ancora  una coscienza fatta i ( Trattato della Coscienza , f. 76 ). Non sono qui distinte due specie di coscienza, come, travedendo , voi supponete , ma due stati delf animo, I* un dequali ha, e l'altro non ha la coscienza. Quindi c che la Sezione prima fu da me intitolata c Regole del. a c Coseieoza gi fatta s ; ma la Sezione seconda non ha gi per titolo: c Regole della Co - c scienza non fatta j, ohe sarebbe un assurdo; ma il suo titolo  questo: c Regole. che dea c seguir l'uomo elio non s* fatta ancora la coscienza > Vedetelo alla f. 153 del Trattata della Coscienza. Vide adunque il nostro Eusebio, colla punta del suo ingegno mirando, quello che non vi  ; e cosi per provare con efficacia la mia confusione d' idee, mi prest la sua pro- prio !  Quanto poi al nominare che fo io stesso talora la coscienza dubbia, niuno sconcio no pu venire dall'istante che io ho gi spiegato io che senso prendono i teologi quest' espressione e concessi la usino per una cotal forma spedila di favellare ( f . 154 ). (1) Le parole in carattere rotondo sono proprie parole dell' eretico Giuliano, il quale po- trebbe accusar di plagio II signor Eusebio. (2) Conir . Jul. Pelng L. II, n. 11. Rosmini Voi. XII. 4t 2 130  fesa ritiene una mala piega, una trista abitudine  ; e recai a provarlo uno dei molli bei passi che ha sant Agostino sulla gran forza della consuetudine (i). Ma egli in queste parole vede un gravissimo errore fuor dal cannocchiale dello sragionamelo che vi fa sopra : il quale si  questo : c Si noli, dice, che quest au- * toril di Agostino dal Kosmini si arreca per dimostrare il falso assunto, che se- ti condo la dottrina cattolica pu esser nelt uomo e vi  uno stato difettoso della t volont , che in s ha la nozione di peccalo c non quella di colpa i . Premessa que- sta avvertenza, cosi egli argomenta : o Or affinch questo passo provi alcun che al proposito, dovrebbe confermare, e che chi per consuetudine inveterata non resiste alla passione ed ha mutalo il vizio,  quasi dissi, in natura ; non abbia a stimarsi reo di niuna colpa in quegli atti pes-  simi che eseguisce  (?.). E qui una lanlaferala di cotnunal teologia per volermi convincere che chi pecca per consuetudine  reo in causa, perch egli divenne schia- vo della consuetudine per sua colpa. Ma da vero eh io con sapevo trovarsi al roon- do un tanto gocciolone, il quale mi rinfacciasse eh' io non riconosco la colpa in cau- sa di quella consuetudine, eh io stesso incomincio dal descriver cosi:  Talora la vo-  Ionia soggiace alla necessit del male per caciosi: di una colpa precedente  !!!  Ma come duoque volete voi dimostrare collesempio dei peccali che si fan- no per necessit della consuetudine, che secondo la dottrina cattolica pu esser nel- I' uomo c vi  uno stalo difettoso della volont, che in s ha la nozione di peccato e non quella di colpa ?  Posto che voi credete, bench a torlo (3), che io questo dimostrar volessi; leggete meglio la proposizione che, secondo voi, intendo io dimo- strare. Non ci vedete dentro quella parolina in s?0 siete di nuovo tant' accecato dalla sconcia passione, che non possiate por leggere quel che sta scritto ? Che cosa  in se, se non un relativo w causa (4)? Col dire dunque che il peccalo del consue- tudinario, quand  necessitato dalla consuetudine, ha in s la nozione di peccato, o non quella di colpa, si viene a dire che in causa poi egli ha altres la nozione di colpa. Ma leggetelo egualmente, se non pi aperto, alla faccia 86-87 del Trattato della Coscienza, e poi venite dicendo abulcns tardiusculis cordibus hominum , ch'io vengo a scusar da colpa in causa que peccati che procedon da mala abitudine. Vui troverete, e dovreste aver pure trovato (5) in quelle faccie scritto cosi : 1 Rispondo, i che la volont di sua natura non  necessitata a voler il male, se non da qualche u avrebbero avuto altri peccali, s'egli non fosse venuto, e fra questi l'originale; ma perche non avrebbero avuto quel peccato che tutti gli ab- braccia, tutti gli altri aggrava, e li rende tanto piu colpevoli, quanto pi liberi e ad occhi aperti da lor voluti. IIoc est pcceatwn de quo itidem dicit: Si non venissem pcrcalum non habcrcnt. tiumquitl cnim alia innumcrabilia peccata non habebant? Sed adventu cjns hoc unum peccatala accessit non credcntious , quo caetcra tcncren- tur. hi crcdcnlibus antan quia hoc unum defiliti factum est ut cuncta dimiltcrcntur credentibus. Acque ob aliati aposlolus Paulus. Omncs, inquit, pcccavcrunt et egent gloria Dei, ut qui creditlcrunt in eum non confundantur (3). Resta a vedere, dico sant Agostino, se quelli che furono uvanti Cristo, c non udirono il suo sermone, po- tevano avere scusa de lor peccati, avendo soggiunto Cristo: A'unc aulem excusatio- nem non Jiabcnl de peccato suo. Risponde il Santo: Scusa si, ma scampo no: scusa potevano avere i gentili del non aver saputo, del non aver avuto formolala la legge della salute e del ben fare; ma scampo non potevano avere, perch il peccato origi naie e gli altri attuali senza la fede in Cristo e la volont di osservare i suoi mandali non si rimettono- He fiat inquircre , utrum hi qui prius qitam Christus venirci in Eccle- siali i ad gente s , et priusqutun Evangclium cjus audii crii, vitae hujus fine piace enti sunt seti firacvcniiuilur, possimi habcrc Itane excusalionem ? Possunt piane, sed non ideo possunt rjf 'ugcre datnnalioncm. Quicumque cnim sinc lege pcccavcrunt, sinc lc- g c peribunt: et quicumque in lege pecca veruni, per legem justjjicabunlur. (4) La scusa (1) Io E, ire. Jo. semi. LX. (2) Ivi. (3; Ivi.  S. Tommaso riconosco talmente il debito che hanno gli uomini di approfittarsi della salute del Salvatore per mondarsi dell* originai peccalo , ebe dichiara lino impossibile che il porcaio' originale si alia negli adulti con soli peccati ventili ; perocch, egli dice, c gi un porcaio mortole il noo ordinar s slesso al debito line toslocb l* uom tocchi gli anni di lla di- screzione . ntlenendo cosi per la grazia la remissione del peccalo d origine ( Vedi la Somma 1. Il, LXXXlX, vi ). (4) In Jo. Traci. LXXXlX.  Non venga qui il signor Eusebio a straziare sanlAgoslino, c a dirgli i non crediamo si possa addurre n un testo n un esempio solo di persona adulta,  elio senza aver commesso grave colpa attuale , pel solo originale peccalo sia perita Ira' re- c probi > ( R. AfT. Vili, f. 32 ) ; ovvero a morderlo perch mandi in dannazione, it qui prius quarti Christus venir et in Ecelesiam ad gente* ,  vita e hujus Jiae pra eventi sunt seu prat  vmiuntnr , c quasi olle manchi allatto ogni aiuto attuale di grazia di Dio ai non battezzali : , come afferma il signor Euse- bio ( 2 ). Quando poi alla legge Jbrmolata , a troppo giusta ragione scoss ella i'indigna- zion d' Eusebio, il quale ad ogni cosa clic non intenda, s irrita, come d' un offesa che gli sia fatta. Ma checch possa avere scritto sant Agostino c gli altri padri, Eusebio continua senz atterrirsi dicendoci;  Eccone la legittima iriterpretazioue, secondo i Padri c il contesto 1 (3); e mette fuori la sua. (Non voglio esamioare se l' interpretazione d' Eu- sebio sia tanto contraria a quella che io abbracciai, com egli si crede per ignoranza, o fa le viste di credere per malizia; diro bens che un affermare cosi reciso, da far credere che una sola interpretaziune vi sin di quel passo, condannando d'un tratto solo tutti i padri, e saeri interpreti che altramente lo spiegano, non  da uomo assennato e delle Scritture intendente ; ma da teslicciuola (parlo dun uomo che non si conosce, e per non in danno d'alcuno, e a vantaggio solo del vero ) quanto piccola e ineru- dita, dura altrettanto. XCI.  Ni. (4) II. AIT. XIII, f. 49. (5) Ivi.  Il signor Eusebio , che mostr di supero si ben ricamare il suo libello teolo- gico di sottccismi e di barbarismi non poobi , crede clic ricadere noa abbia altro significalo Della lingua nostra, che quel di cader di nuovo ; quando anzi ha pur quello di cadere templi- cernente , e 1 esprime con pi di forza. Laonde muno trover che il aiscorso eh* egli afierma essersi da me messo io bocca al Signor nostro, sia quale egli lo si compose. Conciossiacli lo parole mie non sono altre che questo da fui mozzate,  che intere io riporter, acciocch giu- dichi il buon senso d chicchessia, se contengono quel eh* egli lice : Digitized by Google 134 capo ; ma non essendo lor tolte, ansi aggravate, danno loro pi forte in sul capo : ci che esprime la maniera  ricadere in capo >, se pur sapete italiano un po pi che latino (i). i avuto il peccalo originale e le sue  ), srd et sancii/cnlio, et renoi'atio interioris uomi- ni s per volunlariam suseeptionem gratiae et donorum , un de homo e.v injuslo fil just us, et ex inimico amicus, ut sii haeres secun /uni spem ditte aelernae (3) ; o di questa giustificazione e rinnovazione unica formalis causa est juslitia Dei, non qua ipse justus est, sed qua tios justos facil ; quia vide licei ab eo donali, reno- vamur spiri tu mentis nostrae. et non modo repulamur , sed vere gusti no- minamur et sninus, justitiam in nobis recipientes , unusquisque suam, secundum mensuram, quam Spirilus sanctus parlitur singulis pr ut tuli et secundum pr- priam eujusque dispositionem et cooperationem (4). E di questa rinnovazione deli uomo interiore di cui parla il Tridentino, che si fa spiritu mentis nostrae, io ragionai quel tanto che mi bisognava nel Trattalo delia Coscienza ; c di quel che ne dissi, uno sdegno si sconvenevole ne prose Euse- bio, che gli dett I ultima parte del suo libello, dove in contumelie contro di me. ed in errori suoi propri vince s stesso. I quali errori dovendo io dimostrare, giover che prima brevemente esponga la dottrina intorno alla rinnovazione dell' uomo interio- re che si fa nel santo battesimo, qual Tu da me esposta nel Trattalo della Coscienza. C1I. Avendo definito il Concilio di Trento che il peccalo originale con cui na- sciamo, est unieuique proprium (5), egli  chiaro che quantunque sia un peccalo (1) Obesset ista carni i concupiscenlia eliam tantummndo quod inesset , aiti peccnlorum rtmissio sic prodesset, ut quae inest et nato et renato , noto quidem et inesse et obesee . renaio aulem massa quidem , sed non osisss possi! ( De peccato o riviri, conira leia e. et Coelel., c. XXXVIII). (2) S. III. Sappi., XCIII, ni, ad 3. (3; VI., De iushf., c. VII. (i) Scss. VI, c. VII. (S) Non sar inutile ribadir qui uni verit s importante, elle net sistema d' Fesebio detta itOSMINI Vol XII. 411 .Digitized by Google 146 della natura umana perch con qnesla insieme si propapa, tnllavia la persona slessa che Io riceve ne resta affetta. E per insegna s. Tommaso colla solila sua sapienza, che se nel peccato attuale di Adamo la persona fu quella che infett la natura, nel- 1 originale la natura che si propaga ne' posteri,  quella che infetta la persona: Et ideo dicilur tjttod tu prore. un originali i percoli, persona ( Adam ) inferii natu- rami sed pottmodwn in al/is natura vitiata tnfecit persona ( i ), dum sci/icet genito imputatur ad culpam naturac nitium propter vo /unta lem (liberato) primi parenti s ( 2 ). La dultrina adunque dell originai peccato non pn chiarirsi, se non si cerca di ben determinare i due concetti di natura e di persona ; e questi due concetti io svol- si a lungo nell Antropologia , a cui nel Trattalo della Coscienza feci allusione, supponendoli noti, e rimandando col a vederne la spiegazione que lettori che uaves- ser bisogno. Sgraziatamente il nostro Eusebio uon credette d averne quel gran biso- gno che pur ne avea ; e quindi nulla, nulla affatto pot raccapezzare iti quant io dissi in su tale argomento nel Trattato della Coscienza : n se ne tacque perci, anzi ne parl, appunto per questo, con maggior sicurezza e indiscrezione. CUI. Avevo io dunque mostrato, che il principio attivo che trovasi in nn esse- re intelligente quandegli  tale che non ne abbia alcun altro di superiore, di guisa che esso si possa chiamar Supremo, costituisce la base della persona: onde questa fu cos da me definita :  La persona  un soggetto intellettivo in quanto contiene un  principio' attivo supremo  (3). Gli altri principi e potenze adunque dell'uomo, che non sono supreme, appartengono per s alla natura umana ; alla persona poi non 'spettano se non in quanto a questa, che  il principio attivo supremo, stieno effetti- vamente subordinate e da esso sieno mosse e governate. Ui qui discende, che ci che  veramente peccato ( guod mors est animae ) non pu risedere che nella persona ; ond io nelle diverse mie opere ragionando di tali cose partii sempre dalla seguente definizione del peccato, in senso vero e proprio:  Il peccato  una declinazione della volnta personale dalla legge eterna  ; decli- nazione che pu essere attuale o abituale. Per volont personale poi io intesi lo stesso natura sana riman perduta, con alcuni argomenti che deduce a confermarla il celebre Estio dalla Scrittura, dal Concilio di Trento, e da* santi Padri. 1.  argomento : Scripturae enim ipsis nascenti bus peccatum , iniquitatem , immundiiiam trbuunt velai inuaercntcm ob quam iidem ipsi merita cu/pentur et a fat'ie Dei projieiantur. 2.  argomento : Cam ergo inler Catholicos contici , hit qui in Chnsto regenerant ur , t/i- ternam inhaerere jusiitiam singulti propriam , quemadmodum Sess. VI , can. VII , et can. X et XI, Concilii Tnd. de finii uni est constare elioni debel iis qui nascuntur ex Adam propriam kt interna* iNJi'STiri am incs$e. Qio argumenlo ulilur Augustinus Lib. I. De I*eccatorum me- ritisi cap. IX et X, docens ex eo quoti Chhstus dal JUehbus occullissimam sui Spiritus gra - ti am , quarti latenter infurili et porvu/is , etiam Adam occulta tabe carnalis concupisce n tiae, tabificasse in se omnes de sua stirpe venientes . 3.  argomento : Posterius ( argumenlum ) ex ejusdem Sgn. Trid. Sess. V, can. V, ubi dicilur in renahs Deum nihil odsse. Ex quo evidenler colligitur nondum renatis inesse ali  quid quod oderit Deus. Atque haec Condili senlentia evertit J'undamentum eorum, qui parvulo negant peccatimi esse inter num. Jjunt enim nihil inesse parvulo , ni si quod in co Deus rondi- dii . quod verum esse non palesi , si in parvulo juxia Palrum sentenliam alu/uid oderit Deus , cum Scriplura teste ( Sap . XI) Deus nihil oderit corurn quae ferii. Et sane idem sui erroris fundamentum slamerai olim Pelagtus et dtscipulus ejus Coelestius , ut potei ex Augustmo. Lib. De Peccato originali , cap. VI et XIII. Suo hoc errore, quemadmodum ibidem Acgu- STIISUS DOCET PLANE EVERTIT UR FIDES CATDOLICA DE PECCATO ORIGINALI (lo l. SeDt., DislinCt. XXX,  VUI ), (1) In Ep. ad Rocn. V. (2) Vorrei io ben sapere dal signor Eusebio, io che modo possa essere, se la natura  sana come egli pretende, che ella infetti la persona. Col suo sistema della natura sana c solo priva di grazia, egli  costretto ad ogni istante non solo a rinunziare alla dottrina di s. Tommaso, ma anco alle dottrine della Chiesa, come di continuo apparisce. (3) Tutto il IV libro dell* Antropologia svolgo questa definizione, tacendosi ivi ampiamente conoscere la differenza che passa fra la natura c la persona umana. Digitized by Google 147 principio nllivo supremo, che da 8. Tommaso viea pure chiamalo prmum princi - ptum molimim homins (i), e a cui solo egli attribuisce il peccato. CIV. Essendo adunque il principio attivo supremo dell uomo quello in cui solo tiene sua sede tanto il peccato e l ingiustizia, quanto la santit c la giustizia ; gua- sto e perduto il principio supremo,  guasto c perduto luomo, salvalo il principio supremo,  salvato 1 uomo. E in altre parole : sanala la persona , e sanato I' uomo -, eziandio che rimanga non interamente sanata la natura dell uomo : qualsivoglia inord: nazione nella natura umana non pregiudica all uomo, purch essa non giunga a corrompere la sua persona. Movendo da questo preliminare, io mi occupai nel Trattato della Coscienza a dimostrare, inerentemente al linguaggio della Scrittura e della ecclesiastica tradizio- ne, che nel santo battesimo viene tolto via de! lutto e annullato il peccalo originale appunto perch vien purificato e santificalo 1' uomo nella sua parte suprema, cio nella sua stessa personalit, niente progiudicaudo poi che rimanga in lui dell' inordi- nazioue ancora nelle parli inferiori, le qoali non souo piu personali, losloch son di- vise dal principio attivo supremo che le riprova, ma costituiscono solo uua parte di sua natura. Ora a intender chiaro come io condussi quella dimostrazione, le dottrine intor- no la volont e la libert da me esposte nell Antropologia aprono la via \ delle quali non posso che dar qui un brevissimo cenno, ma sufficiente, io spero, al mio intento. CV. In che maniera si pu determinare, qual atto, o in genere quale attivit sia personale nell uomo? Dal vedere se essa c la suprema, ovvero se sia mossa dall attivit suprema, alla quale le altre attivit che son nelt'uomo soggiacciono ( 2 ). Secondo questo principio pu dirsi in primo luogo, che in tutti quelli che hanno (1) S. 1. Il, LXXXl, 1.  E nella I. II, LXXIV, iv, dimostra clic peccatum mortale non potrai esse in seneuaiilate , sed so/um in rottone, perch ordinare aliquid in finem non est sen- sualitatis , sed aotum rationia. Jnordt natio antem a fine non est m>i ejus cujus est ordinare in finem. E nellarticolo vii prova anche coUautorit di sanl'Agosiino [De Trini t. XII, XII) che pec- catum est in ncTio.NE superiori ne'la quale sta fio anco il peccato della dilettazione morosa ( art. vi). (2) Jntrof oi., L. IV, c. IX, a. Il, $ 3.  Distinguasi i attivit personale in due parli; l. il movimento dell'attivit suprema dell' uomo, 2. il movimento delle altre potenze o attivit dell' uomo mosse dalla suprema. Quella  la parte formale deUattivit personale, questa u 1  la parte materiale. Se le potenze o attivit inferiori si muovono nell' uomo senza che la suprema le muova, o che accoosenla al loro moto; tali movimenti non sono personali , ma semplicemente naturali . Giustamente adunque nel guasto delle potenze inferiori riposero gli scolastici la parte materiate dell'originale peccato, e posero la parte formale nella mente avversa a Dio; la qual mente  appunto il principio attivo supremo, il principio personale, primum principiala motivum ho minia. Se si domanda adunque se ne' movimenti delle parti inferiori delluomo consista il peccato, dee distinguersi con s. Tommaso cos : Se questi movimenti nascono come da loro prima causa dal principio supremo  son perso- nali, e per peccaminosi. Se poi nascono a dispetto de! principio Supremo che non li vuole, ma non li pu impedire, non sono peccati, perch non personali ; sono semplicemente un disordine della natura che av- viene in no i# (natura) aine nobis (persona). Pu adunque la ribellione della concupiscenza esser peccato avanti il battesimo, e pu ella stessa, ebo manet actu, non essere pi peccato dopo il battesimo ; e ci perch avanti U batte- simo ella era unita col priocipio supremo dell uomo verso di essa abitualmente piegato e quasi consenziente; e dopo il battesimo  disgiunta da quel principio supremo, clic da Dio tiralo, verso Dio gi si elev ed eresse. Notisi bene, ebe la materia , se  unita colla forma , costituisce una cosa; ma se  dalla forma divisa, non  pi parte di quella cosa elio colla forma costituiva; ma  lui r altro. Cosi un corpo tino a tanto ella  unito all' anima  parte di un uomo; ma uu ca- davere che n  diviso non  pi parte di un uomo;  luti altro,  semplice materia bruta. Come dunque I' Attivit delle parti inferiori nell* uomo cessi di formar parte del peccalo originale dopo il battesimo, separando! dalla loro forma (la parte superiore c personale),  ci che noi appunto stiamo esponendo. Digitized by Google 148 l'uso della libert , latlo di questa  personale : in quelli poi che non lhanno, l'at- tualit personale appartiene alla semplice volont (i). La libert poi fu da me fatta consistere nel potere che ha luomo sulla propria volont , cio nel poter muover questa ad una volizione conforme alla legge eterna, o ad una volizione contraria; prendendo io una tal definizione da s. Paolo, che egre- giamente descrive la libert in quel luogo, ove dice : potestatem autem iiabens SUAE VOLUN TATtS ( 2 ). La volont all' incontro non  che lappetito razionale, cio la facolt di appetire il bene conosciuto. Parlai a lungo de limiti della libert , mostrando ch'ella  condizionata nel suo operare allo stato della volont , che  il mobile ch'ella muove; ma che or pi or me- no resiste al libero arbitrio, setondo che essa volont  impressionala variamente dai vari beni che Tuoni conosce e che fanno in lei attualmente, ovvero anco abitualmen- te impressione. Quindi  che, come osserva finamente s. Tommaso, gli abiti , sieno naturali o sieno acquisiti, sono contrari alla natura del libero arbitrio, poich se libertini arbi- trium indiJJ erenler te habet ad bene eliqendum tei male , gli abili all incontro in- clinano T uomo ad operare in un modo pi tosto che nell altro, e cosi tolgono l e- quilibrio (3); e il medesimo dicasi delle passioni. AH incontro non  punto contra- rio alla natura della volont eh ella sia investila dagli abiti o dalle passioni ; onde insegna il medesimo s. Tommaso, che concupiscenlia matjis facit ad hoc . L. IH, sez. Il, 0 , IX. (3) S. I. LXXXIII, 11 . (4) S. I. Il, VI, vu. Digitized by Google 149 Qualora lnhiio e la passione della volont giunga a un cerio grado d'intensio- ne e di fona, il libero arbitrio cessa dal suo esercizio, come avvini ne celesti com- prensori, pcroccli luomo in tal caso non pu pi scegliere Tra le due volizioni con- trarie: lo stesso avviene se manchino gli oggetti in fra cui scegliere. Ora quando la volont opera semplicemente a seconda de suoi oggetti (del Ite- ne conosciuto), senza che intervenga libera scelta fra gli atti suoi, ditesi chella ope- ra in un modo spontaneo. Sella poi  mossa dal libero arbitrio, dircsi chella opera in un modo libero. Premessi questi principi generali, scorgesi la verit delie seguenti proposizioni: 1.  Ogni qualvolta pu operare il libero arbitrio nelluomo, e dentro la sfera in cui egli pu operare, 1 atto suo  l'atto personale quello in cui ha sede il peccalo, o 1' alto retto contrario, la colpa e la lode eco. Quindi il libero consenso  un atto per sonale, appartenente cio al principio attivo supremo dell' nomo (i). 2 .  gni qualvolta non pu operare il libero arbitrio, ma la sola volont, lalto o lattualit prevalente e suprema della volont fra le spontanee  la personale. CVI. Applichiamo tutto ci alla giustificazione dell uomo che avviene nel santo battesimo, paragonando gli stati morali delluomo avanti di essere battezzato, e dopo di essere battezzalo. Avanti battezzato, il principio personale delluomo  avverso da Dio e converso alle creature, e perci  in lui il peccato: la sua persona  dunque peccatrice. Dnpo battezzalo, il principio personale delluomo  rivolto a Dio e non alle creature, e per- ci non havvi pi in Ini il peccato bench soprastia il fomite della concupiscenza ; o ci perch questo fomite si rimane al di sotto del principio supremo, non fa pi f ef- fetto di curvare verso il sensibile corporeo lo stesso principio supremo che  quanto dire la persona umana, ma inclina oggiinai ad esso le sole potenze inferiori alla su- prema ; laonde il guasto rimane nella natura , ma non pi nella persona : cosi luo- mo  salvalo, poich l'uomo  la persona. Or come avviene che il principio attivo supremo ( la persona ) avanti il battesi- mo sia conversa abbandonatamente al sensibile corporeo, e perci avversa da Dio? E come poi avviene che mediante il battesimo il principio supremo ( la persona ) a Dio si converta ? Rispondiamo a tutte due qneste interrogazioni, e innanzi, alla prima. Convien premettere, che luomo, fossanco quanto alla natura sano e perfetto, non pu per innalzarsi colle sue forze alla percezione o cognizione soprannaturale di Dio ; ma bens pu egli staccarsi da quella, se Iddio graziosamente comunicandosi a lui, gliel abbia conferita. E cosi fece I uomo primo peccando ; il quale rimase rolla sola natura sua, guasta ed offesa onch essa dalla disordinala concupiscenza ( 2 ). Si- mili a lui nacquero i figliuoli : la volont de quali non sostenuta dalla grazia, pende verso il bene sensibile ; e ci necessariamente c abbandonatamente ; perocch essen- do la volont la potenza di appetire il bene, ella non pu astenersi dal tendere a un bene die sperimenta, se non in rispetto ad un altro bene che le sia presentato, col- li) Cosi >. Tommaso lo vien provando : In ormi judioio ultimo icntentia perline! al stttt- md* jcdu- ATOR iuM.  linde coni regula teifis divinae sii superine, eonset/utnt eri, ut ultima sententia per yuam judicium Jnaiiter terminalur y pertineat ad hationem scrzaioazH, i/uae intendi t 1 aliontbus atterrili. Cum autem de pluriltus occurmt judieandum , finale judicium est de eo tjitad ultimo nerumi. In actibus autem humanis ultimo occvrrit ipse aclus praeambulum au- leti est ipso delectatw yuae induci t ad actum. Et ideo ad rationem superiorem proprie per- line! constino in actum. (S. I. Il, LXXlV, vii). (2) (Iunior anco non si sapesse render ragione di questo guasto della natura umana , non si dovrebbe perci rifiutarlo, dacch tutta ta tradizione ecclesia slica ce t'attesta coslaotemcoto. 1 -a tradizione di un tal guasto ai conserv fin anco presso gli Ebrei, per tacer daltri popoli,- ne libri do* quali ai parla della concupiscenza corno di un pcconto c di un guasto della natura, venuto al- luouio in conseguenza del peccato del primo padre. Digitized by Google 150 1 amor del quale e*sa possa vincere la lusinga del precedente (t): Ma nell'ordine della natura tulli i beni che si possano prescolare all uomo c di cui egli possa avere spe- ranza son naturali : la cognizione negativa ch'egli ha di Dio non pu essere che inef- ficace. Che se egli si formi di Dio un concetto positivo mediante un adunnmento'im- macinano di beni umani ; l' oggetto della sua tendenza sono ancor questi beni, ben- ch accumulati coir immaginazione e in un solo bene ridotti. Loggetto generale adunque della volont dell uomo in islato naturale senza la grazia, (' oggetto dico che veramente prevale,  sempre il bene naturale e finito : la volont non  tirala ctlcaceinenle che da questo. Il libero arbitrio pu hensi usare di tali beni multe volte senza peccare ; ma non pu tuttavia uscir di essi nella sua scelta ; non potr che vin- cere e temperare I' ainor di uno coll' amore di un altro : n varr giammai a sacrifi- care lutti i beni finiti, i soli eh' egli sperimenta, in ossequio alla legge murale, se ci fosse necessario : quindi dee assai volle cadere uelle forti tentazioni anche contro la legge semplicemente naturale : non potr poi senza grazia, riferire lutto a Dio effet- tivamente come ad ultimo suo fine, perocch egli non ha forza naturale di sollevarsi alla percezione ed alla congiunzione con quell'infinito bene, e di prenderne sperienza: in somma il libero suo arbitrio pu scegliere fra le volizioni possibili, ma quella voli- zione che mette Iddio per fine e per bene assoluto gli  impossibile in tale stato: tutta la volont dell uomo adunque, auchc la suprema che  la personale, inclina per na- tura inevitabilmente ed esclusivamente alle cose finite e sensibili. Concedo che la di- viua Provvidenza avrebbe potuto allontanare da lui le gravi tentazioni alle forze sue superiori, il che avrebbessa anche fatto, se Iddio stesso avesse crealo l uomo senza peccalo nell'ordine della natura. Ma ora l' uora peccatore si mise egli stesso colla sua colpa nella condizione in cui trovasi : in questa condizione la carne  insuperbita, la mente svigorita : lo slancio del cuore umano tende all' infinit del bene, a cui era or- dinato a principio (3 ) : egli cerca dunque, senza la grazia, il bene infinito, nel fini- (1) Vrggavi ci che abbiam detto della tomaia mobilit della volont, nell 'Autropol. L. Ili, ez. II, cap. Vili. (2) Presupposto lo ttaceamenlo della volont umana da Dio ( privazion della grazia), e il bisogno d un latinit di bene rimastole aperto dall' esser ella slata a un tal bene Tolta in ori- gine, presupposta ancora l'attivit cresciuta e resa insubordinata dalla parte del senso carnate, egli  facil cosa il concepire come P animai sentimento ( la carne ) dovesse dare uoa piega a tutto i uomo, a s traendolo e di conseguente traendo ancora a s il suo principio supremo. ."Sun sar tuttavia inutile il porre qui sotto gli occhi de* lettori ia maniera, nella quale V Kstio conce- pisce una tale azione del corpo sull anima, onde questa riceve quel rivolgimento atta creatura, ebe ba ragion di peccalo. Reco le parole di quel grande teologu. Quae rea ut melma inlellgnlur, sciendum est, mtiluam esse eamque naturale m traaza&ua-j, td est passionata et ajfiectionum communi cali onera inter corpus et animam , tamquom tn idem composilum naturale concurrentes parles subslantiales. Undc fieri ridemus , ut corpore male office! ) anima doleal , et vicissim ex animi /illaidiate corpus recreelur. Cum igrtur anima a Dea ncque justa fiat, neque injusta, ncque nmnino ante suam cum corpore conjunctwnem esci- stai : corpus aulem ante animae infusionem ex carne peccati semtnatum , fiondarli qutdem peccatum babeat . sed tamen occultam quamdam ad peccatum dispositonem,fit ut anima, quae in corpore nascilur velai Jlos in loco fioetido , stmul ex corpore cantrahat vitium qaoddam ba - biluale. al /ue cufpabile. S eul enim si tnfunderetur anima carpari vulnerala , rei posilo in i/ne , ptax in eo carpare dolerti; ila dum infiundilur corpori ad peccatum disposilo, max in co habt- luahter quadammodo peccai. Kgli conferma rollc autorit questa suo modo di concepire il visie- niento dellanima umana : dicendo cosi : flunc explicandi modem- indicai A uijualttlus , Ub. V contra Jutian-, c. III. et lib. Il De pecrattirum mentis , c. X\IV, XXV et XXVI, ubi eham inler caetera dici!, Chrislum ideo non hahuisse carnem peccati, quia quod de maire accepil, aut etiscipiendum muntimi , aut susclpiendo in u nataci!  Fundamentum bujus cidelur hobtri ex Scnplura , quae semen hunusnum vocili s fioedum bhmorem s ILcv. XXVj, et menstrua mu- lieris habentur pr somma immundilia, cum semen tritici , ani abarum rerum nusquan i iia- munJum cocetur - Sic. Job. XVI. Qiiis potest tacere mundum de immundu coueepluni semine ? t ad eam immundtliom respicerc lidelur alias ejusdrm libri locus e. XXV, s Aumquid palesi t apparer mundus natus de muliere ? I pr quo L.XX reddukrunt. i Remo uiundus a sorde, 151 lo, ci che  ingiustizia : quell' abituale inclinazione della volont personale all' in- giustizia  il peccalo. Yeggiamo ora come il principio personale a Dio si rivolga pel battesimale la- vacro. lo partir dalla verit insegnala dal sacrosanto Gore lio di Trento, che la gin- Blificaziune si fa per l'infusione della grazia e della carit (l), avente virt di can- giare il cuore dell uomo ; e chella non consiste gi in una semplice remissione del de- bito del peccato, ci che non basterebbe a sanar luomo mal inclinato nella sua vo- lont personale. Ora questa grazia infusa  una comnnicazion di Dio. Luomo per- cepisce intimamente un nuovo bene diverso da lutti i beni naturali, Iddio. Da quel momento lappetito razionale acquista un oggetto nuovo: un bene nuovo, un alleilo nuovo, la carit: bene ed affetto che giunge poi talora a farsi sentire di tanta vee- menza, che l'anima, disperando di poterlo altrui comunicare,  forzala di dir seco stessa: socrrlttm meum rnihi , secretiti n tnetim mi hi ( 2 ). L'n bene nuovo poi, un nuo- vo affetto, produce una vo'onl nuova. Vero  che la cime ed il sangue non cessa- no di stare tuttavia innanzi all' uomo e di solleticarlo: sono essi pure ancor de beni per lui. Quindi due oggetti presenti allappetito razionale immensamente diversi, il bene reale (inilo, e il bene reale infinito: quindi medesima mente due volont, la na- turale e la soprannaturale. Ma quale di esse prevale? quale n  la suprema? e quin- di la personale? Fino a tanto che l'uomo non ha ancora luso del libero arbitrio, prevale indu- bitatamente la volont soprannaturale: perocch ella  creata nell uomo da Dio stesso, e di lei dice il Salmo: Cor mundum crea in me Deus, et spirilum recium in nova in risceribus meis (3);  creala da Dio colla comunicazione di s, perocch s crea lina volont nell'uomo, come dicevamo, col comunicarsi a lui un bene reale del tutto nuovo. Quando poi luomo giustificato acquista luso del suo libero arbitrio, nllor questo ritrovasi iu posizione grandemente diversa^da quel chera prima: perocch egli ha due volont di cui pu disporre; egli pu scegliere fra le volizioni della volont sopranna- turale e lo volizioni della naturale. Se quelle antepone, la volont soprannaturale vince; se poi Sceglie le volizioni di quella volont che tende come ad ultimo suo fine al ben finito, le volizioni cio della volont naturale in opposizione alla soprannaturale, allora pecca, e peccando perdo di nuovo la grazia ; pori pi per il germe della grazia, la fede (4)i e il carattere indelebile (5): di che gii rimane la volont soprannaturale in potenza, benoh I' abbia in atto perduta; e pu colla penitenza e colluso de sacra- menti ricuperarla. C VII. Ges Cristo adunque ristora l'uomo col creare in lui un principio nuovo di operare, una volont nuova, un cuor nuovo, secondo la promessa fatta per Gze- i nec infuni quidem 1 ,' e Ir J lem nolandum quod Lev. XV rnn trnhilur immundita ex flava semini et mr 'istru, non ex Jluru sanguini aut pituita e, neqne atiorum humorum, imo ncque ex fluxu e 1 crementorum foelidissimorum seu dtsenteria , re/ flato minati (tu 11. Seul. Di- alincl. XXXI,  I ). (1) Si qui dixerit , komines juslificari rei sola imputalione gustili le Chris/i, vel sola pec- catorum remissione, exclusa gratta et charitate ry.tr in cohuma (cio non ne emiri di carne, ma nella volont) rosex pia spinti!* sauctox niprc.vDATCH alque iu.it vtmtnr.nr: nul etiam grati im. qua justiKcamur , esse tantum favorem Dei-, anathema sii (Sess. VI, cad. XI). (2) !.. XXIV, 16. (3) Ps. L. (i) Si qui dixeh't, amissa per peceatum grada , simul et fidtm semptr amitti; ani fdem, quae remane! , non esse irrum fldem , ticet non sii viva y aut rum, qui flen s sine rii untate /tatui, non esse christianum-, anathema sii (C. Trid., sc}. VI De justtf., ean. XXVItl ). (5) Si qui s dixeril in trib s sacramenti , baptismo seilicet, confirmalione et ordine, non imprimi cvBAcreiiEM la animi hoc est signum guoddam spirituale et indelebile, vuoi za I r I- bam ao.v posse hit anathema sii. (C. Trid. Ib. De Sacram. IX). Digitizgd by Google 152 chielln: li 7 ejfuii'am tv per vos aquam mundam , et mundabimini ab omnibus in- (juinamentis restris .  Et dabo vobis cor nofom , et spiri tv te roviu ponam in medio t estri (i). E poich questo nuovo principio che Cristo pone nell' uomo  su- periore a tulli gli nitri per nobilt ed eziandio per eilicacia iio che resta nell'uomo, perci egli costituisce In persona delluomo, e quindi si dice che nella riparazione falla dell'uomo da Cristo si salva prima la persona, e poi a suo tempo, cio nell ul- tima risurrezione, anche \n natura-, \\ contrario di quanto avviene nella corruzione ereditaria, In quale comincia nella natura e termina nella persona. Peccalum oriyi- na/e, dice lAngelico, hoc modo processi!, quod primo (in Adamo) persona infe- rii naturam ; pnstmodum nero ( ne' posteri ) natura infecit persona#. Christu t vero converso ordine prius reparat idquod perso nae est ; et postmodum simili in omnibus ( nella risurrezione) reparabil io quod naturae est ( 2 ). Colla riparazione adunque di Cristo si muta nell' uomo la base della persona, il principio personale ; questo principio personale non  pi quella volont che pendo verso le cose lerrene ; poich ella nn  pi I apice dell anima, la potenza sopra- stante alle altre ; ma sopra di essa ne  da Dio suscitata un altra pi eccellente che bn per oggetto Iddio slesso, e di natura sua pi polente della prima ; mobile, col quale il libero arbitrio pu meritare la vita eterna, vincere le tentazioni, adempire i precetti del Salvatore, secondo il canone del Tridentino : Si qttis dixerit Dei prae- cepta uomini etiam justificato et sub gratia constituto, esse od obser- vandum impossibiliti ; anathema sii (3). CVI1I. Venendo adunque coll infusion della grazia malato il principio persona- le, colla maggior primriel s esprime l'operazione che nasce nell'uomo pel battesimo co'le parole che usa il Tridentino chiamandola renovatio i nteri ori s notti ni s (4)- L 'uomo in quanto significa persona veramente si rinnova. Quindi le espressioni mi- rai) Imenlo proprie di rigenerazione, rinqscimento, applicale al battesimo ed al suo effetto, secondo le parole di Cristo a Nicodcmo: Amen, amen dico libi: nisi quis renatus fuerit denuo, non pntcst ridere regnum Dei (5), e la spiegazione data da Crisi stesso: Quoti natimi est ex carne , carg est , et quod nalttin est ex spirilu, spiritile est (C). Cio luomo, la persona umana che naturalmente nasce,  carne, per- ch la carne attrae a s la volont personale che  la slessa persona ; ma la persona umana che soprannaturalmente nasce espirilo, perch lo Spirilo santo clic viene in- fuso trae a s la volont, e questa in quanl' tirata e attuala dallo Spirilo santo, di- venta uniiltivil personale, diventa la base della persona; cessando cosi di esser per- sonale la volont in quant e tirata a se dalla carne, fn a tanto che dalla volont so- prannaturale  contrastata (7). Laonde s. Paolo colla stessa propriet parlaodo.distin- gue le persone peccatrici e le sante, col dire che quelle prime sono nella carne, c queste seconde nello spinto : Qui autem in carne svnT , Deo piacere non pos- sunti ros autem in carne non eslis, sed in spirito (8). E queste o somiglianti maniere sono costantissime nelle divine Scritture, .come altres nelie bocche di lutti i fedeli, delti essi stessi acconcissimamcnle figliuoli di Dio, perch  creala la loro (1) C. XXXVI, 23, 2G. (2) S. Ili, LXIX, m, od 3. (li) S. VI De jtulif., cali. XVtll. (4) Iti, c. Vii. (5) Jo IH, 3. (6j Ivi, 6. (7) Si pu ugualmente dire che vi tono due volont nell uomo rigenerato o una volont sola attuala da diverti oggetti, secondo clic si considera la volont come una mera potenza non ancora eccitala a nulla (nel qual senso  una polenta sola); ovvero la si considera in quel le diverse attualit nella quali ella si mette, qualora esercitino su di lei unazioue costante delle cose reali, quali sono la propria carne, c lo Spirito tanto . (8) Ron. Vili, 8. 9. Digitized by Google 153 nuova personalit dallo spirilo che in essi agisce, rjuicumquc enim spirita Ueiagim- tur , ri situi Ftur Ver (i). E cosi finalmenle si spiega, che cosasia luomo vecchio, e l'uomo nuovo di s Paolo; e come quello sia morto al peccalo, e quindi il peccalo non gli si possa pi imputare: di che il detto di santAgostino, che nel battezzato con- cupiscentia transit m.ATU, et manct ACTtr, e quell altro che spiega il primo, di- mini coneupiscenliam carni in bahtismo, non iti non sit , sed ut rtt peccatisi nox iMPi'TETcn (2) ; non s' imputa pi la concupiscenza nll nonio rinato, perch nel rinato non guasta pi la sua persona, ma solo la sua natura", e quella persona che prima guastava gi non  pi, perch eli era allora l'attivit nell'uomo suprema, ed ora  unattivit subordinata, di diritto ed anco di fatto, se l'uom non pecca, al- la volont nuova, che forma I nomo nuovo, l ucmo spirituale he pcrcipil rn t-nne stilli Spirili is (3).  C1X. Tale  la dottrina da me esposta nel Trattato della Coscienza morale. Sentiamo ora le vituperosissime accuse ed imputazioni, che Eusebio credette bene di darmi per cagione di essa, le quali si trovano nel suo libello sotto le A [formazioni X, XI e XIV. Prima accusa : che io nego alTalto la necessit delle buone opere (4) per conse- guire leterna snlutp, come fece Lutero. Or quali sono i documenti chegli porta per convincermi duna tanta eresia? Son due passi del Trattalo della Coscienza: ecoo il primo:  E seguitando noi colle dottrine rivelate, il battesimo dei Salvatore  quello  che tolse questa dannazione del peccalo d'origine, questa colai colpa dplla natura,  se cosi si vuol chiamare, introducendo nell'uomo un altro principio attivo, soprnn-  naturale, superiore alla volont naturule, e per sede della moralit, anzi, essendo  egli santo, sede della santit-e della salvezza delluomo, la qual tutta dipende dal  principio supremo (5). Abbiamo veduto che In base delluomo come persona imputabile si  semprp laltissima delle sue attivit, la quale perci dicesi, rispetto a tulle l'altre potenze e principi nltivi, il principio attivo supremo, o come lo chiama s. Tommaso, primum principimi moticum nomini s, ovvero, come il dice sant' Agostino, pars animile melior et superior (fi). In questo principio sta la moralit dell uomo : dipende da e.-so 1' esser 1 uomo buono o cattivo. Dicesi principio attico , perch  il principio di tutte le azioni dell oomo (7). Ora il principio attivo supremo nell uomo che trovasi in grazia di Dio ,  diverso , come dicevo , dal principio attivo supremo nell oomo (I) Ivi, 14. (i) De nuptiie et coneup., I, . I, c. XXV. (3) 1. Cur. Il, 14. (4) Il sigoor Eusebio nello suo accuse vacilla sempre fra la certezza c l* incertezza. Prima dice ebe i miei errori sono manifestissimi ( f. 4 ) : ora poi si contenta di lasciarli in dubbio. In un luogo parla fraoco coti : t Cbe il signor - Rosnfini  escluda olfatto te opere libere del-  I uomo ; appare ancora da altri suoi, delti s ( K. Aff. X , f. 39 , nota ). Questo favellare mostra certezza. Ma nella conclusione indaccliisce dicendo cbe il signor Rosmini . IV. c. IV. art. ti,  2. Ho su mi Voi. XII. 4i3 Digitized by Google 154 che non trovasi in grazia di Dio : quello  in principio di operare soprannnfural* mente che vien suscitato e crealo nell' uomo dall infusimi della grazia,  una volont soprannaturale ; questo all' incontro non  che non volont naturale ( fino che si con* siviera senza grazia ) , cio tendente ad oggetti naturali. I.i\ volont soprannaturale  il principio delle opere soprannaturali , e  la salvezza dell uomo dipende tutta da  questo principio > , perch luomo non pu salvarsi se non vive di una vita sopran- naturale, e non fa le azioni di questa vita. La volont naturale all'incontro  il prin- cipio delle opere naturali, sieno elle naturalmente oneste, o sieno peccati, opere ten- denti sempre a godere de' beni naturali : con questo solo principio non pu I uomo far opere meritorie di vita eterna. Ora , per dimostrare che io nego la necessit delle opere buone, che cosa fa il signor Euseuio ? Ecco qua il suo arzigogolo : t Rosmini dice che la salvezza dell uomo lotta dipende dal principio supremo nell'uomo introdotto per Io battesimo del Salvatore. Ma il principio supremo  Dio. Dunque Rosmini fa dipendere tutta la salvezza dell* uomo da Dio : dunque esclude la necessit delle buone opere . Quindi, dato di piglio alla definizione del Tridentino, che Proponendo est vita aeterna et tamquam gratin filiis Dei per diri slum Jesum tnisrricordiler promista ; et lunu/uam merces ex ipsius Dei promissione Louis ipsorum operibtis et merilis fideliter reddenda , tosto cosi ih' investe :  Come sar dunque vero ci che il Rosmini sol dice, che la salvezza del- ti l uomo tutta dipende da Dio (i)? Peccato chei non abbia potuto comunicare i  snoi lumi ai padri Tridentini! Avrebliero certo allora essi pure mutato il decreto, e v definito con lui, che la salvezza dell uomo dipende tolta dalla grazia di Dio { 2 ): avrebbero applaudito a Lutero  .... ; e via via una scorreria di questo trotto ! lo intanto ho I' onore di dirgli, eli egli che crede di capir lutto, non ha capito affatto nulla ; non ha egli inteso punto n poco che cosa sia quel principio supremo da cui dipende tutta la salvezza dell' uomo; perocch se l'avesse inteso, avrebbe sa- puto che quel principio, se nel fiambioo  un abito che lo santifica, nell'adulto  an- che il principio delle buone opere, giacch le buone opere meritorie di vita eterna sono quelle che 1' uomo fa in istato di grazia; e che il dire che la salute dipende dal principio delle buone opere, non  punto n poco un escludere le buone opere. Nem- pe lejimus , io replicher lo stesso sentimento colle parole di sant Agostino, justi- y icari in Cu ri sto qui credunt in et:m, propler oceultam communicationcm et inspirai ionem grati a e spiritalis, qua quisqu haeret Domino unus spirilut e$t,QUAiris eoi et iuitentvr sancti ejvs (3); nelle quali ultime parole potr il signor Eusebio, se ben le intende, trovare le buone opere. Per sopraggiunta osserver, che, quantunque io non abbia detto che  la sal- vezza tutta dipenda da Dio ,o  tutta dipenda dalla grazia di Dio > ; non sono tutta- via queste proposizioni tali che debbano far tant orrore, o trovarsi in esse l'esclusione delle buone opere. Per me, piaccmi sempre di dire al Signore con s. Filippo Neri, (1) Egli mette in mio bocca questo parole di tutto sua intensione , #i noti bene :  esso questo buono fede, o fede caldo ?  Veramente non bo io mai detto, che tutto lo salvezza di pendo do Dio ; ma bo detto che tutto dipende dal principio supremo , il quale noh  Dio ; ma S attivit soprannaturale dell' uomo creala per in esso da Dio coll* miusione della sua grazia. Se dunque sotto la sua maschera sta un uomo onesto, il vedremo dalla ritrattazione che far anche di questo suo errore. (2) Anche qui egli mente. E dove ha egli mai trovato da me scritto che c la salvezza del-  ? io lo stido a dirlo, o a disdirsi, com*  di dovere. Io dissi che tutta la salvezza dell* uomo dipende dal principio supremo ; ma questo principio non  la grazia ; ma bens  Odetto che la grazia produce nell* uomo, la quale informando l'anima vi produce c f attivit di operare soprannaturalmente e di meritare la vita eterna > c questa  il principio attivo supremo di quelli che sono in grazia, ed operano secondo la grazia. (3) De pcccatorum meritis et remisi L. 1, c. X. Digitized by CjOO^Ii i Sono disperalo di me, o Signore, ma eonfdo in voi  ; e mi  dolcissima cosa al- tres, lesclamare col Salmista, In manibus tuia sortes mene , gradendo assai pi che la mia sorte sia nelle mani di Dio che nelle mie proprie; pienamente persuaso che cos stia in luogo di troppo maggior sicurezza; n credo perci dinegare la necessit delle buone opere attribuendole a Dio, come al loro primo principio, di cui perci sono doni, cuffia tanta est erga omnes homines bom'tas , per usare le parole del sacrosanto Con- cilio di Trento, ut eorum velil esse merita, quae sunt ipsius dona (i). Alla fine non so che cosa si possa trovar d'assurdo nel dire che una catena che sta sospesa alla sof- fitta, penda tutta dal primo suo anello; n credo io che con ci si neghino gli altri anelli della catena. Ora nella santificazion nostra il primo anello  la misericordia di Dio, qui prior dlexil nos, e che o/iertur in nobis sine nobis ( 2 ). E non  la carit infusaci da Dio il tesoro, onde le stesse opere buone caviamo? Or, Charitas, come Insegna s. Tomma- so, non palesi neque natura/iter nobis inesse, neqtic per vires naturales est acquisi- ta; scd per infSionem Spiritvs s.INCTi, qui est amor Patria et Filii: cujtts participatio in nobis est ipsa charitas causata (3), come fu deciso replicatamele anche dal Concilio di Trento (4). Riassumendo, il signor Eusebio 1 , invent di pianta due frasi {la salvezza del- r uomo tutta dipende da Dio ; la salvezza dell'uomo dipende tutta dalla grazia di Dio ) e afferm falsamente quello esser mie; primo fruito dell'albero: 2 . sulle due frasi da lui inventate e attribuite a me, mi. tacci di professare leresia di Lutero, che insegn le buone opere non essere necessarie alla salute; secondo frutto dell albero : 3. sventuramente al suo scopo di denigrarmi, le due frasi inventale furono da lui prese in fallo, giacche non contengono veramente I eresia dell esclusione delle buo- ne opere, purch sanamente vengano intese e spiegate ; terzo frullo dell albero : 4-" finalmente, contenessero pur anco quell'eresia, e foss anco vero che sfuggile fos- sero dalla penna d' uno scrittore, qual uomo onesto od equo oser tosto paragonare nn tale scrittore a Lutero, se il detto scrittore parla d'nn capo all altro de' suoi scrit- ti della necessit delle buone opere, e non iscrive se non per eccitare gli nomini a farne il pi che mai sia possibile? e qual galantuomo sar colui, che invece d'attri- buir quelle frasi ad una inavvertenza o distrazione del detto scrittore, le vada anzi rubacchiando di mezzo ad una collezione di opere voluminose per fondare su due pa- role una formale pubblica accusa d'eresia, 0 d un'eresia s assurda, non professata pi oggimai n pure da protestanti, come si  quella della non necessit delle opere buone?  Se il signor Eusebio si far conoscere col pentimento sul labbro, saranno tutti questi abbagli incolpevoli del suo zelo; se ni far, ciascun sapr dire: Ex Jructibus eontm coqnoscetis eoa. CX. Ma il sig. Eusebio mette in campo un altro argomento per provare che io, al par di Lutero, nego la necessit delle buone opere. Odasi attentamente com egli parla, eh io riferir intere le sue parole :  Che il sig. Rosmini, nel dire: Che la salvezza delluomo tutta dipende dal  principio supremo introdotto nell' uomo stesso da Dio ; escluda affatto le opere s libere dell uomo ; appare ancora da altri suoi detti. Leggi a carte qo l dove affer-  ma, Che s. Paolo apporta il testo de salmi ( 3 1 ) , sembra voler significare che lerrore e la stoltezza de Giudei consistesse solamente nel credere dessere giustificati por la mate- rialit de riti Mosaici, e non fosse uguale stoltezza il credere di essere giustificato per le opere naturalmente oneste e virtuose, secondo la stessa purle morale della legge di, IMos. Il vero si , che luomo non pu giustificarsi colle sue opere; ma che la giu- slilicazione  un dono gratuito di Dio. Dopo essere giustifcto poi, egli pu e deve meritarsi colle sue buone opere ( se per ha l' uso del suo libero arbitrio ) la vita etcc- na. Or  ella cosa ben fatta l'iusinuare gli errori accennati intorno alltllcacio delle (1) Scss . VI, De justif. c. VI. (2) Scss. VI De juetif, c. Vili. (3) llom. Ili, 9, 20. 28. ( 4 ) 11 . AIT . X , f . 39 , nota . (5j Scjj. VI De justif., can. I, Digitized by Google 158 opere libere delluomo per la sna gius! ideazione, solfo prcteslo e collaria di difen- dere la necessit che ha l'uomo gi giusliGcalo e avente l'uso del suo libero arbitrio, di operare il bene per salvarsi (ij?  Ecco a che si riduce la scienza teologica di Eusebio Cristiano. CXII. Seconda accusa : che c sembra che io neghi con Calvino e Lutero, che i peccati non siano rimessi, ma solo nascosti o non imputati . La ragione per la quale mi d il signor Eusebio una cosi grave accusa, appar manifestamente essere il non aver egli inteso la maniera da me tenuta nello spiegare come la concupiscenza in virt del santo battesimo transit reatu et manet actu, cio a dire continua nell uomo ad agire, cessando per da esser peccato. Questa maniera il lettore gi In conosce : io dimostravo, che il peccato non esi- sto se non infetta il principio personale, perch il peccato non  che t un male, un guasto, una obliquit della persona  ; e qualsivoglia difetto, se  fuori della persona, bench alla persona aderente, come quello di cui parla lApostolo, matum adjacel inib , pprde In ragion di peccato. Or prima che Iddio infonda nell uomo la grazia, il principio personale si  la voloht naturale che ha per oggetto il ben finito della na- tura; ma dopo l'iufusinn della grazia, sarge nell uomo un altro principio personale pi elevato, e questo si  la volont soprannaturale, la potenza di amare Iddio sopran- naturalmente e di operare in modo conforme a questo amre. Quando questo nuovo principio personale  nato nell'uomo, la volont naturale ha cessato d' esser personale, o dessere per conseguenza soggetto e sede del peccato; la concupiscenza dunque che in essa rimane non  pi peccato, perch una volont superiore oggimai la domina, e la sgrida e riprova. A faccia 38 e 3g del Trattato della Coscienza io ho spiegato come nella volont naturale che soprasta dopo il battesimo, intenda io compresa la concu- piscenza, che il Concilio di Trento in fatti dichiara soprastare nell' uomo anche dopo iinfusion della grazia, ai agonem. Ora ognuno che intenda una tale dottrina, dee convenire, che da essa risulta cliiarissimamente, col saulo battesimo tolti tolum id quod verarn et propriam peccati rationem habel , giacch viene fin tolto quel prin- cipio personale dove solo ii peccato risiede ; che  propriamente la morte dell nomo vecchio di san Paolo. E di vero, qual altro sistema spiega meglio la propriet del parlar dellApostolo, l dove dice. Qui enim mortut svtus peccato, rjuomodo adirne ticemus in ilio ? In fatti se il principio in cui sta la persona nostra e mutato, pu ben dirsi in un senso che la persona vecchia  morta, e noi gi siamo persone nuove. E questa distruzione della persona dei peccato, che l'Apostolo segnila a de- scrivere, si opera nel battesimo : An ignoratisi quia quicumque bapiizati su mai in Christo Jesv, in morte ipsius bapiizati sumus ? eonsepulli enitn sumus in i'io per baptismum in mortem. La maniera dunque per la quale I Apostolo spiega in che modo sia distrutto il peccato pel battesimo, bench rimanga la concupiscenza,  ap- punto quella eh' io esposi nel Trattalo della Coscienza ; o pi tosto quella maniera che io esposi, e quella dellApostolo, come ivi ho detto. Imperciocch la ragione che d lApostolo dell'esser cessalo in noi il peccato, si  questa : perch  morto in noi l'uomo peccatore: cio quel principio d'operare che prima era in noi personale, non avendovene alcun altro a lui superiore che douiiuare il potesse, onde I arbitrio nostro (1) I passi ebe arreca il signor Eusebio di s. Pietro c d s. Paolo parlano delle opere buone e meritorie dell' uomo giustificato , e non di opere operanti la giusti Ideazione in chi an- cora non l'ha ricevuta. 11 primo dice : .Macia satagite , ut per bona opera ccrtam ve* ir am t aca- ti onetn et eleclioncm faciali* (II. Pielr. I. IO ) : il secondo ; Jtai/ue fruire * mei diletti, sta- bile! e*tote et immobile *, abundante * in opere Domini semper, sciente* tjuod lahor vester non est inani * in Domino ( I. Cor. XV , 55 ). Chi non sente che i santi Apostoli incoraggiano coti queste parole i fedeli giustificali a conservare ed accrescere la grazia ricevuta ? magi s satagi- te  stabile* estote : e in fatti I' nomo pu bea perder la grazia se lha, operando ii male, et via s sua* mala s facete : ma non pu dare la grazia a s stesso se non 1' ha ; pu solo aspet- tarla da Dio, usando i mozzi da lui a ci opinati, e sopra tutto la preghiera. Digitized by Googl 159 dovna pi o meno abbandonarvi, per non avere alcun mobile da muovere, che laiu- tasse contro di lui; ma or quel principio medesimo bench esista, non  pi perso- nale, non  pi luomo (onde quelluomo  morto), perch vi ha un altro principio superiore, in cui la persona gi risede, rimanendosi laltro solo nn elemento della natura : Hoc scicnles , seguita lApostolo, qua veliti /ionio noster simul cruci ftxtts est, til deslriiatur corpus peccali, et ultra non serviamus peccalo : Quia t.niu uortuus est, ju s tifi catu s est A peccato. Le quali ultime parole ben si con- siderino: perch l'uomo  giustificalo? perch quell uomo a cui aderiva il peccato, dice lApostolo, non esiste pi,  morto ; Qui enim morluus est, juslifcatus est a peccalo ; e in vece di queU'uomo, ve nha un altro vivente a cui aderisce la giustizia di Cristo. Ita et t-os existimale, vos morluos quidam esse peccato, vicentes autem ideo, in C/iristo Jesc Domino nostro (i). Quello, adunque che prima nelluomo co- stituiva il peccalo (la concupiscenza) rimane tuttavia; ma nou  pi peccato, perch non regna come regnava prima, quando slava nella pi alta e suprema parte dell'uo- mo, goveruatrice di tutte le altre parli. Oade esorta s. Paolo i Romani a far s, che non lascino che pi oggimai regni n pure in avvenire, il che avverrebbe se perdesser la grazia : Non ergo regxet peccatimi in cestro mortali corpore ( 2 ). CX1II. Da questa profonda dottrina dell Apostolo risulta che pel battesimo vipn tolto via dall' uomo tutto ci che ha vera ragion di peccato ; e che pu assegnarsi una buona cattolica ragione del perch nelle Scritture talora venga sigoiGcato 1* effetto della giustificazione dicendosi che i peccali sono coperti, ovvero che non sono im- putati. Sono coperti, perch alla mala volont naturale ( la concupiscenza ) che pri- ma perdeva luomo, viene a soprastare una volont nuova che tende alle cose divine, la quale forma la persona nniana e regna sull'altra, che sussiste ancorn ma non nuo- ce, o, come dice sani Agostino, inest sed non obesi. Non sono pi imputati, perch  vernilo meno il principio personale a cui si potevano imputare , giacch non si pu imputare il peccato che alla persona ( al principio attivo supremo ), nella qual sola pu esister ci che ha vera ragion di peccato: e la persona  gi sana e santa, anzi tutta nuova per la spirituale generazione, colla quale la Chiesa, feconda sposa di Cri- sto, partorisce alla vita eterna de' figliuoli al suo sposo (3). Conviene osservare, he (1) Ed  per questo stesso che it Concilio di Trento spiega la giustiGcasiona non gi me- diante una semplice remission de peccati , ma mediante l infusion della gratin e la delusione della carit che fa lo Spirilo santo ne nostri cuori, ponendovi insieme con un nuovo sentimen- to, un nuovo potere ; giacch 1 atticit nasce tasto dalla passivit del sentimento, come ho al- trove spiegato. (2) Itom. VI, 2-12. (3) In questa maniera sintende la ragione, perch i Padri adoperino pure di simigliane nu- mero ad indicare la rigenerazione battesimale : Liberarti, dice sant Agostino, quo modo . ni quia ejut ( legit peccati ) atavo* , peccatorum omnium remistione distoleil. ut quamvie adirne mancai . et de die in diem magie magieque minuatur , i peccati* tameh non imputstc*. Rimane dunque la legge del peccato , ma ne rinati questa legge cessa d esser peccalo perch non pi s'imputa, n si puh imputare ; quantunque in quelli che nascono e che non anco rina- scono ella sia peccato , e a peccato , s imputi, t/aec ttaque remistio peccatorum quandiu non fil in prole , eie ibi est lex iota peccati , ut etiam in peccitim ixpcrEtna , ut est . ut etiam recitus ejut cum ilta eil , qui teneat aeterni scppucii usmroatM : e tosto appresso dice che it peccalo originale remittitur , tegitur, non imputatur {Ve nuptiis et concupite . L. I, c. XXXI, XXXII ). Laonde egli  necessario trovare un sistema nel quale si vegea chiaro come tutte queste espressioni, rimetterei it peccalo , coprirti il peccato, non imputarti it peccato, vengano a significare egualmente cessare del tutto il peccato ( tolti tolum id quod vera m et propriam ralionem habet peccati ) ; e questo sistema  quello dell nomo vecchio c doti uomo nuovo di s. Paolo ; nel qual sistema I uomo vecchio, dove sta il peccato, cessa, perch sopravviene luo- mo nuovo , una nuova volont personale , che ea opre quella volont naturale che prima costi- tuiva la persona perch era suprema e dominante, ed ora non rimane pi che un elemento della natura ; quiadi nou pu pi estere imputalo il suo disordine, giacch it suo disordine non gua- sta pi la persona , ma si rimane come aa semplice difetto c guasto della natura , che tenta bens e sollecita la persona nuova , ma non pu vincerla s' ella non cede , ed anzi  vinto da 1G0 Ji quelle lue Irosi, riferir si pu acconciamente la prima a ci che ha nozion di pece calo , giacch il peccalo coperto con ima volont nuova  peccalo distrutto, e la se- conda si riferisce meglio alla nozione di colpa, come quella che esclude l'imputazio- ne. Spiegando in tal modo queluoghi della divina Scrittura in un senso cattolico, io volli rendere impossibile agli eretici l'abusarne, inerendo nello stesso tempo alla let- tera dell espressione. Ma non avendo niente inteso di tutto ci il nostro Eusebio, e tuttavia al suo solito decidendo , qualilicando e anatematizzando; mi mette insieme con Calvino e con Lutero per avere io scritto il seguente brano, che esprime la sopra esposta dottrina, il quale egli reca smozzato al suo solito, ed io restituisco qui intero: e E pi che altri considera questordine della giustificazione delluomo, pi tro- ll vpr acconcia la maniera scritturale di dire, che Iddio cuopre certi peccali, e non gli imp ita. In fatti col battesimo non si distrugge la mala volont naturale, ma le se  n aggiunge una soprannaturale, che cuopre, per cosi dire, la naturale, e impedisce t che quella perda f Uomo. Onde il Salmista:  Beali quelli, le iniquit dequali fu- i ron rimesse, e i peccati de quali furou coperti  ; dove si fa la ditlerenza fra le ini- a quit che si rimettono, e i peccali elle si cuoprono, e sembra che per quelle si vo- ti glia intendere le colpe attuali e libere ( 1 ), e per questi i peccati non liberi fu) ili  quelli che appartengono al popolo di Dio, e che per non ne ricevono pi donno a alcuno. Dice ancora:  Bealo ! uomo, a cui il Signore non imput il suo peccato j ; a ove pare accennarsi a peccati non soggetti ad imputazione. E cosi intende, se non  erro, questo passe l'Apostolo recandolo egli a provare che I uomo non si giustifica n presso Dio eoli opere, essendo ognuno pieo di peccato, senza far eccezione a bambi-  ni ; ma per lalto della divina misericordia, che ci rinnorella in virt dei meriti  del Bedentore  (3). Ora questo passo soprabnsl all'acume d Eusebio per trovarmi infetto deresia, cosi al modo suo solito discorrendola :  Gl interpreti; commentando il citato passo di s. Paolo e de Salmi, affermano  che le parole: Tecla sani peccata. Cui non imputavi t Dominus peccatimi; si- ti gallicano assolutamente, che sono tolti e cancellati adatto i peccati.  Ma il sig. Rosmini nel particolare suo commento sembra che segua il parlare  di Calvino e di Lutero, il primo de quali diceva, che i peccati nell'anima del giu  sto rimangono, ma nascosti : il secondo, che non sono pi imputati a delitto. Iti- ti leggi la presente sua affermazione; nota le parole: Coi battesimo non si distrugge  la mala volont naturale, ma le se ne aggiunge un altra soprannaturale che cuo-  pre, ecc: e quelle altre con che nomina  1 peccati non soggetti ad imputazione ;  e non potrai dubitare della verit del presente mio dello . Onde immediatamente m'applica l anatema del Tridentino contro quegli eretici che dicevano rimanere au- chc dopo il battesimo di que peccati, che son morte dell' anima ( quod recato et pr- priam peccati ralionem na/tel ). Fece, come vedesi, mala impressione nella mente d'Eusebio ludire che  col battesimo non si distrugge la mala volont naturale >, bench si soggiunga che t le se n aggiunge una soprannaturale che  : impedisce ) Quale  il peccato originale ne' discendenti , e le mate conseguenze necessarie di que- sto peccato , i moti inevitabili della concupiscenza. Il contento , come abbiamo detto di sopra,  sempre un alto personale : ma i moti spontanei non sono personali quando la persona gli odia e cnmbstle. Onde sani Agostino, spiegando lApostolo: Tacere ergo te dixt et operari , non affretti contenliendi et implendi ( che sarebbe azion personale ) , tea ipso molti concupiteendi ( che  azione meramente naturale ). ( Contra duas (pisi. Pelagica. L. 1, c. X ). ( 3 ) Trattato delta Cotcicnza, t. 48 . Digitized by Google . 1G1 La ragione nondimeno perch mal suonino ad Eusebio quelle mie parole  ben chia- ra: abbiamo veduto In collera che gli prese per ver in detto che l'uomo nasce colla volont guasta e al male inclinala:  dunque conseguente, chegli sirriti altres per- ch io dico, che una volont inclinata al n alci iinane anche dopo il battesimo, ben- ch q altro grado c daltra specie. Egli ammette che rimanga la concupiscenza, la quale agli occhi suoi non  pi che una tendenza naturale, e per intrinsecamente non punto cattiva, non est vitium. sed natura, come insegna Pelagio (i); or come dun- que si dir, vien egli argomentando, che non solo avanti, ma (in anco dopo il bat- tesimo sussista nell'uomo la mala volont naturale? Di pi, per Eusebio, la concu- piscenza, come appunto mostrava ili creder Pelagio, non  elite sensus carni, et non etiam mentis, come credeva santAgostino; non  che la carne, in naturai tendenza di questa; come adunque c'entra qui, ragiona egli, la mala volont?  Centra la mala volont, mio caro Eusebio, perch in vece di star con voi e con Pelagio, io mi sto con s. Tommaso, il quale insegna che dicitur etiam ipsa infirmila animar in- firmila carni s, in Quantum ex conditionc carni s passione s animae insorgimi in tiobis (a) ; e con sant Agostino, il quale riconosce che la concupiscenza produce an- che ne' rinati desiderio mala etturpia, i quali appartengono alla volont naturale e guasta; ma non nuocono; perch l'uomo (la volont superiore creata da D o colla grazia) gi glinfrcna c li rigetta,- e per que desideri necessari e spontanei non ven- gono dalla persona umana, alla qual dispiacciono; onde pot dire 8. Paolo, Jam non EGO ( pronome indicante la persona e non la natura ) operor il/ud, sed r/uod habitat in me peccatum (3). E sant' Agostino medesimo: Qui ergo dicit,  Jam non ego operor illud , sed r/uod habitat in me pcccatum  : si tantummodo concupisciti re- turn dicit ; non, si cordis conscnsione decermi, aut etiam corporis ministerio per- fidi (4); perocch il consenso, come abbiamo detto,  atto del libero arbitrio, la cui operazione  sempre personale. Ala non sempre  personale loperazione della volon- t, la quale talor si muove spontaneamente e per necessit di natura, come neprimi desideri ed appetiti; i quali sono per dal lbero arbitrio delluomo cristiano colla volont soprannaturale riprovati ; onde la persona  in essi passiva c non attiva, ed anzi attiva contro di essi. Egli  dunque chiaro che nelluomo giustificato rimane quella radice di mala volont che al male lo inclina; bench linclinazione non sia una caduta, prevalendo la volont santa e personale. Tutti i Padri hanno riconosciu- to il combattimento delle due volont nell'uomo rigenerato e santo: le quali due vo- lont non si confondano per con quelle due che combattono nell uomo che non  an- cora a Dio convertito, ma che travaglia seco stesso c si dispone alla conversione. Pe- rocch luomo giusto non  diviso, ma  lutto nella volont saula e soprannaturale a cui pienamente acconsente; l dove l'uomo non convertito per anco, c tuttavia lottante colle passioni sue, non  ancor tutto nella volont buona, ma parte nell'una e parte nel- laltra miserabilmente diviso c squarcialo, secondo l' acuta osservazione di sant Ago- stino : ha etiam cum aeternitas deleeta superiti , et temporali, s boni voluplas relentat inferiti, eadem anima est non tota voi untate illud aut hoc volens, et ideo dcer pitur gravi molestia dum illud reniate prue poni t, hoc familiaritale non po- mi (5). Ma se non  divisa la persona dell uomo santo,  per divisa in lui la natu- ra, (ino clip rigeneralo anche il corpo a suo tempo, la volont santa, assoggettando- si pienamente anche la volonl naturale e la carne, potr perfezionare quel bone, che (1) V. sant 1 Agostino, Dt peccato arig. cantra Pelagium et Coeletti., c. XKXUI-XXXVlI, C in innumerevoli nitri luoghi, doto confuta questo orrore di Pelagio e di Muschio. (2) S. I. II. LXXVII, hi, ad 2. (3) Rom. VII. (4) ^ nuptiis et conaup,, L. I, c. XXVIII. (5) Confate . L. Vili, c. X. Hosmim Voi. XII. 116 Digitized by Google 162 ora non pu se non, virilmente combattendo, incominciare. E da tallo questo potr intendere il sig. Eusebio altres che cosa sono que' peccati non imputabili, che nei rinaii si possono anco chiamare peccati materiali, e che al peccato originale si ridu- cono coll Aquinale, il quale vi riduce anche il mancamento delle virt (i). CXIV. A confirmare In sopra esposta dottrinn del modo onde Iddio opera la giustificazione dell'uomo collinfiision della grazia, per la quale la concupiscenza transit realu etmanet adii , perch ella non guasta pi la persona dell'uomo, tutta nuora, e pura, e dominante ; io adducevo degli altri luoghi di s. Paolo, che mi meritarono dal signor Eusebio nuove condanne. Recher qui tutto il passo del Trat- talo della Coscienza, fatto segno al furente suo sdegno non quella parte sola che a lui piacque di metter soli occhio a' lettori suoi, e il passo  questo :  San Paolo spiega questa siugular dottrina del peccato, che inabita nell uomo  senza che conduca dietro a s la dannazione dell'uomo, in questa maniera. La  legge domina nell'uomo fino a tanto che luomo vive; ma se luomo  morto, non  gli pu essere pi applicata la legge. Cosi una donna  legata al marito tino che  vive ; ma morto il marito, ella e sciolta Or medesimamente la legge del peccalo  era legata alluomo vecchio fino che questi vivea; ma morto l'uomo vecchio, la s legge del peccato non gli pu essere pi applicala; epper l'uomo nuovo  libero  dal peccalo. , bisogna aver prima inteso che cosa dice il signor Antonio Rosmini; cd  appunto qaeslo che voi non avete inteso: andate avanti, e vel mostrer. n Ecco, secondo i sacri Interpreti  ( i sacri Interpreti sono sempre tratti in cam- po dal signor Eusebio, i quali per assai pi gli stanno in bocca che in testa, come si ville e vedr),  il senso legittimo del passo da lui recalo di questo Capii. V' II  dell Epistola ai Romani.  Come morto il marito, la moglie dalla maritai legge  prosciolta, passa liberamente ad altre nozze; cosi cessali i riti mosaici, noi dal loro c dominio prosciolti ci congiungemmo al Vangelo di Ges Cristo: allineile sotto il t dominio suo rendiamo a Dio frutto degno; n diamo pi in luce opere morte, prole e malnata di vizi che nascevano in noi sotto la tirannia della legge. Pertanto, per la .  S. Giovanni Crisostomo mostra che per uomo vecchio sintende I mi- gwty apnunlo perch P iniquit dimora nel principio personale come in tuo suhbiclto. Ecco lo sue parole: Compiantati forti sumus similitudini mortis e/ut, ut destrucrctur corpus pecchi ; non hoc corpus sic appellali*, sed universum muli nani. Sic ut trina vettrem hominem dicit urjversam ma- lli t escludendo i due uomini, e gli parla  (3); e cos pure le proposizioni 23 e 24 del Sinodo di Pistoja. Ora il Rosmini  dice evidentemente, che prima che luomo sia rigeneralo per la  grazia santificante, altro non ha che la volont naturale, dominante, personale,  guasta, che perde (cio manda in dannazione) tutto luomo . Ora se questa volont perde tutto 1 uomo, dunque ella non pu che peccare in tutti gli atti che fa; Dunque  il signor Rosmini colla sua volont naturale, dominante, guasta, che  perde senz'altro l'uomo non rigenerato, pare si alluntani dalle decisioni di fede, e a si affratelli cogl impugnatori medesimi della fede  (4). Dunque la volont naturale non  guasta, ma 1 uomo colle sue virt, quantun- que non esente dal peccato originale, pu piacere a Dio e salvarsi. Non  ella stringente questa maniera d'argomentare?  Eli no, Eusebio mio, non istringe nulla affatto, se non de granelli. Distinguete il guasto intrinseco della voloDt, dalle azioni della medesima. Il guasto intrinseco della volont naturale, la sua avversione da Dio, ed obbli- qnit, in cui s. Tommaso, Bellarmino, Solo e Gaetano, che sono gli autori di cui avete pur mostralo di saper i nomi a mente, tanto siete erudito! ripongono lessenza dell originale peccato, e quella appunto che perde, cio manda in dannazione tutto loomo; giacch questa dannazione  l'effetto necessario dell'originale peccato, il che  di fede, vogliate 0 do, come vi ho gi mostrato. Le azioni poi della volont naturale c guasta, non sono gi quelle che mandano in perdizione 1 uomo non rigeneralo; ma ben accrescono la sua perdizione qualora siano peccaminose; e se sodo oneste, pur dalla perdizione noi salvano, senza i meriti e fa grazia del Redentore. Or voi avete citato il concilio di Trento, prendendone per solo quelle due pa- role, nelle quali egli dichiara il libero arbitrio non essere affatto estinto per l origi- nale peccato, c tutto il resto di quelle definizioni della Chiesa prudente come solete essere, sopprimendo. Ma chi ha mai detto, bell'Ensebio mio, che il libero arbitrio pel ( 1 ) Ivi, f. 34. (2) Recheremo quanto prima il lesto intero del sacre Concilio, in vece della poche parole raffazzonate a modo suo e riportale da Eusebio. (3) Prop. 27 Baji. Litemm arbitrium fine gratin Dei adjutorie, non niei ad peccandum valet.  Prop. 35. Orane quoti agii peccalor , ve! tenue peccati, peccalum est.  Prop. 37. Cum Pelagio tenlit qui ioni aliquid naturali 1 , hoc est quod ex naturai eolie viribus ortum duci i, agnoecit.  Prop. 48 di granello : Quid aliud eeee postumue n tei tenebrar, nieiaber- rotio, et niei peccatum line fidei lumini sine Chrieto, tl eine charitale f (4) R. Atf XIV, f. 52, 53. Digitized by Google 172 peccalo orig : na!c sia nell uomo estinto ? Io certo noi dissi mai : perch dunque vel mettete voi nella testa, e de' vostri sogni fabbrili fate a me colpa ? To dissi bene, essere il libero arbitrio per cagion del peccato dorigine indebo- lito e al male inclinalo; ma non confessate pur qui voi stesso, sehbon fra denti, che questo  quanto decide appunto il Tridentino Coucilio, viri bus licet atlenuaturn et inclinatum ? perch dunque prendervela meco, se meno a voi, e pi al Tridentino acconsento? Dissi ancora, che la volont delluomo che nasce  guasta; ma significa forse qnesto, eh ella sia estinta? Anzi se fosse estinta, non polrebb' ella essere per avven- tura n guasta, n sana. Che se il Concilio di Trento dichiara 1 arbitrio debilitato e al male inclinato, vnol egli forse, cosi dicendo, che noi intendiamo tutto i opposto di quel che dice, cio che la volont umana sia anzi pienamente sana, come pur voi vorreste 3 e qual sinistro spirito vi conduce a recarne in prova quelle stesse parole del Tridentino? Ma da quelle, voi dite, c chiaramente apparisce, che la volont naturale del-  luomo ( come Iip si ponga (r) inclinata al male ) non fu mai per s stessa alluomo  cagione di perdersi  (a). Da vero, che voi sapete trovare delle cose assai recon- dite. se nel solo aver detto il Tridentino che il libero arbitrio non fu pel peccato estinto, voi chiaramente vedete essersi con ci definito,  che dunque la volont na- t turale dell uomo, non gli fu mai per s stessa cagion di perdersi > I Per me con- fesso, che non ci veggo nulla di questo; e duro ben amo fatica ad intendere in che senso vogliale ci asserire, essendo tutti i sensi che dare vogliate aU'affermazion vostra as- surdi egualmente. Se considero quel ch segue nel vostro libello egli pare che vo- gliate intendere, che  la volont non sia necessitata a peccare ; e in tal caso vi richiamo, signor Eusebio mio, alla mente, che questa  unaltra questione, e che la perdizione veniente all'uomo dal peccato d'origine di cui si tratta, non  gi la per- dizione veniente dalle male operazioni che far possa la volont, la quale se anco non operasse nulla n in ben u in mole, perderebbe tuttavia luomo egualmente; ma  la perdizion che procede dal vizio inerente alla volont stessa, pel quale la natura no- stra nasce avversa da Dio, peccatrice, serva al peccalo e al demonio, in ira a Dio, e ad eterna condannazion sottoposta. Non pu la volont naturale delluomo mutarsi da questo sialo, e colle proprie forze risanarsi, e cosi impedire che il peccato che  in lei perda I uomo; e per si dice che il peccalo regna, come dice s. Paolo, ovvero, che  il medesimo, la volont guasta, in cui sta il peccato,  dominante, perch dalla grazia ancora non vinta. Possibile che non abbiale saputo intendere tulle queste cose die sono s chiaramente espresse in quel capitolo del sacro Concilio di Trento, da cui voi strappate si poche parole menandone un vanto inolile, e che pur dice cos :  oportere ut unusguisgue agnoscat etfateatur,  ! Non intende egli, che se c la volont non si muove se non da quella forza che con lei stessa cospira , dunque niuna forza pu movere la volont se ella stessa non cede ; e che net poter resistere al movente, e non associarsi ad esso, sta appunto la radice delia libert. E non  questa daltra parie la dottrina dell* Aquinatc l dove mostra che importat nomen voluntarii , quod motus et actus sit a propria inclinatone ( S. i. Il, VI, 1 )? E dove pare insegna, che quod fiumana mena ail mota tantum e i nullo modo sit principtum hujus motus ,  est conira ralionem voluntarii , cvjus oporlet principium in ipso esse : onde egli  uopo, secondo s. Tommaso, che nellinfusione della carit Iddio stesso muova la volont in modo, che con lei cospiri : Non potest dici , quod sic moveat Spirti us sanctus voiunlatem ad aclum diligendi , si cut movetur instrumentum : quod etsi Jit prin- cipiti tn actus. non tamen est in ipso agere , vel non agere ; sic enim tollerelur ratio voluntarii (li. 11. XXIII, 11 )? Che pi? Se il luogo da lui censurato come infetto di giansenismo termina con queste precise parole : c la volont cresce la forza delluno 0 . dellaltro de due allettamenti  per lintrinseca sua pbopria encrgia i; parole che del tutto abbattono il gianseniano sistema delle due dilettazioni prevalenti sulla umana volont? Vero c che la forza dalla libert priva della gra- zia divina  limitala nel resistere alle tentazioni, e di questi limili fu da me parlato alle face. 31-34 del Trattato della Coscienza: ma che perci? Pretende forse Eusebio Cristiano, che il libero arbitrio delluomo sia per natura sua s possente da vincorele tentazioni lutici Sei creda egli : ma non creda perci, che collo spauracchio della taccia di giansenismo che ci minaccio, possa giammai ottenere che il crediam noi. (3) R. Atf. XIV, f. 5a, 53. Digitized by Vj( 175 rale? o volete voi forse che non si perda nessuno, tenero come siele? Altramente do-- vrele pur confessare, che tanto della salute, come della perdizione dell'uomo, la ca- giou vera dee esser sempre la volont.  .Ma via, voi volete dire, che potendo la vo- lont astenersi dal male e seguire il bene, ella pu non esser cagione all uomo di perdizione colle opere sue.  Se alla volont la grazia di Dio congiungete, daccordo; se della volont sola intendete, io mi sto colla Chiesa c non con Pelagio. E da vero che ella  pure misera la prova che voi ne date; perocch dite : t Vedi su tal pro- li posilo il Commento del Gaetano, dove dopo una rigorosa serie di evidenti ragioni ( conchiude : che l uomo colle sole naturali sue forze, anche nello stato di natura  guasta, ancorch si trovi in attuale peccalo mortale, pu fare in particolare qual-  che alto moralmente boono secondo tutte le circostanze, per modo che in esso non ve commetta nessun peccalo o diletto  (i). Da vero che il testo conchiude assai! siete veramente terribile colle vostre citazioni! Qual testo pi calzante a provare che  la  volont naturale dell'uomo non fu mai per s stessa all'uomo cagione di perdersi j! L'uomo che ha la volont sua in attuale peccato mortale pu far qualche atto moral- mente buono. Dunque la volont naturale non Tu mai per se stessa all uomo cagione di perdersi! Eusebio mio, eh ci vuol altro per non perdersi che il poter fare qualche allo moralmente buono secondo tutte le circostanze! e farlo in attuale mortai peccato! no, no, questo non basta, perch la naturai voloot non ci perda; giacch bonum ex integra, causa malum ex quolibet defeclu; e come dice s. Ciacopo, Quicumgue aulem totam legem sercaverit, offendal autem in uno fadus est omnium reus ( 2 ). Sicch vi giovi sentire per conchiusicne il vostro Cardinal Gaetano che cos dice : Homo in stala nalurae corruptae polesi per sua naturai ia, guantum est ex su fj- cientia opcrativae virtuiis , o per ari aljuod opus moraliter bonum , licet non ros- si t savi! vnifersvsi moraliter bonus i face re \ e ne d la ragione; i/uia na- turae integrae proprium est unifersitatem operum bonarn moraliter peragere posse, ac per hoc differ a co&rupta (3). Laonde la volont in quanto contiene in s il vizio originale perde 1' uomo; e la stessa volont se nun  sanata e sostenuta dalia grazia divina, non polendo, come s. Tommaso insegna, a lungo astenersi dal Cadere in peccato mortale, perde ancora laomo considerata nelle sue azioni; bench . non sia perci necessitata a peccar sempre: che a produrre la perdizione di tutto l'uo- mo non  necessario peccar sempre in tutti gli atti; ma anzi per salvarsi  necessario non avere in s peccato nessuno, e o non peccar mai, od ottenere depeccati la remis- sione da Dio e la giustificazione (4). CX VII I . Ma la pi stupenda di tolte le cantonate prese da Eusebio in fra il baio di sue passioni,  pur quella in cui egli urt in occasione eh io scrissi che,  surta nell'uomo una volont soprannaturale  (per l'infusione della grazia nel santo battesimo), c  oggimai questa che governa e che tiene sotto di s la stessa volont t naturale,  questa lunica volont personale nell' uomo : ed essendo questa buona,  ella salva luomo  (5). Egli  pur chiaro a lutti quelli che non hanno perduta la (1) R. Aff. XIV, f. 53, noi 0 . (2) Jac. II. io. . (3) In S. I. It, CIX, 11 . (4) Io Ita scritta net Trattato della Coscienza (face. 31): c Ncquali istanti di tranquillit, ( luomo pu seguire l esigente delle sue idee pel buono istinto razionale, che a lata della con- ( cupisccnza non ispenln mai, ai conserva anche nclluom decaduto, come quello clic trae la sua  ? Risponda se pu ; e so non pu, contessi al- meno la sua distrazione nel leggere non meno che nello scrivere. (3) Trattalo delia Coscienza , f, 47  R. AIT. XIV, f. 54. Digitized by Google 176 testa, che quando altri dice nna volont, dice nna potenza o un attivit dell' uomo, e quando dice toprannahirale , dire una potenza o sia un'attivit non data alluomo dalla natura sua ma suscitata in esso dalloperazion della grazia : la grazia  adun- que la cagione di questa potenza; e la potenza di cui si parla  I effetto della gra- zia. In una parola questa volont soprannaturale   il potere che 1  uomo acquista colfinfusion della grazia di operare il bene soprannaturale , potere che risulta dal- l'unione dellanima con Dio per la carit, la quale attingil Deum, come si esprimono i santi (i). Or questa volont  personale; perch questa volont soprannaturale di- venta la pi elevata di tutte le potenze umane, l' altissima potenza, come I' ho chia- mata nel Trattato della Cote ienza, il principio attivo supremo dell uomo; |ie roc- chi 1 io ho dimostralo che In persona  l'uomo in quanto si considera operante con un principio che domina (almeno durante l'azione) tutti gli altri principi di operare o potenze che sono nell' uomo. Ilo dimostralo ancora che dall essere muralmente sano o moralmente guasto il principio supremo (la persona), dipende Tesser l'uomo stesso buono o cattivo, onde dissi che il principio supremo  sede della moralit. Laonde se questo principio supremo  viziato, egli  sede della iniquit e malvagit dell'uo- mo ; se poi  retto  sede della bont. Ora nell uomo non ancora rinato alla grazia la sua volon l naturale  viziala, e per dicesi veramente che iu lui  il peccato generalione transfusum. Ma nell'uomo rinato la volont naturale non  pi il prin- cipio supremo; ma diventa principia supremo il potere che acquista l'uomo di opera- re il bene soprannaturale ( excellkntior i'Oluntas, secondo s. Bernardo), potere che nasce oclTnnione delt'uomo con Dio: dum ronjungit animato Deo, justificando ipsam, come dice s. Tommaso (2). Questa volont soprannaturale domina nell' uo- mo, lino che il libero arbitrio non le poae ostacolo, come avvien nel bambino; ella regna e governa, e perci  attiva e suprema, lilla  sede della moralit ; perch, come dicevamo, il principio supremo  sempre sede della moralit buona o cattiva; ma essendo saula, come santo  il potere di elevarsi a Dio, di amarlo e di operare il bene soprannaturale conforme a un (ale amore, ella  sede della santit , e dovendo luomo venire rigenerato anche nel corpo in virt di quella santit che risiede nella parte sua superiore, ella  anche principio della salvezza dell'uomo. Del che non aveudo nulla adatto inteso il signor Eusebio,  Or qui io sono tra- m scordato, egli esclama, n mi sembrerebbe possibile trovarsi tin uomo che in tanto  poco pussa abbracciare errori 0 maggiori di numero o peggiori di qualit  ( 3 ). Se la maraviglia  Ggliuola, come si suol dire, dell' ignoranza, di che genitori poi gara prole il trasecolamento del nostro Eusebio? Per dirlo in breve, avendo egli letto nel mio libro che,  entrata nell'essenza dellanima la grazia, e aggiuntavi la coope-  razione del semplice nostro volere, la salute umana  smurata 1 ( 4 ), egli tosto confu- se la grazia coll' istinto 0 volont soprannaturale che quella produce ; e andando an- cora un grado pi oltre nella confusimi della mente, (issatosi alle parole principio supremo, le intese come esprimenti Dio stesso; perocch Iddio, egli argoment da suo pari,  il principio supremo di tolte le cose. Avendo oltracci trovato, che io chiamo questo principio supremo dell' uomo, e attico e santo e soprannaturale e sede delta santit e della salvezza dell'uomo, non ne volle di piu :  cosi soggiunge: 1 Or questa ereticale proposizione ti parreb- . Il valore di questa aiTermazione generale si deo desumere dal valore degli errori particolari da lui notati, i quali riuscirono tutti ad essere altrettante illusioni della sua mente, ovvero fumo di sue passioni. Non contento poi di prendcrlasi meco, se la prende nella stessa nota col cardinale Gerdill Oa vero che qui  il luogo di applicare il proverbio latino . Sue Minervam, o la traduzione italiana: c I paperi meuauo a bere le oche > ! Parlando dellopinione tenuta dal Gerdil intorno alla forza obbli- gante della legge naturale, dice, mentendo al suo solito:  ! Egli i pregalo di  (i), il che  l' unica verit che nel libello suo si contenga. Ora per si parr se voi, qualunque siate, che sotto la maschera del Goto nome in Geriste cotanto in me, siale un uomo di buona fede, illuso da uno zelo maggior del- la vostra scienza; ovvero se siale quel tristo maligno e vile che il vostro stile ed il vo- stro prot edere darebbe a temere. Perocch, se siete il primo, converrete assai volen- tieri d avere errato, e sentirete il sacro dovere di richiamare il mal detto ; l dove se siete per rostro male il secondo, non vi zittirete pi, ovvero continuerete tuttavia ad insidiar nelle tenebre, siccome sta scritto, paraverunl sagiltas suas in pbaretra ut sagittent in obscuro. Vero  che io nel difender me stesso ho dovuto mostrare gli errori vostri ; ma ove veramente di buona fede abbiate errato, e la verit cattolica vi stia sul cuore, il dispiacere d esser convinto d errore sar in voi superato dal troppo piacer maggiore di poter dismettere 1 errore stesso in faccia del vero. Che se poi fo- ste sciaguratamente un di coloro che in tenebri i ambulanl, e che oderunt lueem -, di nuovo il predico, vi tacerete, o tesserete lacci notturni. Ma pur sappiatevi in quao- to a ci che n io, che in alto pongo la mia speranza, ho alcuna cagion di temervi ; n a voi ho inteso rispondere con questo scritto, che solo  dettato in servigio demiei fratelli, i fedeli, a pi de' quali venia posto lo scandalo. C bene spero d' avercelo gi rimosso, e fattili accorti del pericolo d inciamparvi ; per forma che gi non pio mi sia uopo altra volta occuparmi a diradare quel buio , che con tanta scaltrezza di men- zogne e di perGdie private e pubbliche voi di diffondere tuttavia vi allentaste. Ma che coughielture, che ipotesi vo io facendo? E non potrebb essere tuli altro est super noi lumen vultus fui : per questo Iddio  il fonte della legge naturale; non perla ne* cessila assoluta clic voi trovate della sanzione. La sanzione d* altra parte non manca mai, n pu mancare alla le^ge naturale, essendovi almeno implicitamente contenuta. D'altra parte, non cre- diate che basti la sanzione a render possente la volont nostra fino ad adempire tutta la legge:- no, non basta. Che cosa si richiede di pi, Eusebio mio?  La grazia. Voi poi, che vi mostrate in parole tanto nemico del tiaianisioo, or perch parteggiate a fa- vor d'opinioni che a quel dannato sistema favoriscono?  egli forse questo il segno dell* acutez- za vostra nello scorgere le conseguenze lontane?  E di vero, il dire, che la legge naturale non obbliga senza una sanzione posta ad essa da Dio, egli  assai prossimo al pretendere, che la legge naturale non obblighi senza una rivelazion positiva, che manifesti ed accerti gli uomini di una sanzione divina. Or chi ammette che non ci possa essere obbligazione morale senza po- sitiva rivelazione, ammette ancora che senza rivelazione non possa esserci n bene n male mo- rale; quindi ammette che P uman genere privo di rivelazione rimarrebbe senza il suo scopo, che  pure la virt e la felicit conscguente: quindi a lui sarebbe necessario un ordine sopran- naturale affn di raggiungere il naturale suo scopo: dove entreremmo di piano nel balani smo o a questo molto vicini. Che se la sanzione divina, che voi supponete necessaria acciocch la leg- ge naturale abbia virt di obbligare, non viene alluom rivelata; Puomo non pu trovarla se non con questo ragionamento: c Essa  cosa obbligatoria losservar la legge naturale. Ma la giusti- zia vuo^e, che si punisca chi manca olle proprie obbligazioni. Ora Iddio  il giusto Signore del mondo. Dunque Iddio punir deve quelli che, violando la legge naturate, mancano alle proprie obbligazioni i. Chi non vede che questo modo di ragionare suppone dinanzi , che la legge naturale per s sola induca obbligazione? La sanzione adunque trovata per via di naturale ragionamento sup- pone prima esistente P obbligazione della legge e non la produce, E nel vero, so la logge na- turale per s stessa non obbligasse come vuole Eusebio ; in tal caso colla mia sola ragion na- turale io non potrei pi argomentare resistenza di una sanzione divina; perch, non essendovi obbligazione, non vi sarebbe necessit di sanzione. L* esistenza di quella sanzione adunque ooq si pu rinvenire polla ragion naturale nel sistema d Eusebio, che suppone la legge naturale da s sola non essere obbligatoria: egli dee dunque ricorrere ad una sanzione soprannaturalmente rivelata; od eccoci, come dicevo, nel Baianismo, sistema che dichiara Puomo non poter essere da Dio creato colla sola natura perfetta ed intera senza lordine soprannaturale. Che cosa dunque si d*e dire, quando il signor Eusebio alierma che con lui dee sentire c chi se la vuol tenere co* Padri, coll* Angelico dottore, col senso pi proprio delle sante Scrii- t ture e colla ragione i? Che cosa si dee dire? ch'egli ha sempre mentito () Face. 4. Digitized by Google 181 il vero? non polrebb' essere che locculto nostro assalitore fosse un bello spirito di questo secolo, il quale avesse voluto pigliarsi gabbo di noi e del pubblico, e de teo- logi, e de religiosi, e de sacerdoti, e della religione medesima? Egli pare anzi aver- - vi di ci non piccola verisimiglianza. Perocch chi considera bene tutto il tenor del libercolo vituperoso, verrebbe voglia di suppor veramente, che chi lo scrisse abbia preso il nome di religioso (Eusebio) per far la satira de religiosi, e quel di Cristia- no per far la satira de' cristiani, ed abbia ancora assunto il tuon di teologo che con- troverte con modi cosi fecciosi e ridicoli, con tanta ignoranza, impostura e fiele, per far la satira de teologi ; quasich cotesti non sapessero mai disputare in fra loro con assennatezza, senza mancare allurbanit, ed offendere la carit. E di vero, che il finto Eusebio sia qualche irreligioso secolare di buon umore, al qual sia sabato il grillo di voler ridersi allaltrui spalle, il farebbe credere anche sol questo, eh egli ben mostra non aver il Confiteor in sua vita mai recitato, dove ii peccavi precede al rnca culpa , mentre egli taccia di grosso errore il distinguere dalla colpa il peccato. Ol- tre di che, non par ella una beffa chiarissima quel sottomettere chegli fa le sue ri- flessioni al giudizio delia Sede apostolica, quando indirettamente pur la trafigge per gli benefizi a me falli, che sor. si cieco ed eretico laute volle quant egli dice (i); e poi le disubbidisce fino col frontespizio del suo libello, operando contro i decreti e- pressi di Clemente Vili, che viet agli autori di occultare il lor nome, o di stampa- re alla macchia, senz alcuna approvazione di ecclesiastica autorit (2)? Di pi, dopo avermi egli calunnialo e vituperato con totc falsit e con tanto livore, fa poi sulla fi- ne lelogio alla bont del suo proprio cuore, 1 abbondando secondo s. Paolo, nella ere colui, che oggid che tutto il secolo corre al razionalismo, negando od al- terando i misteri del Cristianesimo, oggid che labate De la Mennais prende a impu- gnare il dogma dell' originale peccato ; colla maschera e col tuono di leologastro Tassi ad assalire uno scrittore cattolico, accusandolo non dell' Dna o dellaltra, ma di quasi tutte le moderne eresie ad un tempo medesimo, e in fine paternamente l'esorta a non imitare il De la Mennais nella ribellione alla Chiesa: e ci a qaale scopo, a quale proposito? Veggasi (pi la belTa : solo al One, al proposito di sostenere una dottrina di razionalismo: togliendo a decidere coIIa ragione umana ci che alla giustizia di- vina convenga: togliendo a risuscitare le obbiezioni che faceva un tempo Pelagio  pr V opera nostra ; egli fard ci che noi volevam fare, e crcdam d* aver fatto ; ma per non  essere noi infallbili: forse non l* abbiam fallo, o c* ingann la persuasione che avevamo di buo- c na fede. Imperocch noi non vogliamo finalmente n tentiamo di fare altro, o con questo scrit- c (o o cogli altri, se non di mantenere fermissimamente i principi costanti della Chiesa, mae-  etra agli uomini tutti, che ascoltar la vogliano, non meno di morale che di sana credenza; t e di dedur da essi con logica dirittura ogni nostro dottrina; dal che dipartendoci, inavveduta- . Cosi trovasi scritto alla face. 75 del Trattato detta Coscienza: n questo per, lo sapevamo, polea legare le lingue mendaci, e impedir che di- cessero che  noi ci siamo attenuti a* soli nostri raziocini senza curare T autorit . Quello che ci sembra pi strano si  pi tosto di essere accusati ad un tempo di due peccati opposti ed in- conciliabili fra di loro, come fa Eusebio, il quale d una parte ci attribuisce  ; qua- sich questa certa verit non sia un principio dalla Chiesa cattolica professato, o noi possiamo essere del tutto certi che sia verit quella che dalla Chiesa non sia professata, massime poi se la dottrina a lei contraria venga dimostrato contenersi ne* principi antichi al deposito della fede nostra appartenenti. Se io dimostro che tal dottrina in questo sacro deposito si contiene, in vano voi torrcsto a mostrarla contraria ad una pretesa verit ; che anzi questa tessa verit supposta dovrebbe aversi per una mera illusione, fin a tanto che la dottrina a lei contraria ha il saldo appoggio per s dell* autorit della universal tradizione delta Chiesa cattolica. Ma per tornare al- la prima accusa del negar noi 1* errore al tutto invincibile quando trattasi di deduzioni che noi stessi facciamo da* principi della naturai legge, diciamo eh* egli nula affatto ha capito detta que- stione ; e basti a provarlo I* aneddoto eh* egli adduce del P. Riccati, che calcolando diceva: Qual- . Povera (estrema! Quanto sarebbe meglio che non ragionaste di quello che punto non vi sapete f Io vi mander a vedere il Trattalo delle cause occasionali degli errori da me esteso nel voi. Ili del N. Saggio (Se*. VI, P. IV, c. Ili), e a leggere particolarmente la face. iSff, dove spiego appunto gli errori che prendono i matematici oc 1 loro calcoli per isbagli di lingua o di penna, cora'  quello da voi addotto. (i) Ivi f. 62. 183 contro l'originale peccato: togliendo a riprendere e mordere chi nella natura umana riconosce colla cattolica Chiesa un infezione morale, per propagazione trasmessa: e in una parola scavando i fondamenti al dogma del peccato d'origine, e distruggendolo fino nel suo concetto, col sostituirvi una mera finzione, conservatone il solo nome. Deh voglia il cielo che quest' ultima ipotesi sul mascherato autor del libercolo sia pur la vera! Stare' io contentissimo dessere stato cos gabbato: che lonore del sacerdo- zio e della religione sarebbe in salvo. Pure il solo esser possibile questa a me di- letta supposizione, dee bastare a far si, che non si possa dare il biasimo d'un tale scritto ne ad un religioso, n ad un sacerdote : ma che anzi si debba il contrario pre- sumere. Che se pur tuttavia egli fosse un uomo di Chiesa, prevenuto da caldo zelo, ma pure in buona fede; a lui sar facile levar tino il dubbio dal pubblico, che il li- bello sia frutto di maligne passioni allignale in cuore di persona a Dio sacra. Final- mente se pur queste passioni ree ne fossero pur troppo le vere autrici, del dolore che un tanto male Rapporterebbe, avremmo qaeslo estremo conforto, che non permette Iddio i mali per altro se non per cavarne maggiori beni. Noi certo, nello scrivere questa qualsiasi giuslificazion nostra, una cosa sola sperammo, d una cosa sola fa- cemmo a Dio voti, cio : Ut cum respondendi necessitate , sine studio contentionis, pr ver itale aertalur , inslruantur indoeli, atqueita in Ecclesia^ convertatub OTIUTATESI , Quoti EST INIUICUS IN PERNICIEil il ACU NAT US (i). (i) De pece. orig. Digitized by Google Una ristampa del libello si foce a Lucca, Tipografia di Luigi Guidoni i8|l, in fine alla quale  dello, che le piccole mutazioni fatte in essa tono tutte fecondo la mente espressa dell Autore. In questa edizione sono ommesse quelle parole, colle quali Eusebio Cristiano attribuiva a tutti i cattolici il suo sistema sull'essenza dell' ori- ginale peccato : principio di ritrattazione de' suoi inganni, che speriamo dover essere buon preludio delia ritrattazione completa de medesimi. Nell' avviso al lettore si d per ragione di quella ristampa il dover mettere in ' guardia contro gli abbagli che , in fatto di materie importantissime come sono le morali, ha preso il cel. abate Rosmini ; i quali errori per, nel sommario di essi dicosi non pi che ha presi , ma solamente che sembra aver presi. Al qual sommario giover che io soggiunga delle brevi' note, le quali nel precedente opuscolo hanno la loro piena dimostrazione. Ecco adunque il sommario delle proposizioni che mi si attribuiscono, e le loro risposte. i  Porsi da s. Tommaso nelle cose morali il concetto di peccato senza il s concetto di colpa . Proposizione Falsamente esposta.  - Io non dissi c porsi da e. Tommaso nelle at}9&9 a sa ILIJJSTSf.f B l^opo la mia Esposizione delia Dottrina cattolica intorno al peccalo originale , rimase dimostralo, a giudizio di valentissimi Teologi, clic la distinzione clic fece 8. Tommaso fra il concetto di peccalo e quello di colpa,  antica nella Chiesa, ne- cessaria alla sacra Teologia, logica, uscente dalla natura delle cose. Tuttavia poco fa comparve alla luce un opuscolo novello volto a impugnarla, e fin a pretendere ch'ella nell Aquinale non si ritrovi (i)l Coglier io volootieri questoccasione per avvalorare di nuove autorit quella distinzione preziosa, cosi maggiormente illustran- dola. Ma prima dir due parole della condizione del toccalo opuscolo e del suo scopo; persuaso che la notizia de fatti che narrer, sia utilmente conservata ai posteri; e che ella contenga altres un documento utilissimo agli ecclesiastici, massime giovani, i quali sommamente rileva che sieno per tempo ammaestrati del modo di trattare degnamente delle teologiche cose, cio con tranquilla maturit, con iscienza vera, scevra da ogni presunzione ed ostinazione, con lealt e con carit, c in una parola con dimostramento di tutte le virt: atteso lalto e nobile ufGcio che  quello di teologo nella cattolica Chiesa. La bellezza e la santit del quale uliicio meglio apparisce e ri- salta al confronto delia schifezza e della empiet di chi lo tradisce e vilipende; e per il vedere questa schifezza per evitarla pu grandemente giovare. L autore, a cui d noia la lucida distinzione delle idee di peccato e di colpa, tace il suo nome, stamp lo scritto suo alla marchia, il diffuse per Italia soppiatla- raeute, d ira e di costumi procede pressoch uguale ad Cuscino, di cui si dichiara il campione, ,se pur non  desso; perocch le facce coperte, a dir vero, non si possono ralfrontare. E poi del tutto nuova la tattica che usano cotesti esseri invisibili (crediamli (I) Emme critico-leolajico rii alcune dottrine del chiat istmo Antonio Itoemini-Serlnili prete roner etano, articolo I. Kos unti Voi. XII. 450 Digitized by Google 194 pure 8|;irilelli, anzi che umano creature) per infestarci. Al lihercol di Eusebio fallo girandolar per le case da mani indignile, senza bisogno alcuno d' npprovnzioo di censura o ecclesiastica o secolare, io risposi dimostrandolo pien derrori e calao- ninlore. Lobbrobrio di calunniatori convinti, quegli occulti sei portarono in tutta pace; ed in luogo di provare a purgarsene, consigiiaronsi di dar mano ad altr' arme offen- sive, 'coni' essi le credono; ma giudichi il lettore discreto se sieno tali. L'uua di que- ste  un manifestino cieco contenente nulla pi che minacce; volteggi un po' per aria, cal poscia in (erra come foglia inaridita. Un'altra  un artieolello posto in cir- colazione contro i teologi piemontesi, che nel Propagator Religioso castigarono il finto Eusebio; n sar inutile dare qui p : cciol saggio al lettore dell" efficacia con cui combatte (i). A bel principio lautore pone un mollo di sant Agosliuo, che caratte- rizza a maraviglia gl invisibili nostri infestatori, perocch dice : Suiti cnim quidam qui justissimc damnalas impielatcs adhuc libcrius defendendas pulant : et sunt qui OCCULT fUS PENETRANE DOMOS, et QUOD IN APERTO JAU CLAMARE METVVNT in secreto seminare non QuiEscuNT ( 2 ). Credono adunque che il rinfacciare altrui falsamente le proprie vergogne, basti per essi a nettarsene interamente. Ora la medesima tattica sugger loro di dare a noi, la cui faccia  pur nota al pubblico non da jeri n da jer I altro, lappellazione di facce sconosciute, s stessi in pari tempo vantando di esser de cani che lalranci contro (3)1 Deh non sembra, che noi vogliamo oltraggiarli pur col riferire i loro oltraggi ? anzi- fino i loro slessi vanti ? E da vero, che son sagaci ! Non sono obbligati veramente a sapere, che il cane, oltre essere il simbolo della fedelt, fu anc ira sempre tenuto pel simbolo del calunniatore. Non leb- bero le stesse legislazioni per tale, ingiungendo fin anco a calunniatori In pena di abbajare e di latrar come cani (4) ? Ma non pi ; egli sar panilo essere anche assai questo poco : passiamo alla lerz arma offensiva ohe snudano, e vegliamo se sia mi- glior delle prime ; ella  appunto 1' accennato libercolo, che al Iratlalellu presente porge occasione. Lanonimo aulore prende a mollo, colla solila loro prudenza il leslo di 8. Tom- maso : Ex verbis invrdinatc prolalis incurritur haercsis (5), il quale dee essere come la maggiore, certamente innegabile, del sillogismo, che intende piantare per batte- ria. Aspelterebbesi ora, che la minore, colla quale stringerci fualla resa, dovesse essere il dimostrare ampiamente, che noi adoperammo veramente ne nostri scritti un linguaggio s nuovo e disordinato, da doverci condur diffilalo nel baratro dell errore. Ma nulla di questo, per avventura. Tutto il delitto, di cui collintero suo opuscolo Tool convincerci, si  di aver noi messo in campo quell' aulica distinzione fru colpa  peccato, che per nostra grave sciagura, da lui e dagli altri suoi compagni era del (1) Sulla difesa del chiariti, abate Antonio liotmini-Serhat . inferita nel Propagatore Religioso Piemontese. Osservazioni di C. B. P. Articolo I.  Acvertenzt allo Scrittore del- la difsa.  Firenze, Tipografi* e Calcografi* all' insega* di Clio, i84i. (2) Epiit. CXClV, n. . (3) i Ci assumiamo unicamente 1 ufficio di guardia fedele che al comparire di raccx tco- ( usciere, od al lospetlo dell' appressarsi il lupo alla greggia, col Lira**! ne d indizio c al  gregge ed al mandriano. N ben fi saprebbe dire di qcal razza cani fieno quelli, i quali allora . Si prelende che Cario V re di Francia aves- se introdotto questo castigo nella sua corte ( Saint-Fois, Ocuvres, t. 4, psg. i4 5 ). (5) S. Ili, q. XVI, Vili. Digitized by Google 195 lutto ignorata. Ed avendo io citati due luoghi di 8. Tommaso, dove il santo Dottora quella distinzione espone, il valentuomo, sembrandogli ci assai poco, mi dichiara corto in suppellettile (i); s poi dimostrando s ricco, da poterne fare ampio scia- lacquo. Se non che, affine di poter meglio esagerale quella mia povert di teologica erudizione, egli finge di non aver pur veduto il mio libro sul peccato dorigine con- tro Eusebio, dove con altre autorit dell'Angelico ho io bene quella dislinzion con- firmala; rara prudenza anche questa di dissimulare, quasi non fosse, quello a cui non si pu fare risposta. Vero , che nella discussione presente non trattasi di sapere se l altrui suppellettile sia corta o lunga; n anco importa, che T armi da me usale sian poche, purch sian buone. N io scriverei certamente una linea, che Dio me ne guardi a dimostrare una cosa s inutile a sapersi siccome questa, se io in suppellettile sia corto, o pur ben provvisto. Che anzi in quella vece, siccome fanno i poveri che vivon d'accatto, non poco rallegrami di poter sopperire alla brevit della mia suppellettile, prevalendomi della sua, chea dir vero gli  troppo lunga ed affatto superflua. Vo- glio dire, per uscir di metafora, che traendo egli in mezzo vari luoghi di s. Tomma- so ed altre buone autorit, intendendole e interpretandole come opposte alla dislinzion de' concetti di peccato e di colpa; io all'opposto non far quasi altro in questo mio trattatelln, che confirmare, ' e di pi luce illustrare, con quelle medesime sue autorit, la distinzione da lui vanamente impugnata. Perocch veramente tutti que' luoghi, che egli adduce, sono attissimi a coufirmarla e a maggiormente illustrarla. Di che appa- rir che tale  l'efficacia, tale  I' avvedimento di questo novello occulto assalitore, quale quella di tutti gli altri precedenti. I quali, qualora si fanno proteggitori della confusione delle idee, anzich della distinzione ; operano bens in modo conforme al- le loro tenebre, ma qoh alia luce della cattolica verit. Laonde noi vedremo ancora, che da' ragionamenti del nostro innominato deriva finalmente una conclusione con- traria del tutto a quella che egli si pensa, cio che sol confondendo, a cui egli si sfor- za colle mani e co'piedi, quei due concetti di peccalo e di colpa, si detrae grandemen- te alla cattolica fede; sicch egli potr a s stesso adattare il molto che prese, e che perci sta bene in fronte al suo libro, che cio Ex verbis inordinale prolatis incur- rilur haeresis.  E questo fio 'I sugge! chogni uomo sganni > . I! che sar certo un bene dovuto agli anonimi nostri. Perciocch, chi mai avreb- be potuto immaginare, senza tali contradditori, che quella distinzione de due concetti che in tutte le lingue si trova, alla chiarezza s necessaria, da me avanti dieci anni usata ( 2 ), pacificamente in lutto questo tempo invalsa, par bella e buona in Italia e fuori avuta, potesse esigere a difendersi tali parole, potesse meritare a illustrarsi tanta erudizione ? Laonde il frutto della scrittura del nostro sconosciuto sar d'avere al mon- do somministrato delle novelle prove e chiarissime della dottrina da lui combattala. (1) 1 E qui di nuovo tei vedi in campo non forte di altre armi che quelle , delle quali a feuso nell'Antropologia , perch li aenliresli tentato a crederlo anzi corto in suppellettile . che ( ben provvisto 1 . Esame, ec. f. 15. Quasich l'unica mia arma fosse l autorit di Tom- maso, e non avessi io citato anche in questo stesso argomento molti luoghi della divina Scrit- tura e di sant'Agostino , e tutto il mio ragionamento non fosse poi avvalorato e perpetuamente condotto dalla ragione teologica. (2) I Princpi della Sterna Morale furono stampati a Milano nel 1831. Digitized by Google 19G I. Ln prima cosa che si vuol per noi fare si  di esporre chiaramente qual sia la dir slinzionc ile concetti di peccato e di colpa che da noi si ammette coll'angelico Dotto- re e si difende. E per si vuole medesimamente separare io prima tutto ci che di fai- so lanonimo vien dicendo su di questa distinzione e che a noi, senza punto esitare, at- tribuisce. Conciossiach noi non intendiamo gi di difendere quelle dottrine, che ci so- no da chicchessia apposte, ma solo quelle che nell opcre nostre chiaramente espresse si contengono c noi veramente professiamo. L anonimo adunque in prima asserisce del tutto falsamente clic noi ammettiamo non solo nna distinzione di concetti, ma ben anco una disgiunzione reale fra il pec- cato e la colpa, di maniera che vi sieno de peccati che ne pure in causa sietio colpe (i). Ma noi lo invitiamo ad esaminare. meglio tutto ci che scrivemmo su questa ma- teria, e ad indicare un luogo solo, nel quale, per avventura, allenimmo che si dia realmente un vero peccato, che non si possa chiamare anco una colpa. Scrivemmo nel Trattato della Coscienza che l'originale infezione  peccato e colpa ( 2 ): scrivemmo pure che il peccato degli abituati  peccato e colpa (3): or qua- le  mai quell'alto 0 stato, nel quale noi riconosciamo realizzala la nozione di pecca- to, e non quella di colpa? (4) Prego davvero il mio signor anonimo ad indicarla al pubblico, com* egli n ha debito. La nostra distinzione non riguarda mai la cosa, ma solo il concetto', dicemmo mai sempre, che al medesimo alto, ovvero al medesimo stalo appartengono lutti e due i concetti, quello di peccato, e quello di colpa; ma che tuttavia questi sono concetti distinti. Vi sarebbe adunque pericolo, che il nostro anonimo ci gridasse cosi spietata- mente la croce addosso, unicamente, perch egli non rapisce bene che cosa voglia di- re distinzione di concetti , e che voglia dire distinzione di cose reali ? II. Unaltra cosa falsa, che il critico sconosciuto ci attribuisce, oalraen suppone, si ; che noi neghiamo, che nel comune modo di parlare si osi peccato e colpa indiffe- rentemente. Ma le nostre parole sono chiare chiare alla faccia 43 del Trattalo della Coscienza, dove, dopo aver distinte tre specie di. peccali, e dello, cheil peccatodi ter- za specie   con dannazione e imputazione personale  ; e soggiunto che  a questo  peccato appartiene in senso stretto il nome di colpa  ; aggiungemmo ancora - e nel (J) Nel n. 12 del no Esame, ed in altri lunghi.  Net citato opuscolo di C. B. P. mi si attribuisce parimenti questa dottrina non mia. Vcd. face. 4 ( m m ).  Questi autori fanno eco ni finto Eusebio , che io bo riconvenuto d impostura inturno a ci colla tnia itisposta n. LXXXIX. (2) Trainata della Coscienza, L. I, cap. V, art. II,  1, il qual paragrafo comincia co- si ; i II peccalo, dal quale la rivelala dottrina c* insegna che nascano affetti tutti gli uomini,  va reno reco sto, e ivi vena colpa s. (3) Trattalo i tetta Coscienza, L. I, c. V, a. II,  3, dove spiegando l'origine dell'abito vizioso, dico: c Talora ella ( la volont ) soggiace alla necessit det male per caoione n cita Polpa PBKCEDtUTE s , il che  quanto dire ebe i peccali degli abituati sono sempre colpe almeno in causa. (4) V. anche ci clic dico sui peccali de' dennati nel Troll, della Cose. L. I, c. V, a. Il, $ 2. cio , che se i dannati potessero commettere nuori peccati , ci che non possano perch giunti all' estremo del male,  Digitized by Google . 197  comune modo di PARLARE la parola peccalo si prende a significare per lo pi que st' ultima specie, e pi tosto il peccato attuale, che labituale  (i). E qui cominceremo ad usare della ricca suppellettile dautorit, che il critico a- nnnimo ci fornisce. S. Tommaso nelle Questioni disputate insegna chiaramente la distinzione dei concetti di peccato c di colpa, allo stesso modo come la insegna ne luoghi da noi ci- tali della Somma ; ma in Gne avverte alla stessa guisa appunto, come ho fati' io, che, a malgrado di tale distinzione di concetto, le parole peccalo e colpa nel comune mo- do di parlare, si usano indifferentemente. Et sic palei, dice, quod peccatisi est in plus quasi culpa : s oda ora quello, che aggiunge : licet secundvm coti mu- ti em usua loql'Endi apvo tueoloqos pr codem sumantur peccatimi et culpa (a), Non sembrano elle queste parole essere state da me fedelmente tradotte? E ben si os- servi, che conchiudendo l'Angelico la suo distinzione fra peccato e colpa, dicendo li- cei sccundum comunem usuai loquendi apud thcologos pr codem sumantur pecca- luta et culpa, vien chiaramente ad affermare, che colla distinzione esposta de'duo concetti di [leccato e di colpa, egli proponea qualche cosa di contrario all'uso comu- ne di parlare presso i teologi ; n credette tuttavia inutile il proporla ; non essendo inai inutile l'accurata distinzione de' concetti ; bench, sella  sottile, si trascuri nel- l'uso comune ogni qual volta ella non sa necessaria alla chiarezza del ragionamento; il che  sovente. III. Le quali sole doe avvertenze, nel tempo stesso che convincono lo sconosciuto cri- tico di manifestissima falsit, qualora si tengano ben presenti, ci arrecano anche que- sto vantaggio, clic oggimai non potrebbe pi far gabbo a' lettori quell argomento specioso col quale lanonimo intende impaurirli, largomento dico tratto dall uso del parlare pi usuale nella Chiesa (3); perocch quell'argomento cade del tutto a (erra da s, mirato al lume di quelle due avvertenze, bench tanto minaccevole nelle parole di chi il millanta. E di vero, esso consiste in non pochi passi di Concili ecumenici, in non poche proposizioni condannate, in alcuni luoghi del Catechismo Romano; nequali egli sem- bra, che venga osata indifferentemente la parola colpa e la parola peccalo ; il quale uso indifferente non prova altro, se non che nel modo comune di favellare, come noi stessi abbiamo notato (4), e come not il santo dottore d Aquino, le parole peccalo e colpa si pigliano luna per l'altra. N egli  gi vero (perocch cos incalza l'Anonimo), che qualora si ammetta, che i concetti di peccalo e di colpa sicno distinti, ne avvenga, che quel parlar della Chiesa riesca tutto confuso ed equivoco.. Conciossiach non essendovi alcuna disgiun- gane reale fra il peccato e la colpa, ma solo una distinzione di concetto (5) ; e la Chiesa parlando in tutti i passi arrecati di peccati reali, e non gi di concetti; ella non pu essere intesa in altro significato, che in quell uno che suonano le sue parole. A sproposito adunque, a lutto sproposito, bench in aria di trionfo, l'anonima cos argomenta (G) : (1) Perch Io sconosciuto critico dissimula anche qai, che tali cose tutte si trovano dichia- rate nella mia Rispositi ad Eusebio 1 (2) Ve Malo, Q. II, a. II. (3) Al n. 19. o tegnenti dell Esame Critico. (4) Num. H. (5) N. t. (6) N. 20 del suo Esame critico-teologico. Digitized by Google 194  Nou si pu meglio conoscere il pensare della Chiesa, che osservando la sua c ragion di operare (t) o per mezzo degli ecumenici concili, o col condannare pro-  ( ecco la ragion ola che, va indovinando I anonimo, possa avere indotto  Padri Tridentini a dare alta macchia originalo costantemente il nome di peccato e non quello di colpa ) t che il TridCotino nelluso del vocabolo colpa s ( ma qui si trattava dell usa del vocabolo peccato, slamo dunque fuori di casa secondo it solito ) . Ma questa conghieltura  affatto vana l. perch si trattava spiegare perch i Padri Tridentini ebbianu sempre usato la parola peccalo parlando dell originale, c non la parola colpa; c quella congliietlura spiegherebbe per- ch in certi luoghi abbiano usato la parola colpa ; 2. perch quella conghieltura tende a spie- gare perch talvolta uso il Tridentino lo parola colpa ; e qui trattasi di spiegare perch non talvolta, ma tempre abbia il Tridentino usalo la parola peccalo, parlando dell originale ; 3. per- ch finalmente anche loriginai peccalo ha la sua pena, e il suo realum poenue , onde quella ragione dovr condurre pi tosto il Tridentino a nominar colpa l originale peccalo ogni qual volta parlava della pena dovuta a questo, come poniamo l nel canone 2 ^lovc egli dica: Si quia Atlo* pracvaricotionem albi aoli, et non ejua propogmi asserii nocuisse, et acceptam a Ileo aancliiatcm, el justitiam, guam perdidil, sibi soli, et non nohia cliam perdiditsc, aul inguvia- lum illum per inobedienliae peccatimi , modem, et posaci corporia tantum in omne genita bu- ina nu vi trans fundiste . non uutem et kccatc, quod mora eat animae, anathema sii. (1) II. Disi. XXXV. q. I, or. u, ad n. (2) Vedi i luoghi di s. Tommaso da me recati nella mia liispostd ad Eusebio, n. X. (3) V. la citala mia Risposta , n. XXXVII. (i) Se se. V. Dccretum de peccato originati, nel princ.p.o. 201 vela itone di quel morbo colla sua libera causa. Il morbo, I infezione, il disordinc f dove sla la nozion Hi peccato, secondo lAngelico, si contrae quoti gcncralione con  traxerunl ), si trasfonde propagatone non imilatione Iransftisum ): e Considerato eoa e una macchia, una lepra, si lava e si monda ( ut in cas rcgencralionc rnunde- tur); ma non si direbbe certamente con propriet che si contraesse, che si trasfon- desse, che si lavasse o mondasse una relazione. La relazione ( la colpa) sorge, co- mincia ad essere da s stessa, losloch si comunica, si trasfonde, si coulrac I uno de' suoi termini, cio l infezione del primo padre; nel quale poi  (isso, immutabile, incomunicabile, perch del tutto personale, l'altro termine di essa relazione che  la libera sua volont. Con propriet dunque, secondo il preciso concetto di colpa , non si direbbe che si trae da Adamo la colpa ma bens che si trae il peccato, come dice il Concilio di Trento, nihil ex Adam trahere orijinalis peccati : trneudosi poi il pec- cato originale, incontinente accade che vi sia. anco la relazione della colpa ; come traendosi lesistenza dal genitore, insieme col riceversi di questa, surge c nasce e vi  la relazione di Jiglialit, poich In relazione non si pone mai immediatamente, ma solo mediatamente, cio ponendosi i termini ai (piali ella sappoggia. Che piu? se il Tridentino stesso dichiara espressamente di qnai peccato egli parli, definendolo con somma propriet, quoti mors est animaci (i). Egli  troppo chiaro che la morte del- lanima d un uomo non consiste gi nella relazione col padre sito ; ma che la morte dell anima non  che uno stato dell anima stessa, e che perci  tutta nell' anima che sgraziatamente  morta ; non  la morte, per dirlo di nuovo, una relazione che chi muore abbia colla libera volont di Adamo suo padre. Con propriet dunque il Tridentino chiama peccato e non colpa quell' infezione originale di cui favella ; non gi perch non sin anche colpa , o che anche con questo nome chiamar non si pos- sa: ma perch egli la considera principalmente sotto il concetto di peccato, e quasi tutte le cose che intorno ad essa definisce, riguardano la stia essenza di peccato. Finalmente , chi ha I occhio sano, potr benissimo riconoscere accennalo dal Tridentino il doppio concetto di peccalo e di culpa , che ha la macchia originale in quel canone : Si t/uis per Jesi/ Christi Domini nostri gratiam , qttac in baptismale confcrtur , reatVM orioikalis peccati REMiTTl-ncgat: aut cliam asserii non TOI.LT totani id Ql' OD FERAM ET PROPRI AM PECCATI RATIOKEM II All ET / sed il - lud dcil tantum radi, aut non imputari ; analhema sit (?) ; nel (piale chiaramente insegna, che la grazia battesimale fa due cosa e non una sola, l'ima espressa col re- rutti che si riferisce al concetto di colpa (3); 1 altra espressa col toi.li, che si ri- ferisce al concetto di peccato. Chiama il Tridentino la colpa reattivi peccati , che viene a dire culpa peccati cio la colpabilit del peccato, la qual vien condonata o rimessa ; e chiama il peccalo semplicemente peccatum ( juod veram et propriam peccati rationem habet ), il quale dee venir lotto via, come si toglie via una piaga, una macchia, un bubbone o carboni elio o simile (4). (t) Sess. V, Can. 2. (2) Sess. V, Can. 5. (3) Il mio anonimo mi somministra dogli altri passi del Tridentino, nei quali si fa corrispon- dere la remissione alla colpa . Eccoli: Sonda Synodus declorai : Jalsum nomino esse  col* pam a Domino nunjuam nuurn quin universa eliam poena eondonelur (Sess. XIV, c. Vili).  Si quis post acceptam justjieationis gratiam cutlibet peccatori por intenti ita culpa asixir- ti, et reatino aeternae poenae deieri dixerit eie. (Sess. VI, con. XXX),  Si quis dia eri t totani pantani simut cuoi culpa mimittx semper a Deo  analhema sit (Sess. XIV, con. XII ). Egli  cbiaro, elle maggior propriet di parlare vi ha nel dire rimettersi la colpa, elle non sia nel dire rimetterei il peccato, bench soglia usarsi giustamente anche quest' ultimo modo, inten- dendosi allora per peccalo il realo ossia la colpa del peccato. All incontro vi ba tutta la pro- priet nelle frasi peccata in conjeesione recenseri ( Sess. XIV , cap. V ) ; peccata taceri ( Sess. XIV, cap. Viti); peccalorum gravitatem (Sess. XIV, cao. V ), e simili, nelle quali ti esprime I allo peccaminoso e la relazione di lui colla volont libera si sottintende e si suppone. (4) Laonde, parlandosi delle pene soddisfattone o medicinali, pi propriamente si user la pa- liosuiM Voi. XU. * 451 Digitized by Google Le stesse osservazioni si potrebbero fare volendo rendere^ ragione, perch san Paolo, esponendo nella lettera ai Romani la dottrina intorno P originale infezione, osi sempre, se ben mi sovvengo, la parola peccalo ( ap-apria) e non mai la parola colpa ( airia): era pi proprio quel primo vocabolo nel suo discorso ihe mirava lut- to precisamente a illlustrarta sotto il cornetto di peccalo, d iniezione, di morte, di cosa in una parola aderente ai singoli individui, ne quali passa quella infezione in uno colla natura umana. E ad imilazion dellApostolo appunto, de' cui testimoni si valse, tenne la stessa propriet il Tridentino. Couchiudiamo adunque: lungi che la distinzione de'concetli di peccalo e di colpa renda incerte ed oscure le decisioni del Tridentino, ausi ella  del lutto necessaria per intendere la sapientissima propriet del suo parlare : ella da quel celeberrimo Cunei- lio  supposta, ammessa, fedelmente mantenuta ed insegnala (i). VI. Dopo queste autorit si calzanti al mio uopo, lanonimo cita un luogo del sinodo di Basilea, ed una congerie di proposizioni condannate, e lilialmente degli estratti del Catechismo Romano, e a qual solo fine? Unicamente a insegnarci con si peregrina teologica erudizione, che le parole peccalo e colpa ai usano promiscuamente I E pure egli avea promesso di dimostrarci, che il distinguere' fra il concetto di peccalo e D uello di colpa  gran male, perch porta seco niente meno clic questo effetto, di ren- ere le decisioni della Chiesa oscure , equivoihc , inutili: ora perch noi fa dunque ? Egli vi ha dormito sopra: non se n  pi sovvenuto. Tnllaviii di quello sprecamento di lesti non mi lagno, potend io per essi allun- gare la corta mia suppellettile, e aggiungere una nuova autorit a conferma della di- stinzione fra il concetto di peccato e quello di colpa ; autorit non piccola veramente, perocch trattasi niente meno che di quella del Catechismo Romano. Ecco il g'jello, che, sema scrupolo, mi avviso, potergli levar di mano, come non suo: Haptismi proprus rjjictus eit , leggesi nel Catechismo del sacro Concilio di Trento , pecca 1 ORO Al omnium , sice originis vilio, sire nostra colpa contrada tini, reinissio ('2). Ogni discreto lettore ha gi inteso che cosa traggasi da questo Ialino. Quivi chiaramente si dice, che vhanno de'peccati, che sono peccali e che tuttavia non sono da noi contralti nostra culpa- Come volete mai che io rinvenga un lesto pi bello,  pi chiaro di questo, che voi stesso mi somministrate, gentil mio teologo scono- sciuto? Certo; chi non sente la distinzione fra il concetto di peccato e quello di colpa in un discorso s netto, come quello del Catechismo Romano, dove ci si dice, che vi sooo d e peccati che noi abbiamo per vizio dorig ne, e non per nostra colpa , e che ve ne sono degli altri, che noi abbiamo per nostra culpa ; meglio egli , che non istudii pi innanzi di teologia: c vada pi tosto una scuola addietro ad aggiustarsi prima, se pu, la testa. Tanto i peccati che sono con nostra culpa, quanto quelli che sono senza uostra colpa, sono egualmente peccati nostri ; ma di quelli che sono senza nostra col- pa, nostro  il peccalo, e non nostra la colpa ( se non a quel modo che  della mano rota peccalo, che non sia quella di colpa; come l dove it Tridentino dice; Pro cu! dubio enim magno ter e a rrcciro revocarti , et yuan fraeno guadati coeredi I hoc sahs/acloriae poetar { Sess. XIV, c. Vili ) , nel qual luogo ogouo sente che sarebbe itolo unti proprio il due a culpa revocarti. (1) E dii mai non sente la distinzione fra il concello ili peccalo e il conci Ito di colpa lo quelle parole del Trtdctuino, Tanniti ( meni )  laceri lumen, citta ccuom postimi ( Sess. XIV. c. V ). (2) Parte II, n. XL1T. Digitized by Google 203 la colpa di'Tneisore ). Dunque ri ha distinzione, secondo la Chiesa cattolica, Tra il concetto di peccato e quello di colpa. L anonimo tuttavia corre allo schermo ; e confessando che in quel lesto  pare restringersi il significalo della voce colpa > (r), soggiunge per francamente cosi :  Ma pare, senza che per veramente si restringa  ; e pprch? adiamo attentamente il suo argomento :  perch nllrove nettamente  scritto : Primorum parentum nostro   rum peccato factum est, ut . . . ; e qui fuor di dubbio vale la parola peccato quello  che sopra fu detto colpa  ( 2 ). Il quale argomento potrebbe ricevere questa forma : in un luogo il Catechismo distingue la rolpa dal peccato - , ma io nn altro luogo usa peccalo in luogo di colpa : dunque n pure nel primo luogo non distingue questi due concetti! non  bella e calzante questa mauiera dargomentare? Almeno non duvea vedere lanonimo nostro, che il dirsi  pel peccalo de nostri primi parenti avvenne che ecc. ,  una frase assai propria anche supposta la distinzione del peccato e della colpa? Conriossiach, dicendosi peccato, si dice azione reale peccaminosa che  il subbietto della colpa, quando la colpa  una relazione di quellazione col principio li- bero; e per questa non importava ponto di menzionarsi, venendo intesa da s, do- po essersi menzionato il suo subbietto ( il peccato ). Sicch quel secondo luogo del Catechismo recato dall'anonimo non dimostra mancar n pur esso della distinzione fra il concetto di peccato e quello di colpa ; come dal dirsi, che  da un fatto com- messo contro la legge avvenne la rovina di quella famiglia >; non si potrebbe inferire che chi parla in tal modo intese di distruggere la distinzione che passa fra il concetto d  nn fatto semplicemente contro La legge > ; e di  un fatto contra la legge com- messo con libera volont.  VII. Ma dove 1 anorvmo si tiene pi ricco, e pi sfoggia e pompeggia, si  in quella moltitudine di testi che arreca di s. Tommaso, autore eh io ben dimostro, egli dice, di non aver letto {3). Ed io non ricuso, come gi dissi, d' aver i tqsti di s. Tomma- so, com ebbi gli altri, per limosina da lui stesso, solamente che, prima di lotto, egli  necessario, che io metta bene allo scoperto il capo e la radice di tutta questa con- troversia. Perocch sarebbe un ingannarsi a partito, il credere che di altro non si pia- tisse fra noi, che di sapere se vi abbia distinzione fra il concetto di peccalo e quello di colpa, come letimologia delle parole in tutte le lingue dimostra; ma la que- stione ha piu alto ed importante scopo ; e per dirlo chiaro chiaro, e fuori di lotte quelle sottigliezze vanissime di parole, le quali non giungono in tempo al d d'oggi per simulare la verit o per dissimulare l errore, trattasi deli esistenza del peccato (1) N. 25. (2) l'i. (3) N. 16.  In altro luogo, quasi a conclusione e trionfo detta sfoggiata sua erudizione, pone questo argomento, chegli crede cornuto, c Chiunque apro gli occhi un non niente, facil- c mente ragioner cos: o egli ( il Kosmini ) ha inteso la dottrina di s. Tommaso, o no. Se arve in sulle scene il primo col Gnlo nome d Eusebio Cristiano, vanno cosi daccordo, che si cre- derebbero non due, ma uno stesso? perocch anche Eusebio Cristiano diceva non elio vi sia veramente e semplicemente neUuomo il peccato originale, ma che  il nascer chetiun he nasce uyrcciQUE proprio u (3t. Il Catechismo poi dello stesso sacro Concilio insegna, che il peccato originale non fu contralto per colpa nostra propria, ma pel vizio d'origine : taplmi pr- prius ejjeetus est peccatorum omnium si f orici nis Fino , sifb xostra evi * pa coy tracia si st t , remissio ( 4 ) (1) Lo definizione che io soglio usare del peccato in genere, m *rtp dallanima, ti  questa t una declinazione ( attuale o abituale ) della volont personale dalla legge eterna. Vedi la ima Disposta al jlnlo Eusebio, Quest. V. Quella declinazione  oggetto dell odio di Dio ; onde Id- dio non pu comunicarsi all anima come vita soprannaturale di lei, per questo impedimento che in lei ritrova sicch I anima  io uno stato di opposizione a Dio, che la rende morta* (2) Lo stesso Suarez ( Ioni. IV De vitiis atque peccati s, Disp. IX, sect. II) sostiene la tesi che il peccato originale est vere et proprie peccatum, e dee che ci vlefur de ri db, ex bis , qua e in prima sedi (ine dieta sunti  nam si improprie exponantur , solum conc/udetur in no- bis esse poena /recati, cum tamen Tridentinum supra tolli dorsi per Baptismum id quod pro- prie et vere peccatum est. Conjirmatur , quia nihil est mors animae , nec conslituit hominem inimicum Deo , et odio dignum , nisi vercm peccatvm, e conferma la stessa tesi cidi autorit di sant* Agostino, De peccatorum mentis, II, XXXIV, e eontra Ju/ianum , III saepc. Appresso poi, dopo riferita la sentenza di quei teologi , che sostengono non potersi , salva la fede, dila- niar P originale, peccatum aequivoce: aliis vero videlur hoc esse con tri fidem quia si ho* est vmvocc peccatum , MQiE stMPLictTF.R erit tal*,* soggiunge ancora: existimo rationsm peccati huhuuahs univoca reperir * in originali et personali, (3) Se*. V, can.,2. (4) Pane II, XLIV. Digitized by Google 207 Secondo il Coocilio di Trento adunque il peccato originale  nostro proprio ; secondo il Catechismo Romano la colpa originale non  nostra propria. i nostri teologi sostengono che colpa e peccalo significano perfettamente il me- . desimo. Dunque, ^  Secondo il Concilio di Trento l'originale  peccalo ossia colpa nostra propria, cio di ciascun che nasce ; Secondo il Catechismo del Concilio di Trento loriginale non  colpa ossia pec- cato nostro proprio, cio di ciascun che nasce. 11 Concilio dt Trento adunque e il suo Catechismo, al parer de nostri teologi, so- no fra loro in apertissima contraddizione. Mi duole veramente che tal sia per essi , ma non sar mai tale la cosa per DO ; che noi continuando a distinguere con s. Tommaso fra colpa e peccato, nessuna contraddizione concederemo che passi fra quelle due venerabili autorit ; ma diremo francamente col Concilio, che nostro proprio  il peccato, e diremo pure francamen- te col suo Catechismo, che quel peccato non ci venne per colpa nostra, ma per vizio d'origine, senza timore di contraddirci, sicch quel peccato nostro proprio  colpa della vulonl libera di chi lo commise a noi solo imputata, come s'imputa l' omicidio alla mano non per prius, ma per postcrius, se vogliamo servirci d' unespressione opportunamente usala a questo proposito dall'Aquiuate (i). IX. E pure il nostro anonimo pretende che l'Aquinate sia dalla sua! Pretende che qudla mente chiarissima confonda, com'egli confonde, le nozioni di peccalo e di col- pa; e che quindi sia contrario all'un de' due, o al Concilio di Trento, o al suo Ca- techismo. Non  egli degno che noi reggiamo come questo occulto teologo conduca una s mirabile dimostrazione? Vegliando insto. Da prima egli arreca quelle parole dell'Angelico, che originale ( pcccatum) est volar, tarium volitatale alterius : unde deficit ex parte illa , Ex qua peccate U babet ratio, y bi culpae ( 2 ); nelle quali parole lAngelico si dimostra pienamen- te d'accordo col Catechismo del sacro Coocilio di Trento, che dice il peccalo d'ori- gine contratto originis vio, e non nostra culpa, onde avviene appunto che quel peccato de/cial ex parte illa, ex qua peccalum habet rationem culpae. Fin qui a ma- raviglia. Ma resta a sapere se la macchia che da noi si contrae per colpa non nostra ma altrui, sia altres, giusta l' Angelico, peccato altrui e non nostro proprio ; nel qual cago veramente lAngelico darebbe torto al sacro Concilio di Trento. Il nostro ano- nimo sostiene appunto che .  Ma il libero volere disordinato era nel solo Adamo, e in nessun altro de'suoi discendenti prima dellet della discrezione . Dunque nel solo Adamo vi  si il peccato che la colpa ; e in nessuno de'suoi di- scendenti ( prima dell'et della discrezione ) vi  n il peccalo n la colpa  : quoti trai dcmonttramlum (i). \ questo sistema il nostro anonimo vuol far servire la dottrina di s. Tommaso! Santissimo mio dottore, sarete voi contento d' un tanto interprete? X. Prima per che noi esponiamo il sotlil magisterio dtina s sicura teologica inter- pretazione dellAquinate, convicn che facciamo unosservazione. Voi prendete, o signor anonimo, a dimostrare che i quanto ad un atto manca  in ragion di colpa, altrettanto mancagli in ragion di peccato ( 2 ) . Ma non  egli vero che cosi promettendo di fare, venite a confessar voi stesso che la ragione di col- pa,  distinta dalla ragion di peccalo? Sia pure, per poco, supposto vero, che  quan- to ad un alto manca in ragion di colpa, altrettanto gli manchi in ragion di pecca- lo . G clic perci? Non potrebbero essere tuttavia due nozioni, due concetti distinti quelli di colpa e di peccalo? Vedete voi, mio caro, che quand'anco vi riuscisse per- fettamente di provare quel vostro paradosso, non avreste per ancora provato, che identico sia il concetto di peccato e quello di colpa; ma solo che questi due concetti sono ricevuti negli alti umani daccordo, e van sempre appaiati, e crescono e calano colla stessa legge? vedete adunque, fin a qual segno voi venite confondendo ogni co- sa ; e quant avete bisogno di dare un po' pi di tempo alle vostre idee, acciocch elle sassestino e si distinguano nel vostro capo; senza ricorrer s tosto alla penna, la qua- le non pu altro esprimere e dimostrare che la vostra passione e la vostra confusione? E come mai osate voi di mettere in bocca a s. Tommaso d Aquino il discorso insen- sato che gli mettete, l dove dite:  Quasi dicesse (s. Tommaso), Egli  vero che  alla marchia dorigine compete (3) la ragione di colpa ; ma  altres vero, che an-  che la ragione di peccato non le compete se non in un senso imminulo , c come di-  cono quaaamtenus  (4)- Se la parola colpa e la parola peccato suonano perfettamente il medesimo, se- condo voi, voi dunque fate parlare lAngelico in questo modo. 1 Egli  vero che alla (1) La distruzione del dogma del peccato originale, coperta sodo fra! teologiche, ecco dove finisce, come dicevo, se io nulla veggo, la maniera di ragionare denostri teologi collrgsli. fon- lare, che si presenta colle iniziati C. B. P., prendendo ad esporre il sentimento del 6nto Ensebiu, di coi si (a campione, dice elle  conforme al Concilio di Trento ; t. XXXV, q. I, a. 11, ad 11, ' ( 5 ) II. Dui. XXXV, q. 1 , a. ut, 0. () II. Disi XXXV. q. I, a. ni, 0. Digitized by Google 211 no la cosa stessa. Il sao discorso, in una parola, riuscirebbe a onesta intollerabile sconciatura : peccalum originale sicut raiionem peccali habet ex hoc quod colunta- riun est non quidem volunlale propria, sed volunlale alterine ; ila elioni raiionem peccati I, label ex hoc quod per aclum altcrius inductum est , c la stessa tautologia ne uscirebbe, se in vece ai ripetere la voce peccato, avesse ripetutane! testo la voce col- pa, pretesa sua sinoniraa. L' anonimo adunque, vacillandogli la memoria, perdette di vista anche qni la primitiva questione. Tratlavnsi di sapere se il concetto di colpa e quel di peccato sieno o no distinti; ed egli in quella vece s affatic a provare che  la macchia dorigine tanto  peccato ( quanto  colpa . Ma per provare questo suo nuovo assunto, egli mi regal dei testi bellissimi di s. Tommaso, nequali il santo Dottore annunzia, nel modo il pi chiaro ed irrepugnabile, la distinzione sua prediletta Tra i due concetti di colpa e di peccato! Grazie della suppellettile, di cui egli mi fornisce tutto al bisogno si larga- mente ! XIII.  Che so pur vogliamo, uscendo anche noi un poco di via, accompagnarci all A- nonirno nel suo traviamento, e., lasciando da parlo la questione se colpa e peccato sia il medesimo quant al concetto, entrare a vedere se i testi addotti dell Angelico, provino veramente che  la macchia d origine tanto  peccato quanto  colpa ; n  meglio e pi pienamente le si adatta la ragione di peccato che quella di colpa % (i); da prima egli non  guari difficile a scorgere, che, dove il Santo dice, Peccatimi originale sicut raiionem culpac habet ex hoc, quod coluntarium est non quidem co- luntatc propria , sed colluttate altcrius-, ita ctiam raiionem peccati habet ex hoc quod per actu M altcrius inductum est; egli intende dire che il peccalo originale ha ragio- ne di peccalo, in quel senso che compete al peccato d essere un allo, ex hoc quod per actvm alti: Ri US inductum est. Lo considera dunque in quant attuale , di at- tuai commissione, c in quanto dall attuale come da stia causa dipende; cnon in qnan- l meramente abituale , come si sta nc' posteri, In cui essenza e di essere la morte dell' anima' di questi, sotto il quale espello lo consideriamo noi. E che tale sia la mento del santo, scorgesi dalle premesse le qnali riguardano solo il peccalo attuale. Perocch quivi egli parte dal principio, che peccalum non di- citur imicoce de omnibus generibus pcccatorum sed per prius dk peccato actu ali uortAlt (2). Secondo il qual princpio, il peccalo abituale cheriman sullanima do- ( 1 ) N. 14. {%) II. Disi. XXXV, q. I, a. 11 , ad ir.  Ecco pi ampiamente spiegato come l 'attualit con- venuo al peccalo seco mio s. Tommaso: Mattini per se loquendo privatio ijuaedam est a/icufue boni bonum autem in perfezione et actu consistili linde oportet secundum distinctionem per - (tei tont n, distinctionem molar um esse. Est Mnicm duplex actus tei perfectio , salteri actus primus et aclui steundus, /ictus primus est ipsa prima forma , actus secundus est operatio : et ideo ex privatione ulriusque perfectionis diversae mali dijfetenliae consurgunt. Si enim pri- velur ali gua forma vel perfectio alicnius rei naturali s, dicctur esse malum naturac ; si autem pnvetur perfectio operationis , dicetur esse peccatum : quia ut in 11, Phtjs. (tcrt. S2) di citur y peccalum est in ie, quac nata suni finem consegui , cum non consequuntur. Quatti fai autem res per suam operalionem Jinem suum nata est consegui : unde oportet quod peccalum in ope- rai ione consistati secundum guod non est dtrccta ut finis exigil ; sccundum quod grammatteus non reele scribi t, nec parai recte mediate potionem (II. Disi. XXXV, q. I, a. 1 , o). Malum communius est (quam peccatum) : in quocumque enim sivc in tuffetto, sire in actu sii privatio format aut ordiate , aut ms ruura e dtbilae mali raiionem habet. Sed pecca - tuoi dici tur aliguie actus debito ordine aut forma eive. meneura carene : unde potei! dici , guod tibia curva sii mala tibia ; non tamen potest dici, quod sii peccatum ; nisi fotte eo modo lo - quindi, quo peccatum dicitur ejfeclue peccati ; sed ipsa claudicano peccatum dicilur (Qua est. Uiaipni. de Male, q. II, a. 11, 0),  Vedesi come tulio questo discorso sia volto a deliuro il pec* Digitized by Google 212 po commesso Fattuale mortale,  peccato per posterius, e induetum est per actum peccati praecedentis. Ma la questione nostra non consiste nel paragonare il peccato abituale , all 'attuale, e nel sapere se quello sia stato indotto da questo; di che non i'ha dubbio (i). N pure trattasi di sapere se l 'abituale possa dirsi peccato in quel senso n pi n meno deW attuale. La questione sta solo in sapere, se l abituale  in s stesso vero peccato, o no; se  un mal presente che infetta I anima, se  la morte dell anima; ovvero se non  altro che una relazione al peccato attuale precedente, senza che sia nulla in s, nulla di per s male. Il luogo adunque di s. Tommaso volto unicamente a paragonare il peccato abituale (e l'originale per conseguente) collat- tuale,  addotto dall'Anonimo del tutto indarno a provare che la macchia originale non  peccato se non sccundum quid, come non  colpa se non del pari secundum quid: il che quando vero fosse, potrebbesi simpliciler negare e il peccato e la colpa originale ne posteri, cio dire un'eresia. XIV. Panni per di udir qui l'Anonimo replicare cosi, in altre parole argomentando:  Fatta astrazione dalla libera volont del primo uomo prevaricatore e contaminatore di tutta l umana stirpe, non  pi concepibile il peccato originale. Quello che la men- te concepir in tale ipotesi immaginaria , dovr essere altra cosa diversa dal peccalo originale, essendo questo il fallo del primo nomo, in quo omnes peccaverunt, trasfu- so in tutti i suoi posteri. Concepire il peccato originale senza relazione al primo uo- mo che lo commise,  un concepire ci che non  il peccato originale,  un voler con- cepire una cosa senza concepirne i costitutivi . Ottimamente, e chi potrebbe negarlo? Ma io vi rispondo: Voi parlate, fratclmio d'astrazioni; ed egli pare tuttavia, che non siate troppo bene informato della natura dell' astrazione. Perocch se conosceste a sufficienza I' iudole di questa operazione della mente, che astrazione si chiama, voi sapreste pure che ella si adopera in due maniere diverse; nell' una delle quali si fa appunto l'ipotesi, che non ci sia la cosa da cui si astrae, e allora si considera, quali conseguenze avverrebbero dalla rimozio- ne ipotetica di quella cosa; nell altra maniera poi, non si fa mica l'ipotesi che non ci s j a la cosa da cui si astrae, anzi la si lascia essere tutta intera ma solamente non la si considera punto, e si considerano l'altrecose, che si rimangono per con essa unite. Cosi a ragion d'esempio, quando in Fisiologia parlasi del sistema vascolare, si astrae dal sistema nervoso; ma non crediate mica perci che si faccia l'ipotesi che il si- stema nervoso non esista, nel qual caso non poirebbe esistere n manco il sistema va- scolare di cui si parla. Veniamo a noi. Se si usasse il primo modo d'astrazione rispetto a) peccato di Adamo, cio se si facesse l'ipotesi immaginaria, come voi falsamente credete, che quel peccato non fosse stalo, in tal caso certo si distruggerebbe il peccato anche ne' posteri, e di pi, s' incorrerebbe nella sentenza condannata in Baio, P.cccalum originis acre ha- calo attuale: l'abituate poi & la conseguensa e la continuazione dell' attuale in quanto Dina atto cessa interamente nell'anima per modo die a questa non resti qualche nuova maniera, o grado di attualit, come io bo, in altre opere, dimostralo. (i) Sotto questo aspetto pot dire anche s. Cipriano, ebe al bambino, mediante il battesimo remilluntur non Morata ted slicka peccata ( Ep. L V 1 1 1 ) . li peccalo del bambino non  suo pro- prio, ma altrui, se si considera l  attualit del peccalo, ossia la causa e l autore di esso peccato.  nel vero, il santo Martire area gi poco innanzi espresso chiaramente il suo pensiero, dicendo che recene nalut nikil Picca vit, il che  quanto dire: non ebbe commesso ncssnn (leccalo attuale. Se dunque si parla di peccalo attuale, il bambino non ba peccalo proprio, ma se si parla di pec- cato abituale, il bambino ba nell anima sua un peccalo suo proprio, come dice il Concilio di Trento. Digitized by Google 213 bct rationcm peccati sine ulla catione ac rcspcctu ad voluntatcm a qua originer im- buii ( i ). Ma usandosi all incontro da noi 1  astrazione dal peccato di Adamo nel secondo modo solamente, cio, non gi facendosi l' ipotesi immaginaria, come voi dite, che Adamo non abbia peccato, ma solo astraendo dallatto dAdamo per considerare il peccato che sta ne posteri, senza per questo divider da quello; non solo non ne av- vien l assurdo che voi temete, cio, che i si voglia concepire una cosa senza conce- pirne  costitutivi  ; ma si fa una distinzione del tutto logica e necessaria, e fattasi sempre da santa Chiesa e da' teologi tutti- G non dite voi stesso che il, fallo del primo uomo fu trasfuso ne' posteri? Se fu trasfuso ne* posteri, dunque egli o  ne posteri, dunque ne posteri gi trasfuso si pu considerare come egli'ci sta, astrazion fatta dal- la sua origiue. E non dice il sacrosanto Concilio che origine unum est? e eco qua che lo considera nella sua origine, astrazion fatta da' posteri, e che propagationc non imitalionc transfusum omnibus , mesi unicuique proprium (2), ecco qua che lo consi- dera ne posteri; astrazion fatta dalla sua origine, \olele vederne la differenza? Oliai  il peccato originale considerato nella sua origine? Un solo di numero, dice il Con- cilio, origine unum, un peccato attuale, un peccato di commissione. Ma qoal  egli ne posteri? transfusum omnibus, unicuique proprium : non pi uno adunque numeri- camente, ma molli quanti sono gli uomini, perocch  proprio di ciascheduno, non  un peccalo solo comune a tulli. Ecco come sia necessario astrarre dalla sua origine, nella quale  uno, per considerarlo ne' posteri, nequali cessa di essere numericamen- te uno e diventa tanti, quanti sono gli uomini, perch est proprium unicuique. XV. A convincervi poi esser cosa comune appresso i teologi il distinguere il peccato originale, come si sta ora ne posteri, dal peccato originale come gi fu in Adamo, c ad accertarvi che si pu parlar di quello, fatta astrazioue da questo, voi non avete filtro a fare, che aprire i libri de teologi stessi. Ma dandomi voi occasione di parlare di una tale necessarissima distinzione, io me ne varr qui per dimostrarvi, come i ra- gionamenti che ci fanno intorno i pi solenni maestri in divinit suppongono sempre la distinzione del concetto di peccato da quella di colpa, il che far io piu brevemen- te che per me si possa. Primieramente piacemi di porre sott' occhio al lettore nn brano dello Suarez clic dice : Licci peceatum non Juissct remissum Adac, poluissct Jihis renditi  quia pec- catimi originale, quoti fi lius Adae contralti t est nuaiero disttnctvm a peccato qvod PF.nsONAE adae iNttAESTT, et ideo talli potcst, pel impedir sinc ilio (3). Dalla quale sentenza impariamo 1.* che il peccalo clic sta in ciascheduno che nasce,  numericamente distinto dal peccato personale di Adamo; 2. che essendo numerica- mente distinto, si pu parlar benissimo di esso, considerandolo in s medesimo, senza bisogno di far entrare nel discorso punto n poco la relazione eoi primo uomo che lo commise, giacch il non farcela entrare non  un distruggerla, u un negarla. Ora egli  chiaro, che la colpa del peccato originale dee ripetersi dalla prevaricazione personale di Adamo, che fu un peccato mortale, quoti est piena et consumatala culpa ( come dice sant Alfonso del peccalo mortale dopo un altro teologo ( 4 ) ). Dunque p- Icmlosi astrarre dalla prevaricazione personale di Adamo lino ad imaginare, clic, non essendo quella rimessa, pure si rimettesse c togliesse il peccalo de posteri ; ovvero, (1) IV. XLVI1 delle condannate da s. Pio. V.  Vedi la mia Risposta al finto Eusebio, a. X, (2) Sosa. V, can. 3. (3) Mysleria cline C/tristi, in quacst. XXVII, a. 1 , (4) Tiicol. M. 1. V, Traci, de peccai, e. 1, dub. 1, n. 5, Digitized by Google 214 per lo contrario, che essendo quella rimessa, pure il peccato de posteri rimanesse privo di remissione, coni anco avviene; egli  chiaro che ad ognuno  lecito di consi- derare questo peccato ne' soli posteri, e che, cosi astrattamente considerandolo, egli non pu avere ragioDe di colpa, ma di peccato bens. Ancor meglio si vede che la cosa sta appunto cos, quando sascolta 1 Angelico favellante in questo modo: Si ergo con wlcretur iste defectds hoc modo per origi- nem in islum hominem dcrivatus secondi il liuto QVOD iste homo est quaedau PERSONA SINGULARIS, sic hujusmodi DEFF.CTVS non potest habcrc rationkm Culpa e , ad cujus rationem requiritur quod sii volontaria (i). Voi vedete qui 8. Tommaso i.* considerare il diletto originale esclusivamente, come si sta ne' po- steri, sccundwn illud quod iste homo est quaedam persona singularis ; dunque pu farsi benissimo per virt dastrazione, e senza sconcio veruno : 2 . chiamare il pec- cato cosi consideralo dcfectus, e voi certamente non vorrete negare, se siete ragio- nevole che questo sia un difetto morale , e per un peccato non attuale, ma abituale ; 3. e tuttavia negare il santo a questo difetto morale , a questo peccato abituale, cosi diviso dalla prevaricazione adamitica, la ragione di colpa, non potest habcrc ratio- nem culpac. Che se voi replicaste, che tuttavia questo difetto morale ereditato dal bambin che nasce, non essendo colpa, non dovrebbe avere nessuna pena, ma che tutta la pena viene al bambino per la sola libera prevaricazione di Adamo, poich questa gola  vera colpa ; io vi accordo che niente ha il concetto di vera colpa se Con la prevaricazione personale e libera di Adamo, vi accordo che quella fu la prima origine di tutti i mali ereditati dalla sua stirpe; ma non vi accordo, che quella sola colpa di Adamo bastasse a rovesciare in soi posteri le pene, se, oltre quella colpa, non vi fosse altres in questi un peccato , che, bench non sia colpa in s stesso,  per colpa in causa; e che sia que- sta la mente del Dottor angelico, voi lo vedrete assai chiaro, se considererete le seguen- ti parole, che sono sue: nima hujus pueri, quod sine baplismo deccdit, non pnnilur carenila visionis dicinac propter peccate i adae, sf.cundch quod fui t perso- nale peccAtum ejus (e in quanto fu a lui personale, in lauto fu altresi colpa ): sul punilnr pr infect/one ortginalis culpAE, quinti incurrit ex unione ad corpus, quod a primo parente Iraducitur sccundum scminalem rationem. E odasene la ragione : lnjuslum cium essel, ut dcrivarctur rcalus pocnac nisi et derivare tur infe- etio culpac. linde Apuslolns, l ioni . V. pracmillit derivationem culpac dcrirationi pocnac dicens: i Per unum hominem pcecatnm in /lune mundum intrarit et per pec-  catum mors ( 2 ), Se dunque la (iena, che viene sopra al figliuolo di Adamo in conse- guenza del peccato del padre suo non gli  data pel peccato personale di questo, ma per linfezione dell' originai colpa che egli ha in s; dunque questa infezione si pu ben considerare senza bisogno di riferirla al peccato personale e colpevol d Adamo, bastando a questo riferirla sol quando si tratta di spiegarne l'origine, la derivazione dal primo stipite, o anco la ragione onde si d acconciamente a quella iufezion deri- vata il concetto c il nome di colpn. E nel vero, chi  egli mai il suhbictto di quel peccato, pel quale il figliuolo di Adamo perisce ? forse Adamo? Non Adamo certamente, ma il suo stesso figliuolo. Adamo  il subbieUo del proprio peccato, e il suo figliuolo  pure il subbietto del pec- (1) De Sfato, Q. IV, a. 1 . (2; Ve Sialo, er la quale viene posto in essere il peccato nell* individuo, nel tempo stesso che vie- ne posta in essere in lui 1 umana natura ( 2 ) ; laonde 8. Tommaso alce che In carne produce il peccato pi tosto nell' alto in cui si unisce all' anima, che dopo eh' ella e gi unita. Peccalum originale, cosi egli, per se loijuendo est pcccalum nalurac, non personae, nisi rottone naturae infeclac. Aclus autem generattonis proprie de- li) Vedi s. Tom., S. XXIX, 1 , ad 4. Secundvtn Phiotophum in V blttaph. ( lev. 5) Bo- ne naturae pnmuin impositmm est ait tignijicandum generatianem viveri t tu m , guae dicitur a- t trita*. Et quia hujusmodi generano est a principio intrinseco , extcnsum est hoc nomea ad signtficandum principitela intrmsecum cvjuscumque molus. Et sic d'Jfinilur natura in II Pht- sicorum (lei. 3 ). (2) Caro non est sujftciens causa peccali actualis, sed peccati abituati s est suffiriens cau- ta: sicut et traducilo carmi est sujftciens causa, maleriiililer tamen , humanae naturae (S. Tlii.in. 3 . Ile Nato , IV, i, ad 3 ). E nella risposi a ad 15, diceche la carne  la causa istrumenlate et peccalo originale nei poalcri. Rosami Voi. XII.  453 Digitized by Google S18 servii nalurac, quia ordinatnr ad gencrationcm spccici. Scd carncm jam esse ani- irui e unitimi pertinet ad costitulionern pcrsonac. Et ideo caro MAcrs cacsat ori- ginale peccatesi pr ut consideralur ry via generationis, quam pr ut est jam unita (i). Se dunque per peccato della natura s inlende un peccalo che si comunica per via di generazione, non pu dirsi che prima che la generazione sia compila e per l individuo dell umana specie formato, possa esser formalo il suo peccalo : no certa- mente: il peccalo di chi nasce non esiste prima che chi nasce sia posto come indivi- duo dell umana specie; ma sol toslo che l'individuo  formalo: prima non esiste che In causa prossima di quel peccalo nell atlivil. o nell allo generativo ; e la causa di quel peccalo non  peccalo. Laonde, il peccalo finalmente non esiste mai altrove che negl individui dell'umana specie, bench questi dalla natura, cio dalla genera- zione, lo ricevano come da causa della loro esistenza. Pu dedursi chiaramente da lutto ci, che il peccato originale d' un nomo  se- paralo di nnmero dal peccato originale dini altro uomo, quanto un individuo  se- parato dall' altro individuo. Laonde che mai vieta, chesi parli di tal peccalo astra- zione fatta dal peccato di un allr' uomo qualsiasi, foss egli Adamo medesimo? E qui s' osservi l obbiezione che si fa I Angelico. Come pu esser peccato, dice quello che si riceve da un altro? Nihil t/uod conlrahitur per originem ex alio , habet rationem peccati: scd sotum rationem pocnae. A cui egli risponde con queste pari - le: Defectus per originem contraclus habet gnidem ralioncm existentis ab alio, si re/cratur ad personam : yoy avtem si rejeratur ad nat urani, sic enim est (scasi A PRiyciPio intrinseco ( 2 ). Il che viene" a dire: il peccato originale  da noi ri- cevuto dal di fuori, se si guarda la nostra persona clic noi commise, e sotto questo aspetto habet ralioncm cxistcntis ab alio : ma non cosi se si guarda la nostra natura, la quale lo produsse comunicandola alla persona; perocch la natura umana  in noi Stessi,  un principio a noi intrinseco; e per l'agente che mette in essere questo pec- calo, se ben si considera,  pure in noi ; e cosi habet rationem non cxistcntis ab alio , e ancora habet rationem peccati; conciossiach questa ragion di peccato non pu av- verarsi, se si tratta di cosa solo da altri ricevuta, giacch Nihil qitod conlrahitur per originem ex alio, habet rationem peccati. Ad essere adunque l'originai vizio nn pec- cato, comegli , conviensi che, oltre lessere ricevuto da altri, sia ancora prossima- mente prodotto e formato da un principio a noi intrinseco; acciocch cosi ed egli pos- sa esser peccato, e possa esser nostro proprio peccato; il qual principio intrinseco  la carne Dostra, la natura nostra, che infidi personam nostrani (.f). XVI. Tutte (jueste verit si trovano ne' p :  antichi testimoni della tradizione, da quali le raccolse l'Angelico; e tutte queste verit dimostrano chiaramente quanto sia falso, he il peccato originale ne posteri non abbia rationem existentis per se, co- me il nostro Anonimo pretenderebbe. Quello che  vero solamente si , che la colpa di questo peccato si riferisce al peccato attuale del primo padre che lo commise. Ma questo  ugualmente il carattere comune di tulli i peccati abituali ciu di tutti quei peccali, che rimangono nell'anima d una persona qual effetto di un suo peccalo at- tuale. E chi non sa, che cogli abili non si merita n si demerita, come dicono i teo- logi. Habilibus homo non mcrctur ncc demeretur? Laonde tutta la colpa d' un pecca- to abituale, che 1' uomo non pu da s scancellare, ma la sola grazia divina ( dalla (1) De Malo, q. IV, a. i, ad 7 . (2) De Malo, q. IV, a. 1 ad 5. (Jj h homint qui nascilur ex Adam natura corriipit personam ( De Malo, q. IV, iv, ad 5). Digitized by Google 219 quale qui si prescinde per considerare la cosa io s stessa),  di natura u nn peccato che oou ha la culpa in s, ma nella causa. Il peccato riraaso inerente all anima di Adamo stesso dopo la sua prevaricazione, era un mero peccato , e la colpa di questo peccalo si riferiva tutta alla sua attuale prevaricai one Sicch il negare la distinzio- ne fra peccalo e colpa .  quanto un negare la distinzione fra il peccato attuale (do- ve solo sta la colpa ) e il peccalo abituale ; distinzione ammessa da tutti i teologi, e eh' io reputo cosa di fede. Ecco come sia necessaria la propriet del parlare, e la di- stinzione delle idee nelle pi sottili materie della sacra Teologia, siccome  questa che noi abbiamo alle mani ; e come a loro danno cozzano contro di essa i nostri Anonimi. E donde mai procede la ragione, per la quale non lutti gli scrittori cattolici ri- conoscono per sufficiente la maniera colla quale s. Tommaso prova, che tutti quelli che nascono sono Tatti partecipi della colpa adamitica; collesempio cio della mano che si dice partecipe della colpa dellomicida, o del collegio che viene involto nella reit c nella punizione del suo capo colpevole? lo I ho gi osservato (i):  solo per- ch s. Tommaso non intese con tali paragoni di spiegare il peccato, ma intese di spiegar solo la colpa di questo peccalo, comegli stesso dichiara. Laonde, quando egli vuole spiegare il peccalo e non la colpa , non ricorre pi a quelle similitudini, ma s bene all' infezione della carne, alla quale congiungendosi, I anima si corrom- pe, come si guasta un liquore infuso in un vaso corrotto ; modo costantemente usato dalla Chiesa per ispiegare la trasfusion del peccalo. E che la cosa stia cosi, oltre le ragioni da me gi addotte nella mia Esposizio- ne della dottrina del peccalo originale, si pu confrmare anche da altri assurdi che ne verrebbero, sostenendo il contrario. A persuadercene, soda come s. Tommaso espone quesuoi paragoni, nelle questioni De Malo ( 2 ), e risponde a capello a quan- to espose poi nella Somma: Si ergo considerelur iste defectuS hoc modo per ori- ginali in islum hominem derivatus ( ecco gi spiegala la derivazione del peccato), secondimi illud quod iste homo est quaedam persona sinqularis ; sic hujusmodi de- fcctus non potcst haberc ralionein cvlpae ( ecco ci che rimane a spiegarsi ), ad cu- jus rationem requiritur quod sii minuteria. Scd si considerelur iste homo gcneralus sicut quoddain membruta lolius hwuanae nalurac a primo parente propaqatac, ac si onuics homincs esscnt unus homo, sic habel rationem cvlpae proplcr voluntarium ejvs principium , che fu il peccato attuale, c non I' abitualb di Adamo, odasi: quod est ACTVALE peccatvu PRtMt parentis. E savverta bene, che il peccato attuale di Adamo  il peccato della persona, e non il peccato della natura, giacch il peccato che dicesi della natura  solo I' abituale ; c cos dicesi, perch rest infsso in tolti gl' individui di questa natura cime elicilo e quasi conlinuaz n di quel primo. Ora vengono le similitudini : Sicut si dicamus quod utolus manus ad homicidium per * pctrandum, sccundum quod manus per se consideratile, non Label rationem CUL- PAB: quia manus de necessitate anovetur ab alio', si aulem considerelur ut est pars lolius homiuis qui vomitiate agii, sic Label rationem cvlpae: quia sic est co- luntarius. Sicut ergo homicidium non (licilur culpa manus, seti culpa tolitis homi- nis ; ita hujusmodi defectvs ( che costituisce il peccato originale) non dicilur es- se peccatimi personale, scd pa catimi lolius nalurac : ncc ad personam pertinet mi- si im Quantum natura in pici t personam. E come 1 uomo a commettere nn peccato pu usare diverse potenze, et lumen est unum soluto percatum proplcr unita- tem principi i, scu voluntatis, a quo peccali ratio ( la ragion d un peccato colpevole): ad omnes aetus partitila dcrivatur: ita et rationc principii in tota natura humana con- sideratile quasi unum peccatum originale proplcr quod Jpostolus dicit Rom.E (1) /imposta al finto Eusebio, XI. fi) y. IV. a. t. Digitized by Google  :>0 In quo omnes pccrauerunt. Quoti secundum Auguslinum (i) palesi intclligi: in quo, scilicet primo iomine, rei in quo peccalo primi homtnis : ut peccatimi primi ho- minis sii quasi communi: piccai vm omnium ( 2 ). Or come nidi il Dottore dice qui che il peccato originale est quasi unum peccalum , cio  il peccato stesso del princi- pio dell' umana stirpe resosi quasi comune peccalum omnium ? S. Tommaso dice che  un sol peccato comune a tutti gli nomini : il Concilio di Trento dire all' opposto che  un peccalo non comune, ma proprio di ciascun uomo che nasce. Vorremo noi met- tere in contraddizione s. Tommaso col Concilio di Trento, che mostr si gran reve- renza al Dottore angelico? Cosi avverrebbe inevitabilmente, qualora si ricusasse di rico- noscere che il peccato originale ha due aspetti, sotto i quali esso si pu considerare, P aspetto di puro peccato e l' aspetto di colpa. Ora egli  certo, che nel peccato ori- ginale non intervenne che una sola colpa, la colpa di Adamo, la colpa propria del peccato attuale e personale commesso dal primo padre colla sua volont. La colpa adunque  unica ; ma questa colpa unica viene partecipata da latti i membri dell' u* ninna natura, e loro imputata come alle mani s imputa la colpa dell'omicida; onde sotto questo aspetto quell unica colpa diviene colpa comune di tulli, e tolti la parte- cipano cosi in comune, eh - ella per non diventa numero plures , venendo cos appli- cata a tutti sol dal di fuori; quando all' incontro il Concilio dice, che il peccalo  den- tro in ciascheduno, ed a ciascheduno  proprio, inest , unicuiqce proprivm (3). Si consideri dunque il peccalo originale non pi sotto 1 aspetto di colpa, nel qual caso conviene riferirlo all unica colpa del peccato da Adamo liberamente com- messo, e non pu esser che comune; ma lo si consideri gotto 1 altro sno aspetto di puro peccato, o sia di difetto morale; lo si consideri non nella soa relazione all uni- co peccato attuale, ma nella sua qualit e natura di peccato abituale, come  ne po- steri ; e incontanente si vedr che questo difetto non  unico, n comune a tutti, n esterno ; ma  molteplice quanto sono molteplici gli uomini, ed  a ciascuno interno, ed a ciascuno proprio, e conviene solo nella medesima specie, come lo stesso s. Tom- maso insegna in tanti luoghi. Ecco Tonica maniera di conciliare s. Tommaso col Con- cilio di Trento ; anzi pure con s medesimo. Nel che giover osservare di pi, che Tessere una cosa comune viene dall es- ser ella ideale. Ma se ella  una realit, e come tale la si considera, ripugna che sia conumc ; conciossiach, niente di ci che  reale  comune ; ma  sempre proprio. Cos, a ragion d' esempio, questa carne e queste ossa reali, che sono di un uomo, non possono appartenere, ossia esser comuni ad altri uomini. All' incontro, se io non Considero queste carni e queste ossa reali, ma considero le carni e le ossa astrat- tamente prese, ossia idealmente ; allora posso dire benissimo, che il concetto di carni e di ossa  comune a molte carni 6 a molle ossa reali ; perocch, con quel solo con- cetto tutte queste carni e queste ossa io egualmente conosco. Dicasi il medesimo del peccato originale, e si vedr tosto eh egli pu esser comune sotto T aspetto di colpa imputala, ma non mai sotto I aspetto  la nozion di peccato. E in Vero, un guasto reale nella superiore volool d un uomo ( questa  la nozione di peccalo ), non pu esser comune, ma solo proprio ; perocch il guasto della volont d'nn uomo non pu appartenere mai al guasto della volont di altri uomini ; allo stesso modo come la volont reale d nn nomo non , e non pu essere una volont comune agli altri uo- mini. Del pari.il peccalo attuale di Adamo, essendo una reale prevaricazione, appar- tiene a lui solo. Ma la colpa, essendo una relazione, come la definisce s. Tommaso, e le relazioni essendo lopera deila mente, niente vieta che di un solo peccalo si pos- sano incolpare molle persone. (1) Contro /tua P ilotai l'elagtunorum, L, IV, c. iv. (ti) De Sialo, q. IV, a, 1. (5) Culi. *. Digitized by Google 221 Oltracci, se io applico la colpabilit di quel peccato attuale agli altri uomini, che cosa io fo, so non considerare gli uomini idealmente come formanti una sola na- tura, sottoponendo poi a quella colpabilit questa natura? Ora chi non sa, chi non vede che la natura umana in quani  comune a tutti gli uomini,  ideale e non rea- le? Chi non vede che la natura reale d' un uomo non  la natura reale d un altro uomo ; e che I esser reale involge 1 esser proprio , ed esclude perci appunto l esser connine? La natura comune adunque a tulli gli uomini  un concetto della mente; quell' unico concetto con cui io conosco le molte nature reali degli uomini. A fine adunque che io possa dire che la colpa di Adamo  comune a tutti gli uomini, io debbo prima fare colta mia mente 1' astrazione della natura umana; e in ordine a questo concetto posso dire che quella colpa  colmine in quanto che qnesto concetto h comune ; ma non altramente. Allincontro, senza bisogno di astrazioni di sorta, posso io ben dire che il peccato originale  proprio di ciascheduno che nasce al mondo. Duuque il concetto di peccato si vuole grandemente distinguere da quello di colpa. XVII.  Arroge , che se non si distinguessero queste due nozioni di peccato e di colpa, rimarrebbe al tutto iresplicabile, in che modo all uomo si comunicasse il peccalo , bench la colpa sia gi rimessa ad Adamo. La colpa che dee esser li- bera non fu se non nell' attuale e personale peccato di Adamo, e alla relazione con quell attuale e personale pecrato ricorre sempre s. Tommaso, quando vuota insegnare come al peccalo originale del bambino si possa applicare il nome di colpa, ia l attuai peccato, !' unica colpa d' Adamo, fu gi rimessa alla persona d' Adamo in virt de meriti di Cristo, che avtaloraron la fede e In penitenza fatta da quel capo dell' umana stirpe. Ora , quando mai si odi , che , venen- do rimessa ad un omicida la colpa dell'omicidio, tuttavia s'imputi ancora qaella colpa alla mano che lo commise ? o se un collegio venne considerato qual reo per colpa del suo capo, chi mai ud, che, venendo assoluto il capo che commise la colpa, rimanesser tuttavia condannate lo altre persone componenti il collegio, che altra col- pa non ebbero, se non quella di essere collegialmente unite alla persona del reo? Laonde le similitudini di s. Tommaso non possoo valere, se si pretende di spiegare con esse , come si propaghi e il peccalo e la colpa quasi fossero una rosa sola ; ma valgono bens a spiegare come mentalmente ed estrinsecamente s'applichi la colpa di Adamo al peccato ereditato da suoi discendenti. Il che se avesse considerato linsigne teologo Francesco Suarez, se avesse considerato che tale appunto era 1 intenzione e la mente di s. Tommaso nellusare quelle similitudini, non avrebbe, mi pare, fatta quella censura che fece alle dette similitudini dell Angelico; censura, che  certo G iustissima, qualor si supponga che sintendesse per quelle di spiegare la derivazion ella colpa e del peccato insieme come d'una cosa soia, il che non pretese, come di- cevamo, di fare il Santo; ma che non tiene, se si pone che la propagazion del pec- cato venga in altro modo spiegata, e sol si voglia con quelle mostrare sotto quale rispetto il peccato si possa anche colpa denominare. E tuttavia le parole dello Suarez meritano di esser qui riferite e alla considerazione de' lettori raccomandate, tornando utilissime a confirmare il nostro ragionamento. Perocch cosi scrive il pio dottor di ('franata : Deficit vero sit/iilitudo, quia  - in ilio exemplo peccalum membri et ea- pitis unum Omni no est : Aie autem ( cio nel fatto del pecoato originale ) in sin- ai'Lis membris pecoata sunt singula et di ST/NCTA ; et peccatimi solum est unum propaga t/one et origine : Aie etiamfit , ut peccalum membri tantum di- catnr peccalum denominatione extrinseca : al vero peccalum originale, li- cei non sino ordine ad exlrinsecam coluntalem sii peccalum, in se tamen in- TftiNSECE est pec'Atuu quia non est per modum actus sed per modum habitus Digitized by Google 222 et in suhjeclo opto (i). Nella quali parole chiaramente s'insegna, i. che non busta die il peccalo originale si dica peccalo per una denominazione estrinseca , riferen- dolo alla colpa liliale di Adamo, il che  appunto ci che forma la sua nozione di eoljia, illustrata colle similitudini dallAngelico: 2 . che di pi, il peccato originale in ciascun che nasce dee essere anche in se inirinsece peccatmn, il che  ci appunto che forma la nozione di peccalo : 3. che non basta che il peccato si consideri come imo, ori '/ine et propagatone, in quanto una sola colpa intervenne, che fu il peccato uilualc del primo padre, come una sola colpa interviene nell omicida o nel capo del collegio di san Tommaso : 4- che oltre a ci il peccalo originale si dee considerare co- me molteplice, ossia, die  il medesimo, si dee considerare sotto la ragion di peccato, essendo in singu/is mcm'tris peccata singola et distincta D\ che, come si potr riGu- tare q icllo che noi diciamo, cio che si pu e che si dee parlare del peccato originale come si sta ne posteri, nella sua ragion di percalo,astrazion folla dalla colpa adamitica, bench a qtista s'attenga licei non site ordine ad extrinsecam volunlatem ? Tanto pi che allor solo pu rispondersi alla di file dl sposta di sopra, come noi possiamo con- trarre il peccato, quando ad Adamo  gi la colpa rimessa. Colle similitudini di s. Tom- maso non si pu rispondere a tal questione; perocch egli  troppo chiaro che la mano dell'omicida rimane sciolta da ogni reato, se l'omicida fu sciolto; e il collegio non  pi risponsale della colpa del capo, se al. capo fu la culpa rimessa. Se dunque si con- sidera il peccato originale solamente sotto l aspetto di colpa, e si pretende che nul- I' altro vi sia da considerare in esso fuor che la colpa, ella  cosa pi chiara del soie che, essendo una la colpa del capo, e questa interamente oggimai rimessa, ella non pu rimanere pi ne' posteri, ed essendo essa, come contendesi, il medesimo che il peccalo, dunque n anco pu rimanere pi alcun peccato ne posteri. Laonde coeren- temente al loro principio quelli che non veggono nel peccato originale se nou la col- pa, cio una relazione estrinseca col peccato attuale di Adamo, fluiscono a distrug- gere veramente l'originale peccato; perch non pu esistere pi questa relazione di colpa, se la colpa a cui si riporla pi non esiste,  gi tolta,  gi del tutto rimessa, an- nullata. li quest e la ragione patente e non altra, perch il Gaio Luselno Cristiano, dopo avere stabilito e opporsi alla giustizia c bont di Dio che mandi l'uomo alla dannazione senza attuivi, suo demerito  ( 2 ): dopo aver pronuncialo audacemente questa be- stemmia, questa eresia patentissima, non o-i poi piu asserire che si dia nell' uomo che nasce un vero peccato , contentandosi sol di dire che  il nascer noi privi nell ani-  ma della grazia santiGcante, mirasi come unii colpa.  Ma in realt , come nel f corpo, cosi nell'anima, ora nasciamo e siimi tali quali nasceremmo e saremmo se  fossimo stali da Dio creati nello stato di pura natura > (3). Quest'  pure la ragio- ne, perch V Anonimo, che ad Eusebio si fece campione, e a cui noi rispondiamo , dopo aver detto con s. Tommaso che il peccato originale deficit or illa parte ex gita peccalum Italici ralionem cvlpae, sostiene-, tutto del suo, che al peccalo ori- ginale vien meno egualmente anche la ragion di peccato ; sicch, confesso non  una vera colpa, cosi n pure esso sia un vero e proprio peccato; ma solo un peccato sccundum guid, in un senso immillato e guadamtenus , in onta ai decreti del sacro Concilio di Trento, e con certo manifesto pregiudiz o della cattolica tede, qualora si continuasse a promulgare in Italia impunemente tuli dottrine. E pure tali dottrine so- no indectinnhili qualora si tolga via la distinzione de' due concetti di peccalo e di col- pa; e di due come sono, se ne faccia un solo, il quale non pu riuscir che confuso ; e ne concetti confusi nascondono sempre il capo gli errori contro alla cattolica fede ; la quale, verit essendo, sol nella chiarezza e dsliuziou delle idee dimostra bella s stessa, e vi trova evidenza e trionfo. (1) Dr pere. oriq. Soci. Il, XXIV. (2) Aff., Vili, f. '34 . (3) Ivi alla noia fon). Digitized by Google 223 Laonde, se io non temo di distinguere quanto posso cosa da cosa e concetto da concetto nello materie teologiche, come nellaltro, e solo perch io credo alla ferit della dottrina che m' insegna la Chiesa ; la qnal dottrina, cos fin endo, non pu venir die onorata, dilucidata, difesa; n ella ha bisogno punto di equivoci di parole, o di ambiguit di concetti, o di sottigliezze vane : dove tutti gli errori e tutte le eresie presero cominciatnenlo. E di vero, a quel modo che, confasi i due concetti distinti di peccalo e di colpa, nasce da s lrroce naturalissimo, che il peccalo tf origine non sin nulla di reale e di vero, ma solo nnn frase vana, anzi falsa; cos, mantenuta quella distinzione antichissima,  mantenuto il dogma di quel peccato, su cui la re- denzione del mondo ed il cristianesimo tulio intero si appoggia. Perocch sol me- diante quella distinzione si risponde acconciamente alla dillicoll indicata di sopra  come essendo rimessa la colpa, cio il peccato attuale del primo padre, possa tutta- via un peccato trasfondersi di padre in figlio . Dilliniscasi il peccalo  un difetto morale, un difetto della volont suprema dell' uomo, la quale non ha pi vigore d'at- tenersi in ogni occorrenza all'ordine della giustizia, a! quale essa  per sua natura ordinala . Non pi sar difficile intendere come questo difetto si- propaghi, qualor si consideri che la volont suprema dell uom che nasce, olir essere spoglia dei vigore soprannaturale die venir le potrebbe dalla grazia santificante,  attirata altres dalla lusinga della carne si fortemente, che verso di essa piega e abbandonasi. Or gi con questa inclinazione verso il senso carnale. Ir volont personale dell'uomo vedesi de- clinante dalla naturai sua rettitudine, non  pi cos disposta all' ordine della giusti- zia, che lutto ci che a quell ordin s apponga, ella sia acconcia di giudicare, di vin- cere, e, secondo ragione, ordinare. Ecco a qual modo la carne, la generazion se- minale, e propriamente la mozione che d il generatore al generato (i), possa ren- dere cosi obliqua la volont suprema, e cagionare un vero peccato abituale nell in- dividuo che cosi formasi. Ch dal principio supremo lutto l'uomo dipende, e per tutto luomo rimane moralmente infetto. E come Iddio, santit essenziale, non pu amare una volont torta dalla rettitudine della giustizia ; cosi chi nasce in tal guisa avverso a lui, che  la stessa giustizia, gii dee essere in opposizione ed in ira. Al male morale poi tien dietro il mal fisico, come appendice sua inseparabile : indi la dannazione temporale ed eterna. Questa maniera onde spiegasi la propagazion del peccato,  indipendente dalla presente sussistenza della colpa del primo padre -, e ba- sta che questa colpa, causa rimota di esso peccato, sia stata una volta ; come basta che la madre sia siala, quando gener il figliuolo, acciocch questo sussista ; e as- surdo sarebbe d pretendere, che il figliuolo, dopo che  nato, non possa pi sussi- stere da s stesso, e generare anchegli degli altri figliuoli, senza che rimanga in vita sua madre, a cui conserva per una relazione d originai dipendenza. Clic se cercasi, come poi il pe calo nel figliuolo che nasce possa avere ragion di colpa, ri- sponde al modo stesso di s. Tommaso, cio per via d una relazione ideale c mentale, ossia di una esterna imputazione del peccalo attuale a tutta la natm-a umana ; e. mi sia conceduto desprimere il pensiero stesso in altre parole : il letlot- teologo favori- sca ascoltarmi con attenzione. Che cosa  che s imputa a colpa della volonl libera del peccalore ?  Ni- fi) Sicut atitem moventnr parie uniti  homin per impcrium mluntatis : ila moretur fi- liti i a palre per vira generaben/s. linde Phitosophu m i/icit in II , Phyeicoi Il in, qu li pater net canea jfilii tu morene. El in libro de generatone Animaltnm ( c. XTIII ) dirttnr g, od iu e' mine est t/uuedam motto ab anima patrie , pii movet materia in ad formam concepii . Sic ergo huja - smodi molto quae etl per originem a primo parente. derivQtur in omnee gai seminnher ab so proceduti! : unde omnee qui semtnaUter ab eo procedimi , conlrahunt nb ett originale pecca - tu m (De malo, |[. tV, a. vi ). E appresso : Principalior causa est ex vii tute tat anima - qua principaliter operatur in semine, ut dir t Phitoeophus ( I. Do General, animai. , e. n. ) Ivi ad 16. Vedi anco 1 ari. vii ad 5.  Qui s. Tommaso spiega la comunicazione del peccato , spiegando poi quella della colpa colto indicale similitudini. Digitized by Google 224 pondo ; il mcc.ato.  - Che cosa  il peccato? * Il peccalo  una declinazione della volont personale dall' ordine della giustizia , di che deduco, che dunque  imputa a colpa della volont libera del peccatore ogni declinazione della volont personale dallordine dello giustizia di cui egli sia autore .  Ora di quali declinazioni di volont si rese autore Aliamo! 1  i. Della declinazione attuale della propria volont quando commise il peccato, togliendo questa volont da Dio e piegandola alla creatu- ra : 2 . della declinazione abituale della sua propria volont, che rimase inclinata in lui anche cessato I atto del peccato, quasi una continuazione di quello: 3. della de- clinazione dall ordine di giustizia delle Volont personali di tutti i suoi discendenti, perch, comunicando loro la natura umana per via di generazione, la sua carne gi disordinala comunicava il disordine alla carne de generati, e questa carne traeva a s la loro volont personale, non lasciandola pi pienamente libera a seguire in ogni cosa il dettame della giustizia : non gi che la carne di Adamo, n la carne del bam- bino da lui concepito, fossero subbietto di peccato, o peccato fosse I atto della gene- razione ; ma la carne del generante e poi del generato era slroineoto fisico, pel quale 1 anima venia indotta a quel difetto morale che rendevala Don pi eretta alla verit ed alla giustizia, secondo che richiede la sua essenziale natura, ma gi cedevole, propendente, e quasi consenziente alla carne animale.  Adamo dunque fu quello che storse, nel modo dello, dalla rettitudine della giustizia si la tolout propria che quella dei posteri ; e quindi egli si rese colpevole autore s del peccato proprio che di quelle de' posteri. Il peccalo adunque che viene imputato ad Adamo, altro e in lui stesso, al- tro ne posteri.  Or come nasce la remissioue del peccato e della colpa ?  La colpa non si pu rimettere se prima non  tolto il peccalo , perocch il peccalo  odioso alla santit di Dio, e non pu essere da Dio considerata e dichiarata per sua amica una volont declinante dall'ordine della giustizia. E dunque necessario che la volont su- prema dell' uomo sia prima rettificala colla grazia, e quindi rimesso il reato della col- pa.  Or come avvenne la giusliGcnzione di. Adamo, che crediam santo ?  Dee es- sere avvenuta non altramente, che nel modo detto ; cio, per I' infusione della grazia in Ini dee essersi rettificata la sua volont declinata d.iHordinp della giustizia, e cosi restituita all'amicizia di Dio, cos rimessale iuiieranienle la colpa.  Ma rimaneva tuttavia dopo di ci il peccato ne posteri suoi di cui egli era stato pare 1 autore.  Verissimo, e per si dice autor colpevole di questo peccato ; ma questo peccalo per non pu pi nuocere alla sua persona giustificata, bench rimanga ancora non tolto e in molti de* posteri non si tolga giammai ; per la ragione che un tal peccalo non ha sua sede nella sna propria persona, ma nella persona di altri individui distinti da lui in un modo incomunicabile. Quindi  che in solo questo singolare peccato avviene che il peccato de posteri, di cui Adamo fu il libero autore, non cancellato e distrutto, ad Adamo si possa bens riportare come a ano libero autore, ma a lui oggimai pi non nuoccia, perch la volont torta dal bene  solo ne posteri e non in lui ; e la vo- lont torta d'un uomo, non impedisce che un altro uomo sia giustificato davanti a Dio, bench si chiami autore dell' altrui torta volont, e cos in qualche modo sincol- pi. Acciocch poi questa colpa applicar si possa e imputare a posteri stessi, convie- ne, come dicevo, considerarli formanti un solo uomo con lui ; il che non  che una maniera di concepire. Di che riiuan fermo, che in virt della distinzione dei concetti di peccato e di colpa, si dimostra il dogma cattolico; il qdale  questo, che quantun- que il peccato originale ne posteri deficiat ex parte tua, ex qua peccalum /label rationem culpae -, tuttavia sii proprie et cere peccalum, come il sacrosanto Concilio Tridentino, divinamente assistilo, s esprime. Non credasi adunque, per dirlo ancora, che questa nostra sia per avventura nna question di parole. Se si trattasse solo di disputare sui significati delle parole, non isli- merei prezzo dell" opera lentrare in tale conflitto. Osservisi, che io ho posto per tito- lo del presente libretto:  Le nozioni di peccato e di colpa illustrate >. Intendo dunque^ k 225 trattare delle dee nozioni, dedae concetti, e non delle due parole. Parche queste due nozioni, questi due concetti rimangano ben distinti, poco m'importerebbe, a dir ve- ro, che si segnassero con questi o con que vocaboli. La Chiesa li distinse sempre, e quandi anco 1 uso delle due parole peccalo e colpa, talor corresse promiscuo, non mai promiscuamente si surrogarono I una all' altra le due nozioni, od una sola, di esse due si compose. Questo fecero ben gli eretici, non mai la Chiesa. Alcuni di questi eretici ridussero tutto alla colpa disconoscendo il peccatole questi furono i pelagiani. Alcuni altri, per lo contrario, disconobbero la natura della colpa , e posero esclusiva attenzione al peccato; e questi furono i Giansenisti. I>a Chiesa, sem- pre nel mezzo degli estremi errori tenendosi, a' Pelagiani contrappose la nozione del peccato da essi ignorata; a Giansenisti contrappose la nozione della colpa, di cui di- menticavano la natura: mantenendo ella cosi separate le due nozioni, n mai lascian- do che o T una o 1 altra si sopprimesse. E quanto a' Giansenisti non si riduce ella qoesta eresia a pretendere, che si pu meritare c demeritare anche operando con vo- lont necessitata? Ora che c questo, se non un disconoscere la natura della colpa, a cui sola appartiene il demerito, la quale  tale, che dee procedere da libera volont? Si confondono adunque in tale eresia le nozioni di peccato e di colpa ; questa a quello riducendo e sacrificando. All incontro da che mai provenne la lunga lolla, e cos ostinata, chebbe a so- stenere la Chiesa co Pelagiani? Non da altro finalmente, che dal confondere che fa- cevano quegli eretici la nozione di peccato con quella di colpa ; quando Ia Chiesa la distingueva. Dicevano essi ; i il peccato non si contrae se non per libera volon-- t  (i): era Incolpa che cos definivano. Rispondeva loro la Chiesa:  ; giacch cosi suonerebbe il lesto dell' Angelico, se peccato e colpa fos- sero del tutto la cosa stessa. Secondo s. Tommaso adunque, negli atti malvagi della volont, sfera delle co- se morali, due cose si debbon distinguere: i. Tona, che ha concetto di peccalo ; e questa consiste nel deviare dal line, defectus volunlatis ab eo ad quod ordinata est ; 2 . laltra, che ha concetto di colpa ; e questa consiste nella libert colla quale de- vi dal fine, noti essere ipsa voluntas causa sui defectus. Queste due cose sono fra di lor distintissime, n sar mai che la confusione di mente che alcuni Anonimi mo- strano, giunga a confonderle anche nelle menti altra!. Altra questione  poi, del tutto diversa dall' accennala: se quelle due cose pos- sano nel fallo disgiungersi, sicch dove vi sia peccalo, possa non esservi colpa. Dalla dottrina da me esposta nel Trattato della Coscienza, chiaramente risalta 1. * Che quelle due cose non si possono nel fatto disgiunger per modo, che un peccato potesse esservi seoza che avesse avuto lorigine da una colpa ; di guisa che egli, almeno in causa, non si potesse dir colpa. Non polendo essere Iddio autor del peccato, e non potendo la volont retta e giusta dell' uomo esser necessitala al male da cosa alcuna, egli  evidente che il peccato non pu avere altra causa ed origine primitiva se non nella libera vlonl dell' uomo stesso: 2 .  Che quelle due cose, purch vi siano entrambi, e l una causa dellaltra. (i) I. Dist. XLVIII, q. I, a. Ili, o.  Vegga il lettore so lAnonimo pretenda giustamente di poter provare con questo testo che ( nel definire l'Angelico quali atti morali sicnn peccato, ( arraasu quo* ioli Assise x diesi esco ito, che traggono origine del loro difetto dalla volont ( in quaoto  in soste* bau*: pone deficere et non deficere . Niente affatto afferma di ci 9. Tommaso net testo citato; e pure al n. 1 1 , 1 Anonimo proferisce francamente quelle parole cilando in prora il o. 10, dove non c altro testo dell Angelico; e sopra uuaffermazione si fal- sa , argomento poi a tutto sicurt. 0* altra parte , se i Angelico avesse detto, clic non si d peccato se la volont non  m mosti* balia, in un senso cos generale come gliel fa dire l'A- nonimo, avrebbe con ci negato che il peccato originato fosse peccato, perch in questo la volont non  m Nosrat balia; e a distruggere questo peccato tende sempre veramente la dottrina dei nostri sconosciuti avversari. Digitized by Google 230 possono per essere 1' una in an individuo dell'nmana specie, e l'altra corrisponden- te alla prima in un altro individuo della specie stessa, come accade nel peccato dori- gine il qual trovasi come proprio in ciascun che nasce, e gli fa perdere il fine, poi- ch egli  morte dell anima intellettiva e morale delluomo, sicch luomo non per- venti ad Muti , ad quod ordinatus est ( tessera del peccato ); ma tuttavia la libera volon- t che lo commise ( tessera della colpa ) non  in ciascun uomo che uasce, ma nel capo dellumana stirpe, in quo omnes peccavcrvnl (i). Ma replicher I Anonimo : s. Tommaso non distingue, egli dice, che ne* peccati volontari vi ha la ragione di colpa, in voluntariis ( peccalis) ipsa voluntas est causa sui defeelus, quia in nobis est posse dcficcre et non dcficere. Rispondo, esser mani- festissimo che lAngelico parla qui de peccati attuali che liberamente si commettono, in quibus idem est, comho detto anchio le tante volte ( 2 ) malum, pcccatum et cul- pa} e per l'argomento non fa al proposito. XXI. Che se s. Tommaso dicesse veramente ci che gli fa dir lAnonimo , cio se 8. Tommaso non riconoscesse peccato se non tragga l'origine dalla volont in quanto  m nostra balia (3), ne avverrebbe che 1 Angelico non nominasse la macchia origi- nale in noi trasfusa col titolo di peccato se non simulatamente, senzafl'ermarlo tal veramente; ed  questo il segno a cui mira l Anonimo di continuo. Al qual fine, ecco come egli fa parlar s. Tommaso : queste sono le precise pa- role che lAnonimo gli mette in bocca: sascoltin bene:  dove nou  uso di libero  arbitrio, non  colpa; ma ne bambini non v  uso di libero arbitrio, dunque non  v peccalo 1 (4). Se s. Tommaso avesse parlato cos, certamente egli non sarebbe il mio maestro, perch m atterrei in quella vece alla mia maestra la santa Chiesa, che mi dice, che ne' bambini v, pur peccato. Se s. Tommaso avesse detto quelle parole che lAnonimo gli fa dire, egli avrebbe apertamente negato il dogma del peccato originale; n a salvarlo sarebbe poi pip valuto il lasciare meramente la denominazio- ne falsa ed illusoria di peccalo, sottrattone e distruttone il vero concetto. Quest 1  ap- punto la tendenza di alcuni moderni teologi: tenere le parole cattoliche, spiegandole poi in un senso anti-r.altolico ; e anti cattolico  il senso che si d alle parole cattoliche : peccalo originale da nostri Anonimi; il qual senso, in coi le spiegano, riducendo a nulla il peccato dorigine, riduce a nulla la causa della redenzione del genere umano, e scava il fondamento di tutta la cristiana religione. No adunque: s. Tommaso non ha mai scritte le parole che lAnonimo capziosamente (5) afferma avere egli scritte; c in vece delle parole che lAnonimo gli attribuisce, queste sono quelle dallAngelico scritte veramente : Baptismus et alia sacramenta Ecclcsiae sunt quaedam remedia contro peccatimi  frustra igitur exhibercntar ( ai bambini ), nisiin cis essct aliquod peccalum. Non est autem in c peccato i actvale , quia careni usu liber arbitriti (1) F/Anonimo m' attribuisce che a formare la ragione di colpa io esiga t l onore atto di propria libera volont , Ma dove ha egli trovato questo no 1 mei scritti? Egli noo  che i*r- ror suo proprio, che a me imputa calunniosamente, o almeno oscilanler. lo sarei infinito, se volessi notare tutte le false sue imputazioni ; uia crederci oggimai (fi gittaro il tempo e 1* inchiostro se Io facessi. (2) Vedi il Trattalo della Coscienza , face- 35, 36. (3) N. ... (4) (5) Dico capiio. amentp, perch in quello modt> mette in boera di a. Tommaso f accennate parole, c Ma s. Tommaso discorre per t'appunto cosi: conciosMachc a provare che i bambini c sono immuni da peccato attuale ; sciite ; dove non  uso di libero arbitrio, non  colpa; ma ( ne* bambini oon v uso di libero arbitrio, dunque non v peccato  JX. u. Digitized by Google 231 sine quo nulus (ictus homini in cviPASt imputatile. Oportet igitur dicere i/r ttt esse peccatosi per originer traduclum (i). Dalle quali parole si raccoglie: i .* Che nei bambini vi ha on vero peccato, perch Baptismus et alia sacramen- ta Ecclesiae sunl quaedam remedia contea peccatimi  frustra igitur exhibercntur, misi in tis (ne' bambini) esset aliquod peccatosi ; t. Che se non vi fosse un vero peccato ne'bambini, il battesimo e gli nitri sa- cramenti della Chiesa sarebbero inutili; di modo che chi nega il peccato ne'bambini, o ne distrugge lo verit, lasciandovi una finzione, nn mero nome, vien anco a di- struggere e negare l efficacia dei battesimo e de' sacramenti della Chiesa, perch fru- stra exhibercntur (i sacramenti) nisi in cis ( ne'bambini ) esset aliquod peccatosi ; 3.  Che questo vero peccato che  nei bambini non  un peccato attuale, perch Il peccato attuale  un peccato che s imputa a colpa, e il peccato de'bainbini non  una colpa lor propria, perch in essi manca il libero arbitrio. Non est autem in eis peccatosi actuale, e perch ? Quia careni usu liberi ar bitrii, sine quo nullit actus homini in cvlpasi impulatur ; 4.  Che dunque vi hanno due specie di peccali: peccati che non s'impntano a colpa a colai che gli ha in s ( nel caso nostro, a bambini), perch chi li ha in s non ha l uso del libero arbitrio ; e peccati che $ imputano a colpa a colui che li ha in s, perch costui ne fu il libero autore, come avviene de peccati attuali; 5. u Che il peccato che non s'imputa a colpa di Ini che lo ha in s, pu essere, ed  trasfuso per via di gemmazione, e nnn per atto di libero arbitrio in s prodotto: Oportet igitur dicere in eis (ne'bambini) esse peccatosi per originem tra- duchi m. Altro  dunque il peccato che s imputa a colpa, altro  quello che a colpa non t'imputa: vi ha dunque differenza, secondo lAngelico, fra il concetto di colpa n quello di peccato; e se ne bambini non v ha la colpa quia carcnt usu liberi arbitrii, v'ha per il peccato vero, verissimo, bench questo peccato, dcficiat ex parte illa, ex qua pcccatum habet rationem culpae. Che se avessero altrettanto il peccato, quan- to nanno la colpa, Jrustra baptizarentur ; e per non so come i Teologi Anonimi che questo sostengono, possano evitare l'anatema del Concilio di Trento, che dice : Si quii  dicl in remissionem quidem pcccatorum cos ( parvulos ) baptizari, sed nihil ex Adam trahere originalis peccali quod regenerationis, lavacro ncccsse sit expiari ad vilam aeternam consequcndam ; linde sit consequcns , ut in eis forma kaptismalis in remissionem peccatorum, non pera sed falsa intelligator, anathema sii (2). xxu. N conclude meglio cosa picena di buon per lui, 1 argomento che sembra al- 1 Anonimo nostro tanto decisivo, sicch ne mena vanto e trionfo ( perch i nostri Teo- logi Anonimi sono sempre millantatori, e parlano dall'alto in basso), che s. Tommaso in alcuni luoghi usi promiscuamente le voci di colpa e di peccalo ; perocch una colpa  certamente anco un peccato; conciossiach la colpa, come abbiam detto, pre- suppone dinanzi a s, nell' ordine de concetti-, il peccato. Cosi del pari ogni peccato presuppone dinanzi a s, nell ordine delle realit, una colpa da cui sia provenuto. Laonde tutto ci che  colpa,  peccato, e tatto ci che  peccalo  colpa, 0 in s stesso 0 nella sda causa, come ho tanto volte spiegato (3) . Per esempio, chiarissi- (1) Contra Gen., IV, L. 5. (2) Sc. V, c. 4- (3) Quesio risponde anche agli altri luoghi recati dall* Anonimo al n. 11 , nei quali dal chiama- re che fa i. Tommaso colpa l originate peccato, pretende di mostrarlo a me contrario : quasich io Digitized by Google 232 mo  quel passo di 8. Tommaso che adduce P Anonimo : Nullus enim a regno Dei cxcluditur nisi proptcr aljuam culpam  si igur pucri nondum baplizali ad re- gnum Dei pervenire non possunt, oportet diccrc, esse in eie aliauod pcceatum (i);  vha punto bisogno per intendere questo passo, che si confondano io un solo i concetti di colpa e di peccato-, perocch, restando distintissimi, trovasi e chiaro e vero: Dice in prima  cne niuno * esclude dal regno di Dio se non per qualche col- pa, A' ut lue enim a regno Dei excluditur nisi propler aliquam culpam ; ma non dice mica, che niuno s escluda dal regno di Dio se non per colpa sda propria ; il che sarebbe uneresia degna sol d'nn Eusebio (a). Dice in secondo luogo, e come con- seguente, che dunque, venendo i bambini che muoiono senza il battesimo esclusi dal regno dei cieli, debbono avere ih s qualche peccato. Si igilur pueri nondum bapti- sali ad regmim Dei pervenire non possunt, oporlet dicere esse in is ali/uod peccatvu. Si noti bene quell in eis ; significa che il peccato, dee essere in essi, proprio io essi ; n dice mica altrettanto della colpa ; non dice mica a che debba essere in essi quella colpa, per la quale sono esclusi dal regno de cieli. Anzi, secondo la dottrina di s. Toimnaso, la colpa (il peccato in quant'  colpevole) non pu essere in essi, quia careni usti liberi arbiirii sine quo nullus actus Uomini in cclpam im- pulatur (3). Dunque la differenza, secondo la mente dell Angelico,  immensa fra colpa e peccato.  Ma perch dalla necessit d una colpa onde i bambini vengano esclusi dal regno de' cieli, induce lAngelico che vi debba essere in essi un peccato ?  Perch se in essi non vi fosse un peccato, non vi sarebbe in essi nulla che po- tesse venire inputato a colpa -, mancherebbe la materia dell imputazione e verrebbe fuori l'assurdo sistema dei Unto Eusebio Cristiano, che i bambini venissero involti nella punizione indilla al capo dell umana stirpe per l imputazione di un disordine, di un peccato, che essi non hanno n punto n poco in s medesimi (4). XXIII. Finalmente lAnonimo pretende che a sno favore deponga un alfro luogo di s. Tommaso; il qual non gli giova meglio degli altri. Il santo Dottore si fa questa difficolt : V idetur, quod nullus defeclus in nos per originem veniens rationem culpae habere possit. Ex hoc enim aliquid curabile vituperabile est, si malum sii, quod est in potestate ejus qui de hoc cvlpatvb (5). Tutto il dubbio che qui propone a s stesso lAngelico sta nel sapere, se il defectus in nos per originem ve- niens sia una colpa, se possa essere una colpa rationem culpae habere possit  Non mette in questione, se sia un difetto, che anzi il nomina defeclus per originem ve- niens ; n pure mette in dubbio se sia un peccalo; ma domanda, in che modo que- sto difetto, questo peccalo possa essere il sabbietto di una colpa ; quando il concetto di colpa consiste nellessere io potest di quello che s'incolpa levitarla, ed ali'incon- Ir quel peccato viene comunicato per origine. Il santo Dottore si risponde che quel noo abbia gi spiegato nel Trattato della Coscienza, come il peccalo d'origine sia peccato e colpa ad un tempo, e come possa coll* uno e coll* altro nome chiamarsi. Vedi il Trattalo della Coscienza , f. 36 e segg. fi) Contra Genica, IV, L, n. 5. (2) Questa eresia  forma li ssi ma in quelle parole del finto Eusebio Cristiano. a all incontro si ri- ferisce al libero arbitrio d'Adamo. che lo commise. Adunque non  lo stesso per certo il concetto di peccato e quello di colpa. E cosi speriamo d avere illustrate le nozioni di peccato e di colpa. La fatica non Tu tutta nostra; lAnonimo ci forni molta erudizione ; noi non facemmo che ado- perarla. N avremo perduto il oostro tempo, se quanto abbiamo detto Gn qui intorno alla distinzione delle due accennate nozioni, contribuir a mantenere inviolato il dog- ma del peccato d'origine, causa della morte.dcl Salvatore, e fondamento di tutta la Cristiana Religione (a). (1) Nota, che quello che qui chioma difetto in principio del periodo, chiamollo peccalo { pec- catimi originale ). (2) L' Anonimo pretende che i due luoghi che io ho recati altrove per dimostrare come aan Tommaso distingua fra il concetto di peccalo e quello di colpa , non provino questo distin- zione. Quanto al primo, nell'ordine in cui egli li porta, che  quel della S . I, II, q. I AX VII, Vili , fa osservare , che io I' ilo recalo solo a provare , che a costituire la colpa fa bisogno la libert ( atrio Dziaagnins ), e che  falso perci, che io labbia recalo a mostrare la distinzione de' due concetti. Quanto all altro poi  si chiaro, che non credo necessario farci sopra altre parole. HoSUIN! U1. XII. 4.V> Digitized by Google Digitized by Google SULLA DEFINIZIONE DELLA LEGGE MORALE RISPOSTA AL R. P. GIUSEPPE LUIGI DMOWSKI DELLA COMPAGNIA DI GES. Digitized by Google Fu itampato in Arezao dalla Tipografia Bello tu', i84  . Digitized by Google SULLA DEFINIZIONE IDMM DMM! -   (Quantunque mi rincresca di dover venire a discussione col ft. P. Dmoswaki della C. di G., tuttavia, vedendo che le censure sue tendono a spargere de' dubbi sulla sanit della mia dottrina, come altri fecero contemporaneamente, non posso in alcun modo lasciar di purgarmene. Conciossiach io men vo debitore non solo ai dotti, i quali, avendo sott occhio i miei scritti, tolti volti alla difesa della nostra santssima religione e a promoverne le intemerate dottrine, non hanno bisogno di piu ; ma an- cora agl indotti, i quali le cose mie non conoscono che per odila, e pero ricevereb- bero forse scandalo se, tacendo io, mi lasciassi continuamente diffamare Gn colle pub- bliche stampe. Affine per di mostrare al padre Dmowski, che questo solo Gne mi muove a rispondergli, io non entrer nell esame del suo libro, n user rappresaglia di sorte, ci che troppo facile mi sarebbe ; ma dir solamente quello che mi torna necessario indispensabilmente a difendermi. Fors anco ( Dio lo voglia ! ) da questo mio piccolo scritto avverr un bene non piccolo, oltre quello della mia propria giu- stiGcazione presso gl indotti, e sar che, non venendo mosso il padre Dmowski da mal animo contro di me, egli intender facilmente la mia ragione ; e questa ragione per intero me la far, a buon esempio ed ammaestramento di altri, i quali si ande- ranuo poscia pi cauG in apporre a chicchessia, non solo a me, di tali bruite colpe. Incominciamo. La parola Legge prendesi in diversi signiGcati, e principalmente ne due che da s. Paolo sono accennati in quelle parole : Gentes quae legem non habent , ipsi sibi sunt lex (i), dove, quando l'Apostolo dice legem non habent , intende per legge la positiva di Mos, e quando soggiunge ipsi sibi sunt lex, d il nome ai legge alla naturale. La legge positiva va sempre vestita di un' esterna espressione, sia che ven- ga intimata in parole, o promulgata in iscritto. Tuttavia la parola e la scrittura non sono propriamente la legge, ma sol dei segni che comunicano alle umane menti la legge. La legge dunque, svestita di lutti i segni che la comunicano eia promulgano, riman Gnalmente una concezione che ha sede nella mente, sia del legislatore che la d, sia del suddito che la riceve : un idea, una nozione che esprime o in generale l ordine intrinseco dell' essere, il qnale esige per s rispetto ( 2 ), o in ispecie la vo- lont del superiore, che pure esige il nostro rispetto. Laonde, volendo io ne Principi della Scienza morale (3) deGnire la legge (1) Rom. n, 14. (2) Ved. la Dissertazione dtl senso morale dell Eminentiss. Cax. Gerdil. (3) Cap. I, art. 1 . Digitized by Google 238 formale, svestila da ogni altro elemento accessorio, dissi che essa finalmente si ridu- ceva ad  una nozione della mente, coll' uso della qnale si fa giudizio della moralit  delle azioni umane i ( cio distinguesi quali azioni sieno morali e quali immorali ) . (2) Nella nota a pag. 35 , dell' opera intitolata : Institutiones philosophiae, alidore eie. Voi. Il, continene institutiones Ethicae teu philotophiae moralie: Edilio romana ab auctore emendata et pleriegue notionibus aucla.  Romae, lapis Joanrus Baptietae Marini et sodi, MDCCOXLI. 239 in vari luoghi delle mie opere, secondoch richieder il ragionamento?  Le varie definizioni della legge da me usate, pigliandole da' pi insigni morali dottori, son note a quanti lessero le cose mie.  Quanto poi a quella, che il padre Dmowski vuol fare apparire inaudita, io mi contenter di qui osservare semplicemente che Tutti gli autori pi celebri, hanno sempre -riconosciuto che l'essenza della legge morale, la sua forma, la sua virt obbligatoria, per la qual solo ella  la legge, non pu essere o manifestarsi che nella mente, di guisa che ella si riduce ultimamente sempre ad una concezione, o nozione, o idea, o ragione, ecc-, onde che proceda, o ci venga coma- Dicala  chiamata regola delle azioni dal comune de' moralisti ; ma regola non sono le parole materiali, o lo scritto che la significa ; regola  il significato di, quelle parole, o di quello scritto ; e per una concezione, una nozione, un pensiero. E chiamata ra- gione, ratio agcndorum ; ma la ragione, come ho gi dimostrato nel libro c Prin- cipi, non  che un'idea semplice o complessa; e pu considerarsi nella mente del le- gislatore, sotto il quale aspetto la legge si definisce rccta ratio impcrandi atque pro- hibendi, secondo Cicerone (i), il quale, per distinguerla dalla veste delle parole, soggiunge : quam qui ignorai ,  est injuslus, sioe est illa scripla uspiam, sive nuspiam. Ma fino a tanto che la detta concezione sta nella mente del legislatore, non Ita per anco propriamente il concetto dijcgge, perch sconosciuta uon pu obbliga- re ; ella diventa tale, solo nella mente di chi dee secondo quella operare, giudi- cando con essa della moralit ovvero immoralit delle azioni, nel quale stalo si defi- nisce recla agendorum ratio. Il che insegna Cicerone dicendo: Eadem ratio cum EST IN UOMINIS MENTE CONFI RMATA ET CONCEPTA, lex est ( 2 ). E perch la logge sta per la sua essenza stessa nella mente, e la mente, se ne diletta, s. Paolo chiama la stessa legge di Dio lex mentis (3); e gli antichi constanlemebte chiamano essa legge morale ragione , o mente, o con altra somigliante parola la esprimono. Laonde Cicerone : Est cnim ratio, mensqoe sapienti ad jubendum et deterren- dum (4) : per questo  che Platone crede di poter derivare la parola uopo? legge, da uoos' mente (5) : per questo san Tommaso, nella questione, in cui tratta dell' essenza della legge, sostiene, che ella est aliqcid rationis ( 6 ); dice ancora, che  una partecipazione della legge eterna nella creatura razionale ( 7 ) la chiama espressa- mente una concezione della mente, come noi appunto la chiamiamo: Naturali con- ceptio et ' homini) indila, qua dirigitur a l operandum eonvenienter, lex natu- rali seu jus naturale dicilur ( 8 ) ; chiama la legge eterna concetto della mente divina : Aeternus divinae legis conceptus babel ralionem legis aeternae (9) ; la paragona all tDEA, da cui non la fa differire che per una relazione: Sicut ratio di- vinae sapienliae in quantum per eam euncta sunt creata, ralionem babel arti s vel exemplaris vel ideai:, ita ratio divinae sapienliae moventi s omnia ad deli- (1) De Legib. I, XV. (2) De Legib. II.  Affinch la definizione potesse convenire tanto alla legge considerala nella mente del legislatore, quanto atta legge considerata nella mente del suddito , io la definii a una notione delia mente s, ma senza porre netta definizione di qual mento inteDdeTo. Quan- do poi venni a parlare delle condizioni necessarie affinch 1' uomo possa far uso della legge a dirigere la sua vita, misi per prima condiziono, che ). Ma sarei infinito, se 10 volessi accumulare somiglianti autorit, a provar eo$a che da tutti i principali cattolici, come dicevo,  nella sostanza insegnata; ed  doloroso, mi sia permesso 11 dirlo, vederci ridotti conlinnamenle alla necessit di difenderci da persone, che senza alcun riguardo, appongono la taccia di novit ad ogni cosa vecchia, che essi non sappiano. Passiamo alle altre censure del padre Dmowski. Dopo aver egli recale le sole prime parole della mia delinizione,  la legge mo- rale non che una nozione della mente 1, si ferma; e vi contrappone tosto queste due osservazioni: 1 .* Ast notio mentis est per se quid subjcclivum, non ineolvit igitur dimanationem legis a legislatore; 2.* quac de praeccpto et constilo dici potcst, quia et de quavis alia re cujus concepturn intellcclualein habemus. Ora, io quanto a questa seconda osservazione, egli  verissimo che il dire nna nozione senza specificare di che nozione si parli, pu riferirsi ngualmente al precetto e al coosiglio e a qualsiasi altra cosa di cui possa aversi un intellettuale concetto. Ma come colui che, censurar volendo la definizione dell'uom di Aristotele  luomo  nn animale ragionevole , malamente procederebbe, se, fermandosi alla prima parola, animale , cominciasse a dire, che questa parola si pu riferire anche ni cani, ai caval- li, ai muli e a tutti gli altri bruti, e per mal sapplica all'uomo perch la definizione dell' nomo non arrestasi a quella parola, ma v' aggiunge la differenza di ragionevole ) cosi del pari non bene fa il padre Dmowski a rivolgere In sua censura sulla prima sola parola della deGnizione proposta della legge, staccandola da quel che segue, e dichia- randola di soverchio generica ad esprimere la legge. Perocch unendo il genere di nozione alia differenza che viene appresso, cio  coli uso della quale si fa giudizio della moralit delle azioni, e secondo la quale perci si deve operare , avrebbe fa- cilmente potuto conoscere, che la nozione in cui noi riponiamo l'essenza della legge morale, non  la nozione di qualsiasi cosa, di cui si abbia nn concetto intellettuale, n tampoco la nozione che insegna a conoscere meramente le cose di consiglio, ma quella c secondo la quale si deve operare 1, e per quella che fa distinguere le azio- ni oneste dalle turpi ( 6 ). Vero , che la parola moralit si pu prendere nella lingua nostra in due sensi, cio o per onest, il cui contrario sarebbe immoralit, o per qua- lit morale dell'azione in generale. Ma, o nel primo, o nel secondo significato si preti da quella parola, la definizione tutta insieme non dimostra meno, che s'intende parlare (1) S. t. Il, XCIll, 1 . (2) De Legtb. I, III, 9. (3) P. Ili, Q. XXVI, mrmbr. 1 . (4l Rom. II. (5) De Legibus tt, I, 9 . (6) Vorrebbe il padre Dmomki eba la definizione della legge non ai potette applicare al pre- cetto che ti fa a persone particolari. Ma la parola legge ammette una ma-pore 0 minore etten- tiono di significato. Noi dovevamo all* uopo nostro definir la leggo in un senso Iato, prendendo- la io generale Come c un principio di obbligazione , come c una regola morale delle azioni 1 ; noi qual senio apparitene alia legge anco il parlicoltr precetto. Digitized by Googl 241 di quella nozione che fa discernere il lecito doli illecito, e non il lecito dal con- sigliato. Perocch se prendesi la parola moralit pel contrario d 'immoralit, veggiain chiaramente che parlasi di una nozione coll'uso della quale si di-cerne quali azioni siano morali, e quali immorali, cio illecite; e quindi rimarr escluso il consiglio. Se poi prendesi moralit per condizione o qualit morale delle azioni, allora dee con- siderarsi che la definizione viene ad assegnare successivamente due differenze, che ristringono il genere delle nozioni, e per dice i. che la legge appartiene al genere delle nozioni, 2. 0 che appartiene a quella fra le specie contenute nel genere delle no- zioni, colla quale si pu giudicare della condizione o qualit morale delle azioni : non basta ancora: 3. che appartiene ad una specie ancor pi ristretta fra quelle, col- le quali si fa giudizio della moralit delle azioni, cio a quelle nozioni secondo le quali si deve operare; e colle quali per discernonsi le azioni lecite dalle illecite ; non le buone dalle migliori. Il Padre dice: perch vi mettete voi quel perci, quasich dal- l'essere la nozione, di cui si parla, alta a (arci giudicare della qualit morale di unazione, ne dovesse venire qual conseguenza, che noi dovessimo operare secondo quella, mentre la nozione potrebbe indicarci I' azione essere di consiglio, oon essere obbligatoria ( 1 ) ? Rispondo, che nella classe di quelle nozioni. Colle quali si giudica di ogni qualit morale di unazione, vhanno anco quelle, colle quali si giudici! della qualit che rende le azioni lecite d illecite: e perci si deve operare secondo ci che detta quella classe di nozioni l venendo cos assegnata lultima differenza, la quale fa che una nozione abbia il vero concetto di legge. Che se nondimeno il perci si volesse ommeltere, confessiamo che niente la definizione ne scapiterebbe. Veniamo ora all'accusa pi riguardevole. Il P. L). mi dice che notio mentis est per se quid subjectivum. Nel sistema di lui il concedo., perocch egli fa scaturire le idee dal soggetto stesso, e pone il concetto del nostro Io  della nostra attualit come all animo es- senziale. Ma perch non prendere un po' pi di cognizione del sistema nostro, prima di parlarne? Avrebbe allora conosciuto, che nozione ed idea per noi  il medesimo nella sostanza, non differendo che per una diversa relazione ; avrebbe inteso, che per idea noi intendiamo un oggetto intuito dalla mente nella sua possibilit : sicch si sarebbe accorto, che il dire essere la nozione per noi cosa soggettiva torna falso ed assurdo; giacch loggetto ( possibile) che informa la mente, c dalla mente indipen- dente, e ad essa superiore, come tante volle nelle opere nostre diciamo, c come ab- biati) provato collautorit dei Padri della Chiesa ( 2 ). Avrebbe conosciuto di pi, che noi riduciamo tutti gli oggetti ideali allente in universale, net quale la mente li vede; e che quest ente in universale lo ripetiamo poi da Dio stesso ; essendo esso per noi quel lume che Iddio comunica alle anime in pur creandole intelligenti. Sicch il lume del- la ragione per noi  uoa impressione, se cos vogliamo esprimerci, del volto di Dio; e gli sarebbe stato allor facile il ritrovare in questo stesso lume il vestigio del supre- mo legislatore. Ma dubbiamo noi forse ripetere continuamente coleste cose, che abbia- mo tanto estesamente esposte, e coll'autorit dellecclesiastica tradizione ampiamente confermate? 0 non avremmo noi forse il diritto di rispondere: * Fratello leggete, c  meditate meglio  ? (3) Unaltra difficolt: soda bene- Nonne, dice il padre Dmowski, notio, opc cu- jus de /lumariarum actionum moralilate judicamus, sumilur frequenter ex reina - (1) Onde il padre Dmowski fa le maraviglie di questa illazione: Mira vero prorsus est ah auclorr. farla de darti o : c e secondo la quale perci si deve operare! 1 cr. (2) Vedi fra gli altri luoghi il c. XLII del L. Ili del Iiinnov/tmcnlo ccc. (3) Veggasi fra gli altri luoghi il cap. VI della Storia comparativa dei sistemi morali ; c la Filosofia del Diritto , voi. I, Se*. Il, vi? ; Sei. Ili, i, u, m. Rosmini Voi. XII. 450 Digitized by Google 242 tura, ex fine, ex adjunctts eie. , r/nac per se rationem legis certissime non con- tinenti Confonde qui il noslro aulore Y ordine delie idee, ni quale appartiene la legge, coll ordine delle azioni reali, ni quale appartiene la moralit posta in essere. Tanto nell'ordine delle idee, e nella legge, quanto nellordine delle cose reali e delle azioni vi  la natura, il fine, le circostanze ecc. dellazione. Cosi la legge mi comanda di non fare ci che  di natura sua male, di operare con fine retto, di osservare se l'a- zione possa essere malvagia per cagione di qualche sua circostanza, ecc. Tutte que- ste cose entrano dunque nella legge ; sono tulle idee che compongono la nozione complessa dell azione lecita e dell' azione illecita, colla quale noi possiamo e dob- biamo giudicare le azioni reali, e discernere in fra esse quelle che noi possiamo porre lecitamente, da quelle che non possiamo. A formare questo giudizio che cosa si ri- chiede? Richiedasi manifestamente clic noi paragoniamo la natura dell'azione che ci si presenta a fare, colla natura detrazione caratterizzala per lecita dalla legge morale: e medesimamente che paragoniamo il fine con cui operiamo, col fine pre- scritto dalla legge; le circostanze colle circostanze volute dalla legge ecc. Non pu dunqne dirsi di queste cose con tanta franchezza, i/uae per se rationem legis certis- sime non conlinent, perocch se, materialmente prese, non sono leggi, ma indizi a cui applicare la legge ; idealmente prese per sono veri elementi della legge, la qua- le con essi determina il lecito, e dall'illecito lo distingue. L obbiezione del padre Dmowski nasce adunque dal non aver egli haslevol mente analizzata la legge n di- stinto bene l'ordine delle azioni reali, a cui sapplica In legge per giudicarle buone o ree, dall ideale di esse, che  il modello loro, la legge stessa, secondo la quale s giudicano. Egli prosegue: Eamdem insujjicientiam ostendunt, ut inspicieuli facile pat- bit, Iret conditiones buie legis de/initiuni adjectae. Mi permetta qui il P , che lo interrompa, per notare nelle sue parole nna ine- sattezza di esposizione. Egli fa credere, die io abbia aggiunto alla definizione della legge tre condizioni ; ma io non ho fatto questo. Le mie parole stampate sono le se- guenti:  Acciocch poi si possa far oso di questa nozione, e recar giudizio delle azioni ornane conviene che v'abbiano tre condizioni, e ci sono le seguenti ecc. , dove si vede che le tre condizioni non furono da me apposte alla definizione della legge, come dice il P. D., ma che furono indicale come necessarie, acciocch si pos- sa Jar uso di essa. Questa osservazione  importante. Per essas' intende quanto male a proposito il Padre, dopo aver recate quelle Ire condizioni, siccome da me apposte alla definizione della legge, prosegua poi ad investire questa povera defin'zion mia con delle inter- rogazioni gravissime a dir vero, e clic meritano 1 attenzione del lettore. Noi le rife- riremo, soggiungendo a ciascheduna la sua risposta. Praeterea, dice, cero la prima, nonne volunlas divina, vel cujuseis legitimi superioris, debito modo et sujficienler subditis manifestata, cera ni legis conlinet rationem ? Cerlmenle, o Padre, e chi n' ha mai dubitato? e chi ebbe la temerit di avo- carlo in dubbio? La volont di Dio, o quella di qualsiasi altro legittimo soperiorc, non entra ella forse in quella nozione complessa, colla quale sola la mente nostra pu giudicare, se un'azione ci sia lecita oppur proibita? Perocch come possiamo noi giu- dicare che un azione sia lecita, se non avendo nella mente nostra tutti gli elementi, daqunli risulta la licitczza di quellazione? e questa licitezza risultante da lutti i suoi elementi e anche dalla volont dei legittimi superiori, che cosa  ella altro se non una nozione, colla quale la menle delluomo conosce e distingue quellazione esser lecita, e non lecita per opponilo la sua contraria? La nozione adunque della licitezza di un aziouc abbraccia in s di necessit (ulto ci che costituisce lazione lecita, perocch Digitized by Google 243 ella non  altro che la stessa qualit morale di essa azione lecita concepita dalla men- te; e perci ella, quella nozione, non meno abbraccia la legge positiva, clic la natu- rale; risultando, come dicevamo, la licitezza d' un azione da quella e da questa. G perci appunto io m'attenni all accennata definizione, perch dovessi definir la legge in un modo generalissimo, che in s abbracciasse ogni principio d obbligazione, tan- to razionale che positivo (t); acciocch ella potesse servire di buon cominciamento alla trattazione. Conciossiach le scienze, se io nulla veggo, si debbono incominciare ad esporre abbracciando da principio largomento in tutta la sua estensione o gene- ralit, affine di poter poi venire in appresso dividendolo e suddividendolo ordinata- mente. Il padre Dmowski non osserv oltracci, che la legge che io definisco si  la  legge morale , e non  la legge semplicemente . Io ho aggiunto questo epi- teto di morale per avvisare appunto il lettore di ci che la definizione mia doveva abbracciare, e di ci chella doveva escludere. Ella doveva abbracciare tuttoci che moralmente obbligasse I uomo, e doveva escludere tutte le forme esterne e ma- teriali della legge, la legalit, la veste di essa. Talora si d il nome di legge anche Ile sue forme esterne ; perci, affine di evitare gli equivoci, ho dichiarato che In mia definizione riguardava la  legge morale > in tutta la sua estensione ; ma non di pi. A orine retale ad eoe, continua ad interrogare il Padre , qui per se ra- tionem investigare non va/ent , et praesertirn in r/uaestionibus mere probabili- bus, doctorum judicium et auctoritas pr regala morali! ali* stimi pot si ? et la- meri i/uis unr/uam dicere audebil haec et bornia similia alimi non esse r/uam no- tionem mentis ? Qui il Padre mostra di credere, clic laver io detto che la legge morale sia una nozione della mente, colla quale luomo distingne ci che  lecito e ci che  illeci- to, sia il medesimo, che laver io insegnato, che gli uomini non possano conoscere il lecito e distinguerlo dall illecito senza investigare la ragione delle cose, il che cer- to non pu fare il pi degli uomini. Ma ogni savio e discreto lettore vedr, che s'egli  vero che niun uomo pu distinguere il lecito dall illecito se non ha una nozio- ne della licitezza ed illicitezza delle azioni, non  poi vera n necessaria conse- guenza, che a fare tal distinzione si esiga di pi, che gli uomini investighino la ra- gione delle cose, n tale scempiaggine fu da me detta ; bastando anzi, che essi sieno diretti dalla legittima autoril. E questa tuttavia non varrebbe loro niente, se prima essi non avessero in mente la nozione del lecito e dell' illecito in gene- rale, e poi non credessero che ci che la legittima autorit loro proibisce  ille- cito, e ci che la legittima autorit loro permette  lecito. Nel caso adunque della legge positiva, la nozione complessa , colla quale gli uomini giudicano della lici- tezza delle azioni, risulta dall autorit del legislatore e della legge da quello pro- cedente, e non da alcuna investigazione razionale , che fuori di proposito il P. D. introduce. Quanto poi all autorit de dottori nelle questioni meramente probabili, essi non hanno virt di far leggi, perch non sono legislatori ; ma la loro autorit giova assai n venire in cognizione di ci che la legge proibisce o non proibisce ; e perci qnel- l autorit de' dottori non  propriamente la regola delle azioni, quale  la legge; ma ella  un mezzo utile, come dicevamo, a conoscere l efficacia della legge, cio se e quando la legge obblighi, o non obblighi. L' autoril dunque de dottri dee riguar- darsi in molti casi come un aiuto dato all'uomo, acciocch questi si possa formare pi facilmente quella nozione della licitezza d un' azione, colla quale poi egli giudica se (1) Eli  Unto pi strana questa osservazione del P. D. , elio io parto detta legge posi- tiva proveniente dai legislatori o oa' superiori nelle note stesse cho illustrano la data detiuizio- nc, c io millanta altri luoghi delle tuie opere. Ved. il capitolo 1 do' Principi. Digitized by Google essa "li sia pcriu'-si oppure violata : e in quella nozione appunto consiste i essen- za della legge morale. Finalmente il I. D., dopo aver dimandato:  Chi oser dire, che la volont dei legittimi superiori o l'autorit dedottori non sia altro che una nozione della men- te (i)? soggiunge: Aul ad hoc ut tallo tini, debere , necessario in mente recipi , et ad judieia circa actiones applicarti quasich la volont de legittimi superiori, e 1' autorit de dottori possano servirci di regola delle azioni anche se non la riceviamo nella mente nostra!! Fin qui si  sempre credulo, che la volont de' superiori e l'au- torit de dottori non potesse mai servir di regola agli uomini, se quella e questa non giunga alla loro cognizione; ma ora il P. D. trova questa mia dottrina erronea, e ne prende scandalo (z)! Mena pure le maraviglie dellaltra condizione da me posta, ace : oech si possa far uso della legge, cio, che la legge venga dal soggetto applicata alle azioni ; qua- sich un uomo qualsiasi o dotto o ignorante non abbia bisogno di applicare la legge alle sue azioni, se egli vuol conoscere qoali gii sieno lecite o permesse e quali no; e cosi vivere secondo quello che gli prescrivon le leggi. Si direbbe che il padre Dmo- wski dispensasse gli uomini dall avere la coscienza, giacch la coscienza non  che un giudizio che I uomo fa delle sue azioni particolari applicando ad esse la legge che egli conosce ! Io non vedo necessario d entrare a rispondere a tali obbiezioni, bastan- domi di esporle alla luce del pubblico. Pi tosto qui in fine aggiunger sembrarmi, che le osservazioni del padre Dmo- wski, consideratone il fondo e lo spirito, riescano a proporre questa difficolt: c co- me sia possibile che in una nozione o ragione della mente si manifesti una forza ob- bligante I' nomo . Se questa  veramente In difficolt principale del padre Uniowski, che non ni assicuro affermarlo, non sar difficile a vincerla, purch si chiarisca pri- ma bene in che consista la forza obbliga ole. La forza obbligante  una necessit che I* uomo conosce avervi di operare in un dato modo per non diventare un essere malvagio. L' uomo poi diventa un essere mal- vagio, quando la sua volont ricusa di aderire all' essere secondo l'ordine dellessere stesso ; cio preferendo P essere minore in confronto col maggiore. Aderire all essere colla volont, vuol dire riconoscere 1 essere por quello che  n pi n meno, amarlo come late, operare in conformit di questo amore. Per esempio, se io disubbidisco a Dio per attenermi al piacere de sensi; io preferisco l'essere materiale e animalesco a Dio, preferisco il minore al maggiore. Entro dunque in lotta coll essere, sono av- verso al suo ordine, da parie mia tento di distruggerne lordine, anzi, io veramente lento di distruggere lessere stesso, perch lessere, senza il suo ordine intrinseco, non pu stare. Ora l  essere e il bene si convertono (3). Tentar dunque di distruggere l ordine dell' essere  tentare di distruggere il beue ; e cosi facendo io sono autore del male ; dunque sono malvagio. Se non voglio adonque esser malvagio, io dedito operare in conformit dellordine dellessere. Questa necessita  1 obbligazione morale. Chiarita cos la forza obbligante, la necessit morale ; egli  agcvol cosa inten- dere come questa si manifesta nelle nozioni o cognizioni della mente. Perocch, se io (1) Noi non abbiamo mai dello ebe la volont de* superiori o l'autorit de dottori non sia atiro clic una nozione della mente , come vuol dare a credere il P. D. ; ma diciamo belisi , clic l* uomo si serve della volont dei superiori e dell* autorit de* dottori per procacciarsi la nozione , oolla quale poi egli conosce e giudica se i' azione di egli sla per fare gli sia lecita , ovvero illecita. (2) lo osservai gi di sopra, aver io dello, elio la legge dee essere ricevuta do noi nella mente , t acciocch si possa far uso di essa > ; c non acciocch sia legge o regola dello ozio* ni, come felsnmcnlc m ottribuiace il P. U. (3) S. Tom., S. I, V. tu. Digitized by Google *45 non conosco lordine dell'essere, e se non conosco che, ove io me gli opponga, di- vcnlo malvagio, non, potrei mai sentirmi obbligato a non oppormivi, ad operare in conformit di esso. E dunque in virt di tali cognizioni o nozioni, che io mi accorgo di essere necessitato ad operare in un modo pi tosto che nell altro, se non voglio ren- dermi reo o sia malvagio. Ecco come l 'obbligazione, fa sentir la sua forza sempre nella mente, e come perci senza intelligenza non si d morale. La quale fu veramente In sentenza di tutti i grandi uomini dell antichit gentile o cristiana; e pi s' intende, pi che si meditano i loro delti. A me baster qui recare la testimonianza di Cicerone per l antichit gentile, e quella di s. Tommaso per l'an- tichit cristiana: i due raccoglitori della profana e della sacra sapienza. Cicerone dice, che gli uomini dottissimi ebbero definita la legge cos: Lex est ratio stimma , insita in natura , quae jvbet ea quaefacienda sunt prohibet- qve contraria (i). Colle parole ratio stimma insita in natura , dimostra che la legge risiede nella mente dove sta la ragione ; e colle parole jubet e probi bet, dimostra che ivi ella manifesta una forza autorevole ed obbligante. E ancora , rife- rendo sempre il parere de sapientissimi, afferma, che la legge est ratio , uensqcb sapientis ad jv re jvovm t et ad de terrenduu idonea (2); colle quali parole di- chiara idonea a comandare e a vietare, che  quanto dire ad obbligare, la ragione e la mente del sapiente, non per altro, se non perch questa mente e quella che vede e addita qual sia 1  ordine delle cose, e limmalvagire che fa I* uomo a quello oppo- nendosi. finalmente diee.flncora, F.a ( lex ) est enim naturae ris: ea a e ss ma- ttoque prudests : ett juris alque injuriae regala ( 3 ); colle quali parole di nuo- vo esprime la forza obbligante, 0 sin la necessit morale, che sta nella mente e ra- gion del prudente , e che si manifesta in quella norma 0 regola, con cui le cose giu- ste dalle ingiuste distingnonsi. Tale era adunque il sentire dell* antichit gentile da Cicerone a noi testificalo: in ona medesima nozione della mente scorgevano quesavi ad un tempo e In regola di giudicare, e la forza di obbligare. Ora tale  altres il sentire dell' antichit cristiana, n pu esser altro, testimo- nio I Angelico. A tagliar breve, io rimando prima il lettore a quella questione dove il santo ricer- ca se i imperare sia un atto della ragione, e risponde senza esitare : Imperare atUem est r/uidem essentia/iter aclus rationis ; e ne d questa ragione : Imperane enim or- d nat rum qui imperai ad aliguid agendum , intimando et denuntiando (4). Ecco qua che il comando nasce dal conoscere 1 ordink, che si vuole eseguito. Laonde nota 1 Aquinale, che i bruti possono bens muovere le loro membra, ma non far degli atti imperati (5j; l dove gli uomini j 'aduni impetum ad opus per ordinationeh ratio- nis (G). N solo, secondo la dottrina dellAngelico, la ragione pu imperare alle potenze inferiori, ma alla volont, potenza morale, perch ella  quella che conosce dove stia il bene. Manifestino est autem , dice, quod ratio potest ordinare de aclu volun- talis ; sicut enim potest jv Die are quod bonusi sit ali quid velie, ila potest ordinare imperando quod homo veli l ( 7 ). Dove apparisce il perch Della ragione si manifesti questa forza di comandare ; non  per altro, se non perch qnivi  fatto nolo all' uomo I ordine e il disordine, e per qgal cosa sia bene volere, quale sia ma- fi) De legib. I, v. (2) Ivi II, IV. (3) Ivi. (4) S. I. .11, XXII, 1. (5) Ivi, ari. 11. Imponibile est quod in brutti animalibut , in qvibus non ut ano *it Qiqun modo imperi um. (6) Ivi , aii 3. {7J Ivi, ari. V. Digitized by Google 246 le. Laonde, dalla virt che ha la ragione di conosoore l'ordine e il bene e il male dedace il santo l'origine della legge. Perocch egli cosi argomenta ancora: Ad le- gem perline t praecipere et prohibere. Sed imperare est ralionis ut stipra habitum est. Ergo ex est aliquid ralionis, ed ancora ; Lex guaedam regala est et mensura actuum.  Negala auleta et mensttra htimanorum acltium est ratio , quae est prin- cipiarti primum aduniti humanorum.  Inunoquoque autem genere id quoti est pria- cipium est mensura et regala Ulius generis.  linde relinquitur quod lex sit ali- qcid pertInens ad rationem (i). Ed aggiunge, che le proposizioni generali del- la ragione morale, hanno appunto natura di legge: Est invenire aliquid in catione pradica quod ita se habeal ad operationes, stetti se habet propositio in rationc speculatil a ad conc/usiones. Et hujttsmodi propositiones vnipersales ratio- nis praticar ordinatae ad acliones habent rationem legis (2). E adunque nella ragione che si manifesta la legge secondo s. Tommaso, a seguo tale, che n pure i comandi di un superiore qualsiasi potrebbero obbligare la creatura ragionevo- le, se precedentemente a questi comandi, la sua ragione morale (chiamata pratica da s. Tommaso ) non gl' intimasse questa proposizione generale, o sia legge : I coman- di del superiore si debbono eseguire. I quali comandi per cesserebbero dall' es- ser precetti o leggi obbliganti se fossero opposti allordine di ragione, perch, E 0- luntas de iis quae imperantur ad hoc quod legis rationem habeal, oportet, quod sit a li qua rat ione regc lata ; et noe modo iiitclligitur , quod roluntas prin- cipi habet vigorem legis: alioquin roluntas principi magi esse t iniquitas quam lex ( 3 ). Nella ragione adunque si manifesla la legge morale, secondo s. Tommaso. Ora egli  chiaro, che ivi stesso dee manifestarsi immediatameute e contemporaneamente la forza dell obbligazione ; perocch la legge non sarebbe legge se veramente non obbligasse. Laonde s. Tommaso deduce la parola legge da legare : Dicittir enim lex a legando quia orligat ad agendo st (4-). N s induca da questo, clic la ragione delluomo sia quella che fa le leggi o produca l' obbligazione : mai no. Come ho in tanti luoghi spiegato, la ragione del- 1' uomo  solo, per cosi dire, il luogo dove si manifesta la legge e la sua forza obbli- gante ; nulla pi. La legge e la sua forza nasce primieramente dall ordine degli es- seri, e propriamente dalla loro dignit : conosciuta questa dignit, e quindi sentitane 1* esigenza morale, si presentano ben presto anche le leggi positive ; perocch si de- duce la conseguenza, che dunque l'uomo dee uniformare la sua volont a quella di Dio, e a quella di altri legittimi e non ingiusti legislatori. Laonde la legge, anche la naturale,  nell uomo, per parlar coll Angelico sicut in regalato, e non sicut in regulanle ( 5 ). Finir osservando che il considerar la legge come una concezione della mente, eleva il pensiero a Dio. Perocch egli  chiaro, che Iddio  la suprema mente, e per ivi dee trovarsi il fonte delle leggi. Per questo appunto i filosofi gentili poterono chia- mare la legge naturale ratio sa si si a insila iti natura (6), che  quanto dire, una parlecipaz'one della ragione divina ; e Cicerone pot scrivere quelle belle parole liane igitur video sapientissisiorcm fvisse sententi am, legem neqce nominisi ingenue excogitatam, nec sciatti (7) uliquod esse populorutn, sed jkterncm (1) S. I. Il, XC, 1 . (2) Ivi, ad a. (31 Ivi, ad 3. (4) Ivi, in c. (8) S. I. II, XC, ni, ad 1 . (6) De Legib. Il, iv. (7) Quanto c acconcia questa parola scitvm a dimostrare colla sua etimologia, clic gli .in - tichisnoii italiani Riputavano le ragione coma il (un In dcl'e leggi t Digitized by Google 247 qui odasi , quod universum mundum regeret, mperandi prohibendique sapientia. Ila principem leoem illam et uhimam, uentem esse dieebant, omnia rationk cogentis aut vetanlis dei : ex qua illa lex, quam Dii fiumano generi dederunt, ree le e si laudata (i). A cui consuona il perpetuo insegnamento cristiano, mirabilmente espresso da sant Agostino, che scrisse : fila /ex, guae svuma patio nominatur , cui semper oblemperandum est et per quam mali miserata, boni bcalam vitam merentur , per quam denique illa quam lempora/em vocandam diximus recte ferlur, reclegue mutalur, polest ne cuiquam intelligenti non incomuutabius jctebkaqve vi- dee i (2) ? (1) De Leghus , II, i*. (2) De L. Arbitrio , I, ti. Digitized by Google Digitized by Google SULLA TEORIA BELL ESSEBE IBEALE RISPOSTA && m ip mm mmm DELLA C. DI G- Digitized by Google Digitized by Google SULLA TEORIA massaia I. il elle osservazioni critiche che il rer. padre Dmowsl della C. di G. fece alla definizione da me data della legge (i), egli si riferisce all altre osservazioni critiche da lui fatte sulla dottrina da me proposta intorno l'origine delle idee ( 2 ). Per quelli adunque che credessero connesse queste due cose, come le crede connesse il padre Dmovreki, par necessario che, dopo aver io dimostrate insussistenti le osservazioni op- postemi sulla definizione della legge, dimostri insussistenti anche le osservazioni sue riguardanti la dottrina dell'origine delle idee. II. E la prima cosa che dir sar piccola, ma pure importante a dimostrare, che il padre Dinowski non si  dato la cura sufficiente di bene intendere i miei sentimen- ti, e di esporli con fedelt, come  necessario a colui che vuol combatterli. Questo appar sce chiaramente dal nesso appunto che egli ritrova, e che non esiste menoma- mente fra la definizione da me data della legge, e il sistema dell un : ca idea innata dallessere (3). E che non esista un tal nesso, vedesi considerando, che quunJ'anco fosse falso il sistema da me proposto intorno all'origine delle idee, e lidea dell'essere non fosse innata, e non fosse la prima da cui tutte l' altre si dedncono; la definizione per da me data della legge rimarrebbesi egualmente vera ; giacch io qualsivoglia sistema sarebbe vero, che la legge non  un quid materiale o reale, ma si un quid (1) Nette ine hutilutiouei philoiophiai ole., Roman. ly pia J. B, Marini et sodi, 1S40. Voi. II conlinens Insttutiones E h'eae, nella noU apporla al n. 57, p. 85. (2) Ivi Voi. I. Psicologia, c. Ili, art. n p. 367. (3l Ecco le parole dove il padre Dmowiki accenna a questo npwo : IJaec tane quae dici- nus cl. auctori minus forte probit videbimtur , eo quod non satis congruanl cum illius in* genioso ey sternale unius ingenita e ideae entis tn genere ; veruni nos qui jam alias (Voi. I, Psicologie cap. III, art. ii, prop. i, o. 60 in noia 3 ), intheavimus quid sii de hoc systematc seniisnduin tic. Nella citala nota delie sue Jnstilutiones Ethicae al a. 57.  Digitized by Google 252 ,. ideale, un'idea, una nozione, una concezione, come la chiama a. Tommaso, in viriti della quale noi conosciamo quello che dobbiamo fare e quello che dobbiamo intrala- sciare, e in virt della quale perci ci sentiamo legati ed obbligati ad operare in un dato modo. Io ho dimostrato nello scritto precedente, che questo  il sentimento di tutti gli autori principali sacri e profani, qualunque sia il loro sistema intorno all'ori- gine delle idee, e quandanche non ne seguano alcuno; e che perci con quella defi- nizione le varie sentenze e dottrine de morali Dottori vengono dilucidate e conci- liate. III. Ma donde pu esser avvennto al padre Dmowski di pensare, che la proposta deGnizione della legge si attenga al sistema dellunica idea innata dell essere? Egli sembra che la cagione che il mosse a cosi credere sia stata questa, che quando io di- cevo la legge essere  nna nozione della mente, colluso della quale noi giudichiamo quali sieno le azioni morali, e quali le immorali ; egli abbia supposto, che per quella nozione io intendessi lidea dellessere in universale. Ma questo sarebbe un puro abba- glio preso dal Padre nell interpretazione delle mie parole: egli non avrebbe osservato che io volevo definire la legge in genere, come dice il titolo dellarticolo in cui si d quella definizione (1), e non la prima di tulle le leggi. Nallarlicolo che segue, io cerco quale sia la prima legge, e dimostro che ella  il lume della ragione, o sia lidea delles- sere. Ma questa questione della prima legge  al tutto diversa da quella che toglie a stabilire la definizione della legge in generale , e che tratto antecedentemente. Infatti, egli  pur necessario, che prima si sappia che cosa sia la legge in genere, acciocch poi b possa investigare qual sia la prima di tutte le leggi che risplendono all animo umano. Se il R. P. avesse solamente letto con attenzione la nota aggiunta alla defi- nizione della legge, avrebbe trovato pienamente chiarito che cosa io intendevo per quella noz : one che esercita sempre in noi I ufficio di legge; avrebbe inteso , che io non intendevo per essa una nozione particolare, per esempio quella dell'etere,* ma delle nozioni varie secondo la variet delle obbligazioni ora pi universali , ora me- no ; e quindi egli non mi avrebbe mai opposto, che la mia definizione della legge escludesse la volont di Dio, o di altro legittimo superiore, e il giudicio e P autorit de Dottori. Queste cose rimarrebbero bens escluse dall avere ragion di legge, se io avessi detto che l idea dell essere  quella sola che costituisce la legge in generale ; ma io non ho mai fatto entrare lidea dellessere nella definizione della legge in gene- rale ; e, supponendo questo erroneamente, il padre Dmowski mi attribuisce cosa da me non mai pensala, non che detta. Ora vorr egli l'equit, che a mio carico si met- tano le male conseguenze di nna dottrina che mi viene a torto attribuita, specialmente avendo io parlato si chiaro, che bastava leggere con un po di attenzione c meditazio- ne per intendere ? lo non aspetto questo dalla religiosa onest del padre Dmowski, e non dubito che egli converr lealmente ed onoratamente del suo abbaglio. IV. Ora poi, essendo dimostrato che la mia definizione della legge in generale forma una questione interamente distinta da quella dell' origine delle idee, e non  punto connessa con essa come per mala intelligenza suppose il padre Dmowski, non sarebbe p  nrcessaro a difendere la sanit della mia dottrina morale, che io rispon- dessi alle obbiezioni che egli fa al mio sistema ideologico in quella nota posta al n. fio della sua Psicologia alla quale egli si riferisce l dove impugna In mia delin : zion della legge. Tuttavia il far brevemente, quasi a maggior compimento di questa discus- sione, e a conferma di quel che dissi sub'importanza, che chi scrive contro la dottrina di un autore, prima ben la conosca, il che si suole da tanti oggid trasandare. La nota, nella quale il padre Dmowski parla del mio sistema intorno allorigine delle idee,  scritta oon urbanit, e non contiene di que tratti sconvenevoli, con un (i) Principi Mia Scienza Morale, cap. I, art. i, avente per titola quote parole : i Delta legge in generale i. Digita ed by C 253 de'qnali finisce l altra nota contro la mia definizione della legge in genero, tendente a far credere, che il mio sistema filosofico riuscisse a nientemeno che a sovvertire le oorauni sentenze e dottrine de' morali Dottori, a' quali io professo e sempre professai la dovuta riverenza; sicch di qnella sola prima nota io non intendo lagnarmi, ma piuttosto me ne tengo onoralo. Ben  vero, che io avrei desiderato che ella fosse pi esplicita, e che non avesse il R. P. taciuto quelle altre cose ben molte, che dice d aver nella mente, mettendone fuori sol poche (t ) ; conte pure, che egli avesse con maggior franchezza combattuto il nostro sistema filosofico, postoch credeva di aver delle tuono ragioni da farlo, pia- cendo a noi assaissimo la lealt e sincerit de' nostri avversari ( 2 ). Tanto pi, che quantunque egli faccia la dichiarazione di non aver voluto colle sue osservazioni con- fatare il nostro sistema, ma solo cautelarne la giovent, acciocch troppo facilmente non f abbracciasse ; tuttavia in altro luogo si mostra persuaso d' averne parlato tanto a pieno, che gi con qnel sol che ne disse, rimanesse stabilito il giudizio da farsene, indicavimus quid sii de hoc s;/ sternale sentiendum (3). V. Ma via, vediamo se gli argomenti, co' quali il Padre stabilisce quid sii de hoc sy eternate sentiendum sieno chiari, perentori, e applicabili realmente al sistema che egli prende di fatto a confutare. Per cominciare dall ultimo, sul quale sembra basarsi 1 avviso di andar cauta- mente, che egli d alla giovent ; l argomento consiste neW affermare, che noi Jorse prendiamo la parola ente in diversi significati, la qual cosa, dice, dee trarre in so- spetto il sistema stesso. In suspicione m merito quis vocare palesi Ulani disputatio - nem, in qua non eadem ubique eidem vocabulo suhjicilur notio ; id furie accidit in casti nostro, poterilque deteqi in multipliciusu cttque accomodatone hujus notionis entis ut possibilis tantum ad concepiti sdicersos, eliam objeclive, reales, determinati- dos. Laonde pi conchiude tutta la nota dicendo di aver voluto avvertili i giovani, ne syslcmaticae cogilandi rationi de facili subscribant, prius quam id,in quo cardo quae- Stionis vertilur, nedum dilitcide exposilum , sed et firmissimc ac inconcusse probalum invenerit (4). Ora quest' argomento non ha altra forza in un libro stampato, se non l'autorit dell'autore del libro; poich tutto si appoggia sopra una nuda affermazio- ne. N certo si dubita, che 1' affermazione del padre Dmowski non meriti rispetto ; ma pare che la questione nostra non debba essere tagliata coll'autorit, ma trattato colla ragione. D' altra parte niente detrae alla stima dovuta al pdre Dmowski, chi si re- stringe a credere alla veracit soggettiva della sua affermazione, senza stimarsi per (1) Vetmus et noi in riorti siimi viri opinlonem latentissime descenthre , quoti tamen ne faciamus cu m alia tene multa, tum haec paura noe prope invitai cohibent. Mota al o. 60 della Psicologia. (2) Il padre Dmowski , dopo avere sposte le ragioni che non gli permettono di adciiro al nostro sistema, dichiara di non aver avuto per intenzione di confutarlo Ceterurn haec innuisse sufficiel : non enim animo refellendi tam ingeniosum el erudilum cl. Hostnmi iguana notulam aostram sutjicimus, sed dumlaxal, eie. Nola citata. (3) Mola al n. 57 dell'Etica. (i) Nota al n. 60 della Psicologia.  Savissimo  1 avvertimento di non dover aderire ad nna opinione, se non ci si vede ben chiaro, priusquam id in qua cardo quaestionis verli- tur dilucidi exposilum sii. Per altro, se i giovanetti non dovessero abbracciare mai nluna opi- nione se non la trovassero essi stessi provata fcrmissiinamente ed inconcussamente ( firmissimum et inconcusse probalum invenerini ) , difficilmente potrebbero formarsi opinione alcuna. Non so e il padre Dmowski sia persuaso, che tutto ci che egli propone nelle sue Istituzioni filosofiche ella scolaresca siccorao cerio , vi sia firmissime ac inconcusse probalum : felice lui se lo ere. de ! Ad ogni modo egli sembra pericoloso per la giovent il parlarle in quello modo : ( Voi non dovete sottoscrivere a niun sistema prima che voi stessi non abbiate ritrovato , che il car- dine della questione sia dimostrato con argomenti fermissimi ed inconcussi >. Anche nella scuola di filosofia non dee valer solo la ragione del giovanetto, ma qualche cosa dee valere anche lau- torit del maestro : altrimenti* noi non guarentiremmo i giovanetti dal mal del secoto, che  il creder tutto a s stessi, e nulla all'altrui autorit. Digitlzed by Google 854 obbligalo a credere (perch si (raderebbe sempre di credere e non di ragionare) alla verit oggettiva della medesima. Voglio dire: Cbe sia paroto al padre Dmowski, he la parola ente da me si adoperi nello stesso ragionamento in diversi significati, questo  indubitabile, poich egli lo alfcrma, e sarebbe ingiurioso il non credergli; ma cbe cfTettivamente poi io adoperi cosi quella parola, di questo senza fare torto al Padre, si pu dimandare in prova qualche esempio tratto dalle mie opere: perocch egli potrebbe essersi senza colpa ingannato, parendogli di trovare mutazione di signi- ficato al vocabolo ente , l dove ella non v . Tacque adunque il pi importante nel- l argomento, tacque ci in quo cardo quacstionis vertitur ; perch tacque un esem- pio almeno se non pi, da cui apparisse, che in un medesimo ragionamento (i), io muti alla parola ente il significato. VI. Ma segli non adduce niun luogo particolare delle mie opere, in coi si vegga che io mulo alla parola ente il significalo; tocca per in generale, che io uso ed ac- comodo questa nozione di ente possdiile ad conceptus diversos eliam objeclivc rcales determinando!. Ora,  egli vero? vergiamolo. In primo luogo osservo, che io non Ammetto n riconosco punto n poco i con- ceptus objective rcales di cui egli parla; che anzi ne nego espressamente l'esistenza. Questo solo basta, pare a me, a dimostrare, che io non posso adoperare la nozione dellente possibile a determinare dei concetti oggettivamente reali, che io non am- metto e che del lutto escludo dalla filosofia. Ed un s fatto abbaglio nun prova egli manifestamente, che il padre Dmowski non si  dato basterol cura d' intendere la dottrina da me esposta? che mi attribuisce quello cbe non mi appartiene, e contro quest opera sua poscia impugna le armi ? Di vero, non riconosco io, per dirlo di nuovo, concetti reali ; anzi, per me tutti i concetti sono meramente ideali, sono idee  In qual maniera pensa I uomo Agli oggetti reali? mi obbielter il Padre.  In qual mauicra? Vedetelo ai luoghi delle mie opere, dove io lho si lungamente espo- sto. Ve ne accenner un solo per vostra comodit, quel che si trova alla Sez. V del nuovo Saggio, p. I, c. I. , art. n e iti; dove chiaramente io dimostro, che l idea, ossia ( che qui riesce al medesimo ) il concetto della cosa non  mai altro che la cosa possibile, non la cosa reale ; e che l'uomo non pensa alla cosa reale se non mediante il giudizio, operazione totalmente diversa dalla intuizione delle idee e dei concetti ; ci pensa mediante I affermazione , la quale si suol riferire al sentimento che  essen- zialmente reale. Il reale adunque  percepito nel sentimento, ed  affermalo dal giu- dizio ; ma egli non si trova gi ne concetti ( o idee ), anzi si sta sempre del tutto fuori di essi: tale  la stia singoiar natura. E si noti bene, che questo  un vero cardinale della dottrina da me esposta ; e che senza averlo a pieno inteso (egli non suol riuscire troppo facile, come l'espeiienzn mi dimostra ), niuno pu affidarsi d avere inteso qnantio esposi intorno a un s difficile argomento qual  lorigine delle idee ; e per non pu parlarne con sicurezza. Dopo di ci, io lascio giudicare al lettore, se si debba credere al padre Dmowski quando afferma che io adopero l idea dell' ente possibile a determinare diversi concetti obbiettivamente reali. VII. Che poi si dovrebbe dire di questo strano pensiero d attribuirmi, che io uso ed accomodo l idea dell ente possibile a determinare diversi concetti ? Ciascuno che abbia letto un po il N. Saggio , sa troppo bene, che io non adopero mai e poi mai l idea dell essere a determinare nessun concetto n reale ( che non ne ammet- to*), n ideale: sa, che per me l'idea dell ente  ella stessa perfettamente indelcr- (lj II dire semplicemente che io oso dello parola ente in vari significati , non pruderebbe ancora che io sragionassi. INIon (sragiona colui clic di alle parole significagitnt diverse in di- versi ragionamenti; la logica proibisce solo di mutare alle parole il sigmltcalo nel ragionamento steso. Era dunque necessario, che il padre Dmowski accennaste qualche ragionami (ito da me fatto, durame il quale la perula ente si prendesse io pi sigoifi aziooi per indursene una falsa conseguenza. Digitized by Googje 255 raioala, e perci non pu determinar nulla ; sa, che ella stessa ha bisogno di cerere le determinazioni, e molto mi occupai a indicare il modo, come l' idea dell ente pos- sibile venga determinata, mediante i sentimenti, cio mediante i rapporti che essa acquista coi sentimenti. L abbaglio adunque del Padre qui  niente meno, che laver preso il pastino peri 'attivo-, l'avermi attribuito, che io uso dellente possibile a de- terminare i concetti ; quando all' opposto io dico, che l' idea dell' ente possibile  essa quella che dee venir determinata, e che viene veramente determinala alloccasione delle sensazioni e dei giudizi conseguenti. Vili. Or dall 1 ultimo degli argomenti che usa il padre Dmowski contro il siste- ma ideologico da me pruposlo, passiamo al primo : esponiamolo e poi esaminiamolo. La maggiore del sillogismo che egli fa si , che ubi datur vcl palesi dori me- dium, ab exclusione unius oppositorum non sequilur per se vcrilas aUerius (i), pro- posizione verissima e che pienamente ammetto con lui. La miuore si , che io argomento dall erroneit della dottrina de' sensisti alla verit delle idee innate, supponendo cosi falsamente, che non ci sia mezzo fra il di- chiararsi pe sensisti, e il dichiararsi per quelli che ammettono le idee innate. Modus quem cl. vir in sua disputatone nunquam non sequilur ( parla di me ), manifeste oslcrulit, illuni instar axiomatis Imbuisse , in enarrando idcarum origine ncccssarium omnino esse ani scnsistis nomai adjtingcrc, aul iis suffragali, qui pr ideis ingeni- tis pugnali I ( 2 ). Sia adunque a vedere, se egli  vero questo fatto che i! padre Dmowski aflei- ina, tener io per assioma, che non si dia mezzo alcuno fra il sensismo e le idee innate. Prima di lutto, il padre Dmowski sembra poco persuaso egli stesso di una tale sua allermazione, giacch egli si congratula meco poco stante, dellaver io confutato validamente non meno il sensismo che le idee innate, il che non avrei potuto far certamente, se vero fosse, che P uno o 1' altro sistema, al mio modo di vedere, si do- vesse abbracciare. Ecro le sue parole, Gratulamur itaque cl, Rosmini quod cl scn- sistas et inqcnitarum idcarum asserlores confuiaoerit opportunissime (3). Se dunque io ho confutato non meno i sensisti che i fautori delle idee innate, par cosa chiara, che fra gli ani e gli altri riconosco qualche, cosa di mezzo, n ammetto quale assio- ma, che si debba necessariamente aut scnsistis nomea ad j ungere, aul iis suffragati qui pr ideis ingcnitis pugnarli. Ala non mi piace giovarmi di un tale argomento, che egli non sembri, che io voglia, prendere 1 avversario alle parole; il che  lontanissimo dalla mia maniera di lare, e per confesso, che nella contraddizione accennata del padre Dmowski, non vi ha che qualche inesattezza di espressione, e I ho accennata solamente a far conoscere come non vi pu esser sufficiente chiarezza d idee, dove non vi ha precisione di lin- guaggio. Raccoglier in quella vece dalla sua bocca un'altra confessione. L dove egli dice, aver io confutalo non solo Locke, Cundillac, Reid, Stewart, ma ben hoco Pla- tone, Aristotele, Lcibnizio c Kant, in altero voltiminc dal operaia attclor, ut Pialo- nis, Aristotelis , Lcibnitii cl Kanlii, doctrinas fiindilus subrual (4). Ora, o convien dire che i sistemi di Platone, di Aristotele, di Leibnizo e di Kant appartengano al- I un de' due opposti fissati dal padre Dmowski, il sistema sen-islico cio, e quello delle idee innate, ovvero concedere che io rifiutai non solo de' sistemi sensistici, non solo de sistemi d' idee innate, ma ben nuche de sistami medii fra quelli e questi. Per esempio Kant non cava certo lutto dalle sensazioni, e per non si pu chiamare un puro sensista, n ammette le idee innate, ma ammette solo delle forme innate, e per- ii) Nota al n. GO della Psicologia. (2) Ivi. (S) Ivi. (4; >- Digitized by Google 256 ci non si dep riporre tra i fautori delle idee innate. Se dunque io confuto, come il padre Dmowski derma, anche de' sistemi rnedii fra quelli de puri sensisti, e quelli delle idee innate, fori'  convenire esser falsa l'affermazione, che io abbia tenuto per un assuma non avervi niente di mezzo fra i due estremi del puro sensismo e delle idee innate (l). IX. Ma lasciando le confessioni del padre Dmowski, io ragiono cosi : Voi affermate un fatto, che io non riconosca cio alcun mezzo tra il sensismo e le idee innate, e che il sistema da me proposto si fondi perci su questo argomen- to : il sensismo  erroneo, dunque  vero il sistema dell' idea innata dell' ente possi- bile. Ma un fatto di tal natura  facile a verificarsi : il Nuovo Saggio  nelle mani di tulli, basta aprirlo e leggere ; leggendo, ciascuno vi trover non un solo, ma mol- ti argomenti e diretti e indiretti addursi a provare la verit del sistema dell' idea in- nata dell essere ; c pure fra questi molti non vi trover certamente quello che voi ad- ditale, quasi argomento unico, o principale. Che anzi vi trover tutto il contrario : vi trover che, lungi dal ridursi i sistemi possibili a due soli opposti difendendo luno mediante 1 esclusione dell altro, da me si distinguono cinque generi di sistemi ri- guardanti 1 origine delle idee. Quello che  vero adunque si  che fra gli argomen- ti che da me si adoperano a provare la verit dell idea innata dell ente, ve nha uno che procede per via d' esclusione-, ma questa esclusione non si limila ad escludere il sensismo, ma viene escludendo lun dopo laltro quattro generi di sistemi, rimanendo cosi solo possibile il quinto, che  il sistema vero. E prima io ho escluso il sensismo che cava Videa dalle sensazioni ; di poi ho escluso il Lockismo, che cava lidea dal- le sensazioni unitamente alla riflessione , ossia intuito dellanima , in terzo luogo ho escluso il sistema che pone comunicarsi da Dio lidea allatto della percezione ; final- mente ho escluso quello che vuole che lidea sia prodotta e formata da noi stessi, per una forza speciale dell anima. Io ho quindi dimostrato che questa enumerazione  completa, e che non lascia luogo a nessun sistema medio tra gli enumerati. Se il let- tore gradisce di aver qui sottocchio le parole da me usate a mostrare come la predetta enumerazione abbracci tutti i casi possibili ; ecco quali sono :  Questa dimostrazione per esclusione ( cosi si legge nel N. Saggio )  irrepu-  gnabile, dove sia dimostrato che l enumerazione de casi possibili  completa, a Ora, che sin completa, vedesi in questo modo :  L' idea dell ente in universale esiste .- questo  il fatto da spiegare : c Se esiste, ella o ha incominciato a esistere con noi (  innata ), o fu prodotta  di poi : fra questi due termini non c' mezzo.  Se fu prodotta di poi, ella non pu esser prodotta che o da noi stessi , o da  qualche cosa diversa da noi stessi : ne pur qui c  mezzo.  Escluso il primo ; se fu prodotta da qualche cagione diversa da noi, questa  cagione non pu essere che o qualche cosa sensibile ( lazione decorpi ), o qualche s rosa d insensibile ( unessere intelligente fuori di noi, Iddio ecc. ) N pur qui ci  ha mezzo.  Ora questi due casi furono pure esclusi. v Dunque lenumerazione de casi fu completa, perch ridotta a tale alternativa,  che ricusa sempre come assurdo un termine medio. n Dunque lidea dellente  innata: ci che si dovr dimostrare >. Questo linguaggio dimostra evidentemente, che io non souo partito, come dice (1) Chi asseriste che quasi lutti i filosoli rho non ammettono le idee innate peccano di sensismo, affermerebbe il vero: e I* affermar questo non sarebbe tuttavia un affermarli sensisti. Per altro dts-i quasi lutti ; poich il sistema, poniamo, di quelli che sostenessero lidee esserci comunicate da Dio all occasione delle percezioni sensibili,  afTallo lontano da* sensisti. e ugual- mente lontano dai fautori delle idee innate. Ora anche un Iole sistema fu da me espressamente con- futato nel JV. Saggio , ccc. Sci. V, p. I, c. Ili, ori. it. Digitized by C 257 il padre Dmowski, dal preleso assioma, clic non li diano die due opposte rie da per- correre, il sensismo e le idee innate; perocch, chi dir mai che tulli i quattro generi di sistemi da me confutati appartengano o a quello de' sensisti o a quello delle idee innate? Laonde  provato chiaramente che il padre Dmowski prese abbaglio quando af- ferm che il mio modo costante di ragionare dimostra aver io tenuto per assioma in enarrando idearum ori,] ine neeessarium omnino esse atti scnsislis nomea adjttn- gere, aut iis si ffragari , gui pr ideis ingenilis pugnant. X. Tuttavia veggiamo ancora qual sia il nuovo sistema che propone il padre Dmowski, come alieno ugualmente da quello dei sensisti e da quello delle idee inna- te, e come sfuggilo, secondo lui, alla nostra attenzione, che si ferm, a suo dire, so- lamente sui due sistemi opposti de'sensisli e delle idee innate, quasi non ve ne avesser altri possibili. Le parole, colle quali egli accenna e riassume questo suo sistema, sono le seguenti: qui cnim ex praesupposila sui ego , sire suac ar t Militati s, directa sane, to- rnea intellcctuali cogmlione, quae certe ncque est ingenita ncque a sensibus ullatenus depcndct , juncla cum aliis ajf'cctionibus nostris, velici originari idearum unirersalium rcpelere a necessario quodam nostrae ralionalis intuita quartindatn rclatinnum e. g. iilentitalis , permanentiac , Jteccssitalis, actnahtotis , e/e., qui intuitus, ut pot immedia- tus , indiani inclndit ratiocinationcm, ant cxpliritum judicium et abslrartionem: is certe et a sensistarum, et ab ingcnitarum idearum s/ stanate, /orci alienar ( i ).  Or  egli nuovo questo sistema ? fu egli forse da noi trapassato e non soltopnsto ad esame ? non si pu egli ridurre ad alcuno di qne' quattro generi, che abbiamo esaminato ed esclusi ? Kcco'-ci che giova primieramente vedere. Il sistema del padre Dmowski suppone pnm eramenle, che I' anima conosca im- mediatamente s stessa, perch anima ejusque jiroprietatei sant ipsi immediatae applicatele et eortim similitudinem in se conlinenl ( 2 ). Ma questa supposizione ( ella non  che una supposizione, unipotesi ] noi labbiamo diligentemente esaminata e dimostrata impossibile (3). E qui osserveremo ili passaggio, 0 Su di questo argomento decrrlorio, comegli lo chiama, pi cose a v re io ad os- servare. In primo, vi si dice che il concetto del nostro Io  essenziale allanima nostra. Ora se questo concetto  essenziale all'anima nostra, egli  dunque innato perch in- nato non yuoI dir altro se non indivisibilmente unito coll'anima, ed  indivisibilmente unito allanima ci che all'anima  essenziale. Non si vede adunque, come il padre Dmowski possa, senza radere in aperta contraddizione, dire che la diretta intellellual cognizione del nostro Io, ncque est ingenita , ncque a scnsibus ullatcnus tic pendei-, n si vede come in tal caso il sistema del nostru autore non ricada ne'sisleiui di quelli che ammettono le idee innate. XVI. E vie pi forte apparisce la difficolt, se si considera in che modo il padre Dmowski pretenda di spiegare come sin essenziale allanima il concetto di s stessa. Egli dice, che l'anima ha questo concetto, perch contiene la similitudine dis e dello sue propriet. Anima ejusqnc proprictatcs sani ipsi immediate applicalae, et conun simiitudinem in se continoti (i). Certo che qui vien voglia di domandare al Padre, chi gli abbia dello che l'anima contiene la similitudine di s c delle sue propriet. Ma lasciando di osservare, che simiglianli allertnazioni gratuite non hanno nessun peso in filosofa, dimando in quella vece, che rosa sia la similitudine dell anima e delle suo propriet, contornila nell', mima, ovvero neH'inlelletlo(?.).Se per similitudine dell anima e delle sue propriet, intende l'idea dellanima e di esse propriet, egli  chiaro che mette delle idee innate. Se poi distingue tra la similitudine dell'anima e delle sue pro- priet, e l'idea dell'anima e di esse propriet, in tal caso gli resta a dire che cosa sia questa similitudine, e in che differisca dall'idea ; e proba!) Imente tutto si ridurr ad aver sostituita la parola similitudine alla parola idea, e ad aver supposte innate delle similitudini piuttosto che delle idee. Ad ogni modo, se  essenziale all'anima il concetto di s stessa, essa contiene questo concetto ; il quale o sar la stessa similitu- dine, nel qual caso lanima avr un concetto innato che si chiama anche similitudine^ o sar rosa diversa dalla similitudine, nel qual caso lanima avr due cose innate invece di una, cio avr innato tanto il concetto, quanto la simditudine. Che se il padre Dmowski pretender che l'idea deH'anima sia tuttavia diversa dal concetto e dalla similitudine sua, in tal caso, moltiplicandogli enti senza necessit, di una cosa sola ne avr fatte tre, o piuttosto avr dati tre significali diversi a tre parole, che nel fondo significano la cosa stessa. Ora, poich egli parla anco duna diretta intellettuale coqnizione dell/o, che presuppone, gli rimane ancora a dire, se per questa intenda egli una quarta cosa, o se limmedesimi olle tre prime. Il padre Dmowski adunque ap- partiene ad ogni modo alla classe di quelilosofi clic ammettono qualche cosa dinnato; n gli vale il negarlo , poich espressamente dichiara che l'anima contiene la propria similitudine ed a lei  essenziale il proprio concetto. X VII. Ma io credo che il padre Dmowski si troverebbe ancor pi impacciato, se qualche indiscreto lo pressasse a dire: come inai nell'anima possa essere la similitu- dine dellanima, lo intendo (lenissimo che fra due o pi cose vabbia similitudine, ma in. una cosa stessa come pu avervi similitudine? Vuole forse dire, che una cosa  fi- utile a s stessa? In tal caso pi propriamente direhbesi che uua cosa  identica a s 6lessu. Or poi, niuna cosa  priva dell identit con s stessa. All' incontro il padre Dmowski dice che lanima sola c non gli oggetti sensibili possono esibire la similitu- dine ( O'jecta sensiita ut alia non possunt exhiltere simi/itudinem). Dunque la similitudine del padre Dmowski non  l'identit degli oggetti, ma altra cosa; e che cosa  ella dunque? (1) AI a. 62 delta Psicologia. (2) La maniera di esprimersi del padre Dmowiki i alquanto equivoca, polendosi dubitare, so voglia dire clic la timililudiuu dellanima c delle sue propriet sia contenuta nellanima slessa u eli iolellelto. Ma il senso riesca al medesimo , giacch lo stesso intelletto  poi nellanima, 261 XVIII. Per andar alle brevi, io bo esaminala a lungo la natura della similitudine in pi luoghi, ed a quelli rimetto il savia lettore. Quivi trover dimostrato, che la si- militudine di nessun oggetto pu essere conosciuta senza un idea universale, sema un'idea che sia comune a pi oggetti (t); vi trover pure dimostrato perch le idee si dicono similitudini delle coso (a) ; ed  perch in esse si conoscono pi cose simili, giacch cose simili non viene a dir altro, se non cose che colla stessa idea si conosco- no. Non si pu dunque assumere la similitudine per ispiegare le idee; ma si deb- bono prendere le idee per ispiegare la similitudine: la similitudine n si conosce n esiste, se prima non esiston le idee. Desidererei bene, che il rev. padre Dmowski si prendesse la briga di meditare tutte queste dottrine, e ne caverebbe certamente egli da so l'indeclinabile conseguenza che se lanima conoscesse se stessa per avere in se la propria similitudine, ella avreb- be con ci stesso unidea universale, giacche con quella stessa idea colla quale cono- scerebbe s stessa, conoscerebbe altres tutte le anime possibili simili a s; e in tanto solo l'idea deil anima si pu dire similitudine dell' anima, in quanto ella  un mezzo da conoscere non solamente un'anima, ma ogni anima, e pr la somiglianza delle anime. Si dee profondamente riflettere, mi si permetta d ancor riplcrlo, che la simi- litudine di due o pi cose in fra loro, non  qualche cosa che passi direttamente fra loro, rna  un egual rapporto che hanno con quell' unica idea per la quale vengono conosciute (3). XIX. Ma diamo per un poco che 1' anima abbia essenzialmente, come vuole il padre Dmowski, il concetto di s stessa. Sar egli giusta perci lillazione, ohe que- sto concetto debba anleeerlere quemeumque alium, e perci anche l idea, la noti- zia dell'essere ? lo prego il padre Dmowski a considerare quanto sia sbagliata questa illazione ; perocch se fosse essenziale all' anima il concetto di s non potrebbe egli darsi, ohe le fosse essenziale del pari qualche Altro concetto ? Nel qual caso il concetto di s non precederebbe gli altri, ma n' avrebbe seco di quelli che sarebbero con esso c coll anima. stessa coevi. Ricordo adunque al padre Dmowski, che Ubi polest dori medium, ab exc/tisionc unius oppositornm non sequitur per se veritas al- terine- Fra essere il concetto dell anima ad essa essenziale, ed esser anteriore a tutti gli ullri concetti, vha di mezzo il poter essere quel concetto coevo a degli altri. Dunque 1' argomento scade anche supposto all anima essenziale il concetto di s me- desima. XX. Che se noi vogliamo riguardare non 1 ordine di tempo, ma 1 ordine logi- co che le idee hanno in fra loro, ce ne verr tosto ima conseguenza ancor pi strin- gente. Perocch apparir manifestissimo, che qualora l'anima avesse come essenziale il concetto di s stessa, aver dovrebbe necessariamente congenita anche l'idea dell'es- sere, come quella che precede, quanto all ordine logico, il concetto dell'anima, E nel vero se 1 anima conosce s stessa mediante il suo concetto, dunque sa di essere. So sa di essere , dunque afferma, ossia giudica internamente di essere. Se giudica di essere , dunque sa che cosa sia essere. Sapere che cosa sia essere,  perfettamente lo stesso che avere lidea dell'essere. Dunque, se l'anima ha il concetto di s stessa, pri- ma ancora ha l idea dell' essere. Dunque l idea dell' essere, nell ordine logico, pre- cede il concetto dell' anima ; sia questo concetto essenziale all'anima o no, sia inna- to o no, riman sempre vero che il concetto che pu aver 1 anima di s 9tessa, dipen- de dall idea dell' essere, n pu ella vedere s stessa, se non si vede come tutte Fai- tre cose nell' idea dell' essere. (1) Auoro Soffio, Srss. Ili , c. IV , ri. xx. (2) ivi. Se. VI, p. HI, e. I, a. mi,  2. (3) Vedasi l'ultima nula polla all art. i, c. Ili, Sax. Ili del A. Soffio, oc. Digitized by Google 262 Qualora adunque ai volesse anche presupporre ima diretta intellettuale cognizio- ne del nostro Io, in qualsiasi maniera ella si presupponesse, o essenziale all' anima o no, innata o no, ella non ci dispenserebbe punto dal dover ricorrere all idea del- l essere per dare una sufleiente spiegazione dell'origine dell idee, giacch ella stes- sa dovrebbe presupporre l' idea dell essere per ispiegare s stessa. Non vale adunque I' argomento, che il padre Drnowski cerca cavare dalla supposizione, che sia essen- ziale all anima il proprio concetto. Vediamo se valga meglio P altro che immediata- mente soggiunge. XXI. Ad haec, egli dice, nonne plures non facile dabunt eam notioncm ingc- ni tam esse, quac ex suppostiti aliis, opportuna mentis operatane, facile colligi po- trei (i) ? Certamente ; e se egli fosse vero che l idea dell ente si potesse dedurre da altre idee precedenti, non dipendenti da essa, ninno mai 1 ammetterebbe innata. Al- I opposto, la ragione principale colla quale io dimostrai eh ella dee essere innata si riduce appunto a questa : che tutte I altre idee e tutti i giudizi lei presuppongono, sicch ella  quell idea appunto, che De si pu formare da nessun giudizio, n si pu dedurre o raccogliere da nessuna idea precedente (a) ; e la ragion non sembra, a dir vero, grandemente difficile a raggiungersi. Perocch, se io con un giudizio affermo o nego qualche cosa, certo affermo o nego un entit, il che non potrei fare se non sapessi che cosa sia entit ; e del pari qualsivoglia idea mi mostra un entit, dun- qne ella inchiude l idea di ente : l ente ideale, in una parola,  il primissimo ele- mento di qualsivoglia cognizione, al quale si pu aggiungere, ma non togliere ; pe- rocch, togliendo dalla mente quell elemento, supponendo che ella ignori che cosa sia essere, la sua cognizione  annullata e spenta la mente stessa. Le quali cose aven- do io dichiarate in molti luoghi distesamente, non so comesi possa opporvi una sem- plice affermazione, e dire che P idea dell essere ex supposilis aliis, opportuna mentis opcratiunc, facile colligi potest. Certo io credo, che, rivolgendo il padre Drnowski questarma contro di Kant, non potr mai abbattere, come egli spera, lerroneo si- stema della filosofia critica ; perocch rimarr sempre a suo carico il provare, che vi abbiano delle idee, le quali non presuppongono dinanzi a s quella dell' essere, e che quella dell essere si pu da esse derivare e raccogliere ; il che  quanto dire, rimar- r a suo carico di fare I* impossibile. XXII. E qui ci sia permesso notare ancora la maniera assai comoda, colla qua- le il padre Drnowski spera di trovare 1 origine delle idee. Egli mostra di credere, che non sia punto necessario fermarsi a mostrare come nascano le idee prime e che queste basti supporle ; ma sia necessario solo dimostrare, come si formano le nozioni universali, per le quali egli intende quelle dell' identit, delia permanenza, della ne- cessit, ecc. Infatti P altre idee le d per presupposte, e le toglie a spiegare quelle sue nozioni universali. Presuppone il concetto dellanima, ed ex praesupposita sui ego sire siine acluaitatis dircela sane , tamen intellcctuaU cognizione  jancta cu in aliis ajfectionibus noslris (3), ripete l origine delle idee universali dall' intuito della nostra razionalit. Dimanda altrove certe idee precedenti a questo intuito. Sujjiciunt ( retate ad mere intclligibilia ) aliyuac idcac praecedentcs, quac non debenl esse ne- cessario scnsibilcs, tanquam occasio onde mens aliquota conccptum intclligibilcm ef- formet (4). Ma queste idee precedenti che non dice quali sieno, ma dice solo non es- ser necessario che sieno idee sensibili ( quasich vi fossero delle idee sensibili , corno volevano i sensisli, che prendevano per idee le sensazioni), e quella cognizione del- l Io presupposta, non sono certo dati Glosotci, n postulati che si possano ragione- S Nella nota citala at n. 60 della Psicologia. Vedi H N. Saggio , ecc. Set. V , p. 1 , c. II. (3) Nella nota citala at n. 60 della Psicologia. (4) N. 62 della Psicologia. jgie 263 volmeote dimandare o accordare ; perocch, quando trattasi di spiegare |* origine delie idee egli  necessario occuparsi innanzi tutto delle idee primissime e non delle posteriori ; che tutto il nodo della questione sta in quelle, e non in queste. Si dee dunque cercare primieramente quali sieno le idee prime secondo lordine naturale e logico che hanno le idee fra di loro, ed  questa ricerca da me fatta che diede pr risultamento, che l' idea primissima  quella dell essere, spiegata la quale,  sciolto il nodo della questione. Convien finalmente guardarsi dal confondere l idea colla percezione inteHelliva, la quale ha annesso il giudizio sulla sussistenza della cosa, mentre l idea sola non  che la cosa nella sna possibilit, e per ogni idea  univer- sale, ogni idea  aliena dalla sensazione, che  cosa reale ; n si danno idee sen- sibili, come il padre Dinowski suppone ; n solo godono dell* universalit le nozioni astratte di cui egli parla, ma ogn idea, e qnindi non si pu spiegare lorigine di nessuna idea se non si spiega l' origine dell universale, il che non si pu fare n ri- correndo allanima che  particolare, n ricorrendo ai corpi che sono pure particola- ri. Le quali tutte cose da me esposte lungamente se fossero state considerate dal pa- dre Dmowski, credo io, che egli avrebbe modificato la sua maniera di posare su questi argomenti. XXIII. Mi fa ancora questa argomentazione: c II Rosmini si propone di partire dallosservazione interna delie modificazioni dellanima. Ma n la coscienza riflessa, n la memoria dice punto quando sin venuta in noi lidea dell'essere. Quandonam lalis i/uaedamidea mentem nastrarti subeat , nec conscienlia rejlexa, nec memoria remiti- rial .  Io rispondo: verissimo; n la coscienza, n la memoria dice quando lidea dellessere sia venuta in noi ; n ptea dirlo, perch ella ci fu sempre ; e il non poter assegnarsi lepca del cominciare di quell' idea, prova piuttosto, che ella sia stata con noi congenita, o almeno mirabilmente saccorda con questa sentenza. Per altro, se io mi propongo di partire dall osservazione de fatti interni, non vuol mica dire, che io mi fermi e limiti a questa osservazione, quasich io mi faccia una legge di non dedur niente col ragionamento dall' osservazione. Losservazione interna, c la coscienza mi dice, che io ho e che tutti gli nomini hanno lidea dellessere: ecco il fatto. L os- servazione sui giudizi e sulle idee mi conduce a conoscere che lidea dellessere prece- de tulli i giudizi e tutte le idee : ecco un altro fatto. Da questi due fatti io muovo il ragionamento, e dico: Dunque l idea dellessere  la condizione di tutte le idee e di tutti i giudizi ; dunque ella non pu esser formata da nessunidea precedente n da nes- sun giudizio ; il che  quanto dire, da nessuna operazione intellettiva, riducendosi tutte le operazioni intellettive allintuizione delle idee e alla formazione de giudizi ; molto meno pu esser formata da qualche operazione dellanima sensitiva. Dunque ella non  formata dallanima n intellettiva n sensitiva; dunque ella  un lume dato allanima da Dio,  il lume della ragione. Perch poi oppormi, che la coscienza non depone lesistenza di quest idea nella prima et, quandio ho sciolto gi si ampiamente e tan- te volte una obbiezion si volgare? Mi sar egli vietato di formar nuovamente il desi- derio, che quelli che vogliono onorarmi dentrar meco io discussione, vogliano prima leggere quello che io ho scritto, se questo dee pur formare materia alle loro osserva- zioni ( i )? XXIV. Finalmente trova, che il sistema dell' unica idea innata iisdem intrnse- cis et haud exignis snbjacct incommodis , rjuae nondum a r/uopiam satis remota fu o runt (2). Ma quali sono questi incomodi? Sembra che egli intenda per essi, quelli che annovera al numero 60 della sua Psicologia-, i quali giover che noi qui brevemente trascorriamo. r. li sistema delle idee innate, die egli, distingue l idea dalla percezione ; il 0) Vi'i fra gli altri luoghi it Rinnovamento ecc. L. I , c. Iti e seg. , e c. LVT (2; Nella citata nota al n. CO della Psicologia. Digitized by Google 2G4 ehe pare falso e superfluo : Idquc falsum esse vidctur, cum in pluribus pcrrcptioni- bu* imago ctiam intellectualis rei (l ) ab ac tu percipicndi vel intelligendi Jormalilcr non secemalur ; et supcrjluum , cum perccptio licei simplex, et una, possit spcctari sub duplici respcclu, scilicct Telate ad mentem madificatam, et est perccptio , et Te- late ad objectum quod repracscntat, et est idea. Ma {affermare semplicemente, come fa il padre Dmowski, che sia falso e super- fluo il distinguere I idea dalla percezione, non prova che questa distinzione non sia verissima e necessaria ; conciossiach delle mere asserzioni non sono argomenti in filo- sofia ; e mere asserzioni sono il dire, clic in molle percezioni l'immagine intellettuale non si distingue dall atto del percepire ed intendere, e che la stessa percezione, lalto del percepire relativamente alla mente sia percezione, relativamente all'oggetto che rap- presenta. sin idea. Scorgasi piuttosto in tali sicure affermazioni, che il padre Dmowski non ha afferrala bene la natura delle idee. Lidea  propriamente l'oggetto della mente consideralo in s, e perci come possibile. La mente intuisce questo oggetto ( 2 ). Chi mai potr confondere I oggetto colf atto della mente che lo intuisce? Il padre Dmo- wski dice che l'atto stesso della mente rappresenta loggetto; ma se l'atto rappresenta l'oggetto, l'oggetto non vie pi, ma vi  solo latto della mente che lo rappresenta, non loggetto. Che se collespressione c latto rappresenta loggetto >, intende dire, che lalto sia loggetlo stesso; in tal caso vi  loggetto, ma non vc pi latto, per- ch atto ed oggetto non-possono essere la medesima cosa. Che so poi con questa espres- sione s lalto rappresenta loggetto , egli intende significare, che lalto della mente non ha gi loggetto, ma solamente una rappresentazione delf oggetto ; in tal caso, oltre tutti gli altri assurdi ehe ne verrebbero, farei di pi osservare, che altro ci non sarebbe che sostituire un oggetto ad nn altro, cio la rappresentazione delti oggetto, sarebbe V oggetto della mente, e sarebbe tuttavia distinto dall' atto della mente. Final- mente, quando egli dice 1 latto della mente rappresenta l'oggetto , non distingue egli stesso manifestamente Ira il rappresentante ed il rappresentato? Non egli forse di- verso il passivo dall'attivo? La stessa espressione che egli adopera,  lalto della mente ( rappresenta loggetto , non distrugge la sua affermazione in conlrario? Non sa- rebb'egli stato desiderabile, che il padre Dmowski, invece di negare gratuitamente la distinzione fra l 'oggetto della mente ( nella sua possibilit o idealit) e l 'atto della mente, avesse risposto qualche parola ai tanti argomeuti da me recati per islabilire quella distinzione? Ne ripeter qui un solo, per non essere infinito; ma tale che pare a me irrepugnabile. Loggetto della mente  il vero ; e per prendere in esempio un vero particolare, pigliamo questo , che c due e due fanno quattro . Or tutti gli uomini intuiscono questo vero , sieno del nostro emisfero 0 degli antipodi. L oggetto che tutti vedono colla inente  identico ; eppure ciascuno, per veder- lo, dee far un atto particolare della sua mente, e se noi fa, noi vede. Laonde, se f oggetto  uno e identico, e gli atti mentali che l hanno per loro termine sono tanti quante sono le menti che lo intuiscono ; egli  dunque manifesto che 1' oggetto si distingue dagli atti delle menti, e che questi non sono la cosa stessa con esso. Di pi : il vero, ogni vero, tolte le relazioni delle cose vere, questo vero particolare  due e due fanno quattro   eterno ; perch Tu sempre vero da tutta i eternit, che due e due fanno quattro, come furono sempre vere quelle relazioni d'identit, di necessit, ecc. , clic il padre Dmowski chiama nozioni universali. Prima ( 1 ) Che cosa i quest immagine intellettuale della cosa? A me pare daver bastcvol mente dimostrato , elle l intendimento non lia immagini , ma solo oggetti o ideali , o anche reali. f2) Dico intuisce , perch I* atto della mente col quale ella conosce P oggetto possibile , e perci n* Ita lidea, io lo chiamo intuizione, c distinguo P intuizione dalla percezione , in quan* loch la percezione  I* atto con cui P uomo sente P oggetto reale , e lo conosce mediante P af- fermazione , il giudzio. Il padre Dmosrski suppone che la percezione abbia per suo oggetto le idee , e per la confonde colla intuizione ; ma io non rogito far questione di parole. Era per necessario alla chiarezza! che il lettore fosse di ci avvertilo. 2G5 che gli uomini fossero, lutti i veri erano veri, e sarebbero steli veri eziandio clic non fossero steli creali gli uomini; perocch (ali oggetti delle menti ornane non di- pendono dalle menli umane n da nissuna mente contingente, o dagli atti di queste menti contingenti. Ed  perci, che se questa verit  dne e due fanno quattro > , non  intuita dalle bestie o dagli esseri inanimati, ella non cessa per qnesto dall' essere nel modo suo proprio. Ora quell intuizione, quell' atto coi qnale la mente di ciascun uomo vide la prima volta che due e dne fanno quattro,  cominciato nel tempo,  del tutto contingente ed accidentale. Se dunque gli oggetti ideali della mente ( le idee, le verit ) sono di natura loro eterni, e se gli alh della mente nostra sono contingenti e temporali, dunque si dee distinguere loggetto della mente dallatto della mente, lidea dall' intuizione (percepito, secondo la maniera di parlare del padre Dmowski ), come si dee distinguere l'eterno e il necessario dal temporale e contingente (i). XXV. Quanto poi maggiormente si renderebbe manifesta questa verit, se io volessi, discutendola pi profondamente, recarla Gno a cavarne quel risultato impor- tante e fecondo che altrove feci, il qual dimostra Y oggettivit stessa delle cose tolte risedere nelle idee, e da esse sole le altre cose parteciparla ? sicch l'atto stesso della mente non pu rendersi oggetto alla mente, se dall' idea non vien prima mutuando I' oggettivit ( 2 ) ? XXVI, ala passiamo al secondo incomodo che trova il padre Dmowski nel si- stema delle idee innate ; ed , 2. 0 Quod non sii philosophicum, rcs naturales explicando , recurrcrc ad forma s quasdam in mente latenlcs, quac, quid sint, prorsus non inielligitur (3). Se non che, chi beo considera, qnesto argomento non riguarda punto n poco l origine delle idee ; n esso dimostra che debbano essere piuttosto acquisite che in- nate; egli riguarda unicamente la questione della natura delle idee; n prova puolo altro, se non che le idee non sono Formai quasdam in mente latcntes, quac, quid sint, prorsus non intelligilur. E veramente, che le idee sieno innate o che sieno ac- quisite, ci non mute la loro natura. Questa natura si pu intendere onon intendere; elle sono ugualmente quello che sono. Che io sappia che cosa sia Tenie perch Iddio me n ha comunicata la notizia col crearmi , ovvero che io sappia che cosa sia T ente perch io me nho acquistate la notizia da me stesso ; ci non rende la notizia dell'ente diversa; ella  egualmente quello che ; nellun easo e nellaltro  la notizia dell'ente e nulla pi. Clic cosa  la notizia dellente? E T idea dellente,  lente stesso pre- sente alla mente nostra. T ente intelligibile da noi conosciuto: ecco il tutto: qui non ci sono forme latenti, come s immagina il padre Dmowski. Che T ente intelligibile sia stato sempre presente a noi fino dall' istante in cui cominci lesistenza nostra, ov- vero che egli ci sia reso presente in un tempo posteriore; qnesto non mote, per dirlo di nuovo, la sua natura, n ci obbliga a definire in nn altro modo T idea Dir il pa- dre Dmowski, che se l'idea dellelite fu a noi date insieme coll'esisleoza, ella si rimase in noi latente per qualche tempo. Si, rispondo; a quella guisa che rimangono pure in noi latenti latte quelle idee e cognizioni, alle quali attualmente non riflettiamo. Vale adunque ona tale difficolt anche per le idee acquisite; e se non  difficolt per queste, non dee essere difficolt neppure per le idee innate .Ora vorreste voi, mio rev. Padre, che luomo avesse sempre coscienza di tutto ci che passa 0 avviene in lui? Rammentatevi, che il sostener questo riuscirebbe non solo contrario .alla filosofia, ma ben anco alta cristiana teologia ; la quale insegna che la grazia di Dio opera nel bam- (1 ) Vedi il liimotamento ece. L. Ili, c. XXXIX e seg, (*) Vedi il jY. Saggio, eco. Sez. VI, p. Ili, c. II.   da osservarvi, leggendo questo capitolo, che l  idea dell' Io involge P idea dell anima , e la percezione dell Io involge lo per- cezione dellanima, ma non viceversa. (3) Nel citalo n. 60 della Psicologia. Rosmini Voi. XII. 459 oogle 459 266 bino che viene battezzalo, quantunque egli non n' nbbia coscienza. E giacch siamo venati a toccare le relazioni che hanno le dottrine filosofiche eoi dogmi del cristiane- simo, permettetemi, rcv. Padre, che vi chiami ancora a riflettere se le difficolt che voi fate alle idee ionate non potessero per avveotora pregiudicare alle dottrine ricevute dalla Chiesa intorno alla cognizione angelica; pensateci, e voi stesso, nella vostra saviezza, giudicate. XXVII. Ma passiamo al terzo ed ultimo incomodo, che il padre Dmowski ritro- va in ammettere le idee innate. 3. Argumenla quibus harum idearum existenlia suadelur, dice, nil valcnt statim oc admittatur in animo nostro vis ejformandi aliquas notione universale!, ali- ter qunm per abslraclionem a sensibus. E non temete voi, che taluno vi faccia osservare, che Y ammettere semplicemente nell'animo nostro una forza di formarsi alcune nozioni universali non basta in filoso- fia; perch, oltre ammetterla di buona volont, bisogna provare che ella esista di fat- to; bisogna provare almeno che ella sia possibile, e che noa tragga dietro a s delle conseguenze assurde? In fatti, lesistenza di una tal forza, come cosa di fatto, deve esser provata sic- come si provano i fatti, cio mediante losservazione ; ci che il padre Dmowski lascia interamente a desiderare. XXVIII. Ma pazienza! qualora almeno la forza di formarsi alcune nozioni uni- versali, che il padre Dmowski dona generosamente all'animo umano, non fosse assur- da, e non traesse dopo di s delle assurde e perniciosissime conseguenze. In vero, ella  cosa assurda laccordare allanimo umano il potere, o sia la forza di formarsi le nozioni universali del vero, del giusto, dellonesto, ecc., della identit, della necessit, ecc.; perocch le nozioni del vero, del giusto, dellonesto, ecc. . non sono altro che il giusto, il vero e lonesto, in quanto  intuito dall'anima (i). Ora il vero, il giusto e lonesto, sono cose eterne e necessarie, le quali possono essere bene tatuile dall'anima, ma non formate , se non si vuol cadere nellassurdo, che l'anima contingente formi ci che  neccessario, eterno, immutabile. Lo stesso dicasi delle re- lazioni d'identit, di necessit, ecc. Questi sono altrettanti veri eterni, i quali possono essere intuiti; formati no, n dalluomo, n da chicchessia. Lessere ideale di qupsti veri, che  quanto dire le loro idee, appunto perch  eterno, ha sede nella mente di- vina; e luomo sol ne partecipa, ma nonio forma. Non fa dunque bisogno di dare una forza allanima di formare tali oggetti; anzi non si pu attribuirgliela senza erro- re; ma conviene solo darle Y intuizione di tali oggetti; i quali stanno cosi mirabil- mente lun dentro laltro, che tutti infine si trovano e si riscontrano nel solo essere ideale , o idea dellessere. Parmi che questi errori del padre Dmowski gli sieno acca- duti per noa avere ben meditata la natura dell idea, n aver conosciuto, che ella non  altro se non loggetto stesso che lanima intuisce, il qual oggetto  intuito nella sua possibilit, e non nella sua realit, comunicandosi questa ed operando nel sentimento, e non nel puro intelletto. XXIX. Le conseguenze poi del sistema che d allanima umana una forza di_/r- marsi delle nozioni universali, sono perniciosissime, come dicevo; perocch, se tali nozioni ed idee fossero formazioni d un essere contingente, sarebbero contingenti an- chesse, non sarebbero pi verit, ma solo apparirebbero tali allanima per una ilio. (i) Quanto sapientemente Don osserva sant Agostino , che di tali cose , e universalmente di tutte lo verit, di cui si compongono le varie discipline, noi non abbiamo gi nella inente le rappresentazioni ; masi proprio le cose stesse, nec eorum imagines , sed aas ipsas gero ! Que- sto i pur quello, a cui oon pongcn monte i moderni filosofi , onda poi si van persuadendo di potere spiegare ogni cosa per via d immagini e di rappresentatiooi.  Chi vuol sentire come sant Agostino osservi in s quel vero, che io qui aocetino, legga fra gli altri luoghi il L. X, Delle sue Confessioni , c. X , c segg. Digitized by 267 siooe invincibile e trascendente. Egli  chiaro che ogni agente opera secondo le pro- prie leggi e Torme; e per l'anima sarebbe quella che darebbe le sue leggi e le sue forme alle nozioni, alle idee, alle verit, oggetto del suo intelletto; come voleva Kant. Quando dunque l'uomo ragiona, non avrebbe altro punto d'appoggio che s medesi- mo ; le conclusioni de suoi ragionamenti non varrebbero pi di quel che vale egli stes- so; comincerebbe e finirebbe la loro verit cogli arri della sua mente; in una parola, non si potrebbe pi difendersi dallo scetticismo, Funestissimo e capitalissimo errore di questo secolo, il quale si dee svellere dalle menti della giovent, e non seminarvelo ; n lo scetticismo si svelle, se non con buone ragioni ; giacch le ragioni che non fan- no fona, appagano la giovent per un poco, vinta allautorit ed al rispetto del pro- prio maestro : ma poi si dissipano da se stesse, o sono dissipate dalla riflessione pi matura; restandosi cos la giovent nostra siccome una piazza aperta e disarmata fra tanti nemici che laccerchiano e lassaliscono. XXX. Le quali riflessioni tutte noi vogliamo sottomettere alla saviezza de' letto- ri, che sapranno sicuramente apprezzarle. E fortunali saremmo se venissero accolte con benevolenza dal reverendo padre Dmowski principalmente , intendendo egli da quali giuste e necessarie ragioni noi fummo indotti a scriverle da lui provocati ! For- tunatissimi poi se fossero da lui approvate! giacch, desiderando noi entrambi il bene della giovent e il progresso della verit e della piet, cos ci troveremmo uniti nei mezzi di procacciare tali cose, come ci troviamo uniti nel fine. Per me non ricuser di dargli maggiori dichiarazioni di quanto bo fin qui osservato, se egli lo bramer, e di esporre anco delle osservazioni pi estese sulle sue Istituzioni di filosofia, colla stessa libert rispettosa con cui bo scritto le presenti, se, coltivando egli la presente discus- sione, rendesse utile o necessario da parte mia un nuovo lavoro. FINE DEL VOL. XII. DELLE OPERE E IV. DELLA FILOSOFIA DELLA MORALE. Gl 50 Digitized by Google Digitized by Google ZHDZSS BlILTO131 , X, 2 . . . . > 6 Lcit. XV . . 1 151 Rom. Il, 12 . . . 1 70 , XIV, 23 . . 1 153 I>eut. XXXII .  96 .  , 13 . . . . , 1341. Cor. II, 14 . . . > 15 Job. VII . . .  125 -, 14 . . . . ,237 , IH, 3. . .  . 1 139 1 XIV-. . .  150  -, 15 . . . . , 240 , VII, 37 . . . . 1 148 1 XXV . .  150  111 . . . . . . , 70 , XV, 21, 22 . .  88 Pi. XXX. . . 155  -, 9 24 . . . , 157 ,  , 58 . . * > 158 j L. . . . pag. 151, 166 , -, 23, 24 . . , 88 Gal. Il, 21 . . . .  89 . CXL.III 2 .  156 . V. ... . . , 88 , III, 22 , . . . I 63 Pro*. XX, 24 . , ,  143  , 9, 10 . . . , 88 , V, 17 . .  . * 92 Kccle. IX, 1 . , 109  , 12 . . , . , 24 1  ... . . > 125 Sap. Vili. 15 . , , 1 82  -, 13, 14 . . . , 69 Epbei. Il, 1-9 . . . ) 166  XM, 10 , Il . 60  ,16 . . pag. 88 , 91 -, 3 . . . 1 67 Eccli. XXXVII, 20 .  110 Rom. V, VI, VII . . .214 ,  , IO . . . .  169 Isai. XXIV, 16 , , 151 1 VI, 2-12 . pag. 138,139 , IV, 22-24 . . . I 170  LX1V, 6 .  ,  65  , 4 . . . . , 142 Philip. Il, 13 .  . 1 166 Eiccli. XXXVI, 25, 26.  166  -, 4 6 . . . . , 168 Colon. Il, 11 . . .  142 Mallb. VII, 20 .  134  VII, 1-4  . . , 163 I. Tim. I, 9 . .  1(4 XII, 30 .  77 , -, 5, 8, 9 . . . ,111 Hebr. li, 16 . . . .  100 XIII, 25   6  -, 8 . . . . , 139 , XI . . . . pag. 64, 65  XIV, 31 7 , , 8 , 11, 13 17. , 111 Joc. I, 14 . . 126 1 XVIII, 15  1, . -, 15, 16 . . ,125  II, 10 . .. 175 Lue. X . . .  79 , , 17 pag. 138, 139, 161 II. Pctr. I, 10 . 158 Jo. I, 13 . . 113 , -, 18, 22, 25 . , 169  -, 21 . . 166  , 29 . . , 88 ,-,20 . . . . , 93 I. Jo. I. 8 . . 156  II, 25 . .  108  -, 23 . . . . , 239 ,  , 10 . . 156 III, 3, 6 . pag 134, 142, 152 , -, 25 . . . . , 169 , II, 16 . pag . 59, 84 92  vi, 44 : . 1 165 , Vili . . . . . , 126 , IH, 9 . . 142   , 84 . .   a 142 > , 5 . . . ,  125 Apoc. XX, 15 . 91 Digitized by Coogle Digitized by Google TEOLOGI una qidqq &o mwmm MOSSE CONTRO IL TRATTATO DELLA COSCIENZA I. Lorenzo Gastaldi, canonico, teologo collegiata dell' universit di Torino.  Articolo inserito nel Propagatore Religioso di Torino, anno VI, voi. XI, face. 353 e segg.  Lettera in risposta alle avvertenze delsignor C. B. P. Milano i 843, tipografia Boniardi-Pogliani.  In difesa della Dottrina di Antonio Rosmini - Serbati . Torino i843, tipografia Pagani e Cotnp. IL Amico Cattolico, Giornale che si pubblica in Milano da nna societ di Teolo- gi lombardi.  Articolo nel voi. 1, f, 450 e segg.  Altro articolo nel voi. Il, f. 3 1 8 e segg. III. Paolo Bertolozzi, canonico della metropolitana di Lncca.  Lettera sulla Risposta al finto Eusebio Cristiano del chiarissimo signor D. Antonio Rosmi- ni-Serbati proposito generale dell istituto della Carit. Lucca l84i, tipografia di Giuseppe Giusti  Peccalo originale e Moralit, commentario.  Lucca 1842 , dalla reale tipografia Baroni. IV. Giovanni Fasto zzi, dottore in sacra teologia.  Due articoli del professore Federico Del Rosso, estratti dal Giornale Toscano di scienze morali, storiche e filosofiche con due lettere del sacerdote Giovanni Fantozzi sol Trattato della Coscienza Morale del signor abate Antonio Rosmini. V. Giovanni Battista Pagani, missionario apostolico.  Doclrina peccati origi- na lis destructiva in fido Eusebio contenta. Mediolani, ex typographia Ro- niardi-Pog/iani, uncccxuu . VI. J. P. Beaud, teologo dell' universit di Torino.  Quelques mots sur une lettre du R. P. Rozaven, concernant la doctrine de M. f abb Rosmini. An- necy, i843. Digitized by Google Digitized by Google r- 3 ; l N Q i Q E UECI 1 !U Tom CITATI IN QUESTO VOIIHE Agostino or! oli o6;t>s7%77 TX, a sii xi' xr., xixxS'j, i. 92 . 93 . 94 . a:; , g^ipn; 104. 1 OS, 106, IffTTKISntF, 113, 1 14, 117, 118, 1 19, an nrr, 123, 124, 123; 125, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 1337 TRT 135, 137, 139, U0,141, U> 143. 144, 1457 144, 147 , 152 , 1537 154, T5S, 1597 100, 161 , 164, reircf., 107, 173, 1X2. i83,nr 205,206,215 225, 247, 258, zar A fi redo (X), L25 Alasi, us: Ambrosio (S.), 77, 1 64. Amico Cattolico, 1 82 . Anselmo (S.), 107, 125, 127,216. Aristotele, 2557 Avito (S,), 125. Rsio, 18. 22, 30, 31,33,37. 41, 75, KL 0,1, 90, 93, 96,122, 146. 152. 154. 155. 156, 157, |Pel agio . 53, 64, 67, 69, 78, gl , 159; 160. 165, 168, 170. 17l,| 85, 86, 161, 166, 167, 121 175. 199, 200, 201, 202, 204, Petavio , gl 205, 206, 207, 212, 213, 220, Pier Grisologo (S.), 1 27 . Pietro da Bergamo, 214. Pighio, 38, 39, 45, 102, Platone, 239, 2517 Poli, 52. Propagatore Religioso, 185, 199, 194. Prospero dAc. (S.), 94.105, 125, " SA l- 1 1 123, 171, 212. Raronio (Card.), 454. Basilio, 109, 126, Ileda,44. Bellarmino (Card.), 88,39, 43.85, 98, 99, 100 101, 102,1037105; TTS.T3T7157r B, Belli S9, Bernardo fS.), 125,128,169,176 Berti, X9, Bertolozzi, K 189. Bolgeni, 577 125. _C C. B. P 194, 206, 203. Calvino, SI, 73, Calecli. Eccl. Polon. 81_, (Catechismo Romano, 74, 125,202, 207, 210 Canarino, 38, 39, 102. Celestino P. [SA 100. Cicerone, 239, 245,246, Cipriano (S,), 212. Clemente Vili (P.), 181. Clero (Nicol Lo), 51, Concilio Besil. , 202. Concilio Cartaginese, 125. Concilio dOraogc, 40, 105, 165. Concilio Fiorentino, 75, 76, 198 Concilio Milevileno, 143. Concilio Trid., 22,23 24, 26, 2L 59, 69, 64, 65, 7a 74:75781. 83; 84, 87790, 927957 9571 12 TTG, 1177118, 1207121. 122. 136, J3Srr427143; 144, 144; ftosiun Voi. Xir 224. 231 Coodillac, 255. D Damasceno (S. Giovanni), 99, Dante, 10. Didimo Alessandrino, 124. Ilig 1 16 . Dmovrski (p.), 237- 267. E Eplsc. esules in Sard.. 125. Esame critico, 193,233. Enio, 85, 125, 138, 139, 142. Eugenio IV (!.), 198. Eusebio Cristiano, 186, 202, 206, 222,232. F Fcndlon, 2. Filippo Neri (S.), 154.' Fulgenzio (3.1. 73. 105, 125. G Gaetano (Card.), 33, 45, 06 , 98 104 . 125 , 227, Gelasio P. (S.), 125. Gerdil (CardX84, 178, 237. Cianscno, 2a, 28, 31. Giovanni Cri. (SA 1 25, 163, 164, 167, 162.   Giovanni Vili (P.), 23. Gioviniano, 27, Girolamo (S.). 99, 125, 120,127. , 143 Giuliano di Eclana, 56, 58, 77, 82, 129, 135. Gregorio M. (SJ, 73, 125, 126, Gregorio Nisseno, 127. Guadagoioi, 125. Q llypognosl. 125. Innocenzo UI (P.), GL 63, 82,140, 1 .: j fi; 1 #0 \ 10 17  ' Isidoro lliipal. (S.), 12j. K Kant, 255, 262, 2fiZ. L Lcibnizio, 255. Leone (S.), 125. Leone XII (P.), 181. migliori (S. Alfonso), 213. latrano Nicol, Locke, 2.) 5, 258, 259. Lombardo Pietro, SO. Lutero, 155. M Monna!* (Do la), 182. Molino*, 177. P Paflaziciflo (Card.), 114, 141, Prudenzio (S.), V Quei nello, 27, 171,186. R Reid, 255. Riccali (p.), 182. Rituale Romano, 62, Rosmini. IO. 13, 14, liL 1S , 2lj 2^28,30,31,19, 56,63,71, UT, III, 112, 1T3. 1167117. 129, 130, 134, 146, I47.T5T, 158, 159, fCT, 162; 74, 05, 176 ,179, isrrntg; iqg, 2qs, 219; 230, 232, 238, 241,254, 256. 257; 25872617 2527 263, 265. S Sinodo Pistoiese, 75, 76, 173. Siricio (SA 73. Solo, 44, 98, 104. Stewart, 255. Suarez, 206, 21A 221, 240. T Tertulliano, 33, 7L Tommaso S.), 1 5, 16, 17, 18, 22, ^ 25 , 25729 , 31733734 , 55, 4L, 42, 46, 47, TADO.K], 52, 54, 55, 567 607 637 6L 6>C 72, 78, 79,110, 92,~95, 96, 677 99, 101, 10S7T06, 108, 111, 112, fili; ITA 115,123, 126, 1277 1317 132, 134, 136, 137, 139, 140, 141, 143, 145, 146, 147, 14.8, 149, 152,453, 155, 161, 162, 173. |7j, 175, 176, 18S7 1947 197, 200, 2o47 2057 206, 207, 2os; 209; 2107 211. 212, 214,215, 2167 217, 219, 220, 2237 22$; 225, 2267 227, 228, 2297235,^317 232, 239, 2447 Tournely, 22, u Urbano IV (P.), GL V Viva Domenico, 186. Z Zositno (P.), 78. 460 Digilized by Google Digitized by Googl Risposta dellabate Rosmini al addetto Canonico . > RISPOSTA AL FINTO EUSEBIO CRISTIANO. I. Occasioni: dell'opera . : I Qursrions Paia. Dell'uso fallo dagli ecclesiastici scrittori, e specialmente da s. Torte- maso, delle parole peccato e colpa i II. La roce peccalo si adopera spesso dagli rcriltori per indicare nna colpa ; ma talora anco per indicare un peccalo semplice > III. Si prora la distimione fra la nazione di peccato e quella di colpa colf autorit di sant' Agostino I IV. La dcGnizionc del peccato in genere dee esser (alo che abbracci anche il pec- cata originale: la colpa non  il genere dc'peccati, ma una apecio . . > V. Si debbono distinguere negli scrittori i luoghi dot essi parlano di colpa, che  una specie di peccalo, da luoghi do essi parlano di peccalo in genere, e non coafunder quelli con questi 1 VI. Si prova la distinzione della nozione di peccalo semplice da quella di colpa ool- 1 oulorit di s. Tommaso I VII. Continuazione  .  * i  I Vili. La proposizione XLVI di Bajo parla della spedo dello Colpe, e a torto ti pre- tende ch'ella parli di peccati semplici a Qikstiohb Seconda. Se si possa dare neW uomo uno sialo di peccato non imputabile a colpa di lui stesso a IX. Si prora collesempio del peccalo originale in cui l'uomo nasoe, che i vero peccalo, ma non imputabile se Don riferito al capo dell umana stirpe, ebe li- beramente il commise. * X. Il peccato  un difetto reale inerente al soggetto; la colpa  una relazione col libero autore del peccato, a cui simputa ......... a XI. Che il peccalo originale non sia colpa in se stesso, ma solo in relazione col pri- ma padre che liberamente 11 commise, si prora coir nulorit di S. Tommaso s XII. Secondo la dollrina del Cristianesimo, ri hanno due formo di moralit, Puua non libera, e laltra Ubera > XIII. Dall ammettere una forma di moralit non libera, non viene punto la conse- guenza, che luomo non possa perdere la grazia santificante, e che non siano necessarie all uomo le buone opere. . a XIV. Dall' ammettere che la grazia di natura sua opera per necessit, non viene che il libero arbitrio dell* uomo non le possa resistere ....... face. XV. Talora fa grazia precede luso del libero arbtrio ed in tal coso opera la sanliti- cuziunc delluomo, senza clic il libero arbitrio delluomo vi si possa opporre. > XVI. Talora luomo non si pu opporre oli aziono santificante di De perla potenza con cui opera in esso, il cho accade ne celesti Comprensori > XVII. Distinzione fra la giustizia naturale c la soprannaturale.  Fra la giustizia e la sua iuiputazouu : cos pure fra T ingiustizia c l'imputazione di essa . s I 5 9 13 ivi Ivi 14 15 ir 17 18 21 ivi 22 23 23 2l> 82 30 31 32 Digitized by Google 27C XVIII. XIX. XX. Questione XXI. XXII. XXIII. XXIV. XXV. XXVI. XX VII. xxvm. XXIX. XXX. XXXI. XXXII. XXXIII. XXXIV. XXXV. XXXVI. XXXVII. XXXVIII. XXXIX. s L imputazione  colpa suppone ianauii ili s un disordine morale ; o per il ne- gare* ne bambini il disordino morale consistcote in una stortura di loro vo- lont o avversione a Dio,  un negare insieme la colpa originale. . face. Nota (I). Il pretendere che la semplice mancanza della grazia santiiicanle possa essere imputala a peccato,  via che conduce al llajnnUmo . . > Ne' dannati vi  il peccato, bench non possano pi demeritare o peccare in mo- do che li renda colpevoli. > Continuazione Tazza. Se eia cero di che pretende Eusebio, che la natura e la volont uma- na dai peccato originale non eia rimana infetta n guaita, ma solo privata de' don! soprannaturali . s Gli avversari alterano intorno a ci la nostra dottrina, e pretendono che tutti i cattolici seguano quella ch'essi professano. I Nota (3). Il pretendere , come fanno gli avversari , che la grazia sentili- canto sia necessaria a costituire T integrit delta natura,  via che con- duce ai Uajanismo t Il diro che il peccato originale de' bambini non sia altro che il peccato origi- nale ad essi imputato , lenza riconoscere in essi un difetto morale che possa esser oggetto d imputazione,  dottrina dichiarata eretica dal Uellartuino. s La mera nudili do' doni soprannaturali noa pu esser oggetto nel bambino d'im- putazione . 1 Caniiauazione .  . .1 il pretendere, cha la nudit de doni soprannaturali, chesi trova nc'bambini, sia oggetto d imputazione, non solo  un assurdo, ma distrugge il dogma del pec- cata originale s Continuazione > Quelli che pretendono che il peccato originale ne bambini si riduca alla sola nudili de dooi soprannaturali , non osano dire che sia un vero peccato ; ma (ogliono diro che quella nudit stimai costi peccavo , colla qual frase dimo- strano di sentir essi stessi, che il loro sistema racchiude U distruzione di un tal dogma > 11 pretendere che la mera privazione de* dooi gratuiti ne* bambini sia peccalo,  un (are Dio stesso autore del peccato s Il decreto che fece Dia di dare a tutta l'umana stirpe in Adamo da dooi so- prannaturali, non pu litro ebe la mera privazione di tali doni che in s non e peccato, diventi peccalo s Chi dice, che la nudit de* doni soprannaturali nel bambino, bench in s ste- so non sia peccato, Minasi come peccato, e questo i tutto il suo peccalo ori- ginale ; dee dire altres, che la remissione del peccalo che si fa nel santo bat- tesimo non  rimessione in s stessa, ma Minasi per remissione, e quindi ebo i bambini non vana upricnuTCn in semissiokem psccarunctt . .  .  Domenico Solo noa mette l essenza del peccalo originale nella mera nudit dei doni soprannaturali , che considera sub corno un elfnllo del peccato , ma la metto  Viene allo slesso la sentenza del Cardinal Gaetano, ripooendo egli il peccato de bambini hi un abito corrotto, o in un positivo languore della loro natura morale ; > S. Tommaso del pari non pano lessenza del peccato originate in una pura pri- vazione de doni gratuiti , ma io una positiva infcziono , che torce dai retto ordine la volont, e sconcerta l'armonia fra essa e lo potenze inferiori contro a quanto esige la morale natura dell'uomo s Continuazione * > La privazione dell' originale giustizia in cui ripone s. Tommaso l originai pec- cato de bambini non  la mera privazione de* doni soprannaturali, ma di pi le privazione dilla AZrvtTCoiNE osLLA VOLONT la quale  peccatrice non porcini  nuda , ma perche  torta Si conferma, che il peccato d' origino ncbambini eensisle nello stortura di lo- ro volont, coll autorit d un reccnto teologo t Secondo s. Tommaso linfezione originale de' bambini in qaant peccato  un abito; e in quant  colpa noa  un abito, ma una relazione . . . . > Il mal abito ossia la mele disposizione in cui ripone . Tommaso l'essenza dcl- I originale infezione, considerata non come colpa, ma come peccalo, non  solamente opposta alla giustizia soprannaturale, ma alla naturale altres. > Che la ragione regga l' inferiore appetite,  all uomo naturale, secuudu s. Tuiu- 33 ivi ivi 34 37 ivi ivi SU ivi 40 41 ivi ivi l 43 ivi 43 4S 4J 50 51 ivi sa Digitized by Googlj: XL. XLI. XLU. X 1.111. XL1V. XLV. XLVI. xi.vil. XI.VIII. XUX. L. LL Ul. I.lll. L1V. LV. LV1. LVII. I.VI1I. LIX. LX. 877 mata, cd  un guaito contro natura ohe la ragione il trovi impotente a go- vernarlo . , 7 face. Il dira elle la concupiscenza , tale quel  al prroonle nell uom decaduto, po- trebbe rinvenirsi in un uomo crealo do Dio, elio non avene peccato, A un giu- liticarla e un lodarla come opera di Dio llcso Il pretendere ebe tutte le membra delluomo non panino mai ad operare sen- za il consenso libero della ragione,  un negare ci ebe insegna P Apostolo, e aonl Agostioo sulla lotta Ira la carne e lo spirito, e il bisogno della grafia per vincerla > Tendeniq al aAziomuiiio ed al pilaq iswismo de* tempi moderni.  Pelagio negava, che la concupiscente, qual 1  al presente, avene alcun vizio in s con- tro la natura ragionevole dell uomo, e solca ebe si trovasse nell uomo quale fu creato da Dio. Sant Agostino contro di lui dimostrava cita cosi non fu, ai Fo- ra v a ss s sa , , . = . . . . . . . . , i , , ,  . i Se il peccalo originalo consistine nella mera nuditi de doni soprannaturali, la trasfusione di esso si spiegherebbe lenza bisogno di ricorrere alla libidine abituale , giacche i naturale elle I 1 uomo privo de* detti doni comunichi generai do la natura umana sema que' doni ebo non ha. Ma tutta la tradizione insegna, che H peccato originalo trapassa di padre in tiglio, per la /l bidme abituai,  non perch l uomo sia privo de' doni gratuiti. Dunque nella mera prisqiiono di questi nop pu consister il detto peccalo. *,> Pelagio accordava elio la natura Tosse priva dell'ordine soprannaturale, ma negava clic avesse un viiio morale in s stessa, e per questo fu condannalo. ... I Se la natura umana non avesse vizio, ma solo privazione de doni gratuiti, non sarebbe da Dio lasciala in balia del demonio.  Questo vizio morale  come no mal fisico. Questo mal fisico domanda un medico, Como la schiavit del demonio domanda un Redentore.  Negare il mal fisico e la schiavit conso- . guente,  un detrarre alla Redenzione di Gzs Cristo. , , ,  . .. t E un errore il dire, elle gli antichi giusti piacessero a Dio colle loro virt, aso- la la grasia medicinale del Salvatore ; come puro  un rendere Dio crudele il dire, chegli permeile al demonio doccupare II bambino non regeoerato, sen- za ebe vabbia nella natura di quello alcun vizio > I predetti errori non possono evitare la condanna della Cltieza , bench zi co - prono d 1 artificiose parole  I sostenitori de detti errori sono costretti a fendersi avvocati non pur della con - cupisccnsa, ma ancor del diavolo fc di fede, elio il solo peccato originalo trae seco la dannazione, la perdizione, la morte eterna; bench varie sieno le maniere di spiegare la dannazione dei bambini morti tenia battesimo, fra le quali nulla ha deciso finora la Chicsas Gli empi, che negarono il dogma del peccalo originale, pretesero sempre di dl- moslrarlo assurda col ragionamento della corta loro intelligenza. . . . i Continuatone s La Chiesa defin, che fra il regno di Dio o la dannazione eterna non zi d uno flato medio privo di colpa e di pena, corno favoleggiano i Potagioni , senza per riprovare lo diverso opinioni dei teologi cattolici ( che assegnano pi o men di pena ai bambini morti senza battesimo ContiauaziuDC  t La mora nudili della grazia santificaato nun  una macchia-, a il peccato ori- ginale  una vera macchia La mera nudit della grazia santificante non  una Cerila della natura , e il peccalo originale  una ferita, e Irne seco molle ferite della stessa natura > II peccalo originala diminuisca Vinci inazione della tleua natura umano alla virt i Iddio potrebbe creare un uomo collo tendenza a collo limitazioni della natura; ma non potrebbe crearlo , secondo sant Agostino , col vizio morale di cui  presentemente infetta per origine la Datura > So non vi fosse altro mancamento nella natura umana che quello della grasia, non si potrebbe spiegare corno * uomo che ha ricevuto la grazia generasse dei figliuoli in peccato.  Se l'uomo avesse la natura perfetta, e sol priva di grasia. Cristo lo trasporte- rebbe ex buno ad meliut. Ma II dir questo, secondo sant Agostino, e l'ere- sia di Pelagio , consistendo la verit cattolica in confessare che Cristo colla redenzione na trasportalo luomo ex malo ad bonum  Temerit di coloro, che pronunciano opporsi alla giustizia e alla bont infinita di Dio il mandar luouio alla dannazione scuz' AxitisL, suo demerito . , i Sii 55 ili 52 59 61 51 fili 52 69 7.! 2A 75 76 78 ' 79 ivi 80 Sii 84 85 Digitized by Google 378 LXI. Colora che negano la natura rinata, esaltano troppo le forre del libero arbitrio. e detraggono alla grazia del Saltatore face. Sii LTI1. ss Lxm. Quelli che negano il vizio originale della natura umana, abusano della prono- tiziooe LV fra le condannate di Baio : Deus non potuistet ab initio talem LXIV. creare bomtnem qualis nunc nasciiur. Come vada intesa tale condanna.  sa La parola conrv ntscenza ha due sensi: nel 1 ."  cosa naturale; nel 2. con- tro natura.- Nel primo uomo V appetito inferiore soggiaceva pienamente alla volont superiore in virt della grazia. Ma da ci non viene che io un uomo creato da Dio senza la grazia dovesse trovarsi il vizio della concupiscenza. Dire il contrario  mettersi sulta via del Satanismo as LXV. 11 Cardinal Bellarmino non dice che Iddio potrebbe creare un nomo qual nasce pre- scDtpmente, se non coll'aggiunta escluso da lui ci che costituisce il peccato > fiS Rota (a). Se nell'uomo, qual  al presente, non ci rosse vizio morale, ma loto imputazione esterna della colpa adamitica, l T e Hello della grazia del battesimo non sarebbo che Ut remissione della colpa ; all incontro  jdl fede che il battesimo produce nell'uomo anche iVlicUo di sanare coH'infi^ sioo della grazia il vizio morale quanto alla parie superiore della Datare y LXVI.  vero che il Bellarmino inscena la rettitudine d Adamo esser dipooduta dalla grafia ; ma ci non toglie che ri potcss* essere in un altro uomo creato da Dio una rettitudine naturale senta la grazia 100 LXYI1. Lo stesso Bellarmino nega che il peccato originale consista nella mera pfiva- zio ne della grazia, ina il ripone nella perversione e stortura della volont che ini mette impedimento alla grazia > LXVIII. Continuazione  u LUX. Il peccato del bambino non pu consistere che in un guasto della sua volont. > 104 L* fcstio insegna la stessa dottrina, aggiungendo che si dee ricorrere anche alla 105 volont di Adorno per potergli attribuire la qualit di colpa . .  . t LXXt. La sola volont  la potenza morale, che posso perci esser subbictto di pecca- to  1 1 non averne noi coscienza  un* obbiezione pelagiana coniatala da sant'A* lflfi LXXII. Continuazione 1 Ufi l.XXItl. Continuazione  WS QorsTwa* Quarta. Delle consequenze del peccato (f origine  Ili LXXIV. LXXV. LXXVI. Due cose sono a considerarsi nel vizio originale: Io sua essenza, o gli effetti perniciosi che porta all* anima I Il vizio originale produce efTelti cd atti viziosi, che provano la sua esistenza nell* uomo, come i mali frutti ci provuno il mal albero i La concupiscenza non si prende pel solo disordine della parte inferiore, ma ao- ivi ivi clic della parte supcriore dell 1 uomo > 112. LXXVI! LU LXXVIII. Continuazione.  La concupiscenza chiamata anche vizio della volont . .  Ili LXXIX. Perch s. Paolo dia il nome di peccato al fumilo della concupiscenza, ebo ri- 115 mane dopo il battesimo  LXXX. Continuazione 1 Ufi LXXXI. Continuazione .... * > 117 LXXXII. Continuazione  m Lxxxtu. Il fomite della concupiscenza, bench non sia peccato dopo il battesimo, pure  113 LXXXIV. un difetto morale, ampio fonte de' peccati veniali  fclla non pregiudica a olii vi si oppone, ma s a chi le cede.  Accresce il me- rito di chi la vince col coni battimento, ma impedisco all' uomo lo stato di coni- 120 pinta morale perfezione > 1.XXXV. Il Trideotino non  alieno dal riporre il peccato originalo io quel vizio della 121 LXXXVl. concupisnenza che trovasi nell' uomo innanzi al battesimo  Come si possa dire, che il vizio della concupiscenza che si trova nell' uomo in- 123 nanzi al baliosi mo, sia il peccato originale > LXXXVII. In che senso la concupiscenza vada figliando de peccati necessari . , . s 121 I.WXV1II. Doppia servit dell uomo : l una Veniente dal peccato originale , 1 altra dalTa 128 LXXXIX. xc. Si continua a parlare della servit della prava consuetudine, che aggrava quel- la del vizio originale 9 Chi ricusa di venir sanalo da Cristo del vizio originale, aggrava la sua condanna ivi LSI Rota (4) Altro  la questiono se il solo peccato originale meriti dannazione, 132 XCI. ed altro se Ciisio vi obbia rimediato a vantaggio di tutti 1 tiugolt uomini v Continuazione  133 Digiti 279 Ounviow Qpmri. In qual maniera si spieghi il celebre dello di sant' Agostino, eh* col hnttemimO P1CCATPM OaiOmz TBAUZlV UTC, T MIMI ACTO  . . fCC. 13S Riconoscere il ilio della concupiscenza, non  un lasciar 1' uomo solto la ne- cessili del peccalo , come dicea I eretico Giuliano vescoro d Eclaoa, quando si aggiunge, elio Cristo A quello ce il libera da tale necessit ... i ivi Quattro opinioni sull'essenza del peccalo originale professale da teologi cattoli- ci, le quali si possono conciliare insieme.  In elio senso il peccato origina- rle si possa riporre nella privazione della grazia santificante . , . . > In che senso si possa riporro nella perdila dell' originale giustizia . . .  XCII. xeni. xctv. VI 136 xcv. Io che senso consista in una stortura dotta volont, che, come insegna a. ToST roaso, impedisce a Dio il comunicare all uomo la sua grazia  . . 1 157 XCVI. In che senso consista nella concupiscenza IVI XCVII. Come riporlo nella concupiscenza al modo detto, torni a un medesimo che ripor- 13 lo nell avversione a Dio . .  , i xcvin. il peccalo originale non consiste nel fomite, ma in un vizio anteriore, di coi non abbiamo coscienza.   Differenze fra il vizio della concupiscenza che ba ra 140 gion di peccato, e il fomite, ebe sol rimane dopo il ballcsimo . . . i XCIX. Si seguitano ad esporre tali differenze . . i - ; . . . \ T 142 C. Continuazione . > ivi ll 145 ai. Il vizio originalo  proprio d ognuno che nasce, e guasta la persona . 9 ivi cml Che cosa eia la persona I4b civ: II battesimo sana la persona, dalla quale dipende la salute di tutta la natura umanas 147 cv. Quando il difetto od il pregio d un uomo sia personale o morale . .  9 ivi CVh Coll infusione della grazia del battesimo viene congiunta a Dio la volont su- prema e la persona dell' uomo, nella quale perci  tolto interamente il pec- cato Luomo 6 salvo prima dell'uso del libero arbitrio, ma quando i egli 149 n acquista V uso, pu peccare e perder di nuovo la grazia .   . 9 cvu. Colla rigenerazione del boltesimo sorge no uomo nuovo, mutandosi la base del- rvm la persona 151 152 CIX. Difesa di questa- dottrina dalle frivole od assurde accuso che le vennero date. ex  Essa non escludo la necessit delle buone opere 153 CXI. Continuazione 157 CXII. Ella poae la remissione e 1* annullamento del peccato, e non ebe questo riman- ga solamente coperto ; 158 CXIII. Continuazione 159 CXIV. Continuazione 162 cxv; ISell uomo ballettalo vi hanno due volont, supcriore 1 una e r altra inferiore: CXVI sana quella, e ancora inlerma questa 165 Continuazione . Jf>8 CXV1I. CXVI. Lesposta dottrina niente detrae al libero arbitrio, e alle opere dell uomo natu- ralmente buone  Sbagli enormi presi dagli avversari . - . , > 170 175 Conclusione 178 AvverUmenlo sulla ristampa lucchese del libercolo di Eusebio Cristiano .... 184 Moline d' un arlioolo del Provocatore Heligioso 183 LE MOZIONI DI PECCATO E DI COLPA Dedicatoria 189 Occasione di scrivere questa' operetta 194 * I ra il peccato e la colpa v' ha una distinzione c non una disgiunzione reale. 1 155 1T7 HI. IV. V* VI. VII. Nel comun modo di parlare si usa la parola peccalo per colpa, bench la no- zione di quella differisca dalla nozione di questa ivi L uso proprio delle due parole peccalo c colpa diligentemente conservato non rende confuso ed equivoco il parlar della Chiesa 197 La quale non usa la parola peccato per colpa, se non quando il contesto chiari- sce sufficientemente il discorso 198 La distinzione della parola peccato da colpa si prora coll' uso accuratissimo che ne fa il Tridentino 199 Anche il Catechismo Romano distingue il concetto di peccato da quello di col- pa, c conserva la propriet de vocaboli dove bisogna v 202 S. Tommaso distingue le stesse nozioni, o usa spesso i due vocaboli con tutta propriet.  Si conferma la distinzione, accennando l etimo logia delle paro- Digitized by Google 280 le.  Quelli ch la negano, mirano a distruggere il peccalo il' origina.  Er - rore contro U fede di quelli che dicono, il peccalo originale non e ezer p cc- Hlo, M noe MteuMdum fuU, e anadamieiuu . I . . I ; ; ; Geo. 203 Vili, Quelli che confondono le nosioni di peccato e di colpa, mettono in coolraddizio^ ne il Concilio di Trento e il lochiamo Romano > 206 IX. E argomentano, che nel Mio Adamo vi  peccalo, perch in Ini Mia vi  colpa; la quale, noe essendoci ne' poster, neppur vi  peccalo. ... .1 207 X. Attribuendo ingiustamente tal dottrina allAngelico . > 208 XT Coatia usatone . , i i . , . . . . . . . . . i . . > 209 XII. Seguitasi a difendere a. Tommaso, dimostrando corno da per tutto egli suppone la distinsione del peccato dalla colpa 210 XIII. E vero che s. Tommaso toglie la ragion di colpa alla macchia originale dei bambini, e anche la ragione di peccato attuale, ma non quella di peccato abituale >211 XIV. Si pu considerare il viiio originale dei bambini, astraendo dalla prevaricazio- ne dAdamo, ma non distruggendo la relazione ch'egli ha con essa . . > 213 XV. II peccato di ciascun bambino  numericamente distinto da quello d Adamo, o sussiste da s; bench non riceva la unione di colpa che dalla relazione con quello.  Pot esser rimessa la colpa di Adamo, c noo rimesso il peccato di molti posteri; come viceversa polca non essere rimessa la colpa d' Adamo, e tuttavia esser rimesM il peccato da posteri : sicch il peccato di questi ha una entit separate dalla colpa di quello.  Le penalit che tengono dietro al pec- cato de' panieri, hanno questo per esusa prossima, e la colpa d* Adamo per causa rimota.  Altri argomenti che provano potersi eoosidcrare il peccato de* bambini nell entit sua, astraendo dalla relazione con Adamo, onde gli viene la nozione di colpa i ivi XVI. Continuazione Il peccalo  proprio di ciascuno, la colpa  comune di lutti.  Il peccato appartiene all* ordine della realit, la colpa  un essere di ra- gione .>218 XVII. Solo distinguendosi il peccalo dalla colpa si pu spiegare acconciamente Como passi il peccato per generazione, anche dopo rimessa al primo padre la col - pa in quanto era sua peraooale.  La distinzione fra peccato e colpa  di con - cetti, non di parole.  Le eresie di lelogio e di Gianseaio nacquero dalla- ver distrutto tale disUnzioon . ... . i 221 XVIII. Secondo s. TommaM vi sono tre specie di peccati, che egli chiama naturar irrlit  noris. Ma il peccatimi moni riceve poi le due noiioni di peccato tempiiee e di colpa ; il che si oonferma coll autorit del tiaelaao ,   ,   223 XIX. Il peccalo morali, u) quaor peccato semplice, secondo 5, Tommaso, non esige l'uso dembero arbitrio . . > 228 XX. Il peccato, secondo . TommaM,  un difetto della volont, e U colpa consiste nel - l' onere la volont libera causa di esso ............ 229 XXI. FalMmente  imputa a i. TommaM non dottrina, cho distruggo il peccalo ori- g note i ... t 230 XXII. Continuazione ....... 231 XX H 1 . Co gli n unzi O ne i 23 2~ SULLA DEFINIZ IONE DELI, A L E G GE MORALE. *   >237 SULLA TEORIA DELLESSERE IDEALE.        > 232 Indice dei luo g hi della Mera Scrittura citati in gu i s a Tolumc . ,   > 2j>9 Teologi che~banno risposto alio difficolt mosse contro il Tratt alo della Ciuciarla . . . >271 Indice degli Autori citati in quatto volante . , > 273 ERRATA P*fi- 18 lin. 1 incolpabile 37 > 1 Avendo 37 >39 ma ci 39 > 20 XXII. 121 > ult. Coicienza f. 58 o 72 128 > 44 a certe 33 CORRIGE. enlpabile XXI. Avendo e ci XXIII. Cotrnia f. 38 e 47 a cute V5 efcM Digitized by Google. iRFRtAirtrANUCCI Digitized by Google Digitized by Coogle EDITE E INEDITE DELU ABATE 3lttt0nia Eoj^mini-Serbati VOLUME V. MILANO TIPOOKAFIA E LIBRERIA BONi A HD I -IOC 1. 1 A N I C.nnirada dc* Nobili^ N* 3903 4i!WTV Digitized by Google IDEOLOGIA E LOGICA VOLUME IV. Digitized by Google Digitized by Coogle uib miiBBDTiiiitiaso IN ITALIA PHOPOSTO DAL C. T. MAMIANI DELLA ROVERE ED ES AM I NATO D A AINTONIO ROSMINI-SERBATI PRETB ROVEIIETAHO SECONDA EDJZIONE MILANO TIPOGRAFIA E LIBRERiA BONIARbI POGl.IANJ Contrada dt Nobili, A. 399-> M DGCC.RL. Digitized by Google La prima cdizione fu falta coi nosin' llpi Iaono iSSy. Digitized by Google L"* E D I T O R E AT. LETTORE Esawita la prima edizione di quest' opera , per soddisfare alle dinumde del PiJsblico , ponuuno mono alia seeonda col permcsso deW Atitore. Avendolo in lal circostama interpeliato se gli pia- cesse di agffungervi alcun che. in proposito alle Leltere(') p^- piicate non ha guari dal sig. C, Mamioni , ci ritpose non essere do neeessario;  perche nulla di luiovo in esse si contiene e perche tutte le diffxcolth, ch' ivi si espongono sono state gid da me discusse c dissipate nelP opera stessa . (*) (*) Sei lellere del Mamiani alf abate Rosmini inlorno at libro iiililolaln: II RinnovatncDio tic. Parigi , Librtrin Eurofica tit Baudry, i838. Digitized by Google THN ITAAIKHN *IA0S0 e di qualunque arle si ascoadono in certe  noiioni inlellettuali , di cui fa bisogno in- ti dagare la natura n roaiomt . C. MJMUin , P. I, c. XVI, I.* afor. CAPITOLO I. G comiocerA osservando , come il C. Mamiaai distingua la qiiestione delP on^ie delle idee, da quella della certezia delle nostre cognizioni, e segreghi interamente Puna dallaltra. Che queste sieno question! fra loro diverse, niuno, io eredo, il vorrii contraddire^ ma non penso, ehe molti si acconceranno con lui, in riputare la questione della certezza al tutto indi- pendente da quella deU'origine, di maniera ehe si possa avere nna dimostrazione fermissima delle cognizioni senza bisogno di penetrare i principj onde a noi derivarono : conciossiache fin a qui opinarono il contrario i maggiori filosofi (i). > A questi risultamenti final! siam pervenuti, egli dice, ren- (i) Ecco come il Hamiani parla di quests opinione comune de fdosoG di tutti i secoli, i quali hanno sempre considerate come questiooi somma- ineote afBni quelle deUorigine e della certezza delle cognizioni, e percio lianno risguardato anebe quella prims come capilale in iilosofia, e strada alia soluzione della seconds ;  Errano perlanto i filosoH, i quali savvisano i per un loro giudizio assoluto ed anticipato, non poler rilevare la forma It certs ed essenziale dell'iiitelletto, quaudo la generazione prima delle sue  idee c delle sue facolta rimanga congetturale . (P. I, c. XVI, 7. afor.). a Digitized by Coogle 8 tt dendo noi la questione della realita (i) dello scibile iodi> u pendente alTatto dairaltra dellorigine delle idee  (3). E u allrove: i fenomeni proprii dellaUo conoscitivo, comechi u rimanessero oscuri ed inesplicabili, non impedirebbero tut- u tavia di cercare con buon successo la prova fondamenlale u di tutto lo scibile  (3). E pero il nostro autore chiama la questione intorno allorigine delle idee a tenebrosa ed arca- na n (4), quando allincontro considera quella intorno alia certez7.a del sapere umano si come atta ad essere pienamente risoluta, e a risolverla mira una gran parte del suo libro. Dice ancora di piu sulle diflicolta, che involge la questione circa I'origine delle idee: egli avvisa, che, a malgrado che i filosoll di tutti i tempi abbiano trattala la questione deH'ori- gine, tuttavia ninno Pabbia potuta risolvere, e che perci6  la X scienza del pensiero quale 6 posseduta oggidi dai filosoG non u giunge a scuoprire la generazione prima dell'atto di cono- u scere r (5). Di che egli reca questa ragionr, che  quella X serie di operaziuni mental! che si va immaginando per dar u nascimento alia conoscenza, sembra di gik contenere alcuna X porzione dellatto conoscitivo  (6). (1) Pcrcli^ X delU realilii delln scibile x, e non piii loslo x della verity dullo scibile x? Quella maniera di dire nnn i esalla. La mia cognitioiic, quaotunque falsa,  reale. Non si cerca dalla filosofia se lo scibile sia reale ID si stesso, cbi di questo uiuno dubila , ni meno gli scettici, ina se sia varo relativameDle alle cose, doe alio a farcele coDuscere. Questa osserva- zioQC i di grave momeoto, piu cbella non paja, e necessaria di farsi ad ogni pagina, per poco, del libro del Mainiaiii. (3) P. II, c. XX, 111. (3) P. II, c. IV, V. X Vedesi pure da do una conferma nuova del grande vantaggio die X si raccoglie a sceverare la questione della realitli dello scibile da quella X tenebrosa e arcana delle sue sorgenti primitive; percbe quando pure di X alcune uoiversali idee resti occulta roriglne, non per tal fatto dee rima- X nere occulta di furza la loro reality, e il modo di bene avverarla  (P, If, c. X, VII ). (5) P. II, c. IV, V. Anche plii sotto, doe nel c. XI, iv , alTerina il iiiedcslmo, cio^, cbe x fiuo al di d'oggi lo sguardo acuto del tilosofi uon sa X riiitracciare con sicurezza gli atti primltivi, nd le forme primitive X delle nostre coguizioni x. (G) Ivi. Digitized by Coogle CAPITOLO II. 9 MaraTigliomi intanto qui, che il signor Mamiani usi di qne- sta ragione cost in generale. Perocchi ella vale assai coutro i varj sistemi immaginati da'sensisli, ma che vigore ha ella con* tro altri sistemi? che vigore ha contro quello da me proposto? I sensisti soli, non ponendo nello spirito umano nessnna natural luce, di necessitii danno nascimento alia conoscenza tntta mediante ana serie di mentali operazioni. Ora qual i la obbjezione che io ho fatta loro? Non ho io mostrato che in quelle loro mentali operazioni appnnto, ondessi vogliono dare origine al nostro conoscere, s'acchiude necessariamente Iatto conoscitivo? non ho io mostrato, che la prima operazione compita della mente i un giudizio; che questo suppone sempre unidea precedente, e perci6 che con degli atti mentali, senza pin, i impossibile spiegar P origine delle idee? Ondio dedu* cevo, che innanzi al primo atto della mente nostra, cioi al primo giudizio, dee stare nna idea non acqnisita^ ella dee stare in noi si come un fatto primo, nn dono di natura, un elemento costitutivo della nostra intelligenza (i). II G. Mamiani adunque non poteva alTermare cosl general* mente, come egli fa, che la generazione dell atto conoscitivo non si conosce per la ragione che porzion di quell atto sem* bra gi4 contenuta nella serie di operazioni, ondesso si vuol derivare^ ma dovea, pare a me, limitarsi a dire, che i sensisti, e tuttl quelli che non ammettono nello spirito qualche cosa di precedente agli atti transeunti, non hanno modo di splegare la generazione delle idee: che all incontro tanto paurosa difE* colt^ niente incomoda la dottrina di coloro, i quali ammet* tono nellanima intellettiva un intuizione immanente e conna* turale dell essere. Ni dopo di ci6 , egli era obbligato ad abbracciare il nostro sistema: potea riEutarlo per altre ragioni, eziandiochi avesse riconosciuto schiettamente, che nel sistema nostro sulla genesi delle idee non cade quella petizione di principio, che egli rinfaccia troppo largamente a tutti i sistemi in generale. (i> V. JViioiv) Sagi^io ecc. Scz. II. Rusmimi, Il Ritmovamento. a Digitized by Google o CAPITOLO III. Ma trattando delle difficoUa, in cat ci avvolge la questione deU'origine delle idee, egli precede piu innanzi. Non gli basta aver detlo, che fin ora ella non fa potata risolvere (afTerma- zioae cbe vale quanto la ragione di cni 6 corredata, la quale non avendo forza cbe contro i sensisti, da motivo di tradurre queirafTermazione in queet'altra: nou fu potuta risolvere da' sensisti)^ diebiara di piu, la qaestione delPorigine esser di natura sua congbiettarale, e per(\ non potersi mai condurre al positivo ed al certo del suo scloglimento. Ed ella ^ sempre una grave asserzlone quell a, cbe fa nn uomo a tutti gli altri, quando dice loro: Sappiate, cbe nelle vostre ricercbe voi vi dovete fermar qui, e cbe I'ingegno di tutti voi non pu6 passar questa linea cbe io tiro, \isque hue yenies (i). Goofesso, che il dir questo in alcune cose i pos- sibile: lua cbi lo dice, reputo io dovere aver in mano una ferma e invincibile dimostrazione colla quale provi assurdo a pensar pure il contrario di quello cbe dice. E cresce il bisogno di questa circospezione allora, cbe il parere comune dei dotti, (i) 11 C. Mamiaoi diebiara francamente impossibili a risolversi delle altre questioot. Al c. XIV della P. 11 afferroa insolubile la questione t in che *t guisa la unit& e la muUlplicitii, la identity e la diflerenza possono insieme ** coogiuDgersi h.  de* lavori de* Blosofl sopra questa materia dice riso* lutamente cosi: h Tutti i sistemi apparsi Hno al dl d*oggi col propostto 94 temerario di spiegare in alcuna maoiera siccome V assoluta unitli si  stione intorno allorigine delsapere: questione che caratterizza e determina, chi a fondo medita in sul nesso delle dottrine, tutte le Glosofie. Io qui spenderei troppe parole, ove volessi anche sol breve- mente delineare i sistemi principal! de illosoll di nostra nazio- ne, e mostrare si come Ianima che tulti gl informa, e li fa essero quello che sono, i la sentenza da lor seguita intorno allorigine delle cognizioni ; e come il variare di opinione in- tomo a questo punto, produce il variare dellintero sistema^ il che avvenir dee per lo natural collegamento delle dottrine , quando anco il iilosofo non si fosse egli medesimo accorto, che la tempera e il carattere di sua filosoGa gli nasca da que- sto. Nulladimeno io non voglio trapassarmi al tutto sopra di ci6: roa toccher6 un motto di quattro di que filosoG nostri che il Mamiani toglie a' suoi duci , e saranno s. Tommaso , il Patrizio, il Bruno e il Campanella , i quali io li prendo cosi come vengono, senza scelta; il medesimo che di questi, potrei fare agevolmente degli altri citati dal nostro autore, aventi ciascuno una opinione sullorigine delle cognizioni, la qual dirige o apertamente o copertamcnte tutto quantd il loro filosofare. Chi dira che s. Tommaso abbia stimato non potersi aver notizia certa della formazionc delle ideef chi dira chegli Digitized by Coogle i5 non insegni 'come quelle nascono in no! , o pnre ci6 faccia per via di conghiettura anzich^ di scienza? II confessalo stesso Mamiani dicendo  si stimi avere s. Tommaso parlato u troppo in conciso della formazione dei general! e lasciar  Inogo a interpretazioni diverse: imperocch^ qnasi tutla la u seconda decisione della prima parte della sua Somma (i) A u occupata da quella materia, senza dire ch'egli vi toma so- u pra le mille volte nel corso delP opera. Laonde totto quello u cbe ne sentiva fu scritto e spiegato da lui nettamente e con u difTuso discorso  (a). II che ^ an dire assai piu che noi non vogliamo. Perciocch^ a noi sembra, che di qualche inter* pretazione abbisogni 1' Angelico. E il Mamiani medesimo non 6 coerente a quella sna franca affermazione. Volendo dire che s. Tommaso i da me dissen- ziente, alquanto dubitosamente egli si esprime cost: noi ne- u ghiamo che le opinion! di s. Tommaso militino apertamente  in favore del nostro filo^ofo n (3): parole, dalle quali po> trebbe inferirsi, che la dottrina di s. Tommaso, se non aper- tamente milita a favor mio , pure pu6 a mio favore essere in qualche modo interpretata. Egli stesso il confessa aperto di poi: u al primo aspetto parecchi luoghi di s. Tommaso sem-  brano in verita consuonare piit che molto con lui  (4). Non istaranno adunque que luoghi contro di me se non in- terpretandoli , e per6 d interpretazione essi sono bisognevoli. Dice anche questo lo stesso Mamiani : u fa bisogno notare il u collegamento di quelle idee con le altre afGni , e interpre- u tare s. Tommaso con li suoi test! medesimi  (5). E piu snlto, a sottrarre Iappoggio de test! di $. Tommaso alia mia filosofia, dice tuttavia:  debbono adunque i test! che pajono u concordare con tal dottrina essere intesi non sempre alia (i) La I Parle della Somma di s. Tommaso non ha prima e seconda de- cisione; qui dee esserci corso qualche errore. (a) P. II, c. XI, VI. Il C. Mamiani parla del sisteraa di s. Tommaso in* torno r origine delle idee in piii luoghi , lodandolo a cielo, e fra gli allri , P. II, c. XX, IV, dove egli pare che ne IAquinale ne il sun lodatore il C. Mamiani rilencssero puiilo per iinpossihile la soluzione della questione suir origine, anzi per hella e risolnta. (3) P. II, c. XI, VI. (4) Ivi. ^5) Ivi. Digitized by Coogle i6 lettera, ma secondo lo spirito loro e a norma delle mas* u sirae direttnei di tutto il sistema filosoGco al quale appar*  tengono  (i). Restadunque, che il dottore d Aquino abbia parlato chiaro della formazione delle idee, sebbene d inter* pretazione abbisogni, e di conciliazione seco medesimo^ e che non si possa dirlo a me contrario manifestamente, ma solo mediante 1' interpretazione che ne fa il C. Mamiani, la qnale non TOgliamo a questo luogo esaminare se possa passar per bnona, potendo essere che ci venga 1 acconcio di farlo in qual* che altro luogo (a). Qui vogliam fermo solo questo , che il grande Aquinate non tiput6 insolubile e di pura conghiettura I'origine delie umane cognizioui. Il G. Mamiani pretende che s. Tommaso niente ammetta d'innato nella mcnte umana, e tutto faccia venire da sensi , o inimediatamente , o per induzione. lo sarei tentato di di* mandargli, se s. Tommaso insegni essere acquisita, per senso 0 per induzione, anche quella luce colla quale opera Iintel* letto agente : ma nol vo fare , ch6 qui non b il sno luogo. Sia pure, che tutto tragga 1 Aquinate da sensi. Gome dunqne pu6 scrivere tosto dopo il Mamiani , che u lasci^ s. Tommaso  le origini loro (deprimi principj) in quella incertezza in u cui giacciono tuttavia  (3)? Se egli derived da sensi anco 1 primi principj , come Iasci6 nell'incertezza 1 origine di questi 7 Se poi s. Tommaso credette bens\ aver trovate c accennate le fonti dell umana cognizione , ma in ci6 credere err6 , perchi veramente non ispiego nulla, e lasci6 le cose nella prima in- certezza ^ in tal caso, come pu Nella scuola peripatetica , dice commentando que versi ,  si Glosofa altrimenti circa 1 origine dclle prime nostre notizie ; e cita a provarlo il c. IV del L. Ill di Aristotele De Anima. lo bo dichiarata la mia opinione altrove, sul luogo dell' Alighieri (iV. Saggio ecc., Sez. V, c. XXV, art. II). Ivl ho detto, la dottrina aristotelica essere stata intesa in var j modi , perchi oscura e non precisa ; ed uno di questi modi esser quello di Dante. Ma quale i questo? Non si pub desumerlo se non da tutto iotero il brano, e non dalle pocbe parole recise cbe reca innanzi il M. S'oda dunque e si consideri bene, a vedere se IAlighieri sulTragbi all as* serzione del nostro autore: N Ogni forma sustaozial, che setta da materia, ed b con lei unita, M SpeciRca virtudc ha io sb colletta;  La qual sanza operar non b sentila,  Nb si diraostra mai che per elfetto,  Come per verde fronda in pianta vita:  Perb, lit ondc venga lo 'ntelletto ' t Delle prime notizie, uomo non sape,  E de* primi appctibili 1 affetto,  Che sono In voi, si come studio in ape 1 Di far lo mele : e quests prima voglia  Merlo di lode, o di biasmo non cape a. (Purg. xviu.) Rosmihi, Il JUnnovamento. 3 Digitized by Google iS Ma non solo IAquinate moslrasi sempre persoaso di asse- gnare alle cognizioni umane ana certa origine; ma ben anco parte da questa origine come da fcrmo principio, e vien de- Qui due cose manifestameute dice il filosofo poeta. La prima, cbe la virlii propria deirauimat come di ogai altra forma sustaoziale cho ha sussistenxa propria c scitn, cio^ separata da materia (sebbco trovisi auco unita a roa* teria), i occulta ed incognita fioo a tanto cbe non opera e non si diroo> Sira fuori oesuoi alti ed efletli. Cosl, a ragioo desempio, non si saprebbe inai dire se la piaula avesse in sd quella virtu cbe cbiamasi vita^ quando non si vedesse il viver suo al di fuori nelle frondi verdi e rigogliose. Me* desimamente Tanima ba in colletta , o sia accolta unn virtu, cbe le da uotizia de* primi principj; ma questa virtii ionata non apparisce, e non si sa ci6 cbella sia in noi, se non allora che noi facciamo uso di essa, me* diantc gli atti di nostra mente. La seconda cosa ^ consegueole alia prima. Egli si contioua ragionando cosh qnando adunque la meule nostra fa gU atti suoi d*intendere, di giudicare ecc., ella trova gia d*aver belli e prouli alia mano i primi principj; onde le sono venuli questi? L*uomo non lo aa, dice: non pud sapere il quando, e come gli sono veouti.  perch^? percbe non sono a lui venuti code cbe sia, non sono in lui acquisiti; ciod li ha sempre avuti con s^; sebbcne occulti si siessero, prima cb*essi ap* parissero ne' loro effetli: la quale occulta esistcnza de* primi principj in noi non dee recarci maraviglia, perocch^ ogni forsa e virtCi nello inierioro delle cose si asconde, fino a tanto che operaodo non ci si dii a conoscere negli alti suoi. Non si puo dunque atlegare nelPuomo una origine fattizia de primi principj: questo i il seuso delle parole  onde vegna lo n* telletto delle prime ootitie, uoroo non sape m. Ma che perci6? Se Dante dice irreperibite la foriiiatione delle prime ooltzie nelluomo, nega per questo assolutamente, cbe non si possa assegnare ad esse qualsiasi origine? Certo no; in una parola, rinlelletto delle prime notizie Dante lo pone innato, e per6, dopo aver detto che non si dee cercare la spiegazione di esse nelle operazioni della mente, come quelle cbe suppongono quelle no* tizie prime e le adoperano quasi istrumenli, aOerma senza dubitaztone al* cuna, che quello intelletto delle notizie prime i oell'uomo^ come d nellape lo studio di far lo roiele, cioi come sono gristiuti, i quali sono innati, ed elcmeoti costitutivi della natura aniroale. Cost quell intelletto i congenito a noi, e posto in noi da natura. Dante adunque esclude Topinione di quclli cbe voglioQo spiegare i primi principj pel mezzo de sensi e deirinduzione, affermando che quest! non sanno Irovar mai nulla; ma poscia egli assegoa in altro raodo 1 origine di tali notizie, facendole divenire da natura. Or di quello che ^ dalo da natura, non cade cercar 1 origine; non avendone altra che quella della natura medesima: Iautore della natura, i anche di tutto cid che i nella natura, e pero delle notizie prime. Ciascuno vede quanto il pensiero di Dante si loutani da quello del C. Mamiani, e come il passo di Dante nou sia dal Mamiaoi Iroppo bene a suo vanUggio recato. Digitized by Google 9 dacenima parte di sna dottrina. Dalla ma* niera onde s'originano le cognizioni umane, s. Tommaso de- termina qaale sia I'operare proprio del nostro intendimento, e da questo modo dell'operar nostro razionale cgli deGuisce spe> ciGcamente la nostra natura. DeGnita e speciGcata la natura nmana , egli trae quinci nna serie immensa di conseguenzc) colle quali costruisce tutto IcdiGcio della teoria dell'uonio. Or chi non sa, cbe la scienza dell uomo i per poco tutta la Glo soGa? Se adunque la GlosoGa di s. Tommaso si fonda qnasi per intero nella solnzione del problema dellorigine dell idee, il dichiarar questa incerta, i un fare alia GlosoGa del grande italiano di cui parliaino, qnello stesso serrigio che si farebbe ad nna grandissima mole levandole di sotto la pietra angolare che la sostiene e connctte. Di pin: dopo avere determinate nel modo detto la natnra nmana, san Tommaso trae quindi la speciGca diGerenza fra Iuomo e Iangelo; e sapre la via ad nna deGnizione della na torn angelica, sulla quale deGnizione costruisce nna mirabile teoria degli angeli ; ed ella gli i poi scorta nobilissima , nel- Iordine de suoi concetti, alia sublime dottrina intorno alles- sere divino. Tutta adunque rovina la teologia, considerata nella sua parte razionale, dietro alia rovina del trattato del- Inomo, il qual gi-avita e posa snl gran pnnto dellorigine delle umane cognizioni. E qui basti aver detto questo poco dell Angelico. Altrove poi riserbomi a dimostrare, come al suo acutissimo ingegno non sia sfnggito Iintimo nesso che stringe insieme le due question! dellorigine e della dimostrazione dello scibile^ trovando egli il fermo della certezza non altrove che nellori* gine stessa delle cognizioni intellettive. CAPITOLO VI. Circa Francesco Patrizio sari pii breve. ImperciocchA a di- mostrare segli faceva caso si o no della queslione dcllorigine delle cognizioni, e segli credesse inutile lo scioglimento di quella alia GlosoGa, bastami dire questa parola , ch egli era platonico. Or chi non sa, che il platonismo non i che una Digitized by Google ap teoria suHorigine del eapere? chi non sa che daiiorigine della idee i platonici dediusero e la certezza delle cogaizioni nostre, e tuttoci6 che insegnano non pure nella filosofia teoretica,ben anco nella pratica? Uopera principale poi del Patrizio tratta della luce, e sulla teoria della luce egli costruisce la sua filo- soGa. Favella non meno della luce materiale, come quella per la quale veggono gli occhi del corpo, che della intelligibile , onde sono illuminati gli occhi dell anima. Secondo questo Glo- sofo italiano, il primo oggetto delle nmane ricerche dee es- sere la luce, come quella che i il mezzo universale del cono> scere. Di questa poi si dee cercare innanzi tralto 1 origine, da cui dedume il prezzo ed il valore. Tale ricerca reca lui a questa sentenza, che  ogni luce viene dalla sorgente di ogoi  luce, Iddio . Trovata in tal modo 1 origine delle cogni- zioni tutte, le giustiGca, le deduce^ e dopo averle dedotte, ri(& il viaggio in direzione opposta, e ritorna dalle conseguenze al priocipio , ciod alia prima luce, a Dio. Ecco la dottrina di questo antico italiano: ciascuno la paragon! a quella che il C. M. intende rinnovellare (i). CAPITOLO VII. Il terzo italiano che abbiam nominato , i Giordano Bruno. Chi Iavrik letto, e meditate le tante cose qua e col4 sparte nelle sue opere, trovera sempre alia Gue, che il punto onde partono le speculazioni tutte di si strano intelletto, non 6 al- tro che la sentenza sua intorno allorigine delle idee. La chiave de pensieri suoi si trova nel libro intitolato De/ie ombre dcUe idee. Egli stesso par che cousideri questo lavoro come la cosa capitale di sua GlosoGa (a). Il Bruno non am* (i) Lopera del Patrizio mostra nella stessa intitolazione il suo inlendi* mcnto, giaccbi il suo libro ha queslo froutlspizio. Nova de universis phi- losophia, in qua ArisioleUca methodo non per motum sed per lucent et tu~ mina ad primam causam ascendilur. Ferraria iSgi. (s) Nella dcdiciitoria ad Enrico III re di Francia scrive cosl: Quis igno- rat, sacratissima Majeslat , principalia dona principalihus , principaliora majoribus, el maximis principalissima deberi f Nullus ergo ambigat cur opus istud  inter maxima numerandum in le  respexerit. Digitized by Google ai mette vere idee se non nell'esaere divino. L'univcrao i Pef- fetto e I'espresaione imperfetta delle divine idee. Dali univerao poi not caviamo le cognizioni nostre, le quali non sono idee, ma pure ombre d idee. II fondo di queato penaiero i degli scolaatici, da quali veramente il nolano filoaofo traaae la mag- gior parte di aue coae, lavorandole poi, e vestendole a auo ge- nio, e deducendone certe ardite conaegnenze (i). Sulla mede- aima dottrina circa Iorigine delle idee, egli toma aovente in altri anoi acrilti, come a ragion deaempio in quello cbe ha lo atrano titolo di Cabala del Cavallo Pegaseo, dove eapone la aea- tenza medeaima, ma in altre parole: u A la verity, dice, nulla u coaa h pill proaaima e cognata che la scienza, la quale si u deve distinguere, comi distinta in si, in due maniere: cioi a in auperiore et inferiore. La prima i sopra la creata verita, u et i Iisteasa veritii increata, et i causa del tutto^ atteso che  per eaaa le cose vere son vere , e tutto quel ch i , i vera- u mente quel tanto chi. La seconda i veriti inferiore, la quale a ni fa le cose vere, ni i le cose vere, ma pende, i prodotta, a forxnata et informata dalle cose vere, et apprende quelle a non in veriti, ma in specie e similitudine^ perchi nella a mente nostra, dovi la scienza delloro, non si trova Ioro a in veriti, ma solamente in specie e similitudine >. Di che conchiude: a Sicchi i una sorte di veriti, la quale i causa a delle cose e si trova sopra tutte le cose: unaltra sorte che a si trova nelle cose et i delle cose: et unaltra terza et uU (i) Anche s. Tommaso disliague Ire veriU, una neUinlellcUo divino, una nelle cose, e una neirintellello umano; ma convien rISettere che aan Tommaso avverle assai spesso, che quando si dice che vha una verilh nelle cose, o sia che le cose son vere, non si dee mica intendere la pro- posizione alio slesso modo come quando si dice che v'ha una verilh ne* griolellelli, ma in tuu'altro. AU'opposlo il Bruno ommise quesla avver* lenza; e suppose, che nelle cose fosse una verity, a quellislesso modo come ella d neirinlellelto: quindi riniclletto dalo da lui alluniverso. Jte$ ergo naturalis, dice s. Tommaso, iiUer duos inUlleclas conslitula secundum adtequalionem ad utrumque vera dtcUun secundum enim adaquationem ad intellectum divinum dtctlur vera, in quantum implet hoc ad quod est ordinata per inlelleclum divinumi secundum autem adaquationem ad intel- leclum humanum dicitur res vera in quantum nato est de se formare ve- ram astimationem. De veril. I, ii. Digitized by Google  tima, la quale ^ dopo le cose e dalle cose  (i). La prima di queste verita forma la scienza divina, le idee: la seconda forma Iespressione imperfetta di quelle idee, le cose dell' uni- verso: la terza forma la cognizione umana, le ombre delleidee. II Bruno seguitandosi a quest! principj pone pure tre intel* letli, cioi il divino, quello dell universe, e 1 intelletto uniano: il secondo, secondo lui, riceve dal primo, il terzo dal se- condo (i). Or avendo cosl fissata la teoria dellorigine delle idee, in- nalza sopra di essa la mole della sua Glosoda. La prima parte di tale filosofia pu6 dirsi la dottrina intorno al metodo; e il libro dell ombre delle idee mostra fino nel frontispizio Iinten- zione dellautore, la quale non fu solamente quella di dare nnarte mnemonica, ma si un trattato del metodo inquisitivo , inventive, giudicativo, ordinativo, applicativo de principj, e memorativo, chi in queste sei parti egli distingue il me- lodo (3). La seconda parte della nolana filosofia i ontologica e co* smologica, e, non meno della prima, ella si alliene alia pre- cedente teoria dellorigiiie delle umane cognizioni, e discendo da quella come un facile corollario. Avendo il Bruno fermata la relazione dell intelletto divino colluniversale, e dell univer- sale coglintelletti particolari, e avendo medesimamente trovato il nesso fra le tre veriU che illustrano questi intelletli, cioi la verity divina, quella delle cose, e quella propria degl intelletti nostri, egli trasse da ci6 la conseguenza della congiunzione e armonia di tutte le cose in fra loro, e procedendo innanzi su questa via, pervenne allassoluta unitii, dedusse 1 infinite del * (i) Dialogo I. (z) La seolenza scoUslica di cui Giordano anche qui abusa, i quella cbe s. Tommaso cosl espone: f'erum intelltctus nostri est secundum quod con- formatur suo principio, scilicet rebus a quibus cognitionem accipit : verilus etiam rerum est secundum quod conformantur suo principio > scilicet intel- leclui divino. S. I , XVI, v, ad z.  nifcno, e la cognizione deglintelletti particolari, ondededusse il sistema dellassoluta unitii, riprodotto a tempi nostri in Ger- mania (i), gli diedero ancora iidacia di ridurre Iideale e il reale, Iente di ragione e il sussistente, in ana sola e medesima categoria, e quindi di trovare ana scienza superiore a tutte le altre^ la qual trattasse dell'essere in tntta la sua universalita, ricondotto cos'i all'anitik semplidssima (a): e qaesta scienza egli voile dar fondamruto alia topica ideata da Raimondo Lnllo col titolo di Arte ma^na, al cui perfezionamento il Brano no- stro tanto assiduamente intese. Anche nella Glosofia danque di qaesto italiano la qaestione dell'origine delle idee non si vede o esclasa o riputata impos- sibile; ma ella sola forma il cardine vero, in cui si volge tatta quanta la nolana dottrina. E potrei entrare particolarmente a mostrare quanto nella mente del Bruno stieno connesse inti- mamente lu due questioni dellorigine e della dimostrazione dello scibile^ ma io vo' anche qui astenermene, primo, pcrchd da ci& che bo detto appare assai cbiaro, secondo, perchS mi verra forse altrove in taglio il ragionarne. CAPITOLO Vill. Mi rimane Gnalmente quarto il Campanella. Veggiamo se alnieno la iilosofia di queslo pensatore calabrese convenga nel- Iopinione del C. Mamiani. Nel sistema del Campanella, non meno che negli altri sopra (i) Da Schelliog. (3) Nel libro De compendiosa archilecUira, et complemenlo curtis LuUii , Parisiis i583, dice: Conveniens nimirUm est atque possibile , ut eum in modum quo metaphysica universum ens , quod in substantiam dividitur el accidens, sibi pro/>onil objeclam, qucedam unica genei tdiorq'ie ( ars ) ens rationis cunt ente reali, quo tandem muHiludo, cojuscumque Sit generis, ad simpUcem reduei posse unitatem , complectalur. 4 accennati, i1 filosofare prende cominciamento dall'esanie delie facolt^ onde Iuomo conosce, il cbe k quanto dire, dalla que- stione dell'origine delle idee. La sentenza del Gampanella in-  torno a questa questione h il principio, onde dipende tutta la qualiti di sna filosofia ^ avverandosi anche qui ciA che in tntta la storia delle Hlosoflche investigazioni egualmente si manife- sta, che dal modo di risolvere quella questione ricerono colore e forma e vita per cost dire i sistemi. II Gampanella deriva dal senso ogni cognizione. Ecco il panto di partenza. Qnale il cammino chegli percorre? La prima e immediata conseguenza si h quella che risguarda la certezza dello scibile. Secondo costui, i ne' sensi che si dee cercare la certezza, appunto perchi ne' sensi e pe sensi sori- gina e si forma la cognizione. Essendo la memoria, Iimmagi* nazione, Iintelligenza, tntte le facolU nmane altrettanti modi di sentire; ed ogni cognizione generate avendo sempre il suo fondamento e Porigine sua ne particolari pereepiti co sensi; s^guita di giusta ragione, che a dar prova e dimostrazione dei lavori di tntte Ialtre facoltii non ci abbia altra via da quella di riscontrare ogni cosa al testimonio de sensi, i quali hanno Ioggetto presente, cui realmente percepiscono , e per6 non si ingannano (i). lo non voglie qui approvare o disapprovare si- migliante dottrina. Dico per6, che in essa si vede manifesto , come Iitaliano filo.sofo sentisse un intimo nesso passare tra le due question! dellorigine e della dimostrazione del sapere nmano, che il G. Mamiani immensamente disgiunge, e dichiara ' indipendenti in quell opera nella quale ci si presenta come rin- novatore dellantica filosofia italica, e nella quale adduce i Inoghi di molti filosofi nostri, ma di niuno pin spesso che di Tommaso Gampanella. Nd sta qui tutta Iinfluenza che la questione dellorigine eser- cita nella filosofia di quest uomo famoso. Ella vi si fa duce di tutte le dottrine si varie chegli svolge in tanti suoi libri: ella (i) Duca sensu philosophandum esse exislimamus. Ejus enim eognitio omnis certissima esl, i/uia /it objeclo presente. Sif^num est, quod alia cogni- ttoncs ditbia; ad sensum recuiTuiil pro cerlitudme. Camp., De reram natara. Digitized by Google a5 fissa i1 metodo dinvestigarle: ella determina Iordine in cui debbouo procedere ne loro svilnppamenti. Appunto perche dal sens! viene il principio del sapere e dell' accertarsi, quella filo- soCa da mano prima di tuUo alle cose fisicbe o natural!, che cadono sotto i sens!. 11 trattato dello spazio, die diviene nelle mani del Campanella una prima e immobile sostauza rccettiva di tulti i corpi , le investigazioni del modo onde si forma e compone I'uDiverto materiale, i principj elementari diesso, sono le ricerche cbe si alTacciano da prima al nostro investiga* tore. II senso, onde muove il suo (ilosofare , viene quindi co- miinicato da lui con varia proporzione a tutte le cose, a bruti anche quel genere di sentire piii perfetto che intendere si ap> pella. Dopo di cii\, egli si solleva a considerare Iente stesso nella sua intima natura, dove trova quelle tre qualita dette in suo parlare  Pure il iVIamiaiii non persevera in questa sua miova opi- nione. Se neIuogbi allegati e in parccchi altri egli pare si lontano dal pensare denostri bnoni autichi ; loro si avvicina poi in un eguale o forse maggior numero di luoglii del suo li- bro, e lirato soavemente dalla ineluUabile forza del vcro, si aeconipagna di nuovo con essi, conscntendo loro in ammellere P intimo nesso delle due qnestioni , e la molto utile se non anco necessaria loro comiinione. lo potrei provarlo assai chiaro con nna sola sentenza, colla quale egli alTerma, die il principio della certczza e il principio della scienza si possono ridurre ad un solo principio. Peroc> chi se da un solo fonle dee scaturire la cognizione e la cer> tezza, quanto dunquc non sono intinie fra loro, e per cost dire famigliari queste due question! ? e se si puo trovare uno me- desimo essere il principio di amenduc, pcrchi dunque la so- luzione dell'una sara certa, e delPaltra solameiite congliiettu- rale? die cosa fa mai detto di piii efficace a dimostrare die o la soluzione della ccrtezza implica quella dellorigine , o la soluzione dellorigine implica quella della certezza , c che in ogni modo sono queslioni sorclle , o piultosto geinclle? Ma udiamo Ic solenni parole del nostro autore. u Per qualunque miracolo del senno umano, niai non po-  Ira farsi sparirc il primo ed essunzial postulate di liii, cioi  il falto della coscienza . Egli qui non parla congbiettural- mente, ma con pieiia sicurta di dire il vero: contiiiua,  PerA  a questo sol fatto potrebbero metterc capo insieme e il prin-  cipio d'ogni scienza e il principio dogni certezza, vale a dire u che I fenomeni costanti e semplici compresi in qualunque u atto d' intuizione , potrebbero addivenire un giorno il solo  principio sperimentale richiesto alia dedilzione intcra delPu-  mana sapienza  (i). Qui si mettono alia condizione stessa il principio della certezza e quello della scienza^ e se la sco- perta del primo A solo congbietturale, non sara pienanieiitc as- sicurata la certezza umana^ se poi ella A inessa fuori di ogni (1) P. II, c. XIX, n. Digitized by Google =7 (lubbio, anclie il princij>io o sia I' origine della scicDza sara ugualmeate bene assicurata. Ancbe altrove dice il C. Mamiani, che alia perfutta teorica del sapere umano sta in cima u un sol dato sperimentale , e  deulro di queslo dato si confondono insieme perfetlamente u il principio d'ogni certezza e il principio d'ogni sapienza n (i). Che vogllamo noi di piii? Se i due principj si confondono in uno, e |ier poco s'identificano, forzi die sieno di egual na- tura, e che 1 origine dclle cugniziooi sia manifesta di pari alia loro fermissima certezza. II C. Mamiani adunque qui ci torna iialiano, raccostandosi alle avile nostre Iradizioni filosofielie da lui da prima abbandonate. CAPITOLO XI. E nun e per6 da oinmeltere di osservarsi una cosa. Ndic parole surriferite nun si contiene gi.a una dubbiosa opi- nione del C. M., ma una sua feruia sentenza^ la quale sen- tenza che Pintuizione imraediata o niediala della spirito sia il solo fonte delle cognizioni nostre, come i medesimamente della loro certezza. Ora questo vale quanto affermare che le cognizioni umane sono tutte acquisite collatto dintuizione, e negare al nostro spirito ogni notizia congenita. E chi non vede come questo gia sia prendere un partito nelle fazioni de filo- soii , e decidersi per uno de' sistemi che corrono nelle scuole intorno all origine delle idee., escludendo insieme necessaria- inente tulti gli altri possiblli ? A chi restasse qualche plcciolo dubblo della niente del C. M., jiotrei dir uiolle cose, ma per csser breve basti, che se cost non fosse, egli non lodercbbe seuza condizione alcuna il Telesio per aver promesso di u riconoscere per fonti uniche d ogni u sapere il senso, le cose dal scnso noliGcate, o identiche a u quelle perfeltamente n (a), cilando ciu fra i canoni di ot> limo raetodo dal Telesio divolgatl. Non avrebbe egli n pure dato altissima lode agli Italiani per questo, che a tenerli stretU ad Aristotele poterono assai sopra di essi due cose ,  1 una (i) P. II, e. XX, II. (a) P. I, c. IV, VI. Digitized by Coogle a8 u di riporre egli la prima fonte dogni itapere nel fatto speri* u mentale, Taltra di pronunciare che gli universal! tuUi qnanti H si formano per induzione  (i). Finalmenle tutto il libro dimoslra, che il sense e I' induzione, o per dirlo in un modo piu generate, gli atti intuitivi dello spirilo umano sono pel C. Mamiani la sola indubitala originc di tutto il sapere umano. d ella sia pure; noi non vogtiamo qui contendere con lui, ma osservare come egli contende con se medesimo. Se volea prendere un partito nella questioiie dell'origine delle idee, O piiitostose non poteva a meno di prenderto, avendo egli toUo a ragionare di nietodo e di certezza^ perch^, dico io, scegliere quel sistema appunto, del quale egli medesimo riconobbe in- genuamenle il difetto e I'intrinseca assurdit.i? e tanto la ri* conobbe, che non riflelteudo esservi degli altri sistemi, e avendo quello solo sott'occhio, quasi niun altro state fosse trovato dai iilosoii, disse che fin ora non si era mai potuta sciorre la que- stione dell'origine delle idee, ni scuoprire la generazione prima dellalto di conoscere (a)? E questo difetto, qnesta assurdit^ intrinseca, che c, e chegli vide essere ne' sistemi che fanno acquisite e formate da noi slessi tulte e interaniente le cogni- zioni nostre, sta appunto qui, che u quella serie di operazioni  mental! che si va immaginando per dar nasciraento alia co- u noscenza, sembra di gia contenere alcana porzione dell'atto u conoscilivo  . Ora vorra egli sostenere, gli atti intuitivi dello (i) P. I, YII , VI. Il C. Mamiani in queslo , e in altri luogbi del suo liliro, giudica della nalura e dello splrito dellllallarta filosoila aasai diver- samcnle da qiiello, die allri scriltori ne gludicarono. Lopliiione che mani- fesla un altro scritlore recente intomo allindole del rilosofare della nostra nazione, ricsce dirittamente coniraria a quella del Mamiani. Questi i il prof. Baldassar Poli, di cui souo le parole seguenti : i singolare la co-  tendenza si Pilagorismo o al Platonismo ci ha sempre preservati, anebe u nella fnga del materialisino, dalla sfrenata licetiza delle sue dnttrine, come  dalle sozzure della sua morale  (Poll, uota al Mauuale iUlla Sloria della JiloioJia di Teuiiemann,  Qj ). (a) Vedi addielro , Cap. II. Digitized by Coogle 9 spirito non suppoire innanzi di si niuna porzione dell atlo conoscilivo? Se niuna ne suppongono, perclii dichiarare in- soluto e insolubile quel problenia ? Se ne suppongono alcuna, percbi non riconoscere una manifesta pelizione di principio in volere che le idee tutte si gencrassero dagli atti inluitivi dello spirito? Ma finalmente questo proporre le intuizioni per sole origiiii di tulto intero il sapere, non i altro cbe il sistema an- tico de sensisti, i quali dasensi e dall'induzione ogni idea e ogni notizia si promisero di ricavare: e pure il difetto di tale sistema non solo dal nostro autore i confussato, ma egli pare ogginiai per niolle considerazioni de savj fatto quasi a tutti evidente. CAPITOLO XII. Conviene per6 confessare, che se in alcuni luoghi il Ma- roiani abbraccia il sistema della forraazione delle idee mediante delle intuizioni dello spirito, e lo di per indubitato, escludendo ogni idea ed ogni principio innaturato con noi e non fatti- zio^ in altri per6 ritoma alia sua prima sentenza) che Iori- gine delle idee sia inesplicabile, e cbe il sistema, che vuole esser tutte le idee una produzione delle operazioni dello spi- rito, sia viziato di paralogismo, supponendo quello stesso che prende a spiegare. Uno di questi luoghi del nostro autore parmi quello dove riassumendo la sua teoria (ilosoiica dice cosi:  Si i conclnso  da tutto ci6, lo scibile umano guardato dalla sua entita u subbiettiva, cio6 a dire in quanto risulta da infiniti atti di u cognizione, appoggiare ad una certezza immediata e indu- u bitabile, e la dimostrazione de varii aspetti nei quali tras- u formasi, doniandare il sol postulate dellattoconoscitivon (i). Or dopo aver egli cbiesto qni asuoi lettori, che gli vo- gliano acGordare come un semplice postulate Iatto conosci- tivo, il che i quanto dire, che il disobblighino dal carico troppo grave di mettersi dentro- ne misteri onde Iatto del co- noscere tutto savvolge e si profonda^ e dopo essersi impe- gnato di comporre una dimostrazione dello scibile coll ajuto () P. II, c. XX, II. Digitized by Coogle 3o solo di quel poslulato, c aver tenlato di darla^ egli conchiude apjdaudendosi di aver u resa la queslioae della realita ( verila ) u dellu sciblle indipendeatc affatto dallaltra delloriginc delle u idee  (i): il che fa vedere che con chiedere il poslulato dell'atto conoscitivo, egli mirava appuulo ad climiaare, per cosi dire, uiia questione riputala da lui insolubile, quale i que- sta dell'origine. Tultaviasi polrebbe mettere in dubbio, se ci abbia di moUa coiivenicnza in queslo, che un (ilosofu, il quale s'accioge a dare la dimoslrazione della cerlezza del conoscere, dimandi per poslulato di suo discorso Talto conoscitivo. Polrebbe chie- dersi u .se si da una cognizione die mai non abbia per og- gello il vero, che sia sempre ed essenzialmente falsa  5 c per6 sc, dimaiidando per bello c dato I'alto del cono.scere, non si dimandi per bella c data anclic la ccrtczza. Potrcbbesi dire di cono.scere, quaudo niun raggio di verita lucesse mai alia inente? Nun vi ba forse conlraddizionc ne' termini, a voter porre un alto conoscitivo die nienlc di vero conoscc? E se ogiii alto conoscitivo stippone di nalura sua qualche verita co- nosciuta, dato adunque qaesl'atln, ella e data per conseguenza all'uonio alineno una parte della verita: perciu il dimandare per concesso I'aHo conoscitivo qua! postulate, sembra altret* tanto, quanto dimandare non poca parte di quella verila die si Iralla di dimoslrare^ il cbe i un paralogisnio, una mauifesta pelizione di priiicipio. Consideriamo la cosa da un allro lato, e di niiovo una peti> ziou di principio ci si aflaccia nel poslulato ricbicslo dal C. M- Adavvertirla basta considerare, che il C. .M. pone la verita nella realita ed eulita della conosceiiza. Ua ciu oaluralmeule con- seguita, che tulto egli dimauda, qiiaiido pur dimauda I'atto del conoscere, a cui una realita c una entila non puo maocare si- ruramente, perocchi allramente non sarebbe. Ma noi esamine* remo allrove quanto si diluughi dal vero il couccllo della ve- rila e della cerlezza die si fa il C. M., c la sua maniera di espri- mersi che produce un si fatlo equivoco, al quale il C. M. non volse I'animo. (1) F. II, .\X, 111. Digitized by Coogli CAPITOLO XIII. 3i Qui bisogna rvcarc unaltra rillcssione sopra il postulate del signor Matniani. Con un tal postulate, egli viene a d'lrci cosl:  io vi fabbri- chero una perfella teoria della certezza del sapere umaiio , purchei voi mi dispensiate dallentrarn ne mister! (lellallo conoscitivo, e me lo concedialc tale  pera aua, dobbiamo aoltometlerci ancbe a questo penoso iocarico. Lin- coereoza  consegueiite a tuUi quelli cbu non banno una buona causa allc manif sieno pure oltrcmodo ingcgiiosi c valcoti. Cresce poi I'incoerenza a dismisura per I'oscurita delle idee e per un linguaggio iinproprio. In falti come sarebbe possibile ad un autore il prcndere costantemente queata pa* rola di , senza addarsi inai dello sbaglio, senza dar mai segni di couoscere che una cosa i la realita, unaltra la Terita e certezza, e che la prima non puA costiluire la seconds, od esserne prova 7 Per6 ancbe nel libro del Mamiani Irovo on luugo, che mi fa vedere come lampeggiasse a'suoi occhi la distinzione di queste due cose da lui perpetuameote confuse, cioi la realiti dello scibile, e la prova della sua certezza. Nel c. IV della P. II, n. v, egli propone tre queslioni a risolvere circa i fatti costituenti Iatto del conoscere, e queste sono: t.la loro realita, i. la loro origine, 3. e quello che import: la rea- lita e I'origine rispetio alia prova dello scibile; dove la realili e dislinta dalla prova e perci6 dalla certezza dello scibde. Ma egli  oltremodo sin- golarc a vedere come nella stessa pagina e nelle seguenti di nuovo le due cose si confundono, prendendosi la realita dello scibile a sinonimo della prova e della certezza dello scibile! Digitized by Google 35 postttlato della nia teoria della certezza Iatto conoscitivo, egli dioiaDd6 con ci6 Icntita e realiU di qoest'atto, e per6 Ientitii e reality della cognizione, e per& la TeriU e certezza della co- gnizione medesima, conchindendo come un geometra,  il che era da dimostrare . CAPITOLO XV. Intendendo io dunque come ho hiteso la domanda del po stulalo dell'atto conoscitivo fatta dal signor Mamiani, I'ho in* tesa coerentemente a tutta la serie desnoi pensieri^ ni po- tevo intenderla altramente anco per altra cagione. Non riduce egli tutto il principio della certezza all'intnizione immediata dello spirito? non aflerma egli questa intuizione im- mediata al tntto incapace di prova, e di prova non bisogne- vole? e non i Tintuizione quanto a dire Iatto conoscitivo, o come altrove la cfaiama, il falto della coscienza (i)? nol chiama questo  il falto eminente e primo della intelligenza gnar-  data nelle condizioni pure attuali n (a)? Non i questo ci& che dimanda per postulate? Veramente in altro luogo dice che  questo fatto si pu6 anche cercare e scuoprire > (3): ma in tal caso perch^ di- mandarlo per postulate? sarebbe ci6 un tacito avviso del suo buon sense, che la dimanda di quel postulate era alquanto indiscreta? Ma lasciando passare queste brevi e sfuggevoli confessioni^ il suo costante dimando si i quello, che gli sia date I'atto conoscitivo qual postulate. Onde per6 crede, cbe I'atto co* noscitivo sia cosi sicuro da non dovere 0 potere aver bisogno di dimostrazione alcuna? Prove di ci6 non arreca, ma le sue parole a quest' uopo stanno tutte qui: Nessuno, pensiamo (i) P. II, XIX, II. I>r parole del C. Mamiani Turono recale piii sopra. Or i egli il medesimo pel C. Mamiani I'allo conoscitivo, e il falto della coscienza? Potrei raoslrare, cbe egli steaso in diversi luoghi del libro li prende per cose diverse, e cbe diverse verainenle sono: ma basli averne uulato qui no renno. (a) P. I, XVI, 7. afor. (3) Ivi. Digitized by Google 36  Boi, yonk credere che ia meotr afiermando la sauistenza  d'alcona cosa, crei qaella medesima sossislenza, ma ogouao > iavece retteri certo che qualunqae realitii degli oggetti pen-  sabili i indipendcnte afiatto dallafrermare o dal negare di  nostra mente  (i). Egli discende qui, come ognun vede, dalla questione generate della certezza dello scibile, alia que> stione particolare intomo la certezza dellesUtenza decorpi, che reca come an exempligratia , acciocch^ si coochiuda da qnesto caso particolare agli altri tutti. Or bene, accompagnia* moci pure con lui, e seguitiamone i passi. Primieramente giova riflettere, che quando il filosofo cerca o propone una dimostrazione dellesistenza decorpi, egli non la propone al volgo, il quale non ne abbisogna. II volgo i certo, e non dubita panto dell'esistenza reale de corpi , te- nendo per fermissimo, che la sussistenaa delle cose esteriori sia indipendente afiatto dallafiermare e negare di nostra mente. Alla dimanda adunque del C. Mamiani  Chi mettera in  dobbio ci6  7 la risposta i pronta, e non pu6 esser altra che questa:  Nian uomo del volgo . Ma che? sara meno necessaria per ci& ana dimostrazione della verity delle nostre percezioni o giadiz] sallesistenza de' corpi 7 lo lascio che il nostro autore risponda si, o no, a suo piacimento. Segli mi dice di no; e bene, gli replico io, perchi dunque fabbricare una teoria della certezza? perche limarsi il cervello a provare contro glidealisti I'esistenza attuale decorpi? Se mi risponde di si, perchi adunque dimandarmi chi la mette in dubbio? perchi giudicare, che non ci sia bisogno di provare che la mente afiermando i corpi non li crei? Fatto sta, che degli uomini dotli e sommamente ingegnosi vi ebbero al mondo, i quali giunsero a mosttar di credere, che i corpi fossero produzioni dello spirito nostro, la cui virtu creatrice opponeva quelle sue creature a sk stessa, e cosi dalle proprie viscere traeva mirabilmente il proprio oggelto. Non i dubbio, che il C. Mamiani sa tutte queste nose; non i dub- bio, chegli conosce la storia dellidealismo comune e delli- dealismo trascendentale, e che avra letto il celebre libro della (I) P. II, c. IV, V. Digitized by Coogle 37 Dotttina della Scienta. Perchi dunque pronunciare con tanta semplicita , cbe  oessuno vorra credere che la mente afier- u mando la sussistenza d'alcnna cosa, crei quella medesima u snssistenza  , e che  ognuno invece reaterli certo che qua- u lunque realitii degli oggetti pensiibili i indipendente affatto  dall'aflerinare o dal negare di nostra mente  ? perchi assi> curare a questa strana afiermazione, siccome a ferreo anello, tutta la teoria della certezza? Per me non so comprendere in modo alcuno, come nn autore, che produce in un libro una faticosa dimostrazione dell'esistenza reale de'corpi, e che crede questa dimostrazione cosi difficile, che non molti altri e forse nessuno prima di lui 1 abbia potuta trovare , possa poi basare tutta la sua dottrina intomo la certezza del sapere, sopra que* sto singolar dato , che  niuno mette in dubbio che le menti afiermando alcuna cosa, la vengano creando a si stesse . Ma sia, che niuno ne dubiti, o nabbia mai dubitato. E che perci6? Si potri bene indurne per conseguenza, che una teoria della certezza delle cognizioni i inutile, almeno per quella parte che risguarda la reale esistenza de corpi^ ma restera per6 sem- pre vero, che ove si voglia comporre una tale teoria u in forma  rigorosa di scienza e dedotta per una serie di teoremi purissimi,  cioi somiglianti alia geometria n ( i ), non convenga cominciare dal persuaders!, che  niuno dara alio splrito la virtu di creare i corpi (a), e che Iintuizione immediata non bisogna di dimo- strazionix (3): perocebi anzi la questione sta tutta qui, a ve* dere cioi, se rintuizlone del nostro spirito c'inganni, se il no- stro vedere sia il vedere del sognatore, se un genio maligiio, secondoche diceva Cartesio, sia quegli che ci illuda continua- mente^ e relativamente a corpi, se questi sieno cose reali, o creazioni e sviluppamenti di un nostro interno principio, e se rafiermarli per diversi da noi, non sia forse nidla!pih, che un dare sussistenza a delle chimere. Egli p>ar adunque, che il C. Mamiani non cogliesse bene il nodo della questione della certezza dello scibile, e che mollo meglio di lui il cogliesse Cartesio , sebbene_ dal Conte hcenziato tra quelli che non vi s'apposero. (i) P. U, c. XX, II. (a) P. II, c. IV, V. (3) P. U, c. XX, i. Digitized by Google 38 Ms toniiamo a noi, conchiudendo: il modo onde fa da me inteso il postulato chiesto dal C. Mamiani, i tutto in coe- renza di sue dottrine, e quel postulato cosi inteso avvolge e perde entro un vizioso circolo i ragionamenti si largamente esposti dal nostro aatore. CAPITOLO XVI. E pare, che a quando a quando egli medesimo se n'ar- vegga. Chi, avendo letto il libro del C. Mamiani, neghera, ch'egli si scorga quasi da per tutto agitato, e quasi raalcontento dl si,dopo aver dimandato  quel postulato dell'atto conosciti- vo  ? Egli sente, e teme la da noi sopra toccata obbjezioae : se i mister! dellalto conoscilivo non si conoscono, non po> trebbero essi racebiudere in si quaicbe cosa di pregiudicevole alia dimostrazione della certezza della coscienza? come potr6 dire, che quest'alto conoscitivo sia un certissimo testimonio del vero, quando non so che sia, e onde venga? E toglie anche a rispondere a questa diflicoltii, che git s'aflaccia quasi vorrei dire piii all'animo che alia mente, mas> sime in due luoghi del suo libro. L'uno i dove ragiona del modo col quale si compie la conoscenza (c): Paltro i dove tiene discorso degli universal! (3). Merita bene la pena, che noi veggiamo accuratamente , come si adopera e si dibatte a cavarsi d'impaccio. La via per la quale egli tenta a tutta forza di salvarsi, parmi alquanto ardua e singolare. Egli si accinge di tutta la sotti- gliezza a provare, che I'atto conoscitivo non i assolutamente ne- cessario all'intendere ed al sapere, cVegli non i altro che un istrumento di piu sopraggiunto allaltre facolti intellettive, e che percii si puu dare uno scibile che abbia una entitli e realta al tutto diversa da quella tanto arcana e misteriosa del ter- ribile atto eonoscitivo. La cosa i cos'i nuova , che se altrove reco le parole del Mamiani per dare evidenza maggiore alle mic osservazioni, una necessita assolutaqui mi stringe a farlo, giac- (1) P. It. c. IV, V. (a) P. II, X, VII. Digitized by Coogle c1i6 il lettore potrebbe credere cbe io volessi per aTventura ce- liare. Elle dunqne son queste: a I fenomeni proprii dell'atto  conoscitWo, comechi rimanessero oscuri ed inesplicabili ,  non impedirebbero tuttavia di cercare con boon suecesso la  prova fondamentale di tutto Io scibile, conclossiacbi I'atto u di conoscere, dee venire considerato siccome un islrumento di u pin aggiunto alle altre facolta intellettive, per cui d data  aH'uomo la possibility di sentire, dintendere, e di sa-  peren (i). Egli va ancora piii avanti 14 dove parla degli universal!, giaccb4 egli tenta di escludere il giudizio conosci* tivo anche dalla formazione di quest!, non cbe dalla formazione di altre parti dello scibile umano. Ora cbe I'uomo senza Iatto di conoscere possa sentire, que* sto gli sara agevolmente conceduto. Nessun bisogno vi ba al mondo di un atto intellettivo, perchi sia messa in movimento la faculty della sensazione animale. Ma cbe Iuomo possa in- tendere, e sapere alcuna cosa, senza cbe gli bisogni a ciy Iatto coDOscitivo, questo a dir vero i forte a credere, e assai strano a pronunziare. O convien dire cbe il G. Mamiani metta una grande distanza dallintendere e sapere, al conoscere, il ebe egli non mostra oveccbessia; 0 se egli i vero , come alTerma il sentimento comune e il valore delle parole, cbe sapere, intendere e conoscere, sono presso a poco tre sinonimi, sicchi Inno di que tre concetti involge Ialtro^ s egli i vero cbe niuno intende o sa qualcfae cosa, senza cbe qualcbe cosa pure conosca^ la proposizione del G. Mamiani ci riesce intrinseca* mente contradditoria , e tale, cbe si frange in sh stessa. Ma supponiamo pure , cbe il nostro autore metta quale im* niensa differenza si voglia fra Iintendere e sapere duna parte, e il conoscere dall'altra^ io dimander6 (inalmente, questo inten* dere e questo sapere i un modo di conoscere si o no? Se 6 un modo di conoscere, come potr4 essere il conoscere senza Iatto del conoscere? Se non h un modo di conoscere, cbe cosa adnnque i un sapere, e un intendere, nel quale non sac* chiuda niuna guisa di cognizione? Tolta via ogni conosccnza difBcilmente si potra immaginare un intendere ed un sapere, (I) P. II, IV, V. Digitized by Google 4 che non sia altro che nn mero sentire fislco. Clie se pure, nel- Iopinione del nostro autore, fra il conoscere e il (entire vi poteue essere nna cosa di mezzo, che non fosse nk intendere ni sentire^ in tal caso sarebbe convenoto all'antor nostro lungamente spiegarsi sopra di ci6, e dicbiarare questo singo- lare anello di mezzo fra la conoscenza e la sensazione^ e ad ogni modo io penso, cb'egli rimarrebbe sempre cosa pin ar> cana e pin tenebrosa, cbe non sia quell atto conoscitivo, che si cerca di eliminare dallo sctbile appunto perchi si sperimenta tanto arduo a spiegarsi. Tntto ci6 pertanto parmi che faccia assai cbiaro conoscere, a che vane ipotesi, o pin tosto dir6, a che strani paradossi altri si abbandoni di necessiti, quando, entrato in un sistema erroneo, vien pressato da tutte parti dalla forza del vero, che ondecchessia lo impaurisce co' suoi raggi salutari, e mirabiU mente lo punge. CAPITOLO XVII. Certo il modo onde 1 autor nostro ('introduce a parlare dellatto di conoscere, egli parrebbe escludere, anzi che porre nna distinzione fra il conoscere , e I'intendere e sapere. Egli ne parla in quel Capo che tratta de' fenomeni general! e co- stanti dellatto dintuizione: u giacch^ dice, Iintuizione cbe u presta materia alio scibile umano ha sempre la forma ge- u nerale di conoscenza  (i). Ora se I'intuizione i quella che presta materia alio scibile : dunque non vi ba scibile senza intnizione. Questo non ci puu essere cbe accordato assai volentieri dal C. M., riducendo egli veramente tutto lo scibile come a primo principio, all' in* tuizione. Distingue Iintuizione immediate, dallintuizione me- diate : quesla nasce da quella: da queste due nasce tutto il sapere. Ora .se I'intuizione ba sempre la forma generate di conoscenza^ dunque non vi ha scibile senza conoscenza, per- cb non vi ha intuizione cbe non abbia la forma di cono- scenza: dunque fra il sapere e il conoscere il G. Mamiani stesso non pone diflerenza: dunque il dire, come fa egli , che (.) P. II, IV, V. Digitized by Coogle 4 si put) sentire, inlendere e lapere senza 1alto di conoscere, il quale non k cLe un istrumento di piu aggiunto alle altre facolla intellcttive, e un dire secondo lo stesso nostro Conte, che si pu6 conoscere senza 1 atto di conoscere. Se ci6 possa passare, io lo rimetto di buon grado al giudizio de nostri discreti lettorl. CAPITOLO XVllI. Ma a via maggiormente persuaderci , che anco secondo le forme di parlare che usa il G. Mamiani, ci riduciamo sempre a quesla singolare e inintelligibile sentenza,  che un cono- scere vi abbia pel quale non faccia uopo I'atto di conoscere , udiamo le dottrine del G. Mamiani intorno all intuizione , esposte colie sue proprie parole :  La prima vien delta da noi  intuizione immediala, la seconda intuizione mediata. La li prima che k fondamento e misura dellaltra si deiinisce da  noi: rauo di nostra menu, il quale conosce le- proprie idee u e le attinenze loro reciproche. Diciamo conosce le proprie idea tt con che vuolsi esprimere una notizia pura mentale, ristretta u nei soli fenomeni del senso intimo, fuor di spazio e fuori di u ricordanza, e che non deriva da conoscenza anteriore  (i). Fra le tante osscrrazioni che mi corrono alia menle su que- Bte parole del nostro autorc, molte non fanno per I'assunto particolare di questo Capitolo , e pcr6 le trapasso. Una sola dird, perchi se non fa al particolare intento al quale il passo fu addotlo, fa perA al nostro ragionamento generate sul ncsso delle due question! dellorigine e della dimostrazione dello scibile umano : ed ella k quesla. Il C. Mamiani colloca il principio ed il fonte della certezza nellintuizione immediata, onde deriva tutto il sapere umano. Ora se antecedentemente allintuizione immediata del C. Ma- miani potesse avervi qualche lume, o notizia di qualsiasi na- tura, quesla non sarebbe compresa nella dimostrazione della certezza del sapere da lui lavorata. Quindi assai coerentemente al nome di lei, egli ci assicura che u la intuizione immediata  non deriva da conoscenza anteriore . (.) P II, c. in, 1. 11 Biniwamenlo. 6 Digitized by Coogle E s!a pure : tna che cosa contengono queste poche parole, e non an sistema Intero intorno all'origine delle idee? Se Iin- tuizione immediata i la prima cosa che cade nello spirito uma- no, e s'ella i, come altrore la definisce,  la vista intellet- u tuale delloggetto pensato  e gnardato nella sua entit& u fenomenica  (i)^ chi non vede, che il primo fonte delle cognizioni d nel C. Mamiani quest'atto transeunte dellintui- zione, esclusa necessariamente qualsivoglia notizia data a no! per natura? Di piii chi non vede, che su questo sistema in- torno allorigine delle idee, che non i poi altro che il sistema de' sensisti, i appoggiato, siccome in unico fondamento, tutto il suo sistema intorno alia dimostrazione della certezza? pe- rocch6 se non fosse vero  che la intuizione immediata non  deriva da conoscenza anteriore  , come egli afferma, non aggiungcndone per6 dimostrazione alcana ; e se fosse vero il contrario, cio, che antecedentcmente alPintuizioDe degli og- getti esterni giacesse in noi qualche naturale notizia^ il prin- cipio della certezza del C. Mamiani non sarebbe pin princi- pio , e converrebbe cominciare dal collocare la prima certezza on passo addietro, cioi innanzi allintuizione fattizia degli og- getti esteriori. Checchd sia di ci6 , eg)i d evidente , che il C. Mamiani, lungi dallaver resa la questione della dimostra- zione dello scibile indipendente da qaella dell origine delle idee^ senza avvedersene, egli snppone anzi qaella dellorigine pienamente e sicaramente decisa^ e su questa supposizione, che non si cara di munire di prove, fonda e fabbrica quanto egli dice della certezza del sapere. Noi ritorneremo ancora sopra di cid, e dimoslreremo questa incoerenza del Mamiani con degli altri suoi passi ngualmente evident!: ma qui dobbiamo ri venire al proposito, dal quale ci siamo trasviati per desiderio di non ommettere questa osser- vazione. CAPITOLO XIX. 11 Mamiani dice, che 1 intuizione 4 Iatto della mente col quale ella conosce le proprie idee: Iintuizione adunque non 6 (l) P. II, C. I, IV. Digitized by Google 43 inai senza conoacenza; qoesta gli i essenziale, questa ^ sua figliuola che non disgiunge da sd stessa. Dunque se ogni in* tendere e ogni sapere duna parte viene dall'intuizione, dal* I'altra ogni intuizione involge il conoscere ; manifesta cosa e , cfae sapere, intendere e conoscere , stanno insieme come cose ugnali, o mollo simili ancfae pel G. Mamianq e per6 egli toma inconcepibile, come egli ammetta, che si possa usare delle fa- colt^ d'inlendere e di sapere senza alcun bisogno di quel cat* tivello di atto di conoscere. E pure egli trova bisogno di an- dare ancora piii innanzi, perchi il suo sistema possa stare in piede ^ e per6 s' accinge sotlilizzando a dimostrare, che senza atto di conoscere, lo spirito pu6 e attendere , e avvertire, e paragonare, e asirarre, e riflettere, e giudicare, e formare degli universal! (i)!! CAPITOLO XX. In vero egli era bisogno che il C. Mamiani assuroesse il ca* rico di provare tutte queste grand! cose, accioccbi potesse te- nere in piede la sua teoria della certezza ; la quale esige per prima condizione, che dinanzi all' intuizione fattizia dello spi* rito, non vi abbia idea o notizia di sorte alcuna, e cbe da quella si derivi tutto il sapere umano. 11 nostro autore, o piu tosto la coscienza di lui lo sent!: e se non confess6 apertamente questo grande bisogno del suo si* sterna, cercu almeno di riparare cautamente quanto meglio seppe il luogo debole, onde temeva la breccia. Per veder ci6 via meglio , non sara inutile udire in qual modo egli faccia a s^ stesso Iobbjezione di cui parlo. Comincia da prima a disporre il lettore in modo che quella non gli debba fare un gran colpo, con queste parole : u Noi siamo venuti esponendo la teoria degli universal! e u dei general! nel modo che la si pu6 costruire e praticare  attualmente, cioi con I'intervenzione assidua dell'atto cono*  scitivo, quale fu definite da noi nel IV Gapitolo di questa u seconda parte : e comechi allora venisse notato, la interven* zione del gindicio conoscitivo non alterare per niente la (1) P. II, c. IV e X. Digitized by Google 44 u realita delle conoscenze, pare ci accade di agglungere qa!  alcua'altra riflessiooe intorno il proposito (i). Qui ci rimanda a1 Gapitolo IV della seconda parte ; e do- Tremmo credere di trorarci la ditnostrazione della imporlantis- sima proposizione, cbe  la intervenzione del giudicio conosci- u tivo non altera per niente la realita delle conoscenze . Ma recandoci noi a qnel Gapitolo, rimarremmo di questo nostro credere molto ingannati. Veramente nsando egli anche qui se- condo il sno solito la frase  della realita della coiioscenza , in vece che  della verita e certezza , potrebbesi dire, cbe a provar quella priina, cioS  la realita della conoscenza , non ci abbia di argoinenti bisogno, bastando cbe ella sia, per esser realmente \ ni il giudizio conoscitivo pu5 impedire la sua rea- lita, anebe producendola egli stesso, tuttoebi quel giudizio fosse ingannoso ncl suo operare ^ imperocebi il produrla, i un farla reale, senza un bisogno al moudo cbe sia fornita d'altra cer- tezza e verity. Ma perocebi qui non posso permettere al Conte Mamiani, cbe col mutare la parola certezza in quella di realiUl, si tragga troppo agevolmente d'impaccio^ io, uno de' suoi lettori, sperando di parlare col pieno consenso di tutti gli altri, gli cbieder6 cbe egli mi provi, come I'atto conoscitivo, entrando a formare le conoscenze, non ne alteri punto la ve- ritA e la certezza^ e senza di questo non gli accorderA punto cb'egli sia pervenuto a porre insieme, come pretende, una vera dimostrazione dello scibile. Non ci basta adunque cb'egli abbia a notato  nel Capi- tolo IV, cbe il giudizio conoscitivo non altera la realita della conoscenza; vogliamo, sperando di non essere indiscreti, cbe egli ci u provi n, cbe quel giudizio non altera la u verita a certezza della conoscenza , il cbe egli ba sfortuuatamente di- menticato di fare in tutto il suo libro. Veramente tuttc le parole , cbe in quel Capo si riferiscono a far credere, cbe I'atto conoscitivo anebe entrando a pro- durre le conoscenze non ne alteri la verita, si riducono a que- ste sempl-ci gratuite afiermazioni ; u Nessuno credera cbe la  mente afifermando la snssistenza d'alcuna cosa, crei quella me- (i) P. II, c. X, VII. Digitized by Google  denma sussistenza n;  Nessuno manterra senza paura di as- u surdo, che i segni delle idee e delle cose esteriori producano u o cangino )a realta di esse idee o di esse cose  ^ u L appella- u zione generica dei predicati non ci ascoode le condizioni in- u dividnali con cui quelli si trovano nniti dentro ciascun sin-  golare  (i); le quali affermazioni destitute di ogni prova valgono, in bocca di un 6losofo che vuol edificare una dinio- strazione dello scibile, quanto queste altre uNiuno dubita della propria cognizione, e per6 ella non c'inganna, e. d..n. La maniera per6 colla qnale il C. Mamiani conchiude quelle sue ignude affermazioni, mostra quello che dicevo, cio^ che la sua coscienza nol lascia interamente tranquillo sulla loro picna autorita neiraoimo de lettori. Perocch^ egli corona il discorso con queste parole, le quali non moslrano avere alcuna coerenza colle precedent!:  Discende dal fin qui detto, che i fenomeni proprii dellatto u conoscitivo, comechi rimanessero oscuri ed inesplicabili, non  impedirebbero tuttavia di cercare con buoii successo la prova u fondamentale di tutto lo scibile  (s'oda qui bene la ragione che adduce per la prima volta, non avendo toccato punto di ci6 precedenlemente ), conciossiache 1 atto di conoscere , dee u venire considerate siccome nn istrumento di pih agglunto alle u altre facolta intellettive, per cui i data alluomo la possibi-  lita di sentire, d'intendere e di sapere . La ragione adunque che in queste ultime parole adduce in prova che Iatto conoscitivo non altera e nuoce alia prova fon- damenlale di tutto lo scibile, si che quest' atto non ^ ne- cessario alia formazlone dello scibile, che non i se non  im  istrumento di piu agglunto alle altre facolta intellettive, per H cui e data all'uomo la possibilita di sentire, d'intendere, e M di sapere . Ma qucsto non i quello che u discende dal fin qui detto perocch^ prima si voleva anzi sostenere tntt'altro, cioe, che quand'anco quest'atto conoscitivo entrasse veramente alia formaziooe dello scibile, egli per6 colla sua intervenzione non altererebbe la veritii, o sia la dimostrazione dello scibile stesso. Mon avendo adunque provato il G. Mamiani, ma solo asse* (.) P. II, IV, v. Digitized by Google 46 rito, che Tatto couoscitivo eziandiochi oscuro e mUlerioto en- trando a forniare lo scibile, non ne possa alterare la verlta^ egli si rifuggi alia sola tavola di salvamento che gli rimaneva, cio a mantenere che Iatto conoscitivo non fa lampoco bisa* gno all'uso di moUe facolla intelleltive^ colle quali seuza quel- Iatto si pu6 sentire, intendere, rifleltere, giudicare, sapere . Non i dunque interamente sincero il nostro antore quando egli dice quelle parole:  comechi allora venisse notato, la in- u tervenzione del giudicio conoscitivo non alterare per niente la u realita delle conoscenze, pure ci accade di aggiungerc qui al>  sponde alia certa realila de' fatti. Discepolo. Come Iavetc provato ? C. Mamiani. Ho provato che gli universal! rispondono sem* pre alia realita de fatti, perch6 essi si riferiscono squisitamente a particolari concreti. Discepolo. E percb^ si riferiscono scmpre cosi squisitamente a particolari concreti? C. Mamitmi. Perch^ quest! particolari sono i termini para- gonati, dal quul paragone col giudizio conoscitivo si sono for- mat! gli universal!. Discepolo. Dob come i questo? Udendo io, che gli univer* sail sono formal!, secondo voi, dal giudizio de' particolari pa- ragonati fra loro, io vi facevo appunto osservare, che una tale formazione supponeva degli altri universal! precedent! daltra formazione, de quali non si potea sapere se avessero quella che voi chiamate verity oggettiva, perocchi non potevano esser venuti dal paragone de particolari^ e voi mi rispondete che questo dubbio non pud nasrere, perchd si riferiscono di neces* sita a particolari, perchd da quest! sono derivati? Ognuno giudichi di questo circolare ragionamento che non dimanda certo da noi chiosc o comment!; e decida se ha ra- gione il maestro che insegna , o il discepolo che si trova im- pacciaio nell intendere la dottriua di lui. Rossimi, Il Rinnovmnculo. 7 Digitized by Google 5o CAPITOLO XXIII. II Mamiani stesso non credo rimanesse contcnto della so- luzione della sua obbjezione. E il deduco da un u adunque , col qnale egli lega un altro pen'odo a quello che bo citato dl sopra conteneiite la soluzione dell obbjezione fattasi. Nel periodo primo avea risposto, come abbiamo veduto, al- Iobbjezione , dicendo che era gia stato da lui notalo, come la idea universale ri.sponda alia certa realita de fatti, o sia de particolari concreti , di cui in formandola si giudica come di ogni vera e singola realita. II periodo soggiunto a questa so* luzione e legato colla particella u adunque   il scguente:  Adunque le idee universali , che non lasciassero sciioprire  di s, n altre idee universalizzate da cui si uriginino, n^ u i riferimenti loro esatti a qualunque concreto, siccome a  TERMINI DI FARAcoNE, non lascierebboDO credere ui tampoco u alia loro certa rappresentanza di qualche fatto, e rimarreb-  bono, allocchio del buon giudicio, un puro essere di ra- u gione n (i). Or primieramente non si vedecome stia bene in capo a que- sto periodo la particella congiuntiva u adunque  , la quale vuol indicare di solito una conseguenza di ciu che si i alTer- mato. Ma tanto h lungi che ci6 che sta in questo ultimo pe- riodo sia una conseguenza di ci6 che fu detto nel primo, che anzi i il contrario appuiito di ci6 che in detto in quello. Nel primo si diceva che  nel dellnire la idea universale Ai notato chella risponde alia certa realita de' fatti , cioi de particolari paragonati, e che dunque non pud cadere mai caso, che la idea universale non si riferisca squisitamente a' partico- lari, perchi cid entra nella stessa sua deflnizione, e perchd ogni idea universale ha origine dal giudizio istituito su parti- culari paragonati. Nel secondo periodo si suppone che vi possano essere delle idee universali, le quali non lascino scuoprire di si nd altre idee universalizzate da cui si origlnino, nd i riferimenti loro a qualunque siasi concreto siccome a termine di paragonc: e (0 P. II, c. X, VII. Digitized by Google 5i si dice , che tali idee non indurrebbero per6 in errore, perchi non lascerebbero credere alia loro certa rappresentanza. Or chi non vede che questa i nna ragione nuova , e tutto diversa, se non aoco in parte contraria alia prima ? danque che ba da fare quell' u adunqne  ? che vuole egli, se non mettere un puntello alia prima ragione sentita essere alquanto vacillante ? peroccbi se fosse stato certo e ben provato che  ogni universale  per la stessa definizione e per la sua ori* gine non controversa si riferisse a de particolari concreti, non si sarebbe gia posto la possibilita del contrario, e risposto al caso di questa possibilita. Conchiudasi: di due mezzo ragioni si cerc6 di formame iina sola, appiccandole insieme con quel glutine dell u adunque . Ma il lettore avveduto potrebbe per avventura tentare con qualche urto Iordigno cost debolinente incollato insieme, e rimanergli a pezzi in mano.  CAPITOLO XXIV. E si consider! di nnovo questa seconda mezza risposta. Si dice in essa, che se delle idee universali non lasciassero uscuo- u prire i riferimenti loro esatti a qualunque concreto siccome  a termini di paragone, uon lascierebbono credere ni tarn-  poco alia loro certa rappresentanza di qualche fatto, e ri- u marrebbono allocchio del buon giudicio un puro essere di u ragione , Che cosa si volea provare? La realita delle idee universali, o sia la loro verila. Ora questa i collocata dal C. Mamiani nella u rispondenza e proporzione squisita coi termini della re- u lazione  (i). Perci6 il torre a provare, come fa il nostro autore in questo Capitolo che abbiamo alle mani, la veriU o realita delle idee universali , i il medesimo che il torre a pro* vare che queste sempre si riferiscono a de particolari con- crcti:  Adunque , dice lo stesso G. Mamiani,  occorre alia u nostra iilosofia dimostrare  che le idee tutte universali  rispondouo bene alia realita oggettiva  (a) sono sue pa- (i) P. II, X, m. (a) Ivi. Digitized by Coogle $2 role, dove non parla di alcune, ma di tutte le idee universali, nessuna esclusa. Adunque, dico io, se vi avessero delle idee universali, le quali non lasciassero scuoprire i nferimenti loro esatti ai con- creti, e fossero un puro essere di ragione; in tal caso queste idee non avrebbero la verita oggettiva die il Conte Mamiani assunse di trovare entro a tnlte iiidifferentemente tali idee uni- versali. Ci6 posto, e dopo aver preso tale impegno, conveniva egli al Conte Mamiani, che, venendogli posto in dubbio se tutte le idee universali si formassero dal paragone dei particolari e a questi si riferissero, conveniva, dico, cbe rispondesse, che u tali  idee, se ve ne sono, non lascerebbero credere alia loro certa  rappresentanza di qualche fatto, e rimarrebbono un puro es-  sere di ragione? Sia pure tutto ciu; nia rimarrebbe sera- pre vero, che non tutte le idee universali sarebbero nate dai particolari, e che non tutte a questi si riferirebhero, e che non tutte avrebbero la realita o verita obbjettiva, e che per^ il Conte Mamiani non avrebbe soddisfatto al suo assunto, il quale era di provare che  le idee tutte universali rispondono bene w alia realita oggettiva n, assunto dichiarato da lui necessario, acciocch^ possa tenersi in piede la sua filosofia. CAPITOLO XXV. In quesCultima contraddizione con stesso il N. A. non sarebbe caduto, se avesse avuto un giusto concetto della ve- rita delle idee, e non Iavesse posta u nel riferimento di que- ste a' particolari concretin: se egli avesse conosciuto quanto dissi di sopra, che il falso non cade mai nelle idee , ma nci giudizj coi quali si applicano le idee, i quali giudizj sono nna operazione della mente al tutto diversa da quella delle idee. Con questo esatto concetto della nature del vero r del falso^ avrebbe potuto assai agevolmente conoscere, che tutte le idee universali sono ugualmente e sempre puri esseri di ragione, ne si sarebbe dicervellato a provare il contrario^ avrebbe cono- sciuto che a puri esseri di ragione cio6 alle idee tutte compete il service di regola e di misura della verita delle cose, e che Digitized by Coogle 53 esse stesse perci6 non possono esser mai false ^ sebbene possano malamente venir connesse insiume, e malamcnte venire alle cose applicate, nella quale conncssione e torta applicazione, opera del giudizio, cade appunto il falso e Ierrore. CAPITOLO XXVI. Non i, e non puu essere tnio intendimento il descrivere tutta la lotta intiraa, perpetua, che il G. Mamiani fa necessa* rianiente con tk stesso \ perch^ non i mio intendimento di es- sere infinito. Anzi desidero esser breve ^ e peru delle molte os- servazioni a ciii mi da materia questo capitolo X del N. A., 10 non addiirr6 chealcune delle principal! risguardanti il prin- cipale proposito nostro, che i la relazione che hanno insieme le due questioui dell'origine e della dimostrazione dello scibile. Certo egli parrit cosa singolare, dopo che abbiamo veduto 11 C. M. provare la verita obbjettiva, o, come egli la chiama, la reality degli universali dalla loro origine, c\oi dal confronto de' particolari concreti; e dopo aver egli preteso di sciorre le obbjezioni contro si fatta realitii partendo di nuovo con vi- zioso circolo dalla medesima origine^ egli i singolare, dissi , I'lidire il N. A. a vantarsi di aver al tutto eliminata la que- .stione dell'origine, e provata la verita degli universal! senza entrar punto nel gineprajo di questa quistione: u Vedesi da H ci6, ecco le sue parole, una conferma nuova del grande van-  taggio che si racroglie a sceverare la quistione della realita u dello scibile da quella tenebrosa c arcana delle sue sorgenti u primitive^ perche quando pure di alcune uiiiver.sali idee re- u sti occulta I'origine, non per tal fatto dee rinianere occulta u di forza la loro reality e il modo di bene avverarla  (i). Tuttavia io vorrei essere iodulgente sopra questa intrinseca incoerenza, quando il C. Mamiani, trascinato dalla serie dei ragionamenti, fosse entrato nel campo della questione circa la forraazione degli universali, senza accorgersene^ come talora suole accadere a due amici, che passeggiando e in piacevoli ragionamenti intrattenendosi, trascorrono i conGni che seran posti, senza avvcdersene. (I) P. ir, X, VII. Digitized by Google 54 Quello che io non posso capire n& perdonare, si i come ii N. A. tanlo insista sulla separazione di quelle due question!, e sull'indipendenza di quella della dimostrazione dullo scibile, da quella dell'origine^ quando poco innanzi, non solo per trattare della prima avea preso le mosse dal trattare della se- conda^ ma, quello che i il piu strano, prima di farlo , egli medesimo aveva confessato ingenuamente, che ciu gli era ne- cessnrio per le esigenze della sua fllosofia!! Le sue parole non sono equivoche , perocch^ sono queste :  Occorre alia nostra u filosofia dimostrare  che simili idee ( universal! ) acqui- u stano la universita e immutabillta loro non da forme ioge> u nite e da giudicii a priori istintivi, ma per I'azione semplice  e naturale delle facolta ordinarie di nostra menten (i). Dun- que alia iilosofia del C. Mamiani, che versa tutta sulla prova dello scibile, occorre la questione dell'origine dell'idee : dun- que non puii fare egli medesimo a meno di questa : dunque non i vero, secondo lui stesso, ci6 che tanto ripete, che la prova dello scibile possa stare senza conoscersi Iorigine o derivazionc delle cognizioni. CAPITOLO XXVII. Nelle parole or ora allegate del G. Mamiani si racchiudono due promesse. La prima di u dimostrare che le idee universal! X non acquistano la universalita e immutability loro ( il che i u quanto dire, non haniio Iorigine) da forme ingenile e da X giudicii a priori istintivi n ; questa ^ la parte cenfutativa, che intende a ribattere gli altrui sistemi intorno allorigine degli universal! : la seconda promessa  di dimostrare che gli universal! si formano x per Iazione semplice e naturale delle X facolta ordinarie di nostra mente  ^ questa h la parte con- (Irmativa, nella quale Iautor nostro propone il suo sistema circa Iorigine degli universali, e il propone per fabbricarvi poi sopra la sua teoria della loro cerlezza. Non sara mica inutile, che noi sguardiamo un poco attenta- mente alia manicra colla quale combatte i suoi avversarj, cioi (i) P. II, X, III. Digitized by Coogle 55 i filosofi. r)ie ripulando itnposslliile i1 trarre gli iiniversali dai sens! e dallinduzione, ammettono qtialche eivtnento di natural cognizione precedente all'esercizio delle facolla. Largomenlo contro di essi i il seguente:  Coloro cheesclu* tt dono afTatlo I'esperienza induttiva dalle cagioni efficienti u dellc idee auiversali  tnancano al severe uso della sillo- u gistica', in quanto che il principio invocato da loro della u conformita deU'efletto con la natura della cagione importa u per sh non Iesclusione dell'esperienza induttiva, ma solo u I'interponimento d'un'altra forza efficace, diversa dalPespe-  rienza: ni deGnisce o pu6 deGiiire s'ella dee consistere in  forme e giudicii trascendentali, o piii semplic.emente in qual- u che speciale esercizio delle facolta nostre ordinarie  (i), Primieramente quali sono i Glosofl che escludono aGatto I'esperienza induttiva dalle cagioni efficienti delle idee univer* sali^ lo stento a vederli nel mondo della GlosoGa. Sarebhero forse tali GlosoG, almeno al d'l d'oggi, una produziooe della fantasia del G. Mamiani? Avrebbesi egli create un avversario chimerico per darsi I'ineffabile diletto di combatterlo. c di vincerlo? Intanto per^ che il C. M. mi prepara una risposta, e scar* tahellando le pagine della storia GlosoGca numcra quanti e quali possono essere gli avversarj da lui presi di mira, per mu gli dichiaro almeno questo, che ni io ( sebbene egli mi attri* buisca un non so quale platonismo ), n^ molti altri meco in* sieme, non escludiamo affatto I'esperienza dalle cagioni elG* cienti delle idee {i inutile aggiungere unwersali^ essendo per me le idee tutte universali): ma diuiamo, che quella non ba* sta a formarle. Dunque il suo argomento non vale, almeno contro di noi^ e per6 non  complete, n^ alto a munire il suo sistema, siccome pare ch'egli preteiida, contro le obbjezioni di tutti i GlosoG , che non la senton con lui. CAPITOLO XXVIII. Di piu, egli attribuisce a' suoi avversarj un altro errore, del quale, per essere a dir vero grosso anzi che no, non gli vor* (1) P. II, X, m. Digitized by Google 5fi ranno saper baon grado. Tulti qaelli, die ammcttono qualche notizia, o lume dato airuomo da natura, vengono a qucsto partito unicamente percbi credono, cbe nessuno esercizio delle facolta umane, senza un primo Iiime, una prima nollzia, possa produrre le idee. Ora egli attribuisce loro nelle parole surrife- rite, chessi abbiano veduto Timpotenza dell'esperienza indut- tiva Delia formazione delle idee universal!, ma cbe non abbiano poi cercato se mediante qualche esercizio delle facolta nostre ordinarie gli universal! si fossero potuli comporre. Egli sara bene per avventura diflicile I'assegnare un esercizio delle facolta, vulto a produrre gli universal!, cbe non sia la stessa esperienza induttiva^ la quale egli distingue, quasi fosse nna cosa al tulto diversa. Ma lasciando cio, noi, ed ognuno cbe si conosca un poco de filosobci sistenii pu6 assicurare il G. M., cbe quefilo* so6 chegli combatte, faanno almeno credulo di poter dichia- rare insufGciente ogni esercizio delle facolta ordinarie, supposte ciecbe d'ogni lume, alia formazione degli universal!^ e peru, cbe tutta la questione con essi non si Gnisce gia con affermare semplicemente, cbe il principio di causalitil lascia in dubbio se alia formazione delle idee basti I'esercizio delle facolta ordi- narie e ciecbe delPuomo, ovveramente si esiga i'esercizio d'una facolta illuminata da una prima notizia. Di nuovo : non pare, cbe il N. A. cogliesse lo stato della questione, nella quale egli i entrato con tanta sicurezza. E chi non ooglie ed intende bene lo stato di una questione, pu6 egli trattarla? qual giudizio dee farsi anticipatamente della soluzione ch'egli ne dara ? CAPITOLO XXIX. Ma veniamo piu alle strette. Il C. M. rinfaccia a' GlosoG cbe non sono del suo sentimento, e cbe ammettono qualche verita elementare anteriore ad ogni idea fattizia, cbe mancano al se- ven) uso della siUogistica, in quanto cbe, dicegli, il principio della causalitii non deGnisce ni pu6 deGnire se quella forza efGcace a produrre gli universal! consista  in forme e giudicii u trascendentali, o piu semplicemente in qualche speciale eser- M cizio delle facolta nostre ordinarie n . Digitized by Coogle ^7 Non mi fermo a esaminare quanto propriamente sia qui adoperata quella parola u trascendentale  \ ma mi contento di ragionar cosi: Poslo vero, die il principio di causa non deflnisce nA pu6 deCnire se quella forza, che i atta a produrre gli universal! , sia o qualche prima notizia innala, o Iuso di qualche potenza senza quella notizia; converr^ tale questione lasciarla insoluta, o converra, a scioglierla, ricorrere a qualche principio diverso dal principio di causa. Non credo che niuno trovi che ridire su quesla alternativa. Or bene: il C. M., ogni qual volta confuta gli avversarj che ammettono qualche principio innato, rinfaccia loro la temerity di decidere una questione insolubile, e tutto al piu di natura conghiettuiale. Non cost quando egli stesso, dopo essersi spacciato in tal modo, o aver creduto dessersi spacciato degli avversarj, entra neU'arringo, e propone e propugna la sua sentcnza, che tutti gli uiiiversali traggono origine non da alcun principio innato, ma si bene dal semplice uso delle ordinarie facolta, prive di ogni intrmscca e prima visione; questione che, come egli dice,  occorre alia sua Glosofia Manco male per6 se stesse qui solo la cosa; e se a sciorre qnesta questione dell'origine, di cui ha tanlo bisogno, egli non facesse uso del u principio di causa , da lui dichiarato inetto a deciderla, ma di qualche altro principio nuovo, a tutti inco- gnito per avventura, e da lui escogitato. Nulla di ci6. La sua dimostrazione, efGcace o no ch'ella sia, k tutta qui: egli tenta di provare, che col solo uso delle ordinarie potenze si possono forroare gli universal!; il che i quanto dire, che Icsercizie di quelle potenze 4 causa sufficiente a produr quelPeffetto, e che per6 non conviene ad altra causa ricorrere: il che i I'appli- cazione appunto del principio di causa. Quando adunque confuta gli avversarj che non riconoscono Pesercizio delle facolta umane prive di lume per causa suffi- ciente alia produzione delle idee, egli strepita tassandoli di mancare di logica, perchS il principio di causa non ha virtu di mostrare se basti o no Tuso delle facolta alia produzione delle idee, e ingiunge loro con severo sopracciglio di doveraste- nersi dal decidere quella questione; quando pol egli preude a Rosmimi, Il Ritmovanicnlo. 8 Digitized by Coogle 58 stabilire il suo sistema, come se gli avversarj suoi fosser tnorli, e non potessero riconvenirlo dellingiusliiia che loro usa , prende con tuUa sicurta a dimoslrare, che Iuso delle facolta ordinarie 4 cagionc sufiiciente a formare gli universal!. Ha egli adunque il C. M. due misure, Iuna per s4, Ialtra per gli av- versarj, due logiche, o come egli dice, due sillogistiche , due metodi, due verila, e due falsila? CAPITOLO XXX. Ma giova che noi riloruiamo un po'addietro. Abbiamo giA veduto, che il C. M. senti, e fece a se stesso Iobbjeaione che  lutti gli universal! non possono esser format! dal giudizio conoscitivo, perchi queslo giudizio suppone innanzi di $4 degli allri universal!  : abbiamo veduto altresi, che' non rispose a questa obbjezione se non con delle gratuite afTermazioni , le quali peccavano di petizione di principio. Quindi gli fu necessario di tentare altra via, cio4 quella di dimoslrare che Patio di conoscere non 4 di tulla necessitA alia formazione delle idee universal!, e chegli  dee venire consi* a derato siccome un islrumento di piu aggiunto allc altre fa- u colta intellellive, per cui 4 data alPuomo la possibilitA di a scntire, dintendere, e di saperen. 11 diinostrar queslo non 4 al C. M. cosa, per cosi dire, di sopra erogazione, ma streltamente obbligatoria, sebbene egli voglia farla apparire come una sopraggiunla alPaltre ragioni sue: noi le abbiamo esaminate queste ragioni, ed abbiamo tro- vato che ragioni per avvenlura non sono. Resla adunque che noi cerchiamo il ncrbo del suo ragionamenlo in quesl'ullima cosa, che ci promelte di dimoslrare: saremo noi cosl fortunati da Irovarcelo? veggiamolo. Primieramtnte dandosi un uso delle facolta d'intendere e di sapere, di allendere, di avvertire, di aslrarre, di riflellerc, di giudicare indipendentemente  da qualunque idea aslratta ed universale, ed in ispecie dal giudizio conoscitivo , come credo il C. M., io dimando sc con quesl'uso, qualuuque egli sia, si olliene, 0 no, la formazione delle idee universal!. Se il C. M. risponde di no, io replico esser dunque inutile quesl'uso Digitized by Googl siogotare di tali facolta alia soluzione della queslione proposta, che era u come si potevano fare gli universal!, senza qualche universale precedente n , Se il G. M. rispoiide di si, siccome fa, giacchi ^ questo appunlo cbe toglie lungaraeute a dirno* strare, ciui che lulti gli atti die coucorrono necessariamente alia formazione dellc idee universal! si possono da noi fare senza il giudizio conoscitivu (i), volendo da ci6 inferire, che gli universall si possono formare senza bisogno di questoj io ragioDO in questo mode: II Mamiani gia prima avea lungamcnte spiegata la formazione degli universal! coll'intcrvento assiduo del giudizio conoscilivo (a). Dunque nel sistema del Mamiani, il nostro spirilo alia for* mazione degli universal! arriva per due process! diversi, cio6 I.* per Iuso delle facolta inlelletlive, senza intervento di giudi- zio conoscilivo, a.* per mezzo dello stesso giudizio conoscilivo, il quale non i che u un istrumento di pin aggiunto alle altre u facolta intellettive . Or chi non vede qui una cosa assai strana? In prime luogo, sebbenc la natura sia sempre ricca, qui lut- tavia potrebbesi piii tosto chiamar prodiga, se avendo ella gia dalo alio spiritoun mezzo di formare gli universal!, glicnc desse poi un altro, che rimarrebbe veramente superfluo. Ne cause superflue, secondo il buon metodo, si debbono ammettere nella natura. Questo supporre dunque, come fa il nostro autore, che Io spirito umano abbia due vie da formarsi gli universal! che sarebbero due facolta tendenti al medesimo , riuscirebbe in un errorc simile a quello di chi dicesse, che per vedere, oltre gli occhi, la natura ci dee aver falto un altro organo vi- sivo, e che gli occhi non sono che un soprappiu dato dalla natura a giunta delle altre facolta visive. (i) P. II, X, VII. tu) " Noi sismo venuti eaponendo la leoria drgli universall e dei geue- " rail nel roodo che la si pu6 costruire e praticare allualmenle, cioi coa " Iintervenziooe assidua dellallo conaseitlvo . P. II, X# rii. Go CAPITOLO XXXI. la secondo luogo, due mezzl ad uno stes50 fine, due stru- menti conceduti alio spirito nostro ambedue per la formazione degli stessi universali, due serie di operazioni interne essen- zialmcnte diverse producenti uno stesso risultamento, sono elle possibili, od involgono piii tosto inlrinseca contraddizione? lo per me tengo questo per cosa al tutlo ripugnante : e a * dimostrarlo, troncando la via ad ogni replica, cost discorro : Che sono gli universali? quali sono i loro essenziali e pro- prj caratteri? Acciocch^ nello stabiiire questi non si possa ca- villarc, cercbiamoli nel libro appunto del C. Mamiani. Fra' caratteri essenziali dcll'idea universale, oltre la necessita e Iimmutabilila, v'ha qucllo da cui dcriva il suo nome cio& la universalila: u quelle idee dimostrano, dice il C. M. , avere  una compreusionc (i) senza limite, onde vogliono essere de- u nominate non soltanto generali, ma universali e infinite  (a). Poco innanzi egli reca in csempio I'idea astratta della sfericit^. Ella u 6 universale, dice. Impcrocche la ragione medesima, u per cui cssa idea convieue a ciascuno di quegli oggetti onde u fu ricavata (3), la fa convenire con tulti gli altri reali e u possibili , cbe fra le condiziuni varie del loro essere inclu- u dono la sfericita.  perclii il numero di questi non i li- (i) Volea dire  eslcnsioiie  Ogniin sa die ndia lingua filosofica fu gc- ncralmcnle convcuuto, die sutio la parola di  compreosione delle idee  sindicasse il numero delle note comprese iidlidca, e snito la parola di  estciisionc m il numero degli oggelli possibili a cui I'idea si slende: di maoiera die i una enmune osscrvazioiie die si trova in tulle filosolie qudia die la  coinprensione e Ieslensione delle idee slanno in ragione inversa fra loro , e die percid le idee di piii comprensione liaiioo uiia minor estensione, doe seslendono a minori classi di oggelli, e viceversa. Sarebbe desiderabile die il C. Mamiani avesse piii famigliare il linguaggio de* file, sofi: perocdid mollo iiuuce al Irovamenlo e aU'inseguameulo del vero Iim- proprietd del parlare. (i) P. II, X, 111. (3) Siippniie anrhe qui per indubilato il sis'ema de' sensisli inlorno al- Iorigine delle idee, e su di esso innalza i suoi ragiooamenli. Sicche se dtll'origiiie delle idee non si potesse avere una corla scnieuza, come il no- stro auiore prcleiide, ella sarebbe spacciala della sua lilosoiia 1 ella rimar- rebbe mortalmeole ammalata del malore cronico die si cbiama scellicismo. Digitized by Coogle 1 6 K mitato, ma trascende la creazione tnedesima e spazia iiel  rimmcDsit^ del possibilc, coal I'idea astralla della sfericila  i vera idea universale e di comprensione (estensione) in*  6nita, cioi a dire ch' ella i un tlpo e un esempio, nel u quale vediamo rappresentata una forma di estensione pro-  pria a smisurato nnmero di soggetti ( i )  . Dunque, secondo il N. A., cio che forma II proprio, il costitutivo deir idea universale, si i lo stendersi a tiitli gli og- getti possibili da lei rappresentati , i quali sono infiniti. In questo coDvengono necessariamente tutte le idee universali, e aenza di questo carattere non sarebbevi universale. E per6 tornerebbe cosa assurda il partire le idee universali in due class!, le une che si stendessero quanto il possibile, cio al- I'indnito , le altre che non abbracciassero se non un certo numero di oggetti finito. Queste ultime non sarebbero piii uni- versalis e ove si desse loro questa appellazione, si abuserebbe con cio delle parole, si mentirebbe filosoficamente, perocchd la menzogna de illosofl i appunto quella per la quale essi travestono un oggetto alia foggia dun altro, e il fanno pas- sare nel discorso sotto un finto nome e non suo. Si ritenga bene tutto cio , perocchi queste osservazioni ci debbono qua e cola cader piu volte in acconcio. Per ora basta a noi di conchiudere, che formare un univer- sale, secondo la trovata deCnizione, i quanto formare u un tipo o un esempio s come dice il Mamiani, ove i rappresen- tato un infinito numero di oggetti, cio tutli i possibili. Or bene: se cost i, il processo della formazione di tali Idee, dico io, non pu6 esser che uno. Perocchi lasciando quello che in tale processo pu6 caderci di accidentale , noi ci dobbiamo finalmente sempre ridurre a questo, di pervenire colle opera- zioni dello spirito nostro a formarci una rappreseiitazione o un pensiero, che si stenda a tutta Iinfinita del possibile. Ora o questa operazioiie colla quale la veduta del nostro spirito si stende alP iftimensita del possibile contiene essenzialmente il giudizio conoscitivo, owero non lo contieue. Se lo contiene, 0) P. II, X, JT. Digitized by Coogic 63 rebbe fliiila del suo sisteraa. Veggiarao come conduce la sua dimostrazlone. Egli comincia a porre per fondamento di tutto 11 suo di* scorso, che alia furmazione dellu idee universal! concorrono continuamenle u tre sorte di atli: la concessione dei termini u particolari paragonabili: il paragone di quelli e Iastrazione u dell'identico : il giudicio della possibilltil d'una ripetizione u infinita di esso identico  (i). Fin (jui egli. Jo non fo la critica di queslo passo , ebu troppe cose avrei a dirci sopra^ perciochi non voglio iuterrompere il fllo del ragionamento cbe instiluisce il N. A. Si fa egli dunque a provare, che la prima e la seconda sorte degli atti, cos'i da lui distinli, lo spirito puA farli sciiza lin> tervenzione del giudi/.io conoscitivo e di nessuna precedente idea universale. Se la sua prova sia eiUcace, noi il vfcdrem bene, ma qui tiriamo ancora innanzi. Viene alia lerza sorte di atti nccessarj a formare le idee universiili, cbe  u il giudicio della possibilita d'una ripeti-  zione infinita di esso identico . Egli dee qui pure mostrare, accioccb^ sia provalo il suo assunto, che auchc questo giudizio si pud fare scnza giudizio, si pud fare senza idea universale, senza la stessa idea del possibile!!! Udiamo con quali parole egli compie una tanto ardua iinpresa: u Quanto all' ultimo alto, il quale considera I'identitd rile- u vata nel paragone, eome capace di essere ripetuta in infinito u numero di soggetli, noi diciamo cbe colui il quale racco* e gliesse qualche concetto d'identita senza possedere la idea  del possibile c dell' impossibile, non verrebbe certo a con-  cepire la moltiplicazione infinita di quella medesimezza. Non  pertanto egli saprebbe figurarsela riprodolta un numero in- a definito di volte.  Adunque escluso eziandio il concetto u della possibilita, il numero dei soggetti nei quali vien tro-  vato 1' identico si fa di per se, e a poco a poco Indefi*  nito  (a). Di qui egli vuole cbe si conchiuda, cbe dunque le idee uni- (i) P. II, X, VII. (i) Ivi. Digitized by Google fi4 versali si possono fare senza giudizio e senza it concetto del possibile! Se a1 mio discrete lettore coslasse troppo i1 prestarmi fede , vada a vederlo nel libro del C. M. , che non i sotto- chiave, ma alle stampe (i). Quanto a noi, sebbene potremmo mostrare che senza il concetto del possibile non si puo raccogliere dallo spirito alcun concetto d'identita, anzi ni pur forniarsi un concetto al mondo, e parimente cbe sarebbe impossibile il figurarsi riprodolla la medesimezza delle cose il piii piccol numero di volte ; tutta- via soprabbasta all uopo nostro di attenerci alia confessione del Mamiani. Gonfessa egli, che senza Iidea del possibile non si pu6 ri- petere Iidentita rllcvata dal paragone, in un infinite numero di soggetti. Gonfessa, che I'idea universale dee essere infinita , cioi dee stendursi a tutti gli oggetti possibili, i quali appunto per esser possibili, sono infiniti, non avendoci nel possibile limite alcuno. Dunque, conebiudo, secondo il G, M. slesso, senza Iidea del possibile non si formano gli universal! : il che i appunto il contrario di ciu che dovevasi dimostrare. Non vale il dire che  Iidentico si fa di per s& a poco a poco indefinito n. Sebbene sia falso anche qnesto, tuttavia supponendol vero, io dico che Iindefinilo, ^ perdi sempre finito, (i) Vngliam noi vedere confldenza clie tnerita la doltrina di un aulore, a qualclic segno esirinseco, per cosi dire? Osserviamo se egli cammioa franco, o se teoicnna nel suo slile, cio^ sc iiilrainetle ad ogni sua affcrnia- zioiic qualclie parlicrila, o avverbiu, o aggcUivo die rcud.i dubbiosa, o piii veraineole distrugga ralfcrinazioiie neirallo ebe la fa. Poniam caso ; si vuol saperc sc alia formaziuiie degli iinivcrsali faccia bisogoo si o uo il giu- dizio coQoscilivo' nel ebe sla lultoil nodo della questione. Come annuuzia il nostro aulore si fallo assunlo? Con questc parole:  Verremo spoocudo  Tolmente conoscere, cbe di nulla forza i la ragione chegli adduce a provare dover riuscire indifferente alia verita dello scibile, che I'idea dellessere sia innata o pure fattizia. Egli dice, che quandanche quella sia innata, tuttavia rimangli ferma la certa realita delle umane conoscenze, perchi essa idea dell'essere  non ha nulla che fare col sussistere delle cOse, u il quale i conosciuto bensi per mezzo di quella, ma non  affermato e posto da quella  ( i ). Or questa ragione sarebbe di qualche momento se tutta la Terita o piuttosto veracita delle idee consistesse nellaver que- te un corrispondente negli oggetti real! e sussistenti: alliu* contro esse non hanno necessaria corrispondenza se non con de possibili. Piu tosto dovea considerare il N. A., chc se Iidea dclles- sere non afTerma per sk sola nessun oggetto sussistente, clla 6 per6 quella col mezzo della quale si conoscono tutti, comegli stesso dice, quella che II misura tutti, e assegna a tutti la loro quantita di essere, e per6 il loro valore. Ora se questidea i il mezzo di conoscere le cose reali; non i egli necessario a chi vuol dare la ditnostrazione della conoscenza, il dimostrare che questo mezzo non  fallace? se ella i la misura delle cose, non fa uopo provare che questa misura i giusta e non ingannevole? Non vale mica il dire sempliccmente , che I'intuizione & di tutta certezza^ perocchi questo bisogna non aflfermarlo, ma provarlo. E per provarlo, conviene mostrare assurdo il contra- rio. Ora il C. M. a provare certa I'intuizione mediata della realiti esteriore, trova un conllitto fra un fatto ed un razio- cinio, e per conciliare insieme questo fatto e questo razlocinio, che sembrano contraddirsi, egli conchiude chc fa bisogno in- trudurre II terzo fatto della realita esteriore, che spieghi la conlraddizione apparente de' due primi fatti, pcrocchi, dice (I) P. II, c. .XI. . Digitized by Google 7^ egli,  la contraddiuone del falli i setnpre apparente (i). Tutto ci^ sarebbe vero ed efficace, quando fosse stato provato prima la veraciUi ed autoritii del raziocioio: ma qaesta ap punto i quella che si vuol provare: dunque ci avvolgiamo anche qui nel circolo. In qnal oianiera nscirne, se non si mette prima ad esame il mezzo col quale conosciamo, e ragioniamo, cite e u I'idea dell'esame n , e vedulol certissimo ed inialli* bile, ne caviamo di ci6 la certezza e infallibilita della cono> sccnza, e del raziocinio medesimo? Qualunqiie sia la realita esterna, allorchi noi la percepiamo, not aflermiamo a noi stessi che i, noi le applicbiamo il pre- dicate dell'essere. Qaesta i Iintuizione delle cose esterne sns- sistenti. Quesla intuizione adunque non i un fatto semplice^ ella ha bisogno per operarsi, cbe sia in noi precedentemente I'idea dell'essere, che i quella che s'applica alia cosa sentita, quando I'uom dice internamente :  qnesto cbe sento, . Non si concede adunque al (llosofo, che proinette la dimo- strazione dello scibile, di lasciare senza esame queslo elemento del sapere: lice a lui cominciare dallinluizione come primo fonte del sapere, senza disaminare il mezzo dintuire, che precede I'intuizione medesima. CAPITOLO XLI. Che se il Mamiani avesse riputato veramente inutile pel suo sistema il soltoporre ad esame quelle idee che sono supposte preesistenli in tutli gli atti intellettivi che nello stato pre- sente noi facciamo^ non si sarebbe poi cost lungamente trat- tenuto a provare in piii luoghi, che u I'atto di coiioscere dee u venire considerate siccome no istrumento di plu aggiunto  alle altre facoUa intellettive  (a), e che  I'esercizio pin u semplice, piii immediate e piu elementare delle facoltit di (i) P. II, c. V, III. Cbi glie Iiia delto che la conlraddiiione de fatli i scinprc appareate? Convien rifletlrre die qui si tralla di provare la verilk dello scibile; e pero non convieae ammettere de' priacipj a bizzelTe come iDfallibili ; perocebi in tal caso si suppone prima ci6 che si vuol provare. (a) P. II, IV, V. Digitized by Google 7^ u attendere, riflettere e giudicare sembra indipendente da u questa coufusiuiie allignano i paralogismi dogui njaniera. K niolto da usservarsi, chc aiiclic nello slesso capitolo dove avea distiuto il giudizio dallalto di cognizioiic come una parte di questo, riepi- logando poi lo fa presso a poco utia cosa con questo ; peroechA dice  tutte M quelle (facolt^) die assistooo iminedialamente allallo di cogniziooe sou  cuuteiiule ed epilogate nella facolta di giudicare  (P. II, c. IV, vit). Chi pu6 spiegare tauta inccrlezza ue' vocabuli, e uelle frasi ? chi Sara ob. bligato di seguitare col pensiero tali frequenti variaziooi ? {1) P. II, XX, 11. (3) P. II, c. IV, VI. Digitized by Google 79 Ollioiamenle. Ma i egli queato tulto lo scibile? questo non i ae non quello scibile che Iuomo si forma coll'atto cono- scitivo tal quale preseoteniente noi I'usiamo. Mi risponda duu- que il N. Autore I'una di queste due cose: o non vi ha un altro scibile per noi, fuor di quello che vien formato da que* sto stromento dell'atto e del gludizio conoscitivo; ovvero vi ha un altro scibile, che Iuomo forma a si stesso, senza Iinter- venzione di quel giudizio conoscitivo: qui non ci ha mezzo. Cosl adunque ragiono: se il N. A. mi dice che tutto lo sci- bile umano provieue dall'atto e giudizio conoscitivo^ e bene, gli dico io, dunque Iuomo usa sempre di questatto di cono- scere, dunque non vebbe mai un tempo nelluomo nel quale egli potesse fame senza, dunque il giudizio conoscitivo non i gia un istrumento di piu aggiuuto allaltre facolta intellettive, ma i lo slrumento unico, necessario, universale, col qu;ile ope- rano le facolta intellettive, o almeno la prima di esse da cui tutte I'altre dipendono^ dunque i falso, come voi sostenete che senza il giudizio conoscitivo si possono formare dclle idee; dunque non tutti gli universali sono fattizj, ma ve nha almeno uno donato a noi per larghezza di natura, quello che iudi- spensabilmente i necessario acciocchi si possa fare lo stesso primu giudizio conoscitivo, pel quale voi stesso conoscete la necessita di un precedente universale (i). Se poi il N. A. mi dice, che vha uno scibile formato da noi senza I'atto conoscitivo, colluso piii elementare delle facolta intellettive, come veramente talor dice e sosliene; in tal caso io gli rispondo, che dunque lo scibile, di cui egli ha preso a di- mostrare la verity, non i tutto lo scibile umano, ma solamente nna speciality di esso ( comegli suol parlare ), e perer sno fonte Iuso delle facolta intellettive senz'alto cono- scitiro, e qaali a quello che da questo atto fu generalo. CAPITOLO XLIII. Un solo elTugio potrebbe rimanere aperlo al N. A. Egli probabilmeute ci verra dicendo, che nel sapere pro- dottosi dallatto conoscitivo ci ha, nel presente stato deiruomo, rifuso e rimescolato anche il sapere primitivo prodotto dal- I'uso delle facolta intellettive prive dell'istrumento dell'atto del conoscere, che il secondo sapere i ideiitico col primo, 6 il prima sotto altra forma piii corapleta e piii piena. A turare questo bucolino abbiamo piu materia che non bisogna alle mani. Primo, se egli ci afferma che il sapere presente, prodotto dallatto conoscitivo i identico sostanzialmente col primo sapere formatoci senza I'atto del conoscere^ noi gll faremo osservare die egli i obbligato a dimostrarci quests relazione d'identila^ il cbe egli non fa. Se poi vuol farlo , gli i forza di entrare a discutere qual sia la natura e la qualita de' due saperi, ed egli s'h dichiarato, che a parlar del primo non vuole entrare, e cbe parlarne non si pu6 per alcuna certa scienza, ma solo per conghiettura :  eviteremo, dic'egli , qualunque disamina e  qualunque ricerca coiigctturale suU'origine e formazione pri- M mitiva dei nostri peosieri n (i). Cbe s' egli anco non sen- tisse scrupolo del violare quests promessa, e noi Passolviamo dalla sua parola^ ma il suo discorso per6 sulla natura dello scibile primitivo non potrebbe essere tutt'al piii che conghiet- turale, t per6 I'identita de' due scibili non rimarrebbesi dimo- strata mai, ma solo conghietturata. Secondo, io ho dimostrato giii prima, esser cosa assurda e impossibile chc nello spirito inlellettivo v'abbiano due facolta volte alio stesso oggetto, o due process! di operazioui condu- (i) P. II , c. Ill , VI. Digitized by Google 8i cent! allii profliir.ione Ji uno idcnliro iaprrc. Percio se egli i vero, che il giuilixio conoscilivo produca lo scibile delluoino adulto, ma quello non bisogni pnnto alio scibile deU'uomo infante nel quale le facolta intellettive operano senza Iistrn- mnto dellatto conoscilivo^ dee seguitare di conseguente, che i due scibili, prodnzioni di due processi diversi, e di due fa- co1t4 e istrumenti diversi, sieno pure diversi fra loro. Quan- danco per6 fossero identici e di forma diversa, I'ufficio di chi toglie a dimostrare il sapere umano dovrebbe esser quello di dimostrarlo vero soUo enlrambe le forme, acciocch^ niuno potesse dubitare, che nella forma si collocasse qualche altera- zione della verita del sapere^ e il C. M. mostra di avere avnto sottocchio questo vero, quando si consiglici di dare una di- mostrazione dello scibile presente deUuomo sotto tutte quelle selle forme, nelle quali , a suo parere, si manifesta. Terzo, I'autor nostro stesso viene a concederci la difTerenza dei due scibili, o almeno non la csclude in mode da non lasciarne dubbio. Perocchi egli oppone a sd stesso, che lo sci- bile presente ne suppone un precedente, che gli universal! che nol formiamo ora col giudizio conoscilivo suppongono degli universali precedent! al giudizio e de quali il giudizio abbiso- gna per operarsi. E che risponde a ci6? Due cose. La pnma, che qnandanco preesistano degli altri universali, a qnelli che noi formiamo col giudizio conoscilivo, quegli universali preesi- stenti non tolgono perii la realita dello scibile. Lallra, che non necessario die quegli universali primi sieno innati, pe- rocchd possono in qualche modo esser formati colluso delle facolt^ intellettive senza giudizio conoscilivo. Questo 4 cono- scere almeno come possibile, die vi abbiano due specie di universali, gli uni formati senza giudizio, gli altri dal giudi- zio collajuto di quelli^ i un riconoscere come possibjic che il primo nostro sapere formato ndleta infantile sia la base del saper nostro presenter che percio non sia identico con questo, ma da questo diverse, perocchi 4 come il primo scalino della scala per la quale ascende Iintendimento deiruonio, mcnlre il presente sapere ni il secondo. Cio posln, chi non vede che la verita del saper nostro presente dipende dalla veritA del sa- pere primilivo ed originale? chi non vede, die sc vi hanno Rosmini, // Binnovrimerito. i | 82 quesli due saperi eosi dislinti, anzi iumensameate divisi dal C. M., cgli i uopo che si dimostrino entrambi, e non un solo? Ma il N. A. dice, che il primo sapere, posto che vi sia,'noD nuoce alia reality e certezza del secondo. IVoi ahhiamo vednto come egli Iahhia provato, cioi ahbiamo yeduto che non Tha provato. Ma se non possiamo dire che I'abbia provato, possiamo perd dire che a lui incumhe il debito di provarlo, perchi riesca valida la dimostrazione dello scibile. Or o lo provi , o non lo provi^ egli da ugualmente in mano a' suoi avversarj unarma tagliente contro di Ini. Se lo prova, egli dee necessariamente venire a parlare del sapere delluomo qual fu (Ino daprimi suoi atti^ e in tal caso gli faranno sovvenire quelle sue promesse di astenersi dal par* lare dclle primitive e originarie notizie della mente, gli ram* menteranno, che egli stesso ha dichiarato, che tutta la sna dimostrazione i volta a quello scibile solo che scaturisce dal- Iatto conoscitivo, com egli da noi presentemente si possiede, e che la prima maniera di scibile i stata da lui abbandonata. Se non lo prova, la sua dimostrazione manca di base^ pe* rocch^ egli non ha provato che le facolt^ intellettive che pro* ducono lo scibile senza Iatto conoscitivo ahbiano una vera e non fallace autoriti di affermare o negare alcuna cosa, e che lo scibile da loro prodotto sia base certa e ferma di quello che dee poscia esser formato dal giudizio conoscitivo. CAPITOLO XLIV. Ma io ho ancora troppe cose da sottoporre allaltroi rifles* sione, n6 so da qual meglio incominciare. Dice il Mamiani, che la dottrina proposta nel Nuovo Saggio sidPorigine delle Idee non pu6 turbare la sua dimostrazione dello scibile; perocchd quandanco sia vero che Iidea dellessere preceda ogni cognizione faltizia, tuttavia quest idea  non ha  nulla che fare col sussistere delle cose, il quale i conosciuto  bensl per mezzo di quella, ma non affermato e posto da  quella  (i); e la dimostrazione data da lui, non i volta (I) P. II, c. XI, I. Digitized by Google 83 allinconlro, se non a dimostrare la rlspondenza del reale sus* sistente colle idee, nella quale rispondenza sta la realiti o sia veritk dello ecibile. In prima osserro, che se valesse questa ragione a disobbli- garci dal sottopporre Iidea delPessere alia pin attenta conside- rasione per vedere sVlla forse cinganni, questa medesima ra- gione varrebbe per poterci , anzi doverci astenere dal favellare di tntte le idee, senza eccezione alcana, I'esatne delle quali non potrebbe oggimai piu entrare in un trattato suirumana certezza. E in vero, si mette per certo, cbe Iidea dellessere non al- tera la verita dello scibile, perch^ con essa non si afierma o pone alcuna realiti, ma solo si conosce. Or che cosa fanno di pih tulte I'altre idee di qual si voglia natura elle sieno? qiial i il loro uflicio, se non quello di farci conoscere le cose sus- sistenti 7 Pongono elle forse le cose sussistenti 7 Quando le po- nessero, esse le creerebbero, le produrrebbero di si. In tal caso, lungi che tali idee fossero teslimonj accooci della veritii delle cose, sarebbero incessant! fingitrici a noi di sogni e dillusioni. Ma n pare Vaffermare le cose sussistenti, non che il porle, i znenomamente ufBcio delle idee. 11 N. A. confonde continua- mente I'idea col giudizio, due cose disparatissime^ il giudizio af- ferma il sussistente, ma Iidea non ia che ajutarci a percepirlo. L'idea non i che la concezione della cosa possibile^ la cosa poi concepita viene affermata sussistente dalloperazione del giudi- zio in occasione principalmente delle sensazioni prodotte in noi dallazione della cosa su di noi. O conriene adunque, nel ragionare che si fa intorno alia certezza, ommettere del tutto la disamina delle idee, che sono i primi mezzi della conoscenza^ o se di esse si tien discorso, forzi cominciare dalla disamina dellidea dellessere, idea-ma- dre, mezzo universalissimo alia formazione di ognaltra idea o concepimento. CAPITOLO XLV. / Ma egli i manifesto il modo, ondc conviene deliberare qiie- slo partito. Delle idee parlar bisogna senza alcun dtibbio, a Digitized by Google 84 chi vuol (llmostrare lo scibile, imperocche essendo quelle i mezzi del conoscere, egli  nopo diniostrarle mezzi sicuri, legittiaii, e non possibili a conteuere inganno (i). Ni solo si dee fare tatto ciu delPuniversalissima idea oude si coDOsce tutto^ ma ben anco delle meno uoiversali, quali SODO le generiche e le speci&che, onde si conosce ana parte delle cose. Ora il N. A. parmi, che anco qui venga oltremodo zoppi- cando. Perocch^ in snl primo muovere del suo ragionare, da una pienissima fedc alle idee generiche, e ad esse si affida come a sicura guida, senza aveme prima parlato, e mostratele esser guida fedele.  vaglia il vero, si consideri con quali parole egli proponga a ai stesso (Ino a principio il problems della dimostrazione dello scibile: egli dice cosi:  Provare le notizie umane i  rimuovere ogni dubbiezza e legittima dall'afTermazione cheincludono: eciib non in quanto  ai singoli oggetti di conosoenza, i quali sono infiniti  ;ma  in quanto alia forma loro coraune.  Imperocchi facciam e caso che la forma generale di ricordanza sia dimostrata certa  ed irrepngnabile, uliora la verita di tutte quanta le ricor-  danze divicne possibile, e la falsita di alcune i da recarsi  a cagioni fortuite ed estrinseche  (a). Ora che cosa i questa u forma comune  di cui si parla? (i) II C. M. riconosce in certi luoghi, che non vi ha maoiera dt certi- hcare il sapere umauo, se dod raettendo ad esame i mezzi di coooscere, che fiaalmeale souo i fuati> le origiui del sapere. lliassumeodo le sue dot* triac, egli stesso dice di averoe costruito ** le basi sopra la critica dei no* M stri mezzi canoscitivi * (P. II, c. XX, tv) mostrazione. Ora questo i ben supporre di troppo: egli h on farsi nessun caso dello scetticismo critico: e pure questo si pu6 dire I'unico sistema scettico, di che sia necessaria la confutazione ne' no* stri tempi. Tirisi la conseguenza circa al metodo seguito dall'autor no- stro nella sua dimostrazione dello scibile : ella i questa : La via contraria a quella presa da lui d Tunica da battersi: le prime che debbonsi dimostrare veraci sono le idee, essendo esse i mezzi di conoscere i sussistenti: quando e couverso egli le vien prima supponendo : fra le idee poi la prima che esiga dimostrazione 6 la piu elementare di tutte, Tidea delTessere, ed egli se ne lava le mani (i). (i) Non si pu6 mettere in dobbio, cbe il C. M. non riconosca le idee ancbe generali per mezzi di conoscerc. Anzi egli dice,   mero stragrande di siogoiari, ma unimmagine per cost esprimerci del- o I'esseoza siessa delle cose e una sorla di ricostrnzione mentale di quella  ( P. II, c. XIV, vi). Egli dice adunque di piii clie uoi non vogliamo. Digitized by Google 87 CAPITOLO XLVI. Ma sebbene in pi& Iiiogbi il N. A. dia alle idee nna pie* nissima fede, e quinci muova la dimostrazione dello scibile^ tuttavia in altri luoghi torna ad esse: e toglie a diinostrarne la realiUi, cioi la corrispondenza loro agli oggetti; percfai, di cegli,  il reale caduto sotto la facolU nostra conoscitrice, w prende nome di veritA  (i). Dimoslra dunqne le idee, in quanto, secondo Ini, inchiu- dono unaffermazione del reale (a)^ ma non in quanto ser vono di principi diretti della mente, cioA in quanto sono fon- damento alle classificazioni delle cose, ecc. Questa distinzione A I'unico spediente cbe mi si dia innanzi a conciliare in qual- che modo una tale contraddizione dellautor nostro, il quale comincia dal supporre le idee veraci, e poi a provarne la rea- litA loro lungamente favella. Se non cbe, di vero egli parmi non ben provveduto nella scelta del suo soggetto, qnando da una parte difende le idee rispetto ad un ufGcio cbe esse non faanno, e dall'altra lascia tenza difesa il loro uiBcio vero, proprio e naturale. LufGcio cbe le idee non banno, e loro attribuisce erroneamente il C. M., A quello di rappresentare e afTermare i sussistenti; e in provare il legittimo adempimento di questo supposto loro uflicio egli s'acuisce e si travaglia : Iufficio cbe banno A quello di dirigere lo spirito nostro nella percezione e nel ragiona* mento, del quale esse stabiliscono i princip)^ e di questo egli non parla, ma incomincia a dirittura dal snpporlo. CAPITOLO XLVIL In cbe modo poi il N. A. difende IufScio cbe le idee non banno, e cbe egli cbiama la loro realitA? Non mai altramente, cbe dedncendo questa realitA pretesa delle idee, dalla questione tanlo bestemmiata della loro origine. NA solo fa ci6; ma egli insegna cbe non si pu6 fare al- tramente. Dopo essersi proposlo la questione della realitA delle (O.P. II, c. U. (2) In. Digitized by Google 83 idee in questa maniera  In cbe gnisa mai piiossi aflTerniare  delToggelto quel medesimo die della sua idea  (i)? ri- sponde u Noi affermiamo ed asseveriamo die questo si oltiene u o coi fatli del senso intimo, o non altrimenti . E perch^ ciii? sattenda bene alia ragione che ce ne da:  imperocch^ u in quelti soli & il principio della cogni/.ione  (a); il che e quanto dire, perch^ in quelli solo  I'origine delle idee. Ma poich^ il Mamiani ha si sovente protestato di volere al lutto recidere dal suo ragionamento la questione arcana delle origin! delle idee, il mio lettore, cbe non avesse sottocchio il libro di lui , potrebbe lenersi alquanto sostenuto a credere alle mie parole, sebbene docnmentate sempre fin qui di fe* deli estratti deUopera che esaminiamo. Peru ad acquistarmi piena fede, non mi sara inutile ribadire il chiodo di do che osservo, con una sopraggiunta dallre citazioni , che mostrino quanto poco abbia il Mamiani altcnuta la sua solenne pro* messa di separare interamcntc le due question!. CAPITOLO XLVIir. In prima vedemmo aver cgli diviso questo sapere in certe dassi o generi, o come egli le chiama, u forme gencriche di verita  (3)^ e aver poi tolta ciascuna in mano, e datole prova. Ora secondo qual principio, o norma, divise egli queste sue varie forme del sapere? Principalmente secondo la loro varia origine. Non a me; ma si creda alle parole di lui, che rias- snme questa sua classiGcazioue delle varie forme di sapere cosi dicendo: u Guardando poi alia cognizione in s6 stessa e alle sue forme u e ALLE SUE ORIGIN!, ella DEE uRoeEDERE o dalla intoizione im-  mediata, ovvero dalla mediata: per giudicio semplice o per  giudizio dedotto; dal proprio esperimento ovvero dal detto  altrui n (4). (i) DelToggetto non si puu mni atTerniarc quel inedcsirno, die della sua idea; percliA Ioggetto di uua idea, elidea sono cose disparalissimc e inco- coiniiiiicaliili. Qiiaudu adunqiie sa(Termasse delloggetlo quel medesimo che drllidca, uou saremmo noi gia pervenuli alia verila, ma si heue precipilali nell errorc. (o) P. II, c. II, II. (5) P. II, e. XVII, 1. (4) P. Il, c. XVII, i. Digitized by Google E secomlo qiicstordine si lolgono a provare ncl libro del Mamiani le varie class! dclle cogni/.ioni noslre. La questione adunqne dellorigine delle idee tanto A lungi che sia eliminata nellopera dd Rinnovcuncnlo della Jilosofia italiana, cbe anz!, seguitando i pass! de buoni autori della nazione nostra (i), essa dA il fondamento a tnlta la trattazione. Di pift: pel C. M. lo scibile non A vero, sc non in grazia della sua origine, cioA in grazia e in virtu di quella origine che cgli ad csso altribuisce. Questa origine A I'energia della mente, la quale crea lo scibile, e in quanto lo crea, esso sci- bile A vero. in quanto poi non lo crea, egli riman qui limitato nella sua veritA. u Quello   cbe limita  la creazione del vero dalla parte u dellintelletto si A Iesterna impulsione ( Iimpressione de- u gli oggelti corporei ), e a tal conGiie appunto vien meno la a nostra certezza, stantecbA se noi produciamo sillogizzando 1 le prove deiresterno, giA non dicbiariamo in nulla con ci6 u nA la sua natura nA quella dcgli atti suoi^ e perA dell'nno u e dell'altro siamo cost incerti come ignoranti. All'oppoflo, u si (inga Ioggetto delPIntuizioue essere nelle nostre idee sol- u tanto e nei gruppi e mile separazioni diverse cbe vi an- u diamo determinando. Cerlo A allora cbe 1' intelligenza con u tutte le forze della propria spontaneitA rimane creatrice sola u del vero^ siccome incontra agli Algebristi e ai Geometri, i H quali variando, compiendo e ordinando  proprii concetti ge*  nerano i loro teoremi, la cui certezza distendesi tanto, quanto u la materia pensata, cIoA a dire cbe in tali invenzioni la cer-  tezza e la scienza vanno d'un solo passo  (a). La certezza adunque A tanta, quanta A la veritA creata dalla mente ^ dalla qnal creazione della mente nasce ad un corpo gemella la scienza e la verita. Di cbe concbiude  Non fa meraviglia pertanto u se tutto Iumano senno procaccia di giungere alia condi-  zione della geomctria e dellalgebra , cioA aspira a mutarsi  in bella e grande creazione di nostra mente, e questo A il (i) II C. M, cooft'ssa loslo dopo, che nel diviilere il sapere in classi sreondo I'orlgine sua, si'guilu un passo del platonico Francesco Palrixio , PelU qiieflioni jteripateliche T. I , Lil). xiii. (u) P. II, c. XVII, 111. BosMifli, Il Rinnoyamcnlo. la 9 . . I  fine superiore di lulto lo scibile  (i). Loda pertanto il ' Vico noitlro, di cui pensa innovare la dottrina, il cui intenlo dice essere stato  di proferire a un tempo medesimo il cri-  terio della certezza e il criterio della scienza  (a). | Noi faremo nltrove i commenti che merilano questi concetti; e qui noteremo solo, die il N. A. attigne cosi ogni certezza dello acibile immediatamente allorigino di esso; e per6, che la que* atione dell'origine a niun filosofo pu6 esser pih cara e piii ae- ceasaria, che al N. A., il quale a solo suo. danno altre volte la diapregia. E veramente se incontrasse esser vero un altro sistenaa dell'origine delle idee, diverso da quelio sul quale il Mamiani ragiona; se vero fosse, che la mente non crea la verlta, come egli afferma , ma questa altronde derivandosi, alia mente fosse aolamente comamcata e quasi consegnata in deposito; in tal caso i ragionamenti tutti dell' A. N. s'anderebbero , come suol dirsi, a spasso. Dunque egli i indispensabile a lui, che le idee tutte sieno faltizie , ed opere, o com' egli pih elHcacemente dice, creature della mente: e che ogn'altra filosolia iutorno al> Iarigiue delle idee si contenti di ammutolire. CAPITOLO XLIX. Quelio che sdibiamo detto della prova del sapere in uni* versale , cioi che il C. Mamiani la deduce dalla formazione di esso (3); pu6 ngualmente dirsi di altre minor! parti dello sci* bile, di cui egli toglie a dar prova specialc. Tre esempj ci po* tranno bastare. In prima veggasi come egli prova I'idea di sostanza. Ne parla in due luoghi, cio6 al Gap. V e VII della P. II del suo libro, e in tutti e due i luoghi non fa che dedurla, non fa che mostrare come I'iutelletto debba col suo pensiero legilti* xnamente venire ad essa: il che non i altro che rintracciare quale ne sia I'origine legittima. Veggasi in secondo luogo come va provando I'idea di causa i (I) P. II. c. XVII, III. (a) Ivi. (3)  Nol  vogliaino ogni general forma di conosceiua eslrorre dal*  Ilutuizione immediala m (P. II. c. YU. vij. Digitized by Gmyle 9 nel Cap. XIII. Egli comincia Jairattriboire  la incerlezza u e la discrepanza delle dotlrine intorno la causality  (') ^* var) pareri de' filosoS intorno la sua origmCf alcuni volendola sperimentale, altri formata per una deduzione di gindizj. A1 fine dunque di tor via tante diflerenze, e stabilize una certa dottrina sulla sostanza, egli entra a mostrame la genuina for* mazione*, il cbe fa originandola mediante certi giudizj di pa* ragone, cbe rimangono poscia inosservati: u In qaesto nostro  principio, ogni cosa ha la sua cagione, il predicato non  sembra entrare nella concezione del subbielto; e ci6 perchi  il predicato  'risulta da gitidicii di paragone, e per6 m t ORiGins si cojigiunse al subbielto sinteticamente  (a). Indi la prova della sua realitii. Un terzo esecnpio pu6 essere Vassoluto , il qual pure egli vien provando per una deduzione della sua idea^ e cosi fa it N. A. di tutti i veri da lui certificati: ma i documenti 6n qui allegati giii sembrano essere anche troppi al bisogno. CAPITOLO L. Cfaiaro i dunque, cbe il G. M. non prescinde dalla qnc* stione intorno alPorigine delle idee*, ma prova tutto il sapere umano mediante I'origine di esso. Come dice egli dunque francamente  Noi non ci mischie*  remo punto alia controversia sull'esistenza delle nozioni in-  genite e dei giudicii a priori sintetici  (3)? Non veggo che rispondere in favor suo,- se non, essersi alia sua mente rappresenlati due sistemi intorno all'origine delle idee^ I'uno cbe ammette qualche prima luce di verity risplen* der nellanima per natura, I'altro cbe dii all'anima il potere ( sebbene cieca a principio ) di produrre a si stessa , e for* marsi tutti i veri colle sensazioni, e altre sue operazioni. Ora il C. M. prescinde dal primo di questi due sistemi, rilegan* dolo nel regno delle eongbielture; ma non prescinde mica dal secondo, anzi questo secondo il fa perno a dovervi inganghe* rare il suo sistema, che tutto si rivolge su di qnello^ e questo (1) P. Il, c. XIII, I. (a) Ivi. (3) P. II, c. Ill, VI. Digitized by Google 9 egli par die voglia dichiarare, ove aiTerura di non voler me> scolarsi nella conlroversia delle origini. Ma onde repula egli necessario di rigettare il primo di que- st! due sistemi? u La ricerca intorno le origini dell'intelli-  genza i di natura congelturale e nun posiliva  (i): per& ove su queste origini fosse basata la prova della conoscenu, ella pure non rluscendo cbe conghietturale, non sarebbe prova,^ II N. A. vago di maggiormente giustiCcarsi sopra cio, e ren- dere questo suo argomenlo via piu forte, dice ancor piu, so- stenendo cbe quelle origini sono al tutto inescogitabili; sebbene * veramente Iessere ad un tempo congbietturali e inescogitabili non s'accordi iusieme,come osservammo: u Non ^nostro intento, u cost egli, ni nostro bisogno di svolgere e riandare in nulla a i procedimenti natural! del senno umano nella formazione K originaria di quelle verila cbe compongono il senso comune. u Arcane e inescogitabili sono le genesi tulte della natura  (2). Sarebbe stato dunque un cattivo metodo il nostro, vuole egli dire, se noi avessimo dimostrato lo scibile parlendo da delle origini cbe non si possono conoscere. A maraviglia. Ma per la medesima ragione, ni anco quelle origini sulle qnali il C. M. fabbrica il suo sistema possono essere fermissima base al medesimo, se non sia provata pri- mieramente la loro cerlissima verila.  dilBcilmente elle po- tranno aversi per eerie, quando non sieno dimostrate false e impossibili le altre origini delle umane cognizioni^ perocebi la verity non h mai doppia^ e se la scienza in noi ba unorigine, non polrebbe essa aveme un'altra. E giacebi il C. M. non re- puta cosa assurda, cbe I'umano saperesi formi coll'uso di qual- cbe nozione ingenita, ma solo dice non potersi ci6 ben sapere^ supponiamo cbe la cosa sia. In tal caso non sarebbe piu vera la deduzipne delle idee abbracciala dal Mamiani, ni solido riu* scirebbe quanto vi edifica sopra. Non dee adunque bastare al Mamiani  di venir esibendo alcuni probabili, da cui sia u rimossa qualunqueassolula impossibililan (3)^peroccb^ quello cbe si fabbrica sul probabile, non e piii cbe probabile, e quello Ae si fabbrica sul possibile non i piii cbe possibile : or il prin- 0)P. I,c. XVI, e.oafor. (a) P. II, e. IX, iii. (3) P. II, c. XI, iv. Diyii.'::ri by Google J)3 cipio della cerlezza non s' erige nk sul probabile, ni sul pos> sibile. vale il dire, chc Iallra strada k congetlurale, c imprati- cabile. Questo, se vero fosse, proverebbe, cbe I'uonio non pu6 giungere alia certezza. II volere evitare una ricerca ueressaria alio scopo del ragionamento cbe si fa, perch^ ella t arcana, non appartiene al buon melodo: egli i un voler marciare a dlspetto e a ritroso della ualura: un voler violentare la verita: an fab- bricarsi innanzi un idolo del vero, anzichi trovare lo slesso vero: uno acegliere le opinion! secondo -Iutile cbe se ne spera, non secondo il loro valore intrinseco, il quale 6 iodipendente da noi, e da' comodi nostri: perocebi il valore delle opinion! 6 il grado di loro verity j e questa non i lecito immaginarccia, ma dobbiamo umilmente impararla leggendola tale quale sta scrilta nel gran libro della natura (i). (i) II C. M, dice . La terza poi :  ogni prova circa la realita dello scibile, percbi sia  rationale e produca scienza, non po6 appoggiarsi alia con-  vinzione istintiva dei giudicii a priori sintetici n (t). Ognnno vede, cbe messo in un dialoghetto il modo di ra- gionare del N. Autore, riuscirebbe pure alquanto cnrioso e pia- cevole. C. M. Voglio dimostrarvi la veritii dello scibile. J). In cbe modo il farete voi? C. M. In prima conviene cbe mi spacci di quella molesta qiiestione delle origini dello scibile stesso; io la dicbiaro con* gbietturale, e se mi permettete, anco di piii, al tutto inesco- gitabile. D. A vostro bel piacere: ma se non si pu6 saper nulla del modo onde le cognizioni sieno apparite nelle menti nostre, rimarra incerto ugualmente cb'elle ci sieno piovute di cielo colla rngiada , o che ei siano spunlate in sul cervello come i funghi 'sii per gli greppi. C. M. No, no. Io non posso ammettere i giudizj a priori: queste origini intendo sbandeggiarle interamente dalla mia dottrina. D.  perche.non li ammeltete voi? per che lor colpa li sbandeggiate? C. M. u Percbi se i giudicii a priori sintetici esistono, essi  non convincono la ragione, ma la violentano  . Dunque non ci sarebbe piu la verita dello scibile. ^ (l) P. 11, C. lit, VI. Digitized by Google D. Beoe sta^ ma c'i biaogno che quesla veriUi dello tcibile ci sia, anche se ella non c'i? prima dimoslrate che ci sia, e . poi ditemi qnello che volele della sua utiliU e deaaoi/pregi. C. M. Non la dimostro io? D. Scusatemi, se mi vi oppongo. Egli pare a me, cke>.voi non sentiate il hisogno di dimostrare la verita dello acihile: pcroccbi voi I'ammettele senza dimostrazione alcuna. E non cominciate voi dallesciudere i gindtzj a priori per Tunica ra> gione, che quelli torrehber via la verita dello scihile? Dunque questa verita prima di tutto Iammettete, e con questo prirao dalo chella ci sia, e che non si possa levare dal mondo, voi andate avanti, cacciando in prima i giudizj a priori, o piii to* sto condaonandoli come rei di stato alia pena capitate. Maiii- feslamente adunque voi non dubitale di ammetter da prima aiccome bella e dimostrata la veriU dello scihile, se vi spac* date cost in favor suo d'ogni cosa che vi da molestia, od im> pedimento al vostro cammino. A che dunque dimostrare quello che avete posto per induhitato nel primo cominciamento del vostro discorso? CAPITOLO Lir. il Mamiani pud replicare, che quelli che si credono giu- dizj a priori forse non sono altro che failure noslre istinlive rimasteci dall'infanzia, defatti della quale elk non vuol par- lare: perocchd i.Noi provammo essere assurdo Iassegnare al sapereumano due origin! esseniialmente diverse (i). a.* Coll aver egli delto, che i giudizj a priori, se veramenle esistessero, gli sconcerterebbero la sua dimostrazione delsapere, egli s d messo da sh in obbligazione di mostrare, che quelli non sono, nd posson essere^ abhaltendoli iu ginsla e leale tenzone, non pugnalandoli , quasi direi, nelle tenebre. 3. Dove poi gli accordassimo esser possibile, che nell in- fanzia il sapere umano proceda per operazioni essenzialmciile diverse da quelle cbe 1 uomo usa in allra eta ^ lultavia non (I) Cap. XXXI. 9^  gli reslcrebbe al suo inlento qiiesta mera ipotesi, queslo Jbrse ; ma gli converrebbe provare, volendo trar profiUo dalla nostra concessione, che la maniera onde Iadalto si forma lo scibile, 6 diversa sostaniialinente da quella onde lo si forma il fan- cialletto. E qiiesto cgli nol pu6 provare: perocchi egli vnole, che le origini del sapere nel bambino sieno inescogitabili, o tutt'al pill congetturali : dunque i impossibile di saper mai, o di provare con certezza, che sieno essenzialmente diverse dalle ori- gini del sapere nell' adulto. Possono esser diverse, die' egli; dunque possono essere le medcsime, dico io. Ed ecco come la sua maniera stessa di parlare non eccede il conghietturale, o piii tosto il possibile: u Qui ripeliamo,  che le analisi e i ragionamenti prodotti da noi a prova u d una porzione dello scibile umano possono diflerenziare a assaissimo da quelle analisi e da quei sillogismi, onde si i  tratti la prinia volta a credere il roondo esteriore ed il u mondo passato; conciossiachi non ^ nostro intento, ni no- u slro bisogno di svolgere c riandare in nulla i procedimenti u natural! del senno umano nella furmazione originaria di  quelle verila, che compongono il senso comune  (i). Cid chc parmi singolare in questo passo si k il trovare, chegli da al fanciullo delle analisi e de sillogismi co quali sia venuto al conoscimento del mondo esteriore, e tuttavia mette in dubbio cbe le fiinzioni della sua mente sieno della specie medesima a quelle della nostra. Or quelle analisi, e sillogismi, avranno si o no i costitutivi delle analisi e de'sil- logismi. Se no, non erano analisi, nd sillogismi^ se si non dif- ferivano essenzialmente da quelli delluomo adulto. I costitu- tivi essenziali non debbono esser sempre i medesimi? I sillo- gismi del bambino, se sono sillogismi, non doveano essere della stessa forma e nalura di quei d' Aristotele ? Tutto al pih pos- sono ditferire nella cagione cbe li muove, nascendo al bam- bino istintivi i sillogismi o i giudizj, quando quelli dell'adulto o pin tosto alcuni di quelli dell'adulto son liberi o sia mossi ad nn decreto dell arbilrio : ma ci6 per nulla altera o muta la loro nalura, e la loro forma csscnziale. (l) P. l\, C. I\, III. Digitized by Google CAPITOLO LlII. 97 PerciA quango dice il C. M.:  a noi non pare veruimile u ch'ella (la nature) ci meni alia conowenia dei primi veri u per una serie fatale (i) di giudicii istintivi, nA taropoco  si osa da noi negarlo risolutamente', questo lolo ne pare u certo, che ella ha volnto fornire alia mente adulta e con  templatrice una sicura facoltA di riconoicere e giudicare i u fondamenti delle comuni credence  (a)^ queste parole non possono avere aicnn altro significato se non questo: quantonqne i primi giudizj fossero istintivi, e non mossi dalla nostra lU bera volonia, come sono i presently tuttavia debbono' avere avuto la stessa forma e natura de' presently e perdu collesame de present!, col trovare la presente forma del giudizio e del raziocinio certa e infallibile per sA stessa, viene ad esser prO- vata pienamente anche la veritii de' giudizj e de' sillogismi in fantili^ perocchA quest! non differiscono, nA possono differire nelle essenziali loro note da quelli che di presente usiamo. Quanto poi all'essere istintivi i primi giudiaj de bambini, ansichA ci6 debba parere inverisimile, come dice il N. A., anzi non possono in modo aleuno esser altro cbe isUntivi^ giaccbi non acquista I uomo la libertA dell arbitrio , cbe buon tempo appresso queprimi giudizj, mercA I'ajnto del faveilare, il che crediamo aver noi altrove pienamente provato (3). (i) Per iatuire i primi priecipj, non fa bisogno di  una aerie di giu-  ditj  cip], senza i quali oA pur parlerebbe. Ci6 A cooseguente altresi al nostro sistema , che riconosce ionaturata coll uomo quellidea che A ella stessa i primi priucipj: peroccbA i primi principj nun sono cbe la grande e miste* riosa idea dellescere, considersta nelle variesue applicazioni, come si mostra chiaramenle oel N. &>ggio sal f Origin* delle Idee , Sex. V, c. w. Egli non A vero duoque, che Iuomo ahbia bisogno duna serie di giudixj per intuire i primi principj: ma A il JiXosoJo cbe n'ha bisogno per riOettervi sopra> e colla riflessiooe trovarli, e, se mi A lecito di usare questo vocabolo, /br> mularii. (a) P. II, c. IX, iii. (3) IV. Saggio suit Origiae deUe Idee, Sez. V, c. IV, art. ly. Jt Jlinnoyiunaito, i3 9 Ma a cui piacesse andare a caccia delle conlraddiziuni dt-I N. A., il che uoi non facciaino se non quel tanlo che ci bi- sogna alia trattazione nostra, potra ritornare alia faccia del suo libro (i), dove il trovera impegoatosi a provare ap- punto, che  il Irapasso della nostra attenzione da un oggetto u ad an altro, e da un tutto a una parte, owero dalle parti  al tutto correspettivo, possa accadere per solo concatenamento u d'impulsi istintivi, senza interposizione alcana didee astratte u ed universal!  ^ e questo egli illumina appanto collesempio del fancinlletto che sugge il latte della nntrice. CAPITOLO LIV. Ma gi4 osservammo, che se i giudizj e i sillogismi primi dell'uoDio, sebbene mossi da virtu d'istinto, anziebi da un fine predeterniinato dalla volontit, non fosscro della forma e natura medesima de present!^ in nessuna maniera il Mamiani avrebbe dato dimostrazlone di quel sapere primo delluomo, che i il germe e la radice, se non anco la zavorra, per cosl esprimermi , del saper nostro presente. Perocchd ' o le forme del sapere priniitivo si contengono nelle forme provate dal C. M.^ o alia sua dimostrazione sfugge qualche forma di sa> pere, quale e quella del sapere primitivo ed eleraentare. E pure egli non vuole che gli sfugga bricciolo del saper nostro, che non sia sommesso alia sua dimostrazione, dicendo egli:  Perchi Iatto conoscitivo, ossia I'istrumento quotidiano X ed universale di tutto il sapere veste un modo costante e X proprio, di cui ci convienc csplorare la realiti e Iuso, ac* X cade di dovere illustrare il gludicio conoscitivo  (a). Qui I'atto conoscitivo & chiamato x I'istrumento quotidiano X ed universale di tutto il sapere  ; il che non pu6 voler dir altro, se non che non si di sapere senza I'atto conosci- tivo, e che peri) anche il sapere infantile dee farsi coll'atto conoscitivo. Ne puo dirsi, che quest'atto conoscitivo varii nei suoi costitutivi essenziali quando si usa dal bambino^ peroc- chi non senza ragione nota il Nostro Autore, ch'egli veste un (1) P. n, c. IV. (3) P. II, c. XX, II. Digitized by Google 99 tnodo costante e proprio il quale non po6 Variate, percli^ esser variabile ed csser costante sono cose contradditorie. Se egli dunque trascura di parlare dello scibilc primitivo, e parla solo del presenter giova credere che il Mamiani ritenga quello esser contenuto in questo, e lo scibile umano non va* riarc essenzialmente secondo il variare I'uomo d'eta^ e per6 av> visi, che dimostrato lo scibile I nella> condisione in che ora Tabbiam presente allanimo, sia'anco dimostrato in quella condizione in che I'avremo nellultima nostra veccbiezza , o in che I'avemmo nella nostra prima infansia; perocchi altramente converrebbe dimandare per quale eta della vita umana abbia scritto il N. A. la sua dimostrazione- dello scibile; cosh che tornerebbe un rero imbroglio a deGnire. Per me ad ogni modo sto con Cartesio, il qual dicea, che una proposizione vera, sa- rebbe vera ugualraente non che veduta da bambini o da vec- chi, ma quaudo anche noi la trovassimo o la formassimo so> CAPITOLO LV. II contrario sarebbe cost strano, come a dubilare se Ioo chio del bambino non vegga alio stesso modo delPoccbio del'* I'adulto, o se I'orecchio udendo i snoni, Iodorato Gutando i sapori, facciano nella prima eta unoperazione totalmente di* versa da quella che fanno in noi presentementc. Fondare simi* glianti dobitazioni, come fa il G. M., sul non aver noi remU niscenza di ci6 che ci i avvenuto nellinfanzia, ^ cosa, a mio awiso, assai frivola: perocche anco senza ricordarcene, pos* siamo per6 sapere, che le potenze essenziali airuomo sono sempre le stesse, ed hanno nn loro operare proprio e immuta* bile: percio possiamo pure sapere, che quello che ci ha di es* senzialc nclle operazioni di esse potenze, non potea nel primo tempo esser diverse da quello che ora trovianio essere, e da quello che sperimentiamo tuttodi in noi: percio assai bene e con tutta sicurezza noi argomentiamo a quello che fu jeri, o I'auno scorso, o venti anni prima, sebbene or noi I'abbiamo dimenticalo^ perocclii la mano ha latto sempre da mano, il piedu da piede, e I'intellcKo da intelletto. too  qui il G. M. (teMO ci ragion. u Errano, dicagli,  i filosoH,  qaali taTviaano per ua  tiene, cite ri pu6 a rilevare la forma certa ed esaenziale del* u rintelletto  . Or queata, se i cerU ed eisenaiale, non man* clierii mai, dove vi abbia intelletto^ e per6 anche ne primi tnomenli delluomo ella sar^ la medesima (i). Non ci sarebbe qni altro scappatojo, che il toccato, cioi neirinfante non es- serci intellettn^ e qnesta potenaa, che i il fondamento della specie nmana, venir formandosi di poi nelluomo; il che sa> rebbe quanto dire, I'uomo non nascer nomo, ma divenirlo. Ma non oso io, ancora lo ripeto, altribnire un tanto scerpellone, come credo dover esser qnesto presso ogni savio, al G. M. Riman dnnqne, che anche le prime cognizioni, i primi gin> dizj, i primi sillogismi che noi facciamo, sieno della steasa na* tura de' presenti: e che perA collo studio de'presenti nostri pensieri, e della loro forma immntabile, si possa pervenlre a conoscere la forma essenziale de primi. E anche questo dice espressamente il G. M. Dopo aver egli afiermato, che Iorigine e la generazione de nostri pensieri e possa dire cbe ci6 solo sembra, quaodo non veggo modo a creder possi* bile cbe Iiolelletlo si generi in noi prima della nostra vita. Di poi non suona queslo passo in modo da far credere, cbe Iinlellello slesso non ci sia gib dalo dalla nalura, ma generatosi in noi dopo il cominciameolo di nostra vita? (i) Alla P. II, c. IV, V, siniroduce il C. M. a parlare dell atio cono- scilivo : e percbi gli bisogna far cio? percbi  1* inluisione cbe presla ma> M leria alio scibile umano ha sempre la forma generale di coooscenza Dunque , dico io , da per lutio ove sarb inluisione , quesla avrb sempre forma di conoscensa , e V inlerverrb sempre Iatio conoseiliTO. Dunque b uoa manifesta iocnerenxa del nostro aulore, quells di retiringere, dopo un tale esordio, il suo ragionameoto sopra Ialto di cnnoscere con quests clau* sola ; oparlando dello slalo preseote del nostro intelletto m. Egli dosea par- lare di cio cbe i essenziale allallo di conoscere, e pero coslaiile in esso, io qoalsivoglia stato deH'inlelletlo. Altrimenti il suo ragionare non coocbiude cosa alcuna di fermo. Digitized by Google 103  per iegge deir esscr suo congettarale  (i); soggiunge pef6 uoa op|)Osta sentenza, ch'egli chiama an aforismo, la quale dice cosi: X La storia deirinlelletto nella sua porzione congetturale u dee sforzarsi per ciascuna materia di convertire in tesi Ie- u nunrialo di questo problema  Trovare un legame si fatto u tra il presenle stato dell intelletto e il suo primitivo igaoto, u clie, discoperto Inn termlne della relazione, Ialtro discuo- X pra medesimo necessariaraente n .  spiega questo suo aforismo nel modo seguente: La dove non giunge I'osserva- u zione, giungono i principj logici, i quali per la natura loro u uuiversalissima abbracciaou il noto e I'ignoto insieme. Gon X questi, e non altrimenti, potra il filosofo introdurre alcua X grado positivo di scienza nella storia congetturale del pen- X siero " {3). Dalle quali cose apparisce, tutlo il contesto del ragionamento del C. M. potersi esporre dialogizzando a questo modo: C. M. lo voglio trattare la questione della certezza dello scibile, senza toccar punto quella delle origin! delle idee. D. Perehfc? C. AI. Perchi la questione dell'origine delle idee i x per Icggc ddl'essere suo congetturale n . D. Oode polete dir ci6? C. M, La ragione i qnesta, che x la nostra rcminiscenza X non pu P. I, c, XVI, a.* for.. ! v io4 u fenomenica dell inlelletto, che oiuna idea e niun principio ri- u mane saperiore a queUi, e che ninn senM>, niun giudicio,  ninna eaperienza i bastevolea generarli  (i); il che ^ quanto dire, convien mostrarc che tutte le altro cognizioni hanoo origine da quelle prime: ma quelle prime non hanno origine da altre cognizioni ad eue precedenti. Si fa dunque di qui ma- nifesto, che la quettione dellorigine delle idee e delle cognizioni  qnella sola che rende possibile a trattarsi Ialtra della cer- tezza dello scibile. Ciascuno gih savvede, che Iargomento or da me recato a provarlo, non h solo mio, ma di un autore a cni il C. M. non pii& negar piena credenza; perciocchi esso d tolto dal libro del Rinnovam-nto della filosofia antica italiana, P. I, C. XVI, a.* afor.* Adunque, secondo I'antore di quest opera, I." Le cognizioni umane discendono le une dalle altre come conseguenze da principle ma re nha per6 alcona, cui u niun  senso, niun giudicio, niuna esperienza h bastevole a ge-  nerare . a. A dimostrare quest ultima, basteri far conoscere che clla non ha origine in niunaltra cognisione antecedente; men- tre a dimostrare quelle prime, converra far conoscere la loro derivazione da quella prima, a cui come a veritii indimostra- bile ed evidente quelle si debbono rivocare e raggnagliare: perci6 le one e le altre solamente nel discorso della loro ori* gine trovano certa prova e ferma diuiostrazione. () Ivi.  Se Ti soDo de' principj non geoerati, ni possibili a geoerarsi da niun senso, da niun giudizio, da niuna sperienza, oode saranno questiT Non sari la nalura stessa quella ebe ce li aari dali seuza topera uoMra? Cosl il uoslro autore, quandu gli bisogua, non si fa coacienza dinlrodurra de priucipi iunali, cbe allrove ezclude; e ne introduce per avventura p'U cbe iioi lion gli diinaudiaroo; perocchi iioi non ainmeltiaino principj iniiat>> ma solo un scmplice priucipio de principj , come i nolo. Digitized by Google LIBRO SECONDO DELL ORIGINE DELLE COGNIZIONI UMANE.  . . I r; f  "1 -'m! : '! ih H Ci bisogn'a provare con la itorla feaonieDica  deHintelletlo, cbe niuoa idea e aiun prin- M cipio rimane auperiore a quelli ( i primi  principj), e cbe moH aiiiao, kick cicoicio, V NiDRA LarEaiEKza a aasriyoLz a ciMaaaLiii. ^ MjmijIIU. P. I, c. XVI, 2. afor. ) ciso, di evidente. II che per vero i un getto infinito di tanti pronti ingegni, di cui T Italia i fecondissima madre^ i qnali, dove tarebbero idonei di giungere ad un saper solido ed utile a'buoni progreMi delle scienze, utile all umanitii^ preferiscono in quella vece, male iilituiti, e imbaldanziti dal vigore cbe pur sentono nella immaginazione e nell intelletto, di avveo- tarsi a cogliere, anzi che frutti, le prime frasche che rimirano verdeggiare, compiacendosi tosto in medesimi quasi avesser gia un certo scggio tra piu grandi uomini , per solo aver messi, vogliam dire, alcuni articoli in qualcfae giomale, di- speusatevi delle palme, versatevi delle idee immature, vaghe, false, e de seutimenti giovanili, talor generosi, ma tali, di coi essi stessi non hanno n^ calcolato il valor reale, ai quello, pel quale si possono spendere. II qual difetto gravissimo procede finalmente da una cotal negligenza e mollezza intelletluale, per la quale chi scrive dor* roicchia, e non vigila sull esattezza e snila precisione logics di ci6 che dice^ ma senza curarsi gran fatto nd che le parole sien proprie, ni che i concetti che con quelle esprime siea chiari , nclti e costanti , n^ che i ragionamenti sieno filati s coDsegoenti^ saccontenta di metter fuori quanto per avven- tura gli viene in bocca, purchi sia cosa che mostri e prometta assai, che abbracci in qualche modo 1 universale, sia gigan* tesca nel concetto o nella frase, e talora mostruosa. Che $e a costui fosse fatta, e facesse a si stesso una cotal obbligazione morale di pensare e di scrivere logicamente, nou iscriverebbe egli pill quello che non sa, e ogni cosa direbbe con aggiusta* tezza almeno apparente, almeno intenziooale, e sarebbe una verita, o un prudente e assennalo lentalivo di trovare una ^ verita. Venuto in tal condizione , lo scrittore ha un fine, an fine nobile, snblime, una importante missioned ma nella con- dizion eontraria egli scrive, e non sa il perchi^ empie di grandi fogli, e di grandi volumi , ma non ha per6 detto a si stesso che si voglia col versamento di tanto inchiostro; i una pieti il vedere, che egli non iscrive che per iscrivere, e perchi gl> altri dicano che egli ha scritto. Digitized by Coogle 107 E per6 son io talora venuto in desiderio, che come si fanno de'giornali (mezzo tanto efBcace, dal quale non s' i cavato ancora tutto il bene che si potrebbe) che tassano gli errori di lingua^ cosl se ne facesser di quelli, i quali intendessero solo a casligare negli scrittori gli errori di logica: giornali che riuscirebbero forse aiquanto minuziosi, e stucchevoli al palato gnasto di molti, ma che varrebbero tullavia assai meglio di tanti altri, i quali taglian s\ largo, e promettono mart e monti^ conciossiachi per me io antepongo uoa minuzia sola di vero, a an monte immenso di falso, di vano, d'ambiguo, di alterato e di contraflatto. E spero io bene, che an tal giornale, se si scrivesse da qnalche valente e discreto uomo, vorrebbe raddirizzare le gambe torte a molti che scrivono', e sarebbe per avventnra una scnola di logica pubblica, solenne, nazionale. Or quali incrementi non potrebbero aspettarsi le scienze , che immenso profitto non dovrebbero averne gPinte* ressi delle famiglie e quelli della nazione, ore aggiustassimo anco solo on po meglio le nostre teste? 11 perchi i da con> fessare, arerci certe cotali minuzie, se cost si voglion chiamare, le quali arrecano dopo di s6 delle conseguenze tutf altro che minuziose. Volesse Iddio che gristitutori della nostra gioventu posse* dessero tanto di senno da poter insegnare a' loro alunni questo solo, di essere coerehti ne' loro ragionamenti ! Chi potrebhe dire quanti mali non s'eviterehbero pur da questo, che gli uomini s' allevassero in modo da dover sentire il bisogno di porre una ferma coerenza ne' proprj pensieri? chi prevedere i beni , che procederebbero da si minimo principio? L'apprendere a'gio* vanetti questo solo, varrebbe loro assai meglio d' infinite co* gnizioni positive che lor si dessero, le qnali a che pro si dannq a quelli, che non han I'arte d'usarle? Or venendo a noi, io debbo confessare, che in traendo a luce non poche incoerenze del G. M., ebbi in animo, oltre che di mostrare la falsita della sua dottrina, di dare altresl an co* tale esempio agl' italic! scrittori di quella cerla pigrizia e las* sezza di intelletto, che fa lo scrittore indulgente scco stesso, e peril vacillante ne passi suoi, contrario a si nelle sue alTer* mazioni ; il qual peccalo non i per avventura piii del Ma* 1 oS miani, che daltri molti^ anzi polrei agevolmente fare delle osservazioni somigllanti a quelle cbe feci esaminando il Jiin- novammlo della filosojia antica italiana, aopra altri ed altri libri , che fra di noi escono in pubblico alia giornata , e cbe sodono ben anco altamente lodare: e dico fra noi, non ro- lendo io affermare, che qoesto Tizio *ia minore presso le altre naztoni, che nella nostra*, toa cbe ci dee piii importare a noi altri italiani, che di correggere noi stessi? Badisi dunque a conoscere se le cose da me notSte sieno vere o false, se sieno di grande o di picciol momento nello loro conseguenze; e non si cerchi in esse quello cbe non ci puo essere, qnello che non ci ho voluto io medesimo porre, am- piczza e fervor di parole, calde immagini, e celere volo di nn pensiero spaziante per immensi campi , e non posaotesi mai dovecchessia. Io saru assai contento, e creder6 daver tutto conspgulto, se i pochi letlori miei diranno a s stessi, che quello che hanno letto non i fiorito cd ameno, ma i vero. L indole del presente libro tuttavia vorra essere un pomeno arida di quella del precedente. Questo si propone di entrare in una questione piii grande, di esaminare le dottrine del Maraiani intorno aU'origine delle idee: perocchi abbiam gia veduto, che sebbene il N. A. minacciasse di astenersi da qne- sla question capitale, tuttavia egli poi vi si mise dentro assai, tiratovi dalla^ neccessila dell argomento che trattar volera, la certezza del sapere umano, argomento che non patisce di an- dar diviso da quello dell'origine dello stesso sapere. Ed anzi d principalmente in ci6 che risguarda Iorlgine dell idee, che il C. M. piglia a confutare il Nuovo Saggio. Nel che non credo inutile Iosservare, come egli non abbia posto attenzione a tutto il trattalo intorno la certezza, che sta nella Sczione VI del N. Saggio medesimo, e che i 1 argomento proprio e definito del libro del Jitnnwamento ^ e come in quella vece abbia preferito discender meco a tcnzone in un argomento da lui detto arcano ed oscuro, nell argomento delle origin!, che egli pronuncii fino inescogitabili. Noi dobbiam dunque scguitare i suoi passi^ e peru esamiaeremo i suoi pensien sul- 1 origine, innanzi di teoer dieLro ft qtielli che versftno iatorno Ig certezza del sapere. Digitized by Ciu ogle CAPITOLO I. in^ OnnlNF. SSCONDO IL QUALE PROOCDE QUBSTO LIBRO. QDALI COSE II. C. MAMIANI Cl ACCORDI IHTORMO ALl' ORIGINE DFXLE IDEB. E nellesame a cui poniam mano , noi seguiUremo questor- dine: da prima cercherenio che cosa il N. A. atnmeUa per certo intomo all' origine delle idee, e in che a'accosti al modo del pensar nostro: di poi riferiremo che cosa egli riprbvi net Dostro sisteina, e in che da noi si scompagni. Or egli primierameote con espressissime parole ci concede, che  colui, il quale raccogliesse qualche concetto didentitA c senia possedere la idea del possibile e dell' impossibile, non u verrebbe certo a concepire la moltiplicazione infinita di  qnella medesimeaza  (). Queste parole da noi anche pin sopra allegate, sono di gravissima rilevanza. Imperocchi con esse il Mamiani ) viene, senza dubitazione alcana , a stabilire che i necessario che preceda Iidea del possibile alia fonnazione degli universali, e che qnesti in alcana maniera formar non si possano da uno spirito, il qnale non avesse gia prima una tale idea. E veramante il N. A., come vedemmo (a), riconosce ed arnmette fra i costitutivi esseuziali dell' idea universale la sna infiniUl, cio^ Iapplicarsi ella a tutti i possibili singolari, i quali sono sempre infiniti, ed i per questo appunto, secondo lui, che le idee meritano il titolo di universali, di maniera che senza questa infinita estensione, universali in niun modo elle non potrebbero nominarsi (3). . . .. I ~ SliLl. (i) P. II, c. X, VII. (a) Lib. I, c. XXVII. '' (3) ** Quelle idee dimostrano avere una comprensioae (estensione )sefixa > iiiescogilabili , e che  la notizia di quest! fatti essenziali  (cioe di ci(b che v' ha nellidea d' immulabile) u non pu6 emei>  gere da un' espericnza illimitata e perpetua,  e la cagione  prtnia ed eificiente di quell! resta sepolta all' occbio nostro  intellettuale  (i). Ma che? a no! pare d! averlo qn! p!u vicino chegli non creda. Imperocchi quando no! abbiam detto , Iidea dell'enle possiblle non esser di nostra formazione , e per6 dataci dalla madre natura; non abbiarao mica voluto splegare in che guisa e con quale artiGcIo essa natura ce Iabbia inserita^ ma piii tosto abbiamo solo considerate come identiche queste due pro* posizioni ; non essere 1' idea del possibile di nostra formazione, e; Iesserci quella data per natura. CAPITOLO 111. ALTHS CONSEGOeNZA : LA NOSTRA DOTTRINA NON Pu6 ESSERB DAL MAMIANl RIFIUTATA SENZA CONTRADDIRE A SB STESSO. Ma io voglio far rilevare ancor piii , di quanta importanza sia la concessione che mi fa il C. M. , convenendo raeco in questo, che non si possono in modo alcuno da noi formar le idee veramente universal! senza che prima noi possediamo Iidea del possibile : questa concessione contiene tutto intero il mio sistema. E di vero, chi medita quale sia la natura delle idee, trova che non v ha unidea sola, la quale non sia universale : cio6 non sestenda a tutti i possibili in lei rappresentati e determi- nati; io ho dimostrato questo vero nel Nuovo Gi6 che pu6 far parere il contrario, si k solo il non consU derarsi Iidea nella sua purita, ma mescolata con degli ele- ment! a lei eterogenei. Nella prima formazione delle nostre idee, principalmente di cose corporee, che sono quelle a cui diamo quasi unesclusiva attenzione, I idea i sempre applicata ad un essere reale: ella e, come dissi nel Nuovo Stiggio, una perce- (i) P. U, c. X, VI. Digitized by Coogle 1 i3 zionp, e non un' idea pura (i). Gunvieiie alteutamentc fissaro la diflerenza che separa la percezione dallidea. Quella i com- posta di pill operazioDi \ quando questa i sempiicissima. Si attcnda a quello che fa il mio spirito aliorchi purcepiscc in ragion desempio nn giglio. In me nascono due cose: io ricevo Delia mente la forma del giglio , e di piii io acquisto la per- suasione che sussiste un giglio reale corrispondente a quella forma da me ricevuta. Queste due cose , sebbene contempora- nee, sono diversissime di natura^ e la prima pu6 sussistere senza la seconda. E veramente, poniamo che trascorra buoii tempo dopo la vista da me avuta del giglio; io posso al tulto dimenlicarmi di quel giglio particolare da me veduto, posso fin anco perdere la memoria di essere ana fiata entrato nel giar- dino del mio amico, dove vidi e percepii quel candido Gore; e tattavia mi puu rimanere intatta nella mente la forma , la rappresentazione ideale di lui , rappresentanza che io non so pin riferire a niuno de' fiori individnali da me vednti, e ritengo pure nell'intendimento si come una mera possibilila di Gore. Per tal guisa il tempo ha prodotto nel mio spirito la scum' posizione della percezione nelle due sue parti; Puna 4 perita, cioi la persuasione che quel fiore individuate e reale di quella fatta natura e in quel dato giardino sussistesse; Paltra si i conservata, cio si i conservata quella parte che in si rac- chiude tiitto ciii che vale a notificare alia mia mente, e rap- presentare il fiore, non a darle la coscienza della effettiva siis> sislenza di lui. Or questa parte che soprasta, i evidentemente cosa distinta dalla prima che i perita; e percid ella si vuol segnare con nome diverso dalla prima, c non usare un vocabolo eguale per tutte e due : il che non farebbe , e non fece che produrre in- finite eqnivocazioni ed errori nelle filosoGc. II Dome che fu posto dalP uso del parlare devolghi, non meno che delle scuole, a quella parte die rappresenta alia mente la cosa, senza indurre in essa alcuna |>ei'suasione di sua reale sussistenza. fu quello d'idua {iSea), e di Grecia ([uesto vocabolo fu comunicato a tutte le nazioni; da'Latini fu anco (i) Scz. V, c. IV, art. V. RosMiNi, Il Riniioyaiiii nil}. i5 Digitized by Google "4 traslatalo nelle voci species , forma , exemplar (i): voci tuUc, che Dulla aflatto esprimono della sussistenza reale d una cosa, ma tolo indicaDO la rappreaentazione ideale, o notizia di una cosa nella sua essenza, cio^ nella sua possibilita. Che ae poi ai cerca di che condizione sia I'altra parte della percezione, cioi  la persuasione che surge uel nostro spirito della reale e individuate sussistenza delloggetto percepito egli Sara facile a conoscere, che la nature di essa  quella di un interno assenso, o sia di un internu giiidizio che noi fac* ciamo sulla suasisteuza dell oggelto rappresentatoci nella mente (coir idea). C veramente il pcrsuaderci che uii oggelto sussiste, che cosa i allro se non una parola interna che noi diciamo a noi stessi, un giudizio che suona cosi:  la tal cosa (a me uota per Iidea o rappresentazione ricevutaue) sussiste  ? II giudizio adunque sulla sussistenza reale di una cosa individua, non si pu^ menomamenle confondere coll idea della cosa: quesla idea da Iinlera notizia della cosa, ma non pone ancora la sua reale sussistenza : viene il giudizio, ed afferma a noi, che quella cosa che conosciamo realmente sussiste : questo non agglunge un niinimo che alia cognizione della cosa, ma solo ci fa sapere che ella sussiste in si: tale operazione ha bensi bisogno deU Iidea, ma Iidea non ha alcun bisogno, per esistere, di tale operazione del giudizio. Quello che rende quanto facile a inteiidersi, tanto difCcile a ritener bene nella mente una si fatta separazione dulla idea pura dal giudizio sulla sussistenza della cosa individua, si e il farsi da noi queste due operazioni contemporaneameate, e per cosi dire indivisamente, e per6 il parerci assai facilmente una operazione sola, e non due. Ma convien rillellere che nell uomo non opera necessariamente una facolla dopo Ialtra, e Iuna in separate dallallra^ ma che essendo 1 uomo stesso il vero operatore, egli pu6 mettere, e melte bene spesso in movimento pit! facolla insieme, e fa ad un tempo con un solo dccreto, con uno stesso impulse piu operazioni. Si spetta dunque allasa^ gacila del filosofo il partire quegli atti che in nalura sono si* multanei , Iesaminarli a parte ciascuno da s, stabilire a cia- (i) Vrdi Cic. De Vnivtrs. II, Top. vii. Digitized by Coogle I 1 5 scano la propria natura e le proprie leggl; e non allribuire ad uno ci6 cfae ad un altro appartieoe. i Or venendo a noi, dico che quando si abbla per tal modo sceverata 1' idea dal giudizio, e considernta quella prima nella sua pnrila, cioi senza Iaggiunta di questo^ apparira manife* slissimo, che ella i per siia propria esseoza universale , impe- roccbi non racchiude in alcuna persuasione di un individuo come realmente sussistente, ma solo la rappresentazione di un iadividno come possibile a sussistere^ e perci6 apparira, che I'idea pura si distende tanto in la, quanto la possibility stessa, il che vool dire, che abbraccia I'inflnito. i|co. . In quarto luogo egli snppone, che io ammctta delle idee singolari, le quali diventino nniversali sol col pigliarsi a tipi o rappresentaxioni di altri oggetti. Ma , egli non s'accorge, ben- cb6 in tanti luoghi io Io ripeta, che le idee singolari per me non sono che idee impure, cioft idee miste con un giudizio, la natura del quale i affatto aliena da quella delle idee*, e die tali idee singolari o impure, che piu propriamente si chiamano perrezioni , considerate nella loro origine, si fanno uuiversali con solamente spogliarle di ci*. Ora egli A al tulto impossihile che dt*i mondi o crcati o creahili  si confurmino a lui con M pcrfcttissima idcntlla Pcrciocche sc il tipo e astralto, c didec aslralle composto, egli non potra gla rnpprcseninre se non dclle notc ascouder sotlcrra, s*egli poiesse t quelU terrihile parola d'  iufinito, * che gli si presenta da per luUo, quasi umbra sempre rnitiacccvolc, e iuesorabile coutro il suo sislcma ? Digitized by Google ella u ha relatione necessarla con quante esistenze real! od  ipotetiche si conformano a lei  . Ma s ella i cosi , onde 6 il mio errore, die non sia anche il suo? perchA mi pn6 egli condannare delPaver io delto ( se pur delto Iavessi) che una idea ^ universale quando si risguarda come esempio dinfiniti og- getli? non pare egli simile talora il nostro Conte a quel prin* cipe che segnando le sentenze senza leggerle pose il suo nome alia propria condanna? CAPITOLO V. r.ONTINUAZIONE. Ma io non ho finite ie mie osservazioni sni breve passo , onde il G. M. espone la luia opiniotie snlla natura degli uni- versali. lo debbo dirgli aucora molte cose^ e il lettore mi per* doni la lunghezza, perocchi potra vedere egli stesso, che sono entralo nel gineprajo. Adunque dico, che non io fo universale unidea, per qne- sto soltanto, chella sia guardata da noi come esempio d in(I- iiiti oggetti^ ma egli bensi fa cio, senza che io me gli faccia compagno in tale opinione ; il perchi la sentenza da Ini pro* nunciata colpisce lui solo, e me lascia andar libero. La opinione di lui non i veramente altra , che quella di Condillac, da me confutata nel primo volume del Nuovo Sag- gio (i). Il Condillac, e non io, si i quegli che sostiene conver- tirsi r idea particolare in una universale, col risguardarsi che si fa quella prima per modello di cio che le assomiglia (a). Io dimostrai , che 1 idea non si rende universale per qnc* St uso che noi facciamo di lei^ ella i universale per si, appunto perchi i nn modello per si; e col riportare a lei (i) Sez. Ill, c. II. (a) 'er oggetto che il possibile, il quale i solo 1 universale, rinfinito: e*la i poi, per la cagionc slessa, tipo e base comune ad inli- nili iudividui. Ma procediamo: dico in quinto luugo, che io non intendo in che modo sia caduto in mente al N. A. di farmi dire nel passo surriferito, col quale pretende sporre il niio sistenia, che io fo universale un' idea singolare con questo ch' ella sia guardata come esempio x d' altre idee iu(initu  . (i) Si Vffjga lx roiiliiiuaiione (11 (Jiieslo passo nel N. Sei. Ill, c. II, art. Xr Digitized by Google lai Cliipolrcbhc capireun s'lslrano concetto? un'idca universale e un esempio daltre inGnite idee? lo vogllo accordare, die vi possa essere Iidea deiridca, cio nnidea riflessa ^ qocste idee riflesse formano una classe parlicolare, e non hanno a fare colle idee in generate , e col discorso della loro universalitli, L'oggetto dell' idea non ^ unidea, ma 6 una parte dell idea stessa (oggctlo possibile): che se fosse unidea, s'andrebbe al* IinGnito: perocch^ anclie questa idea sarebbe esempio dinG- oite idee, e ciasenna di queste inGuite , sarebbe pure esempio d'altre inGnite, e cost va discorrendo. Gosa piii nuova di que> sta non potca il C. M. inventare, e io consento che il pub- blico giudichi mcrce preziosa cli'egli mi regala ^ ella i sposta agli ocelli di tutti, acciocch^ ne faccian la stima. In sesto luogo Gnalmente, egli me ne incarica unaltra non meno bella. Dice che una idea singolare io la rendo univer- sale con questo, chella sia guardata come esempio di altre idee inGnite  identichea lei pure in ciascun accidente individualen. Troppe cose danno a considerare si curiose parole. Da prima sarebbe a chiedersi, che cosa egli inlcnda per u accidenti delle idee n. Io so bene che accidente & un ter- mine relative a quel di sostanza, e che per6 si parla di acci- denti da per tutto ove si trova una sostanza. Ma chi ha mai sentito dire, che nelle idee si distinguano accidente e sostanza? Se altri Iha detto; non io.  chi ha mai udito che vi siano  accidenti individuali r , altrovc che in individui sussistenti c reali, e per6 non mai e poi mai nelle idee? Poscia ho ben letto nel libro del Riwiovamento delta fdoso- fia anltca Ualiana, che I'idea universale o tlpo  ha relazione u con quaute esisteiize reali o ipotetiche si conformano a lui u con perfettissima identita  (i)^ ma il C. M. certo non (i) P. II, c. X, V Se fosse mio ufficio prindpale di raccorre le coolrad- dizioni del N. A., qui ne iiolerei uoa manifests. Egli insegna, che  1' idea universale cd aslraU,i ha relazione con qiisnie esistcuze real! o  ipotetiche si conformano a lei coo perfettissima identita . Se ci avessu questa perfettissima idcn|ita (cioi sirailitudioe) fra le idee uuiversali ed astratte, e le cose da esse rapprescotate, ne verrehhe che le cose sarch- bero perfcitamente conosciuto coo sole quelle idee. Ma il M. all'incontro insegna, die le idee univcrsali non ci danno che una cogoizionc impeifelta Rosmini, Il Rinnovamento, i6 Digitized by Google laa avri mai lelto nel Nmvo Soggib nulla di questa perfet-i tifsima identity degli oggelti delle idee colle idee astratte e comuni. Egli ci avra solo trovato, che fra le cose e le idee v'ha una perfetta somiglianza (e non per6 mai perfetta iden* titi (i)) in an sol caso, cioi rispetto ad una sola classe didee, a quelle sulle quali non i stata ancora esercitata la operazione dellastrarre propriamente detto, ma che fur solo prodotte me diante 1 universalizzazione che le rende universal!, ma non ancora astratte. lo non mi credo giii qui obbligato di trascri- vere il N. Saggio, perciocchi egli i alio stampe, ni col tra- scriverlo di nuovo otterrei che fosse meglio lelto. Quella classe adunque assai limitata d idee , dove s' avvera che gli oggetti sussistenti hanno una perfetta somiglianza con esse, son quelle sole che io ho chiamate a specifiche  , e nb pur tutte queste, ma solo quelle speciGche che ho denominate  specifiche imperfelte e specifiche complete  , e che ho ac* cnratamente descritte nella Sez. V, Cap. IX, Art. VII, a cui il G. M., e i nostri comuni lettori potranno, bramandolo, volger Iocchio. CAPITOLO VI. ESSME DEOLl AaUOMEHTI CUB II. C. MAMIAMI USA COHTRO DI HOI. Ma egli i tempo che, dope aver veduto con che esattezza il M. espone la nostra opinione sulla natnra degli universal!, veggiamo altresi di che polso la combatte. Il passo in cui sta la nostra confutazione, A il seguente:  Or non 6 tale certo il concetto che gli uomini tutti e quanti si fanno delle idee universal!, imperocche nessuno mai e parzisle delle cose, perocchd da esse non nocolgono che il simile, o come egli dice, IideDtico, e rigellaoo il variabile del.le cose (P, II, c. X). Non d ella quesla cootraddizioae? (i) lu assaisaimi luoghi il N. A. abusa della parola w ideotilA Se una idea avesse per idenliche altrc iofiuile ideej quesic infinile idee non sa- rebbero che quella idea sola ed unica: per esser allre da quella, debbouo di oecessilA avere qualcfae differenza cbe da cssa le divide , c in lal caso cesscrebbero dall'esscre ideiuicbe. Digitized by Google I a3  Iia pensato che I'idea pecnllare d'an libro o dona meda*  glia, perchi vengODO I'uno o Ialtra ripetnti dai torch!! e  dal conio migliaja di volte, e per immaginasione nostra  mnitiplicati in inGnito, sia I' idea universale di quegli in*  Gniti libri e medaglie. Ma ognnno intende che Tidea uni*  versale rappresenti di sua natura il comnue di certe cose e u ommetta Tindividuale e perci6 include forzatamente alcuna u astrazione  (i). Primieramente non tengo vero, cbe tutti quanti gK uomini siensi rotto il cervello colla teoria delle idee universal!: la piii parte per mio avviso non ci ha mai pensato, e non se n'^ formato alcun concetto. Parmi adunque che in questo luogo, e in moll' altri, il N. A. appelli al senso comune degli uomini in argomenti, neqoali il senso comnne non s'i mai intromesso nd gindice, n parte. TuUavia foss' anco vero, che tutti quanti gli uomini in corpo abbiano speculato sugli universal!, e nna sentenza formatasi intorno ad essi^ sta egli bene ad on Glo* sofo di rapire a sh solo tanta autoriti, come i quella del ge* nere nmano, e non fame parte a nessuno? sta egli bene, dico, di rapirla a si con nn solo motto gratnito, non guadagnan* dolasi con ginste e ragionevoli prove? Se vuole che Iuman genere stia per lui, metta fuori il suo mandate, cioi rechi degli argomenti, co'quali provi che la sua opinione i nna con qnella dell nman genere, o come dice egli ancor piu , de* gli uomini tutti quanti. Il fare altramente, i un compromettere le convenienze della GlosoGa; perocchi queste sono andate, quando nn Glosofo si procaccia quella poco riverente risposta: quod gratis asseritur , gratis negator. TuUavia non vorremmo dargli il torto quando egli aGerma che u nessuno mai ha pensato che 1 idea peculiare d un libro  sia Iidea universale di qnemolti libri che vengono stampati  cogli stessi tipi . Se questa fosse la nostra opinione, non sarebbe esattaroente vero quanto egli afferma, cioi che nessuno abbia mai pensato una simigliante caslroneria^ ma a render picnamente vero il suo detto, giova appunto questo, che ni (i) P. II, c. X, IV. Digitized by Google pur noi I abbiamo mai pensato. E (|ucslo ci scmbra a dir vero cosa mirabilc, I esser poluto il C. M. abbattersi in una sca- tenza che nessuno abbia mai pensato! Di vero, chi mai avrebbe potuto pcnsare chc a 1 idea pe-  cnliare dnn libro o d'una medaglia sia I'idea universale di u infiniti libri e medaglie, perch^ vengono 1 nno e 1 altra ri- u petuti dal conio o dai torchi migliaja di volte ? Se quest! torchi e quest! conj che stampano migliaja di libri e di medaglie, fossero quell! che rendono le idee universal!, ne verrebbe per conseguenza, che non vi avrebbcro altrc idee universal!, chc quelle de' libri, dclle medaglie e daltre opere somiglianti, le quali con torchi, o conj, o forme, o madri , o punzoni, o altrettali ordigni si potessero moltiplicare, e che I'altre cose non fatte a stampa sarebbero prive dell universale. Se poi una talc ripetizione materiale di un oggetto influissc almeno a rendere Iidea pin universale^ ancora ne verrebbe, che alle cose che si possono materialmente replicare, meglio convenissero le idee universal!, che non a tutte Ialtre, mas> sime spiritual!, le quali non hanno stamp!. Quanto a me, non credo bisogno di scolparmi da una tale dottrina. Piit chiaro di ci6 che ho scritto nel TV. Saggio , non so dirlo ora. Ivi ho assai di frequente dimostrato, che la mate- riality dell oggetto non ha cbe fare coll idea, c che la ripe- lizione di quell oggetto non conferisce menomamente a far st, che 1 idea si renda universale pin o meno. Le cose real! con- tingenti non hanno che una relazione contingente collidea, e non necessaria, pcrci6 non influente nella natura di quella, che y necessaria. Ho detto di piii, tanto esser lungl, che le cose material!, o in generale i sussistenti, conferiscano col loro numero grande o piccolo a rendere piii o meno universale Iidea^ che anzi 1 universality d cos'i propria diquesta, che cssa non y propriety o quality di veruno degli oggetti sussistenti; e ne ho dedotto per corollario , che non i che apparente la uni- versality che noi crediamo avervi in un ritratto, o in un sug- gello, o in una medaglia, o in un libro: ella i una univer- sality aggiunta da noi, senza che noi ci accorgiamo, a quel ritratto o a quel suggello, il qual vien preso allora non giy nella sua entita materiale c realc, ma nella sua entity Ideale: Digitized by Google 1 15 in una parola, il ritratto o ii suggcllo non i univenale in qnanto esistc materialmente , ma in quanto i concepito dalla niente , nella qual sola si trova la relazione di somiglianza degli oggetl! a que tipi- Eicco un solo de' molti luoghi del iV. Saggioj che potrei qui riferire: u Vero 6 che sembra a primo aspetto che oltre le idee,  v' abbia qualche altra cosa che dir si possa in questo senso u universale: un ritratto sembra universale perchd i rappre- u sentativo di tulte quelle persone ch egli somiglia. Ma questo  d un inganno: il ritratto non ha questa proprieta dellu- K niversalita , se non in quanto le idee gliela agginngono. E  r idea del ritratto quella che del ritratto e delle persone u che al ritratto somigliano fa una cosa sola, cioi paragona, u e trova una simiglianza: questa simigllanza non esiste gia u nel ritratto, ma in quell' una idea colla quale fu pensato u il ritratto, e le cose a questo simili. L'unita adunque di  quella idea i ci6 che costituisce la similitudine che possono u avere le cose fra loro, come nel caso nostro il ritratto colle u persone  (i). Giova credere che il G. M. nella lettnra del N. Saggio non sia giunto fino a questo luogo. Ma non i mono aliena dal pensar mio 1 altra parte della ragione, che egli arreca, perch^ una idea si faccia universale, cio6 perclii il suo oggetto  venga moltiplicato per immaginazione in infinito  , il che pure dice non pensato mai da uomo di questo mondo. Trapasso, come legger fallo, che qui non c' entra T immagi- nazione, ma la mente. Pill tosto noto esser falso, che nessuno abbia mai pensato quella sentenza; imperdiocch^ uu autore almeno io conosco, il quale pcns6 formarsi le idee universali appunto mediante il ripetere che fa la mente i loro oggetti in inGnilo, e questo i 1 autore del Rinnommento della fdosofia andca italiana. Egli traendo le idee universali dal paragone de concreti , ne cava , che il moltiplicarsi de concreti, e delle immaginazioni loro, influisca non poco nclluniversalizzazione delle idee. Luomo che da concreti cav6 Iidea,  saprebbe Ggurarsi, egli dice. (i) Sez. V, c. XXV, art. i, nota.  Vedi aiiclii; Scz. Ill, o. IV, art. xx. Digitized by Google ia6 I riprodotta (I'identiti) un namero indcfinito di rolle , e U il nnmero dei soggetti nei quali vien trovato Iidentico si fa  di per sA, e a poco a poco indefinito  (i): in nna parola, come abbiam detto di sppra, il G. M. s'adagia a iidanxa neU Topinione del Condillac, che noi abbiamo combaltuta, echo i tatt'allro che inaudita. Se r universalitii delle idee, noi abbiamo riflettato, dipen- desse dagli atti di nostra immaginazione o di nostra mente, qurlla non sarebbe mai vera universalita 5 perocch^ il nnmero degli atti delle nostre potenze, per replicarli che noi fao- ciamo, riman sempre finito^ e 1' universality delle idee i in- finita, secondo la confessione del C. M. medesimo. Dunque h vera la contraria opinione da noi esposta ncl N. Saggio, che r universality delle idee  propria quality di queste, e non di- pendente dagli atti del nostro spirito: h una attitudine, che quelle hanno di essere adoperate da noi si come luce a vedere Iuniverso* possibile, attitudine che riman loro inerente, sia che noi Iadopriamo o no, 0 ne facciamo molto o poco nso. CAPITOLO VII. COtniHCAZIOHK. Ben oi spiace, che nella confutazione di che ci onora il C. M. , noi non ahbiamo la buona venture di trovare una sola linea di vero: vorremmo subito riconoscerlo, rendergli ginsti- zia, proclamare il beneficio che da lui riceveremmo collinse- gnarci qualclie cosa , o comecchessia confessando ch' egli dice il vero. Ma noi abbiamo in quella vece il rincrescevole dovere di negargli tutto, di non passargli una linea sola del periodo riferito, senza o pnrgarci dalle false sue imputazioni , o im- putare a lui gravi sbagli. Continuandoci adunque nell'esame delle sue parole, ci restano queste a discutere: m Ma ognuno intende che Iidea universale rappreseiiti di  sua nature il comune di certe cose e ommetta Iindividuale  e perci6 include forzatamente alcuaa astrazione  . (>) P. It, c. X, VII. Digitized by Google 7 Fermandoci in principio di questo periodo alia paroU  ognuno intende , debbo losto conlraddire^ perocchi almeno io non la intendo cosl, e per6 non ognuno intende cid ch' egli vuole . E come potr4 egli provare cfae io sar6 solo al mondo che la intendo cost? potrei ben io provargli il contrario, im gassi cbe I' idea universale non  incliiuda furzatamenle alcuna u astrazione n. Parrebbemi ch' cgli fosse in obbligo di sapere, confutando il N. Saggi'o, cbe in questo libro si distinguono due maniere di astrazioni, le quali hanno operazione diversa. L^operazione della prima coosiste nel levar via dal pensiero dell'uomo u la rea*  lita e sussistenza della cosa  ^ e questa piii propriamente dee cbiamarsi, a parer nostro,  universalizzazione  , peroccb^ e quella appunto cbe forma gli universal!. Loperazione della se- conda si rivolge sulle idee, gia universal!, gia formate dalla ope- razion prima. e astrae da esse qualcbe qualita o essenziale o ac- cidentale. Ora si legge ancora io quel libro, cbe sebbene a tuttc edue queste funzioni possa competere in qualcbe modo il nome di astrazione, tuttavia questo nome ^ da lasciarsi in proprio , a fine di cbiarezza maggiore, a questa seconda (i). Dopo di tutto ciu, egli & manifesto, cbe se il C. M., a cui sembrami dover tutte queste cose tornare novissime , non avendone egli fatto cenno nessuno, intende dire dover esser necessaria la prima astrazione percbi s abbiano gli universal!; egli dice ap> pouto quello cbe noi diciamo, e pero la siia sentenza rispetto a noi ^ proferita indarno. Se poi intende cbe faccia bisogno la seconda astrazione a costituire gli universal!, egli s inganna e si contraddice. S inganna, pcrcli^ veJemmo cbe ogni nota di un individuo , tosto cbe non sia piii nella sua realita ma nella nostra raeute, i comune e possibile a replicarsi infiuita* mente. Si contraddice , peroccb!^ egli stesso ammettc die 1 u- niversale non sia cbe il comune, e abbia bisogno, a furmarsi nella mente, dell idea del possibile. (i) Vtdi il A' Sngiin .Scz. V, r. IV, all i, J 3. UoSMiNI, Il JliiwOf'iWIflltC 17 Digitized by Google CAPITOLO VIII. 1 3o DISSIPATE I.B OBBIEZIOKI DEL C. MAMIAKI, SI COMINCIA leSAME DELLA SDA DOTTHIMA, DASDO ON SAGGIO DEGLI ERRORI E DELLE CONTRAD- DIZIONI Dl QDELLA. Le quail cosc ho dovuto dire per la difesa del vero. Ma ora io sooo astretto di fare anco la parte di assalitore; imperocch^ senza qiiesto, ni la difesa fatta sarebbe intera. E cid cfae mi da lena di mettermi in cotali viluppi si h la spe- ranza , che fra via mi venga il destro di aggiunger qualche grado di luce maggiore a de veri importanti. Piglierd ad esarainare primieramente il Capitolo X della II Parte del Rinnovamento , il quale ha per titolo: Delle idee universali , e pot delle generali. Dove prinia di tutto, noto apparire, quello che ho gid detto, il Mamiani non aver conosciuto quel vero importantissimo, recato a piena luce nel Nuovo Saggio, che non avvi una sola idea para, la qual non sia universale. Egli all incontro seguita nel pregiudizio condillachiano, che le idee altre sieno vera- mcnte singolari, altre universali. Quelle prime facilmente le con> fonde colle seiizazioni^ queste seconde (ciod le universali) le confonde colle aslratte. In si fatto modo gli sfuggono dal- Iattenzion della mente quelle idee universali che hanno luogo tra le senzazioni e le idee aslratte, e nelle quali convien pur cercare e meditare il concetto delluniversalila delle idee. II qual primo errorc d della massima imporlanza , e serpeggia menando guasto in tutta 1 opera del N. A. Or egli sintroduce a parlar degli universali, considerandoli siccome una congiunziune delle cose simili in fra loro. PerciA egli dice, u noi entreremo a considerare la relazione che passa u tra le cose coiifornii e le non conformi, la quale puu de- u nomiuarsi relazione d'analogia (i) e di differenza . E u in u cotesta relazione, soggiunge, mettono capo e riscuotono ogni  loro Icgittimila le idee tutte generali cd universali  (2). (1) Qiiesta purola di m aiialogia m d posla qui conlro la propriela lilu- ivliia, (2) P. II, c. X, 11. Digitized by Google i3r E noi conveniamo in affermare, che le idee universali sono come un vincolo che lega le cose simili iosieme, purchi s'in- tenda per6 che questo legamento si fa nella sola mente. Ma ci^ in cui discordiamo dal Mamiani, si 6 in far cnnsi* stere la' legittimita, o realita com'egli la chiama, delle idee universali, nella relazione di qneste colie cose concrete e sussi- stenti, termini della relazione o del paragone onde quelle idee ebbero in noi Iorigine (i). Avendo io gia detto e mostrato pin sopra, che Iidea non ha relazione necessaria con nessun essere snssistente, e che le sussistenze non sono che accidental! , e I'esser queste molte, o poche, o nulle, il durar loro liingo o breve, non reca la minima alterazione allidea pura della cosa, la quale i immutabile e necessaria , non dovrei ripetere que- sta osservazione^ ma io stimo di toccarla per aggiungervene un'altra, la qual metta in chiaro in quanti aggiramenti si perda un autore qualsiasi , quando smarrisce il cammino del vero. Il C. M. dichiara inutile alia dimostrazione dello scibile I'origine delle idee: io mantengo, questa origine essere in istretta connessione con quella dimostrazione. Or bene, chi crederebbe che dopo tali noslre diverse sen* tenze, tuttavia nel fatto il C. M. fosse costretto di far uso del- I'origine delle idee assai piii che io non faccia ? La cosa i raanifesta , considerando le nostre due dottrine intorno gli universali. Il Mamiani vuole che noi foriniamo gli universali parago- nando le cose simili, ed estraendo da quelle ci che hanno di somiglianza, o comegli dice, didentita. Spiegata in tal modo la generazione degli universali, egli non sa partirsi dal con- siderarli appunto in quesl'atto della loro generazione; egli non sa separare le operazioni e le occasion! in che quelle idee si formarono in noi, e fissare la sua attenzione nella natura delle idee gia formate. Egli dice: le idee universali son nate nello spirito da de' concreti , da delle cose sussistenti paragonate (i)  Percio il volgo h (non so a che Cire entrl qui il volgo)  e i filo-  soft concordsno credere che la reallii ohbjctliva delle uoziooi del si-  mile o del dissimile coosiste nella rispoiidenza e propnrzione squisila che M quelle oozioni manteiigono coi Icnniui della relazione  (P. I, c. X, in). Digitized by Google I 3a insieme (i); danque le idee debbono avere una perpelua rela* zione con queste cose paragonate , e in qnesta loro relazione consiste la verita o realita loro. Egli fa come eolui, che, dopo essere stato da una femmina partorito un bambino, dicesse, questo bambino non potersi considerare in disparte da sua ma- dre, o nelPesseozae realita del bambino entrare perpetuamente la sna relazione reale colla donna che I'ha generate. Gonsidera adunque le idee uiiiversali sempre nell'atto dell origine, e nelle circostanze della loro formazione. lo allopposto non attribuisco tanto all origine delle idee, lo distinguo i due tempi, quello in cui Iidea si produce in me , c quello in cui ella e gia prodotta. La esamino nel primo tempo, e la trovo circondata da delle circostanze cbe erano ne* cessarie alia sua prodiizione, una delle qiiali circostanze, trat- tandosi didee positive di cose corporee, fu la presenza di eerie sussistenze cbe hanno ferito i miei sensi. Ma poi la esamino nel suo secondo tempo, cio quando ella e gia in me formata^ e m'accorgo, cbe per continuare a sussistere nel mio spirito, ella non lia piii bisogno di molte di quelle circostanze di rhe ebbe bisogno nella sua prima generazione , per esempio , ella non ba bisogno della presenza e dellazione sni miei sensi di quegli esseri sussistenti, n pure ha bisogno della memoria di loro sussistenza, o della persuasione che sieno una volta sussi> stiti, bastando che nella mente niia si conservi la forma rap- presentativa, o come la chiamarono i maggiori filosofi, Iessenza della cosa. Quindi io raccolgo, che quelle circostanze che hanno accompagnato la generazione della mia idea , non formano parte della sua natura, ma sono ad essa estranee^ raccolgo, che quando io percepisco da prima I'idea, ella i mista con drgli element! slranieri a lei; i quasi come la statua fusa, che appeua uscita del oivo ha dinlorno de rilievi ed escrescenze di metallo, dalle quali ella si dee rimondare e limare: esamino poi quali sieno coteste superfluita, c trovo principalmente es* sere appunto la conoessione cogli oggetti reali, coll occasion dequali ella nella mente mia se formata, e che possono tut- (t) Non roiisidcra il M. die i sussislenli come tali non si paragouauo insiciiir, e die ogin paragoce nasce fra oggciti del nostro spirito. Digitized by Google 1 33 tavia perire senza cite anch'ella perisca, si come la forma si puu rompere durando la statua cavatane. lo vo molto piii in- nanzi continaandomi su qiiesta via: perciocch^ argomento, che se 1 idea, per durarmi nello spirito, non ha alcun bisogno de- gli oggetli snssistenti che la produssero, dunqne ella ha un modo desistere siio proprio, i qnalche cosa d'indipendente af- fatto per natura da' sussistenti ^ dunqne questi sussistenti non hannole veramente dato nulla di dunque essi non sono stati vera causa della formazione dell'idea in me, ma solo oc- casione, per la quale il mio spirito e venulo alia visione di quell idea. E in vero i sussistenti non poteano dare quello che non aveano: essi hauno contingenza , singolarita, limitazione, varieta, incostanza ^ 1 idea all i neon tro nella sua natura mostra manifestissime le contrarie doti^ necessita, universality, inllnita, unita, immutability. Ma io sono hn soggetto pure contingente, singolare, limitato , vario, incostante. Dunque, io conchiudo, Iesistenza dellidea in me non i Iesistenza allidea essenziale^ e nn puro accidente, rispetto allidea, ch ella sia da me ve- duta: ella  senza di me, senza iiessun uomo, senza tutti gli uomini^ ella e qualche cosa di eterno. Io non procedo innanzi, perocchy non voglio dire di piu del bisognevole: ma dalle cose per6 dette fin qui cavo le seguenti conelusioni: Lanalisi del C. M. non savanza tanto che basti a conoscere la vera natura delle idee. Egli non ha alle mani , che le idee ancora rozze e impulite, quasi statue uscite appena di cavo, da cui non ha raschiato il soperchio , che sebbene congiunto nella prima formazione con esse, non appartiene per6 ad esse: voglio dire, egli non ha separato le idee dagli oggetti acciden- tali, che danno occasione a noi di acquistarle. Quindi a torto egli credelle cercare e trovare nella relazione delle idee con questi oggetti la loro reality e verita^ nk vide quanto si levi la natura della idea al di sopra da quella de contingenti, e come questi non possono in modo alcuno esser causa del- 1' idea. Concludiamo: il C. M. sta attaccato allorigine delle idee in tutte le sue deduzioni sulla loro verity^ io allincontro divido assai queste due cose. Pure egli non fa niuna stima della questione dell origine, e la dichiara insolubile e iuutile alia dimostra-  34 xione del certo^ io allincontro riconosco almeno aver essa un iatimo nesso colla questioae della certezza, sebben non quale e quanto mostra di tenere nel fatto il G. M. Chi non .vede il grande imbarazzo di ana cattiva causa? CAPITOLO IX. IL C. M. DOPO AVEZ HBCATA l'iNDIPEHDEHZA DELLE IDEE DALLE COSE SDSSISTEHTI, LA COHFESSA, SENZA CAVARICE PEr6 CIOVAMEHTO. Ma 1 indipendenza degli universali dai particolari su.ssistenli onde trassero I'origine, non  ella cosa piana e manifesta? i egli a credersi che sia sfuggita interamente alia mente del N. A.? No: gli balen6 veramente questo raggio di luce; ed egli stesso confessa il vero che noi difendiamo, senza per6 renderlosi utile, traendone le couseguenze, che gli avrebbero poluto dirizzare molti pensieri. Ecco il passo, dove egli fa la confessione di che parliamo: u Le idee universali avvenga che sieno astratte da piii ter- u mini di paragone individuali e concreti e che perci6 la na-  tura loro si adatti puntualmente alle condizioni di essi ter-  mini, tuttavolta i da osservare ch' elle si manlengono cntro  il pensiero, come staccate dai fatti, onde presero originc:  e mentre quelli mutano, o posson mulare, le idee universali  restano identiche a si medesime  (I). Qui le idee sono stac- cate dai fatti c dai concreti, souo considerate nella loro pro- pria natura. Chi poteva dirlo meglio ? Le idee si affermano immulabili, le cose da cui sono dedotte mutabili: cose e idee di contraria natura : queste adunque non effetto di quelle, ma concomitant! a quelle, e da quelle solo a noi occasionate. Ma che perci6? Udiamo le singolari parole che il N. A. soggiunge immediatamente a quelle sopra riferite: u Per6 ei bisognerebbe per nostro utile che le idee uni- u versali continuassero sempre a rappresentare il comune di  tutti i soggetti dai quali sono desunte, perchi levata tale rap- (1) P. If, c. X, VI. Digitized by Google i3S u presentanza, e levata insieme ogni applicazione loro prossima  ai casi concreti n. Ora che ^ mai quella frase: u bisognerebbe per nostro utile B che le idee, ecc.  ? Cercbiamo noi qaello cbe bisognerebbe che fosse per nostro utile, o quello che i in natnra? ovvero ci arroghiamo di sapere come dovrebbe essere la natura delle cose, percbi ella fosse a noi utile? vogliamo noi dettar legge alia natnra? o presumiamo di sapere immaginare quaicbe cosa di mcglio di quello che i nel fatto? lasciamo a qualche pazzo prepotente il voler dare a Domeneddio de' consigli migliori di quelli che egli ha creduto di seguitare nella creazione dellu- niverso. Da vero, cbe qnesto cercare quello che bisognerebbe die fossero le idee universal!, anziche quello che sono, e una pia- cevole ricercalSe non che, quando per dar gusto a noi die fossero diversamente da quel che sono, non sarebbero piu le idee, ma quaicbe altra rarita di nostra invenzione. Vedesi qui ben chiaro dove ci conduca I'amore di sistema. II C. M. si pose in capo I'idea sistemalica, che la veracit?i e Iutilita delle idee universal! consista nel loro rapporto ai termini concreti del paragone onde si originarono: saccorge per6 che questo rapporto gli svanisce in mano: conchiude col dire, che b sa- w rebbe pero utile e necessario che le idee continuassero a man- B tenere un tale rapporto . Non k egli assai nuovo questo ragionamento ? Seguitiamo ad udire quaicbe altro periodo di quei che sc- guono nel suo libro:  E nel vero questo si cerca di conse- guire, u serbando il piii che e possibile una relazione costante B e uniforme fra le idee universal! e gli oggetti da cui presero B nascimento come da termini di paragone . Questa relazione delle idee cogli oggetti da cui presero nascimento, che ha in vedula il N. A., non i dunque cosa bella e fatta dalla natura, ma ^ una cosa che si cerca di conseguire, e la costanza e uni* formita della quale soggiace a moltc gradazioni, perocchi ella si cerca di conseguire il piit che e possibile. Pertaiito questo del C. M. sembra anzi un consiglio che appartenga all arte di pen- sare, che un fatto appartenente allidcologia. La natura delle idee non ccnlra per nulla ^ queste si sottraggono da tenersi Digitized by Google 1 36 legate cogli oggelti sussislenti, onde da principio si origina* rono^ perocchi conviene  cercarc di consegiiire questa rela- zione il piii che ^ possibile  : il che val quanta dire, die in- teramente non i possibile a conseguirla. Ed ecco I'eseinpio della sua teoria: u Gosi vnoUi cbe I'ldee asiratte di albero, di minerale, d'uo- u mo, di bellezza, di sensibilila, e infinite consimili, non isticno  dentro di noi quali esseri semplici di ragione, ma quali rap- u presentanze continue d'un rerto numero di singolar! con-  creti, e qual funte di notizie vere ed esatte sulle realita dclle a rose . V^uolsi? qnal k la significazione di questa parola ?  un de* siderio? k un comando? k una vulunla? una velleita? insomma die cosa Intanto peru quivi raanifestamcnte si confessa, che le idee possono stare nella nostra mente come esseri semplici di ra- gione^ e cbe il rimaner die rappresentanze continue d'un certo numero di particolari concreti, non i piii die un buon de* siderio, o una buona volonta, almeno nell' intenzione, del C. M.^ una cosa che si dee cercare, secondo lui, di ottenere, se non in tutto, almanco il piii che sia possibile: e questo buon desiderio nasce al C. M. dalla premura ch'egli ha che tali idee sieno font! di notizie vere ed esatte sulla realita delle cose, iifficio die non presterebbero , a siio parere, se un tal legame co' real! non si teilesse fermo e continiio nel pensiero. Quanto a roe, con buuna pace del N. A., intendo di di- spensarmi da cotanta fatica die vorrebbe addossare il C. M. alia niia povera memoria, di tener ben ferma e continua la rela* zione delle mic idee univcrsali cogli oggetti (la cut die presero nascimento: e me ne dispenso per settantasette ragioni. La prima, e che mi varra per tulte, si die gli oggetti reali, onde le mie idee universal! presero nascimento, non me li ri- cordo piu, saprei piii ritrovarli |ier quanto indietro mi rifa* cessi. Lui felice, se li ha registrati nella memoria! Caso die cosi sia, sara un uomo meraviglioso, il quale non potra piii scrivere, quello cbe spetla al primo sviluppo intelletlualc suc- cesso a noi ncll'infanzia non potersi sapere: conciossiadie egli al lulln sc nc ricorderdibu: giacdie la furma/.iuiie degli univer- Digilized by Google i37 sail si perde appuato in quelle lenebre della prima ela, e gli oggetli onde li traemmo furono certamente da noi percepiti assai per tempo. Fiualmente, quandanco io potessi conoscere e rammentarc i reali oggetti onde principiarono nel mio spirito gli universali di mia formazione, ancora non vorrei mantenerli nella mia mentej perciocchi io non saprei da vero che farnej essi mi sa* rebbero un ingombro, un fardello alio spirito, il quale k gi4 troppo carico di notizie positive ed inutili, e vorrcbbe piu to* sto alleggerirsene di non poche, Vcramente egli i oltremodo strano il credere cbe la vera* cila degli universali dipenda dal tener viva la relazione cogli oggetti onde nacquero! II pensiero del G. M. sarebbe vero, so le idee si dovesser accomodare agli oggetti, com'egli suppone ( i ). Ma questo  un massiccio errore, provenuto sempre dal consi* derare I'idea nella sua origine accidentale, come notavo in* nanzi, e dal considerarla perciu come un vero elTetto degli og* getti sussistenti, come nna cotale impressione, una cOpia di questi. In tal caso i vero, cbe gli oggetti sarebbero gli esem* plari, le idee, le copie. Gli assurdi da noi toccali, cbe nascono da tal sistema, confermano che il sistema i falso. All'opposto, e I'osservazione non pregiudicata delle cose, e la consentaneity della dottrina dimostra tulto il contrario. Le idee sono veramente gli eseroplari, o tipi (come talora le chiama il M. stesso^ le cose poi sono quelle che si debbono riscontrare a quetipi, e secondo quelli classiiicarle. Le riscontro io fe* (i) Da questo errore ne nascono al M. molt! altri: tale, a cagion de- sempio, i la distinzione cbegli fa Ira i composli arbitrarj didee uiilvcr. sail, e i composli non arbitrarj (P. If, c. X, v) Mon vi sono altri coinpo- sli arbitrarj didee, se non quelli cbe si fanno con idee ripugnanti : pe- roccb tali unioni non possono esislere. Tulle le altre idee, o semplici o complesse, cbe non inebiudono conlraddizione, sono necessaric; i loro og- gelli son quelli cbe possono sussistere o nun sussisleret il cbe i puramentc accidentale. fc paritnenle accidentale, cbio m'abbia nella menie Iuna o Iallra delle inolle idee semplici o complesse; ed i arbiirario cbio rivolga Iattuale altcnzione ad una o ad unaltra delle idee cbe io mbo. Ecco ci6 solo cbe vba darbitrario nclle idee: a parlare diretlamcnte questo ele- mcnlo arbiirario non b nelle idee, ma egli 4 in me, cbe mi risolvo arbilra. riaincnie di conlemplare piu loslo le une che le altre, piu lotto assorlite in un modo ebe in un altro. Hosmim, Jl RinnovanicfUo, i8 Digitized by Google l38 delmente? le classiGco bene? cio6 1e soltomeUo a quella idea alia quale apparlengono? In tal caso ne'miei gludizj $i trova la verita, in caso contrario sono falsi. Ecco in cbe con- sista il vero ed il falso; non uesognati riferimentl delle idee agli oggetti reali da cui presero nascimento. Pigliamo an esempio. Veggo io un animale da me non mai veduto, la gi- raffa. Jo dico: cgli i un cavallo^ e dico il falso. In che sta la falsita? forse nell'idea universale del cavallo? no, la poverina t innocente quandanco stia nella mia niente, siccome un es- sere semplice di ragione. La falsita i tulta nel mio giudizio: io ho preso un'idea per unallra: io ho rapportato quell es> sere sussistente da me percepilo co sensi , ad una idea a cui non saffaceva, ho rapportato la giraffa all idea del cavallo: non avrei punto errato se, osservando mcglio, avessi rilevato che quell animale che percepivo non saccomodava all idea del cavallo, e che per6 io dovea formarmi in quell occasione uni- dea nuova, e non riferire il percepito ad una delle idee gia da me possedule. Lerrore fu mio, e non delle mie idee. CAPITOLO X. CONTIMCAZIONE. Ma il nostro autore si accosta a noi ancor piu, staccandosi da si stesso. Perocchi dimentico, come pare, daver messa la veriUi delle idee universal! ne loro riferimenti agli oggetti sussistenti, egli descrive alcuna volta la formazione di quelle per modo, che ben si vede non solo la loro naturale indipendenza dasussi- stenli, ma ben anche non poter esse rimanere con quest! con* giunte senza perdere la loro universality. Udiamo da lui il processo delle operazioni necessarie a formare Iidea univer- sale di sfericita:  La forma rotonda, vista e raffrontata in piu corpi, genera u primieramente la nozione astratta d' una quality identica dei  medesimi , Qucsto i il primo passo, segucudo il G. M.  Disparsi quest! dall occhio di nostra mcnte, rimanvi la K nozione piii astratta e generalissima di cio che i sferico . Qucsto i il secondo passo. Digilized by Google i3i) E a qucsto secondo passo che il N. A. dice essere gl spariti i corpi dall'occliio della mentc. Anzi questa dispari- zione dc' concrcti i cid die costituiscc appunto questa sc> conda opcrazionc colla quale si forma 1 astralto o sia 1 uni* vcrsale. Confessa adunque con ci6 il Mamiani, che I'idca astralta e universale tant' i lungi che abbia bisogno di star Icgata a de' concreli sussislenti , che anzi ha bisogno di sciogliersi al tulto da cssi per acquistarc l'universalit4: vogliamo noi di piii? u Proscguendosi a distinguere e cessando di pensare a qua- il lunque materia possibile, producesi la nozione pura, geo- u metrica della sfericita . Terzo passo. Qui si esige alia pro- duzionc di questa nozione, che  si cessi di pensare a qua* lunque materia possibile : tanto i uopo che 1 universale astratto sia libero e sciolto, per sentimento del Mamiani, da' sus- sistenti! u In fine messo da banda il soggetlo pensante, che Tap* u prende c la possiede, la nozione della sfericita non appar* 1 tiene piii ad nna che ad altra intelligenza, non nasce, non u s'estingue, non si riproduce, c cosi dismettc ogni maniera  di accidenti individuali . Quarto ed ultimo passo. Chi potrebbe dir meglio di ci6 che 6 toccato in quest' ul- timo luogo, dove il C. M. stesso si leva a considerare la idea indipendente dall' intellctto in cui ella per puro accidente si ritrova ? non doveva egli vedere, che una cosa, la qual si puu considerare da si per modo, che non ha bisogno di pensarsi sussistente in altro, ha una realita propria, una natura pro- pria, e che perd I'idea non esiste giii nella nostra mente come 1' accidente aderisce ad una sostanza, ma in una maniera tutta ua, che non ha esempio nolle altre cose della natura (t)? *i) Clic it N. A. non siasi iccorlo di qucsia natura lor propria delle qual si scorge appunto qtiando, separandoLa dall' altre cose, clle si no siissister per 8^, apparisce dallinsegnar chegli fa, le idee univer-  egli cliiama di medesimezza, non poter essere present! al nostro innanzi dell' atto del paragone, onde sorgono :  E quando il con* rio pare afTermarsI >, soggiuoge,  dipende ci6dal bisogno di aslrarre tali idee dal fatto della loro geoerazioiic c dagli accidenti che le ac- compagnano n (P. II, c. XI, in) Egli dovea cercare la ragione di questo bisogna, che confessa; e ravrebbe trovala nella natura delle idee stesse CAPITOLO XI. i.,o ESAME IIe'qUATTRO GRADI DI ASTRAZIONE PeqUALI It MAMIANI VUOLE CUE PAiSINO Sl'CCESSIVAMEMTE LE IDEE. per questo posso convenire con tullo ci&, che dice il N. A. enumerando i passi che snol fare la mente quando si ocenpa nelP astrarre. Con qaelli io ho voluto solamente pro* vare ch' egli stesso animelte, i  gli universal! non aver bisogno di conservare una continua relazione nella mente nostra cogli oggetti, onde furono da prima in noi mossi ^ quando anzi per I'opposto lo scioglicrsi che fanno da questi legami h ci& che li rende universali^ a. Ic idee, checchi clle sieno, esser qnal- che cosa di reale in s6 stesse indipendentemente dal nostro spi- rito, o altneno come tali a noi rappresentarsi. Dopo di ciA, ecco le osservazioni che io debbo fare sull.i serie di operazioni che descrive il C. M. come necessarie alia formazione degli universal!. Riassumendole, elle son quattro: I - Osservare il simile negli oggetti e separarlo dal dissi* mile, p. e.  la forma rotonda vista e raffrontata in pin corpi u genera la nozione astratta della sfericitii . a. Isolare il simile dai concreti particolari, p. e.  disparsi u i corpi rotondi dalF occhio della mente, rimanvi la nozione  piii astratta e generalissima di ci6 che & sferico . 3. * Isolare il simile dai concreti possibili', p. e.  cessaric a formare gli universali-astratti. Gli universal! sono le idee lulte; ma gli universali-astratti sono le idee astralte. Alla mentc del G. M. balenA quell'uni- vcrsale die ^ proprio delle idee tulle, c allora nc descrissc la gencrazione mediante I'idea del possibile: balen?> poscia alia sna mente quell' universale cbe si trova negli aslralti, e che 6 quello che piii comunemenle ed esclusivamenlc si osserva, c allora descrisse la gencrazione degli universal! col processo di quelle qualtro astrazioni. Ecco una qualcbe conciliazione: egli descrivea la gencrazione di due universal! divers! : il suo errore fu solo nel non accorgersi, che due era no le specie di univer- sal!, e il parlare che fa come se si Irattasse di nn solo uni- versale: sotto questo aspelto egli potea avvedersi della contrad- dizione in cui s'abbatteva^ c se di essa si fosse avvisato, sa- rebbesi trovato incontanente suHa dirilta via del vero. Mon mi rimaiie quanto alia formazione degli universal! me- diante la ginnta del possibile, che a nolare una impropriela di parlare. Il N. A. vuole, che la mentc si stenda veramcnlc agl'infinili rasi possibili: ciA non regge, non potendosi fare in atto^ ma bastn cbe si faccia (per cosl dire) in polenza. Ella ^ Digitized by Google 1 43 Tavvertenza sicssa da me fatta piii sopra contro il Coadillac, die Punivcrsalili di un' idea non consiste ncl conosccria noi per modello dinfiniti oggetti, raa neilaltitudine ck'dl'lia di prestarsi a tale urCcio. CAPITOLO XII. ESAME De' QUATTnO CDADI, CHE IL C. M. POME mell astraziomb delle idee. Ma non posso tralasciare di soltoporre ad esame quei quatlro gradi di astrazione, pc' quali il C. M. vuol pnre die la mente nostra quasi per altreltanti gradini giunga all astrazione com* pleta. Egli dice da prima, die coll'osservare il simile c svincolarlo dal dissimile formasi una nozione astratta, per es. quella dl sfericita. Poi dice (questo i il secondo passo) die col separare il simile daconcreti particolari, la nozione di sfericita diviene piu astratta e generalissima. Ma io gli addimando, con sua pace, i egli possibile, die la nozione astratta di sfericita di- venga piii astratta della nozione astratta di sfericiU? Assai bene 10 comprendo come vi possano avere pik gradi di astrazione, come vi possano avere delle noziuni piu o meno astratte^ p. e. la nozione di 6gnra & piu astratta della nozione di sfericita, perocdii questa i una specie di iigiira^ e la nozione di figura costituisce il genere di tutte le speciali figure tonde, quadre, trilatere, ecc. Ma ci6 che non comprendo si 6, come una no* zione astratta possa divenire piii astratta di si stessa. O con- vien dunque dire, che con quella prima operazione di sceverare 11 simile dal dissimile non si ottenga ancora veramente rastrallo che si denomina sfericita*, o che, se si ottiene, egli non ha pill bisogno d altre operazioni , perocchi non pu6 acquistare maggiore astrattezza di quella che gli 6 propria cd ha gia ricevuta. CAPITOLO XIII. COMTINUAZIOME. Che dunque hassi a dire delle tre operazioni che annovera il C. M. dupo la prima, c che repula allc a produne uelle idee Digitized by Google 1 44 un'aslratlezza scmpre maggiore? sono esse Lnulill? non esistono Delia natnra? Cerchiamo nella natura appunlo la risposU, con una diligente osservazlone dl quanta avviene nel nostro spirito. Questa osscrvasionc ci mostra primieramente, clie la seconda dclle operazioni annoverate dal C. M. & anzi la prima di tutte a farsi. La prima cosa che ci snggeriscc di fare la natura del nostro inteudimento quando noi percepiamo degli oggetti co' sensi, si  quella di considerarne la forma ricevuta nel nostro spirito separatamente dagli oggetti concreti e sussistenti. Questa operazione non i sempre volontaria in noi, ma, il pin, spoa> tanea: non siamo noi die la facciamo^ ella si fa in noi na> turaimente, E di vero, solamente dopo di aver separate la forma degli oggetti (idea ) dalla loro realita e sussistenza, 6 possibile quella che il Mamiani pone come prima operazione, di sceve' rare da pin oggetti il simile: questa prima operazione suppone la seconda gia formata, ed 6 una conseguenza di quella. Consider!, chi ne avesse duhbio, che il simile non si estrae dagli oggetti senza paragonarli fra loro ^ e consider! bene, che gli oggetti, in quanto sono concreti e sussistenti, non si possono in modo alcuuo paragonare^ chd paragone non si fa se non fra le idee di quegli oggetti, e si compie non fuorl di noi, ma solo dentro il nostro spirito. lo ho dimostrato lungamente nel Nuovo &tggio, che degli csseri concreti in quanto sono con* creti non si possono in modo alcuno paragonare, ma che 6 necessario, perchi sia possibile un paragone, che almeno nno di quelli che dee servir di modello nel paragone, sia spoglio da ogni concrezione: altramente 1' opera mentale del paragone i impossihlle (i). Gonverrebbe rispondere allc prove ivi da me addotte, prima di procedere innanzi. Come che sia, la ragione che impcdisce a'.trui di veder questo vero, si 6 il prendere assai agevolmente I'oggetto quale i da noi percepito, per Ioggetto quale sussiste in s. Convien badare, che con tutti i uostri volgari discorsi noi crediamo scmpre di ragionare dclle cose come stanno fuori di noi^ ma veramente non ragioniamo delle cose estcnie se non in quel modo che sono da noi conosciute: c Ic cosc in quanto sono conosciute, in quanto sono presenti (i) Sci. HI, c IV, art. Digitized by Google 1 45 al nostro spirilo, hanno subilo da noi stessi una ragguardevole modiGcazione colPalto del perceplrle: sicchi I'opera nostra noi talora la crediamo natura degli oggetti. Qnesto inganno sue- cede comuneniente net paragone: crediamo di paragonare le cose real! in sb stesse, e verameiite paragoniamo le cose reali iiella loro esistenza mentale. A disingannarci di cio, fa uopo sottilmente considerare, die paragone non si da, se le cose non si compenetrano, per cosi dire, se elle non si applicano perfet- tamenle a un comuiie esempio. Ora due cose materiali in nes- suna inauiera compenetrar si possono^ ni possono csserc ap- plicate perfettainenle ad uno slesso esempio materiale. u 11 geometra vuol vedere se due Iriangoli sono ugtiali, egli I* s'inimagina di soprapporli I'uno allaltro, c di osservare se u quelli si combaciano perfeltamente. Similmente, il falegname u soprappone una tavola all' altra quando gli b uopo vedere  se due tavole sono della stessa grandezza. Ma I' operazione u del falegname  ben altra da quella del geometra. Cio che  La uuuuue asli'alU nasce iiel nostro spirito pura e sent- plice, come delto i, median to I' astrazione del simile dagli og> getti conosciuti. Quando lo spirito nostro s'afGssa in quesla nozione, egli non pcnsa gi^ punto ni poco a si stesso, eiu chc gl'interviene universalmentc per tutti gti oggetti, ne' qnali intende colla sua attenzione. Questa k propria natara e indole dell'atto intellettivo , che non conviene gi4 iminaginarsi a ca- priccio, ma contemplarlo e rilerarlo com' i nel fatto. Nella no- zione astratta adnnque, p. e. di sfericita, il soggetto che la con- templa non e'entra per nnlla^ esso i al tutto estranco a quella nozione, e fuori di essa^ e per6 egli i cosa assurda il dire, che da qaella nozione si pud astrarre il soggetto percipieute e cost rendcrla via piii astratta, quasichd il soggetto percipiento si mescolasse nolle idee da lui contemplate, e costituisse una parte di tali idee. Ma come aduiique pud csssersi presentato alia mente del N. A. un simigliante pensiero? Non i cosa difficile a ritrovare. Convien sapere, che sebbene Ioggetto della mente nostra sia afTalto diverso ed anzi contra- rio al soggetto che lo contempla, tuttavia il filosofo, mediante una riflessione che fa su di si soggetto >ntemplante Ioggetto, trova un nesso fra queste due cose^ egli allora trascorre assai facilmente a credere , che 1 idea od oggetto contemplato sia una modificazione, o una parte, o nn effelto del soggetto stesso contemplante. Questa maniera di vederc i arbitraria e matc- riale: e un argomento di analogla proscritto da un buon me- todo di filosofare. Dopo adunque, che il filosofo stabili arbi- trariamentc cotal connessione fra il soggetto contemplante e Ioggetto della contemplazione; egli i costretto di immaginare una operazione, colla quale sciolga questa connessione da lui supposta, e lasci di nuovo in liberta la porera idea o nozione astratta inviluppata da fallace riflessione e quasi captiva. La quarla operazione adunque del G. M. non 6 punto ne> ccssaria alia formazione degli astratti^ non i necessaria, Gao che questa nozione rimane libera come Iha fatta la natura; ma ella i necessaria per liberare quest idea quand i stata presa nella rete o nella ragnatella filosofica. Que filosofii, i qnali sono pervenuti ad annettere alle idee astratte il falso Digitized by Google i5i coucello e al luUo immaginario di produzioni o emanazioni o modi del soggello, adopcrino pure una lale operazione, ma entro i limili dello spuciale c fallizio bisogno di loro menli. CAPITOLO XVI, LA DISTINZIONE IJELLE IDEB GENERALI DALLE DHIVERSALI INTRODOTTA DAL MAMIANI NON RIPARA AL DIFETTO DELLA SUA DOTTRIHA. Rilornando ora noi cola, donde siamo parlili, ponemmo nicnle al doppio peiwiero Ira cui ondeggia cumbatluto il N. A, D'una parle egli avea fermo, che la Terit& delle idee con. Gli universali adun- qiie ci facevano una trista iignra. Ma che guadagnavano poi quesle nuovc idee generali e non universali? Nulla ^ di nuovo, nulla. Perocch6 se una volu io ho pre- sente Mlo spirilo unidea aslratta, e se ho conlemporanea- (i) Quc filosofi che sembrano aver distinlo il generate dM uiuversale^ roine il Palrizio, iulesero quests dislinzione in lull* altro mode da quello ebe la iiileiide il Mamiaut. Aucliio disliaguo il gencrale dull universale; perocebS per me il gene- rale (da genui) i una specie dell* universale i ina queslo non ha che fare colla disliuzioDC del N. A. Digitized by Google I 5a tnenle presenli quegli oggelti reali da cul I' ho tralta, e se unaltra volta ho presente la stessa idea aenza attnalmenle rammentare que' particolari oggetti^ 1' idea non ha sostenulo veramente cangiamento di sorta, ed ha la stessa veracity, la stessa autoritii si ncllun caso che nell'altro. Di vero, Paver io per accidente present! degli oggetti reali, o i primi da cni Pho cavata, od altri a lei rispondenti, i una vista del mio intendimento al tutto diversa da qaella delP idea. Come adan> que nna persona rimane la medesiraa. tanlo allora che si trova sola, come allora che si trova accompagnata da un amico o da un fratello^ cost quelPidea rimane quella che i, sia ella associata o no con altri atti contemporanei dello spirito. Ma rechiamo le parole stesse del N. A. u Quantanque la essenza ideale di molti esseri di ragione  si mantenga sempre, pel fatto, rappresentatrice fedelc della  cgli avea srmpre nel sun libro fatto intervenire il giudizio co> noscitivo: ma cbe? I'accorgersi clie queslo giudizio suppone an universale precedentc ( i ) , il trattiene improvvisamente nel suo corso, e lo stringe a fare ogni sforzo di cacciar via questo  giu* dizio conoscitivo  che sconcia tutto il suo sistema sulla for- mazione di si fatte idee. Postosi a tanta impresa, dopo averci molto travaglialo, viene' a questa conchiusione , che senza questo giudizio si possono formare tali idee, che se non rappresentano inCniti oggetti, cioe tutti i possibili, ne rappresentano per& di concreti e di snssistenti un numero che  nel rondo cbc la si pun coslrulre e pralicare atlualroentc, cioi con I'in- i lervenzione assidua dell' alto conoscitivo,  pure ci accade di aggiungerc  qui alcuiialtra ridessione iuloroo al proposilo. E di vero, pu6 taluno t osservare che essendo gli universali ed i generali lormali con 1' opera del  giudicio conoscitivo, suppongono gia Ieslslenza e I'uso di altri uoiver- H sail, onde non pu6 dubitarsi, se questi ullimi siaoo mai stall prodolti da  particolari paragouali, e perci6 Si rispondano punlualroente ad alcuoM t realiU w. P, n, c. X, vii. (a) a Verremo sponendo, dieegli, sin dove credlamo che giunga I'azione a dirella e necessaria del giudicio conoscitivo sulla formazione delle idee a universali  (P. II, e, X, vii)t parla degli universali, e non de ge* nerali. Digitized by Google '^7 Tolendo spiegare senza giadizio conoscilivo la generazione di quesli, come volendo spiegare quella degli universali: impcroc* che ue'generali, come clie sia, 1 uoiversalita non d inleramente esclusa, ma anzi in eui supposta. CAPITOLO XIX. THE ATTI HECESSARJ, SECONDO IL MAMIANI , A FOEMARB CLI UNIVER- SAL!. SI BS.VMIHA IL PRIMO , CUE E LA CONCEZIORE De' TERMINI PA- RAGO.NABILI. Or poniamo alia prova delPanalisi il suo discorso. Da prima egli pone questa proposizione: u Diciamo  tre sorte di atli concorrcre in questa n (ciod nella formazione delle idee universali) u continuamenle: la  concezione di termini particolari paragonabili.- il paragone u di quelli e Iastrazione dell'identico : il giudiuio della possibi-  lita dnna ripetizione infinita di esso idenlicio  (i). Poscia seguita: u Ora quanto al primo , ciod alia concezione dei termini ,  noi nel terzo Gapitolo (a) di questa seconda parte facemmo  osservare, che attendere ed avvertire semplicemente un par-  ticolare sensibile non dimanda per sd la forma compiuta ed u universale dellatto conoscilivo , quale d praticato presente-  mente  (3). Accioccbd queste parole avessero la convenevole chiarezza c precisione IllosoGca, dovrebbe il C. M. avere spiegato assai bene, in che differisca la forma compiuta e universale dell'atto conosci- tivo, dallaltra che suppone essere non compiuta e non uni- versale: dovrebbe pure dichiararsi un posu quella particella, per se, che intramette alia sua proposizione^ perocchd ella sup- porrebbe che per accidente almeno, se non per sd, la forma com- piuta fosse necessaria. Ma di questo ho toccato altrove. Re- chiamoci piu tosto al luogo dov'ei ci rimanda, cercando ivi le ragioni che adduce a provare che Poperazione AeW'altendere e dellav'iwrtire un particolare sensibile non ha bisogno della forma compiuta delPatto conoscilivo. (i) P. II, c. X, VII. (a) Vo1i;a dire nel quarto. (3) Ivl. Digitized by Google 1 58 Convien prinia vederc la coerenza fra la proposta e la di* mostrazione. La proposta era di rercare  fin dove gianga I'a-  zione diretta e necessaria (i) del giadizio conoscitivo . La dimostrazione poi parla dell  atto conoscitivo  , e afierma che non si esige questo nella sna forma compiuta. Pare adnn- que che  il giudizio e Iatto conoscitivo  sia il medesimo. Ma recandoci noi al luogo a cui ci rimette, troviamo tattal- tro : il giudizio conoscitivo non & che una parte dellatto co* noscitivo, la prima parte di questo: odasi il luogo:  Tre fenomeni si distinguono principalmente nel nostro  atto di conoscere. II primo i che noi afiermiamo Ioggetto  cui s'indirizza Iattiviti del nostro animo, e cosl formiamo u it giudizio conoscitivo per cui si afierma tale cosa di tale u altra  (:). CAPITOLO XX. CONTinVSZIONE; fe FALSO CHE LA CONCEZtONE DB TEHMIHI FAEAGONAaiLI HOH ESICA CH CICDIZIO. Intanto in questo luogo si dice almeno assai netto, che cosa sia il giudizio conoscitivo: egli 6  un afierraare tale cosa di tale altra . Riteniam bene questa definizione, perocch^ ella esprime Ies- senza del giudizio conoscitivo , che non gli pu6 mancar mai. Quando anco vi avesse quella forma non compiuta e misteriosa del giudizio, chegli vien gittando improvvisamente fra mezzo alle sue parole, come il pomo della discordia, senza dirci per6 in che essa cousista, anzi dichiarandola inesplicabile^ quando, dissi, quellessere meulale, sconosciuto alle logiche de nostri bnoni padri, snssistesse veramente^ egli o non sarebbe giudi* zio, o sarebbe u un afiermare tale cosa di tale altra  ^ peroc* chi fra Iafiermare e il non affermare non ci ha mezzo di sorta alcuna. (i) E qual i Iazione indircita del giudizio? Convieue spiegarsi, allri- menli si cainmioa nel bujo. (3) p. II, c. rv, V. ' Digitized by Google Clie se noi vogliamo raccogliere ancora piu chiaramente la mrnte del N. A. intorno allessenza del giudizio, coDsideriamo elie dice in altri luoghi , e ne troveremo di molti dove cgli fa consistere nettamentc il giudizio nelVe^ermare che ana cosa sia (i). Premeasa questa chiara definizione del giudizio , vcggiamo cbe prova arreca a dimostrare quanto promise, cio6 che a alia concezione de termini particolari paragonabili non fa bisogno il giudizio conoscitivo  . Dice, ecco la prova, che non fa bisogno questo giudizio a concepire i termini particolari, percb^ esso non fa bisogno ad atiendere e ad awertin , come lia gia dimostrato altrove. In ehe luogo? Eccolo: reco tutte intere le sue parole: u Per quello che sappartiene alia facolti di attendere, noi X diciamo che I'azione sua antecede di forza il giudicio cono> u scitivo, imperocch^ innanzi di affermare che un oggetto sus-  siste, bisogna avvertirlo piu o meno distintamente  (a). Qui si parla, egli b chiaro, di un attenzione che non ha ancor raggiunto il suo scopo^ perocch^ non & arrivata ancora u ad affermare che un oggetto sussista  . Convien dire pari> nieiite, che Iavvertire, di cui pure parla il G. M., sia un si- Donimo di quell' atto incipiente d'attendere che ci descrive senza couclusione alcuna^ perocch6 egli supponc, che con tutta I'avvertenza data all'oggetto, lo spirito nostro non sia giunto |a-ru ad accorgersi ch'egli sussista^ conciossiachi Paccorgerci cbe uu oggetto sussiste, b un affermare internamente la sua (i) P. II, c. II, ii;  c. rV, VI. (a) Seguiuno queste litre pirole, cbe tnlascio oel teslo perchi pen rsc- cliiuiiono prova alcuna, roa cbe pongo ip nola, acciocclii forse non mi si faccia rlchlamo come di uiia inredclla a tacerle:  Lallo poi di avverlire  e di alietidere serabra a noi laoto semplice e ncl suo primo molo cosi in- dipendcntc da qualunquc nozione, oltre 1* oggetto suo immedialo, che w aflertnare il cootrario e sotloporre quell atto alia direzione di qualche > idea aiiteriore ci semhra di menie iiiibevula d iiitempeslivo platoiiicisino. P. II, c IV, VI. Tutto il nerbo di questa alTermaziope giacc, come ognuo vede, in uu Cl SEMRRA. Basta dunque opporgli un aliro Cl SEMBRA, e la forza riman elisa e aonientata. E per sopra piu, le ragiopi del nostro  ci sembra  ogoup puu vederle pel testo. i6o sussislenza, e fino a tanto che non abblamo detto dentro di noi che sussiste, egli noo e ancora da noi percepilo, o pieaa- uiente avvertito. Gi6 posto, io osaervo, che ella h pare una grande impro* prieta di parlare il dire che  noi avvertiamo un oggetlo  , intendendo, che noi volgiamo a lui IaUenzione nostra, con un movimento di attenzione che i ancora nel suo cominciare , non bastevole a fare! accorli deH'oggetto: perocchi nel comun parlare , avvertire un oggetto , i quanto accorgerci della sussi- atenza deU'oggetto , e nellaccorgerci di sua sussistenza, ap> punto Yaffermiamo } nel che sta, secondo il Mamiani, il giudi* zio conoscitivo. Ma lasciando Vawertire, che i al tutto impropriamente nsato, e parlando AtAYaUendere; anchio credo, che si possa mental- inente distinguere quel priuio volgersi dell' attenzione intellet- tiva ad una sensazione, da queHelTetto ch'ella poscia conse* gue, il quale k la percezione dell oggetto: quello i il prin- cipio dellattenzione, questo rYh il fine: quel principio  an- tecedente al gindizio conoscitivo; ma questo fine riposa e si compie nel gindizio stesso conoscitivo, netlaffermazione di un ente, la quale affermazione h appunto la percezione di lui. Ora ci6 che si cercava non era mica se noi potevamo at- tendere senza giudizio conoscitivo : questo si sarehbe potato in qualche modo difenderc, restringendoci a parlare di un atten- zione iiicipiente, e non ancora completa: volevasi ansi provare, che noi senza gindizio conoscitivo possiamo concepii'o i termini particolari paragonabili. Parlavasi adunque di un attenzione finita, di un attenzione , che doveva ottenere il suo ultimo ef- fetto, la concezione de termini: lo spirito nostro adunque do- vea accorgersi, in conseguenza duna si fatta attenzione, che gli oggetti sussistevano; dovea dirlo a si stesso, che sussiste- vano : e il dire o I'affermare a si stesso la sussistenza di quei termini, i un buono c be'lo giudizio conoscitivo, secondo la definizione recataci dal nostro stesso egregio G. M. (t). Dun- (i) Quando al N. A. i bisogao, dice il coatrario. E non i sua quesla senlenza, che  cbi osicrva gliidlra >i? Osscrviire soniplicctnculc e ancor ineno di avvertire un oggetto, che e IelTelto ilcH'osservare; e pure in tin luogu vuolc, cUc Iavverlirc sia scuza giudizio; c iu uu allro dice assoluta. Digitized by Google i6i que non si possono pur concepire i termini parlicolari da pa> ragonarsi, senza un giudizio. CAPITOLO XXI. comtimdazionb : l urroizioiiE dea. o. m. esice oh giooizio, E DEU.E IDEE FRECEOENTl. Ma pria di passare ad esaminare il secondo de' tre alii, che a sentenza del N. A. occorrono alia formazione degU univer* tali ( I ) ^ mi si permetla di volgere qui nno sguardo all' Itletso primo fondamento di tutla la doUrina del libro , che da ma> leria alle noslre otservazioni. Queslo fondamento, in cui tulle le sentenze del N. A. ai erigono, h in quella ch'egli chiama  intuizione immediata , la quale essendo il primo alto onde parle il Mamiani, do* vrebbe coincidere, almeno in parte, colla concezione de' ler* mini paragonabili , dal C. M. dichiarata il primo de Ire atti co quali perveniamo alle astrazioni.  ella vcramente qaesta intuizione immediata, onde prendon ie mosse i ragionari del N. A. , il primo principio del vero uroano, e del cerlo? Se ne riprenda la defiaizione;  Chiamiamo intuizione la vista iotelleltuale delloggetio X pensalo, astraendolo da qualunque riferimenlo a sostanza X e guardato nella sua enlila fenomenica  (a)^ ovvero: x Iatto X di nostra menle, il quale conosce le proprie idee e le atti* X ncnze loro reciproche  (3). Or nella prima di queste due dcGiiizioni , egli pare cbe Iia- tuizione suppunga d innanzi da se roggello pensatu, e delU astrazioni fatte su questo oggelto. Nella seconda poi chiara- mcnte si pongono le idee belle e formate, c 1 intuizione non mcole, che m chi otierva gipdica . Quests ultima Koteusa i iiel tuo libra al bum. V del c. VIII, P. II. (i) Vedi addieiro. Cap. XIX di queslo bbro. (a) P. II, r. I, IV. (3) P. II, c. Ill, 1. Hosmini, Jl Rinnovamcnlo. a i Digitized by Google i6i le forma, ma solo le conosce, e conosce pure le loro atlinenze reciproche. II G. M. movendo ogni suo ragionare dall' intiiizione immc* diata nou s' innalza adunque a cercare quali cose a questa precedauo , quali sieoo le condizioni che rendano possibile 1' in- tuizione medesiroa. Egli ha ragioue, in tal senso, di dire chegl' trasalta la questione dell'origine delle idee, perchi lo fa ve- ramente^ ma egli non avrebbe dovuto poi tornare mai piu su questa questione, avendone gia perduto ogni diritto: perocchi la questione dell'origine i al di li dalle sue ricercbe; comin* ciando il viaggio dall'intuizione, non pu6 egli pin giungere per via retta sul territorio dell'origine, quand'anche viaggiasse tutto il cielo filoso6co^ perocchi il piu eminente punto da cui discende , 6 inolto al di sotto della regione in cui si trova la discussione sull'origine delle nostre cognizioni. Tale questione si dovrebbe porre cosi:  I'intuizione sup* pone ella nessun' idea precedente ? Egli all'incontro assume gi4 per indubitabile, che tutto dall'intuizione cominci: 1' in* tuizione i veramente il suo postulato. Ora avendo accordato a si stesso un tanto postulato, qual maraviglia, che in esso trovi tutto ci6 che brama? Nell' intuizione egli trova ula facolta di sentire distintamentc X non una sola idea, ma pih, non sempre Puna dopo I'allra, u ma I'una insieme con I'altra ad un tempo^  la virtu di  astrarre, di comparare e di giudicare^  I'esercizio della  nostra spontaneita, ecc.  (i): in somma egli ha per bella e spiegata ogni operazione dcllo spirito : la sua spiegazione sta tutta nel supporre, che gli sia dato per primo principio quel grande atto dintuire, che, come generalissimo, tutti gli altri racchiude. In somma debbo dire di lui , quello che ho gia detto di Locke : egli parte dal fatto , che 1' nomo ha una potcnza di pensarc, senza attendere che tutta la questione Glosofica consi- ste a determinare , se questa potenza sia possibile, senza qual- che lume da essa posseduto, col quale ella operi (a). Che la (i) P. II, c. IV. (a) V. il K Frammenlo di IcUera sulla Classificazlone de' sislemi filoso- lici ecc.  negli OputcoU filoiofici, Milauo i8aS, vol. II. Digitized by Google i63 filosofia danqne t!a ancora al tempo di Locke? chella uon sia uscita ancora di qaella povera fanciulleeza? CAPITOLO XXU. LA PERCBZtOSE E AHTKMORE ALL' UITUIZIOHE DEL C. M. ALLA VEBCEZIOSE k AtITBRIORB l' IDEA DELl BASERE , (ECOHDO IL XAMIAHI. Laonde gli oggetti del pensiero sono gik suppoati dal N. A. Egli non s'avrede , che innanzi di contemplare gli oggetti for- mati in noi, v'ha un primo atto che li forma nel nostro *pi- rito , e che questu i la percezione. Se egli avesse tolto ad esaminare questo atto del percepire le cose, precedente a quello A'intuire le idee, si sarebbe av- veduto, ch'esso k il gindizio, onde gli oggetti da prima si af- fermano per oggetti, o, che i il medesimo, per enti (i)^ e che questo gindizio ha bisogno, per farsi, di unidea precedente, cioi deir essere ideale o universale. E di vero, i egli possibile paragonare due oggetti, senza saper prima chessi sono? e il sapere che sono, non quanto un affermare a noi che sono? e I'affermare a noi che sono, non ^ il gindizio conoscitivo, secondo la definiziope del N. A.? e il gindizio conoscitivo, non esige, giusta lo stesso A. N., un universale precedente? Non solo il N. A. insegna, che il gindizio conoscitivo ha bisogno di un universale, ma ben anco accorda chegli ha bisogno del piu astratto di tutti, che, a sua detta, i I'essere. E percbi questa astrazione, la massima di tutte, non si pu6 fare, secondo lui, senza I'uso di segni, egli insegna di piu, che al gindizio conoscitivo debbono preceder de segni. 11 possiamo noi (i) Fra i lesti di vtrj lilosofi italiani, che il N. A. pone in testa di ogni capilolo, a moslrare chegli s accorda colla filosofia antica italiana, vha pur questo del Campanella  La percezione delle cose i un giudicio  {Univert. Philos. P. II, lib. VI, c. iz). Tale senlensa avrebbe poluto dar moko lume al C. M., se ci avesse atteso, Egli la adduce in priocipio del c. V della II Parte della sua opera. Digitized by Google 1 64 avcrc piu mansueto e benigno? Le sue parole ci danno assai piu che non vogliamo , peroccbi elte dicono cosi : u Non si sa comprcndere in qual guisa potremmo noi com- u porre ana mentale proposizione, e dire per es. a noi stessi, u la tal cosa ovvero noi siaroo, senza di gi4 possedere I'uso u di certi segni , che faiinosi ajnto alle somme astrazioni : e H per vero, Iastrazione dellessere, la quale intervime in cia- tt scuna proposizione, i la massima di tutte I'altre  (i). Una proposizione mentale, e iin giudizio, i il medesimo. In ogni proposizione mentale interriene la massima astrazione, quella dell'essere: dnnque questa massima astrazione interviene in ogni giudizio. Ma il giudizio i, secondo il G. M., il primo fenomeno dell'aHo conoscitivo. Dnnque 1' atto conoscitivo lino nel suo principio, nel suo primo fenomeno, ha bisogno dcl- I'idea astrattissima di tutte, dellessere. Che cosa possiamu noi dire di pih? che cosa rogliam noi altro? CAPITOLO XXIII. AL FARAGONE De TERMINI E ANTERIORB l IDEA DELlbSSESE. Continuiamo : il giudizio 6 alTermare a noi stessi che una cosa i. Noi non possiarao paragonare due cose per trovare in esse le note simili, se non abbiamo prima aflerroato a noi stessi che quelle due cose sono. Dunque I'atto del paragonare le cose richiede anchesso precedeutemente il giudizio, die si fa coU Iidea dellessere universale. Ma il  paragonare le cose, e u astrarre da esse Iidentico  , i il secondo de' tre atti anno* verati dal C. M. necessarj alia forinazione degli universali (a). Dunque anche il secondo atto che fa la mente in furmando gli universali, suppone prima di tulto nella mente formata I' idea dellessere. Gio tulto couscguenleiuente alle premesse del N. A. (i) P. ir, c. IV, V. (a) P. II, C-. X, VII. Digitized by Google CAPITOI.O XXIV. iG5 l'iDBA DBLleSSEHE HON E ON PRODOTTO DELl ASTHAZIOHB , COME WOLE IL MAMIAHI. FALSA DOTTRIHA CUB MI ATTRIBDISCE. Ma non posso ancora enlrare a parlar di proposito del se- condo atto dichiarato necessario dal Mamiani alia formazione degli universal!, cloi del paragone delle idee, e delPastrazione del simile ^ perocchi giova ck io mi fermi a considerare qnel- I'assetire, che cgli fa nel passo citato, esser necessarj alia for* raazione deU'astrattissiraa delle idee, de'segni come ajuto delle astrazioni (i). Anckio ho detto che le astrazioni far non si possono dal nostro spirito, senza Iajuto di vocabnli o di segni (a). Ma diibito forte, se il Mamiani abbia colto il iiiio pensiero circa la natura delle astrazioni. Egli mi attribuisce il fare dell idea dellcsscre Iultimo ter- mine dellastrazione (3). Qiiesto i vero, ma in altro senso dal sno. Pretende egli , che collastrazlone si form! quella idea, lo comincio dallo stabilire, che Iessere i intuito da noi natural- mente: poi dico, che non riflettiamo di intuirlo se non solo assai tardi, cioi dopo che ci siamo bene esercilati nellastrarre, e che siamo vennti , per cosl dire , allultima delle operazioni che possa fare la facolta astrattiva. Ora k a sapersi, chc nessuna idea, secondo il nostro modo di vedere, si forma in noi col* 1 astrazione : coll astrazione, che e una funzione della ri/les- sione , non si fa che separare Iidea gia esistente, dalle altre notizie e sensazioni , fra le quali i avvolta e coiifiisa nellanimo nostro, considerandola nella sua primiliva purila e sinceriti. Ella i in noi: coll astrazione noi la troviamo in noi, la co> nosciamo, flssiamo in essa gli sguardi del nostro intelletto: insomma ella per Iastrazione diventa idonea di essere oggetto alle noslre meditazioni GlosoGche, quando da prima si stava (i) Egli li chiama u astralli *i quest! segtii : ma i srgni non sono aslralli. Qiirsla i iin' impropricii di parlare. (o) N. Snfigio Set. V, c. IV, arl. iv- (3) P. Il, c, XI, 11. 'iQitized by Google 1 66 pure nello spirito nostro, ma senza tirare a ni molto ni poco la nostra osservazione. E quante cose passano o dimorano nel nostro spirito inosserrate? t Quando io nel corso di quest opera  , cosi si legge nel N. Saggio, u chiamo Iidea dellessere in universale astrattissi* u ma, non intendo per6 che sia dalla operazione dellastrarre  prodotta, ma solo chella sia per sua natura astratta e di>  visa da tulti gli esseri sussistenti  (i). Ora io dissi ancora, che i vocaboli sono necessarj a formsne le astrazioni , ed anche qnella dell essere ; ma unicamente per questo, che senza i vocaboli, la mente non sarebbe da prima mossa e tirata acontemplare il simile, disunendolo dal dissimile. So , che il Mamiani dona alia mente un movimento spontaneo a tali operazioni , ma questo movimento dee avere una cagioue; altrimenti porrebbesi un fatto inesplicabile , un fatto senza ra* gion sufHciente. Or bene: io ho creduto di dimostrare, che questa cagione, che muove Ianimo e il Gssa nel simile, nun puA esser altro che il segno, il quale, posto in certe circo- stanze, fa IufGcio di vicario della cosa. Ma ci verdt forse bi- sogno di tornare sn di questa materia altra volta. CAPITOLO XXV. CONTinUAZIOME. Intanlo avendoci conceduto il Mamiani, che in ogni propO' sizione mentale, in ogni giudizio (a) dee intervenire la mas- sima delle astrazioni: cioi 1 essere ideale^ ed avendo noi pro- vato, che i termini del paragone non si possono percepire (i) Set. VII, c. VI. (3) Secondo il C. M,  Iuna idea dall altra  (P. II, c. IV, ii). Noi po! abblamo mosirato, che non faoDO bisogno sempre due idee perchi ci sia giudicio, baslando che ci abbiano due termiui , I uoo de quali pud essere uo senlimenlo : I'altro poi dee essere un'idca. ^cdi Nuovo Saggio Sez. Ill, e. Ill, art. VIII, rultinia nola di questo ariicolo). II M. adunque fa piu complicata che noi non fac- ciamo I operazione del giudizio, e pei6 taato piCi bisogoosa di esser prcce- duta da qualche idea universale. Digitized by Google 1 67 tenza un giudizio^ conzeguita, die nd primo atlo de'tre ri- cbiesti dal Mamiani alia formazione degli universali, cioi nella coocezione degli oggcUi da paragonarsi , i esiga 1' idea dell'es- sere gi& formata. Egli non ha mica atteso, che percepire gli oggelti parago- nabili, eqnivale a formare a noi gli oggetli^ perocch^ gli og> getli non sono ancora al nostro spirito, fino a Unto ch^egli non li abbia percepiti, e aOermati. Ora, se egli accorda, seoza cootroversia alcuna, che noi non possiamo o dire a noi stessi la Ul cosa i,  senza   Iastrazione delPessere  che i la massima di tulte Pal- m tre  (1)', in obe maniera poi si fa dnnqne Iastrazione del* Iessere? in che modo si acquisU quest' idea astraltissima ? Egli toroa qui al paragone , ricorre di nuovo all' osCruzKine dell'identico: parlando appunto della generazione di quesU terriblle idea , dice essere  aperto e notorio non potere le idee  di medesimezza, ovvero di diilerenza, essere preseuti e formate  nel nostro spirito inuanzi dell'atto di paragone, onde sor- B gono n (a)^ e censurandomi per aver io riiiuUto alia rifles- sione lorkiana il potere di formare I'idea dell' essere, dice: B Quantnnque sia vero che la riflessione lockiana non puo B agginngere ni scemare la materia prima dei nostri concepi- B menti , pure non le si pu6 disdire la facoIU del mettere B in paragone piu termini, e con quesU I'altra d'ingeuerare B le idee di attioenze, e di cogliere 1' identico per mezzo il B vario, cost come il vario per mezzo 1 identico  (3). Si vede da questi luogbi, e da piu altri del suo libro, ch'egli parte come da nn dato certo, cbe I'idea dellessere sia un'idea di medesimezza , e che tutte le idee di medesimezza si formino dal paragone. Dove ci6 fosse certo, e dove questo appunto non fosse ci6 cbe hassi a provare, ogui cootroversia iotoroo alia genesi di questa idea sarebbe cessaU. AH' incontro in provar questo punto sta il nodo , a questo si riduce tutto il problema ^ di nuOvo non iatese adunque il Mamiani quale fosse il vero stato della queslione iutorno I'o- rigine delle idee. (1) P. Il, c, IV, V. W P. II, c. XI, HI. (3) Ivi IV. Digitized by Google i6 Trova egli nalnralissimo ed cvideute, che Tidea dell'cssere, come tuUe TaUrc aslralle, si formi mediante il [nragone de' termini. Ma cgli non s'accorge, che dovendo i termini esser prima dallo spirito concepiti , acciocchi poi si possano para- gonare, deesi prima spiegare come quest! termini si cencepi- scono. Or si dimostra , che questi termini non possono conce- pirsi dallo spirito , se non a condizione di afifermarli a sd stes- so^ e che IafTermarli a sd stesso, d un dire  la tal eosa d  ^ al che il C. M. stesso confessa esigersi Iideii dell' easeie. Egli adunque cozza seco medesimo, e distrugge con una mano cid che fabbrica collaltra. f Quando adunqne il Mamiani rifiuta I'argomento ch io trag- go, a provare che Iidea dell'esserc non d fattura nostra, dal* 1 esser qnesta 1 ultima delle aslrazioni^ egli non m' intended perocchd intendendomi , egli vedrubbe , che la mia prova d fon> data su quegli stessi principj che si trovano sparsi qua e cold nel suo libro. ,, Togliendo io a nolomizzare per cosl dire un idea concrc- tata, per esempio, come ho fatlo nel JV. Saggio, I' idea di Mau- rizio mio amico, il ragionamenlo che io instituisco d questo; Tale idea e complessa , ciod risultante di multe parli. Se ciu non fosse, io non la polrei analizzare^ perocchd I'analisi non crra le parti in un concetto , ma ve le trova. Analizziamo, ciod scumponiamo quella idea nelle sue parti. Da prima .separiamo da lei la sussistenza : non d piii la notizia di nil amico reale, ma di un amico merameute possibile, seb- bene di quella medesinia statura, di quelle laltezze , di quel colore di prima, ccc.^ con ci6 Iidea si d appurata, non d piii concretata e mista, ma sincera. Leviamo da quelle forme umane ogni memoria di amicizia: rimane il tipo di un uo mo. Separiamo gli accident!, che (iuiscono quest uomo: riman Iuomo iu ispe> cie astratta. Non pensiamo piii alia sua iiitelligenza , ma solo allanimalita : resta nella mente Ianimaie, che d un genere a cu! 1 uomo come specie apparteneva. Seguitiamo a scarnarc U nostro pensiero dellanimale non fissandolo piii suU'aniqialita , ma sulla materia bruta, che d parte dell'animalita^ pensiamo tnttavia un corpo possibile. Restringendo ancora la vista del- r intendiiiienlo non veggo piii lu corporeila , ma Ientita in Digitized by Google % genere. II mio pensiero pensa noiidlineno ancora qualchu cosa, una cosa clie ha pcnsato sempre , un elementu che ha trovato neir idea di Maurizio e in tutte Ialtre idee: dou i U(o ag> giunto nulla all oggelto del mio pensiero^ ma quest oggetio s' & tnttasia diminuito, e scarnato. Lidea di Maurizio era diin- que sommamente coniplessa^ io vedeva complessivamente tanle cose in quclla: la ho scomposta, lino a restarmi presenle al- 1inlendimento un solo elemento semplicissimo di lei, e questo i I'enle. Posso io levar quest ultimo eleraento dal pensiero? Levandolo, non ho piii nulla. Che dunque conchiudo? Che per pensare a qualche cosa , il mio spirito abbisogna di quel primo elemento col quale s'inizia il pensare: questo cle- mento e quello che si trnva coll astrazione, quello che rimane nella mente Iultimo dopo aver da lei tolti tutti gli altri, e Iente ideale i appunto desso. Simiglianle conclusione i ella tanto aliena dal C. M.? No, certo: perocchi equivale a quanto dice il Mamiani appnnto, che u la massima astrazione che  quella dcllessere interviene in ogni posizione mentalen, e che quell idea dell'essere u porge u Ielemento precipuo del giudicio conoscitivo , cioi il ver- u bo a (i): qnindi non si da percezione di oggetti paragona* bili senza di lei. Lidea dellessere non pu6 dunque formarsi col paragone, ma  qnella sola che precede e rende possibile ogni paragone. Or dopo di cio dicasi, che cosa possa valere Ialtra afTer- mazione pure del N. A., eolla quale pretende che quest idea dellessere .sia figlia della riflessione lockiana , perocchS  nou u si pu6 disdire a questa la facolta del mettere in paragone  pin termini . No certamente, non si pu6 disdirle ciu', ma si puA ben disdirle di farlo senza Iidea dellessere^ si pni^ ben dire che la riflessione lockiana ^ posteriore a quest idea*, e che perA , sebbene possa con questa idea far paragone delle cose gia percepite, non pu6 perA dare origine allidea stessa che le A madre, o certo le A necessario istrumento di suo opera re. (OP. II, c. XI, II. Rosmimi, Il Rinnovamenlo. CAPITOLO XXVI. 1 70 IL C. M. MON COMOSCE LA MATURA DELl'iOEA DELl'eSSERE. Ma il N. A. si adombra assai di quella proposiiione, che  la u idea dell'essere e comune a tutte le idee singolari, io guisa u ch elle 8000 scmplici maniere e determinaziooi di lei  ( i ). Teme egli qoesta proposiziooe per gli assurdi che indi gli sembrano seatorire. Anche qui pero il debbo io rivocare entro i limiti del giu- sto metodo filosoGco^ il quale prescrive, che traltandosi di falti , non si cerchi come debbono essere , ma a dirittura si rilevi e certifichi come sooo,.se ne studi la natura e le leggi. Hassi a sapere, se in ogni oggetto delle nostre idee noi veg- giamo si o no Iessere? mano allosservasione , mano all'analisi) senza tanti raziocinj*, osservando e scomponendo, noi vedremo agevolmente, che oggetto dell' idea ed essere i un bl sinonimo. Ci6 non pertanto udiamo in che consistano i timori del N. A.  Questo, se non erriamo, e un vero trasmotamentu del*  1' idea in sostanza , ed 6 un ragionare della prima nel modo u e nei termini che i lecito fare soltanto della seconda  (a). Da vero , che se ci6 fosse , saremmo rovesciati in un dannoso errore ! Ma di questa sua deduzione egli non da prova. In quella vece si allarga a mostrare , che , posto per vero che I'idea si cangi in una sostanza, noi siamo nell' assurdo. ai Le idee sono tutte quante una pura modIGcazione del u nostro principio cogitativo, e non avvi fra loro uua idea  u parano altrimenti ira loro , die lasciandosi distinguere : e (I) P. II, c. XI, II. (3) Ivi. (3) P. II, c. XI, II. Digitized by Google '7' a in tal snpposto egli non sarebbe loro sostegno comune: Nel  secondo caso, cioA che non potMse farsi distingaere dall'a]- u tre idee, in qual modo verrebbe egli pensato, disllnto, e  conosciuto da noi  (i)? Ma a che tanto scialacquo dingegno? a provare die Tidea delPesitere non h una sostanza! Per rispondere a ciu, basta nna sola parola : niuno ha mai sognato una simiglievole ga gliofleria. La sostanza dee avere, acciocchi sia tale, quello che io cbiamo realita o sussistenza^ ora I'idea (considerata nel suo oggetto) non i che la possibility, o sia I' iniziamenlo del realu e del snssistente^ di guisa che, nel Saggio , cssere ideale (idea) ed essere reale (cosa) sono sempre opposti fra loro come principio e fine. Egli i impossible aduuque il confondere I'idea colla sostanza. Ma che perciu ? se I'idea dell' essere non i sostanza, sara per questo meno vero che ella si trovi in tulte I'altre idee? Per iiegarlo, converrebbe poter dimostrare, cbe u se I'idea dell'essere e in tutte I'altre idee, o piii tosto, se tutte I'al' tre idee sono nell'idea dell'essere, ciu dee trar seco per con- seguenza inevitabile, che fra quella idea prima e le altre passi quel nesso che i fra la sostanza e gli accident!  : ne ciu si pu6 dimostrare, se non se dimostrando, che tutti i nessi possibili non sono se non quel solo, di sostanza, e di acci- dente. Ora, con buona licenza, io mi perraetto osservare, che il provare questo, i pur un troppo malagevole assunto. Pe> rocchi non si potrebhe venirne a capo , die in due soli modi: o col conoscere a pieno la natura di tutti gli enti tanto real! come possibili , e loro relazioni , il che per avventura non e dato allnomo; o col trovare una cotale argomeiitazione, la quale ineliiltabilmente provasse , esser contradditorio che fra gli esseri dell' universo v' abbia qnalche altra unione fuori di quella della sostanza e dell'accidente; la qual via di diroo* strare, non vorra, io penso, esser meno ardua dell'altra^ pe- rocchi a dimostrare che tutti gli altri modi possibili di union! sieno intrinsccamente npngnanti, converrebbe conoscerli, e non (1) Ivi. Digitizetfby Google 172 potcndo essi cader tutt! nella mente nniana, qaesta aon po> tra Riostrarne 1 impossibilita. Ma ci6 cbe piu mi reca stupore, si i il vedere , come il G. M. non tenta ni pare una simi- gliante dimostrazione, ma in quella vece ci da per certa una proposizione di tanto peso, che  il dicliiarare 1 idea delles- sere comune a tutte I'altre idee, k a dirittura un tramutarla in sostanza  , non iscorgendo per avventura egli altro modo onde quell idea possa trovarsi nel seno per cosi dire dellaltre, o Ialtre nel seno di lei, senza che una sia sostanza, e Ialtre accidenti. lo ho meco stesso in piii luoghi notato , leggendo il libro del Rtnnovamonto , come Iautore, parlando dogmaticamente , sentenzj, non avervi piu nella natura dellc cose, che certi cotali nessi , qnali si presenlano al suo limitato vedere. A ragion desenipio, in un luogo egli dice:  Ogni natura di u ncsso risolvesi in queste tre specie: o egli cade in mezzo  alle somiglianze ed alle dissomiglianze, o guarda il legame u della causalita, o in fine guarda la semplice inerenza delle u qnalita nel soggetto, e delle parti nel tutto  (i). Ma come prova egli , che non possa csservi qualche altra specie di nesso, oltre a queste tre? Egli Iafierma come cosa certa: di prove, n una parola. E che cosa son dunque i pregiudizj, sc non certe proposizioni che ammettiam senza prova , e che rice- viam nella mente o perchd le abbiamo udite da altri, o per- ch^ le concepiarao gratuitamente da noi medesimi ? Intanto su queste proposizioni , delle quali il filosofo non si cura di rendersi con to , egli ragiona, fabbrica: e se quelle proposi* zioni sono false ? povera la sna fabbrica ! sarebbe un bel ca- stello in aria (a). Non e dunque buon metodo il sottoporre la natura a no- stri pregiudizj, e restringerla alle nostre limitate vedute. Assai sovente ella si burla della presunzione e temerita nostra; e ci (i) P. I, c. XII, VII. (a) E Iroppo lungo  dimoslrarc quaolc conseguenze il M. prciciida csi- vare da un si faUo pregiudizio, die nou v'aljbiano iidle cose, se nun que cerli generi di nesso. Rirnetto i miei loUori a* luoghi seguenti delTopera del Mainiani; P. 1, c. XII, vii;  P. II, c. X, ii; c. XIII, vii; XVII, i. Digitized by Google 173 ia talora lo scherzo di tirarci nell incoerenza con noi stessi, a fine di punirci di tale temeritii: per es., dopo avere il C. M. ammesso per certo , che in natura non si danno che tre nessi fra le cose, i." di somiglianza , a. di sostanza, e 3. di causa ^ ecco come la natura stessa gli si mostra da un altro fianco, facendo che questi nessi diventin qnattro o cinque, aggiun- gendo n M. a tre primi 'quello delle parti col tutto , e delle conseguenze co principj (i), senza per6 avvedersi di quanto avea prescritto altrove, ciok che non potessero passare il nu- mero tre. Ma io ho qni in serbo uii' allra coserella. 11 G. M. parlando della relazione che il soggetto ha col predicalo ne varj giudizj della mente, non esita punto ad af- fermare, che quella relaztone u si risolve in connesso d'acci-  denle e sostanza  (a)! Di questo vieue la incredibile con- segnenza, che tutte le idee di soggetto ne' giudizj sieno so- staoze , e tutte le idee di attrihnti sieno accidenti ! ! La cosa parrii nuova , ma ella i pur tale (3). Dopo di ci6 , ^ dilEcile a spiegare come potesse nojare al G. M. il fare dell' idea del- I'essere una sostanza, e delle alire idee, degli acc'denti di quella. Ma io temo , che il lettore si lagni d' essere in tali filosofiche inezie piii a Inugo trattenulo.' > ' : PerA pill breve mi spaccerA?. delle altre parole del N. A. colle seguenti osservazioni. (i) Cut si dice Del libro del Sinnovamenlo , P. II, c. X, ii. (a) P. II, c. X, II. (5) Ecco le parole del C. M. h Non resteremo qiii Ji nolsre una quarts ('specie di relaziooe, la quale TOTTOcak si aisoiva in corrzsso dsccidskts  z soSTMizt, pure si conviene disliiigoerla e particolariztarla , come quella n che e rosMs costiiite dooiii rsHSisao, e sbbrsccia in $i lulte 1 altre  sorle di relazioiii, qunlora si faniio oggetio di coiioscenza >. E apparisce , che non si parla qui solo di quelle idee di soggetto, che sono idee di soslausa, ma di lutle le idee di soggetto iu generale; e acciocchi apparisca ciA via mrglio , odasi qiiello che seguita:  Colesla quaria specie verra  distinta e compress asssi facilmeule, se metleremo in ricordo, cbe couo-  soere vool dir giudicare, ciod distinguere ed affermare alcuu attributo  daicnn soggetto. Lsonde niuoa congiunzinne didee o di fatti pu& eS"  sere cooosciota da noi, fiochi non riceve innauzi la congiunzione inlel-  letluale  P. II, c. X, ii. Trattasi aduoque dun soggetto qualsiasi, che regga un predicato. Digitized by Google 74 I.* Egli k falso, die le idee tntte quanle nano una para niodiGcazione del nostro principio cogitativo. II principio cogU tatiro i il soggclto. e I idea i Ioggelto: fra soggelto ed oggelto v ha opposizione^ dnnque Iana non e non pu6 essere nna modlGcazione dell altro. Gognizione non t ha, se non a coiidizione, che Ioggetto sia cosa di versa ed opposta del soggetto. Bensl la sensazione ^ una modlGcazione del sog- getto senziente^ e per qucsto appunto ella non 6 oggetto, ella non i cognizione, ella i cieca. II N. A. adnnque attribui- sce alle idee le proprieta delle sensazloni : e confondendo quelle con quesle , s aduna colla schiera de sensisti. a* Se egli intende per a una idea cospicua  , una idea che sia una sostanza , i vero che non vha nella mente una idea-sostanza; come non vha uh pure nnidea-acddente^ pe- rocchi Iapplicare alle idee qnesli vocaboli e relazioni di so- stanza e di accidente, d un mettere le cose fuori di luogo: come chi dicesse che vha un suono che pesa dieci libbre, ed un altro che ne pesa cento. Allincontro il negare che vi sia una idea cospicua fra tutte Ialtre, che questa sia quella dell essere in universale; il negare, che questa sia lu piu uni- versale di tutte, e che le altre in lei si comprendano , non a quel modo che Iaccldente aderisce alia sostanza, ma in quel raodo proprio e parlicolare onde una idea meno universale sta nella piii universale (i), una specie nel genere, una con- seguenza nel principio; il negare cl6, i negare i fatli piii ma- nifest! di natura , i sostituire ad essi le proprie ipotesi, ed i proprj fallaci ragionamenti. 3. Lalternativa, che le altre idee, se fossero conlenute in quella dell essere, o dovrebbero distinguersi da quella o non distingnersi , e incompleta. Le altre idee si distlnguono, e in- (i) Qiiesto i an vero,  cui ci sbbhUiamo per luUo, involonlariameole , senzs accorgerci. Quando. a ragion desempio , il C. M. ci dice che m di-  mento precipuo del giudizio conoscitivo, cioi il 'verbo , e per6 essa antecede qualsiveglia giudizio: 3. Lidea dell essere non pu6 formarsi ne pure mediante alcuna afiermazione della mente, perocchi affermare, a detta del C. M., u un sinonimo di giudicare. Riman dunque obbligato il G. M. a darci la generazione del- Iidea dell essere, senza che in questa considerazione intervenga alcuna proposizione mentale, alcun giudizio, alcuna q^ermozibne. Or chi non vede, che il problems, legato a queste condi- zioni, i non poco dilBcile? In un passo che di sopra abbiamo allcgato del N. A., egli mantiene, che vha bisogno di segpi astratti, acciocchd la mente possa giungcre alle somme astrazioni, e fra esse quella Digitized by Google 77 ilell esseru dice la massima di tutte. Ora quest! segni , che egli cliiama impropriamenle astratti , sono essi dati all uma- nitii dal Creature? o pure ce li formiamo no! stessi? Non pare il Mamiani iuclinato alia prima sentcnza^ ma quando fosse, sarcbbe da chiedergli, come, non avendo noi 1 idea delles- sere , potessimo con de segni formarcela ^ ci6 che egli non isplega, ni noi crediamo che egli potesse spiegarci : con- riossiache ancbe il segno' non pu6 giovarci se non a condi- r.ioiie die il percepiamo, e noi possiamo percepire se non Iaf- fermiamo a iioi stessi, e non Iaffermiamo a noi stessi sen/.a 1 idea dell essere, che a delta del Mamiani i sempre la preei- pua parte del gludizio. Se pui si voglia che noi stessi ci forpiiam qnesti segni, cre- sce smisurataiiiente la difCcoIli. Imperocchi noi dobbiamo aver trovati e inventali anrhe quest! segni a quelle condizioni stesse che fur poste all iiivenzione dell' idea dell essere, cio^ senza cbe la mente formi alcuna mentale proposizione , senza che clla formi alcun giudizio, e che nulla affermi: giacch^ tali se- gni precedono Iidea dellessere, volendo noi con essi ottenerla, e senz'essa i impossibile, a delta del- Mamiani, ana proposizione mentale, nn giudizio, ana afTermazione. In che modo dunque, ci dica 1 A. N. con saa hnona pace, ana mente sapra inven- tare dei segni, e, secondo la sua frase, dei segni astratti, quando essa non sa aiicora affermar nulla, giudicar nulla, pro- nnnciar nulla internamente? Per inventar de segni, non i egli uopo almeno die li affermi ? Non e egli uopo che percepisca )a relazione di quest! segni colle cose segnate? C pu6 perce- pirsi una tale relazione senza che inlcrvenga m'nna proposizione mentale, die ponga mentalmente una tale relazione? in pcrce- pendo non si giudica? E prima di affermar tali segni, si dee trovarli, e prima di Irovarli si dee cercarli, e prima di cercarli si dee averne concepito il proponimento, il fine, Iusn. Or tiitte qtiesle cose, come le far& ella una mente che non sa giudicar nulla, n alTerniar nulla, ne dir nulla a si stessa , iii mede- siiuamente percepir nulla? Dove ce ne andiamo noi? Per qiiali av.volgiinenti ci perdiamo? Non ci qui ua paralogismo solo, ci perduiii il G. M., ce n lianno millanta. Rosmim, // Jtiimovaincnlo. Digitized by Coogle CAPITOLO XXVIII. CO.NTINUAZIO.NE. II petiodo del N. A., che ha mosse quesU: noslre osserva* zioni, contiene ancoca una piccola parola, che ce ne domanda dclle altre. Qaesta parola e Iepiteto di  massima  , dato all' astrazione dell' essere. Se 1 idea dell essere si trova per astrazione^ se priroa di trovarla, ci convien percorrere tutta la scale delle astrazioni, giacchd ella e 1' aslrazione massima di tutte ^ se d' allra parte quest idea dell essere intervienc, come dice il Mamiaoi, in ogui proposizione mentale, in ogni interiore nostra alTermazione^ convien dire per conseguenzay che passar si possa tutta la fila immense delle astrazioni 6no all ultima, senza pronnneiare un giudizio al mondo dentro di noi, senza fare una menoma alTer- inazione. Or ci6 gli riuscira troppo difiicile a persuadere a uo> mini, che sabbiano un poco del famoso senso comune, a cui il N. A. si frequentemente e solennemente appella. Che se lo sviluppo della mente umana va per gradi, e se alia mente ^ commesso di formarsi col proprio lavoro tutte le idee ^ egli si parrebbe assai manifesto , che I opera dell astrarre non potrebbe correr di prime giuuta all ultimo suo atto, tra- saltaudo gli intermedj tutti \ per6 sembrerebbe, che la mente cominciar dovesse dalle astrazioni minori, e via via alle mag- giori progredire , venire in ultimo alle somine, e che per giuugere alia massima di tutte non bastasse la vita dun uomo, ma con- venisse che Iuman genere in corpo vi si soJIetfasse assai tardi, dopo avervi travagliato piu e piii secoli. III vero, tale i la marcia che il sistema di molti filosofi sen- sisti prescrive necessariamente alia mente umana ; peroeche essi sono sempre solleciti di prescrivere rigorosameiile quello che essa dee fare, assai poco curandosi di cercare i{uello che vera- mente fa. Il N. A. dice pure, che la virlii ustrattiva procede nolle sejM- razioni sue per varj gradi, chegli descrive (), e che noi abbiarao (i) P, II, r. X, IV. Digitized by Google eaininati di sopra. Eil egli i certo, clie se dal prime gradino dell'astrazione dee pervenire fino in capo alia scala, ci vorra il suo tempo. Come chc sia, le nitime astrazioni , 1 nltima di tutu dee esser formaU, giiuU il Maroiani , prima che la fa> colti di giudicare cominci a muorersi, prima che una tola propotizione , ana sola afTermazioae eirahbia fatto ancora , prima ch'ella abbia aeqaitUto alcana conoscenza; perocch^  due parti ateaziali costitaiscono la conoscenza , sccondo il  Mamiani: I'atto del giudicare e dell' alTermare, e Ioggetto  giadicato e afTerraato  (i). Si soleva credere in antico. die la coltura intellettuale degli nomini e delle nation! si misurasse specialmente dal progresso della facolta di astrarre. Ma ora qui il N. A. ci assicura, che questa facolta giunge al massimo suo svilappo prima che I aomo abbia pure acquistato la minima co- noscenza, prima che sia uscito da uno state intellettuale che tarebbe non solo assai inferiore a qaello di qualunque tribk di selvaggi, ma molto prossimo a queilo degli orang-ouUng.  .  . . . CAPITOLO XXIX. CONTINUAZIOrrB : CINQCE ERRORI del MAMUm IKTORNO LE OPEHAZIONI DEL PARAGONARE E DELlaSTRARRE. E pure il C. M. s'i obbligato a dimostrar tutto questo! Consideriamo i snoi sforzi : considcriamo come si dibatte per venire a capo di persuaderci, che I'aslrarre non esige alcun glu- dizio conoscitivo. Prima di astrarre convien paragonare. Or egli fa passare per una sola maniera d'atti il paragonare u I' astrarre, dicendo che qnelli insieme presi sono la seconda sorle di attL necessarj alia formazione degli universali. Quanto al paragonare, noi abbiamo gia detto abbasUnza a far manifesto, se egli sia possibile senza Iidea dell'esscrc^ e abbiamo veduto, che non solo egli non e possibile, ma senza quell idea non i n^ pure possibile la concezlone de termini che dee precedere il paragone. Veniamo all' astrarre ^ ma prima udiamo il N. A. (i) P n, c. II, II. Digitized by Google 1 8o u Riguardo alP alto di comparare e dl astrarre notammo  uoi  , che Iranslatare la propria attenzione da on terraine u a un altro e da una qualila ad un'altra i nperazione che u non donianda di necessila la previdenza d'un qualche scopo u determinato , e con i:ii!) la universal nozione dellaHinenza u del mezzo al fine. Ma in tal modo di traslazione consiste X appunto il paragonare i singoli termini , e il porre mente a u qnello che in loro i comune, in disparte da ci6 che in loro u i Individuale i> (i). , Qui il Mamiani fa consistere tutta la operazione del parago- nare e deir astrarre unicamente nc' trapassi dell'attenzione da iin nggelto allaliro; e crede di provare, che non ci abbia bi- sogno di alciina idea universale, perchd quell' attenzione si tra- sferisca dun oggettu allaltro, movendosi ella per via dimpulsi islintivi, senza bisogno delle idee universali di mezzo e di fine. Ma basta egli qiiesto a provare, che si puo paragonare ed astrarre senza idee universali ? lo non posso accordare nessuna delle aifermazioni che contiene il brano che ho trascritto dal suo libro, ma sono costrctto di parer forse poco cortese ne- gandogliele tutte. Nego adunque, I .* Che paragonare ed astrarre sia una sola sorte di alii : a.* Che quando bene avess egli provalo, che a Irasporlare 1 alleiizione da un oggello all allro non si richiedesse 1 idea universale di fine e di mezzo, avesse provalo percic^, che quel trapasso far si polesse senza alcunaltra idea universale: 3.  Che in quel Irapasso. consisla la operazione del compa- rarc i lermini : 4.  Che molto nieno in quel semplice tra.sferimento di al- tenzione si compia quella dellaslrarre , assai diyersa, come dicemmo, da quella di comparare : 5. * Che basti un impulso fisico a -dirigere Ialtenzioqe ucl modo che 6 necessario, perch^ lo spicilo venga allc compara- zioni ed aslrazioni maggiori. Diamo prove di ciascuua di ,queste noslre negazioni. I . (i) P. II, c. X, VII. Digitized by Google CAPITOLO XXX. I 8 I COHTI.'tOAZIOME. i. u Parngonare ed astrarre non e una sorte sola di atli n. Confondere due manlere di atti cosi distinti, e un errore simile a quello che ho notato piu sopra , dove il M. confon- deva V attenzione col giudizio. E questo raescolamento di piii potenze in una, sarebbe stalo in qualche modo perdonablle mezzo sccolo addictro, quando era invaUa I'ambizione di glurare nelle parole di Condillac. Queslo autore, lodevole per aver commendato T uso delP ana- lisi, Iapplico ben poco  discemere le varie potenze dello spi- rito. Ma or, dopo taiilo che detto su qiiesto difetto cnn- dilacchiano (i), dopo che ({uul sistema i caduto, non si dovea aspcttare dal M. ringiovanito lo ste.sso errore. Ma che il paragonet non sia IWtrazib/ie, sara facile a vederlo, considerando, che ulTicio dell'astrazione e quello di raccorre il simile dentro agir oggetti conccpiti, e questo simile tultavia non si puA talora discernere, ne anco per moltl e inolti para- gon!. Quante volte avviene. che nies.se due cose a confrooto, allri non virne a capo di conchiu'dere se elle sicno della mede- slma specie, o non sleno? Questo dimostra, che talora il paragone che noi facclamo di due o piii cose, non giunge ad oUenere qnello efletto che col paragone si cerca ^ il paragone non ^ dunque che il mezzo, a cui i poi fine I'a.strazione che coglie la somiglianza : ora mezzo e fine sono cose lungamente diverse; tanto piu quando il fine non seguita a quello di nece.ssita, ma quello talora riman senza questo. E pure 1' esser giunli a scer- nere la somiglianza di due o piu cose , non ^ ancora avere Paslrazione compiuta; compiendosi questa medlante un limi- tare e restringere 1 attenzione nostra alle qualita in cui gli oggetti paragonati si assomigllano, senza ispanderla agll oggetti in cui quelle qualita .si ravvisano. Raccogliendo pertanto quello cfac abbiamo detto innanzi (i) Vcdi siilla conriisione sistemalics dellc potenze die fa il Condillac, il N. Saggio Sez. lU, c. II, art. v c segg. Digitized by Google i8'i sulla differenza che corre tra I aUetulcre e il pamgonara , c qaello che notammo qai snlla diflerenza fra il paragonare e Vastrarref possiam conchindere, che vha nello spirito nostro una sene (iU atti, che sebbene aflSni e spcsso succedentisl , tnt- tavia son di diversa natura , ni dal filosofo si posson confon- dere. Conviene adunque distinguersi accnratamente i. Talten- dere intellettiro, a." il pereepire, 3. Inniversaliszare, 4-" il paragonare, 5. il trovare le somiglianze, e 6. lastran. ^ a. a Qnando il C. M. avesse pur provato, che a traspor- lare Taltenzione da un oggetto allaltro non si richiedesie r universal nozione delP attinenza del mezzo col noli avrebbe peri provato, che cio si facesse senza idee nniversali . La ragione di ci6 i chiara. Acciocch^ I'argomento del C. M. fosse efScace , egli dovrebbe aver provato priraa, che Ianica idea universale che puA renders! necessaria in que trasferi- menti di attonzione , sia qoella delP atlinenza del mezzo eol fine. Ma ci6 non provi egli. Dunque non provo nh pure, che que trasporti di attenzione far si possano senz'altra idea uni- versale, come a ragion de-sempio quella' dell essere. 1' 3.* a 11 comparare i termini non consisle nel trasferire la nostra attenzione dalluno allaltro frequentemente, come vuole il N. A. Quando il C. M. parla di nn frequeiite traiporto di nostra attenzione da nn termine ad un  altro , egli da grandisahio peso a una circostanza che ^ mcramente accidentale. E di vero, che il paragone di due oggetti da me si faccia com piii oc- chiatc, ovvero con una sola; cii non costitnisce la natura del paragone. Vorra dire , che Se un occhiata sola non mi basta a conchindere qual sia la differenza e la similitffdine di pi4 oggetti chio miro a fine di raffrontarli, dovr& ripetere i raiei sguardi, o tenerli piii lungameote affisati in essi; ma questo accidente, che mostra il grado di mia attenzione, c di mio accorgimento in istringere piu o men tosto il paragone, non fa conoscere punto ni poco la natura del paragone medesirao. Ma, ci6 che 4 pih, il paragone non consiste e non pu6 con- sistere u in tal modo di traslazione  dellatlenzionc nostra da un termine allaltro. Se io trasferissi Iattenzionc mia dun termine allaltro ben mille e mille volte , tutto sarebbe in- by Googlt i83 darno pel paragone^ non solo non potrel conchiuderlo, ma ne anco iucominciarlo. A fine chio possa venire ad un confronto degli oggetli, ricbiedesi appunto il contrario di questo frequente trasferimenlo di altenzione da uno allaltro termine : io debbo tener anzi ferma fermissima Iattenzione sui due o piu oggelti cbe voglio paragonare: debbo non solo attendere ad essi si- multaneamente, ma dentro al mio spirito immedesiraarli^ cd d mediante questa spirituale immedesimazione , cbe io posso trovare loro differente e lor somiglianze (i). Siccbd, sottomessa ad accurata analisi Iopcrazione stessa del paragonc, si divide in tre parti, cbe sono i fissare Iattenzione simullaneamente ne' varj oggetli cbe voglio paragonare , a.*' imniedesimarli o applicarli Tuno aH'allro nel mio spirito, 3." concbiudere qnale diffcrenza o somiglianza sia la loro. L'essenza del paragone sta tutta nella seconda di queste tre operazioni. Una taleana- lisi d troppo necessaria, a chi non vuul commettbre gravi errori.  quello in cui cadde qui il C. M., proveune manilestaiuente dallaver egli confuso quegli alti estemi , cbe noi facciamo quando vogliam confrontare piii oggetti sensibili, cogli alti intemi die a quelli in noi  corrispondono. Abbiamo noi due quadri presso cbe uguali , e non sappiamo quale sia la copia, quale sia Ioriginale. Egli d verissimo , cbe noi li guardianio e riguardiamo: ora miriamo I'uno fissamente, ora Iallro, ora sotlo un angolo di luce, or sotto un altro, voltandoli a tutte le parti. Questo i quello cbe avviene veramenle quanto agli atli nostri eslerni. Ma il paragone, non i qul^ egli si consuma tutto dentro di noi. Quegli alti nostri esteriori non fanno cbe farci raccorrc la materia del paragone, cbe poi lo spirito opera in sd slesso; peroccbd lo spirito non pud paragonare con esattezza^ se priraa non ba raccollo diligenlissimainente la forma di quegli oggetli. L'osservazione esteriorc ilerata , alternata, prolungata, e quella adunque cbe imprime nello spirito disliulamente gli oggetli, i quali vi rimangono simultanei: e allora lo spirito li paragona. 4.  Laslrarre non consisle nel trasferire frequentemeotc la nostra attenzionc da un termine all' altro del paragone . (1) Vedi*fi N. Saygio Set, 111, c, IV, art. u. Digitized by Google I H4 Discenile da cM die lio detto. II Irasfurire Iattenzioiie nostra da un termiiie allallro, non entra di sua natura nel discorso del paragonare e AAYastrarrc, quaiido non s' intenda di descrivere con ci6 non il paragone, ma quegli atti eslerni che lo precedono e lo preparano. L'aslrazione succede al paragone. L'osservazione esterna , che si compie ifiedianle gli atti esterni che abhiamo toccato, non d ancora il paragone, ma ne dispone e rende possibile la forma- zionc. Dunque laslrazione d opera dello spirito , assai riniota dallosservozione cstcrmi, a cui sola apparliene quel trasferimento di atteozione che descrive il M., e che coni'onde col para- gone e coW astrazione medesima. E non sara per6 inutile, che noi udiamo le parole onde il N. A. descrive la virtii della* strarre in uii altro luogo , dove abhiamo delle coiil'essioiii pre* ziosc, tutle al nostro uopo. Ecco il passo. u La mente nostra hafacolla'di cuncepire il simile, ovvero u il dissimile,  il che vienc elTeltuato dalla virtii nobilissima u deHastrarrc, secondo alto di nostra mente, del quale ci u viene ora il tener discorso . Ecco i I discorso che ne liene:  A chiunque si pone a rifletlere siil perenne fenomenu del- u Ievidenza intuiliva appanra questu di chiaro, che Ialto del u giudicio, il quale vi e incluso, coinpiesi pel dimorarc e per u I'alternarsi dell'altenzione sui termini di esso giudicio  (i). Or qui coovieii pure osservare, che altro d il diniorare del- IaUenzione sui termini del giudizio,. altro il venire a slrin* gere lo stesso giudizio. Pulrebbesi dimorare lunghissimamente sui termini del giudizio, e giudicar lullavia nulla ^ come in certi giudizj imbrogliati addivieue, ne' quali Iuomo non si risolve a niuna parte. Non questo peru cerco io di notare nelle parole del N. A. In quelle mi accorda egli , che Vintuire, e mcdesimamcnle Yastrarre si fa col giudicare^ e il giudicare poi d per lui stesso un affermare: ma affcrmare non si puo senza avere almeuo I'idea dell'essere, che d il vcrbo, com'cgli dice, che lega il (i) P. II, c. X, IV. Qui nola anclic il  dell' attrnzione sui termini di esso giudizio; e queslo va lieiic, sc iuteiide uu dimorarc su luue due i Icriniui siiaullaiieaiueule; ina I'allcruarsi che ci aggiuiige/e inutile. Digitized by Google i85 giudizio: dunque non ho bisogno die di lui stesso per confu- tare le lue doUrine. 5. u Non basta nn ioipulso fistco a guidarc I'altenzione alle astrazioni maggiori, come b qaella dell'essere, che il N. A. dice la massima di tulte I'altre  . Crede il M. di provare il contrario coll'esempio di un fan- ciullo lattante.  La nuova iiumagine, dice, che entra per gli u occhi di questo, isvegliando la sua altenzione, la lerr^ volta  a quclla parte, donde mnovono le impreszioni piiivive; e po- ll niamo chc tal parte sia il volto. La nutrice fa un cenno c u sorride : I attenzione allora del fanciulletto sara cliiamata u di preferenza agli occhi gcintillanti , o alia bocca attegginta u al riso, e forse alluno ed atlaltro in piii tempi, aecondo  che il variare dei minnti accident! fara avvertire ad una u parte pintlnsto che ad nnaltra. Intanto quest! divers! tre-  pass! dcir attenzione rendono piii distinta e viva tutta la u forma del volto, la qnale non ha mai cessato di farsi pre- 1 sente al pensicro, sebbene in raodo confuso c languido  (i). Or questo csempio prova tutto al piu , che le impression! degli oggetti esterni mnovono I' attenzione del bambino, e che il mutare di quest! fa cangiare direziono anche all attenzione di lui. Gi6 niun filosofo metter^ in dnbbio^ ma la questione deU'aslrarre non si risolve per cosi poco. Quando anco potesse provarsi , che il bambino con quel tramutarc di attenzione perviene a formarsi qualchc astralto^ il che pur non si prova; questo astratto si limiterebbe ad es- serc di cose sensibili. Or non si tratta di astralti sciisibili, nel discorso del C. Mamiani; trattasi di provare, chc Tuomo possa foimiarsi istintivamente quella astrazione, chc il Mamiani me- desimo dichiara per la massima di tutte, per la piii spiriluale, per la piii insensibile per cosi dire, in una parola Iastrazione dell idea dellessere. Che il bambino astragga il colorc dalla forma della nutrice, pass! per ora, sebbene il N. A. ni pur questo ci prova; ma tuttaltro i quando, si tralla dell idea dellessere: quell idea non i colorc, quella non ha furiiia cor- porea, non b nulla di concreto, nulla di ciii che ciitra per gli (0 P. II, c. IV, VI. * Rosmini , // Riwiovamcnto. > i Digitized by Google i8rt occhi, o per gli orecchi, o pel UUo del liauibino, quBiiJo vede, ode, o palpa la nutrice. Rioian duiique ancora Iroppu a provare all' A. N. , prima cbe dall'aslrazione di cose sensi- bill, cb'egli suppoue farsi dal fanciullo^ possa inferire logica- inente, die I uoroo pervenga istinlivamenle all' aslrallissima dclle idee fra le ioseosibili. In secondo luogo , s'inganna egli a parlito, credeodo cbe i (ilosoH iniegnino cbe I'aslrarre noa sia piii vhe u il dare at- u tenzione ad alcuna cosa in disparte e divisaraente dall'al- u tre n () Se cii^ fosse, egli avrcbbe alnieno ragione di con- cedere al bambino Tastraziooe delle cose sensibili. Non pure il bambino ragionevole, ma il cagnolino potrebbe aslrarre al- tresi, ed ogoi besliuola lattante: peroccb^ le beslie ancora banno una cotale attenzione sensiliva, cbe non si dee confon- dere coll' attenzione inlelleltiva, propria degli esseri ragione- voli (a)i ed applicano quell' attenzione or ad un oggelto, or ad un allro , quale piii vivamente ferisce loro i sensi. Ma i veri filosoii non jiosero giammai Iastrarre nel dare attenzione ad alcuna cosa concreta in disparte da un'altra: anzi fecero opposti ira loro il concreto e Iastrallo^ e misero per condi- zione essetiziale all' astralto, il non tenere in sS niuna concre- zione. Per6 I'astrarre non fu preso per allro dai savj, se non |>ei' una cotal vista inlellelluale della cosa nella sua esislenza possibile, o delle note di quesla cosa [lossibile, le qnali note considerando noi Puna dipartita dall'altra, ad una maggiore astrazione ci rilevianio (i). (i) P. II, c. IV. VI. (a) Vedi A. Saggio Set. Ill, c. II, art v. (5) Come Taulur uoslro sualura la facolti deiraatraaiune, cangiandola in quella di poler dare atleuzioue ad una cosa in disparic da uualtra; ciu cbe puu avvenire anclic enlro la sfera de' sensi corporei , giacche ralleti. zione sensiliva si applica ad una cosa in disparle d'tinallra, o piii tosto non si puo mai applicare se nou ad una cosa siugotarnieule presa; cosi egli snatura pure la facollii del giudixio, quandu preteude die in quesla vperaziuDC per soggello si debba inlenderc una lolalila di fenomeni , e per predicato una pane di cssi; siocliA ii nel predicate, ni uel soggello avreinmo alcuua idea universale (P. 11, c. IV, vii). lu vorrei peru die si ipiegasse piii chiaro. Vorrei cbe mi dicesse, sc il suo giudizio suoiia cost:  A 6 parte di B >; perocebd in tal caso, aliiiriio il verbo E dee conleneie Digitized by Google .8; Ora chp il M. slasi formato (lell'aalraiTe un concetto si talsn, collocamio quest' atto eminentcmcntc intellettiro cntro la sfcra detle operaxioni sensitive, apparisce pur Iroppo cia frc' quenti sentenze del suo lihro, e segnatamente da quel luogo ovc , dopo aver inlrodotto alcuno che distingue i colori dai snoni, soggiunge : u Quando ci6 non risultasse immediatamente X dalla doppia facolt^ di unire le separate impressioni e di-  stingtiere le unite, niun'altra idea universale e niun giiidi-  cio conoscitivo saprebbe porre il sentimento della medesi- u niezza e della variela la dove non sussislesse. Perocclife af-  fermare che il simile sia in una oosa, ovvero il dissimile, u i giudicare del sentimento ehe dell' uno o dell' altro gia u esiste > (i). Vedesi anche qui addurre I' esempio di cose sensibili: e vo- ler da quelle conehiudere alle insensibili. Di poi, in queste stesse cose sensibili, egli confonde la materia dell' astrarre, somministrata da' sensi, colla forma, in die con- siste propriamente la virtu dell' astrarre. Or niuno ha mai nc> gato, che la materia delle astrazioni risguardanti oggetti sensibili non ci venga dal sentimento: ci6 che il sentimento non puo darci si e I'atto stesso dell'astrarrc, che si esercita su di quella materia. Niuno ha mai negato, chc la sensazinne de' color! non sia in si stessa diversa da quella de' stioni. Chi ben le considera converri facilmente, che sono di piii indipendenti Iuna dall altra, e che prese come mere sensazioni non consi- derate coll' intelletto ancora, esse non hanno la minima rela- zione insieme, siccliA I'nna non sa nulla dell' altra ^ le due sen- sazioni adunque col solo esisterc loro proprio non si paragonano. Potrebbe anche avervi on soggetto comune delle due sensa- zioni, il quale non fosse capace di fare questo paragone; certo non i assurdo a pensarlo^ anzi egli 6 fuori di dubbio, che un'idcs universale, anzi , secondo lui stesse, la inassiina delle astrazioni. Oltrecchi quella forma di giudizio conlerrebbe la relazionc fra il lutto e h parte ; e questa relazionc t idea universale ella stessa , come la parols  parte . i voce comiine ed universale. Con qiicslc riflessioni cade tnllo ci6 ch'cgli fabbrica ncl liiogo accenualo. () P. II, c. X, vit. Di' I.^lc 1 88 tultc Ic scnsazioni die noi slessi abbiamo , sebben notnini, non le paragoniamo fra loro^ ed ella sarebbe, a dir vero, troppa fatica a paragonarlc tutte, ed inutile: eppure abbiamo anco Iintelletto. Dunque Pesistere le sensazioni separate iu- dipendenti, Pesistere in un medusimo soggetto, Pesistere fin auco in un soggetto iiitcllettivo. tutto ci6 non ^ ancora Pessere paragonate. Che faceiam noiP ne paragoniamo alcune, racco- gliamo le diflerenze maggiori , quelle die pin c'interessano, quelle che piii ci abbisognano : e P allrc stanno in noi stac- cate, senza die iioi pur badiamo alle loro relazioni, le quali rimangono a noi scouosciute fino a die non ci iacciamo atten- zione. lu m'aslengo qui di parlare del sensorio comune. Solo diru , die di qtieslo sensorio altri si forma una assai torta opinione. Sarebbe uu assurdo Pimmaginare, di'egli fosse simile al senso del vedere, o delPudire, o ad altro organo simigliante. Egli non puo cssere un organo , non un senso distiuto; ma dee essere un riferimento simultaneo ddle sensazioni de'cinque sensi al inedesimo essere percipiente. Ma questo riferimento non i ncccssario^ pu6 farsi, e non iarsi^ pu6 avvertirsi e non avvertirsi^ io dico ancora di piii: Pessere percipiente, sebbene uno e seniplice, puo riferire a s6 tutte le varic sensazioni, senza che per questo sia assulutamente necessario che insieme le paragon!. II paragone adunque degli oggetti e V a.clratione del simile non i una conseguenza necessaria nd di un sensorio co- niune ai di un intellelto. Se non e uiia conseguenza necessa- ria , egli riman dunque a moslrarsi in che modo avvenga ^ ni egli d sufiGcientc, a spiegare quesla operazione, P aver delto sem- plicementc che v'ha un sensorio, o che v'ha un intellelto. Sebbene, sono troppi al mio assunto quest! miei ragionari , quando io ho a mio favore Paulorila dello stesso G. M., che, ovc mi bisogna,  sempre presto di accordarmi geuerosameiite quanto desidero, e andie qui lo trovo verso me assai liberale. Egli in cei'to luugo del suo libro si fa questa obbjezioue contro la verita dello scibile:  Quella unita, di cui i fornito  essenzialmente qualunque atto cogitativo, non sussistendo u fuori di noi, debbe di necessita introdurre nelle percezioni u alcuna cosa di subbiettivo . Ora come si rispoude egli? Odasi altentamente: .eramente certu vedute in- u tellcltuali e certo frutto della- facolt^ cbe abbiamo di con- u ccntrare in un sentimento indiviso Ic impressioni dislinte che u ci vengono di fuori  (i). I>a identita adunque e la varietd, non sono parti concrete dei corpi: sono dunqnc un elemento cogitativo: col solo sen- timciito adunque non si puiS astrarre ni pur da' sensibili la medesimezza, e cost formarsi I'astratto, ma conviene aggiun- gervi certc vedute intellettuali , mediante le quali solo, le im- pression! distintc si concentrano In un sentimento indiviso : il che per(j ancora non basta, perocchi in questo sentimento in- diviso si debbono e raflrontare, e trasceglieme la parte comunc dalla parte propria. Sc dunque ni il paragonc, ni I'astrazione si fa senza un elemento cogitativo o intellettivo, che non si trova ne'eou- creti, i quali solo cadono sotto i sensi^ la conseguen/.a 6 chiara: Icseinpio del fanciullo nulla prova, a far credere ch'egli fac- cia verauiente delle intellettuali astrazioni. 1 movimenti che fa il bamhino verso la nutrice che scherza con lui, non li veggiamo noi fare eziandio dai cagnolini verso la madre ? e chi dira per6, che i cagnolini, i quali saltellando giuocano colla cagna, facciano con ci6 altrettante astrazioni in- tellettuali ? Non bastava dunque al C. M. mostrare il fan- ciullo che volge gli sguardi suoi e I'attento aspetto ora agli ocelli, ora al riso della balia^ queste esterue dimostrazloui non provano abbastanza qucllo che avvicne nclla mentc del fanciulletto : dovea ineglio il N. A. mettersi dentro, mediante certi indubitali segni d'intelligenza, nell' intelletto fanciullcsco , e mostrarci il lavorio intellettuale che in quello vicne operan- (i) P- lb c. X, m. Digiiized by Google 1 90 dosi: aUrlmenti noD ci avr4 provato mal, che il fanciullo fac> cla delle astrazioni. E tutUvia il fanciullo pu6 farle queste astrazioni , e per mio avviso ne fa di molte. Solamente, che nel siztema del N. A. que- ste astrazioni rimangonsi inesplicabili e portentose, quando ncl mio facilissimamente si spiegano. Quandanco adunque P A. N. avesse egregiameote provato, che il bambino mosso dall'istinto sensitivo venisse facendo delle astrazioni (e non i punto nuovo che Iintelletto tolga occasione ad operare da' movimenti che nascono all'uomo nel senso), reslerebbe sempre intatta la que- stione : in che modo qneste astrazioni si formano nel bambino? hanno esse bisogno di alcun'altra idea universale? qual i la natnra dtlPastrazione ? inchiudono esse ungiudizio? quali sono i passi, o sia le parti costituenti I'atto dell astrarre ? Queste sono le question! che toccano il fondo della materia, e che non si scontrano ne pure sul cammino della filosoGa del G. M. Certo le parti costituenti Iatto dellastrarre sono tutte nel- Iastrarre*, il porsi quell atto dal bambino, o dalluomo adulln, ^ il medesimo : perocchi Iastrazione non muta natura, secondo Ieta del soggetlo in cui clla si fa. Or queste parti, trattan- dosi di astratti di cose sensibili, sono almeno queste sette, ol- tre IaUenzibne che concorre in ciascuna: i." sensazioni o per- cezioni sensibili, a." riferimento di esse allunita del soggetto, 3.* riferimento di esse allunita delloggetto mediante lo spazio identico, e insieme 4 formazione delloggetto intelletlivo , universaiizzazione, 5.* paragone, (i. trovamenlo del simile, e 7. astrazione. Egli i poi evidente, che almeno queste ullime esigono on giudizio , e quinci stesso un universale preesistente o nell a- dnlto, o anche nel bambino , se pure si vnole che anch egli astragga^ perocch^ la natura dell operazioue , per dirlo di nuovo, e una e sempre la stessa. Digitized by Google CAPITOLO XXXI. 9  po' di filosoda. Ella comincia appena a snodare la lingua, ma iie sa abbastanza per istruirmi^ anzi sc ne sapesse di piii, non varrebbe ad introdurmi ncse- grcti della sua tenera e misteriosa et^. Ci6 cbe io osservo in essa si A il modo appunto del favel- lare, certo vestigio di sua intelligenza, e lucido specchio della sua mente. 11 lingiiaggio di lei scmplicissimo non 6 ancora com- posto cbe di due parti dellorazione, norae e verbo, non tc- nendo noi conto di qualche snono inarticolato cbe ci fa sentire. Ora quesli nomi e questi verbi sono essi tulti di cose parti- colari? contengono essi ddle astrazioni ? e se delle astrazioni, queste astrazioni sono elle per avventura delle minori, come dovrebbero esscru ovclla le tragga da soli particolari, o delle maggiori, come convien cbe sia se nellanima della nostra fan- ciulletta gia splende Iessere univcrsalissimo ? Esse sono come le predice il nostro sistcma , non fatto a caso, ma ricopiato dalla natura. Nel sistema nostro due primi elenienti si pongono di tutle le opcrazioni dellanima intellet- tiva, il particolarc e 1 univcrsalissimo, la se.nsazione percipientc il primo, Icsse/ie iilcale costituente il secondo. Se dunque un tal sistcma A vero, ne fanciulli si debbono di prima giunta ma- nifestarc questi due dementi : le prime loro notizie debbono risultare dal particolarissimo e dall universalissimo insieme con- giunti , dal particolarc sensibile, e dalla massima astrazione : dec mancare 1 audio di mezzo fra questi due estremi, le astra- zioni medie: le qnali debbono poi esser 1 opera dcllo sviluppo successivo^ e in questo sviluppo debbono formarsi prima le astrazioni cbe per la loro ampiezza si accostino alia massima, colla partccipazion della quale elle si formano, c poscia le al- tre, discendendo di niano in niano fino a quelle cbe sou piii Digitized by Google 9'^ prossime all' inflividuale e al concreto. Tutto qucsto i die io itnparo appunto da quusta nostra bambolina , i cui accenti come care g!oje raccolgo. Recher6 qiialche esempio de' nomi e de verb! ch' ella usa. e del modo in ch'ella li usa. In quanto ai nomi, eccone sei, che sono a lei piii famigliarl: mao, told, patatc, madonna, zio, prete. Che cosa 6 mao nel suo linguaggio? Ella chiama mao tutti gli animali piccoli, di qiialunque specie si sieno, e qualunque differenze eglino s'abbiano. II cagnuolino per lei h mao; mao it sorcio, mao il coniglio , e cosi via. Or donde ha ella preso questo vocabolo? ognuno s'accorge che i il nome onomato- paico (i) del gatto^ ecco qua il particolare (2). Ma ella non pn6 riserbare qucsto nome al solo gatto^ ella ha un bisogno nella sua nalura di universalizzare : il primo passo adunque ch'ella fa, la conduce dirittamente ad un' astrazione mollo larga, qual k quella di tutti gli animali, senza badare ad altre special! differenze, che nella grandezza s'accostino a quella del gatto, tipo per lei originale di tutti gli altri, ma tipo gia molto universalizzato , cio^ spogliato di tutte le particolarita non solo degl' individui reali, ma della specie stessa del gatto. (1) t oomi facili e cari a bambini sono gli onomalopaici. E perch^? la ragione i, che risvegliano meglio, e replicano in cssi la sensazione ri- cevula Delia perceziooe de concreti. Cio dimosira, come I uuo degli elc- fiieoti delle loro prime iuterue operaziooi i il particolare^ ed atiche il realc aensibile. (j) Questo particolare ha diverse graduiioni : i. le perceziooi che ten* gono seen altualmcole il reale sensdiile, a. la raemoria immaglnaria di varie perceziuui , 3. le immagiui delle furine seiisibili divise dalla persua* sioiie Sulla sussislenza de* reali seuslbili. Questc iiniiiagiui negli esseri in- telligeuli sono d foMdameuto di quelle che io ho chlamate essenze sptci/iche impafelle (Vedi N, Suggio Scz. V, c. IX, art. vi e v). Ho poi dimo- strato , che fino alia foi mazione di queste essenze specifiche im/xr/eUe puo procedure Io spirito dell uomo senza 1 nso de vocaboli , ma per fare un passo pin innanzi, e giuugere alia foriiiaziouc delle essenze specifiche aslratte ovvero de generi, fa meslieri assolutamcnte Iuso de segni. Cio dee cssere assai aticntamenie considerato (Vedi If. Saggio Set. V, c. IV, art. iv, 36 e ^). La nostra bainbiua 6 arrivata gia allidea astralta del gatto, che e ir/ea specifica aslratla, e da questa conic da puoto llsso si sinueia al ge- nere degli animali piccoli; senza puuto toccarc i gradi intermedii. fios.Mi.Ni, // JUnnovammlv . 2 5 Digitized by Google 94 La seconda parola della nostra bambina i told. QuesU voce, nella lingua propria della sua eta, appartiene al cavallo, del quale esprime il niovimenlo^ ma quella piccola mente non pu& stare in qiieste angustie, e per anzicliA la iosegnino a lanciulli. NA altri chc glinranli potrebbero vcraincnte trovare, o inse- gnarc la lingua iufanlile. Digitized by Google 97 indetcrmlnato^ e tuttavia cgli non saccorge della somma ini- portanza di un tal fatlo. lo voglio addurre qui le sue parole:  E un dello bene assai vulgalo quello che afTerma, in na- B tura ogni cosa riraanere dissimile. Or come dunque crediamo B noi di scuoprire fra gli esseri infinite rassomiglianze ? Non 6 B questo un perpeluo inganno che generiamo a noi stessi  ( i )? . Tale in fatto i la cosa. Luomo a prima giunta snppone sempre fra diversi oggetti assai pii somiglianze, chessi non abbiano veramente. Se queste somiglianze non sono reali (e certo non v'hanno due oggetti interamente simili), dunque elle non sono nelle cose seiisibili , dunque non sono ni pure nelle sensazioni che in noi producono. Noi abbiamo dimostralo che la reale acutezza de' nostri sensi & incredibile, e quello che non ce li fa conoscer di tanto acume , si ^ il poco at u rcre fra quelli molte piii somiglianze die non comporta  Iessere loro: avvegna ci6 per la fretta dell' osservare , onde  il simile si fa senlirc e non il dissimile, il quale, come os- u servo Campanella, rimanc.piu occuUo : ovvero succeda per u un bisogno e per un desiduriu die abbiaino di trovarc do- u vunque freqiieutissime analogie, sunza le quali non avremmo,  capacila alcuna di scienza n (i\ Il N. A. riconosce il fallo. Le due ragioni poi, ch'egli reca a darne spiegazione, sono al tutto per noi. La prima k la fretta dell'osservare. Or questo osservare dee cssere una operazione interaiuente diversa dalle sensazioni, le quali operano necessa- riamente, e con nioviuiento istantaneo: sono poi incredibil- inente acute e feddi a rapprescntare le differenze anche ini- iiime delle cose. Lo spirito nostro tuttavia trasanda queste differenze^ ha una Icndenza, cbe il porta ad osservare di pre- ferenza le somiglianze, o a supporne, lasciando neglette di OS'* scrvazione le dissomiglianze. Onde questa teiidenza dello spirito? Egli pare, risponde il C. M., cbe abbia  un bisogno ed un desiderio n di trovarc ovunquc frequcntissimc analogic, per le quali sole i capace di scienza. Appuiito : onde adunque questo bisogno, questo desiderio di analogia? Ecco cio cbe traltasi di spiegare. Egli non solo non potrebbe avere un desiderio ed un r.ippre.scoliite. Ma uo tale errore troppo volgare dec rioalincntc sbandirsi dulla ntosotia. (i) Quaiilo la menlc si applica a siiniglianzc plit eslcse, lanto piii la forma delle cose siniili i indelerininala ; p. es. I.n simililudinc dell' umanila .nbiiraccia piii eiili di quella dcl''nani(& dimostriito chc U  similitudioc delle cose ha il suo fonda- mento in una  forma loro coonine, la quale non k, e non puo essere se non una forma meramente inlellelluMie >. lo non posso Irascrivere conli- nuameole ci6, che una volla a luogo ho Irallato; raa rimetlo il Icltorc a quanto si trova nel N. Saggio, massime ne luoghi seguenli, Sez. Ill, c. II, art. H, Delia nola alia face, m ; c. IV, art. xz; c Sez. VI, c. VII, art. VIII, g a. Digitized by Coogle 20 I CAPITOLO XXXIII. COHTINUAZIOME. Ma facclamoci alle obLjezioni die, come toccaramo, potreb- bero volgersi coiilro lu nostre coosiderazioni. Quella die uo luogo di Tommaso Campanella pu6 risve- gliare agevolmeote nell'animo, parmi di tutte la maggiorej e peru nn faremo diligente esame. Ricouosco il Campanella, e confessa il fatto, che Iuomo voUo per nalura assai piu a notare le simllitudini ddle cose, cbe non Ic loro dissimilitudiui. Ma egU crede di poter rendere di uo (al fatto coiivenevole spiegazione col solo gioco desensi. Udiamo il Glosofu calabrese;  11 senso percepisce meglio il u generale die II siiigolarc, perch^ quello si ripete iiifiaitamentc u piu spesso e a si medesimo uguale, e lermiua per farsi sen* u tire siccome uno n (i). L' ossrn(o indi- U vise le impression! dislinte cbe ci vengono di fuor! ?  (i). Qiii non sascondc nulla del vero^ qui si confessa, die la identity e la variety, Iugnalc e il disugnale non sono punlo nA poco nelle cose, ma sono dementi venienti dall inlellello. Ora vogliamo noi vedere come in altra parte s' adombra di qnesta veritA da lui m espressamente confessata ? Udiamolo quando soppone a qne filosoG, che la pensano appuiito cosi comegli prima ha pensato. Egli dice di essi: u Secondo i u dogmi di parecebi fllosoG, le idee universal! e aslrattissime, u cio4 separate da ogni materia e modo, e perfioo dal con-  cetto che se ne possiede, qual sorta mai di realitit conser- u vaiio in s6 roedcsime? non la obbiettiva, perclii fuor del u pensiero il simile, in quanto simile, non esiste, e le idee uni- u versali rappresentano il simile^ non la rcalita subbieltiva ,  conciossiach^ si astrae talvolta pure da questa, come quando  si pensa al colore in universale, e non si pensa all essere suo  di concetto. Il colore adunque contemplate nella suprema u astrazione (a) diverrebbe, giusta cotali filosofi, un essere ne-  gativo, siccorae nulla ^ cosa che ^ troppo coiilraria al senso  comune  (3). Quest! poveri GlosoG non riceveranno di troppo buon animo la sentenza del C. M.^ cercheranno probabilmente un tribunate d'appello. Diranno innanzi a questo tribunate, che la conclu- sione del Mamiaui intorno alle loro astrazioni viene frettolosa, precipitosa, contro il buon metodo e le leggi di un esatto di- mostrare. Largomento del Mamiani suppone vera una propo- sizione che sta senza prove, e che contro tali GlosoG , chc la uegano, va dimostrata: cioi, che  fra 1 oggetto reale e il sog- gettoche lo percepisce non possa essere cosa alcuna di mezzo , o sia che tutto cio che i diverse dallo spirito umano, soggetto percipienle, e dalloggetto reale e concrete da lui percepito. (i) P. II, c. X, III. {i) Coil qiieila supreinn asirszione pare che alliidn allulllnio de quatlro gr.idi da Ini introdolli Dellaslrarrr, e da me pin sopra esaminali. (3) P. U, c. XtV, VI. Digitized by Google ai.6 s!a un pnro essere nej;alivo, il nulla (i). Mantengono il con- Irario i filosofi ohe il Mainiani a^Milisce , dicemlo cbe fra il detto soggelto ed il delto oggetto v' lia un Rssere importantis- simo e remolissimo dal nulla, e che questo 4 Vestere ideale; e credono assai ardito il pronunciare rhe questo essere ideale sia un bcl nulla, uuicnmeute per questo, ch'egli non si pu6 ridurre sotto ad una delle due categoric arbitrarie del sog- getto umano e deiroggetto suo rcale e concreto^ e cii cbe 6 a dir vero singolare, questi cotall Glo'soG pretendono di avere a s4 favorevole il senso comune, per lo nieno con tanto di persuasione , quanta il Mamiani mostra averne , dicliiarandolo tntto in favor suo. Sicch4 questo bencdetto senso comune gio- vcra poco ad entrambi invocarlo , quando o Iuno o T altro non dimostri che sia pure per s4. Or via dunipie, se questi GlosoG hanno torto a considerare Iidea astratta del .simile, o dellidentico, per cosa tutta inlel- leltiva , e ftior delle cose concrete , cbe pronnncia di essa il N. A.? Udiamo come si continua al riGnlo dato a quc GlosoG:  Ma se invece diremo quello cbe 4 di fatto. rapprescntare cio4  la idea del colore certa forma d' identity vera e re,ale, czian* u dio fuor del pensiere, cbi pensa il colore, astraendo anche u dalla sua idea, pensa una vera e certa reality obbiettiva , u vale a dire il continuo nno , indiviso e indeterminato , il u qnale soltosta ai colori finili determinati e divisibili  (a). Questo passo, perchi abbia un senso, dee dire il contrario (0 II C. M. in mulle parti del suo lihro eonfonde le idee col soggelto chc le possiede. Quando egli volessc fare una tale identiricazinne, dovrehbe prnvarla cnniro i migliori filoson che la negan.^, e non atnmellerla per certa senza dintoslrazione. Non 4 questo nno slrascinarsi per le vie de sen- iisli, i qnali sotto ad ogni proposizione loro , suppongnno per ceric inolle cose negate scmprc dagli avversarj ? Cerlo il huon nieiodo viela quel ra. gionare coolinuamenie sopra de pregiudizj gravissimi, che in rilnsofia non si hanno che per monele false. Ecco nn altro de* liioghi dove il Mamiani, eonfondendo le idee col soggelto, snsiiene rhe non v' ha scicnza se non di due cose, cio4 dell' oggello e del soggelto :  Lo scihile umano ha due ler-  niera di dire, uhe sembri aggiustare lo sconcerto delle dottrine: Ire sole voci conipongono questa niaravigliosa fraser eccola: in (fuaicfie modo.  Quelle uiiila  ( cosi il C. M.), le quali si X forniano entro la nostra mente |>er la coiitemplazione del u simile, abbiamo veduto essere una riproduzione vera e certa X delle unita origiiiarie di subbietli e di azioni , e perciA darsi X in qualdie modo 1' universale in natura  (i). Fa un elfetto mirabile questo in qualcltc modo, peroccliS sti'iuge in stesso le due contrarie sentenzer si alia, o certo vuole affarsi ai due contrarj partiti. A quelli che faniio dell'uni- versalo (preso dal Mamiaui per sinonimo di astratto) una parte coDcrcta delle cose real!, dice: io sono con voi. A quelli che Della natura non trovanu altro die partieolari, c I' universale non veggono possibile, die nella niente, dice pure: io non son lontano da voi, perocdie 1' universale non I'ho io messo nella natura assolutaniente, roa in qu^ldie-modo. , ^ ^ E pure non ini roaravigllerei, se questo in qunlvhe modo, che vuol liccarsi in tutte e due le parti, venisse daH'una e dal- Ialtra assai male accolto. Ma certo e finalmente, che tulti que'Glosod, i quali nella natura Gsica e reale non possono concepire , die il comune , r idenlico, Tuniversale esisla in nissun modo, dirauno al C. M. cbe. si spieghi meglio, e che nun li tenga cost travagliosamente in .ponte, ma dica senza piu, sc I' universale t una parte si o no delle cose concrete r perocchd li'a il si e il no non pu6 stare cosa alcuna di mezzo r n una maniera avverbiale ha virtii din- trodurre nelP uiiiverso una terza natura, che non sia n^ il si, n il no. Condudiaoio colle parole del N. A.: egli ci avea proiuesso una dimostrazione dello scibile umano, egli avea posta la vera- cita delle idee nel loro riferiraento alle cose concrete, egli ci avea detto che la sua dottrina spiega x molto lucidamenle in lb: -- .'1 (I) P. II, c. XK. I. Digitized by Google aog  che consista la certa realiU d'alcnni esserl di ragione  (i), egU s era afTaticato nello spinoso cammino che noi abbiamo descritto pur ora; fioalmeote egll stesso conchiude,  Gonce- u diamo  assai volentieri cbe qnesta materia della rispon* u denza reale fra Iidentico del pensiere e Iidentico delle cose u i piena di problem! oscuri e compllcatissimi, i quali soli a u volerli discutere conveoerolmente domanderebbono ua intero  volume 7) (a). CoDverr^ dunque aspettare, ecco il risultamento finale, cbe questo volume sia pubblicato, prima di poter dire che il G. M. abbia fornita ana piena dimostrazione dello scibile umano. GAPITOLO XXXVI. CONTINDAZIOHE : LE IMPRESSIOKI DISTIETTB If05 SI POSSONO CONCEN- TBARB IH DM SENSORIO ORCANICO , Uk SOLO IS CalDEa AD ESSE PREESISTEHTE. Ma una parola proferita dall'A. N. ci ricbiama indietro an passo. Egli confess^, cbe Iidenlico e Iagnale degli oggetti non i qualche loro parte concreta, ma uun pnro elemento cogitalivon, o come ancbe disse,  dali insieme, o all' operazione dell' uoo o dell' altro, eziandio* ch presi siugolarniente. Cbe I'iotelleUo noa fia il medesimo del sentimenlo, eb- bene i sensisti facessero I'eztremo di loro possa a farlo cre- dere, non si pu6 concedere^ e mi rimetto intorno a cid a quello cbe i delto nel JV. Saggto, dove si dimostra, dal seu- timento spartirsi inbullamente 1 intellelto, il quale ba una forma o idea delle cose, distinta dal principio intelligente ; quando il sentimeiito i privo di forma distinta dal principio senziente cbe viene modificato^ distlnzione la quale slara Gno a lanto cbe con delle buone ragioni non la si confuli. Cbe pol il sentimenlo seiiza 1' Intellelto o coll' intellelto in- sieme compia I'adunamento delle percezioni esterne e distinte fra loro nell' uniU, questo giover^ cbe per nui si dimostri im- possibile^ e impossibile sar4 dimostralo ove appaja ebiaro, cbe il solo intellelto unisce e identiGca'le sensazioni colla sua forma , e cbe questa operazione non potrebbe esser mai fatta in modo veruno dal sentimenlo. Poniam dunque mano a dar cblarezza ad un vero s\ rilevante. CAPITOLO XXXVIl. CONTlIfOAZIOaE. Cbe le sensazioni esterne sieno fra loro distinte, i evidenle , e 1' A. N. ce le ammette per tali. Riman solo a vedersi , se vi avesse forse dentro di noi, e per cosl dire nel centro del- I'uomo, un senso o sensorlo comune disliiito dall intellelto, il quale raccogliesse e uniGcasse in si medesimo le esteriori sensazioni. E a levarcl un tal dubblo, noi dobbiani prima at- tentamente conslderare e rilevare la natura del fatto cbe si ' tratta con questo sensorio di spiegare. 11 fatto adunque h questo. Le cose singole percepile coi sensi noi le confrontiamo insieme, e peiA le uniGcbiamo. Ora questa uniGcazione si fa, senza cbe quelle singole percezioni perdano la loro distinzione e individualc esistenza in noi. Cbe Digitized by Google ai I se quelle venissero le une nelle altre confondendosi e rimesco* laniiosi, noi non avremmo altro risultamento , rhe una perce- Kione vasta, confasa e moltiplice, composta di tatte le perce- zioni singolari, o forsanco de'loro frammenti e rottami, per cotl dire; ni i compirebbe in noi per tal modo alcun para- gone fra esse, ni si rileverebbe pnnto la loro ngnaglianza, e la loro difYerenza. Se poi al tutto si nnificassero perdendo la loro distinr.ione, ne verrebbe cbe il simile, o Iidentico nnifi' cato, sarebbe nna semplice nozione, nd il vedremmo mai in pill cose ripetuto, e quasi da piu cose partecipato; e in tal caso pure il paragone delle cose nou sarebbe possibile; ma noi avremmo , qual risnltamento di tale interno lavoro, i. I'identico da si e non nelle cose, a. le cose diminnite dell identico, e fornite del solo vario, ed auzi , a pib vera- mente parlare, le cose non si potrebbero piu da noi aver pre- sent!, peroccb^ sottratto Iidentico, le cose stesse non sono pib. Un esempio senza piu ci persnaderii, cbe la cosa avviene cosl come 1 bo descritta. Sia I identico o il simile delle cose, cbe vogliamo astrarre, Iessere loro coraune a tulte. II nostro stesso autore dice, cbe  tutte le cose faanno una medesimezza u necessaria riguardo allesistere , e chiama Iidea delles- sere, come vedemmo , idea di - medesimezza. Se dunqae Iessere delle cose (nel cbe sono tutte identicbe) si unificasse in noi per modo, cbe in esse singolarmente prese, egli perdesse la di- stiozione cbe ba nelle cose, ne avverrebbe cbe in noi non ri- marrebbe se non una semplice nozione dellessere, e le cose moltiplici non sarebbero piu, peroccbi da loro sarebbe stato levato Iessere, come quello cbe i a tutte comune. Il fatto adunque avviene cosl come fu da noi descritto. Or acciocchi questo fatto dell unificazione delle cose in noi, riceva una convenevole spiegazione, e mediante qnesta nnifi- cazione si spiegbi pure il fatto del paragone fra loro, e il tro- vamento in esse dell identico e del vario, si debbono addurre cotali cagioni, le quali mostrino i. come le sensazioni o per- cezioni singolari si unifichino, a. e come insieme mantengano la loro sussistenza distinta e siogolare. Posto cost in cbiara luce quello di cbe si vuol dare con- venevole spiegazione, hassi a vedere  se immaginando un sen- Digitized by Google ai H lorio interno nelluomo, o senso comune, it qaale non di(Te-> risca dal (entire proprio della tIU animale, si possa rendere ragione soddisfacente dl qnella mirabile operazione cbe fa il nostro spirito astraendo Tidentico dalle cose . E in primo laogo egli i evidente, cbe se qnelle percezioni sensibili cbe in noi si uniscono, come dice il Mamiani , in an sentimento indiviso, fossero le stesse percezioni materialmente prese, verrebbero a rifondersi insieme, perdendo la loro di* stinzione e singolare esistenza : peroccbi piii cose nel loro es- se re materlale non possono ad un tempo venir ridotte ad nniti, e rimanere dlstinte^ giaccbi Iuno e i moUi sono fra .loro contrarj^ e il moUiplice non pu6 esser uno senza distmggersi, e viceversa, quando sia identico di numero. il principio di contraddizione cbe ci scorge a qnesto vero, e perd egli i al tutto irrefragabile. Convien danqne dire, cbe qaelle percezioni cbe nello spi- rito si unificano cd immedesimano, come esige il paragone, e massime I'estrazione dell' identico (i), non sieno le stesse di numero e materialmente prese, con qaelle cbe si ricevono co- gli organ! esteriori del corpo. E veramente non si pod nd pare intendere come la sensazione del color rosso ricevnta cogli occhi, materialmente presa , si possa unificare colla sensazione del soono aUunire ricernta per gli orecchi, o dellodore di cannella ricevata nelle narici ; peroccbi tatte qaeste sensazioni sono semplici, e non soggelte a modificazione alcana senza mntare di essenza^ di poi non hanno la minima similitadine (i) G qui convien dars! molla lode al C. M. per ciA che dice nella P. If, c. IV, I., dove combatte valoroMmente quella srnlenza dcsensisti, i quali negano la polenta al pensiero di concepire piCi idee simultaneamente, af- fermando essi  esaere quetia una illusione comnne ed assai tcuaabile,slanle > chc la rapidii^ dei mol! nervosi i tale da far parere simullaoei i niiuiini  del tempo cbe si succedono    Qualora adunqiie n (egli conchiudc), " cooforme la aententa dc* lisiologisli, le idee non sieno inai simultanee,  noi ci iacciarao a chieder loro  , se al sopravveoire di B, persevera o  no alcuna memoria di A. Nel primo suppotto esislono due percezioni si- u miillanec novella Iuoa, I'altia riprodotia ovvero conliouala. Nel secondo N supposlo abbiamo nolalo quello die di necesslli ne avvcrrebbe : cioi cbe non si polrebbe mai dare alcun confronlo fra loro, giaccbi non vi sarebbe innanxi alia mebte in ogni minimo tempo piii di ununica idea. Digitized by Coogk a 1 3 reale fra loro , e finalmente sono cosi annesse alle papille ner- vee ottiche , acuatiche e naaaii , che non si potrebbcro tras- portare tntte in uno, senza strappare il naso e metterlo negli occbi, e strappare gli occhi e metterli negli orecchi, e cost degli allri organi. lo diacendo a qneate osserrazioni materiali, peroccbi indirizzano il pensiero alia realitii della cosa, ed a queata il tengono legato: il qnale, senza venire a queati par- ticolari, v'ha pericolo grandissimo che, quasi direi volatile com'egli i, d scappi, senza che noi ce ne accorgiamo, a qual- cbe esse re astratto o ideale, rifnggendo dalle sensazioni ma> teriali, e credendo pnrsempre, contro il vero, di trattenersi tnttavia in qneate. Conciouiachi an tale inganno ci vien fatto continnamente ancbe dalle parole, le qoali non aempre e solo indicano la aensazione nel sno esaere materiale, ma la sensa- zione come 6 percepita dal nostro spirito intellettivo. E vera- mente, ae io dico , il verde di qneato prato mi i grato, parlo della aensazione attuale e reale. Ma ae io dico, mi piace meno qnesto verde, del colore azzurro^ io paragono la aensazione attuale e reale del verde che mi feriace le papille, con an co- lore che non ho presente, e che solo intellettivamente conce- piaco : sicchi Iazzurro ed il verde nel mio diacorso aono presi in diversi significati. Goncladendo adunque, dico esser mani- featisaimo che le sensazioni reali e attuali non poasono nel loro easere proprio e materiale venir recate a quella nnit^, in che noi dentro il nostro spirito raccogliamo le diverse sensazioni eateriori , e nella qnale ne formiamo il paragone. Ritenato adunque per vero indobitato, che le sensazioni esteme, come materialmente esiatono in noi , non si poasono in alcun modo traaportare I'ana nelFaltra, uniGcare, parago- nare, ni per conseguente trovare in esse il comune , I'ideutico: ed eaaendo certo pel fatto, che noi pure le uniGchiamo, le paragoniamo, e troviamo ci6 che han di comnne^ convien dire che noi formiamo quesla loro uniGcazione non in loro atesae, ma in qualche loro forma o rappreseutazione, nellintimo, e per coal dire , nel centro del nostro spirito. Besta dunque che noi esaminiamo, come ci aiamo propoato, ae qnesta nnione e immedesimazione delle sensazioni che si fa in noi, avvenga in una forma che sia an sensorio materiale, e bisognevole di organo corporeo, o pure in una forma del puro iutellelto. Digitized by Google a 1 4 Veramente ncl libro del C. M. vi hanno tali luoghi, i quali non ci dovrebbero lasciar dubitare , essere sua sentenza , cbe qiiesto assembramenlo delle sensnzioni non si faccia e non si possa fare per modo veruno in ncssun organo materiale, ma nell intelletto. Noi tuttavla non vogliamo intralasciare di di- scutere brcvemenle la qucstione , primo, perch^ non i nnica mira di questo scritto I'esatne del libro del Rinnovaniento della Filosofia, ma quaicbe cosa pin in li; secondo, percb^ se alcuni luoghi sono chiari in detto libro , allri a noi sembrano non poco oscuri ed ambigui. Ci gioveremo adunque de primi a vantaggio del vero.* e li addurremo si, come testimonianze an- torevoli, e si pel polso dellargomentazione cbe racchiudono. II G. M. aflerma bene sprsso, die u il principio nostro spon* u taneo (i) non ressa mai di radunare le idee in un cotal cen- u tro d intellezione perfctto ed indivisibile (>). Qui si parla d'un centro d' intellezione. Se dunque per intellezione si dee intendere ci6 cbe la parola suona, IliutoriU del N. A. decide la questione, e quel x sentimento indiviso  di cni altrove ba parlalo , viene a dire un sentimento non animale , ma intel- lettivo. ProGtliamo ancora del robusto raziocinio del N. A. Ecco come egli prova la necessity, cbe le percezioni nostro sieno concentrate in un indivisibile pensiero : u Questa esperienza universale e perpetua (3) dellatto d'in- u tuizione insegna di necessita, cbe le idee simultanee sono u un mullipio raccolto nellunita assoluta del nostro pensiero, u a cagione cbe senza nnil4 di pensiero assoluta non pu6 es> u sere multiplicity simultanea didee sentite. Diciamo unit4 vera (i) Fa grand'uso il Mamiani di queslo , di cui perd ommclte la dcGoiiione e Panalisi. Ove I'avesse posto ad una ditigenle disamina, egli sarebbesi probabilmrnte sconiralo nel vero stalo della que- stione circa rorigine delle idee, cbe gli d sfuggilo. Questa celebre que- stione consiste tulta in dlmandare  Sc il principio sponlaneo, intellettivo, sia fornilo duna idea prlmitiva, e se, privo al lulto di questa, egli si possa concepire m. (a) P. II , ,c. X , III. (3) La forza deirargoinento non viene dall esperienza universale e per- pelua, ma si dal principio di cognizlone, e di conlraddizione , il quale induce nccessilli. Digitized by Google ai5  e assoluta, o come suole chiamarsi uaila metaGsica, escia* u dente ogni parte fuori di parte, ogni modo e forma di di- u \isIone reale. E per fermo , se I'unita del peoslero dod c u assoluta, ciascuna delle idee siroultanee occupa isolatamente  una porzione di lui: ove dunque risieder^ la conce/.ione in-  tegrale e simiiltanea di tutte? e se questa non i, donde u tragge mai il pensiero la facolta di sentire e di giudicare K ad UD tempo solo piu Idee? Oivisione adunque di pensiero u e totalita assoluta di pensiero sono repugnant!  (i). Qui non si parla ebe di pensiero, qui si parla d'idee e non di sensazioni. Semb'rerebbe adunque, cbe 1 uniGcazione delle nostre percezioni il C. M. la vedesse possibile solo ncl pen- sieru, e per6 solo iielle sensazioni cangiale in idee, o per dir meglio, nun nelle sensazioni, ma nelle loro idee. Tuttavia quando io considero que' luoghi del C. M. dove mi dice, cbe nelle stesse cose real! avvi T universale e Piden- tico, e cbe per esempio sotlo al colore scarlatto di questo panno ci sta proprio, quasi appialtato, il colore astralto, uno ed indi- viso^ mi fa tornare il sospetto cbe la mente di lui da due venti contrarj sospinta, non abbia trovato ancora pienissima stability e pace in una ferma e ben cbiara senteuza. Conciossiachi se il comune, Pidentico, Puniversale esige concentrazione e uniG- cazione di piu cose, forz ^ il dire cbe se questo identico ri- trovasi negli oggetti maleriali, gli oggetti material! abbiano virtu di compenetrarsi, non so come, e d' immedesimarsi ; e se gli oggetti possono fare tntto ci6 , niuna maraviglia , cbe possano simigliantemente rientrare Puna nelPallra, e identiG- carsi le sensazioni esterne , o almeno cbe questo addentrarsi Puna nelPallra segua in un certo organo materiale denomi- nato sensorio comune. E perocebi bo mostrato, quanto agli oggetti e alle sensazioni esterne, PinGnita assurdit^ e grossezza di un tale pensiero , non sar4 inutile, a compimenlo del di- scorso, cbe io appliebi tutto ci6 cbe bo detto, anebe al pre- supposto sensorio comune organico. Si consider! dunque , cbe le sensazioni animal! sono, come tali, inerenli alP organo, e cbe senz organo aver non si pos- (.) P. It, IV, .. Digitized by Google a 1 6 soDO^ perocchi daltro non procedono, che da nna imprea* sione, modificazione, e movimento delPorgano itesso, o certo a qnesto movimento si accompagnano. Ora qnesto sensorio co- munc animate avra per suo organo, poniamo it cervello, o la midolla spinale, o I'una e Paltra, o qualsivoglia altra parte. Gi6 posto, si consideri, che quelle stesse diflicolti clie si rin- vengono a uniQcare le sensazioni esterne considerate nel loro essere reale, si debbono di evidente necessity rinvenire qnando si tratta di uni&care le sensazioni di questo interno sensorio; imperciocchi il meccanismo i il medesimo; trattasi sempre, an- cbe in questo sensorio comune, di parti 1' una fuori dellattra, e di movimenti locali. Una fibra cbe avesse nn movimento, a ragion desempio, potrebbe ella contemporaneamente aveme un altro contrario ? No certo; perocchd ella non pud muoversi contemporaneamente in due modi opposti (i).' Ora ad nn solo movimento della fibra non pud rispondere cbe un sentimento solo ed identico. Se dunque questo sensorio interiore non ha che una fibra sola, essa non potrd avere che un movimento alia volta, e per conseguente mai due movimenti contempo- ranei;qnindi non vi sard un tempicciuolo, nd pure indefini- tamente pfccolo, in cui le due sensazioni corrispondenti sieno unificate, mentre anzi non si trovano nd pure contemporanee. Se poi il sensorio d composto di due o piu fibre, ciascuna pud avere un movimento contcmporaneo al. movimento delle altre; ma qnesti movimenti essendo in fibre distinte, non possono altro che eccitare sensazioni distinte di luogo, e perd queste non possono giammai unificarsi, qnando anzi non possono nd pur trovarsi ncl medesimo luogo. Ogni qualvolta adunque si cerca di immaginare un centra organico, un sensorio comune animate, a cui si comunichino e riferiscano le sensazioni esterne ; non si vince la difficolta in modo alcuno ; ma non si a che (i) Niun uomo di buon sense opperrd qui il fenomeno del mote com- posto, del quale si fa uso in matemalica; perocchd egli d troppo facile di accorgersi, che il moto composto d semplicissimo in sd stesso come ogni altro moto, e cbe si dice composto non per quello che d in sd, ma rela> livamentc alia duplicitli o moltiplicitii delle forte che lo producono. Per altro ogni moto in lines retta pud esser prodotto ugualmente da una o da piCi forte. Digitized by Google ai7 trasportarla di an laogo in altro luogo^ dalle parti esteme del corpe umano, alle interne: qnella impouibiliti medesima, che si ravvisa tentando di uuificare e paragonare le modificazioni degli organi esteriori e visibili, si trova ugualmente in Tolere unificare le modificazioni e sensazioni degli organi interiori e invisibili, perocclii ugualmente material!^ e sieno essi pure la- vorati quanto il pin si voglia dilicatamente e finamente dalla natura. Di piu, consideriamo che cosa avrcrrebbe dell'identico delle cose, se le sensazioni esterne si riferissero ad un organo intemo coniune a tutte. L'identico i cid, in cui'sono tutte uguali^ questa parte dunque dovrebbe esser sentita sempre collo stesso identico movimento di fibra : noi dunque non potremmo mai conoscere, che ella si trova in piii cose^ perocchd non awer- rebbe piii in noi che un solo numerico sentimento. Ni dicasi, che i movimenti successivi si conservano nella memorial peroc* che ricorrendo noi alia memoria, ci verremmo trasportando in un altro centre o sensorio , nominate memoria ^ del quale con- verrebbe dire tutto cid che si disse del primo^ e intorno al quale si potrebbe ugualmente dimostrare, che esso non pud essere in modo alcuno organico , ma pnramente spiritnale. Riandiamo adunque il filo del nostro ragionamento : Abbiamo dimostrato, che le sensazioni organiche non pos- sono essere ni unificate^ nh paragonate in sd stesse ciod nel loro essere materiale, nd da esse estratto I'iJentico; e che per- cid d necessario che 1' unificazione loro nasca in qualche altra cosa che tenga le loro veci, in qualche loro forma o rappre- sentazione^ Abbiamo dimostrato, che questa loro forma o rappresen* tazione , nella quale debbono venire uruficate , paragonate , astratte, non pud essere un sentimento animale intemo, un sensorio organico^ perocchd sebbene quest' organo intemo ri- cevesse tutte le sensazioni esterne per comunicazione di movi* menti, tuttavia ivi non si potrebbero unificare, paragonare od astrarre , megllo che non si faccia negli organi esteriori : Ma il fatto d certo, che le sensazioni esteme o percezloni organiche da noi si astraggono, e perd si paragonano insie- me, e perd si unificano: RosMiai, Il Binnovtunettlo. >8 Digitized by Google ii8 Dunque non poteudo ciu opcrarsi in alcuna modificazioao, movimento, imprcssione di qaai si voglia organo matcrialc^ ronviun dire cliulle si paragonano e uniGcano e astraggono in una forma che e veramente immaleriale, c che fcdclmentc Ic rappreseula. Quesle forme immaleriali delle percezioni sensibili e loro cagiuni prossime, sono quelle a cui (dovendusi pure ehianiare eon qualchc nome) fu imposto il nonie A' idee. Ogiii idea rappresenta non una sensazione sola, ma tultc le sensazioiii di rui il lipo. Noi sianio enti ad un tempo sensitivi , eiue foriiili di sensazioiii, c inlelletlivi, cioe fornili d' idee. Sc noil avessiiiio elie T idea , tulle le sensazioni elie in quell idea .sono rappreseiilate porderebbero la loro dislinzioue^ se non avessinio elie sole le seusazioni, (|uesle sensazioiii rimarrebbero perpeluamente dislinle fra loro, ma seinpre prive deirunila, I'.io ebe forma la condizioue de' bruli. Ma avendo noi dalluna parte le sensazioni, dallallra le itlce, pussiamo avere in noi senza eoiitraddizioue alcuna e il moltipUce e I'li/io* il molti* pliee i conservato In noi nelle sensazioni, e I uno i dato a noi nelle idee. Noi inlendiamo per I uiiicila del nostro intinio .senso, die molte sensazioni, o in si o solo in qualclie parte, eorrupondono ad una sola e medesima idea: qucsla dunque le lega, le raceuglic, le riflelte lulte; ma quelle pero non si eonfondono insieme , non perdouo punto ni poco la loro di- stiiizione naturale, peroeebi esse stesse non si unifleauo od im- medesimano punto. Se per es. vi hanno cento corpi rossi, la luia idea del color rosso li uiiizza tutti, |ierocclie lulti li ra[i- presenta: nella unicila adunque di questa idea ritrovasi Iiden- lita di que' corpi sotto Iaspetto del color rosso^ rocnlre iii essi malerialmcnte presi, o nelle sensazioni che in me cagio- naiio non si Irova nessuiia identila, ina bcusi una assoluta dislinzione, e in ciascuno una csislenza incomuuicabile allallro. Se i cento corpi sono pinti a varj colori, io li conosco con \arie idee: in un modo li conosco coll' idea del colore in ge- ncre^ in un allro colic idee de colori particolari, verde, lur- idiiuo, giallo, purpurco, ecc. Coll idea del colore in gencre, io li conosco tutti, ma piii impcrfeltamenle : colie idee de colori verde , sono astrarre senza paragonarle insieme, n^ si possono para- goiiare senza unificarle; Abbiamo veduto , cbe n^ cose, ni sensazioni si pos.sono uni- ficare in si stesse, ma solamcnte nelle loro idee; cioi die la loro onificazione consiste nellunita delle idee che a loro ri- spondono : v Quale i di questo vero la conseguenza ? La conseguenza ineluttabile si i, che avanti Iastrazione, avanti la comparn- zione, avanti la unificazione delle cose c delle sensazioni, le idee debbono gii esistere; perocclii solo nelle idee e per le idee si da unificazione, comparazione , astrazione: quindi le idee non. possono snsseguire od esserc il frutto di queste operazioni. In nessnna maniera si pu& eludere, o declinare una si ter- ribile conseguenza. Si puu solo dimandare dopo di cii, se sia assolatameiitc aao necessaria, aranti quelle opcrazioni deUaalrarre Iidentico, del paragonare e dellunificare, Iesistenza di tutte le idee, o solo di alcune , e se di alcune , di qaante e di quali. Tale i il problema, che io mi sono proposto nel N. Sa^io sulPorigine delle idee. Ivi ho dimostrato, che I'anificazione, il paragone e Iastra- zione i possibile tosto che preesista una sola idea : e che que* sta idea necessaria a tutte quelle operazioni dello spirito, h V idea delP essere. Chi ammettesse di preesistente qualche cosa di pin di qne- sta idea , ammetterebbe del superfluo. Gonciossiachi in quella idea consiste ci6 che hanno d identico tutte le cose : trovato cid che hanno d'identico tutte le cose, 6 facile, rinvenire 1 iden- tico gcnerico e spcciale, venendo formate queste generalitii e speciality dai sentimenti che limitano 1 identico universale, e non essendo Iidentido generico o specials che modi dello stesso identico universale. Chi ammettesse qualche cosa di meno di quell idea, non ammetterebbe abbastanza. Perocchi se preesistesse solamente unidea costituente un identico generico o speciale, e non uni- versale; questa idea non darebbe al nostro spirito la potenza di unificare e paragonare tutte le cose, ma solo quelle rispon- denti a quella idea; n^ potrebbe perci6 lo spirito nostro estrarre 1 identico che da quel genere o specie di cose, che viene da quell idea determinate. Ma oltraccid, questa supposizione del porsi nella mente nostra meno dell idea dell essere , pu6 du- bitarsi se non sia forse da si assurda, e impossibile. Concios- siachd qualsivoglia idea parzjale suppone finalmente la prima universale, e non h altro che la prima stessa coll aggiunta di qualche niodo , o . di qualche determinazione; e sarebbe pure strana cosa a immaginarsi una mente, che potendo concepir 1 essere anco con quella determinazione, nol potesse poi con- cepir separate. Per tutte le quali cose io credo, che avendosi dimostrato prima in generale, come lo spirito nop possa avere la potenza di unificare, paragonare, e astrarre le sensazioni, c cose sen- sibili , senza delle idee precedenti; Avendosi poi esaminato qual sia la relazione delle idee fra Digitized by Google aa I loro, e veduto il loro muluo incatenainento, vedoto come Tuna si form! ed ingeneri dall'allra; Arendo trovato di piu, mediante queste ricerche, avervi ana idea sola che sta sopra tutte, e che non puo esser for- mats da vernn'altra^ Avendo altresi considerato, che quest' idea i di tntte la pih semplice, la piu tenue, e che ella i involta, i ripetnta in tntte Ialtre, sicchi essa i relemento primo e necessario del pensiero ;  finalmente, che ella sola, sebbene $i poca cosa ella paja, hasta per6 a dare alio spirito la possibilita di nnificare, di paragonare , di astrarre tutte le sensazioni , e tutte le cose sen- sibili , senza eccezione aicnna : lo credo , dico , avendori tutto ci6 rilevato,' e irrepngnabil- mente fermato, che debba ammettersi si come dimostrato a pienissimo , che quests idea dell essere precede nella mente umana ogni uniBcazione, ogni comparasione, ogni astrazione^ e ch ella per6 non pu6 cominciare per nessun astruione, per nessnn paragons, e per nessuna uniBcazione, atti che senza lei nd si posson fare, n pensare. CAPITOLO XXXVIll. CLI SFORZI DBL MAMIANI A SFIEGARE LA GENERAZIOME DELliDEA DELleSSERB nVLLA OTTEnCOHO. E qui sarii agevole portare nn retto giudizio intomo al mo- do, onde il C. M. espone 1 origins dell idea dell essere, e par- ticolarmente rilevare, se egli mantiene in esponendola quelle gravi condizioni chegli stesso si 6 posto (i). PerocchA noi ab- biamo veduto , volere il N. A. dedurre tntte le idee astratte dal paragons (a), e Iidea dell essere non esser per Ini altro (i) Vedi il cap. XVII. (a) Cotesto ritrarsi che fa Iatlenzione da piii cose present! nellanimo  per raccorsi tutta e ditnorare sopra un soggcllo parziale costiluiscc la M Tirth dell' astrarre I nel cui ufficio I'ideotico vienc conlemplato come  sciollo dal rario, e per cooscguente il vario come non frammisto allideo-  ties " (P. II, c. X, tv). Digitized by Google X'll cbc Iidea astraltissima di tutte (i), un'idea. come egU la de* nomina,  di medesimeaza  ; perocch^ egli dice che u tutte le cose hanno una medesimezza nccessaria fra loro riguardo all esislere  (a). L idea dell essere si forma adunqnc col paragone , e col- 1 astrazione , separando dalle cose  la medesimezza che hanno tntte fra loro in quanto allesistere . Or dopo tutto ci6 che abbiamo premesso, niente di piu fa- cile che il deCnlre, i. se egli deduca in tal guisa Iidea del- 1 essere secondo la promessa fatta, senza proposizioni mental!, senza affermazioni, e senza giudizio, quando e proposizioni e affermazioni e gindiz} sacchiudono gik nella unificazione , nel paragone, e ncllastrazione^ . 3. se esentandole dalle troppo dure condizioni poste a sh stesso, egli tuttavia riesca a deduire senza paralogismo Iidca dell essere, quando egli ad ogni modo ha bisogno, in dedurla, di unilicare, paragonare, astrarre, e tntte qneste operazioni suppongono gi4 formata, come vedem- mo , 1 idea dell essere stessa , istrumento necessario alle me- desime. CAPITOLO XXXIX. CONTINDAZIONE : ATVILUFFI IN CCI SI FEEDE IL MAMUNI. Ma in queste dottrine il Mamiani non i costante ; noi dob- hiamo tornare al combattimento de suoi concetti. Richiamiamocelo alia mente: in un loogo essendogli renuto nellanimo di cercare che fosse Iidentico delle cose, che co- stituisce gli astratti, gli parve chiarissimo, quello dover essere un elemento cogitativo, e non alcana parte reale e concrcta delle cose stesse. E a confessarlo allora nol ritenne il dubbio , che le idee astratte potessero perci6 esser mendaci^ conciossia- ch u chi ha mai creduto e pensato , che la identity e la u varieU, Iuguale c il dbuguale, il molto ed il poco sieno (i) P. II, c. IV. . (5) P. II, c. XX, I. Digitized by Google V aa3 , u parli concrete dei corpi  (i)? peri^ non possono ingannare IICSSODO. Sotto Tinfluenza poi d'un allro pensiero gliene parve di- versamente. II comprese limor fortissimo, non forse la realilit oggettiva, o verita delle idee astralle, se ne andasse in fumo, quando I identico che quelle in si raccolgono non fosse una parte realmente esistente oelle cose concrete. Vinto allora dalla gravezza del pericolo , cerc6 di ripararlo colla contraria sen- tenza, insegnando, die sotto al colore particolare e determinato di nn corpo sta il color comune indeterminato , e pronuncian- do, die u dii dice o pensa questo giudicio : la vostra mauo  i Lianca, percepisce efTettivameDte due cose, cioii il modo u spcriale della Liandiezza inerenle in quella singola mano , u e il modo comune della biancLezza die risiede cost in quells  MS.NO , come in qualunque allro corpo, il quale sia bianco^ a e ciA risponde a capello al reale di tutU gli esseri  (a) : sicchi in quella medesima mano vi hanno effettivamcnte due bianchezzc, la comune, e la propria (3). Or con entrambi queste due sentenze contrarie, quasi con due pugnali, egli ci assalisce. Ma troppo i dilHcile a maneggiar due pugnali senza ferire si stesso^ e parmi, che qui il N. A. si tagli per mezzo , a segno , che noi non abbiamo piu un Mamiani solo per avversario, ma due. L'uno di essi vuol ribattere questa mia proposizione : Iuomo non pu6 pensare a nulla senza T idea dell essere. Ma prima Ialtro ne da la prova , dicendo: X Moi troviamo 1 essere in tutle le cose ; or truvare 1 es> X sere vale rispetto a noi concepirlo: e perch^ le cose tutte X quanto son pensate e conosciute da noi per mezzo dei nostri (i) P. II, c. X , III, (z) P, II, c. IV, V. (3) II cliiamarli come b due  modi della biaiichezza m , non gli giova die a complicare maggiormente la dilGcolla. Pcroccbi sc cgli parla de modi della blauc'bezza, la bianchezza asiralla iiilorno a cui versa la qiicstione Ih.^ lasciata da parte. E poi quale slrauczza il dire, cbe la bianchezza speciale (comegli la chiama) della mano, sia un modo della biaiicliezza , e cosi pure la blaiicbezza comune? Vi sarebliero duoquo Ire blancliezze , c non due; e cube siesse manicre impropric di parlare si polrebbe moltiplicarc I nuracru dtlle bianchezzc all'iufiuito. Digitized by Google aa4 u concetti, trovare I' easere in tatte le cose, vnol dire allal- , u timo trovare in ogni concetto di cosa il concetto dell'es* u sere  (i). 11 primo Mamiani perA mi oppone : u Non A nelle cose nnesistenza astratta, indeterminata , e u distinta dai modi particolari e individuali^ ilchesolo rispon- u derebbe a un concetto distinto astratto e indeterminato  dellessere; siamo noi bensi che usiamo talvolta considerare  le cose, astrazione fatta da ogni loro indiridualiU, e solo  in (juauto elle esistono , cioA in quanto noi le consideriamo  con quell astrazione n . A cui io rispondo : noi dnnque consideriamo le cose, astra- zione fatta da ogni loro individualit4 (piu esatto sarebbe il dire sussistenza, o concrezione ) , e solo in quanto elle esistono. Una tale astrazione non A ella Iidea dellcssere in universale? cbi ba mai preteso, che quest idea sia qualche cosaltro? chi ha preteso, che nelle cose stesse vi abbia un'esistenza astratta, indeterminata, e distinta dai modi particolari e individuali ? chi poteva sognare una simile dottrina? a chi non. e noto, che tutlo ci6 che A astratto e indeterminato non puu esistere nelle cose, ma solo nell intelletto? non 4 queslo che noi diciamo sempre? Di poi , r Rutore di una tale dottrina da noi riprovata e dal Mamiani confutala, non A che un altro Mamiani : noi abbiam vedulo, trovarsi replicatamente nel libro del Riruiwamento que- slo inconcepibile assurdo, che v abbia necorpi, sotto il colore determinate, il colore comune e indeterminate^ e che una mano abbia due bianchezze, la sua propria, e la comune, che A quanto dire indeterminata!! Che mi giova? il primo Mamiani non cessa di accusarmi seriamenle, che nelle mie dottrine intorno allessere in univer- sale u si fa non conveniente passaggio dallidea allessere, e u dal concetto delle realita, alle medesime realita  (3): qua- sichA sia io quegli che pretende che nelle cose reali vi sia Iidea, e che Iidea sia un elemenlo della realita delle cose^ () P. II, c. XI, II. (1) P. II , c, XI, II. Digitized by GoogI aa5 quasichi io confonda insieme la idealiti e la realiti delles- sere, e non mostii anai) che quella e il mezzo onde noi co- Dosciamo questa, i la conoscibiliti di questa. lo lo prego di addurre qualche passo del JV. Saggio, in cui pur da lontano si pouga questa straua confusione fra Iidea e la cosa, fra Iideale e il reale ^ come io bo potato addurre de' luoghi che racchiudono tanta stravaganza del libro del Rirf nopamento; e mi do bello e vinto. Ma per quel Mamiani, che suppone on colore indetermiuato e comune sottostare al co- lore reale e proprio decorpi, quale strana cosa potrebbes- sere anche il dire, che un essere comune e iudetermiuato sot- tostia all essere proprio delle cose? CAPITOLO XL. CONTINVAZIOME. Per altro Iimbarazzo, in cui qui il N. A. travagliosamente s'iuvolge, parri uuo spettacolo siogolare a chi il verra atten- tamente considerando. Egli ha gii ammesso in tanti luoghi del soo libro, ed an- che in quello ultimamente allegato, Iastrazione dell essere; ha riconoscittto che questa astrazioue i unidea di medesimezza, che le cose in quanto allesistere sono uguali, che dunque questa idea dovrebbe dedursi dal paragone delle cose, come ha iatto di tulte Ialtre idee astratte. Ma se egli la estrae dalle cose, egli pare allora, che nelle cose stesse stia Iidentico, con- tro p ci6 che ultimamente, per opporsi alia mia dottrina, egli ha detto, cioi che Iessere astratto e iudeterminato non sia piu nelle cose, sebben vi fosse un po prima. Se poi egli am- mette che questo identico nelle cose punto non ci sia, come estrarsi dalle cose? E oltracciA in tal caso Iidea dellessere indeterminato, come tutte I'altre astrazioni, non avrebbe piu qnella veracitii chegli cbiama  realiU obbjettiva  , e che consiste nel rappresentare fedelissimamente le cose. Quanta la- boras in chaiybdi . . . ? Ma questo avviluppo sara piu bello, voglio dire piu esem- plare, a udirlo descritto da lui stesso. BuaMiifi, Il Rinnovamento. ag Digitized by Google aa6 Nelle uUime parole di sopra riferite aveva egU detto, che K noi usiamo talvolta considerare le cose, astrazione fatla da  ogai loro individualitci, e solo in quanto elle esistono Questo era un dare spiegazione della generazione dell' idea del- Iessere, facendola nascere dal considerare le cose solto il ri- spetto dell'esistenza a tulte comutie, fatta astrazione da ogni altra loro quality ^ era un dire manifesto, che Iidea delles- sere nasce dall' astrazione, mediante la quale noi consideriamo nelle cose ci6 che hanno tutte, niuna eccettuata, di identico, il quale i I'essere. Pure, per le ragioni toccate, egli non potea riinanersi col- I'animo quieto sopra una tale generazione dell idea dellessere: dice adunque:   Polrebbe opporsi: tale astrazione non fora possibile, u tuttaTolla che nelle cose e in conspgncnza nei loro con-  cetti non si trovasse un fondamento dellaslrazione, cioS al- u cun che, proprio a venire diversificato e distinto: in ogni  concetto adunque Iidea dellessere giace, in alcuna ma  niera, distinta dalle altre idee individuali . Quesia istanza non tocca noi, roa ben tocc^ sul vivo il C. M., ciO(^ quel G. M. che dice le idee rispondere interamente alle cose, e 1 identico che ^ nelle idee esser veramente anche nelle cose reali. Perocch6 trovandosi 1* identico nelle idee astratte separato, come suona la parola, da tutte le altre note, con- viene che questa separazione reale sia pur nelle cose, se vuol mantenersi la sentenza dellassointa e perfetta rispondenza delle idee alle cose. Quanto a me, io ammetto che nelle idee possa esser di- stinto quello che nelle coiie i unito, senza che la veracita di quelle ne patisca, io anzi fo esser proprio delle idee il potere di divideru e di comporre le cose^ e (inalmente io ammetto una iiicredibile distanza e diversita fra le idee e le cose, fra I'essere ideale e Iessere realc, riconoscendo in quello il prin- cipio e la conoscibilila di questo, e in questo il fine e la mate- ria di quella conoscibilita. Nulla dunque per me di nuovo, o di strano, che per la virtu astrattiva dello spirito nostro si possa osservarc nelle cose il solo esserediviso da suoi modi, senza die siavi un bisogno al mondo, die quell esserc stia nelle cose Digitized by Google realmente dall'nltre qualila distinlo, e partilo: e qocstessere cos\ coDgiuato allallre qualita i tuttayia per me un foodameolo acconcissimo dell' astrazione. Risponda adunque alia sna istanza qael Mamiani , a cui tocca rispondere, quegli, che vuole un si esalto riferiniento delle idee alle cose; e nella sua risposta mostri Inlto rintrigOi in cui egli da s^ stesso si pose. Eccolo ubbidiente al nostro desiderio: u Due condizioni, dice, costanti si possono avvisare in ogiii u concetto egualmente cbe nelle cose tutte pensabili. L'una i a la loro entiU pccnliare, I'altra le loro attinenze. Adunque u I'idea dell'essere o giace in ogni concetto come lor parte u integrale, ovvero sorge dal paragone di questi. La prima u ipotesi rende falsi tiitti i nostri concetti, imperocchi la dove u dentro le cose I'essere non giace distinto dalle peculiar! de- u terminazioni: entro i nostri concetti I'idea dell'essere siede* a rebbe distinta dall'altre idee individuali . Da questa parte adunque il G. M. non trora una uscita. OsserveriS lo bene, i. cbe Ialternativa proposta non i fatta secondo le regole logiche, perocch^ secondo qneste, i dne membri dell alterna* tiva debbono corrispondersi ed csser della stessa natnra: p. e. si direbbe, questa palla i o rossa, o gialla; ma non si di- rebbe questa palla 6 o rossa o dargento. Cosl nel caso no- stro conveniva dirsi:  I'idea dellessere o giace in ogni con- cetto come parte integrale, o in altro modo, per es. come parte potenziale o virtuale  ; ma il dire, o si giace come parte in- tegrale, o sorge dal paragone, i cosl inesatto come il dire, il mio calzare o i parte integrale del mio vestito, o pure I'ba fatto il calzolajo: a. quanto al modo ondc unidea pu6 giacere in nn'altra, io non far6 cbe ripetere ci6 cbe un G. M. mi somministra. Que- sti adunque minsegna, cbe si da benissimo in natura  Iin- serzione di unidea in unaltra idea , anzi cbe ci6 avviene ogni volta cbe si fa un giudizio (t): come questi pure minse- (i)  GIti si (llsse che ogni conoscenza include un giudicio, o con altra  Iessere, sciolta da tutti i modi, esi$ta*sl o no nello spirito nmano, e che se esiste, e di questa che si tratta, o di cui si vuole spiegare I origine, rimanendo poi un'altra questione qnella di sapere se una tale idea sia vcrace, o menzognera: direbbe, che I'esistenza di una tale idea distinta da ognaltra i inne- gabile; e che gi^ si ammise come cosa fuori di controversia , che u Iidea dell'essere risiede nellintelletto distinta dallal- X tre idee e a cui possiamo pensare separataroente da tutte  (a). CAPITOLO XLI. COHTIMDAZIONE. Ma via , escluso il paragone de' simili , veggiamo qual sia il nuovo processo dello spirito, seeondo il quale, giusta il nuovo (i) II C. M. dice anche quesle parole:  Se I'essere dee venire guardalo r come idenlico a tulti  modi e a tutte le dlflerenze di cose e didee, in  qual maniera acuopriremo per via di confronto la siia somigliania tia uua > cosa ad uualtra, e da unidea ad unaltra?  (P. It, c XI, ii); e con queste parole mostra la difficollli che si scontra a dedurre Iidea del Ies- sere dal paragone. Tali parole lo coiifesso di non inlendere. Qual inaravi- glia , che si possa scuoprire la simiglianta dell essere , se egli 6 identico alle cose tutte, c modi e dIHereoze? aozi non si troverebbe si estesa somi- glianza se identica non fosse. Vorrebbe dir forse, che pnnendo Iidentitii dell'es-sere tanto larga, si struggcrebbero le diifcrenze delle cose? ma pos- siamo noi fare, che la sua idenlilii sia pl& larga o plu stretta di quella cbe i? Di poi le diSerenze e i modi dellessere non sono Iessere, ma sue limilaxioni; e per6 s intende assai chiaro come le diffcrenze ed i modi coesistano insieme collidentith, nascendo esse da un principio diverse, da un principio di limitazione. M P. II, c. XI, II. a3o G. M., vienti in not generandosi I'ldea dell'essere. Altenzione a tntte Ic parole: II Diciamo che il paragone fra i conlrarii, da' quali si ori- u gina Iidea dell'essere,  qucllo che I'animo nostro ripete B infinite volte fra gli stati suoi positivi e gli stati suoi ne- B gativi, quando cio^ viene afletto da alcuna cosa, e qaando B pin non nc viene affctto. Tal confronto lo muove a sentire, B chc mentre gli stati positivi sono diversi Iuno dall'altro, B invece li negativi sono similissimi sempre e in tntto, doi B che una sola forma di sentimento si ripete per ciascuno di B loro. Ma d'altra parte li positivi quantunque diversi hanno B questo di comune, che si oppongono egualmente futti a B quel scnso di privazione che abbiam descritto. Lintelligenza B nostra considerando in disparte tal forma di opposizione B viene a creare (i) I'idea astratt/t dellessere. Avvegnachi B tntte le cose sono simili in ci6, ch'elle differiscono tntte  egnalmente dalla privazione. Qnesta simiglianza, come  B vede, non ^ elemento integrale di lor natnra, e non si di- u stingue per si dalle varieti loro individue, ma sorge in fondo B del nostro animo per efietlo del paragone fra li suoi stati B contrarii n (a). Ora a quante e quali osservazioni possa dar luogo qnesto passo, i difficile a dire: io mi contenter6 di alcune. I.' 11 raffrontare gli stati positivi, e gli stati negativi del- r animo nostro, potrii bene darci un astratto, che ci dica eqae- gli stati positivi esser tutti egualmente remoli da' negativi  ^ ma questa idea astrattissima degli stati positivi dell animo no- stro, non i^ mica I'idea dellessere. L idea dellessere non esprime lo stato dellanima nh concreto, ni astratto; Ianimo i uB es- sere particolare; i suoi stati non sono che modi di un essere parlicolare. Ora da modi di un essere non si pu6 dedurre le- sere stesso, ni da un essere solo si pu6 trovare I essere in uni- versale. a. Gli stati negativi dell animo non sono gia il niente. II (i) CresreT non i dunque Iidea dellessere dedottia, ma creala dalla mcnte ? {i) P. II, c. XI, II. Digitized by Google a3 I G. M.stesso suppone che sieno sentiti, che sieno un seatimento, dicendo  una sola forma di sentimento si ripete per  cia- scuno di loro . Paragooando adunqoe gli stati positivi del- Ianimo co'negativi, non si paragona mica il qualche cosa col niente, ma un sentimento con un altro sentimento, un qual- che cosa con un altro qualche cosa^ e il qualche cosa nou i rimoto da on altro qualche cosa, come Iessere dal niente. Dun- que ammesso anche per vero che Iidea dell'esserc consistesse nellosservar tioi che  tutte le cose sono simili u in ci6, chelle differiscono tutte egualmente dalla privazione  , non si potrebbe per6 cavar mai quest idea dal confronto fra gli stati dellanimo positivi, e i negativi. 3. Ggli ^ poi falso che gli stati positivi dcllaniino u sieno  diversi Iuno dall altro: e invece li negativi sieno siniilissimi M sempre e in tutton. Pcrocchi fra gli stati positivi. delPanimo, e cosi pure fra i negativi si possono osservare molte somi- glianze. 4- Ma poniaroo, che non si tratti nel passo del C. M. de- gli stati dellanimo; che non sieno questi che si mettano a pa- ragone; ma che trattisi in qnella vece, delle cose che allanimo stanno presenti, o che dallauimo son rimosse: trattisi adun- que di paragonare I'enl/td di qucste cose col nui/a opposto- Pimarra a diniandarsi, i egli il nulla che fa conoscere Iente, o Iente che fa conoscere il nulla? Presso i nostri buoni an- tichi sempre dicevasi che il nulla era nulla^ e che paragone non si pu6 fare se non fra due cose, che per6 il paragone fra il qualche cosa e il nulla propriamente non i che una cotale illusione della mente. Dicevasi, che Iintendimento nostro, non potendo concepire cosa alcuna se non mediante la forma di cnte, egli vestiva di questa forma anco il signiGcato della pa- rola nuJla, e a questa parola aggiungeva un cotal essere men- tale che non esisteva fuori della niente (i). Deflnivasi questo essere mentale denominato nul/a cosi: u la negazione delles- (i) Aon ens aiilem , dire s. Tommiso, non habtt ex se ut sit verum , scd sotummodn ex intelleclu apprehendente ipsum. S. I, XVI, vii, ad 4. E nllrovei Non eiis non liaOel in se unde cognoscalur : scd cognoscUur in qiianlum inlcllcclus fucil illud cognoscibite. Unde lcrum Jiindatur in enlc, Ivi, art III, ad a. Digitized by Coogle a3a sere  ^ sicche il nulla senza Iessere non polevasi concepire, ina solo coucepivasi mediantc Iessere. Se quesle doUrine sou vere, coiivien dire, che prima di paragonare le cose col nulla, quell essere nientale (il nulla) debba esser formato^ e non for- mandosi esso se non mediante I idea dell essere a cui si riferi- sce, convien dire, che 1 idea dell essere sia formala in noi molto prima che quella del nulla. Egli & adunque assurdo Iimma* ginare, che I idea dell' essere nasca dopo quella del nulla, come sarebbe se fosse vero, che essa nascesse nel nostro spirito col confronto che noi facciamo fra le cose, e la loro negazione. 5. ' Di poi , se le cose messe a riscontro col nulla, si tro- vano tutte convenire in questo, che differiscano da lui^ non si puu mica conchindere, che u questa simiglianza  non ^ M elemento integrale di lornaturan. Perocchi il dilTerire dal nulla i necessariamente un elemento positivo; come il dilTurire dall essere i necessariamente un elemento negativo. Non in- ganniamoci collabiiso delle parole, colle quali talora si fa comparire per negativo quello che A positivo, e viceversa. Con- sideriamo un po, che cosa voglia dire differire dall essere. Chi differisce interamente dall essere, A nulla. Che cosa vuol dire allopposto differire dal nulla? Chi differisce dal nulla ha Iessere. Dunque ci6, in cui le cose tutte differiscono dal nulla e dalla privazione, A Icssere, dunqiie A un che positivo, dun> que A certamente u un elemento integrale di lor natura >. 6.  Di piii: dal n.* 5. conseguila, che se le cose, perchA differiscono tutte egualmente dal nulla, convengQno tutte in aver 1 essere^ dunque quest' essere A il simile, Iidentico delle cose. Dunque a che ci bisogna paragonarle col nulla per rin- venirlo, e non piii tosto fra di loro, come si fa nella forma- zioiie di tutte le altre idee comuni? O anzi, credesi forse che nel paragonarle tutte al nulla, non sacchiuda il paragone di loro fra sA? Quella tutlal pin non sarebbe se non una via in- diretta e piii lunga che si farebbe per venire al detto para- gone^ perciocchA a fare quel paragone si userebbe il mezzo di questargomentazione tacita;  Le cose uguali ad una terza sono uguali fra di loro: viceversa, le cose che ugualmente differiscono da una terza, sono uguali in questa differenza. Ma tutte le cose ugualmente differiscono dal nulla. Dunque sono uguali in que- Digitized by GoogI a33 Kto difTerimento. Ma il differire ugualmenle ilal nulla, i con- vrnire tutte nell'esfiere. Dunque tuUe hanno di uguale o sia identiro Icssere . Chi non vede la slorlura e 1 inutile Inn- ghezza di qnesto cammino? II paragone dclle cose col nulla, 0 rolla loro privazione, pu6 tutt'al piii far meglio risaltare al- I'ocrhio della mente la loro comune qualila dell'esscre^ ma qnesta, per esser trovala, non ha bisogno alcuno di quell' im- maginario paragone. 7. " Tutt! gli argoraenti da me recati nei numeri 4- 5. e 6.*, possono anro applicarsi agli stati positiv! e negalivi dell'animo, sal cui paragone vicne il C. M. fabbricando I'astraziooe dell'es- sere. Perocchd egnalmente si pu6 dire , che il positivo non & conoscibile pel negativo, ma viceversa, che il negativo suppone precedente I idea del positivo, e che la remozionc del negativo 1 un elcmento positivo e non negativo. Se non che gli stati dell'animo hanno oltracciu a loro carico le riflessioni da noi poste nei numeri i., a." e 3.* 8. * Pare pero, che il C. M. stesso senta I'assurdita di para- gonare il qualche cosa col nulla: perocchi egregiamente egli dice,  lo stato fenomenico di nostra mente progredire per H due serie correspettive di fatti, mutabili gli uni, immutabili  gli altri  (1), e mostra assai bene accorgersi, se non min* ganno, come i fatti variabili abbiano bisogno di coesistere agPinvariabili per essere percepiti. ) Or cbe 4? in questultime parole torna alia dottrina altrove da lui professata, cbe Iidentico e il simile non sicno dentro le cose in modo distinto. E tuttavia in modo distinto sono nel nostro intelletto. Se dunque questo ^ vero, e qucsto non toglie la verita de nostri concetti e de nostri giudizi, a qual pro intavolare prima tante difbcolla nellestrazione dellessere dal paragone de simili? a qual pro sostenere si fermamente, cbe ove nei nostri concetti Iessere (questo elemeiito comunissimo o identico alle cose tutte) fosse distinto, i concetti nostri e i nostri giudizj sarebbero tultl falsi ? Come conciliare questi due autorl, cbe appariscotio nel li- ^ bro del Rinnovamento , fra di loro ? Osservero ancora nelle cilate parole, I." Che non i il sentimento del paragone, cbe noi appli- cbiamo ai termini del paragone quando diciamo  due cose sono simili  ^ ma si applichiamo a quelle cose il predicalo di somigliante , la qual somiglianza non  un sentimento, ma unidea astratta, cose iuflnitamente distant! I'una dall altra. 11 sentimento subbjettivo del paragone, non e, e non pu6 es- ser altro cbe il sentire o Iesser consapevoli di fare il paragone, e nulla piii: allincontro quando io dico, questi due corpi (1) P. II. C. \l, II. Digitized by Google 5 3/> sono sferici, io applico acl essi I'astratto lella sfericila, cho i nna bella e buona idea. II '  ''Si  ''1 'ib" . i>i (.T'iiiui II 'll >i ' I'll OIJb ' i'l oiiytjxjti ii/. oiufii Digitized by Google LIBRO TBRZO DELLA CERTEZZA DELLE COGNIZIOM UHANE.  pervenuli uoa volta a disituguerc e M dcGuire con sicurczia la forioa Sm>  plice ed esscnzialc del vcro, niuna u cosa polrebbe impedire di ricono* M 2icerla per tntto ove sia presente MdMlASlt P. II, c. XVII, II. Ma egli k tempo che noi veniamO' a qoello che forma lar> gomeoto proprio e deliberato del libro del Rumovamento della fdosofia daliana, cioi alia dimostrazione del sapere. Perocchi deilorigine del sapere noi vedemmo, cbe il C- M. non parl6 deliberatamente, ma da necessila iodotto e tirato, disvolendolo egli, accorgendosene, dopo riiiatata la ricerca dellorigine siccome inutile all uopo suo, conghietturale, impossibile. Chi da vero non sempre chi scrive dice ci6 che vuole^ talora cii che vorrebbe il meno^ e la lingua deU'nomo, e la penna, ub- bidisce alia secretissima e naturalissima forza della coerenca della verita. Noi vedemmo il nesso fra la questione dellor^iie e quella della certezza; vedemmo che il certo non pu6 avere il suo fon* damento cbe aeW evidente, e che I'evidente si dee cercare e si pu6 attigner solo alia sorgente prima della cognizione e della stessa intelligenza (i): ci innalzammo passo passo in cerca di questa fonte perenne e pura^ seguilandone indietro i rigagnoli che da quella scaturendo discendono^ la trovammo^ nabbiamo contempiato, a cosi dire, il zampillo limpidissimo, Videa nella (i) Lib. I. Digitized by Google sua pure/.7.a, Y intuizioiK deiCesserc, spontanea, anten'ore ad ogni esercizio di facolt^, immanente in no!, luce sincera che procede dal volto dl Diu (i). Ora no! dobbiamo cominciare a meltere a profitto cotesta nobile origine del conoscimento da noi rin- venuta , applicando il principio evidente del conoscere, la co- giiizione essentiale, alia dimostrazione delle cognizioni tutte ac- cidental! e derivate^ richiamando in pari tempo ad esame, cnl- Iajuto di qnella tessera prima ed originaria , le dottrine onde il C. M. tolse a garantire al genere umano la certa c assolnta verita di cii!) cbe egli conosce. Niuno ^ die non s'acrorga, come la teoria della certezza an- tecede, in ragione di ordine logico, ogni altra dottrina riflessa e filosofica^ e come la ricerca stessa deH'origine delle cognizioni non acquista eflettivo e pieno valore $e non a quel punto, die, essendo ella giunta a disroprirc IVssenza del conoscere giacente nell'intnizione dellessere, trova nella luce di questa prima ve- rita e la certezza propriaj e quella di tutte Paltre scienze a si inferior!. SIcche Yideologia e la logica hanno insieme un punto di contatto, in quanto cbe la prima rinviene il primo veto , origine o piu tosto sede del sapere, e la seconda nsa del primo vero come di regola e di misura a dare una ferma dimostra- zione del sapere raedesimo, inducendo da esso in noi una per- suasione immobile, riflessa e libera. Indi, dii non vede I'im- portanza della qnestione che noi trattiamo? e come non alluna o allaltra scienza, ma giova a tutte colui che pone I'ingegno e Iopera a cacciare dagli animi lo scetllcismo, il quale invidia all' umana famiglia tutto ci6 die la nobilita e la sublima, il conoscimento^ coin! die s' impegna a pronunciare il principio della certezza con parole si proprie, si scevre di ambignila, ve stite di una forma cost adeguata , che tutti quelli i quali vi dirizzino gli sgnardi, non possano non vederue il fulgore, e con- fussarsene dall'acutissima luce vinli e. trionfati? E per6 lodevola intenzione fu quella del C M., cbe col suo libro intete a comporre una cotal difesa e dimostrazione del sapere , al cui vigore nessuno possa sottrarsi, ae non colui che la ignora. Poichi (i) Lib. II. Digitized by Google i4 non si pu6 certo assicarare agli studj Glosofici un progresso verace, ordinato e diretto, se non per opera di qae' filosoG, i quali sieno perveiiuli concordi almeno ad aOermare il prin- cipio della certezza. Che da vero, altra cosa i quel progresso conlinuo che j>rocede indipendente daU'uomo, anclie a dispetto dell'uomo, e che non partiene all'ordine dellc scienze, ma ad un allro piu sublime, imnienso, alle cui leggi, a coi ^creti i profano lo sgnardo morlale, e cui tutto accelera , I'umana ignoraiiza, Ierrore, il delitto^ altro i quel progresso scientifico, quello svolgimento della verila , che 6 a noi uomini dalla provvidcnza commesso si come un nobilissimo ulBcio , e un co- tal sacro e dilettoso dovere, perciu dipendente in parte dalle libere nostre fatiche, e di cui non deesi abbandonar il corso , volea dire, al caso, come terra senza mano di agricoltore, che colie delicate piante della vite e del (ico , produce la lambru* sea e lo spino forte e soperchiante, ma si bene da'buoni sa- pient! accortamente guidare e indirizzare. Ed egli dovrebbe esser pur tempo, che qnelli i quali s'applicano agli studj presso di noi, deponendo una cotal maniera di pensare iudi- vidnalc e a se stessi ristrelta, c volentieri accoslandosi agli stud], alle meditazioni, alia lingua altrui, intendessero me- diante discussion! serie, di buona fede, e senza taota lussuria e tanl'ombra di pampini , con quella letteraria socievolezza di cui fra noi manca ancora I'esempio, a porre in chiari termini le quistioni, a facilitarne, ottene{ne, perfezionarue lo sciogli- mento, a ridurle a quelle forme si adeguate, e si natural!, che diventano poi da si stesse comuni, solenni e immutabili. In tal modo I Italia, questa maestra de' popoli, ritoruerebbe a cingersi ella stessa le tempie di lauri : perocch^ in vece di avere deletterati minuti, divisi, sparpagliati, che giornalmente rendon pubbliche dtlle opere non pubbliche per la lor indole e quality, ma privatissime, cioS rappresentauti uua' maniera di pensare esclusivo, casalingo, iguaro di ci6 che si dice e che si fa fiiori della porta di casa: avremmo per cost dire la na- zione stessa che pubblicamcnte e solennemente insegnerebbe negli scritti de' suoi letterati: cioi vedrebbesi in ciascun libro accentrati e riflessi i lumi di molti, esposte con somma fedelta e chiarezza le opinion! de' connazionali , esaminate con saga- Rosmihi, Il Ritmovivnenlo. i cila, un darsi carico di lutto ciA ctie merila attcnzione e che fu da qualclie patrio scrittore proposto, una slima scambievole, im ragioDamento sempre accurate e rigoroso, almeno quanto air intenz!one^ e queslo spirlto di ragionevolezza e di sapienza, incredibile cosa  quanto ami di accompagnarsi ^on uua Iran* quilla pacatezza di favellare veramente ragionevole e umano, con una benevolenza conciliatrice, con un amore fraterno, con una franca e piena manifeslazione e propugnazione di cio che si crede, che si sente nelP intimo dellanimo, verita. Laoude vorre' io poter togliere il nome di progresso a co- testo romoreggiare , a cotesto andirivieni di opinioni mal de- terminate, incalzantisi le une contro le altre, abortite e non partorite^ ni la varieta immensa di libri iilosodci, che ci tra- passano giornalmente sotto gli occhi , e dopo aver recitato in pubblico , per cosi dire , la loro parte, rientrano tutto vana- gloriosi di se nelle quinte, ci pu6 essere un segno sicuro da dovernc argomentare i proGtti grandi della vera seienza, e I'ac- cresciuta o diffusa a molti cognizione della verita. Peroech^ egli i pur vano, e da lasciarsi agli eeonomisti politic! i piii mate- rial!, il cercarsi quanti libri ogni mese si sono pubblicati in una nazione, per indursene la ricchezza scientiflca guadagnata: convien cercare piii veramente quanti di quest! libri sieno ac- conci a renderc oscuro quello che priraa di essi era chiaro, quanti a rendere controverso quello che prima djessi era vero e certo, quanti a falsare il linguaggio, a renderlo indetermi- nato, fluttuante, a confondere la lingua semplice, propria, fls- sata, quanti a cacciare in dimeulicanza degli scritti piii sani e pill profondi, quanti a dar corpo a delle ombre, quanti a pa- scere e sollevare P immaginazione giovanile a danno dell inten- dimento, il quale sempie a boon ora di pregiudizj che gli impediscono il volo, quanti a fare i sensali eloquent! di men- zogne, piante diurne, notturne, mensili , annual!, di generi, di specie, e di varieta innumerevoli. Ora se questo si chiama camminare , non 6 per6 un camminare avanti , non 6 un an- dare diritto alio scopo: in somma non 6 un progresso in vero senso, in quel senso in cui gli uomini, fatti per la verita, do- vrebbero e potrebbero progredire : e Dio volesse che comincias- simo, noi Italiani particolarmentc, a non lasciarci piii illuderc Digitized by Google a,^3 come faociulli al ilolce suont) di questa parola progresso ; e cbe invcce della parula, volessimo la cosa^ invece di lasciarci andarc in cstasi alle prime apparenze, ci facessimo ad assicu- rarci bene bene della qualita della merce acquUlala o impor- tata, e poi ci rallegrassimo in ragione del suo prezzo, e non delle grida de \enditori. Quando fossimo pervenuti a mettere per entro a' noslri giudiz) tanto di maturita, ci accorgeremmo, cbe il progresso vero talora consiste nel tornare indietro j si, a tornare indietro^ nessuno sia cost scbizzinoso da riprendermi per questa parola j peroccb^ veramente quelli cbe abbandonano la verita, convien pure cbe tornino a lei, $e vogliono andare innanzi^ conciossiacbi il progresso dell'errore non i finalmente cbe il progresso del gambero, il quale cammina dalla parte della coda. E questo documento egli pare cbe ci volesse dare il Mamiani col suo libro , non invitando Tltalia ad una nuova ClosoGa, ma ricbiamandola alia sapienza de'suoi antichi mae- stri, sapienza cbe, sviati all illusione di un falso progresso, noi meno apprezziamo per certo , cbe non dovremmo. questapparenle paradosso, cbe per andare innanzi con- venga alcuiia volta tornarsi indietro , i cosa nuova , fu veduto sempre da quelli , i cui sguardi rompono la corteccia delle cose^ ma quest! sono i pocbi , e il secolu i cacciato dalle grida di qaelli cbe sono i molti , e cbe 'voglion parere piii molti , cbe non sono. Gia fino dal seicento, epoca delle innovazioni Glosoficbe occasionate in parte dal protestantismo del cinque- cento, Leibnizio, con quella sua potenza maravigliosa di mente, veniva di mano in mauo scotendo da se i pregiudizj fra i quali ianciullo era cresciuto, e confessava negli ultimi suoi anni , cbe la prosunzion de modern! trapassava il segno, e cbe a torto aveano essi abbandonate le sentenze dellantichitL  Anche u noi , die egli in un luogo,  abbiamo atteso , c non leg-  germente, agli studj delle matematiche, delle meccanicbe ,  e degli sperimenli natural! , c da principio confessiarao cbe  abbiamo inchinato I'animo a quelle sentenze (de modern!)  cbe accennammo n. (Gosl avviene di solito alia gioventii, la qnal sapprende a ci6 cbe trova il piii nubvo, e se per . isventura il nuovo i erroneo , non sempre poi nell eta matura Ic basta la poten2b mentale, o la volonta di por giii , come Digitized by Google 244 fece Lcibnizio, le prevenzion'i delleta non matiira).  Final*  mentc colla perseveranza del meditare ci siamo trovati co* u stretti di ripararci ancora ai dogmi dell'antica iilnsoGa. E u se licesse a noi espor qui tulta la serie delle meditazioni, u forse che si conoscerebbe da quclli cbe non sono ancora oc-  cupati da' pregiudizj della loro immaginazione, non esser cosi u confusi e inetti quegli antichi p'ensieri^ come volgarmente  si persuadon coloro, a cui i donimi ricevnti daniio noja, e u cbe tolgono a vilipendere Plalone, Aristolele, il divo Tom* u maso, cd altri sommi uomini , trattandoli come se fossero u de fanciulli  (i). Certamente noi altri Italian!, anterior! a tant' altri popoli civil! , ricevemmo un ampio retaggio di sapere da maggiori nostri , ed cgli sarebbe empieta o disperderla odiando, o non cnrarlo ignorando. per questo ci si proibisce di aggiungere il frutto delle fatiche nostre allavito patrimonio^ ch anzi cia* scuno  tenuto d imitare i maggiori neHassiduo investigare della verita, e net dilatarne a molti il conoscimento j acciocchi e i coetanei ed i poster! ricevano qiialcbe cosa anche del no- stro , e noi non ci acquistiamo da essi la riputazione per av* Ventura di uomini da poco, iu quella che vogliamo evitare la taccia di temerarj e di leggier!. Sicchi non sia n6 meccanica ni servile IafTezione nostra e lo studio posto negli ahticbi maestri^ ma togliamo da essi per cost dire lo spirito e il Gore della dottrioa: cbe nd tutto i vero quanto si trova detto da essi, ni tutto i cbiaro, n^ hanno detto tutto, nd hanno pro* vato tutto ci6 che hanno detto, n^ hanno sviluppato nelle interminabili sue conscguenze tutto ci6 che hanno provato. Non* ( I ) lllud lanten ohiUr attigisse suffeeerit , nos quoqne non perfanclorie sludiis mathemalicis mechanicisque, el naluraf experimcnlis operam detUsse, el initio in illas ipsas sentenlias quas paulo ante diximus , inclinasse fa- tendum est: tandem progressu meditanli, ad vcleris philosophiae dogmata nos recipere fuisse coactos. Quorum meditationum seriem si exponere lice- ret, foriasse agnoscerelur ab his qni nondum imaginatiOHis suae praejudicii* occupati sunt, non usque adeo confusas el ineptas esse eas cogitaliones . ac itlis vulgo persuasum est qui receptorum dogmatum Jaslidio tenentur, et Pla- toni, Aristoteli, divo Thomae, aliisque summit viris lanijuam pueris insut- tant. System, Theoiog. Digitized by Google a45 dimeno tullo si dee raccoglierc, tutto studiare con aniore, di quanto essi ci lasciarono, tutto sottoporre ad impaniale esa- me, niente aramettere che non sia da noi convenientemente accertato, niente rifiutare che a sufRcienza non sia riconosciuto per falso. Dove mi si lasci liberamente notare tin pericolo, da cui si vuol guardare cautissimamente la nostra gioventn bramosa di applicarsi alio studio della filosoda. Commendevole 6 T ammi> razione de' grand! uomini , ove sia in noi suscitata da quel verace sapere che I'uom grande ci comunic6 qual tesoro pre- zioso , ai v' ha disposizione migliore di questa negli animi gio- vanili ad apprendere le lezioni della sapienza^ ella i bella questa ammirazione, ella i sacra come la virtii della ricono- sccnza, com6 il- gaudjo della verita. Ma egli vha un altro alTetto, che prende pure il nome di ammirazione, ed d dMn* dole affatto diversa da quella : questa falsa ammirazione noi denunziamo si come alia gioventii italica, che tanto sente, che tanto promette, funeslissima. Ella ^ cieca questa ammirazione, non surta alia vista di un saper vero , ma eccitata tnmultuo- samente negli animi da strepito volgare, da una celebritii cac e li costringono a raggirarsi dintorno ad un carcere, dove stanno a ferri duri, impedili di spiegar Iali per gli campi ce- lesti dell immensa verita. L'entusiasmo adunqne non sia che per la verita; allora egli utile anche alia iilosotia. Non c impedisce allora di notare degli error! in quegli uomini che piii riveriamo, come pure di riconoscere e di ricevere con gratitudine delle verita dalla bocca di quelli, le dottrine de quali nel loro complesso noi consi- dcriamo si come erronee e funeste. Tali massime diressero sempre quegli studj filosofici cbc a noi ricrearon la vita: e pervcnimmo a formarci delle opinioni feme: e con questecre* a46 (lemmo  gno di falsita di tutte ugualmente le loro opinioni, o che im. rebbesi trovato sempre senza compiuta dimostrazione: Iunian genere stesso avrebbe creduto, e non sapulo. Linvenzione dt nn tal criterio costitnirebbe la maggior epoca non pare negli annali delle scienze, ma in qnelli dell'umanit^. Perchi dunque proporsi di rinnovare la filosoda de' nostri buoni padri , se ninno di essi ha conoscitilo il criterio del vero, argomento som- mario del libro del C. M.? CAPITOLO IV. COKTINDAZIONE. La senlenza adunque, colla quale il Mamiani condanna gli altmi sistemi inlorno al criterio del vero, ricade sopra di lui medesimo. Ma consideriamo piu attentamente la grave accusa che il C. M. instituisce contro a' filosofl presi tulti in corpo. '' Egli li condanna perchi sono andati in cerca di qualche in* dizio evidente della verita, piuttosto che della veriti stessa. Or io ho gia notato, che, gcneralmenle parlando, qaesta i una falsa imputazione; quando anzi i maggiori filosofl hanno collocato il criterio del vero in un prinio vero evidente, segno e prova di ogni altro vero^ secondo il qual concetto anche Dante dice di quanta ci i quaggiii rivelato, che in cielo, a Non dimostrato, ma fia per si noto,  A guisa del ver primo che 1 uom crede n ( i ). Gli scolastici poi facevano appunto una distinzione simile a qnella toccata dal C. M. fra Yindizio del vero ed il vero ; e per6 davano non uno, ma due critcrj,' il primo chiamato prirt' (0 P.r.l- 1. II. Digitized by Google I cipiurti cognoscetuli , Taltro principiuiii essetuli , ovvero ancora priucipium secundum (juod, e principium per quod, bello e buono Iuno e Iallro. Ma lasciando queste notizie positive, la censura del Matniaai merita da nui un'altra Osservazione. Se il Mamiani biasima quel criterio, il quale sia un puro seguale a fare! discernere la verila, e non la verila stessa^ nou si dovrebbe aspettare sicn camente chcgli, porgendoci il suo criterio, ci ponesse iunauzi qualche primo vero splendidissimo, evidentissimo ? Cost ci sa> remmo dovuti altendere^ e pure noi troviamo tutlo il contra- rio: il criterio cb'egli trae fuori, dopo aver fatto degli altri crU terj campagna rasa, non  un vero primitive che racebiuda in tutti gli altri veri , e nella sua evidenza luca la certezza di tulli^ ma esso e nna pura nota caratteristica, un puro segoale, pel quale noi possiamo discernere dove slia il vero. La cosa non parra forse credibile; e pure se ne pu6 agevolmcnte per- auadere ciascuno, il quale consider!, come il N. A. collochi il suo criterio nell' i;ituizibne^ e nell evidenza di cui questa va for- nita. Lintuizione non k alcnn vero particolare, ma k pura- mente il mezzo onde si conoscono tutti i veri ^ 1' evidenza che Iaccompagua, anchessa non 6 un vero, ma k una nota carat* terislica e distintiva di tutti i veri: ella i come V idea chiara di Cartesio, n piii ne meno; e per6 s'egli b difettoso quel criterio, il quale non consista in una primissima verity, ma sia solamente un cotal segnale di tutte le veriU, non potra mai esser lasciato passare il criterio del G. M., ma rimarra giudi* cato di sua bocca. ,  Sono adunque senza legame i due seguenti period!, che I'uno in sequela dellaltro stanno nel libro del G. M. II primo bi  L'abbaglio  di molti logic! consiste  nel  fare inchiesta diligente d' un seguale del vero piultosto che  di esso vero . 11 secondo che immedialamente seguita,  DIscende da  ci6, che il nostro criterio solo e perpetuo sar&, 1 evidenza  dintuizione  (i). (i) P. U, c, XVII, in Digitized by Gno^le a5a Nienle affalto: disccnde dal priino pcriodo anzi tutlo il con- trario: dUcciide, die il solo e pcrpetuo crltorio del C. M., Ycvidenza tT inluitione , non pu6 essere in modo alcnno il cri- terio die si cerca del vero. CAPITOLO V. CONTIHDAZIONE BEL CKITEMO DEL VE0 PHOPOSTO OAL C. M. Id mezzo a tante cose, die io sono costretto di negare al- Tegregio C. M., una per6 gliene accordo, ed 6 appunto quella sentenza, che il supremo ed universale crilerio del vero non debba consistere in un solo indizio di lui, ma si in una prima verity. Sgraziatamente questa proposizione, che sola io trovo di dovergli concedere di tutto ci6 ch'egli dice, si i quella che contiene la senteuza capitale del suo sisteinal Che poi quella sna proposizione sia vera , non d difficile a dimoslrarsi. - Perocchi se mi vien dato un indizio della verity, coU'ajuto del quale io possa conoscerla e trovarla, mi si di per fermo una CQsa eccellente', ma conviene perti che mi si provi, che i un vero indizio, die d idoneo a farmi riconoscere la veriti, ovecdii ella si trovi. Conciossiachi se ci6 non mi si prova, at* tri potrebbe itnpornii qualsiasi menzogna, dicendomi; eccovi qua r indizio, o la certa nota del vero. Se dunque proponen- domisi un segnale, a cui io discema il vero, i oopo die vi s'aggiunga la prova che mel faccia conoscere per aulenlico, un perchi egli sia tale^ manifesla cosa , chegli non i pifi il su- premo criterio del vero^ stando sopra di lui unaltra ragione, dalla quale egli riceve la sua virtu di provare, e a cui nun la da. E veramente quella ragione, la quale mi prova che un dato contrassegno i valido a dimostrarmi il vero dove che sia, non pu6 essermi dimostrata vera da quel contrassegno stesso, il quale ha bisogno di essa per acquistare valore e autorita. Non i dunque ni pure un criterio universale; giacchi quella veritA almeno, ond'egli ritrae la sua forza, eccede la sua sfera, e non pu6 esser da lui indicata per vera. Laonde ad un tale cri- terio mancano i caralteri tutti al criterio richiesti, i quali sono Digitized by Google aS3 i. chc sia evutenU; , e da tulti ammesso senza Lisogno di di* nosIrazioDe, 3. che sia supremo, ciod che non vabbia nn per- chi dinanzi a lui, tna contenga il sno percbi, per cosi dire, ne'proprj visccri, 3. cbe sia universale, e che sapplichi per ronsegiiente al discernimento di tutte I'altre Teril4 conoscibili airnomo, senza eccezione alcana. E quesli difetti si ravvisano veramente nel criterio del N. A., cbe, come diceramo, h V evidenza eP intwzione. PerocchA qaesta primieranienle non A una prima determinata veritA, ma A il mezzo onde si percepiscono le veritA, A nna nota o carattere, a risconlro del quale noi ravvisiamo la veritA la, dove ella sta. Ora appunto perciA A conrenato al N. A. di provarci quel suo criterio; e la prova cbegli ne diede si fu, perchA nelPinlai- zione u avviene la conversione del vero con Iente  (1). Di questa stessa proposizione poi si puA cercare il perchS, e, come vedrerao, questo pcrchA esiste Terameole. Ma fermandoci a qaella proposizione, cbe ci A data per prora dellintaizione; egli A manifesto, cbe s' ella ci dimostra la veracitA e validitA dellintuizione, ella sta innanzi allintuizione medesima: prima dee esscr vero il principio, poi la conseguenza; qaesta trae virtii da qaello, da qnello partecipa la veritA. Egli A dunqne indubitato, cbe il G. M. non ci pu6 dare Iintuizione per cri> terio evidente del vero, ma dee provarcelo nA pin nA meno con nn bel sillogismo, che A il seguente; LA dove il vero si converte collente, cA evidenza di veritA. Ma nellintuizione il vero si converte coll'ente. Dunque nellinlaizione cA evidenza di veritA. Se il G. M. pretendesse di far di meno di qnesto sillogismo, e velerci imporre I'intuizione come criterio del vero destitato di prova; ognuno sarebbe in diritto di rifiutargli fede. Ma egli nol fa , ed n.sa in tutto il sno libro , del sillogismo cbe abbiamo indicate, sebbene non tratto fuori in forma, come noi abbiam fatto, per renders via pin netto e semplice il suo pensiero. Da tntte le qgali cose apparisce, i.* cbe se noi dobbiamo ricevere I'intnizione qual criterio del vero, ad ammettere ci6 siamo tratli da nn raziocinio necessario: dunqne non A nn cri- (i) P. II, c. Ill, VI. Digitized by Google 254 turio evidente, raa hisognevole di dimoslrazione^ i. che ta maggiore del sillogisino precedendo la conseguenxa, non di* pende da ques.ta: danque non i un crilerlo supremo ^ 3. che Iintuizione essendo provaU dalla proposizione, che u quando il vero si converte coll'ente non puu cader dubbio od erroree, questa proposizione viceversa non puo esser provata dall'intui* zione: dunque non 6 un criterio universale. q Non k dunqae qiiello del C. M. il criterio cercato da' 61o* sofi, perchi questo dee essere evidente^ supremo ed universale^ e quello del N. A. h dimostralo, subordinato, parziale. CAPITOLO VI. CONTIKUIZIOMB. Ella non h dunque un'equa sentenza quella che il N. A. profcrisce contro Cartesio, accusalo da lui perchS nel suo ce* lebre principio, cogilo , ergo sum, abbia rinchiuso un sillo* gismo, e ci6 prima di aver dimostrata 1 eiHcacia del sillogi- smo(i ). L'enlimema di Cartesio acchiude un sillogismo si bene, come I'entimema del G. M. Se non che Cartesio parti da un particolare, cioe da s^ stesso', il C. M. parti da una proposi* zione universale ed astratta^ perocche  veramente una propo* sizione universale ed astratta il dire  I'intuizione  il criterio del vero perchi in essa il vero si converte coll'ente . Tntti i termini di questa proposizione sono universali: i. I'intuizione i universale, pcrche non si restringe a nessun atto particolare d'intuizione, nil all' intuizione di alcun nomo particolare, come fa Cartesio che parte dallego, ma s'esteude a qualsivoglia atto intuitive di qualsivoglia uomo anche possibile^ a. Iente e il vero sono idee astrattissime di tutte^ 3. la conversione pure i Vera idea complessa rd universale : che i dunque a raccogliersi da ci6? Che se il principio di Cartesio supponeva genuina la forza del sillogkmo prima d'averne dato dimoslrazione^ il principio del C. M., ollre la forza del sillogismo, suppone la veracita c (I) P. II, C. Ill, V. Digitized by Google a55 rautoril^ Jcllo idee asirallc, le quali esigono molli sillogismi a formarsi , e molli altri a provarsi, massime quando si Iralti delle uUime e supreme aslraiioni nel sistcma desensisti. Ni credo lutlavia di dovcr cbiudere questo capilolo, senza dare un escmpio ove apparisca, come a noi soglia arvenire, quando a qualche nostro sistema non vero poniani troppo il cuore, che intanto che ci facciamo ocnlalissiml a notare gli al- trui mancamenli, cadiamo in quegli stessi, e ci sfuggono iiios- scrvati. A me sembrano siugolarmente idonee a metier ci6 in vista, alcune parole del C. M., nelle quali egli fa due cose ad un tempo, cIo i. diebiara die non munisce il suo sistema di alcnna prova o ragione, e appunlo munisce il suo si* sterna di quella prova o ragione, oude esso trae ogni suo vi- gore. Le parole sono appunlo le seguenti, cbe il lettore vorra attentamente considcrare: u Alia intuizione immedlata non facciam seguitare (i) ni  prove ni raziociiiii  : ccco la prima parley soda ora la scconda: u perche icniamo coi nostri antiebi, cb'clla nel porre  si stessa pone la sua inlrinseca realila, avvemerdo in lei la  conversione del vero con Ienle, e rimmedesimazione del  conoscente e del cognito  (a). Quivi medcsimo adunqne, dove prova Iantorita dell' intui- zione percb^  nel porre si stessa pone la sua inlrinseca rea* a lita  , e questo perebi u avvicne in lei la conversione del  vero con Ienle , egli diebiara di nou voler provare I in- ti tuizione immediata con veruno ragionamento! :ii; li CAPITOLO VII.  stesso vero. Quel pri* mo pensiero fu teoria nella mente del C. M., questo secondo fu pratica. Ma due pensieri opposti non possono dividersi I'impero di una mente umana, senza metterci grande discordia e confusione, e senza che nelle parole delluomo non apparisctt quella per* pelua mischla che hanno in fra loro le sue idee.. Se noi vogliamo levare un saggio di quesla cotal mischia, mettiamo a confronto ci6 che il C. M. dice in certi luoghi del criterio della certezza, con ci6 che dice in certi altri^ e vedremo in raolti prevalere il primo dedue pensieri, e deltare al Ma- miani i ragionamenti^ e in molt'allri prevalere 11 secondo, e il suo ragionare da questo interamentc derivarsi. E primieramente udiamo La dcGnizione che il G. M. ci dH della veriUi e della certezza. u II reale, dice, caduto sotlo la facolta nostra conoscitrice,  prende nome di verita, e'questa, esaminata e trovata evi*  dente, prende nome di certezza  (i). Questa deGnizione della verita e della certezza, volendola noi esaminare in tutta la sua estensione, e non solamente al Gne di mostrare il contrasto intimo che giaee ne' pensieri del N. A., ci potrebbe dar motivo di lungo ragionameuto. Perocchd ecco tosto sopra di essa tre osservazioni impor* tanti: 1.' La verita per esistere ha bisogno, secondo una tale de* Gnizione, di esser conosciuta dalPnomo^ perocch6 ella consiste nel reale caduto soUo la nostra JacoltH conoscitrice. Questo as* sunto contiene ne'suoi visceri la distruzione della verita, e unu scetticismo recato all'estremo grado. Q. Se il realo col solo cadere sotlo la nostra facolta cono* (.) P. II.c.II, .. Digitized by Google aSy scltrice costiluisce la verita , k inntile quclla gianta cheordina di esamioare la verita, e trovarla evidente, perch6 si cangi in certezza. Che cosa si pu6 bramare di pin della verita? Se dun- que basta che il reale cada soUo la nostra facolta di conoscere per essere verita, egli A anche certezza per ci6 stesso che A es- senzialmente verity. 3. Se una vcritA per cangiarsi in certezza ha bisogno di essere esaminata e trovata evidente, ne verrebbe questa strana consegiienza, che I'intuizione immediata interna del N. A. non polrebbe giammai produrre aleuna certezza per sA, ma ella avrebbe sempre bisogno di prova, cioA di essere esaminata, circostanza richiesta dal N. A. allcssenza stessa della certezza. Ma lo scopo del nostro discorso non ricliiede se non che ci fermiamo un poco a considerare qnella parola, reale, che in* trodoce il Mamiani nella deCnizione del vero e del certo. Secondo noi, la parola u reale  sta bene in opposizione coll'altra  ideale : ella risponde a questa, come cosa {res) risponde ad idea. 11 G. M. per6 non mostrasi costante nell'nso di questa pa* rola, che gli cade di frequente dalla penna, e di cui non ab* biamo trovato nel suo libro unaccnrata definizione. In qual* che luogo egli la intende appunto come noi. A ragion d^e* sempio la dove favella degli universali e degli astralti, die soiio mentali produzioni (i), e toglie a dimostrarne la verita, egli di tutta possa s'ingegna a persuaderci , che quelli rispondono alle cose sensibili^ nella quale rispondenza colloca egli la ve* riUi loro^ e perd assume, che  le idee tdttb universali ri* tpondono bene alia u realilA oggeltiva  (a). Da questo luogo conviene inferire, che la realitA A tutta posta nelle cose esteriori e sussistenti, e perd, che ogni verita delle conoscenze a queste si riferisce. E veramente, se la rea- lila degli universali consiste nel riferimento loro alle cose esteroe, molto piu in tali rcalitd esterne dee consistere la verita di (i) P. II, c. X, m. (a) Nel c. V , I , della P. II, della realita oggetliva dice cost ;  Ci6 die H csisle fuori di noi nello spazio A addomandato dai Glosofi realita esteroa, ), o & universale (idea). 1 priocipj stessi, gli as- siomi, le dignita , e in fine tutte le proposizioni univer* sali, non sono che unidea la qual si considera nell' am* pia sua applicazione, come ho dimostrato altrove (i). Se dun* que la realitii degli universali h in un riferirsi agli oggetti esterui, molto piu (volendo egli esser coerentc) dee far consi- stere in cl6 la realitii delle percczioni singolari; e per& non dee avervi altra realita per lui, che questa, ni altra verit.^ (per la definizione), fuori di quella che consiste nella cogni* zione di tali realita esteriori. Ma d' altra parte, egli h impossibile di non vedere, che non sempre la verita consiste nella reality oggettiva intesa in que* sto significato. Cost la verita di una proposizione consiste ma* nifestamente nella giustezza del nesso che lega insieme i suoi termini, eziandiochi ella sia del tutto astratta dalle cose reali e sussistenti; p. e. la verit.i che  il tutto h maggiore delle sue parti  , k vera quand'anche niun tutto e niuna parte esistesse, e cosi si dica dell'altre (a). Parimente le idee universali ed astratte, come ho indicato di sopra, non lianno alcun rap* porto necessario colie estcrne^ e credere il cnntrario, h un er* rore in cui cadono non pochi filosofi, i quali non distinguono la loro generazione dalla loro natura (3). Veggono, che quasi tutte noi le formiamo mediante operazioni del nostro spirito so* pra gli oggetti esterni percepiti co'sensi; e peru le tengon con quest! legate indivisamente ; non avvedendosi, che gli accident! della loro generazione non costituiscono punto la lor natura ^ guardando nella quale vedesi manifesto, non aver esse niun nesso necessario, se non con oggetti possibili e non reali. 11 qual vero lampeggia anche agli ocebi di quelle menti che di (0 V. il N. Saggio, Sei. V. c. V. (3) Ecco COD quanta cbiarezza il Mamiani confessa chc v hanno de pria- cipj scevri da ogni relazione ncccssaria alle cose reali : > Ei sono. dice , M pur taoto semplicin (i sommi universali),  che appuDio per ci6 lengono M la cima dell'aslrazione, e nulla producono , fiuchi stanao isolali dai foUi M particolari  (P. I, c. XVI, 3. afor.). (3)jVed. addietro. Lib. II, c. VIII., Digitized by Google vei]sl il G. M. confessa in pin luoghi, avervi degli esseri puramente men- tal!, i qnali non faanno bisogno di rappresentare nulla di ester- no (i): e talora veggendo un tal vero, e volendo pur mantenerft la dcfinizione da lui data della eertezza e della veritA, vien ti- rato ad ampliare il signiflcato di quella parola  reale , in- cbe rgli ba collocata la veritii, e a supporre cfae v'abbia nn reale tutto ideale! Tale i U, dovegli parla del caso, in cni I'oggetto sia tutto presente al pensiero, cioi sia cosa soltanto pensata. In tal supposto egli dice, doversi  affermare cbe esista,  e simile afTermazione non ricevera pnnto di dobbio, essen-  docbi la realiti sua e la concezione nostra fanno nna cosa u sola . Questa reality i dunque qui nna concezione, u una pura e semplice idea , com egli tosto dopo la chiama, o, come potrebbesi dire piii esattamente, un oggetto ideale. In questo luogo adunquc la parola a lealitd  i usata per sinonimo d'idealitd, il cbe i non poco strano^ e pure nel periodo pre- cc'dente egli avea fatto II contrapposto di ciA cfae i reale, a ciA cfae ^ soltanto paisato cio ideale (a). Talora dunque il G. M. pone la \>eritii nel compimento del reale, talora egli distrae il signiflcato di questa parola a slgni- iicare ogni oggetto anche ideale e niente afTatto reale. Egli viene con ci6 ad ammcttere senz accorgersi due serie o catego- ric di verita, c\oi le verila cfae risguardano gli oggetti este- rlori e reali, e le veritii cfae risguardano gli oggetti puramente idcali, Che dovea divenirc da questa inrostanza didee e di parole 1 Cfae dopo aver egli messo per unico criterio del vero I'lViCui- zione, moslrasse poi di non accontentarsi punlo di esso, e sen- tisse un bisogno di ricorrere a qualche allro ajuto straniero dall intuizione. E veramente, Iintulzione, come dicemmo, non (i) P. II, c. X. (a)  Consideriamo pertanlo quello che avvenga entro noi della cono- > scenza, quando I'oggcUo sia tutto presente al pensiero e quando no, vale  a dire quando I'oggetto sia cosa soltanto pensata, ovveao sia cosa seals  Fooa DELLA MERTE M (Parte II, c. II, II). Qui il  reale  i Iopposto^di  cosa pensata . aGo i una verity, tna solamente un segno della verila: un tal cri- terio non dice se non:  il vero & quello chc s'intuisce .Dal> V inluirsi si deduce che ^ vero. La certezza in tal modo vienc ad essere non allro, che una pieuissima fedo che si prcsta alia facoU^ A' intuire. Ma questa facoU^ non polrebbe clla esser iallace? 11 G. M. risponde di no. E perchA? La ragione che adduce si if che u il vero nellintuizione si converte coirente  (i): rabbiam veduta. Ma chi ci dice che  il vero nellintuizione si converta coU 1 ente  ? Lintuizionc medesima, o una riflessione, unanalisi che noi facciamo dell'atto d'intuire, di rifleltere, di analizzare. Oltimamente. Dunque tutto si riduce a prestare una fede assolula alle nostre facoltci dintuire, di riflettere, di analiz- zare: ma chi ci dice, che questa fede non cinganna? La risposta i, che i impossibile che noi non prestiamo fede allintuizione. Per quanto si cerchi, si trova sempre che il Ma- miani riassume I'nltima ragione dell autorita dell' intuizione in queste parole; u nessuno, pensiamo noi, vorra credere che la u mente affermando la sussistenza dalcuna cosa,crei quella (i) Mi si pcrmcita di ossrrvare, che il signiflralo chc il C. M. dii a que- st* frase scolaslica, che  il vero si convene coll cute e al luUo diverso da quello che Ic alirihui la Scuola. II C. M. la prende per un crilcrio di certezza, e vuole chc si avveri solo ncll' iutuizioue immediate. In un luogo (P. II, c- XVII) dice di piii, chc questa couversione del vero collcute i opera della nostra inentc, chc crea d vero stesso. Ma u convertirsi il vero collente , secondo la Scuola, non vuol dir altro, se non che il vero e V essere sonb una cosa stessa guardata da due rispetti diversli cioe, chc quella stessa cosa che verso di si considerata dicesi ente, considerate in re- lazion colla mente dicesi vero (Ved, .S. Tom. S. I, XVI in). Quel detto scolaslico adutique i tutt altro da quello che crede il C. M., e Iuso chc ne fa i al tutto shagliato. Laondc  convertirsi il vero coircnlc m riesce a cit) che noi continuaniente iiiseguiamo, cioi che 1 essere ha un modo intellct- tivo, e in questo suo modo i la luce conoscitiva; il perch6 lo stesso ange- lico Dottorc dice, verum i/uod est in inUlleciu,converlilur cum ente j ul ma- ni/eslativum cum manij'eslato {S. I, XVI, in, ad i), cio che si potrchbe an- che esprimere cosi:  1 essere idealc (il vero) i maaifesUlivo dell'essers reale  (la cosa). Digitized by Google afi I II medcsima sussistcnza , ma ognuno ia vece restera carlo, che  qualunque reality degli oggctti pcnsabili i indipendente af- u falto dairaffarmare o dal negare di nostra mente  (>) Elcco tutto cI6 che si pu6 dire in favore deirintuizione: T oorao non pu6 a ineno di prestarle fede (2). Ma Iesser nccessitati ad un at(o di fede, i egli ragione e verity? non potrebbe darsi una necessita ingiusta? una ferrea legge di natura? una forse utile, ma pero sempre cieca fa- talita ? Fioo cbe non si va piii avanti col ragionamento, quest! dubbj rimangono: e quesli dubbj son quelli dello scetticismo (1) P. II, c. IV, V. (2) Nella P. II, c. II, toglie a cercare qual sia la prima cerlezza, e prova clie e quclla m d' iiiluiziouu immediala , o sia, come diccgli, qiiella cho sotliene co lalli del seoso inllrao. Ora qucsia prova egli la cooducc per via descliisionc. Dice, die cinqnc sole sono le rout! ondc pnssiam trarre dimostrazione del vero, oltre a quella del senso intimo, clic 6 la slessa deU Iinluizionc. Ora egli toglie a inostrare, che le cinque prime fonti sappon* goDo sempre quaicbe verita precedenie, da esse non dimostrata. Da ci6 coQcliiude, che non possiaino aver ricorso sc non al senso iiilimo, a dover noi trarre la dimostrazione di quelle verita, a provar le quali non giungono le allrc cinque font! di dimostrazione:  desse per quella semplice forma  niera propria, oude rintelligenza vede le cosc, sarebbe di vederle tulle sotio raspelio di enli , e non solto TaspcUo ddle differcoze c qualila inferior!. Ma non voglio io pero attriiiuire a Boezio tale dottrina. Bastami Tavere accennato, cbe questo graud^uomo fece oggetto deirinlelligenza la semplice forma. Chicchessia puo vedere, riflettendovi, cbe la semplice forma onde lo spirito nostro tutte cose coocepisce, e Vessere: e questo rimarrebbe vero eziandiochd Boesio non ci avesse peosalo. 11 luogo ^ ncl V i?e Cons. Philos. Prosa IF. Digitized by Google 7' leropre fioo a principio de* suoi ragiooari il principio di con- traddizione? E non avvedersi cfae quc.stu principio i universa- lissinio, e che perciii appunto vale, cd e richiesto in ogni ra> gionamcnto, egli e impossibile. Che fara dunqiie? Riparera a questo iiiconveniente col suono di alcune parole, le quali melteiido un po' di confusione nella mente de' nieno accorti, coprano bellaniente la piaga invece di sanarla. Le parole sono quelle, unde il C. M. assicura, die il prin- cipio di conlraddizione u ha base in qualunque fatto. E per a vero , seguita a dire, u ogni fatto in lo conticne in  maniera implicita , benchi sempre determinata  (i). Chi non sente rambiguita, c I'oscurita di queste parole? Converrebbe ch'egli ci dicesse, che cosa egli intende cun quella frase nietaforica u aver base in un fatto , e con quelle altre  in maniera implicita, benchi determinata n. In qual modo un fatto cootiene un principio? Se egli in- trude un fatto esterno c reale, non pu6 certamente un prin- cipio esser parte sua integrale, un principio , che e cosa al tutto mentale. 11 principio sta nella mente, e I'entila di an lal fatto i tutta fuori della mente. Il fatto realc pu^ bensi essere dalla mente concepito^ ma queslo non vuol dir altro , come abbiamo veduto, se non, essere stato quel fatto siibordinato per operazione interna del nostro spirito ad una forma uni- versale (a). Anche in tal caso il fatto come tale non contiene niente di universale^ ma 1' universale a Ini si aggiunge dal nostro spirito. Niun fatto adunque pu6 contenere il principio di contraddizione, i. perchi un fatto i cosa reale, e il prin- cipio di contraddizione h tutto cosa mentale o ideale; a. per- chi un fatto i sempre particolare, e un principio 6 sempre universale, e il particolare, rome meno esteso , non pu6 con- tenere Iuniversale come piii esteso, a tpiella guisa appunto che il piccolo sta nel grande, e non il grande nel piccolo: il principio poi di contraddizione i Iuniversalissimo di tutti i principj, ed ha bisogno dell'universalissima delle idee (3). Egli (i) Parte II j cap. XX, i. (a) Vedi addielro, Lib. II, c. XXXVII. (3) II V. A , P.rle II, cap. X.X, I, dice the il principio di toulraddi- Siuue M i DI SUA NATUSA uijivcrsalissiiiiu n. Digitize. ' ' , 'Jioogk =73 Lo sviluppo i celere : il principio diventa sabllo universale: ma per quanta fretta gli dia il N. A. , cacciandol ratto dallo stato di particolare a quello di universale, potrii egli aggiuii- gere tanta fretta altresl alle menti de' lettori sicchi trasandino non osservando che quel principio i stato, sebben breve tempo, particolare? e se essi osservano ci6, la cosa i fatta^ il marcio i scoperto^ I'assurdo di aver supposto un principio particolare, come a dire un principio non principio, i trovato, e non si pnu nasconderne la vergogna. CAPITOLO X. CONTMOAZIOBE. Aggiungerd nna riflessione, che provi via piu cbiaro come il criterio del C. M. non sia gid un solo, ma veramente due, ridotti ad una unita nominale. I, . > Egli distingue doe specie di veritd. Le prime sono le feno- neniche, o sia quelle che appariscono immediatamente al senso intimo; le seconde quelle, cbe dalle prime sinferiscono per necessita di ragionamento.  Alle due specie adunque di ve-  ritd n , egli dice,  abbiamo imposta un' appellasione me*  desima, e le cbiamiamo veritd e certezze d intuizione. Perd  la prima vien detta da noi intuizione immediate, la seconda  intuizione mediata  (i). Or secondo questa maniera abusive di parlare, tutte le ve- rity sarebbero verita d' intuizione, e solo si distinguerebbero due specie d intuizione, immediate o mediata. La parola thtui- zione adunque significberebbe I'atto di qnalsiasi potenza intel- lettiva, il quale abbia ad oggetto il vero^ e se 1' intuizione d Iinfallibil criterio, verrebbe la strana conseguenza, che ogni atto delle nostre facolta inlellettive essendo intuizione, sarebbe dichiarato infallibile. )> Questa osservazionc vale, per tutti quei luoghi del libro del Rinnovamento , dove si dd per criterio Iintnizione in generale. (i) Parle II, cap. Ill, i. Rosmihi , Il Rinnovamento. 35 Digitized by Google Qaegl! allri luoghi poI, dove si pretende di rlctiiaoiar tuUu le cognizioni alia sola intuizionc immediata, mi somministrano la riflessionc seguente, cbe i qaella a cni propriamente iatendc questo capitolo. Liutuizione niediata si puo clla cliiamare propriamente io- tuizione? Qnesto i quello die io credo di dovere assoluta- mente negare. La intuizione immediata 6 definita dal N. A. u Iatto di u nostra mente, il quale conosce le proprie idee e le atti*  nenze loro rrciprocfae b ^ e vien delta anche u uua noli- u zia pura mentale, ristretta uci soli fenomeni del seuso in> ^ timo  (i). Della mediata poi egli da questallra deCnizione:  Latto  di nostra mente, il quale per la certezza assoluta dellintui-  zione immediata, proh>a in modo altrettanto assoluto Iesi-  stenza dell'estrinseclie realiU  (2). Or qual & questo modo assoluto, onde dalP entity fenomenica, che colla intuizione im> mediate A scorta, si trapassa a conoscere le realila esterne e ossislenti? 11 principio di conlraddizione, dice il Mamianii   lit& meb^ica (3) di negare il fenomeuo. Sola sorgenle adun-  que d'ogni nostra dialetlica i stato il principio della con-  traddizione  (4). Cbi non vede adunqne manifestamente, cbe tutte le veriti cbegli attribnisce all intuizione mediata, non sono veramenle inlnite dallo spirilo, ma solo argomentale da quelle altre che intnisce Io spirito? Or la parola intuizione non pu6 signifi^ care, propriamente parlando, che un apprensione immediate^ e per6 il dire che v ba una intuizione mediata , i un far nso di qnelle frasi vaghe, impaoprie e contradditorie, che sogliono confondere e sovvertire tntto il regno della Blosofia. "..it"' Le rerita che il C. M. chiama 6? intuizione mediata, sono dunque le veritA dargomentazione, e non d intuizione: e 1^ tuizione non fa, relativamente ad esse, che prestare il panto (i) Pirte II, cap. Ill, I, (a) P. II, c. Ill, iv. (3) Egli voica dir logica. (4) Parle II, cap. XX, t ' * Digiiizcc by GllOgIc Tcrmn, tu cui s.ippoggia la leva, per cost dire, del raziocioio. Dunque conviene per questu secondc verita prestar fede al ra> ziorlnio, ond'elle si deducono^ dunque conviene aver ricevuti per antentici ed efficaci i primi principj, de' quali fa uso il raiiocinio, e fra quest!, in capo agli altri sta il principio di coiitraddizione; dunque conviene presupporre gia formate le idee universali dalle quali nascono i principj, e printa di tutte quclla dcllessere, onde precede il principio di contraddizione^ dunque il criterio del C. M. suppone molto piii , come dice* vamo, die non faccia il criterio di Cartesio. Di qiii i pcrlanto manifesto, cite il G. M., senza avveder- sene, adopera non uti solo principio del vero, ma due, cioi I.* I'intuizionc e a.* il raziociiiio: I'intuizione per la cono- scenza della parte ideale, il raziociiiio per la conoscenza della parte reale. L' iiiluizione i un indizio del vero: il principio di contraddizione, a cui s'appoggia il raziocioio, i un vero egli slesso nianifestativo di altri veri. bolero in Gne, che quanto all' improprieta manifesta di quclla denominazione d' inluizione niediata , vienc in qualehe modo riconosciuta dalla coscienza stessa del G. M., il quale in piii luoglii del suo libro da il nome dintuizione alia sola im- mediata^ mostrando con ciu assai cbiaro di sentire come ad cssa sola couvenga csclusivameute questo nome (i). (i)  Cbiiminmo Intuitione , dice in un luogo,  la vista iulellelluale 1 deirnggetlo penaato, asiraendolo da qualunque rirerimeDto a soslaoia e M guardaio nella sua enlil^ fenomcoica m (Parle It, cap. t, iv)> Vedesi qui tome all intuiiione generalmeiite presa egli applica uaa delinizioae, che non si conviene se non a qurlla che altrove ha preleso di speciheare colla denominazione dimmediala. Sallenda a quest altro luogo;  Da queste w condizioni e atiribuli dellevidenza intuitiva pu6 e dec scaturire ogiii al-  tra evideoza, la quale dagli occhi della ragione sia trovata legitlima m ( Parte II, cap. V, i ). L* tviJima intuitiva di cui qui ai parla i quella del- Iinluizione immediata ; ognaltra evidenza non i dunque ioluilivai non piii adunqne dirai evidenza d' inlDiiione. Poco appreaao riduceil problema, chegli ebiama della realili obbjeltiva, a doversi Irar fuori uoa prova di ragionameoto o di fallo della reality estema m dalla condizione geoerale e  continua dell' iotniziooe m (Ivi, it). Mauirealamenle ai vede, cbe ivi usa la parola intuiiiont solo a indicare la immediata, e che fa conaistere la r il' indipendunte da quc' (uoi oggelli, questo nuovo personaggio filosoGco messo in iscena dal N. A., sarebbe il scrvitore che fa la sua gran Ggiira da padronr, di rui ineso indosso le ve- stimenta. Puroccb^ I'atlo dello spirito, diviso dalle idee, da' giudizj e da raziocinj , i veraoienle un bel nulla: e unito con quest!, i loro dipendente, ed acquista da essi ogni cosa. Ore ci6 fosse, la strada di trovare il zero indicata dal C. M. sarebbe I'usala scmpre Gn qui^ cioi quella delle idee, de giudizj, e de raziocinj; soltordinando i giudizj gli uni agli altri ; dislinguendo quelli cbe sono rispellivamente ronsegnenze, da quelli che sono rispetlivaroente principj; risalendo niano mano per quesla scala conliuua di proposizioni , Gno che si perviene ad una, che e principio e non conseguenza (i), e pero a quell idea che sa- dopera in questo principio primissimo, la quale, piii seutplice e pLit ampia di tulte le allre, non abbisogna di nessuna, non i contenuta in altra, quando lutte abbisognano di lei, tntle sono in lei contenute. Perocchi cosl si suol pervenire alia vera sorgente pnrissitna di tutte le altre veriti. In tal caso il prin* cipio del G M. cesserebbe dallessere Iintuizione o mediata o immcdiata, ma sarebbe il raziocinio, e piii propriaonente an- Cora, il priroo elemento di ogni raziocinio, la prinia idea. Vediamo adunque di meditare un po piii addenlro questa intuizione immediata del N. A. Gia Gno dalla sua deGnizione noi trovammo, chella sup- pone le idee non solo, ma ben anco le loro atlinenze; e die ella i intuizione didee, intuizione dattinenze didee (a). Dun- que elle un atto della mente, un atto di conoscere, nn alto che va a Gnire nelle idee e nelle attinenze loro reciprochc. Che sono le attinenze reciproche delle idee? come si legano esse? (i) Coil s. Tommaso ripooe la certezza delle cognizion! nosire tulla nella cerlezza He primi principj di cui esse sono consegueoze, la dove dice : CtKTlTVDO TOTJ OKITUR KX CSRTITUD/HB PRIMCIPIORUH. De ihtpstro. Non ripooeva dunque queslo grande ilaliano il crilerio del cerlo nc'par- licolari, ma negli universali , i quali soli, a sun detlo , costiluiscono la tciema. (a) Ripetiamo le parole del N. A. L Intuizione immediata 6 > Iatto di  nostra mente, il quale conoscc le proprie idee e le attinenze loro reci-  prochc . P. II, c. Ill, I. Digitized by Google coil gludizj e raziocinj: ]e attincnze dull' idee costiluUcono do* giudizj, c si trovano specialmunlu coirajutu du' raziocinj, i quali ci tnostrano le idee, Puna dunlro I'altra, e queste e quelle si* mill o dissimili da colesl'allre. Loggetto adunque dell'intui- ziooe del G. M. non sono se non idee, gludizj e ragionamenli. Aon metle a ci direttameote e esclusivameule sopru le idee, prova per Pin*  luizione immediata la certezza del proprio essere fenomeoico,  non I'oggelto estriiiseco, del quale afferiua o giudica, o  credo  ( i ). Si potrebbc andar piii avantii Polrebbesi raffrontare con quc* slo un altro pensiero del N. A-, il quale confessa, che noi non ragioniamo di cosa alcuna , se non in quanto la cono* sciamo. Ora una cosa in quanto i conosciuta, i un oggetto mentale. Ounque potrebbesi conchiudcre, che oggetto delPin* tuizione immediata sieno ugiialroente tutte le nostre cono* scenze, e non solo alcune, perchi tutte si fondano nolle idee. II passo a cui voglio accennare h il segiiente:  Coloro i quali B voglioDO far capo all Ontologia , come a scienza universe* B lissima , indipendente e assoluta, assentono pur nondimeno B chclia parla e ragiona di tutti gli esseri , in quantu li pu6 B conosccre; e questo a cagione che le esistenze non cono* B sciute contano per noi come nulla. E dunque P Ontologia B un complesso di conoscenze, cio6 a dire, di fatti intelluttuali^ B e a chi voglia sapere la forma, la validita e Porigine di essi B fatti , conviene cercare innanzi la natura e le operazioni B delP intelletto  (a). Tulto adunque si riduce a fatti intel* lettuali ; e i fatti intellettuali non sono essi Ioggetto dell id* tuizione immediata? (i) Parte II, c. Ill, vi. (a) Parle I, c. XVI, i.' afor. Digitized by Google 7) ScfiuiliAmo: in un attro liiogo del suo libro il N. A. distin- gue il mondo scicnliliro, die i quanto dire il mondo idealu fd astralto, comp qiiello de niatematiri, ed il mondo rcalc : e dice che solo del primo e falta tutla la srienza nostra, non potendo noi aver del secondo die la cerlezza dell esistenza e nulla piii^ e cio perchi il primo di quest! due mondi ce lo forroiamo noi stessi nello spirito nostro : e qiiindi essendo no- stra creatura, il possiamo anche perfettamente conosecre. Peru qiidio di che abbiamo intera scienza, sono gli oggetti astrattq circa i real! all'incontro la scienza nostra ^ assai limitata. u Si prenda csempio, egli dice , dalla percezione d'un corpo u esterno. Quivi la nostra mente partccipa alia creazionc del u fatto in piu guise. Ella riceve (i) con un moto di reazio- tt nc (a) Patto esteriore, e tal lo riceve quale domandasi dalle u sue facoUa. Convergendo (3) poi sopra qiiello la forza at- u tentiva (4), Iastraltiva o la sintetica, avverte la propria af- u fezione (5), la distingue, la giudica, e nell' unila sintetica u la riassume (G). In tutto ciA la mente i opcratrice del vero: u ella si mantien tale, eziandio qiialora dimostra a stessa u la presenza necessaria dellessere esterno: quello adunque  u Hoe appuDlo vien meno la nostra certeiza , stantech^ se noi u producianio sillogizzando le prove delPesterno, gia non di* tt chiariatno in nulla con ciu ne la sua natura ni quella de* u gli alti suoi^ e per6 dell'uno c dell'altro siamo cosi incerti u come ignorant! . Liotuizione imraediata non pu6 adunque nulla, quanto alle realita esternc. A che si riducono pertanto i mezzi della scieuza nmana? Quanto alle realita esterne, al sillogismo, ed altri atti in* tellcttivi: pcrocchi sillogizzando, dice il N. A-, si producono le prove delPesterno. Quanto alPinterno poi, alle astrazioni : udiamo come se- guita PA. N.:  AlPopposto, si 6nga Poggetto delPinluizione essere nelle u nostre idee soltanto , e nei gruppi e nelle separazioni diverse u che vi andiamo determinando. Certo ^ allora che Pintelli*  genza , con tutte le forze della propria spoutaneita rimane u creatrice sola del vero^ siccome incontra agli Algebristi ed  ai Geometri.  Non fa meraviglia pertanto se tutto Pumano It senno procaccia di giungere alia condizione della geometria  e delPalgebra , cini aspira a mutarsi in bella e grande crea* u zione di nostra mente  ()- . Ecco pertanto come tutto il saper nostro si riduca a de ra- gionamenli astratti come quelli de Geometri, e ad una noti* zia delle realita esteme che raziocinando otteniamo. Tutto dnnque i iloalmente idee, giudizj, raziocinj , che si provano gli uui cogli altri, secondo le leggi logiche conosciute. Ora quando i iilosofi precedent! al nostro parlarono d'idee, di giudizj e di raziocinj, intesero forse parlare didee, di giu dizj e di raziocinj che non fossero intoiti dal nostro spirito ? a chi cadrebbe ci6 nella mente? Quello adunque che il G. M. aggiunge, non 6 che la deno- minazione d'intuizione data impropriamente all atto dello spi- rito che li concepisce. Nel fondo adunque, il N. A. si adagia di forza con quelli che furono avanti di lui , e pcr6 la fatica (i).P. II, e. XVII, III. Digitized by Google a8i di essi in cercando il criterio del vero, non potea da lui a buon dirillo dichiararsi vana e infruttifera (i). CAPITOLO XII. CONTIHUAZIONE. Potrei confinnare tntto ci6 con altri pass! delN.A., segna* tamente con quelli, ne' quali contra Reid difende che la ve- rila i razionale e non istintiva. A ragion deaempio egli dice in un luogo: u noi abbiamo creduto partire al tutto Iistinto  dalla ragione, e questa stimato abbiamo capace di pravare  Tali parole, messe a confronto colie prime, proverebbero, che Delia intuizione mediata non pu6 avervi il convincimento della ragione. Pcroccb^ se qnesto si ha 1^ dove il cognito ed il co* noscente divcntano una medesima reality, e se nella mediata ci6 non avviene punto, che anzi si distinguono sostaneialmentef o per divisione di tempo; dunque in vano cercasi in qnesta il convincimento della ragione, Egli h vero che il Mamiani soggiunge ; u il passaggio u dall'una all'altra fii ritrovato nella impossibiliU metafisica  di negate il fenomeno n (a), la quale impossibilillk metafisica appare pel principio di contraddizione. Ma tutto cid non fa mica avvenire che il conoscente sia una cosa medesima col co,> gnito, ci6 che convertirebbe Iintuizione mediata nella imme*- diata , e per6 non procura giammai quella condizione che il Mamiani dichiara necesMria al convincimento della ragione, Piuttosto 6 dnnque da dirsi che il Mamiani aggiunga all in* tnizione immediata, scorgendone 1 insufilcienza , on altro cri- terio, come toccavamo, cioi il principio di contraddizione, e che si serva di due criterj in vece die di un solo (3). 3. Gi4 fu per noi accennato, che il N. A, non intese in che senso gl'Italiani antichi , o piuttosto gli scolastici tutti di- cessero , che Pente si converte col vero: maniera per la quale intendevano che il vero si pu6 prender per Vente, e Ienfe si puA prender pel vero, essendo in sostanza la cosa stessa. Non volevano essi adunque dare con ci6 alcun criterio della cer* ^tezza, quasiche qnesta ci fosse solo lit dove Iente e il vero si convertono, sicchi quando il vero collente non si converte, non vi fosse certezza. Allopposto essi con quella sentenza vol* lero solamente esprimere la metafisica natura del vero^ e perA (i) P. II, c. XX, I. (a) I,i. _ (3) Cap. X. Digitized by Google i84 non ammisero giammai il caso, !a cai vi aves$e rl vero senut eonvertirsi collente, ma insegnarono che il vero era sein- pre converlibile colPente, perocchi non era egli allro r.he Iente medeaiino conosciuto (i). La conversione adunque del- r ente col vero non si fa nella sola iutuizione immediata, Bia sempre , ovecchi siavi il vero^ e non cosliluisce alcun criterio. 4.  Non veggo poi ragione alcuna, perchi il N. A. creda nna cosa medesima il dire cbe Iente si converte col vero, e il dire cbe il conoscitore ed il cognito cortpongono una sola rea- litd: perocchi egli usa a dir vero ora Puna ora Paltra di que> stc doe maniere a comprovare la veraciti delP intuizione im> mediate. A doverle inlerpretare siccome aventi tutte due an medesimo signiiicato , converrebbe prender Pente per siiionimo del conoscitore, e il vero per sinonimo del cognito. Ma se noi stessi, soggetti conoscitivi, siaino quell'ente in cui il vero si con* verte (otlrechi ci allontaneremmo vie piii le mille miglia dal modo in che inlendevano questa frase gPltaliani antichi }, ne verrebbe, che il vero si convertirebbe in noi, o pure si con* vertirebbe con noi , sicchi noi e il vero saremmo sinonimi: cosa impossibile a concedersi, impossibile a concepirsi. Oltre a che il vero in tal caso non avrebbe alcuna sua propria entita di* versa dalPentita nostra, e quindi sarebbe nulla; e come po* trebbe il nulla eonvertirsi in noi o con noi ? 5.  Finalmente non mi parrebbe di passare i limiti della di* tcrezione, cbiedendo io al G. M. di spiegarmi, come o perch6 debbasi aver la certezza solo allora che il conoscente ed il co- gnito sono divenuti una medesima cosa. E se non vuol dir* melo, mi dies alrneno come sia possibile che vi abbia certezza di scienza , o anclie solaniente scienza , quando il conoscente ed il cognito fanno nna medesima cosa ; perocchi io davvero non ci veggo, ni intendo pure la possibilitii di questa sua aflermazione. Secondo il veder mio , egli i al tulto necessario, acciocchi possa darsi una cognizione qualsivoglia, che il co- noscente ed il cognito non iacciano una medesima cosa, ma (i) eonvertirsi due cose, vuol dire, secondo il frsssrio della scuola , po- tersi sostiluire P una allallra, polersi dire dell uoa ci6 appunlo die si dice dell allra. Digitized by Google a33 cLe rimangano anzi fra loro perfellamente distinti e Inconfuti, sebbene congiunti insleme slreltamcnlo. Che se egli avvenir po- tcsse una vcra immedcsimazione dul conoscente e del cognito, come pare dimandare IA. N., io non avrei piii ni conoscente, cognito , ne conoscenza : luUo al piu avrei per risuUato un sentimento vago, confuso, cieco^ come sono sempre i senti- ment!. Perocche la gran linea di separazione fra il sentimento appunto e la conoscenza si i questa , che uel primo non vha distinzione fra seuziente e sentito ^ la dove nella seconda il conoscente dee essere distinto dal cognito, il qnale appunto da ci6 prende nome di oggetto, come un che distinto, con- trapposlo ohjectnj al soggetto. Chi vorra persuaders! di questo vero, bastcra che fissi bene gli occhi dell'attenzione ncl sentimento e nella conoscenza, e che li osservi senza pregiudi- zio alcuno, come essi stanno in propria uatura. 6. Se il N. A. avesse considcrato i pass! de' nostri buoni antichi Italian! ch'cgli medcsimo ci reca innanzi, avrebbe leg- germente veduto, essere stata lor mente, che nella sensazionc non si distingua oggetto da soggetto, raa nella conoscenza bensi. Ecco un passo di s. Tommaso, da lui stesso riferito:  Ci6 che i sensibile, i il senso medesimo in atto . Qui si vede I'oggetto immedesimato col soggetto, di guisa che questo due parole di oggetto e di soggetto noi Ic applichiamo impro- priamentc al senso , per la solita tendenza che abbiamo di applicare a questo quelle frasi , che in proprieta convengono alia intelligenza. Ecco un altro passo del medesimo autore: CiA u che ^ inteso , bisogna che sia nell' intelligente n. Non dice mica qui s. Tommaso, come ha detto del senso, che ci6 che i inteso 6 Iintendimento medcsimo in atto (i); questo nol dice, n6 il potrebbe dire, alineno uello stesso significato^ ch6 sarebbe contrario a ci6 che egli pure insegna intorno la specie iiitel- lettiva, distinta sempre secondo lui dal principio intelligente; ma dice, che ci6 che i inteso bisogna che sia nellinlelligente; maniera di parlare che mostra ad un tempo e la congiunzione fra Iinteso e I'intendente, c la loro pienissima distinzione. Si- (i) E qnandanco Io dicesse, non si potrebbe pigliarc un lal dcUo alia Icltera; dislinguendo cuslanlcmcnle s. Tommaso la specie della cosa ebe informa 1 inlellctio, dallo stesso iolelletto. Digitized by Googlc a86 miglianlemente conviene intendersi il detlo di Tommato Cam' panella u Tutto ci6 che per fatto inlriiiseco percepiamo, cos'i lo percepiamo, che esso in noi, e noi siamo in esso . Pc* rocchi questa cotale inabitazionc, per cosi esprimermi, dellog- getlo conosciuto nel nostro spirito, non pin^ giammai giungere fino a confondere esso oggetto con noi, o noi con esso. Con* veniva adunque chc il N. A. entrasse a spiegarci distesiimentu questa ragione misteriosa cbegli adduce della certezza dell'in* tuizione ^ e dopo ancora averci chiariti sul modo onde la cosa conosciuta e il soggelto conoscente  dimorano sotto u una sola essenza n (i), farci vedere come questa cotale im* niedesimazione possa e debba essere prova cliiarissima di cer- tezza. Di vero, non trevando il C. M. questa immedesimazione del conoscente e del cognito in tutte le conoscenze nostre, ma solo in quelle che appartengono all' intuizione immediata, for- z'^ dire che egli intenda per cssa tutt'altro da quello che in- tende s. Tommaso, ove afTerma che il cognito dee essere nel  conoscente; perocchi questo s'avvcra in tutte ugualmente le cognizioni. Egli par dunque che il Mamiani ponga la sua cer- tezza dintuizione immediata nell'esser questa un intimo e im- mediato sentimento; il che 6 consentaneo col chiamarla che fa una tt certezza a cui non bisognano dimostrazioni  (u), c molto piu con qiiella sua sentenza che dice u lo scibile umano  ha il principio suo nel fatton, e uegli i perchi i, non perch6 debba essere  (3). Ma in tal caso (inalmente, I'appagamento che noi troviamo nell' intuizione immediata non sarebb'egli istintivo? non cesserebbe ^'esser razionale? giacchi in quel- Iintuizione domiiierebbe un sentimento senza prova, un sen- timento dove il vero sarebbe il fatto del sentimento medesimo, e 1 oggetto divciiuto una cosa col soggetto.  (i) P. II, c. XX, I. (a) Ivi. (3) P. II, c. XI.X, IV. Digitized by Googlc CAPITOLO XIII. 387 rARACONE DEL MAMIAMl CON CARTESIO. La tcoria pero del N. A. vien CBDgiando colore, al cangiar deirangolo di luce soUo a cui si ragguarda. Sguardiamola duuque utt poco d'altro lato: paragoniarao nuovameute I'in- tuizione del C. M. col Cogito ^ ergo sum, di Gartesio. E prima diamo di piglio alia censura, che IA. N. fa all'entimema car- tesiano. AfTernia egli, che dicendo  lo penso, duiiqne esisto  , Gartesio introdusse nell in/uizione immeiliata quattro elemenli a lei stranieri, cio6 i. il sillogismo, 3  la proposizione gene* rale non dimostrata: ci6 che pensa, esiste^ 3. V lo sostanziale, mentre nell'/o penso non si trova che il fenomenico^ e 4- I'uso della memoria necessaria allalto del sillogismo, scnza averne prima dimostrata la vrridiciti. All'opposto egli ^ assai contento d'avere collocata la certezza in una intuizione immediata, pura da quest! quaitro element! eterogenei. il ella ben fondata questa sua contentezza? ^ egli vero, che I'intuizione sua sia scevera al tutto da quedifetti? Noi I'ab* biamo veduto in parte: abbiamo veduto di qual sillogismo usi il G. M. a provare la sua intuizione, e ci6 che h il piu, come  quel sillogismo stia ne'visceri dell intuizione stessa, la quale da lui prende efGcacia. PerciA se il sillogismo ha sempre seco una proposizione universale, e se, come crede il G. M., ha bisogno di memoria,* noi devremo dire che almeno tre degli element! inchiusi nell intuizione cartesiana sinchindono del pari nella mamianiana, cioA a dire, Iuso del sillogU smo, una proposizione generale non dimostrata, e Iuso della memoria (1), 11 quarto peccato di cui IA. N. aggrava Gartesio, si h che nellentimema u lo penso, dunque sono > , quell /o si prende (1) Rispetto al visio allribuilo aU'ealimena di Gartesio, di conlenereuna propofizioue universale, il C. M. dice: > quesla veritt non potea poi con> iie, sicch^ io non sia pin \era* nicntc un sulo Io, ma due: conciosiach6 ad allra connlusione non adducono le parole del N. A.  La nozione dellin^ die trovasi ripelula nei due niembri dellenlimema (lo pcnso , m dunqtie esisto), e la qoale, secondo Cartesio, etprime il nostro H essere sostanziale, riene confusa erroneainente con la nozione X pura immediata del nostro me fcnomenico  (o dM'anuno n. a In tale apontaneiUi, che si modifica e si differentia a cia- a scuna sua operazione, consiste pertanto il soggetlo nolo e a senlito dei nostri pensieri. Gonciossiachi noi chiamiamo sog- a getto qualunqne identico che persevera in mezzo il variabi- u le, e tale  il principio altivo dellanimo  (i). Il nostro ME fenomenico adunque h iin soggetto compito , secondo questa descrizione del N. A. Ma io non sono piii un soggetto solo^ io, oltre essere il soggetto 6n qui descritto , di cui son consapevole, sono un secondo soggetto, di cui non sono pnnto consapevole. Se non che, procedendo innanzi, nasce il dubbio, come quel soggetto fenomenico non sia egli stesso sostanza , trovandosi che il G. M. definisce la sostanza a un soggetto che si modi- fica n (z). Di piu, il dubbio cresce, ove ci abbattiamo ad un luogo, nel quale il G. M., volendo dimostrare che solto al mb feno- menico v'ha un altro me sostanziale, toglie a far vedere, che sotto il variabile sta un invariabile. Perocchi se anco nel sos- gello fenomenico v'ha P identico, I'invariabile (che altramenle non sarebbe soggetto)^ come questa cotale identiU e iuvaria- bilita potra costituire un argomento da conchindere che esista un soggetto sostanziale? Ma udiamo il testo: a Egli e uu principio apodittico questo, dice, che la durata  e la successione, quantunque possano rincontrarsi nel sog- u getto mcdesinio, conservano tuttavia , guardate ciascuna da u sk e per s^, un essere proprio e dislinto: dacch6 Puna ha a per essenza il continuo, e il discontinue Paltra. Oa ci6 viene a manifesto n (non so a dir vero quanto!),  che si nel prin- a cipio nostro pensante, e si nclle cose esteriori , risiede un a essere necessariamente immune da variazione, e identico pe- a rennemente a si stesso,  sosiegno di tutti i modi, o vo- a gliam dire di tutte le mutazioni  (3). Sulle quali parole non possiamo ommettcre di rillettere; ti) P. II, c. IV, III. (a) P. II, c. V, VIII. (3) P. II, c. VII, vii. Digitized by Google 9> i. Clie nco il loggelto fenomenlco fii supposto identico, e sostegno di tutte le variazioni ^ peroccbi fu dcUo esserc il principio attivo dell' animo, chu riceve le variazioni, rlmanendo identico a stesso^ a.* Che se dalla durata e dalla successione si dovcsse in- durre Iesislenza di due soggelti, in tal caso non sarehbe pin vero die la durata e la succcssionc fossero nel medesimo sog' getto , ina la durata starebhc nel soggetto sdstauziale, e la suc- cessione nel fenoinenico^ 3, Che il inodo di argomentare del C. M. suppone, die sia sentila da noi non solo la succcssionc, nia anclie la durata, parlendo il suo ragionare da questo principio, che u la forma u costautc della nostra spontaneita fenomcnica i di mettcre H srtnprc il variabile a lato all identico n (i), e die u la du- ll rata del nostro me scorre con perfetta coiitinuila fenome- u iiica h (a): che per6 non i giusto Iindurre da questa durata uu secondo soggetlo diverso da qiiello chiamato feno- tnenico^ se pur tale i il feuoracnico come si descrive, che abbia in sd e I' identico e il vario, e il durare e il succedere, o piii veramente d a dirsi, che non v ha die uii soggetto solo, il quale ad nn tempo d fenomenico c sostanziale; 4- Che il C. M. non aggiusta le suo paHlle, ma non fa che aggiungere una nnova conlraddizlunr, qiiando in un altro luogo , sovvenendosi d' aver posta unideutitii andic nell'/> fenomenico, dice che u 1 identico fenomenico, il quale seii- u tiamo giacere in fondo a tutti i modi della nostra sponta- u neita, non puii dirsi immune aOfatto da caogiamento  (II). Questa pezza non fa veramente, cfac lo squarcio maggiore^ perocchd rimanere identico, e cangiare, sono opposti: c tanto piu , sopraggiubgendo, che e ogni volta die Iazione estrinseca V sopra di noi seslrflgue e muore del tuito, cessa pure il seii- a timento del principio nostro cogitativo  (4) delta vita (i); e sc cl6 csser potcste , n' avremtno ^l' assurdo , che, risuscitandosi poscia in noi un nuovo sentimcnlo, non potremino in verun modo ripigliare e riassumere la nostra pri> ma identitli. Ma io debbo ricbiamar qui i nostri giudici, i comiini no- stri lettori, a considerare le conseguenze che ne avverrebbero, sc noi ammettessimo , die oltre il noi che sentiamo, fosse in noi un altro noi che non sentiamo, come vnole I'A. N. Questo soggetto incognito, al tutlo aderente a me, e che si dice ME, senza chio sappia ch'egli sia Io , potrebhe fanni per avventura de bruttissimi scherzi^ parlo di scherzi siniili a quelli che furon gia falli al Grasso legnajuolo, al quale fa fatio credere, cora'i noto , di csser divenuto un altro, ovvero peg* gio , se si traltasse di scherzi simili a quelli che faceva Giove ad Alcraena neW Anftlrione di Plauto! Ma fuor di celia; ecco le conseguenze di una tale dottrina: I." Se quel la dottrina i vera , sono al tutto vane le cose che il Mamiani dice in confutazione dclle forme kantiane (a); perocchi queste forme posson venire da un fonte incognito, cio6 da quel nostro soggetto sostanziale che sta sotto il nostro soggetto fenomenico, e che non sappiamo che cosa sia. a. Intieramente cade la dimostrazione che il N. A. reca del mondo esterno^ perocchi quella dimostrazione ha luogo solo nel caso , che unico sia il nostro soggetto, e che questo soggetto sia tutto da noi sentito, ni vi abbia una parte sostan* ziale in esso del tutlo incognita ^ perocchi se vi avesse , da questa parte al tutto incognita , cioS dal soggetto sostanziale che sta sotto al fenomenico , potrebhe uscire il mondo estemo che appare nel soggetto fenomenico (3). 3.* Non si puA piii negare ia possibilita del sistema di Fichte, il qnale dice, che siamo noi che produciamo il mondo esterno, senxa chc ne riteniamo la coscienza^ pcroccbi di^ciA che fa il nostro soggetto sostanziale , come viene immaginato dal G. M., noi non possiamo aver coscienza, non rimanen- docidi questo soggetto alcun seutimentc, n6 alcuna cognizione. (i) Ved. il N. Saggio, Scz. V, c. XI. W Per ei. cio che dice P. II, c. YU. (3) P. II, c. V. Digitized by Google 4- Cadono luUe le prove della semplicila dellanima ani- mcsse dal G. Maniian!, ed ha ragioue Kant quando lascia in dubbio quella qoestione; perocdi^ luUe le prove di easa sem- plicit^ e spiritnalita sono tralle dal soggelto nostro in quanto il senliamo, e peru dal soggetto fenomeolco; iii vale il dire cb tt an soggetto non pu6 senza dividers! sostanzialiaente raccbiu*  ch^, se nel soggetto feuomenico il Maiiiiani ammette il sem> plice ncll' identico , e il composto iiel vario, uolto pill diffi* cilmeote si proveta che nel soggetto non fenoinenico at tutto a noi occulto ripugni simigliante composizione (a). 5.* Ne pare potri il Si. A. coafutare i Scbellingiani (3), i Panteisti o gli Stoici, cbe identificavano I'anima colla divina soslaiiza : pcrcioccb^ di questo occulto e non senlito soggetto se ne pu6 fare cio cbe altri voglia, pur ua tratto cbe sia con* , eedoto ed ammesso. Concludiamo: egli i on assurdo, un sogno qaeslo doppio soggetto m-lluomo, questo Jo fenomeuico, e questo Jo so* slanziale. Non v'ba cbe un solo Jo in ciascuu uomo^ questo 10 esprime tutto intern il soggelto umauo: questo Jo k ua sen- tinienlo-sostanza cbe parte i essenziale, e parte accidentale. U sentimento essenziale maiitiene una cuslanza^ nia la sua es- senza non ista nella imnvutabilita : anebegli pu5 esser tnu> tato: solo v'ba un principio di attivita in Uii al tutto immu' labile^ perocebi io non pongo Iesseiiza della sostanza nella inimutabilita, ma in una attivita die si puu coiicepir da se sola (4). 11 difficile ad intendere bene questa duttrina, consiste I.* nell esser Iuomo avvezzo a porre la sua atteozione so- laraente alle sensazioni acoidentali e variabili^ di che gli nasce 11 pregiudizio , che non vi possano esserc sostanze essenziaU mente senzienti-sentite, o senzieutisi.; (i) Vedi P. ir. e. IV, . (i) E va pure a terra ciu che dice deirordine causate. P. II, c. VH. (3) Sclielliug riliula espressameule la taccia dalagli di panli'isla : per'i> noi non possiamo, ni ialendlamu con (jueslo di allribuirgli ci6 die egli stesso apcrlameiUe disdice  ripreude. (4) Set V, c. VI c VU. Digitized by Googli ig4 3.* nell'avvertirsi diflficilissimatnente in no! il sentlineiito fan- damenlale dell esser nostro vivente, percliA senlpre eqnabilc, e non soggelto, dellordine della natura, a mulazioni. Mr su tulto ci6 rimetto i niiei letlori a qucllo che ho della ml N. Sn^gio (i), e piii ancora alle atleiitc loro osserrazloni e profonde medilazioni sopra di si medesiml, senza le qiiali la lellura stessa di quel nostro libro non pu6 reiare utilila; CAPITOLO XIV. C05TIND*ZI01|ej Seguitiamo dicendo cio che ci rimane del riscontro fra it priiicipio cartesiano  lo penso , e I'intuizione del Mamiani. Vogliam noi cercare, se pone pin d'indimoslrato c devi- deote r uno, o Iallro di quest! due scriltori; perocchi egli e manifesto, che quella GlosoGa i da preferirsi, la quale pin di' niustra, e, impossibile essendo il dimostrar lutlo, pill ristriuge quel pi'imo vero evidenle, che dee esscre il punlo fermo ove posttio e gravitino lutte le diuiostrazioni. A lal uopo, esaminiamo quel passo dove il C. M. espone il suo concetto circa Iintuizione immediala : u Se Ioggelto del conoscere, dice, sia una pura e semplico a idea , poniamo quella del triangolo (a), h impossibile alia u nostra mente negare, ovvero dubitare della realita di essa ^ (i) Sez. V, c. Xt. (a) Loggelto del conosccre non i, propriamenle parlaiiHo, I'iilca ilel triangolo, ma il triangolo slesso iriealc. Or qtieslo 6 un crroic freiptcoK! del N. A. e di inolii aliri, di confondere Iiiien col Iriango/o idtate og- gelto deir inluizione die costiluisce Tidea. Non negO^ die talora si possa pigliare Tuna cosa per Iallra, come ho dello ancora, quaiidu la maiicanz.i d'esaticzza scrnpolosa non iiifluisce ndlo scingllmento della qtieslioiie di ciii si Iralla; ino all'opposto, dove la queslione slessa riceva oscurila, cotifiisione e falsa suluziuiie per inaocanza di accuralezza nd ravellare, qiiesl.-i acciira- tezza dee esser coiiServata scnipolosainenle. Gonvien diinque osservare die srhheiic per la pnrola idea s'inlenda ora ris//o del Aoslro spirito clre veda nil oggcllo, ora VoggeUo ideate, ora Tuna e I'allra cosa iosieine presei iicI luogo del N. A. pero i necessario, a voler ritrovare una seiitenza aCcii- raia, picnderla per l'ogge//o ideate; c pero conveiiiva uomiiiar qiicsio , d diehiararc in die seusu voleasi presa la parola idea. Digilized by Google K vogliam dire deH'oggelto della conoicenza (i), attesoclii u ( ecco la ragione ) I idea i in noi, e noi siamo nnificali con  u soLUTA DELLA cosciENZB. La qiial cosa pii6 venir fatta in un u solo ed unico inodo, e questo i provando die la eoncezione u nostra immediata delPoggelto estrinseco attesta con la pro* a- pria sua enlitk, eziandio rcntita delPoggelto, st veramenle tt cbe se Poggello non fosse, n6 tampoco sarebbe la conce-  zione mediata. Ora ecco le osservazioni die io prcsenlo al giudizio de' sarj, sopra la doltrina del G. M. esposta ne due brani riportati. t." Gia ho osservato, che se fosse vero, che la realita del*' Poggetto pcnsalo, p. c. il triangolo ideale, fosse la 'nostra pro* pria realita, come dice il N. A., ne verrcbbe Passurdo che noi saremmo de triangoli; il che niuno dira: o pure die il trian* golo si Iransustanziasse in noi, e diventasse uomo, o anima^ il cbe pure niuno dira ; o iliialmentc che cessando il triangolo (1) Qiieslo a voglisni dire > provii rlie il C. M. sicsso saccorsc della inrsallezZA di aver usalo  idea del Iriaegolo  in luogo di > triangolo ideale . (3) p. n, c. If, 11. (3) P, II. c. II, III. 29 possibile (6)^ ma queste varie dizioni chi pu6 conciliarle in- sieme? Perocebi lo studio complelo dell' inlelletto o i neccs- sario alio stabilimenlo della certezza, o non e nccessario : non (i) Usa spesso questa frsse Iaulor iiotiro. Ved. P. Il, c. II, ii. (a) Usa UN. A. la parola h immeUcsiinazioae  a questo proposilu Uilla P. II, c. Ill, VI. (5) P. I, c. -X.VI, a." afor. (0 P. I, c. XVI, 4." afor. (5) Ivi, I.* afor. (6) Ivi, 8.* afor. Digitized by Google 297 av\i Diodo di (ranslgere. E tegll i necestario, tullal piu si po ! Ma se prima di Irovare il modo di slahilire la verita c la ccriezza, conviene che possediamo la sloria dellintelletlo, come n' accerleremb di quests ? e se quests non i certa, o non 6 per noi accerlata, come dipendera da essa il criterio della verita? ovvero tulta quella sloria sar^ ella ammessa nella dimoslra- zione dello scibilr, come un prccedcnte evidcnte per s^ ? Qursto modo di ragionare del N. A. trac I'origioe da quellu che noi abbiamo toccato innanzi, cioi dal considerare per uua a conclusionc scienliGca perfettamcnle n quella che consiste nel dimostrare  patcntemenle I'impossibilila d'una spirgazionu u razionale dei sommi principj n (a). Ora i la sola storia del- I'intellelto che pu6 giungerc a provare, che i sommi principj non si gcnerano da niun scnso, da niuna spcrienza , da niun giudicio, come ha dello allrove il M., c die perci(^ la loro spiegazione razionale i impossibile. Se la diinoslrazione adun- que de' sommi principj finisce lulla qui, cioe in far vederc lVt- possibilihi lUlla loro spiegmione (3)^ egli c manifesto che con- vien prima di lullo dar mano alia sloria dell' intcllello, c che () P. I. c. XVI, i4for. (3) Lo Kesso C. M. dice allrove, cbc le idee slrallissime noa si S(de- X gano con allre idee, nia solo con la istoria Tcra e precise dalla loro gtv  uerazione  (P. II, r. XII, iii). Quindi la necessity della storia dell' in- Iclletto, c specialinente ozLta czvtaszioxa dzllz inza. RosMi.Ni, Jl Rinnovamenlo. 38 ag8 qaesta sola pu& meltere un boon fondamento alia scienza del vero, benchi non li veg^ poi come quella storia possa avers! senza di questa scienza. Ad ogni modo, persegnitando logicamente le tracce de'pen* sieri del N. A., vedesi chiaro che, se no! gli domandassimo, per* chi mai , venuti a sorarai principj , e provato che di quest! non si pu6 dare spiegazione, noi dovremmo acquetarci e pren* derl! per veri senza piu^ egli ci risponderebbc,  percbi un vero dee pure esistere, n se nol troviamo ne' prim! principj, oggelto dell'intnizione, noi nol possiamo allrove rin venire, di- pcndendo tulte Ialtre conoscenze da quei principj . Cost fa appunto il Mamiani ; prima ancora di entrare nella dimostrazioiie dcllo scibile, egli ci d4 I aforismo seguente: u Una veritii piimitiva assolata risiede nell'entita del nostro u pcnsiero  (i): sul quale suo aforismo cos\ ragiona: u Ghiedere la scienza universale del vero, dichiararla pos*  sibile, ovvero impossibile, dubbia o certa, reale o apparente, u i totto uno rispetto a questo, cioi che in qualunque di tali  casi sempre si suppone la conoscenza d' un vero assoluto dal  quale si vuol partire ; diffatto in qualunque di essi casi af*  fermasi alcun che in modo certo e assoluto. Avvi dunque  un reale ed un vero, su cui non mettiamo dubbio. Cotesto  reale e cotesto vero si incontrano nellentita del senso in*  timo, ove I'atto del conoscere e Toggetto su cui si dirige a la conoscenza cqmpongono una sola e identica realiUi, della u quale niuno scettico sa dubitare  (a). II ragionamento adunque si riduce a questo ; Un vero dee esserci, e c'i sicurainente. Tutte le conoscenze nascono dai primi principj, e quest! non nascono da altri. Dunque convien cercare quel vero nei primi principj. Ma se quest! non nascono da altri, essi sono percepiti intuitivamente. Lintuizione adun* que d il criterio del vero. Ognuno s'avvcde quanti precedent! dimandi il criterio del G. M. ^ ognuno dica se il sorite che inchiude sia piii semplice, e meno esiga dell'entimema di Renato Gartesio. (i) P. I, c. XVI, i6." .for. (a) Ivi. Digitized by Google CAPITOLO XV. 99 COHTINUAZIOHE. Ma di nuovo s'abbiano sott'occhio i due pass! allegati. In quelli si afTernia, essere impossibile alia mente il dubi- tare della realila di un triangolo pensato,  attesochi la sua  realila i la realila noslra propria , e il conoscente i il co*  gnito slesso n. Or ci6 i quanto dire : come non possiarao dubitare della realila nostra propria^ cost non possiamo dubitare del triangolo, perchi la sua realita i la nostra , e il triangolo siamo noi Stessi. Clie cosa suppone questo ragionanienlo 1 Levidenza della nostra propria reality, Ieridenza di noi stessi. La nostra realiUk dunque, la nostra entity, la nostra esi- stenza i supposta dal N. A. senza diuiostrazione, ed  percettibile. Mi si dica, se tutto ci6 sia conforme al senso co- mnne. Mi si dica, se v'abbia nomo al mondo che ricordi pur un breve momento di sua vita , in cui siasi egU tenato per una cotale apparenza, ocfae valga a segnare 1 istante nel quale gli riusc'i di fare il grande ritrovamento, che a sd stesso, ap- parenza come c, sta per6 attaccato un altro sd stesso, non ap- parenza, ma proprio sostanza. Mi perdoni il C. M., se io dico apertamenle, avervi qui an errore al tutto materiale. Troppo spesso awieue alia maggior parte de filosod, di ragionare dello spirito, secondo I'analogia di ci6 che essi notarono avvenire ne' corpi. Applicaao le idee loro assai ristrette, tratte dalla sostanza corporea, ad ogni ar- gomento, ad ogni oggetto, bene o male a proposito. Sperimen- tano essi, che de corpi noi non sentiamo che le superGeie. Il solido o sia I'interiore del corpo noi lo immaginiamo, lo ar- gomentiamo, ma noi possiamo mai ni toccare, ni vedere, anzi non d visiblle nd tattile. Veniam dunque nelia credunza , che sotto agli aecidenti corporei, ciod sotto quelle qualitd che ope- rano ne sensi nostri, stia come appiattato un qualche cosa di resistente, di duro: questo lo immaginiamo di dietro, o di sotto le qualitd sensibili, e gli diamo il nome di subsUins, volendo indicare quel non so che occulto che si sta sotto. Senza esa- minare quanta veracita ella sabbia una simile immaginazione, certo d che noi la facciamo, che 1 hanno fatta i padri nostri, che hanno essi inventato il vocabolo di sostanza {vxo-triaiTic)', e che noi abbiamo ereditato questo vocabolo collidea annessa di un sostrato, e sostegno degli aecidenti. Or, dopo di ci6 , il primo moviraento del nostro spirito, quando ragloniamo di esseri immaterial!, d pur qnello d immaginarceli parimenle do- tatl a) di aecidenti sensibili, c di una sostanza inscusibile, sostegno di tali accident!. Digitized by Google 3o I Cos'i nel DOtlro (pirito naice, gofTamente a dir vero, il pre- giudizio, clie ogoi toslania debba essere occuUa e insensibile ; c per6, che tulto quello cfae i sente, non sia gia sostanza , nia puro accidenle. Applichiamo tal pregiadizio alio spirito nostro, e ne avrenio per risultamcnto la dottrina del doppio so/gctto del C. M. Peroccbu uoi argomeatereiuo con tulta sicurezza in questo bel modo : lo sento me stesso: Ma qnello che sento non pu6 essere sostanza , peroccbu la sostanza non pu6 esser sentita , ma ella & qualche cosa di 0C'o ma- nifesto, che non 6 1 accidenle che pensa, che parla, che opera; ma d il soggetto sostanziale che fa tulle queste cose; e perd ueircnliiiiema di Garlcsiu u Io penso, dunque sono >, la cou- seguenza d diriltissimaineule tirata. Pud dubitarsi ch' ella non abbia i suifragi di ogni cUsse di personc. Volcle consultare il volgo? udile rargomento di Car- tesio in bocca di uu servo, dellidiota Sosia, il quale seco stesso argumenta : Sed quom cogilo, equidem cc/te sum idem, qui sem~ Digitized by Google 3oa per Jtu (i). Volete consultare i sapienti? udile lo stesso argo- jiiento in bocca dl s. Agostino, 11 quale in uii suo libro inlro- * duce Alipio a parlare con Evodio cosl: Prius ctbs te quaet'Oy lit tic rtiaiiifestissimis capiarnus exortltwny utrum tu ipse sis^ an tu forte metuis nc hac interro^ptiotie faUarisy cum utiifue si non csses^ falli otnnino non posies (a)? Egli non ^ dunque nuovo il mudu di argomeiilare di Cart*io^ iiia quel modo fa usalo e lenuto buono molli secoli prinia di lui da tutti, ciod dai doll! e dagrindotli (3;. Che anro s. Agostino aresse colto un grosso marrone, quaiido egli credelte di poler argomentare alia pro- pria esistenKa dagliaLli del proprio pensiero? die nel secoloXtX gli si debba insegnare la logics, insegnargli cbc dagli atti del suo penslero avrebbe dovuto argomentare ad uuesistenza sua apparisccntc^ funomenica, non punto soslanaiale (4)? (f) ^tWjinftrione di PlaiUo, dove Mercurio prende la figura del servo Sosi;i, e vuol dargli ad iniendere d* essere egli Sosia , questi isguardando d'ugiii lalo Mercurio tuUo simile a s^ istupidilo^ e quasi ^cr uscire del Scniio scco inedesiinu ragioiia: Cfrte edcjtol, qttom ilium cottiemplo, et formam cognosco mettm, Qttrmndnwditfn saepe in specitlo inxpexi, nimium similis est meij Jitfiem hnhet petasum ac vestitumj iam consimiH* si nUjue ego:  Sura, pes, sUtiuta, tonsus, ocuti, nasum vcl labra, JfJaluc, mculitm, barba, collumf lotas .... t/uid verbis opu st? Tergum si ckalncosiim, mkil hoc simtli esl similius. Sat quom cogitOf equidem eetHe sum idem, qui semper fui. Act. I, Sc. I, V. 291. (ai Lili, II, Oe lib. arbilr. C. III. * (5) Giacch6 ne* nosiri tempi si k ripufato necessario ricorrere a) senso coinuritt degf) uoiniui per emendare le doUriue de iilosufi, non credo chc sia qui a sproposito il riferire un luogo, il quale mi seinbra assai seusalo, di un aiitore die seriveva uu po* prima della tneU del passato secolo : questi b Bouliier. Ecco coinc egli per otiima prova del vero if coiiseoso dei dotti e degrindoUi tiella incdesima seuteuza: * L*aecord des sages avec Ic peuple, c*estd^dire, de ceiix qui examinent avec ceux qui n'examinenl point, 6t cthii des sages cnlre eux dans une mcnie opinion, sont deux si- gnes varucteristiques de v^rik,sous lesquels ile\t pixsqu impossible que Ver- rear se cache. Voulez^vous distinguer exactemenl le vrai du faux dans un pfcjuge vulgaire*l vous trouverez ordinahemenl que^ dans cequ'it adevrai, les sages s'nccordent avec le peuple, et que, dtins ce quit a de faux. Us sac- cordent Ions conlre lui. Essai pbilosophique sur Tame des bcles^ Turn. II , Pari. II, chap. v. ^4) bav^eiiiit rhe Targonicuto oude comiucia Curlc^o lo sna filosofia. Digitized by GoogI 3o3 Ma almeno avesse fatto an simigliante argomento il C. M., quando anco tulto questo argomento I'avesse rinserrato nel raondo, come egli lo chiama fenoraenico. Se non voleva pro> vare, come fa Gartesio , T esistenza nostra sostanziale, avrcbbe potato provare I'esistenza apparente , posto che egli s'era messo nellanimo, che esser ci dovesse unesistenza apparente, ante* riore, e per noi segno della sostanziale. Avrebbe potuto comin- ciare il sao ragionamento dicendo :  io penso, o io sento ecc., dunqne esisto fenomenalracnte  ; e quindi procedcre innanzi. Ma quante cose in quella vece non lascia egli indimostrate ! quante non ce le d& come evident!, e non bisognevoli di di- mostrazione! quante non ne racchiude sotto questa parola  cer- tezza assolnta della coscienza  ! Egli ammette per certo asso* lutamente ed evidentemeiite, ed a cui niuna prqva abbisogni, I.* I'esistenza del me, sia pur fenomenico, se cosi gli pare, a.* Iesistenza degli atti tutti del me, i quali si comprendono Delia coscienza, 3." gli oggetti tutti puramunte ideali, perocch^ quest! , dice cgll, hanno una mcdcsima reality con noi, e pcr6 ideulificati con noi hanno pure la stessa certezza del noi. Or in quest! og* getti ideali molte e molte scienze si comprendono, lutte le astratte, e particolarmente le raatematichc. Vorra dirci egli S> trova in libri itallani moUo prima che quel grand'uoino nascesse , mi aembra veramente uoa piccola vanilii nazlonale. TuUavla esaminnndo noi il bbro del C. M. , che si propone il lodevole fine di eccilare gl Il.iliani a fare pin slima cbe non fanoo delle proprie ricchezzc fiiosoriche , recherd qui il principio d'un libro alquanto raro del secolo XVI, scritlo da uo uomo di Siena molt'anni prima che uascesse Carlesio. 11 libro di cui p.irlo i il Cattcliismo del Iroppo nolo Bernardino Ochino, slampalo in Basilea Ianno i56i, il quale comincia con questo dialogo : M Ministro. Se ben Iessere nostro 6 inlinitamenle lonlano dall esser 'di M Dio, non pu6 dirsi che Iuomo non sia: ansi i cosa si chiara, che piii I nota non pu6 dimoslrarsi: ct roostra dessere in lulto privo di giudicio f chi non credeessere; perA ti prego, lllumiuslo inio, cbe tu mi dica, > scgli li par essere o no .  Minislro, impossibilc che a chi non i, gli paja d'esscre; pcr6, put  chei ti par essere , bisogna dire cbe tu sia N Jlluminalo. Cosi i vero m. 3o4 adnnque che tuUc qneste cose, per appftttenere alia intaizlone iimnediata, non abbisognano di ditnostrazioae alcana? vorri cacciare dalle matematirbe mteramente il raziocinio? saranno essi conlenli i matematici, del N. A.? Vcro chegli non ti- rer^ mai queste conscgoenze troppo manifestamcnle assurde^ fna vero 6 allresi, che tutte stanno ne^ visceri delta sua intui* rione immediata^ e se egU non se ne dichiara padre, ella, par- torendolo in faccia al mondo, non pu6 nasconder&i d'csseroe tnadre (i). (() Da tutio cio si vedc chc rintuiilonc m del N. A. non h che una foote di vcriia innumcrevoli, )e quali non cessano di csserc iocatcoate fra ioro per gli nessi logic! di giudi^j c di razlociiij. Dunqoe anchc per entro III tnondo deir intuizioTic mainiauiana e in queslo immenso, anzi iniiiiito novero di verita ch* ella alibracciat non tutic sono prime; ma alcune sono dcdolle da allrc. Per esempio chi dir^ che il leorrma dciripotenusa sia una verity prima^ e non dcdoita? e lutlavia ella appartiene all  iotuizioac im mediala  secoodo il Mamianij perocch6 clla h una verita puramenfe ideale, ella non 6 che m atlinenze didcc n, e tnUo Ic attinenze d* idee cn* trano Delia definizione della iutuizione tnimediala chc ct da il N. A. Ora , te tutte le verita dellinliiiziooe iromediata non sono prime; duoque non tulle possnoo dies! eiidenti, e non bisogoeyoli di dimustrazione , come af I'erma il C. M. dcll'inluizione immediate. Con qtiesla sna intuizionc non d adunque fatto ancor oiente per la dimosirazione dello scihilet c pel trova* meuio del crileiio supremo del vcrOi pcrocchc rimane a classiBcarsi queslo verita dintuiziooe, sotiordinaodo le une alle allrc, dislingueodo t principj dalle coiisegiienze, e irivesligando sc fra tutte Ic vcriiii ve nahhia una pri- me, sella sia evidenie, sc abbin in tutte T autorila nccessaria per accer- tare luUu >1 sapere. Ecco quanto il N. A. sta lontano dalL'aver bcnc alTer- rato di che si iralta, qiiandu si cerca il principio della certezza. St vedc parimente quanto impropriamente cgti dica chc tutte le verilli ideali seno d immcdiaiii intuizionc: tnluile immcdialameotc, non st posson dire se non le veritli prime, o piu tosto la verity prima; le allre sono dedotte. Fra i vaij modi poi, onde il N. A. ci lescrive T intuizione imnicdiala , V* ha pur qucllo col quale ce la fa un giudizio:  caraticre dcllinluizione t ahhiamo vedulo esscre la coscionr.a dun giudicio * [V, II, c. XIX, i). Ora la conveoicota de termini di un giudizio si pu6 beoe inluire: ma propriamente parlando, una talc intuiiione non ^ immediata, pcrchc sup* pone prima di riotuiziooc de termini stessi. L'intuizione poi de* ter- mini non 6 pur essa sempre immediata, peroccli^ i termini possono essere un risulUmento di molle ddfictli, e aocho falbci operazioni dello spirito. Digitized by Google CAPITOLO XVI. 3o5 COMTINUAZIOHE. Veniamo all' intuizionc mcdicUa, e al nesso ch'eirha colU immediaUi, La pietra dl paragone del vero nella intuizione immediata, secondo il N. A., i la realiti nostra propria, di cui, egli dice, non possiaino dubitare. L'altre cose, che nelP intuizione immediata s'accolgouo, sono evidentemente certe, perchi la loro realita i identificata colla realita nostra propria*, Dunque sono certe della nostra propria certezza, come sono reali della nostra propria realitA. Fra gli oggetti puraroeiite ideali v i il principio di contrad* dizionr, che secondo il C. M. A come il ponte di comunica* zione fra noi e Ic realita esteriori, fra la intuizione immediata e la niediata. Dunque anehe il principio di contraddizione riceve la sua realita dalla realita nostra , la sua certezza dalla certezza nostra. Dunque non i vero ci6 che il N. A. dice in molti Inoghi, che il principio di contraddizione sia il primo e supremo di tutli i principio egli non k piu che un principio subordinato , e dimostrato per mezzo della sua iinmedesimazione con noi ^ dunque noi siamo piii certi di noi che del principio di con* traddizione, certi di noi prima che questo principio sia a noi stessi applicato, o se noi non siamo tali, se noi per avventnra non abbiamo un'intrin.seca , necessaria ed evidente certezza, forz'A che anco il detto principio partecipi de' nostri difetti, delle no.stre limitazioni, della nostra contingenza. Di piu, noi siamo certi di noi solo fenomenalmente; perocchA il NOI sostanziale, secondo il N. A., non si sente, ma si argo- menta col principio di contraddizione (i). La certezza feno- (i) II C. M. dice cspressamcnle cosl; > lecito sembra di pronunziare, X die qualunque alio dloliiiziune i pure un modo parlicolare e dclermi- X oalo nel subbietto peiisunte. o dir si vogtia del me feoomeuico  ( P. If, Rosmini, Il Rinnovamento. 89 3or> mfiiiite non ^ che rertet/.a deirapparenza. Dunqiie anche la rertezza di crmtraddizione non avra in sd di certo pin cbe Iapparenza: il rhe viene a dire: certo die a noi appare cerlo; ma non sappiamo poi segli anche sia vcramente, real- ineiitu, sostanzialmente cerlo. Dunque andie 1e ronscguenze che si cavano dallapplicazione di tal principio, non ecccJuno la certezza apparenle: e appli- cato, perescmpio, al trovamento del noi sostanziale, il risultato sara: u i certo the a no! par cerlo, che noi siarao sostaaze applicalo al trovamenlo della realiU esterua , il risultamento Kara pure :  e cerlo che a iioi pah cerlo, che Ic cose esleroe sieiio rcali;  e cosi si dica di tulle Ialtre induzioiii. Non si iiscira mai dal fenonieoale, se I'/o primo a noi cognilo i pn> ramente fenomenale ^ non si giungera mai alia certezza a|>odil- tica; e noi sareino condannati in vita a vedere la lanterna magica. CAPITOLO XVII. t'lO NON > NOTO PER si STF.SSO. MA PEL MEZSO COMVNB PELLA COGNIZIONE. Ma n sia I'/o che primo conoscianio, sostanziale, o sia fe- ncmenale, resta a vedersi s'egli i cognilo per s6 stesso, s'egli L la cognizione propria, o se la cognizione delP/o i qnalche i;osa di diverso dall'/o. Net primo caso I' Jo avrebhe la cogui-, z.ione di sd seco coiigiunta per natura lino dal primo siio esi- stere: nel secoiido non Iavrehbe necessariamente, ma la si polrcbbe anco venire acqnislando in un certo punto della vita. Se avvi la cognizione ddl'/o, ma non  1' lo cognizione di si a si stesso, in tal caso resla a cercarsi che cosa e questa cognizione distiiila dall'/o cbe si conosce per essa , o per me* glio dire , che cosa e questo mezzo onde I Jo si rende noto a se stesso. c. IV, IV ). Nun solu sdunque il prusiero i un'spparenzs, nm In slesso sulibieKu pinunte null e sotsuza, e puramenle us us fanomlhico! e Tin* luizioue , queslu nioilu pariiruliire c deteriiiiii.i(o ill un me feuoinenico, i ( sccuiidu il .M tiniiiui) lulU la buse tluirunmia ceilezza! t Digitized by Google icij II dtrr, a ragione desempio, cbe vha una certezza fcnnis- sima didia propria esislenza, non risolve la question*!, quando anco qiiesta certezza ci accompagnassc senipre, e fosse eon iiui fino dal primo istante del nostro esistere. qnand' anco ella non fosse soggetta alia minima titiibazione o dubbiezza da parte dcllanimo nostro. Molti singannano in questo , ciou tutti qnelli rtie nella certezza di noi stessi mettono la certezza pri* ma, e fra qiiesli il C. M. che, come abbiamo vednto, ridnce alia certezza della nostra esistenz.a anrhe quella del principio di conlraddizione. Qnaiidanco la certezza di noi fosse al tutto immobile, come dicevo, non sarebbe per qiieslo necessariamente vero che ella fosse la prima, e che nella certezz.a dell'/o si dovesse riporre il ciitcrio supremo dtlla verila; perocche il crilerio supremo della verita non coiisiste in ogni particolar certezza che sia indubi* labile, ma solo nella primissinia, in qnella che non nasce da un principio anteriore, che non ha ricevula e mutuala altronde la sua solidita, ma si bene la tieiK in proprio. Siaino adun condo me, cbe bisogna ben guardarsi dall alTrontare cdo degli 3o8 ingegnosi e complicati ragioBameiili : anzi coDvicne presentarsi ad essa con una scmplicissima osscrvaziooe : trattasi - sibile^ perocchi ciascuna di que>te idee non couoscerrbbe 170 iolero, ma solo un elemento dell'/o : perci6 quelle due idee non polrebbero giammai farci conoscere IVo come egli sla iiella sua interezza e perfella unita. Di piii, I'idea dell/o sarebbe ella stessa parte dell'/o si, o no. Se no, richiederebbesi adun- qne, a ronoscer I/o, un'idea slraniera alia sua propria es- senza. Se si, or questa sarebbe iina terza parte dell'/o, che ri- chiederebbe una terza idea. E istituendo un simigliante ragio* namento snpra questa terza idea, che fu istituito sopra la se- conda , ne verrebbe la neressita d' una quarta, poi d noa quinta (i)^ e 1' ultima conclosione sarebbe lo strano assurdo. (i) II Rotnagnosi ci coiifessa , esser cusa iinpusailiile a coiicrpire, die ijiiiima cono5C steMii, quando si sup|>ongA che ridcti sua non sia piii die un suo atto h Se ogni idea esisienie, dice egli, ^ in s'esna im alia w di qiKSla forza, come voletc voi che in ogu alto diverso rapprrsenM tn M r>rmH unira essenzinie ddla stessa forza? Egli sarebln* In sle^so che to- ** lere die ogni voce di un cembalo id ogni frase musicMle rappresentasse M la mano del suonatore h. Da questa riHessloiie avrehlie dovuio il Roma* gnosi ronchiiidere, che adunqiie la conoscenza che ooi ahhtamo delTanima non e non pii6 cssere un inern alto, o un mcro modo dellanima stessa. Allopposin egli ne deduce la conseguenza, che noi non ronnsriamo, e non pn.ssiaino conoscere I'anima nostra m Assurda ^ duoque, dice, la pretesa * di conoscere le cose in ik medesime, come sarebbe assurdo prelenderc  che un muro loccalo dallaria rappresentasse sntto forme Hniie ratmostera  lerrcsirc h [f^edute fond suit*afie Log , lib. I, cap. V, i3) Ma questa coricliislone non ^ diriila Bisogtiava coricliiiidcTc , pereb^ la concliisione fosse conforme aPo premesse, cbe noi non abbiamo ne.ssuna rognltione di noi; e che non esist zw>tr dem icit an, abrr ist nocU cin von ihm unUrschit* iientrr, iiamit sogleich utfiiUiger tnluiUi Sck fungegen isl dit ein/ache Ge* WissUeil seiner selb^) : seiua accorgersi dell*asurdo die indi procederebl>e. Tuilsivia soggiuiise, che V lo e aiiclie uu cuncreio, o anzi Vio i il concre* lissnho: la coacieoza di se qu.d mondo moliiplice airinfiiiilo (convien sem* pre avverlire die siamo in nn ststema d'idealismo) : m Acciocch^ Via possa M e> VIo solo ^ cost i impossibile che nell'/o solo (isolalo dalla co- gm'zione) si rinvenga il priacipio della certezza ^ perocchi egli solo non k nd pur conosciuto: e cosl parimeote d impossibile il collocare ne sentimenti accolti nella coscienza, ciod aella natura sentimentale, il crilerio: d impossibile, in una parola, collorarlo nella coscienza presa nel senso di un atto di sentire, perchd ella slessa ha bisogno di un mezzo che la illumini e la faccia conoscere (i). Se la cognizione d diversa dall/o cognito^ se Il^^sa delCIo, non d I'/o; se a conoscere I/o, e a conoscere tutti i sentimenti che racchiude, ci ha duopo di un mtzto di conoscere; rimane a cercare qual sia questo mezzo : rimane a vedere se il mezzo stesso che ci fa conoscere VIo, ci faccia conoscere altresi I'al* tre cose. E invero molte sono le singolari cugnizioni : per (i) Net W. Saggio sulforigine detle idee ho adoperato anchio la parola coicienza pel complesso de senlimenti di un soggelto, accomodaodomi alia maniera di parlarc di alcuui filosoli. In una nuova edizione di quelPopera inleodo di emeudare una tale inesaltezza, cbe bo cercato di eritare Dclie opere posteriori, come ue Principii della scienza morale. Id quesla, io uso coslaoleineolo la parola coscienia, Del suo vero e proprio signilicato etimolo- gico, rhe d quello di co-scienza, o sia scienza con noi, scienza riferila a noi. In questo preciso signilicalo apparisce, che se Ioggetto delle cogni- zioni d un sentimento (p. c. I Io), la coscienza d io noi falta tosto che d falta la coscienza di esso ; perocchd tostochd noi conosciamo un sentimento nostro, noi siamo di lui coiissperoli. Allincontro nella cognizione delle cose a noi esteriori nun d cost. La cognizione di queste non d un esser con- sapevoli, perocchd gli oggetti di tali cognizioni non sono noi, nd parte di noi. Si csige adunque in tal genere di cognizioni, oltre la cognizione di- rtUa, anche la cognizione rijlessa, acciocchd noi n'abbiaino coscienza: la co- gnizione riflessa ci rende cousaperoli della cognizione diretta. La coscienza morale fiijalmente appartiene alia riflcssione di piCt alto grado. Ved. i Pria- cipj della scienza morale, c. VI, art. VII. fiosMicti, It Jtiniiovamento. 4 Digitized by Google 3,4 eteiopio, come diceva di sopra, c'e la cognieione del cielo, la cognizione della terra, la cognizione del mare, ecc. Se queste soiio latte cognizioni , convengoDO adunque tutle oell'esser tali. In che differiscono ? oella diveraita degli oggetti a cui ai rifu- risce la cognizione. V'ha dunque nelle singolari cognizioni una cosa in cui couvengono tntte, ed i quellentita per la quale sono cognizioni; ve uha una in cai si dUtioguono, e sono gli oggetti diversi. Ora anche la cognizione di me e una cognizione singolare. In che si distiugue e singolarizza dallaltre? nel- I'avere persuo oggello me, anzichi altra cosa. In die si acco- muna collaltre? nelPessere cognizione. II cielo, la terra, il mare, ogni altro oggetto, sono cogniti per la loro propria es> senza, per la loro propria entita? no certo^ e se fosse, la cogni- zione non sarebbe piu una ; non potrebbe esser chiamata con una sola parola, doi colla parola cognizione, ma dovrebbe rhiamarsi cielo, mare, terra ecc., co' diversi nomi degli oggetti, nomi indicant! essenze diverse, incomunicabili^ non si tralte- rebbe in una parola di cognizione, roa di t>arie sostame: la essenza dunque che si designa col nome di cognizione sarebbe annullata. Se dunque tutti- gli oggetti parlicolari del cono- scere, fra quali h pure VIo, non sono essi stessi per essenza co- gniti, perchd non sono essenzialmente cognizione; convien dire che v'abbia un mezzo comwie di conoscerli, nell'niiita del qual mezzo consista Iessenza unica della cognizione. Ma s'ella k cos'i, come indubitatamente ripeto, che con- viene cercare qual sia questo mezzo universale unde si conO' scono le cose e in cui 1 essenza formale della cognizione con- siste, e nella evldente autorila di questo rinvenire la verita e la certezza. Veramente se la cognizione del mio esistere A certa ; non pu6 questa certezza consislere che nell essenza di questa cognizione, cioA nel mezzo infallibile pel quale mi conosco. Ma dovendo questo mezzo essere uno per tutte le co- gnizioni, egli ne verr4 die la evidente forza di lui, trovata e conosciuta che sia, diverra il fondamento della certezza uni- versale: si vedra allora, che quella stessa certezza che noi ab- hiamo dell* lo, i anche quella che giace in tutte Iallre cogni- zioni; e die la probabilita delle cognizioni non ha origine se non dal non potcrsi sempre le cose con quel mezzo infallibile Digitized by GoogU 3i5 sicuramente da noi accoppi'are^ e dal non poter esser da qncllo , inimediatamente illuniinale, o sia rese cognite. Qui adunqtie, in questo gran mezzo del coiioscere 6 da cercare il solo criterio del \ero e del cerlo. Ni mancarono uomini perspicaci, i qaali or vedessero, or travedessero questo zero. Allegheru un filosofo francese molto pregevole, del secolo XVII, il quale sent! assai bene come IJb non ci i noto per s^ ed ba bisogno di un mezzo die eel renda noto, sebben sia difficile a distinguerlo questo mezzo dall/o^ per chi non ha aenrae di vedere filosofico; egli si avvide pare che questo mezzo dovea esser quello stesso pel qnale si cono* scono tulte Ialtre cose, di guisa che gli da acconciamente il nome di verita': questi i il celebrc oratoriano Tomassini. K L'anima ( VIo ), dice, non pu6 conoscersi senza conoscere  in pari tempo e colla stessa proporzione la tbrita eterna e  immntabile di cni ella i ana para capacitli (i). Conciossiachd t l'anima ragionevole, la ragione e I'intelligenza (a), non 6 che  ttna facoltii avida e capace di rerita. Cost ella non pu6 co- u noscere si stessa, senza riconoscere la verita, che i il tno u oggetto e il fine di tutti i snoi desiderj ; a quella stessa  gnisa che non pu6 conoscersi la natura delloccbio corporeo, u senza avere qualche cognizione della luce  (3). (i) Aiichio ho gia mostralo, che l'anima i informala dalla verita, cioi dall'ente possiblle, e che inedianle (al forma esiste come ragionevole. La sua essenza adunque per asirazione si pu6 drfinire ana capaciti di vedere fente , sehbene come raera capacili non abbia mai esislilo, appunto perehi senza Irnle ella non k plu quella che k. (3) Aoche qui non ho allro da osservare, sc non che V intelligenza, non pu^ conceplrsi priva del lame della verita'. ma unila a qoeslu luine esisle; ed astratia menlalmenie da questo lume, giacche non puo astrarsi real- mente, rimane una pura facolU, o capacili. (3) L. Tomassini nella sua opera La Mithode d'dltidirr el d'enteigner clireliennement el soUdemenl la pliilosophie , etc. Paris i685, lib. I, c. I. In questo hel tratto il Tomassini vince per nostro avviso in acutezza il Malebranche. Giambattista Vico fa un rccellcute osservaziooe sulla dut- Irina del P. Malebrancbe: m Qualora, dice, voglla ( Maicbranchio) essere  nella sua dottrioa coerenie, dovrchlie insegnare, la mente iimana acqui- M stare da Dio, non che del corpo di cut essa d mente, Iidea di se stessa . (DeWantichissima sapiema tot., c. VI). CoDvieoe pero confessare, che una simile obbjeziooc fu fatia auche da 3i6 CAPITOLO XVIII. BSrOSIZIOA'E DE VAIIJ SISTEMI IKTORKO LA CERTE7.ZA do a coDOSCere la verita, non pu6 essere per ik evidmite, ap> panto perchi non k una verity prima determinata. Sinlende assai bene, come vi possa avere una prima verit4 evidente, pe> rocchi Tevidenia non  che la luce giuiluumamente irresistibile di quella rerita; ma quello che i indizio di verita, e non la verita stessa, lia bisogno della luce di quetta a renders! chiaro e giustamente autorevole allintelletto. Dee adunque dirsi, col nostro G. M. appunto, che tutti que' filosoG, i quali hanno proposto un criterio del vero in uu in- dizio di lui, non sono pervenuti a trovare il criterio supremo; e quando ce I'hanno voluto dare per tale, hanno erralo. II criterio supremo dee essere immediatamente verita, prima ve- rita, Vessema deUa veritA. CAPITOLO XX. COHTiaOAZIOHB. Tuttavia anche i criterj posti in un certo indizio di veriUi, e non la veritA stessa essenziale, bench4 dipendenti e iuferiori a queata, hanno un ordine in fra loro, ciod sono piii o meno ele- vati, piu o meno vicini al criterio supremo. Perci6 tentiamo di annoverarli, di classificarli, di paragonarli insieme brevemente.  poiche fra quest! viene a cadere il cri- terio del C. M., potremo quinci conoscere qual posto egli vi tenga, e $e in qnesto genere di criterj inferior! occupi un luogo prossimo al criterio supremo, o da questo lontano, Glindizj suggeriti da filosofi a distinguere il vero, furon posti o dentro di noi, in qualche interior fatto dipendente da noi soli; o in qualche al segno tutto a noi esteriore; o, cam- minando per una via di mezzo, parte in noi stessi, e parte in cose fuori di noi. Cosi questo primo genere si divise in Ire grand! class! di sistemi intorno al principio della certezza. Digitized by Google r CAPITOLO XXI. 3'9 coirriiiDAZioifE. Le dae prime per& di queite tre grand! cUm! si saddivisero. Perocchi quanto alia prima, furono immaginati divers! criter) di certezza, secondochd diversi filosofi si fecero an diverse con- cetto dell'uoDio, di maniera che le diverse ideology, psicologie e antropologie produssero, come era necessario^ diversi criterj di certezza. I principali di qnesti sistemi circa il criterio di certezza si possono ridurre a quest! cinque; I." Quelli che doducono il criterio dagli atb' dellanima, a.* Quelli che lo deducono dalle facoltd, 3.  Quelli che lo deducono dagl'istiViti, 4.  Quelli che lo deducono dalle forme innate, 5.  Quelli che lo ripongouo semplicemente neW evidenta, senza determinare a qnali operazioni o condizioni dellanima Ievidenza appartenga. Egli k chiaro, che Cartesio, il quale dice CogitQ, ergo sum, parte dagli atti dellanima, e per6 appartiene alia prima di  roeoti corporei con un linguaggio, che in proprietk non conveniva che al> Ioccbio. La parola greca e^rar'ia, che Cicerone traduce per visum, ba egualmenle una relazione alia luce corporca, pcrocchi vienc da pai'ra , in lucem edo. I (3) Quid de tactu, dice Cicerone, et eo quidem, quern philosophi tale- riorem vacant, out doloris aul voluptatis ? in quo Cjrrenaici solo pulanl veri esse judicium, quia senliatur (in LucuU. VII). Diogene Laerzio in Ari- stippo dice, cbe queslo filosolo ammetteva due soli movimenti dell'aoiino, il dolore ed il piacere: ivo vturram, Ttrfv an* (3) Le anticipazioni di Epicuro non sono le mere immagini sensibili conservale in noi, ma sono le idee, o se si vuole, le idee astralle, relative perd a cose sensibili. Nel seguente passo di Cicerone si distingue chia- ramente 1 . la sensazione , 3. la immagine o seosazione interna, 3.* le idee, cbe veogon formate dalle similitudini delle immagini : ora la simitUu- dine, come bo roosirato, ba uopo di una specie intellettiva. Itaque alia Digitized by GoogU 3a I IIT. Vebbero qnelli che non risguardarono i *ensi estcriori come rinfallibile testimonio del vero, ma vollcr tale il setitimento inleriore delluomo. Uno fra modern!, che innalzd a cielo il sen- tlmento, e parve cbe in lui solo riponesse ogni rivelazione di veritii, fu Rousseau. A questo sembrano accostarsi tulti quelli, che sotto tanti nouii divers! immaginarono una cotale ispira~ zione naturakj per la quale Iuomo i rapito, secondo essi, quasi allimmediata visione di alcune verit4. Lungo sarebbe il venir descrivendo il vario aspetto in cui fu presentata ne tempi no* stri questa sentenza, e narrare i varj nomi di cui fu vestita una SI misteriosa facolta che si vuol dare alluomo alia quale forse non i lontano Viscinto rationale, a cui accenna il N. A. in pin luogbl del suo libro , e a cui commette , come egli pare , il manifestare alluomo le verity soprasensuali. Ma non esscndo pubblico il suo lavoro circa questa parte di (ilosofia, crediamo intempestivo il favellame. IV. Altri posero il criterio nella ragione, come, fra gli antichi Italian!, Parmeuide^ e fra modern!, noiDiner6 un filosofo non ispregevolc, Cesare degli Orazj (i). V. Alcuni fra discepoU di Platone, come Speusippo e Seno* crate, parve non si contentassero delle sole potenze intellct- tive, e collocassero il criterio parte in queste, e parte nel senso corporeo, secondochi le cose da giudicarsi fossero inteliigibili, o sensibili. La sentenza di Aristotele non b cbiara , a tale , chc parnii assai difficile il conciliarlo seco. Pu6 essere chc il guastamento fatto de suoi libri generi in parte questa oscuriti e dlsugua- glianza da s^ medesinio. Ma piit probabilmeute io IattribuiscO allusar chegli fa un parlare troppo metaforico, c non proprio, del quale vicnc attribuendo a sens! quello che si spelta alle facolt^ intellettive, come il ^udicare: manicra equivoca passata viia sic arripit (mens), ut his statim utatur (seniazioni) : atiqua sic recon- diti e quibus memoria oritur (imiiiaglui). Caeltra aulem similUudinibus constiluit; ex quibus effleiuntur notitiae rcrum; quas Graeci turn iVroias turn -p,X>i4i/c vocanl (iiozioiii, idee). / Liiaill. X. (i) Questo Professure, die iiisegii.iva in Roma neirnrcliigiim.isio della Sapirnza, slampo De uniicrsali mclitodo philosophamti pjficioque pluljso/dii liber singularis. Uoinao >778. Koshim.i , Il Ritmovamento. 4 ' Digitized by Google Baa poi nella Scuola, dove rese necessarie di molte soUili distin- zioni, per e iautili, a impedire le quali noa valse il dicfaiarare qua e cola, come fa s. Tommaso, che il giudicare de sens! non h un vero giudicare, applicandosi ad essi questo vocabolo ia tuttaltro siguificato da quello cbe s attribuisce all iutendi- mento (i)> Nulla di meno io non credo cbe possa dirsi , come alcuni fanno, Aristotele porre due criterj , Iuno nel senso e I'allro nellintendimento. Certo cgli si direbbe, cbe Aristotele mettesse un solo criterio nellanimo, dove sono accolte tutte le facolta conoscitive^ siccb^ il suo gran principio stesse tutto ia quelle parole, cbe u I'animo ^ iu una cotal maniera tutte le cose  i xr^v ** ovra eras Trdvra (2). Secondo questo modo dintendere Aristotele, egli pare cbe I'animo sia per lui un cotal essece tutto singolare, e diverso da ognaltra cosa, il quale abbia virtii di couformarsi in mille di- verse guise, e prendere ogui forma: queste forme, o modi del- (1) S. Tommaso nella Somma (I, X.VI, 11) dimanda, se la verity sia solo neUintelletlo, o anche nel senso. E risponde che > La veritii k unequa-  sione fra la cosa e Iinlellello. Ora questequazione si compie solo nel* riiilellelto; duoque clla noa i cbe tieH'inlellelto, e propriamente nella > seconda sua operaiione, che i il giudizio. Si puo pero dire che sia anco m nel senso, iu quanto che la cosa sentila dallinlelletlo i giudicata vera ;  ma questo non viene a dire se non che la veritii si trova nel senso solo m materialmenie, ossia che nel senso si liova la materia della veriU, non  la verith slessa : la verity stessa ( formalmeule ) si trova dunque solo nel m giudizio deirintellcllo m. Udiamo le chlarissime parole del s Doltorn ; Conjormitalem istam (inlellectas et rei) cognoscere, esl cognoscere verilalem. hanc autem nullo modo stnsus cognosciL Licet enim visas haheat simiti- tudinem vlsibilis, non tainen cognoscit comparalionem, quae esl inter rem visam, et id quod ipse apprehendit de ea. Intellectus aulem,  quando judical rem ila se habere sicut est forma, quam de re apprehendit, tunc primo cognoscit el died verum  Di che conchiude: f'eritas est in intel- lectu componente et dividenle (id est judicante), non autem in sensa. Da questo luogo deH'Aogclico si vede chiarissimameote, che cgli attribuisce il giudicare al solo intelletto, del quale dice esscr la seconds operaziunc, e il nega a dirittura al senso. Lo stesso egli insegna nella Q. I de (''eritate, art. It. Perci6 lutti que Inoghi dove attribuisce al senso il giudizio, vaono intesi non in senso proprio, ma traslato; e cosi solo si concilia il s. Oottore aeco medesimo. (2) Lib. Ill de Anim., c. IX. Digitized by Google 3a3 Ianima, sono poi gli oggetti conosciuti, die in tal tnoilo stanno nell'animo, e anzi sono Panimo stesso immateriaie : il qual conrello attribuito ad Aristotele, viene cosl sposto da un uomo dottissimo:  Siccome il molle e il duro, il freddo e il caldo,  e 1allre corporee quality non sono che \arie tempere che u prende una slessa materia ; similmente ancbe le varie nozioni  della mente , quando contempla e medita , non sono che H modi e forme diverse della mente conoscitrice > (i). Per tal gnisa Aristotele sarebbe venuto a dire per la mente o intelli- genza , quello stesso die Protagora diceva pel senso ,  che  I'nomo era la misura di tntte le cose  (a). (i1 Rodolfo Cudworlh nell* sua grand'opera De aelerna ft immutabiU re moralis seu jusli el hnnesli natura, L. IV, cap. I, g IV. Ut mnlle ac du- rum, Jrigidum el calidtim. celeraeque qualitales corpnreae nil sunt, quam varine unius matcriae temperaliones : ila mentis etiam varine notiones, quum conlemplatur et medilatur, diversi Ionium sunt mentis quae cognoscit modi et formae. vavruv ^ftipdrof /ui'rpov. Platone, Del Tcetelo. tJno demeizi di dar luce alle qiieslioni, si i quello di nolare accurala- menle i diversi gradi pe quali si avanz6 Iumana nienie nclla loro (ratta- xione. Ne daro qui un escinpio. Tutia Iantichili senli quanto era difficile a spiegare il modo, onde un essere solo e semplice, come b lo spirilo, polesse percepire e comprendere lanie svariale cose, massimc le corporee, che sono fuori di lui. Sembrava, che le cose non si polessero inlendere se non porlandole nello stesso no- stro spirito, o Irasformando lo spirito nelle cose. Furono adunque Inven- lati diversi sistemi ; ed ecco quale raanifesta gradaxione tengano fra loro i tre, di Einpedocle, di Protagora e di Aristotele, gradaxione, dico, dal gros- Solano e volgare, al piii pensaio e filosolico. I. Empedocle (stando al modo onde In intese Aristotele) spiegA il fallo mediante la supposixionc, che I'anima fosse una cord^osixione di lutti gli dementi dcMuniverso, chegli ridusse a qiiattro ; e che per qucsto clla po- tesse intender le cose, perchA ella avea in sA la natura di tutte; sicchA colla terra (di cui A composla Ianima, si percepisca la terra, collacqua Iacqua, e cosl deHaltre cose. Aristotele, uel lib. I de Anima, reca quest! vcrsi del filosofo d'Agrigeuto: t- Terram nam terrd, Ijrmplid cognoscimus aquam, jEt/iera aethere sane, ignis dignoscitur ignet a cui aggiungeva pel discernimento del bene e del male due istinti : Sic et amore amor, ac Iristi discordia lite. II pensiero d'EiiipedocIc non era nuovo. I suoi precessori erano partiti Digitized by Google 3a4 Nel qual concetto conviene forse riporre il preciso punto, in cui Aristotele si divide da Plalone. Questi distinse assai bene YoggcUO intelligibile dall'antmo intelligente; Aristotele allincon- dal roedesimo principio, che Ianima dovcssc conslare di tutti gli elementi ddle cose chc ella ronosceva; solamente variavano neH'assegoare il numero di quest! elemeoli. Perci6 Aristotele dice, die - quelli cbe ammetlevano w pill elementi, facevano Ianiiiia da piii dementi risultare, e quelli che ua > solo, di qiirsto pure volean fatta I'anima . L. I lie An. II. Protagora fccc un passo piu avanti. Egli abbaudouu unidca cost materialc. I quattro dementi di Empedode erano enli matcriali, e non prescDlavano il senso. Il fitosofo abderitano pose mente al sentire, e ridusse tutte le cose ad allretlanle modibcazioni del sentire. Luomo non era , sc> rondo Ini, che un senllmeuto, il quale si modincava, e cost convertlvasi in tutte le cose: quindi Iuoino era il criterio anche del vero e del false, se- condo Protagora. III. Aristotele (ail iiiteiiderlo secondo ci6 che alcuni suoi pass! danno a credere) fecc il terzo passo in quests progressione didee. Egli, come i due primi, ritenne , chc Ianima per coiiosccrc ha bisogno d'essere tutto cl6 rhe conosce. Sent! pero Iassurditli d'immaginar Ianima come una mistura materialc, alia giiisa di Empedode; trov6 anche (also il ridurre ogni eosa al sentimeoto, come Protagora, accorgendosi che 4 molto diverse il cnno~ scere dal sentire. Chc fa? Conebiude, che Iaoimo intellettivo dee esscre qualdic cosa di diverse da quattro dementi; che non puo esscre ni pure un senllmeuto vario-forme; egli dunque A una essenza propria, una quinta esscnia, la qu.ile ha virl6 di divenire tutte le cose c dintcnderle. Arista- tries, cosi Tullio,  curn quatuor nota ilia genera principiorum esset corn- plexus, e quibus omnia orirentur, quintam quandam naluram censel esse, e qua sit mens. Cogilare enim, et proridcre, el discere, et docere, et invenire aliquid, et tarn multa alia, meminisse, amare, odisse, cupere, timere, angi, laetaris haec et similia eorum in horum quatuor generum nullo inesse putat. Quinlum genus adhibet, vacant nomine: el sic ipsum animum, imXixi'u appellal novo nomine, quasi quandam continuatam motionem et perennem ( Tusc. I, z). Or quests quinta iiatura era quella die avea vlrlb, secondo Aristotele, di divenire tutte le cose. Ma quc.sto k ben dilTicile ad intendere, come uua natura singolare si faccia tutto! Vediamo anche il grande Ari- stotele usare qui uno de piccoli riinedj de filosoli impacciali: il rlmedio i Della parolelta cbe siguifica, in un cotal modo. Ora II dire che quests quiuta natura, che 4 Ianiino, diventi  in un cotal modo  I'altra la pongano, conviene dar loro compagnia: se poi niente diebiarano, forz'i lasciarli da parte, come cose cbe non possono fra Ialtre classificarsi. E per6 bo volulo accennar cotesti GlosoG della evidenza, cbe restando da si, e dagli altri divisi, possono assai convene- volmente formare un drappello speciale. Se non cbe forse alia loro sebiera si debboiio aggiiinger di molti, i quali, dopo avere posto il criterio nella cvulenza, credettero di aver deGnito ab- bastanza dove questa evidenza si trovi , aOermando risieder essa nella coscienza. Non s'accorsero rotestoro, cbe la coscienza abbraccia tutte le facolta umane, tutti gli atli di queste f.icolta, anzi non solo le azioni, ma ben anco le passioni tutte^ sicebi col noniinare la coscicuza, non banno ancora indicato dove peculiarmente I'evidenza si trovi ^ perocebi la coscienza umana i a guisa del mare, cbe larghissimo si distende e inGnlte isole e continent! circonda^ ni altri avrebbe fatto conoscere in cbe parte di mondo si trovi una citta , od una terra , col dire (i) Crilerium, sensu quo nunc de eo agimus acceptam, omnes, si sen- tentias intimius perscrutemur, in evidenlia esse positum consensere. Dissensio est de criteria > per quod >*, de principio nempe et fonte, a quo evidentiam derivarunt (Tentaminum MeUiphysicorum Libri 111, 'feoUinen 1, cp. Vll i 5;z ). Digitized by Google 3i8 . . solamente chella si giace nel mare. II che abbiamo gia prima notato avTenire del criterio del C. M. (i). CAPITOLOIXXIII. COIfTIZrVAZIOEIB. La seconda dclle trc grand! classi di sistemi tnlorno al cri- terio della certezza da noi accennate, i di quclli, che I'indizio del vero e del certo non posero nellanima nostra individaa, ma fuori di lei. Qnesli, ribassata la ragione di ciascnno, danno tutto allau- toritii; e si partono in quell! che danno tutto allantoriti di- vina, e in quelli che danno tutto allautorita del genere umano. I primi nuovamente dissenton fra loro. Perocchi ve nhanno che attribuiscono ogni criterio allanto- riti divina conosciuta per la rivelazione afSdata alia tradizione di unacbiesa^ e quest! ancora variano secondochft qnesta chiesa la trovano qua o co\k, e dichiarano questa o quella societi per tale chiesa. Daniele Huet, a ragione desempio, disconobbe ogni principio di certezza , che non fosse posto nella divina rivelazione in quanto i conGdata alia Chiesa cattolica. Altri poi riposero il solo principio di certezza nella divina rivelazione depositata nelle sacre scritture. Altri ancora convennero con quest! nellammettere il princi- pio della certezza nellautoritii divina, ma la vollero conosciuta per immediata interiore ispirazioue^ i quali si possono dire ullra-mistici , o fanatic!. Ove bisognasse accennare alcnno di colestoro fra gl italiani , pronuncerei il nomc di Bernardino Ochino (a). (i) Cap. XV. (a) Ecco il pancgirico die Odiiiio fa alia ragione umana : M La ragione adunque naluralc, non sanata per la fede, i frcnclica ot  stolla. Si che puoi pensare, come possi csserc giiida el regola dclle cose M soprannaturali, et come la sua erronea filosofia possi essere fondamento M della teologia, cl scala pcr salire ad cssa. Se la ragione umana non fusse N freiietica, ben die liabbi jioco luinc dclle cose creale, pure se ne servi-  rehbe, nun solo in dcrarsi alia cogiiiliuiie di Dio. ma iiiollo pin in co- Digitized by Google 3*9 Quanto poi a quell! die danno tutto allautorita del geaeru umano, potrclibersi suddividere in piii fazioni, delle qaali due tono le principal!. ' ' L'una dichiara infallibile il genere umano, perocche le sue facolla conoscitire colletliramcnle pre*e non possono errare. ' Lallra dichiara infallibilu il genere umano, perchi deposi- tario e lestimonio viridico delle primitive verity da Dio conie* gnate agli nomini.  risca manifesto, come sensazioni cd idee nascano pel Roma- gnosi ad un corpo, o pih tosto sostanzialiucnte nou sieiio cbe la cosa stessa. rocebi diceodo  desensi , si coinpreudc gia ia potema semieote iu(br> matrice degli organi del seal! re.  () Lasciando da canto I'improprio e Ierroneo di ipiesta mauiera fb parlare, cki non ne avvisa k> nebbioaa oscuriiaV  die cosa i  corto; perocebd niuno pensa a suoi alti, ma solameule pensa agli oggetli de' suoi alti : allihcoulro oellio penso di Cartesio, d il lilosofo cbe pone il pensiero, e nienie s iolrcmetle seoza sua buona liceoza, uicnie s iulro- luette se non cid che si vuol porre espressamenle allesame. Noo pud cs- sere adunqne uu boon priocipio della lilosofia I Io serto di Romagnosi. I filosoli ledeschi sono qneUi soli, chio sappia, cbe abbiaoo seotilo la forza di quesla osserrazione ; ed d percio, die ne loro libri veggonsi fare tanli sforzi per iaolare il pensare, e rioTcnire quel sempbee pensare che essi chiamoHO pensare come pensare, Cooviene cbe diamo il raerito a Digitized by Google 334 Egli i f (lunqiie a pofre tiitta la  fuozioDi  silo ( I ) e in altri suoi scrilli. Egli non si allai^a pcro a parlare dcllo sUlo normale dc' sensi, e della potcnza eslerna, come sarebbe paruto dover egli fare nel suo sistcma, nia tutto si occupa a parlare dello slalo normale della potenza iolcrna o sia della menle (a). II Romagnosi colloca nella menle una coUl virlii, cbc i si> mile assai alia s'ls medicati'ix cbe Ippocrate mellc nel corpo umano. u Un potere occnllo, dice, esisle (3), il quale per s^ agisce e sempre, sia nelle pcrcezioni per bene ravvisarle ed impri*  merle nella memoria, sia per asscntire, dissenlire o dubi- lare nei pcnsieri, e non gli abbandoua raai quando ci oc- (i) Che cosa c la mcnte sann ? Milauo 1827. ('i) Se fosse vero clic luUo il saper iioslro ^ uo prodoKo medio di que- st! due priucipj cospiraiiti a produrre uno stesso rffclto, a noi sarehhe iti)|M)asibile il dislinguerc quest! due priucipj slessi,  dovremmo coofou- dcrli insieines e preuderli per uiia com soU. Cid apparirk mauifesto a clii ridella, die tulto il uostro couoscere d il prodollo di una coocausa: questo prudodo adunque della coucausa tiou ^ la slessa coucniisa; si dec dunque conosccre que-sta per una induiionc ( die pur dee csserc prodotla daila atessa concansa, pcrocchd anche riudusiooe i un alio di conoscere ) dcrciu ncl uostro sapere non potrddie niai cadcre it coucetto deilc due potenzo die il produstero. Il sisletna aduuque del Uoniagiiosi sa- rebbe seippre ipotelico e impoaaibile a provarsi, cio^ egli ^ ule^ cbe eraztone del solo spirito7 In quealo secoudo caso aodie lo spirito opera da s6 solo, ud lullo il saper nostro ^ ona produiione della coinpoleuza. Cbese poi un prodotio di qucsia coinpoleoza e il concetto, die incite in campo il Horiiagnosi, di queslo polere occullo; egli e ben singulaie il modo onde opera questa loiiipoteuza, giacdi^ produce uii dfello che dislrugge se siessa, produce hi coguiztoiie di uua causa diversa al tutto da s scetlibili di version!? Se cangiaiido i termini si cangia la vi* brazione, come dovrebbe cssere, allora s' intrndc in che modo quelle vibrazioni or sicno il vero assoluto, or non sieno; ma in tal caso i falso cbe quelle vibrazioni non cangino. Se poi ri- mangon ferme le vibrazioni, anclie mulandosi i loro termini ; allora egli par cbe debbano restar sempre qiiello che sono nna volta, e se sono il vero assoluto, debbano esser sempre il vero assoluto. Non ci veggo mezzo. Ma di nuovo, tiriamo innanzi nell'esposizione de pensieri del N. A.^ sperando cbe il lettore non pretenderii da noi che gli rendiamo chiaro Ioscuro: e g accontenteri se noi, collesporre qua e col4 i nostri dubbj , veniamo confessando, che il bujo ci par 6tto da non poterci in molti luoghi penetrare sgiiardo, n pur di nottola. Di quel potcre occulto egli favella in un altro luogo, de.* scrivendol cost; Di lui dir si puu ci6 che scrisse Virgilio, spi- 1 rittu intus alit , totanujue infusa per artits mens agitat molem. u Questo verbo non h la sensualila , ma risponde alle sue  impression!. Non k I' immagina/.ione, ma ne fa seiitire le  convenienze e le sconvenienze : non i la cogiiizione, ma ne K accompagna la formazione. Non i dunque rintellelto ma la u podcsta chc ne autcntica i prodolli n . K Egli non crea, non produce nulla, ma fa le funzioni di  supremo ceissore che approva e disapprove, accoglie e ri-  gelta, ed anche col suo silen/.io pone in guardia a non pro- u nunziare verun giudizio dcGnitivo. A lui spetta esclusiva-  mciile di accordare la prerogativa del saperc e di inveslirne  le cognizioni nostre. In breve, 1 autshticita scieutiGca 6 il  solo uIGcio competente di questo potcre  (). Ma se v' ha in noi questo potere iutimo, questo giudice, censore supremo del sapere, che cosa potra egli giudicare, che cosa pronuncier^ del saper nostro? secondo qual regola lo di- chiarerik autentico o non autenlico? Se il sapere umano non i che un prodolto necessario di due principj concomitant!, quel censore supremo non potri dire mai altro, se non; questo saperc i prodolto dalla sua (i) f'edule/ondamtiUali siilfarie logica, lib. II, cap. VI, n. i6, 17. Digitized by Google causa mcnire ella si trorik In Islato normalc; quesl'altro i pro* (lotto (lalla siia causa mentre ella fu In Istalo morboso. Ma lo stato normalc c lo stalo morboso della concatisa non si |>uo conoscere sc non dal prodollo stesso, cloi dalla qualila del sapere prodoUo. Qual(> Sara dunijue questa qualitli , o Indizio della sanita della causa? Kel Romagnosi Irovo accennati due Indirq, a ml conosccre se II sapere prodollo i generato dalla sua causa in istalo nor- malr, o no. II primo: Come la saiiil^ si sente per un colal diletlo clio rcca, cosi parimentc si sente II sapere se i autenlico col senso rationale. Di qiii si vede perclii II Romagnosi dia norac di senso a queslo supremo gindice del sapere:  Esso dunque, u dice, non i un giudi/io inlellellivo, ma un senlimciilo pari u a (piello del piacere e del dolore. Voicndo dunqnc Irovarc e una denominazionc piii propria, io lo chiumcrei poUrc di  darsi pace mcntalc  ( v). II secondoc Come le polenze operano sempre plu spesso in islato di s.inita, die non sia in isl alo morboso, cos'i ( al- meno secondo V aiudogia della sanita fisica ) si giudicliera au- tenlico il sapere, quando Sara confornie a qnollo ebe liene la maggioranr.a degli uomini: u Se Iordine menlale del tal  uomo corrispondc a qoclln col quale la natura conforma i u concetti della gran massa degli allri uomini, allura si ve-  rilica lo stato della ragionevolcz/.a. Sc poi I'ordine mentalc (i) VcdulefonJamentaK suUarie logka, lib, II, c. Vfll, i3. Poco soil# dirc: Qiieslo senllmeaio e propriamcnle piii esteiico cbe razionale . ( Pirelli dunque cbiamarlo senso razionalc? c non dirlo a dirillura cslelico? forsc perclii cumparlsca in parole rationale, quello ehe in fallo i i>rn:io- nale ? )  Ma sotlo qualunque forma , egli rassomiglia ad una vibrazione * psieulogica inevilabile ed irresislibile . Siamo qui colie vibraziooi I 11 vero h una vibrazione, il polere cbe distingue il rero k uualira ribrazionc! Ma no; egli dice cbe solo rassomiglia ad uiia vibrazione. Sc rassomiglia ad una vibrazione, e non i una vibrazione, ebe eosa sarb dunque? una quasi- vibrazionc? cbe linguaggio i codeslo? ba egli nulla di filosofico? No cerlo ; quando il lingnaggio filosofico non si dclinisca: degli enigmi, che non ab Digitized by Google CAPITOLO XXV. 34 CONTINUAZIONE. A quests medesima classe di iilosofi, che feccro dipendere e risultare il vero, e il suo criterio, dalla/.ione associala di rol e della natnra, si possono ridurre quasi tutli quegli anti- chissinii sistemi, i quali fccero del mondo nn animale , e gli diedero nuanima. Anassagora, e alcnui venienti dalla scuola italica, riGutali i seusi, ainmiscro la nsente a criterio del vero, ma volcano essi che questa fosse purgala, acciocchi, diceano, potesse convenirsi ed unirsi colla mente comune. Per simigliante modo Eraclito volea che la menu comune fosse il criterio della mente ptirti- colare,]ai quale, dove si nnisse a quella, era retta, doveda quella si dividesse, fallace. Di che dednceva la fallacia dc sogni^ per* ciocchi affermava, che ncl sonno viene separandosi la mente singotare dalla comune, e in questa cotale secrezione della mente singolare dalla universale poneva lo stato di chi asson- na. Di qni pure credea di spiegare il senno niaggiore de' vec- chi, dando all auima Delia vecchiaja una relazione maggiore colla ragione comune e dunna: xotvdf xai ^eiO( X6yo( (i). CAPITOLO XXVI. COSTtNOAZIOaB. Tutti i sistemi accennati fin qni non pongono il criterio della ccrtezza in una prima veritd, ma in qualche indizio della tvrilA. Inalo, io il manderei a leggere il Leviatan dell Ilubbes, c. XXXI, e il Dt Cive, c. XV. Nelle diverse opere del Romagnosi si vedono manifestissime traccie drilo sludio che egli pose in qoesto aolore, pel qiule seienlia el eognitio nihU aliud aint, quoin aninit ab agenlibus extemis per corporis humani paries organicas excitalut tumullus. Lascio a rni piace il fare un diligente coafronlo fra quest! due aulori. to osserver6 solo, che anclie un allro italiano, Ugo Foscolo, derivodall Hobbes il soo aislema sulla sperama (Vcd. Saggio sulla sperama, negli Opuscoli filosqftci, Vol. It ). In que tempi si studiava quasi direi di furto da certi giovanetti il sofista di Mal- mesbury, le cui opere non eraoo comuoi in Italia, e lor pareva di fare un grande acquisto di scienza, giuogendo a fursrgli a man salva qualcbe con- cetto strano, seoza bisogno di cilarnc il fonte. (i) Vcd. Arisl. De Anima, I, a, 3. Digitized by Google 343 Ci convleno ora annoverar gU altri, die cercarono non un Sndizio dd vero, ma la verila slessa,. V cssema delta verita. Quest! sono qudli che posero il criterlo del rero nelle idee. Mon sar& diflGcile Iavvedersi, die qui cadono i maggiori nomi. Volciido per6 noi dassificare anche questo genere di GlosoG, come abbiani fatlo del primo, troviamo nna dilBcolU vie mag* giore. Pcrocchd le differenze loro procedono dalla direrM ideo~ logia che suppongono, come i precedent! variavano quasi tem- pre dalla diversa psicologia che i loro autori avevano abbrac- ciato. Conierrebbe adunque sporre in prima i varj sistemi de* GlosoG di cui parliamo intomo le idee, e venir quindi accen* naudo i critcrj che in esse ponevano. Ma questo ci condurrebbe oltremodo a lungo. D' altro lalo le diifercnze di tali sistemi nascono principal* mente da due cagioni: i. dall* ammettere pih o meno idee come primitive, in cui risieda il criterio della certezza^ a.^dal- r attribuire a quelle idee, che tolgono a fondamento della cer* tezza, plu o meno interior! qualila e virtu. Or alcuni furon piu parchi nel numero delle idee dichiarate funti di certezza^ ma in vece eccedettero in attribuire a quelle piii di enlila , che veramente non abbiano. 11 perchi non si pu6 a& pure class!* Gcare quest! sistemi secondo il maggior grado o minore di semplicita e di complessita che dauno al criterion perocchi alcuni sono piii semplici di altri sotto un aspelto, e sono piii coroplessi sotto un altro. Tuttavia possiamo sempre ailermare, generalmente parlando, che I'errore di quelli che meltono il criterio nelle idee, ^ o di eccesso, o di difcllo, ovvero delluno e delPaltfo insie- nie sotto aspetti diversi. lo mi limiter6 a dare qualche esempio dell'uno e dell' altro sbaglio, pigliandolo si dall' antichiti ^ che dalla storia della recente GlosoGa. Fra quelli che peccarono di eccesso, per I'antichita nomi- iier& Platone^ pel tempo moderno, Sthelling. ^ Fra quelli che peccarono di difetlo, secondo certe mie con- ghietture, penso di poter nominare, fra gli anlichi, Pittagora^ per I'escmpio poi moderno, Hegel. Tutti quest! per6 sotto un certo panto di vista peccano di eccesso. by Google 344 CAPITOLO XXVII. CO.NTI.'fVAKIO.ffi. ilo gi.i osservalo, die le due gratiJi scuole in che si parla la (ilosuda antica, la jonica, e 1 ilalica, lianno per base 1' ana la specuiazionc individuate, I'allra la iraJizione del genere uma- no (i). Queste sono come due fiuinanr, che Del loro corso coiifondono qna c cola le loro acque ^ le qnali per6 anclie mescolate ritengono lungamcnte il loro colore, e il loro ta> pore originate. Quest' acque si veggono unirsi c mescolarsi piii in abbondania al tempo di Plalone; ma non si per^, chc non si vegga questo grand' uomo maggiormente avere attiiito alia scuola ilalica e Iradizionalr, come Aristolele alia jonica e speculativa. Gi4 ho nolato il progresso die, stando alia testimonianza dello stagirita, si ravvisa da Empedode, a Protagora, ad Ari- stolele, circa la dollrina dell origine e della certezza delta cognizioni. II principio fondamenlale di quesla scuola si che 1' anima stessa conosce le cose per uu colal modificarsi che fa e conformarsi dia stessa alia guisa degli oggelti che dee co- noscere, sicdi6 dIa divenia ogni cosa in virlii della cogni- zione, ra oyra irCu; :iar7a. Quest! filosofl non erano adunque giunti a ben distinguere le idee dagli alii dell' anima, e dall' anima stessa-, ma le con- sideravano ancora come semplici termini dell' atlo, della stessa natura dell alto, modi in somma dell' anima. Nella scuola italica si ando certamentc pin innanzi; si giunse a intendere, che 1' anima e le idee avevano propriela non solo diverse, ma contraries e perd, chc polcvano queste seconde essere bensi unite all' anima, agire ndl anima, divenire ter* mine dc' suoi allis ma non mai confondersi coll' anima s non potevano mai essere puri modi o accident! dell' anima. Que- sta distinzione fra la natura delle idee e la natura dell ani- ma, h il principio fondamenlale della scuola ilalica, da cui , come dissi, discende massimanicnte Platoiic. () Veil, il Nuovo suggio, Sez. IV, e. 1, art. XXIV. Digitized by Google 345 Le idee, in quanto sono nostre, sono unite allanima nostra^ sono termini de nioi atti. L aver tuttavia conoscioto cfae non possono essere pari modi dellanima, che son di diversa na- ture, che sono an termine distinto dall' anima essenzialmente come i distinto un oggctto che tocco con una mano d;illa mano; questo era an gran passo; e questo passo si trova dato gia dalla filosoGa nostra nazionalc Gno dalle sue piii vetuste inemorie. Tuttavia, dopo che si era fermato questo vero Inminoso in- contravasi tosto una terribile difGcolta. La dilBcolUt consisteva nella dimanda, che cosa sarebbe avvenuto separandosi le idee dalla niente umana- perocch^ essendo queste due cose di di- versa natura, questa scparazione nou dovea dichiararsi impossibile a concepire. La difGcolta di rispondere non istava dalla parte dell'anima umana. Perocchi si avrebbe potuto dire, che I'anima intellettiva , separandosi da essa le idee , periva , come 1' ani- ma scnsitiva perisce separandosi da essa la sua materia: ni ci6 involgeva alcun assnrdo, conciossiaeb^ la reistenza della no- str anima intellettiva non i necessaria. Con tale risposta si veniva a dire solamente, che le idee congiungendosi ad un principio sensitive, erano quelle che il rendevano iutellettivo, cio^ Ianima intellettiva con tale congiunzione creavasi. Nulla di assnrdo in ci6, nulla di difGcile a intendersi. Ma il nodo forte stava dalla parte delle idee stesse. Queste non si potevano annientare, perocch^ la loro propria natura , quale si manifesta dalla sola osservazione, le mostrava fornite di una certa immntabilita, necessiUi, etemita. Oltrach^, se fossero anche queste perite, non sarebbe state al tutto vero ch'elle avevano uuessenza separata, e de caratteri opposti a quelli dellanima. Che cosa potean dunque rispondere i Glo- soG a tanta difGcolta T lo so bene, che cosa potcano rispondere questi GlosoG: ma la risposta nun fu trovata, e quella difGcolta fii uuo scoglio a ctii s infransero e si sommersero. Que vetusti GlosoG, e dopo di essi Platone, che diede il proprio nume al sistema, veggendo da una parte, che le idee erano distinte dalle spirito uiuano che le percepiva, ne potcano menomamente da lui dipeudere ^ dallaltra, che quelle idee Rusmimi, It Rinnovamento. 44 346 (ole, isolate , a quella goisa clie splendono nella mente , aon potevano stare, aggiunser loro colla ioimaglnazione la sa$sistea-> la, e ne fecero altreltanti enli per si, ci(i che equivale a dire, altrellantc divinili (i)- II dislingur.rc le idee della meete utnana che le intuisce, i nn semplice nsultaiuento dell'osservazione. Ma il separate le idee dalla mente, e dare a ciascuna una propria sussistenza, i il punto dove Platoiie abbanjona il buon metodo dell' osser- vazione, e comiacia a fabbricare un' ipolesi. Platone adunque divinizzu le idee; e lo spirito, sccondo lui, conteoipla in questi Dei, che ad esso si congiungono e si cot municano, Ieterna, verita. 11 suo peccato d' cccesso in tale crilerio del vero fu dop- pio; perocchi egli non s' accorse i che tutte le idee rien- trano e s' accolgooo in una idea sola, lume della mente (a); a. che questa idea, questo lume uon manifesta aU'uomo, a cni si comunica, una reale sussistenza in si, ma tenuissimar mente a lui mostra quella entita, che noi chiamiamo ideede o iniziale. In tal modo 1' errore di questa scuola i dirittamente Poppor sto di quello che abbiamo prima accennato. Prima vedemmo, che si convertivano le idee nell' anima, confondendole con questa, rendendole modi di questa. Or la scuola platonica con* verte in anima le idee (3). Tutta la filosofia aulica ruppe ad (i) Egli i vero che ne' Plntonici si parla di un Verbo divino; ma queslo Verbo lo descrivono piulloslo^come un coniplesso di tulle le idee, un Dio pomposlo di molti Dei, cbe come un* idea prima,, un Dio al lullo semplice. (o) Furoiio cbiaraali Dpi inlelligibili, rniro,' Sisi. Erano qneili diversi da- glj Dei intelleltuali e opposti agli Dei sensibili aiV^'aTS/. Per allro queslo rrrore non i di Plaloue i egli k tradiiiouale, e la sua origine si perde nell aulicbila. Procio lo atiribuisce a Paniieuidc. Parleudo dal priiicipio, cbe ogni idea sia un Dio, egli argotneiila non polersi dare I'ldea del male, come quella cbe non polrclibc essere un Dio, nmms cnim iticii, ui ait Parrnemties, Deus est, tviiwtf arat a t'Sta ^ioi>'ai( a i$fea^ai eeptaiii. lo perd VO so- spetlando, o che questi luoghi di Arislolele sieno stati inlerpolali pel gua- slo a cui soggiacquero i suoi tibri, o che egli li scrivesse per tempo , quando non avea per anco hen fermi i peiisieri ; se pur , come dissi, li ebbe al lullo fermi giammai. Digitized by Google 348 II partirc dall' atto delP Jo pensante , che contemporanea- mente pone se slesso, e pone il mondo, come faceva Fichte , non  un cominciare la filosofia da un'idea semplice, ma da una moltiplicita d' idee. Gia net primo passo di questa filosoBa le idee di uno, di piu, di differenza, di opposizione sono cora- prese, e di esse non si rende ragione: non si sa qnale sia pri- ma, e qual dopo: quell' atto cost ampio dell' lo ponente non b dunque provato : quando non b provata la generazione e la cracit4 delle idee, che ad aOermarlo sono necessarie. Convien dunque cominciare la Closofia da un pcnsiero primo, semplicissimo, il qual non abbia bisogno di nulla, dove non si trovino diiTerenze, dove perci6 non si possa distinguere n^ oggetto'ni soggetto, n reale n ideale, ni cssere nk sapere , nk spirito n6 corpo, ni finite ne infinite, ma tutte queste cose stieno in lui unificate: di maniera che egli per si sia r indifferenza di ogni difTerenza, sia I identity assoluta del reale e dell' ideale, sia ad un tempo essere e sapere, uno e piu, in una parola sia tutt'-uno. Schelling chiam6 questo primo concetto, da cui prctese cbe partir dovesse la filosofia , 1' idea delT assoluto, Questo assolulo cos'i conccpito era evidente per se stesso , non avendo nulla dinanzi da si , e per6 era quello da cui la filosofia dovea muoverc per esistere, e a cui dovea essere condotta per dimostrarsi. Or una tale idea in cosi fatto sistema faceva t'ufllcio del grande criterio di ogni verita. La critica fatta a Fichte, secondo noi, era giusta; ma non era ben lavorata da Schelling 1' idea dell'assoluto, molto meno I'idea di quell' assoluto che dovea dar principio c fine alia filosofia. Sebbene non tolga io qui a fare I' esame di questi sistemi cbe espongo, tuttavia non posso cessare dall' agginngere alcnne riflessioni anche al sistema di Schelling, per non dover poi tornarmi altra volta sopra di esso, o lasciare iogombrato di dubitazioni I'animo de' lettori. Rifletto adunqne, che 1.* Schelling fu costretto di ammetterc una facoU4, ebe percepisca immediatamente 1' assoluto in istretto senso: or cbt Digitized by Google 349 conobbe mai Icsistenia di questa faeolta? vha egli qiii evi- denza ? o non piu tosto , quando pare si potesse provarne 1 esistenza , non dimanderebbe una assai astrusa dimostrazione? a. Scbelling allorquando dissc che il suo assoluto non dovea esserc n4 oggetto nd soggetto , ni alcana diffcrcnza avere in fa tratto in errore dalla natura limitata del lin- gnaggio. II linguaggio i pur sempre un fonte infinito d'errori^ 1 nomo i coslrelto di fame uso, perchd i uno de mezzi piu potenti dello stesso mentale ragionamento , e se non k som- mamente vigilante in quest uso, cade in errore. E veramente, il lingnaggio moltiplica gli esseri, d^ corpo ed esistenza a quello cbe non ne ba. 11 nnlla. per esempio, si conccpisce per un quaicbe cosa; mediante questa parola > nulla n onde il chia> miamo; sebbene esso sia nulla, o, se si vuole,.la riniozione dellessere. 11 finilo e IinGnito ci vengono prcsentati alia mente come due cose appartenenti quasi direi ad una stcssa categoria , Iuna limitante scambievolmcnte Ialtra. DicesI , a ragion d esempio, che il finito non i 1 infinito, e questo non i quello ^ pare adunqne cbe ad entrarabi manchi quaicbe cosa. Intanto non 6 vero cbe all infinito manchi quaicbe cosa, appunto percbi se gli mancasse, non sarcbbe piii infinito^ come non e vero cbe allesscre manchi quaicbe cosa mancan- dogli il nulla, che anzi non gli manca, appunto perch& non ha il nulla. Il persuaders! adunque, che a trovare I assoluto sia necessario sollevarsi sopra tutti quest! opposli, a fine di far SI cbe quest! opposti sieno in lui uuificati , h un pensiero al tutto falso ed erronro. 3.* Scbelling credette di partire dal sentimento , in luogo di partire dal pensiero, come Fichte^ perocchi 1 assoluto di Scbelling i finalmenle un lo di sentimento. Ma egli non t awide , cbe questo era un andare indietro. Non savvide del- Ialta ragione che v avea di dover cominciare piii tosto dal pensiero che dal sentimento , la quale era, cbe non si pu6 partire dal sentimento senza usare del pensiero, e per6 che il suo punto di partenza , sebbene sembrasse semplice a primo aspetto, era per6 veramente meno semplice di quello di Fichte.  veramente 1a.ssoluto-scntimento di Scbelling dovea final- mentc chiamarlo, come egli pur fa, un idea deWassolulo, e cosi a Digitized by^Google 35o confessare, che ci scappavft dentro il pensiero ( Iidea ) non av ghiettura con qnalche buon fondamento. Pitlagora niosse la filosoGa dalla dottrina de' numcri, e pro* priamente dalla dottrina intorno I'u/iitd. Ora, onde avvcnne cbe il niosofo di Samo desse alia filosofia un tal principio? Secondo me, nacque da questo : Egli vide, cbe conveniva cominciare da un dato seraplice ^ perciocchi tutto ci6 cbe non i seinplice, presuppone il sem* plice, e ne esige il concetto. La nostra mente adunque, secondo I'ordine logieo delle idee, dee partire dal sempUce c venire al composto. Doveasi adunque cercare qual fosse il piii sem- pliee di tutli i concetti della mente umana^ perocch^, Iro* vato questo semplicissimo concetto, di necessita egli era il pri* mo, da cui partisse la mente in tutte le sue operazioni , ni egli avea bisogno di alcun altro concetto, quando tutto ci6 die i composto ha bisogno all'incontro de' concetti elemeiitari. Si pose adunque Pittagora a cerc.nre il semplicissimo dei concetti colla virtu dellastrarre ^ separ& dalle rose tutte le loro qualita, separ6 la loro stessa sussistenza , ogni determi- nata energia^ e dopo di cii^, qual concetto gli rimasc? un con- cetto vuoto di ogni contenuto, quello dei nunieri. Fra i nu- meri stessi poi, il primo, il precedeute a tutti gli altri i V imo. Per6 da questo inizi6 la sua filosoGa, come da ci& cbe, logi- camente considerato, era anieriore nella nostra mente, secondo lui, a tutte le possibili coguizioni. Lunita i un concetto, sul quale la facolta di astrarre non pu6 esercitar piu veruiia operazione: perci6 egli sembra immu- tabile, ossia non suscettibile di modificazione alcuna. Questa immutabilita dell'uno, questa indivisibilita, scmplicita, e per- petua uguaglianza con s^ medesioio, dava all' uno gli attributi del fcrOj che sono appunto di essere immutabile, indivisibile, c perpetuo. Quindi tutte le cose eran vere quando avesscro in si luedesime 1 unitA , come quella che era i' essenza stessa del vero. Ora io diceva , che questo sistema intorno al crilerio del vero i sbagliato per difetto. Voglio dire, cbe I'uuita sola non pu6 essere il criterio del vero, Ella i un'idca sovercliiamente lambiccata, e affinata 35a dall astraiione, di guisa cbe ne luoi viscer! non contiene pi{i cosa alcuna, niuna entity, niana attiviti produltrice', ella non & se non una modalith dclT essere ; ma 1 essere stesso se n 6 fuggito, e per5 manca in quell aslratto cii che pu6 formare Iesemplare degli csseri tulli, vale a dire manca V essere essen- ziale. Per6 ella non 6 die una vuola creatura della menle nmana. e non esprime niente di attuale, ni anco inizialmenle(i). (i) ParmI ili polerc aggtuogere un* altra conghiellura suHessere venuli gli aiitichissimi liiosod al concello delTuoUa scevra da ogni conlenulo, c sulTavcr volulo da questa dar la mo^sa alia dlosolia. Osservasi riuscirc di sonim.i difficolli nlle menti de* primi filosofi it pensare a delle nature puramentc spiriluali: tuMo si vesliva di corpo dalla loro imniaginaiione : ed egli pare, che per Piliagora siesso non si dessero anime separate. Daliro IhIo quesli fitosofi assai cliiaramenie vedevano che gli oggclli immediati del pensiero, le idee, erano al tulto scevre di corpo. Rimossero duiique il corpo j ma rimosso questo, il primo atto della loro niente fu di coDcepire de* meri oumeri privi di ogni emith spirituale, che venne peseta aggiuiita loro con una seconda operatione della menle. Id fuiido quesla conghiellura sopra alcuni passi degli antiebi scritton. Eccone upo. Slobeo ci conservo alcuoc cose di Mercurio volgarmenle dctlo Trismegislo. In u luogo (Serm. XI ), Tazio domanda a Mercurio, che cosa sia secondo lui la petma ybeita', titV Vfttntv oX*tfifap*Questa 6 veramente la quest ione del criierio,perocch^ la priuia veril^ ^ quclla da cui UiUc 1 alirepren- dono Iesser vere. Or ecco come risponde Mercurio:  Quell* iino, e solo, che M Dou coitsla di iiiuleria, non ^conteiiulo da corpo, seuia colore, seiiza figura, non soggelio a mulazione o alterazione veruna, sempre esistenle  ENA xai MONON to* /uJ I^c/'Xirc, roV fi>t #V rJr aXftt'fisTtxow, rep ftariTTWt T9P drftvrert rep oXXo/oc/V/ifrorf rsr aV opra In questo pa sso pare che si renda ragioiie deirunifa; pare che si raoslri come que hlosofi, tostuch^ aslracvano dai corpi, non si poleano ferniarc colla menle loro, se non giunli alPunila astralla. lo so, chc si puo render ragione dc numeri di PJllagora sosliluiu alle idee, anche mediante la scieuza esolerica, o arcana. Ma mi sembra quesla vitt uii po graluita j e per me sono piu verisiniili le due ragioia addolle ; lie credo daltra purtc, che la logica npparlcnessc alia setenza arcana. fJi piti si osservi, che il sallo della niente di Piltagora nel Iroppo aslral- lo, non e cosa stngolare, ma comune: e iina legge della uniaiia loeute non aijcura furhlicalH uelT apprciisione degh enli spintuali. lu eseinpio d uu simile errore rccheiu alcuni hlosuli ledeschi, e fia di essi I Hegel. Quesli hI fbrmnle della cognizione, al puro pensiero ( noi direino all essere idenle ) danno il nonie di nulla ( Hegel, Lo^ik ). E perch6? non per allro, se non j>erch^, levata Hall essere ogni deleriiiiuazioDe, sembra loro che non rcsli allro the il nulla , quuudu veraineuie rcsla aucora uu lume preeUro della Digitized by Google 353 Di pUi, VimitA astratta non si pu6 in alcuna manicra con- cepire prima dell ewe/tf, da cui ella fu astratta; e per6 i filo- sofi, die partirono dallunit^, come dal primo sapere della mente, furon tratti in errore al vedere, ch cssa h pin scm- plice, astrattamenle presa, dellessCTe. Di qni concbiusero, che sia antcriore a questo nella mente. Ma Iargomento non tiene^ perocch6 ella non i cosa che stia separata dallessere, e pcr6 non i cosa che possa vcramente vantare una semplicila mag- giore di qncllo, se non per una cotale illusione della mente stessa, che si persuade di concepire Iunita distinta dallessere, ma vcramente non la concepisce se non aggiungendolc senza avvcdersi Iessere stesso , cioi concepcudu Icssere dellunita, e Iunila dell essere. Quindi che i lllosoG di questa scuola, non potendo fer* marsi nell unita , o nei numeri astratli dall essere , il che renderebbe la loro filosoha al tutto infeconda , sostituiscono poi all unitd V essere stesso, senza giustiflearne il passaggio ( i ), e riuntrano cost nel sistema che noi riputiamo pel s(do vero. Di fatti, 1 essere a cui essi passano (sebben gratuitamente ) 6 appunto quello in cui noi facciamo consistere il principio della' ineDte. Sono poi costrrtlia distingucrc queilo nul/a da ua aUronu//eVir7v, iffaxc, xal ouoiop iaor^ xaC fsortfsiv fV rm sfro/) rdara cvxo^aprdr $\ Tf{ d KaXaJra^, xat fitfian didxw, du nrfdyuan, rie Xdyev, eiv\1 nostro sisicma, c che, come apparlsce da tali document!, non si pno dire gi^ di fresca data, u6 d'allra uazioiie, mu e atUichissimo, e tialianQ. Digitized by Google 3$5 unitd, da cui hanno dato principio, csi bea presto trapas sano a convertire gli esseri ideali in sussistenze esterne, c pre- cipitano con ci6 sciaguratamente in quella idolalria delle idee, a cui abbiamo vcduto essere stall addetti i Platonici, eredi di tale errorc (i). (i) 11 dolliisimo card. Giac. Sigismondo Gerdil lenla di fare Tapologia di Pittagora, a cm non vorrcbhe chc fosse apposto 1 errorc d* aver con- vcrlile Ic idee in alircMante drilJi, impulnndo tale errore al solo Plalone^ e anro a qneslo dubhiosamenle. t AfTrrmando PiUngora *, cosi egli,* seoza cbe se ne possa asseguare it quandu. Ora Vico prctcadc, che le essenze dcllc cose fossero cbiamate presso i lalini DU immortales, benebS egli ccr- cbi di scusarne i filosofi ed altrihuirc I'errore at solo volgo ( DclV antichis^ sima sapienza , ecc. , c. IV ). Questo prova appuulo cid cbe noi diciatno deiranlicbita deiropioiouc ebe Ic idee fussero ahrctlaiitc data. 1.^ So benc> cbe Gio. Lorenzo Mosbemio s*afTa(ica di purgare dalle dottrioe idoUtricbe non solo Pittagora, ma ancora Plalonc, e Boo gli scrit* tori platonici. Ma cou quale argoracnlo il fa egli 7 non da biiou crilico: iulto si riduce a dire, ebe  non h a credero che quegli uomini fossero coslgolE da non vedere Terrooeita ditsli dotlrine, e che per6 convieu dare tm altrosigoiGcalo allc loro parole m. Non parrai die una tal ragione possa bastarc: se valesse quel suo arbitrario principio a inlendere gli auturi ia roodo al tuUo diverse c contrario allc parole cbe usano costantemeute, noi potreromo Care de* grandi e dcbc lunar) su tutti gli scrittori, ed assolvere la Blosofia de* pagaui da tulle quantc le stravaganze da essa insegnale e profesaate. Non ba meditato abbaslanza il Mosbemio in quell incredibile roa verissima inclinazionc ebe aggravava gli uomini innanzi al cristiancsimo verso Iidolalria o la divinizzazione di tuUc le cose. Questa i un gran fatto cbe appartienc alia storia della umaniti ( V. Frammenti di una storia del- VEmpietd. Milano, i854)> 5 " basta a purgare dulierrorc di cui parliamo la scuola di Pitta- gora, lo scoutrarsi ncgli autori dt essa iu alcuoe idee giuste e bellissime circa la diviniU. Lerrore non k ebe uua corruzionc della verity.  nella scuuU iulica cI6 massimamente si avvcrdi peroeeb^ clla e dindoie principal- Digitized by Googic 35y hng, come Platoue fa dt Pittagora; ma dipartendosi egU dal suo maestro, fece il viaggio nootrario, secondo che a roe ne pare, da quello che fece Platone partendosi dal suo. Piltagora cominci6 dai numeri, da troppo poco, e Platone cominciiS dalle idee-sostanze, da troppo. Schelling per Iopposto cominci& la filosoGa dal troppo, cominciando dal suo assoluto ; ed Hegel venne diminuendo il soverchio del suo maestro, riducendosi al troppo poco, al suo essere-milla. Prima che io esponga il sistema di Hegel, debbo fare una osservazione sul caraltere gcnerale della scuola tedesca. Questa osservazione Iho io gia toccata alia sfuggita, par- lando di Schelling. I GIosoG alemanni banno una grande polenza di mente, e hanno un bisogno di sollevarsi sopra le cose sensibili, e mu* tabili: essr tentano, con isforzi erculei, di giungere ad un punto fermo,. ad un incondizionato, in cui la GlosoGa trovi ad un tempo e il principio, e la vita, e la sicura quiete. Ma perchi non poterono per6 mai giungervi P Parmi di vedere nelP intimo seno della GlosoGa alcmauna la cagione di ci6. Questa GlosoGa ereditd dal lockismo piii che non si prede comunemente, o che non dimoslri la lingua so* menl tradizlonale , come bbiamo osservato. Ora qual raeraviglia , che framrDCzzo agli errori rimangano altreal i frammeDti di uoa aotica irerilii? Taoto pii^jche 6 al lutto conforme airumaDa debolena il cootraddirai} e la contraddizione 6 ringrediente di tultc le umane (ilosofie. Cbc pol Pitta* gora abbia collocate le idee Id uoa mente divina, cio non basla a nettarlo dalla taccia di avere divioizzate le idee. Peroccbi egli i noto, che in quelU scuola si ammetteva una ragione prima di luttele ragioni che era an ailro dio (^N/rtfor ma questo dio poi Teniva dcscriiio come uoa congerie di det minori, i quali come sue parti il formavano; concetto a dir veroj mostruosu. Altri poi spiegarono in altro roodo la senlenza Piltagorica, cto^ cbe il dio primogenito creasse o emanasse egli da si gli altri dei iolelligibili (le idee divioizzate). Cosl Plotino:  il qual dio generato M gener6seco insieoks tulU gli enli,tuUa la bcliczza delle idee, tulli gli dei m intelligibiii; nANTAr AE 0EOTr NOHTOTS. Converrchbe aduuqoc prima dissipare dalla mcmoria di Piuagora tuUe qucste nebbie^ cbe la reudono, a dir vcro, uon poco olTuscata, senza che si rimaoga lul- Uvia dall'esscr grande il suo merito nella parte puramcDle iiiosoficaj e logica. f  , , Digitized by wOOgle 358 leone da essa adoperata. lo I ho gia altrove osservato. Ma il legato fatlo dal lockismo alia 6Iosofia alemaniia , il legato dU venuto un fedecommesso in quella filosofia si i ( niuno si stu pisca dl ci6 che dico, o lo rigetti priina di avere ben inteso il mio pensiero), si e u non uscire niai quella blosofia in- feramente dal soggetlo, e di ammettere per cosa certa, c non bisngnevolc di prova , cbe il sapere sia una produzinne o mo- dificazione del soggetlo pensante n. Questo cbiamerollo io il pri'gindizio della filosofla alemanna, la quale ove giunga ad avvedersi di questo ospite entratole iii casa illegiltimamente e di furto, sari quel di Icpoea, die preudera un nuovo cam- niino ampio, luminoso, salutare. Nella critida cbe Wilelmo Krug fa a Giorgio Hegel, dopo aver delto cbe questi manlienc, cbe Icwcre sia ptiro concetto, e die il puro concetto sia il vero essere, agglunge', cbe pcr6 Gn qui non ha mai dimostrala questa uiiita dell essere c del concetto, u o sia (come propriamentc dovrebbe dire, essendo  il concetto una produzione dcllo spirito pensante) delles*  sere c del pensare  (i). Ecco come asi ammette da Krug fuori dogni controversia, che  il concetto sia una produzione dello spirito pensante . Tutto Iidealismo trascendeutale 6 fondato su questa gratuita supposizione. Ho gia osservato, che Scliclling parti da un pensare senza oggetti, che i piii vera* mente un sentire, i un soggetlo, un soggetlo che si oggettioa, comcgli dice; indi trasse il suo assoluto. Or dunqne il vero riman sempre 1 atto di un soggetlo in qualsivoglia modo altri cerchi di mantellare o anebe di negare espressamente questo peccato. Hegel medesimo dichiara , che 1 essere da cui egli parte h il pensare (a) ; ora il pensare indica sempre un atta , ( 1 ) Vedi Iopers /illgemeines liandwocrterbuch der philosnphischen JVis- scnschaPcn, allarticolo litgel. (2) llegel dichiara che  si dec preodere la paroia pensare in senso aS-  solulo come inlinilo, separato dal liiuitc della coscienza; in una parola  pensare, pensare come lale > (fl'isscnschafl der Logik. Einhitung). Ma io ben iulendo come si possa couccpirc uii pensare scuza averne coscienza; perocchi ad aver cuscicoza del mio atto, io cerlo ho bisogoo di uua ri- flessione diversa dallalto slesso. Non posso peril intcndcrc n coiieepire ni pure per qualsivoglisi astrazione  un pensare  che non sia ua atto. Digitized by Google 35g e non un qggelto: nn alto poi apparliene sempre ad on sog- getto, quandanco si trattasse del prime cnle ove Ialto e il soggetto sooo immedesimati. 1 iilosofi tedeschi hanno una ma- niera di dire, chc a noi manca, per indicare quella opera- zione snpposta dello spirito, colla quale egli produce un pro- prjo mpdo , che h poi il suo oggetto; e se noi dovessimo Ira- durla verbalmente, dovremmo inventare una parola nuova, la qual sarebbe  oggetliv>arsi  ^ cbe altramente direbbesi u Poperare die fa I/o in modo da produrre di se un og- gello  (obicctiviren dcs Ich , obiectiviren Thun des Ich ). Que- ste maiiicre usate anebe da Hegel e originate dal crilicismo , indiiudono 1' errore di cui parlo , perocchu suppongono che gli oggetti del pensare sieno pruduzioni dcll'/o^ c cbe Iin- tuizionc degli oggetti si debba ascrivere tutta all'attivita del- I/o stesso. Esse adunque souo false in si stesse^ e la filosoila in Germania non si rimettera sul buon cammino, se ella non si sveste di queste maniere di dire e di pensare, che la legano e la incatenano al soggetto con de' ceppi ferrei , infrangibili. lo sottometto agli uomini dolti della nazione germanica questa osservazione , cbe credo importante, sul carattcre della niosoGa tedesca, a^ciocebe ne giudiebino. Gli stranieri non possono proporre die congliietture^ i iiazionali banno diritto di dccidere se rettamente fu intesa la mente de dutti del proprio pacse. Tuttavia sponendo il criterio del vero, io ho collocato Schelling fra quelli cbe il posero nelloggetto, e non nel sog* getto^ e ci6 ra'6 paruto di potcr fare, poichii a malgra^o di trorarsi egli inceppato dalle tradizioni del criticisino enlrate ne' visceri della nazione tedcsca, egli peru fecc degli sforzi straordiuarj per liberarsene, e se non giunse a farlo intera* pcrocclie il pensare i csseiuialinente uii attivila ; e unaltivila non si pu6 coiicepire senza mia relazioue col soggetto o priucipio dell atlivitii, cioi Iallo non si puo concepire senza Iagente. Pero il partirc  dal pensare  per quanto sstrattamente esso si prrnda,^ sempre partire da un atio di un soggetto, 6 partirc da cosa, che iuvolge csseuzialmente una relazioue ad uualira cosa, ad un soggetto ageote. ludi e che la filosolia germaoica non si pot mai liberare, come dicevo, per qiunti sforzi clla faccssc, dalla li- niitazioue della iogfclUvUA. Digitized by Google 36o mente, il che era pressochft impossiblle ad nn uoiBo, giuase perA a contraddirsi , il che in tali circostanze i merito. Dico che 6 merito per lui il contraddirsi , perocchd i nn arrirare almeno in parte alia rerita. Egli parti dalliriea deWassoluto } quest era partire dalloggetto^ egli trovi quest idea conside- rando il p'ensare spoglio da suoi oggetti , quest era partire dal soggetto: la contraddizione adunque 6 manifesta; ma io mi attenni alia prlma parte della contraddizione, tAYoggetdvitA dell idea dell assoluto , e lasciai andare il rimanente, perocchA la prima i la pih onorevole al sno autorc.  E a maggior ragione io credo di collocare IHegel fra quelli che posero il criterio del vero nelloggetto (nelle idee), seb- bene la soggettiwitd non cessi daccompagnar sempre le sue parole e i suoi pensieri, per quantunque dichiarazione in con- trario egli ci faccia. Bicco adunque comio concepisco la sna dottrina. Fichte avea tratto tutto dal soggetto, dall/o^ senza nascon- dere questa derivazione soggettiva della sua filosofiaj di cui avea avuto il germe in Kant. Schelling fece nn passo verso V oggeUo , dicendo, che con- veniva, volendo porre solidamente il prinospio della filosoda, sollevarsi tanto sopra Ioggetto come sopra il soggetto, venire col pensiero ad ua' idea (questa parola tradisce Iautore) dove le differenze del soggetto e dell oggelto fos.sero disparite , rag- guagliate in uua perfelta identita. Tale fu la crilica fatta a Fichte, nella quale si vede, che Schelling cerca pure di sfiiggire il soggetto, sebbene ugualmente pens! di doversi alloolauare da ogni oggetlo. Ma con tutta la buona volonta di lasciar da parte le differenze di soggetto e di oggetto, egli ora s'abbatte alluno, ed ora sabbatte ncllaltro, non avvedendosene. Partendo egli dal pensare privo di oggetti (i), o piu vera- (i) Era necessario, pare a me, che quesli Hlosoll si facessero la dimanda   zioni cbe fece Jacobi alia sintesi pura di Kant. Quegli la di- cbiarava impossibile a concepirai , peroccbe diceva ; u Lo spazio  sia uno, il tempo sia uno, la coscienza sia di uno. Indicate u ora come unodi quest! tre uni inse stesso si moltiplicbi  (3). Mancava dnnque nella ragione pura di Kant il principio del ragionqmento, cbe suppone una pluralita, una moltiplicazione, delle differenze, c per6 non si potevano dare giudizj sintelici a priori. Conveniva adunque cercare un'idea prima, la quale non fosse cosl sterile, ma feconda, e nello stesso tempo semplice: (1) Ved. la Scierna Logica, L. I. (2) Oder indent da$ keinc Styn ah die Einheit zu betrachten is! , in die das tVissen, auf seiner hdchsten Spitze der Einigung mil dent Objekle, su- sammengefaUen , so ist das AFissen in diese Einheit verschwiinden , and hat keinen Unlersc/iied von ihr und somil keine Bsstunmung fur sie iibrig ge- lasstn. {Wistenschaft der Logik, Erstes Buck). (3) Yi'd. Hegel, uclla sua Scienza della Logica, Lib. I, c- I. Digitized by Google 363 qtiolliJea (lovca contenere in fi il gertne di lutlo lo svilappo scicnti6co; ma quel gertne non dovea moslrare diflerenza al- cuna, alcuna moUiplicita. II pensiero di Hegel in traccia duna tale idea si ferm6, credeodo di trovarla, in quell'istante, in cui comincia Ioggetto a formarsi nella mente: egli vide, o gli parvo vedere in quel punlo semplicissimo unificato Ioggetto e il soggftto , il pensare e V essere ; vide oUracci6 il cominciamento dellessere stesso, peroccliA queslo essere e in quel primo atto che la mente lo concepisce. Ma losto che Iha concepito, quel primo momento i cessalo, e trovasi oggimai distiuzione delloggetto e del sog> gello, trovasi dclcrminazioni, limiti, differenze: cose tutte, che in quel primissimo tempo ed atto non sono distinte. Considcrando adunque Ipssere nellatto del diventare (wer- den)i (e Iesser diventa nel concepirsi , giacchi siamo sempre in un sistema d idealismo) , egli trova delle proposizioni assai paradossali , come quella che V essere sadegua al nienle, e il niente all essere; e tulli due si trovano uniti in quell atto onde r essere comincia o cossa. Non sara inutile recarc qualche luogo di questo pensalorc. H II cominciamento, dice in un luogo, non ^ il puro nulla^ u ma un nulla, da cui dee uscir qualche cosa: Iessere adunque  e gia contenuto nel cominciamento (nellatto del suo comin- k ciare). II cominciamento adunque contiene in si tutti e due^ u Iessere e il nulla: esso i Iunita dell'essere e del nulla, ov-  vero i un non-essere che ^ al tempo stesso essere, e un essere It che i al tempo stesso non-essere  (i). ' 11 cominciamento adunque dellessere, secondo questautore, j si trova neUatlo del pensare 1 essere, ma non in tutto que- statto, che involgerebbe in si il soggettivo e Ioggettivo, ma solo in qucHestrema punta di tale alto, nella quale egli sim- (i) Scirnia della Logka, L. I. Hegel preiiHe anaaUare per rlinuovcre Ioggetlo dIU mente (convien sempre riflcllere die sinnio iieUide-lismo), e quiodt cbtama nulUj o annullalo V ideate ^ il pensiero a cui i slato sot- tralto Ioggetlo.  Ci6 che si aoDulla, die' egli , non diveiila nulla  (Ivi) : vuol dire die nel concello di ci6 die i slato auuullalo s'indiiude U rela- zione con cio che prima era, e peri non 6 un puro nulla, senza relaziouc. Digitized by Google 3f>4 medcsima coll' of;{;eUo, e nasce ad on tempo IoggcUo, Iessere, e il soggetto, il sapere. In qnel primo comlnciamento di alto avviene, che il puro sapere sia il puro essere, e il puro essere. $ia il puro sapere: h un s u sere e il niente n (a). Questa proposizione non solo i gratuita , ma i falsa. Pare che 1 Hegel tema, che dalla sua contraria provenga un pan- teismo, o piu toslo uno spinozismo^ peroccke (eosi parmi che egli seco ragioni ) se noi lasciamo solo Iessere, senza piii, egli non pu6 produrre un diverso da si^ rimarra dunque una sola () Scienza deUa L. I, S. I, c. i. Dagegeu ist aber gtzeigt vvor* den, dass Sej'n und NichU in der That dasselbe sind, oder urn in jener Sprache zu sprtchen, dass es gar nicAis giebt. das nichl tin MtUelzustand zwischcn Sej-n und Nichts ist. (3) Scienta della Logica, L. I, Sez. t, c. i, 0. Digitized by Google 365 miiUnza , con ccrtc tnodilicazioni ( i ). Ma il ragionamento non tienc. L'Hcge] non si solleva abbastanza sopra il tempo: per qnanti sforzl egli faccia colla sua roente, ragiona sempre rinra agevolmente conosciuto, cbe il mutare delle cose contin- gent!, il loro crearsi, il loro modiOcarsi k tutto accolto ed im- mobile nella divina eterniti: quivi i tutto fatto quello cbe si fa ^ quivi non si fa mai nulla di nuovo, e il iiuovo non i cbe una relazione cbe si trova nel tempo , la quale nella eternitii d pur essa eterna. PeriS non i punto necessario Iimmaginare, cbe si mescoli il niente colla divina essenza, e che anche in questa si trovi il diventare, che ella stessa sia questo diventare, e che nel solo diventare v'abbia Iassoluto: quando anzi Id- dionon si pu6confondere colie creature, appunto perchi quello, aparlare colle altrui frasi, non h mescolato col nulla, col quale sono essenzialmente mescolato le creature. -  da molti altri lati. Egl', accennando i sistemi che hanno qual- che cognazione col suo, parla del Buddaismo, nel quale, dice,  il nulla i manifestameutc il vuoto, Iassoluto : parla della seutenza di Eraolito, che a Iessere t quanto il niente  ^ che  tutto scorre, niente tutto si fa continuamente  : parla de proverb] oriental!, che u tutto ci^ che i, ha nel suo na-  scere il germe del suo morire , e che u la morte e la vita (i)  L filosofica considerazione cbe allenna, essere non essere altro  cbe essere , e niente non essere altro cbe niente, merila il nome di si- b I, Sez. I, c. \, C, 3. Il pensiero dcll* Hegel, che ii conceUo del uiente, che si forma dalia distrutione o dal cominctare di UD qualche cosa, noo sia il coocello del niente solo ed assoluto, si trova poato in somma luce in un libro di un eccellcote lilosofo italiano, voglio dire nel Iratlato De Piihdo geomctrico di Giuseppe Torelli. Sembrerebbe poterai inferire da alcuni luoghi dell*llegelj che al iiloaofo tcdcKO fosse state nolo U filosofo Veronese. Digitized by Google 3f>7 assoluta vcrila, ma solo una vevita condizionata, relaliva, ri> stretta denlro i limit! prescritti dai principj supposti per con- cessione, e nulla piu. Erra dunqne P Hegel manifestamente , qiiando vnole applioare a tutto un concetto, che non pu6 ap- partenere se non alle cose soggette alle leggi fenomenali del tempo K dello spazio, ed alle supposizioni concepite dal ma- tematico come possibili, cioi a dire, come non contradditorie a quelle leggi e a quelle condizioni prestabilite. 3. Di poi, Vessere dellHegel, considerate nell'atto del ditvn- tare, non prima, ne dopo, non somministra veramente un con- cello diverso da quello della materia prima degli antichi, una cosa al tutto in potenza. Or qiiesto 6 nn'estenuazione troppo grande dellassoluto di Scbelling, questo ^ un principio che pecca per difetto, un principio dal quale non si potra mai de- durre ni le allre idee, ne le cose. Invano egli ci dira che nel concetto stesso c'i il niovimento, che c^, com'egli la chiama, YinquieCudine (i): una cosa che nou ^ ancor fatta, che i pari a nulla (s), ha bisogno di un altro principio che la renda qualche (l) QuesU parula x dinquieludine  viene adopcrala spesso Hall'IIegcl per esprlmere quel couato di venire a sossislenza, che involge il concetto deli'etsere considerato nellatto del diventare. (3) In un Ipogo dice, die i facile u far capire che Iesserc il quale si i X poslo ai cominciamenlo della scienza 6 niente, perocdi^ si potrebbe X aslrarre da tutto, e quando si ba asiratto da tutto, rcsta il nieutc h {Sciema della Logica, Lib. I, Sez. I). Mb io dico, cbe vi hanno due specie di astralti. Noi formiamo certi astralti in modo, che restano nella nostra niente soli seiiza relazione apparriite coo altro: certi altri non sono pro- prianieote asiratti, ma sono piii tosto cose che consideriamo astrattamente, cioi sono astralti tali, che non ci restano mai nella meote isolali, ma in- Volgooo seco una manifesla relazione coo altro, a cui non badiamo cost rspresssmeule. Ora io capisco beoissimo, cbe posso aslrarre nel primo modo da lutli gli oggetti delermioali del peosiero, e concepire un pensiero che non abbia per suo oggetio se non I'essere al tutto indeterminato, il die non i gia nienlcj ma lo nrgo allincootro, cbe si possa aslrarre aodie da questo essere nel primo modo. Se io mi sforzo di concepire Ialto dd pensare privo aflallo di ogni oggclto o sia delerminalo o sia indeterminato, in tal caso questo mio concetto i solamenie un asiratto del secondo genere, cioi di quelli astralti cbe conservano uninlima relazione coo alira cosa , benebi essa non si faccia enirare nel calcolo. Percii poiri beoissimo con> cepire Vaelratto pensare, ma sottinleodeodo sempre peri chegli abbia un qualche oggelto, sebbenc questo oggetio io Io traKori, e nou parli che del- Digitized by Google 3S8 cosa, come la materia prima, che polea csser falla ogni cosa, area bisogno d'un altro priacipio che la faceste ogni cosa: noa possiamo adunque in tal concetto evitare no dualismo, cioi un sistema di due principj. 3. Lunificaziooe dell'csscre e del sapere , in cui Hegel fa I consistere I'assolulo vero, non lia mai luogo. Perocche, secondo il filosofo tedeaco, Punita si fa talmente perfetta, che vien di- strutta ogni diflerenza tra essere e sapere, i quali vengono perfettissimamente idenlificati (i). Ora nello stesso concetto di DiO) quale il pu6 dare una metafisica cristiana (che k anche la pin sublime insieme e la piu razionale, cio piii coerente di tutte ), sebbene il sapere essenziale e I'essere divino siano per- fettamente unificati, ni ci abbia veruna differenza, tnttavia la conoscibiUtd dell'essere divino, o sia il f'erbo,beachi indislinlo dalla divina essenza, i peru realmente dislinto dal siio fontale principio, che si potrebbe dire in qualche modo la rcalita del divino essere considerate in relazioue colla conoscibilila, e non in sk stessa, cio^ non in quanto quella realita apparticne al- I'essenza. Era necessario che il filosofo alemanno si fosse sol- levato fioo a queste altezze, volendo egli dar fondo alia scienza della Logica nell'aspetto in cui la prese: altezze a dir vero, in cui Iumano filosofo pu6 sperare di pronunciare piii tosto sentenze che non si contraddiscano, di quello che seutenze cbc pienamentc s'intendano. 4 concetto sia concetto ed essere iuseparabili e iuseparati  {Scienza della Logica, Lib. I, Sez. I, c. i). Digitized by Google 369 coiratto della menle cuanescente par egli, i no concetto, che sembra setnplicc a prima giunla, perocchi si i ridotto il suo contennto al tninimo pouibile prossimo al nulla. Ma questa maniera di stimare la sua semplicitii , i piii tosto matematioa cbe Dictafisica: i nua stima simile a quella che si fa delle grandezxe estese e de numeri, e non una stima di quelle die si fanno de' concetti e principj logic! ^  quali si dicono semplici, non quando il loro contenuto i seniplice o nullo, ma quando non involgono altre concezioni in ti, ni esigono pih atti dello spirito, e sopra tutto, quando non suppongono allri concetti ed altri principj dinanzi da s^. Or I'etsere di Hegel suppone per certo un cotal sistema d'idealismo , e molte altre propo- sizioni preliminari, come quella che ho accennato, che le idee sieno produzioni del pensare; le quali sono ricevute in Ger- mania senza esame , ed influiscono secretamente nel sottile lavoro di quelle Filosofie. ' 5.* Finalmente non si potra mai collocare il t>ero nellessene concepito da Hegel, perocchi non pu6 service per misura del vero allro che Vessere ideate, a cui si raffronta e commisura Yessere reale. Ma ni Iuno n^ Ialtro di questi sono in alto nell'essere deHHegel; ma solo in potenza^ sicchi dallessere reale v'ha troppo, sebbene vabbia un in6nitamente poco, e dell'ideale troppo poco appunto perche vha un ioGnitamente poco. Lunita di Hegel rimane adunque infeconda, appunto come quella di Pittagora, per eccesso di astrazione: sebbene quella di Pittagora era un celibe, dir6 cost, del mondo ideale; quella di Hegel  un celibe cbe vive in sul confine de due mondi, dellideale e del reale. i Ma qui basti : queste poche osservanoni io non intendo tanto rivolgerle ai miei connazionali , quanto di sottoporle, come dicevo , alia meditazione e al giudizio de profondi filo- sod della Germania. CAPITOLO XXXI. I.SPOSIZIONE DEL VERO CHITERIO DELLS. CERTEZZS. Tali furono i pensamenti dei filosofi inlorno al criterio del vero^ parte de quali volsero il loro studio a cercar puramente Rosmihi, Il JUnnovamento. 4? ,Digiiizfid by Google 3 JO im indizio ossia nna tessera della verita, parte si approfondn- rono nella rieerca dell'essenza sUssa della verita. Manca a cotn- pire tale sposizione aneora un slstema, quello ehe io proposi nella Sezione VI del a Nuovo Saggio sullorigine delle Idee n, sostenendo io, come a me parve, ufGcio d'interprete di un'an- tichissinia nostra e sommamente venerablle tradlzione. II roio criterio  un di quelli, che inlendono a Gssarc qual sia I'essenta della veritA; e per6 esso appartiene al secondo de due grandi generi di criterj accennati ; appartiene a quel ge- nera che pone ii supremo criterio nelle idee. Fra tiilti i sistemi poi di questo secondo gencre, quello che io proposi si trova oc- cupare un posto di mezzo^sicchd gli altri, ragguagliati a questo, si direbber peccare or di eccesso, ora, come vedemmo, di difetto. Conviene attentamente riflettere , che quando si parla di cogni'zioni, vere o false che siano, noi siamo sempre nel mondo ideate, o certo mentale*, e per6, che se si da un criterio del vero, questo non puA cerrarsi, e non pu6 trovarsi sc non in quelle cose che passano nella mente. Conviene attentamente riflettere che il mondo reale^ il mondo delle sussistenze finite, non i cognito per si stesso^ di maniera che non i assurdo pensare che il mondo, quanto alia sua real sussistenza, rimanga anche se niuno lo conoscesse (i). II mondo reale ha bisogno dunqne di nna mente per essere conoscioto; e per6 i nella mente, ch'egll riceve luce, intelligibilita. La cognizione adunque i una cosa al tutto mentale; appartiene allordine delle idee in cni si risolvono tulli i giudizj e i raziocinj: in queste sole adunque pu6 esser la veritA , Iessenza della verity, poich in queste risiede la cognizione. Conviene ben riflettere aneora , che il sentimento stesso ap- partiene al mondo reale, o per dir meglio lo costituisce (a): (i) Dice questo quanto al primo concetto clie noi ci formiamo del mondo csteriure. Cio non toglie ebe, esaminando noi a fundo un tal concetto colla rifttssione, perveniamo ad una opposta conclusione, cioi a rilevare, die le cose materiali brute non potrrbbero essere senza die vi fossero ddle cose sensitivCi e generalmente nicnle potrelilie sussisterc dove non vi avesse ddle cose intelletlive (Ved. Principj della Scienza morale, Cap. IF, Art. I). (u) La materia nou si perccpisce da noi se non nd sentimeutoj del quale ella i un cotal limite, e un principio die k) modinca. Digitized by Google pcr6 non ^ cognito per s stesso, eome abbiam prima di* mostralo del mondo reale, ma ancbesto viene cOnosciuto nella mcnte, e"per la meiile; clod mbdianle le idee, che sono nella niente, qualunque cosa poi sicno quesle Idee. 'Volendo noi dunque cercaro Vessenta della verita, la prima verita, cLc dee essere il crilerio delle verila |>articolaii, che son tali perch^ di quella parlccipano^ non dobbiaino, e non po$ siamo uscire dal mondo ideale. II cercar dunque un principio che sia ideale e reale iasieme (sebbene qaesle due cote non postano ctsere giaminai del luUo nulGcate) potra esserci utile per Vonlologia, dove si cerca di dar ragione del cominciare delle cose^ ma non e menomamenle opportiino per la logica,e specialmeute per la qiieslione del criterio della certezza ^ e non farebbe se nun involgerci in ispeculazioui tanto piu complU cate ed inestricabili, ([uaiito plii I'ingegno nostro fosse potente. Conciossiauhi un lal principio introdurrebbe un elcmenlo ete* rogeneo, il reale, che non ha a far cosa alcuna coll'essenza della veritti, e die non farebbe altro uliGcio che quello di una sostaiiza crassa la quale si mescolasse culla luce, e ci venisse con essa iusieme iiegli ocehi. u Convien dunque risolvere una quesllone alia volta, e non avvilupperne 'molle insieme, per troppa frelta di rispondere a tutte.  da cercar prima il criterio del vero nel mondo ideale^ di poi  da moslrare come egli sia atto a fare! conoscere con certezza tutte le cose real!. Conciossiachi la quistione del crU terio e diversa da quella dcITapplicazione di queslo criterio alia oonosceuza del mondo reale.  questo ci pare non avers bastevolmenle avverlilo il C. M. iNon alferrando egli bene la distinzione di queste due question', s/volendo pur toddisfare a tutte due con una ola risposla, . si tforz6 di stabilirefun nesso necessario fra le idee astratte e le cose, del qnal nesso necessario abbiam gia dimostrata la falsita. 1 tedeschi parimente mescolarono, per la stessa impazienza di risolvere tutti i gruppi in uua volta, Vontolegia e la logica, il soggetlivO/C Ioggellivo. lo credo allupposto iinportante assai al Qlosofo, che cerca il crilerio delU certezza, badare bene a' limiti della questions^ ed inlendere, come ella apparliene inficramentc, per dirlo di nuovo, al itaondo ideale , perocchijella apparliene al mondo Digitized by Google 37* della conoscenza; e come la relazione della conasccnsa coTle realitd si spetti interamente ad Qn'allra questione, cioi alia queslione che versa iotorno al modo di applicare il criteria alia formazione e verificazione delle notizie degli esseri reali. Premesse queste cose, dico cho Voggelto pensalo come possi- hile, i ci6 che costituisce Videa. E peru se il criterio del vero dee essere nelle idee, infallantemente avra la forma di oggetto. In vano si dice datedeschi, che qoesta forma di oggelto i hmitata, che esclude qualche cosa perch^ esclude il soggelto, e che conviene sollevarsi ad un prineipio che non sia ni og- gello ni soggetto, ma il (alamo per cost dire di enlrambi. lo confnteru di nuovo pih soUo qaesto errore con degli argomenti direlli. VogKo inlanto solo fare osservar di nuovo quello che gii dissi, cioi che il soggetto non 6 che un sentimento sostanzialej e che per6 egli k incognito per si, come sono incognili per si tutti gli allri sentimenti. La sua conoscibilitA dunque non i egli stesso, ma qualche cosa diversa da lui: per6 in questa cosa da Ini diversa, in qnesta conoscibilili sua si dee cercare anehe la cer- tezza che noi di lui aver possiamo. Il soggetto adunque viene eliminato necessariamente dalla teoria della cognizione e della eertezza, come tutlc le altre eose cbe si debbono conoscere, e che non sono in si stesse conoscilnli. Noi dobbiamo partire dalle sole cose conoscibili per se, peroechi elle sole sono quelle cbe ci fanno conoscere latte I'altre^ e queste cose conoscibili, o piu tosto cognite per si, sono le idee; e le idee non sono che la cosa Bella sua possibilila, oggetto dell'intuizione dello spirito. Egli i dunque in questi oggelti , si come quelli cbe sono le cose per se intelligibili, come dicevo, che hassi a cercare la nature della coguizione della verita, della eertezza, e il criterio. PoBcndoci ora a studiare Iintioaa natura delle idee, e a rafirontare le une colle altre (senza badare alia loro prove- iiienza)^ iioi ci accorglamo tacilmeute, che ve nhanno di piit e di meno universali , di piit e di meno determinate : noi ct accorgiamo, che le meno universali sono comprese nelle piit universali, le piu determinate nelle meno determinate: noi ci accorgiamo, che, a ragion d'esempio, nell'idea di animale si eomprendono tanto idupi quanto i cavalli, tanto i pesci quanto gli uccelli, e in somma tutto ci6 ehe e eompre^ nelle idee Digitized by Google 3n3 (Idle specie e delle loro varieta. Vhanno adunque ddle idee che dipendono da allre idee; le idee minori dipendono dalle idee maggiori. Cosi io noo posso sapere die cosa sia ud lopo, 0 una trola , se insieme oon so die cosa sia ua animale: giac* cbi la sola vista del lupo o della trota non i gi^ una cogni- ziont, ina nna smsaziotte, la quale per si appartiene alle cose non conoscibili in si stesse, ma eonoscibili per mezzo daltre. Airopposto non i niente impossibile, die io sappia che cosa sia animale, rimaneodomi tutlavia occulte molte specie di ani- mali. La idea pin universale adunque mi abbisogna di neces- sity, perchi io abbia la mono universale: I'idea mono uni- versale adunque ha la sna conoscibiliU e la sua luce Bella piit universale. Chi i pervenuto a fare queste riflessioni, e ne ha ben in- teso il valore, egli i gia sulla strada che conduce allinven- aione del criterio della certezza, che non i allro che la prima idea, qndla che i conoscibile per si, e dalla quale ricevono tutte le allre la loro conoscibiliti , non i altro che la pura lucr. P^on dee Irovar diflGcolty il filosofo ad ammettere che Iidea universalissima i la conoscibiliti delle altre tutte, pensando che quella differenza, che sta nelle idee minori, sembra non mica potcrsi conoscere medianle le maggiori. Per es., egli non dee mica dire a si stesso:  collidea di animale in genere io non posso conoscere la differenza che costituisce la specie dei lupi : dunque Iidea minore ha una cosa in si, cni la maggiore non pud farmi conoscere n. Questa diflicolta, facile a presentarsi, non dee trattenerlo, io dicevo, nel suo cammino. Perocchi egli 1 vero verissimo, die nellidea speciale sta un elemento di piii, che nellidea generica; ma cii non basta a produrre una dif- ffcolta: coovien sapere se questa dilTereuza i conoscibile per si stessa, o se i conoscibile solo per la luce che presta Iidea piii universale. Ora chi ben considera, trova appunto, che la cosa sta in questo secondo modo; cioi, che sebbene Iidea uni- versale, presa da si sola, non present! alio spirito la differenza che si trova nella specie, tuttavia queslidea universale lia la virlii di render conoscibile alio spirito umano quella differenza, tostochi essa venga presenlata nella idea della specie. L' idea universale adunque i quella die irraggia la idea genmea , o 3j4 speciale, e la sua difrerenza ^ come la luce e qilella che fa te* (lere gli oggelti , sebbeae ella sola noa cootuuga in si gli oggetli. Rimane duuque bon fermo, che la conoseibilita dell' idea iuferiore e piii rislrella , si trova uella superiore e piii larga rie di leoremi purissimi, cioe somigliatili alia gcometria, la  quale non permetle allra cosh fuor die la reale snssistenza  dun primo fallo c il principio di contraddizioiie (a). II Romagnosi paiimenle assume d'iosegnarci a u coooscere con vcrila , c a  provarc con certeira  (d). Rgli proinette ancora di stabllire de  dati irrecusablli, onde procedere fer' u manicnte e risolutamente in mezzo alia lotta delle opinioni, u e cbiamarle a roncordla^ onde giungrre finalraeule alia teo* K ria posiliva di una inlelleltuale ginnaslioa, la quale sola * raccomandar puu le elucubrazioni della filosoGa del pen'*  Perchi poi vive nel nostro animo un desiderio infinito del  bene, e i germi della religione e della virtu, quasi vestigie  delle idee sempiterne dlddio, debbesi accanto ai pronun- H ciali della ragione siluare gli istinti morali  (3). Qui gl i- st'mti morali sono quclli die ci rivelano IdJio e la virtu, e qnesti sono contrapposti ai pronunciati della ragione; non sono dunque pronunciati della ragione, ma puri istinti. Mel libro che noi abbiamo alle mani, egli non parla che de' pronunciati della ragione, promettendoci di parlare degli istinti morali in un altro^ e per6 la dimostrazione dello scibile data dal C. M. non pu6 valere per Ic cose morali e divine. In questa ma- niera si ristringe dassai la verita e la certezza che il M. A. toglie a propugnare, conlenendosi tutla nelle cose della mate- riale e sensibil natura. Egli dice che n I'istinto prova I'in-  telligenza , ni questa apporta a quello la luce de' suoi in- a vincibili teoremi n (4). Egli i per6 vero, che soggiunge che la ragione  s'affretta a dimostrare  che  , quantunque i  veri da esso predicati truscendano i termini dellumano ra- il gionamento, pur tuttavolta abbondano i segni pe' quali si  pu6 giudicare che in essi non giace inganno  (5). Ma que- ste parole difCcilmente si conciliano colie precedent!. Primie- ramente si appellano  veri  i suggerimenti dellistinto^ ma il vero non k che oggetlo della ragione e dell'intelligenza, la (i) P. II, c. XX, v. (q) Ivi. (3) Ivi. (4) Vcdi U Drdicaloria. (5) Ivi. Digitized by Coogle 38i quale t appunlo intelligenza per questo, che La per oggetlo il vero. Accomunando la parola  vero > a ci6 cbe mcUe in* nanzi I'istinto, questa parola perde il suo genuine signiGcato, ed ella viene a signiilcar cosa che non i piu il vero. N6 pu6 appagare eziandio quvlla glunta, che u la ragione dimostra abbondare i segni pe quali si pu6 ginditare cbe in quegl'istinti non giace inganno . Per diniostrarlo user5 P autorita dello stesso C. M. II Reid ammetleva delle verlta islintive, aggiun- geudo per6, che col ragionamento si potessero conflrmare. Ora questo non garba al biion senso del N. A., il quale contro il Reid scrive cos'i:  II Reid con II suni seguaci, ponendo In*  nanzi li giudicll istinlivi a prova dello scibile, lianno in*  vece alterrata essa prova dai fondamentl. Imperocchi lo scet*  tico non nega punto le verita islintive, siccome fenomeni  del pensiero, mostrandoli ed altestandoli il senso intimo ,  bensi nega doversi credere loro come a verita razionali n (i)- N4 il Reid trova grazia appo il N. A. col concedere chegli fa poscia alia ragione il discutere gli stessi principj istintivi^ pe* roccbejdice il Mamlani;  Il Reid concede facolta di esaminare  e discutere la legittimita dei principj Istlntivi^ la qual cosa  Importa o I'ammettere che si possa quelll paragonare con  quairhe verita superlore assoluta, o che il ragionare con pe* u tizione perpelua di principio sia buono e valido n (a). Questa sentenza pronunciata per gli veri istintivi del Reid, non i pronunciata del pari per gli veri istintivi del G. M.? chi ne liiuitera I'eflicacia, una volta che sia pronunciata? Se il Mamiani ci dice adunque, che i veri toccanti le cose soprasensuali apparlengono allistinto, noi risponderemogli che questo non basta a vincere gli scettici; i quali, poiiiamo cbe ci accordassero I'esistenza di tali istinti, il che vuol essere difG* die, ce li accorderanno solo come fenomeni o apparenze, non mai come veri razionali^ e se egli clilama la ragione a discnterli e provarli, accorda con ciu alia ragioue quello che prima le avea nrgato, e toglie la necessity degl'istinti per la cognizion di que' veri. Aggiunger6 lo solamente, che ove trattassesi dt una rivelazlone divina esteriore delle dette verity , s'intende* (i) P. I, c. XVI, 17 * .for. (i) P. I, c. XVI, 17. for. * igiti^ed by Google 38a rebbe assai bene come se ne possa aver dcsegni indubitati, senza bisogno d'intendcre pienamente le verity stesse rivelale; ma Irattandosi di una rlvelazione inleriore e d'istinto, ove par si giungesse a provare I'esistenza in noi di una facolta si mi- rabile, cio cbe pur solo dee esser difficile, non si perverri per6 mai a niostrarla infallibile. Percioccbfe a poter provarsi cbe un tale istinto non cilluda, o conrien dimostrare quell'istinto veniente da Dio e da lui guidato^ il cbe non si pu(^ fare senza petizione di principio, poiclii Iddio stesso non si vuole a noi nolo, cbe per quellistinto cbe ce lo rivela : ovvero converrebbe mostrare Iinfallibilita siia dallesame delle credenze chegli suscita in noi^ ma nt pur cii^ si pu6 fare, peroccb6 si snppone, cbe quelle credenze sieno cotali, cbe travalicbinp tutte le forze della ragione, e quando tali prove dar si potessero, quella ra Crete dottrine: il cbe ci pare al tutto indegnissimo non pure di un savio, ma di qualunque onesto. G uno di questi poco diene, che queste iillra-ssirazloni sun dicliisrate liille proHolti immnginnrj, L itnproprioia di questa espressione sari nolala da quelli che Digitized by Coogle 384  spinti alPuItimo legno escogitabile. Tale i per esempio la K soslanza unica di Spinoza, lo spazio immenso per tutli i versi a da Newton appellato sensorlo di Dio^ la durata senza tempo,  la perfezione somma astratla, inGne I'assoluto. Tutti  u sterebbe a soddisfare alia decisione^ perocchi allora il poll* a tcismo e ogni altra illusione dovrebbero assumersi come font! u di verity : dir6 solamente cici die Leibnitz disse delPinfinitO  magnosi i vizj delleti in cui crebbe, e i vestigi di una scuola che, per grazia di Dio, pute nauseosamente al nnovo secolo in cui viviamo? 3.* Dopo di tutto ci6, viene quasi superfluo I'osservare, che il Romagnosi non solo limita la conoscenza del vero alle cose sensibili, e nesclude le soprasensibili, ma non concede ni pure, come fa il G. M., che a queste si possa giungere coll'istinto , il quale, dice, se aver potesse autorita, convaliderebbe (In anco Ic stravaganze del politeismo. Ma che i ci6, dcq>o che egli gla disse, che I'eternita, la somma perfezione, Iassoluto, sono te- nebre ed ombre di morte? N4 possiamo rispondere , che il Romaguosi nomina Iddio con rispetto in molti luoghi delle sue opere^ peroccli^ non ci siam noi accorti di aver che fare con una Glosofia beffarda? In un altro luogo dice il Romagnosi, che sulle disposizioni della economia divina riguardante la natura umana u convien far punlo n, soggiungcudo di poco buon umore u  che per- u cio? Vorreste forsc colle teuebrose vostre cosmologie gellar Rosmi.vi, Il Rinnovamcnlo. 49 Digitized by Google I 386  ancora la filosofia nelle larve analogiche niente piii valevoli  delle cosmogonic caldaiche, Indiane, cabalistlche? A che pro a trascinarci in un pelago oscuro, inCnito, inutile alia men- u tale educazione  (i)? Ora qoesta maniera di parlare a dir vero, non poco equi* voca. Si nominano, i vero, con dispregio le sole cosmogonie caldaiche, indiane e cabalistiuhe ^ non si parla dell' ebraica ^ ma che intende egU per cosmogonie caldaiche? io non voglio rilevarne il mistero (a). DIco bensi, che quella maniera di par* (i) Fedule fondamtMali suit* arte logica. Lib. IF, n. VI, 54- (q) Con dolorc io non posso occullare i miei duhbj sulle credeoze reli- giose del P. Bomagnnsi. Quesli, che Unll luoglii equtvoci e nebbiosi delie sue operc m'luducono involonlnriafneDle oeirauimo, sono pur Iroppo too- Armali, anzichi dissipati, dai m Cemii sui liroili e aulla direzionc degli sludj alorici * premessi al libro del Jauelli m sulla scienza delle cose umaiie . lu essi Romagnosi loglie a oioslraro, esser cosa linpositibile ed assurda I'am- roellere, che il mare ahhia coperic le piii alte mnniagne; il che equivalc a negare il diluvio. puo rispoudersi, che si dichiara impoisibile ftlosofi- cainenle ragiooando, e non piu; perocch^ non si discorre solaroeuie se sia potuto essere secondo ie ieggi naturali, ma del fatlo, se sia stato si o no; e si chiama n un popolaresco errore Di poi si passa alia quesliotie deU rorigtne delle umane popolazioni, e si decide cost: u Per poco che si pens! u alia qnestione dcirorigine della specie umana, si viene alia conclusione,  esscr quest.! una questiooe insulubile da qiialsiasi lilosoila, al pari della M queslione suH'origine degli allri animali e de* vegclabili m. Or qui h da osservarsi, che se si favellasse dl una filosofia lulla specuUtiva, la proposi* zione sarebbe passabile; ina si Iratla anzi d'uria niosolia che fa uso di lutri i monument! di qualunque genere rimastici dalla piu rimota autichila, fra* quail esistono anche i libri di Mosc, che ovaoco non fossero ispirali, vor- rebbero tutUvia essere aulorevolissimi teitimonj, cred'io, delle prime me* rooric. E pure dellallre memorie sloriche si fa menziouc; di qucsle no; scrivendo in qtiella vece il Romagnosi cosi: h Circoscriui gli studj storici (si noli beoe che si parla di studj storici, e non puramenle tilosolici)  alle u Dolizie positive deirumaoo iucivilimento, il primo argomento cbe si pre- r seaia si d Porigirie posiliva di lui, doq tratla da leggende cabalistiche, M ma da prove positive si naturali cbe tradizionali *#. Ora chi ^ mai al tempo Dosiro, die venga traeodo colali notizie storiche dalle leggende ca- balisiiche? Non k duuque sicuramente un giudtzio temerario il peosare, cbe coo quelle strane parole di h leggende cabalistiche w abbia voluio per dtsavveulura iolendere qualcbe aisra cota, cui non saf&dava a uomiuare sclnetlo ed aperto stccomc fanno i galuntuuiuiui. Cbe sia dunque qiiest'altra cosa, Iuomo spassionato il vede seuza cb'io gliel dica. Quesla nota vuol essere in servigio della buoua gioveDlilt ilaliana, e di chi dee guidarla nel cammino delle scicuze. Digitized by Google lare esclude lulte le cosmogonie, e non le sole nominate. Se ad una sola egli facesse grazia, se avesse voluto scrbare Iebraica, ealmeno come documeiito storico non potea prelerirla, I'arrebbe assa! probabllmente nominata. Ma egli vuole, che sull'economia divioa riguardanle il genere umano si taccia del lotto. Or questo assoluto, queslo profondo silcnzio sopra ci6 die forma e formera sempre I'interesse massimo deH'ornanita, e di rui si par- lera sempre, checcbe si faccia n si dica, non solo ^ iinpossibile, non solo non istii con clii professa la religione di Gesit Gristo, ma non k degno n6 pure di un filosofo: e chi proibisce at suoi simili il ricercare onde prorennero, e a quale deslinazione vanno, il meno che dir si possa di costui si ^ che egli pro- Tessa una filosofia assai povera, e al tulto insnfficiente ai bi- sogni deirumanili, una illosofla a ctii egli medesimo da ben poco valore, quando non la crede alta a travalicare di un passo il breve cirrolo della materia segnato alia vita presenle. E pero non fa maraviglia se dica in un luogo, che  il li- u mile dellimpenetrabile riguarda le cause prime  (l), dopo aver delto che  I'impeuetrabile 6 assoluto, perchi nun si pu5  Irascendere da veruna polenza umana  (a). E tiitlavia fa maraviglia la maniera onde esclude la filosoGa dell'economia divina sulla vita fulura, perocchi dice che u essa non abbiso- gna delle arguzie della GlosoGa per assicurare il suo trionfu n (3). Anche coloro i quali sono persuasissimi di quesla senlenza, converranno meco, che ella non pu6 esser sincera in bocca del Romagnosi; chella pare anzi contenere un dispregio affettalo della GlosoGa, alia quale in taiili luoghi lo stesso Romagnosi conimette I'umano perfezionamento. Piii tosto il dividere si fat- tamenle la GlosoGa dalla religione, e il non volere che quella si mescoli punto ni poco delle cause prime, e degli eterni de- stini dell'uomo, potrebbe iodurre altri a credere, die si voglia eon cio stabilire una GlosoGa al tulto materiale, e, mi si per* metia il vorabolo per ribullante cb'egli possa parere, atea. (i) Che cosa e la menu sanaf Rsgiooe del Discorso. (a) Ivi. b 388 CAPITOLO XXXIV. COHTinviZIOHE. 11 principio adanqne della veriUi e del sapere poslo daMaa autori che pur ora abbiamo esamioati, non ei mena mollo a lungo^ quando egli non giunge a sollevarsi di sopra alle cose nalurali e Gnite. La GIosoGa in cotali sistemi rlene ad avere abdicata da si slessa ogni sua dignity perduto il suo migliore, fatta inutile all'uomO) il quale interrogandola intomo al mas* simo desiderio del cuore, al massimo suo bisogno, la rinviene fredda, muta come una statua. Ed una GIosoGa che comincia unicamente da'sensi, e non riconosce verun'altra materia di sapere che quella somministrata da' sensi , sia pur lavorata dalla riGessione o dallastrazione quanto si voglia, dee Gnalmente venire alia conclusione, che tutto ci6 che si conosce i ristretto nel mondo sensibile, e a tutto il di plh ella dari nome di Nescibile (i). Ma dopo essersi dato questo squarcio grande nelle verita conoscibili all'uomo, possiamo almeno sperare che quella parte di verili che ci rimane sia ben accertata, sia in una parola verita ? Di nuovo, che cosa ci dicono de' loro sistemi logic! il Ma- miani e il Romagnosi su questo punto^ Certo essi hanno tolto a farci trovar la certezza almeno entro il territorio da loro circoscritto delle cose nmane. Pure cid che si vuole da noi indagare si di qual certezza parlino, che cosa intendano essi di prometterci quando ci promettono la certezta (a). (t) A Fireoze ne! 1834 ^ usato un libro con quesio lilolo:  Del ?fescU bile, Libio uno di Girolamo Alberj >*. Egb ^ pregevole per una cotal lo* gica, la qual inteudeudo a mostrarc, secondo i seosisli, che luUo il sapere umaoo si rinserra entro  la slera degli oggelti seosibilt , dimostra in pari tempo chiarissimameiiic quanto una Hlosofia sensista imniiserisca Iu- mana cognizioiie. lo poi dimostrai, cbe al tutto ranoieutai nel N. Sag^io Sez. IV, c. Ill, art. v e Vi> (3) Nel luogo citato del N. 9ogg(0 ( Sez. IV, cap. 111, art. v e vt ) bo dimosirato, che non rcsta pm nessuoa certezza, pur risguardante le cose sensihili, quando si parla dal principio * ogni cogniziunc uascc da* seusi n. Digitized by Google 389 Abbiamo gi4 di sopra veduto, che valor I'abbla questa pa> rola  certezza  pel C. M. Veramente non so, se il C. M. dia un'espressa deCnizione di questa parola nel suo libro^ pure da varj luogbi si pu6 rac- corre il concetto vero cb'egli se ne fa, ed  questo, chegli metle la certezza i." or nella necessity di persuaders! di una qualcbe opinione per evitare i mali del pirronismo, a.' ora nel fatto, che ninno dubita di certe opiuioni. i. Ecco come egli prova la certezza del senso intimo. u Se  v'ha al mondo una prova sicnra della legittimit^ dello scibile  umano, questa senza meno riposa nella riduzione di tutte le u certezze (i) alia certezza immediata del senso intimo: e u quando ci6 non possa succedere, diciamo nessun'altra specie If di dimostrazione poter valere  (a). Questo argomento non riceve forza se non dalla condizio- nale ,  se v' ha al mondo una prova sicnra dello scibile  . Pu6 dnnque renders! cosi: u Una prova dello scibile aver ci dee, altramente noi caderemmo nel pirronismo. Ma questa non pu6 essere che quella del senso intimo. Dunque il senso intimo i il fonte della certezza  . Ma , di nuovo, che varrebbe on tale argomento a' pirronisti, i qnali dicono di non aver paura di cadere nel pirronismo? Odasi ancora come il Mamiani si faccia incontro ad una delle piit forti obbjezioni che si soglion fare dagli scettici, e indi deducasi che valore tenga, nella sna maniera di concepire la parola certezza. L'obbjezione e la risposta vien fatta dal Mamiani stesso in queste parole:  Quando si voglia instare u ed aggiungere che qualunque facolti e operazione dellanimo,  appartenendo a un essere limitato di sua natura e condi- H zionale, non pui^ produrre cosa, in cui splende il carattere o dell immutability, della necessity e dell universality, noi re- (i) Fino cbe una opinioue nou i riscontrata al senso intimo, non pu6 esser cerla, secondo il N. A., peroccli^ da lal lisconlro solamcnte nasce la sua prova. Per6 i inesallo il dire, che convieue ridurre Ialtre certezze alia certezza immediata del senso intimo , perocchd non vi puo essere cbe una certezza sola ; e se gi^ quelle sono certeue, a che fine ridurle ad unal- tra certezza? (a) P. I, c. XVt, 17. afor. DigilizfKl by Google 3go u plicbiamo alPUtanza torcendola tuUa contro gli autori saoi:  concios$iach6 pure le forme ingenite della mente e i saoi u giudicii a priori e tutta la macchiua della ragion pura i u accidente ed operazione d'un essere limitato, mntabile e u condizionale*, quindi o conviene asserire cbe noa siamo noi u quell! , i quail pensiaroo la ragion pura, ovvero cbe la sua u immutabilita e necessity i apparente e non reale  (i). Questa risposta inerita tutta Paltenzione^ peroccbe in essa, il Mamiani da una parte e i pirronisti d'unaltra vengono alle man!, striiggendosi e annientandosi scambievolmeote, ma dopo la battaglia veggonsi i pirronisti preudere il pacifico possesso del carapo abbandonato. Veramente r obbjezione era forte: ella provava cbe niuna , e ne pur tutte insieme le facolta delluomo bastano, da si sole, a produr cosa cbe sia immutabile, necessaria, universale, reqnisiti indispensabili alia verita (a). E di vero , onde si potri mai dimostrare cbe il cootlngente possa produrre il necessario , e cbe nna causa particolare possa produrre un efietto universale? Niente suggerisce il G. M., cbe vada dlrettamente contro questo argomento. Cbe risponde adunque cgli? risponde, cbe se quelPargomento i efQcace con- tro il suo sislema, ugualmente i efGcace contro il sistema di quelli, cbe colie forme ingenite difendono Pumana cer- tezza. E bene, cbe se ne concbiudera? La conclusione i facile a vedersi : i facile immaginare cbe cosa i pirronisti soggiungeranno. Diraiiiio sssai lietamente: ben sta : qncllargomento alterra entrambi i vostri sistemi; non rimane cbe il nostro solo: conveiiite dunqne, amici cari, con noi; fatevi coraggio , dile francamente cbe non vha sa- pere alcnno immutabile, necessario, universale per Iuomo; cbe non vha verita per un essere cosi frivolo, fortnito e passaggero. (0 P. I, c. XVI, 3.* .for. (o) Come mai il C. M. dice, che i purisli o razionalisti non dimostr.no Iimpossibililli in che suno le facolla um.ne di produrre il necessario e ruiiiversale, qtiando egli slessn reca tosio dopo un loro argomento, onde ci6 pruvaiio iiivitlanieiite , a tale, cb'egli non trova da far loro alcuna di- rilta rispusia? Vedi questa inavvcrtenza del nostro aulore P. II, c. XVf, 3.* afor., I'd ill pill altri luoghi del suo libro. Digitized by Google Sgi So bene, che il C. M. vaol venire ad on'altra concluslone: to cbe la concluslone del G. M. si e, cbe appunto perclid con quell' argomento s' atterrerebbe ognl sapere certo dell'aomo, perci& esso non deesl ammeltere, ma riGulare: conclosslachi non si dee rlnunziare punto n poco alia certezza, allesl 1 gra- vlssimi danni del plrronismp. Oltimamente: ma non diranno i pirronisll, pbe questa roaniera di ragionare moslra bensi unavversloae coulro dl loro, ma non presenta alcana razlo* Dale e glusta confutazione ? Per manlenere all'uomo la certezza delle sue cognizioni , io ml son creduto obbligato nel N. Saggio dl dimostrare due cose: i. cbe vba una verila immutabile in s& stessa^ 2. die uua parte di questa verita, la parte piii necessaria, i corauni- cata all'uomo per natura, ciui i legata all'umana natura per un nesso cbe non dipende dalla volonta umana, ni va sog- getto alle forze di questa, ma dipende solo dal creatore (1). Ho giudicato esser manifesto, cbe se Tuna o Ialtra di queste due cose non iosse, non si potrebbe giammai garantire all'uomo vera certezza : conciossiacbi*, se non cl avesse una veritA, man- cberebbe I'oggetto, per cost dire, della certezza; e se una parte di essa verita, la piii essenziale almeno, non fosse con* giunta colt' umana natura con necessario e infrangibil legame, ma tutta al volere o al potere dell' uomo fosse commessa e ebbandonata, no! non saremmo mai certi a pleno di possedere qnella verita , attesocbi limitata e fallace ^ la nostra natura, il nostro volere ed il nostro potere. Nulla di tutto cl6 egli pare cbe repnti necessario il C. M., se in vece d'attendere a quaicbe sua affermazione isolata , tguardiamo nellintimo e al tutto de' suoi ragionamenti. quanto al concetto cbegli s'i formato della veritA, noi r investigberemo di proposito in altro capitolo : qui vogliam toccare quaicbe cosa circa il nesso fra la verita, e Iuomo co* noscitore di lei, e vedere t'egli trova cosa cbe valga ad assi- curar bene, e fermare un si fatto nesso. E se noi guardiamo ad nna frase onde cblude i suoi di* scorsi, pare di si, dicendo egli  lo scibile uinano appoggiare (1) Set. VI, c. XIV. Digitized by Google  ad nna certezza immediata e indabitabile  (i). Ma qaesta concbinsione viene ella diritta dalle premesse? veggiamolo. Le premesse sono :  Sebbene Iuomo possa aspirare a una sdenza dell'assoluto,  assurdo i dire che vi pu6 giungere con una scienza assoluta  . Questa parola di scienza assoluta pu6 ricevere a dir vero var) signiGcati, perocch^ pu6 intendersi per iscienza assoluta qnella che ^ pieua , orvero quella che k al tutto certa, o Iuno e Ialtro. Ma ci^ che segue toglie I'ambiguo, dichiarando me* glio qual concetto il G. M. siasi formato della scienza umana.  E perfermo, i caratteri proprii e costitutivi dell'nmana  cognizione sono 1 individuality e la contingenza: e prima  V individuality , perchy d'ogni vero astratto o concreto, par-  ticolare od universale, I'aiiello ultimo e stabile vien legato u a un modo del nostro essere proprio e individuo. Poi di-  ciamo la cognizione umana essere contingente. Diffatto ella > muta, e il non contingente d immutabile ; ella conosce le  cose per I'intermedio dei fenomeni, e quest! son termini re*  lativi: pud pensarsi distrutta senz' ombra di ripuguanza, e  il non contingente ha sussistenza necessaria  (a). Le quali parole in parte son vere, ma non in tutto e perd nel tutto son' false. Perocchd conveniva dire veramente, che la cognizione nmana risulta da due element!^ I'uno indivi* duale, contingeute, mutabile, e questo k (salva Ieccezione che dird appressu) I'atto onde Iuomo vede il vero^ Ialtro universale, necessario, immutabile, e questo k il vero stesso veduto. Conveniva in secondo luogo distinguere fra vero e vero , e mostrare , che una parte di vero vedesi da noi con un atto al tutto accidentale ^ ma un' altra parte vedesi da noi con un atto che non d gia accidentale rispetto alia nostra natnra , ma k anzi nella stessa natura nostra inserito, e tanto fermo quanto la natura stessa, sicchd non si pud abolire quest' atto senza abolir la natura^ e dopo di quest atto primo e fermis* simo succedono ancora degli altri atti , che sebbene avventizj , tuttavia sono protetti da errore, perchd provenienti da opera- ^l) 1>. II, c. XX, II. (a) P. II, c. XIX, HI. Digitized by Google SgS zion natnrale e infallibile (i). All'inconlro non fa il Mamiani alcuna distinzione fra quella parte di vero che troviamo noi, e quella che ci da la natura: anzi egli esclude espretsamente questa distinzione, soggiungendo :  Quando pure ci avvisas-  simo di discuoprire I'ente per si o nel subbietto pensante,  o nell'obbietto pensato , o in essa facolta di conoscere, nien* u tedimeno la conoscenza che ne prendiamo permane sempre u individua e accidentale, imperocchi ella i nostra e non  daltri, ella si muta nel tempo ed ella i un puro feuomeuo.  Ni gi^ suffraga andar figurando per eutro la cognizioae > medesima alcun che d^ immobile e dassolute, avvegnach6 u I'atto, onde prenderemo notizia di quell assoluto ( posto u che sia) manterrassi sempre individuo e accidentale n (a). Nelle quali parole non pur si da per cosa dubbia che un as- soluto cada nel nostro pensiero, ma ben anco si afferma, che se ci cade, il pensiero ri mane accidentale ^ ni si ammette nes- sun vincolo fisso e naturale fra noi e questo assoluto, ne si parla di alcun immobile nodo che lega noi con qualche prima verita. Finalmente i da attender bene, che ogni cognizione nostra, senza eccezione alcuna, vien dichiarata u un puro fenomeno  , e dicesi che le cose si conoscouo per  I' intermedio dei fe- nomepi  ^ il che, prima, ha qualche cosa di ripugnante^ pe- rocchi se ogni nostra cognizione i un puro fenomeno, e se non si perviene alia cognizione delle cose se non per 1' inter- medio db fenomeni, verrebbe di conseguente che i fcnumeni ci condurrebbero a fenomeni e nulla' piii. Di poi , chiusi ne (i) I senslsli banao generalmeDte queslo errore che note nellc indicate parole del G. M. In Deslutt-Tracy e senza veto. Non i pero nel Rbmagnosi ; che anzi molto senlilamente egli rdiattc il Tracy in qiieste parole: w Non i  vero che sii lutli i iiosiri giudizj cader possa Ierrore , come di.sse De-  stutt-Tracy, ma ci6 avviene solaraeute nei coinplessivi. Se ciu non fosse,  non sarebhe possibile crilerio alcuiio escogitabiie, percbe il criterio me-  desimo , cunsislenie nei seinplici giudiz) di iininediala, infailibilc ed as- soluta percezione, sarebbe consideralo fallace w ( f'edu/e foudnmentali suU'nrte logica, L. I, c. V, a), E tullavia per quesle belle e line parole non si inigliora la causa del nomsguosi, tuitu riduceudosi prusso lui ail///i> poistbthta dt dubttare. Per aliro, quanto al M., egli pure ammette per iii- duliiiabile I'lntuizioue immediate; ma non puo proYarla per tale, se tullu e contiugeute.e accidentale il sapere umano. (il P. n, XIX, III. Rosmim, Jl Rinnovamenlo . 5o . Digitized by Google 394 fenomeni , non troveremmo pin uscila da pervenire alia verace GOgnizione dellc cose. In ultimo, o convien dire che i feno- meni gieno cogniti per se stessi, o per altro. Se per altro, i fenomeni dunque banno bisogno di altro, cbe non sia feno- meno , per essere conosciuti. Se cogniti per se stessi , essi in tal caso sarebbero anco per si stessi^ cioi nel loro concetto non s' involgerebbe una relazione alia sostanza , e per^ questa non si conoscerebbe giammai. Cbe se egli i vero cbe la parola fenomeno ba un significato relativo, esso non sintendera mai se non mediante la conoscenza del termine a cui ba relazioue. Or consideri ogni sano intelletio, se i fondamenti cbe da il G. M. alia certezza, siano sufBcienti a sostencrla : consideri IMntimo valore, cbe pu6 prendere la parola certezza, secondo il tenore de suoi ragionari. La certezza sua, che i mai altro, se non una cotale neces- sity di assentire a qualche opinione, acciocchi non c'intrav- venga per disavventura di errare per entro agP immensi travia- menti degli scctticii* A trovar cotale certezza i volto il libro del G. M.^ ad essa, e non pin oltre, giunge dunque I'efllcacia ed il valore del suo criterio. 3. Altre volte per6 egli confonde la certezza col fatto del non dnbitarsi dagli nomini d' una seotenza. Nessuno vorri credere, vien egli ragionando, che la mente crei quella cosa che ellaafferma sussistente (i): dunque i certo che la cosa i reale. Non si dubita, che  conoscere e misu- u rare la successione delle esistenze non i creare tal sncces- u sione  (a): dunque tal successione i reale. Niuno scettico sa dubitare dellidentica realita dell'atto del conoscere dell'og- getto su cui si dirige la conoscenza: dunque v'ha qui certezza. All'opposto si potrebbe osservare, cbe la questione della cer- tezza non ista punto a sapere, se v'ha una notizia intorno alia  I, c. VII, IV. Digitized by Google 3y5 Laonde la certczza, trcondo qnella nozione die si puu rac> corre dnl libro del C. M., non 6 ccrtetza rationale; e una persuasione ferma , una credenza utile, e necessaria anco, se si vuole, agli uomini^ una grave paura di cadere nel pirronismo^ na nulla piu. A provar solo questo si stende dunque il suo principio della certezr.a , ed esercita questa sua possa sempre dentro a quella limitata periferia nella quale il vedemmo da lui niedesimo circoscritto. Udiamo ora ci6 che promelte di si e del sistema suo I'altro de' due, che abbiamo tolto ad esamU nare, il Rouiagnosi. Conviene che, come abbiam fatto del Mamiani , cost cer* cbiamo di rilevare qiial sia il concetto che s' i formato della certezta il Romagnosi^ da questo concetto argomentando noiclie cosa egli inlenda darci, dandoci il suo criterio della certezza. Cerlo se col vocabolo di certezza il Romagnosi intendesse cosa che certezza non fosse: il promesso criterio della certezza sarebbe tale, che non ci condiirrebbe gia al trovamento della certezza, ma di quello stato dell'animo, o comecchessia di quella qualita del conoscere, che all'autore piacque di denominare arbitrariamente certezza, e nulla piu. Ora questo appunto, come al Mamiani, cosl parmi essere intravvenuto al Romagnosi. Perocchi la certezza del Romagnosi si trova tutta colincala i. or nella immutability di un giudi* zio, a.* or neWacquetamento tiellanimo; le quali due cose sono assai lontane dal costituire la nalura della certezza, che i tutta cosa lucida e razionale. E in fatti il Romagnosi dice, die u la cognizione vera con- u siste in un si o iu un no immutabile , o, come soggiunge appresso, u un si o un no specolativamente (igurato come im> mulabile  (i). Ora questa i bensi la dednizione di una ferma persuasione, non per6 della certezza (a). Conviene attentamente (i) fTfiiute Jhndamenlali ecc., Lib. HI, c. I, 4'  rocchi a quell'assenso non ci condurrebbe un lame di ragione, ma un indeclinabile istinto. Non basta dunqne, che il si ed il no che noi pronunciamo, sia immutabile*, noi dobbiamo altresi sapere infallantemente, ch'egli si conforma a pieno alia veritd. Poco appresso II Romagnosi deGnisce la certezza cosi:  quello u sUto di adesione o di assenso che I'anima prova nellaf- a fcrmare o negarc senza dubbio una cosa qualunque  ^ o anco, piu sotto :  uuo stato unico ed indivisibile dellanima  umana  () Ecco la certezza del nostro Glosofo: un qualche cosa di soggettivo, di relativo al soggetto, e nulla piu. Ma neU I'accettazlone universale, la parola certezza non indica soltanto nno stato dell'animo, che esclude il dubbio^ perocchi ove aver vi potesse un animo aderente ad una scntenza, senza provare alcuna sorte di dubitazione, direbbesi di lui, ch'esso ha una ferma persuasione; ma che ha certezza, non ancora: acciocchi v^abbia una certezza, la persuasione dellanimo dee essere ro- gionevole, e conforms al vero; la persuasione sola, per immo- bile chella possa essere, non la costituisce. Le vedove dell'ludia, che si bruciano sul rogo de loro mariti , persuase di [are unazione virtuosa e santa, hanno, fuor di dubbio, una per- suasione talmentc ferma, die vince Iaiuor della vita: lo stato del loro animo i unico, indivisibile, privo di qualsivoglia dub- bio) e pure non si dira mai cou proprietii di linguaggio, chesse posseggano la certezza, perocche la persuasione loro non 6 ra~ zionale ne I'cra, ina cieca ed erronea.  aflliich^ niuno mi dica, che il Romagnosi, sebbene non e.sprima nella sua deGiiizione della certezza questa razionalita e Tecita della persuasione, tuttavia la soltintende) dichiareru, esser io ben cerlo, che interrogatone il Romagnosi, cosi ap- (>) f'eiiulr Jnnddmentali ecc , Lib, III, c. I, 4. Digitized by Google 397 punto risponderebbe ^ ma dopo una tale soa rispotta, di duovo gli replicherei, chledendogli, che intenda cgli per razionalit^ e per veritd della persuasione: conclossiacb(^ non sono io inelinalo a fidarmi troppo di belle parole, ma bramo cercare roai sem- pre qual senso vl afCggano certi ragionatori non siiiceri, ni leali. E qui appunto a me sarebbe assai facile il dimostrarc, che la razionalita e i-erila del Romagnosi , non i n raziona- liti, verita: ma il vo' riscrbare pel seguente capitolo. Mi spaccer6 piii tosto dell'obbjezione brevcmente, raccogliendo quelle parole cbe escono dalla bocca del Romagnosi piii spon- tauee, e che mostrano le nndita della sua dottrioa, seuza che egli se u' accorga. 11 Romagnosi parla di un poter radicate della ragione, del quale sia frutto la certezza umana. Conviene aver sott'occhio com egli descriva questo potere^ conciossiachd dalla cognizione del padre, si polra rilevare anche la natura della Cglia-  11 poter radicale e naturale, dice, i sempre uno, come la u personalitd dell insetto i sempre la stessa (i). Ora volendo  in qualche modo qualiHcare il poter radicale della ragione  umana, in che esso si risolre? n (Udiamo altcntamente in che si risolva qnesto padre della umana certezza) u In una realita K indeflnita, universale ed ineilabile, in breve in ifri non so che u che va compagno a tulle le funzioni nostre mentali per u imprimerc (a) su di esse un carattere di approvazione, o di () Non bo tnai saputo ebe I' insello sia una persona ! qtiesin un esallo parlarc niosoiico^ rattrilmire airinsetlo la personahia? Il Roinagnosi prn cedendo ael suo stile con Rirellazione , e qusi sulle suste, fa credere agll uomioi, chc poro s'addentrano neile cose e che giudic;no dalle forme sppareoti, chegti sia esalto, c lino scrupoioso nell'iiso delle parole. Wienie piu false. Egli coniraila quasi per tutto il legiuimo usn ddie parole, e stippone iofinile cose seuza provarle. A ragion d'esempio, quesla perso* nalitli data airiusello h uiia di quelle parole gettate a caso , che per6 con* tieoe sola un sisicroa iulero: e cosi ftirlivameiite caccia deiilro un sisletna senza prova, facendol passitrc per iudubilato. Di qiiesli salii imrneiisi si risconlrauo ad ogni faccia delie opere del proC Komagnosi ; e ad un biso* goo, ne sazier6 d*esempj quanli il bramassero. (a) 11 polere radicale della ragione * imprime sulle fiinziom* nostre men- tali un carattere di approvazione ecc. *; e questa una frase iilosofica euitta? Questo potere radicale ^ forse un suggello , un puuzoue,UQ torebio? que* ste funzioni mentali che ricevono 1* impressioiie , sono una pasia , un'ar* Digitized by Google 3$8  riprovazione, o di nulliti. Egli non agisce fuorehi provo*  cato; ma quando agisce si spiega necessariamente, ed opera  con irrefragabile possanza " (i). Ecco qaa il fonte della certezza di Romagnosi ! Un curioso potere la produce, il quale opera, provocato che sia, necessa- riamente, irrefragabilmente; ma opera veramente egli secondo ragione ? Basta dire che questo potere non si conosce, e cbe non si pu6 dir altro di lui se non ch' egli i  un non so  cbe, simile alia peisonalila dellinsetto . Con tale defini- zione di questo potere, io non sapru mai se potr6 afHdarmi a lui, credere al suo prodotto; non sapr6 se reffetto suo sara la certezza^ peroccbi quel potere i tencbre, e le tenebre non producono la luce. Di piii^ diilBcilmente io posso credere die quel potere sia nulla di razionale, nel senso vero di questa parola , e non nel falso attribuitogli dal Romagnosi. Peroccbi dal dirmi, che il potere della ragione i simile alia personality dun insetto, io non veggo cosa, che mi rassiciiri intorno alia certezza chegli mi dee prodorre. Che se proseguo a leggere innanzi nel libro del Romagnosi, trovo chegli seguita a de- scrivermi Ioperazione di questo arcano potere, non gia come qualche cosa di veramente intelleltivo, ma piuttosto alia fog- gia dun istinto animale, seguitando il Romagnosi cost:  Quando tu saprai dirmi die cosa intrinsecamente sia la  vita, allora pure dir mi potrai che cosa intrinsecamente sia u questo potere. Forse fra amendue esiste una comunione ed u un nesso segreto che fin' ora non fu rivelato  (a). Con dei semplici Jbrse, si pu6 trarsi molto innanzi nell indagine di gills, UDi piastri melillica, a cbe cost sllro? Queslo csrattere di appro. vazione i una Bgura, un imroagine ? Quesle funzioni menial i sono prima senza il potere della ragione, e poi ricevon esse uiiimpressione, una mo* dilicazione da queslo polere? il caratlere di approvazione, che ricevono le funzioni menlali, i uua loro qualilii che si fa loro inerente, pih loslo che un giudizio separate pronuncialo inlorno ad esse? In somma la frase i plena di metafore improprie s le quali melafore possono solo (enere a bada di quell) cbe credono di conoscere qualche cosa anche dove non vi nulla a conoscere: veramente qui non abhiamo che tenebre. (i) f'tdutefondamenlalisulVarte logica. Lib, II, c. VIII, it. (a) Ivi. Dt-:- ' by Google 5Q9 uasssoluU certezza ? Per altro qaeste parole assai chiaro di- mostrano, che il Romagnosi non afferr6 Iessenziale distinzione fra il conoscere e il vivere animale; e per6 non vide I'opposi- lione die il primo tiene al secondo per si falta gnisa, che la natura delluno esclude la natnra dell' altro. Sospetl6 dunque che il conoscere sia qualche cosa di simile ad una funzioiie animale^ il che solo basta a mostrare che la sua certezza- non i concepita da lui come dotata di vera razionalita, e per6 non i punto ni poco certezza (i). (i) Quanta atleozioue io credo doversi porre a non atiribuire agli scrit- tori opinioui men retie, le quali non appariscaoo chiaro nelle loro scrit- ture, allretlaolo eslimo non doversi dissimulare o velare quello , che v' ha derroneo e di peroicioso per eolro alle opere loro falle di pubblica ra> gioue; il che darebbe io ooi roostra o di vile adulaziooe, o di puaillaoi- milh, o di piccolo amore pel pubblico bene. Diro dunque di nuovo, se- condo il mio costume assai fraocameole quello che io peiiso della doltrina del Romagnosi; penso chessa peoda , e non poco, al inaterialismo. lu- tanto qui si vede, che fra il polere raziooale, e la vita animale, egli non trova una essenxiale diSerenza , anzi vien sospettando fra loro una comu- uione, un nesso secreto. Queslo gill i molto; perciocchi i un disconoscere Dell' iotelligenza quell elemeolo immulabile e verameote eleroo che la co- sliluiscei quaudo nella vita animale nulla v*1ia che non sia dislrultibile. Ma che concetto s'i poi egli formalo della vita animale? quiodi cooosce- remo il concetto che s i formalo anche dell iotelligenza, che con quella aospella aver secrets comuoione. II nostro autore dh manifesto segno di credere, che la vita animale sia un risullaraeoto di alomi e di gazi lu un luogo egli vuol mostrare, che lulte le idee sono derivate. Ora fa Iobhje- tione a si stesso, che le idee hanoo de caraiteri opposti a quelli delle sensazioni, p. e. la semplicita. Ma egli risponde, che non si puo da que- slo dedurre , qpelle idee non essere un prodollo di pih forxe anche estese , perocchi m no effcito di nozione semplicissima pud derivare da cause com-  poslissime t (yedute fondamentali ecc. Lib. 11, c. V, i3); e reca in eseiupio la vita che risulta dagli alomi e da gaz , seblieoe coo essi ella non mostri alcuna rassomigliauza: Vorresic forse, dice egli, darmi la vostra  iropotenza a conciliare le cause delle cose esperimeolali per pronunziare  sulie origini? Allora io coiniucerei col dirvi non esisleie vita alcuna, t perchi cogli alomi e coi gaz oon posso vedere come uasca la vita  (Ivi, 1 4). In un altro luogo espriine lu stesso pensiero, diceodo cooiro quelli che dallaoalisi delle idee vogliooo iodurne che non veogoii lutle da seusi: n Mei compost! raziooali di uuita coinplessa, fanno scomposiziooi i dialelliche  , come se si tratlasse di scoprire semplici rapporli di quad-  tita. Ms i nolo che come solto allazlone della chimica la vita sparisce  e la forsa vilale oon si coghe giammai, cosi solto la chimica dialetlica Digitized by Google 4oo Nfa i1 Romagnosi stesso ci si apre anche piii chiaro. Notate ID prlcna, che il potere radicale della ragione, che egli cbiatna auco senso rationale y opera, secondo il Romagnosi, or colla t si dissipa la foria razionale, e la gcoeraziooe meutale non tl raggiuoge M giainmai m {Della suprema Economia ecc. P. U, J xxii). Queste pa* role non avrebberu oessun seoso e valore, dove non si suppooesse per cerlo, che la vita 6 un prodoUo di elcmeoti chimici; ragionaudo Tautor noslro cost: t come gU dementi chimici e lemperati insierue a cerla foggU producnno la vita , nia scomponendoli qucsta si perde, cosl scomponendo il pensicro umano ci restano tali element! ^coi quali non vcggiaroo il modo di ricostruirlo m. Largomento i antilogico, come ognun vede; e a dire solo alcuni de* molti peccati che gli pesano adosso, i.' In esso si suppone per ccrto, cbc la vita animale sia un risulumento di dementi materiali ; or questo ^ nieno die uiiipotesi, ^ msno che una alTermazione gratuita, i uu errore. La parili dunquc non vale, non prova nulU > non esiste in alura. i\!* Ndia scomposizione chimica U vita ci sfugge , e ci restano in mano delle particdic materiali morte. Non 6 gia cosl tiella scomposizione dialeltica. Anzi in questa ci restano in mano degli element! vivi , e tanto vivi , che son quest! appunto , quesie nozioni e idee che involgono una coDtraddizione in (erminis, a volerle dichiarar sensaziooi. L* argomeoto avrebbe qualche forza , se dopo aver noi analizzati e scomposli i pensieri , non ci restasse che sensazioni e ci svanisse lutto cio che ^ razionale; aU lorn si potrebhe dire in qualche modo: ecco qua gli dementi del cono* scerei e vero, che il razionale ^ svanito, ma cio sari avvenuto, perocch^ egli dee csscre un risultamcnto di quest! dementi fra di s6 congiunti, noi Doi non sappiamo in che modo. Air opposio, facciasi ci^ che si vuole, la parte razionale non si perde inai ; sta sempre Ik innanzi agli occhi de* sensisti Terma come uiio scoglio: taglia, assoltiglia, lambicca j la parte ra* ziouale non si fa che piu belta , piu pura dal senso, pin inesplicahilc. Il fallo adunque riescc per appunto at contrario di ci6 che alferma il Roma* gnosi , e prova dirittamente coiilro di lui: convien rifleltere, che Ic ultime, Je pi6 demeutari idee non hanno nulla di comuiie colla sensazione : ove fossero solo dilTerenti da questa, si poircbbe rampinarsi; ma che nature iutriiisecamenle contrarie sieno prodolte da altre nature intrinsecamente conlrarie, ci6 cozra non solo col principio di causalita , ma ben anco con quello di contraddizioue. Molti allri errori potrei osservare, ma md vieta la brevita di una nota. Ruccogiiero piu tosio Targomeuto, c dir6 : i. il Kumagnosi .sospella una comunita fra la vita animale, c il principio razio* Dtile deiruomo; 2. la viu animale e considerata dal Koinagnosi come un accop* piaiuento di particelle al tulto materiali. Dunque la sua dotlrina preci- pila verso it malerialismo.  Reebero ahrove dell* altre prove della me- ilcsima iucrescevole couclusionc, e luUo cio iu avviso alU buona giovenli'l italiana. Digitized by Google forma tli giudizio (i), or senza qusta forma (z), ma  sempra quel putere che opera. Ora questo potere i quello, come ab- biamo veduto, che produce la certezza. Udiamo dunque come ci viene descritta questa certezza, questo stato deU'aDiuio privo di tutte dubitazioni. u Esso  non ^ un giudizio intellet- u tivo , Ilia un scntiinento pari a quello del piacere e del do-  lore. Volendo dunque trovare una denominazione piii propria, u io lo chiamerei potere di darsi pace mentale. Gli anliclii u sceltici ponevano il riposo deWanima come I' ultimo terminc u della ragioue. Questo modo di qualiGcare questo putere die u suppllsce all'istinto (3) e forma on dato ontologico (4). paruii u di iuUnita importanza ed estensiooe nella dottrina delluoiua > iiiteriore  (5). Queste parole sono preziose, perchd squarciano il velo , e fanno vedere 1 intima dottrina del Romagiiosi. In che consists la sua certezza? In una pace, in un riposo delPaniina. Gli an- ticbi che ammettevano questo riposo dellanima come Ililtinio terminc della raglone, si diiamavano sceltici, e di buona fede negavano che certezza cl fosse per Iuomo. II Romagnosi fees una bella invenzione, a line di potere d'una parte tenere la dottrina degli antlehi scettici, dallaltra negare dessere scet> tico egli stesso, anzi sostenere che v'ha per Iuomo una cer- tezza verissima. Quale inveuzione? Molto ingegnosa! dlmporre il nomc di certezza al riposo o quiete dellaulmo degli antiebi scettici. Concludiamo : il signlficato che il Romagnosi attribul alia (i) M CnIU denominazione di giudizio non $i esprime I'indole pruprii , * ma solamente uii efletio ronsegnenie del potere della rngioDe * f^eduie Jondamentali ecc. L* II, c. VIU, i3* (a) M Ma so osrure e indi-tinile idee pu6 forse cadere un iiilelletlivo giu- t dizio? Eppure sopra silTalte cose il senso razintialc !>i manifeSta. s$o M dunque non h uit giudizio iutellettivo) ma un sentimciito pari a quello M del piacere c del dolore *. Kedute fondamentali ecc. L. II, c-YIII, iS. i3) II Romagnosi esclude Iisliutoj; ma che cosa ^ il suo |>otere radicale della ragiune se dou un islinlu? Egli dunque abolisce uu uomc, e ne veiila un allro: ecco il tullo della sua filosoila. (4) E Tacile di accorgersi che ontologia dee esser quell, i del KoiuagouMi un'onlologia del tullo feiiomeuale! (5) Fcdulc foudttmeniali ecc. L. II, C- VIII, >3. Rosmim. Il R nrioyamento. 5i parola certexxa, non i >1 concetto della certezza; decida ora I'uomo di boon senno, che valore possa avere il criterlo della certezza del Rotnagnosi (i). CAPITOLO XXXV. CO^TIMJAZIO.NE. Non basta: ci resta a trovare qual sia Iintimo concetto cbe il Mamiani e il Roniagnosi si fanno della Verita. Poichi non dovendo essere la certezza che una indubitata cognizione della Terita, noi potremo anche da questa via giungere a misurare il valor vero del criterio del Mamiani e del Romagnosi^ giacchi il valore di quel criterio i pari al valore della veriU, che esso intende a fare! conoscere con certezza. Or che valore avrebbe poi quel criterio, se la verila die intende a farci conoscere, non fosse per avventura verita, ma qualche cosaltro vestito del nome di verita? Quello non sarebbe piu criterio di verita, ma qualcos'altro vestito del nome di criterio: la cosa  mani* festa. Accingiamoci dunque alia ricerca del fatto. 11 Mamiani mette in capo alia II Parte del suo libro, come sentenza che riassume la sua doltrina, questo motto tolto dal Vico : *. f^edute /biidnmeninli err. L. II, c. VIII, i3. (al II C. M. linn dice tutlo il pensiero del Vico, ma solo iina parte. E clii, leggeodi) il Mamiani e non il (ilosofo n.-ipolilatio di ciii si f.i diserpolo, trovasse die la dotlrina del maestro A per appnnto Iopposto di quella dello scolare? Veggiainolo brevemente. (i. B. Vico, nel Idiro  lieiranti- chissima sapienza drgli llaliani Iratia dai latini parlari M,comiiicia a dire die  presso i latini rero e /atto si adnperano promiscuainente . Qni, come i cbiaru, non espone egli la ana opinionr, ma si quella drgli antirhi latini. Or Iapprova egli qnesla opinioue? anzi 1a rifiuta espressamente. E percb^? per un motivo assai grave, pcrdii a suo gindizio ella e diritlamente con- Iraria alia cristiana ri-ligione, prorrdendo essa da un crrorc del pagane- iino. Indt trae ragione di einriidarla, il die d quanto' dire tnimularla in HU altra troppo diversa. Hiferiro le sue slesse parole, die liramo da raici Digitized by Google /,oi Di vrrn, liUlo ciu tliVgll neralo: quindi con eleganza vcracemrnte divina le sngre carle cbia* u marono Verbo la sapienza di Dio, che in contiene le idee di lulle le H cose, e in conseguenza di (uUe le idee gti element! ; esseodo in esso lui w una cosa sola il vero e la comprensionn di tiilti gli dementi die queslo t universo compoiigono, e polendo egli innumerevoli mondi , solo die il w volesse, creare; onde cooosceiido egli di ogni possiiiile idea gli elemenli M lulli Delia sua onnipotenza compresi, viene in lui a generarsi un Verbo rcale perfellissimo , il quale essetido dalU elcroiia coacepito dal Padre, M dairelernilk pur nnebe dee dirsi die da esso lui sia sialo generato > (Cap. I), 11 Vico qui distingue diinque il vero creato dalli/icrenfo, e solo del primo egli dice, die il crilerio i il farlo, Ma che i il vero creaioT il vero in $t slesso e uno solo ed elerno essenzialmerite. Quando adunque si dice creato il vero, non si vuol dir altro con quesia parola se non il vero ia quanto e conosciuto dalle creature, conosciulo da esse con quelle forme e lirnilazioni oodVssc possono conoscerc il vero* Gonvien duiique iniendere ID sano modo Tespressione di G* B. Vico, convien iniendere qnel suo Jarsi fiatla mente it vet'o, per sinonmio di conosccrlo, e di dodtirre le con- seguenze da' priucipj , coila qua! deduzioue iu colal gnisa ello lo si for* ma , cioe gli da quelle forme e spezzaturc, die sono proprie ddlo spirito umano e a bn necessaric perche possa iiileudere con picna persnasiooe c snddisfazloiie. Per altro egli e al luUo cosa lontaoissiina dalla ineole del profondo Vico il far Tuoino verameDle aulore e creaiore del vero: concios* siacb^ ooii isfuggiva cerlo alia sua iiobile mente, die il vero, ove fosse dal* Iuomo creato, iiou sarehlte piii vero. Per6 in cento passi delle sue opero egli deduce il vero creaio dal vero increalo, cio^ da Dio; ed ^ a questo foute, cb'egti attigne la necessity, ruoiversalitli, e Iallre qiialila divine delU verila; cou die egli appuolo diinoslra di dod opinare, die il vero creato sia qualche cosa di diverso dal vero iucreato nell'essenza, ma solo nello forme, nella liinilaziooe, c uclU relazinne culla cre.ilura, riinanemio nel suo fondo identico coll increato. Pero il Vico iiisegoa che n la mente uraana H vieue ad essere come uno specebio della inenlc di Dio m (Kisposia di G. B. Vico all'An. X, T. Vlli del Glornale delelterati dTtalia); egli iu* segoa cbe non vha che uua ragione sola^ e quella deliuomo non e cbe uua pafiecipazione di queUunica ragiooe, e quesla opioione egli pretende essere aolichissima nellllaiia nostra, e comune, sicch^ oegli siessi parlari latini so DC ravvisi mauifesla U traccis, i quail dicevano Tuomo uo ammale paria* 11 va solo riceviiore e racrogli- tore. Ora posto cio, niuna diflicolla siucontra a Irovare net vero la immii- tabilila, la uecessila, Tautorila e ronnipotenia di cui splendc fornilo: cosc rbc non polrh mai dare Tuomo a stesso, ma solo riceverne rimmacolala luce. d accioccb^ ancor piu chiaramrnie apparisca la moute del Vico, e non at ripeta contimtameule chc i piu cari nosiri Olosofi stnscian per lerra, c cbe il grello seosismo sia la cara crcdila che abbiarn fatlo da* padri no- airi, mi si conceda di addurre un altro luogo del filosofo siesso, i cui aensi malamenle si perverluno, e poi si decida se il fontc, da cui egli fa prove* Hire all aniina deiruomo i( vero, sia o Tuomo o qualclie altra rreata cosa, e non piu losto il principio supremo, infioito e sempiierno di tulle cose. Dice adunque egli, ribalicndo gli scellici, cosi : u Qursla comprensione di  cause ohe raccoglie in sh tulle Ir forme o guise otide suno prodolti gli t M elTelli, de quali dicono gli stoici di vedere i simulucri, ed igooran cosa r essi sieno; quesla comprensione di cause nppunto i la prima veriia, per* ** cioeeb^ le compreode lutic sino aHultime; e poichd* tulle le compmide *. Egli inteodeva cine, che nelle smsaztoni non ist^ la veriia, ma nelle pure idee. 2.  II C. M. proponendo rmliiizionc erealrice per criterio della scienza, non avvcrie in qual senso limitato inlendasi dal Vico il vocabolo scienta: per questa non inicnde che cio di cui si conosce la cagione, non* negaiido egli pero , che dellaltre cose sabbta cerlczzaj il criterio nduiique rimane parziale, e non ^ punto n6 poco uiiiversale.  Io coocedc:^, dice tl Vico, H parUndo del criterio carlesiano, quel metodo csser buooo a rinventre M i ccrii segoi ed iodubitati del mio essere, nia non esser boono a ritrovarne u le cagloni  (Lett. II in dif* del L> dciranlichiss. sap. ecc. ): per queste ^ solo, die propone il suo del formare il vero, o sia del dedurlo dai prin- cipj, e ronosccrio dsgti clemrnti, cunchiudendo sempre con derivarne dal prime vero lulta la forzn. ** Questo criterio ^ in me assicurato dalla scienza di Dio, che E FONTE E REGOLA. D OGNI VERO  (ivi). Ma egli h anco troppo per una nota. ^ (i) LNntuizione ha le sue facolt^; non ^ donque Tintuizione una cosa sempbee, tna un complesso di facoldit (a) P. II, XVII, III- cezione de'rorpi, e dire die u in tiitto cii!> la mente e nperalrlce del vero  ( i ), ma che per6 la creazione die in tal percezione iioi facciamo del vero ha un limite, quando all'inconlro nelle scienze matematiche il vero i del tutto creazione nostra. u Qudlo  che limita, dice, nel nostro esempio  (cioi nella percezione de' corpi)  la creazione del vero dalla parte dellin-  telletto si  I'csterna impulslone, e a tal condne appunto vien  nieno la nostra certezza.   Allopposto, si Cnga Ioggelto dd- 1 riiituizlone essere nelle nostre idee soltanto, e nei gruppi e M nelle separazioni diverse die vi andiamo determinando. Certo u i allora, die Iintelligenza con tutte le forze della propria u spontaneita rimane creatbice sola del vero^ siccome incontra u agli Algebristi e ai Geometri, i quali variando, compiendo e u ordinando i proprii concetti generano i loro teoremi, la cui  certezza distendesi tanto, quanto la materia pensata, cioi a u dire che in tali invenzioni la certezza e la scienza vanno u dun solo passo  (3). Di che condiiude u non far maraviglia  sc tutto Iumano u senno procaccia di glungere alia condizione della geometria u e dell'algebra , ciod aspira a mutarsi (3) in bella e grande u CREAZIONE DI NOSTRA MENTE n (4): e u criterio della scienza u essere I'intuizionc creatrice  (5). Da questa duttrina vengono induttabilmente deeonseguenti, che io tengo per fermissimo il G. M. non aver preveduti, e t quali ripugnerebbero indubilatamente al suo sentimento. I. Se la verila non fosse altro che una nostra creazione, noi stessi avremmo un pregio maggiore della verita. 3. Perci6 la verita non mcriterebbe piii quella somma ed assoluta riverenza ed ubbidienza , che il mondo crede ed ha sempre creduto; ma non mcriterebbe se non una stima relative, e minore di quelja che si dee a noi uomini autori di lei : ella dovrebbe service a noi, non piii noi a lei. 3. Ogni qualvolta a noi gioverii farlo, potremo adunque (i) P. II, XVir, III. .(a)Ivi. (5) Se aspira a mutarsi, csisteva duiique prima che divenlasse creatura ^ nosira. (4) p. II, XVII, III. (5) Ivi. Digitized by Coogle 47 tranquillamente sacriflcare, in noKtro vantagglo, questa nostra creatura, la verita-, perciocch^ nella collisione i da preferirsi >1 creatore alia creatura. 4. Ma chc? La verita rimarra ella n4 pure un poco rispetta- bile? vi sar^ di qui avanti qualche oggetto che meriti un mo* rale rispelto? I'obbligazlone morale esisteri ella piii?  Se la verita 4 creata da noi, egli 4 al tutto impossibile che esista alcuna obbligazione morale (se non forse apparente e immagi* naria): 4 impossibile che esista un qualche essere che vanti davere un glusto diritto al nostro rispetto morale. Imperoccli4 4 egli possibile che la verita comandi a noi? che la creatura imponga Icggi al creatore? 4 possibile che alia iiglia ubbidisca il padre? quaiido ci4 nc apparisse, non potrebbe essere tutt'al piu cheunillusione vanissima. Yeramente tutte le obbligazioni morali non sono che verita, come le geometriche. Se le propo- sizioni di Euclide sono una semplice produzione di Euclide, se i precetti de' moralisti sono mere produzioni di questi uomini che hanno tolto a creare de precetti: egli 4 piii chiarodel sole, cbe le proposizioni di Euclide non hanno n4 aver possono nes* suna intrinseca ed assoluta necessita, come parimente i precetti morali non hanno n4 aver possono nessuna intrinseca e asso- lula verita. N4 pure il consentimento di tutti gli uomini po> trebbe aggitingere a tali produzioni umane un granello di verity intrinseca, o di quella autorita che non hanno in origine. Tutto al piu, come alcuno ha detto, potrebbesi tornare a dire, che questa 4 una ferrea, inesplicabile, ineflabile legge di natura, la quale costringe spietatamente gli uomini a sottomettersi alte produzioni 'del proprio cervello, a crearsi degli enli ideali a cui ubbidire, a costituirsi coirimmaginazione deglidoli cui adorare^ ma raai e poi mai si potra conciliare insieme queste due pro- posizioni, I che la verita .sia un prodotlo dell'uomo, a.* e che ella possa imporrc leggi non pnramente fisiche, ma'veramente morali ed obbligatorie all'uomo. 5. * Distrutia la virlii Gno dalla sua radice, distrutta Gnp la possibilila di una obbligazione morale qualunque, alio stesso modo riman distrutta la scienza^ perocch4 tutto rimane appa- renza e inganno d'una natura esseiizialmente maligna, perchu oicDzogncra. Conciossiach4 la scieiiza chiamasi scienza solo per  * 4o8 questo, che ella reputasi vera d una verity immutabile e al tutto indlpeodeate dagli uomiDi. Che perA, se provar si potesse che ella non fossaltro, $e non una prodazione della stessa natura umana^ quella non sarebbe piu scienza, ma apparenza di scienza, colla quale la natura umana farebbe un infando ludibrio di si medesima. ti.'Luomo non sarebbe adunque nobililato piu nA dalla pratica della virtu, che non esisterebbc, oi dalla luce del vero, che sarehbe spenla. Onde trarrebbe la sua nobilla? Darebbe tors'' egli una qualche nobilta a quelle cose che portano i nomi di virtu e di verita? a queste obbrobriose illusioni, a queste gigantesche e mostruose sue figliuole? Quale? se egli medesimo i caduto, col cadere della virlii e della verita, nellignominia e nella derisione della natura? se non si distinguerehbe dalle bestie, se non per essere atto egli solo di ricevere dispregio e abborrimento? y." La illosoila , nel sistema di cui favelliamo, verrebbe ad essere di tutte le invenzioni la, pin criidele ' e disumana die aver vi potesse^ perocche mirerebbe a ronipere quel sogno con* tinuo, in cui runianita giacerebbe assopita ed igiiara della reila e della infelicita intrinseca di sua natura. Quando poi una volta, per la forza usatagli dalla iilosoGa, Iuom si destasse, e vedesse la virtii e la verita esser divenule un prestigio, che gli rimarrebbe, .se non Iodio di una natura snaturata, e un desiderio solo di distruggersi . di seppellirsi, e se fosse possi* bilg, di annichilarsi? Tali conseguenze procedono indeclinabilmente dalla sentenza, di fuori cosi bcnigna, die u i| vero A una nostra creaziouen. Puo esser che seinbri ad alcuno, che io prenda la cosa troppo alia lellera. Bene sta: io il primo assento , che il Ma- miaui e alienissimo dalla tristezza di tali conseguenze: io pure rinvengo nel libro del Maniiani de luoghi che contraddicono aperlamente alia dottrina , die il vero sia una creazione no- stra: nA daltro lato ho alciiri desiderio d'intendere la sua dottrina a rigore di leltera. Dico solo, che inlesa cosi come suona (salva la sua mente occulta, che io non veggo), qiiella strana dottrina i gravida di terribili sequele : dico che se in- tesa alia lettera i falsa , duiii|uc 6 vero il contrario di quel che suona : die dunque e vciu Digitized by Google t. fhe i\ vfro non i nna errazione o pro(?ii7.ionn TKistra; 3. ck' esso noil ^ il niedesinio che il fatto crealo o pro- dbtlo da noi; 3. eke il eriterio della scienza non i, e non pub essere 1 intuitione. crealrice; 4- che il vero i qiialche cma di maggiore deU'uonio, e dalluomo iodipendenle^ 5. che il vero e un principio. nnenlila, di cui pub ben partecipare e godere la timana natura, come gli occhi noslri pnrtecipano e godono della lure, nia nello stesso tempo egli 6 una cosa infinitamentb piu subtime della natura umana, im- inutabile, eterna. necessaria, dolata in somma di doti intera- Biente opposte a quelle dellumauo essere mutabile, conlin* gente, da tutte parti limitato; e ehe solo dallaltezr.a e dignita del vero, a cui si enngiunge, attigne I' umana natura tulti i tiloli di sua grandezza. Fra la prima e la seconda serie di conseguehie non vha mezzo cb'io vegga^ o e \era la prima e falsa la seconda; o b vera la seconda e falsa la prima : gli uomini onesti e inge- gnosi considerino bene I'alternativa; non si conrun'dano net torbido di alcune nozioni oscur^, ma lealmenle e fraDcamento scelgano fra Tuna e I'altra: e anche il C. M. 6 invitato a sce-> gliere, con maggior cognizionc dt causa, fra cotesta genie onorata. E che cosa Fichte disse piu di cib die b scritto nel libro. del C. M.? Se noi produoiamo le verita, esse sono neeessa- riamente una emanazione del Noi: ed egli ,e assai meno porten- toso il dire, che noi mandiamo fuori Iliniversp niatcriale, die non il dire, cbe noi mandiamo fuori le verita matematicbe o i'altre tutte: perocchb 1' universo materiale hualmeiite ha del- Ianalogia col noi, attesa la sua liraitasioiie, contingenza e niii- tabilila; e eerto creare il tinito, il coiitingente, il mutabile si pub; ma creare Pinfinilo, il necessario, rirtiuiulabile uonsi puo metaBsicamenle, ciob involge assurda il peusarlo. E a Fichte piu s'avvicina il G. M. con quella sentenza die a sinonimi Ienlita, o la realita, e la verita, il vero ed il'Xatto. Che se vuolsi investlgare onde s'origiiii un tanlo paradosso, Iroverassl manifestaroepte pruceder e'ssa da due difdcolla, olfer- Eosmihu Jl EiiuiovamciUo. Sa 4   e in scpamto Jal noslro spirilo, rJ6 clie convcrrebbc chc fosse, ove lo spirilo nostro non la creasse egli stesso? Gravi sono qiiestc rlifTicolta: cosi gravi, che appena vi stato naufragio nella filosolia, che non sia proceduto da tali punte. ^Ta con buona pace del nostro C. M., h egli qncsta la via del boon metodo di filosofare da lui stesso tracciata? ncgher6 io una cosa perch^ la mia ignoranza mi vieta diotenderne la nature, o di concepire il modtf come possa essere? Canonc prlncipale del buon metodo ^ quello di partire dal- Iosservazione. E questa osservazione, che io veggo con dispia- cerc trasaiidata e obliata da quelli che piu ne vantano Puso: io crederei di essere in caso di fi|r toccare con mano, che di tutti i {Ilasofi, quelli che piii trascurano 1 osservazione sono i sensisli..Cotesli si persuadono alia leggicra, che P osservazione consista essenzialmente nel limitare la filosoGa ai sensi^ aIPop> posto questa loro regola al tulto arbitraria 6 ellp stessa un sU sterna in aria, che offende, e che annien(a P osservazione. Chi osserva da vero, raccoglie tutti i fenomcni , e non ne esclude veruno, o sieno quelli csterni, o sieno intern! nello spirito no- stro (i)^ il limitarsi ad una classe prediletta non i osserv'are, ma incalcnare Posservare col proprio pregiudizio. Affrontiamo adunque la questione toccata sulla nature della verita colla semplice osservazione; che forma prendera allora quella que- stione? la seguente: u La verity da noi conoscinta i ella fatta da noi, o aempli- cemente da noi percepita?  o sia :  siamo noi sionsapevoli , qnando vcniamo al possesso di una verity, per esempib cbe il quadrato dell' ipotennsa h tiguale a qnadrati dc' due cateli, di produrre noi stessi quella verita o semplicemente di pcrcepire nna verita die gia esisteva prima cbe noi la percepissimo?  Tdle i la questione; ella i una questione tutta di fatto. Per risolverla non convien dunque cominciare dicendo,  ma se questa veritii esisteva prima che io la percepissi^ come esisteva (i) Mi pare bsm! itrano il veder fatta da alcuoi oppusizioDC a questa importaute verita svolla assai jEhiarapieDte nel disoorao del signor JourtVoy, che fu preraesso alia edizione italiaoa de* Priooipj di niosoila morale detio Stewart (Lodi, dalla tipografia Orcesi uel i85i ). Digitized by Google 4 1 1 . rlla? come si puo concepif? ciiella alibia iincisten7ji in stessa n ? un liuguaggio di tal maniera e qtiellu della igiiuranza^ la quale perla in fretta,  intrqmette il suu raglooanenlo male a proposito, obliaudu I'osservazione die si dovea fare. Torno dunque a dire: osserviamo semplicemenle: e se Ios- servazione mi dice, die io sono coosapevule di aver acquistata una verita noova, ma non di averle dato io esistenza col mio cnncepirla; afTermiamo fraocamente anche questo, e nol te> niamo na.scosto, per iiiia cotal vana e fanciutlesca paura, che ct venga ditnandato, come questa verita esistera senza di nui, e senza I'aUo dello spirito nostro. Porocchi, alia peggio, quaodo Cl venisse fatta questa intern^azione, noi risponderemmo che nol sappianio; e gonfiandoci deiitro qoalche piccola prosun> clone di dover saper tutto^ ci verra anco mi po di color ver- miglio sill viso: nia floalmente quel bel colore aodera sinun- tando inpocodora, e finiraqoi tutto ii male che incontreremo, Dica dunque in buona grazia il mio caro lettore,  Quaiido egli col suo intendimento giunge ad apprendere una verita niatematica, ^ per avventura consapevole d'csser egli colui che da Iessere a quclla verita, o pure la coscienea gli dice, chegli non fa che intuire una cosa vecchia, vecchia troppo piu di lui? Qui si tratta di un aflare di falto, di una deposizione della coscienza. Quando Aristotele, che sccondo Iinterpretazione di molti c sensista marcio, diceva che u Iiotendere e un cotal pa- tire egli non intendeva gia di provarlo con un raziocinio, ina intendeva di annunziare una verita semplicissima di pure osservazione (i). E chi mai, non ischifando Iosservazione, ni prendendosi cura e timore delle consegoenze, chi mai potfebbe venire a dire, di esser egli quegli che fa esistere, che i quanto dire che da la verita a questa proposizione: i tre angoli d'un triangolo sono uguali a due retti!* chi non sente an'zi intiraa- meiite come questo i uu vero al tutto indipendente da lui , (1.) De anima L. VII, t. zii e xxviii. S. Tommaao (5. I, XIV, ii, a), e tuna la scuola seguita questa senieuza. E pure sola quesla aealcoza a sullicieiile a dimoslrare, cbe le idee nS aooo purainenie alii Hello spirilo, c suuo pure seusazioui, ne seasazioui luaoipolate d' -'' atti dello spirilo. / Google c rli''cgli non fa cba voilcrlo^  slata la medcsiuia anche senza di me: uicnle ell' ha soffcrlo col co- noscerla io^ non i divciiula per queslo nuova ni vecchia, non ^ divenuta piu n men vera, non ha acquislalo piii o meno di aulorila: sono io, io solo, quegli che soffersi modificazione, io che mi permulai diguaro in sapiente, io che dal nun posse- der prima quel bene della verila, veiini poi a possederlu^ senza che il dello bene cominciasse ad essere colla mia cognizionej o non fosse senza di me. Ma e come dunque una verila pu6 esislere in s slessa? Ecco la terribile queslione: ccco il guado che impaurisce ed arrelra i fllosofi noslri, e fa loro .rinnegare per insino I'evi- denza dellosservazione piii irrefragnbile, di quella osservazione che per allro essi ammellono per sola legillinia funle della niosoGa. Ma di nuovo, c se vi rispondessi ehe io non lo so, come vi dissi da prima,. sarebbe egli queslo un gran male? per quesla mia ignoranza il fallo sara disfatto? Posservazione cessera d'esserela maeslra de filosofanti? che buon melodo di filosofare sarebbe egli mai colcslo? melodo che distruggerebbe la GIbsoGa, tulle le sciense: i fenomeni della nalura io dovrei negarli lulli, niuno ecceltualo, perchb non ho tanlo senno da esplicarli! Dobbiamo descriver ora la verila del Bomagnosi , dbpo de- scritla quella del Mamiani. Gia precedenlemenle ne ho toccato^ e fu veduto, che I9 ve- rila del Romaguosi i una manifaltura ualurale (1)^ il che so*  Egli dichiara ancor meglio il suo pensiero toslo dopo, ove toglie a luostrare, che la verita de nostri giudizj non si pu6 mai desumcre dalla loro confurmita collo stato reale delle cose^ ma solo colla posizione ipotetica del nostro inUlletto. Qnt apre pin ingenuamente il sQo sistema dIdealismo. u Se col pensiero io salgo flno al cielo, dice, o scendo fino  agli abissi, io non esco mai fnori di me stesso (3), e veggo 1 sempre le cose in me-stesso (4)- Luniverso danque che sup- (i) Mon si tralta che di un eSsere senzienleV (a) yedule Jondamentali ecc. L. I, c. V, 4- (5) Vba uii libro rranccse, che comiacia appunlo cost : Soil que nous nous e'leoions, pour porter melaphoriquemenl, jusques dans les deux, soil que nous descendions duns les abysmes; nous nc sortnns point de nous^memes ; el ce uesl iamais que noire propre pensee que nous appercerons. Ognubo sa che questo libro  \' Essai sur Vorigine des cohnoissances humaines di Condillac. (4) Lurc/Ve di sc stesso applicalo alio spirllo noslro i una pura meta- fora tolla dalle idee della spazio. Or cbi *000 sa quapto sieuu pericblose If inetafore, quaudo si usaoo non a chfarire iiti pensiero prirna esposlo in parole proprie , nia auzi a proporre una ddBcolla? Vha tull.a la ragione di dire al fdosofo cbe ci parla con parole traslale: > o ragiunalore, espo- netemi i voslri pensieri fuor di melafora, e allora saro in caso di pesare la gravezza della voslra diOlcollA; fino cbe la involgele in un linguaggio iiguralo, ella non si puu giuslameole estiniare . Ora nel caso nostro, per uscire di melafora, coiiviene considerare, cbe Io spirilo percipienle e un essere semplice e al lutio immune dallo spazio, die pero relalivamenie alio spirilo uou v'ba iie foori n denlro. Con Inie cousiderazione la diflicollA cessa per si slessa. Nascendo il fatio del conoscimeulo fuori inlieramenie dello spazio, dec di ucccssila succedere cbe vabbiaiio dcUc furze, degli 4 16  pongo esistere ahro non i ni ester puu, quanto a me, ftior* a chi un fenomeno ideale prodolln dentro di me dallazione  determinata dai rapporti reali che passano fra il mio essere  pensante e qnesto csteriore universo. In ultima analisi per*  tanto tntia hi questione si riduce fra Iidealismo isolato, in*  ( l)- Veramente tutti quelli i qnati non ammettono che vabbia un essere^ ideale dislinto dallo spirito nostro che ci faecia co- Boscer le cose, non ammettono la venits', che i questo stesso essere; e debbono in fine trovarsi tulli insieme rovesciati nello scettscismo. Imperciocchele iognizioni nostre delle cose non possono per essi esser altro che modificazioni dell'animo, e nulla piii. Solo discordano fra loro quando vengono a definire qual sia la na- tura di queste modificazioni , e quale la loro origine. Alcuni le dichiaramv mere sensazioni; e qnesti sono piii coerenti degli altri. Ma questi stessi, che col nome di sensisti si possono uni* versalmente appellare, vengono poi qnestionando in sulla causa di queste sensazioni; afferraandole altri eccitate da solo une ttimolo esterno, a quali pu6 darsi il nome dt pttri, od orgamci^ altri pretendendo che nasrano dlina virtu interna dellanima, i quali chiaino psichici; altri finalmente facendo quelle modi- ficazioni esser un prodolto medio di due cause accordate in* tieme , cioi di uno stimolo esterno e di nna reazione interna delPanimo, a rui s'appropria il nome di organo-psichici. oggelli che agiscona nello S|>irila, c clic questi possano essere narlecipati- dallo spirilo (cioe cnnosciuti ) seiiza cbe sieuo separali dallo spirilo; I'una cosa pud iuvolgcr Tallrn , a differenza dccorpi, fli cui I'uiio d essenzial- mcnle fuori deiraltro. Il rrigionamenlo del N. A. riceve adimque luia colat furza appareiilo solo Hall*errnre di  applicare alto spirilo le idee dello materia , e dal pre^udizio die Ddii vi sia cosa la quale non uliliidisra alto leggi slesse a cui ubbidiscono i ciirpi. Qiiesla d una di quelle opinioua graluite die preoccupano la menle'elescn.ris8  nn riraltato di qnesta reciproca azione la quale costituisce  una legge reale, ma 6 metafisicamente impossibile che io possa u conoscere questo stato reale a guisa di originale di una co-  pia. Pretendere di conoscere le cose in si stesse i un as-  surdo logico, perci6 stesso che la cognizione mia i un'azione ' mia, fatta dentro di me, e un mio modo di essere, e non una u trasfusione sostanziale di un ente e precisamente dellentiUi u delloggetto nella intelligenza mia n (i). In queste ultime parole si contiene Ierrore^ diiUnendovisi la eognizione seroplicemente come un nostro modo di essere, una nostra azione, e disconosccndo cbe 1 ente ideale 6 qualche cosa di distinto da noi, e in noi, se cos'i si vuol dire, appunto trasfuso, il quale ente ideale (luce in cui si conoscono le cose) i h.tvritd delle cose, Vesserita della rerita. ' Che se taluno, abbandonando Posservazione del fatto, ponga sua fede in un vano ragionamento speculative, gli parra questo certamente assai duro ad ammettersi, siccome cosa alienissima dalla comune maniera materiale di concepire. Tnttavia ad ogni intendente persona parri, io credo, di lunga mano pib duro, ed anzi al tutto impossibile il pretendere, che la veriti cbe noi veggiamo sia semplicemente una modificazione dell'anima nostra ni pih ne meno, qnantunque Panima non saccotga mai- di mirare in si stessa una propria modificazione quando cuntempla la veriti di dna cosa (a). (i) ytdule fondamenlali ecc. L> I, c. V, 7, 8. , (2) Non sata iimlile chc io qui riferisca il giudizio di Pietro Bayle solla disliniioiic dellidra e della perceztone falla dal Malebranchc, o piu tosto da lui resa illusire, coiiciossiaclni priraa di lui si amtnise scnza contrasto.  Secondo il scntimeuto del P. Malebranche, la percezione dunidca 6 M diflereole dall'idea stessa; la percezione k una tnodalita dellaniina no-  stra, ma non Iidca. Ecco tiii cbe pochi intendono. Ma e non vha mag. .. gior ragione di riruilarlo; perocchi qucgli che 6 alto di andare un poa .. fondo oelle cose, vcde facilmenlc, chc chi alTcrma vcdcr noi'i corpi io u s6 stcssi, ed esser la vera cagione dell idea che noi n abbiamo, pronun- M cia de termini, che sono tanto incomprensibili quanto dicendo un cir- M colo quadrato  (i?e la Hi!publi(jac dcs IjCttreSf Mai i685, art. 3). Nella sostanza io sono daccordo col P. Malebranche in quests parte; solo non eonvengo Con lui nelluso cb'egli fa della parola percezione; lo dislinguo I'atlo cou cui vrggo, dallidea veduta ; aminetto che Iidea 0 Iesjcre ideate Digitized by Google 4g Che se la dotlrina del Roniagnosi si restringesse solo a dire, il sentimento dellunlvcrso esteriore, materia della cognizione nostra, non essere che un effetto di due cause , 1* una diversa da noi, Ialtra noi stessi^ saremmo i primi a convenire nella sua sciiteuza^ e abbianio gia parlato a lungo della limitazione che riceve la cogoizione nostra dal modo oude noi riceviamo la materia di questa cogoiziune (i). Ma il Romagnosi non re- slriuge al solo seotimeuto questa teoria^ la stende a tutto^ egli vi acchiude anche la parte Ibrmale della cognizione', il princi- pio stesso di contraddizione diviene nelle sue mani una sem* plice modiCcazione o vibrazione dellanima nostra^ perd tutto k soggettivo, dun valor relative a noi: chi non intende avervi qui la distruzioDc di ogni verita, un idealismo trascendeutale? Che sc noi cercheremo per chc via un filosofo pervenga in tali assurdi^ sempre troveremo, lo sragionamento originarsi, a dirlo di nuovo, da qualphe prevenzione. La prevenzione domi- uantc nella mente del Romagnosi i appunto la pretesa impos- sibilita di avervi un enU ideate distinto e congiunto collo spi> rito, col quale noi veggiamo le cose, percib Tammettersi seiiza dimostrazioue, senza esame alcuno, che la conoscenza non possa esscr altro che una senipKce modiCcazione dellanima. Non si trova la minima prova di si fondamentale proposizione in tutte I'opere del Romagnosi: per tutto ell'^ supposta come e indipendentc dairapima nostra , allnpposlo dico die Valto deU anima t dipciidculu dallidea, e senza di qaesla non csisle. Pcr6 Vatto in quanto si distingue dnll'idea non d die una pura astrazionc, cio^ esisle solo Iallo chc terniina udliilea : qudio non si puu divider da questa realmehte senza distruggerlo , ma si pu6 dividerlo da quusla mcnialniente, cioi intcndorc diegli e una parte di un tutto, diversa dallaltra parte (Iidca) die eiitra a formar queslo tutto. Oltraccio io diiamo propriamente inUtiiione qud- Ialto onde Io spirito nostro vede Iessere ideate (Iidea), e pcrcezione quello onde insieme sente cd afTernia Iessere rcalc e sussislente (1a cosa). Multe volte trovo necessario conservare questa proprieta di lingua rigorosamente. Koto in Hne Ibe it Genovesi medesimo ammise e difese valorosamente la dislinzione del Malebraiidic fra I'idra e Ialto dello spirito die la intuisce (Element. Metaphys- P. Il, prop. zxu( , zxx); e da questo filosofo italiaiio il Romagnosi, che ne fa tania stima, lino a pubhlicariie c comnicntarne la Logica pe' giovanetti, avrebbe potuto impararc un vero cost importante. () K. Snggio Sez. VI, c. XI. 4o iodubitata, eridente. AH.incontro ci6 A appunto quello che gll negano gll avversarj. VuoUi vedere con che plena fiducia egli tolga a provare che no! non conosciamo le cose in si stesse? Una funzione d> risullato , dice , fra due agenti potri essa  forse diventare forma sostanziale di uno di qaegli agenti ? II  senso poi di un mio movimento pn6 forse rappresentare la  mia 6gura  (i)? Certo no, rispondu io,* e appunto per que- sto voi dovreste vedere, eisere al tutto impossibile che la co* goizione umana sia il risultato di due agenti, consista nel senso d'un semplice vostro movimento. Un semplice vostro movU mento non potri mai farvi conoscere ni la vostra figiira , ni alcuna forma sostanziale, ni darvi la minima idea di sostanza o di figure. Ora, dato anche che voi non conosceste ni la vo- stra figura, ni niuna forma sostanziale, come asserite^ tuttaVia voi ragionate e di figura e di forma, e per6 ne avele almeno le idee genericbe. Ma primieramente, i egli possibile cbe ab- biate le idee genericbe di forma e di figura, se prima non avete percepite le forme o figure particolari onde coll'astrazione (se- condo il vostro stesso sistema) traete le idee genericbe? An- cora, i egli possibile che il senso d'un vostro movimento sia I'idea della forma e della figura in genere o in ispecie? C' i per lo meno tanta assurdita a pensare che un movimento vo- stro sentito sia Iidea della figura e della forma in genere, quanta voi stesso ne trovate a pensare che un vostro movimento sentito sia Iidea della vostra vera e real figura particolare, o di una particolar forma sostanziale qualsiasi, vera o falsa. E potreste voi conoscere che fra movimento e forma non ci ha similitndine alcuna, e che per6 quello non pu6 rappresentar questa, se voi non conosceste veramente e la forma e il mo- vimento? Ma il Romagnosi non vedendo la possibilita di alcnn altro partito, tiene per indubitato, e nd pur bisognevole di prova, che ogni idea nostra sia appunto il senso d'un semplice nostro movimento, una semplice nostra modificazione^ e di qui muove tutto il discorso, come da punto fermo, a suo credere, n^pos- (i) y^dult fondamtnlaU tec. L. I, c. V, 9. Digitized by Google 4ii sibile a poni in controversia. Egli toglie fin' anco a provare, che colla visione diretta delle e azione e, reazione ^ nn vero barbarismo in metafisica; ma mi si permetia di usare qui Iallrui lioguaggio, che piii Sollo porro alia prova della critics. (a) yedute fondamentali ece. L. I, c. V. io. Digitized by Google  gnito (i), autore di queati atti, c che noi connoliamo coi It varj segnali intrioseci di quetU atti  (a). Qaesto i quanto an dire: non ono possibili che due si- xtemi, ridealjsmo famulativo, e Iidealismo isolato. Nelluno come nellaltro la cOgnizioue i sempre un mero atto del ina pensante^ Iidea duu che incognito. Dunque , se c'^ il vero neir idealismo isolato, egli c'i ugualmente nell'idealismo famu- lativo. Vi par egli questo un bcl ragionaic? E che ritirata tro- vera il Romagnosi, quando gli sara risposto che il vero non c'i n6 nelfuno ni neUaltro idealismo?  cbc? si planter?: forte col dire, che non si pu6 uscire dal circolo dell'uno o dell'allro de' due sistemi? 11 pirronista glielo accordera volontieri, e con- chiudera:  si, e appunto perci6 non si da vero alcudo: ib accetto di tutto buon grado la vostra conccssione . Ma il vero difensore della verita gli (lira per opposto:  vi nego la maggiore del sillogismo, perocchi accordandovela io, il pirro- nista IavrebBe vinta su di voi e su di me ugualmente . 11 Romagnosi si stupirebbe forse. di tal negazlone^ ma finalmente dovrebbe capire, che egli si era dimenticato di prpvare quello che innanzi tutto dovea provare, il perno della disputa, cioi, che il conoscere sia e non possa esscr allro che un mero atto a modo dello spirito senza un oggetto ideale distinto per na- tura dallo spirito stesso. Tirato a tutla forza sul vero terreno della lotta, egli dovrebbe sostenere, a mal suo grado, di veder posto al tormento logico quel pregiudizio sul quale egli edi- ficava con tanto di sicurezza la mole del suo sistema. Rechiamo un altro passo del nostro filosofo, dove il con- cetto, che egli si fa del vero, viene ricapitolato :  Lerrore sta  nella difformita fra i giudizj che si fanno e si postono fare. (i) Come ceotra qu! Pidea dun che incognito? Io areggo Ixuiissimo come un alto dello spi'rllu risullanle da rapporti dcllc due cause die Io producooo sia un cbe incognito; nia il dire che sia  Iidea duu che inco- gnito questo ^ un Salto mortale; Ildea vi A intromessa nel ragionainenlo come un personaggio improvviso die apparisce sulla scena a porlcdiiuse: eon tali appariziuni improvise e senza nesso la Luuiia logics de uostri lilosoli fa pur de giochi maravigtiosi ! (a) f'edule /uiidiuneiilali ccc. I.. I, c.'V, i5. Digitized by Coogle 4a3  Tanto la veriUi, qaanto la falsitii sono un s\ ed an no (i). u Quelli del vero sono immutabili quanto le essenze real! di u fatto,e le azioni di qaeHe essenze. Distinguasi la contingenza u di queste azioni, dalla nalara loro (a). Quelli del falso sono a mutabili perchi possono essere cangiati mediante un irrefra- u gabile ragguaglio colla normale suddetta (3). II colpo che u deriva da una data forza safEciente o insufGciente (4), bene  o male diretta (5), i un risultato di (Isica necessity. 11 bene u e il mal giudicare sono risultati di una stessa necessity {6). u Gorreggere un errore i sinonimo di riandare lo stesso oggetto u e concepire un giudizio normale invece di un giudizio non nor-  male, e di emettere an si nel normale, ed un no nel non u normale che prima portava il si. Ecco la ritraltazione  (y), Nelle quali parole apparisce manifesto, I  Che il vero ed il falso sono risultati di (Isica necessitli , perchi eifetti dell'azione di due forze , ^sterna ed interna ^ 3." Che esso  cosa, che viene prodotta di mano in mano come-una merce materiale^ 3. Che esso non ha alcuna necessity in si stesso se non ipotetica , cioi tale quale e la nalura delle cause che lo pro- dncono, le quali (I'universo e noi) sono non solo nelle loro azioni, ma ben anco nella loro natura contingenti, quando non si voglia arametlere la natura eterna ecc.-, e che percii, diremo noi , il vero non & vero , quod erat demonstrandum. (I) II ,'f Da qaeste doltrine debbono seguire tutte quelle consegnenze morali da noi sopra indicate, favellando del criterio del C. M.: proviene da esse la impossibilita di una morale obbligazione , appunto percbi la verila, in cui ba propria scde I'obbligazione morale, i ridotta ad avere un pregio merainente relativo, e non panto assoluto. Quindi il vero non vale piu per si, ma pe van- taggi che ci apporta , ecco 1utilita' messa nel luogo della ve- rita e della ciustizia: questa (cioi il nome di questa) diviene una servigiale di quella : ecco il piacere che caccia dal mondo il DOVERE, per regnarvi egli solo. 11 Romagnosi non si traltiene dal cavare egli stesso alcune di queste terribili conseguenze. La sua morale Glosoflca non mostra quasi mai alcun altro fondamento , se non qnello del* utilita , e diri anco dell' utilita materiale. Egli dice espressa- mente che u il pregio della verita consiste bssbhzialmbnte ed u umcamente Bella efGcacia di cogliere la realita efiettiva delle  cose, onde ottenere i beni. e scbivace i mali n (i). Quindi in- segna pure, che Iignorare lo stato reale delle cose non i male per noi, appuQto perchi lullo il bene, tutto il valore delle' scienze sta sempre unicamente nel poter operare sullanatura (a). Ma per quantunque operi io sulla natura , diverr6 io mai buono o cattivo? sta cbiuso ogni cosa ne' fiski beni? non in* teode il Romagnosi , cbe i fisici beni sceverati dai morali ( n^l senso vero e non contrafiatto della parola) sono la materia del* I'umana infelicita? il tormento di un essere creato per I'illi* mitato, per ci6 che i puro e celeste? (i) f'edutefondamenlati ecc. L. I, c. IV, lo, ii. (a)  Qunad'aiicbe giungere si polesse a cooosoere le cose in at stesse,  e poleste accertarvi cbe > vostri concetti sono rassomiglianti alio stato > reale delle cose, cbe cosa avreste voi guadagnato per IVltimo valosz N delle scienze? Nulla aflaito fioo a che non vi foste assiciirato che per M mezzo di queste somiglianze voi operar putete sulla natura ed essa sulla erilay possono ugualniealo applicarsi a tutti i sistemi che finiscono col riporre nelianima umana o nella compotenza delPaniraa colla natura il criteriu; perocebe tutti vengono diffinendo la scleoza e la verity u;i modo deWanimo nostro y cio^ di un essere acctdentale e senza consistenza, senza dignita propria e senza autorita (i). Per evitarc un si fatto tracollo mortale, per sAlvare in qua!- cbe modo la natura divina della verita, mantenendo nelloslcsso tempo, chessa sia un modo delPanima uraana, non si vede (i) QuelU chc poscro il criterio neirauloriU, non ^ bisogoo di ribatterli a parte; poicb^ dovendo csser sempre raoima nostra quella cbe riceve le dottrine, che ci venissero comuoicale dalLaulorita di cbicclicssi^ cssi deU boijo pure dichiararsij diceudoci cblaro, sc le doltriue dL*ll*auima ncevutc aieuo uii setnplicc modo delPauimu, nel qual caso partengono a* prccedenti, u pure sc quesle dotlnne hauno unu cnlllii ideale loro propria, iiel qual caso appartengouo ad aicuno de* sistemi che I'ormauo la scconda parte della nostra Tavola siootlica dc criterj della certezza. lo dovrei bensi por rnaoo ue* sistemi Iracciali in questa sccooda parte della Tavola iudicata: e muslrar priina in che e perche io mi diparla dal Slakbraiichc; e poi come coloro che haiino cousideralo il primo vero quale nettauima nostra iioi il possiamo cuirosservazione tilevare, pecdiioo or di eccesso or di difetto; e come il sisteiua vero si debba allogare tra Pittagorii c PialoDc; non polcndosi indicare un primo vero, chc esseudo iniuore di qiiello ch*io pongo, fur possa Tuflicio di crilcrio uuiversule, o chc esscudo maggiure, non sia .voverchio a quest uQjzro. t Wa Icnlrare a moslrar cio, mi divaglicrchhe troppo dalla conversazione cbe ho preso a fare col C. M.; nella quale dahra parte coiitiouaiidami , Verro forse a capo di metier via meglio in chiaio il imo peusiuu; giacche tiilla U dinicoha, a mio parcre, sia nirl beuc iutcnderlo; v, dove beue sta iuUsu, |>enso the non possa tsstre ptuposto iu coiHrovcrsia. RosMim, Il llinnovwnmto . 54 Digitized by Google 1^6 ... clie un rimedio^ ma questo rimedlo  assai peggiore dello stesso male a cui si vuol riparare. II rimedio di cui parliamo, sintendcr^ subito, ove si prcnda il sislema che abbiamo esaminato, da un altro manico, per cosi dire, giaccbi ogui cosa ba pure i suoi due manichi. Gli autori esamiuati danno al ve^o le qualita dell' uomo; si potrebbe fare il rontrario: dare all' uomo le qualita del vero: ecco Iallro manico di cui parlavo. Dico che si potrebbe sentir con essi quanto al principio, cbe il vero non sia altro che un modo dell'esscre umano, e tuttavia mantenerlo nel possesso delle sue divine qualita, cioi della im- mutabilita, etemita, necessita, universalita ecc. Ma in chftmodo? Con un po di coraggio. Basta osar di dire, che I'uomo stesso ha veramente tulle quelle sublimissime doli, e che la conliu* genza, la mutabilita ecc. non & che I'uomo fenomenico ed esteriore, non i il vero uomo, non quel mirabile lo, soggetto occulto, che i cos'i comodo a potergli far fare tante belle cose, scnza che egli venga giammai fuori del suo nascondiglio a darci una mentita. Veramente, fra nostri italiani non v'ebbe per anco alcuno , a mia saputa , a cui bastasse di tanto il co* raggio^ ma la cosa non va cosi altrove^ nop va cosi, per esem* pio, de filosoli tedeschi^ troppi de quali banno veramente un coraggio gigantesco pari all'ingegno. Di qui i, che sebbene ne' lor sistemi , come ho gi^ osservato , giaccia sempre in fondo un elemento soggettivo, tuttavia essi manleiigono al vero, me* glio de' filosoli di ognaltra nazione, Ic sue qualita sublimis- sime, divine; immaginando un soggetto che si oggettiva, e chc riesce a vincere o sia ad assalirc di nuovo in si il proprio oggelto : per il che tendono essi incessanlemente a divinizzare il pensiero , e finiscono assai spesso in qualche sistema di pan- teismo. CAPITOLO XXXVII. GIAVI CONSEGUEHZB DBL SISTEXA OEL C. M. Ora io non vorrei che per altri si credesse aver io in qual- che parte appiccicata al Mamiani una opinione non sua. E scb* henc niente abbia io dello, che nol provassi con luoghi tratti Digitized by Google 1^7 fnnri ilal sno libro, tuttnvia a dllfigunre ogni dabhio mi spic* gliero meglio. Non >olli io gia dire, che il C. M. nell'anitno suo negasse alia veritct quelle preclare doli, che tutto Iaman genere le concede, e aempre le concesse, di essere clou una, universale, indnita, iinmutabile, eterna ecc. Dissi solamente, che queste doti innegabili della vcrita, della quale Iuomo partecipa, noa si possoDO niantenere a lei nel suo sistema , ma rimangono senr.a spiegazione, sono rese impossibili. 1 pass! del libro del Mamiani die ho addotti mostrano quaVito egli cedesse a questa consegnenza necessaria della sua dottrina. Ma que pass! non impediscono che non ve nabbiano degli allri, dove il Mamiani confessa ingenuamenle, che la verita i fornita di tutte quelle eccellenti prerogative^ ingegnandosi (In anco di spiegarle, e di conciliarlc coi principj della sua Glosofia. Ora I'udire dal Mamiani, die la verita i per cssenza immu- labile, necessaria, cogli altri pregi toccati, 6 a noi cosa assai lietaj si perch^ ci troviamo qui conscozienti con tin pregiato uoroo, e si perch^ quclla concessione ci da diritto di doman- dargli qualche spiegazione di doti si eccelse, o almeno di chie- dergli che non voglia rendcrcele impossibili col rimanente di sua dottrina. E non ripugnano esse quelle altissime proprieti del Vero coo tutta I'intima c sostanzial parte della filosofla del Mamiani? Da prima, se, come egli vuolc, le CQgtiizioni nostre vengono tutte dalle cose esterne, e dalluso delle nostre potenze che vanno elaborando, per cosi dire, le impression! di quelle, senza die in dette potenze preesista alcun lume naturale, alcuna prima iotuizione^ egli si par manifesto, che le nostre idee non potendo esser che analoghe allc cose onde origiqariamente pro- cedono, non avranno nulla d'imm^tabile e di necessario, se anche queste non I'abbiano. II C. M. sente la verita di questa principio, che pone, non potervi aver piii nell effetto che nella causa , e perci6 dice cosi :  Questo satire dello scibile dal u transitorio al durevolc, dal vario all' imqiutabilc^ dal limitato  air universale, e dal contingente al nccessario mai non avrebbe  luogo qualora il neccssario, I'etcmo , I'inGnito e I'immuta- Digitized by Google u bile non dimornsse vcramente per rar770 lullc le trasfurnia- u zioni della materia e dello spirito ^ ( i ): parole molto os u chc porzione d'idcntita, die persists e non cangia, e la quale, u si vedra a suo luogo procedere dalla natura eterna e imniu- cla esse, die I* slessa realila eslrrna fusse qualche cosz apparleneete a nni, alia nosira mrule, come vuolc Iidcalisla pure, ialeadeadosi allora perfcl- tarnenle eome lutla Tazionc nosira dentro di noi si compia. In un sistema sensislico-ideale quelle parole nun ammettono alira interprelazione. (i) lo bo inostralo die il simile dclle cose non e die una rdazionc die esse liaiiiio colla inente nosira, e quindi oicnl^ die sia in esse di reale. Vedi add. L. II, c. XXXllI XX.\.V1I. (a) Se la menle riprodnee le.uniU originarie delle cose, in tal case qiiesie uiiilii die iianiio bisogno di esser riprodolle non si trovano nelle siiigole sriisazioni. Se non si Irovano nelle singole sensazioni , sono una fallura della menle; se sono una fatlura della menle, come si puo sapere die die coirispondano alle unita che sono nelle cose? (3) Ho gia nolato cbe I > in qualche modo  svda la'lilubanza del- I'aulorc. (4) P. II, c. X.X, t. (5) II C. M. dove avesse Tolulo, cd era desiderabile, manlcner sempre uoa slessa furma di parlare, qui avrebbe dovulo dire  nd soggello so- stanziale , in luogo di dire  nd fondo d'ogni soggello n. Perocche egli ammelle pur sempre due soggelli roaritali insieme, I'uno fenomtnico e I'allro tostanziale, i quali, a dir vero, mi serobrano tuUo simili a que moslri die iiascono giunti per le reni. 1 Digitized by Google 43o u labile cli cerli |iie, allro die damineltere che gli esseri ttmporali sieno elerni! Niuna maraviglia, giac* die alihiamo veduto , che, giusta il Mamiaiii, in tulle le sostauze avvi la perpeluila, senza rsclusione delle soslanze lemporali. (a) Largoinento i queslo : > Lo spazio non e un fenomeno. DuAque egli i un soggelto. Ma i soggelli sono immutabili, elerni ecc. Dunque ecc.  Ci queslo passo si polrebbe aud'ar Uio sa dove. lo osservo solo, i. che in foudo a queslargomentazionc giace una di quelle prevenzioni ,  soggelti. Tali ana- logic formano spesso il melodo pralico di Hlosofare della scuola, che s'at- tribuisce il nome di tperimenlalt I o.** Che cosa e un fenomeno? quello che spparisce. Ora lo spazio non apparisce egli? dunque ^ un fenomeno, sc- condo lo slesso Mamiaui. Par renderlo un soggelto, doyrebhe il Mamiani moslrare che solto lo spazio apparenle vi ha un altro spazio reale e non apparenie: cosl avrebbe egli Irovalo il soggelto sostaoziale della spazio, sc- guilando i suoL propri principj. (3) Or ora disse che lo spazio non i un fenomeno accompagnato da al- cuii movimenlo. Or qui egli riceve in si u iutti i modi dell esledsione e tulti i fenomeni del movimento . Come si conciliaoo quesle due proposi- zioni vicioe? O questi fenomeni del movimcolo aflellano lo spazio, o no. Se lo affellano, egli non 6 pih vero, che non sia u accompagnSto da alcun nioto M, come avea dello. Se nienie lo affellano, essi non appartengono alio spazio, ne puo dirsi die lo spazio li riceva in se. Onde iMcime ? con- u Adnnque come vero subbicUo, lo spazio dura contlnuo, cioe cc ETEnifo e senza possibile mutazione n (i). Dove ce n'andiamo no'i? se lo spazio ^ eteroo percbd i uti foggelto, 5e i soggetti sono elerni cd imtnulabili, egli dee av- venire che ogoi ente abbia Tassolulo in stesso^ peroccbi qua! cosa ci resta piii a cercare dopo esser noi pervenuti al Fimmulabile ed aireleroo? 11 C. M. vede, ed accetta di tullo cuore ancbe questa inde clinabile conscguen^.a^ coraggio dunque! udiamo ancbe questa sua teoria delPassoluto : u Da viene manifesto, die si nel principio nostro pen*  sante, e st ndle cose esterlori (a), risiede un essere uecessa* a riamente immune di variazione, e identico perennemente a u s6 stesso; il che porta e solleva al line il nostro intelletlo ile, come la dove dice  ogni sasianza dee risidlare di  modi miitahdi, e dun subbielto uoo, iudivisibilc, immutabile e perpeluo  (P. II, c. XIV, II). 2." Ma in altri luogbi il soggello e In sostanza diyengono una cova sol.i e lull e due mulalult, come la dove ficeve |h.t buoiia qiiella derinizioiie  la sostanza e im soggetto die si luodilica  {P. II, c. V, yiii). 3  In allri pure egli da dei modi espressameote al socgetlo, siccbe cnimj piii supra  la soslauza fu falla risultare da dei modi luutabili e da on  faccia con^ere, la realila della sostausa  (P- II, c. IV, IV )i sicclii qiii vba un soggeUo cbe npn i piu soslnnza, r. nou ba ue pure bisogno della sbstanza jier essere conosciuto. 6. Queslo soggeUo fenomemtU perb, die ba  la sua entita nella per- petua Iiiedcsimeiza , e la spon^ncita, cbe oecessariamente si inodilica, coinegli stesso dice (P. II, c. IV, in), di maniera cbe  qualunque atto o dluluizioiie e pure uo modo particolarc e deterrainalo del subbielto w peusaute, o dir si voglia del me ieuomenico  (Ivi). .y, Percib questo soggetto fenometuco che  lia I entita sua ndla per- petua niedesimezza , non b cosi immutabile come il soggetto sostanzinU z di guisa die, in quanto alle cose cslerne, dice cbq a error grave sareblie u di repulare quelle idenlila I'eiioineiiiclte  (nelle quail ripose il soggetto feiion^oico),  le quali vediaino sussrsiere per mezzo iiillnili modi variabili.  come la coslaiite c immediala manilestazioDe dei soggelti conliuui, Iden- o lici ed assoluti . E quanto al principio pensante dice pure , u L3den- U lico feoomeoico (cioe il soggetio Ccooraenico) il quale seiiliamo giacero  iu foodo a lutli i modi dtlU uosira spontaneila, non pub dirsi iiuroutie  afTatlo da cangiametilo  (F. ,II,c. Vil, vii)* . ^ 8. Ahrove|)oi ainmelte cbe In parola  sublwelto sia estesa ft icare  tziaadio cerla lolalilii di rciionjeiii , congiuiili per lolulita di spazi(> d tf tempo, di *ulidiia, di colore, di mulUj e daUi'i accidciili  Rusuihi. Jl ItiiuiovimiaUo, Digitized by Google  Ora si dice esistere dj U dal fenomeno un reale assoIuto| c. IV, VII ). Sicctii  il sublilello  lermina con essere un complesso di Kccldeiili. Dove Jo s/mzio si fii un accidcnte , sebbene altrove il faccia un sopgeUo xostanziaU (V. II, c. VII, ix). 9. Ma non solo il aoggello fenomenale 4 roodificabilc , ma hen anco quello clie sta sotlo alie apparenze, cioe il soslaiiziale; scriveiido in un luogo:  Cbi ben si ricorda il deleriniiialo da noi sullohhielliva coiidizioiie .. delle idee, vedri che a un late soggeiio modificabile risponde Ibrzala- .. menie un soggeiio MODIFICABILE esiriiiseco, II quale ed esisle per s^i, e SOTTOSTA' ALLE APPAHENZE SF.NSIBILI  { P. II. o. V , 'viii). 10 Sparila adimque I immulabilil^ del soggeiio lanlo Ibnomenale cbo soslantiale, converri ancora ricercarla, se essa iii alcuii luogo si : ilrova . nella pavera soslanza prirnn sqiiarciala fra modi variabili e soggeiio inva- rialiile. Di fallo il Manq^ui dice, che  si nel principio nostro penSanIe, e -si nelle cose esieriori, risiede un essere iiecessariamenle immune di va- .. riaiioue, e ideulico pereniiemenic a se slesso: il die porla e solleva al -fine il iiosiro iDlelleilo alia vera nozione della sosltmza > ( P II c. VII, .VII). ' II." Se non che qucsia snstanza di miovo si fa sinonimo di soggrt/o, che diviene ancliegli iinmulabile , soggiungeudosi alle snrnferilc parole quesle allre: .. ciui al suhbiello uuo, coulinuo cd immulabile, assolulo c uou re- lalivo M ( Ivi ). 12 Ma chet non solo la soslanza ^ rilornata immulabile; lya in uri allro luogo anche 1 siioi modi aeqnislano iPiin Irallo rimmulahilili: - I modi .. proprii delle soslanze sono un alio perpeluo ed imniulahile di es.se. Dalo .i (fvi). Dairaltraj cnme si iiomina Mi so* pra uua sostanza passiva, cosl qui pariipente si trac in cainpo un soggelto passive ( Ivi ). i5. Qurslo niosircrcblie, die le azioni non apparienessero mi ai sng. grill, ne alle soslonze; cioi the ne le Snsianze, tie i soggelll Tossero qiiellt che agissrro. fegli e pero facile a veclrre, che se non operano ni i sog- geiii ni le soslanze, non riman pin iin principio che possa operalc. PerA ii C. piegasi docilmcnle ad un riiiovo pensiero. La sosianza riceveta i movimenti, le azioni diverranno orf^tini della prinin eOiiienza, Ci6e del soggelio, c queslo pero non opet era se non niediatamcnie, per polere slarsl feimo p noM isuoversi:  Se^o  da cic die o^ii azione esterna a cut *1 surcede tina mutazioDC, e vera e cvrla dlieieiiza , ossia i vrro organn  dellrt priina efTicienza , peroerhe sc 1azione non pjnelrasse in mmierii  arcana nclla Intimila della sosianza passiva , qnesla non 'p6lrelihe c.m* M gihre, Marile chVIla non pud essere d principio drl cangiaideuto : rim*  pnlso poi immediato non pm> venirle ddia prima efiicicoza. iniprrocfhi t* questa essrndo immntahile nnn agisre con iniilazioncM (P. Il.-r. XIV, 'll). Qiiesia mnniera di ragionare e pure ollrcmudo smgnlare. Dicesi che il -sog- gello, la pnma eBicienza non pud dare I'iiopuiso iintnediiilo alia suslun^a passiva. Or^mc, questa prima eflicieiiza opereia inediaUinienlc ; che, cos'd questo mezzo? razioue, organo della prima dtlclepza , dd soggello. Ma I'azionc e elU mnto o qulcle? Se r*zlrme e qniete, noli la milla. Se e ^oio, lorna la dinicoll^, come il soggelto immuiahile prorlura immedialameiiie Laziotie. Vorremmo uoi suppoire un aliro mezzo fra Tazioue e il Soggelio? di nuuvo, questo mezzo o Sara fpossu ilal soggelto, o no. Sc flo, egU nou rierve alrun impnlso nd attivila; se s1 , il soggelto adunqiie gli coiminicii immedialamenle il molo. Ognuno mtemie, che con un simile ragionarncnlo SI iroverehhe una serle di rnezxi inhnili fra il soggelto op^Fanle c la so- sianza che riceve Vazione, scuta the quesrazione giungesse pciNj ituii ^ pe* iieliare uelia sostauz.a. Percid lasciato da parle ^lesto operate mediato della pritna sosianza, ci vengono innaiizl i soggelli non pitl inerli , ma opcranli di tutta Irtiaj *4 Ii cangiamento d delcrmiiialo dairatlivita del proptio suhlnellO  ( P. il, c. XlV, ii). ij? Medcsirnamente le sostanze diventanO alliVe, (enendo in sd fn ca- gione de* cangiamenli ; u II cangiameiilo dec venire delermcu|.vauo dicliiaruli iiiulabiti, la lilulhbilit^ pui alle Digitized by Google u rartgiamciito  (i): v poco piii soUo clicr ancora, die *.sotfo w i fcuomeni o mulabili o identicl esistono 1e vcre soslanze , in  cni risJede Iassoluto di toltc le cose  (a). Di pi^l ancora, lo spazio medesimo sara un assoIuto(3), per- ch^ i uii soggetto sostanziale, e lo spazio poi cos'i immaglnato come una sostanza, infinita) immutabile, elerna, necessaria, sostaDze cbe pnma immutabili si dlchiaravnno:  efTflUiare: da che manca in H loro it principio nltivo, concedendo 'll quale ei divengono tosto vere e M rcali sostanze ** (Ivb iii) 19.^ Ora siccottie Ic sosianze e i soggelti allivif operando cangiano, cosl anchc i soggelti passivi non sono immimi da canginmento:  : peiu e curnessa m.ileria lirnilalo e leippo* raneo in quaulo ^ realc : in qinmlo poi e ideale, ba solo iininfinita idede o possibile come lullc Tallre cose. Qiieslo k ci6 chc io ho dirnoslrato nel IS. Sagf*io Sez. V, c. XVI.  'La filosofia che io^egnasse essere lo spazio qualcbe cosa di realc, e lullavia essere elerno per sii.i natiira, cio^ neces- Siirio, non polrebbc inai venire acectlnla dalle niizioni crisliane, imperoc* cbe io qualsiasi modo s*intemla , ..sarebtur senqire direttanieutc opposia ai dogmi delta loro religloue. Per chi duncpi^ sciivc il C. M. se non iscrivc per qm lla parte di mondo die professa il rrisliariesirno ? Digitized by Google _ . 4^7 inrliiiKlrra neressarlamcnic nna forra. Non si ritira il C. M. TtiUo ci afferma; non csila pnnio a provare con si fatto ra- gionamento, che tulU) k pieno, e die non si da vnoto in Datura : * a 11 primo (concetto certo) i qtiello cbe nega la possibility u lie! vuoto assolulo. E dl rero, se la forza di resistenza i un u rcale subbietto (i), ella 6 continiia e Inddinita, e percIiS in u'qnalunqne parte (fello'spazio sta apparcccbiata ad agire. Cbi u fingesse il contrario e Immaginasse la forza di resistenza In- u^errotlamente distribnita , convertirebbe il continuo e 1 in- u definilo nel discontlnno e finite  (a). E poco Innanzi:  El u non sembra possibile a conceplre (3) cbe la forza niotrlce u esterna cadendo sopra un perfetto continuo quale 6 lo spa>  zio agisca in una parte piu die in unallra n (4)- ,Egli pol in alcun luo^ distingue due forze, cblamando I'nna u estensiva n, l^^ltra u di resistenza . Lascia pcri^ in dubbio sc I' una sla forse uh modo dcllaltra (5)^ ma ad ogni modo ciitimbl Ic vuole Infinite, e il loro nesso pure necessarlo e perpetuo: u Tali due force (dice) trovandosi unite e contem-  perate Iuna con Ialtra, s'inferlsce dalla cognizione cbe pren-  ri- sponde, che I'opirtione che la materia sia inerte nasce unica* ^menle dallcsser essa immulabile, secondo la natura de sog* gelll: e dal non potcr qnindi essere cagione immedigta di moto. u Quanto al credersi dall'universale che simigliante suhbietto e sia inerte, *cioi che il raovimento non sia un modo essen-  ziale di sua natura, a noi sembra agevoie arguire cif> dal* (I) P. It, c. Vt, vii. M se vi sono clifferenie di alll, qiicsia fon agtsce dilTrrcnlemenlc in punli divetsi. Come aclunque dicesi rtie soUosla egua- lissinia a tulli gli essuri? onde nasce la incguaglianza della sua allivila ue* uoi aiii? da un principio inleriore a lei,4i'rslcriorc 7 la P. II, c. VI, VIII. Digitized by Google in(!la propria del moto , la quale consta di mutazioae: e u quindi non puii ricevere it principio suo inimediato (i) dal- u Iessere, i1 quale non cangia.  Ma perchi da un lato i II corp! si tnucnoDO e a^umono diverse figure, che sono modi u dcIl'estcnsioD resistente, dallaUro nulla puu succedere in a una sostanza contro la sua natura essenzialc, se ne trae la u conseguenza che nel subbietto comune dei corpi risiede una  perpetua facolt^ di muoversi e di figuracsi (a), ricevuti (3) K avanti gli impulsi correspetlivi  (4). ^|'e si creda cbe questa facolt& di muoversi sia meramenlc passiva. II C. M. da alia materia, a questo mirabile suo sog* getto, e dee dare per I'esigenza .dcl'suo sistema, anebe la forza molrice, sebbene questo Ialfcrmi soTo come probabile (5).-  Di tal secondo iiiiiscro (delle opinioni molto probabilt) a i quella, per cni il Vico diebiara, Isi forta motrice, o come  egli fappella,.^! conato essere uguale per tutto c pre%ente  in ciascun minimo dello spazio e non difrerire da si me- u desima per variazione quabinque di moto.  Questa opinions u del Vlco si trae dietro Ialtra, la quale pone cbe ogni por>  ziuncula di materia possieda del suo il principio motivo gia  ricevuto da tutto il subbietto (G), e cbe in conseguenza -* ' (0 Come>Co 'nolato di spprs, se il soggelto sen puo essere principio immeditlo di moto, ni pure pu& essere medialo. Perocebd o questo mezzo di cui si vale a produrre il moto, egli stesso si muove, o nou si muove. Se si muove, torna la diflicolla; il soggelto sarebbe imiiiedialo principio di molo. Se -non si muove, n^ pur egli per la slessa ragioue polrli essere prin- cipio iminedialo di mglo; iiia avrk bisogno d' aliro mezzo; il die ci reebe- rebbe ad una aerie di raezzi ioiinita, ne verremiiio mai ad avere I'eUetto del molo. . (a) Ma non toroa qui la diOScolla cbe si vuole scliifare? se il soggelto ba facolt^ di muoversi c di figurarsi, uoii ^ egli duiique variabile? (3) Da chi verranno quest' impulsi? Si avverla che il soggelto di lull! i coipi e uoico: se non vettgon da quest*, non possono venire da corpi cbe non sooo cbe suoi modi, lutrodurrli il C. M. uoo spirilo molore univer- sale.^ di ci6 noo ci ba vestigiu ne) liliro del N. A.,,o tarebbe cqntru a' suoi priiicipj. Noo veggo uu' uscita da taut'angustia. U) P. II, C. Xtv, IV.  (5) Mu se questo e solo probabile, anebe tullo il suo sistema uou puii raggiuugece la cerlezza, ma sefMa probabiliia. ' , t6) L uaico ed eleriio subbietto adunque, la materia, e sempru il graude eg* ut. Digitized by Google 44o  vano e supporre la comnnicazione (i) del moto da corpo a corpo  (a).  E qui egii i prezzo dell' opera il notare pero una nolar bile difTereoza fra il sistema del C. c quello del Vico die egli allega, e della cui grande autorila par volersi (iaucheg* giare. Perocclii bramando uoi di esporre qui tuUa la tela del sistema del N. A., cio la terie dclle conscguenze, a cui venne iiideelinabilnieiite coudolto dall'avur>mes90 quel primo prin* cipio, a doe di spiegare rimmulabilila e Iinliaita delle idee, cioe che ancbe nella nalura esistono cose imuiutabili ed infi' nite^ egli 6 troppo necessario cbe noi ajutiamo il leltorc a bene intcnderlo, segnandu qua e cola quelle diversita, che da sisteiui al suo alEui aelHapparenza il dipartono, e uiassime da quel di Vico, col quale sarebbe agevol^co$a il confonderlo e niescolarlo. .  Stabili adunque il Mamiani, essere la ma(eria un soggelto unico, universale, immutabile, necessario, inllnito. Ora egli pare che dia il. nome a queslo soggetto anche di  prim* ef- u flcienzan, e attesa 1' immutabilila sua, dice non poter .essere il principio prossimo del movimento.  Ogni azione esterna (cosi egli) a cui snccede una mula- u zione, ^ vera e certa eldcienza, ossia 6 vgro organo della  prima eilGcienza (cio^del soggetto immutabile): -^rimpulso  poi immediato non pu6 venirle ( alia sOstanza passiva ) dalla  prima efGcienza, impcrocchi quesla essendo immutabile non  agisce con mutazione  (3). Cbe fa diinque questo soggetto immutabile, questa prima elTicienza? ella produce quelli che il Vico cbiama i conati, o come disse il Mamiaui uel passo poco sopra citato, uogni por- B ziuncula di materia possiede del suo il principio motivo  B ricevuto da tutto il aubbietto n (4). Si attenda dunque la diflerenza fra i due sistcmi del Mamiani e del Vico. 11 Mamiani distingue 'Ue cose, la materia soggetto, H prin- (i) Quiodi debboQO pure csser vtioi ^Viniputsi estenori , cliu inlroducc ill qursia (eoHa del Vico Doa lro[>j>u a pioposilo il C. Mr Vedi il Vito DcU iintichissimn sapient^ etc. C. IV. ' (j) P. H. c. \lV, V. (!}) P. II, c; XIV, 11. (4j Ivi. Digitized by Google 44i cipio motive comanicato ad ogni parttcella di n&atena da'tutto il soggetto, e fioalmente A movimento. ^11 Vico distingue pnyetre cosC) Iddio princlpio di ogaimoto, ]a materia nella quale Iddio pose U oonato o principio tno* live, e finalmente >1 moviniento^ di guisa, che dice u Dio mo tt tore di tutt6 le cose rlposa is sh stesso ^ la materia ^ ia co-  nato^ il corpo esteso d in moto n (i). Ciascuno inlende qual diiferenza passi fra il sistema clelG. M., e quello del Vico (a): procediamo innansi nella esposiaione del primo- (f) DeWantichissima sapienta ece, C. IV. (3) 11 Vico parUndo della materia, la distingue in metafisica c fisica. It Onttto rattribulsce alia materia metaBsica , alia (isica il moto. Iddio pot i quegli che da il cooalo alia aateria melaBsica, a cui talora dii il nome dt universe. Fin qui il Vico h rhiaro, e questo basta a vedcre quanto lontano da lui si trovi il nostro C. M. Dopo di CIO, cenfesso che In dotirina del Vico intorno alia materia SafiWca mi i oscura, e non giungo a conciliare fra loro i diversi luoghi ia'J^ cui I'aculo napoletano ne ragiona. Ve ne sone motli, in cui pare che per quesla materia metafisica egli intenda qualche cosa di reale e di sussislente, come quando fa consisiere in essa la sostanza de* corpi. In aliri allopposto quesla materia roelalisica' viene descrilta siccoine uoa mera astrazione della roente: e qnesti iiltirm luoghi a me sembrano piu chiari de primi, e quelti Hit; cooicngono vera* mente la metilc del Vico. E per fermo, che pub avervi di pib chiaro delle parole ova dice" m il mondo fisico consta di cose imperfette , e indefMiila M mente divisibtit, dove il mondo mctaBsico consta dlou, osaia cose ou v time, ciob di virtb indivisihili, che sono d'una indefinila rfllcacla m (Z>e/> Iantichiss. sapiemza, c. IV). Qui si dice chiararnente, chc it suo mondo meiaBsico k purameote il mundo delle idee: e perb la sua materia rueiafi> sica non sembra dover essere che un essere ideate. In questo modu'd'io*^ lendere il Vico, mi conlerma il vedere curne T uomo grande sia. in laiui. ahri luoghi piu che plnlonico, e piu chc maiehranchiaoo, di guisa die eglt Dun cen:iura gia questiillinio Blosofo per aver fatio troppo dipetulerc U nostra ineotc da Dio, ma piu toslo poraverla egli Bttia dipendere dallenie supremo trnppo poco: * Quanto a noi, dice, ienghiamo pt^ fermo che  Dio Ma Tautor prin^o di tulti i moli, si dai corpi, cbe degji snimi *- (Ivi, csp. VI). E ancora egli preteode di confirmaro la. sua dotrrina. ioiorno ai punti di Xenone colTautorita di Pillagora, di Timeo a di Pis. lone, cost dicendo; m Ne antlre Pittagora ed.^ i suot segtinci, dni qtjali ci b M perveouto il Timeo di Platonc, quando rtigionavano dello cose della na^ M lura, si sognarono mai die laaatura coiislusse di mimeri;rna sliigegna* w rono cssi di spiegare il mondo* ch* era fuuri di essi loro, pt*l mezzo di.  qtui rnoodoCIIB KKMJA I.OKO MtNTE SEUANO CWMPOSTO- itosMi.M, U Jiinnoyamrnto. 56 Digitized by Google Conviene ossarvare, cbe il Mamiani tommetle tatte le cose mutabili alle le^gi della contiouiti, dicendo  Tntte le cose per- il tanto cbe esistooo, qnalora matioo, o sieno capaci di mnta- n-mento debbbnorisultaredi continuity edisuccessiooen ;eque- sto trova essenziale a tntti i subbietti, soggiungendo  cioi a dire  cb'elle sono vere sostanze e veri subbietti modificabili  (i). (Iti, c. IV). La materia adunque roetaflsica del Vico non  cbe la male- ria eomune intelligibile di a. Toromaso, la quale poi non i cbe una pura ides aslralla (S. I, lxzxv, i, .ad 3}. Aoxi qui appuoto il santo Dollore ri> fiula Plaloile, cbe voleva aiusislere veramtnle uoa tal materia, nod conai- derando chella ai forma' da noi per iin modo apeciale di salraziooe: El quia Plato non considervvit , dice I Angelico , quod dictum est dt duplici modo abstractionis , omnia quae diximus abstrahi per inlellectum , posuit ab$lracta esse secundum rtm. Di qui ai rede, cbe, quaodo il Vico dice cbe quells materia i la aoatanu de corpi, non pud ragionevolmeole inteodere, ae non cbe aia Videa della sostanza, ovvero cbe aia la soslanza rilerita a corpi, e non preciaa da corpi; il cbe moatrrrebbe come il Vico tolae an* 'cbe qiiealo placdo dall'Acquinale, il quale acrive appunto. Materia  inlet- ligibilis dicitur substantia secundum quod subjacet quanlilati ( lai). Uo nuoTix, cooforto riceve queata nostra maoiera d'inlendcre il Vico dal vedere cbe la aua materia da il soggello alia malematica; il percbd dice della doltriiia di Zenone, col quale preleode convenire, coal:  Erroneamente ai atima  la gromctria depurare il suo soggetto dalla materia, o, per parlar Code M scuole, aslraerlo da easa materia: perciocclid gli Zeoonisli erano anii > Delia persuasioue cbe niuoahra scieiiaa tratlaase la materia con maggior  preci.iioiie ed eaalteixa della geomelria; iuteiidendo perd di quells ma*' - teria cbe pura le veniva somniinislrata DALLA MENTE, ciod della r virtu dellrslensione - { DeWantichissima sapienza- ecc. , c. IV). Or cbi non vede cite i roatematici non liaono per soggetto cbe una quaotitii pns- aibile, delle idee asiratte? E aiico qurato conviene a capello con a. Tom* maso, il quale iuaegna cbe species-mathematicae possum abstrahi per intel- leclum a materia sensibili, non lamen a materia inielligibtli communis sed solum indtviduali ( S. XLVI, 1, ad 3), Fiualmente cid cbe piu mi per- suade, il Vico infendere per cosa idealc la aua materia metafisica , si i it vederlo aempre religiose men I e aderente alia cristiana teologia. Ora egli non BVrebbe biaaimato giammai Cartesio dell' aver puato. la, materia creata a diviaibde , come sembra di fare nel C. IV dell opera citata, quando in- leiidesse per materia quaicbe cosa di reale e di ausaistente; perocebd ua errore ai grave contro il dogma de crialiani non poteva il Vico proferirlo ne per ignoranza, ud ^er volonlit.'  Egli d diinqu'e da dire, cbe in que luogbi, dove pare cbe alia aua materia metaliaica aggiunga quaicbe rea* liU, egli iutendii di quaicbe proprieta delle idee, o di qualc.be attiludine dell'eleiiienlo niateriale, quale giace ue* corpi, eJ- d iudiviaibile da essi. (I) P. II, c. XIV, 11. Digitized by Google 443 Coerenlemente a tale doUrina^ conviene che anche nel pen- siero siavi inchiusa la percezione dello zpazio, soggetto univer- sale^ e cost alTerma :  Net senlimento (egli dice) il quale co-  stituisce Ioggetto perpetuo del pensiero i sempre una perce-  zione dello spazio, della solidita e del discontinno, e un moto  correlalivo. in alcuno det nostri organi: dai qnali fatti poi  riscuotono il lor principio im'mediato le nozioni general! della  causal! la  (i).  quindi esce il concetto del tutto assoluto, venendo ogni cosa, come vedemmo, ridotta a quel soggetto unico, inimuta- bile di tutte le cose mutabili : sicch6 dice, a Gotesta intima unione dell impenetrabile e dell obbiettivo  visibile con Iesteso 6 un fatto primissimo cos'i vero e certo,  quanto misterioso allumano giudicio. Per simile fatto not u siamo introdolli dalla natura a conoscere fuori di not i com-  post! inseparabili, o vogliam dire cbe alia notizia dellasso- u luta unita e del multiplp assoluto' aggiungesi la notizia al  tutto assoluto  (a). , ' ' ' * In questo  tutto assoluto  per altro il C. M. riconosce an primo ente, una prima cagione^ ma io confesso, che per quan- tunque atlenzione abbia collocato nelle sue parole, non'neho potato tnai capire il chiaro concetto. E dal principio di causa chegli deduce Iesistenza di questo essere. Ma primieramente egli dichiara, che  per le cose eterne e immutabili giammai anon giunge Ioccasione di applicare il principio (di causa)  e conoscere s egli sappone alia verita. Che qualora si pensi  un essere (dice) cui non fece mai bisogno di venire deter-  minato o.prodotto, e un 'altro essere coetemo con lui ed in-  commutabile , qual cosa ci fara credere uno IeflTetto del-  Ialtro? forse perchi Iuno esercita, sopra 1 altro una virtii  determinatrice? ma se tal virtu nulla cangia e nulla princi-  pia, per niente le si compete il nome di azione causale n (3). Or queste cose immutabili che si pedsanocoetemealla causa prima, sono essi i soggetti dichiaraU. tutti' dal nostro autore immutabili? o t la materia infinita, soggetto universale? o 6 anzi quella sua, una pura Supposizione? (j) P. II, e. XIV, II. (a) P. Il, c. VI, VIII. (3) P. II, c, XUI, IV. Digitized by G.:  >^Ie In seconJo luago, io non rinvengo in nessuna parte del libro del G. M. cbiaramente espressa la crcaaione della materia dal nulla; anzi, se ci6 cbe dice della materia si dee inteddere stret- tamente, ammettendola create si contraddirebbe. Anco I'idca dominante di causa nell opera del Mamiani ^ nna virtu cbe deUrmina gli esseri ne loro modi, e non cbe li trae dal nnlla; e per6 cbiama la causa ulesistenza determinatrice n (i); alia prime causa, al primo entc attribuisce di essere  quel cbe deUrmina n (a). Di piu, egli dice espressamente:  sono per-  tanto gli esseri tutti determinati da un primo ente; per6 al  modo della loro determinazione non pu6 costituirsi legge vA- u rnnd, dedotta dal solo principio di causalita  (3).  qui si considcri bene ci6 cbe il Mamiani vnol dire. Egli sostiene, cbe il principio di causalita non contiene altro decreto se non questo, cbe in una serie di termini, ciod di ca> gioni ed eUTetti  il termine postcriore sia sempre diverso da jiogai anteriore e in una certa guisa prestabilita . (4)y ^ questo, Mcondo lui , sta il concetto, della  ragione determi- natrice  , o della causa. Perci6 dice, cbe il principio di causa non basta a sapere se Iesistenza del termine posteriore venga prodoHa o solo occasionata dal termine anteriore, o sia, se () P. It, c. XIII, III, Qui il C. M. dice beosi > cbe Iesislepza deter- > ruioslricc m, cioi la causa  non pure anteccde di piene necessitii Iesi- > slenza nunra, mt eziandio Ip dclermioa rispelto al modo e rispetio al r tempo . Ma aaeodo egli falti i soggetti eterni, non si vede come questi apparleogaoo alle esisleiize nuove; aembra anti, cbe nuove esistenae siena Del lioguaggio del C. M. unicaineute i modi variabili de' soggetti , o del soggetIO universale. (a) P. II, c. XIII, III. Qui egli viiol trarre Iidea della prima cagione dalla mente di nn idiotS) e a lal fine Iioterroga sulla supposizione cbe Id. dio cangi un albero in fonte, e questa in liore, e il liorc in animale, e ci6 per la sua polenza creatrice. Ma quando anco la supposizione non avesse dell'assurdo, e non fosse grandemenle anli-filosoQca , ella non servirebbe pero in alcun modo a chiarire Iidca di creazione, o a darne alcuno esem- pio, perocebi il trasrotraara Iana cosa nellaltra, non. i gii cavare dal nulla; ni chi solamentc avesse la virtu di quelle trasrormazioni, si potrebbe chiamare creatore giammai. Non si puo adunqpc dire acconciamenle cbe quell'ente cbe determine .sia  la cagione prima, elEciente e necessaria di  tuile le cose  (P, II, c. XIII, iv), perocche non isl4 Iesser cagione ef- Ceienle nel solo concetto di essere unesistenza determinante. (3) P. II, c, XIU, VII. . ) Ivi. Digitized by Google ^45 I'antcriore che qnella seric determina  sieoa esistiinze valevoH ad agireluna sullaltraiDUinecamenten,sebbene qaesta ipo* tesi si verifichi nelPordine mondiale dell'uniVerso  (i). In terzo luogo, io peno inolto a riavenire nel sistema del Mamiani Iesistenza di uD Dio che sia veramente diverso dalla materia, gia dichiarata soggetlo immutabile, eterna, prima ef- ficienza, assoloto, principio del moto ecc. Ed ecco onde proce- doDO i miei dubbj. Da prima, se la materia ha quelle qnalita , ella noa puu a meno che esser Dio, conciossiachi le quality che il Mamiani, se ben lo inlendo, le attribnisce, costituistfouo un Dio. Di poi, se v' ha Dio, e se con lui coesiste eterna qnella ma- teria soggetlo di tutte le cose^ questo ha diviso 1 imperio^ non i pill vero Dio: saremmo in una idolatria, in un sistema di due principj. Appresso, se la materia i Iimmobile principio di ogni moto, ella i che fa ogni cosa; non riman piii nulla che fare a Dio', il qual diventa la divinita oziosa di Epicuro(a)^ tanto pi u, che dehnendosi il primo essere  cagione determinatrice  , in vece che  cagione vera, creante nel proprio signiGcato  , basta il principio del moto a de(erminar le cose, Senza bisognd daltrp. Ancora, Dio non si dimostra nel Hbro del G. M. che CQme la causa priqia (3). La causa prima i la determinatrice degli esseri nelle esistenze loro variabili (4)- 11 principio del moto li determina, e questo i la materia. La materia dunque d la causa prima, la ragione determinatrice, Iddio. Arrogi a questo, che fu detto dal Mamiani il principio di (i) P. ir, c. Xm, VII. (a) Omnit tnim per se diy^ naittra necesse est Immorlali aevo summa cum pace fruatur,-  Ipsa suis pollens opibus, nihil indiga riostri. , . . Lucr. I. (3) Ds queslo sale concetto prelende dcdurlo (P. II, c. XIII). ben tutialtra cosa Iargomenlazioiis a pridri di santAnselmo ( Ved. ancbe il c. XIX della P. II); ' (4) Ricapitolando . il Mamiani quello che area detto oe capitoli prece- denli intoroo la prima cagione, coal si esprinie:,i> Noi provanlmo nei ca-  piloli XIII e XtV che v ba necessariamenie un usere dstumimantz tutte  le cose, SOSTSONO e principio deUuoiverso m.  In si fatto ordine di csistehze domina pertanto nna ca  gione prima assolufa, e una serie vasta e innumerabile di u seconde cagioni  (a). Tale e nonaltra i 'P argomentazione ond'egli intende di pro* vare Pesistenza di Dio, cioi della prima cagione, a quel modo ch' egli. la concepisce. Ma in una tale argomentazione si pud egli dlstinguere, dopo le premesse dottrine, la prima cagione dal soggetto delPesten* sione, la materia? (i) P. II, c. XIII, VIII. (i) Ivi. Digitized by Google 447 Anzi quel ragionare m( trae a confoDilerlo inevitabiloieDte con essa^ mi trae quindi, come meglio piace denominarlo, o in un pmteumOf facendo Dio materia e soggetto di tulli i feno- meni, e alia materia do il nome di Dio, o in un matc/'ui/iVmo, te a questo Dio do il nome di materia, o-in un ateismo, se giungo ad intendere cbe quella materia, a cui io do il nome di Dio, non merita punto n& poco un tal nome. Perocchi queUargomfcntazionc.ai riduce tutta n dire, i.*che in ogni cosa v'ha un soggetto immntabile e insensibile, e de modi sensibili e mutabili^ a. cbedunque ci dee avere la ca- gione prima di queste mutazioni. Or dopo essere stato delto altrove, cbe il soggetto immutabile, eterno, universale k Vesten- sione, e cbe questa da ad ogni parlicella della materia il prin- cipio motivo o il conalo^ cbi non vede essere impossibile con quella argomentazione riuscire ad altro, fuor cbe a questo soggetto materiale, a questo Dio-malerial Io per6 dichiaro solennemcnte, cbe potrei male intendere le dottrine del G. M. in argomenti cosi dilicati: cbe ])er& io non vo' qui pronunciare sul vero signiflcato da darsi alle sue parole, e niolto meno sulla genuina intenzione delPanimo suo. Io bo posto quella diligenza clie potevo, a raccogliere la serie de' suoi ragionamcnti, col confronto de' pass! paralelll; ma non posso dire tffttavia, cbe la mia diligenza abbia colto nel segno. Confesso solo ingenuamente, e senza voglia d'olTendere I'uomo cbe stimo, cbe quanto d'una parte m'atterrisce I'attribuirgli legravi opinioni (in qui accennate, altrettanto elle mi sembrano consegucnze necessarie de' suoi principj, e' indeclioabilmente procedenti da essi, e ci6 soprabbasta al. inio intendiniento , quand'anco al C. M. non appartenessero veramente (i). (i) CoereDtemeiile a principj esposli il C. H.jiicliisra a pieno immula- bill le Irggi mondane; m E per fcrmo (dice), pongoiio qursle (le noslre  ideduxioni) cbc i subbielli tulli qiianli souo iiiinialabili e che i cangia- N nienli debbono riuscire conrurmi iii piii ne ineno alia natura perpetua  dei subbielli allivi e pastivi m. E soggiunge: > Ilanno capo in quesia im*  mulabililli universale tulle le slice inaisiiiie direllrici delle nalurali spe> M culsxioni, come a dire I'assioma cbe ogot elTelto dee srguilarc' I* rndole  della propria cagioue, e cbe a identico ctTello risponde cagioue idcnlica Digitized by Google Veramente, in qnel siitema, nel qiiale le idee non tono che puri modi dell'anima, ed effetti del mondo esteriore che opera su di noi, lasciando in noi uoa modificaiione conforme alia nostra natnra (i), e nel quale tuUavia si riconosce nelle idee i loro caratteri sublimi e fulgenti, dl necessity, di universa- lita, di'eterhit4 ecc.; nOn rimane alcana via a poter dare qual- che spiegazione di q^uesli caratteri , se non quella di traspor- tare i caratteri medesimi nella supposta cagione delle idee, cioi nel mondo materiale, e in noi concause concorrenti a pro* durle. II perchi convien dire, che noi e il mondo in qualche modo siamo necessarj, eterni, immutabili ecc. E poichi tutto ci6 che cade sotto il nostro sentimento i muCabile e passag* gero, convien ricorrere a una sottil distinzione fra il sensibile e I'insensibile, fra il fenomeuale e il sostanziale, dicendo, che tutto passa e si muta ci6 che ne apparisce, ma che per6 sotto a ci6 che ne apparisce si giacciono nascosli deglinvariabili ed eterni soggetti, i quali formano siccome il nocciolo occnlto, solido e midollare di tutta la grande macch>na appariscente. I quali soggetti poi gioverit alleleganza del tistema di' farli rientrare in un soggelto solo, immenso, dimostrandoli conve- nire tutti in una stessa- universale e identica natura. Tali sono le conseguenze dirittissime , inevitabili, per chi non rinunzia alia logica, che discendono da quel principio, cuioggidl molti abbracciano in Italia si incautamente, cioi che  le idee sieno delle uiodiGcazioni o de' modi del nostro principio pensanteo, e nulla in si roedesime. ' Or di nuoTO, vorr6 io attribuire al C. Mamiani cost strane dottrine? polru io deliberarmi a crederle veramente opinioni > e ci6 in (ullo lo spazio e per lulto il tempo ecc.  (P. If, XIV, iv ). K fuori del tempo e dello spazio non v* ba dunque aliro a cui applicare il priacipio di cagioue? Ala mi si conceda iiti'ahra osservaiioue. Ondu df- dusso il C. Al. la immuubilila deilc leggi dell* iioiverso? dali immulMliiliia de* aoggeUi.'Oode I'esiaieuza dc* soggeui ? dal principio di causa. Qurslo principio oduqque e anteriore alia scoperla dell* iininulabilila delle leggi mouditue. Come duuque (bee cbegli mcUe capo in quesla immutability? (0-  11 caugiatiieiiiOj dicu il C. Al., e dctermioalg dali' aUivila del pro- M pno subbicUo ccc. * (I*. 11, C. XlV, ii, Digitized by Google I 449 e sentenze del religioso cantore di quella diva, a,cai an leg- giadro priego volgendo , dicea :   per fiorito tt Sentier di filosofica dottrina u Trammi a gustar del cibo, onde si larga ^ tt Mensa imbandivi al too dedaleo iagegno. m Fa tu pietosa almen che non m'asseli  Un venefico nappo, al qual chi beve,  Scorda la nobiltil di sua natura ,  Ti'a i brut! si rassegna, e delle cose  Al governo ripon muti elemenli ,  Che forman gli astri e lo perchi non sanno. Sebbene adunque io ritrovi le sopra esposte dottrine nel li- bro recente del Rmnovamento ddla JUosofia, mi gnarder6 tat- tavia dallattribuirle ailautore degl//tm sacri} e non penser6 pure che sieno sae; ma prima stimer6 d'avere io stesso mala- mente intese le sue parole. Or poi mi fermer6 io qai a riGutare tali dottrine? Bastami averle esposte: conciossiach^ di riGatarle direttamente non ne veggo nn bisogno al moodo. L Europe, acciocchi abbracciasse una cotale GlosoGa, dovrebbe prima rinnegare il Gristianesimo^ ed io stimo che I'Europa non sia per avventura presta ad ab- bandonare la sua religione. Parimente non pn& aver vigore cost fatta dottrina GlosoGca sulPanimo di que'milioni di Cri- stiani, che si trovano nell altre parti del mondo. Per chi scri- veremmo dunque una confutazione? o pih tosto da quai popoli potrebbe abbracciarsi ana filosoGa non volnta da popoli Cri- stiani? Ella pugna egualmente colU pin parte delle religiose credenze, per non dir con tntte. Pad easere, che si trovi una qaalche analogia Ora la dottrina esposta, e le religion! dellIn- die. 11 Buddhismo, per esempio, in vece dellente supremo am- mette uno spazio luminoso che in s^ contieae tutti i germi degli enti futuri, secondo il sig. Klaproth (i): questo spazio. (i) Nell* Persia tllincoDlro pare che Zoroastro inettesae per prime principio il Tempo; giacchi il sovraoo essere poteotissimo ed infiaito T- nia da lui chiamalo Zemant-Akertne, il tempo assolulo. Rosmuii. Il Rinnovammto. 7 Digituffed by Google principio di tulli i modi deUunirerso, lia non piccola ilmlli- tudinc col soggello unico, neccssario, universale descrittoci nc looglii addolli dal C. M.: e che perdu? Agli apologist! del Crislianesimo, clie Tinnno coofulalo il Buddliismo, rimelto di buona voglia la causa: scrivo per IEuropa, non per le Indie: amo di parlare a' Cristiaiii: amo di esporre agli ocelli di que> sti una Hlosofia crisliana, conviolo, s\ come sono intimamente, cbe basli esporre una cristiana filosoGa, bastl oltenere cbe sia intesa, accioccbe gli uomini tulli la scnlano falta per si^ coo* vinto ancora, clie non ve nlia ncssun'altra nh vera, n4 uniana, ni beneiica, ni possibile. J CAPITOLO XXXVIII. COMTINUAZIOKE. 'Rimetlendoci adunque in via, osservo, che tutli gli errort acc^nnali nel Capilolo precedente'nascono dal concedersi alle sostanze ed a' soggelli una invariabilila assolula, in luogo di vna invariabilila relativa. Nel IV. Saggio io- ho dimoslrato, che P invariabilila ^ cosa che apparlicne a\\' essenta, ma non alia soslanza, e perdu non entra necessariamenie nella deGnizione di questa. Ho, and falto vedere, che la sosUnza consisle unicamente nell'altivila prima dellesistere, la quale allivila non trac seco come necessario conseguente la dote di una immutabilila perfetta (i). E col* Paver io posla la uozione della soslanza nella ntliVilA.anzichd (i) Ho anco avvisnlo ncl iV. Snagio (Sez. V, c. VII, art. x) nl pericolo cll oflere in qiieslo errors, freqoenie nc llbri de* filosofi, di far consislere lii,nozioDe dslla soslanu ntW invariiibilila, cost diceudu:  Tuluvia e bea m facUe airimmagMiazloae , cbe sempre opera iulorno allc uoslrc idee , e  con esse direi quasi si Irastidla, di unite a quelle oozioui si semplici  quaicbe suo ornainontuccio, die sa tulle coiifoiidere^ Ic nozioni prime e m iiclle della soslanza c dcllaccidente, mescolando con loro delle propriety I cbe SODO forse coaseguenli a quelle, ma non sono quelle. E una di que-  sle e \' invariabiHla della soslanza, e la variabiliia dell' accideiile; die H vanno lulese cun graodc sehuo cd arvcdiinenlo: c dcllc quali noi non 1 aUbiamo IsisogDoj cbe auzi la ebiarezza c seinplicila dellc noziooi noslre  animaleeec., non snppone egli de canglamenti di soatanza anchc piu che io non faccia? quando parla di sostaoze passire, non parta eglr di sostanze capaci di soflcrire in sA mutamcnto ? Ricorrera forse al auo soggello immutabile, la materia, bfa sarebbe per avvenlura asaai malagevole il deGiiire se la mate- (1) Qui dicCsi  caseoza m io luogo di m soslanza *#. To bo troTilo nt cescario di disliugUere accuraUmeuie il sigaiGcatu di quesie due parolft* Vi'di il iV. Sa^gio^ Sez. V, c. IX, art, 11, Or la cagioiu* cictroscurilu del Vico, se ben si bada, s(a tulla nelTaver egli coofusa l*essenza coMa sostmiza , e mescolale le loro dislinte quxhtii. EgU da altuoa promiscuameote quello cbe appartiene airahra. La nozione di sosl'auza A puaU dqW atln'ild, quella deliesseoza ncW iuUlligtluiitd. La sostanzc sono create, iesseiize possono dirsi rtenie perocebe nuu sooo clie le cose nell'idea (le cose logiciunente possibili). non nppartsce aicnna aUivlta delTessere mle, la qua! lutta A nelle sostaoze alic quati in propria spoUaiio le parole vis e potestas deMalini. Airiiicoiilro pu6 bi-n essrre, cbe i laliui abbiano appWcalo la moniera da immortaUs a slgnificiir le rssenze, conje quelle die dimostrayo in se de' caratleri al tiiUo diviiii. Quindi il conato del Vico uou si puo gia dare al- Kessenie, alle sostaoze hensi. Quests confusione di diverse nozioni vedesi per tutto neiropera che citiaino del Vico, inassine al c. IV, ove Cra rnhra c^ise si dire:  Quisdi si puo dubilarc, sc io quella. guisa che v'La ua M molu ed uo cooalo per coi virtu una cosa si mova ( so* ** stanza), cosi si dia un esreso ed uoa virth per cui uiia cosa si dtsteodk w tqui si passa allc esseiize): e siccooie il corpo ed il loolo cuin^iiociO alia  lisica (chc Iralta di sostaoze) il proprio soggelloy cosi il ruoato e la virlCi* M delCcsteosiooe foroiiuo la materia propria della metafisica  (die IralU di esseuze). Tanto e lUciic che apeo uoiuiui graudi aiuibrogliiio nell'uso congbiettnrando , che la vita animale sia qualche cota che ravesta e modilichi lo itesso intimo essere della materia: almeno non vi avrebbe in ci6 nulla di ripngnante , niente che inrolga logicamente assurdo. Potrei aggiuogere de' gravi argo- menti a rendere probabile astai, per non dir vero , il mio so- spetto; ma ripetOj cbe non amo qni di fare ni pore il saggio d'nn si forte argomento. E d'altra parte il solo esser possi- bila la toccata conghiettnra, basta a mettere nel maggiore in- trice qoello^ cbe rolesse pronire 1 inmmtabiliUi assoluta della materia corporea. Passer6 dnnque ad un'altra ossenratione. Per ispiegare i su> blimi caratteri delle idee, cioi la necessity, P immutability, Ie- temiU ecc., il C M. d spinto ad attribuire essi caratteri alle cose stesse corporee , onde le idee si vogliono provennte. Ma se noi fermiamo gU ocebi sopra un'altra pagina della dottrina del N, A., troriamo agerolmente cbegliiion area bisogno di tanto. E reramente, cbe sono mai le idee nelle sue mani? Non piu cbe modi del mb fenomenico (i). Ora qual i la immutability che si trora nel mb fenomenico? immutability perfetta, nessuna. VeramcDte nel concetto d'imrontability, propriamente parlando, non si danno gradi, e per6 non i raaniera ginsta il dire nna immutability maggiore o minore, perfetta o imperfetta. Perci6 diremo, a parlar diritto, cbe nel mb fenomenico non rha im- mutability, secondo la dottrina del N. A. Perocchy egli d ben vero, che in nn luogo distinguendo i modi del soggetto fenomenico dal soggetto stesso, da a qnesto I'immotability (a); ma in nn altro spiega il suo pensiero di- ebiarando, che  Iidentico (3) fenomenico, il quale sentiamo (i) P. II, c. IV, IT. (a) Ivi. ;3) Li iJenlico eon pu6 dirsi imimine a&alto da caDgiamcDlo ! Lidentico tdunque non i piil.ideDtico. 'SIi si permelta osservare di passaggio, cbe il C. M. fa grande abuso delle parole  idenlico - e  idenlitt -, usandole a sigaifieare conliouamculc non unuguaglianu di aumtiv, come le usaoo i fdosofi, ma unuguaglianta di sptcit. Digitized by Google 453  giacere in fondo a tnlti i modi della nostra spontaneity, non  pn6 dirsi immune affatto da cangiamento n (i). Se adunque i modi del me fenomenico si rimutano, se il soggetto stesso non i immune da cangiamento; non v ha' dnnque cosa in tal soggetto fenomenale, che immutabil sia, e tali per6 non pos* sono essere ni pur le idee, modi di lui (a). 11 perchi non facea poi mestieri al Mamiaui 'di erigere nn si arduo e ruinoso edi* fitio a spiegare Iimmutabilita delle sue idee e della verity in esse racchiusa. Concludiamo: la coscienza del G. M. pugna continnamente contro il suo intendimento. Qnesto si perde in raziocio), a Tuol renders le idee mutabSi} intanto che qnella con un sem- plice lume di osservazione sente che sono immutahiU. Per sod* disfare alPintelletto, le idee sono dicbiarate puri modi del no- stro me fenomenico, e come tali variabili. Per non ripugnare allinvitta forza dellintima coscienza ragiona come se elle fos- Serb immntabili , e Cerca di spiegame I immntabilita col ren* , dere immntabili le cose esteme, da cni le vuole a intta forza provenute^ pronnncia in fine, che  sotto i fenomeni o rnnta*  bili o identic! (3) esistono le vere sostanze , in cni risiede  Iassolttto di tntte le cose  (4) per quests loro costitutioiie astraltissima e semplicissima non r sopportano di avere piCi che un modo di essere . Quindi le altre tulte haoDO piu modi di essere. Le idee uon comuoi adunque sono modi del me fenomenico suscettibili di ricevere in it piu modi I  Conviroe dare in quesle stranezze quando si va per un falso- oammino. (3) Se la nozione della soitanza si mette nell imroutabilili , come fa il C. M., in tal caso col dire che de fenomeni ve ne sono di i identic!  tro il rapporto stesso cdnoscibile. Io posso pensare senaombra di ripugnanza, che la mia cognizione cessi e ritorni; ella k dunque cosa al tutto mutabile: ma avrei pure an gran torto a pensare lo stesso del rapporto conoscibile, e commetterei un grand errore confondendolo colla cognizione che io ho di luij perocchd quel rapporto 6 al tutto necessario: io capisco imme* diatamente e intimamente, chegli i, e fu sempre, e non pu6 pon essere, non pu6 peosarsi che non sia: e se io dicO il con- trario, atterrito dalle difScolta che prevedo in confessare ana proposizione si evidente, si attestata dalla coscienza, non fo che sragionarej io mento a me stesso, io abbandono la semplice os- serrazione, Iintuizione .manifesta del vero,per seguitarmi dietro a uno oscuro pregiudizio che mi sta fitto nellanimo, a unan- tipatia irragionevole in me giacente, figlia della mia ignoranza, la quale renderai inimico ed ingiusto ad una parte della verita. Or dunque quel rapporto considerato in si stesso, in quanto 1 necessanamente conoscibile , e non in quanto i accidental- mente da me dbnoscinto, i cii appunto che costitnisce nnidea. II medesimo si dica di tutti gli altri veri, che sono senza di me, e prima di me, semipre stati, e sempre saranno, nb po- tranno mai non essere, e che solo a qnesta condizione sono conoscibili, solo a qnesta condizione io li conosco. In quanto sono conoscibili si dicon veri, e tnedesimamente si dicono idee. Alle idee adunqne, intese per gli esseri ideal!, compete ana immutability vera, assoluta, tnttaltra da quella che compete allunivcrso materiale e alio spirito mio, la cui esistenza b nn accidente; ed b una si fatta immutabilita che si dee spiegare dal filosofo, e non negare^ ella b dessa il gruppo della filosofia intera, che si dee sciogliere e non violentemente strappare. Allincontro da pih luoghi del lihro del C. M. si raccoglicj Digitized by Googli: 4^7 rlic gli sfugj'i (]i vcder chiaro la naliira di ({uesta immatabilita delle idee, poiiendo egti I immutabilita di quelle uninamente Delia loro semplicita; di che avviene, secondo lui, die non pos u tarla senza distruggerla. DifTatto Tessere suo consistc in eerta  rela/.ione didentita (a), che non patisce grado ni inodo, o > (4)- E la stcssa specie d immutabilita relativa attribuisee a com* posti d'idee universali, u per la ragione, dice, die Iessenza B d'ogni composto astratto giacc tuttaquanta nella forma ideals (i) Non necessariamenle, secondo li forza deUargomenlo che segue, ma SDzi contin^entemente. (3) identitd pu6 avere relaziont? io capisco che si dieno due cose' si* mill e, se si vuule, auclie ugusli; ma due cose idetitichc! con so pensarle; e |>erci6 nc pure alcuca tcLsioae fra due o piu cosc idcnlichc: aliueiio ucl sisiffna srnsislico. (5) NelTidea, come ho toccato pilma, non cadono gli accidenti del sog* g^llo ove ella dimora. Quesli accidenti souo forzali dnl N. A. ad eiiirare ueliidea, perrbd il suo sislema vttole cost. Ma T osservazlone schiclla dice il coutrario. NelTidea dl uu albero, o di un cavalio ecc. chc Io contetnplo, vi si possono forse trovare degii accidenti di me soggetto pensante in cui dimora quest^dca? quale stranezza nob ^ colcsta? chc cosa ha egli a fare I'aibcro possibile, o il cavalio possibilc da me roolcmplalo, con me che lo contemplo? Anzi appuuto pcrche io contemplo que* possibili oggeili,io debbo necessariameute esser aiieno da essi, posso coctemplarli se nun a questa coudizionej che da essi'io stia separate!. Mon vha die una sola idea, in cui eotri,il soggetto, c questst e I idea del soggetto; non v'ha che unidea, dove entrino gli accidenti del soggetto, e questa i Tidea degU ac* cidenli del soggetto. Ala in queste idee, uelle quali sole cade in parte o in tuiio il soggetto, non si pub astrarre da questd; perocche forma egli Tog* gelto di quelle idee^ costiluiKe Tidee stesse, e colfastrarlo da quelle le si distruggerebbe. Convien duoque osservare con accuratezza come soil faitc le idee, e non parUr di este a priori, come fanno I seuiisti, secondo Ic esigenze un prediletlo sislema. (4) P. II, c. X. V- RosMini. Jl Binnoyamento 58 Digitized by Google 45h ' (a). In questi luoghi adunque si suppone chc le idee univcrsali non si possano mutare, perchi non hanno piii die un modn di essere, ma bcnsi die si possano distruggere. Clii nun vedi; die questo nianifeslamente iin confondere Talto coutingenle dello spirito nostro coU'oggetto necessario del racdesimo ? All'alto delta mente, che intuiscc a ragion d'eseni- pio la ragione dell'animale (ratio animalis), pu6convenire quella immutabiliU impropria di cui parla il C. M., ma alia cagione slessa dell'animale cOnviene la vera e propria immutabilita da Ooi dcscrilta*, perocchi qudlidea, o ragione dell'animale, non piiu giammai venir nieno, solo puu non essere da noi intnila. Cosi avvien pure, die se chiudiamo gli occhi al sole, il sole i spcnto per noi ^ ma ^ egli, per questo, trallo di delo, e in si olteiiebrato? E quale matta nostra prosunzione sarebbe clla co- testa, se noi pretendessimo di dare esistenza o di torla al sole, con solo quanto ci costa ad aprirc, ed a serrar Ic palpebre? E ogni giumento in tal caso sarebbe creatore e annidiilatore dell'astro del giurno^e men male se un giumento sel creda: ma in un filosofo, in un uomo, non t comporlabile che lutta creda egli contenersi e racchiudersi nel suo picciolo niondo sogget- tivo la luce razioiiale che, come dice sanl'Agostino, e pure qual- che cosa di meglio che non sia quella che splende anche alle pccorc^ e che quello che per lui non i, voglia didiiararlo al tuttp non essere. L' animate fu dunque possibile, e conosci- bile da tutta I'eternita, e sara sempre; e non pii6 non rsser tale, eziandio che io non avessi mai iutuita questa possiLilila, eziandio cb'io non fossi, ni mai fossi stato. . (i) Cbe cosa 6 laulirc ua composlo didee? non allro che rivolgere la meiile ad un allro composlo. queslo un mulare, 6 uu dislruggrre quel primo? mai no. La mulazionc i lulla in iiol , c non punlo iiel composlo delle idee; come H loglier gli sguardi da uu cespo di (ior! per roiraruc iiu allro, non dislruggc gia quel primo, ma solo TimpressioDC che noi da quel primo ricevevamu. (a; P. II, c. X, y. Digitized by Google E nolle; parole cilale egli i agcvole a notarsi an altro er- rui'f. II Miimiani fa consislere il proprio csseru dell' idea uni- versale  in certa relazione d'idenlita, che non palisce grado u ne mudu, o vogliam dire cbe vien astratta da tulti i modi u e da tntli i gradi della sua specie . Se cosi fosse, non vi avrel>l>e gerarcliia fra le idee universali ; anzi non vi sarebbe di universale ehc tin' idea sola, rastraltissima dell esscre; pe- rocclie verainenle in ipiesla sola idea non entrano per nulla i modi ed i gradi; giaceb^, come dice lo stesso Mamiani, u Ies- u sere non in se propriamente i mulabile, ma nei soli suoi u modi n. Non sara dunrjue universale P idea del cavallo?  in qnesla idea si reeiJuno at tutlo le differenze, o sia i modi di quesla cssenaa cavallo; cioi in essa non si pensa ne alia razza araba, ne alia razza ingicse, ni ad altra generazione speciale di cavalli.  Ouimainente. Ma se Pidea di cavallo i universale, non sara universale anebe Pidea di aninvale? a pure Pidea di animale rigetta piit modi e pill diOerenie da s^, die non Pidea di cavallo: perocch6 in questa, oUre a^costilutivi delP animale si pensa per6 il modo speciale del eavallov Dun- que questa idea di cavallo ritiene in si un modo, che da>qnclla di animale, i escluso, e tuttavia Eidea di cavallo- i universale. Non i dunque vero, che Pidea universale debba, per esser tale,, geltar via tutti i nw)di: ma or ne rigetta meno ed or piit (i);. e secondo ehe piit ne rigetta, elP appartiene ad uua classe di universali piii indeternaifiata, e ad una piit determinata riget- tandoiie meno. Vi sono uelic cose (concepite), per usar la frase del Mamiani, varie relazioni diJentiti (a), piii adipie o. (i) La raijione perrKe i moM dulte Wee non impecHscono cbe quesle sieiio uiiiveisali s? e, perclie gli stessi modi suiio uuivers.ti; a clifTereuza. lie' nwili UeHcsscre sussisicole, cliv souo parlicvlari come c I'essare a. cut- (.i) Ho gia nolat prima, qiKin^o ta parota ichnlitA usala ml sise*  VfrHmenle, (m>S5o io furmare unastratiune sngl^ oggelli, se non souo Ha me comisciuli?  gli oggelti conosciuli sono appiinto le ider^ siU'iitv pt'Lu alia scusaiiuue c aiiucssc al giuHitio. Oja nclk- t(Uc Ifovuma* Digitized by Google ,{fio piu strette^ e secondochi queste identlla hanno pii'i di estcn> aione, rile si fanno fondamento a piii estese, rio a piii astratle idee universal!. Negli aoimali, non ninUndo I'esempio addotio, iina retazione d'identila pin nmpia i qtiella posta ne' cnstitutivi essential! dqll' animale', piii strelte relation! d'identita sono quelle poste ne coslitutivi essential! de'cavalli, debuoi, degli uccelli, de' pesci, ecc. Queste piii anguste, che ^ quanto dire, piii determinate relation! didentila costituiscono altrettante idee universali, piii limitate e piii compite dell idea pure utii* versale che contiene Iessenza dcllanimale in genere. Egli i dunqne manifesto, che I idea universale non i de- scritta bene col dire sempliceinente ch ella viene astratla da tutli i modi e da tutti i gradi, non cssendovi che I idea del- Iessere che non ritenga alcun modo generico o speciale, e tutte Ialtre, per astratte che sieno, ritenendoiie serapre alcuno. Conviene adnnque cercare nitrove la propria natura delle idee universali, e non riporla in questa illimitata astrationc che tocca il Nfamiani. Quale diinque la nozione propria dell'iini- versaiita delle idee? noi la riponemmo u nellavere le idee Iat- titudine di farci, una sola desse, conoscere un numero fossanco infinilo dindividui n. E che in qiiesto e non in altro si debba porre la vera nozione dell universalita delle idee, il Maniiaoi stesso il viene a dire, cioi gli h filto dire dal biion senso, in qiiel luogo ove volendo dar ragiotie del perrlie Iidea astratta di .sfericila sia universale, la rende cosi a Imperciocchi la ra- ts gione niedesima, per ciii essa idea conviene a ciascuno di  quegli oggciti, onde fu ricavata, la fa convenire con tutti tc gli altri real! e possibili, che fra le condizioni varie del loro  essere includono la sfericiti  () nclie 1m TPr ideotila; iroperoccii^ ciu cbe pin i(l getli possibili >n quanto a* reali, essi non sooo essen4iati all'idea di sferi* cli^, perocch^ quand'unco non esistessc ue^sun corpo sferico, Iidea di sfe* ricila sarebbe quella siessa. Egli e vero die noi non ne avreinmo in tal caso ridea; ma cbe fa cio? Si distingua senipre fra V ideti in se slessa , e V intiniione accideiilale che noi ue alibi, ha due seiisi. Pe* rocchc lalora s'inlende per essa it iusiiitcnle^ 'il re^le; c qiiesio e un uso iioproprio della parota, schbetie frequenie tid hhro che eiinuinaino , e in allri: lalora siiileude per iudividuu un fmrtnolure, sla poi egii reale, o Solo inimaginano, o possibile; e queslo e il suo vero e proprio sigtiiliculo. Se duiique per individuo il Maiuiuni inlcucle il sussislcute, o reate, egli non pu6 rimprocciarmi cbe io Tabbia i iteniito ueila forinazloue dcU' uni- versale: quando anzi ho fallo consisicre U fuuzione ddruniversalizzare iicl* VasOwre dali'iiidividuo la ^a sussisteuza (Ved. iV. Saggio ecc. : Sez. V, c. IV, art. I, 2 j). In queslo .ciiso c verisinno, cbe ogm idea universale  include fuiialaiiicnlc alcuiia aslruziuiic . Sc pui culla j.arola eu nolo, cbe dice  L'uoino peiisalu uelia leMliiji e siugolare M Dtlla cusu cume uelT iiiltlicUu, ma oeUinlrllelto rapiircsenta molli uo- M mini  {Untv, Pltil P. \, Lib. IL c. m). Quesie pwrole ilpolcvimo furc accorto, cbe Tuoino singoUre, e pero individuule uelU mente, cioe ud suo stalo d*idf*a, pu6 esser rappresentativo di niolti uornini, c*oc alio a fiiici cuposcere rnolti uoinini, e quiiidi inedesiino k uu uuiversale: giaccbe ba quelU qutflita, cbe roniia Tesseiua, come diceinino, delTuiuversalila. Mode* siiiidiiicuie Mvrcbbe polulo vcderc, die la doUriiia mia non s'allonlana di truppo, conitgii vuol crcdcfe, da quella serilerita dd Caiiqiandia lieoe iiilesa, die ciod iialaineule cbe Ciascuiio di quo* gii iiidividgi si accoinuiii cuii qudl^idra, lu quale aUraiiiente, non potrebbdi a hoi iUaxOate (cotnr d'cevano gli scoUslici) e farli conoscere. li) lu qupsla propriela di non polcr avere piircbe uu modo di essere, vctleinmo poro sopra avere il Alaimaiii eoliocato iesseuza delle idee uui* \eis*li. Secoiido la coereiiza logica uuendo d passu die qui arreco a quel di supra, ue segtiiteiebbe , cbe idee universali iiou louo alire die le sein- plicissimc, Ic aslraUissiiiic, le co iiuiii a Itilli gli timnini. Or queslo vorra essere ddficilmeiile concedulo da*^ filosofi.  Ma ue pure il C. M. il cre- dtra. Egli poco sopra disliiise u Tidcc e i giudicii uuivetsali daJle idue ir Digitized by Google X e I'Uiiltnnn (lalU forma stcssa co$tante e comune dell inten- X climrnlo e dci srnsi " ( i ) .  Allopposto V imniittabililti, come pure V wtiversaltti A godula indislintamenie da ogni idea^ perocchA Iidea A, come tante voile diriamo, la poislhilila logica, o sia la conoscibilita degli ml!. Sieno qiiesle idee o piii o meno aslralte, cloA facciano c6- fioscere gli enli pin o meno astrattamentc^ esse sono ugualmente sempliel, ugualmente incapaci di ricevere mntazione, ineapaci di essere annlrhllale. L'idea dell essere, qaella dell' animale, qiiella dell uomo in generale, A cost immutabile, come quella di un uomo possibile fornito di tutli gli accidenti, e privo solo della sus.si.stcnza e realita. Ognnna di queste cose [>ossibili sono sempre slate tali, nA mai poterono o potranno essere altra- mente, e per6 neppnra si potra pensare il contrario. II filosofo adunque, se sa, dee rispondere a questa interrogazione, u Per- chA non si pu6 da me pensare che un essere possibile qual- sivoglia (il che A quanto dire un essere ideale, nnidca) non sia possibile ? onde viene a me questa necessita singolare che limita (per cost dire) la mia polcnza cogitative? onde questa inviolabile legge del mio pensiero? eceo la questione dell u- niversalita, della necessita e dellimmutabilita delle idee. X d.i giiidicii universali c comimi . Dunqtie riconobbe delle idee, ebc seb- liene uiilversali, non sono comuai. Duoque, se il non polere aver piuduti modo A la prnpriela delle idee universali-comuni, questa non dee essere la proprielii detle universali liilte. Dunqiie egli slesso riprova ci6 che avea lello innanzi, clie la qualila di aslrarrc da tulti i modi sia il coslilulivo delle idee universali. (i) P. II, e. XII, IV. Qui il N. A. dl unalira ragiooc lutta nuova, perciiA alcuoe idee sieno comuni a lutli gli uooiioi, cioA perebA x risullano X dalla forma cos'anlc e comune dell intendimenlo e de sens! . Se fosse vera questa ragione, le idee sarebbero al tullo soggettive, nA aver polreb- bero alcuna rclazione cogli oggelli esleriori. Tullavia passi. Ma come s'ac- corda quesla ragione coU'allra della roaggiore aslraziooe ? buna o Ialtia di quesle due cause dee esser la yera ; o che 1 idea A comune a lulli gli uomini perchA A aslrallissima nA puo avere alcun modo, o perchA,A un elletio della forma comune delle facolta umane. Se A vera la prima ca- gione, vana A la secondaj se A vera la seconda , vana A la prinia. Se A vans i Una e Iallra separalamenic prrse, sono vaoe anche tull' e due in- sieme.  Nel ff. ho dtslinlo ^sWeS-^enza, dichiaraodo qucsia og- gelio di qiielb. Si potrelibe dire che 1* idea i resfeoio veduta. Qucsia di- AlinzioDc trascuralu dagli aiiiichi pno esscre utile in un argoineiito, dove ogiii minima iinpropriela di parlare pud essere principio di m.ilc inlelli- gciizc c d' errori. Digitized by Google Questa i una veritji italiana, rt^cnzialmcnte itallana: rlli fortn61a base della prima 6losofia Indigena della patria nostra. Ognuno s'avvede, che io voglio ricbiamare la scienza nazlonale a'suoi principj: che io rimonto fino alle glorie della Magna Grecia. O Pittagora (r), o, come a me sembra ancor piii pro* babite, i savj piii antichi di lui, da'i]iia1i egli apprese (a), vi- dero, che di cose veramente immutabili non v aveano che le idee possibilita delle cosc), e che tutto il rimanente era quaggiu mutabile e perituro. Per6 divisero tutti gli enti in quelli ch'essi chiaCnavano in* telligibili (rd vor^TO.), e quest! furono i possibili, o siano le es* senze, le idee, perocchi 'queste sole sono intelliglblli per sA, aono Iinlelllgibilila delle cose^ e ip quelli che dissero sensibili {aicr^rira), che sono le cose sussistcnti. Io ho gia dichiaralo in pih luoghi, che io nomino intelletto la facolta de possibili, e senso qiiella de'sussistenti. E di vero, solo da quest! loro termini edoggetti si possono deli  ire e distinguere acconciamenie queste due general! facolti (3). Or a que primi enti, ciod agl intell gibili, concessero Pimmutabilita, Ieternita ecc.^ a quest! second! poi diedero la mutabilita, e la contiogenza (4). Evidente, e gravis* (i) A chi piace^se pigllare Pillagora come il nome non dlm uomo, ma d'liiia sella (una persona morale) , a suo bel piacere, le mie parole valgono Ugualmenie anche per lui; peroccli^ mirano alls doUrioe, e non all' uomo che le lrov6. (a) Plularco nellopera  della Creatioce dellanima descrilla nrl Timeo > di Platone  nonniia per maestro di Pillagora, Zarala, di cui uun Irovo menzione negli scrillori che ho alia mano. Aliri leggono Nszarala.  Or Del luogo di Plularco si alTernierebbe, che da queslo suo maestro (e io nol credo eglziano) derivasse la scienza de numert. Ma se hassi a. prestar fede a mohi aliri luoghi di anlichi scrillori, i quali aOermano che appren- desse quella dollrina de' numeri daUGgiilo, couaerrebbe dire, che una si falls dollrina, che faceva service i numeri come emblemi delle cose, avesse unorigine assai piii aulica, e al tempo di Pillagora fosse gU propagaia presso diverse nazioni. Se poi vuolsi prendere Pillagora come il uoine di una sella, Iargomenlo acquisla ancora plu di forza. (3) Ved. la leilera da me scrilta a D. Pietro Orsi sopra un articolo del Messaggier Tiroirse, inserlta nelle Prose slampale a Lugano, i834. (4) T>meo, aniico filosofo di Locri cilia italiana, nell'opera Dsltanlma del mondOt che gli viene allribuila, divide lullo cid che in Ire calego- lie. Idea, Materia, ed Es^ere sensitivo. Ora nellufeo sola riconosce una perfella immulahiliU. Ecco comegli parle. dell idea :  La prima di queste RosMiuij II Jitnnoyamcnte. 5g Digitized by Google 4 fi(> simo K fjiip^lo vcro: convipne apprendcrvisi, e fortcuienic t- tcnmisi a dii vnol piinr filosofarc con cotanza, con dignila, con vcrlla, con utllita dc siiui siniili. Me cosa alcuna potrebbu cssirnii cosi desiderabilc, quanto quella di vcdere qursta ca- nola e veneranda nazione ilallana non piii flulluantc e naufraga quasi net mare di Icggiere, erronec e non sue opiaiooi , nia iitinninio, I'ernia e sicura nel porto muiiitissimn de' suui padri. Alla quale dolce speranza la sua fcde religiusa fammi erigere I'auimo audaccmenle^ conciossiaclie I'anlica dotlrina ile' mag- gicri suoi, da cui apprese la stessa Grecia, e singolarmenie albne al cattolicismo^ e penso, quel popolo dover essere in di- ritlo raaggiore d'inscgnare allrui la flIosoGca rcrila, il quale i divinamente isliluilo quasi naturale maestro agli allri della re- ligione. si creda, che alia scuola di Glosofi di cui favelliamo, la qua! di tulte certo & la piii illustre, sfuggisse quella distiniione fra Y itlea ( I'entc possi|)ile a cui solo I'immutabilita couviene), c I'ntto contingcnte e accidcntale del nostro intelletto che la intiiiscc. Peroccliii sc queste due cosc si trovano perpetuamente confuse iiell'altre scuole, e qualche volla in Arirtotele^ all'in- contro egli h assai rado, die si confondano nella scuola di / trtr oosr non i generftla, ^ immulaliile c pcrmaneole, seinpre In sU-^sa, * inirlligiijilc (ttitrif) , modello Hi tutit gli esscrl geocraii soggeUi a can- *f glumenlo. Klla si nomitja idea, c (ale si coiicepisce (xa/ ** K4' *X9 fjivg fftiix aftv9TO0 Tt as/ oV/K>Tei>, xm' ti j n,ai' to( rciifTM ri ita/ \9Vc1 lx /uira/SoXa fVrf* t9i$ut9 c/f Tz/. Csp. I, 3. Avvcrliru qui di pas* SHggio, chc io non posso convenin* ton G. T. Tenncnstmu* il quale rnelle fuor di duldiio, che queslo prezioso libro, conservaioci da Procio come opera di Timeo, c come tale risguardato. anclie da Sinnesio, sia un sem* plicc compendio del Timeo di Platone. La tnia opioiooe^ di cui qui, allesa la hrevila di Una oola^ non posso esporre )e prove, si e ch*esso non sia 1111 coinpendio del Timeo di Platone, n^ sia pure Topera stessa di Tirneo, ma ]>cn5l un coinpendio di questultima fatio iti tempo poslifi iore a Platone. Plularco pure, conlro Colote, esponeodo U doitima di Parrmeuidc dice, che quesli prima ancora di Socraie conohlie la oalura dtiWidea, o eiilc in* telligibile (xxxroV), U quale solo alTerniu esscro  Senza principio, fermo sciuprc, e tntegro ; 9*rTo> J't irsfor iiJxc > Eer/ yaf euXtutXif Ti xai drftutit aV dyivnriif, * ajTf; xti layt}* xar fioviuov Ix rp" fira/. Digitized by Google Pil (agora c ili Plalone. AU'opposlo vi lianiiu ili niolli Iimglii  cliiarissimi, dove trovansi separate coDa piu esalta descrizioiie. ISellanlIro, ('ompendio di Tinieo Locrese-epir.etirlano si disliii- guc chiarissimamente Yidea dalla seknza, e s! defiiiisce questa per la cognizi'one di quulla (i^. Alciiioo distingue la fi+osoGa di Plalone dalloggelto di cui ella Iratta, diceinlo cliu^l og- gelto di quella GlosoGa .sono  gW ciiti intelligibili (le idee ^ TOr/Ta) e die sono per se slessi  (a)'. 11 medesiiiio afFerma Jam- bliro parlando di Piltagora (3). Egli e bensi vero die Eradito, fc la siMScguente seuola di D- oiocrito, inlerpretando forse allrameiite gli stessi placili dd- I'anlica sr'uola italica (4), ritenne la distinziooe degti enli in (i) Tf/a ^i' $*rra , reir fitv **r Cap. I, (a) ritfta-)tiy^09Ta 99nrd tW rti xet^' eprsr. Ciip [, (5) XvfsOra (parla delU lilosofla pittagorica) rd* aTvuarxv xa NOffTnN> cdXiur Tf kai Iti Prolrepl. ad Syuil>. xxt, (4) CiCinle piliagorica prelendt^va clie le UDilk di Piltagor aliro nofi ftisscro die gli atomic Qiirsta i uua mauifesU corruiioiie del sistema dtr* mtmeri; il quale noti avreldie piu alcuua coercuiza, ove si spiegasse cosl materialmeDic.  TuUavia uonsarebhc impussibile, che Tautore o gU auton della scuola ilalio ammclie^sero gii atomic uuu inai curne inlelligibiii 'per sv, 11^ a quel- tiiodo esclusivo die ii pose poscia la scuola di Deinocrito. FUtode niedesimo nel Tetteto non ricusa di ricoaoscer glj alomi, e di al^ Iribiiirir a PiUagora: e pure eerto cl>e il liloso5> ateniese non iiHendeva il filosolb di Samo io uu inodu maleriale e che a lui rtpulava V rnttUi^ibile quale solo irnnu(abile. Aristolele pure dice espressamcole, ohe aucbe i Pi('> lagorici (cioe quelli che ernno riconosciuti quai seguitalori ddfa scuola ilalmna ) ragtonavaiio degli dementi, ma>in aliro modo da' Fisici, cei)^fli9i xxt* X^drrai rtS* IUvUiphis. ijib !(', Cnp. Vll. Aliro h adunqius concedere, che iicUo divisiuue die si fa de corpi convenga ridtirsi a de' pritni iiidivisibili, it cbe e una verila 6sica; aliro ^ ii volere spiegare con quesli dementi materiali tutli t geoeri di cose, e Io slesso pensiero. Qxiesto e il corrompimento del sisletna; e simiglianti corrotnpinienli avirengono audie alle buouc dotlrme ogui qual volta si feiidono esclusive e si porlanO' alTcccesso.  11 sisieina bsico degl'iudivisibili puo duuque aver avuto it suo principio da Piltagora, e quesli, conic alcuri vuole, averio appreso da* qud vecdiio fitosofo feniciu Masco ^ die Straboue suli'autorria di Possido- iiio riftTisce per auloic primo del sistcina alomistico, facendolo piu aiUjco della guerra irojana (Lib. XVf. Ycdi anthc ^eslo atW. MutHem.). Uu'aUra ussurvaiiuue siiuio qui d'ovcr Cue, la quale puu fuisc aggioD- 4G8 . _ ininiotabili e mutabili, riponenJo poi Iimiitatabilit^ non tanto nelle idee quanto negli atomic e la mutabilita neloro diversi Mggruppamenti. Ma che questa sia una corruzione delPantica doUrina, la coerenza di tutte le vetuste testimonianze nol la- sciaiio dubitare. Ni per questo ottenne I'autore del sisteoia atuniislico, cbc gli uomiai di buon senno accordassero a'suoi atomi quella usurpala tmmulabiiila, la quale tutl' al piu era Jbica, e non logica, cioi non' tale, cbe assurdo fosse a pensare il contrario*. di cbe Plutarco, canzonando Epicuro per tale im- niutabilita data a'principj materiali, dice:  Epicuro, piii savio m di Plalone, chiama enti ugualmente tutte le cose, come per u esempio quel vacuo intrattabile, quel corpo solido che sem- u pre con la jua durezza fa resistenza, i principj, le cose 'ma> 1 teriali^ assegnando' la medesima essenza alle cose sempiterne m (alle idee, voT^ra) e alle caduche  (): di che si vede quanto era lontano il filosofo di Cheronea dal concedere ad Epicuro, cbe accomunasse alle cose niondiali quella immutabilila che solo delle ideal! i propria dole ed esclusiva. gere doo poca luce alia sioria (Idle * idee eterne . Aristotcle net c. XFII dd Meta/isid, c. IV, dice, che Socrale preudcsse occasione a introdurre 111 dolirinn delle idee da Kradito, il qual diceva le cose sensibiti esser flueoli c al luUo incosUuti, iie pero in esse potersi fondare alcuoa scieo^a. Di p^ssaggio uolo, che queslu concetto di Eraclito, uel tempo sicsso che teudeva a dicliiarare impossibile la scienza, ricuuosceva uetla scieoza ueccs- Sana riminobililii, perchd nu&civa a dire:  Scieoza con ci puo essere, pe* rorch^ dla, se ci fosse, dovrebbe csser cosa cosianie e iinmutabile. Ma tutlo e mutaliile e fugace. Duiiquc nun si da scienza . Socrale con quesla occasione si pose a diniosirare, non esser vero cbe v*aveano sole i cose seusibili e mutabili, ina che uUrtf qiicste ve n'aveano ahre che non cade- Vano sotio i seusi: quesle cose iusensibili eSser le tdee di ualura imniula- bile ed eierna: e in esse consister la scienza. Qui la osservazione che io vuglioXaie si xioo doversi pnnto credere che in late occasione comiu- ciasse al tnoudo la doUriua delle Idee. Arislolele e un leslimouio sospelto, e pariiii strano che sia creduto si facitriKnle io questo dal Pelavio. Le Iracce deirautichit^ dimosirano, per inio avviso, airevideoza, che quaiido Eraclito tiro la doUriua antica di Pillagora ad un seiiso maleriale, allora sorgesse Socrale a rimeilerla oeiraulica via^ e Plalone a illustrarla colla sua polenta di rnenle e culla lua eloqueuza.  (ij Contra Colole x\iapicDle nell' anticbila,  se le possibilila delle cose (le idee), che chiamavano anche essenze (i), sicno qualche cosa in sA slesse o non sieno  ^ noi avremo quesla costante risposta, che anzi ad esse solo compete il titolo di enti , siccome a quelle che banno V immutabilita, e la cui esistenza per6 non si po6 non pensare. Le cose sussistenti sensibili all'incontio, a cui sole il volgo pon inente, e crede sole esistere, si puA meglio dire cbe non sieno enti; imperciocchi routano di continuo, o pin veramente perchi non banno V essere per loro etsema di guisa, cbe da noi si pu6 pensare, senza dilBcoltli alcuna, ch'elle non sieno.   pre, e nello stesso modo perfette, ni si mutano giammai,  ni pure un rainimo momento di tempo n (u), cio^ a dire le idee, o essenze delle cose, nelle qiiali sole, come dicemmo nel capitolo precedente, quel savio ricoiiobbe 1' immutabi* lita.  Imperocchi i corpi, seguita lo stesso Nicomaco, e le  cose material! sono in perpetuo ilusso e mutamento, sotto u ogni rispetto, e solo imitano la natura della materia (3) (i) Ouria i frequente io Plalone e in Aristolele stesso per idea. (a) Orra rfi oji'ftTS I'/rs/. to sora ad duTct xoi Jaatirtii' o'li* rf/OTS- XwrTO It tf tirfip xal iitiiTm, tjb' inai i^irrcifutt, i/J* s* (3) Era etrore comune presso gli antichi filosoii. che la materia fosse rierna. Evvi tultavia ragione di credere, che nicuna volta per materia inlendessero la materia ideale, V idea della materia > giacche deKriTono Digitized by Google u :  prdode fra i materialisti, e' gli facea compor Ianima daquat- tro elementi, dovea pur osservare, che il filosofo sieiliaoo veiiiva a conlraddire a si stesso, qiiando riconosee.va due mondi , Iuno sensibile (*drOf a'lir^rjoc), Iallro intelliviblle {xoffuoi; Vor^d)'. tanto poi era lungi che quello anteponesse a q'uesto, che anzi dichiarava il mondo ideate o intelligibile esscre an- teriore al mondo sensibile e materiale, e tipo di questo (/{). sprsso la malrria rome spoglla dl liille le forme. Ora in tale stato non si pub pensare come co.sa reale, ma come iina pnra asiraztoiie. Perb a parer iiiiu (lehboiisi , fra gli auliclii, di.stingiier quelii die ammeltooo elerna la fiialeiia prima, da qiielli die ammellono elerno il mondo; a qiiesli .secoodi apparlieiie itn error manireaio; i primi possono esser cosi lulesi, die non rscano rot loro si.ilenia dal mondo delle idee. (l) T fitv jap aaiaarnia Jaarsa aai c/'Xixa iV J/ar>xii* poVll xni fjtral5>^ Jid xarrar #rTi, pupisauira Ta Ta; a*pj.af oiViev limits mrazre'eiwc ^aVir xat' litintrx. In Anlll. (2l Eviara^uw tr t9i; oaair Cosl Jamlilico e Nicomaco passim,  Cosi p(ire Alessandro Afrodis. cap. n de falo: raV dXx'in-,, Tar f'r T'r can pn,'fxiTiai. E il Iradullore e cninnienialore dl Arislolele, Boer.10, In egiad senso, d\CKi Esl sapienlia, rerum QOM SUNT comprehensto (b. I, j4rith. c. I). (3) Vcdi il Fedone.  Fragm. edit. Peyron, p. a;; Siinplic. in Arist phys , p. 7, De Csxlo, Digitized by Googli 47' Tulli gli argonicnli chc u;a Aristolcle a confutarc le iJcu di Platone, lianno virlii ili provare quusto solo , die le idee non esistoiio funri  yty9m7K9f4tw99 , TOO Vfer>^roc lo^iV w oVft ovro TO* T^iyua 4 eUT^nri( Xaufidvtf utPtt Ml/'ro Plot orarr Ta Tfaffjmri, [6) y  $Htfwttzz* zad to* V/foroo ri dtni Digitized by Cookie 1; per6 i quanto dire,  Iidca vcdula da noi o sla roggntlo del nostro spirito i la cosa stessa intelligibile n. Altrove ancora, in luogo di dire  ci6 che conosce  , o in luogo dl dire u la cognizione  , o  la cognizione specalativa,  dice  la meutc  ( t): siccb6 egli apparisce manifesto, che  Toggetto della mente  , la idea conteinplata (cognizione teorctica) (2), c la niente, si prendono per sinonimi dal filosofo di Stagira^ c pero egli pars almen probabile, c^ la mente attiva di questo corrispouda ap* punlo alia ragione {Xoyoc) del suo maestro (3). Che se altri vorra considerare come Aristotelc stcsso descriva la mente attiva, eon animo disa[>passionato e giusto, trovera forse abbastanza d j cangiare in certezza questo cite io do per verosiniile. Concjossiaebd lo Stagirita paragona quesla raents attim alia patilva, come il tume allocc/MO (4)i e lumi appuu( del peripato se non u siinulaeri espresst, e secondarie (7) im- u roagini di'una mente primaria e principate, che abbraccia u veraniente tnltc- le ragioui e tuCte le varicta detle eose . Egli pare adunque, cbe al vero si opponcsscro quc'dotli mO^ derni, i quali tolsero a concitiare Aristotelc eon Platone (1) O i T* irff7ffv (2) OgDuoo sa. cbe Uot%lico vieoc da eonttmpUh (3) Quesla osservatieae vicoe riuCorxata da uoaltra. Gli Mriltori plato* fiici chiamaao ancl/essi mente or Je ideO' singolc, ora i) loro- coni|iles.so Ptolioo, Encad. (jib. c. viii iiisi'gna es^rc.ssaiwculej che te idee siiw goiari, come pure H loro complesso) si possouu cbivtinar nien/^ Kt 1 1>. il luogo : El eoV n roW/r {v rd to. ii rr- * mvrn' ynrp't wc^c> a rsfpet'  'vt(iav , d /tara. ^8) Veggiisi Topera cb Giacit^ Carj>uta^ltj proffssore alia fiosMim', 1/ Rinnovamento. Digitized by Coogic 474 . ni altra via parimente io ravviso onde si possa conciliare Ari* sloteie COD si medesimo. E in vero, conie potrebbe conciliarsi seco questo filosofo, quando egli ammeltesse che le idee o essenze non fossero piu cbe modi di una mente contingente come la nostra? Non in- segna cbiaramente, e in tanti luogbi, non pure Iesistenza di quest! esseri intelligibili (che cos'i cbiama egli stesso le essenzO delle cose), ma ben anco la loro immutabilila, la loro eternita, la loro esistenza nccessaria, immune cipi da ogni contingenza? Nel libro III dellEtica dice, che le verita geometriche son cose eterne (t). E le cbiama egli stesso rostra, cose iotelligi* bili, idee. N6 si dica gia cbe Aristolele pone la sua mente attiva, o in- telletto agente, acciocchd esso possa formare qiieste verita. Ira- perocch^ dicendo ci6, precipiterebbe in una deforme contraddi- zione con si medesimo: conciossiaebi tali verita, tali enti in- telligibili non sarebbero piu etemi, non piii necrssarj, come egli pure li fa. E accioccbi nbn rimanga alcun dubbio di ci& soda che icosa dica egli stesso; u I'essenza della sfera non viene I ^ generata  (i). In un altro luogo dice: u le forme delle cose  corporee ni si generano, ni si corrompono  (3). E anco: u la forma ne si fa da cbeccbessia, ni si' genera r> (4). Ni hassi a credere, che per queste forme intenda le sostanze esierne, imperocchi egli le pone, come vedemmo, nella mente agente (to^o; el9ay)\ edi questo appunto fa colpa a Platone, cioi del- I'aver poste tali essenze fuor dell'anima^ benchi veramente fa fermo jsensiero del gran filosofo d'Atene, come io I'intendo, che sempre fosser nellanima (5). Finalmente tali enti intelligi- dica dell Universilh di Parigi, nella quale assume di paragonare e couci- liare insieme i due maggiori Hlosofl greci (Parigi i5^3). Chi vorra leg- gerla vi trovera utiove prove di quanto io qui alTermo. (l) Cap. V. srijt TiJr a'lViwr ooVif( /SvaXtu'ivaf > o/ev  Ftfi* Tifj ^ixfjtirfow %ai TJif vXtufdf on dffo/jrjf^foi, (a) Tr oett eux fj-/ ydrlTtf. Mclaph. L. VII, c. vui. (3) Avfv yovgrtuf xai SXvf oi*au rd tiJo, Metaph. L. XIV, c. vm, (4l TO ffVor oddoff xoiit, ooJl* yfrrxnit. Ivi. (5) Socrale dice espressamente nel Parmenide, cht le notiiie o idee (roa/uotra) non possono aver altra aede che negli animi: to> {iJut ! xa^or Tci;n> ooitus, xxt* odJxuov dtni Tforoxn i dXXori x I'r 4^ prri Digitized by Google bill Aristotele li fncera nniyersali, e 1' universale lo sottraeva in- teramente da'sensl, Quando aduntjue Aristotele descrive la relazione che ha la sua mente atliva colla mente passiva mediante il paragone del- Tarte che fa ogni cosa dalla materia, e quando egli insegna come nasrano a noi tutte le nostre cognizioni mediante Pastra* zione daTaiitasmi^ o vuul essere inteso in quel senso nel quale n6i pure diciamo quelle stesse cose, ovvero d In tra si diviso e combattuto. Imperocch^ ancfae noi diciamo, tutte le cognizioni universal! venirsi da noi formando colPastrazione^ ma questo il diciamo noi, perch^ nella percezione stessa, dalla quale si astrae, noi alTermiamo trovarsi P universale (il possibile), non inHuc^va PUlone all esistenza di alcune di'ita in cul ciascuna idea avesSe sedc ft dove noi le vedessimo, le quail deiili pcr6* andavaoo poi ad unifi- carsi ill una sola che di luUe i(i istrano tnodo coDSlava. L'iodurre dalle id glone. gli par dunque cbe Aristotele medesimo, non cbe tutta la scuola itajica, e Iateniese gloriata figliuola di quella, si possa riporre tra que savj i quali alTerraaruno 1 esistenza di alcuni esseri d' unindole loro propria, cbe costUqiscono I intelliglbi- lita delle cose, e sono i cbiamati possibili, essenze, notizie, idee, o con altro nome qnalsiasi^ cbe di piu egli volentieri ammet- tesse Iantica distinzione fra gli enti e i non-enti, dando il nome di cnli alle sole idee, e ad altre cose al tutto immutabili, e quello di non-enti alle cose corporee, le quali continuamente si' mutano. E poichi bo cominciato in qnesto capitolo a mostrare si come I piu alti e piit perspicaci intelletti ammettessero cotesti esseri intelligibili di cui favelliamo, anzi ad cssi soli stimassero convenire in proprio la denominazione di enti^ parmi bene di lion cbinderlo senza rendere prima raglone di questa lor mente, coociosslacbi il non saperla impedirebbe la retta intelligenza di i]n principio cost sublime e cosi conleso. E veramente se noi sgdardiamo superficlalmente la raglone cbe, il piii comnne, si arreca di quel decreto di tutla Ianlica filosofia, noi cl arre* stiamo al caraltere della imolulabilita o mulabilita di que due Digitized by Google generi tii coH^ leggendo spesfo per gU antichi Itbri, che eati non si poRsono dir quelli che non si trovano in uno s,tato giam* mai, ma solo quelli che immutabilmeote permangono. Di che noi potremmo, dedurre, che quando nellc corporee Cose si po> tesse trovar parte perfettameate qoiela ed immutabile, aache ad esse dovrebbe attribuirsi, secondo gli antichi, il nome dl enti. Cost veramente la intese Epicuro, ma il vedemmo canzo natojdal filosofo di Cheronea^ cost pure egli pare che strave- desse Aristoteje, seva spiegato co'sensisti, dovechiama il mondo u immobile essensa  ' qnaK iuoghi per6 forse inteqder si debbono del mondo inlelligibile tipo del reale, o delta deitA vera sede e fonte delle essenze. Ma io non voglio, come ripeto, contendere a spada tratta per Aristotele', questione meramente di fatto, e dove i docu- menti a risolverla son forse impu'ri e illegitlimi. Dico adunque, che la' ragione per -la qUale gli autichi diedero I'esistenza in propfio agli esseri intelligibilf, non fu la loro immutabilit4 ac- cidentaie, la quale pu6 convenire anche a'corpi (sebbene.in fatto totti si muovano, niente avendovi di quieto neiruniverso)^ ma bensi la loro immutabiiild essenziaU, cio4 logicamente ne- cessaria, di guisa, che non si pu6 pensare in modo aicnno che non sieno, o che non sieno Sempre stati, o che sieno stall al- tramente da quel che sono. Onde avviene, che Iesistere entri Della loro essenza, sicchi essema ed esistenza sia il medesimo, rispetto ad essi. lodi nota.Plutarco, che chiamando le cose cor* poree non^nti, non intendevano gli antichi, che esse al tntto non fossero, ma bend che I' esistenza non era loro propria ed essenaiale, ma^solo acoidentalmente partecipata. E del dare al* I'antica dottrina nnaltra interpretazione, cosi riprende Goiote:  Ma Goiote, come qnegli che non ha cognizione alcnna di  Blosefia, prende per una m'edesima cosa I uooro non essere, e r uomo esser noD*ente; ancorchi Platone stimasse, che  molto diflerenti fossero fra loro quel non essere, e I non (i) Se, come dice Simplicio, IopinioDe di Aritlolele i quell* che ii mondo reale sia fluilo dslla deiti, non potrebbesi giammsi cbiamar pro* priameolc immobile essenxa: A^/eTOTi*AHc iu 7-iVirSsi/ d^tii rir xa'ejurri aXXd *ot Tftrn tire 3tiu ( In Arisl. Phys, Lib- VlU/ Digitized by Google  esser ente-, e che da quello (i toglieue affatto iaua la m> 4f stanza, con questo si accennasse la diversity del partecipante  e del partecipato n (i). II qual luogo di Plntarco parnai assai acconcio a dichiarare egregiamente P inteiizion degli antichi. E perchi io penso poter conferire non poco al progresso della filosoGa. il conoacere esattaoienle qual fosse la mente di que' noslri antichissimi maestri, reputo, ove me ne venga occasione) intramettere qua ecola di quelle cose che la possan chiarire. Sio chi aggiungier6 ancora qui alcune altre parole di Plntarco me* desimo, che dichiarano meglio le precedent!.  Ha la cosa par* utecipata, dic'egli, alia partecipante quello stesso risguardo, che la causa alia materia, Pesemplare all immagine, la fa* xcolta alPeffetto: nel qual modo principalmente sono diflie* urenli fra si' quello che ha 1' essere di sua natura,,ed i sem*  pre il medesimo, e quello che dipendendo da altro non tien Hmai uno stesso tenore: esscndo chc quello ni mai i statO> u non>ente, ni ha da essere, e per6 veramente ed ia effelto  i eote: -laddove questo non ha pur fermo quello essere che- ogli viene partecipato da altro^ ma per la 'sua debuleiza uspesso i mutato, cadendo lubricamenle la materia dintorno valla forma, e ricevendo molte alterazioni e mutazioni in im*> vmagine di sostanza; di modo che grandemente i agitato e vcoramosso. Siccome dunque colui, che dice il simulacro di vPlatone non esser Platone,- non niega il senso e Pessenza del vsimulaCro, ma mostra la differenza che i fra quello che da vper si stesso ha Pessere, e quello che Pha per rispetto di lui: vcosi non tolgono ni la natiira, ni iuso, ni il senso degli uuomini coloro, i quali per. partecipazione d'una certa sos(anza> V comune aOermano ciascun di noi essere stafo fatto separata* V mente immagine di qiiella cosa, che port6 nel nostro nasci* V mento quella similitudine. Perciocchi chi dice il ferro rovente V non esser fiioco, o la luna, o il sole; ma , come dice Parmenide, uLtune, che con la luce altrui vagando V y^a la nolle cP intorno a la gran terra; V non niega per questo o Puso del ferro, o la natura della Inna:  ma chi dice che non. sia corpo, o illuminato, gia repugua al (i) CoDiro Coiote, XV. . Digitized by Google 479 atenso, cotte qaegU che non latcia il corpo, ranlmale, la go  neraaione, il aenso* Chi conoace poi che qneate coae hanno ala loro eaaenza per partecipazione, ed intende quanto aiano alontaoe da quelle che sempre aono e donano loro I'eaaere; anoD nirga le senaiblli allramente, ma mostra, che coaa aia 'al'intelligibile (aoi^rdr): ni toglie le passiooi, che ci avven- agonOj e ai cpmprendono col aenso, ma da ad intendere ritro* a varai cose piit ferme di queste, e di piii costante iiatura, per* uchi non nascono, n^ muojono, ni patiscono^ e piu aottilmenle aeaprimendo cOn - parole tal diderenza, inseguano doversi al* .acnne cose chiamare enti, ed alciine fiend  (i). CAPITOLO XLII. airozMi delljl fimsofia italica fatta da fadri della ciiibsa. Le piu grand! menti adunque dellandchiU (a) videro assai chiaramente, oltre le cose maleriali e sussistenti, che si percc- piseon co sens!, avervi delle cose puramente intelligibili: vi- dero, i possibili non esser uu mero nulla, ma vere cose apiri- tuali, essenze immntabili, eterne (3). (i) Nel L. roDiro Colole, XV. N6 rinlerprclazione che (ii Plutarco in queslo luogo dell antica dottrins i sua parlicolare, ma di freqiTeole si sconlra negli scrillori aniichi. Niconiaco a region d'escmpio dice: : Quesie cose prive di maleria sono m e Tallre sodo e si dicono equivocamente per pcrtecipatione di quelle mi Toot o*{ }ir, to ooAo, ao/ o'e xJrd pniuri'at fxar-m Xoirir, Toe ipmn'pxt ovTue koAo:/|U; ee, to rf| Ti Xi^tToi xsti iot:. /n Arith, Jamblico:  Direva (Piliagora) eiiii esser quelle cose che vanno prive di  maleria ed elefiie e per ti operaoti, come tulle le iocorporee. Le alire | vd diTXo wt atitx a^i ^aovo* ifao-rnttif awlf ioti tJ arwparea ipuxjpmf da' Xoirer oorot xoto? ^ito^oo eoror eorm aoXoojUfOO. lUt PU/l^ * (a) Cicerone cbiama quesli majores philosophi, |3) Solo meditando questa roaiiicra di esseri , noi giuogiamo a formarci alcun coiicello di Dio, dellanima, dcgli spirili. Per6 chi loghe dal numero degli enli le essenze delle cose, si melle nellassoluta impossibilila di ayere un chiaro concetto di Dio e degli spirili. Peru qual roaraviglia, dopo di CIO, se altri iicglii esistere qucllo di cui non sa furmarsi la minima idea? Digitized by Google 4Ro Ni ilee far niaravigKa, c>ie dopo aver trovata e fermata una cosi aublime veriUi, Iabbiano poi circondata e miata d'errori. Conciossiachi in qual dottrina nmana la verila i mai acevra di errori? CerlOj^ non operano ginatamente coloro cbe ridutano ttttto no corpo di dottrina perchd qoalcbe errore vi si contiene. II cbe accade a qoelli che claasificano le dioaolie co' nomi de' loro antori, e poi, secoodo la panra cbe lor prende denoini reai odioai da alcuni declametori , come fu fatto di qoello di Platone, da gente onorata le rigettano. Preaso alcani i dive- nuto oggidi veramente pauroso queato nome di 'Platone, altnen quanto in altri tempi era la befana: e par cbe quest'nomo, il qual davvero non e de piu dozzinali, niuoa buona cbaa ab> bia mai insegnato, siccb^ per iscartare una aentenza baati il dire, ella i platonica, elPi uacita dalla scuola di PlalonelSe coleatoro conducesaero il mondo, davvero i bei progreasi che in tanti secoli avrebbe fatti il genere umano! Ma io, cbe non ho poi tanti riapetti umani, dico, che la dottrina di quelli cbe Ianticbita ebbe giudicati sapientiaaimi , conviene eaaminarsi, prima di rigettara;: conviene jntendersi, prima di schernirai con qnaicbe epiteto gcaerale: conviene an- cbe, se aiam da tanto, ^ernere dentro ad esaa il vero dal falao, e migliorare quanto in esaa rimane per avventura d imperfetto.' Cosi la penaarono i grandi scrittori della Chiesa cattulica, fra i quali corre subito allanimo di tutti sant'Agostino. SantAgoatino non condannA Platone inaudito^ il leaae, il nieditA, e tolae da Ini qnaicbe cosa di buono. Ni per queato ai fece Platontco: tc Questi filosofin, acriveva de aeguitatori di Platone, uvinsero gli altri in nobilta e in autorita non per valtro se non perchi savvicioano piii degli altri alia verita , oaebbene le stieno tuttavia un buon tratto da luogi  ()> Ecco moderazione e saviezza onde ciaacun uotno diaereto dee procedere. E peru io credo che qui toraera utile non poco, se noi con* aideriamo le emendazioni successive cbe. veonero faoeudo alia dottrina Closofica di Platone i maestri piu soicnni del Crislia- ( Fieri enim potest, sicut Jam in hoc opere supra diximus , ul hoc idea possit, quia nalura inleltigibitis est , et conneclitur HOS SOLUll IKTELLIGIBIUBUS, SfD BTtJU ISIUUTJBILIIWS BEBUS. Rosxim, Il liiluiovammto. Ci Digitized by Google 48a Or si pn6 ben Jire, cbe le idee prese in n falto significato tiano una dottrina comune de'Padri della Chiesa (i). Ma i Padri feoero degli altri miglioramenti alia dottrina delle idee. Ed ecco in breve i loro pensieri. ^ Queste idee, essendo essert immutabili, eterni, necesaarj (a), (i) S. Giuslino, filosoro e mtrlire del secondo secolo dell* Chies*, tro- vava una si falla conveoicnxa fra le idee di Platouei sanamenle prese c le sacrc doltriue, chc ripu(a?a averle il greco litosofo lolte dalle divine Ictlere (L, Centra Gent ). Quests stessa opiniooe maoifcsla Clemente Alessandrino, fcrittore dello slcsso secolo ( VI); e nel secolo IV  Eusebio di Cesarea {Preparaz. Evangel, lib. XI). Tullo Ci6 prova quanto intimo si riconosceva essere il netso fra quelie idee c la crisliana s amenta. BoeiuOy dislinto filospfo c icologo, due secoU appresso canlaTa il mondo intelligibiU o ideate con de'nobili versi:  tu cuncta supemo Ducts ab exempla: pukhmm pulcherrimus ipse Mundum mente gcrens^ similiffue in imagine /btynanit Perfec.tasque jubens perfccium absolvet'e partes. L. Ill dc Cons. Phil. metr. ix. La Scuola non ha mai discordalo .suirmml.ssione delle idee cterne; sebbene venga creduta^ da moderoi, seguace di uu sensismo chc ella veramente non ha mai professato.  no- stra k routabile: m E sc fosse uguale allc menti nostre, dice, ella stessa ( la ** verili) sarebbe mutabile n. Onde conebiude; * Laondc non cs.sendo n6  inferiore, ne uguale, rimaue cli'clla sia supefiore c piu ccccilcDtc n, Que* Digitized by Google 483 come Snlailivameate si manifestano, sarebbcro altretlante deila, quandb esistessero isolate jn si stessc; or questo iassurdo. Dan* qnc convien dire che la loro esistema sia uella mente divina. E di vero 1' intuizioue nostra delle essenze deHe cose cl dice bcns'i , che elle soo cterne, infinite ece., ma non 'ci dice mica ehe abblano necessariamente un esistenza foori della divina mente. Cost corressero la dottrina di molti Platonici,  la pur* garono dallinfamissimo peccato dell idolatria. uE queste ragioni, dice santAgostino, dove credercmmo not uessere se non nella mente del Creatore? Imperocebi egli nod  isguardava in quatche cosa posta tnori dt si, per operare se*  condo quAa^ il che sarebbe saerilego ad opinarsi. Che sfi u tutte queste ragioni delle cose da crearsi e create nella mente u divina sono contenute, ni cade nella divina mente cosa la  qual non sla elerna e immutabile, e principali idee le ckiama aPlatone^ elle non pur sono idee, ma vercmeHie soiiof perchi Ksono etecne, e tali e incomointabili rimangono, e ci6 che i, ein qualche modo si fa per loro partecipazione  (i). Nel qpai luogo e in tanti altri simili dello stesso Padre si vede, come egli non ammette gla due maniere di ragioni, idee, od essenze delle cose, Iuna in Dio e Ialtra in noi^ il cbe sarebbe assurdo, come piu sotto dimostreri; ma sV anzi, come ai tutto egli sia persnaso, che le cose s abblano le loro semplici essenze, o in* telligibilila, onde sono conosciute e a Dio,, ed a noi, ed- a tutti gli esseri che conoscono (a). sto trgomenlo, che santAgostmo fa net lib. II Dt lih. Arbitrio, c. XI e XH,  ID piu altri luogbi, i iDelullabile. Ora gli oppositori potraono bene spre- giarlo, si come fanoo, ma non mai confularlo, credo io. E da questo aol puDio, del sapcre se la verila inluila dalla mente h qualche cosa di divers* dalla mente,' e superiore alia mente, pende tutta la gran questionc dello idee. (1) L. LXXXIII Quaest., Q. XLVf. (^) In alcuni luogbi Plalone melle ancbegli Ic idee nella nacnts divina ;  cost anco I'inlendOiio alcuni Platonici. Eualrazio scbbene commentatore di Aristotele dice espresiamenta che pose le idea uella cogoizione di Dm: juiv Tr^t Tw ta oufiattf ttitSf, Torlraiv dearrm, iv tm rav infjucufytS btou oars; > trifd rrav aer^ auTSvf I'a rii CXf ;^fffdTToirrac (In I Bthic. Aviat. fol. to). S. Girillo Aiessandrin*. Irova incerto Platone sopra di oiA, a in oonlraddizionecon si stesso; mDi' m Iota Platone afferma, cosl egli, esser (le idee) sostaozc separate e per  si suisisleiUii lal aJtra Io delinisce DoziMi di Dio. Ma anco i suoi diace Digitized by Google ^fo1ti allri migHorarienl! ricevelte questa dollrlna nclle mani 3e Padri., Siipu6'dire, che ella ebiie un_.progrcsso teologico^ impcrbcchi i suoi incremenli nelle mani degll scriltori eccle- arastici' provenuero piii tosto dallo studio di Dio, che.da quello dell'Uomo. Toslocbi ginnsero essi a.fermare.quesle.due verita , i.che le idee.eranO'indubitatamente, ed erano immobili, etcrne, necessarie,i2.'cbe eranodo Dio; questa dottrina rimaneva og- gimai connessa alla.teologia crisliana indisgiiingibilmenle, e pero dovea ricevere :un lume,. uno sviluppo, un progresso.da essa teologia o naturale o rivelata. La nozioue pertanlo di Dio e de. fooi attributi metteva i^pensatori ia sulla via a ricercaro come queste idee potessero Irovajsi in Dio , e cofte conciliarsi alia divina nalura^ rlccrche di somma rilevanza e per la teo- logia e per la filosofia stessa. i  . t I risultamenti .furono qucsli ; . . . . . . * : I. Si vide, che il'complesso^di.queSte idee in Dio non por leva esser cosa diversa dal Verbo divino (i). m poll pcrili di qnesla mBleria dicono cliegli qoo Bvcsse in cio una femi* m seiilrnza sdoro di taiito' errore. . (i) Mel.III secolo .Origcne, commentando il principio del Vangelo di saa. Giovannii spiega la parola Xa'^a; per rsgiuiie, quale sta Delia ,meote dellar-, leilce, accioccbe . si facciano le case tulle, secoodo la sapienza, e fecondo ale figure del coniplesso, delle .iiilelligeiize cbe souo.iu essa., Imperoccbi a. io sumo, cbe come .uua casa, o uua nave si edifica o si fabbrica secondo, > le figure e lorme concepile nelle inenti di quelb che presiedono allopera, M preiidendo la casa o la nave il suo principio ds esse figure e ragioliqcbe M sun nell arteficc; cosi le cose tulle sieuu stale operate secondo le ragioni,  delle future cose gia prima, roauifeslale.da Din uella sapienza. Condos-, r siacbe tulle le cose , egli fece ,nella sapienza. d  da dire cbe avendo  Dio creata (se mi e lecito coil parlare) la sapienza, alia cura,di lei com-, w roise il dare agli enli e alia materia sussisienza, c improola , e forme  dalle figure c specie ( io peiiso) cbe ella aveva in si stessa . (In Jo. c. i ). E sebbene qiieslo passo alluda a de luoghi delle sacre Scritiure, lultavia, rcpulo ueccssario uotarc, ,clie alciiiic inaiiicrc di dire non rcgguuo, a mux Digitized by Google . a.* Clie esse nuu ^ ..cvano arere in Dio alcana distinzione reale fra loro, perciocchi ^ci6 avrebbe posto una moltiplicita neiressCr divino eontrario alia semplicita della'sua natara,- ma dovevano tutte essere. accolte in iuaa .idea* sola indistinta dallo stesso Verbo, e cosi le idccJn Dio veniyano ridotte a pcrfeN' lissinia nnita (i). - n . j 3.* E perciocchi irVerbo non,i raiment* distinto dall'es- senza divina, per6 quesl'idea pure indivisa dal Vt'rbo non do* v.ea avere. alcana dislinzione reale jdalla stess'a essenza .diyina, di'guisacbe la stessa divina essenza fosse VinuUi^bile'stt'sso {^). parere , rolls catlolirs verili. ImperocchA non si pUo dit-p die sia stall ijreala la sapiebza, ove ella. s inlenda pel Verbo di Dio, n^ che in''cssi si Irovino specie od idee da lei slessa reabrtenlc.distidle. > , 's - SanlAgoslino in modo simile^ cominento Ic site parole di san Giovanni ove dice die * lullo ci6 die ^ siato fallo nd Verbo era vita . n Tulfo cid, dice il vescovo dTppnna, h che IJdio voleva farendia crealura, era gii nel  Verbo, ne sarrbbc nelle coSe, se nd Verbo non! fosse siato; come ri-  speito a Je, nulla sarcblie oella fabbrica .die tu.'fii, se^non fosse priraa > nd luo consiglio. Siccome dices! nd Vangdo : Qudio cbe e sialo . fallo  ill piso era vila.' Dunqiie vi avca gia qiiello die i siato fallo, nia vi area  nel Verbo, e 'liille le dpcre di Dio' eranO ivi, e le opere ancora non eerano h {Tract, in Pj..lV, t in~Jo, I). I luoghi de^li scrillori ecde- siastici cbe contengono la dollrina slessa sono comuni, e polrei recaroc sgevolmenie di tutti i secoli della Cbiesa. . , (i) Sanl'Ansdino, uno de' maggiori liimi d Ilal^, nel secolo XI annun- zlava elcgantissfmanienie quesla vcrila , dicendo die Dio uno eodemque (Ptrbo) liicii se ipsum el quiAumque Jitit yMoriol. c.' XXXII)'. . (aV S. Tommaso dAquino nlel secolo X^II scrives, cbe * Dio, seconds n la sua essenza, i simiUtudine^di lulle le'cose. Iiaonde Tides in Di ndn 9t ^ allra cosa^ se non T essenza di Dio m S. ! XV, i, ad 3.  ' lo prego il C. M. di voiermi'dire in*qual modo egli crede di dover in* lerpreiare quesio passo deM'Aquinate; acciocch^. si possa coociltare col slidee di PIa(OQ&? s'JngaDDa assaiise lo'^crede. AocbeVAqui* Date le ammelle,. purch^ sceverate d' erroci^ coo tutla la tradiziooe cristiasa. Jjegga, o .rammeoli . r^rticolo .ilL della . citata Q.j XV tdella P. 'I;t il qual trover^p cbe comiocia appunto coils dollrioa di PlatooCp diceodo': Cum ideae  A, Plaione ponerentur, principiatCOgnUionis rerum, et- generationis^ipsurum, .ad utrumque.se^habet idea, pi;o .ui in menU.^divina ponitur. adunque il .Dotlore.aogelico sitfajegusce dij Arislotele ?  La . risposta A  facile. Aristotele pu6 essere inlerprelato in varj modip'eidec, ma aolo.cbe rigelliiilifarle sussisleiili Cuori dciriatelleltOf di.ccj irpproltal opinionem'Pldldnis dt itUis'* a1 fondo ) idenliche alle idee della mente divina. Indi coachtai'* sero, per uoa indeclinabile consegueaza, che le idee delluoino erano un' arcana coimiDicazione delle idee dirine, o sia che ruomo vedeva le idee in Dio ()', che Dio, rintclligibilitit di- vina, it Verbo divino era quello, cone dice la Scrittura, che uillamina ogni uomo veniente (a) in questo moadon (3). Coslf i teologi nella stessa fede cristiana rinvenneiA ana eccelsa filo (i) Quests msniers di dire dee iotendersi in saoo modo, perocch^ press lU leUera, come Tba usaU Hinlebranche, io non saprei approvarin. E se Doi consideriaroo altentamente, e rafiVondamo insieme i luoghi de;' Padri, Boi la veggiamo in varie guise lemperata* Coosideriarao questo passo di S. Agostioo, cio^ di quet Padre che ha mo^lo illuslrala colale doUrinaf e per cosi dire falla sua, sebbcoe 'veraroenie ella gli diacendesae da' Padri anterior!. Riprende a^ stesso in un luogo delle Riiriltaiioai (L. I, c. viti) dell'aver dello, che Papparare che faooo gl'idioti, non d che un ricor* darsi le cognizioni dirueolicate, it che era placito di Platone: m Questo Io m riprovo, dice. Perocch^ i piu probabtle che gl imperil! rispoudaoo il m wero di alcune disciphne, quando son bene inlerrogaii , per questo, cdie r ad essi ^ presenlev quanto pud in essi capire, il luroc della ragidne  eterna, dove veggono quest! imrouiahiti veri; non perchd gii avesser co ene il saolo Dollure dica preseote airaoima iotelligeole il luroe della verita eterna, clod il lume a ronoscere, sleno create u interamente diverse dal lumc ttcruuf In i{iirstu modo, a mio parere, si conciliano pienamehte i dl> versi luoghi del dotlore d' Aquino, che sembranu di primu tratto cnntrarj fra loro (i). M'a di ciu piii a lungo allrove. II. Ella i cosa indubitala, cbe il lume che Iddio comunica all'inlelletto umano, non i tiillo il lume divino, o per dir uie* glio, bon e comunicala airuomo, pnu essere comnnicata mai a creatiira, la divina essenza interamente, come quella cbe k infiuita. Il lume adunque della divina idea, o proprianicnte del diviii Verbo, in venendo alluomo comunicato, riceve una cutal liinilazionc delerminata dalla volouta del creatore. L.t qual liiiiitazione non e controversa^ e qni santAgoslino i in picnissiinu accordo eun s. Tommaso. Peru cbi viela il clviamar questo lume crvaCo, tu quanto egli ba seco un modo, una legge, un limilc cbe non tiene nelha essenza divina? Pud dunque dirsi increato nella soa propria eutila, ina creato nel n>odo  (iirma particolare in cbe rispleiidc airuomo, o ad allre quali si vu- gliatio create iulelfigenze. Egli & s. Tommaso che concilia sd stcsso in questo mode coit sanl' Agostiuu. E iunp c Iallro adunque ot l fondo ricoiioscuiio, cbe il lume divino, I'essenZa, Pidea divina puu considerar.si u in si slessa, u come vieiie par- teci|iala airaiiiiua^ iii'sti slessa e sole, partecipata c- luce. Eeco le parole di s. Tommaso:  Cid che fa in noi le cose iiilellrgilxli a in atlo per mudu di lume pai tecipato, i qualche cosa del- ranima(a), e si molliplica secondo la moltitudine delie aiiiroe (i) S. Tommaso in assRiSsiini luoglii distingue essetizialmeiile i fantasmi dalle itiec, di gnisa ctie gli uni non baniio la minirua coinutiioiie di nntiKa colie altre, ne quell! sono esseuziali a quesle. Ma ^erchi la uusira iiienle si rivulga a queste, perchi le iniuisca, ell Ira bisogiio di essere eeeilala da* faniasini, i quali nmsugniio cosi illustrali dalle idee; r.ioe quest! vengouo dali* /o alio idee riferili, come uii cotal realizsanieuto o snslauziaaienlo (se cosl nc lice purlnre) di esse. pa) S' inleiida bcue; queslo m i qualche eosa deirauinra *t non pu6 voler dir altio, se nun, che e congiuiilo sustaiiziahneiite all'anima; perm'ch^ si tralla di un lume eteruo dairaiiima partecipalo: ora il' lonie eterno pno beusi unirsi iiitiniamciile coiraiiiina, ma non niai eoir'aiiniiu coiifonderfi, uri qual (,'aso umtcTcldie la sue lialura iiuihutabile , e cesserehbe d'esser luiite. me 'legli uomini. Ma eiu die le rende inlelligiliili, per niQdo u del o. Laonde uAgoslino dice (a): La raglnne promelte dl dimn.strnre Iddio  itotele) : Non mulutm atUem rrfert Jicere quod ipsa ihulUgibilia pOrticipantw a Deo,yel quod lumen faciens intelligibilia (i). Fill qiii la Scuola teolugica, la cui unanimila non mi fa dubitare di dire die le doltrine esposte apparteogano all'es* scnza del Catlolicismo. Ora ngn.un yede cbe io pervenni agli stessi risulUmenti, ma per ua'altra via. La Scuola (eologica parti, come dissi, dalla nii'ditazinne di Dio: io partii semplicemeute dalla niedilazioue delTuumu, e mi trovai iiondimeno pervenuto alle coachiusioni medesime. \ Queslo Hnscire ad un medesimo terminc da due opposte (trade, egli e, parmi, una conferma, una riprova della verita. Ma oltracciii la doUrina, se non erro, ricevette per tal roodo una niiova illustrazioue,' una magglnre evidenza, e fors'anco Io stes.w liiiguagglo trovA maggior precisione, e piii sicuro e fermo anilamento il ragionamento. Io debbo splegare cbe cosa voglia io dire con do: ecco in breve i principali puntl di veduta, da quali io esapilnai la couoscenza umana. 1. Primieramente posi una somma attenzione a distinguere in cssa il materiale dal formate. Sebbene tutti facciano cenno di questa dislinzione, tuttavia sono profondameote persuaso, cbe non vebbe un iilosofo ( parlo di quelli chio lessi) cbe ne ve- desse, non di lancio, ma con un pensiero veramente perseve* ranle, la nalura, e die ne aenlisse 1 importanza. lo notai cbe materia delle cognizioni non potevano chiaraarsi se non I sussi* atenti individui di una specie, la sussistenxa sola formava la materia della cognizione (3): vidi cbe la specie sola {idea) (3) (I) S. f, LXXIX.  , (3) Quesla sussisleiiza si ptiu anche soUmeiile pensare coUajulodi quells ' die iu clitaino immaginoziotie inUUettirn . sthUvue clla eon sia ; ciod si pu6 (Id iioi suppurre, si puo amineller die sia. I.oggello proprio di qursi'allo e anebra materia, e Dou forma della cognizione V ha dunque una materia susristerUe, e una maleria afiermala mrulaliiieiile, a cui perd non compelc in alcuii iiioilo il liiolo di maleria ideale. Materia ideate non e che I idea cieila maleria o della sussisleiiza in geuere, e non iiiai la materia slessa par* licolarc airerinala come reale. t3) Qui io prendo idea c specie come sinoiiuni, selilienc propriamenlc pailandu la specie i Videa considrrala uella sua limitazione soggeltiva. Digitized by Google frlli'llivo. e ^ esrlnica Jairinfi'IIclln : f prr'i Ma sola la sni- sislrnxa. die ha quesla rsclusione, v. nulla piu. TuUe le (|iiali(a Hdle cose o accidental! o sostanxiali hanno agiialmcnle les> senr.a intelletliva , I'idea, e pcr& Inite appartengono alia cn> gnizione ptira e formale. Quesin i qiiello che non fu ben sen* titn. per quanto mi pare, ni afTermatn da nessunn. Conclnsi dunqu^ che- la sussistenza o realitii delle rose, e solo la sussistenza o re^llla costitiilsre la materia; P ideate al- I'incontro costituisce la forma della cognizione, cio# a dire la parte altuale ed essenziale di essa medesima cognizione. II. Quinci andai innanzi: dopo arer piirgata la cognizione dalla parte sua materiale (sussistenza delle cose), e ridoUala alle pur* iilee (i possibili, le essenze); io mi applicai a raflron- tare le varie idee fra loro, e trovai che le une' rientravano nelle altre, le piii- determinate nelle menu determinate, e che erano si fattamente contenute quelle in qiieste, che fra le une c le altre correva ana perfetlissima equazione^ di maniera che meltendo da una parte un idea qualsivoglia piii indelerminata, e dallaltra qticlla stessa idea determinata in tutti i modi pos* sibili e pcri^ moltiplicata in un numerq infinito d' idee, questo numero infinito didee si riconoscevano preesister tutle nella priroa, ni valer per^ piu di essa, sebbene in essa non vi fosser distinte.  Non oecorre mica qui fermarsi, dicendo: come cii^ fia possibile? non dee es.ser cos'i: io non ne vedo la possi- hiliti: egli sembra che cid iiivolga una specie di assurdon.  Quest! parlari sono indegtii di un (ilosofo. Perocchi qui non si tratta, come tante volte dissi, di sapere il perche e il come, ma traltasi solo di sapere il falto; non hassi adunque se non a osservare, e se la cosa si trova essere, mediante 1o.s.serva- zione e iiituizione immediata del falto, hassi a confessarlo^ .e s' egli par duro, confondersi coraggiosamenle in esso, anco a costo di sentire tutta Piminensila della propria igiioranza. Io dunque osservai, e vidi le idee menu general! contenersi indistinte nelle piu general!. Di qui mi feci accorto, che distri- hiiendo le idee piramidalmentc, prima l piii particolari e mol- tiplici , e sopra quesle le menu particolari e ininori eziaiidin di numero , si doveva necessariamenle .sal ire ad una idea prima, che formasse la punta della piramide: e si doveva Irovare Digitized by Google chessa valeva per tiitte: eisa dovea abbracciar nel siio srno e stringere tutte le atlre, dovea esser (|ueUa a^ipaiito, die roediaiiUt distinv.ioni e drteriiiinazioni ia tulte I'altre si iDoUiplicas.se. Cos'i giunsi a rntuire ridessivamente Iidea dellV.wre possibile imle- terminato, e a scuoprire il fonle vero e puro di lotto lo scibile.  Ora se nfoi rafTrontiamo qiiesta teoria filosofica a quella teo- logia gia piu sopra esppsla, paniii die quella riceva da quesla gran luce. i. In primo luogo non vha piii pericolo alcuoo di caJere nell idolatria plalonica, la quale era inevitabile ove si fossero amniesse piii idee realmente distinle, cia.sriina imniutabile, ne- ce.ssaria, eterna ecc.  All'incontro dalPitlMi' unica cbu iiel sno seno raccoglie tulle le idee, o piutloslo die in tulle la idee si Irasfonde, perdii i la conoscibilita di tutte le cose, egli n'i facile argomentare all'csistenta di un solo Iddio, a questa i'la dimostraziooe della esislenza di Dio a priori, da me sposta nel Nuovo Saggio stdC origitie dtllt Idee:... a." La moltiplicitii delle idee non mette piii a pericolo la semplicita divina^ imperocchi ad iina sola tutte si richiamann: k nn lume solo e seniplicissinio, che ogni cosa irraggia e super* nalmeote manifesta. 3.* Questa idea unica e sopra eminente, vera e pura luce, ^ I'ente stesso conoscibile. E I'essenza divina e appunlo riposta nellessere, secondo le scritture e i teologi. Or avendo I'essere questa propriety di essere conoscibile per si medesimo, per si luce, come lo cbiamano le divine scritture^ vedesi che tutta la conoscibilita delle cose i nella divina essenza. 4-* Finalmente distinguendosi appunlo nelP essere realmente due forme o modi primoi^iali, che io chiamo la realita e I'i- dealiiA, I'essere reale e Iessere ideale (i); niente vieta che Ies- sere.ideale, la conoscibilita essenziale, in quanto si trova con- giunta e identica essenzialmente colla realita assoluta, appellisi il F'erbo di Dio. 5. Ma se una sola i Iidea fondamentale , e se tutte le altra (i) fu non parlo qui dell'essere morn/e^. terra forma priniordiale detre.s> sere; per non gillare nel discorso qualcHe cosa di iiiislerioso, che non po- lendo io fermarnii a dichiararlo, lurbercbbe Ibrse la meale di quelli che Irggono, in'utilincnte. Digitized by Google sono in essa benii ma indislintamenb:, onde i poi il priacipio della distiniione? Ho toccato sopra di' questa gravissima que- atione 1 opinion mia in nna nota apposta ad nb passo di Dio- nigio. Replicher6 il mio concetto. La volonta divina creatrice vide ab eterno nella divina esaenza , e vedendo , cceu le cose tntte nel tempo. Or veggendo, e creando cost le cose, distinse le cose mediante il rapporto delle cose vedute alia essenza di- vina. Quindi le cose create vedute da Dio nella divina essenza, costituiscono le determinazioni ideali della divina essenza in quanto essa i Tessere intelligibile. E per6 anche in noi mede- sitnamente Iessere ideale ritnane determinato dall azione- delle cose sopra nol^ perocchi egli.divenla altro ed altro, secondo che ad altro ed altro di reale si riferisce. III. In terzo luogo^' io misi ad esame q'ue$t'idea prima e so- vrana, quest essere intelligibile, lume di ogni ragione: e pri- mieramente scoprii in esso i piii manifesti divini caratteri del- IiniiDita, dellcternita, della superiorita a tutte le cose,' del- lautorit4 suprema ecc. Di che conchiusi dover esser cosa ap> partenente solo alia divinita. , IV. Ma io maccorsi nello stesso tempo, che il nostro natu- ral modo dintuire Iessere intelligibile era limitato ed angusto. Tolsi adunque ad invcstigare in qual grado egli era manifesto all uomo' per natura. Qui notai, procedendo scmpre colla semplice osservazione interiore, i." che nella mente egli i diviso da ogni realita ed attivitii reale, non essendo che pnramente conoscibile^ a,che- gli perci& stesso non mostra in si alcnna determinazione, e che perci^ egli i come un cotale iniziamento dell essere complelo; giacchi Iessere non si compie, nella sua entita metafislca, se non mediante le due forme insieme accoppiate della idealitii e della realita. I corollarj che da ci6 dedussi erano manifesti, ciod: I. Non si puo dire con csattezza che noi veggiamo Dio (Ies- senza divina) nella vita presenter perocch^ Dio nod i solo Ies- sere ideale, ma e indisgiungil^lmente reale-ideale (i). (i) Ovc noi percepissirnb I'essere non solo in quanto e idiale, ma ancbe in quanto i rcale, uoi entrercmmo in uno st.ito soprannaluralc, il quaf Sii- rebbe, secondo i gradl. o di grazia, o di gloria. Rosmimi. Il Rinnovamenlo, G3 Digitized by Google 498^ die noi veggiamo peru c uti' appartenenza di Dio, e completandosi acquistcr^ la forma di Dio. Iddio ci'oe ci si mo- stra ^quaggiu solo in quanto ^ ente intelligibile pqramente (ve- BiTA^), e anche cI6 in un grado limitato. S.'^Questa limitazione dellessere da noi vedulo, ^ al tuUo soggetllva-, cio^ nasce dalla parte nostra, e non dalla parte delTesscre stesso, cioe di Dio (i). (i) Vebboro non poebi, come gia.bllrore accenoai^ che prima di me conobbero, V essert far fuQicio a noi di lumc interiorc dcllc menti, ma, per quanto mi pare, i piii )o confusero con Dio; n^ s*accorsero tamporo cbi* Tidca deirt'.sserc conicneva in Ialtrc idee supreme di vcrjta, dl giiistizin, di l>rllezrn, di unilh,.di ordinc ccc., Siccb6 bisciarono queste indipendenli da quolla idea scmplicissima ebe tutte Ic rarebiude, od ^ ella stessa sotio diversi rispeUi conslderata. Ecco come parla lih grand* uomo italiano, it Ficino:  Le comuni notizie della l>onlti, della vcril^, cbe gill prima pro* c Tammu Irovarsi In tutle le menti, per qucslo nppunto cbe assiduamente *t runVontan fra loro le cose vere e le buone, insegnano cssrre Iddio h. Ve dcsi qui come si mctlono insieme le nr.tizie della bonta t della verila, senza unificarle nelPessere? Di poi proseguc a mostrarc che quella bonta e ve* riia i Dio stesso che luce alle menti, cosi: w Se Dio i la veritli stessa  la m bonia, consegue che risplenda alle menti degli uomini Iddio stesso ogni M qual volta noi giudicliiamo le cose vcrc e buone secondo Dio faltosi norma w nostra m. Ora la bonta c la giustizia in quanto sono norma dcnostri giu* difj, secondo noi, non si possono dire Dio, ma solo apparicnenze di Dio. Poi viooc air idea dell'cssere, c dice cost: *. Ottima osserva* zionc, ma cbe non si pu6 volgerC a provare, die T essere che noi veggiamo, a quel modo che noi il veggiamo sia Dio, bastando chVgli sla I'cssere ideale e comiioissimo, senza realila alcuna %ggiuota.'  La seconds, percbe in virtu \ Ma il Fictoa noo isviluppo questo grao priocipio, c dedussc qucllo ebe non si potea da lui logicaioente dedurre, doe cbe fosse propriamente i>io, non potendosi dedurre allro, sc uod chu uua apparteocuza di Dto. 11 passn dd Ficiiio d uolissiino, e nc faono uso il Tomassini c il GerdH, adwreudo ai sculimeuti chc cspriine qucll'insignc lilosofo loscaoa. 5oo cessita, e la beltezza della eausa che noi agitiamo. E clii legge, voglia comportare benignameate quest allangamento del nostro discorso. Perocchi se dinanzi ai tribunali civlll si presentano delle scritlure piii Toluminose di questo stesso trattato, a di- fesa di un po di roba materiale , avente un pregio villssimo in paragone della sapienza^ perchi si disdegnera cio che noi troviam necessario di scrirere in una causa, doredifendesl nulla meno, che tutte le ricchezze intelletlive e niorali del genere umano? Le quai ricchezze pendono veramente tulte da un punto solo, dal sapersi cioi, se vabbla o no una verita eterna, in- dipendente nellesser suo dalluniverso materiale, e di pari dal* Iuomo, e da ognaltra limitata per quantunque eccellente natura. Tutto sta dunque, tutto si riduce in provare una cosa, che la veritA non i un modo di qualche ente limitato; e se fosse, avrebbe perdnto ogni pregio^ tutto sta in provare ben fermo, come dicevo, che vhanno degli esseri intelli^Ui, ai quali il nostro spirito i unllo indivisamente, e pei quali solo puu co- .uoscere, e conosce tutto ciu che coaosce. A provare una verita si alta, qualunque parole non sarcb^ bero soverchie giammai^ perocchA ad essa tutte 1 altre verita sattengouo; e per6, io mi consigllo di non dover dismettere quest' argomento , senza ribadire quanto ho detto fin qui , coa i\iiovi # ineluttabili argomenti. E dico in prima, che se Iuomo placldamente considcra tutte le cose sussislenti a Ini cognite, gli dee esser facilissimo a ve- dere pur questo, che in esse non vha nulla di cI6 che si chiama conoscerua. E pure questa conoscenza i, qualunque cosa ella sia, pei'occh^ egli veramente conosce. La conoscmia adunque, e la sussistema delle cose, non hanno niente di simile o di co- mune in fra di loro. Convien dunque dire, che la conoscenza sia una cotal forma, un cotal modo di essere diverso c in op-oler diverso di essa attenzione, cbe i la virtii che applica I in- tendimento agli oggetti. La ragione adunque della varieta del- Iintuire mentalmente, che mostran di I'ar gli uomini, nun i negli oggetti stessi, sempre uguali, senipre ugualraente visibili a chi in essi mira ^ ma anzi ella & tutta soggettiva , dipende tulta dallaltitudine c attuazione del soggetto intuente: a quell* I. II, c. Xtl, iv. Digitized by 5o3 gnisa appiinto, die molt! lionilni accnlt! insieaie noQ veggono tiitti ugualmente gli stessi oggelti natural! die stanno loro dintorno, perdii dii sguarda da una parte e chi dallaltra, chi pill bada ad una cosa c chi piii ad un'altra, senza die gli oggetti present! e uguali a tutti softeriscauo per questo mo- dificazione o alterazione. Le varieta dunque dellintuire umano non oiTendono punto Targomento proposto, perocchi ad essere efficace questo argomento, basta che gli oggetti mental! sieno atli ad es'sere ugualmente intuit! da tutti gli uomini ben di- sposti, eziandiochi^ non tutti, gli uomini ci badino, li afGs> sino in ugual modo. Ci^ posto, io dico che ogni uomo di buon senno, il quale consider! a ragion desempio le verita matematiche che s'inse* gnano in Europa e ugualmente in America , e dimandi a s stesso se la verita che due e due fanno quattro, o Laltra che il quadrato dell ipotenusa i ugnale a quadrat! de due cateti, od altra qualsiasi, la qiial sintuisce dagli American! y i si o no una veritii identica di numero con quclla che intuiscono gli Europe!; non esitera un punto a rispondere a sS stesso, che ciascnna di quelle verita e una, identica assolutamente, semplicissima ; e che non ci potrebbe essere goffezza maggiore che il credere, fossero tante verita diverse,, quant! sono i paesi in cui si contemplano, o quanti gli uomini contemplanti. Que* sto k ci6 che suggerisce pur il primo pensiero; questo i ci6, a mio credere, che tutti gli uomini tengono per indubitato, e per6 che h un vero patente, indettato a tutti dal senso co* mune. Lo stesso si dica di un idea qualsivoglia , per e.seni- pio , il cavallo intuito mentalmente, Iuomo, ognaltra cosa, di cui si farebbe in Europa come in America una uguale de- finizione. So bene, che a questa semplicissima risposta dell imparziale e non prevenuto buon senso, a questo risultamento della 'pura osservazione interiore, succede a intimar guerra il ragionamento. E quali sono Ig sue armi? il solito: come puu es.ser la tal cosa? io non la intendo. Cost il ragionanteruo caccia V osservazione ^ perchi egli dice: ula tal cosa non puu essere, dunque non in. L osservazione dice: ula tal cosa' i, dunque en. 11 ragiona- mento dice: io non intendo; ma ciu che non-iiitendo lo, non in. Digitized by Google 5o4 L'osscrvazione airiiicontro: xla tal cosa s'lntcnJa poi o non s'inlenda, ella briga non si prende. Tultavia iacciamoci a seguilare, sc ci e possibile, le sotli^ gliezze de* ragionamenti, die vorrebbero impugnare Ianiinn- ziata vMU di osservazione. Primieramente io suppongo die il ragionamento ogginiai non osi pin dire cbe il cavallo, o Tuomo possibile, o i rap- porti denumed, o degli spazj, o altra vetila ideale sia iin mero uiente : perocch^ ci6 non credo cadere a niuno in animo: quando il nienle non ha diflerenze, ma il cavallo pensato si vede aver dilTereiize dalluoino pensato, e cos'i dicaii dell in* finita variela degli enti ideali. Oltracche gli stessi nostri av> Tersarj, come il MaOiiani e il Romagnosi, nun pensano ch .siano liiente quegli enti intelligibili, ma li dicono ben modiji- cazioni dellanima nostra. Posto dunque, die Iessenza conoscibile delluomo, del ca* vallo ecc. sia qualche cosa^ il ragionamento, cbe va senza guida dosservazione, dirit al suo-solito, e colla sua solita sicu- rezza: ciascuno si forma un idea diversa delluomo in geircre, del cavallo ecc.; ma riescono nulladimeno queste idee uguali, perocchi sono formate tutte da oggetti uguali collastraziODe, e secondo uguali Icggi intellettive. Il ragionatore cbe cosi ci opponc, non ba inteso sicuraniente iintinia forza dellar nostra proposizione. A rispondere con piii chiarezza e brevila, io immaginero di ragionare col raio amico Maurizio, immaginazionc cbe sempre mi alletta. Quel sutlile ingegno mori giovanissimo, eom^ iioto, e io mi ricreavo so* vente con lui nel .giardiuo domcslico ragionando di materie filosofiche; sebben egli, come meglio comportava Ieta sua, piii cbe coA me, tenevasi volontierl con quelli di Condillac e di Bonnet; ma sempre il faceva con somma modeslia, e il tro- vavo pieno di una ammirabile ragionevolezza. Sarebbe dun* que assai verisiniile cbe fosse intervenuto fra noi il seguente dialogo. Antonio. Ho inteso Iopposizione vostra, o Maurizio (quella gia detta innanzi). .Ma permetteteroi cbio vi faccia un altra qucstiqne. Voi avete parlato di oggetti uguali, di leggi uguali del pensarc, di uguali idee. E bene, ditemi adunque se inten* Digitized by G---Ogle SoS 4cte parlAre di una ugmglianzn perfelta, o imperfelta.  prima di ritpondermi pensatc'ci bene. Maurizio. Perfelta, altramenle non carcbbe uguaglianza, ma similitudine, analogia, o comecchi aliro si vogiia cliiamare. A. Gli nomini dnnque da' qnali sastrae Tidea dell' uooio in genere, saranno tulti perfettarncnte uguali. M, egli basta cfae sieno ugnali in ciA che forma la na tiira loro^ .easi hanno nna natura romone, e questa ai astrae da tulle le varieta, formandosi cos'i Iidea gcnerica delPnomo. A. Bene sta; dunque gli uomini, che si paragonano insieme a vedere ci6 che s'abbiano di comune, per aslrarre quests co- mune e formare I'ente nientale dell'uomo generico, saranno al meno uguali in quelle proprietii che, come voi dite, formano la natura umana, e che sono quelle che si cstraggono. Af. Cost i. A. Badate per6 quello che voi dite. Imperocchi io dimando, se ne'singoli individui v'abbia una parte che sia veramente comwie,e veramente uguale d' una uguaglianza, come voi avela g\k dctto, perfelta. M. E perchi no? qnal dubbio che la natura nmaiia non sia in tulti gli uomini uguale , perfettarncnte uguale? A. Io ve Iaccordo pienamente, quando c intendiamo. Se per natura umana voi intendete un ente idaele^ .qon sassi* stente, intendete quell' idea, o e.ssenza mentale che si chiaaas natura nmana^ e se voi, col dire che in tutti gli uomini i uguale la natura umana, volete signifirare che in ciascuno havvi tal cosa, la quale, benchi diversa in diversi individui, tultavia risponde sempre a capello all' idea stessa, alia stessa estenza mentale colla quale noi la conosciamo^ io sono interam^nte con voi, o a meglio dire, voi piu tosto con me. Ma se per opposto, voi, mio caro, per natura umana intendeste quel||p cosa che realmente sussiste in individui diversi, io non vi accorde- rei, che ella fosse uguale in tutti. Imperocchi vi dimanderei: la natura umana che sta in un individuo, ha ella quella me> desima snssistenza che ha in un aitro individuo? E se vogliamo che questa natura umana sia formata di corpo e di spirito, vi domando: il corpo di un uomo ( prescindendo interamente dalle accidental! differenze, e intendendo Id soslanza corporea) Rosmini, Il Binnovamento. 64 Digitized by Google fij'gll iJcnlieo a1 rorpo dngli aliri nomini? occupa cgli lo slnsso liiogo? o ciascun corpo occupa nn luogo diverse)? c cosl lo spi- rito di un uoiiio ( setnpre falla aslrar.iooe dalle dinerenr.c , e supponendolo eguale in tulto it reslo agli altri spirit! ) sara egli identico alio spirito degli altri uomini? ogni spirilo cioi non avri^egli una sussistenza propria e incomunicabile? si pu6 dunque dire cbe la natura umana veramente e realmente sus- sistente in un umano individuo, sia ugualc di pieno alia na- ture umana sussistente realmente in altro individuo ? M. Ma . . . , io mintendevo die la natura, la qiial si trova jo diyersi individui della specie umana, sia ugual perfettamenle nell altre cose,' fuorclid nella propria c individual sussistcnza. Kd cgli parmi cbe non ci debba esser bisogno di questa eccet- tuazioDC, sott' intendendosi da sh. A. Niente in (ilosu(ia si sott'intende: e lo sragionare, o mio Maurizio, die fanno i filosoG si sformatamente, nasCfe appunlo da cbe sottintendono , il cbe i quanto dire da cio cbe sottraggono allaperto esame, a cui tutto nelle discussion! dee essere sottomesso. E vedetelo di presenle. Vol dite dunque^ die la nature umana i uguale in tutti gli individui della no- stra specie perfettamente, fuorebi solo nella propria e indi- vidual sussistenza di questa natura. M. Appunto^ tale u il mio concetto. A. Bene sta^ or bramo, cbe I'acuto vostro ingegnomat- tenda. Quando mi diceste die la natura umana & uguale in tutti gl individui della nostra specie, in cbe niaiiicra vi eravate voi formate I'idca di questa natura ? A/. Col prendere appunlo quello cbe in tutti gli uomini i uguale e comune, mediante il paragone e Iastrazione, e col rigeltarc quello cbe ne' divers! individui i variabile. A,^ pure questa separazione di ci^ cbe i uguale e comune, 'da ciu cbe k disuguale, non T avevate fatta bene; perocebe io vi bo mostrato cbe anche in quello cbe mi deste per uguale, cio^ nella natura umana, vi i il diverso. Convicn dunque pro- cedere ad unaltra separazione. A/. Si; voi mavete falto osservar giustamente , cbe nella stessa natura comune cbe si trova negl individui, conviene aslrarre da^l imiiVn/na/c sussistenza di essa natura: lolto questo, il reslo cbe rimane e comune. , Digitized by Google A. Ma qucllo >o vi (lomamlo, o Maurizio, 4 appiiiilo die cosa riinanga. Voi avete priina Jivisi gU accidenti dalla nalura uaiaaa: poi avete ancora dlvisa ed astralta da questa natura umana la sua siissistenza. Or io dimando, dopo taote divisioni e astrazioni, che cosa vl rimanga di uguale negl in- dividui: dimando che cosa sia una natura umana priva della sussislenza: sara ella plii qualche cosa dj realc? enlrera ella a furniar parte reale dcgli umani individui? ecco il quesilo, a cui io vogliu che mi rispondiate j dopo ponderalolo quanto abbi- sogna. AI, Da vero, che mi sen to strello. Io sono sospinto a pro- niinciare il pin strano ed inaudito paradosso, cio4 che gli m- dnuliii umani rcali non abbiano fra di loro niente di uguale, nieiile di veramente comune. Per quanto io ci peusi , vi con- fessu, non so spacciarmi. Credevo fin qui, che la natura umana fosse uguale in tutti gP individui^ or voi mi fate accorto, che se per questa natura umana io intenda un che realc e sussi- stenle, ella non puo cssere piii uguale in diversi individui j anzi in ogni individuo dee sussislere separatamente, individuamente, incoinunicabilinente, senza la minima relazione con altro indi- viduo. Se poi io tolgo alia natura umana la sussisteitza stessa, veggo bene che non mi rimao p'u alle mani che una natura ideale, e peri sono fuori dallordine delle cose sussistenti di cui io ragionavo. A)utafemi dunque voi stesso, Iraendonsi di tanto impaccio. Quando si dice che la natura umana 4 uguale in pin individui , si pronuncia una sentenza verissima. Cio che vi si suole aggiunger di falso, 4 la interpretazione.. Si suol credere, che quella proposizione voglia dire, che vi siano delle eose reali veramente ugiutli per loro propria natura^ cio che 4 un assurdo. AlPincontro quella proposizione va inlesa cosi, che itinciascun individuo. delP umana specie vha un che, il quale corrisponde ad un idea unica della mente umana, che 4 appunto quella natura uraaua cKe voi avete spogliata della reale sussistenza^ e che pero vi s 4 cangiata in una mera idcan. E di qni po- tele altresi conchiudere, che Videa della nalura umana 4 unica, sebbcne gl individui son molti; e che apptfnto perch4 unica 4 quella idea onde multi individui si cpnoscono, avvieim che le 5o co.se real! sieno ugaali, consistendo in questa agaalc relazione coir idea la iiguaglianza de' vari individui. M. Cotesla conclusiooe, che vien pur cosl facile, mi fa sln- pire. Ma sebbene gli oggetti sussistcnti non sieno simili o ugaali, se non perche corrispondono alia ste.ssa ed nnica idea , non parmi per questo ancora dimostrato che quell' idea sia unica e idenllca a stessa in tutte le menti degli uomini. Ci6 che arete detto prova che gli oggetti si ricono.scono per simili a cagione che corrisponde ad essi oggetti simili an idea comune^ rna i)aesl idea comune ad ogoi classe ( specie o genere ) di og gelti, non i mica necessario che sia una anco rispetto alle menti che veggono 1 uguaglianza degli oggetti^ bastando che ogoi mente possegga un'idea uguale, sebbene non identica. Ed anzi comi mai possibile che i milioni di uomini che sono di> risi da tempi e dagli spazj veggano tutti la stessa idea name* ricamente nnica ? come si pu6 intendere che da Adamo in qua gli uomini che si sono succeduti, nati e morti in tanti secoli, gli uomini nostri qui di Rovereto, e quelli dlnnsbruck, di Vienna, di Roma, di Parigi, di Londra, di Wasington, e dite dellallre citta e terre disgiuntissime , mirino Iidea stessa, quando per insino il sole, che i locate in posizione si oppor- tuna da esser reduto da molti, non pu6 per6 vedersi nello stesso memento da tutti gli abitatori del globo, ma dee anzi fare il giro del cielo per dimostrarsi loro, e privare gli uni della saa luce per rallegrame gli altri? lo debbo, Manrizio mio, chiamarri allordine. Non ci siamo noi intesi tante volte circa il giusto metodo di ragio- nare? non vi ricorda, avervi io insegnato trovarsi in filosoGa due generi di questioni, e doversi in ogni disputazione conside- rare a quale de due la disputa appartenga, per non incappar nellerrore di trattar Iuna cogli argomenti che sono proprj deUallra? M. Ricordami: chi niente i piii frequenle sal vostro labbro, ove si Iralti di metodo, quanto la rcgola di distinguersi la qife- slioiie che dimanda use lacosa sian, dallallra use debba es> sere, e come possa esseren. A. Dunque, mio caro, non dovete uscire a chiedermi ucome pussa csscre che uu idea unica di numero sia veduta in tutti Digitized by Google 5o gano come'iti tutti glindividui della specie nostra vi sia di comune la natura umana, perche tutte quelle menti abbiano un'idea uguale dell' umana natura, sebbene ciascuna mente abbia peru un' idea sua propria di questa natura , e non I'una mente abbia Iidentica idea ed una- di nunicro con quella che Ialtra mente intuisce. Or dico io, se queste idee son tultc uguali, saranno perfettamente uguali? 31. Veggo, dove andate^ ma , debbo rispondervi di si. A. Ma sc hanno una entita ed una sussistenza pfoprih in ciascuna mente, non possono cssere ugnali anche in quesla loro entita e sussistenza, che e propria e incomupicabilc. 31. Vero 4. A. Dunque, acci6cch^ quelle idee sieiio uguali veramente, uupo h prcscinderc ed astrarre dalla loro propria e peculiar sussistenza. ' ' 31. Indubitatamente. A. Oimijue non poSsono essctc uguali in si stesse, sc hauno Digitized by tjOOgle 5 10 iina snssislenza propria e singolare ia ogai menlc. C se si dec renderle uguali coll' aslraziooe , converra dispogliarle di quesU loro propria e individuata sussisteoza, e per tal modo renderle idee pure, senza realita, e seoza individualila alcuna. Or quando noi abbiam parlato della uguaglianza fra gli oggelti sussislenti, abbiam veduto necessario di far ci6 di essi, e, fattp ci6 ci ri- mase I'idea pura della natura uiuana. Vorremo noi ora ripe* tere lo slcsso gioco su questa idea: vorremo ricorrere ad un'al- tra ideai* Abbiamo vedulo, cbe 1' uguaglianza degli iudividui consisteva nel riferirsi lulti ugualmenle all idea della umana natura. Se duuque or noi diamo una sussislenza propria al- Iidea stessa della natura umana, facendola diversa in ogni mente-, cadiamo manifestamente in un' illusione, ragionando dell' idea come degli oggetti^ noi suppuuiamo, cbe Iidea non sia ancora appurata dalla sussistenza, come erasi creduto prima, c come s era trovato necessario per ispiegare la cognizione cbe tutti gli uoinini s'hanno ugualmente dell uguaglianza di natura fra gl' individui umani reali. Ma oltracciu, via, raffrontiamo fra di loro le idee della natura umana, supposte diverse in quanto alia loro eutita nelle diverse menti, ma in quanto al resto uguali: noi, per conoscerle uguali, dovremo formare un'aU tra idea , cbe le consideri astratte dalla propria lor sussistenza od eutita. Or Ioperazione, cbe astrae dalla sussistenza propria di ciascuna di quelle idee, per vedere in esse ci6 cbe i uguale, astrae medesimamente con ciu stesso dalla loro nuiltiplicita supposta nelle diverse menti. Convien dunque,,a riconoscere uguali quelle idee, considerare, cbe in esse vi sia 1 unita per- fetta di numero, non moltiplicata secondo gl individui^ giacebi questa moltiplicazionc secondo gl individui, appartiene a quclla parte delle idee cbe le rende disuguali e al tutto diverse fra loro, e non a quella cbe le rende uguali. Lidea dunque, nella quale si vede 1 uguaglianza delle idee della natura umana nelle varie menti, suppone di necessita un identUi numerica nel- Iidea della natura umana iutuita da tanti uomini^ perocebi altramente non potrebbero in modo alcuno essere uguali. M. Parmi .di^sentire, cbe Iargomento ba una forza inelut* tabile, Gerto, contemplando io le idee della natura umana in diverse menti sussistenti , non poUei ricouoscerle uguali, se Digitized by Google Si I non veilcssi in 'tnitc la rna idrntica, iina di nnmero, la stessa iclifntica natara iimana vcduta ill pari da nioltc menti. Con- ciossiach^ ben maccorgo, che la nalura nmana contemplata cost in astratto i una cosa semplicissima , da cui i data ri Diossa la sussistenza^ e dalla quale peru, in si stessa consi- deratai non si puo astrarre allra sussistenza , percbi non nn presenta alcana. Parmi anzi di riconoscere onde venga 1 in" ganno del credere il contrario: penso che venga dal conside- rare unito colla natura nmana cootemplata da tutti gli iiomini, I'atto con cui gli uomini la contemplano. Quest' alto i reale e individuale, ma non la natura umana aslratta , in cui esso terminal le intuizioni della stessa idea son raolte^ I'tV^ea in tuita i una sola. A. Oite assai bene. Egli i certo che ciascun uomo intucnte la natura umana astralta, fa un atto diverse, ed ha una fa- coll'i diverse da quella di an altro uomo: vi sono dunque tanti intundimenti quanti sono gli uomini, e tanti atli qiianti i pen* sieri che ciascuno fa dellumana natura: ma quest' u/nnius /m* turn i sempre la stessa, identica di numero, veduta da tutti i contemplaiiti benchi disseminati e disgiunti per lo spazio e pel tempo quanto si voglia lontano. Dove voi veder potrete in che consiste I'errore di Averrois, e onde nacque. Questo celebre filosofo arabo affermava esistere un intelletto universale e comune a tutti gli uomini. L'errore consisteva nel dire della facoltit e dell oUo, quello che si dee dire deirog-getto (t): que- sto, cioi I'essenze, le idee, o (che ^ tutto il medesimo) la VEsiTs, i cosa nnica, identica per tutti gli uomini, a tutti ma- nifesta, e patente piit del sole, il che vuol dire, i cosa uni- versale: ma gli uomini che la veggono son molti, dunque molte le facolta, molti gli atli di questa facolt^, sebben quella ri- manga unica. E non sarebbe egli un goffo errore 1 aifermare (i) Lerrore di Averrois doves nascere, a mio parere, necessariameiile dalla poca prrclsionc di Arislolele in parlare dell'iDlellelto ageote. Ho gia acceiinalo, che lo Stagirila parla lalora di qiieslo. iniclleito come fosse un complesso delle essenzc o delle idee (la ragfone di Plalone): in questo ai- guificalo doveasi dtrc uno e universale 1 intelletto agentc. Ma Aristotcle in altri luoghi il rendc una facolta: qhcfto diede luogo allerrore dcll'Arabo, c/ie il gran commento /to. Digitized by Google S 1 1 rlic innlli snno i soli, perrlic mnlll snno gli occlii rlip lo veg- gnno, e molli gli sgiinnli die a liii si rivolgono? ed egli si dec ronsiderare, die quando gli uoinini nominaDO il sole, e di Ini favellano, non parlano gia delle specie laminose o sen- sar.ioiii die fcriscoiio i loro occhi ^ ma propriameiile del corpo lumiooso, che distinguon da queste, e che ripongono in cielo e non in se stessi. 11 sole stesso dunque, conteniplato intellet- llvamentc c non sensibilniente, i identico per gli uomini tuUi, in qnalunque terra o mare, eta o secolo ne ragionino. Tanlo lia dunit^, e d' idenlita a s^ stesso ogni oggetto, quando non si parli dell' esser suo sensibile, ma solo dellintellettuale! Se non che torniamo, o Maurizio, alle idee della natura uniana, e supponianiole entita diverse nellc diverse menti degli uomini^ c ( lasciando quel die i detto, che soprabbaslerebbe pure a rU solvere la questione) consideriamo altra assurda conseguenza veniente dalla supposizionc fatta della molliplicita di esse idee. A/. Ancora ne avete ? y/. Si. io voglio che facciAroo delle idee uguali nelle varie menti, quello che abhiamo fatto prima de' varj individui uguali sussistenti. Af. Volete dire Iastrazione della loro propria entita^ avremn, ciu fattoj un' idea della natura, coraune a tuttc Ic idee della natura umana che stanno nelle diverse menti. Che diamin di costrutti mi fate voi fare? vorremo not imbarbarirci nella favella ? Maurizio mio , noi or cerchiamo la verity ; e questa, tal riverenza si mcrita,'che non i a pensare qui ad altro che ad essa , e ad cssa dee ancillare la stessa lingua.  Voi dicevate dunque bene^ le idee nelle varie menti, supponendole diverse, non potrebbero dirsi uguali se non in virtii d'un'. altra idea a cui tutte. si rilerissero , e in cui tutte si conoscessero. Vi avrebbe dunque qui un' altra idea comune, la quale dovreb- b'ella essere identica ed una di numero, e cost noi avreramo tolta Iunita numerica allidea della natura umana, per darla poi allidea dellidea della natura umana. Af. Cioi saremmo caduti, come si suol dire, dal pajuolo in sulle bragie. E .gia veggo quello mi replichereste , ovio ponessi in campo lo stesso quesito di prima sull identita numerica Digifized by Google 5i3 dell idea dell idea della natura amana nelle menli diverse. Voi eollo stesfo ragionamento mi costringereste a dover ammettere uoa tena idea cosUtuente 1 ugoaglianza noa oumerica delPidea dellidea, e poi una quarta, poi aua quinta; sicchi mi ridur* reste a concbiudere, cfae ge 1 idea della natura umana fosse di versa di entitit in diverse tnenti, e uguale solo di specie, questa uguaglianza non potrebbe risultare se non da nn nu* mero infinito didee. Ma il numero infinito non si termina mai, dunqne non sha mai, per salire didea in idea che si faccia. Dunque mai non si giugnerebbe a conoscere quella uguaglianza^ anzi nk pure a costituirla^ conciossiacltd Pugna- glianza non identica degPindividui risicde essenzialmente nel* Innita identica di una idea, che giammai trovar non si po* trebbe, se le idee stesse nelle diverse menti aver potessero di* versa entita e sussistenza propria. Id intendo lino al fondo qne- sto argomento, e mi convince a pienissimo, che I.idea definite, come Toi fatto avete, per Pente intelligibile od oggetto ideale del pensiero, non esser altro che una di numero sempre per tutti gU uomini che la intuiscono: e me ne chiamo ora pin certo che io non sia del grato olezzo che mandano questi vasi di fiori, o del bel verde di questi alberelli che adombrano questa pescbiera sul cui margo seggiamo. ll lettore intends da ti le rilevantissime conseguenze della verita stabilita nelPesposto dialogo. Se Iidea intni'ta da tutti gli uomini in diversi tempi e in diversi luoghi t essenzialmente una di numero, convien con- chindere chella sia un ente di natura interamente diversa da quella di tutti gli enti che sono nel tempo e che occupano spazio^ convien dire, che questo ente ideale, che noi abbiamo scoperto al tutto diverso da quelli a cui continuamente pen- siamo, si sottragga per intero a tutte le leggi dello spazio e del tempo: conviene inferire, chesso non abbia ni pure la pill lontana dipendenza dalla natura di esso spazio e di esso tempos giacchi ni i pih lontani spazj, ni i piii lunghi tempi, c ni anco la indefinita moltiplicit4 . delle anime lo impedisce dalP esser tutto ngnalmente ptesente a tutti, senza menoma> mente dividers!, senza distendersi, senza racchiudere ombra di successione; convien dire allresi, che lo Spazio ed il tempo non Rosmijsi, Jl Rirmovamenlo, 65 5 1 4 fieno condixioni necessarie aU'ontlU di tlitte cose, si come sembra a sensisti , e si come sembra a quanti non hanno molto meditator inganoo che nasce per ragiooe cbe gli oggetti a noi piu famlgliari, qaelli a cui pensiamo naturalmente, contiona- inente, alio spazio e al tempo appartengono; di che noi, per iin falso e troppo frettoloso ragionamento dianalogia, giudi* chiamopoi, che allri eoti non possano esistcTc , universalizzando il nostro modo particolare di concepire, e argomentando da quello che sappiam noi, limitati che siamo, a quello che i nell'ordine immenso delle cose, e a quello cbe i nelle menli alle nostre maggiori , le quali veggono anche ci6 che per altri i impossibile, o creduto impossibile di vedere. E in questa K- mitatione del concepire e veder materiale, dal tempo e dallo spazio ristretlo , dalla quale pochi uomiui escono ( sebbene Iroppi piu il posson fare, educando a questo tibero volo I'u- mano intelletto), sta la ragione della dimanda che pih innanzi Maurizio mi faceva :  come pu6 esser ci6 ? come i fattibile che un oggetto identico e solo, sia a tutti i tempi, e a tutti i luoghi presenten? L'ignoranza, il poco esercizio della facolU intelleltiva cbe si fa fare a' giovaiietti nelle pubbliche scuole di filosoBa : ecco la ragione di questa dimanda; ecco la ra- gione, onde i fatti esposti incontrano tanta opposizione negli uomint; e anehe dopo dimostratili ad evidenza, ana incredi- bile ripugnanza, una rozza incredulita dura tuttavia : sono ve- rita di cui si evita timorosi la famigliarita , si come i fancinlli fanno d uno straniero, di un volto sconosciuto e agli occhi novissimo. Ma torniamo a1 proposifo. Se gli enti intelligibili , le idee, sono nature immuni da spazio e da tempo; dunque esse non possono essere ni enti materiali, ni sensationi, ni modificadoni dellanima, perocchd in tutto ci6 avvi il determinato dal tempo o dallo spazio, avvi I individuate, il sussistente: le idee non possono essere n^ sostanze, ni accident! di sostanze (i), per- (i) V'ha sempre una credeoza o esprpssa o sollinlesa ne ragionamenli de scnsisli, che Dell uaiverso, o per usare una espressione di Danie, net t;ran mare delf essere non v'abbiano cbe sostanze e accideotii siccbe tulla CIO die noil i soslanza sia per cohscgueiite accidentc, e luUo cio die non e accidnilc sia per conscgurnlc soslanza. Ma ijuesla c una supposizione nir  by Googk' OlOCcbi quesll nomi sodo prima tolli da c\6 chc noi osserviaoio nt:' corpi) poscia estesi a significare distinzioai che cadono solo ia enti individuati ^ reali^ essi noa possoDO essre per conse- gueote pure iudeclinabili ^etti di azione e reazione fra il corpo e Taninia, quando anche quest' aziooe e reazione fosseru tnaniere e concetti idonet ad applicarst al comtnercio del corpo e deiranima(i): perocch^ queste azioni e reazioni noti puLrcb- gmluilA i questo d uno di que* prcgiudizj die impacciauo Ic filosofie, e l impediscono dal trovare la verilik. Abbiaino gi^ uotalo ua tale errore iiel Mami:t)i. Che cosa sarli lo spazio? Non uq accidente. Diioque uoa susiaiiza, Conchiudono costoro. Che cosa saraiioo le idee? Uoo dice: xiou accideiih; e coiicbiude, duoque sostaoze. Un aliro: doq souo sostanze^ dunque acci* deiili. (It P. Scarella, uomo di noo ispregevole iogegno, chiama accidenii le idee. Vedi la sua Psycotog, P If, c. V, arl. i ). Uii lerzo : uoQ soslatizc, uou accidtnti: dunque... uienle. Co.si i\ argoroenta, cosi s*i argomentato, end a) argomeulera aucora un buon pezzo in avvenire, se non si comiucia a dif* lidare di eerie proposizioni e preveoziooi volgart, che non si repuUuo ue laancc bisognevoH del piii leggero esame. Non luito quello che e, e aostanza o accideute: e quando fosse^ a provare una tale proposizione converreitbt: sudar molto, Irallandosi di' coroprendere nel ragionamento tulla la sfera ira- YneiiSa degit enti anche possibili. Ma che non sia, hasta a \ederlo il lume che ci da una Sana teologia nalurale, la quale ricusa di Irovare neli* Eule supremo alcuna dislinzione di sostauza e di accidenle come pure ricusa di applicarli iu seoso proprio questi vocabnli. Solo un tale esempio basta a provar falsa Tardita pruposizionc, die * c. XXlIl, art. VII }. (^ucsio solo basta a cuuoscere, che e nn assurdo apertissiiiio il considerare le idee come produziooe deiraziouc del corpo e della reazione delfanima; giaccbe il corpo non agisce punto n^ poco su queila parte deU I'anima, che e sede drlle idee. Laffermazione adunque, che le idee sieiio un prodolto modio delle due cause aoima e corpo, appartiene a que'sistemi immaginarj che, in vece di ragiooare, suppongouo. lo nun posso riiiveiiire tiel Komagnosi queila potenza logica che gli si voile atinbuire; rinveiigu solo io qucstuomn dotio, c che io stimo, de^nodi e delle forme logiclie^ iina logica inleriziune; ma nulla, nulla piu. Oltraccio a quauto egti dice sub r azione reciproca delTauima e del corpo snttosta una di quelle proposi- zioni supposte verr gratuilaroento, chc dirigono sempre in st-grclu i ragio- 5 ii> hero prodar tnai se non modificazioni d>^' due rrciproc! agent!, e percliu le csscnze nascono, ni muojono, ne si producono o generano, qnanto al loro intimo fondo, ni si corrompono. lo mi appello agli nomini che, rimossi i pregiudizj, usano del pnro e sincero veder della mente. CAPITOLO XLV. COIfTINUAZIONE. li'importanlissimo e fecondissimo vero dellunita numerica delle idee fu vcdiilo sempre, e ponderalo dalle menti piii per* spicaci. Ud autore non sospetto i Pavversario di Platone. Or bene, Aristolele riconosce pienamente quella grande verila^ e ins^gna, parlando degli astratti malematici, che i ucosa assnrda asse* gnar loro un liiogo, come lo si assegna a' solid! dando di ciA questa ragione, che il luogo ^ proprio delle cose singo- lari, le quali appunto per ci6 die son siogolari possono es* nnmenti dcscnsisli, i quali non sanno diflidarsene, e qursla i quells die il C. M., a cui lal pregludizio 4 comune, csprime cosl :  sempre andare in-  sieme Iagire ed il reagire, sempre la reaiione essere proporzionala al-  Iazionc  (P. II, c. XIV, iv). Una tale proposiiione sembrs evidente iiej primo aspcilo, peroceh4 ne fcnomeni corporei noi veggisrao, o suppo- niamo di vedcre sempre Iazione accompagnats da una corrispondente rea* zione. Mb qiiando anco cio fosse, chi ci auloriiza dl trasportare le leggi de* corpi allordine universale di tutti gli csseri ? non 4 queslo un sallo mor- lalo, conlro la logical E pure fa un tal sallo il Komagnosi,lo fa il Mamiani, lo fanno i sensisli tutti. Con un lal pregludizio in testa, riesce impossibile per esempio a concepire la poisibilila della creazione, peroccb4 in essa vha aziooe senza reazione; riesce pure impossibile a concepire la possibt. liia deHoperare nell essere supremo, alia cui aziooe niente puo reagire. Quando io penso nel bujo della nolle a una diinostrazione matcmatica, io fo un'azione; ma quale oggelto reagisce sopra di me, se non ve nba nes> suno presenle, almeno di seosibili ? o se si auol dire cbe I' idea agisce in me ; benissimo, si dica : ma non pi polr& mica dire che io riceversa agisco auir idea, il che 4 perfeltameotc impossibile. II concetto adunque di aiione e di reazione ( che non 4 a confondersi con qunllo di azione e di passwne ) 4 maleriale, e il Irasportarlo agli csseri tutti 4 un peccato roortale contro la logira. Digitized by Google 5i; Msere di.n luogo  (i). E qnesto passo basterebbe solo a dimoslrare quanto Aristo* tele si lontani dal pensarla co' senalsti de' nostri tempi *, egli cbe riconosceva nelle idee una natura cosi distinta da qoella de corpi e delle sensazioni : di guisa cbe quelle non avevano, secondo lui , pnr bisogno alcnno di qneste per essere, essendo efTatto immuni da ogni spazio, e da ogni posizione nello spazio o relazioni collo spazio ^ sicchi erano solo in si stesse, e non in luogo alcuno (z). Un celebre commentatore di Arlstotele, Temistio, alTermava la cosa medesima , e concfaiudeva cbe non era possibile la scienza se non a condizione cbe le  nozioni cbe sono nelP a- u nimo del maestro fossero al tutto pari ed identiche a quelle uche sono nellanimo del discepolon (3). Anzi da questa iden> tita nnmeripa della verita inferiva la necessita di una mente unica e semplicissirna cbe quella avesse in si non accidental- mente, siccome noi Tabbiamo, ma essenzialmente ,  della qnal unica e identica mente tutti partecipassero n (4). Cos'i ap* prendeasi chiaro da questi grandi uomini , si come I'esistenza delle idee conducesse dirittamente e necessariamente all'esi- stenza di un Dio. II quale argomento dell esistenza di Dio a priori parmi an* tichissimo, e cosa tutta della scuola Italica^ e molti testimoni potrei addurne, dovio lo veggo manifesto. A questa identity delle idee, od enti intelligibili, penso io cbe principalmente si riferisca Iunita di Pittagora (5)- glacchi s erano accorti que* (l) Arovtv Ji xi ToV ToVsx afia tbi'c rrtffe^ { T6j'af rovov tb'x fxarTTBv iV/o;. iti tc. ra Jf MS- iv tocT. Metaphys- Lib. XII, cap. T. (a) Mi verri, spero, bccasione di dlmostrare altrove, come sia falsa I'opi- nione di quelli che credono cbe Arisiolele rileoesse i fanlasmi per cssen- tiali al peosare, o cbe facesse le Idee di uoi natura simile ad essi. (3) El jua va'crroV ax to ro'njua too xvi toiT juaoaaVorroc. (4) E> ii I uoili  per signilicare  r immulabiliti n; giacchb in quanto una cosa non si muta, in tanlo ella i una a s4 stessa. Questa maniera di parlare conviene arer preseute nella let> tura drgli aniirlii. Coii, a ragion il'esempio, Arislotrle (lUetaph. I, Lect X), Si8 gli anlicLi, die una perfelta unita rilrovar non si poteva te non nelle idee, e non nelle cose uiateriali, non ne singolari eziandiochi spiriti fossero. A quesla identita delle idee penso ancora che si riferisse Iuno di Parmenide, la cui mente espono Simplicio in questo niodo : uRimane, che noi stabiliamo aver Parmenide chiamato enle uno quelP intelligibile {votiTOf) che & cagione di tuUe cose (i), e ond'  I'iutelligenza e la sponcnHo la dollriiia di Pbloiic dice, clicgli dava alia inaleria il grande ed il piccolo, all* essenza poi (all* idea ) i* uno. Quest* w ouo  vuol dire Pirn- mulabilila. La specie o esseuza era cbiamata Punili, Questa unila quando era parlecipala dalla inaleria diveolava numeri cioi piuralita (Ex illU (ma- gno et parvo, elciueoti della inaleria) participalionc ipsius VIIIUS (del- I'uniia dell vftsenza) formas numeros esse).  quesla maoiera di chiamar numeri Ic idee, in quanto si considerano partecipate dalle cose, e al tutlo pillagorica, quango io veggo ; tnzi Aristotele slesso dice espressamenie, die i numeri di PiUagora sono le idee, on #iJ (I, c.).  Tutlavia, se dovessimo credere ad Aristotele, senibrerebbe che PiUagora confondesse i Fmweri colic cose stessc reali. e che a Platooc appartenesse Iaver separaii quelli da questc. Egli dice, cbe Iaver distiole le idee (i numeri) dalle cose ^ dovulo alia diaiettica, della qual arte erano ancora igoari gli anlecessori di Platone. Quesl'arte crebbe nelle roani di Socrate: w Socratc dice Ari-  stotele, Irallava delle cose moral! , e non delta iiatura: tultavia cerc6 in  quelle cose stesse T universale, e fu il primo cbe applico I'aniroo a dare * delle deiioizioni ; todaodo Iuoiversale appunto perch^ per csso potevausi defioire le cose. Or con quest* occasione egli vide che V universaie non  potea apparlenere alle cose sensibili, ma ad un altro genere di cose (non  seusibilt ) . Perocch^ d iropossibile cbe v* abbia una comuoe ragione di * alcuna cosa sensibile, come quelle che sempre si trasmulano E cosl tali enli egli appello icUe {Meiaph. I), Questo luogo di Aristotele, clic bo tradotio liheraroente, dimostra per quali passi Socrate sia perveiiuto a di* stinguere le idee dalle cose sensibili: egli osservo, che quesle si trasroutano sempre, il che vuol dire nelKantico liuguaggio, che nou haouo nulla di co* muue o U uguale, o d'uno in quanto sono sussistenli, non hamio come dice il lesto *r una comuoe ragione *, e pero ooo sono suscellibili duna cornune deGniziooe.  Or io credo bene ad Aristotele, die quesU veriia sia stala trovata da Socrate, appileandosi alia Diaiettica, di cui avea bisogno per ddiriire le cose inorali : credo, dico, che Socrate la trovasse, e provasse cientiGcamepte; ma credo altresi, cbe gia Pillagora avesse Vedula la stessa venta, sebbene non provatala dialelticainente, o gia quasi diinentica al tempo di Socrate. (i) t nolo, che t Pitlagoriei, e Parmenide dicevano esser le idee cause delle cose: drrisvi ts'c dXXef( oWj;. Mclapftys. Lib. I, cHp. VI. Digitized by Google menle sle^sa (i), Jove tuUe co*e si contengonn e compren- (luno rompendiosamente , secondo noa cotale unila (a). CAPITOLO XLVI. COSFOTAZIONE nADICALE OI OGHI SPECIE Dl NOMINAUSMO. Ma lasciando gli antichl, e continnandocl alle cose da me ragionate, io non vo' trapassar qui una osservazione, la qnale io stimo poter arrecare non poca cbiarezza al concetto delle idee, come enti ne qiiali risiede quella entita singolarissima che chiamasi conoscibilild dclle cose, e che produce la cogni- zione. Noi abbiamo raiTrontato gli oggetti esterni della stessa spe- cie ( ad esempio abbiam preso gli uomini ); e trattane la na- tura comune, abbiam veduto, come qnesta natura comune non i cosa reale, ma una pura idea identica in tutte le menti che la contemplano. Or primieramente certo d , che non avremino noi potuto estrarre dai singolari individui della specie umana Iidea della umana natura comune a tutti, se questa idea in essi non fosse stata. Questo ci avverte, che il paragone che noi abbiam fatto di piu uomini, ePestrazione della natura comune, non I'abbiamo operato noi sugli uomini stessi materialmente presi, ciod nella loro propria sussistenza esterna, ma si bene sugli uomini intellettivamente da noi concepiti. E di vero sa- rebb^egli troppo assurdo a pensare, che noi potessimo parago- nare insieme degli individui umani, senza averli noi intelletti* vamente concepiti : questo paragone si fa al tutto nell' anima nostra, e non fuori di noi. Indi due conseguenze importanti. La prima, cbe innanzi a questa anedisi (giacchd Ptistrazione d un'enalisi) precedette una sintesi fatta dallo spirito nostro, senza accorgercene , nel primo pcrcepire degli individui sussi- stenti, nella qual sintesi il nostro spirito ha posto la parte (i) Ecco la dlstinzione fra le idee, e la intelligenza o la mentr. Uo essere non i inlelligente per ii stesso, ma solo per le idee ch* egli vede. |a) Atirtrai to' fOnrot varttn ditnv,  stemi creduti fin qui disparalissimi fra di loro, ma che, ove si penetrino al fondo, hanno veramente una natura comune. Chi crederebbe, per esempio, nel primo aspetto, che le segria- tore e i monogrammi di Romaguosi, gli alomi rappresentalM di Democrito, i rtomi sostitniti alle idee dei nominali del me- dio evo, la simUitadine supposta ne concreti de' sensisti, 1 nn- pressione scambiata colla sensazione de' materialisti , sienu si- fitemi peccant! dello stesso vizio, e aventi una comune natura? E pure la cosa 6 cosi, quando si considerano attentameute. E perchi si possa cogliere cio che io voglio dire, mi bisogna prima ritoccare quella veritii che i il fondamento dellesposto dialogo, ma che tuttavia pu6 non essere stata considerata sotlo ogni rispetto. Questa verita si i, che ula similitudine non si ritrova negli enti concreti come concreti e sussistenti, perocche come tali sono perfettamente divisi 1 uno dallaltro e non hauno niente di comune, ma la loro siniilitudine consiste in un rap- porto che banno tutti egualmente colla idea che a noi li ma- nifestan o^ sia li fa intenderO. (0 Scz. c. II, 111, IV, VI, art. VII. Digitized by Coogli pa: llKI "f Ml Ua it.1 xn :ia ib noscibili, A, come ho detto tante volte, la loro intelligibility. Or di qui,.cioA da questa mancanza di osservazione (i); (i) I sensisti sarrogano it titolo di  scuola Spcrirticntale i. tl vero A, che non vha actia di filosofia, the meno esperimenli di quests ; ae pure cost non si chiami iraicaiUeDle pertbA si sforzi di restribgere sislemstica* nMQle le sue sperienze dentro slls sfera delle cose corporee. Ma ilmeuo UDo sperimenlare,  qiielll die diedero IiuUlligIbilila , o rallitudinc di far coiioscere, a cose die non lianoo tale alliludioc , a cose, iu una parola, diverse dalle iduc. I. 1'ra qnesli, di sopra lio nominalo Democrito. Quest! tutto rsplicava cogli atomi cor[>orei. Alcuni di quest! atom! , deno> iiiinati specie o idoli (hSoXa,), emauano da' corpi, entraiio ]>cr gli organ!, e purtaiio nell' anima le sensaaion! c il peasiero delle cose esterne. Qual fu l'!llus!one di Democrito? Vide, die un corpicciuolo poteva essere figurato in inodo di essere rappresentativo delle cose corporee. Egl! ere- delte adunque die fosse atto a produrre la cognizione^ perdii non aveva. riilettuto, die nessuna immagine o figura rappre- senta diecdiessia per si, e nel suo essere mateiiale; e die i solo la concezione del nostro spirito, I'idea, quella che pone I'uguaglianza fra la figura c il figurato, e che rende in tal modo I'uno rappresentativo dellaltro. II. Ill un sistema cosl gofib, nessuno forse a' tempi nostri incapperebbe. Pure I'errorc di tutti i materialisli non i diverso csseuzialniente da questo. lo ho gia dimostrato, che essi si ri- ducono a prendere V impresslone per la sensazione, il movimmto della fibbra per lo stesso saitire (i). Questo abbaglio nasce nclle loro menti dall'avere osservato, che un' impronta fatla nella cera di un siglllo, rappresenta acconciaoiente la figura die nel sigillo stava scolpita. Ma non hanno poi osservato, che qucir impronta niente rappresenta a chi non la guarda, a chi non la pcrcepisce, a chi non la conlronta^ e che non pub far cio un essere cbe non abbia senso e intendimento: che perb v' lia certo qualchc cosa nell' essere percipiente , che costituisce il mezzo onde b resa rappresentativa quella impronta, la quale non b tale per si sola. III. La qualita dellerrore de' sensisu b la medesima- Quest! intendono, che a percepire le cose fanno bisogno i sensij ma non cos! intendono il bisogno delle idee aslralte. Snppongono sempre, che sopra le stesse cose esterne lo spirito nostro eser^ (0 V. N. Suggio Scz. V, c. XXIV, srI. iii. I, Digitized by Google Si? citi la funzione dellastrarre, meJiantc la quale egli si aflissa nella ^ola parle comuae', e cost formi a slesso le noziuni uni- versal!. Tale errore, a cui fu preso anclie il C. M., nasce dal noo aver essi abbastaoza considerato , cbe I'astrazioiie non si fa mai sulle cose esterne prese aiaterialinente , ma sopra te cose esterne da noi intellettivamente perccpite^ perciS cgli i ben vero, cbe notiamo il comune, tna in esserl ideali, o ccrlo appartenenti al mondo roetafisico, e non in esseri materia)!: nasce, in una parola , sempre perchi si credo ehe le cose esterne , in quanto sono sussistenti e concrete , possano ras- soiiiigtiarsi , possano scambievolmente rappresen tarsi, scnza ac- corgersi chc ci5 i contro i) falto. IV. Altri sensisti s'aecorgono, cbe Iastrazione non si ptio esercitare sulle cose esterne^ ma in vece pretendono cbe si possa esercitare sulle sensazioni. Non vcggono quest! , chc le sensa- zioni pure sono fisse all'organo dove si eccitano, cbe non si possono trasportare, ni confrontare I' una collaltra, e chc la loro nguaglianza e simiglianza non risiede per conscguente in esse, ma solo nell'idea identica a cut piu di esse si riferiscono. Costoro adunque danno alia sensazione la facolla rapprescn- tatrice, e non all'ideaj e non riflettono , cbc fra il rappre- sentante e il rappresentato dee avervt qualclie similitudiiie o magoosi non nomlna cbe Hi passaggio, Iralleneodosi in qudia vece oelle se> gnaliire morle, non percepile per si. Lasda adunque da parle il nostro flip- sofo il punlo cootroverso, dimenlica al lullo la maleria di cui si Iratla, die i la M pereexioor, la cognixione ,e s'adagia contento neU'ipolesi (non puo inai esaer piii di una mera ipolcsi) delle sue segnalure, chespirgano il pen* siero tanlo come lo spirgano delle asir, de Irani, de punli Iracciati con in- cliioslro sopra una maleria ioanimala. Pure coiirrssando il Romagnosi, nrl passo accennalo, che, olire le segna- lurr, cl viiole la percelliviih a percepire e a couoscere; sallenua in qual. the inodu il suo errore. Mh egli non i pol coerenie con si slesso. Impe- rocrlii ill aliri luoglii egli suole die quesle segnature sieno esse slesse le sensaxioni c le idre confuse da liii colle sensaiioni ( Delta suprema econo- mia ecc, P. II, } XIXi. Or se qursle segnalure sono esse slesse idee e noxioni, non dovreliliero aver piCi liisogiio di ricevere allronde la luce e la percelli- vilk, cssendo certo le idee quelle die ci fanno percepire e conoscere le cose. S' arroge a cio, che le idee e le noxioni non possouo in niodo alcuiio es> ser segni o slinboli, e mollo meoo poi geroglifici e inonogrammi, com egli cbisma le noxioni piu uniTersali. I segni, come dicevaino, lianoo bisogno, per essere inlesi , di una menie che li coofronli colla cosa segnata e a quesla li rapporti : e una menie non pii6 far ci6 se non per mexzo d'idee uniche, ideulicbe, enmuni, come bo mostrato: aliro dunque sono i segni, aliro le idee die fanno ioleiidcre i segni. Mollo piu i gerogldici, i mouo- gramini, i segni stenografici, le cifre (delle quail esprcssioiii giovasi il Ro- magnosi ad indicare le noxioni universal!), Iianno bisogno di una menie che gli interpreli ; di una menie percib, cbe sappia iulendere al tempo slesso, ed essi, e la cosa da essi nolala; di una raente quiudi medesimo , cbe a conceplre la cosa aegnala non dipende punlo da essi geroglilici, die le ser- vono solo a volgere Iatleoxione sua alia cosa segnala, non a concepirla; flual > menie di una menie che ahbia iolelligenza: il fallo dunque dell inlelligenza i supposlo dalle leorie del Romagnosi, e da lulie quelle die voglionodare di lui spiegaxlone per via di segni; e supposlo quellu che prelrndoiio di spiegare, Molero aurora le slraiiezze a cui conduce il sislema della concausa di Romaguosi. Tullo dee venire, secondo lui, dallazione e dalla reaxionc del corpo e dellaiiimo: lulie le nolixie sono prodoUi di'questi due poleri coo- perauli. Ur dopo cbe hanoo prodolto col loro a gi re una nolizia, queslo pro- dollu non polr^ subirc alire alterazioni? Ci6 inipedirebbe di spiegare Iul- Icriore svihippamrulo del pensiero. Dunque ^ da dire, per seguilare I'ana- lugia, die I anima reagisce di bcl uuuvo sul prodollo della sua rcazione, e indi un aliro prodollo su cui pure reagisce ecc.: lulli qiiesli prodolli aduuque divculauu (uuu si sa come) lauti aliri ageuli coutru Iauiiua, c Digitizetfbv . 'oogle 5iCy mente niorli e ioulili IU spiegazlone del sapere, come tuUi gli altri negni nominati fio qui. Romagnosi, il diicepolo di Hobbes, coiigiuDge alle sue segnalure interne anche quesli segnt della parola : u Simboli di siniboli, die'egli, segni ideali di cose, e  segni di questi segni ideali , ecco tutto il corredo del saper  nostro ridotto al suo ultimo uudo aspetto. La parola 4 il se- al gno esterno di questi ullimi segni o simboli mentali dei se- lagni reali corrispondenti delle cose (i)! I Nominal! dell eta di mezzo, gii vinti da s. Anselmo (2), da 8. Tommaso e dal suo maestro Alberto Magno (3), risuscitarono con pill vigore medlante il sottile ingegiio di Guglielmo Oeka- mo (4)> Ma Iillusione di questi 4 sempre la stessa die abbiaiu preso fin qui a far palese^ cioe il persuaders! die iin segno possa sostituirsi ad una idea: dando a quello Iintelligibilita propria di questa: n4 badando che il segno suppone I idea die il con- cepisca, che ue notifichi il sigoificato, che Iapplichi alia cosa significata. Che questo segno poi sia interno od esterno, ap- partenga ad un senso o ad un altro, sia un colore, od un suo- no, un geroglifico o un nome; egli 4 tuttuno: un nomc non e meno privo dintelligibiliUi che una cifra^ uon ha tneuo b>- sogno, oltre Iorecdiio, duoa mente intelligeute (5). Ixuima coiilinua a reagire contro di rssi. Cost dee spiegare il RomgnoM la produziune delle diverse cogiiiiioni uinanc incuo, o pin elalioralel E clU questa prelesa spirgazioDe della genesi del sapere umauo drgna di un me- diocre filosofo? Fiiialinciile osservo, clie qucIFappellar monogrammi, elie fa il Roinaguosa l cugiiizioiii uiiiane, i lullo dal Vico ( DelF anlichiss. la/iiema eec. c. I); Ilia il Vico uon I'usa che in forma di siinililudiiic per ispiegare Vimper/e- xwne drir umano sapere; e non a quella guisa che fa il Romagnosi , che Tool coil essi trarne la spirgaziune del sapere slesso.  lo inuslrero pin sollo, qual parte ahbiaiio i segiti nell umano sapere: essi ap^iarlengouo lulls alia materia, e non alia forma della cognizionc. (1) f'edute Jbmiameiftali eec. L. I, c. HI, scz. 1, 5. (z) Sjaut'Aiiselinu nel lib. de Incarnatione f'erbi, cap, II. diehtara, che il HominaUsmo non si puo conciliare in alcun modo cul dogma catlohco. (3) Non so se prima di questi due grand uomini fosse in imo iI rbiaiiiar - iioinioali  quelli che sosliluivano agli universali  vocaholi ( Ved. Alliertu M. In Isagog. Porphyrii PraeJ. Traci. I, e. I, e s. Toinm. S. I, XIV, XV). (t) Logic. P. I, c. XIV e XV; e Quodlib. V, q. XII e XIII; e i/i / Senlenf. Iiislincl. Il.quaesl. IV. SaulAgoatiuo culla sua solita acutczia espriiue soar questa osseiva- Digitized by Googk ^^7 TnUavIa i  ronfestarsl che i nnminali scoUntici ragionavano ' pill acutamente di Slewact, o di allri nomioali de' tempi no> stii (i). C per a^giungere maggior lume alia materia nostra, reclieru qui alcuno degli argomenti, onde Ockamo e i seguaci di lui impugnarono le idee general! e sostituirono loro i vo> raboli , e torr6 quest! argomenti dagli eruditi Commentarj so* pra la Prefazione che fece PorGrio alia Dialettica di Aristolele, pubhiicati da' Padri della Gompagnia di Gesii di Coimbra: io poi vi fard le risposte (a). Primo argomento  u diflurirebbe da ii stessa in quanto si trova in un altro . Risposta al secondo argomento. Da questo argomento apparisce di nuovo, come i nominali antichi accordavano, che la stessa cosa identica non pu6 essere in piu individui sussistenti, e per6 che il comune e 1 universale non pu6 trarsi meiiomameute da' singolari concreti mediante I a* strazione, perocchi ivi non i, n^ pu6 essere. L errore loro nasceva pertanto dal non distinguersi abba- stanza nelle scnple I'ente rrale dall'ente ideate. Infatti i reali- st! sostehevano veramente che la stessa identica natura ne di- vers! individui solTerisse passion! diverse; quod esto rerum com- niuaium assertores futeantur, incredibile tamen esse videtur, dice- vano con buon senso i nominali. 'Gli assnrdi indicali pertanto spariscono interamente Delia teo- ria da no! esposta , in cui si distioguono accuratamente le due forme dell' essere, ideate e rrale. Negli esseri reali , diciamo noi, materialniente presi(cio^nella loro rcalita e sussistenza ) , non v.ha niente di comune; tutto i diviso e appropriato. Ma a mcUi esseri reali corrisponde un essere ideate solo td unico identicaniente. Or questo i quello cbe ci fa concepire i molti esseri reali net nostro spirito. Concepiti i molti esseri real! colla stessa idea, noi li giudichiamo simili od uguali fra loro; non ponendo noi con cid, che in essi materialmente presi vi sia qualche cosa che costituisca la loro uguaglianza, o somi- glianza; ma volendo solamente dire, cbe essi hanno tutti I'u- guale rapporto coll' idea che ce li fa conoscere. NIente adunque di strano , cbe i varj individui non sieno la stessa cosa fra loro, .o cbe subiscano diverse o contrarie pas- sioni (t). , (i) Si coofronliDo le noslre rlsposle con quelle cbe davano a nominali i professori dl Coimbra, e veggasi quanto noi siamo ajulati coolro gli rr> rori, dal possesso che abbiamo del vero. ' Rosmim. // Rinnovammio. (ij Digitized by Google Conchiuder6 questo capitolo dicendo quello che dicono coa pill sublime volo i UologI, che il fonte di ogni simtiitudine ri* siede solo nelTcnlc easenzialimrule intelligibile (i). CAPITOLO XLVII. SOLA. CONFUTAZIONE POSSiBILE DELLO SCETTILISMO. Ma gia ugli ^ il tempo che noi usiamo delle doUrine da noi espostti, ad abbattere )o scetlicismo denlro alle ullinie sue trio- t-et'; e che mostrinnio, contro il Mamiaui, cbe quelle dottrioey r solu quelle, possono dislruggere interameote un errore cosi de^oUnte. E da prima osservo, che e scellica, secondo rne,^profonda-r metite sceUica, come gia toccai (?.), qut lla sentenza che il C. M> Cl oppoiie (3); Vcr uUi'u 4Ue'prore>uri irilravMiero U vcrlli, e poro rianr6 che noo Taf- iVrnisaicro, come ai puu vrdere dw queslu parole delta loro risposta : Piato el Socrates fro VT RBfRXSBVTAVTUR IN CONCBPTU ttOMINIS omnino conveniunl: et tamen alitfuid habettt,per qttod dtfferanU Igilur aliqua natura rst in uiroque RBSPONDBNS CONCBPTUi UouiNIS, taque diversa a different tits indiuiduantibus. In quesle parole vieue toccata la relazioae della natura uiiiaua reale di Socrale e di Platone, col concetto deU'uomo; ma tultavia 0(111 colsero il vero i perchd riflelleroao hensl alle diSereoze accideolali fra iiucrale a Plalooei ma noo poser raente alia differenza massimai cbe ^ quella della propria individual sussisteota. Se a questa avessero riflettuto que'pro* fesMjri, SI sarebbero accorlij cbe iu Socrate e in Plalone dod v*ha punto oiia reule iiauira commie, ina solo uu ptiro rapporto coll* idea o concetto della natura umaoa. (I)  celebre nelte scuole crisliane la seolensa colla quale saol*Ilario ca- ratien^;M le Ire pcrsuue divioe; jEiernitas in Poire, SPSCIBS IN lUjGINB^ u*u> m munerCt che vieo coimoeutHia da S. Agostino , De TriniU VI, X  Vcdi il A. Saggio ece. fiiez. VI, c VII, arl. viii tu) ^essunu tultavia peusi che iu voglia dichiarare uno scetlico il C* M. gli ^ luU*aliro : egli cutnbaUe per la verita e per la certezza , cooiro lo scetticismo. lo non parlo duoque cbe del suo sisiema, e detle coosegueoze dfl suo sisiema ; e non mai delle sue iutenzioDi. Vorrei cbe mi valease I'aver talla quesU dicluarazioue uua voila per seoipre (3) Dico, Cl qppooe : sebbetie quivi aou parli direUumente di me, mg di que'iiluaob lu geucialc, i quali aiuuieUooo le forme iogeoilt delia meuto Digitized by Google r nQuando si voglia instare etl aggiiingPTC rhe qnalnnqiic- fa-  colta c oprrarJone dellanimo, apparttnendo a un esserc 1i- iinitato cli sna natura e con bio, non forse li> spirito, in vedere la veritli, portasse in lei quaicbe alteraziune^ ci6 solo basterebbe a rendere dubbiosa la cosa vedula , e priva di ogni certezza. C vi tocca a moslrare fin anco del tutlo impossibile, che lo spirito rechi in essa qiiaU rhe alterazione^ il che vuol riiiscirvi diflicile aai , a me pare. Che se pur volele lasciare a me il provare, vorrei dediirre.una diniostrazione del mio assunto da questo grande principio, ohe u gli atti son ricevuli secondo la forma del ricevente  , e che u ad ogni azione risponde la reazione  (i). Voi vedete, cho quesle sono di quelle dignitll che u governanu I umana espe* rienza  (a). Or se Ioggello intuito dalla mente iioslra, aiiche esfstesse iti ii stesso, noi nol vedremmo puiilo in i, nia in qnanto agi.sce in noi^ e se agisce in noi, dovendo I' azione esser rirevula secondo la forma del ricevente, voi vedete, che il no* slro spirito non vede chc la passione che soflerisce, la quale i un eflelto dell azione esierna dell'oggelto e della legge veniente dalla natura del soggetio stesso. yi. >faurizio mio, voi mi dite di molte cose: io ho bisogno di prcuderiie ad esaminare una alia volta. Af. Qual sorrete la priiiia. A. Vi osserver6 in primo liiogo, che mi toccate un taslo cl(c mi siriile, qiiando anche voi mi parlale, con tanta sicurezza ^ di u dignita che governano Iesperienza umana >. Sappiale, che ill queste udignita, che si faniio guveriiatrici dellesperieiiza n, sta la rovina dell' esperieiiza slessa.. (luelli Qie si dicoiui a la (i) Mamiaui, P. I, c. XI, V. II C. M. Utlinisce la iraslooe coal: n la r.icolu  lii rirevere Iazione rslerna, e  pria natura u. P. II, c. XIV, iii. ^1) M:imi.iiii, P. I,'c. Xr, vi.  Digitizjd by Gooi^k 53; ctiola iptriinenlalc n, niente meno ncguono che I' espcrienza imiirroci^ii Lannu un mondb di digtiila in testa, colie qnaii ac toli di lor dominio. E pur questi titoli, ae li aressero, aver li dovrcbbero dalP esperienza stessa , a lei hiederli , e non itnpor* glieli. In somnia i noslri aensisti prendono per dignitd, a gover- nar 1 esperienza a loro aenno, i pregindizj di cni hanno pieno il corpo. M. Pur non \eggo che troviate da appuntare sillle dignrla indicate, che a gli atti aon ricevnti aecondo la forma del rice' venie , e che  ad ogni azione risponde la reazione . A. Volete voi che valgano per tulte le cose, o snssisteoli o fiossibili?  0 M. Fuor di diibbio^ altramcnte niun prezzo avrebbero. A. Considerate adunque quanto sieno ardite quelle dignita. Con esse si viene a proferire, che in tutta la afera degli esseri , cbe pur ce 41' hanno di tante nature e qualiti diverse, debba sempre avvenire cbe ogni azione a'abbia la aua reazione, e cbe ogni atto aia roodi&cato dall indole di quello che lo riceve. Ora unA di queate doe cose. O cbe volete tenere per guida 1* espe- rienza ^ e in questo caso, niuna esperienza estender si pud alle uianiere tutte di esseri. Quanto poche sono quelle guise di es- seri che noi conosciamo! Sappiam noi quante ce nabbiano, e ce ne possano avere a noi ignote del tutto, o con leggi al totto diverse da quelle a cui ubbidiacono gli enti a noi noti? Che ae abbaodonate 1' esperienza, e volete andare col raziocinio al- di la di essa, cessatevi dal dichiararvi scuola sperimentale, a quel inodo cbe il aolete preuder voi questo detto , o come dico io , sensista, e rassegnatevi nelle file de' razionalisti. Ma ove auco, Iesperienza' lasciata da banda, provar vogliate le dignita vostre col raziocinio a priori; mirate ben qui , che dovete poter cou- dnrre 1 argomento a tale f cbe riaulti al tutto logicamente as-' aurdo a pensare il contrario a quelle vostre dignita. M. Veggo che dall' esperienza non si pud dimostrare una pro- posizione cosi vasta come quella che u ad ogni azione risponde Digitized by Google 536 una reazione imperoccb^ ella abbraccia tulli gli eueri ancbe possibili, ed io non bo fatto esperienza cbe su di alcuoi pocbi parlicolari, appartenenti a pocbe delle specie delP immensa e iodefioita catena delle possibili. Veggo dallro lato, cbe se ttii volgo al raziocinio , e lascio 1' esperienza , io rinunzio al sen- sismoj il cbe mi vi darebbe vinto. Non m' aspettava di vedermi cost presto fra Iuscio e il moro. Tuttavia, quando voi mi la* sciate attenermi a quest' ultimo partito, senza tosto redarguirmi della mia incoereaza, non sono al tutto disperato di dimostranri a priori, cbe egli d cosa impossibile.il pensara im'azione, senza concepire insieme una reazione. Gerto io non so concepire un caso refrattario a questa legge, in tutti gli esseri cbio conosco. Ditemi , quando pensate vol alia distanza del sole dalla terra , non fate voi un'azione? Al. Gerto s). A. E dovi qui la reazione? N il sole per questo, ni la terra, oggetti Jell'azione del vostro pensiero, reagiscono (i). Vbanno diinque delle azioni al tutto spirituali, i cui oggetti non reagiscono. Al. Ma quella mia diguitii non vale per gli pensftri, cbe sono azioni puramente ideali, e noxtreaU. lo non parlava cbe di queste. Non i degno del vostro buono e fine senso, Manrizio mio, il pormi qui una restrizione alia vostra dignity. Io vi avea pnr ricbiesto innanzi, se intendevate cbe quella dignity abbracciasse tutte la maniere possibili di cose^ e voi me I'avete affermato. Ni, s' ella non fosse universale, si meriterebbe il nome di Ji~ gnitd. D' altra parte , I' azione del pensiero ^ reale, e non me* ramente ideale: I'ideale non i cbe il termine del pensiero. Ad ogni modo, la restrizione cbe ora voi ponete mostra cbiaro, cbe in formandovi quella dignitii, non avcte riflettuto al caso del pensiero. Escluso adunque il pensiero, e con esso lo spi- (i) Non coDviciic mica dirc.'chc Itziooe del pensiero non lermina nel sole e Della terra reale, ma solamente .nel sole e nella terra ideale. Questo i falso. Quando io parlo della distanza dd sole dalla terra, non parlo delle inie idee, ma degli oggetti reali a cui io rifcrisco le mie idee colla faoolta del giudizio. I.u idee non sono oggetti reali, nia il giudiiio i qiiellu die Icriiiioa vcraineiite nella realita. QueSla disliuziune di fallu si dee alteuU- mente avvcrlire. Digitized by Google riln rlulle congerre (rnmenim pef cost dire dcUe nature, ehe *i rimnne? M. n corpo. A. Siele dunque convinto e confesso , chc quella vostra pre- tcsa di^nita I'avete cavata unicamente dal considemre ci6 che suole intervenire nelloperare degli enti corporei, e nulla pin. Ma vi pare egli giusto, e secondo buona logica, Iuniversalic- zare a tntti gli enti possibili ci(^, cfae si vede intervenire sola- mente ne corpi? M. Piego la testa. A. Or per6 ditemi, di eke parlavarao noi? non parlavamo del modo onde Ianima intoisce il vero? parlavamo noi di corpi, o anzi di pensieri nella questione nostra? M. Vero 6, di pensleri. A. Parvi egli adunque cosa equa Papplicare a sptegarc la natura de^ pensieri il principio cbe  ad ogni azione corisponde nna reazione  , quando quel principio non ha aican vaiore ep> plicato a quelle azioni cbe consistono net pensare? Se il vostro iidagio, cbe cost dee esser cbiamato pin tosto cbe dignkA, non volete cbe valcr possa trattandosi delle azioni del pensiero, per- ebi citarlo in una questione cbe versa su tal genere di azioni? II citate dnnque fnor di luogo: vi cade adunque sotto marcio il fondamento su cni volete innalzare la torre della Glosofia. M. Voi sapete cbe son giovane, e di filosoGa non mi press cbe qnalcbe abbocoonata. Veggo d esser corso, nel ricevere per indubitato quel principio cbe  ad ogni azione risponde una reazione e dee avere le sue buone eccezionl. Cio nulladime- n6, lasclando questo principio, vi vo' dire un pensiero, cbe m'avete eccitato in testa collesempio cbe avete addotto deU r azione del pensiero cbe pensa la distanza del sole dalla terra. Parml dovervi al tutto concedere, cbe ak il sole, ak la terra, ni lo spazio cbe divide questi due astri, sofirano punto nk poco dall' azione del pensiero cbe li prende per oggetti suoi. Conce- dovi altresi, cbe Iuomo cbe ragiona del sole e della terra, ab> bia per oggetti del suo ragionare quest! enti reali, e non le loro idee^ perocebe ognuno sa ben discernere Iidea del sole, dal sole stesso. Tultavia io cosi ragiono: Di quel sole e di quella terra voi vi avete pore qualcbe idea,Jbrniatavi indubitatamenle, al* Rosmihi, Il Rumovamento. 68  Digitized by Google . 538 niKno in parte, ilaH'aveT pertjcpiti qnesti aslri co sensi vistri^ altramriite non potresle porlar di essi alcun giudir.io. A. Si^ e dove volete voi con ciu rinscire? M. Voglio riuscir qua, a negarvi che voi possiale provarmi, die Iidea che vi avete del sole, risponda a pieno alia natnra rrale del sole. Dico, parermi pin verisimile, che altro sia il sole in si stesso, altro nella vostra idea: e che qnesta diversita si debba ripetere dalle leggi della percezione, le quali contraOanno in certa maniera la natura di quest! astri in presentandosi essa all'animo vostro. A. Sottile, e qnello che i piit, giusta i la vostra osserva* zione. M. Dunqne il nostro animo pereepisce le cose non quali sono, nia in modo consentaneo alia propria natura: dunque la veriti, in percependosi, riceve anch'essa le leggi del percipiente, c par* tecipa di sua natura. A. Qucsto si dice correre, e a rompicollo, Maiirizin mio; e un fllosofo a correre,.... e ci va della digniti GlosoGca. M. Mi sovviene la fretta di Dante, arte 11 solo pensiero. Voi stesso avete delto, die 11 sole, esseudo un oggetto sensi- bile, e non puramente iiitelligiliile, dee esser prima percepito co sensi^ clue ch'egli dee agire sui nostri organ! sensitivi. Or se voi mi parlate di questl , io vi accordo pienanieiite la ve- rita della pro]iosiuone da voi posta, che  gli atli sono rice ni pure per ispiegare ci6 che avviene ne' sensi, la proposizione che u all' azione risponde una reazione . A. Mintenderete agevolmente. M'accordate voi che la sen- sazione non h un seniplice movimento del corpo, ina iiensi una Gosa solo concomilante al movimento delle fibre dellurgano sen- si tivo? AI. L'avete dimostrato irrepugnabilmente nel N. Sa^io (i). A. Or bene^ quando uiia punta mi ferisce un braccio, chc cosa fa ella ? AI. Ella non fa che agire colle leggi di un corpo inanimalo, rioii di sospingere le particelle corporee in quel luogo ov ella s'inligge.  queste particelle corporee prima re.sistooo, per I' i- nerzia, alia sua azione, e poi si rilirano sempre resislendo, se- coiido le leggi general! a cui sono sommessi i movimeuti di tutti i corpi: e qui appunto sla la reazione. (ii II C. M. pii'iide Tuna ]xr I'allra. fj) SeZ. V , t. XXiV, all. II. 54o A. Avele risposto egregiamenle , o Maurixio. Voi avete tro- vata 1 azione e la reazione consistenti in una spiota e in una resisteiiza, in un corpo che vuol coinunicare il suo molo, e cora trovata la sensatione? siete arrivato a produrla mediante questo ineocanismo? M. lo gia vi ho confessato, che in questo meccanismo non puu riporsi la lenaazione^ poich6 in questo meccanismo non c6 che moto locale, e la sensazione i tuttaltro (i^ A. Dunque, dico io, nelle circostanze del fatto ondein noi sorgono le sensazioni, si trova azione e reazione indipenden* temente al tutto dalla sensazione. Se egli i adunque vero che nella sensazione v'abbia una vera azione e una vera reazione, convien prima di tutto guardarsi dal credere, che questa azione e questa reazione sia quella che interviene fra il corpo stimo- Innte e I'organo stimolato, consistente in modificazioni al tutto materiali c di moto locale. La sensazione allopposto insorge a lato, per cosi dire, di tal movimento, contemporanea all'ef- (ettuarsi della operazione meccanica, ma senza per6 che ella niostri di avere con essa la minima siniiglianza, la minima analogia. Diru di piii (cosa che si trascura al tutto di osser* vare), la sensazione non insorge, non si fa di nuovo, ma solo si modiiica, giacch^ non vha che un sentimento continuo, fondamentale , che ci coslituisce come animali^ le modificazioni del quale sono poi le sensazioni Iransitorie (u). Fiualmente, chi profoiidisce la cosa inteude a pieno, che la sensazione e il mo> vimento son cose che si escludono insieme, perocefae I'una ap> partiene al soggelto, e I'altro alloggetto (3). Convien dunque, (i) L*iUu5ioiie sta sempre qui, di preudere il moto per la sensazioue, il concoidilaQie per la cosa coDcoiniiata , o sc si vuole, 1* attivo pel passivo, mpvdocle voleodo spicgre la seiisaziooc dell* udilu^ ciissc che cUa oasceva r dtilU ballitura deU*aiui pella parte dciroreLcliio^ La quale a guisa di w chiocciola h lorla in giro, stando sospesa deulro e come uti sonaglio per* M cossn m. Qiiesla simililudine del sonaglio percosso, appaga iiiulli a prnna Iralio. Ma dalo aUCO il sonaglio |>:rcoso, non la ancora l>isogiio rorerrliio die ur petcepisca il suouo? 11 suuaglio duuque uou ispiega iorccdiio^ Scuza il qnalc vsso uou suooa. \'i) Vrtl. iV i5iggio ecc. Stz, V, c. XI, uri. \il L3, iV. Vt'ggiu tec. Vi C. \i, alt. Digitized by Google 54, volendo cercare Iazione e la reasione nel fatto della sensazio- ne , presciodere da ogni corpo oggellivameDte conteniplato, e rinserrarsi nella zensazione sola , quale ella i nella soa interna semplicUsima natura. Or qni cgli i certo, che noi trovianio nna passione: sentire i indubitatamente patire. Ma chi ci ia patire? dov i questo agente? egli si nasconde, egli si fare agli occhi nostri^ e avviluppato nelle tenebre, come egli i, che cosa potremo noi pronunciare di Ini (i)? La sensazione ci te- stimonia la sua esistenza, ma non la sna natnra. Noi non sap* piamo adunque se risenta egli stesso qualche reazione dal suo operare sopra di noi. Ma sarebbc' cosa troppo gratuita il sup* porlo; tanlo pih, che se noi reagissimo su di Ini, egli par- rebbe che il dorremmo sapere. Diremo forse, che la reazione nostra alle sensazioni si consnma dentro di noi, e non passa nell'agente esterlore da noi diverse ? In primo luogo, o si parla di uoa reazione che si compie innanzi che la sensazione in noi sia suscitata, o dopo gia suscitata la sensazione. Innanzi susci- tata , noi non siamo consapevoli di alcana reazione, ni di alcana azione^ per6 non possiamo aiTermarla. Dopo che la sensazione transitoria 6 suscitata, ella 6 inutile ogni reazione^ e contro chi reagiremmo? contro la sensazione nostra, che giii abbiaroo ammessa?  Sara dunque nello stesso atto del forroarsi la sensazione.  Ma traltandosi di sensazioni organiche ,  egli in nostro potere, dato il movimento necessariamente conoomi- tante, Ievitarle? i in nostro potere Iimpedirle? possiamo fare ad esse la pih piccola opposizionef  Inlendo come mi pos* sano spiacere se son dolorose , come posso lamentarmene, come posso evitarne Toccasione estema, come posso non prestar loro attenzione e fino sopprinierne in me la coscienza; ma fare re- sistenza alia sensazione stessa ( nello stato presente deiruomo), non veggo io come. Luomo i sommesso alia legge del sentire^ ni vale difesa o sebenno veruno contro di lei, quando gia son poste tntte le condizioni del sentire. Non si pu6 adunque con- cepire nessdna specie di refutow;, dove non si pu6 concepira nessuna specie di resistema; si puu solo immaginarla, cioi si (i) i', cio die alililamo diianialo il corpo soggeUivaioCDtc coDsideralo. Vcd. N. AViggio etc. S, V, c.'XI. Digitized by Google 54s pu6 sogaarla^ il che appunto si fa da noslri filosofi sperimen- tali ragionando a priori^ cio4 dal preleso principio aniversale che noQ si da aziooe seoza che vabbia altresi una comspou'- dente reazione. 31. Da vero che io non mi aspettava di veder prostralo ia terra si fattameote un principio, che io mi tenevo, a dirvi il vero , come un articolo di fede GlosoGca. ' yi. Dite bene, un articolo di fede, ma non una sentenza di- mostrala: e la fede quanto vale in GlusoGa? Anzi acciocehi voi veggiate meglio, a qual segno sia slalo dalla iantasia de nostri. GlosoG spehmentali rincarito il prezzo, come direhbe K.aut, di questo principio  di una reasione corrispondeute all'azione io vu spiugere il ragionamento piu innanzi. Abbiam vedulo , che-il principio non regge nellordine de pauieriy non regge in quello delle saisaxioni; che direste voi , se io vi mosirassi , uiancarci sovente auche parlando degli stessi vorpi? 31. Mi dareste una lezione, che me ne vorrei ricordare ua pezzo. A.  bene, considerate il fenomeno della comuuicazione del molo. Sien due corpi, 1 uno in quiete, e P altro in moto nella direzione del primo: questo spinge quello, gli partecipa del sno moto, lo trae seco Delia stessa direzione. 11 corpo in quiete rea> gisce certamente all urto del corpo in moto^ ma, dico io, la reasione sua i ella pari allazione? No certamente^ perocch^ se fosse pari, non si moverebbe roai, non cederebbe punto ni |K>co. Ma egli si lascia niuovere, cgli cede^ non reagisce adun- que abbastauza, per elidere e distruggere tutta la spinta che si fa in lui. Impariamo da questo esempio una verila piu gene- rale, cioe: a il concetto della passiyiti sarebbe distmtto, quandu non vi fossero che azioni e reasioni corrispondenti n. Se Pa- zione e la reazione sono uguali, allora non si hanuo che azioni che perfettamente si distruggono, senaa nessuna passivita: se v ha il fatlo della passivita Delia uatura , dunque v ba un a- zione a cui si cede, a cui non si eontrappooe ua'altra azione iiguale, che annullerebbe quella prima sensa piit. Ma questo ci traviercbbe dal nostro cammino: torniamo a not. M. Kiugraziovi assai di avcrmi chiarite queste idee, sulle qualk voiici pure che pruccdcsle iuuauzi uu bel pezzo. .Ma per uoues* Digitized by Google 543 sprvi indiscrcto, ml contonto cli tornare a bomba.  Parlavarao della concezionc del sole. M'avevate conceduto, che non puo dir^i rappresentarci ella la natura del sole pienamente e fedeU menle, e (ultavia volete non dcrogar queslo all' infallibile ve- rita delle idee. Perocche avete osservalo, che in formarci noi la roncezione del sole enira il mioistero de sens! , pe qnali diceste valere il principio che  gli atti sono ricevuti ' secdndo la forma del ricevente . A. Ve Iaccordai, tebbene non sia esatto ni pure il dir cio. lo vorrei piu losto che voi diceste, che u gli eOelti prodolti in nn ente sono conformati alia natura di esso, in che sono prndotti >. Ma non voglio indiigiare il discorso^ piu tosto rias- snniiaoiolo, per metterci bene in via. lo vi traevo ad osservare, come il pensiero sia un'azione tuUa spirituale^ per6 d'altra indole al tutto dalle rorporee. Indi di- cevo, cbe Iazione del pensiero non pud alterare il suo oggetlo, o sia egli il sole reale, o sia la cottcezione nostra del sole. Que- sla concezione perd concedevo io non esserr al tutto intei-a e fe- dele, appuiito perchd non d lutta pensiero, ma in parte si trae da sensi, cbe si modi6cano secondo loro proprie leggi. E certo d, che nella concezioqe nostra pnsitiva del sole, esso cisirappre- senta allanima a quel modo che cel danno gli occhi nostri. E niiin dubbio pud avervi, che la sensazione degli occhi, come ogni altra sensazione corporea , tenga in gran parte la sua na- tnra e qnalita dalla forma e natura dellorgano senziente,'e massime dal sentimento fondamentale di cni ella d modiiica- aione. Non d dunque la sola qnalitd e natura delloggetto. che produce in noi la sensazione^ ma si bene la sensazione risulta da quattro cause associate insieme, non da due come le fa il Romagnosi , e sono i .* I oggetto operante sull organo , a.* il modo del suo operare , 3. la qualita , costruzione e materia dellorgano, 4 sto vestigio del sole, che lo legge per cost dire, e formas! il concetto del sole), non alter! punto ni poco nd il sole reale ni la sensazione del sole, ma la lasc! cotale quale i sens! gliela somministraroDO. E qu! stesso , ncl fatto descritto, trovas! la prova palmare d! ciu che dico. Af. Qual volete intendere ? No! stess! siamo quell! che d'una parte abbiamo la sen- sazione fisica del sole, e dall' altra pensiamo a questa sensa- zione del sole. Abbiamo dunque dentro d! no! tutto c!6 che si richiede a poter rilevare se il pcnsiero alter! si o no colla sua azione la sensazione, o se la sensazione del sole rest! in not la medesima quando la pensiamo, o quando non la pensiamo. Vedete adnnqne qua Pesperienza fatta dentro di voi sulla ma- niera di operare del penslero: Pesperienza vi fa certa testimq- nianza , che Pazione del pensiero, al tutto diversa dalPaltre azioni reali, non altera panto gli oggetti su' quali si adopera, ni incontra da%ssi reazione veruna^ perocchi io posso pensare quant' io voglio la mia sensazione, e per questo non la can- gio, n& la modifico. M. Non mi aspettavo una prova sperimentale in tali argo- menti.  Io mi convinco da ci6 che avete detto, essere il pensiero un cotal modo di operare, che non altera punto ni poco gli oggetti suoi. Per altro, dalPistante che il pensiero dipende dal senso, e il senso voi medesimo dite non ricevere in s6 se non nna cotale azione parziale delle cose, la qual pro- duce in esso senso un effetto, che delle cose non i alcun ri- tratto veramente, ma solo un cotal vestigio, o traccia tutta diversa dalle cose stesse^ rimane che anco il pensiero che ab- bisogna di questa materia a concepire, non possa mai dirci la veritJ.  Pill tosto dovrete farvi a distinguere nelle concezioni no- stre intellettive due parti, la loro materia e la loro forma, qnello che pone il senso, e qnello che pone il pcnsiero stesso. L'esempio della concezione del sole materiale, che cadde ac- cidentalmente fra' nostri ragionamenti , ci devi6 alquanto dal- qnestc ci6 chc a quelle solo cOnvieoe. Immsginu iida sciiltura, e dimenii- cossi di chi deve leggeria. Digitized by Coogle Iargomento propostoci. C non vi ricorda che noi parlavamo della veriUi ? or le sensazioni non sono quelle che costitoiscono la verita, ma i il pensiero , Iidea, qnello che la costituiace. M. Ma come pensare aenza sensazioni, senza materia dl pensare? onde le idee nascono, secondo il vostro steaso sistema, se non per occaaione delle sensazioni, almeno la massima parte, e pigliando dalle sensazioni, per cosi dire, la loro configura- zione? A. Manrizio mio, fra il saper tutto e il saper qualche cosa fate voi differenza? M. Grandissima. A. Or credete voi , che qnando si tratta di ribattere lo scet- ticismo , e di mantenere all' uomo il possesso della verita , si voglia con questo prendere a dimostrare, che 1 uomo sappia tutte le cose, e non nc ignori veruna? M. Lassnnto sarebbe ridicolo. A. Che dunque vuol dire mantenere alluomo il possesso della verita? pensateci un poco. M. A me pare, or che ci penso, che qnando anco dimo- strar si potesse, I' uomo conoscere con certezza uua verita sola, lo scetticismo sarebbe confutato appieno ; perocch^ sarebbe pro- vato, che I'uomo ha il lume col qual vedere e accertarsi della veritii, sebbene questo lume noi potesse nsare che per una ve- rity sola. Per6 inteudo benissimo la differenza che mi fate no- tare fra il conoscere la veritii, e il conoscere Iuna o I'altra verity. A. .\vete c61to ci6 che io vi volevo dire. Che se poi si giunge non solo a provare che 1 uomo possiede con certezza una o piu verity, ma altres'i che egli possiede tante verita e di tal natara, quante e quali gli bisognano a porre i fondamenti inconcussi della giustizia, della perfezioue, della felicita a cui i deatinato^ non solo rimarrebbe confutato lo scetticismo, ma ben anco im- pedita ogni rea conseguenza che ai volesse dedurre dalla con- cednta ignoranza dell uomo. M. Non i a contraddie. Riman per6, che mi mostriate, come alcnna verita almeno si rimanga salva, dopo quello che mavete accordato circa la natura delle sensazioni. A. Kipigliamo la concezione del sole, per non moltiplicare Ros.Mini. It Rinnoveunmto, 69 gli esetnpi. Vi pare egli a voi , che questa concezlone racchiuda uoa notizia sola, o piu? AI. Veggo che quando io concepisco coirintelletto il sole, so, o almeno io credo di sapere due cose, Tuna che il sole i, e Ialtra come o che cosa i. A. Ottimamente. Ora rifiettete anche un poco : noi abbiamo detto , che il sole esercita da prima la soa azione sni nostri scDsi, per esempio sui nostri occhi , mediante i suoi raggi; e che IefTetto che produce nel nostro sentiuento, non i nna rap* presentazione fedele e adeguata del sole , ma solamente nn ei> fetto, e come un vestigio di lui, un cotal segno che lascia in noi del suo operare. Or qual principio v ha in noi , che in- tende per cost dire questo segno, e dal segno argomenta alia cosa segnata, dalleflfetto alia causa? M. Certo la virtu di pensare che i in noi. A. Ma questa virth di pensare , che cosa viene argomentando dal segno che- il sole ci ha lasciato, doi dalla sensazione che ha in noi mossa ? M. Primieramenle, che il sole c in secondo luogo, che egli i quello che ha prodotta in lioi quella sensazione o specie vi- siva (i). A. Non potevate risponder meglio. Di queste due notizie fcr- miamoci alia prima. Dal segno adunque, cio^ dalla sensazione il pensiero argomenta che il sole i I At. Indubitatamente. A. Vedete voi qui, o Maurizio, che altro h il segno, la sen* sazione, e altro k la cosa argomentata dal segno, cioi Iesi- stenza del sole ? At. Chiaramente lo veggo. A. Vedete anco, che il segno, la sensazione riman fuori e al tntto separata dalla notizia a cui si conchinde per suo mezzo, e non serve al pensiero se non puramente come di un punto dappoggio, per cost dire, a spiccare il suo salto, e raggiun* gere la verita dell esistenza del sole? t (i) Avveiias! che qui non si tratia gia ilT provarc Icsislenza dccorpi rstcriorl, o il prinripio di causalila; il quale si Suppone provato; ma non si yuole die sciorre Iobbiczioue che nasce conlro al possesso della veril^ dalle iiifedeli rappresentazioni del senso. , Digitized by Coogle 54? M. Anclif queslo. yl. E che perci6 stesso, tutlo quello che vha d'infedele e di limitato, o, se volete che dica, di falso nella seasazione del sole, non passa punto nella notizia della sua esistenza, la quale i al tutto pura, ed uguale, tanto se la sensazione in noi fosse riuscita d' un modo, come s'ella fosse riuscita d un altro ? M. Assai mi contento che m'abbiate fatto distinguere la no- tizia deir esistenza del sole, e la sua indipendenza dalla qualita e forma della sensazione. Vedete adunque che qui abbiamo una notizia pura da ogni infedelUi del senso, la notizia che il sole esista. Questa sola notizia mi dA vinta la causa, mostrandovi che la soggetr tivitA , e la forma parUcolare del sentire non ha virtu d' in- fluire in modo alcuno in certe notizie puramente intellettuali , quale A appunto quella dell esistenza delle cose. Ma che vi par- rebbe se io vi dicessi, che noi possiamo avcre ben anco molte notizie della natura o qualitA dclle cose sensibili^ limitate si, ma non pero falsidcate dalla sensazione che ce le somministra? M. Or questo vi vorrA esser difficile a dimostrarmi , dopo che voi stesso avete detto che 1 impressione sentita dell azione esterna A tutt altro dalle cose stesse che in parte la produs- sero, e anzi non tiene con esse similitudine di sorta! y4. E pure non mi ritiro dal provarvi ci6 che ho detto. Udi- temi attentamente. Se dalla specie visiva o apparanza del sole volessi io argomentare, lui altro non essere se non un ammasso di carboni accesi, o come diceva quel filosofo, una pietra info- cata , ragioncrei io punto bene? M. Anzi peggio del cacciatore di vostro padre, Francesco Sal- vetti , che diceva il mondo non poter esser rotondo, ma piano, perocchA altramente le lepri spiccando salti capitombolerebber per terra. A. Ma perchA, Maurizio mio, dite voi che io indurrei male quella definizione della natura del sole ? AT. PerocchA la specie o apparenza visiva non dice punto que- sto necessariamente , ma ce 1 aggiungereste voi coll immagi- nazioue. A. E sc io dicessi come quell altro filosofo , il sole essere grande come il Peloponneso? Digitized by Google 548 M. Diresle un allro sproposito. A. E se io mi atteocssi piu tosto alia sentenza . Digitized by Google M. Sento tutta la forza r^>; che ove  gli scettici giungessero a provare erronee e fallaci tutte Iumane cognizioni n, essi, con questo medesimo aver co- nosciuto I'errore, darebbero a divedere di possedere la reritii, senza la quale niuno distingue e nota gli errori. AlPopposto, ove Iuomo fosse dannato ad un perpetno errore, egli non giun- gerebbe niai ad accorgersenc^ ma viverebbesi tranquillissimo , e sicurissimo come fosse nel seno della verita : sicchi P esistenza dello scetticismo i una prova ineluttabile contro lo scetticismo. Or venendo a noi, sar4 egli a stupirsi, che con questo lame della verita, che ci val tanto da reuderci nccorti di quello che ha di limitato e di fallace la sensazione, e che pero ci guarda dagli errori ne quali ella ci potrebbe indurre, noi possiamo altresi giungere ad argomentare dalla sensazione qualche altra notizia intorno alia natura e qualitii del sole, vera al tutto, come n'abbiamo argomentato quella delP esistenza? M. Intendo benissimo il vostro ragionare. Voi volete dire, che se noi dal seutimento del sole vogliamo dedurre ch' egli sia un essere simile al nostro sentimento, erriamo, ma erriamo per impcrizia e non per necessitai^ e prova ne date il poter noi appunto conoscere che erriamo. Perocch4 un errore, tostochi si conosce, egli i altresi cansato. Se dunque, venite a dir voi, P infedelta della sensazione ci i occasione di errore, questo err rare nasce solo perchi vogliamo dedurre da essa cii^ che logi* camentc non si puu dedume. E converse, ove da essa noi de- duciamo solo quello che logicamente dedurre si puu, noi non 55o erriamo, n& 1 imperfezione del segno oflendc le nostre indu-* zioni. Appunto. E peri , come 1 esistenza del sole 4 dedotta dalla sensazione in modo, che viene al tutto eliminato dall'ar- gomento ci6 che vha dimperfetto nella sensazione^ cosi pari- mente non i impossibile dedurne altre notizie sulla natura c sulle qualita del sole, non panto ofFese dalla forma soggelUva di essa sensazione. In somma, se nel ragionameuto s introduce la sensazione del sole, facendola valere per ritratto o simili* tndine fedele del sole^ cominciamo da an errore, e non pos que come la soggettivita del sentire non altera puntu la dirit- tura del ragionare, il quale i superiore al sentire, non riceve 1 imperfezione di questo, anzi la riconosce, la giudica, la cessa da .si; e all errore non rimangano legati se non coloro, i quali alia ragione sostituiscono i sensi, e credono a quest! eiecamente, arbilrariamente , ni sanno prezzare il lame intellettivo che e in essi, e dove solo i I alto seggio della divina verita. M. Ora parmi di entrare ad intendere, come voi siete solito dire, che le idee non sono segni delle cose, ma sono le cose stessc iiitellette, o, come anche vi esprimete, sono  Iintcl- ligibilita delle cose . yt. Questo, che toebate, i un vero di sommo momento. Avele vednto, come la specie visiva del sole i an segno, dal quale noi possiamo cavare, mediante il lame della ragione, delle cognt- zioni, fra le quali annoverammo 1' esistenza del sole, e Iesscre egli nn agente estemo o cagigne (sebben parziale) delle nostre sensazioni. Le qnali due notizie, che il sole sia un ente, e che questo ente abbiasi unaltivita delerminata dallefTelto che pro- uiyilized by Google 55i (luce in noi , sono appunto due idee. E queste idee nel loro esser proprio non Lanno che fare colla sensazione del sole, e colla sua forma soggetUva, onde sono slate non cavate o com- poste ma argomentate. Or tali idee non sono segni , ma vere (XJgnizioni^ sebben assai limitate, perch^ appunto limitato h I'ef* fetto in noi prodolto dall oggetto. E qui considerate, o Maoti- zio, ci& che fanno i sensisti. Da prima, non analizzando essi bene, nh osservando accuratamente, essi si avvisano, cbe la sen- sazione del sole sia la cognizione che abbiamo del sole^ e la sbaglian si grosso, da prendere il segno per ci6 che dal segno si deduce. Incappati in un primo errore, viene il tempo in cui, riflettendo , s accorgono che la sensazione del sole non i una sua fedele rappresentazione, ma piii tosto una semplice segna- tura di lui. Tosto concludouo,  lutte le nostre cognizioni es- sere segnature, simboli, o ieroglifici delle cose s. La conclu- sione loro h irettolosa^ ma per6 viene inevitabile, dopo aver posto r error primo. Qnesta conclnsione fatta, li solleva a pren- dere subito un tuono solenne e magistrale, riprendendo severi que filosofi temerarj, i quali danno di troppo allumana ra- gione, non si tengono ne ginsti confini segnati dalla sensazione, e osano parlare del (onoscere le essenze delle cose. Le riilessioni de sensisti vanno innanzi , e direntano arci-prudenti : e in fine I'liomo non sa niente: e tutto il suo sapere diviene apparentc, soggettivo, contingente, pratico: quest i Iapice della sapienza scnsistica. M. Voi avete narrato una storia : quelli sono i passi che danno i sensisti inevitabilmente verso lo scetticismo, dove sarei anchio, se voi non maveste preso per gli capegli. Ma giacchi mi toc- caste 1 essenze delle cose , credete voi dunque da vero che si possan conoscere? yi. Manrizio mio, nel N. Saggio ne parlo a lungo^ c vorrei rimettervici ( i ) ^ perocchi io vi confesso un difetto non leggieri che ho, ed i, che il dir due volte una cosa, mappena, ni so dirla alio stesso modo. * M. Ahhiatemi pazieoza^ e se non la sapgte dire alio stesso modo. Unto meglio^ ditemela ad un altro^ io son c^lu che (i) Scz. VI. Digitized by Google 552 vinlender6 piii coirudire da voi due parole, chc col leggermi quell' immenso vostro volume. Poltroncello ! fuggi-fatica ! M. Eh non sono poi solo. Bella scusa ! ma non perdiam tempo. Torniamo , se vi place, alia nostra immagine visiva del sole. Poniamo di trarre da quella un concetto del sole, e trarlo a sproposito quanto volete. Af. Per esempio, che il sole sia  la lucerna del mondo  , come dice 11 divino nostro poeta, la qual consumi al giorno cento milionl di barill dell' olio del paradiso. Ell' 6 delle vostre.  Or separiamo due cose dentro a questo vostro bel concetto del sole. Intendete voi , che altra cosa 6 pensare a questo grande luceroone , altra cosa il dire che il sole sia desso? A/. L'intendo. Or dove pare a voi che consista I'onorme sproposito? nel concetto di un si gran lucernone, o nel credere che sia desso appnnto il sole? A/. Vcggo che I'immaginarmi io una lucerna, grande o pic- cola ch'ella sia, purch6 non contenga nulla di logicamente ri- pugnante, non i ancora cadere in errore alcuno ; e che perd I'errore non consiste se non nell'applicazione che io fo al sole, di questo concetto astratto della lucerna, pcnsando che il sole sia il realizzamento , per cosi dire, della lucerna da me con- cepita. Per eccellenza! Or considerate, che I'idea di una si sfor- mata lucerna ^ ciii che si chiama essenza, non gi& I'essenza del sole (ch nel crederla tale starebbe I'errore), ma una es- senza quale ella e, e nulla piu. Ecco adunque in che consista la intuizione delle essenze: come voi vedete , non A altro che Iintuizione di una cosa possibile, e per6 scevra di contraddi- zione^ chi se n'avesse in si, non sarebbe piu tale. Al. Veggo ora assai chiaro, che chi dice non conoscersi le essenze, non intende che cosa sieno le essenze. A. E io cosi credo: si confonde, vedete, I'essenza colla so- stasiza e colla sussistcnza delle cose. Ma io vi vo' fare osservare un' altra cosa importante. Non m' avcte detto voi , die nella Digitized by Google 55.^ SHsmplicu coiicc7.ione di lui.i loi^oviia die fa la mente , ella non cade aurora in crrore alcuno? M. Vel dissi', perocche ella non aflunua j*ia, collintuire men* talmente qudia lucerna, ch'ella siissisU in realla, ma solo I'ap- prende fra le cose possibili e uuii ripuguaiili. A. E tuUavia, dilemi, Maurizio, onde veiine alia mente \o- stra il concetto di questo immenso luceruone di cui parlianiu? M, Dalla specie visiva del sole. A. Vedetc dunque, che le stesse sensazioni possono darci Toe* casione a pensare de concetti o sia dclle idee cbe non haniio errore alcuno ; perocebi sebbene non rappreseotino fedelmenta le cose cbe ce le banno cagionate , pure possono alia nostra mente somministrare una fi^ura o determinazione di cosa in si stessa possiblle, e cbe peru i verita, 31. Sicchi io veggo di dover conebiudere, cbe tutto ci& cbe trae la mente nostra , argomentando , dalle sensazioni , o to* gliendo da esse certe limitacioni, d la verita^ purebi non sia fatto ad arbitrio, nia logicamente, A. Ed i di queste notizie intellettive, di queste idee od es* senze, che noi ragionavamo a principio; alia verita delle quail, intendete voi ora, cbe il sentir nostro soggctlivo nun apporta verun pregiudizio? 3f. Lintendo. A. E bene^ riassamereste voi pertanto tutto ciu che abbiamo Hn qui ragionato? M. Due cose mi dimostraste: la prima, die il pensiero non reca alterazione alcuna agli oggetti o real! o possibili da lui pensati; la seconda, cbe gli oggetti reali percepili, sono in qiial* che modo alterati dalle nostre sensazioni: ma gli oggeLli possi- bilij che chiamaste idee cd essenze, non possono sostciicre dalle sensazioni veruna alterazione o guasto^ imperoeeb^ essi sono al tutto scevri a$sare a contemplar Iuna dopo Iallra, ma non mai di alterarle^ nel qual caso non sarcbbero piii essenze, e per4 il pensiero avrebbc distrutto il suo oggelto, non sarebbe piii egli stesso. Se conside- rate poi la natura delle essenze o idee , voi le trovate immuta- bili, e non possibili di ricevere in s4 mutameuto alcuno. Con- ciossiack4, tome dissi ancora, se quesle essenze o idee potessero alterarsi, duiique si suppone chelle possano aver due modi di essere, Iauo che le fa quali sono, Iallro che le fa quuli appa- ristdno. 3/. Cerlo. A. E ntlluno e ueHaltro di quesli modi non vi dee aver ripiiguaiiza. Al. Se vi avesse, non polrebbero essere. A. _Se non son dunque ripugnanli quesli due modi, c'tulla- via son divcisi, gia uou sono piii una esseuza sola, ma due. AI. Linleiido. A. E veranienle iiiiniaginiainoei tome possibile qualunque cosa vogliamo^ e poi faccianioci un canglamento. Per niinimo cb egli sia il cangianieiito, la eosa pensala 4 uualtra, ella diffcrisce dalla piiina, come il due dillerisce dall uno^ di che Aristolele stesso, Vedete, paragonava le essenze a uumeri (i), a Hue di siguifieaie vi) La senleiiia i eclein'e ptesso gli Aristolelici c gh Sculaslici; irwj 41 il peustLiu e quclio stesso Ji lUl.tgoiaj al quale riluma s.'ir, la loro infera divorsltn. Si: dnnqile ogni esscnza i templice, ii fat- tiimrnte che non riman piii dessn ove solTra la pii! leggiera mu- lar.ione; egli si pare manifesto, che le essenze non possono aver due modi, e che per6 debbono esser tali necessariamente, quali all'animo nostro appariscono. Pero voi vedete quanto a torto e ad arbitrio sospettavate, come diceste, che le cognizioni nostrc sieno apparrntemenfe immutablli e necessarie, ma realmente mu- tabdi e contingenli. d/. La diinostrazione della veracita delle nosire idee parmi Tiflente. Ed or io capisco, che il sospettare chelle sien altro tl.t qiiello che dimostrano, nasce dal non aversene abbastanza risserrata e perscrutala la nalnra^ e per dirlo aperto, nasce dal- r i^'noranza. Infatti non possono esser diverse da qiiello che ap- parisrono, appnnto perchA, come avete dimostrato, non pos- ono conrepirsi come fornite di due modi di essere; consislendo tiilla la loro natura in non aver nulla in sA stesse, che involga contraddizione; sirchA o non sono, se involgnno contraddizione, o sono, se non Iinvolgono; e verificata qiiesta condizione, ogni variazione le fa esser altre, e non riraaner le prime mutate; sic- ebA il pensiero puo andare dalPiina alPallra, ma alterarne nes stina non mai. Non mi riniarrebbe die un ultimo dubbio, leg- giro per me, dope qiiello che ho udito, per altri grave, ed A qucsto. Qttand io miro un oggetto sussistente, io non percepi- sco gia 1 oggetto stesso; ma si bene la mia propria scnsazione. Or ugualmcnte cgli pare dovere avvenire dell intuizione delle essenze, Quali cose si vogliano sien quesle essenze, se voi non le volete modi, o atti dell'anima; elle pcio non potranno cs- sere percepite in sA stesse, ma nellelleUo che produrranno in noi. Or ponendo che sieno cose die operano in noi; Ieirctto di una cosa non pu6 essere, come abbianio delto parlando della scnsazione del sole, cbe segno della cosa die agisce, e non la cosa stessa. Noi non sentiremo adunqiie le essenze; ma bensi il loroefTctto, una nostra modiGcazione. Or eccoci nel primo stato, dieono alcuni, della questione: tiilto cift che noi sentiamoj o co- nosciamo, non A (inalmcnte altro die modifieazione nostra. , II principio da ciii nitiove qiiesta vostia argomentazione  I'Ctt Aiiiliilrle, can liilla la siia amieziuiM' . Io ho gia denunziata questa furmola per iodegna d'un (Ilosofu, indegna dun uomo, il quale dee cercarc non gia come sieno possibili le cose, nia prinia di tutto se sono o se non soou: e secoudo me, Iaccer- tarsi bene del fatto k il primo caiione della vera scuola sperU nieiitale, che k appunto quclla che io predico quanto u' ho in (;(>la. M. Ma dunque potra uii esscre truvarsi in un altro csscre? si dara questa cuiuunicazioue singulare che supporrebbe il vo- stro sisteuia, mediaiitc la quale uu cole nun pur inodiGchercbbe un altro cole, ma mostrerebbe , reuderebbe iulelligibde ad un altro elite la propria natural Io vi rispondo, Teggiamulo, osserviamo, cerchiamu come sta la cosa. M. Vedo bene, che questa k la via piu sicura da venirne a capo. Iiiiperocchi, che sappiaui uoi, poveri morlall, quali sieno le leggi degli esseri tutti? e di quaute maniere diverse ce n'ab- biano, se nol rileviamo dalla percezione e dallo studio di quelle? d'altro lato, ritengo aitaiueute iiiipresso quello che so- letc seoiprc dire, che  uieute k iiupossibile di ciu che iioii iuvolge cuutraddizione a. Queslo principio appunto vi premunira contro agli er- I'uri^ inipedira che la vostra meole si reslringa e s'iiupiccolisca, e voglia poi coniuiiicare la propria piccolezza e uiiuuzia alle cu.se. lii veramente considerate beue uude avveiiga il pregiudizio di cui parliaiu.0, che una cosa non possa essere nell'allra, ui cumuiiicare all'allra e far coiioseibile la propria eulila. M. Oiide credete voi che provenga: yi. Maiiircstameute dallidea di spazio e di corpo, dove una parte i essenzialnieute fuori dellaltra. M. ?iou k dunque esatta quella opinione che vorrebbe clas- silicare tutte le uozioni astratte, toccauli le scanibicvoli azioiii (li'gli esseri, soUo le due ruLiiehe dello spa/iu e del tempo (i). t.) - Le tidliaUc c iiuiUi.rii^ dice il C. >ccuduuu ddl Digitized by Google A. Ella h infrtta Jal pregindir.io di coi parliamn, riot^ dal credere clic tulti gli enli siano soggelli alle leggi dello spazio e del tempo. Questo principio ontologico distrugge ogni spe- rienza. M. Veramente, se si tratta di trovare un'assolata contrad- dizione in terminis nel conretto di un ente che si comunielii tiitto intero ad un altro, che in un altro esista, o che gli riveli tutta la sua natura; questa io non ce la veggo. Solo ho una cotale ripugnanza ad ammettere nna proposizione si strana, si singolare, si contraria a ci6 che si suol comunemeiite credere. A. Tutto i strano all'uomo quello che a lui vien nuovo ed inosservato: niente i strano alPuomo di ci6 che gli si fa vec* chio e famigliare. M. Falemi vedere adunque, fatemi osservare questo fatto che Toi dite avvenire nclla natura della cognizione. A. Quando io aflermo a me stesso che fuori di me esiste il sole, ditemi, questo che aflermo 4 egli iina mia modifica* zioue? avvertite bene; io non domando se I'atlo che fo, o se il sole concepito da me, sia una mia modiflcazione; supponiamo per un poco chegli sia tale. Io domando se la mia ojfemuizione si riferisce alia modificazione mia , o ad un eute diverso da me. E per ispiegarmi ancor meglin, poniarao che io sia ingan- nato, e che creda per errore che il sole sia un ente da me diverso; io domando, questa mia falsa credenza si riferisce ad un ente diverso da me, o a me stesso? M. La credenza si riferisce ad un ente diverso da voi, seb* bene Pente non sarebbe, nel caso supposto, che una modiflca- zione vostra. A. Bastami che maccordiale che la credmza, sebben falsa, si riferisca fuori di me, e la cosa 4 spacdata.  nomeno universalissimo della dipendenza reciproca delle niiilaxionl , si  uno e piii  iMamiani, P. II, r. XI, vi. Roshi.ni, // Rinnovamento. 7* 56t ilea, come pore nn'anima quant' i intelligente , non ha qaeite relazioni collo spazio, che appartengono solo alle cose corpo- ree. Un'idea ^ in si stessa, e non in un luogo. Unidea si pu6 dire nell'anima, quando i intui'ta dallanima^ ma non i gijt neir anima, come la minestra i nella pignatta \ ma in tntt'al- tro modo, che non ha similitudine nelle cose corporee^ in un modo, che si dee dal filosofo guardare in faccia, per cosi dire, e cosi riconoscerlo ^ non di sbieco, cioi indurlo per analogia de' corpi, per immaginativa , per arbitraria argomentazione a priori. M. E parmi ora di travedere anco, come lo spirito, sebben seraplice, possa intendere le cose vestite di spazio. A. Vi Sara facile^ conciossiachi I'idea dell'estensione i sem- plice anchessa come tutte I'altre idee, e per6 anche lo spazio vedesi dall' intelligenza in nn modo al tutto semplice, e fuori dello spazio. M. Questo tocca da vicino quella terribile questione circa il ponte, che si dimandava fra la nostra mente e le cose. A. Cosi era quelto un materiale e al tutto falso modo di favellare messo innanzi da' sensisti^ ed esso confondera la mente, e le impediva di vedere il vero. Fatto sta, che la stessa esteriorita (se cosi si vuol chiamare il corpo, o lo spazio) non i cbe uno dc' modi, onde quel genere di enti che si chiamano estesi sono diversi da noi: e questa esteriorita ha la sua idea: e 1 idea della esterioriUt non i ni esteriore , ni interiore : i pura, semplice, spiritoale, distinta dall anima, come tutte le altre. Or chi potr4 negare alia mente la concezione delle cose esteme, cioi degli estesi, come di tutte 1 altre cose diverse da noi , se ella pu6 concepire e veramente concepisce tutte que- ste cose? Af. Verissimo. Rendovi grazie^ io n'ho abbastanza per que- sta fiata, da meditarci un buon tratto. Digitized by Google CAPITOLO XLVIII. 55.% come >l skmskmo abbia bbmpre cohdotto i filosofi AU.0 SCETTICIJMO. Riassnmendo le cose ragionate nel precedente Dialogo , noi veder possiamo 1 origine e la natora dello scetticismo de sen- ualisti di tutti i tempi (i). Lo scetticismo diventa inevitabile, tostochi si abbiano levate dall'uomo le idee, nelle qaali sta Iintelligibilita delle ease,  lasciate le sole sensazioni. *  volendo segnare i passi di ana meate che rovina in tanto errore, vedremo agevolmente, che I 11 primo sbaglio di essa avyiene per poco acume in osser- Bare, che quando parliamo noi di uoa cosa- sentita , per esem- pio di nn anello, di un fiore, di un vaso, quella cosa e di- venata oggetto di nostra attenzione per due atti nostri cootem- poranei, e non per un solo, cioi per 1 atto del sentire  per 1* atto del concepire intelleltivo. Ai sensisti allincontro sfugge sempre, per negligenza dosservare, queslo secondo atto, che rimane loro coperto, per cosi dire, e occultato dal primo piu viyace ed eccitante 1' attenzione^ e si persnadono che la nostra percezione della cosa esterna sia un fenomeno semplice, il quale avvenga pel solo atto della sensazione , a cui attribuiscono an- che Ieffetto intelleltivo, che da quello del sentire non discer- nono. ' 3. Dopo questo primo sbaglio, ne viene an altro di conse- giicnlej quclio di credere, chc noi non sappiamo nulla della cosa sentita, piii di cio che si cuntieue nella sensazione. Si crcde ^ () Queseosisti i quali DOminaDO Arislolele come cerlo loro patrociiia- lore, io li maoderei a leggcre allFiUamente il L. IV de' JUeta/xsid, ehe  piii di loro probabilmeole noo hauuo mai lello. Ivi niolte cose troveranuo, ido- nee a niodibcare il coocello cbe s ba volgarmenle di queslo lilosofo; e fra Iallrt il Vedranno occupalo a cercar I origine dello acellicismo di alcuoi filosofi cbe lo precedettero , e Irovarla lulls nrl loro senstsmo. en toito ua suo successore, Teodoro pure di Cireuc, discepolo di suo nipule (del se- condo Aristippo)} e quCsli dirde il Icrao passo^ dicltiarandu apcrlo, le sen* SMtioiii non avere aicun valore oggrttivo. llitenendo adunque ebe quelle fossero le sole nostro cognizioni, uego a questo si esse Toggoltiva venta, c tol.'ic di mezzo ogni erneriu della cerlezza. Priina aucoia die iiasccsse la sotta de' Cireuaici, si vede lo stesso pro* gressu iielle idee di Protagora e di Teodoro. Aduiique Prolagora o Teodoro sono scettici coufossi} Leucippo, Ari* atippo ed idiri sensisti sono scrllici non confessi, ma coiiviiiti. liuUttua di Piulugurat alktmavi * tsset veiu a ctuscuuu cid clic a lui Digitized by Google 565 3.^ Allrl consideraoo, che lo stesso sentire avendo le sae leggi costanti, vi dee avere nelle sensazioDi di taito il complesso de* gli uomuii qnalcbe cosa di comune, e questa uniformitA nel sentire dee costituire uuo stato normale (espre$siooe toUa dai xnedici), e quindi una colale verita relativa, a cui si dee ripor* tare il sentire de^ singolari uomini, e trovatolsi discordante, di* chiararlo nou-normale, tnorboso (i). 3." Alcuni, dal vedere esser tolto airuomo il possesso della verila assolala, si gittarono ia ana cotale misantropia, io aa odio della specie umana, di si stessij dichiarando nulla avervi di buono, fuorcbi la morte (a). r pare w; T$ pviwcfitftv ixaWf * Tusc. Q. L. I, c. cxxyi). Ma come potevaoo uc- cider se slesse, persone che riponevano nella volutik ogni bene? Era line protesla della natura umana contro ad un priocipio ignobile ch'ella sdegoava; ella volea, quasi dire!, purificarsi dalla macchia contratta, immolando delle viltime alia verity : si sacrificava, come Lucrezia, pel dolore di esser violate. (i) Frequentemenie il Romagnosi mctle delle limitadoni arbitrarie at 'ifoltivamento degli sludj. m La virtu^ egli dice, ed il valore della saptenze  volula dalla natura consiste luiie nell* opera proBcua. Quiodi ci6 cbe b  pill rimolo da questa posiztone, ioHuisce meno sulla vita attiva richieste w dairordiue delle cose. Dunque ogni speculazione nostra dalla quale non  derivino cognizioni ulili, b vanitli; e per6 la scieoza allora val nulla m (Che cosa e la mente sana? ecc., Ragione del Discorso). lo vorrei dimau* dare, se sia in potere di aicun uomo il diQinire cbe vabbia una sola, fra le veril^ e noi conoscibili, che si possa dire al lutto inutile. A credersi au* torizzati di pronunciare uua simigliante senteriza, o coovien conoscere Tin* catenameoto di tutle le verHi quante esse sooo, o convien essere un igno* ranle.> Per altro il. Romagnosi ^ coerente al principio: lolta la verita as* 8olnta,resta la sola veritli pralica , che non e verita: la contemplazione e inutile in questo sistemaj tuUo si riducc alU viu attiva } che e appunlo il Digitized by Google 567 voleva che  fratli di valore, cioi capaci ad operare sulla reale onatura onde ottenere i beni e schivare i mali^ e cbe uil pre-  gio della verita consiste esseoaialmente ed unicamente nella  suddetta efficacia.  Questo modo la distingue dal valore del ufalso, il quale riesce nullo o debole e sempre precario, per* ch non raccomandato alia catena del fatto, e sempre con* Mtrariato dallonda della reality  (i). In tale sistema, questa veritA di nome k sottordinata allih- teresse; la moraliUi k impossibile: di essa pure si mantiene il solo nome, che rimane una mensogna. Conciossiachi che cosa i la virtu, altro che il rispetto alia verita? Se la virtu merita riverenza, questa proposizione k una verita: or se la veriUi d un mezzo, donque auche questa proposizione non ha che un pregio relative, e non dee usarsi che per semplice mezzo al gran fine dell interesse. E questo interesse, checchi si dica, non i coerente se non k al tutto privato : 1* interesse k essenzialmente privato: conciossiachi come pu6 darsi beneficenza di vero nome, senza virtu? La filosofia civile adunque di Romagnosi i ella stessa un regno diviso e desolato: una civilt^ che ha il corpo attUlato voluttuosamente, e Ianima selvaggia. sistcro* coDtrsrio dirillamenle  quello di colui che disse dell smaote eon- teinplalrice, che optimam partem elegit. (i) ytdult fondamentali tec. L. I, c. IV, lo, ii. Anche quests cease* gueoza, che disirugge il pregio vero della sspieoia,e sloglie gliuomiai dalle pill sublimi e piu disinleressale meditazioni di lei , disceade irrepugoabil- menle dal sistema sensistico. Arislotele la vide , e la deplor6 parlaado de seasisti de tempi suoi, che non ammettevano altro che una verita mutahile, relativa e pratica, quale pareva loro rinvenirla nesensi.  Una cosa gra* M vissiroa, dice lo Stagirita, seguita a questo sistema. Coaciossiachi se quelli * soli possono pih ardeotemeote amare e cercare il vero, che pih il veggou n possibile; in che modo coloro che lengono tali opiaioai, e portauo una  si fatta sentenza della verili, non ingcriscono una rolal socordia e avvi-  limenlo in coloro che pur si sforzano di hlosofare ? conciossiachi cercare K la verita sarebbe in tal caso uno andare a caccia di uccelli m. Digitized by Google CAPITOLO XT.IX. 5fi8 COMTISOiZIONE. E dopo di ci6, rimane I' ultimo passo a fare a'sensisti per toccare il fondo del pirronismo^ ma questo i il tempo medesi> mamente, in cui cssi debbono necessariamunte dare in suj con-> ciossiach^ il fondo di questo pozzo non da riposo a chi vi si accascia. QuestuUimo passo e di giungere a vedere, che per essi, re- Rtringcndosi alle mere sensazioni, non vha ni pure una verita pratica , relativa , variabite. Conciossiacb^ senza idee non pos- sono nA intendere, nA valutare le voci, per cosi dire, delle sen- sazioni. Paflare, ad essi A impossibile. Ogni parola A un giudi- zio fatto in consegnenza di sensazioni: il che e quanto dire, A dellc idee, intuite in occasione delle sensazioni. Tolte adun- que le idee, tolto A il linguaggio, tolto il ragionameuto, anche quello che si faccia solo sulle sensazioni^ chA di vero la sen- sazione non ragiona della sensazione. Il sensista, ove giungesse a veder questo, navrebbe tale una scossa, che facilmente lo staccherebbc dal suo sistema^ impe- rocchA non piace all'uomo rinunziare alia ragione e al linguag- gio: e niuno prctfessa il sensismo, se non a condizione che lo si lasci ragionare e parlare, cioA a condizione che lo si lasci smen- tlre col iatto, il sistema che difende colle parole. CAPITOLO L. Lk SOLA SCUOLA ITALICA THOVU, E Flss6 LE TRE CONDUIOM DELLA COMOSCENZA. Or tulto ci6 vedemmo essere stalo noto agli uomini piu per- spicaci dell antichita : alia piii illustre delle scuole niosollehe , che comparisse sopra la terra, 1itilica. Fu pronunciato, che nion sapere A possible se non a condizione che esistano degli enti intelligibili, a cui appartengano questi due caratterl, i. la semplicitA, che fu delta anche imilci, a. e la immutabilita, che dissero anco eternita, o necessita. Digitized by Google Qucslc due condi7.ionl nou si veriHcano niTr, i rravr' utntt aafiara A cui Piatone moslrava Ic idee nou esser nulla, e cost gli striiigeva a dover confessare chc ernno qual chc cosa d* immaieriate. Il grand* uomo si raticgrava assai di ottener questo da essi; perocclie dicova, m eglt hasla chc ci concedano csisicre qualchc cosa d* iocorporeo , per minlmo ch*cgli sia *: ,*/ jarp ti uat afjtxftv t*^i\ovTtv er ^mt9 aTaftarev, In fatli dallesisteota di enti che non abbiaoo estensione uc rapporlo Sicuuo coirestensiooe, dipcodotio lulCe le piu sublimi verila che nobililano I'uinana specie: la moraliia^ ia gene* rosila, la cootempUzioue del hello, ia rcligiooe peudo a questo solo puuto.  la senjpliaia stessa dcllo spirilo e un cotisoguculc di quclla dclic idee : la Semplicila di quesle ci prova irrcfn'galiile della semplicita di qucllu: anzi forma, e cosiiluiscr la siesta semplieija proptiu dellu spirito. Rosmim. Il Ilumoyanicnto. Ma tutto qnesto non batta ancora, arnorchi sia possibile la cognizione nmaua ; non basta cbe s! dieno cose di nna per- fetta scmplicit^ c immntabilita: egli i necessario chc queste cose - sieno quelle, in cni risiede questa singolare esseoza della cono- scibilita^ che i pur qualche cosa di diverso, come gii toccammo, da tutto il resto delle cose cbe sono nelPuniverso, dal corpo e dallo spirito. Riassnmendo adnnque le tre condizioni cbe rendono possi- bile il conoscere, elle sono i.* cbe esista questa essenza della conoscibilit^, a.* che questa sia perfettamente sempllce, 3.* e che sia perfettamente immutabile. Tali sono i tre caratteri del- Videa; dove solo per ci6 appnnto risiede il principio del sapere. E que' caratteri si trovano toccati dagli scrittori platonic!, quando determinano Ioggetto della scienza, o della filosoBa.  Ella tratta, dicon essi, di quelle cose cbe non souo corpo- ree, ma intelligibili , prive di materia ed eteme  (i). Colla parola  intelligibili  (voffta) esprimono il primo carattere, che i quello di contenere P tistnza intelligibile : colla parola  immateriali n (dii^a) indicano la loro semplicita: e con quella di  eterne  ^dtSia,) accennano la perfetta e necessaria im- mntabilita. L' intelligibile i sinonimo del ven> preso come esem- plare o norma delle cose, e cbe io cbiamo piii volentieri verita . Per6 al vero attribuivano gli stessi caratteri che aXl'intelligdiile. In nn brano, conservatoci da Stobeo, di quell' antico cbe rol- garmente si denomina Mercurio Trismegisto, al vero si attri- buisce la semplicita e I'eternita con queste parole:  Egli non tti tnrbato da materia, circondato da corpo, i nudo, chiaro, uaugusto, non suscettiblle di alterazione e di mutazioue  {i)y e ancora:  II vero i ci6 che ha da si solo il propriu essere, e rimane per si, quale esso i  (3)^ e di nnovo: uE tu pensa,  che solo vero i ci& che i eterno  (4)- (i) Xifmcn tid tiJii awua'TM>, xat tnrmt , muXyt n xal a'lViV'* Jsmblic. in Protrept. ad Symb. ai. (a) To fii e'ao dXmi OoXoi/junvo, juari crsro asuaroc vfffySaXXojunavo yimnjt aVftVTOTy at/creV, a'mXXoiaTor. Stob. Serin. XI. (3) To* o^XaS-i'r IffT/ to' 1*5 avToJ /tio'ooo Tor rurmvit I'x:'" alrrl, iiiv lOTir. Slob. Serm. XI. * (4) Xo* di ro'ff oXo>ic Ti i/rai to /ue'ror i?(V/or. Stob. Serm. XI. Digitized by Google ^7' E cbi ben attenJc non pito a meno Ji conoscere la giustezza di questa sentenza cbe il t'ero sia V intelligibiU stetson perocchi )a natura del veto ^ di cssere n1l intelletlo, e cosl pure quetla dell' intelligibiU (i). Per& il torre U idee, cbe sono questo in> telligibile esseoziaU, i nn torre il vero^ I'ammettere poi le idee, i un ammettere il vero: e per6 h ua risccare dalla radice lo scelticismo. Veduto poi, cbe quest' e^ienza conoscibile o idea i semplicis* sima, immutabile , elerna^ egli e garantito al tatto il possesso del rero agll spirit! atti a iatnirla, contro ogni opposizione, perocchi cessa ogni sospetto , cbe in tale essenza possa inge> rirsi alcuna alterazione mediantel'intuizione dello spirito stesso. CoDciossiaebi come potrebbe lo spirito iotuente mutare ci& cbe i esseozialmenle immutabile? come cagionare alterazione in ci& cbe i semplicissimo per essenza, identico a si stesso, etemo? come pu6 intnire solo la forma apparente dell' idea, e non la reale, se essa idea non ha cbe una ibrma sola? e se tutte que- ste cose cbe si dicono dell' idea, appariscono appunto in quel- I'ente ideaU cbe il nostro spirito intuisce, di guisa cbe se un'al- tra cosa vi fosse non veduta dallu spirito, non sarebbe piii quella di cui si ragiona ? CAPITOLO LI. SI CONflMOA: SHTICS DISTlaZtOHE TKK LA SClElfZd E l' OFOfmjfE. E poiebi il desiderio di promuorere fra.di noi lo -studio ne* gletto de' pin solid! pensatori, e massime degl'italiei, mi ha condotto, come in altri miei scritti filosoCci, cost nel presente, a congiungere coll'esposizione demiei eoncetti I'interpretazione delle celeberrime blosofie, di cui egli sembra , .per cost dire, aversi perdnta la cbiave ^ anche qui non mi terr6 dall' indu giare un poco, cadendomi in acconcio, a chiarire una distin* zionc comunissima a' primi maestri della Blosofia, i quali dili* gentemente separavano la scienzti dalU opinione. Dico, che ml cade in acconcio^ perocche redemmo nel ca (i) Vedi il N. Suggio' cc- Sci. VI, c. II. Digitized by Google 5yi pitolo precedente , che ovc sole s' avessero le sensazioni, non si potrcbbe ragionare ne pure delle seosazioni, cio^ non si po- trebbe saper cosalcuna, reso impo$si)>ile, o piu tosto tolto via il sapere stesso: e cos\ allopposto, conservate le idee, i salvo il sapere; il quale in ci6 cbe pronuncia i immutabile e iieces- sario, e dicesi sciema; ma sempre egli pronunciar non pud, altesa la natura de suoi oggetti, e la limitata conginnzione che Iuomo ha con essi; e tale limitazione sua gli fa nascer quella persuasionc, che gia opinione venne denoniinata. Or qoesto i ci6 che io voglio un po' meglio chiarire, in ser- vigio dell'antica 6loso(ia, e delle dottrine che propugniamo. (via dissi, che I'errore de' sensisti scettici ha il suo fonda* raento nella persuasione, formalasi loro nell'animo, che se v'ha cognizione per Iuomo, questa non possa esser altro che la rappresentazione delle cose fattaci dalla sensazione  . Essi per un certo tempo prendono la sensazione, in vece che per un segno o elTetto dellazione delle cose, per un loro rilratto; e quando poi saccorgono cbe queslo preteso ritratto non ^ ri- tratto, allora diventano scettici. Or benchi, senza I'uso del- 1 intelligenza, e pero senza le idee, essi non potrebbero dire della sensazione ni ch ella k ritralto n ch' ella h segno; tut- tavia,conceduta e amniessa Iintelligenza giudicante delle sensa- zioai mediante le idee, egli h possibile Iuno e I'altro di quei due giudizj:cioi si puu giudicare tanto che le .sensazioni sieno ritratti delle cose, come che elle sieno meri segni di queste od effetti. Ma i da nolarsi , che I uomo i inclinato per natura a fare il primo giudizio, scbbene in un modo pratico c provvisorio. E inclinato, per ragione di esempio, a credere che i colori, i suoni, gli odori ecc.., appartcngano in prop^io-ai corpi come qualila rcali, loro inerenti, e non come eifetli in noi prodotti. (Quando nasce la filosofia, ella riliene alquanlo di tempo o d inconvenient!. TutUvia quando la filosofla giunge a scuoprire che le sen- sazioni nostre non sono rappresentazioni delle cose, non pno ptr6 rantare subitamenle il linguaggio comune degli uomini Che fa dunque ella? Pone delle dotlrioe: dk delle interpretazioni nnove al linguaggio comune; sentenzia, che il principio della verita non sono le sensazioni coneiderate come rappresentanti gli oggelti esteriori, ma che questo principio A al luUo diverso e sni^ore dlle sensarfoni, e un principio che disceroe e pesa il valore di esse sensazioni, le limita ad esser puri effelti pro- dotti da una lorza estemi in noi, indicanli bensi, ma non rap- pMsentanti la loro cansa'. Ora npa concezionedella sensazione che Ja fa conoscero  noi noB pei- qhello che mostra ma per ^eRo chf *, non per 5na rappresentazione mapper nn segno, 0 on idea. La filosttfa^dice adunque che la ddenia sta nelle idee (i). Ma lAiiiih li pu6 dtstwtggere la credenza volgarc, die e sensaziohi rappresentino le cose? La filosofia, in .ece di vo- lerla distruggere, lascia ad una tale credenza nn pratieo valiire e la chiama opiate. |cco la distinzione fra M icienza e \'opi\ nione, secc^do ^ con^to pih comune degli antichi. 1 Noi abbht^VdiAo^ qoesla distinzione essere il fbodamchlo ciella scuola il^Iica- Volgiamo ofa udo ^ari^o alia scibla di Elea, second* glo- m filoso^ 4^telia. Noi Iroveremo anche'in essa, abbraociat'a a medesAa distidzione senza controversra, di guisa che le due scuole iUj^ne^i Tillagora e di Senofane dividono per Ja va- rieta degU sVHuppamenti ,'non de principj. c praiiei die suol fare la massa .le^-li i.o.niui, e si sono assohHi da errore. Vedi Sez. VI, c. XIV, art. V. .  , . . ()  Allora uoi filosoUama. ., diee .... aniico sposl.orc della fdosofia ila- ca,  quando vcramcule, e senza r opera dd si, si e ddic corporal, fuo. - Zion. (cioA senza presUr fe.le alM loro rappre,e,aziqnl ) ,i, ia.no d. lla  pura menie al compr.>nd..m ..io .Idl,. v. i lt;,, die sla neflu zsstazz sl.'s,c " -n che sappiamo co.,silere la sapienza OaTa,f H rJ c,Xarf . XaSa,; ,a. cy, a,/ aoSop,; vSar a nbr Jainbl. Ill exposil. hymli. i5. , DigilUi doversl risolvere in quell uno, in cus tulle sono con- .tenuU, e onde tulle proflubtono* (3)-, parole cbe pii senibraDO (,) Ansssirosudro (Cic. 7?e />.) 1 slessa scuols piUag^ dVi  Dio simbollcameute la figure rolonda. ^ . /  (a) Xenuphanes f Axit; unam use omnia, ne^dfWd us^utaBSU. el td esse deum, neque nttum usquam et sempitemam, conpMataJfUra^ (Gic. in La- culL XXXf'll). Quando anco SenofaDC avesc ditto  Dio.Ja ngura roloo t, lion come simbolo (coniune a que tempi, siccome io'creito), m come siu vcra qhalila, cio non lorrcbbe U verilk delle cose dq me .ccennatc. Perec- chi non rero incontre, cbe nelle idee de'filosofi si Uovmo degli clemeiiU pugnenli. Vorrebbe solo dire, chc queslo filosofo, che ere giunlo sicor.- meule al priroo grado dell astrarione, q.ielbdella m.ler. nqn era perrc nuto al'secondo. quello dello spasio, o come gli anlicbi dicttanq, idella ma- tcria inalemalica. ' . . ^ . j; (5) Nellc note a Scslo Empirico, Bypolyp. L. I, o3. Qoesla senlcoM Senofaiie di fare Iddio cos. mjla inlelligibile c immune allaHo da oga. Iiialenaie elcmeuto, come appuulo Sono le idee, manifcslameolc apparisrt dai versi dello seellico Tniione conscrvalici da Scslo, i quail sono: ' ^ iusegoo tiu ouwc M Ndh airuomo siinil, ma d* ogni parie  O A si conforinc, c in ogiii loco ugii^le, X liilelligibil lullo, c tulip rociilc . ! Etj{ ai dt>furtn &tJr sVXaeaT' iVr drdm> smarts * * aV nspa. Di. I I-. Vjl'* contenere la vera mente  sibile e materialc; e quella disae essere il tuUo, perchi conliene il tutto ideate, e aola pnl^ chiamarsi enle per si, come sola sta Hypotyp, L. I, aa5. , (4) OTi TaV ri ynnfifw tart. 5 7*> ricrve nuovo rlncalzo dalU difesa falta da Plutarco del disco- polo di Senofane, Parmenidt: (i). (t) C6 clip mi comluro a cri* dlvistone fit ip cose di scicnzB e quelle di opinione^ si 6 la coerenza de' suoi ppniipri, cioc r aver egli formalo un dio raztonale abitanie in tuUele cose, e raverlo non perlanto distinlo da lulto ci6 die ^ sensibile, tnulnl>ile, perituro. Vero ^ die Diogrne dicp, che Parmenidt* non srguiloj! siio inai stro Senofatie (L. IX, ); ma queslo io credo doversi intendrre solo ndio stabilirc gli demenli dell* imiverso, ridotti da Permenide a due, mpiitrc qiiatlro no to> leva Senofane, e in altre rose simiglianli. Che se iioi volessiino prestar fedc n Scsio, pgli parrt'bhc chc Senofane distruggesse la scienzn, e lasciasse solo 1* opinione; e die Pnrmenide fneesse il conlrarlo, guarentisse In scienza agli \ioiiiini, p togliesse di mezzo Vopinione ( Seslo, Mnlhem. VII, no, in). Ma cio dimostrerebbe appunlo, che la distinzione fra la scienza c V opinions era faiia. OUredich^ Plutarco purga Parmenide da quella taccia ; e Senofane sembra die solo in fine di suv vita iiiciinasse alio scetticisiiio , come rile* vasi da* versi di Timoue altegaii da Seslo: ni* potca cerlo dubllarne, allot* qunndo ricotiobhe avervi qunlche cosa d* irnrnutabile e di uriiversnle. ollraccio esponeiido in tal modo la setilenza di Senofane, diebinra di farlo giusta il parere di alcuni che cost PinteudonOi Ad ogrii modo, quando atico Senofune ndia sua vecchiaja avesse lolto a du* bitare della certezza deil'umano sapere, ririiarnbbe tutlavia fpinia la distin- zione dd senso come rappresenlazione, c dpi ragionaniento chc f.i uso dclle idee; 11^ egli gla avreblic prestata piu fede allc rapprpsentaziont scnStbili, die sarehbe statQ un rimbanibire, dope avernc conosciu'.a la fdlUcia. Egli adun que sarebbe solo venulu a diHidaro del ragionameiilo, osservando gll sbagli a cut va soggetio; e pcr6 I'avrcbbc dichiarato hueno a irovarc la proba- bililh ddle cose, in vecc die la certezza. In qiiesto sislema sarcblic slato seinpre la ragione, e non il senso quelio che avrebhe dato alluomo lulto do die vi potesse aver di megtio nd conosccre, cio^ la probabilila. Sono Ip sipsse parole di Seslo die nii autorizzano a dir cio; le quali non possouo csserc piu chiare. Ecenh': ir Sccondo la scnlenza di lui (di Senofatie), H cio die giudica sarebbbe la ragiovb opinabilb (rai* iol^tTror Xe>9r\ cioe M quelln che abhraccia il prohahile, e non quella che seguita ci6 che ^ fermo  e Stirnabile : OjTf ^i'wlT^ai xarei Xajsr, TooTfVTr, T9W I'lasrof , /u rof roo oo ( Seal. Eiiipir., j4di'ersus Logicos, Vll, no). Riman dnnque sempre la raglone, e non U rapprescnlazionc sensiliile, il principio del sapere, spcondo Senoninc. Di chc appariscc, che Parmenide non si sarehlic scoslato dal suo maestro Senofane pouendo nelie idee tutio i* uriiano sapi*ri&, ina solo ocll*H5seguaru il grndo di cerlerza a queslo sapere; e rimo e Tallro avrebbero egudimente ricoiiosciuto quanto grande error $ia il considerare le seostizioni conic rp- presentntive ddle cose.  Parmenide, dice Sesto, cond-innu la ragtone upi- M tiabile, cio^ quella che si fonda sopra percezioiii maucbevoli. Pose poi, u die cio die giudica sia quella raglone la qual nasce dalla scienza^ die ^ Digitized by Coogle Q'jcsl' ultimo, aUro illustre italiano, fii pure accusato, come vedemmo , ch' egli , ammettendo solo 1 idea , aunientasse tutte le cose materiali. Ma Plutarco il difende validamente ^ perocche egli u non niega, dice, le sensibili cose, ma mostra che cosa usia VinteUigibile  () E dice, che u prima di tutti gll altri, e al'istesso Socrate, vide nella nalura essere Vopinabilc e V intel~ uligibile i> (a). Ma questa distincione fra 1 opioabile e I'inteU aligiblle, fra Iopinione e la scienza, sebbene la facesse Parme- nide prima di Socrate, non credo io che egli per questo fosse il primo a farla. Certo, lasciando Pittagora, che sembra averla posla a fondamento di sua dottrina (3), il sno maestro Seno* m quanto dire da quella che non pu6 errare, ne essere inganoala , riget* M lata ctiandio la fede a* sensi >*. Tlofus*i^nf t ioyiO too #*;t5rr9{ d o'lriTrnfjtiriniv , TOP tl^ioivTttrop, t/Vi-^ir dvaa-rac *.A/athem.\U,g2).Q\xindi t le cose iotelligibili, o idee^ dicevano non esser comprese che dalla mente ( rojrra aVo too poo), le seusibili dal senso ( degli antichi corrispondcre ad un getiere di cio che io chiamo  persuasionc >*. La facolt^ della persuasionc 6 per me quel potere che ha Tauima nostra di persuaderci una cosa anchc senza fonda- mento ragionevolc: di che Torigine degli errori (Vedi iV. Saggio Sez vr. cp. XV). Presso i Pittagorlci k celehre la dottrina del quateroione attrihuito al* Ianima,! cui si riferisce il luogo citato di Jamblico. Secondo Plutarco ( De PlacU. I, iii) ed altri anlichi, questo qiuiernione non era allru se non la distinzione de* qualtro modi di percepire che davano all' anima , e che chiaroavano co'nomi di mente, scienza, opinione c senso {pojv, intt^xunp, ^o^ap, o'lV^rr). Nel passo di Jamblico, e in questo di Plutarco, la pa- roia M mente n ha significati diversi; e lanle volte presso gli antichi quest! diversi significali producono equivoco, e rendono difficile assai rinleltigeuzaj RosMitti. Il Rinno\omenlo, j3 5- fane pOM alnieno la l>ase di ^uella distinzione, teparando le cose immulabili e non generate, ma divine (le idee), dalle mu- tabili, generate e periture, e alle prime sole coocedendu di es- sere sede allintelligenza. Ma tornando a Parmeaidc, dice IHutarco ch' egli metleva  r intelligibile nella forma dell uno e dell enle, chiamandolo ente, come a dire elerao ed imraortale, e uno per la sinii- ugliansa di si medesimo, e perchi non ammette diflerenza ve- runa , oiod per Iimmatabilita sua. Nella forma poi inordi- nata, e die trovasi in moto, melte la  Datura sensibile  (i). Or ecco i due principj della scienxa e deUopmibne.' la scienza c r inlelligibile^ Iopinione i il sensibile preso alia volgare, cioi come rappresentazione delle cose. Quanto alia  come Tuuo tietmmcri: ati extmplum umns compoiita cst, quae sic iUoctiUter domitintur m corporCj, su'ut unum in fiumeris> CiHudiano Mainerlo, De stntn animne, !> llj vit (2) Judictum rationcm tt-se tUxU: sensusqut minus tsse exactos ei neos ad jnHicandum. jtU tnim : Piec tiOi communis setisus [tersuadeal unqitans QuiCifunm ut Jnilaces oculi, aul ut judicci auris, Jnl at rath dirimnt discrimina return, T| T| d*df^ttp* Mir el >IK vXctVf/fcr xard a9X9T9$ dppa xaC aMuntt K/' x^txai it Xiyp ^tXyiwHx Lib. IX, Si'gm. 22. Wa^piwiiw Tl ^I'wr rrrV 'r9Xc/cl^ir, 0{ i* 99% oVaVir^ ai'fyfixer) LU>. IXi, Segrn> 2St (4) VkA Arist. Pbys. I, n tv; III, is; Dc Coclo III, i; De Sophist, etetith. XXVill.  >iiitpl. tn drist. 1. c.  Cic. dc Qanest. IXj 37.  St>io llypol III, 05 j AtU. MuthcM- X, 46.  Slob. E{.l. L Digitized by Google 58o Or poi, dopo stabililo il priiicipio geoerale che le sensazioni non sono fedeli rappresentazioni delle cose eslerne, qiiesta scuola si appUcu, come esigeva il natural corso dello spirilo, ad esa- minare e rilevare ragguagliatamente quali fossero tali infedelta o discrepanze fra le sensazioni considerate come rappresentative dclle cose, e le cose slesse. Gia Parmenide e Melisso avevano cominciata una si fatta invesligazione, e portatala flno a ne> gare che la sensazione fosse testimonio fededegno del movimento de' corpi. Zicnone, filosofo acutissimo, pure italiano, udilore ed amico di Parmenide, rec6 roolto innanzi con incredibile sottigliezza quesla indagine; e con essa scredit6 aflatto tutto ci6 che si vo lesse dedurre dalla sensazione quale rappresentazione delle esterne cose. Egli mostrCi, che queste cose esteriori, ove fossero tali quali la sensazione ce le ritrae dinanzi, sarebbero piene di assurdi e impossibili : e pare che ne conchiudesse, con on salto veramenle non logico di argomentazione, un assoluto idealismo. Se egli  vero ci6 che si aflerma , che Zenone di Elea vc> nisse per tal modo ncll' idealismo, egli avrebbe guastata la (ilo- soGa elealica , recandoiie alP eccesso il concetto fondamentale che era giusto. Imperocch^ quand anco egli fosse ginnto a pro- vare, che niente di tutto ci6 che ci mostra la sensazione presa come rappresentativa i vero, ma anzi ingannevole tutto, rima> neva sempre a prendersi la sensazione come un mero segno ^ il che avrebbe date luogo ad argomentare Iesistenza di un es- sere esteriore, sebbene tale di cui non ci sia oOerta la forma e la intima natura^ e questo potea e dovea guardare la scuola di Veggia dall idealismo. Per altro ciu che dissi ^ abhastanza a dichiarare la celebre e antichissima distinzione fra la scienza e la opinione: distin* zione in cui convennero da prima le due piii illnstri scuole G- losoGche Gorite presso di noi, la pittagorica e la eleatica: dal- ritalia poi questa distinzione pass6 in Grccia, ed entr6, per quanto io credo, nclla scuola jonica. Anassagora , jonio, fu quello a parer mio, che approGttu dei lunii di Pittagora c dc suoi discepoli. Si disputa assai cercandu che cosa fosse la inente aggiunta da questo Glosofo alle cose, quando aiichc Talcte avea ricunosciuto la nccessila di una mentc. Digitized by Google 5H ( lo credo probabllej cbe la inentc di Talete non fos.se che mi pnncipio attivo posto Delia oatura dcllecose^ airinconlru Adh'>- sagora, approfiUando delle receuti dottrine di Pittagora, pose Panimo suo a meditare non pure supra un priiicipio ejjicicntey ma sopra una causa escntplarc^ cioe sopra un'idea del iiioadu preesistenle a1 mondo slesso. Mediante questa considerazione egli pole separare al tulto la inente ordioatrice, dalla materia, cio che non si potea fare col concetto d'una causa solamenlc cfTettrice (i). Imperciocch^ non ^ altra via onde noi possiamo argomentare alia semplicita dello spirito, se non partendo dalla semplicita delle idee intuite dallo spirito (a). (i) Che il roerito di Anassiigora slia in aver sceveraia c divisa la mtnic dalla materia, cbe i suoi anlecessori o confoudevauo con essa o a lei vole* vaoo per iiatura coDgiunta, apparisce dalle tcstiinoniuuze degli aohehi. Ari- stulele dice, cbe  egli pone la incote come principio roassimo di tuttecose: M e sola easa di tuUe le cose esaere seiuplice, non miala, pura e sincera m: nxV >S udXtTTet T9rrttP- /49fOP ^notf aopip rttp omtp aVXac/r 1^1x1/^ t,at afttyi rt xa' i* rf dorf afXf* ^iiwVaffr xa siciio atiesta Plutarco m Ptride; e Tertulliaiio de Anima aggiunge, che non solo Anasaagora fece la meiite pura da ogni mistura, raa tale che o^piireai pu6 niescoUre con cosa alcuua (incommiscibdtm ) ', col quale altribulo ricu- uosciuto uella menie, o ideaj egli venue a protuggere la verita e la cerlezza coolru gli assahi di quegli acetiici, che oppoiigoDO Talterazione che pu6 produrre in easa lo spirito che la concepiace; conciossiache provato cbe Ildea non si possa mescolare con cosa alcuua, rimaa pura e uguale a s6 isedeaiina anche uello spiriio. (a) lo debbo notar qui uel C. M. uoa petizioue di priocipo, che sola ha- sterebbe a ineltcre in terra il suo siatema di blosona. Egli parla delf uuiia assolula di pensiero ( P. IE, c. IV, 1), o delTuoilii assoluta del nostro cs* sere inielleltivo (P. II, c. V, iii ) , o delT uuila deU^nimo (ivi), o del principio apootaneo (ivi). Egli duoque parte dalium/d del so^^etto per ispiegare luUi i fenomeoi iolellettivi : II principio nostro apootaneo uou  ceaaa mai, dice, di radunarc le idee in no cotal cenlro d intellezione per* M fetlo cd iodiviaibile M ( P. 11, c. X, lit }. Da questa lacolt^ di unilicare Delia propria unila le percezioiii, come pure da quella di dividerle, il C. M. deduce m due alti assai singolari: Tuno e di percepire pm cose ad uu u tempo  Tallro di seutire isolalatneuie e iirinodo uno, iulcro e aasoluto,  Tideiilico e il non ideolico, i qu.ili per eulro le cose giacciono quasi  seinpre ineschiati, iudeiinili e inlerrolli m (ivi). Or di questo tdeniteo , che rHiiimo uosiru percepisce iicile cose, il C. M. deduce tulte le idee uoi- versali, Ma v* ha di piu. ^ Tuuita del soggetio percipieiile quella che pro- duce interiormcnle il couccUo della sostauza, Inipcroccbe m le sosUuse, dice Digitized by Google Ccrlo apparc mantfc^lo, die dal tempo di Anassagora la setta jouia, cliianiata de'^jici da Anstolele, assunsc un altru carat- * il C. M-, uoii si rappresenlano all aiiimo nostro, salvo che per )i loro M jtiii, cioe a dire per modi e accidenli sirnlli, ovvero dlssimili, ciascuae M He* quail in s^ medesimo coosiderato lia forma finila e discoatinua stso*  chi scrittori risguardanti la storia della sella jonica, non po> Ira a meno di riconoscere I' iuilueoza che sopra di lei eserci- tarono le due scuole italiane di Piltagora e di Senofane, che nclla sostanza insieme s'avvengono (a). Sesto Empirico, esponendo le opinion! degli anticlii sul i^ri- terio della verita, dice, che u i primi I quali sembrano arer uintrodotta la questione del criterio, sieno slati i ilsici venieuli u da Talete i. (4) Qucsto i do cbe Teodoreto espressameotc alTerma:  I filosori anle- I riori ad Anassagora, dice, non avevano ripensato se non quelle cose che * cogli ocelli si veggono j#: Ara^^afOC     vor -rfj dinoS ytytnfiiimx tAtfiptn wVi'r tifairt'ftt Tor ifufuxm nranimr, rfi!n( r lOvrar tpirrarai xt'aftfi, xai' rtuTtr /{ va'J/r rff dra^i'af dyayiit rd De Grace, .dffict- Stem, II. . (5) C(Ti a* |utr Axafyiyifaf xoimt Tar Aa^ar I'ov afiTv'fiaa I'lrar. Adv, Muthem. VII, 91. 54 Kil cntrato in qup>:lo nnnvo ppncn; r i* afira'figr Iwii* 9/ ifi' rii/Jj- yefitat'. Ter Xfljar fAr ^ereir, w xcivui ii' r oxo rarr ri- fnifc'/iitir, xa^a'Tif I'Xs^i xai' ' iX5Xoac Adv. Malhem., lib. VII, 91, 92. Queslo placito de Pillagorici che non iacevano la ragione idonca a guidi- care del vero se non ajulata dalla disciplina e dallo sludio, accenna il ca- ratlere Iradizionale della scuola di Pittagora , carallere da me gia notalo nil N. Snggio, Sez. IV, c. I, art. xxvi. Digitized by Google 5S il nimilf pno percepire it simite n (i). Ma un sV falto principio generals I'utlribuisce in proprio aglitalici: sicchi da quest! ap> parisce esscre trapassato agti jonii. E prima accenna a qua! modo glitatici to intendessero. Essi dicevano, clie ta ragione (Xoyov) era naturalmente con- templatrice di tutte le cose, e per6 dovea avere una cotal co- gnazione con tutte (a): (ilta, in cotal modo conteneva tutte la cose in si, e voleano dire, che te conteneva nella loro essenza ideate. Or perchi poi alia mente o idea davano, nel lor liit- guaggio, Iappeltazione di numero, perclu afferniavana eha  A1 numero somiglian tutte cose  (it); i) qual numero, o idea, lumc della mente nostra, appcHavano anebe   delleterna natiira  Radice e schiuso fonte   (4). Or, che Anassagora si aduoasse cogl'italici in queste sentenze, confermasi appunto dalP osservare , com'egli applicava alia spie- gazione del conoscere nmano, il principio generate che  il si- mile si conosce dal simile , alia stessa guisa che faeevano r Pittagorici. Conciossiaehi questi inducevano, come vedenimn, che Ianima avea la sirailitudine (Iidea)- di tutte le cose: n, che i il medcsimo, che avea tutte le cose in se, non raate- I'ialmente prese e nella loro sussistenza, ma nella loro idea o pussibilila. Ora non altrimenli la intendeva Aii.issagora , come chiaramente attesla Aiistotcle. Peroechi tanto i hiogi , che dal (i) v*ro TOO i^uoo ts SfMtw, Sezt. AHv. Math., lib. VII, 91, 9^. (1)  el cum (ratio ) lit univeraorum naturae contemphUrix 1 habere ijunn- d*tm cum ea cognationemg cum sit naturd com/taralum ut simile comprehru^ ttalur a simili : ^tufirrnoe ti gyza rfc ruf SXus Tivd nuTwt t tvliVtp Cxo rou out*eo to euoiaf saraXuiij3dsS9^st sri^yx#. Ado. Math., lib. VIh 9^^. (3) Vedl Srsto Adv. ituth., VI, 9^. U >vi. Rossimi. Il RinnoyanKnlo. 7'{ Digitized by Google 586 bisogoO che avea la raenlu di esscr simile a tulte le cose per conoscerle lutte, inducesse che la mente fosse matcriale, che anzi da ciu appunlo I'argomentava seiuplicissima, il che  quaoto dire, non parlecipe della natura individaata c sussistcute delle cose, ma pura e scevra da qoesU, e non aveote che la loro sitiiilitudine o idea setnplicissima:  Dice (Anassagora) (cost Ari- ustotele), che tutte rose sono miste , ,eccettnato Iintelletto: u questo solo poi essere nienle mescolato, e puro n (i). Or qoal ragione di ci6 adduce? Fece I'intelletto unon misto , soggiuuge Aristotele,  accioccb6 superi e vinca, che vuol dire accioccLA u coDOsca n (3). Ponea dunque Anassagora nell'animo 1. la aimililudine di tutte cose, cioi I'ente iutelligibile, I'idea^ 3. po- nea che questa similitudine fosse semplicissima. Or tale i quanto iusegna I'italica filosoGa. E or tocchiamo un poco de Gsici, Goriti dopo Anassagora. Egli sara assai facile di accorgersi, che ove anco non abbiano abbracciato al tutto lo stesso sistema , e sieno caduti exiandio nel materialismo, tuttavia veggonsi imbevuti degli stessi prin- cipj generali. E quanto ad Empedocle (3), die noi di sopra abbiam v- duto esser dichiarato materialista da Aristotele , qui ci place osservare, come egli potrebhe essere inteso assai piii benigna- mente. Certo, se noi ci atteniamo alia lettera, vedremo in al- cuni de' frammenti rimastici di questo grande siciliano, il ma- terialismo apertissimo. Ma al sistema suo letterale noi possiamo per avventura contrapporre quel sistema che ci risulta dalla coe- renza de' suoi concetti, e che ci sembra perciA 1 intimo e il (l) liVvi vclirra ,  mile non pu6 essere conosciuto die dal simile n, eonchiudeva, che Panima, la quale cOnosceva tutto , doveva esser simile . a tutto, e avere in sh terra, acqua, aria, fuoco, discordia e con> cordia. Qnesta maniera di parlare porge certo Pidea di un groSso materialismo. Ma appunto perch^ egli sarebbe sformatamente grosso, e n6 pur degno di un bifolco, non conviene senza gravi cagioni attribuirlosi ad uom dottissimo, sopra tntto fiorito dopo Anassagora, e dopo le alte speculazioni italiane. D'altra parte egli scrive de versi , pe' quali si suole usare uno stile meta {vjco tov ofioiov TO o^oiov). Or questo principio non esigeva gia di com- porsi I'anima di tutti gli dementi materialmente presi-, ma solo esigeva che nelPanima ci fossero le timilitudini di tutte le cose, o sia le idee. d. Se Empedode avesse crednto che ci bisognasse la stessa matena per conoscere la materia, egli dovea porre nellanima tuttb intero il mondo; perocchi ne sarebbe seguito, secondo un tal modo di ragionare, che un poco di materia non avrebbe potato bastare che a conoscerne un altro poco, e non piii. 4-* Trovo che ndlanticbit5 stessa Empedode venne inteso piu ragionevolmente di quello che faccia Aristotele. E vera- mente Sesto Empirico giunge a metterlo insieme con Platone e con .tutta la scuola di Pittagora. Egli espone prima, come Platone, a mostrar I'anima incorporea e al tutto semplice, iisasse quel modo di argomentare che abbiam veduto adoperato da Auassagora, e che sta in riconoscer Ianima semplice perchi intuente le idee, che sono essenzialmente semplici. Dopo di che soggiunge:   tale essendo I'opinione di quelli che di molti u secoli ci hanno prcceduto, fu sembrato trovarsi ndia opinione u stessa Empedode; e avendo egli posto, che le cose tutto con- Digitized by Google 589 KStano Ji le! principj, pose allres\ tei essere i criterj del vero, Kove icriise,  Colla terra ia terra, e veggiam 1' acqua u Coir acqiia , ed il divino aeru apprendiamo Coiraere, e il foco col lucente foco,  E la discordia ed il Concorde amore  pcdocle con s slesso, e porlo in accordo collo sviluppamento della iilosofla nel suo secolo, a cui il sappiamo esser giunto. Perocchi ci t noto, die Empedocle pervcnne, con tutti i filo- ao6 jonii dopo Anassagora, a dilTidarsi della rappresentaziona de sens!: e avea conosciuto, die non ne' sensi, ma nella ra* gione sola si pu6 cercare il criterio del vero; solamente, cheegli distingucva la ragione divina, dalPiimana; e a questa non at- tribuiva se non il potere di trovare il vero probabile, anzi che il certo, come vedemmo esser avvenulo di pensare a Senofane in sua veccbiezza. Odasi ancfae qui Sesto; u Altri vi furonn, ttche disscro , giusta la sentenza di Empedocle, non doversi  giudicare la verita co' sensi, ma colla diritta ragione: la ra- il gione poi esser parte divina, parte umana; delle quali la di- Kvina essere inefTabile, atta a parlarsi P umana  (2). Per tutte le quali cose con ssnno scrisse to Scina, che,  a itcreder d Empedocle, le sensazioni sono reali. Ma le medesime (1) Tont/tnc ou9n^ vsr^a roti ttcixi xa/ ^ rat/rn rt cc/Vmi* rwr ra iraxTa Tt/ytTraxt//^x ruvra/g ra xftriifta, Ttun fAfx ytSf oVivVa/ifr# dtvrt 9*rdf ^TOfynx riixo( n xtixu Sexl. Empir. lao, (2) AWci Jaflfp ei* Xi*}0pr(( xara toV EuTtcTax^t'a^ x^irm'^iox tiwi ti*c eXwT|ia(, pi/' rag aCa^-itjug, a'k\a rex df^ex roo J# 9f^9u Xeyevg rex fjtx rfxx ^tTex dvdf^ux' tx tf# dx^fd'wtxex ax row fAtx ^ttex, dxt^otarex iirati* rix dx^fdvixox, d^otTrpw. jitU\ VII, I22, Digitized by Google Sgo  non rappresentan mai le quality cIik ne corpi appariscono; u niill'ahro essendo, che altrettanti modi del nostro sentire* (i). E anrora :  La scuola jonia avea talmente confuso le sensa* Kzioni cogli oggetti, die scambiava quest! con quelle, e tenea tile une, non altrimenti che immagini fedelissime degli altri. K Non cosi pensarono i corpuscolisti (a). Quest! separarono, dir6 cosi, le sensation!, dagi! oggett! che le cagionano e muo- Hvono, ed ehbero quelle corae soli e semplici modi, qual! di  fatto sono, del nostro sentire.  Costoro quind! solean chia-  mare cognizion! d! apparenza e d! opinione, e non gia d! ve- nrit^ e d! realta, quelle che s! traggon da* sens!  (3). Or veniamo ad altr! discendent! della scuola jonica (4). Tro* eremo il perpetno carattere ritenuto da questa scuola dopo Anassagora, d! aver cioi rigettate le rappresentazioni de' sens!, e teuuta la ragione come perrettrice della verity. D! Eraclito, ccco c! crito fosse discepolo del vecchio Anassagora , dal quale sem- Lra aver tolto, in parte o in tutto, la dottrina del criterio della verita (4). x'ti XafijSavtrtr ri tff fitt rfo^it tvarriaw atWt'of, Soxl. Ernpir. yidv. Logic, VII, i3i. Arislolele poi, ncl IV dilla Metnf. Lei, XII, airtTina, che Cratilo ed ahri irguitatori d'Eraclilo st abbandotiarono alio scetticismo perche non videro nieole d* immobile iiclla naliira: ed aveano per cerio, cbe seoia qualclic cosa d' iroinohilc c di costanle tioii puo dar5i in modo alcuno cogniiione. (1) Aa/iitafiTa( Lrt jui'i* dritfu' rd qttxdtJtra xai* rod- TMr Xt)ti nard dXx^tt'rf , dXXd fjcvop aard cfs^ao* cf f tp* ru'i idrtf CrdfX^*'^ dri;xai>\ ttpat / xfreV jid^. Log., VII, 1 55. (2) Otmodo xai xtrd roCroo o Xdyo^ xiVr/ r yrnrtnf yfdfxwx aXtr* Adv. VII, 1 59.  (3) DicUaulem (DemocriUu) ad Ptrhum: m Cognitioms duae sunt spe- M cics : altera genuina, altera tenebricosa. Et tcnebncosae ijuidem sunt haec H omnia, visus, ouditus, ol/aclus, gustux, tactus. Genuina autem, qune est f* ah ea sec/rta m; A|>li xard Xi^/r. yvdfxxi d# ^dc iiV/x 4 jrayiV a d|, oasr/V ttat axort'ni ptw raV# avurapra, dxom , cV|U, ysCatU 4**'*^K* * yfnat*x$ aTflxi'xft/u^lVn it raurni* Sell. Einpir. Adc. Log, VII, 139. (4) Laerzio, IX, 34* Che pigliasse da Anassagora, si dice in qneslo liiogo di Seslo; Dioiimus autem dicebat ex jtjus sententia esse crtteria verttnUs tria. Ad eorum quidem quae non sunt cx'idenlia comprehensionem, ea quae apparent, ut dirit Anaxagoras: quern propUria laudat Democritus. Quncslio- ms autem, notionem. w De quolibet euini, o fili, unum est principtiim, scire t id dc quo est quaestio HEligtndi autem etfugiendi criterium,aJfectiones^ EAnuoi it Tf/a X9T* aoreV iXf>tr fsip rdp aVxXisx xa raXx4l( * c^ipopixa, ^tip op |*t/* Toi/Vp ^xpexftrof sratpu'. a Tw tpp9saf Tiff' Tjcrraf ydf d Ta* uda df^d if** Digitized by Google 5ga Per tiitte le quail cosc raglonate fin qn! apparlsce manifestn, come le tre pill anticlie famiglie della italiaua e greca fllosolia, alle quail $1 rlconducono 1 dettami di quaotl In Grecla poscla filosorarooo, vennero concordemente a riconoseere, i.** che 1 seiisatlool come rappresentatlve delle cose esterne non merltano alcuna fede; a. ch'esse percl6 non porgono alio splrlto nluna cognizlone, ma solo mettono In lul un segno, dal quale pu6 I'uoino argomentare alcuue verita^ 3.* cLe ad argomentare dalle seosazionl lall verl, essenzlalmente diversl dalle sensazlonl, uopu die, oltre le sensazlonl, sla In nol una facolta la qual giu- dichi delle sensazlonl modlante le idee, e per tal modo coslilul sea il sapere umauo. Questa facolt^ fu chlamala ragione. CAPITOLO Lll. DlenlARAZIONE rlU AMPIA DELLA TEORIA DELl'eSSERE, E DELLA PRODVZIOSE DI TDTTE LE IDEE DA ESSO. Ma egll i tempo die io ml faccla Incontro a una dlflicolta, la qual dee esser nala uelle sagacl mcnll dl culoro chebbero 11 tempo da legger queste cose. E spero dl farlo con dilarezza Diaggiorc, ove lo tolga a raglonar dl essa con alcuno, s'l come per lo passato ho fatto , quando una materia alquanto Involta e scabrosa ebbl alle manl. lo sporru dunque ci6 che ho nelPa- nimo, nel seguente Di ALOCO. 3f. Voi ml mostraste, che le idee sono essenzlalmente diverse dalle sensazlonl , immuni da ogni sentimento soggettivo e cor- poreo, di natura loro eterne ,impasslbili, di uiia seniplicissinia forma, la quale o e veduta dallo splrlto o non 11 che cl ga- rantisce I'oggettiva e assoluta loro verita^ e die fiualmentc in esse rlsiede P cssenza conoscibile, che tull altrove Ih vano si cercherebbe. Cl bo pensalo^ e ini chiamo convlnto. Solo non Jlrmi vffi' crop iVtiV i Ji' Jta/ set TJii. yil, I ^0. Digitized by Google 5y3 trovo U via di conciKare tnllo ciu col voitro sisteou dell unico ente ideate. A. Che difEcolta ci avete? M. Non ponete voi oa sola idea aderenle alio spirito umano per iiatura, quella dellessere? A. Si. AI.  Taltre non sono tulte acquisite? A. Si. I M. Or come sono acquisite, se sooo eternef A. Sono eterne, ma non per questo necessariamcnie vedate senipre dallu spirito: lo spirito le- acquisla. pur aUora eke le intuisce. M. Ma voi dite anooca, che lo spirito nostro le iorma, le produce quests idee. A. Yero che io nso queste maoiere di dire^ ma dichiaio aoco come io le intenda. M. Cioi? A. Lo spirito produce, o forma le idee cbe soao diverse dal Iidea dellessere indeterminato, col determiuare Iidea deUes* sere^ cioi ool restrifuerla entro certi confini^ col farle per cost dire il conlonto di cui ella k priva, tale quale si vede da noi per natura. Sicchi voi vedete, cbe tutte le idee non sono altro, cbe sempre Yessere ideate variamente determinato^ c queita i la ragione perebi voi mavrete udito dire le tante volte, eke vha unidea sola. M. Piaoerebbemi da vero una dottrina obe semplificasse tutto il sapere umano ad una sola idea^ ma foitc i a me Iintendere questo sermone. Quella piaata i egli la stessa oosa.oon questa pietral Iaequa di quests peschiera ba ella nalla di oomunc col sole ckc in essa riflette ? ' A. Manriiio mio, ooi pai4avamo didee,  non di oose. Af. Ma se son diverse fra loro le cose, non saraqno diverse anebe le idee delle medesime? A. Non i questo jin diriUo ragionare: ed  opposlo al boon metodo, oonciossiachi i un ragionare dielro de principj sup*' ppsti a pribrif  non provati, che i quell errore a cui io fo, oorne sapete, tanta gnerra. Che necessita trovale voi, cbe le idee sieno altrettanto distinte quanto le cose ? e che 1 essere Rosminij II RinnovamtiUiO, Digitized by Coogle ^94 itIcaJc abbia Ic stesse.leggi dellnMere reale? A poler aflermar clu, il Luon nicludo pre.scrive di adissarc Tuccliio osservatore dvllo spirilo iiell'essere ideals, s nelPessers reals, e coo oster- vare quests due forme dellessere altealissimamente , rilevaros le loro speciali proprielii. Le proprieta o qualila delle cose e dslle idee non convieiie iiiiraaginarle, ma osservarle. AI. Ma io dico: O Tessere ideale mi moslra qiicllo che i nellessere reals, o no. Se lo mi mostra, nell'sssere ideale deb> bono cadere le stesse dislinzioni che nel reale^ se nol mi ino- etra, egli non i atto a farmi conoscere Iessere reale, e torna felso ci6 cbe voi dite, neilessere ideale cousistere la conotcibi* lila delle cose. w V ji. Maurizio dolce, serapre lo slesso errore di metodo, sem* pre UDO sfuggire I'osservare. Voi ben potreste immaginarne dt quesli appariscenli ragionari a priori on monte, accavallare gli uni sopra gli altri , fame riuscire un viluppo iiigegnosissimo , Gnissimo, ammirando. E poi ? il vero abilerebbe in un altro luogo^ e voi non n'avreste mai veduto la faccia. Permettete cbe *el tuoni un'altra volta: Non k con de'raziocinj costruiti sopra alcuni ,piincipj general!, i quali bene spesso vengooo snpposti piu general! che non sono, che si trova il vero^ ma si con delle accurate osservazioni della natura. M. Ma che volete voi osservare nel caso nostro? A. Come veramente ^vvenga il fatto della conoscensa. DU temi ! quando voi nella vostra mente aveste concepilo il dise* gno di una case, o, che i il medesimo, la casa ideale, non ba> sterebbe qnesta sola idea percbe voi potesle fabbricare anebe lina eitta di case tutte uguali a quella vostra casa ideata? avreste toi bisogno d altri disegni ? non basta an tipo solo a rappre- sentarle tutte nel vostro spirito, trattandosi di case uguali? E pur le case reali son molte, quando I idea resta una sola: non > bisogno adunqne che tutte le distinzioni che vi sono nelle cose cadano altresl nelle idee, e viceversa. . M. Questo r intendo io benissimo. Ma non veggo per6 , che quelPidea sola bastasse a farmi conoscere tutte le molte case che avrei fabbricato secondo quel tipo. Io debbo agginngere qnaU die cosa a quella mia idea, acciocchi io conosca che le cate reali ad esempio, che compongono la citta di.cui mi parlale, sono Digitized by Google 5f)5 dircinilla. Pcrocchi io pMrci anco arere i) Jisegao in testa (iella casa, e non averne fabbricaU alouoa, ni pensare ad ab cuna di reali. A. Vero e qnello che dite, Maurizio mto, che io non posso conoscere le cast Kali  la loro moltiplicita, se io non aggiango qoalche cosa alia casa ideate che ho nella mente. Ma sta qnt appiinto la questione, a cercare che cosa sia questn qualche cosa die debbo aggiungere all idea della casa. EHe la que* stione di falto cbe> si dee risolvere, e alia quale io ri richiaatavo. M. Non pnii essere che qoalche ahra idee. A. II solito pKcipizioL il solito  non ped essere!  it so* lito ragionarc a priori, in laogo di osservare; indovinare, in liiogo dinterrogare la natura.  Oiteoai, quelle ease' non le abbiara snpposte Moi tntie ogualit M. Uguali. A. Sono fatle adunqoe secondo nnidca sota,,o ^oitdu piu? M. Secondo on idea sola , secondo un solo disegno. A. Lesser molle o poebe, reaK o possibili, moltqdica duti- que t disegni? M. No. A. Dooque tion noltrplica le idee. M. Ma come si cenoscono elleno adunqoe nella loro realta e mohipHcitiit A. Dovete eonebtndeK iotante voi stesso;  non col mollt* plicare le idee, non col molti|>KcaK i tipi; perocchi il tipo o I idea h no soht di tutte; dunque in altro modo  : questa d la prinrra conchiilsione che dovete metlere a parte. M. Kfa v lia egli un altro modo di oonoscfiK le cose faort che per le idee? A. Ripetovi, constthate la natnra, e il saprete. Chi vi auto* rizza a dire che non vi possa essere? M. Verainente io non so immagtnarnti, che nulla sr conosca senza che se nabbia I idea; peroeckd che cosa to inlendo di cio, di cut mi Manca I'idea? A- Niente, niente al lulto intendete di cid, di che vi maitca I'idea. Ma qnesto prova bensi, che vi bisogna sempro iidea a rojy^sccre ; ma non prova mica , . che colia sola idea cono* sciutc tntto. Nutate bene la distiiKiooe. E noit potrcbt> egli cs* Digiti^nd by Cnoogle 5i)G sere, cbe la cognixione nostra delle cose comiociatsc coll idee, m a ella poi si reodesse compila con quaicbe altra rosa diversa dalle idee? in tal caso Iidea cinlerverrebbe sempre, uia non sola. AT. Come Ga possibile? Restringetevi a eonsiderare Iidea di un oggetlo, pura da ogiii altra aggiunU. Con tale idea voi vi avete, quasi direbbesi, la cusa in progetto: ma la sola idea della cosa non dice cer- tamente cbe la cosa realmenle snssista. AI. Se Iidea i di cosa sussistente, mi dice cbe snssisle^ se e di cosa possibile, non me ne inostra cbe la possibiliUi. Noi entriamo nellun via uno. lo vi dimandavo prima, se Iidea p il tipo d una casa sussistente sia diversa dallidea o tipo ideate duna casa pqssibile. Qnando ho io coneepito neU Ianimo il disegno duna casa, queslo disegno si cangia egli, perchi io fabbrichi la casa o non la fabbrichi ? M. II concepilo disegno non si cangia^ ed or veggo, cbe se per idea ^intendete il tipo o disegno ideale duna cosa, qnesto ^ al tutto indipendente e diverse dalla cosa realmente esistante, e non contiene n mostra cbe la cosa possibile. Ma tutto sta a vedere, se questa defloizione dell idea sia la giusta. Maurizio mio, non vogliaiu contendere di parole fra di noi. lo non cerco, come gli altri abbian deGnito Iidea: ni mi obbligo a piantenere le loro deGnizioni : poichi da me non si po^ richiedere nulla piu se non cbe io dichiari quello cbe intendo per idea,' mantenendo poscia costantemente il valore deGnito della parola. Ora questo lo fo. E se voi trovate cbe io scambi il siguiGoato della parola dnrante il ragionamedto, Gite- mene avvisato, riprendetemi^ ma sc la uso nello stesso sigaiG* pato sempre, non dovete averci cbe apporre. E avverlite, cbe io ben credo, il signiGcato cbe ip do alia parola idea esser qaello appunto dell uso universale di totli i secoli^ ma il provarvi ci&, sarebbe on nscire di GlosoGa, e uno entrant in Glologia, dove io non voglio mettere il piede, lasciando piii toslo a voi raz> zolare ne classic!, come sulete fare, avverando se is colga nel giusto e proprio valore data daJluso a quella parola. Ma per ora, egli e piu corto cbe voi prendiabt a dirittura la parola idea come parola da me imposta all esseiua cpnoscibUc della cosa ') c cost prendcndola , voi vedrete cbe 1 idea non i Bai di f DiyiiiZ-i   (jo di ima CQsq, a die mai li ridnce se non a riceverc da essa una cotai aerie di movimenti, e di senaazioni neceuarie al buono stato del corpo steaso^ M. Ad atlro no. A. Dunque la casa k finalnaente an rieovero del corpo, dove pii5 esser difeso dalle sensazioni moleate, e acquistarne di pia* revoli^ i an ordigno andi'esso materiaie di certa forma e mode. E cbe e questa forma e modo di cotale ordigno? M. Rispondero come ho imparato da voi a .rispondere. Que- tlo raodo, e' questa forma della casa, i determinata dalle sen- tazioni che ella produce in noi. Conciossiachi noi la diciamo grande, se produce proporzionatamente ailuso sao delle seasa- zioni grand!, bianca se produce delle sensazioni bianche eec. A. Dunque in fine del conto il concetto della casa tutto si riduce al concetto di u un ente che produce in noi certe sen* sazioni vrggendola, e certe akre tocoandola, nsaudola, 'e cbe t fatto appnnto acciocdiifr cl apporti queste cotali aensazioni m. M. N6 un dubbio. A. Or bene, qui avete gia chiaro e manifesto, come I'idea deHa casa si forma in voi supponendo cbe in voi preesistn non I'idea della cata, ma solo I'idea dell' ente. Perocohi sapendo voi gi& prima , die cosa sia an ente , al primo ricevere die fate delle' sensazioni della casa, voi potete dire con voi medesimOi che  I ente da voi conosciulo i desso quello il qnale vi pro- duce quelle sensazioni, ed i ordinato a produrvi qudle altre , e potete dare il oome di com a quell' ente. Che se voi poi ri* cevete un altro complesso di sensazioni tutte diverse dalle prime, quivi vedete di nuovo I' ente, ma I'enle che opera diversaroente dal primo operare, e a cui pero date un altro nome, per esem* j>io quello di albero, o di ncfiui, o di ele. E peroccbi 1' un complesso di sensazioni i interameate separate e iodependente da un altro, e v' ha un'azione interameate di versa che le pro- duce, voi dite che v'hanno due, tre, o piii enti diversi, che is quanto dire due, o tre, o piii principj immediati di azione, secondochi le sensazioni sono diversamente complesse e legate insieme. Che sc all opposlo , voi non -vedesle panto Iente in si Digitized by Google  per nulla di voi , ne divehtando inal voi oggetto a voi stesso. 31. Parmi cbe la cosa vada di piano. Acciocchi adunque v' abbia un principio in noi ragio* liante, il quale dalle sensazioni della casa trapassi a .iiidurna la sussistenza, non e necessario cbe anteriormeiite alle sensa xioni sia gia in noi Pidea della casa, ma basta cbe in noi sia r idea dell'ente^ perciocch^ una casa da noi concepita sussi> stente, non i altro cbe un enie cagione in noi di certe deter* niinate modificazioni. Ricevendo adunque in noi qiieste, con* cludiamo cbe un enle sussiste^ la dove se Iento comnne non vedessimo, questa conclusione ci sarebbe impossibile. M. E or parmi oggimai d'intendcre, cbe cosa sia quella cosa cbe si dee aggiungere all' idea per conoscere i suSsistenti.^ questa cosa sono le sensazioni. ./f. Appuulo. Ma badate bene a non confondere insieme I due ulTicj cbe ci fanno le sensazioni. A/. Quali? Qiiando riceviamo delle sensazioni, noi diciamo tosto:  qui ci ba un ente . II dir questo, suppone indubitaUmente cbe precede in noi I'iotuizione deU'eute, peroeeb^ nelle sen* sazioni, come abbiam vedulo, esso non e. Ma Iente cbe stava in noi, non era cbe I' idea, e questa non ci dicea se quell' ente sussistesse. Le sensazioni ci persnadono, cbe quell' ente cbe A a noi cogoito in disegno, anebe sussista. Questo & il primo uf- ficio delle sensazioni, Passiamo al secoodo. Noi non diciamo solo, al sopravvenirci delle sensazioni,  vi ba qui un ente ma diciamo di piii,  vi ba qui un ente cbe ba prodotto in noi tali e- tali modiGcazioni . Ora il dir questo, i uu deter* tninare, mediante descrizione di coofini, I'ente di cui si tratta: il grado lirailato di sua attivita i: ci6 cbe lo determina ad es* sere piii un ente, cbe un altro. Qui voi vedete cbe cosa io in* tenda per la produzione di una nuova idea : non intendo sc Roshini. // liimwamcnLo, 76 Digitized by Google 6oi non I'cnle, II vrrcljlo enin, I'riile spniprc prcscnlc al noslro f^pirilo, m:i iinovninioilu (Jclcrniiii.ilu , rioo llmilato a quel ^railo (li allivila chi; e segnato ondc un enle liniilalo ideale, che si suol cliiamare anche unIdea. AT. Non poca luce mi viene da di'i che dicesle. Intanlo lo veggo bene, come le sensazioni mi muovano a dir sussislenlc in un modo liniilalo quell enle ideale die prima vedevo, e pero come esse m'ajiilino a percepire i sussistenli. Veggo come io possa avere un'idea sola, e lullavia percepire ihnnmerevoli sus- si.sleuli, ^urche li percepisca co sensl, o glimmagini colla fan- tasia; e come il numero di quesli sia delerminalo dall'allo onde gli affermo, e queslallo dalle sensazioni o immaginazioni a cui esso alio si rapporla: perciii come i sussistenli non si conoscaiio medianle le idee sole, ma coll aggiunla alle idee dunc^e//nci- zioiie , chc noi formiamo in coiisogiic-nza delle sensazioni die piviviamo; e come perciti non sia necessario che ad ogni sussi- slerilc risponda unidea, essi ndo bensi uopo die gli corrispoiida Digilized by Coogle (Jo'.? un roinplcsso tli sensa/.ioni vere o !mma;;inaric, i (jnali varjcom- plessi si liporlino ad uuulra slessa uguale perjiilti. Veggo au- rora, come clascuno d! qucsti coniplessi o sisteini di sensar-ioni joesli ima colal misura dell allivila dellessere; e pero come fill a lanlo che resta di essi in me nierooria, io possa scrvir- nicMC a concepir Iesjere fornito di nna atlivita limitala secondo (jiirlla misura, e queslO essere cosi limitato costituire I'rdea spe- cialc, U!i cute possibile speclale, uii inudello delerntinato di un elite. Ma dupo tiilto cio, cpiaiile difllculla aucural e senza il vo- stro ajuto roe i>c dispero. A. Mi piaccra di udirle. d/. Da prima, quando io aOermo IesisteBaa di ua corpo, I'ali'ermo io denlro di me, o fuori di roe.' A. Ne dentro , n4 fuori. M. Oh bellaf dore adunque? A. k) affermo Iesistenia di quel corpo in ik stessu. M. Ma il corpo non i egli uno esleso? non lia lunglicar.a, largbez'za  profoiidita? non e akneao fuori del roio, come dogualtro corpo? A. Tutlo vero. M. Dunque se io afFernio il corpo nello spazio , dev essere fuori di me, e debbo anckio essere nello spazio. A. Conseguenaa graluita. Leffetto dellaaione del corpo so- pra di voi sooo le sensazioni. A queste appartiene lo spazio { i ). Voi inducete Iesislenza di un ente, dal sofferire die voi fate le sensazioni. Non uscite dunque di voi. Ma pcroccbe alle sen- SHzioni appartiene il fenomeno dello spa/.io, voi dile elic que- steiile produce un tal fcaomeiio che si ckiama spazio, e di lui lo rivestite; cio6 vi serve lo spazio della seosazioue a misuraie IaHivita di quell ente cite I'ha prodoUa, e il modo di queslal- tivita. 11 coqsiderare il corpo come un cute, a vedere il quale lo spirilo non ha bisognu di spazio, egli c piii vero, clu: il cou- siderarlo in relazione colie sensazioni estese. 1 volgari slaiiuo ncl mundo delle scmadom, e perd non possooo uscirc col pen- (0 Circa queslo argdiiiciilo io riiiu-lto i lellori al ti. Stiggio , Scz. V , c. XVI, e c, XVII, ail.'xu, e c. XIX, dove ho provalo la ivalila della isli'iiaioue. Digitized by Google r questo inodo: mi-. cbe I'idea di cavallo, di uomo ecc., non sarebburo etcrne, come voica Plalooe, nella loro entita speciale di cavallo, di uomo ec., Dia solo nella loro universalila di enti. Ora in tal caso la teolo* gia andrcbbella contenta del vosiro sistema? non dice s. Ago- slino, cbe singula  propriis creala sunt rationibus? e cbe hu- mana animn naturaliter divinis, ex qmbus pendel, rationibus coruiexa (est)? cbe in somma elernc sono le idee proprie di tulle Ic cose, e in Dio, e noi in Dio le veggiamo? , Mauriaio mio, ancbe s. Agostino avete scar^bellato? prima iu mi ccedea cbe ogni vostra delizia fosse nel Vocabolario della Grusca: poscia venni a sapere cbe macinavate ancke della Glosofiu^ finalroenle mi vi scuoprite ora uti vero Infarinato di Teologia. 3f. Son tulle cose cbe apparai collo starvi sempre a' panni, e collo scrivere le oose vostre. /I. Or bene, lo non vi nego mica, cbe le idee peculiiwi della cote create, sieno in Dio dA Inlla I'eternita. Ma dico, cbe le idee onde noi conosciarao le cose , quanto alle drterminazioni particolari, non sono quelle slesse onde conosre Iddk), e solo nel loro fondo comune custiluito daU'entc ideale,'etse sono identicbe a quelle cbe stanno in Dio, con questa immensa diP ferenza perA, cbe Ienle idrale comuoica a noi la sua luce in iin grado iufinitamenle minore a quello cbe ha in Dio, dove egli i Dio stesso, Verbo di Dio. E tuttavia vi aggiungp , cbe le nostre idee sono eterue, e sono in Dio. AJ. Mi sembran tulle contraddizioni. ji. Non panto. Diterai, le cote corporee cbe adoperano iu noi, comunicano esse a noi.lulta la loro altivila? M. No cerlo : per esempio , de corpi noi non sentiamo cbe la superficies i nostri seasi non poSsono raai penetrare Iinle- riore de' corpi. Oltracciu gli eflelti cbe producono in noi dipeii. dono dalla nostra propria nalura in gran parle: 1' aria die ci fe. risce tutto allrove cbe nell' oreccbio, non ci da tuono, ma si quella cbe eiitra pe fori degli oreccbi a percuotere  il sona* glio n cbe sta denlro appeso , si come diccva Empedocles il cbe mostra essere il tuono un eOetto in gran parte dipemlente dal- I'organo costruito in quella forma c non in nitra, e dallanima di cui quell' organo vivc. Digitized by Google (5of) A. Ouiinsnienlc. Sicche dove Iorgano del sen mini verita se non soggettiva. lo veggo ora assai bene, cbe Iente, die e ciu cbe si concepisce ugualmente in ogni idea, i immu- tabile, oggettivo , assoluto: nia il grado di attivila sussistenle, sperimentalo nelle seusazioni, il qual noi adoperiamo come li- lieamento cbe ci fissa un conGne dentro il quale eonsideriamo 1 elite, ai tutto un grado soggettivo, cioS rdativo a noi, i quali non riceviamu dalle cose se non un azione limitala . e anebe a quest azione diamo noi stessi un carattere e un niodu veniente dalla natura nostra die palisce Iazione, auzich^ dal* Iagciite cbe in noi la produce. A. Levatevi dunque a considerare la cosa in gcnerale. Con* siderale cioi, die non e il solo uomo creatura inldligenle, nia VC uliauuu, VC ne possono avere dcllaltre assai. Supponiamoue Digitized by Google (!o7 di qiipstfi, moltp, le qnali ilovcsijcro formrr stra idea. Ora la modificazioue nostra, per esempio la specie del sole, che audie ad occhi cliiusi o a mezza notte mi si pre> senta, questa specie che detcriniua a me Iattivitli di quest' ente che cliiamo Sole, non e ella (considerata come meramente pos* sibile) eterna? la possibilita delle cose tutte non e ella eterna? fli. Ma dove ponete voi quest' idea  dell'ente considerato come idoneo a produrre in voi quella modificazione ? in Dio, 0 fuori di Dio ? A. Prove to che una cosa k eterna, egli- i anco provato die 1 in Dio, unica sede di tutte le cpse eterne. A/. Le nostre idee dunque, sebben limitate, sono in Dio. A. Si, ill Dio sono tutte le idee ndstre, e tutte le idee che avessero quelle centomila maniere d' intelligenze di cui a voi place di far popolati gli astri innumerabili del firmamento: di maniera che si pu6 dire con tutta verita, che Iddio conosce le cose hi tutti que' vatj modi, uuJe sono couosciute da tutto Bosmi.m, Jl liiiinoyammlo. 77 Digitized by Google 6 1 n manicre ili intelllgenr-R cliR sono o saranno ncllo smisurato nnivcrso. > M. Ma come diceste adiinque poco innanzi, die non sono e non possono esser tuttavia queste le idee onde Iddio conosce le cose? A. Tulle queste idee, sebben vere, sono limilate e imper- feltc, e non manifestano gli enti se non da un lalo solo, non ce li danno a conoscere se non in una loro efficienza parziale, e relativa alle intelligenze finite nelle quali esercitano la loro azione. Ora delle cognizioni cost limitate, sono bene sufficienti al fine delle creature, e proporzionate alia finila loro natural ma sole esse non potrebbero mai cosUtuire la perfeltissima e pienissiiiaa cognizione di tuUe le cose, che dee essere in Dio. Iddio adunque ha bensi le idee nostre, ma come nostre, non come sue. Mi spiego. Iddio conosce tutto: dunque conosce an- che le nostre idee , e i nostri modi di conoscere e perd ha 1' idea delle nostre idee; e lo stesso dite delle idee che aver dovrebbero i vostri abitatori della luna e dell altre sfere. In questo sense le nostre Idee sono eterne, e si trovano in Dio an- che nella parte loro soggeltiva. E tuttavia noi non le veggiamo gia peKhi sieno in Dio; ma sono in Dio, perch^ egli ha vo- luto che fosscro in noi, e che in noi si generassero a quel modo che in noi si generano. Egli a questo fine appuiito ha formata la natura nostra. Imperocchi onde vicne che noi veggiamo cost le CQSe come le veggiamo? onde viene che gli enti sussistenti facciano in noi quella impressione che ci fanno, e non unaU tra? CertOj dallaver Iddio costrnlta in nn modo e non in un altro la natura umana; e per costruirla, egli dovea avere in si stesso la idea della natura umana, e di tutto cI6 che vha in essa, e peru anche di tuUe le impression! sensibili chella potea ricevere, e di tutte le idee special! che mediante queste impression! ella potea formare a si stessa. E notate, che le idiee nostre, anche considerate nella parte lor soggeltiva, sono ferme e non- soggette a variazione nel loro fondo , perocchi sono de- terminate dalla stessa natura umana , la quale ha nn essenza immntabile (i).  (t) I .^ensisll'clie uon vogliono esK*ro scpUici prendono questa siabilda Digitized by Google t> 1 1 M. QuhIi son dunqtic queile idc delerminale, cbe appar- ti-ugoiio alia Dicnle divina in proprio, e al lullo diverse dalle iiostre e da quelle che tntte le creature s'lianao oe' confini di loro nature? A. Come on ente operaute in noi^ non comunica a noi se non un grddo di sua attivita e dellesser sno, e anehe questo in un tnodo relativo al modo delPesscr nostro, e pero noi non pos- siamo di quell' ente prendere allra cognizione se non al totto partiale, cioi ristretta a quel suo cQetto che sperimentiamo ; cosi Iddio non conosce gilt gli enti in una loro attivita limitata. e rclativa colla quale operino in lui, ma nell'intima loro sostanza. E questo i quello che vide anco il Vico, coo acutezza al suo sulito, ma alqOanto indistintameute, quando scrisse, se vi sov- viene, che u il saperc sia posto nell' accozzare insienie gli ele- xnienti delle cose^ sicchi il pensare sia proprio della roente 4imana , e Dio solo abbia I'inteUigenza (a) ^ posciach^ egli  Icgge lutti gli elementi si estemi che iotemi delle cose, per- chd li contiene e li dispone; laddove la mente untana cb' 6 u limitata, e percb^ tutte le cose cbe non sono dessa sono iiiori adi essa, non pu6 cbe raccoglierne gli elementi esterni, e per- uci6 non pu6 raccoglierli tutti^ onde ch'essa pu6 bensz pen* asare, ma non mai intendere le cose^ per il che non i della ra- a gione perfettamente posseditrice, ma solamente partecipe  ( J). Al.  percbe dite voi, chc il Vico non vedesse quest! veri con distinzione? ilflla nalurik- umans per fondamcnlo tlella rerlezxa.: ma noi al>i>iaii* veduio, lilt quc'Slo fondameulu uoa liasla, uc puo cosliluirt: giaiiiiiKii il lirmo dtUa cvrtezza die si ricerca. (i)]Allribuislle, e .in quanto i conoscibile, rhiamasi Verbo divino. II Verbo divino adunque corris'ponde in Dio, a quello che in noi diciamo Idea deHcbte indeterminato. Ora in questo Verbo, in queslente realissimo ed esscnzialmente conoscibile, Iddio coiioSce tutte le cose. Gome noi c'onosciamo tutto nellcnte ideaie e net setiti- mcnto reale, cost Iddio conosce tutto in si stesso ente reale- ideale: come noi conosciamu luttu in una idea, oosi Iddio co- nosce tutto non in una mera idea, ma in un iinico' Verbo. Jif. Questo non mi spiega peru ancora come Dio conosca la distinzion delle cose, non mi spiega b: idee in Dio delle cose finite : tutl' al piii mi spiega la cognizione cbe- ha Dio di si stesso.  A. Tutti gli cnti possibili sono virtualmente compresi in Dio. PerucclM^ gli cnti finiti, non sono che Iente ideaie realizzato in un modo (inito e limitato; Dio all'incontro i Iente ideaie realizzato pienissimamente. NrlTente adunque realizzato pienis- simamente, e facile pensare che virtualmente si comprendann le realizzazioni imperfette e limitate. Cbsi, a ragion desempio, (l). O Ob Wi fVrir aXX' xat SXep t* taurv ro ibvat xai  L)iu iiuu c in tfutilche modo vnUr, ma w sthi^tiict nicMlc t iiirHiilduieiitc c tutto lcs$ere in sd ahbracciatu t unlui* m paio m Dc Di\>: l^om. c V. Dfgiti7ossono fare die forsc dellc coiighicUure ; ms quests A materia die appartiene all'o/it o/pgio. 6 1 (> niAginare (Idle linee e (uperficle che lo rinserrino e figurioo, non ve le pone. A. Fate, che voi , o dednire e procUirre gli enti. Secondo la quuji volonla, egli superiore ad M ogni sostanza predesiino e produsse tutti gli enti > (cop. V) Si dee ronsidcrarc in qurslo eccellcnte luogo, come qiiegli sicssi alti della volonlii divina, ebe producono gli enti, sianoqiielli ebe li definiscono, cio6 chc ne fanno il disCgrto ( xai vtttrixd), di guisa cbe producono ad (m tcm]M c Ic Cose, c Ic idee delle cose; ma qucsie ucll' elcrnita, quelle ntl tempo; sieeb^ come dairctcniila tutta in Dio v*e Tailo crcatorc , cost pure la sclenza delle cose cbe sussisteranno nrl tempo per quell* alto di libera volonUi. Equi si avvedr^ facilmcnte il Icitore, quanto noi ci dis- pajamo da Dienisio Petavio, uumo del resto a noi altamente vcneralo; non scmbrandoci chc il grauduotno abbiif collo uellavera inielligeoza deirAreo* pagila, e di chi aliro sieno i libri subtimi a quello attribuiii. Pnteva it Pc- ^tavio osscrvarc, cbe gli esemplmri delle cose, di cui si favclla ucl luogo ci- tato, non risguardano cbe le cose realrf^ente da Dio create, e non le mens possibili ; peroeeb^ in queJ passo si dice, che questi esemplari si chiamano dalla Xrologia, cio^ dalle Sacrc letlero,  volizioni , alii della volonU di- vina, die non si possono riferire che a cosc che Dio vuol creare; e si dice rfeora, che quelli ** dcliniscono e producono gli euti *, cui i) Petavio stesso traduce quae dejiniemionim ac Jaciendoram vim habeni enimm. Non ba dunqiid* ragione egli a credere', die tali esemplari Dionigio H pouga per natura nella divina- sostanza; mn. essi anzi diconsi manircstamente prodotlt dalTatto della divina volonta, o piu tosto. sono qucsfatlo Messo considerato in rdazione coll' iutdlclto; ib quale atlo elernameute iu Dio si trova, elut- lavia 1/berament'e. Ci teniain dunque volenticri coi due interpret! di Dio- nigio, s. Massimo e Giorgio Paebimera, cbe ci sembrano a lorto dal Petavio censid'uli, ' * Digitized by Google 6i9 Initc Ic cose pci suo Verbo: omnia per ipsum /acta swil: XiixiTj et facta sunt. M. Abcora. A. Ora questo t spiegato da' solenn! maestri, come sarebbe il nostro grande italiano Anselmo, si fattamente, die inten* dano essere nu atto indistinto quello col quale Dio ha gene- ralo'^il Verbo, e col quale fu prodotto il mondo: wto eodem- que (verbo) dicit se.ipswn el quaecumque fecit (i). E di qui ri- traete nna nuoya'-confernia della dottrina che vi ho esposta. Imperocchi, che ^ il Verbo, se non la conoscibiliiA di Dio (a), in virtii della quale Iddio aOerma si stesso ^ E che i la crea- zlone, se non^ come dicono i teologi, un atto volontarip del- I'intellelto divino, onde vede sussistenti le cose che vuol ren- dere sussistenti?  Iddio non conosce tutte le creature, de rla Dio couosciuto corne da larsi cio^, ir> so* parulo dallesserc inHoilo. Uunque Origeoe vuol dire: m perche Iddio do- erriu di formare^un cnie, per questo lo conobbe o sia; m Iddio produce gli enti co un atto d* inlelletio col quale li conosi^e ; e se non volcsse pro* durli, non farebbe oe pur qiieiraito intellettivo e creatore, che ne cusli* tuisce prima la loro iolelligibilila, e poi ancora la loro sussistenta m. Sicche tullo i) passo iotero di Origeoe cost V iriterprelo: m Dn ente r>on verra gta a sussisldre perch^ Iddio conosce die egli verra a sussistere, quasi die r4 cooosceie cbe tgU veria a susaisteie non dipeuda da Die; ma ani e d* 6io adunquc col quale TJJIo conosce le creature come sussi^enti, con quell alto medesimo egli le crea^ eil egli cono.sce le crea> ture con quellatto identiro, onde alTerma e rende si stesso co> noscibile, o sia genera il Verbo. Sicchi con un atto solo Iddio cagiona e la conoscibilita di si stesso, e la conoscibilita di tutte le creature; solamente cbe, quanto al primo.efletlo della cono> scibilita di se stesso, Iddio Iopera anche necessariamente e na> turalmente^ quanto al secondo, liberamente: quanto al primo, la\to divino i tutto interno e si chiaraa u generazione quanto al secondo, questo elTetlo esce da Dio e si chiama ucrcazionen. Tutto adunque i coerente in questo sistema^ e voi vedete come per esso si dissipi la terribile dilficolta cbe vi avea toccato, circa il numero inCnito de'possibiIi. M. Certo, quella difllcolta i svanita; perocchi sebbene gli enti cbe Iddio ha fermato di creare sieno di nuitiero tanti cbe vincono forse la mente di tutte le creature intelligcnti, tuttavia riman quel numero finito, e per6 Unito riman pure il numero dclle idee particolari e determinate. Ma la diflieolta mi rinasce sotto allro aspetto. Imperocchi conseguenza delle cose dclte si i, cbe Iddio non conosce 'tutti i possibili. A. 1 meri possibili li conoMe tutti, ma virtualmente, come stanno unitamente accolti nella pienezza dellesser divino. Se* paratamente peri gli uni dagli altri non li pui conoscere, per la ragione semplicissima , cbe separati non sono. E volete cbe sia conoscibile quello cbe non M. Come dite, cbe i meri {^ssibili non sono al tutto? non sono essi^ pensabili? duuque sono quaicbe cosa. A. Maurizio, la materia i degna della vostra sottigliezza. Fate voi drilerenza fra una cosa pensabile e una cpsa pensata? d/. SI certo ^ te la cosa i puramente pensabile, ella'non h ancora pensata. A. Cgregiamente: peri il pensabile non e^ste come pensalo ancora. M. No. dire, che Iddio lo conosce appunlo perchi ha decrelato che qurlt'ente Veiiga a aussistere: e aveiidolo cost reso fuluru, I' ha rcso a scconoscibilcM. In lal iiiodu inlr^, Origene e s. 'Agoslioo dicouo lo Measo, i|saudu frasi al tutto coQtrarie. Digitized by Google 6  f A. Qui avete la chiave da iciorre la diflScoUa vostra. Ier- clii un ente sia meramente penscAile, ma noa peru ancora pen- sato, ha egli bisogno che sia preiioito, determinato, distioto dagli allri. enti? o basta che coIPatto del pensiero si possa pre* iinire, determinare, distinguere? M. Questo secoiido. ' A. E cosi snno i possibili in Dio. Ore egli lo roglia , li ' di> stiogue e li crea : ore non voglia, non li distingue; e tiittavia vede tutta la profondiU di si stesso, mare di tulto I'essert;. L'atlo adunqne, onde Iddio distingue gli enti, i simile, o anzi i il medesimo di quello della creacione; egli produce collatto stesso la loro conoscibiliti (I'idea' distinta) e la loro sussistenza. E di vero, vol vedete Iente in universale. Immaginate che tutte le intelligenze che sono nell' univeirso redessero bensl quest'eote, c molte cose in esso, ma non lo redessero determinato allatto che lo restringe all'essenia delluccelld. L'essenza delldccello rsisterebb ella? Virtnalmente si; perocchi ogni intelligonza'po- trebbe discemerla (aggiungeiidosi le condizioni opportune a quo st'atto) nell'ente in universale: ma ella tuttavia non sussisterebbe distintamente, poichi niupa mente avrebbe contemplato . I es- s^ ristretto alia forma dell' uccello. Applicate ci6 a' Dio, che vede non solo Iessere ideale, ma Iessere r);ale ,ad esso pienis- simaniente adeguato. Non gli raanca niuna co'ndizione, altroche quella dell'atto del Itbero volere, al fine ch'egli possa conside- rar I'essere ristretto alia forma delluccello, o ad altra forma qualunque, e cost disegnare, per cosi dire, o sia determina're quella idea o quella essenza. M. Ma questa esistepza virtuale ed nnita de' meri possibili, mi i pur forte cosa a concepire. E parmi, se cosi fos^ che dire si potrebbe, non esserci tanto i possibili da tutta I'etemita, quanto la possibilitit de' possibili? A. lo accetto volentieri questo modo di dire, e parmi an> che conforme a quello delle sacre carte; le qjiali non mettono, a quanto raipmento, nel novero degli enti i meri possibili, ma piu tosto re li escludono; come si pu6 vedere .in Daniele, ove Susanna prega Iddio con quelle parole: u Dio etemo,  che K conoscL tutte le cose prime che sieno fatle  ( i ). Qui voi ve> (i) Dsn. Xlll. fia* dete ctie si parla d! quelle sole cose che devono esser falle, e nulladiiueno esse si chiamano  tutte , quasichi non ve o'ab- biano allre fuor di quelle cbe saranno falte. Ed il medesimo concetto ricevono le parole dell'Apostolo, che dice, Dio  chia* u mare tanto le cose che non sono, come quelle che sono (i)^ dove il vocabolo chiamare indica manifestamente parlare IA- postolo di cose che Iddio chiama fuori del nulla, o sia che fa passare dal a non essere allessere . Per alt^o, ad intendere ill qualche modo tale possibilita de possibili nelP essere divino, o sia tale esistenza virtualce indistlnta di essi meri possibili, non poco ajuta, parmi, la simjlitudinc toccata di sopra, tratta dal concetto dello spazio. Pare egli a voi, che le infinite fi- gure nelle quali lo spazio immensamente equabile pu& essere diseguato e limitato, sieno nello spazio virtualmente o real- niente ? M. Realmente non ci sono se non quelle che si formano in esso, o Vi siromaginano; ma tutte I'allre non sono nello spa- zio che virtualmente : conciossiachi supponsi niuna cosa averci che limiti lo spazio, ni corporea ni immaginaria^ c senza lir miti non pu6 e^iwre limitato. Dnnque chi avesse il concetto dello spazio, avrebbe vir- tualmcnte il concetto di. tutte le figure possibili di numero ve- ramente infinito; ma quando egli volesse ridurre allatto que- sfe figure virtuali, dovrebbe lavorare colla sua immaginativa a far correr punti, linee e superficie per tutte le parti, e crearsi de' solidi di mille forme, od altre figure, le' quali figure altuaii non potrebbcro per6 mai adeguare il numero infinito delle virtuali. . M. Cosi i. A. E in simigliante modo pu& Iddio nell esser divino ve- dere in separato ci6 che gli piace , quando vuol creare dei inondi, senza per6 che queste attuali separazioni e distinzioni si possauo in infinito protrarre^ il che i por qnelld che io tengo volesse significare I'Apostolo, quando a descrivere la creazione hs6 quelle parole, (it ex invisibUibus visibilia Jiertsnt (a); nelle r quali couvien riflettere, che non dice gia che Dio (ece . le cose  !  (i) Hum. IV. (-i) Hcbr. XI. Digitized by Google visibili a noi, al che sarebbe baslato il farle snssistere, ina dice seniplicemente che le fece  visibili , cioi atte ad esscre ve- dute, quando prima erano u invisibili  perchi indistinte: Iddio adunque, secondo I'ApostoIo, creu insieme la conoscihilita delle -cose, e le cose slesse. Ma volete uo'altra prova di questa dottrlna ? M. Avidamente Iascojto. ji. La caveremo dairintima natnra del divino conoscere. Noa abbiaroo noi veduto che Iddio conosce lutte le cose in^si stcsso? ilf. ammesso da tutti. A. Dun'que conosce le cose come sono in esso Ini, e non altramente. M. Se Poggelto di tutto il suo sapere is la propria sostanza, egli nonpu6 cbnoscer le cose se non come stanno nella so- sUnza sua. A. E bene^ or prescindiamo daU'atto crealore, onde le cose veugODO a sussistere distinte fra loro, e consideriamole coto elle stanno per natnra nellesser divino. Non insegnano i mae- stri delle divine cose, che Tesaer divino h pianissimo,' ma ib- sieme unitissimo, di guisa che non riceve in sb differenza o distinzione reale alcuna, eccetto quella delle persone?. M. Mel dice.il Catechismo. . A. E per6, che le pose tutth. non sono nell'essere divino punto distinte, ma unite insieme, ffvyetjis^pof, come dice. Dio> nigio (i), e formano tutte un solo e semplicissimo essere, et ea omnia turns est, come si esprime sant'Agostino (a)? E questo modo di essere della cose tutte finite in Dio, da teologi 'b chia- mato e eminente , e lo spjegano con varie similitudini , si come quella del numero che si trova nelluniU, e del centra a cui avvengono tutti i raggi del cjrcolo^.le quali similitudini, sebbene inadegnate, tutthvia dimbstrano Iintenzione di quesli. maestri es%er quella di fare apparire Iesser divino senza parti ni separazioni, ma perfettissimamente seniplice, quantnnqne perA cosi pieiio egli sja, che non gli manca alcuna perfezLone o parte di essere (3). ' . '  . (t) Be Div. Kom. c. V. (a) Z)' Civil. D. c. XXX. 13) Non sark inulile aver solloccbio eon qua! oobili ed eflicaci modi Iaulore del libro deDiVini Nomi moslri I' unila di luKe Ic parli dell esscre Digitized by Google 6-4 M. fc ancora il Catcrliismo. A. Ora io ar^oiuento: se Iessere divino A perfettamento seni|)lice e iiidiviso, e se queslo k cio che Iddio cooosce; dun- que ancbe la cognizione dlvina non ammette distinzione per nadira ( eccettuale sempre le persone), e peri conosce egli i uieri possibili senza distinzione fra loro^ appunto percbi qublli non bannoin In! alciina distinzione, linoatanto cbe allenergia libera del divino volere non piace distinguerli. M. Ma se con quesU energia libera Iddio distingue le cose e le rende conoscibili, o sia, come dice s. Paolo, vUibili; dun- que, Iprno a dir io, Iesser divino sofferira modificazione, pe- roccbi .prima non avea in sA le cose distinte, e poi le ba di- stinte?  \ 1 A. Io non ho mica det>a, cbe Iddio creando le cose e le loro conoscibilita ^lingua nellessere suo quello che ci era prima indistinto. - ' A/.-Come dunque Dio comincia a conoscere le cose distinU:? A. Ye Iaccehnai; le conosce, neiPatto onde Ic distingue e le crea: creandolp (o creando dei segni di esse) le distingue: ma questa distinzione A tutta nelle cose create, e non entra in Dio.   , M. Ma le idee distinte di q'lieste cose, cbe voi dite crearsi da Dio coll'atto stesso onde crea le cose, dove sonof in Dio, o fuori di Dio? A. flA in Dio, nA fuori.  . A/.,Dunque non sono. A. Falso. A/. Questo A nn parlare enimnaatico'. A. Uditemi attentamente, caro Maurizio, e ogni enimma svanira. Io ho distinlo nelle idee il loro fotitloj e quasi direb- m Dio inediaole Ursimiliuidine acceniista.  Da quella (sopracccedenle  wuli) td III quella sono e Icsser per sA, e i priiicipj jlelle cose, e lulie  le cose che sooo e ib qualsivoglia modo elle soooi ma iio in forma pri- .  miliva e congiunta, ed una ( W ruTn ai' aai* " f *'*  "''''i ogni nuinrro preesisle uniualo (iVanJo'c )', e unila ha in sA ogni immero in modo iminco (utrr^ifs); e ogni niimero o copulalo III ,1,10. e iiellunili (a,/ ,',f  e pill lungi che dallsinila procede.-aiiclie piu si divide e mol-  iiplua . Oe Div. Norn. c. V, ? 6. Digitized by Google 6a5 bcsi la loro sostanza, dalla loro dclcrminazione e circoscrizione, appunto come nelle diverse figure disegnale nello spazio , si puu distinguere lo spazio o estensione a tutte le figure comuDe, dai limiti i quali racchiudono lo spazio e il figurano. Ora il fondo delle idee- tutte ho detto esser I'ciite ideale, e questo e in Dio, c in Dio i Dio stesso, sebbene a noi non oi apparisca naturalmente come divina sostanza. Ma le determinazioni poi dell'ente non sono die modi diversi di vedere quest'entej come appunto che cosa' sono le figure pensate da me nello spazio? non altro cbe modi miei limitati. di vedere lo spazio. lo re- stringo il pensiero entro certi confiui, pcnsando lo spazio^ questo raffrenamento del mio pensiero i quello che mi fa innanzi tutte le figure dello spazio. Ma lo spazio riceve egli vcramente in.s& queste figure? sofferisce qualche modificazione quando viene cosi limitato? A/. Niiina verameqtc. So che me Iavete fatto osservare altra volta. E un errore il credere che i corpi limitino Iestensione. Lesteusione, come estensione, riman sempre quella, uniforme, impassibile, semplicissinya, o sia piena o sia vuota. I corpi Aon limitano che il nostro pensiero nella considerazione della esten- sione, trattenendolo piu tosto entro Iestensione che sta fra quattro mura, che lasciandulo anJare per Iestensione infinita. Per altro, o sia pieno lo spazio o sia vuoto, Iestensione dura la stessa^ e peru lo spazio pure dura il medesimo, giacche spazio ed estensione voi li fate sinonimi. A. Convien dunque distinguervi il conoscibilt, dallqCto onde si conosoe. Il conoscibile per sil  illimitato, infinito, Iente^ ma Iatto onde si conosce, pu6 fermarsi a considerar'leAte in modo parziale c circoscritto, senza peru che Iente soiferisca aicnna altct'azione, e questo h cio che si dice far di lui unIdea determinata. M. Questa osservazione mi da gran lume a intenderc I'im- misnsa differenza che passa fra Ijdea dellente, e Ialire idee che non sono altro che circoscrizioni di quella. Ma come si puu fare questa circoscrizioue? A circoscrivere lo spazio. convien cir- condarlo di superficie o reali o iiiiinaginarie^ ma di che mai circonderfi io Iesscrc? A. Quanto a soi, ralihiaui pur dclto, souu le co.se create Rosmi.vi, Il JiiiinonwiaUo. 79 ( linea, per eosi dire, agli oeebi del vostro intendimento', neU Vessere intm'to sempre da voi , la forma o specie parlicolare della eosa (i) che vha loccalo. In somma la idea particolare non 6 se non la relazione che passa fra I'esserc parlicolare e I'cssere universale. Immaginatevi una muraglia, o comecchessia tina superficie ampissima cola eretta, di bianchezza tutta uni- forme. In essa non si scorgono lineament! di figure, perocclni il color suo ^ di nna perfclta ugualita. Tuttavia se di contro ad essa si poncssero delle statue, o de vasi, od altri oggetti, non na'sccrebbc con questo solo una cotal relazione di tulte quelle figure con quella muraglia, sicch^ ciascun punto di quelle statue ed altre forme rilroverebbe un punto corrispondente nella muraglia, e ciascuna linea una linea, e cosi pure ad ogni pic- colo spazio piano delle statue risponder dovrebbe un altro tale spazio, e ogni figiira tiitta insieme determinerebbe mediante questa relazione altra simile figura sulla contrapposta superficie? M. Chiaro A. A. E pcrci6 chi fosse presente, e avesse occhi e virtu din- tendere, potrebbe riportare mentalmente i contorni di quelle statue sulla muraglia,. o colla sua immaginazione disegnarle anche dove non sono ? M. Sicuramente. A. Ma quell'uomo il quale non avesse mai vedute statue, nA Vasi, nA altre figure, non potrebbe purtare quelle col pen- siero sulla muraglia. (i) Ld parola italiaoa cosa, deriva dalla lalina causa. Nientepin rilosufico del dcnoniinarc cause gli oggelli a nui cognili: impcrciorclie non ei soiio rogiiitt se non in (|uhiUo sono cause, in ejuanto operano sii di noi. Digitized by Coogle ()27 M. Non potrcbbe. A. Ecco adiinquu il pcrchi ci bisogna il senlimunto, 0 Ia- zioiie che spcnmentiamo degli enli limiUti, acciocch^ noi pos- sinino riportare questaUivita , o grado d'enlila sperimentata, ncllente universale e uniforme concepito gia mentalmente, e cosi fissare in lui quegli enti particolari, limitando entro tali confini il nostro guardamento di tutto Iessere. M. Singolar cosa! ma questo modo per6 di limitar Iessere noil pub attribuirsi a Dio. A. Convien sempre ricorrere allioeffabile sua virtii crcatrice. Non limita Iddio questa sua virtii? M. Si; perocrhb egli crear potrebbc troppi piii mondi cli'egli non crca. A. E bene, egli puu dunque limitar I'atto suo a certi og- gelli. E a far quest'atto limitante e creaiite, tanto siiperioru al nostro modo di concepire, egli non ha bisogno dallro die del suo volere. Col suo volere crea le cose finite, e volendolc creare le conosce, e conoscendole le crea. Queste create cose, udia loro propria sussistenza sono il termine della sua azione ; e questo termine di sua azione lia un, rapporto col suo essero simigliantemente appunto a -quelle statue di cui abbrain par- la to, lequali lianno un rapporto colla bianca muraglia dicontru alia quale die stanno. Riportando adunque Iddio le cose create collatto suo, quali termini di suo atto, al proprio suo cssere, avviene che questessere le renda conoscibili, senza sofferir esso ill si punto ni poco modificazione o limitazione; perocchb non s'aggiuiige che una relazione esteriore, ndla quale la mutazionc sta (ulla dalla parte delle cose create che coiuinciano, e non punto dalla parte ddlesser divino. Sicchb si pub dire in un seiiso quello che dice Origene , che u Iddio conosce le cose future pcrche sono future n, ciob perchb egli le ba rese, future creandolc ab etcruo, e conoscendole. Al. Mi riman tuttavia dilBcile a spiegare come 1' atto del creare iiou sia cicco in questo caso, quando da esso dipende il coiioscere le cose future, 6 non precede questo a quello. A. No, non e cieco. Prima vi fo osservare, che Iatto del creare - non pub dirsi cicco, sebbene il conoscere fosse a que- st'atlo cousrgueute; c che Dio, come vi dissi, conoscendo, crea, 6a8 e ereando conosce^ perocclii vcramcnle & un atlo solo. AItra* znente converrebbe dirsi cleco ancbc queiratto onde genera tl proprio Verbo. Ma oltraccii^ , come volete cbe sia cieco nn atto cbe si fa nel giorno cbiarissimo della luce divina? non sono gia nel divino essere tulte le cose, sebbene prive di li- miti? pert) alloperazione del limitarle fa luce lo stesso csser divino illimitato. Chi Iddio non potrebbe fare niuna cosa stolta, daccbi a farla, a crearla, mira, e la trova per cosi dire el proprio essere. E anco ponendo la roano in un cassone pieno di monete d'oro, senza badare dove la si metta, non se ne po- trrbbe cavare cbe delloro. 3T. Ob questo sperimento non I'ho fatt'io mai in vita mia^ tuttavia vel credo sulla vostra fede.-In vece di quello per6^ na feci ben io un altro, d[ starmene gran tratto di sera cola sul balcone della mia stanza, sguardando la luna piena splendente in questo giardino, e chiraerizzando meco con le piii ouove e strane fantasie di questo mondo, ed eran tutte per me de meri possibili. Or sapea io allora piii die Dio, il quale non vede i mcri possibili cbe vidio allora cosl bene distinli? Ni saranno stati manco possibili tutti, Maurizio mio, i, gbiribizzi vostri, e per6 voi avrete veduto anco degl'impossi- bili assai , cbe non vede Iddio. Ma lasciamo andar le ciance. Non vi dicea gia, cbe 'Iddio ha non pure le idee sue, ma le idee nostre? Non i pensiero 'di creatura, cbe Dio non vegga di.stinto com'^ nella creatura^ perocebi i ancb'egli un elemento delle creature sue^ ni le conoscerebbe per intero, quando tutto cio cbe ad esse apparliene, non vedess'egli collo stesso atto etemo onde le crea e le conserva, cooperando come causa prima a tutte' loro operazioni. AT. Tuttavia troppo'cA ancora a fare, volendo metlere in salvo la sapienza di Dio da questa vostra dottrina. Non i egli proprio del sapiente lo scegliere il migliore prima d'operare? j. Si. Af. E per iscegliere, .basta egli conoscere una co.sa sola, o conviene averne present! molte, o piii tosto tulte le pos- srbili? ' A. Lascella fra le cose possibili sta bene agli umani prudeuti. M. E ri.spetto a Dio non sara egli il medesimo? Digitized by Google 6ig A. No', il sistema depossibili leibnizlani , e dcIPoltimismo, d ana pocsia Blosofica. M. O meglio, ana filosoGa anti-poet!ca, come dircbbe Niccol6. A. Meglio ancora, k un'invenzione filosofica n^ poetica. Perocchi il falso non da buona filosofia, ni tampoco buona poesja. E veramente non ha bisogno Iddio di paragonare le cose possibili, per ritrovare fra tutte qnella chc egli vuol far siissistere; non h il meglio che egli cerca, il quale h relativo, nia i il perfMo, il quale k assoluto, Dei perfecta sunt opera, dice la Scrittara^ e il perfetto egli lo trora immediatamente al lame di s^stesso in si stesso, anzi in si non pui vedere die il perfetto, si per la perfezione dellessere contemplato, si per la perfezione dell'atto contemplante. Non capite voi, che Iatto di conoscere sarebbe manco, qnando egli dovesse prima veder ci6 che i impcrfetto, per trapassare poscia a vedere ci6 che i perfetto? Immediatamente adunque, checchi veda e voglia Id- dio, vede e vuole il perfetto ^ pcrocchi il vede e vnole con atto perfettissimo, il quale non' puu veder altro che il perfe,tto per volerlo, e non pu6 volere e vedere il difuttoso. Si come Ioc- chio nostro aprendosi non pu6 vedere altra cosa che la luce, perchi la luce i Toggetto sno,. cosl la intelligente volonti di Dio non pu6 vedere che ci6 che i pienamente bene'nel genere suo^ irapercioccbi i Ioggetto di lei. Quindi' le cose create, dice la Scrittura, le vide essere buone, c molto buone; Vidit cuncta quae fecerat, et erant valde bona (i). Il quaf luogo del Genesi, considerate voi quanto risponda a capello a cii che io dicea? Vide Iddio: e che cosa vide? quello che avea fatto. Ecco Tatto della creazione esser quello che gli fa le cose visibili e s(dute: ed  erano mol to buone n, ecco come il suo creare e vedere ba per oggetto essenzialmente il buono, il molto buono, cioi il- perfetto. M, Mi aggrada quasi pin il dubitare, che il sapere, ragio? nando con voi^ tanto mi contentate solvendo. Per6 vuglio con- tinuarrai a dubiUre quasi per impresa. Ditemi adunque, non vi sono molte potenze create fisiche, intellettive, morali? - A. Or dunque? (i) Gen. I. Digitized by Google fi3o M. E Dio, rlie Ic lia faUe, e clie assegnu a tulle la loro pru|>ria virlii , non duvea conoscerc tutli gli alii posslbili, a ciii elirno si possono slenders, per dare a ciascuna quel grado e quella allivita che le ba dato, e non piu ? A. Qual dubbio? M. Uunque Iddio conosce i meri possibili; perocche, quelle potenze non fanno mica tutli gli alii, a cui sono idonee. A. La quetlione non isla qui^ peroccbi ognuno vaccorda /cbe in qualebe modo li conosca. Tutto sta a vedere in qual modu. Ora io dico, che Iddio conosce come distinti tulli gli alti che fanno le potenze create, perchi questi come distinti sussistono; e all'opposto conosce gli allri che le potenze non fanno come stanno nelle loro potenze, cio^ in potenza sola> inente, percb^ tale k la loro esistenza, ed altra non ne lianuo. M. Notate peri6, che di questi atti meramente possibili ve lie sono di determinati e di necessarj, come quelli di tutte le cause che operano con necessity, poste in ceric circostanze. Allri poi ve ne sono di probabili ad avveqire pin o mcno. Non conosrera Iddio tutte queste relazioni che risullano dalla na- tura delle cose? A. Tutte, ma nel inodo che ho detto, ciok come elle soqo appunto. Sc quelle hanno una esistenza attuale, le conosce in ipieslo loro modo di Csscre; sc non sono che iinplicile nelle potenze o ne termini delle relazioni, implicitamente le cono- sec^ sc stanno nelle nienli degli uomini, fosscro anche ghiribiz- zosi qiiantaltri mai, ivi ancora egli le conosce perfeltamente, nia come stanno in quelle menti: Et non est ulla creatura in- fisihilis in conspcctu ejus: omnia autem luula el aperla sunt oculis cjus (i). M. Come 4 coerente la Scrittura! Anche in qiicsto luogo ch'e mi citatc, osservo che si pu6 fare la slessa rillessione che voi mi facevate iiiiianzi su quel di Daniels, cio4 che si parla sempi'e dellonniscienza di Dio in modo, come se non vi fos- sero altre cose a conoscere, die le create: iu>n csl ulla creatura invisibilis, cii^ suppoiie che non vi abbia luogp ad altra scieiiza iuorchd a quella delle creature. (i) lUbr. IV. Digitized by Coogle 63 1 A. Eh! sc io volcssl Irallarvi la cosa colla Scritliira, troppo vavrci io a dire: ma Iora i larda ogginiai, c nol ci siaiuo qua trallemili aiiche di soverchio. M. No, egli nun k poi tanto che no! sliatn qai. Io non vi lascio andarc, se non me ne date almeno un cenno ^ c queslo Sara, come diceva il nostro povero Padre Antonio Cesari, il coutenlino che qui Sulla fine voi mi darete. A. Tutlo i contentino per voi; die non vi stanchercste mai di filosofare. Via, per fare il piacer vostro, vi addurru solo quel bellissinio luogo del libro de' Proverb], dove si va facendo Icncomio della divina sapienza, e la ci si mostra tutta affac- cendata, per cost dire, in assisterc a Dio accintesi alia gran- d'opera della creazione e dellordinazione delle ci^ate cose, u Iddio mi possedette nel cominciamento delle sue vie ( pacla u la stessa Sapienza) dal principio, innanzi che facesse cosa ve- uruna. Dalleternitii io sono stata ordinata, e innanzi al sc- ucolo, prima che fosse fatta la terra. Non eranO ancora g)i u abissi, ed io gi^ ero concepita.  Con lui mi stavo, compo- unendo tutte le cose: e mi dilettavo per gli singoli giorai u (avvenire), scherzando nel suo cospetto in ogni tempo, schei^ Hzando nel giro della terra: e mie delizie facevo I'essermi oo  figliuoli degli uomini  (i). Troppo lungo commentario bi> sognerebbe a illustrare qnesto luogo sublime. Ma non vedete voi di primo sguardo in esso Iintimn nesso fra la creazione e la scienza dMna? non sentite voi, come de' meri po.ssibili non si fa menzione alcuna , ma bensi di una sapienza che dovea esser tipo del mondo futuro, di una sapienza creata ed ordinata ab eterno appunto all'nopo delle create cose, precedente a queste percbd fatta ab eterno, perch^ fatta col I'at to della creazione, che in Dio i eterno, e di una sapienza tultavia causa delle cose (a)' Questa sapienza applica si a tutti i tempi e a tutti gli esseri futuri, ne' quali e fra' qiiali ella conversa e si com- piace da tutta Ieternita, se ne compiace come se fosser pre- (i) Prov. VIII. (*) Ilia forma rerum, cosl s^nl* Ansi'lmo, (fuae in ejui ralio*tc res crean^ das praeceddbai, quid aJiud est, quam ret urn qunedam in ipsa rntione. In- rtilio? veiuli cum faber facturus aliquod .>uae aiiis opus, prius tUud ifUra sc died mentis conceptionc. Monol. c. IX. Digitized by Google 63a sculi, anzr cssendoJe vcramcnte present!^ impcrocclid  Ietcr- u nila, come dice Tertulliaoo, i quella che dirige I'aniforme uandare del tempo n (i). M. Udii quel passo allre volte, e mi fu spiegato come se vi si parlasse del Verbo divino. j4. E non male. Perocchi gia abbiam veduto, die collo stesso atto Iddio e genero ab eterno il Figliuolo e cre6 le cose, dando cost luogo a quella relazione delle cose, termini del suo atto, eol Verbo, in die ponemmo la natura delle idee determinate. Or qui si convieue por mente all'altcz^a e alia coereD7.a dello esprimersi che fanno le divine scritture, alia quale altezza e coerenza non giunse Platone, nh ci6 che v'ebbe inai di mrglio nell'antica GlosoGa. San Paolo, come gia toccammo, chiama il Verbo  iramagine di Dio invisibile, primogenito di ogni crea* X tura  (a). Non vedete in qtieste parole considerato il Verbo i per quello che i rispetto a Dio suo padre, u per quello che i rispetto alle cose create? Rispetto a Dio suo padre, dice che i u immagine di Dio invisibile n, che i come dire , la slessa conoscibilita di Dio^ rispetto poi alle cose create, dice che i X primogenito di ogni creatura , appunto perchi Iddio dise* gn6 in lui, e disegnanda iu lui, cre6 per lui le creature tutte^ sicchi il Verbo si fece andie esemplare e prototipo delle crea- ture, che in lui si specchiano, senza che accada per6 a lui alcuna alterazioue. E questo e il .commentario, per cosi dire, che fa s. Paolo stesso all'espressione ondegli avea caratterizzato il Verbo qual x primogenito di Ogni creatura giacche tosto sog- giunge: x Poichi in lui furono fondate tutte le cose ne'cieli xed in terra, visibili e invisibili, o sieno i troni, o le domina- xzioni, o le podesta. Tutte le cose in lui e per |ui sono fatte. X Ed egli  innanzi a tutti, e tutte cose in esso hanno consi- x'stenza n (3). E dice che tutte le cose furono fondate in lui, come in lui virtualmente esistessero^ e sono fatte in Ipi, come in esemplare dove Iddio le vide, e vedendole, ve le disegnu (i) Divinitnti competit, quaecumque decreverit, ul pcrfcctn repulare, quia non fit apud ilium dtffi'i'cntiu temporis, apud qucm uni/ormem statum lcrn~ ports dtngit nrler/ulas ipsa. Lib. III. roiilr. Msrrioii. ^i) Coluss 1. ' (3) Ivi. Digitized by Google 633 pfr cost (lire, quasi sulla miiraglla bianca Ic statue Jiconlro; e per lai, come per Iatto della volonta intellettiva (o Verbo), onde furono create in veggendole ( i ). E) questi due rispetti sono asiai ben accennati altresi in quelle due parole, di u unigenito  e di u primogenito jchc da la Scrittura al Verbo divino. Im- perorcbe rlspello a Dio egli'i unigenito, ina come tipo delle create cose egU i primogenito (i). Niuno degli antiebi sapienti vide per lume naturale queste due cose, che in modo ammi- rando ci dimostra la Scrittura insieme congiunte. Platone ben a'accorie, che il mondo non potea e^ere senza un eterno esem- plare^ aa il Verbo della rivelata sapienza h ben piii del motido intelligibile di Platonej o de' Platonici. I filosofi si fissarono in questo concetto, e non seppero satire piii su^ indi porsero oc- casione all'cresia di Ario. Qual maraviglia, che non ricono* sceiido uel Verbo se non il mondo arcbetipo e inlelfigibile, il facessero minore di Dio padre? gli Ariani furono degli uomini prosontuosi, che vollero anzi ragionare co' filosofi, che impa- rare da Cristo (3). Ma or via, basti cosi stasera: siete anepra, conlenlo? (i) Suole la divliia Scrlllurn quasi sempre parlare del Verbs sotio il doppio rispello, ondegli e dall una parte la eonoscibilitd di Dio, dallallra conoscibitild e insieme causa dellir cose; p. es. s.' Paolo agli Kbrei dice, rispello a Dio, cbe Cristo c: e insieme rispetto alle creature, che i > pllttatore di lutte le u rose colla parola della sua potenza  ^c, I). E uell antico Testainemo la Sapienza divina ebiamasi rispetto a Dio  catidore di luce etema , e  specchio senza macebia della, divina mae.sta m, e insieme rispetto alle creature,  imniagine. della bonta di Ini m. Ved. Sap. VII. (3) Tertulliauu dice, appunto : Pi imogenibts ut ante omnia genilus; et uni- gaulus ul solus ex Deo genitus. Conte. Praxeam. c. VII. E altrove dice cbiamarsi primogenilum conriilionit per. qneslo, cbe per ipsitin omnia fatta sunt L. V, coiitr. Mareion. c. XIX. ' ' (3) Lribnizio fece un*bss(^r^ azionc che ha qtialche somi^iiann con quclla che lioi feicciarno qtii suirorigine dcU* ariancsimo. m Sembra, (?osi egli, che u alcuni |>adri, sopratiiitio t plulonizzanli, aiibluno concepilo due niiazioai H (b'l. Messia, prirna che uasccsse dalla Vergin'c Maria^ quelta che lo fece M Figtiuolo unigenito, in quanto h eterno nella. divinita, e quclU che lo u rende primogenito delle ci'talure, per cui hi vestito di nna nalura creata f U piir aobilu di tuUe, che rentlevaio stromculo della diviuila nelia pro* M duzioiie e direzinnr dr-Ili' isjire nature.  Gli Ariarjt tennero Solo questa X srronda filtazionr dimeoticarofio 'i prima, c parve ebe alcuoi dei padr> Rosmini. Il RinnoyamentOn 8o Digitized by Coogle 6M M. Cnnlento M7.io no; pnro mr nlio presn nnn bnnn* salolla, (! vn ne. ringrazio. CAPITOLO LlII. COHTinUAZIOI il Figliuolo per rapporlo a qucsia primogenitara tra le creature; di cui  parlu s. Paolo, Coloss. c. I, v- i5. Ma per qiiesio oon gli negavaiin ciq  die gia avea in quanto Figliuolo anico e coiisostanziale al Padre > ( Spi- rito di Leibnizio, t. ii, p. 49)- ' (i).Si osservi, die questa dollrina suppane che ogni oggetto, olire Tat- liviti onde a noi si rivqla, abliia altresl qualdie altra nitivitli a noi Vicculla, colla , quale possa rivelarsi sd alire iutelligenze da noi diverse. Cio peru non e che uoa mera suppesiziont die noi ahhiam fatto: i)6 possedjamo iina df- mostrazione die la cosa sia cosi: pero uun vogJiamo chc ella si preiida per iina ferma no.stra seiitenza; ma per un iiiero postiilnlo del nostro ragiona- ini'iilo. Digitized by Google 6i5 I Lc iJf .IcIU treale inbuUistJnze non ris|K>ndoiio a lulla I'cii- lila ilugli cull sussifUnli, lua bulo aJ una parle, e i>ciciu uicglio SI diicbbcio specie, die idee (i): ne verrebbe allrcsi la coiisc- guen/a, secoiido quesU maiiiera di favellare, ebe hoi avremmo uUfA idcu e molle specie* F,e idee deliuoiiio udo inanifestaao degli coti sussisleiUi die qlidia allivila coUa quale agiscono in lui esserc essendalnieiile seudeiile, e liaUa.idod de coi pi , queiraUivita che gli inani- iestauu in eagtouaiidogli le .sensaiiopi aiiiiuali. Di uui uiolto acconce si diuwstraiio le parole, del Vico, il qiial disse:  II vero di*ino e come uoimiiiaginc solida ddle ucose, ed uiienigic in. lilievo^ il veio umatio egli 6 come uii u mouograiniiia od iiiimagiue piaiia, a guisa dttiia pillura : e  ill quella guisa die Dio, menlre conosce il vero, ue oi dioa gli demeiiU e lo genera : cost Iuoino, coooscendo .1 vero, lo iicompout: e%iaD(liio -c lo forma     j* . iMa se il pensiero di Vico ba un gran Ibndo d verila, iiidi- cando cbe il >"odo del conoscerc umauo ba una cotale apalogia col diviuo, iu quanto che, come Iddio conosce b: cose raffion- tandole al suo Verbo e in lui veggendole, cosi ruomo pure le conosce raffronlando il sc/Utmento da lor produtto a|l nfea dt-/- rcssu^i tutlawa molto meglio e'piii distinlameute del V ico Iu dislinla daPlatonici la parte /orma/e del sapere, quest esscie ideale a cui si raffronta il wntiinehto, che d queUa cbe pi u laciloienle si sottrae allosserva/.ione, come 1k> di sopra toccalo, Plotino, a ragien desempio, duna parte vede cb.aramenle  .che il sense non perrepisce tulU I'attivita e leuHU ddl e.ilo ' corporeo:  Qudlo else si conosce col sense, dice, d la specie u della cosa, e la eota siessa ih>u d compresa dal senso  (d). (0 A me mssercUl.. nssai -li ris.rlre il Dome d idee  quelle . oClie anzl Delia ijuislione della lerza della seconda par*  te (i), ci fa espre^samente sapere eke I'inlelletto perviene a oconoacere la nuda qniddila dellc cote, accveraiido'c^uella da.  tutle le condizioni aiateriali n (a). Bisposta. i. L'inlelletlo induce gli universal! dalla cuiisiderazione de singular!. -- Queslo puo essere ugualmeDle dcllo nel niio sisieina; tant veru, che io sless6 io iiisegnu. buuque lion la iX)iilro di me. Aceiuccke quel detlu ave.sse furza eoiitro di me, converrekbe diiiiustrare che esso deblia inlendersi per luodo, t.** che ira gli u/iUvrsali induUi dai singular! si contenga anche I'intuizioiie dell'ente, die s. Tommaso stesso chiauia liime dell' inUlleltu , eul mezzo dd qual lume egli fa oascere qiiella induzione da' parlicularl a' general!^ 2. che i singolari da' qual! I'inlellellu iiuJuce gli universal! sieno fuori deU'intelletlu, cioi o die denu i singolari esteroi malerialmeole presi , o pure le sensaziuiii. Perocchi se fossero dc' singolari gia percepiti dall' inlelleltu , iiuii v! avrebbe piu conlroversia alcuna sul poteri^i da essi as^rarrcgli universal!; cuueipssiachi essere 'nell'iiilellelto, e aver eoogiuiito una Duruia iiitelletliva o universale, i uiia eosa me- desihia. Ma certo non puo I'ioCellello die aslrarre da' de' sin- gular! ch'egli abbia in si, altramenle ne seguirebbe I'assurdu, die l'int;:lletlo uscirebbe di se, ed enli-erebbe negli uggelli eslcrni, u'vvel'o die'eiilrerebbe iielle sensaziuiii, il die i un allro assurdo non iiiai detto da s. Tommaso.' lu I'ho gia d.imuslralo, die quest! sono degli assurdi; con- vicn dunque rispoudere qualdicni il iN. cilH u hi srciiiida Dei isipur di'Ihi pi imn piirle della siia SuiiitiiH >1: Ni pur qik'nis Decisiaac csisle; |M'iUaelM; i.i priiiui pfle null e suddivuMi in allic Ui'eisiiiiii lie III ullre p.uli. j; 1.. II, .VI, Vi. s/ Digitized by Google sfl i!i:i singnlari. F. Uono, rinlcllflto prrcepisce diinqiin primn qiictli singular! .sui qiiali csercila tale opvrazione^ pcroccli^ non |Milrt-lili(! oporar**, se non sopra iin oggetto Uc egli ha perce- pilo. Che cusa sono adunque i sitigolari percepll!- dalliiitelletto, ui quali non ^ seguit.a aiicora I'astrazione? De' corpi esterni? no^perocchi questi nun enlrano in oc4 malerialmente. Oe' fan- Ia5tni? in tal cam avcte cdnverlito Vintelhuo nella fantasOi; iinperocchi ^ la fanta5ia die percepisce i fantaami, eonfiifione, die non fece mai s. Toinmaso. Ddiboao dunque ease re de' singolari intelletlwi, Lo slesso dile dell'allra sentenza allegata  L'iiitellelto u perviene a conoseeru la nuda quiddita delle cose, sceverando uipitlla da tulle le .condizioni maleriali . Tuttu ciu sj.a net niio sistema. Acciocchi una tale proposiziune ripAgni col mio sistema, coiiviene interpretarla in un inodo as^urdu, come s'i delto della prima'. Convien diiapstrare cio6 , die I'oggctto sul- ifuale I'in^lletto fa la fnnzione di sceverare le condizioni ma teriali ^ non sia inlelletlivo, nia sia o corpo eslerno^ o sensa-. ziune, 'o mero fantasma. Ora ne il corpo nella siia materialita, iii la sensazione, ne il fantasma  I'oggetto dell' intelletlo, se* condo 8. Tommaso e secondo il buon sehso. Ma Iintelletlo non pu6 operarc, se non sopra i suoi oggelti. Dunque I'astrazione non opera n sopra un corpo estemo, ni sopra una sensazione, nd sopra tin mero fantasma, ma sopra un oggetto prima daU I'intelletto concepito. E che rimarrebbu del corpo esterno, a ciii si togliessero tutle le materiali sue condizioni? in che ma* niera si pu6 sprtzafe la flsica sensazione, o il fisico fantasma sempre adcrente ad un organo? Iintellettb dovrebhe tagliar Iorgano del fantasma' in due parti, e d'una parte dell'organo costituire il comune, dellaltra parte il proprio delle cose?  Vrggiatno che cosa replica il C. M. a que$te mie osserra- zioiii. II. In quanto al I II C. M. replica negandoci che s. Tom* uiano ammettesse per lume deH'intelletlo Iente in universale, ma  nella qnlstione loa della raedesima- terza pi^rte^i) (s. Tom* Vrhaso) ci dice che I'oggelto prirao dell'intellelto non ^ I'ente 41 e il vero comune, ma I'ente e il vero consideralo nelle cose M materiali  (a). Rispesta. II C. M. non e! risponderebbe cosi, se avessc considerato iina distinzione intporlantissima che suol fare s. Tommaso spiegando I'alto dell'intendere. Egli dunqtie distingue ciu che s' intends, quod intelligilur, e il mezzo onJe s'inhinde, quo intelligilur (3). ,0 quod intelligilur & I'oggetlo dell' intelletto^ il quo intelligilur 6 la specie colla quale 1' intelletto inteude (4). Dice diinque s. Tommaso, che u I'oggetlo primu dsdl'intelletto (il quod iii- ,u telligitur) non I'ente e il vero comupe, ma I'ente e il vero 44 considerato nelle cose materiali . Ma non dice mica, che 11 I'ente e il vero comsideralo nelle cose materiali  sia il mezzo, la specie onde s'intende (il quo intelligilur)-^ e il fargli dir que* sto, i un trattare assai male il grand'uomo. Perocch^ sarebbe pure la stran'a sentenza quella che dicesse che I'ente e il vero come sla nelle cose materiali fosse la specie del mio intelletto. San Tommaso adunque distingue accuratamentc la cognizione materiata dalla cognizione formale. JNeU'ordine della cognizione Li) IIo giji noizio illrv due vollr, die quests tens psrie non esiste. (a) In un aliro luogo dice il Mamiaiii slesso: > E ancora poli voter dire o che I'lntellello ha per proprio uflicio il pensare I' universale, e queslo d M il seiiso dcllaltro passo ove leggesi f intelletto ha loperaiione saa circa  Iente universale  ( P. II, c. XI, vi). lo rimetlo al C. M. il conciliare qtiesli due suoi passi. . (3) Quests disliniinne A frequenlc in s. Toinmiiso. Vcd. S. I, XV, ii. (4) Species QUJ inlelligitilr  est Jorma faciens intellectum in actu ( S. I, XV, II). Digitized by Coogle 64 * itiatfriaU la prlma co*a clie si conosce A Tente e' il vero cons!* derato netle cose material!, e non in separatp da esse. C non A qnesta la nostra dottrina appunte? non diciamo noi, che la prima fanzione della ragione A la percezione delle cose cor- porce? e che cosa A qiiesta nostra percezione, se non Pente P il vero considerato nelle cose material!? non -A certo costituita dalje sole cose material! la nostra percezione, nel quaP caso saremmo 'sensisti, ma bens) da tntti e doe gli element!, t.* Pente e il vero (formale) a.* considerato nelle cdse material! ^mate> riale della cognizione). Noi dunque quando ci gloriamo di esser discepoli delPAquinate, crediamo di tenerci ben lontani dalla tennitii de sensisti. Mb resta a vedere, che cosa sia per s. Tommaso Paltro prinnie oggeuo, c IVnle cbe cade sotlo il sense e I hnmaginazione, e prupriamente la sua quid* dila u esscnza (i)^ ma Iente col cjuale prima conosciamo $\ come specie, i rente comnuissimo. Egli i veto che noi riflettiamo ])oscia sulld specie nostru, onde le conosciamo soiamente dope di aver conosciuti gli oggelti sussistenti^ ma questo non toglie cbe la specie ti trovi veramenle in noi ^ perocchi esseiido ella il mezzo di conoscere, dee essere antecedente airatto stesso onde ai conosce, e alloggetlo materiato che con essa si cono- sce; la specie adunque, Iente ideale, la prima cosa cbe cade nel nostro inlellelto, anteriore allatto stesso del conoscere ogni altra cosa, ma tuttavia i Iultima a cui rivolgianio la nostra atten^.ione (a). Ma il.C. M. continua a interpretare s. Tommaso al suo nopo, dicendo:  Dove poi nomina Iente il primo notissimo all in* telletto, si raccpglie dall'intera lezione chei parla ivi in or-  dine dottrinale  , Gosi il Mamiani. Ma non cost s. Tommaso stesso, non cosi qnelli ehe hanno posto an Inngo studio nelle sue opere. Scegliamo un solo di quest], il quale raccolse le dottriue filosofiche dellAquinate, e le ordino in un compeiidio di filosona, voglio dire Antonia (i) Jntellectus enim humani proptium objectum cst qitirblitas ret mate- riali's, qane sub sensu el imnffmalionc cadit (S. I, LXXX.V, v). lo'vorrri che il C.i M. ronsiderasse ,qur[la parola proprium objectum, ebu'e relativa Bllaltra objectum commune. Dice dunque s. Tommaso, ebe  Quanlo al 3., repKca il C. Rt, che volendo noi ammetfcre che Pastrazione di s. Tommaso avesse per oggelto dc'singolari intelleltivi, converrebhe supporre, ad essa csser prcceduta una sintesi, colla quale Pintelletto avesse pdrcepiti que^singolari^ ni.a di questa sintesi s. Tommaso giammai non parla. oDove per la teofica del Rosmini fa mestieri ammettere' nna o sintesi primitiva delPidea delPessere con la modiCcazione rn>  dividuale, s. Tommaso giammai non parla se non dastrazione, o cio d'analisi: e dalPastrazione vuol format! tutti gli u^iver- usali, e ciu in mille pass! delle sue opere vien ripetuto n {i}. (tj Uic tameit dilif;enler observuntUtm esl, nos posse habere dupliccm, ends notiliam : alteram scieittificam, peneUando scdicet ipsa entis principia^ divisianes, proprieUdes, el ^dtsiincUonem a /brmalitatibus parlicidarium en- hum i alteram im per feciam etrudem. i/ud solum inlelligimuS ipsam enlitatem confuse, el ul distinctam. a nibilo. Dam ergo D. Thomas dicil, ens esse pri- muiq a nobis cogntlum, loiiutlur de cognilione ilia rudi el imperfecta, qua omnes eltam maxime rudes intelligaiil quid sit ens, ipsumque dislinguunl a non ente, Goudin, Pliilusophia juxta incoiicussa' tulissimaqtic D. Tboraae ilo):mal, (om. IV, Philosopbiae IV Pars, DiSput, 1, II, art. 1. (1). .V. I-, l.XXXV, m; tSj P. II, c. XI, VI. Digitized by Googit Bisposla. f.44 Se 8. Tommaso avcsse fatto cominciare il lavoro dello spirito umano dall'aWui^in luogo che dalla sinUsi, sarebbe inpappato iu ttD error . grossolaoo assai^ imperocchi eglj i manifesUmente uii assordo 11 pensare che lo spirito possa scooiporre quello che Cgli DOD ha prima composto mediaote la pe'rcezione, quando pure non si voglia sostenere un altro assurdo, cio che I'ana- ' lisi venga da noi fatta sopra cosa non prima da noi percepita. Ora .uno sbaglio si fatto fu ben notato nei sensisti moderni da Reid, e da 'altri pensatori ehe venner di poi^ ma in s. Tom- maso certamente non si rinviene.  s. Tommaso che, dicendo io ci6, intendo difendere, e non me stosso. Nel JV. Sdggio io ho dimostrato (i), che due operazioni di- stingue s. Tommaso, la prima deile quali egli chiama illustra- zione de fantasmi (i^urtranpAcome pretendejl M.^ ma si bene all ostrorre fa'precedere unaltra operazione intelletlira, che col lingunggio delle scuole egll chiama illustrazione. Ora a che fine i fantasmi vengono iliustrati dall' intelletto agente? u Acciocch^, dice s. Tommaso, sieno resi tali, da quali si poi^ano astrarre poscia le specif intelliglbili  (2). Dunque dai fantasmi per sk non si pu6 astrarre cosa alcuna, ma i uopo,  secondb s. Tommaso, che prima diventino esseri inteUettuali , fa bisogno che riceyano il lume dellintellelto agente. Ora se a! fantasmi si dee prima di tutto aggiungere il lume dcllintelletto agente, e se si pub solamente di poi escrcitare sopra essi Iastrazipne , non b egli vero, che, secondo s. Tom- maso, deo' precedere la sintesi M'analisi? non t quests Uiumi- nazione di s. Tommaso la nostra percezione inlellettiva de (1) V. N. Saggio ecc. Sez. V, cap. IV, J 3. _ (1) iLLVIllHAUTVe- quidem ( phanlasmnta ) : quia  phanlasmata cx fuluU inUHecttts agenlis rediiuntur babilia, lit ab CIS inteAlioncs inlelligibilcs ttbih aUanlur {S. I, LXXXV, I, ad 4). r Digitized by Coogle 6{5 siagolar!? i fantasmi non sono la modificazione individuale? e il lume dcil'intellelto agente, cbe vi s'aggiunge, non i IVnlo di cui i fantasmi sono puri segni od effetti? La doUrina di s. Tommaso convi^ne danque colla niia a capello, o a dir me- glio, la mia con quella del sanlo Doltore. . ' Ma muove il G. M. ima novella istanza, facendo osservare, die s, Tommaso riduce lulto al principio di contraddizione,  non aH'i/ituuione delTente, come fo io. uSegli avesse creduto, dice, a qualche principio innalu, u avrebbe posto nell animo quaicbe sintesi primitive , la cui  evidenza non dimorasse nel principio logico della ripugnanza, uil qnal principio i nondimeno preseutato da s. Tommaso,  come il vero e il solo fondamento dogni certezza  uNe manco avrebbe risolnto le proposizioni tutte assisma- uticbe in proposizioni identiche, o come saol dirsi oggidi, in u giudicii analitici  () Quanto a qaest'ultima proposizione, egli i strano a 'vederla accarapata contro di me. Crede forse il iM. di disputare contro di Kant? E pure il M. sa troppo bene, che io ho rifiutato i giiydizj sintelici a priori di Kant. Ella non merita adunque cb'io le faccia risposta. Quanto poi al principio di contraddizione, nol faccio io, come s. Tommaso appunto, il fondamento della certezza? non diraostro io, che il principio di contraddizione non i altro die I'idea dcllente applicata (2)? Non (a dunque.bisoguo nel mio siztema, che Vevidenza dimori altrove che,in qiieslo principio, perocchi questo principio i il medesimo che I'idea dell'entd  ' Ma voi fate precedere I'idea dell'ente al principio di coiilrad- dizione.  Si, questo i vero^ come la misdra dee preesistere alluso che se ne fa; come gli scolastici appunto meltevano innanzi I'operazione dc\ percepire', a quella del comporre c del, dividere (3); borne s. Tommaso stesso fa precedere 1' iutuizione (1) P. II, c. XI, VI. (2) V. Nuovo Sag^io ecc. Set. V, cap, V, arl. 1.  ' '  (3) lu una Dola ai PrincipJ della Scienia Morale, c. I, art. iii; ho diino- siralo, colrautorila Hi AIrssaodro Hi Ales, come IiHea ' deUenlc fu ricoiio- si'iula precedere il principio Hi contraddizione dagli scolastici ste.ssi, appunto perche Ioperazione deW apprendert ( simplkium inUlligentia ) ricoaoscevaua 646 dcll'ente, a1 principio die dice  Tente non ammette in si stesso IafTermazione e la negazione ad un tempo n , che i il principio di cootraddizione. Volete aver sotfocchio le stesse parole del maestro d'Aci apprensione o degli indotli, o d,eduui. (2) Cmi (jiiesia fortnuU Vannuiiziava ii priucipio di ripiigiiaiiza. (3) Iff fits autem^quae in ap/frehensione ftorntnum caifuni, quidnm orAo itiveniiur. Nnm illud quod primo QadU in apprehtnsiont est ens, cujus i(i- tcHeetus includitur in omnibus, q^ecumque quis apprthcndii. Ei idea prt^ mum principium indemonslrabile st, quod , non est simul affirmarc ei ne- fiare n: QUOD FUND.ITUM SVFSa BJTWyEU ESTJ.S BT SffTJS! ei super hoc pnneipio omnia afia /nndantur (9. I. 11, XClV, h). Hatio entts iene a dire io italiano il concetto o Tidea dellVnie; o sia, chc ^ il inede* simo, non Teoie parlicolarc; nia ienle in universale. Erra duuque il' C. M. quQtido asserisce, che per Tessere e tl vero m si dee iuteudere cli'egli  vo- M lesie significarc sol que.sto, doversi dalla tnenlc die pensa, ricevere sem- N pre   una quaich^ reahta giacch^ aticbe il .seiiso riceve una qualcliu realila > ma rinteilello, secondo s. Tomiiiaso, non riceve solo Teiile real**, ma B^iTlQffSU BNTIS, che viene a dire, icule ideate, possibile, universale. Sc diinqua su questa idea dell*ciile si iorida d principio di cou^raddizionc, e sopra qucslo tulti gli altri priiicipj, chi nun vede, chc il puiito unico e iermtssimo sul quale, tpiasi sopra cajdiue, insiste e si volge il sapere umatio, t I'uiiica idea dcUVulc'/ Digitized by Googk Hi E come si saprekbe, che tale i la natura dell'ente, dhe escluda la contraddizione, se non intuendo Iente itesso? IV. E vide peru il C. Maniiani^ che il lume dell'intelletto agenic, nominato tante volte da s.. Tomniaso, c da luiposto innato^ nelluomo, romperebbe al tutto il suo sistema, e (lancheg^e* rebbe il mio^ onde egli pensa di spacciarsene coiv questa in* terpretazione :  II lume innato di nostra mente a noi lembra volere indi* care non altro che la potenza conoscitiva ()- Bifposta.  dell'ihtellelto. Dunque non i vero xi6 che pretende il M., che pel lume dell'intelletto agente s'in* tenda una mera potenza , al modo come il M. la intende. Egli A bensi vero, che la potenza intellettiva non esisterebbe piena- mente, senza il Inme che le 6 forma ^ ma ci6 non toglie che il lume non sia qualche cosa di distinto dalla potenza, mera : ap- punto a quel modo come la potenza di misurare non esiste- rebbe pfenamente, senza il passetlo onde si misurano le gran- dezze delle cose^ ma cii^ non toglie c|ie il passetto non sia cosa diVersa dalla' facolta di misurare, sebben questa abbia bisogno di simigliante stromento per fare Tatto suo. No! pure diciamo in ugoalissimo senso, che la potenza dellintelletto non sarebbe pienamente, senza I'intuizione dellente, del quale si serve a intuire tutte I'altre cOse. Dallo slcsso passo di s. Tpdimaso apparisce, che pel lume del- l'intelletto agente non si Conoscono ni i principj, ni le cose particolari, ma ^i conosce bensi in esso e per ess6 il principio di tntto ci6 {principium illorum quak per illud lumen 'manife- sUfntur). Dunque, secondo s. Tommaso, pel lume dell'intellettq agente si conosce pur qualche cosa, sebbene nulla di compiuto. E qugsto e quello che diciamo noi, conoscersi per la forma dell'intelletto non gia le cose od i principj compiutamente, ma solo iniziarsi la'cpgiiizione loro In essa forma intellettiva, cioi nell'apprensione dell'essere. Ma poichi il C. M. ci incuica, doversi 'attendere alia coerenza de varj passi^ noi vogliamo raffrontiire al passo di s. Tommaso ultimamente citato, degli altri del medesimo autore, stando a vedere che conseguenze ce ne derivano. ii) Lumen inlellectuale in aliquo existens peb uoovu fobujE pekuj- KENTIS et perfectae, perfied inuUecium principahler AD cotittoSCESOV PBINCtPIvie illorum tjuue per illuti lumen mant/estantur; sicut per lumen intellectus agentiXf prneripue intellrctns cognoscit prima principia omnium illorum r/uae nuluraliler cognoscuiiliir {S. II. II, CLXXI, ii). Digitized by Google Inlanlo i fla ritcnerc, cte il lume dell intellcllo agentc, come si Fa diiaro dal passo citato, adcnsce all'intelletto come sua forma, per modum formae permancnlis. . Ora die cosa k la forma dell'intelletto, secondo s. Tommaso? Ella k quel principio col quale I'intelletto iutende, quo in- ti'lligit. Quindi con tutta coercnza in un altro luogU dimostra il santo Dottore, die all'aniraa dee cssere inerenle, come sua forma, un principio col quale ella intenda (i); ci6 die consuona a pieno con quello che disse del lume dellintelletto agcnte. Vcggiamo . adunque che cosa sia qucsto principio, questa forma dell'intelletto, colla quale esso intende. In un.luogo ci dice chiaro, che la specie intelligibile i ap; e pero il cavare da una percexioiic la malcrla, era per cssi ipianlo a dire un ~ iiuiversaliiiai la , Rosmini. Il Ainitopamento. 8a Digitized by Google 6So Ma qiipsla srprrip primissima rhe I'nforma Tuinalio intcllctto, e rliu si suol cliiamare piii comiiiiemenlc hime c\m specie (ri* srrbando questa parola a quulle che sono determinate), che cosa c'finalmente? San Tommaso rispondc, che queslo liime 6  un'impressionc u della prima verita  ^ di che conchiude^ .che noi intendiamo tutto quello che- intendiamo, nella luce della prima verita. E s'odano le sue parole: da dirsi, che noi intendiamo. e giudichianio tutte le cose HELLS LUCE PELLA PRIMA verita' : in quanto che lo stesso ldmb dcllinte11etto nostro, o sia naturale o gratuito, nienle altro u  sc non una cotal iupressione della verita prima  (i). Possono essere piu chiare queste parole? unimprcssione h clla una semplicc potenza?  'Vha dunque una prima verita imprressa in noi per natura, secondo s. Tommaso: non k dun- que una m'era potenza intellettiva, priva di ogni elemento co- noBcitivo, quella che il santo Dottore accorda alluniana natura. Ma se in noi v per natura Iimpressione della veritA prima, qual sari poi qiiesta vmiA prima, se nqn quell elemento che nellordine del conoscere is necessariamente il primo, e senza il quale non si comincia mai conoscimento di nessuna verit:\? E questu primo nolo, aiizi questo primo notissimo, come lo . dichiara s. Tommaso, i Iente comunissimo, quello di cui anco dice, che i cosi cognito, che  incognito non pu6 essere  (a) in alciln modo. Se dunque  1.  Lente k il primo noto, il necessariamente noto, sicchi non puu essere ignoto; 2.  Se Iente si converte col vero,, cio6 ente e vero sono la stessa cosa secundum rem, e peru Iente primo noto i anco.il primo vero^ come bo dimoslnto in taoli luogbi del fi. Saggio. die credo inuiile qui ripcicre. (i) Dicendum, ijuod in luce PRlUjp veritatis omnia intelligimus et jitdica- mus, inquantum ipsum lumen intellcclus nostri, sive naturale^ sive graluilum, nihil aliud est, quam mpRESSlo VEIUTATIS PSIUJP, ut supra diclum est {S. 1, LXXXWni; w, td t). (a) (Ens commune) incognitum esse non potest. QQ. Disp. X, xii, ad lo in contiarium. Digitized by Google 65 1 ?.* Sc il tnme cleinnlellefto agcntc i In nol lanato; 4.  Sc il lume (leirintellcllo agcate ^ Vimpressione in not del ptimo \*ero: 5.  Se Bel primo vero noi vcggiamo lUltc le allre cose^ 6.  E se quanto conosciamo, lo Gonosciaiao col lame del- Pintelletlo, clie ^ rinipressione in noi di esso primo vero. (1); ' Egli  manifesto, che secondo la mentc, o sla la coeren7.a de' pensieri di s. Tomrnaso, ne risultano ques.tc due fcrmissim eoDseguenze: I. L\nte in universale ^ una idea iooata tiello spirito umaoo. i. NcU'ente, e per mezzo deUente intnito, come con prin- cipio quo co^HOSi'ilary conosce Tuoum tutlo cio che cooosce. EtuUavia dice s. Tommaso, che noi non rifleltiamo su qneslo enlc se non tardi, e lo caviamo per aslrazione dalle cose (tia noi concepite)^ perocch^ solamente mediante la rillessione ci aecorgiamo del principio ui, quod esl species it\ulli^ibilis in mlu {In Ub. JI Sent. Dist. XX, quaest. 11, ad '2). Io dico, cbe Ieule io univer- swlc d vtTo oggctio dciiiultllcUo liuu dal primo inomcuUi die a lui atle* 65i Che cosa adunque rIsponJeremo a quell! che contro airia- tuizione delPente, da no! posta a principio della rilusoOa, ci fanno questa obbiezione:  come I'anima vedra I'ente prima davere ancora ricevute le sensazion! delle cose esterne? e tut- tavia si professano seguaci della dottnoa di s. Tommaso? Rlsponderemo queste parole dell'an'gelico Oottore :  Qaesto lume non i obbligato al corpo, sicchd Poperazione u che gli i propria si compia mediantc qualche organo cor- u porco: e in questo ella si trova superiore ad ogni material u forma, che non fa operazione se non tale, a cui la materia ucomunichi  (>) - E crediamo con ci6 averli ^ pieno soddisfatti. ' . . V. Ma segnita il G. M. la sua interpretatsione di s. Tommaso, dicendo, che da lui v innati furono detti' i primi principj sic* Kcome quelli che si rincontrano anterior! sempre a qualunque  nostra cogitazionc  (a).' . - Risposta. . Le, parole del G. M. cii,danno piii che n'oi non vogliamo. 6e i primi principj si riscontrano anteriori sempre a qua- lunque nostra cogitazione, dunque non sooo Pelfetto di qua- lunque nostra cogitazione: dunque sono innati. Ni s. Tommaso, ah io suo minimo discepolo, abbiamo mai dctto tanto. San Tommaso s pure spie'gato senza equivoco, ha pur detto egli stesso in che senso dica innati i primi principj: perchi non consiiltarlo? perchi tentare d'indovinare quello che si pu6 risce, qiunlunque niana rijltssione faccia sului la meole, se non assai tanli, eJ i pel' cio, che assai tardi di lui distiulaineDte ci accorgiamo. (i) Hoc Jumen (intelleclui agenlis ) non esl,coriiori obtigatam, ut ejus opcmlio per organum corporeum impUatur; in t/uo invenitur superion onini mulcriali forma, i/uae non operalur nisi operationemi cui communicut ma- lena. QQ. Disp. Q. XIX, art. I. l-i) 1. II, c. XI, VI. Digitized by Googk f553 lii>gcrc ia s. Tommaso mcdcsimo ? Ecco adunque che coia vi &i legge: u dentro noi ia certo modo immessa origloalmonte ogiil u scienza nel ldme dell' intelletlo agente, niediaate le conce- u zloni univursali che pel lume dell'intelletto agente di subilo u i ronoscono. ]>er le quali concezioni universal! si come per  universal! principj giudicliiauio dellallre cose, 6 in esse le u preconosciamo  (i). Questo luogo fu da me citato nel Nuovo Saggia Sez. V, t. V, art. I. Dice medesimamente altrove:  Pel lume dell'intelletto agente > I'intelletto conosce precipuamente i prim! principj di tutte X quelle cose che naturalmetate si conoscono  (a). Egli i dunque chiaro, in che senso dicansi innati i primi principj: non altualmente , ma virtualmenle. Non v'ha pro* priamente d'innato, che il lume dell'inielletto ageqte, secondu s. Tommaso^ ma in questo lume si' contengono virtualmenle  primi principj, i quali sono il lume st^o dell' inlellello cun* sidcralo nella sua varia applicazione. CAPITOLO LV. COHTI.NUAZIOHE. Fin qui le osservazioni inlorno al modo' d' iulerprelare s. Tommaso, che lisa il G. M. Or poi , acciocch^ meglio apparisca quanto I'Aquinate si lontani da'sensisti modern!, e come a tofto alcuni di quest! il credano a lor favorevole, perch6 trovano clregli fa ueces* sarj i fantasmi all'umana conoseenza^ credo non dover e^sere inutile il soggiunger qui tanto,' che hast! a dissipare una vulla cosi falto pregiudizio, che agli avauzanienti della sana GlusuGa in Italia polrehbe arrecare in veru non picciolo nocumenlo.  a tal Gne loccher6 solo le due seuleuze caralterisliche del (i) De Slente Q. X, art. vi. S. II. 11, CLXXI, II.  Digitizc-d by Google 6.;4 fislenia scnsistico, 1c quail . controverlibile presso i sensisli. Chi potrebbe credere, che Carlo Bonnet, uomo si giudizioso, e di un nictodo esatto nelle spe- rienze (isiche, lavorasse poi tanto d'lmmaglnazione. e d'analo- gia Irattando delle operazioni dello spirilo? Egli vide, alcune operazioni dello spirito nostro essere dipendenti da' movimenli del corpo : gti bast6 ; ' e corse per analogia alia conclusione , che dunque ogni operazione dello spirito t impossibile sen/.a de' movimenti corrispondenti nella materia : sopra uua base cosi vacillante egli fabbricu .poi la sua Palingcnesia, ed altrc immaginarie !>ue teorie. Non parlo di Hartley e di Pristley, i cui concetti Dugald Stewart chiamava, a ragione, sogni e ca- price! (i). Or dico, che ci(^  contrario dirittamente aLconcetto che 5. Tommaso si formu del pensiero. Vide egli bensi, che si fa- cevauo nel nostro spirito delle operazioni, le quali aveano bi- sogno degli organ! corporal!^ nia non conchiiise per questo, colla fretta de' nostri sperimentali, che tutte ugualmente I'a- vessero; ma ne disamino gradatamente tutte le varie fiinzloni, e ne trov6 pur una piii sublime dellaltre, iudipendente dagli organi, e in quella fuuzioue appuntopose I'inteodimento. Eceo com' egli si esprimc';. u Di tanto (I'auiroa uniana) colla sua virtii eccede la nia- e teria corporate, che ella ha qualche operazione e faculta, a Delia quale la materia curporale non coniunica per modo u alcuDO. E questa facolta dices! inlcllcHo n (a). (i) Essay fourth, on the lUcla/i/ifsical theories of Uurtli y, Priestley by Da^nht auwort. Kdiinliurgh 1810, vol. IV. j.' 1, l.XXVl, I. Digitized by Google I , 655 In nltro luogo dice lo slcsso rliiaramcntn:  La virtu inlel-  li'Uiva non i virtii di qualche organo rorporalc: siccomc la  virtii viniva  at'lo dellocchio. Imperocchd 1' intendere i un  atto die non pu6 esercitarsi mediante un organo corporale,  siccome sesercita la visione  (i). E ancora: Airanima intellettiva non e bisognevole il corpo  per la stcssa operazione intellettiva considerata in si stessa,  ma per la facolta sensitiva, die addimanda un organo equa- u mente complessionato  (a). Anzi di plii: non si potrebbe dare, secondo s. Tommaso, operaaione alcuna intellettiva, se Iintelligenza dovesse essere impacdata colla materia. u A questo, che I' uomo possa intendere tuttc Ic cose per  via d'intdietto, e a questo, che I intellelto' ii^tenda tutte le X cose immateriali e universali, egli basta che la virtii intel- X lettiva non' sia mi atto del corpo  (3). E altrove: u Egli ^ impossibile che il principio intellelluale . X sia corpo: e similmente i impossibile che intenda per mezzo X di un organo corporeo; pcroccbi la natura determinata di X quell' organo corporeo inipedirebbe la cognizione di tulti i X Corpi^ siccome se qualche determinato colore fosse non solo- X nella pupilla, ma ben anco nd vaso cristallino, I'^mfuso li* X quore apparrebbe dello stesso colore.'ll perchi Iintelleltilale X principio, che chiamasi mente o intelletto, ha cotale opera- X zione per se, a cui il corpo punto non comunica n '(4). San Tommaso adunque riprova come falso il primo prin- cipio demoderni sensisti, che Ogni operazione intellettiva abbia bisogno d'un organo corporeo per efl'ettuarsi. (i) S. I, LXXVI. I, ad 1. (a) S. I, LXXyi, V, ad 2. (3) I. LXXVI, I, ad 3. (4) Impnsstbile esl igiiar quod prineipium inlelleetuale sil corpus. Et si- mililer impossibile est quod inlellignt per orgnnum corpofeum : quin iidlura determinata illms organi corporei prohiberet cngniliontin omnium corporqm ; sicut si aliquis determinatus color sit non solum in pupilla^, sed etiam in uase vilreo, liquor infusus tjusdem colons videtur. Ipsum.igitur intellecluale prineipium quod dicitur mens, vel intellectus, hsibet etperalionem per se, cut non comunicat corpus {S. I, LXXV, ii). Digitized by Google I/altra scntcnia caratferislica del sistcma sensistico si i, che u luUe te idee o cognizioni umane si ridiicano alle sensazioni u o alle immagini , sicchi qucste formino, come suol dire- uno di qucsti filosofi, lo sgranellato del sapere umano. S'l falta proposizione i conqessa colla precedeote, qnasi nn corollario. Perocchi se lo' spirito i materia, come vogliono i materiali* sli, o se noq si danno allre opcrazioni che del congiunto, cioi deir Msere mislo di aniraa e di corpo, come aiTermano i sen- sisli^ certo che il pensiero si dec tuttb ridurre a seasazioni di vario g^nere, e variamente modidcate , conciossiachi I'esscre umano, in quanto i misto, non produce che sensazioni. Ma all inconlro, se si pone, con s. Tommaso, che vabhia una poten7.a e iin atlo dellanima, ch6 non operi insieme col .corpo, n& per mezzo di. alcun orgaiio corporale, nia tutto solo c scevro da ogni materia; convien dire, che le specie o idee duve (ini.sce quest' otto, nun .sieno n6 sensazioni, ni fnntasmi (i quali non son piii die sensaziuni riprodulle nell'organo interno).^ non potendo .stare ml Ic sensazioni ne i fantasmi senza una passione dell'organo cor|>nreo aniniato. Cost appunto s. Tumbiaso: ufe manifesto, che le apparizioni u iiiimaginaric si cagronano a qnandu a quandu' in noi per ana u Irasmutazione locale de' corporal! spirit! ed umori n ()- E la cumunione della, sensazione e della fantasia viene pure cosl espressa da s. Tommaso: II principio della fantasia procede u dal senso rispetto all'atto suo. Imperocch^ noi non possiamo u immaginare quelle cose che in nessun modo abbiamo sentite X ni in tutto, n^ in parte: siccome il cieco nato non puu im- u niaginare il colore n (2). (1) Matuftslum est auiem quod afpariiiones tmaginariae enuiantur in- tcrd\tm in nobis ex locali mutatione corporalium spintunm ti humorunt (.s. I, CXI, III). (2) Pnneipium pliantasiae est a srnsu secundum nctum. Non enim possu^ imoginnri quae nntlo modo senttmus vel secundum totum, i^et secundum put tern: sicut caevus tmius non potest tmogmart colot em (5. 1, CXI, in, ad i). Digitized by Google Or (lunqup se la senjazioiie e il fantasma i srmpre affissu aUorgano corporalc vivo, seconrio s. Tommaso,. ed e uoa pas* sione d! lu!^ egU i pure impossibile, che quelle die s. Tom* inao chiama u specie iotelligibili n, abbiano niente di comone co'fanlasmi^ pi'roocbu quesle apparteiigono all alio dell' inlel- Irlto, che 6 aff.ilto inimuDe da qualsivbglia ma'teriale concre* zione, giusta I'Angelico. Perci(^ s. Tommaso si dicbiara, e dice aperto: u Non i gia tt il fantasma stesso la ybr'mn dell' inlelletto possibile, ma si u bene la forma di lui i la specie iiilelligibile che si astrae u da' fantasini n ( i). Sul qual luogo coDviene considerare, che s. Tommaso fu oh* bligato di usare quella maniera di dire, che  le specie intclli- gibili si astraggoiio da' fatilasmi, perchu mauicra comur.e delle sciiole e deH'arislotelismo, che si seguitava quasi per ferma legge. Per allro quella maniera sommini.st.ra luogo ad un equivoco, Bel quale cadciero virnmente molti mediocri ingegni. Clie Ia* strarre una cosa da uu'.altra (a) puo anco importare che si t.rovi la cosa che si astrae, nella cosa oude si a$trae^ sicchi egli sem- brerebbe che ne' faiil^smi si oontenessero in qualche modo le specie inldligibili. Ma I'Aquinate,. sentila I'ambiguila della frase, dichiaro la sua mente in modo da levac ogni equivoco, chi attende al suo ( I ) Ipsum pluuitasma non esl fdrma inlulleclus possUntis , $ed species in- Ulitgibilis, quite II phantasmaUbus abslndiilitr [S. I, LXX.V(, ii). (a) il pero eerlo/clie bene .spesso s* Tonima.so n qiieslo moHo, ** nslrsrra fUMIinta.smi nc, e da quest! segni la cosa segnala. Or come si puu fare questo natural passaggio da'JtmUismi agli oggctli  ho dimoslro^o in ouii lini^a nola, che VmUlUtto agente, in quaulo fa quesU operazione di coiiver* tir5i a fantasmi ed illuttrarii, ^ Iauima, Vio ad uo tempo Miisilivo e iii tcll>ttivo posscssori de*fan|asmi e dchidca delTcnte. (3} S. Tuinmaso ricouo^ce per eaallo questo ar^oineuto: m iao spirilu tiu> slro gimlica de* fantasmi : dunque egli ha un alio al lutlo diVcrM e iutli> ptiidenlc da* fanla.smi slessi m. Ecco le sue parole: A*l Uoc quod amma ^udicel de laltOus imaginibus, quod non sunt ipsae res, sed rtntm simdilu- dines, oportet esse ahqutd in antmu superius^ quod islis imuginibus non ru rnpfitur: el hoc esl mens, quite de tedUms imagintUus JVPlCdRE potest, L),.sp. n \IX, alt. I, ad 1 4. 6(io Niuna tnaraviglia adnnque, se s. Totmnaso dichiari essere entila diverse i fantasmi e le specie intelligi/>ili, soggiungendo alle parole surriferite:  I vrrsione  inJica ]a sletsa cosa clic in altri luoghi si disse  il- Iiistrazione de' fantasmi  , che  Paggiungcr loro il lume del- Ilntelletto agente, o>-sia Vente. ' E a vedere ancor meglio, die la cosa sta cos), basta accura- te mente analizzare Poperazione che fa Piutelldto agente o sia Vanima sensitiva-inullettiva, secondo la descrizione fattacene da s. Tommaso. ' Vi lianno prima i fantasmi, i qu:^i stanno nella fantasia, ill un organo vivo lor propr'io. Or che cosa sooo essi>? Non .i reppresentanti' delle cose, ma solo deMoro accidenp'. u H senso, u dice in moltj luoghi il santo Dottore, non apprende le es-  senze delle cose, ma solo gli esteriori accidenli-^ e il siraii u gliante si dica delP immaginazione n (i). AlPopposto, die cosa vede Pintelletto mediante la specie intelligibile o idea? L'ente, la soslaoza, dice s. Tommaso. , u I.a sostama come tale, non  visibile ad ocdiio corjiorale, u ni soggiace ad aicnn senso, ma nd pure all immaginazione, u ma solo alPintelletto, di cui Poggetio e la quidcUli (z). Dunque Vintellelto vede uua cosa al tiitto diversa da quella die percepisce il senso ^ dunque net fantasroa non ve puntu ti poeo Poggetio ddP iutelletlo , che i PenlO stesso, o P es- senza della cosa. ' , . A che dunque ha bisogrio Pintelletto agente di rivolgefsi sopra i fantasmi ?   Non per vetlervi qiiello che' in essi non i, ma per argomenlar da essi una cosa da essi diversa. 1 faqla- snii son dunque alPintelletto un cotal segno, come tante volte ilicemmo, onde egli argomenta Pesistenza de corpi che quel segno haniio ,prodotto , e nulla pin. Ecco che cosa sia'  il conveilirsi supra i fantasmi dell iiilelletto agente secondo la descrizione che di questa operazione ci da s. Tommaso d'.Aquino. Fermale queste cose, andiam olire. (i) Senst{s non apprehendil essenlias reriim, sed extenorq accidentia tan^ turn ; tirnililer neque imnginalio {5. 1, LVll, i, ad a). (a) Substnntia aulem ir^quanlum hajusmod^, don eil visibilis nculq cor- porali , ilei/iie subjacel alKut seiisiii, sed nec etiam imaginatior^i , sed soli iiiUlIccluij cii/us objectum cst quod quid est fiS. Ill, LXXVI, vii). *()() Or (love , ip qiir^U oprraziooe , T iptellctlo agenle trova I'enle? conic pu6 iixusare al pepsiero di questo, cbe pur uon i pc' fantasmi ?  Risponde s. T6ninnato,.chu Tcute k I'oggclto naturale dclIiptelleLto (i)^ I'iiitellctto ddunque suppUsce I'ente del (QO^ eglia de'suuiaccidenti . Questi sono i due passi delPastrazionc da me dislinti. Or posciachi il ijantasma, come dice s. Toinmaso,'  sempre parlicolare e di ebsa particolare (i), quando alPopposlo Penlc die vi pone P Intelletto e sempre universale^ avviene die accon- daniente ,s. Tommaso pronunci , i. Luniversale esscre'il pripcipio delPintendere (3), ' (t) Ol'/eclnm inteVtcliis est qund quid out, id cst ipsa tssenlia rei:  et SIC simditudo rri quae eat ia inlelicclu, est simdiludo directe essenhae ejiist simduudii iiuiein quae est in sensu vet imaginatione^ est similtUulo accuien* Hum rjus. (jy. Disp. (J. Vlll, ri. vii in 1. . (zt Jmnginatifl non est nisi corpondium et singutarium^ rum ptiantasia sit nmtus /actus a sensu secundum actum,  hUetleclUs auteth unicersatium et incnrporalium est.  Prubatum est in 5 dc Anima, quod intelleclus non est actus alicujus partis cflr/un is, imagiaalip autem habet inganum corpvruie detcrmiuatum. P/oii eat igitiir idem imuginatio ct inteitectua possibiUs. Cuulra Lxvn. (5) Universale se.cuiidnm ipiod uccipitur cum inleiitioiie iiniveraulitiitis, eat qmdeni qiiodiiinmodo puna i/Hiirn ctagiiuscendi, factiut intciilui universailitatis conseqiiitiii tiivduin uitcUigaiidi, qut cat pei ubsU acUuncni (A'. 1ecincato, e ridoUo a stato di specie delermiiiata, nel modo cho abbiamo.tante volte dichiaralo. ' ' ' ^ V CAPITOLO LVI. COHTIHDAZIOHE. Ora io non so, se il C. M., tutte queste cose con pacata niente considerando, vorrebbe scrivere aiieura, cliu s. Tommaso, , u quanto s'adagia cun la dottrina professata da lui, altcettanto  sembra scostarsi da quella specialissima del Rosmini n (3). . Ma acciocchi si possa recar sopra di cio il pin fermo giu- dizio,io non vo intralasciare d'agglunger qui un confronto fra il C. M> e s. Tommato circa'un punto speciale di somdia riluvanza, circa quel punto, voglio dire, cbe ^ Io scopo diretto del libro del Rinhovamaito^Ae guareotigie della certezza del sapere umano. ' Noi abbiam veduto il C. M. ridurre tutta la rerita acces* sibile alPuomo a ccrti modi dell'anima, e cost rcndere I'u* inana cvgnizione soggettfva: all'obbiezione poi, die la veritA diviene per lal modo una mera produzione di un essere contin- gente, e per6 ch'essa rimane spogliata de'suoi .caratteri di ne'> crssita e di assoluta certezza, rispondere, che anche il sistrma contrario scontrasi nella medesima difflcolta; perocdii quan* d'anco la verita fosse uu oggetlo indipendente dall'uomo, do- sd 4)' Pice che il coDOSeere si fa per abstractionem , cioe, come ahblamo spiegalo, considerando I'enle posto daUinlelletlu, c prcscindetido dalla ina- teriidilA e parlicolariti de fanlasmi. (i) Hoc ipsum quod tsl inlelligi ee/ absirahi, vel inUntio universglilatit est in inlelteclu {S. I, LXXXV, ii, ad a). (a) Quae fjuidem inlentio nihil aliud est quant species intelligibilis. QQ- Dis|y. Q. X, art. VIII. 0) P. II, *c. XI, VI. ' Digitized by Google GG4 vri bhc tultftvia esser semprc dalle facolta iimalie rlceviita, e petriL) parlecipare al difetto c alle conlingeuze di questc. 1 replica! esser vero, che la verita, perchi aU'uomo si co> tnuiiiclii, debba esser accolta dalle facolta umane^ ma non es- ser altrcttanto vero,- che queste facolta, jn accoglierla, s'abbiaii tanto d) potere, da manometterla. ed alterarla; .csseodo ella impassibile di nalura sua cd imniutabile. Sicch^ nella natura eterna, immiitabile, divina della verita, io riposi tulla la gua- renligia della umana cerlezza. Vogliani vedere come la pens! I'Aquinate, e se con me, o rnl M. Anch'egli intanto I'Aquinate sente tutta la forza della dilGcolta toccata-, 'ma vorra per queslo mantenere, che la certa verita si possa trovare o nelle s^nsazioni, o nelle modiGcazioni ' del soggetto umano, come fa it Mamiani? Anzi egli s'accorge da ci6 stesso, come da nuovo argomento, che la certa verita ubii puu aver sua stanza e sua origine in nulla aflatto di sensi- bile, in nulla di contingente, in nulla di crealo: il santo Dot- tore non trova altro asilo alia verita y altra sede cobsistente e sicura, se nun IinGnilo essere: egli intende, che luttu altrove- la'si faccia consistere, ella e svanvta^ niuna verita ci resta piii alle mani, ma un ingannevole simulacro di quella, nn nome; un nome che dice una menzogna. dunque col far'divenirc la cognizione e la verita, di cui I'uomo partecipa, noq da' sens! , non dall'anima nmana, non da alcun essere create y ma da Dio stesso, che egli crede potersi solo guarentire all'uQino il certq possesso di questo inestimabile tcsoro, \st verild ^ c tiene elie nun ci abbia altro tnodo al moodo fuori di questo. Tale  la manriera d; peiisare di s.,Tommaso. Si vegga .s'io dico vero: si vegga se dalla n).ateria de'sensi dediica I'Aquinate la certezza, o da piii alta origine. a Tutta la certezza della scieiiza nasce dalla certezza dei  principj. Perocchi^ le conclusion! allora con certezza si fanno, u quando si risolvono ne principj. E per6, che qualehe cosa si u sappia di certo, nasce dal lume della ragione immesso ipter- u uaraente a nOi Divi.NAMEMTE, col quale IDDIO in noi parlan (i). (') QQ. Disp. Dc f'cvil. Q XI, arl. i, zj i3. E tiicora poco sppresso Digitized by Google GGr, Non tuUo adunque rtiumo lia ila'^en^i! qn;)lc1ic cosa ncl sislema intclletlivo di s. Tommaso ci tliscende Jail' alto! ft Gotesto 1ume^]ella ragione, dice ancora, col quale a tali priocipj ci sono noli, ^ immesso in noi da Dio, come u iina colal sioiililuJine in noi risultanlc della increata ve- u rita  (i). Si noti die Vincrcnta i^eriUi per s. Tommaso h una sola, ed d in Dio, eJ ii Dio slesso, c qiiivi dia ha la sua eternita (a), e per essa sono vere lutte le cose (3). Di chc, veggano quei sensisti piu moderati, che professano a s. Tommaso grande stima^ come fa il Mamlaoi, die non ^ per avventura da^sensi, die noi raccogliamo c partecipiamo la verithy secondo IAn- geli.co, ma si da Dio^ perocche veggchJola noi vcramente eteroa, e non essendo ella eterna che in Dio, convien dire cite in Dio la veggiamo, e die da Dio ci venga' qucsta luce, sccondo la quale giudichiam de'fantasmi e delle* cose tulte, siccome con suprema norma ed infallibilc (4)* 11 perchd s* Tom- ; , . / (ft(i 1^^ dire cos): Certitudmem sdentiae, ut dictum est, habei nhquis a SOI^O DEOf qui nobta turr^en rattoms indidilg per quod principia cogno* scimus, CT quibus oYitur scientiae cc4.iilndo. (i) Hujusmodi autem ralionis Uuucn, quo principin tjusmodi sunt nobis notrtg ent nobis a Deo inditum, quasi quaedam similituiio INCREATM yERlTATiS in nobis resuliantis. QQ. Di'sp De Verit. Q. XI, nrl. i. ('i) ruillus intellectus essel aeternus, nuifn veritas esset aelema, Sed quia solus intellectus divinus est ncternus, in ipso Solo veritas aelemitatent liabet (5. I, XVI, vit). (3) Ontiies ( res') sunt vcme una PRIM A veritattf cui unumquodque fliii- miiatur secundum suam entitatem {S. (, XVI, vi)- (4) S. Tommaso avea detto chc (ouc le cose sono verc per la h prima verllR M die e AcUa meute divion. Ora non si creda,-chc.il santo DoUore togliesse niruomo- ta visla di quesla verila} nel qtil caso Tuomo non parte- ciperc'jlie della verita, esseudo qiicsta una sola. Aiizi eglt fa, chc noi giu- clichiamo dellc cose apponto secondo questa verity prirna: r K*'da dirsi , M eoti egli, che Tanima nun giiidica delle cose tuUo secondo quaiunque fia e,e soto Dio i it ben uni- versale. Laoode egli solo adempie la volouta, e sufncieiilc-  mente la uiuove come oggetto (i). E cbnvicn badare, che s. Tomnia'so intende di spiegare collo slesso argnmento Un fatto, che i Iiiicliiiasionc al bene in uni- 'vcrs.ile, die ba la volontu , in conseguenza della nolizia del- t'vnte in nniversale che ha Iintelletto^ anzi in questo fatto pone s. Tommaso con-.istcre la propria oatura delta votontli^ di che concbiiide, che Dio solo pu6 esserc I'autore iVella volonta, come quegli che solo pui^ cagionare questa iiicliuazioae al bene in universale (i), la qual e quella die produce poi tutte Laltre vulizioni (?l), come dalP intuizione dclleiite in universale pru- ccdivno liilli gli altri atti conoscitivi. a." Uu altro principio, onde parte s. Toniiuaso a condiiu- dere, ehc'il fonte della cognizione, umana,e di sua certa veritit non pu6 esser n il senso^ ue Paoima nostra, ma solo Dm, si e (>) tmm rjus ( voluntatis} objei twi honum univrrsaie, sicat et intrh- lecUts ob^rcium vi/ EtiS VNtf^EESALE. Quoiiiibet aiUem botutm cr^tum est quoddam^parUcuiare bonum, solas aulem Ucus- esi bonum unis/ersutea Unde ipse solus i/riplet voiurttalem, et suJficiefUtt' turn movet ui oUjeetum {S. 1, CV. ly). (i) Columns habei ordinem ad universale btsnum^ unde nihil aHud potest esse voltyUatis caiua^nisi ipseDeus,quiesi umytrsale bonum ^S. I. U, IX, yi). (3) w IJdio muove la volonUi deil'iioiuo siccanie universal inotore aUu*   otversalc oggeUo dcUa voloula,' ch e il beue( e tiuia (juusia .uoiviT:iMl w mozlooe I'uomo ooo pu6 volcre cosa alcunaw fS. 1. 11, IX, vi, ad 5 ). VJia duuque neHa tolouli una iocliDnatotie al bene in universale, anlecHdenlt* a tuUi i moYiiaeoli parlicolari dtfUa yoloula, che souo eltelih e ap^dieaaiout di f|uclU. iticliualtoue. Ora V umvei'sal bene nou e allro, secoudo Tonunasu, pareuu v I. U, IX, vi, ad 5). Digitized by Google r>r,8 1unita' perfctta di essa cognizione in tutti gli nomioi. que- !ito uno (1! que solenni principj , che gla prima avea usato s. Agostiiio, come toccammo, a provare il medcsimo, e che sono di una forza Ineluttabile. u Se eiitrambi noi veggiamo. avea detto il gran vescovo afri- u cano, esser vero ciA che tu dici, cd entrambi veggiamo esser u vero cio che io dico, e dove, di grazia, lo veggiamo noi ? -N4 u io certo in te, tu in me', ma si I'uno e Ialtro nella stessa  iiicommutabile verita. che stadi sopra alle nostre luenli  (i). Questo luogo stesso (: recato da s. Tommaso, il qual poi soggiungc:  biamo toccato di'sepra, che da' fanlasmi I'intdlctto si foritia le specie intelligibili, che ne fantasmi piioto non si contepgono. Dinianda egli, come avvenga, che da'fastasmi, i qiiali' nulla piu esprimono o contengono che alcuni accidenti delle cose, noi tuttavia trapassiamo a concepirc le- cose stesse^ e onde sia, che i fantasmi non abbiano virtu dilluderci. Noi giudichiamo i fantasmi, dice egli, cioi -giudichiamo ch'essi non sono'altra cosa, se non certi efietti e segni di cose csterne. Or ciA che giudica, cio che ripone i fantasmi nel novero delle apparenze, dee ben esser da piii de fantasmi stessi^ anzi dee essere .ua liime infallibile, imperocch'A sen^a un lume infallibile, noi non jHitremmo giapimai con t'al certezza separare le appat'enze, e iissarci nelle realta. Conchiude il Santo: u Ricercasi a tal giudizio, e alia sua certezza, il lume del- u I'intelletto agente, pel qual jume noi conosciamo nelle cose hen di noUrsi, cbe qtieslo iolellctlo sejiarato, aulore unico del luiiic ualuralc e supraniialurale Aeile niciili, si ammette da s. Toiniiiaso come cusa parleoeute alia fede crisliaaa, e non come semplice opiaiooe iilosolica: JnItUectus separalus, dice, secundum nostrae fidei documenta, tsl ipse Deusj qui fst creator animae, el in quo solo beatificdlur. Unde ab i/'so anima humana lumen intelUcluale participate secundum illud; Signa- lum est super nos lumen vultus lui Domine {S. I, 1^XX.1X, iv)- Digitized by Google 6 JO niutabili immutabilmente la Tcrita, e disrerniamo le slesM  cose dalle simitiludini delU cote  ( i ). Ma cfae ^ questo discerner le cose dalle 'loro simiUtudini? dove trovo io qucste cose da scernere?'ben ha i fantasmi net seDSO, o sia le simililudini (se cosi si vuol chiamarli), ma le cose ovelle SODO? e come so io che i fantasmi sono simililudini o vcstigi di altre'cose? chi mel dice? Quesle cose non presentatemi ne' fantasmi, ma si nelle specie i/j{e//i^'Z>i7iVche nulla hanno a far co' fantasmi, mi sono, risponde 5. Tommaso, presentate da Dio, il quale i quegli che imprime le specie neiranima nostra. u Essendo egli il primo bntb  (queste sono le palrole del santo Dqttore) u e in lui preesistendo tutti gli enti ;iccome X Delia prima causa, i uopo che sieno in esso intelligibilmcnte, u secondo il modo di lui. Conciossiach^ a quel modo, che tutle X le ragioni iutelligibili delle. cose primamente esistono in Dio, X e D* I.DI SI DERIVANO HECLI ALTRI IMTELLETTI ,' acciocche qUelli xallualmente intendano (Jcra tKTEiLiGAST)\ cosi pure si de- ^ X rivano nelle creature acciocche sussisUno. E per6 cosi Iddio X muove rintellello creato, in quanto d& a lui la virlii d'in- xtendere, o nalurale o sopraggiunta , e in quanto, imprime a xLoi Le SPECIE 'iMTELLieiBiLi : e 1 una e Ialtra cosa inantiene, e , xconserva in essere i> (a). Or dicendo il Santo, che vengono queste specie impresse da (i) Hequirilur enim lumen intelleclus ageiitis, per quod immulabUiier ve- rilalem in rebus mulabilibus coqnoscamns, el dtscerriumus i/isas res a simi- litudinibus rerum ($. I, LXXXIV, vi, xd r).  allrovc dire il nicdcsinio: Jdeo ad hoc quod anitna' judicet de tahbns imagintbus^ quod non sunt ipsae res, sed rerum similitudines. oporlet esse aliquid in anima snperius, quod istis imaginibus non occnpalur; el hoc esl mens, quae de lalibus imaginibus judfcare potest. yQ. Disp. De f'eril. t). XiX, i, ad 14. (a) Cum ipse sit primum ens, et omnia enlia preexistant in ipso sicul in prima causa, eportel quod sint in eo intelligibihier secundum modum ejus. Sicut eaim omnes raUones rerum inlethgibiles primo existunt in Deo, el'nb eo derivanlur in alios intelleclus, ul aclu inlelligaiit: sic etiam dtrivanlur in ereaturas, ul subsislant. Sic igilur Deiis move! intelleclum crealum, in- quantum dot ei virlulem od intelligenilum vel naturalem, vel sii/ieraddilani, ct inquaiiliim IMPRIIUIT El SPECIES INTELLIGIBI l-ES cl ulrumque tenet, et tunseiral in esse (.J. I, CV, its). Digitized by Coogle I Dio iicirintelleltn cirati), acriorclii egli allualmenle liitenda, non viene egli al liiUo escliisa ogni interpretazioDe che polesse miiiiiirt: la for/a di questo passo? Ma se le specie intelligibili simpriinono da Dio, a che doii- qiiu serve PintellcUo ageiite? a che i sens!? come si conciliano gii altri passi del santo Doltore? Riassumiamo- brevemenle tutlo il sislema di s> Tommaso, e. Sara fatta la risposta a questa istanza. Conviene distinguere qiialtro cose: i. il lume dell'intellello agente, a. i primi principj, 3. le specie intelligihili, 4-* i fan- tasmi che provengono dalle sensaziooi. , , II l.iime dell'inlellelto agente e impresso in noi per natiira, iinmedialaniente da Dio (i). I primi principj non sono a)tro che lo stesso Inme dellintel- letto considerate nella sua applicazipne. Perciu dal -santo Dot- tore si dicono anchessi innati, in quanto che non si formano per induzione da casi particolarv, come yogliuno i sensisti du' nostri tempi, ma immediatamente appariscono (nio nelle prime c pin elementari operazioni intclletti've drlluomo, ed appari- scono come evidenti e indimostrabili, appuoto perch parteci- pano, o .piu tosto sono il primo evidenle, \\ lume dellintelletto di cni si fa per noi uso. Ma perocchi'noi pronunciamo quest! primi principj in una forma scientiGca solo assai tardi, per questo i 'modern! si danno a credere, che noi veniamo Icn- tainente e faticosamente formandpceli ^ senza osservar punlo, che noi ne facciam uso sempre, e che non si puu assegnare un atto solo della mente, senz'essi. San Tommaso perciu dice: uE cosi I'nomp rioeve la cognizione delle cose ignote per udue mezzi, cioi pel lume intcllelluale, e per le prime con- u rezioni per s^ note, le quali rispetio a quel lume dell'inlel- uletto agente stanno come gli stromenti allarlefice. Laonde' si u quanto alluna, che quanto allaltra cosa, Dio e cagione della uscienza delluomo in un modo eccellentissimo: conciossiacli6 egli e decoro lanim% dcllintellettual Inme, e vimpresse la (i) T)ocere riirilur tiupliciler, scilicet principnhter infnnilenilo lumen, et inslrumentaliter dirigendo   primum aulem SOL! DEO ( convenit ). . u nolizla de pnmi prJncipj, die sono si come cerli semenzaj u (Idle science, a quella guisa appiinto che andie nelle allre 14 rose natural! inseri Ic semiiiali ragioni di tuUe Ic cose 'da a prodursi  (i)> 1 prlmi principj adunque non si formano^ ma risplendono per tosloch^ si comincia ad usare del lume deirintellelto^ e in questo signiHcalo son'o delti innali^ per ih noli, inseriti in noi da Dio come semi di hitle le scienze^ sebbene essi pertS non si manifestano cbe col primo uso cbe facciamo del lumc inte1leUiv6 (i).  Ma in cbe modo quest! primi principj si manifestano? Fino a tanlo che noi non abbiamo cbe i Jhntasmif non si possono manifestare^ ma col pur formarsi in noi delle  specie intel- llgibili n, cio^ col primo pensiero di esseri sussistenti, tosto quelli hanno un oggetto ove mostrare la loro efltcacia. M PreesistoDO in noi, cosi s. 'rommasq, certi serai di scien/a, ucioi le prime concezioni dellantclletto, le qtiali iocontanente, ucol lume ddrin\el1etto agente si conoscono per le specie uastratte da' sensibili n (3). (i) Sic igitur homo igaotorum cof>nitinnem per dun accipit, scilicet per lumen iniellectuale, et per primas enneeptiones per se notas, rjiinc rompn^ ranlur nd istud lumen, quod est inleltectus agenlis, sicut instrumenta ndar* tificem. Quantum igitur ud utrunufuc , Dens fiominis scienCiae causa est exrciUnlissimo "modo: quia et ipsam animam intgUectunU lumine insignivit, et notitiam primorum priticipinrum ei impressit, quae sunt quasi quaedam seminaria scientiarum, stcul et aids naturnhbus rebus impressit seminales rationes omnium effectuum producendorum. QQ. Disp. De yerit. Q. XI, lit. (?) Trova s. Tuintmijto ^tssurdissimo il dire, ci>c la scirnza si crea in ooi, o SI prt)iiure da noi s(e.isi , o da qualche essere creato. Kgli non da alia cri-alura sc non il poirre di svikippare il germe della srienza preesi^ientn netrunnio, e nienie piii: In eo qut docetur, qiieste sono sue parole, setentia Pll.flEXtSTEBAT, non qtitdem m avtu completo, sed quasi in rationihns seminahbus, secundum quod umversales concepttones, quorum cOgfdtio est nobts naturaliter insita, iunt quasi semina quaedam ommum setpieuiium gnitionum. Quamvis nutem per virtutem creaUim rattones seminales non hoc modo educantur in actum, quasi per allqunm. virtutem cr'eatam wj'nndantur, tamen id quod est tn eis onginaliter el virtutditer, aclione creatuc viriujis in nr///m ediici potest. QQ. Disp. De yerit. Q. XI, jwl. i, ad 5. Similiter ctiam dicendum est dc scientiae acquisitione, quod praerxi* stunt in nobts quaedam stienluium sciidna, scilicet primae conceptiones in* Digitized by Coogle 6;3 Sta adumjne luUo a veJerc chi forma in noi queslu Specie. San Tomraaso sostiene, cbe a formarle entrano tre principj, o con>cause: t. an principio intenore, che i Ianima uma'iia 0 !>ia I'iiilelletto agente, a.* un principio esleriore, cbe i Dio, 3." e nil altro. principio esteriore, che sono le cose sensibili ('). Le cose sensibili concorrono alia scienza umana col porgere 1 fantasmi^ u e secondo ci6, egli  vero, dice, cbe la mente X nostra riceve la scienza dalle cose sensibili  (a). L'anima stessa nondimeno e quella cbe forma in si le si- u inililudioi delle co^ in quanto pel lume dell'intelletto agente usi fanno le forme, astratte dalle cose sensibili, altnalmente V idonee ad essere intese, siccbi possano essere riceVute nel* u I'intelletto possibile  (3). K Ma questo lume dellintelletto agente nellaiiima rasionale X precede siccome da prima suit origine dalle soslanse separate, X principalmente da Dio n (4). X E cosi, conchiude, nel lume dellintelletto agente i.n noi u ill certo modo originariamente immessa ogni scienza mcdiante X le concezioni universali, che incontanente col lume dellin- X telletto agente si conoscono, per le quali, siccome per uni- telUclus, quae statim luaiine intelleUus ageift/s cognoscantqr per species a sen\ibilibus abstractas, sive sint complexa, ut - dignilales, sive incomplexa, sicut ratio enlis, el unius, el IwjiismniU, ijuoc statim intellectus apprehendit. Ex istis aulem principiis upiversatibus omnia prindpia seqauntur, sicut cx quibusdam rationibus seminalibiis. Quando ergo ex i'slis-uniyersalibus co~ gnitionibus mens educilur ul ni lii cognoscat particularia, quae prius in po- tenlia, el quasi in universali cognosccbantur, lane aliquis dicitur scientiam acqutrere. QQ. Disp. De f'eril. Q. XI, rt i. (i) Kationabilior videlur senlentia Pbilosoplii, qui ponit scientiam mentis nostrae partim ab intrinseco esse, partim ab exsirinseco, non solum a rebus a materia separalis, sed ettam ab ipsis seniibilibus. Ibid., Q. X, art. vi. (a) Et secundum hoc verum est qupd scienliam a sensibillbus mens nostra accipit. QQ. Disp. De yertt. Q. X, srt. vi. (3) Nthiiominus lamen ipsa anima in se similHitdinqs rerum format, in- quantum per lumen intellectus agentis e/fiauntur format a sensibdibus ab- stractae intrlligibiles actu, ut in intellectu possibiii recipi- possint. QQ. Disp. De f'eril. Q. X, iirl'vi. (4) Quod quideni lumen intellectus agentis in anima ralionaii procedit si~ cut a prihia origine a substantiis separalis, praecipue a Deo, QQ. Disp. De f'eril. Q. X, art. vi. Rosmimi. 11 Jiiiiiiovamento. 85 * vcrsali principj , giiiJiclilAmo dcirallrc cose , c le pircono* uscinnio in esse  (i)- Ecco tuUo il sislcma mirabllmente connesso, e (^onsenlaneo. Ma lion siamo ancora pervenuti a quello die ccrcavaino, come s. TommasD potesse dire die auco le specie inlelligibili ci sono impresse da Dio. Gonviehe dunque che noi inveslighiamo piii distinlamente la nicnte'del santo DoUore intorno qiidl'operazione che fa I'aniiiia, forinandos! le specie intelligibili, aU'occasione de' fanlasmi. Egli dice, che Ianima riceve dalle cose Gnite esteriie la scieiiaa in due'^raodi; o i." raediante le parole di un precctlore, 3. o mediante i fantasmi. Dice ancora, che questi due esterni ope- rator! non ci danno la scienza immediaUunente , ma solo ci porgono dei segni sensibili, dai qnali noi stessi passiamo alia scienza, o, che h il niedesimo, passiamo alle specie inrdligibili, per quella argomentazione appunto, per la quale dai segoi si passa a indurre la cosa segnata. , uSi dee dire, che nel discepolo si descrivono le forme in- u tdligibili, dalle qudi i costituita la scienza ricevula dallin-  segnamento, ihmeoiatamente dall'intelletto agente, ma meduta- mi:mte dal precettore  . Or ecco. come avvenga;  Imperciocchi uil maestro propone i segni ddle cose intelligibili, dai quali u I'intelletto agente rtcevc le intenzioni intelligibili, e le scrive u nellintelletto possibile; laonde le stesse parole del maestro udite,  o vedute scritte, rispetto al cagionare la scienza nelliutel- oletto tengono lo stesso modo, come lb cose che sono roont  dell'ahima n (a). (i) El sic eliam in lumine intelUclus agenUs nobis est quodammodo omnis scientia Originaliter indila, mediantibus universalibas conceptionibus , quae STATIM lumine inleUectus ogtnlis cognoscuntur, per quas sicut per uni- vertalia principia jiifiicamus de aiiis, el ea praecognoscimus in ipsis. QQ, Disp. De Verit. Q. X, art. v>. (a) Dicendum, quod in discipulo describunlur formae intetligibiles , ex quibus scientia per doetrinam accepla constituitur, immediate quidem per intelleclafn agentem, sed mediate- per eum qui docet. Proponil enim doctor rerum inlelligibilium signa, e quibus intelleclus agens accipit intentiones in- telligibiles, el describil eas in iiitellectu possibili; unde ipsa verba doctoris audita, vel visa in scriplo, hoc modn se habent ad causandum scienliam in intrlleclu, sicut res quae sunt extra animam ; quia ex ulrisque intelleclus iutentwnes in telligibiles accipit. QQ. Disp, Dc Kcril. Q. XI, i, ad ii. Digitized by Gi  >gl( . Cgnie adunqne le parok: non soap che segtu delle cose, e non le cose stesse; e a queste noi trapassiamo per intoriori: nostra virtu, e non perchi ci sieno sommiaistrate dalle parole del maestro: cosl pure le cose esteriori, le ^uali colpiscono i noslri sensi, non ci porgono giii le cose a cohoscere , -ovvero Ieotita loro, ma de puri segni,* secondo s. Tommaso^ e siamo noi quelli tu^tavia, che pensiamo Yentit^ cstema, che non i ne' segiii datici^ siamo noi che la poniamo, da quelli argo> mentandola, coo che ci furmiamo le specib intelligibili. Se nun che s. Tomniaso ni pur taiilo concede alle sensa~ tioni e a' fantasmi, (juauto alle parole del maestro^ perocebi, dice egti, le parole del maestro souo a segni delle specie in- telligikili , e non cost i fantasmi, che non segnano le idee gia foriuale, ma solamente ci presentano gli eOetti delle cose, aeciucchi da quest! noi induciarao Iesistenaa delle cose, cite i appunto un formarci le specie intelligibili (i). Per il che i manifesto, cho- I'uomo vrene a pensare alle cose argomentandole da fantasmi, (oro effelti e loro segni.  a, tal uopo egli dee dire seco raedesimu: a> fantasmi non potrebLero essere suscitati in me, se uu aUe non li suscitasse . Quest' 6 lino de primi principj per si uuti^ uu di que principj cue, se- condo IAngelico, iocontanente, risplendono, quando si comiiicia a far uso dellintelletto. , Ma sella i cosi, come posso io sapere che u i fantasmi non potrehbero essere in me senza un ente esternoa ? II saper qiie- sto, suppone i .* che io abbia Iidea dellente, die io vegga in questo ente tale esser la sua natura^ che, cominciare e non aver causa, sia il medesiino che esser ente e non essere (3). Ma Iaver iO Iidea dell'ente, e il conoscerne si fattamente la uatura, i il medcsimo che aver il lame dellintellelto agente (3). (1) Segulla'al passo citato oclla iiola precedenie cosii Qwunvis vtrba doctorh PRQPINQVIVS se habenl ad causandum scienliam, quam senst- bilia extra animam existenlia, inquantum sunt siqna inteWgibdmm inlen- tionum. QQ. Disp. De Perit. Q. XI, 1, ad 11. (3) Io ho dcrivalo in questo modo dallintioia natura deir.eotc, iuluita dalle menti oosire, il priocipio d| conlraddiiione, quello di cauaaliU, e gli aliri primi printipf dcirialeiidimeDto umano. V. il fiuovo Saggio, ccc. Sci. V, cap V. ^ou dissimulo puulu, ihc vi hauuo alcuui pass! in s. Toiuuiajo, i Digitized by Google Essenilo questo adunque itnpresso in noi^da Dio, secondo s. Tommaso', e il percepire una cosa esterna non essundo altro die veder quel medesimo cnte, ebe Dio ci ha itnpresso, circo- scritto dal suo effetlo, il fantasma^ niuna maraviglia, che si at- tribuisca a Dio, come a prima causa, anche la percezione degli enl! limilati: il che 6 quanto attribuirgli Pimpressione in noi delle specie intelligibili, non perchi da Dio immediatamente sieno le specie, ma percb6 da Dio i Venle da' fantasmi deter* miiiato in noi^ nel cbe nostra rimane solameote Poperazione del congiungere Pente e i fantasmi, e poscia delPastrarre quello, riuianendoci rivestito perA delle determinazioni ricevute da quesU. Tale i veramente la cagione onde s. Tommaso cbiama la luce divina causa universale del nostro conoscere ( i ) , e onde riduce le specie in Dio come nel supremo principio della^ co* gnizione_ (2), o come dice altrove,  siasso lume. M* cerlo.i die ovc la nostra rocnie inluisca I'enlc, dim non lia bisogoo d'aliro lame. Convien dunque dire, cbe la ragione ddl'enie, di cui parla s. Tommaso iu questo passo, sifi la ragiooe deliente codsiderala udle sue relazioui cogli cnii aussislenti. (I) Ilia lux vera Ulumimat, licut CAUSA Uf/lf'ERSALIS {S.'l, LXXIX, IV, ad i). .(p) Alio mode dicitur aliquid cognosci in atiqfio, ticul in cognilivnis priii- cipio; sicut si dicamus, quod in sole videntpr ea, quae videnlur per solem. t sic necesse est dicere, quod anima huniana omnia cognoscal iu ratio- nihus aetemis i per quorum parlicipationem omnia cognosetmus. Jpsum enioi lumen inlellccluate, quod est in nobis, nihil esl aliud, quam quaetiam pur- kupnia simililudo lununis ittcreali , in qito conlinenlttr raliones oeteruae (J. 1, LXXXIV, T). Digitized by Google 77 u partecipa it nostro intelletto, si ridncono come In prima causa uin qualche principio per sua essenza intelllgibile, cioi. in Dio. u Ma da quel principio procedono mediante le forme delle cose u scnsibiti e roatcriali, dalle quali noi raccogliamo la scienza > ( i ), net modo detto. N credasi per avventura, che questo principio divino, onde procedono le specie, sia da noi cosi rimolo, che nieiite di lui slesso partecipiamo. Sebbene ci6 che detto i fin qni, e tutto ii cniitesto delle dottrine, ci sforzi a non intender cosi .fattamente la inenle di s. Tommaso, tuttavia nna nuova prova io ue voglio aggiungere. Stabilisce I'Aquinate, che la veriti delle cose non puA consistere nella relazione che hanno coirintelletto nostro, Dia u nellaver esse conseguito la similitudine delle specie che u sono nella mente divina n (a). Ora egli attribuisce al non aver cunoscinta questa verita i filosofi antichi, Iesser quelli cadqli nello scetticismo, veneodo essi a dire, che era vero ci6 che ne paresse a ciascun uoroo; errore notato gi4 da Aristotele.  Per- il chii consideravano, che il vero importa una relazione all'intel-  letto, erano astrelU di porre la verita delle cose nell'ordine iiche quelle avessero all'intelletto nostro.' Di che nascevano  qucgl'inconvenienti, che il Filosofo combatte nel IV d'e Me- u tafisici. 1 quali inconvenienti' non accadono, ove si ponga la (i) Dictndum, quod specif $ inlelligibdes, quas pariicipainoster intelleclus, rtducuntur sicul in primam caiisam in atiqund pnneipium per suam esien- tlam 'intelligibile, scilicet in Deum. Std ab illo principio procedunt median- tibus fomis rerum sensibilium el maierialium, a quibut scientiam colhgimus (S. I, LXXXIV, IV, sd I). la) Res nalumles dicunlur esse ueme secundum quod assequuntur simi- liludinem specicrum, quae sunt in mente divina (S. I, XVI, i). Ossvrvo, ohi; qui s. Tommaso iita la parola specie, in vvee di quclla d*idee. Egli avva in* srgnalo poco innanzi {S. I, XV, ii ), die io'Dio lion vi sono piii specie, ma pill oggelli vediiti, o idee. Quesle iuuguaglianze di parlarc, iiou radc a irovarsi odle opere di a, Tommaso, sono inevilabili io cbi taolo scrive, di si varic malerie, e per varj aooi ed accideuli della vita. Mb cio slesso mosira il bisogno di non sollermarsi alluua o allallra maniera di dire nsala da s Tommaso, ma di preodere 1 iulcro corpo delle sue dollrioe , qtiando si vuglia rilevame i foodamenlali e i prevaluoli coucelti ; c questo e, cbe noi alibiain tenuto di fare nelle varie note poste al N. Saggio, e ill questo Capilolo. Digitized by Google iiyS u verlla delle cose consislere Delia comparazione loro all'iuteU ulelto divinoM (i). Se dunque la verila,' secoodu la dotlrina dellAquinale^ conaiste nel rapporto delle cose colle idee diviue, o noi pos&iamo partecipare queste idee divine e aggiaslare le nostre specie a qnelle, o no. Se no, noi non abbiaroo. piii ve> rita. Riman dnnque che le ragioni. eterne o idee di Dio, seb> bene imperfettaroente partecipate da noi, sieno pur quelle che ci facciano partecipi del vero (a). ' 4- Un quarto principio, onde a. Tontmaso conchiude, che non si poasa spiegare Iorigine e la certa verila della, cognizione nostra senza far ricorso a Dio, si i queatu, che tutte le normc, secondo le quail noi giudichiamo, debbono esaere ihfallibili, e d'una dignita easenzialmente superiore alle cose giudicate. Ora giudicaiido noi eontinuamente or della verita delle cose, or della giuatizia delle aziohi, or della bellezza, or della bonla ecc., egli i pur manifesto, che noi dobbiamo avere alle mani tali norme,- le'quali aieno auperiori in' dignita a tutte le cose vere, giuste, belle, buone^ il che k quanto dire, che noi dobbiamo avere delle norme, che non nelle cose sensibili, non nelle crea* tore per eccellenti Ch sieno, ma in Dio solo .possano aver sede, e per& da Dio solo posadno a noi comunicarsi. - Anche qnesto nobilissimo argomento si deriva da s. Agostino. u Egli ^ diceva questalto ingegno, ufTicio di piii sublime in- utendimeuto, il giudicare di coteste cose temporali secOndo u ragioni incorporee e sempiterne: le quali ragioni se nOii fos- Nsero sopra Inmana mente, non sarebbero per certo iiicom* xmutabili, e ae ad esse non si aggiungeise qualche parte di KDoi stessi, non saremmo noi quelli che potessero giiidicare  delle cose corporee  (3). (i) Quia considerabant (antiiiui philotophi), quod vtrum imporUd corn- paraiionem ad inteUeclum, cogebaiilur yerilatem rtrum conslituere in online ad inlellectum nostrum. Ex quo inconvenientia setjuebantur, quae Pluloso- phus perstquUur in IK Metapir. Quae quideni inconvenientia non accidunt. si ponamus veritatem reriim consistere in compariilione ad inteilectum di- vinum (S. I, XVI, i, ad s). ' (7) Le partecipiaino poi, come fu Hello, perebi parlcclpiamo I'c'ite, cite di tutto.cnsliliii.sce I'inmiulaliilc fotidainculo. ^3^ Of Timil. XII, II. Digitized by E altrovc: a Di qiii A, dire, rhc anno i inalvagi prn Judxcape alitfuo de veritnte dicimur dupHciter, (Jno modo, sicut m8a iul'ornia, i data nel mio s!;letnn,neUa prima nalurale inluiziona dell' csserv , i data all'anim^ quetta dualita Giio dal primo suo csislere. Vha uu nesso fra I'rdte e Vanima. tl quale non  altro cbc I'intnizione permanente , necessaria, ma questa iii- tuizione non confonde peru mai la natura dellanima intuente; in quanto poi .si considera I'enle come termine dellintuizipne deli'anima, in tanto dicesi oggetto: rispelto poi all'afficio che egli presta di far conosccre all'anima tiiUe cose di cui ella esperimenti 1' atlivita, chiamasi lume, idea, o prima specie : e Gnalmente per I'evidenza con che dppaga lo spCrito, e da la prova irrepugnabile a luUe le cognizioni, appellasi veritd^ Quindi f-, che la dove i Kantisti, riconoscendo I'iinpotenza del lorsistenia a provare il mondo esteriore, nc lasciano in dubbio la siissisteiiza^ io allopposlo lamantengo, e di evidentc dimostrazione la com* munisco. Ma con\ien altendere come il G. M. savvisa di provare, clip il mio sistema sia impotente alia dimostrazione del mondo cslerno. Cosi egli seguita a ragionare:  Diffatto occorre a) Rosmini provare doe assnnti principa- u lissimi, circa il mondo esteriore. 11 primo i che eSistono i  corpi ed agiscono sopra di noi; 1' altro, che le cose tuttc u qiiante partecipano all'cssere, ma non sono I essere  (i). A me pare all opposto, che quando i dimostrato che esi* stono i corpi , e che agiscono sopra di noi , il mondo esteriore k dimostrato, e non si richiede di piii. u Tali due assunti vengono vulidati dal nostro filosofo con  queste tre specie di prova.  Che esistono i corpi fuori di no1, si dimostra evidenteroente'  dallaiTezioDe passive che cagionano al nostro animo, la quale u testimonia al tempo medesimo Iazione loro sopra di noi n.  Che le cose ricevano 1 essere universale possibile, come le u nostre idee lo ricevono, si manifesta da ciu, che Iidea pura  dell essere i essenzialmente obbiettiva, e essenzialmente di-  vena dallatto nostro conoscitivo; onde in quella debbesi u ravvisare Iesempio e il tipQ iufallibile di tutti gli esseri n. X II principio di sostan/a, ed il principio di cagione goveiv (i; P. II, c. XI, V. Digitized by Google  , io avrei preso. a dimostrare questo mostruoso as- sunto, cbe u le idee ricevono le idee Per grazia di Dio, non ebbi io mai.ancora tal coofusione ne' miei pensieri! Pero se il G. M- crede cbe io abbia voluto dimostrare il contrario appuoto di quello che ho voluto, e me ne da bia> simo, io debbo reudergli grazic della lode. , . L' argomentazione che mi attribuisce d questa: u Lidea pura dellesscre i essenzialmente obbiettiva, e es* u seozialmente diversa dallatto nostro cono.scitivo . u Oude in quclPa debbesi ravvisaro I'esempio e il tipo in- u hillibile di tutti gli esseri . u Onde le cose riceveno Pessere universale possibile, come  ]e nostre idee lo ricev6uo . Ma qual connessione v ha fra queste tte proposi/.ioni ? Un tale argomento non pure a me  novissima cosa, ma non i un argomento,  4. Dice ancora, che io tolgo a provare, che  il principio di u sostanza e il principio di cagione goverpano le cose e le  idee con eguale necessila . Or questo assunlo il dee aver letto il C. M. in quello stesso libro dove ha trovato Ialiro, che u le cose e le idee ricevono ugualmente Pessere universale possibile nj non in alcun libro scritto da me. Il principio di sostanza e quello di causa 'appartengono aU Pordine delle idee, e consistono, il primo a dimostrare che u nel concetto di accidente si contiene come sno relativo ilcon- cello di sostanza , il secondo in provare che h nel concetto di cominciare si contiene il concetto di un ente che faccia co- minciare . Se dunque tali princip) appartengono nel inio si> sterna aiPordine delle idee, non possono governare certamente le idee, le quali sono quelle che governano, e non le governate. 5. Ma con quale argomentazione pretende egli, che io dimostri quest ultimo assunto ? Digitized by Google 68.': u II principio di sostanza e di causa, cos'i egli, sono de- u dotti in maniera irrepugnabile dal principio nostro di ro- ll gnizione, che i, Toggetto del pensiere ^ Iessere, e di que- u sto venne gia dichiarata la necessaria esteriorita n. Dunque u il principio di sostanza e il principio di cagione u governano le cose e le idee con egnale necessita ! Chi ha letto il N. Saggio avra conosciuto facilmentc, chc non ^ per avventura questa la mia maniera d'argomentarc. CAPITOLO LVIII. CONTlNUiZIOHE. Ma dopo avermi regalato tali assurdi e tali dimostrazioni, egli si fa a combatterle. Convien dunque che assistiamo alio spettacolo di questo combattimeuto, dove un solo duellante fa le parti di tutte due. Le sue censure son le seguenti. Primieramente aiferma, che io deduco il mondo esteriore dalla passivita delle sensazioni^ u ma il punto sta a dimostrare u ch elle sono e debbono esser passive  (i). 11 G. M. aunnelte adunque , che dalla passivita della sen- sazione rettamente si argomeuti alia sussrstenza di un mondo iiiateriale ^ nia solo esige die si pruvi cotesta parssivila, ed ella nun la si lasci fra le cose chiarc da se, come ho fattio. Solo adunque provalosi che le sensazioni sieno passive, ri- conoscc qui per buono il niio argomento. ' Dunque falsaruente accusava da prima il mio sistema, dim- potenza di provare il mondo esteriore, come quello che par- tlva dalle forme dell' intellelto. iVon i piii dunque perch' io parta da una forma dell' inlelletto, che non mi riesca a provare il mondo materialej ma unicamente perch^ tralascio un anello nellargomentazione , creduto da lui indispensabile, tralascio cioi ' di provare la passivita della sensazione, e mi contento d' asserirla. Ma i egli poi vero che io non do prova della passivita delle seusazioni ? e vero chc allopposto il C. M. ne d^ una sufTi- (I) P. II, c. XI, V. Digitized by Coogle 686 cienle? E.intninlBmn prfnia (|iieslo seconilo piinlo. E a far cio bastera cli io scriva ijui soUo I argoinenlaziuDc Jel M. corre- ilata d' alcune annotazioni. DIMOSTRAZIONE CBB Da IL C. M. BELLA PASMVITA DELLE SENSAZIONI. u II nostro principio spontaneo i uno assoliitamente , e rac>  coglie nella sua unita I'oggetto pensato Ciu pertanto  cliu non i guar! spontaneo, e alia spontaneita contraddice, u t fuori di qnella unita, il che vsje quanto fuori di nostra  iiiente r> B).  Ma il senso del dolore non i spontaneo C)i e nulladi* u manco esso giace dentro I'unila subbiettira di nostra mente D);  ne segue che noi voglianio e non vogllanio ad un tempo  solo  E\.  La contraddizione dei fatti i sempre apparente F). Adun- u tjue dee esisleie tin terzo falto G), che spiegh! la qontrad-  dizione anzi esprcssa //), e fuori stando della spontanea u unita /) abbia quotidianamente L) forza di tenere unit! in  un subbicttu tnedesimo quello die i spoutaneo e quello die  no  A/).  tenza sensitiva^ e il coniondere la mente spirituale colla sen- sazione animale, A un bel prendere le gambc p6r la testa. E. Falso. DovA, cbe avendo noi un dolore, il vogliamo? e se il volessimo e il disvolessimo insieme, non solo noi saremmn piu che matli, ma non-uomini^ perocche a questi A di cib.fare impossibile. ' F. De fatli veri , si : ma de' falli supposli, no. Digitized by Google GSR G, Pcrchi dee esistcre un fatto , che tpleghi la contraddi- zionc a|)parente? Che c'osa^ lacontraddizioneapparentedefatti della natura? non i altro se non la m!a propria ignoranza, che non gl' intende a dovere. La contraddizione appareote adunque sta tuUa in roe^ e non ne' falti stessi, dove non puo mai essere alcuna contraddizione. Se dunque i la contraddizione uelle mie idee, non fa piu bisogno d'lin fatto esterno a spiegarla^ ba- sta che io aggiusti le inie proprie idee^ la lotta delle idee si appacifica scanibiando le idee od opinioni difeltose, con delle altre idee piii sane, piii giuste ed esatte, ovvero con delle me- iliatrici delle prime che battagliavano insieme. La conclusione del N. A. i adunque falsa, perocch^ dall' ordine delle idee in che stavano le premesse , salta in quello de'fatli. II. Uu fatto la cui esistenza si prova solo dalla necessity di spiegare altii fatti, e iina pura ipotesi. Quando adunque Iar- gomentaziune del C. M. prucedesse in tutto il resto diritta, pro- verebbe I'esistenza de' carpi esterni come iina ipotesi assunta a spiegare degli altri fatti, e nulla piii. E questa non ^ la di- mostrazione che si cerc^. I. Se il fatto assunlo per ipotesi e fuori della si>ontauella , come avra virtii di legare insieme neli unita soggettiva lo spon- taneo e il non ispoiitaneo? L. QiiOtidianamente ? cioe? una volta al giorno? M. Qui dice  in im subbietto niedesimo n, cid che di sopra ha ehiamato u unita del principio spontaneo,e aiiche  unita subbiettiva di nostra iiiente . Questo variare di espressioni in una inedesima argomentazione, e cusa contraria alle regole del metado GlosoGbo. Ma senza di cid, io dico, die qui egli pretende, chc quclla forza, che assume ipuieticamcntc a coiiciliare la contraddizione de' fatti, faccia I'impossibile. Di fatti, di sopra disse che  il u dolore d fiiori dell'unita soggettiva  per sua naiura, non esseodo egli spontaneo, nienire Tunita soggettiva d' Iunita del principio spontaneo. Sc dunqne il dolore d cssenzialmente fuori dell'unita del principio spontaneo, qual forza potra fare che il dolore medesimo sia deutro quella unita? non sarebbe questo on fargli caiigiar natura? -Ma se a quell.t forza fosse possibilc di u lenere uuiti In un Digitized by Google 68p  lubbietlo medesimo qaello che ^ ipdntaneo e quellb che no m , questo soggetto si comporrebbe di uo eleniento spontaneo e di un elemento non ispontaneo. Dunque Iunita di questo soggetto ^ diversa dall'unita del principio spootaoeo. Dunque so queste due unila sono diverse^ niuna maraviglia, che nel principio spontaneo non si contenga cib die non k spontaneo,' e che all'opposio nell'unita del soggetto egli si contenga, risuitando  richiederebbesi cbe foste ben cerlo, cbe tntto ci6 che i faori della uoitra spontaneila, fosse inori di noi. Ma all'opposlo il M. c'insegna, che la spontaneity non A cbe noa parte del NOI, la parte fenomenale, e I'nnita sna i ua'aniUt pnre fenomenale^ che v'ha oltracciy un soggetto occulto sostanziale, appiatlato sotto quel fenomenale soggetto. Or non puG Iazione cbe sof- feriamo nelle aensazion!, venirci da qne^to soggetto a noi oc* cnito e faori della nostra spontaiieita fenomenica? Da tntte parti adnnque vacilla la dimostrazione del mondo eslcrno, che ci di il C. M. CAPITOLO LIX.  ' ' ' . % COaTIHDAZIONE. Ci resta a vedere, se sia ragionevole la censura ch'egli fa alia dimostrazione nostra. Secondo lui, ci6 che manca alia nostra dimostrazione del mondo esteriore, si i il non aver noi provato la passivity delle sensazioni. E generalmente, di tntti quelli cbe tentarono dimo* strare il mondo esterno, egli dice;  se noi non prendiarao ab>  baglio, qnello ehe manc6 loro fa di notare e rilevare piii espli* u citamente il confondersi e compenetrarsi dei due sentiment! u nella onita perfetta e assoluta del nostro essere intellettivo  ( )i e crede che la sua dimostrazione st vantaggi dall'altre per que- sto, che stabilisoe bene questa unity. Ma qui ci si prewntano diverse osserrazioni. i. lo bo giy osservato, che il M. confotide Tunita del prin* eipio nostro ipontaneo, ooiPunity del soggetto; la quale non si rompe per cadere nello stesso - soggetto de' fatti attivi , e de' fatti passivi; quando ansi sgli i appunto un essere parte pas> sivo; e parte attivo; e non pu6'esser altcamente, perocche tali soBO tutti i oreati. a.* Osservai ancora, cbe egli confonde Tuniiy del priucipio spontaneo, collunity dell'essere intellettivo, o della mente; (l) P. II, C. V, 111. Digitized by Google 6f) I quango 1e leasaMoni non hanno scde nella mente, dm nella acDsitWitji. 3.* Ma o1lracci6 ouervo, che il aentimenlo pasiivo  atlivo non si'^dee raai confonderej ni coaipeneUare I'uno noU'allro: anzi si debbono tenere ba diilinti e separati questi doe sen* tiaacntl, siccome doe modi inconfusibili, e che taltavia si poc- aono trovare insiem^ c si trorano in un soggetto. 4-* Che se la censura del C. M. si restrioge a dire, che a maned loro (a' illosofi) solo di notare e rilcTare pin espliciU- mente  Ponila assolata del soggetto, dove t'adunanp i.fatti passivi ed attivi, ella i censura assai leggierc; peroicchd viene a oonfessare, che qnesla unila fu uotala, ed anco esplicila- mente, ma non taolo qnanto esso C. M. avrebbe volulo. 5.  Quanto a me, il JIT. Saggio 6 starepalo^ peru egli mi la testimonianza appresso quelli che I'avraiuio letto,. o vormnno darsi la pena di leggerlo, che a Icngo favello dellunila del- Yh, non solo Come soggetto uoico de falli attivi e passivi che in esso avvengono, ma ben anco coiue soggetto unico dtiUe seo> sazioni e delle intellezioni^ nella quale uuicila ripoogu la pos sibilita di tntti i ragionnmenti. 6. * Ma voi non provate, che le seotazioai sieno passive.  ~ Lo provo e collo stesso argomento che usa il CL. bL a provarlo,  in un ' modo asaai pih gencrale. I.'argnmentu del M. h dedotto da sole le sensaziooi dolovose, c da noi non volote. II che non basta^ come bo notato. Se le sensaziooi fossero passive per esser dolorose e non volute, le .sensazioiil piacevoK sarebbero atlivc^ il cbc i Un assurdo. Le M-iisazioni so no passive perclii sono neCessarie e non dipeodcuti dal voWr nostro, le vogliamo poi aoi o non le vogliamo. Le ragiooi onde io ho provato la paasivita delle sense' rioni sono le seguenli: n) La coscienea, la qaale ci dice primieramente, che tanlo i falti attivi come i passivi cadoao nellcaiTa' del soggetto, e che di alcimi damo nm la cagione, di alui ao. Cost si legge Iiel JY. Saggio: oTutti i fatti cbc in noi avvengono non sono che modiB* u cazioni dello spirito nostro. 11 nostro spisilo adunque i il u soggetto di lutti que' Call!: la coscienza ee u'acccrla, poiche 6()a  con essa dico u io sono quegK cbe sente, che gode, che ad- odolora, che pcnsa, che vuole, ecc. , il che h un affermare  che sono io il soggetto di questi avvenimenti  . ^uPure de' Jiuti passivi, se siamo il soggetto, non siarao la ocaglone, poich^ non avvengono, come abbiamo detto, per (Fazione nostra, ma noi li soffriamo, e li riceviamo da chec> u chessia in noi prodpUi, contro, o almeno Senza nostra to> > ioota X ( I ). b) Uosservazione interna, la qnale ci mostra la necetsila di alcuni fatti che in noi avvengono, o sieno dolorosi o piacevoli. uCosi, se io mi sto cogli ocehi aperti e volti rincontro al sole, egli i per poco impossibile ch'io non vegga rabbagliante usplendore, e non senta i raggi acnti chentrano nelle min xpnpille: in mezzo di una strepitosa banda militare, io udr6,  anche contro mia voglia, il snono delle trombe e de' Umburi> KOve pure non mabbia gli orecchi ottarati: punto da un ferro  o da uno stecco, io addoloro, sebben' non piacciami addo- lorare, poichi a nessuno i grato il dolore: e per dir tutto in  un motto, ovio non fossi passive nelle sensazioni che nel mio KCorpo si suscitano, io potrei a mio grado cacciar da me tatta  le sensazioni moleste, aver tutte le dilettevoli, non sofierir u mai, non morir mai  (a). c) Jl ragionamentOj argomentando la passivita dellit sensa-^ zione dallo sforzo che no! dobbiam fare pCr evitarla. u L'astrazione e alien'azion di mente i mai sempre un co- utale sforzo per parte nostra, i nnazion faticosa e violenta, u talora essa e di tal travaglio, che ci i impossibile di reggervi^ Ora a che mai tanta fatica? certo a ritirarci, e fuggire dall'a-  zion del dolore, o di alcunaltra sensazione che non vogliamo  . uDunque usiamo in questo sforzo lattivit& nostra a sot-  trarci da una forza che ci vien contro, e ci vuol far soiferire^ u Ma dovi bisogno d' una forza a impedire un eSetto, ivi & u manifestamente la forza in contrario che tenta produrlo: im- u perocchi la reazione suppone I'azione, e la forza che elide u suppone quella che viene elisa. L'attivita dunque colla quale (i) Sei. V, c. IX, rl. *11, 2 2. (3) Scz. V, c. IX, art. xn, 2 > Digitized by Coogle ;,3 noi evitiamo talora I'esser passivi, i prova della nostra pas- usivitan (i). Or a me pare, cbe quest! tre argomenti siano sufEcienti a ferraare la passivita della sensazione. Laonde, non dimandandocl il C. M- che questa sola dimo- strazione della passivita della sensazione, per concederci che abbiam giustamente provata la sussistenza del mondo esteriore^ noi crediamo di avergli soddisfalto col mostrargliela in quest! brani del N. Saggio, e col rimetterlo a moltaltri che gli fia agevole rinvenire nello stesso libro. CAPITOLO LX. DEL FRIRCIPIO DI SOSTARZi E DI CAUSA. Intorno poi a qnello che ci oppone il G. M., rispetto alia scconda delle tre specie di prova cbe ci attribuisce, noi ab- biamo altrove ragionato. = Ci riman solo di agginngere qualche osscrvazione a quanto ci oppone intorno al principio di sostanza e di causa. Udiamo pure le sue parole;. u Al terzo argomento, che prova Iesteriorit^ del principio  di sostanza e del principio di cagione, si risponde:  se non  scinbra provato I'idca dell'essere uni^rsale c possibile, e la  sintesi primitiva di quella con tutte le dcterminazioni parti- ucolari avere un'esterna realita, cadono eziandio tutti gli altri  ragionamenti con cui dall'intrinseco necessario si vuole ar-  guire I'estrinseco  (a). 11 N. A. qui confonde manifestamente I'opcrazione chc io cliiamo sintesi primitiva, coll idea delPessere universale. La sintesi primitiva i il giudizio che noi facciamo delPesi- stenza di un diverso da noi, in sequela delle sensazioni da noi ricevute. O sia che si descriva a un modo questa operazione dello spirito, o sia che si descriva ad un allro^ ella i da tutti vgualmcnte ammessa siccome un fatto. (i) Sei. V, r. IX, rt. zii, g i. (a) P. II. c. XI, V. Digitized by Google E veramente egli i mediante qnesta lintesi, o giujizio, cbe il M. vupl provare il mpndo materiale, appunto come il provo io. Dunqoe ritpelto al valore estrinteco  reale di questa sin- tesi, cade la sua ceosura^ perocchi per essa Tuoiuo non ista rilirato, per cosi dire, nel solo mondo ideale, ma discende, viene attaccandosi alle sensazloai real!, dalle quali induce i corpi. Non ha dnnque luogo la sua censura, rispetto all'este- rtor valore della siotesi primitiva. Solamente i da notarsi, che il norainare, comegli fa,  una estema realita  della sintesi, i maniera impropria. La sintesi, come ogni giudisio (e un giudizio i sempre una sintesi) si fa dentru di noi, ma si fa in occasione di un impulso sensibile che ci viene da fuori, e sul quale appunto noi giudichiamo. Non ha dunqiie la sintesi u csterna realita n, ma bensi ell'ha valore di provare I'esterno^ il che il M. stesso non pu6 non accordarci, ed io ne do lunga prova nella sesta Sezione del N. Sagg'o (i). Ma egli .vuole che non solo la sintesi primitiva, ma ben anco I'essere universale e possibile abbia un'esterna realita. L'abbiam vednlo, non ha inteio il mio pensiero. L'csscre possibile, per dirlo di nuovo, appartiene allordine ideale, anzi i d6 appunto che costitnisce quellordine : in vano adunque rercberebbesi in lui unesterna realita. Non deesi giamrnai con* foodere I'ordine dclle idee c Iordinc delle cosc, la forma ideale e la forma reale dcllesscre. Ma sebbene all'esser possibile noi non attribui^o la forma reale, il cbe sarebbe contraddizione ^ noi per6 diamo a lui una vera distinzione dalla mente nostra, anzi una distinzione inlinita. Ripete tutlavia la stessa accusa poco dopo, dicendo del prin- cipio di causa, che  quanlnnque discenda diriltissimo dalla sna tesi fondamentale ( delTAb. Rosmini), non pare a noi che  possa o debba considerarsi per ci6 quale verita obbiettiva e concrcta, ma invece cb'ella rimanga una deduzione logica u pura duna forma intellettuale  (a). Non abbiamo .iioi voluto fame di pin*, e non potcvanio vo- (I) Cp. VIII e IX. ta) I. II. c. XIII, V. Digitized by 6()5 Irrne dl pi^, poichi sarebbe stato an volerne I'ioiposslbile. Dei principj della ragione non lice a noi fare quel che voglla- ino^ non avendo noi altro potere , che di esporre quello che sono. Or cercando che aia quel principio  I'efietto dee avere la sua cagionen, troviamo chegli ^ cosa che appartiene tutta all'ordine delle idee^ per6 se noi volessimo fame una cosa esteraa, reale, non faremmo che sostituire al vero la creatura della nostra immaginazione, Lo stesso si dica di tutti i principj general!: essi non eccedono I'ordine logico, appunto perchd sono general!. Cost quando io dico u ogni effetto , non determino questo nd queireffelto reale, ma uso dell'idea di effetto a significare qualsivoglia effetto possibile. E tuttavia, sebbrne le idee e i principj logic! non appar* tengano all'uni verso reale, ma solo all'universo ideale^ non i per6 a credersi, ch'essi, ajutati daltri amminicoli, non val- gano a dimostrare pienamente e farci conoscere le cose reali e sussistenti. Ci6 che io ho dimostrato, non i dunque, che la sola idea dellente, o i soli principj logic! ne'quali ella si couverte, pro- vino imuiediataniente'la realita de' corpi o degli esseri sussi- stenti: qnesto non trovasi nel mio libro. Hb dimostrato in quella vece il contrario. Ho dimostrato ancora, che I'essere ideale intuito dalla mente non e la niente, ma cosa interamente ed inflnitamente da lei dislinta: ho di- mostrato che questo non prova ancora la sussistenza del mondo corporeo, ma che spiega bensi la facolta che ha la mente di pensare, o d'intuire un diverso da si, un mondo esterno pos- sibile. questo il primo passo che si conviene fare: egli i difficile a spiegare questo solo, come la mente concepisca l\ possibilita' d'un qualche ente fuori di si. Concepire un ente possibile diverso da si, i gia concepire un diverso da si. Dopo di ci6, rimane ( e questo i il secondo passo ) che il diverso da si, che gii si vede nella sua pussibiliti, si perce- pisca nella sua realiti. A compire questo passaggio della meute, pel quale ella si Digitized by Google persuade, che quello che gia vede possibile, sia ancora tussl- slenle, vengoao in ajuto la sensazioni, o piu in generale i sen* timenti. E i sentiment! appartengono al mondo reale, il quale con> siste appunto nel sentimento, e nei confiui e modi di questo, lo spazio, la materia (i). V'ha unita o piii tosto identita fra il soggetto che intuisce I'ente possibile, e il soggetto che sente Tente reale. Il soggetto dunque percepisce I'ente possibile realizzato nel sentimento che prova: cioe si persuade, che quell'ente che priina intuiva come possibile, sussiste aoco nella sua realita. Ecco in breve la dimostrazione del mondo esterno, che a lungo ho svolta nel jV. SaggiO} e in tutte le sue particolarita dilTusa ed analizzata. In questo riassunto della mia dimostrazione si parla de' sen* timenti in generale, collajuto de'quali il soggetto sensiti\o-in* tellettivo si persuade di un mondo reale. Vogliamo speci(Icarequestisentimenti7Facilmentesi fa questa specificazioue. * Vi ha un sentimento delP/o. Questo ci prova la realita del* Ianima immediatamente. I y' ha un sentimento del proprlo nostro corpo. Questo cl prova la realita del corpo nostro, con un argomento, in cha Tidea delPente si trasforma in principio di causa. Vha un sentimento acquisito, che i modificazione del sen- timento del corpo nostro. Questo ci prova la realita de'corpi esteriori al nostro, con una forma di argomentazione, in cui si fa uso dell'idea dell'ente sotto forma di principio di causa, e anco sotto forma di principio di sostanza. Come si giustifica il principio di sostanza? Con dimostrare, che negare la sua efficacia esterna, i un negare che I'ente sia possibile (a). Come si giustifica il principio di causa? (i) Ho giil dimoslrato, die lo spazio non i die un modo delle sensa- lioni, e la materia i Tormaln da spazio * da forza sentiln. Vedi N. Saggio Set V, e. XVI, c XXIV, art. vii. fz) Scz. V, c. V. Digitized by Google %7 Col provarp, olio negarc la siia vcrila e il suo valurc (oslernu), i 1111 negare che I'ente sia possihile (i). A che si riducono adunque tutte quesle dimostrazioni ? A queslultinio prlncipio:- uL'ente i possibile che & ciu chio chiamo priacipio di cugnizioiie. Quelli che negano u la possibllita dell' cate n, soao i soli pertanlo che possaiio rinutare il aoslro ragiooameulo, il quale iiiuove dal piii cospicuo de fnlti, dal falto per si evideate, dal falto solo evidente, e ncirordinu logico aiiteriore a tulti i fatti. (i) Sii V, c. V- F 1 N K. PiOSMisi. Il Uliwoiamrnfo. 8d Digitized by Google Digitized by Google T N D I G E DEGLI AUTORl CITATI IN QUESTOPERA Agoftlino fs.). 4^> ^8i, 48^-4H8. 4h>4^. 5i8-52^ 53i, . Alrinoo, 4^*7  AksaanHro Afrodisio, 47o Alrxsnndro di Airs, q(>o, 645. Arnbrogh} 488. An.i5iagora)~Xifi (tat*.)j 34ij 58o*58q^ S9L. Anassann, r>8a. AnaMmanclro. ^74> S^S, 583. Anaisimrnc, 583. Aiikclmo (a.), 445, 485. 5a6^ G3i. Apiilfjo, 555. .ArrbiU, 579. Ario, f>337^ AriMippo, 5fi4-56S. Arislulele, 1 95,^44. 3ifi ftau.jj 585, 58(t. 537^ 588, 5^zio,  fi37 639. Bonnet, 3i6 (tay.)t 5oi, 65d. BoiiHirr, 3oi. Brunu ^Giordano), ao>a3 C Camp.inrna, a3a5. iG3, toQ, aoiao4j aSTi, ^95, 3i6 (tav.)^ 4^^ Carprnlari, Cirteaio, 37. a5t, a54. 375, a87-3o3. 3io, 333334, 44a. Cefante, CbiaTacci, 177. Cicerone, 3.io. 3a4. 4ni 473a6,344.470-47ij 586- 588 57 c. Euftcbio di Ceaarea, 48a. Eualraaio, 463. F Fichte, apa, 3a5, 334, 347-349# 3Goj 4o9-4o. |**tctno, 4o8"4f)9 Foacolo (Ogo), 34a. G. Gaasendi, 334. Genoyeai, 4 19. Gerdil, 3ia, 355, 4q9. Giacobi, 33o, 36-j. Giustino (a.), 48a. Goudin, 643. Hartley, 654. Hegel, 3ii-3ia, 3i6 (tat>.)^ 344 3$a> 356.369. Ilobbea, !ii6 (tat^.), 34a, Sa6i Hook., 3i5. liuet, 3i6 (iav.)t 3a8. llario (a.), 53o. Ippocrato, Isucrate, 35:). Jamblico, 354, 487, 470j 479 870, 573, 577-578. Joutfroy, 4ii K Kant, ao3, 3i6 (la*'.), 36o, 36a-363 , 53i-^ 54a. 645. Klaproth, 44t)* Krug, 358. Laerxi'' (Diogrne), 3ao, Spt. La Manila, 3i6 Digitized by Google LrtbniiiOf q43-^44> Lrucippo, 564. Loclir, 1 63, 3i 48?! Mclisso, 5 80. Wercnrio TrismrgislOi 670. Mocrnigo, aQ6. IVIoninio, 583. Moiro, 467- Mohrmio 35C. N Nrwlon, 384- Niculo di Cnaa, 376. Nicnmaco. 4^>9*470i 479 Niaolip, 2^ O Oeoello, 455. Ochino, 3o3, 3i6 (tav*), 3a8-3ji>. OLramo, 5 17. Oral) ((>are drgU), 3ai. Orignic, 484^ 6uj^ Pachiroera (Giorgio), G18. Parmcnide, 3ai > 346 , 353*354 1 466, 5i8-5io. 576-580, 586. Patriaio, T5i. Pelario, 468, ^4 48^ 618. Pittagora. I16 V tav.)  348, 35o-357, 36 1, 36q, 425, 44i 465-46*) I PUlone, j44. 3ai. ja3-3a5. 344. 34^, 35^356, 4^5, 44*. 4^*~475, 4So-4H . 484. 4^> 40Qr~^** 5i8j 583, 588. 63,.633, 636, 669. FUuto, 3ita, Plutioo, 34?> 35?, 47^-4?^. 635.636. PluUrtio. 8a5.~553. 465^66, 468, 4"*> 478-4'. 9, 5:6.578, SSl, Poll, a!L Por&rio, 356. Sa;. Poasiilonio, 347, 487. Prisllry, 654. Procio, 346,' 4^. ProfrMori d> Coin bra, 5i7.53. Prutagora, lifi (uw.), 3lQ, 3a3-3a5, 344, 564.565. Ptrllo, 471. Rrid. a8i. lifi fioi'.), 3a6, 33o, 38j. 38a, 045. RrinlioM, 3S (lav.), 3a6, 334, Kontagnoti, 3ii.3i 1 , 3 if, (lav), 33o- 34 1  378, 383-386, 4o3-4o5, 43o, 442^ 45i* 45a, 5j6, i>ii, 635. Villorioo (.Mario), 488, I Zarata, 465. Zenonc, 443, 5 80. Zoroaalro, 449* Digitized by Google I N D I C E ] NTUOnUZlONE pag. I UBRO PRIMO. Dl l nesso fra la questione deirorigitie MU idee c qiiella della cerletta deWwnane coffiizioni  7 LIBRO SECONDO. I o5 Dcltorigine detU cognitiotd I. Ordin. ..2 Caimt. XIX. Tt't atti necfttar/f trrnndo il M-imiani, /i /^rm57 Capit. XX. ('oniinuazione : e J'nlsn cht Ia concettone de termini paraf>0' nabiti nnn tin t^iudizio i ^ Capit. XXI Continuazinne : Vintuizione del C. !^Iamiani *sige un giu ditto, e delle idte preceilenti. l(jf CahT. XXII. La percezione e anieriot'e airintuizione del C. M.  dlta percetton* e e/itenoi'e V idea delCetsere, eecondn H Mami.nu w Capit. XXIII. Al /nrne de* termini e anleriorc V idea delC essere ' .  iGi Caiit. XXIV'. L'idea delVetset'C non e un prodotto tiell'aslraztone, come iri5 ifi5 Cap IT. XXVI. H C. M. non conoece la natura delVidea delVessere H 170 Capit. XXVII. Esame del modo, onde U C- Mamiani preUnde sptegare la /'ormatione delTidea dellessert 1 tG Capit. XXVIII. Continuazione .7S Capit. XXIX. Cnntinuazione: cintjue errori del M.'imi.ini intorno It ope^ rasrnni del pnragonat't^ e delV astrarre '10 Capit. XXX. Continuazione 181 Capit. XXXf. Si trne conferma alia nottra dottrina dalle astrazioni che fauna i bambini 'O' r.iiir. XXXII. Ahrn fattOf che conferma la nnxtra dottrina: Una tendenta a ripular te cote piii tosto simiti, cite dttsimili .... iij6 C.i-ir. XX.XIV. Errori. e eontradditione del hitmitni in ittabiitre la na- tura del simde che in niu cute si ratn^Ua "loi Capit. XXXV. Continuazione 20f Capit. XXXVI. Continuatione : le imprettioni dittinte non ti pottono con- centf'are in un tentorin organico , ma solo in un* iilea ad ette preetittrnte 30T) Capit. XXXVIII. Gli sCorti del .Mamiani a tpiegare la generazione del. Villen delVettere nri//n ottengono 111 C1IT. XXXIX. Continuazione: aftnluppi in cut si perde ii Mamiani \ . rs aia ii'i Capit XLI. Continuazione 110 Capit. XI. II. Continuatione 1*1*1 iVi LIBRO TERZO. Ddla certezza dellc cosnizioni wnanc Capit. 1. Pifesa dei filotofi che kanno cetxalo un criteria del vero . n Capit, 11. (Aitutnuatione >4! Capit. 4) Capit. IV. Continuatione a5o C.APir. V. t'onfutazione del entetio del rero pt'oposto dal C. Mamiani  Capit. VI t.ottUnuazionc . M jtw Digitized by Google Cavit. VII. 5.' Capit. VIII. Continuazione , q6(j Caht. IX. 567 Capit. X. Coniinuatione ^7^ Capit. XI. Continuazione ;(> Capit. XII. Continuazione Capit. XIII. Paravane del Manii.iDi con Cartcsio 287 Capit. XIV. ro/i/i/ua*ion " 3 Capit. XXXVU. Grgpi conseguenze del xisieina del C. Mamiani. . .  4^^* Capit. XXXVIll. Contintiazione . ; ^ ^ ^ ; 4 Capit. XXXIX. DelV immutabilita delle idee  4**4 Capit. XL. Conlinuaziune : antica dottrina italiang mlV immutaiilua delle idee, ricevula poscia ancUe dalla JilosoJia gitca  ^Aprr. XLI. Continuaiione  4^1 Capit. XLII. Pifoma delta fiioeo^a itolica fntta da Padri della Chteig.  4tq Capit. XLIIl. DetPintima -nalura delU idee, e della vof^nizione . ! i  4"PJ Capit. XLIV. Continuazione " ap4T. XLV. Continuazione a Siii Capit. XLVI. Cor^utazione radicale di ogiii tpecie di norninalurno  5kj Camt. XLVII. Sola conjutatione pouiUle della sceiticixma . ... n 53o Capit. XLVIII. Come il sensismo abbia sempre condotto 1 fHosoJl alio eeeuicismo  .^^3 Capit. XLIX. Co/t9^ Orrf -.^ by Google C*f ir. Mil. ('orttiniiatione it! r,J4 M Si con/'erina In teoria JtlCentt qtinl tunit thUa ra^iana col- Vautoritd di t. / o/n//ii<m* (Iclla vcrtia, JrU.t cognUione, ilcHa vciila. M R // N. Sjggin i cita stcando Vfdiziane M Hiwhi Digitized by Google Digitized by Google Digitized by Google Antonio Francesco Davide Ambrogio Rosmini Serbati. Antonio Rosmini. Rosmini. Serbati. Keywords: gl’agiati, Agostino, Aquino, la tradizione Latina italiana. Refs.: Luigi Speranza, “Rosmini e Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Serbati.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sereniano: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sereniano was a philosopher who visits the emperor Giuliano. He followed the doctrine of the Cinargo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sereno: la ragione conversazionale dell’ondella tranquilità dell’animo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He belongs to IL PORTICO and is a friend of Seneca. Seneca dedicates some of his works to him. In the dialogue “On the tranquility of mind,” Seneca depicts them discussing the problems S. has with maintaining his firmness of resolve. Anneo Sereno.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; osia, Grice e Serra: la ragione conversazionale dell’economia filosofica – storia dell’economia romana – massoneria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Dipignano). Filosofo italiano. Dipignano, Cosenza, Calabria. Mercantilista. Considerato il primo filosofo dell’economia politica in Italia, e uno dei primi in Europa. A lui va il merito di avere composto per primo un trattato scientifico, seppure non sistematico, sui principi e sulla politica economica. Poco si conosce della sua vita: laureato probabilmente in utroque, imprigionato nelle carceri della vicarìa di Napoli forse a causa della sua partecipazione al complotto architettato da CAMPANELLA per liberare la Calabria ma più probabilmente dietro accusa di falso monetario.  Mentre e in carcere compose “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d'oro e d'argento dove non sono miniere” e lo dedica al vice-ré di cui spera l'aiuto. Riusce a farsi ricevere dal nuovo viceré, III duca d’Osuna, per proporgli un programma di riforme utili al Regno. L’incontro fu infruttuoso e e ri-mandato nelle carceri della vicarìa, dove probabilmente muore. Essendo molto gravi le condizioni finanziarie del Regno di Napoli -- esausto il tesoro pubblico e l'onere del fisco già così gravoso da indurre molti a lasciare la città per sottrarvisi -- Santis propone di limitare l'esportazione della moneta e di abbassare i tassi di cambio con le piazze estere. La polemica con Santis è alla base della proposta di S. Dimostra con esempi tratti dalla antica storia romana  l'inutilità e anzi il danno di questi presunti rimedi. Da ciò trae occasione per spiegare la vera causa della prosperità della nazione italiana. Analizza la causa della scarsità di moneta nel Regno di Napoli e il fattore che puo invertire questa tendenza economica. Il primo ad analizzare e comprendere appieno il concetto di bilancia commerciale incluso il bene di servizio e il bene del movimento di capitale. Spiega come la scarsità di moneta nel Regno di Napoli e causata dal deficit della bilancia dei pagamenti. Utilizzando le sue scoperte e in grado di respingere l'idea per cui la scarsità di denaro e dovuta al tasso di cambio. La soluzione prospettata al problema e indicata nella promozione attiva delle esportazioni. S. segna il distacco dalla concezione moralistiche scolastica per passare ad una spiegazione laica ed è assolutamente innovativa per l'epoca tanto che Croce la define lampada di vita. Galiani a scoprirlo, tessendone un elogio in una nota del suo celebre trattato Della Moneta. Chiunque legge questo trattato, scrive, resta sicuramente sorpreso ed ammirato in vedere quanto in un secolo di totale ignoranza dell’economia filosofica ha S. chiare e giuste le idee della materia di cui scrisse e quanto sanamente giudicasse delle cause de nostri mali e de soli rimedi efficaci. Galiani paragona S. a Melon e a Locke, considerandolo superiore per avere vissuto molti anni prima in un'epoca di ignoranza dell’economia filosofica.  Egli, che in vita era stato del tutto trascurato e per secoli, tranne appunto quell'elogio di Galiani, completamente dimenticato, dopo molto tempo è stato finalmente riscoperto. Addante, Cosenza e i cosentini: un volo lungo tre millenni, Rubbettino, Martelloni, Regno di Napoli e Terra d'Otranto, Aspetti economici e sociali di una crisi, in Perrotta, La scienza è una curiosità. Scritti in onore di Cerroni, Manni, Benini, Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza. Avendo ottenuto di parlare al vice-ré duca d’Ossuna per comunicargli cose utili allo stato, e udito, presenti i consiglieri, ma, giudicandosi che avesse detto ciarle e chiacchiere senz'altro concludere, e ri-mandato al suo carcere. Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno, Ecra,  Destefanis, Illuministi Italiani, Galiani, Milano-Napoli, Galiani, Della moneta, Napoli, Salfi, Elogio, primo filosofo di economia civile, in Addante, Patriottismo e libertà. L'Elogio di Salfi, Cosenza, Custodi. Scrittori classici italiani di economia politica, Milano, Pecchio, Storia della economia pubblica in Italia, Lugano, Narrazioni tratte dai giornali del governo di Girone duca d'Ossuna vice-ré di Napoli scritti da Zazzera, Archivio storico italiano, Savarese, Trattato di economia politica, Napoli, Ferrara, Prefazione, in Trattati italiani, Torino, L. Bianchini, Della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati, Napoli, Andreotti, Storia dei cosentini,  Napoli, Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza; Fornari, Studii (Pavia); Amabile, Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia” (Napoli); Marco, Teorie economiche, Memorie del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, classe di lettere e scienze storiche e morali, Benini, Sulle dottrine economiche, Appunti critici, in Giornale degli economisti,  Economisti, Graziani, Bari, Arias, Il pensiero economico di S., in Politica, Croce, “Storia del Regno di Napoli” (Bari); Economisti napoletani, Tagliacozzo, Bologna,  Einaudi, Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Schumpeter, Storia dell'analisi economica, Torino, Rosa, I critici, Atti del Congresso storico calabrese, Napoli, Galasso, Economia e società nella Calabria” (Guida); Nuccio, Rivista storica del Mezzogiorno, Colapietra, Introduzione, in Problemi monetari negli economisti filosofici napoletani, Colapietra, Roma, Aquino, L’approccio monetario all'analisi della bilancia dei pagamenti, in Studi economici, Colapietra, Genovesi in Calabria, Rivista storica calabrese, Manoscritti napoletani di P. Doria, Galatina,  Toscano, La disputa sui cambi esteri del Regno di Napoli, Rivista di politica economica, Rije, ed. anast., Napoli, Ricossa, Cento trame di classici dell’economia, Milano, O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, Sassari, Il Mezzogiorno agli inizi del Seicento, Rosa, Roma-Bari, Alle origini del pensiero economico in Italia, I, Moneta e sviluppo negli economisti napoletani, Roncaglia, Bologna, Zagari, Moneta e sviluppo, Rosselli, La teoria dei cambi,  Landolfi, Valentia, A. Placanica, Storia della Calabria (Roma); Roncaglia, Rivista italiana degli economisti, Addante, Repubblicanesimo e mito di Venezia, Istituzioni e sviluppo economico, Roncaglia, La ricchezza delle idee: storia del pensiero economico, Roma-Bari, Grilli, Visto da Grilli, Roma, Villari, Politica barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza, Roma); Roncaglia, S., in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Roma,  Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero, Milano; Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno, Roma; L. Addante, La politica del Breve trattato (Soveria Mannelli). Mercantilismo Storia del pensiero economico. Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia. Antonio Serra. Serra. Keywords: massoneria, circolazione degl’idee massoniche, mito di Venezia, economia romana, l’economia del liceo, roma antica, antica roma, Machiaveli, mercantilismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Serra” – The Swimming-Pool Library. Serra.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sertorio: il deutero-esperanto nella filosofia ligure – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. S. partecipa al dibattito pubblicando dapprima il saggio  “Elementi di grammatica analitica universale,” poi “Un esame filosofico della grammatica universale,” e, infine, “Il problema della lingua universale.” In quest'ultimo saggio, a proposito dei diversi sistemi inventati – incluso il deutero-esperanto di H. P. Grice, S. individua tre fondamentali tipologie di lingue ausiliarie. Il primo tipo comprende quella categoria di linguaggi che definiamo a posteriori che riprendono alcuni, o tutti gli, elementi, non di rado modificandoli, da lingue storico- naturali, come può essere l'italiano, il francese, il cinese, ecc.. Il secondo tipo è costituito da quelle lingue che definiamo a priori con le quali è possibile comunicare sia in via scritta che in via orale, ovvero che presentano una forma ideografico-fonetica tale da permettere non solo la semplificazione della scrittura, ma anche una sua agevole e veloce riproduzione tramite foni. L’ultima tipologia è costituita da quelle lingue che adottano delle scritture tipografiche, crittografiche, numeriche, nelle quali gl’elementi fondamentali della lingua sono utilizzati per trasferire solo l'idea della cosa che si vuole comunicare, ma che non presentano un reale metodo di comunicazione orale. Della seconda categoria discute ampiamente nel primo saggio dedicato al problema della lingua universale, che intende come lingua adatta alla comunicazione tra persone adulte, che hanno già delle idee proprie sviluppate attraverso l'uso della loro LINGUA MADRE – l’inglese oxoniano di H. P. Gice. Qui S. s’occupa innanzitutto della definizione del sistema numerico della lingua ideale, e ne propone di due tipi differenti, sia a base decimale che sessagesimale, e, poi, del suo sistema GRAMMATICALE – cioe, morfologia, sintassi, morfo-sintassi – (“Pirots karulise elatically”) e lessicale (“pirot, karulise, elatic”. Le informazioni seguenti sono tratte da S., Elementi di grammatica analitica universale,  Porto Maurizio, Tipografia Prov, di Demaurizi. Il sistema decimale  romano – I II III IV V VI VII VIII IX X -- S. associa ad ogni numero da 0 a 9 una consonante, secondo le seguenti corrispondenze: 1  = b, 2 = g, 3 = d, 4 = c, 5 = 1, 6 = m, 7 = n, 8 = p, 9 = 1, 0 = z.  A partire dalla virgola che separa i numeri interi dai decimali si pongono in ordine da destra a sinistra le 5 vocali (a, e, i, o, u) e questo ordine è invariabile. Le vocali vanno scritte al di sotto delle consonanti precedenti e, durante la lettura, questi nessi di c+v (che possiamo allora intendere come SILLABA – ma, pa, da) sono da pronunciarsi assieme (del tipo “be” e non “b – e” (prima articolazione). Le cifre devono sempre essere raggruppate a gruppi di tre, secondo l'ordine decine, centinaia, migliaia, milioni, ecc.) e laddove non vi sia alcuna cifra a coprire le sedi di queste terne si inserisce lo zero. Si avrà allora qualcosa di simile all'esempio successivo: 372,215,8976,340 -- 4 d n g    .cgb.1pr. n m d    Z e  a i a u i  e  a. Il numero così composto in italiano si dicee "trecento-settanta-due miliardi, quattro-centovent-uno milioni, cinque-centottanta-nove mila, sette-cento-sedici virgola trecento-quaranta.” Nella lingua di S. solamente "denagu, cogibe, lapuro, nibema, ducozi.” I vantaggi sono molteplici, come dice Frege – nella trauduzione di Austin per Blackwell, favorita di Grice -- se si riconosce oltre all’evidente brevità – cf. Grice, “Be brief (avoid unnecessary prolixity (sic))” -- anche il fatto che in un sistema numerico-alfabetico di questo tipo le vocali che occupano un posto fisso permettono d’individuare perfettamente l'ordine di grandezza di ciascuna cifra senza dover ricorrere ad altre parole per indicarlo. Cosi si sa che la combinazione c+e+c+a+u corrisponde sempre all'ordine dei miliardi, c+a+c+u+c+o a quello delle centinaia, ecc. Il secondo sistema proposto è quello a base sessagesimale in cui ad ogni cifra da 0 a 60 S, associa una sillaba cv, del tipo 1 = ba, 2 = ge, 3 = di. Nonostante anche questo metodo assicuri una brevita d’espressione considerevole (centoventitré › bagedi), risulta meno convincente del precedente per il semplice fatto che quello prevede uno schema di composizione RICORSIVO basato su POCHE semplici regole – la composizionalita com’essenza d’una lingua come il suo oxoniano nativo, mentre questo aumenta notevolmente il grado di difficoltà mnemonica associato ad ogni numero a causa del maggior numero di combinazioni esistenti e  dell'arbitrarietà delle stesse.  Per quanto riguarda invece la parte della SINTASSI, LA MORFOLOGIA, e la MORFO-SINTASSI – la grammatica ragionata -- e lessicale della sua lingua ideale, S. indica delle caratteristiche fondamentali che questa deve possedere per essere di semplice comprensione. La separazione d’un MORFEMA LESSICALE (‘be’) d’un MORFEMA SINTATTICO – “Fido *is* shaggy; Fido e Rex *ARE* shaggy”; ‘Rex is SHAGGiER than Fido’ (One pirot karulises elatically; therefore, pirots karylise elatically – in an elatic way. L’esistenza di particelle SINTATTICHE nuove, più semplici, meno *ambigue* -- cf. Grice, “Do not multiply the senses of ‘if’ beyond necessity, Strawson!” -- di quelle  esistenti. L’invariabilità delle parole – cf. Grice on word meaning – shaggy’. A questi aspetti deve aggiungersi anche l'esistenza d’un vocabolario o lessico in cui ogni elemento possede UNO E UN SOLO SIGNIFICATO (O STRETTAMENTE, SENSO) – “Senses are not to be multipled beyond necessity”: Grice’s modified Occam’srazor --. La sintassi verte intorno al verbo o PREDICATO (“... is shaggy”, “kaurlise”), che da solo e opportunamente coniugato (Fido is shaggy, Fido and Rex are shaggy; a pirot karulises, but pirot karulise -- è in grado di descrivere non solo l'azione, ma anche il SOGGETO (cf. Grice on ‘the’ – discussione con Sluga --) della stessa, il suo NUMERO – cf. Grice on Peano, (Ex), “some, at least one”; il genere, e le circostanze di modo (modo indicativo, ecc.) e di tempo (cf. Grice, “Actions and events,” basato su von Wright). A questo, se necessario, si possono associare ulteriori complementi di pro-posizione, anch’essi declinati, per descrivere  l'azione in MODO più particolareggiato (non volitivo, ma ottativo).  L'alfabeto utilizzato è composto di diciassette lettere, le stesse che sono state utilizzate per il sistema numerico decimale visto in precedenza. Ogni particella sintattica o parte del discorso presenta un ordine vcvcv ed esse sono riconoscibili a seconda delle lettere che vengono  poste in ciascuna sede. I verbi sono riconoscibili dal fatto che presentano nella sede della prima consonante una «b» o una «g» e questa, assieme alla seconda vocale, forma il modo verbale -- diviso in: «ba» INFINITO (‘to be shaggy’), «be» PARTICIPIO, «bi» GERUNDIO (‘being shaggy’), «bo» INDICATIVO (‘is shaggy’), «bu» IMPERATIVO (please be shaggy, o ‘is shaggy, please’, «ga» SOGGIUNTIVO (‘that Fido be shaggy’), «ge» CONDIZIONALE, i. e. con-dictum (‘si Fido e shaggy, Fido e amato’), «gi» MORALE (“Jones is between Richards and Smith”, «go» FISICO (“Jones is between Richards and Smith”), «gu» MATEMATICO O ORDINALE). La vocale iniziale indica la forma del verbo («a» = verbo IN-transitivivo (“Fido IZZ shaggy”, «e» = ri-flessiva, «i» = attiva (Paride ama Elena), «o» = passiva (Elena e amata da Paride), «u» = neutra»). Le ultime due lettere, consonante e vocale, indicano il tempo, il numero e la PERSONA (Grice, “Someone, i. e. I, is hearing a noise”) a cui il verbo stesso si  riferisce, secondo ua tabella:129tem  0. Particelle  numero d  del e personal  1R28  22  มา สิ  1.ª  TO  3."  Singolare  IP838a  아비아비비이2  Plurale  130  3.  Specificazione del Tempo  = Più che perfetto  = Passato anteriore  =  Passato indefinito  Passato definito  Imperfetto  Presente  Futuro  Futuro anteriore  =  • Dipendente = Indipendente  = Persona  Numero. Così ad esempio il verbo 'mangia!' (Grice, hobble) può divenire «ibupe», dove «i» indica la forma transitiva (eat a nut – Grice, as ordered to his pet squirrel, squarrel, Toby), «bu» il modo imperativo – cf. Hare, “The window is closed, please -- e «pe» la seconda PERSONA persona singolare (you, not ye) del tempo presente. Allo stesso modo si compongono i nomi. La prima lettera - vocale - indica il genere (del tipo «a» comune – man --, «e» sessuale – flower --, «i» maschile (aquila macchio), «o» femminile (“ship”), «u» neutro» (‘ship’), la seconda - consonante indica la declinazione e il numero, ed esistono cinque declinazioni. La terza e la quarta lettera - vocale e consonante - delimitano l'idea in ordine alla quale si riferiscono le preaccennate qualità di genere e numero, cioè costituiscono la parte che potremmo in qualche modo chiamare morfema lessicale, RADICE (v this little piggy went to market) lessicale SIGNIFICANTE (‘the shag of shaggy) della parola (cf. Grice, word meaning); l'ultima vocale indica il caso di appartenenza. In questo modo poi si formano anche tutte le altre parti del discorso. Il problema d’un sistema di questo tipo è che la riuscita di una buona conversazione dipende in maniera non trascurabile dalle capacità mnemoniche e combinatorie degl’individui interessati – Grice: “That’s why I say: who cares?”. Oltre alla notevole mole di nessi consonantici e vocalici esistenti, oltre al fatto che questi cambino significato se non SENSO in base alla posizione, oltre all'enorme numero di combinazioni possibili, un aspetto penalizzante e soprattutto la struttura stessa delle parole che, indipendentemente dalla parte del discorso interessata, deve necessariamente essere di cinque lettere o di sei lettere, in ordine VCVCV o CVCVCV.  Per quanto riguarda invece la terza categoria delle lingue inventate ad uso internazionale individuate da S., si riporta un esempio di lingua puramente ideografica, numerica. Esempio:  Ne Il problema della lingua universale, S. propone la frase italiana. Il grammatico intelligente interpreta facilmente questa scrittura; perchè il significato o SENSO unico di ciaschedun segno è reperibile istantaneamente  nella trascrizione numerica seguente del terzo metodo:  - 12. 111. 15. 2101. 1245 - 27. 33. 72. 2152. 1151 - 14. 114. 18. 0454. 3293 - 3 - 364 - 14. 111. 15. 1564. 4252 - 14.  112. 16. 0435.1555 -15. 33.72 - 1533. 1265 - 1. Ad ogni cifra associa una funzione grammaticale, sintattica o di senso (ad esempio il numero «1» finale esprime il punto fermo, la fine della sentenza. Il numero «3» corrisponde al punto e virgola. Il «111» significa 'soggetto della proposizione. Il «15» il caso nominativo nella sua forma singolare. Il «364» significa 'perché; ecc.. I trattini indicano l'inizio di ciascun termine e i punti dopo le cifre separano i fattori che fanno parte di ciascun termine. Esempio tratto da S., Il problema della lingua universale, Porto Maurizio, Berio.  La volontà è quella di limitare (ma non del tutto) la fusione dei morfemi e piuttosto apporre nuove cifre che siano ognuna portatrice di un determinato significato (del tipo 'leone-femmina' e non  'leonessa', o ‘aquila macchio’ e non ‘aquilo’). S. è perciò convinto che, tra quelli individuati, il più esatto dei metodi e il  terzo, visto che: La ragione dell'evidenza, che ammirasi nel linguaggio algebrico e che spesso riguardasi come un privilegio di questa scienza dell’arimmetica, si è che nei ragionamenti algebrici o arimmetici non entra mai un segno il di cui valore assoluto e di posizione non sia esattamente definito. Cf. Grice sul formalismo di Peano e l’informalismo di suo alievo Strawson. La sintassi, che attualmente più soddisfaccia alle esigenze filosofiche è la sintassi algebrica o arimmetica – Frege, il concetto di numero, traslato da Austin, read by Grice -- ed i precetti di questa  dovrebbero essere comuni ad una lingua universale. Di nuovo quindi, l'interlingua in grado di descrivere in maniera conforme la natura delle cose è di tipo numerico e algebrico o arimettico e per essere utilizzata necessita di tanti vocabolari quante sono le lingue storico naturali esistenti. Giacomo Francesco Sertorio. Sertorio. Keywords: Il deutero-esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sertorio”. Sertorio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Servio: la ragione conversazionale VIRGILIANA – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Nei "Saturnali" di Macrobio, rivolti alla glorificazione di VIRGILIO, S. appare uno degli interlocutori. La sua attività filosofica ha per sede Roma. Predilesse Virgilio, che esalta come il maestro di ogni sapere e che commenta in un’opera di cui rimangono due redazioni. La più breve sembra tramandare lo scritto autentico di S., mentre la più ampia ("Servius auctus o plenior o Scholia Danielis", dal Daniel, che la pubblica) pare derivata dalla prima e da una riduzione del commento d’Elio Donato. Si discute se gl’appartengano l’Explanatio dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre saggi di metrica. Il commento include non poche dottrine di carattere filosofico, che però provengono dalle fonti usate da S.. Si è voluto fare di S. un seguace dell’accademia. Ma, da una parte, non è lecito attribuirgli una teoria filosofica organica, e, dall’altra, le proposizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non sono proprie di essa, perchè appartengono all’accademia in generale, a Posidonio, o anche alle credenze mistico-religiose di quell’età: natura divina dell'anima, immortalità di essa quale principio di movimento, sue trasmigrazioni, suoi destini dopo la morte, teoria delle sfere. Quando, oltre alle tre parti dell'anima, l'anima vegetativa, l'anima sensitiva e l'anima razionale, ne ammette anche una quarta anima, l'anima vitale, principio di movimento, si allontana dalle teorie tradizionali inclusa l’accademica. Quando S. afferma che nulla esiste salvo i quattro elementi (acqua, aria, fuoco, terra) e il divino, che è uno spirito (o una mente, o un'anima) il quale, infuso in essa, genera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, accetta in complesso la cosmologia del PORTICO esposta da VIRGILIO, che però cerca di liberare dal suo materialismo originario. Del resto, esplicitamente S. loda i filosofi del portico -- et nimiae virtutis sunt, et cultores deorum -- che contrappone ai filosofi dell’Orto, che critica spesso. In S. mancano un coerente e un indirizzo preciso, sebbene si affermino in lui le tendenze mistiche dell’età sua.  Un'edizione del XVI secolo di Virgilio con il commento di S. stampato sulla sinistra del testo. S. Mauro Onorato. Grammatico e commentatore romano.  L'appellativo Deutero-S. o S. Danielino si riferisce alla pubblicazione da parte di Daniel di un'edizione del commentario di S. all’Eneide contenente alcune aggiunte rispetto all'originale serviano. Tuttora è discussa l'autenticità del cosiddetto S. Danielino. S. ompare come uno degl’interlocutori nella “Saturnalia” di Macrobio. Alcune allusioni presenti nei saggi ed una lettera di Quinto Aurelio Simmaco indirizzata a S.. Saggi: “Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, Commentarii in Vergilii Bucolica, Commentarii in Vergilii Georgica. Del commento alle opere di Virgilio esistono due tradizioni manoscritte. Il primo è un commento relativamente breve e conciso, attribuito di per certo a S., ed è chiamato “S. Minore". A una seconda classe di manoscritti appartiene un altro commento, molto più esteso, infatti le aggiunte sono abbondanti e in contrasto con lo stile di S.. L’autore è ignoto. Questo secondo è chiamato "S. Auctus" o "S. Danielinus" da Daniel, che lo pubblica. Esiste una terza classe di manoscritti, composti in Italia, derivati dai primi due, a significare la diffusione di questi commenti.  Per quanto riguarda il "S. Minore" è in effetti l'unica edizione completa esistente di un romano scritta prima del crollo del principato in Occidente. È una vasta critica al testo di VIRGILIO, con critiche anche ai commentatori prima di lui -- in un certo qual modo ci fornisce il modo di pensare dei secoli precedenti. S. non usa un linguaggio particolarmente elevato, ma è colorito e fantasioso qualora si tratti di etimologie. Oltre all'aspetto grammaticale, i commentari di S. contengono abbondante materiale filosofico, la maggior parte del quale probabilmente è derivata da fonti di filosofi anteriori, con cui la poesia di Virgilio viene interpretata nel suo aspetto filosofico.. Commentarius in artem Donati, Raccolta di note grammaticali d’Elio Donato. De centum metris ad Albinum - Un trattato di diverse figure metriche, dedicato a Cecina Decio Albino. De finalibus ad Aquilinum - Un trattato di metrica sui finali. De metris Horatii ad Fortunatianum - Un trattato di metrica di Orazio, forse dedicato ad Atilio Fortunaziano. Vita Vergilii. Enciclopedia italiana. Funaioli, S., in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pellizzari, S.. Storia, cultura e istituzioni nell'opera di un grammatico (Firenze, Olschki); Ramires, S., Commento al libro IX dell'Eneide di Virgilio; con le aggiunte del cosiddetto S. Danielino, Bologna, Patron, su Treccani  Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. S. su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S. su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Avogadro. S. Open Library, Internet Archive. Opere complete di S., su forum romanum.org. V · D · M Grammatici romani -- Portale Biografie   Portale Letteratura Categorie: Grammatici romani Romani. The second version was named the Egyptian, which is a puzzling name since the first reference to this particular descent/ascent concept seems to come from a commentary on Book IV of the Aeneid of Publius Vergilius Maro, or Virgil, by the commentator S. In S.’s version, each planetary sphere is associated with one of the seven major vices. The list is as follows: I avarice avarizia from Saturno; II desire for dominance and gluttony from Giove; III violent passions or anger from Marte; IV pride from the Sole; V lust from Venere; VI envy from Mercurio; and VII sluggishness from the Luna. Some philosophers differ as to *which* vice to assign to which *planet*, e. g., sluggishness is often assigned to Saturn instead of the Moon. It should be noted that each of these seven vices, are all psychological characteristics as is befitting of a soul. Roman philosopher and grammarian, commentator on Donato and Virgilio There is some doubt as to his name. The commentator on Donato in the Parisinus Latinus codex (GrL) is called _Sergio_, as is the commentator on Virgilio in the Bernensis codex. In other manuscripts, the commentator on Virgil is called S. but no mention is made of the rest of his name (Marinone). In the Saturnalia, MACROBIO (si veda) gives a portrait of as him  an adulescens; and Daniel asserts, in a note to the Bernensis codex that he is one of Donato’s students. If these indications hold true, it would appear that he lives in Rome, where, according to MACROBIO, he belonged to the intelligentsia of the ACCADEMIA. Of considerable importance are his commentaries on Virgil's Aeneis, Eclogae and Georgica, surviving in two ms. codices of varying length. The shorter is published by Daniel, who adds several scholia -- the Scholia Danielis -- to it. It is commonly known as the S. Danielinus. Critics disagree as to the contents. Thilo holds that the additions are probably a fusion of an original text with parts of Donato’s lost commentary on Virgil. His commentaries, based for the most part on his predecessors (Donato in particular), enlarge on and enhance that tradition by virtue of the quality of the grammatical observations and the comparisons of Virgil with other philosophers. Various grammatical treatises bear his name but modern criticism unhesitatingly ascribes to him only the Commentarius in artem Donati (GrL). Prisciano mentions S. as the author in Institutio de arte grammatica (GrL). Other attributions are uncertain. The two books of the Explanationes in artem Donati (GrL) are apparently posterior to S. (Schanz-Hosius). The tract De littera de syllaba de pedibus de accentibus de distinction (GrL) gives "Sergius" as the author but seems to be an extract from the Commentarius and thus not a work intended by S. to stand alone. Criticism is divided over attributing to S. De centum metris (GrL), a treatise on metrics: Müller excludes S. as the author while Marinone defends the opposite view. The treatises De finalibus (GrL) and De metris Horatii (GrL) are similarly controversial; see Müller. In his Commentarius in artem Donati, S. brings home two points which characterize Roman grammatical thought, as seen in the artes. First, grammar is intimately connected with all the disciplines dealing with language – philosophy – GRAMMATICA FILOSOFICA – SEMANTICA FILOSOFICA -- dialectics, and esp. rhetoric (GrL). Second, grammar has a distinguishing subject matter which consists, according to S., of the analysis of the VIII parts of speech – Latin does not have an article, but it has interjection. S.’s admiration for Donato derives, in fact, from the latter's unswerving conviction that a grammatical treatise ought to begin by defining the partes orationis -- other grammarians were hesitant and inconsistent).‘That is why Donato is wiser, who starts out with VIII parts of speech that concern the grammarians – including the philosophical grammarians – specifically – UNDE PROPRIUS DONATUS EST DOCTIUS, QUI AD OCTO PARTES INCHOAVIT, QUÆ SPECIALITER AD GRAMMATICOS PERTINENT – Commentarius. S. holds, together with Donato, that the study of grammar, taken to be the study of the partes orationis, is a prerequisite for literary analysis, i. e., for commenting on poetic texts, such as Virgil’s. Although S. contributes to enriching the discussions of the grammatical distinctions formulated by Donato, by citing and criticising the work of other philosophical grammarians, S. leaves unsolved the many problems inherent in the categories handed down by tradition. For example, some grammarians considered the 'future' tense to be a separate MODVS and not a tense of the 'indicative' mode, given that, properly, one can 'INDICATE' only what one knows and not the future, by definition an un-known. “And remember I’m a philosophical grammarian!” Grice: “In Rome, grammarians simpliciter were usually slaves!”. S. expounds the question clearly (GrL), but does not venture an answer. "Martii Servii Honorati Commentarius in Artem Donati" (GrL).  "Commentarius in Artem Donati"; "De finalibus"; "De metris Horatii"; repr. Hildesheim. S. Grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Thilo e Hagen eds., Lipsiae. Editio Harvardiana, Rand et al. eds., Lancastriae, Ad Aeneam; Stoker/Travis eds., Oxonii (Ad Aeneam). Commento ai libri 9 e 7 dell'Eneide di Virgilio, with introd., biblio. and critical ed. by Ramires, Bologna. BARATIN, La naissance de la syntaxe à Rome, Paris. Id., CRGTL, BARWICK, "Zur S.-Frage", Philologus; BRUGNOLI, "S.", Enciclopedia Virgiliana, Roma. KASTER, "Macrobio and S., Verecundia and the grammarian's function", HSCP; MARINONE, "Per la cronologia di S.", AAT; MÜLLER, L. "Sammelsurien", Jbb. für Klass.Philologie; SCHANZ, M. e HosIus, Geschichte der römischen Literatur, München, TIMPANARO, "Note serviane, con contributi ad altri autori e a questioni di lessicografia latina", Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura; WESSNER, "S.", RE. Keywords: Virgilio, Donato. Servio Mario Onorato. Servio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sestio: la ragione conversazionale del fallito morale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He founds his own school in Rome that draws heavily on La Setta di CROTONE and IL PORTICO. S. preaches an ascetic way of life, which includes vegetarianism, and exhorts his followers – whom he called ‘Sestiani’ – to reflect at the end of each day on their moral failings – “if any.” Upon his death, his son, also called Quinto S., inherits the school, but it does not long survive him. One of the Sestiani is SOTIONE, who becomes Seneca’s tutor – Seneca himself is influenced by the school’s teachings for some time. Quinto Sestio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale delle sentenze trasformative – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. is a compiler – The “Sentences of Sesto” are mainly of an ethical nature and show signs of a variety of influences including traditional wisdom literature, and IL PORTICO. They proclaim that wisdom is attained through the conquest of the passions. – Chadwick, “The sentences of Sextus,” Cambridge. Grice: “Chomsky thought that the sentences of Sextus were ‘transformational’!”

 

Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale del’accademico d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tutor to Antonino. Antonino regards him as something of a role model and greatly admires the morality and humanity of both his life and his teachings. Accademia. Suda thinks that S. is of the scesi only because he confuses him with Sesto Empirico!

 

Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studies philosophy with Stilio (si veda). He becomes the principe di Roma when his cousin Elagabalo is assassinated. His principate is not however a success and he is himself assassinated not long after. So much for the line of succession. Severo Alessandro.

 

Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del’amico lizio d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A lizio, friend of Antonino. Claudio Severo.

 

Luigi Speranza --Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe filosofo -- Roma—filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Severo rules the Roman empire and it is said that he is well-versed in philosophy. Severo Settimio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Settala: la ragione conversazionale dei problemi sessuali d’Aristotele -- desiderio e piacere – la scuola di Milano – filosofia milanese -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Profisico. Studia a Brera e Pavia. Insegna a Milano. Si prodiga in occasione della famosa peste dei “I promessi sposi”. Manzoni lo nomina una prima volta  quando parla del figlio, Senatore S., medico, membro, insieme a Tadino del tribunale della sanità ai tempi della vicenda di Renzo e Lucia. È tra i primi ad accorgersi che la strana malattia che si diffonde nella zona lecchese, e la peste. Saggi: “In librum Hippocratis Coi de aeribus, aquis, [et] locis, commentarii V. Appositus est Graecus Hippocratis contextus ope antiquorum exemplarium, restitutus et emendatus cum indice rerum et verborum locupletissimo una cum nova eiusdem in Latinum versione” (Colonia: Ciotti); “Problemata di Aristotele” (“Commentariorum in Aristotelis problemata” -- VII primas sectiones – secundam heptadem -- continens, ab eodem Latine facta”) (Francoforte sul Meno: Wecheli, Marnio, Aubri); “Animadversionum et cautionum medicarum libri VII quorum materiam sequens pagina indicabit” (Milano, Bidell); “De peste et pestiferis affectibus libri V (Milano, Bidell); “De ratione instituendae et gubernandae familiae libri quinque” (Milano, Bidell); “Della ragion di stato” (Milano: Bidelli); “Cura locale de' tumori pestilentiali, che sono il bubone, l'antrace, o carboncolo, ed i furoncoli contenente tutto quello che si ha da fare esteriormente nellquesti mali tolta dal libro della cura della peste” (Milano, Bidelli); “Preseruatione dalla peste” (Brescia: Fontana); “Anti-rotario romano con l'aggionta dell'elettione de semplice e prattica delle compositioni e di due trattati, vno della teriaca romana, l'altro della teriaca egittia aggiontoui in questa vltima impressione auertenze e osseruationi appartenenti alla compositione de medicamenti” (Milano: Bidelli); “Avertenze, et osservationi appartenenti al curar le ferrite” (Milano: Cardi); “Compendio per curare ogni sorte de tumori esterni et cutanee turpitudini, raccolto da osseruationi fisice, e chirurgice” (Milano: Monza); Statistica medica di Milano Milano, Guglielmini e Redaelli, Belloni, Borromeo e la Storia della Medicina, in San Carlo e il suo tempo: convegno, Milano. Edizioni di Storia e Letteratura, Bartolomeo Corte, Notizie istoriche intorno a medici scrittori milanesi, Milano, Argelati, Bibliotheca scriptorum mediolanensium seu acta, et elogia virorum omnigena eruditione illustrium, qui in metropoli Insubriae, oppidisque circumjacentibus orti sunt, Mediolani, Sangiorgio, Cenni storici sulle due Pavia e di Milano e notizie intorno ai più celebri medici, chirurghi e speziali di Milano dal ritorno delle scienze sino all’anno. Opera postuma, Longhena, Milano, Renzi, Storia della medicina italiana, Napoli, Ferrario, Intorno alla vita ed alle opere mediche Cenni, Milano, Capparoni, Profili biobibliografici di medici e naturalisti celebri italiani, Roma, Cava, La peste di S. Carlo. Note storico mediche sulla peste, Milano, Ricerche Firenze Ferro, La peste nella cultura lombarda, Milano, Cosmacini, Il medico e il cardinale, Milano. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Firenze, Molini, Facchin, S.: un intellettuale barocco fra scienza e arte Treccani Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Mellerio,S., in Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, openMLOL, Horizons Unlimited srl. Patricio Milanese. ys id À L904.7. V WM C th "s rex. fà vnm e LOOyV. n. Fe viu Leve. (ue » meéen ah -, 2 COMMBRO/ VEM s X ^21/ dién sd 2 L * 1 mtmbys p APP A p memi. LUÜU DN. ", Uvtvnow- . l i! AK PE / ^» Ü (oft i A4 Un ^V - Z^"* " AÁe en, ./ 64 ! Irstra- Jim vfldecur " ovi " du - e acu ly Kaitnllido ! 4 EL j^ ur aco v, la x . Ier 'aofevet dian. p, Y, «tecti ]4^ X (26 " n Dod Kn din. I ^ / "SETA E AH. "Jo Job Áago " 16.. v P T€ 72 P1 ortaluy Za- Ü (pube Xe t I 2 " fy " à . 2 i 1 Iitont, bo br rim V "De canttemk- vm GÀ "dit: CCCII KL oc( wy tm . axi. eade dta » 17 s "T »vnajá/- 64. Cw 3*4. hri " X »" ud pF 2. 0b LE / e 0709 - e € zT214URA pL Hæ "T. 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MEDICI CLARISSIMI,; P £nimadverfionum, er Cautionum 74edicarum » 3 LIBRI SEPTEM, "T nuo 3b Aotore recogniti, et hac pofiremaz, ^. editio: ;,C,€X xpurg catis 3q! IET np! urimis mene à 1 dis novo nitori rellitut ONE CH EN f. d A. e » Am" 3m d Cx diiery,,» iycans d seis Y y ». RCCÓNS DOS SEPTALIVS iau Py PW pu ATAVII, ff: ypogi rrr dit Ihuilii. [628., LE Projlant apud Paulum Frambottum s. PER ILLVSTRLE et Excellentiffimo Viro IOANNI PREVOTIO MEDICINÆ DOCTORE et Professori Primario.Paulus Frambottus Bibliopola Patavinus. BAM A cít virtütis pulchritudo;ut dd cxtemisctiam fenfibusfubtracta,ex veftigiis in precla« ro pectore impreffis cluceJenscm/ r3 (cat, mirabiles fui exci» Ice leramor es. i Mas abibo longius, Te te, Prevoti Perilluftris et Excellentiff. exemplum ftatuo, in quo rarz virtutis,& folidz doMirinz grata quadam confpirat harm 9e inia, ut commiuni do&torum calculo, et falima: publice teftimonio apex eruditionis limeritó audiaris. Nec enim fola Philofoliphia et Medicina, quam cum fumma lauide doces et cxerces, tead unguem expoli vit fed ctiam alie difciplinz tibi, affiduo i 2 Dre 9 2 £ 94 fuo culto; (ingularia orriamentá fe debe-[U ic fatentur. udi res cm notior fit, quaàmu] üt ego tenui ftylo et filoprodam et pro-Jij bemitum omnesin tui amorem tacita qua]; dani illecebra pertrahit;. Ego vero; ut obi] fervaniriam, qua te colo et veneror ; pübli-4) ] ce teftaret ; diu rnultumq; cogitavi : feci hufquam mihi cómodior fefe obtulit oc: cafio, quàm cüm novam,eamq; lorige e; iiendatiorem editionem Cautiorium me:] dicaium celeberrimi viri Ludovici Se ptalii pararé: quam proinde fub felicis tui] nominis celebritate emitti cüravi, planis perfuaías,opufculum hoc,mole quidem xiguum, pondere maximum, genüimump foetnm fummi viri;qui fibi totícriptis moy numentis pofteritatem devirixit ; tibi virqi" do&iffimo, et de Medicina preclaré meg. renti, gratiffimum fore. Quare fiferem]i; fronte hoc quidquid cft libelli, argumeng tum niez in teobfervátia.fufceperis, mee] folita beneuolétia amplexus fueris, candiifi...diore hoítia me litaffe exiftimabo, V AL E AS VIE uM «Iq ena o e942* 164937 C6 dle: XA FT : NIST be ees; AS ears; ESSE ev E£3£ t 223 2, $9 "2; €2, -. s[EReps: iis t 5 c» T3TU P SV: Iq s] Qe os cota cs Aj bnc gear ee dpQp o 25 7 (x QE a ! icesb 9» Ges? 32 €x 3d ue æe 3» 629 1939 Gé ei S. y a à4d T axi à : ^cr Via hein lo: fote,ut biclabot meus iri: h vatios (ctmones eorüm; qui itüt! tatioSeimm averent cognofce hs s res vel ccgbitam improbatent; gp üt o hominum geneti pfe tibfire era primm lom nium It anitno háb beo. Cüm ab juv enillbus an jnisa d hofce jam e3 cXaCLz etatistertnibos, ita tneddicam ! lianc f2ctitavilfem artemsut fimul alias lio fiiine libero dienasartesaff BieXpoitulavete mecum amici fiotüni Iiéteratüm e2enere pius alic quantó Viderer Mponete labo tis;ac itudii, quim 1n hac ipfa faculIlKite; dade nominis,ac virz z leaüdor nobis peti qxur uai verfus. Q iipp ) €; 1] *baut,moftros in Hippo Ja ^ Cratem, et in cione P MA ccn Corbin C. (cr v "m - et colertem homines, quód in t3» tATlIos. D» tários,itemque de Ne vorum varietate Commer tarium » quaimyis ad ipfos Medicina fontes haudij'" dubié pertinerent ; non tamen attingere confueesj o" tudjnem,& ufum artis,& equum etfe; ut quadra:4i^ ginta annorum,quotfermé contrivimus in how medico negotio, fructus aliquis ad publicam utiifi" litatem exí(taret. luíta omnino,« piena fenfu .humaniffimi vifa eft querela,fecimá ufq; libenté: ind uraninium,& cogitationem à noftri: oble Games tisad commune beneficium avocaretmus. V erümpiuz enimveró cum attenta meditatione mecum ipfi confiderafem, ecquis in tanta librorum varietatufil vacuus locusinduftriz mea celictus foret, 1ta regu periebam, otània, quecumque vel (cientiaé petu veítigatione, vcl differendi tubtilitare trademdigji effent, exp icaffe inagnos viros, quorum nec virgi [1 gere, necequaregioriam poffem: ltznova cutdibis folicitabatanimum meum; et haud fané medicis criterangebar. Nam neque placebat actum agegpiir do tempus conterere,neque certandocum eXceepiü lentibus ingeniis mereri reprehenfionem ; et capi villos;& recté monentibus ; atque cohortantib»] atoicis animuserat fatisfacere. In bac fluctuanij apim1 folicitüdine di multumque volutátussari madverti tandem »locis'aliis omnibusoccupat:) eum vacare,qui veluti moresartis» et quotidilj nam diíciplinam contineret. Nam etfi partez hancipfam attigere permu'tl» veriüs tamen at gere, quà ad plenum funt exíecut; : Et plerum que ità variantopinionibus » atque fenrentilss haud fermé vera ratio poffit extricari .Quamed geni [i sh ilperfa, vel contraria concilíando;vel omnia com tem vel ínchoata perficiendo ; vel colligendo di» wiMPlectendo via quadam, et ratione; videbar aliiu] id conferre poffe viciffim arti, que nobis et vi ujee die nitatem,& commoda rei familiaris, et gra iliam ;& amicos, et vitam denique ipfam confett, drelut zmula Fortunz, certé diving opis ad mint wlkra . Cæterüm fcianr, quorum in manus hzc no ilEra cura pervenerit, fummam e(Te voti,ut vergzen: 2 ihe jam ztate; patri& profimus extremo conattis iatera concupi(cere ; vel fequi defitum mihi effe. «sciant item, quamvis certifima hzc fit; et (impli«hiffima experimentorum difciplina ; quam táàm AMiu tractando calamitates humani corporis,int ldpfo pta (ertim Valetudinario Mediolanenfi,thea ro morborum omnium; haufimus, haud tamen dupuenaciter nos defendere quidquam, et affirma idre.Sententiam mcam expono; inde fædum nce» dpcusfædum exitu quod vitet, fumat juventus,que alprodit nunc primüm ad publice valetudinis cu jram. Primus Liber zfeimad'verftomes et: Cautiones continet, qua ad Medi cum pertinet quatenus AMedicusi e$t ; et proamait loco effe poterit . Secundus, eas,quain reda vidus) vone,poti[simuin acutisocctmrat:) Tertiuseas, qua ad pbarmaceutt-) cum negotium pertinent. UATtHs, £45, quatn fanguints mif s: 7ene ob'ventunt, n Quintus;easquain curandis febr'vh bus obf erwari delent . Sextus 2245s verfatur.qua ad mor9 bos partic nlares Acapite ad meti. bra naturalia pertinent . Se eptimus eA$ conmpre! hendit, qui ka reliquis morbis ob[e META Y i" REA T e y9 TITLE Bnimaduerfionum, et Cautionum Me. dicarum, Continens eas, Que ad Medicum pertinent, quatenus Medicus ejV : quz proeezz loco e [Je poterit - EDICVYVS pietatis, et relioionis .,M*4/* TÉ e. TAN c pietatis cul "4 maxume fit cultor, arque ad ean- «n 4721/4. dem x2ros ccnetur revocare. É 2. Habitu corporis in omnibtis. 5, ;,, rp, fanitatem praíeferat,, quantunx prafeferat peculiaris ejus natura concefferit : putant enim. plerique horminum,;fiqui minüs feliciter cc rp us difpofitum habeant; eos neque aliis confülere poffe. Flipp. Zb. de Ædico. namajunt : Cauet primum fesct tunc me illi daba. RÆ IR 3« Caveant igitur Medici, ne fe valetudina- ],;,,];:.. tios prædicent ;, et fi quando periodicis morbis. tentantur, cur illos eyirare nequeant» often» dant ; quomodo autein fácilé illos evincant ; etiam doceant. . Sit ftudiofus externz mundideismanibus Stadiofus ^ x : . Veg PE ?/^* sotiffimüm, unguibus » capillis, et barba. Ex sonnditiet ) qum Hipp. //b. de AMedico: oie Caveat tamen exceffum, ne in ttnolli-, / ; nsa datine,, ticmncadat,neve excrementorum alvi, lotii, et excretorum "per- tüffim. confpectum averfar1 credatur . nin ; 6. Veftitu utatur decoro . Hipp. l;b. de 7M eVeilitade-. 1; 9. Caveat, ne in fufpicionem ampullofi artifi£0Yf45 e A. pow ccn cis cadat,& Sophiftz, quem depingit fuis coic ribus Hippocrates Jb. de deceztzornatu, bis ver bis : Jem conventu faétosambitiosa queffuosa fna profeffione decipientessia urbium circulis ver- fantur .- Quos ex vefhitu (&* catevis ornamentas quis cognofceye poterit « Quin etiam, quà [umptuofiusornari fuerit, eo majore odio ave r[andi, ab RSS o oc eisquieos circum [pexerint, fusiendi. Ex u[n au- iu tem fuerit, contrarium in bis fpettare ; quibus 102 zne[t exquifttus, neque curiofus ornatus» ui [eje c cultus venuftate e frugalitate, non tam ad fuperflum curiofitatems quam ad optimam ex fliimationem » prudentiam ; C animizaoderationem compavarunt . Càm enimilli dodtrinà fibi au&torita- rem comparare nequeant, fplendore au n,veftium cultu medico ; ac fervorum grege, eam A comparare ftudent ; quos ridens Anftophanes p ram *- ip INebul. joco vocat cOpatyldoyv e pyo Xo TES. ar adimi ' quód digitos ad ungues ufque annulis erpent. y? Odoratis utatur; cavcat tamen, ne morbi r, o45,;7. inde concitentur : fepe enim mofchui, et fimi- qualis. lia. redolentes, hyftc 'TIcas mulieres enecant . Sintigitur temperata omnia . 9. Qualis effe debeat Medicus in omnibus y,,4;77; i ftans, non aliis verbis, quim Hippocratis, o5 ibus defcribendus videtur, Jib. de deceztz orgatu . ti pra]is reliquo vitz cultu muni mé fint diffluentes, auf quati ac fuperfiu1 ; id eft . honefti in omnibus;f ftudentes, dicto, nec facto fuas actiones u]trà quàm decet jactantes,; fed cum candore,veritate,& inteeri- tate, fepofità omni fimulatione, finceré omnia reprefentantes; 1n hominum concurfibus oraves; ad refp da dum, et docendum faciles,& appofiti ; ad altercantes graves, et pro veritate conftantes ; in fimilium amicitiis con- trahendis s prof b 1C jentes ; cum omnibus huma- n1, familiares, et affabiles ; in feditiofis contentionibus taciturni, eofque audiant patientet, et us in refpondendo, fi effucere non poffint, mode- A fti et quafi cogitabundi prudenter refpódeant; errores aliorum ita corricant,ut non reprehen-- fionem, fed veritatem ob oculo sfib1 pra fixiff e oftendant. In occafione prudenter capta indà, et coenofcendàoculati. In victu fru cales, e paucis contenti; liberales fint, non fordidi ; aut petaces .. Patientes fint in occafione exfpectan- dà, neque finantfe, aut deri, aut.affiftentium precibus; aut importunis verbis vinci, ant'ad e entum ante tempt Tene ores cibos ; vinümque concedendum .. Non à c / (4 m de À a fint i2 Qs fint taciturni, neque loquaces ; f-d in eàzemo- derationem fervenr ;; promptitudinem tamen; datà occafione, ad ratiocinandum oftendant ; | nihil fine demcnftratione proferentes;non bàr- ^ baré,aut populariter?oquantur, fed cum affi- M ftentibus; et zero eleganter; et pure, cum Me-- dicis Lariné . R ectefaaàt perfüadere ; nam Pfa AA ve m9 Qo pde Legibus,vodr, ut primum doceat, et , Æ - perfuadeat Medicus quid fitxgrofaciendum, | i 4cnon priüs imperer, ita promptiüs parebit..i Quare dicebat Ariftoteles: Parebo lubens; fi vera58 bacsqua dacts « effe.demion[lraveris. Xlonores per. fe contemnant, ambitione ca£entes ; fed ob vir- tutem cujus comeseft edoria ;. pro1pfo.etiam et vtabtm - honore certenz, virtutem tamen certà ratione "Non :nani gloria n 77. fmi amore gentetur . ftabilitam Hibenier admittant ;ine opinionis fuæ nimiim ftudiofi videantur. Caveantmaximó, ne inani elorià, aut ni- mio fui amore rententur 5 1llà enim ; quod ne- fciuntdifcere prz pudore renuunt;neinfcitiam cum rübore-prodant per ;dium vero có pervce- niffe fe rerfuadent fibi, quó perzendum erat. 10. 'Ne fe alicujusfectz, tamquam 1nanci MIT À ; "i E ^ pu fi pium, addicant; necjurent inalicujus auctoris feta. fententiam, fed nudam rnaim fectenrur wer p «i Suvalis £z &walis £n e» rreffibas. tatem, ilíquefchi fübfcribant . 11. "Medicorum cóngszeffus, et confultatio- : nes libenter admittant; iltud cbfervantes s ut in| jis fuperflua omnia devatent, nibil ad pompam i| proponant:contradicendi ftudio non ducantuz; fed ciun f. ]um fibi finem prafigant;ut mc rbumy £vin- f. evincant, ac priftinam reftituant fanitatem. Congretfus hi, et plurium Medicorum confültationes feclufis arbitris fiant, neque affi- nes, et dometfticradmittantur: liberis enim fic proferuntur fentent&e, atq; facta à primo Medico » fi quando correcte ne indieent, corriot liberé potfünt, fine rtot$ ienorantiz; qu v fi fir- mis rationibus erunt firmata, facilc à Medico admittentur; quz fi palàm, et domefticis au- dientibus proponantur ; ab eodem mordicus defendentur, etiam fi falfum defendere fe cos gnoverit, ne fi mors fubfequatur,iMlTius caufa in eunr referatur. Vnde perpetva diffidia inter Medicosoriuntur, quod antiqui Patres noftri ir hac noftri urbe, et noftro €cleeio obfervans tes, lege caverunt, ne confültationes medic pu ibIice haberentur ; unde etiam tanta conccr- diainter Medicos magna Rujus urbis fempet perfeveravit, ut in£er tam mu[tos vix unum re« perias, qui altum ad medicas conífültatiores. non admittat 13« SyInam medicamentorum: praffantiffiTorum ad morborum eenus quodcumq; prom ptamad manus habeant ; ne ina2rverte morbo; ac inducias non faciente, veluti in fàlo harere videantur. 14. Vtfelectiora quedam, et experta, fi- piifque ex perientià confirmata habere eos có« venit ; 1ta 1l[a in arcanis ita habere non decet, ut etiama iliis communia ncn faciant. 1j.Sit re ; et opere Medicus, non famá, avt A 3 noml- $ Confalta-o Loz 65 fang feciufis are bitris » Sy'uam mo 4.€^826€5nf10e rumed ma 2/M5 habeot Secrefa Tr dia noz ) b sbeat, fedi CQÓaAunittf. Qu enis de et exciledus- nomine tantüm.; quod ut affequatur,his omníbus przditum effeoportet;de quibus Hipp. /b. Y: de Lege. Nam excoli optime debent hominum ingenia, fi ad perfectionem in hac. facultate ;ervenire debeant. Qualis enim in terris nafceuum eft culturastalis euam Medicine cognitio. Indigemus igitur IVatura » Dotlrina s Moribus genero[is, Loco ad di[cendum accommodata, In[ltutione Apuero, Induflria s et Tempore. Natura no[ftva veluti ager efl doemata vero docentium veluti femina funt . Infliturio à puero refpondet opportuno tempori » quo [emina terra committi debent » Locus flIudiis aptus eft veluti ambiens æv, à quo € terrana[centibus nutvimentum accedit . Induflvia, € flndium cultura e[t . "Tempus tandem bac omma eonfirmat, ut perfecte nutriantur . Exercitationem medicam fub docto ; et ds perito viro facere non dedignetur, neque erud ha d befcat difficilia queque perfcrutari, atque de icd "^ obfcuris interrogare : fic peraliquod temporis intervallum in magnis urbibus fefe exerceat ; exa codea. non ftatim in vilibus oppidis, ftipendio conftiA iwel. Lf. tuto, quod plerique faciunt ; ad medicinam fa- E T ciendam fefe accingat. Modeftià. quàdam accinctus zerotan- pus ingre titm. domos ingrediatur; quilibet enim horà distar. Virgines, matronz, occurrunt, ut continentiam ómnibus in rebus et habere, et reprzíentare teneatur. Cg gl. 18. Cumimpernts,& mulierculis de mor- culis, chi» bor:m caufis, aut prefidiis adhibendis non2 agat; E xerceat fe / 253 Mod» Íe ao Avw, GCL C [LE € Bat ; fed neceffaria folüm proponat : folent peritis de; énim imperiti Medici, ut gratiam apud multos rebus. snee aucupentut ;, hoc medio mulieres et imp 'Cr1tos feducere; quafi illas multi facientes, ut fi quan- do morbis tententur ; eos ad curationem accer- fà nt. 19. Gratisaliquando medendum tum pau- peribus, tum veris amicis;ne aut fordidi animi, aut minus grati notam fübire coeantur . o. Neque tamen velim Medicos mercedem aut datam no recipere, aut oblatam quafi aver- fari, aut exhibitam quafi cum rubore, aut velu- t furtim excipere : fi enim prompté mercedem recipere viderit ; fibieger perfuadebit, Medicüm illius curationem libenter fufcepturum., neque quippiam eorum omiífurum, quz pro anitate introducendà fuerint peragenda. Mer- cede autem non receptà,aut dubitabit, inre ani- mo curationem non füfcepiffe,aut certé dignum illum eà non fe cognofcere ; unde contemptus ; et exiftimationis non levis jdn ra. Sunt enim, qui hac raüone multorum curationes aucupen tur, quibus cum cxpeélationi pramium ncn. oftmodüm correfpondeat aut moleftiam, et I f],, onus illud fine fructu fuftinere coguntur ; aut muffitantes, et in angiportu deinerati animi vitio conquerentes, quafi ridiculi, amiffis la- boribus, et laborum pramiis, deferuntur, aut euam exploduntur, alis in illorum locum. poets . Impium eft ; magno morbo urcente A ; de A nie ditis non [ferat » Gratis ali quando Cii. rand 26 ^ Mercedem. Bromptée ac. CibiAo De mirede non pa- mercede pacifci:ut enim in nobih hacarte feres eifcatur. per hocindignuin videtüt, ita urgente tDorbos impium : occafio enim mederidi fepeavolat ; dumdemercede z$er dehberat : hujus enim opportunitatis momenta redire nequeunt, et cà elapsà, inclinatio fitad mortem, autad de terius . Atneetiam, fi quem ingratum futurum Ingeetos 1 arbitretur;in periculis deferat; fatis enim fern- seceffitati- per fait, ingratos etiam fututos humanitate.» us non de (crvare ; quàm inhumaniter obingratitudinis ferat inetum deferere: et nielius multó eft; à morbo evalefcentibus exptobrare, quàm calamitose affe&tos deferere . Hipp. zz Praceptionbus. M Neimmoderaté, aut immodetfté nimià Non fit i4. cy, ya tantià ninrim polliceatur : nimia enim ét bund'h. tc cnrationem pollicitatio;exculationem poft e» nm! cutam requirit. : pollicitator. N A dis idein z4. Nec rationein curandis morbis folüm; Docheina, sitatar; nec ufu, aut nüdà experienuà : claudi- C "[4p9l- cat enim Medicus alterutro horum crure defti- sini tutus, Ratioigitur ab experienuà incipiat ; et in eam etiam definat : Experientia autem du- cem habeat rationem, et 1n eam dentque termi- hetur 5 utra enim per fe indigzens;altera alterius auxilio'ecet. 2$. Non inhumaná feverirate ubíq; utatur s Nox fii fe. led fecundum conditionem hominum fe guber- . veru; net; nonnumquam eratis curet, vel ob eratitu- dinis memoriam, vel pre(entem exiftimatione, né avaridü » notam incurrat ; Quod fi occafig exclexercende liberalitatis fefe obtulerit, vel pere- erino, vel eeeno omnino füccurrat: Si enim ad- fuerit benignitas, aderitetiam artificio cóm pa- ratus artiamor. Adeó ut quidam eeri, etiam fi fentiant morbum fuum calamitofum éffe, ta- men propter Medici benignitatem, fibi perfua- deant, fe ad fanitatemredire poffe. Hipp.sz Preceprtozibus . Prolaborantiumvariá naturá, et condi- tione, in congrefTibus, et fermonibus conferen- disorationeminftituat ; et materiam fibi deli- gat : alio enim modo cum viro philofopho eft differendum,& aliocumaulico;diverfa eft ratio alloquendi puellam vireinem, et matro- nam gravem : cum bibacealiquid de vino loquetur, de frieide, et limpidz aqua deliciis cum abftemio ;. et fic in fineulis., In fermori bus varius pro agreráá VATRCÍATE o PEDI b MEDIOLANENSIS, Animaduerfionum, et Cautionum Me- -. dicarum, Continens eas, Quein vetlavitlus ratione » potiffggum. 1n acutis occurrunt. Vstlus 1n acatis te- 20H55 CHI» c Vamvis acuta febre. laboranti- E busvictus tenuis conveniat, pro Xarietgte acutiel immutandus, ; E] Gut materie coricoquenda na- ; turamæis poffit vacare, atque morbo et fymptomatibus conflictata, cibo etiam et craffiori, et plurioppreffa, non fuc- cumbat. Virtute tamen debili per fe1pfam exi- ftente, et ncn vimorbi, aut forma vià üs per unum graduri aut faltem quantitas erit augé- da.Si veró vi morbi debilis reddatur, ut aliquo Vidus'vtr- ule o fe dei b; d^ 4i-- ge duse: foi Y723* ; ff vt bow folà modo quantiras.augeri poteft; Itánumquai quátitate . forma viclás crit immutanda. In virium imbecillitate, alia fit ratio vi1- éüsin qua intitate, fi 1 per refolutionem fiat et alia.fi 1 per acefava tic nem : in hacenr np árüm, et raró;inillà parüm,& fepé cibus offeredus eft. ji V ictüs forma, et quantitas, licecab Hip- pocrate et Medicis prafcribatur definita; pro conditione morbi mpg cautio tamen ma- xima adh iben da eft, pectu naturalis tempe- ramenti, cüm alios « di inedi. im minüsidoneos M idea imus, alios Jejunio ne tantillum quidem debilitart: : Quareaugendam 1n illis quantita- em dicimus; quin et formzx eradumaliquando immu tandum, ut in calidis, et calidis et ficcis obfervamus;, in quibus nifiid fiat, et acuüntur ce bres, adgratirti humores, et exliau- untur fpiritus ; unde in animi deliquia,fynconi et maraífmum denique terminantur cori. 4. Cautio etiam adhibenda eftin victu infii- ti iendo, qualis fit corporis habitudo, an mollis, laxa;poris pervia; an folidior, torcfa;& durior: - : I 'U:rYidufo YAYO » [4 per aggrauatie (EP; J/! be tal rcf p»? (0x e p? TY HZ, C 45€ € 6 Z4 7713 Viéiusiun- JTHARAMS rattome 16é- peramone tora it i E Vicdlus ime mutandus rattonc ba- in i]l|à enim quantitas erit cibiaugenda, inhac £was co;- potius minu crida L poris. $. Habenda etiam maximé eft ratio ventri- V/«s imculi : $1 enim veegetus fit calore, et multo fenfu przditus;aliquanto plus HH: erit concedendum: fiad coctionem iners; et calore deftitutus ; füb- uahendum de qi lantitate erit. 6. Viris, quàm mulieribus;iracundis, et ro- buftis, quàm poni animi ho muncionibus;pl Us femper eft concedendum. 7. In&tatbus ; ut pueris; et adolefcentibus plura mut TT Yattone diftofitionis ventrictlt e PS do ( ;bi. quan IHto$ 2114 da vefteéin f Xs . M Ó / Puæris Co gm tesa e RE :£z. adolefcensi plura funt concedenda,tum ob difflaüonem ni] gri &us pluse - miam;Scob caloris robur, et ob teneram, mol-'1::: bicateden- lémque fübffantiz compagem, tum quód per-.] i dum quà cnni quodamcorporis motu agitati, facile ex-- eii fenibus-. hauriuntut:ita fenibus liberius etiam jejunium) i52 poteft imperari. Cave tamer, ne inter fenes de- (ou: Decrepitis : áo abs e pe" i Ai : parum, c. CEepltos collocaveris ; hrenim;cum virium ime jr fp. becillitate tententur; ac fpirituum paucitate;utr| ui pauco: cibo fünt reficiendi, ne paucus calor ài yiii multo füffocetur ; ita fepé cibandi, ne coníu--| iii mantur.r. Z4pbor.14- griff ra. |. 9« Inquantitateveró, qualitate; numero ex-4 oi tiopyo va- hibitiorum,ac forma victüs, et confuüetudini 5 1 vietate con et regioni multum tribuendum cenfebat Dicta-4 («« fuetudinis, tor nofter 1.4pbor. 17.quia quorum ventriculuss| cj €» regionis (emel, aut bis humefcere intumefcere, et con-J c; eit mutan- coquere con(üevit, fr defraudetur ; muratà con-4 ;j; di. füetudine,temperamentum;habitum;, et actio-4 nem immutat . Et fi mufta et ingerere, et con-4 i. coquere folito aut potionem fimplicem;aut for-4 ».; bitiunculam exhibeas, in marcorentcitó indu-4 Ces, ac vires vitales quàm primüm deftrues . 9. Cavendum etiam in quantitate cibr prz-4. fcribendà in febribus, nefemper, et omnibus$),., gonceden-- » jade d n "T. Dun 4i;, fed r4. ARI temporibus eandem definiamus,cum hye-4;. vius; 4ifta 86)& vere, quód ventres tunc naturali calore. fe minus, làaximé abundent, vnica exhibitione plus fii! ftd fapius . exhibend um :' hoc enim eff; quod docebatur alli s. Hippocrate, 1. Zfphbor. 15. Æftateautem, S, autumno, cüm calor langueat, minor quantita:4? fingulis vicibus erit concedenda ; fed fzepius re«4? p Hyeme pi? TA Mur 3 petenda, ut calor, qui.diffolvitur, poffit inftau- rari : quódnfinuavit 1. Z4phbor. 18. IO. Cautio tamenfit, ut zftate, fi partitas "A cfilate exhibitiones, et quantitatem totam, autnius 44modo dici ;aut integri quatridui metirus eris major PI eonce- fit quantitas, minar atizem hyeme: nam hyeme 4*24»m i» minor adeftneceffitas quód tunc minüs refo]- partitis vicibus conceffo,& imbecillirati caloris fatisfaciemus, minus fineulà vice exhibentes ; et miim refotutioni, fzepiirs Gibiuexhibentes: quod Galenus infinuavit 1.4e rat. wit az acut. 44. ubrenumerans, quzad:cibi in zeris fiibera- €tonem faciunt,unumid.effe inter aliascribit, quód hycme quis laboret;minus.enim tunccibi erit offerendum : recenfens autem quz ad cibi adjectionem faciunt, unum effe dixit, fi atate laboret, quod Avic. 1.4.7 a£. 2.cap.8. de ciba- tione febricitantium in generali æens confir- mavit. 11. Obfervandum autem, predicta non per- petuam habereveritatem, neque ratione cor- porum, neque ratione temporum anni : vatur corpus; etate autem coplofiori cibo, fed men "M^ * V7T^ ^V dt $ d o Hyeme uandomi aliqua. 54; puryig enim dantur corpora, quorum natuiraliscalor dug. adeo eft imbecillis;ut à frieiditate hyemis faci- lé cvincatur, calore veró zftatis quafi fcveatur: alia etiam, five occultà quàdam, et nobis inco- gnità proprietate, in aliquibus dictorum tem- porum annt; in robcre virium, aut imbecillita- te; proportione non refpondent difpofitionibus £X ann] temporibus profluentibus; aliquos enim í rci n Victus: for- a 12 4€H is variarda pro vavietate véeft, nc tinuà.; vftate robuftiores reddi » quàm Ca lioe fortlotes autumno, quàm vere. In his is ratione victüs inftituendà refpectu quantitatis, 1d; quod proximé dictum n erit fervan düm; tum in quantitate con- tà. Echyeme pauciora, fed fiepiüs ;eftate plura;fed rariàs erunt conceden- «la ; et anni tempora, fi fi naturalem non fervave- rint naturam, victum inftituendum oftendent cujus naturam induerüt. enim Récid hvet Inc pro ratione tem poris; tum in difcre potiffimu m 12. Forma etiam vids pro-regionum va rietate, et locorum confuetu dine; aliquo modo eftimmutanda, et quidem càdem ferv atà propor done per oradus rati inetempol 1 le laud andi IS. ÁÀ ver. 7 s,utip quantitate variandà um obfervan dum dixin « Colieét.cap. 10. cim .Vnin fuà.regiope. ;nemp ein Hifpaniz parte cali- dior, |, tenuilmam ditam effe aut cremoremip hord a€1 l« s àl aut: dux mmum melice 3 X és fórma folà im] it angu autincifu m; aut friatum ex: ; cüniantiquis, et Galeno potiffi- omnimoda quatriduana ine dia ; fictamen, ut vi--Jiz : eradum unum i1mmute--Jffi rautem ied fiat non à eradu ad era 1 dum, fed à.tenüi ad medium; &.aliavando eti ip» ut pid aim n pof 280.48 ad E lenuü In, Qua fi Pea cpLEIdJJMDUS Dac VICI jo^te Péceaph,quod in mu duis I Hp Hi " * Y e k AJpTpX CI ILE R4 iliz nobilif-, et Gallos eEa dà veró s ium; etiam legendus eft pul]-J Ccher x ha eatur ratio, WEINE Copfi chetrimusejus liber-De zere.. aquis, G' locis, qui luftratus. 13. Ex vite inflituto, ex arte etiam, quam. exercent, defumenda erit à Medic et formas quandoque victüs; et quantitas,càque utraque mutanda, prout magis, minüfve et laborib folidiores partes colliquantur, et huimcres, fj finifve exhauriuntur. r4« In quantitate ettam fu [us benda À ante- actz vitz rationem habere ;nonTj 'arvi Y0noJr.enpt ti eft : fi enim laute altus fit, fi plura ingeffefit) anres :: btrahenda erit quantitas : fi veró jejenaverit, et pauca,c: aquec nCO ctu facillima afivimg pfit pr aliquod temporis intervallum quantitas érit augenda, aut forma erad us. 1 $. Cuin à morbi lc ineitudipe, aut brevitate diftantiaque flatus nx rb limaxime ác IDattr a EN rma victis, et alic uie parte qu ántitas,tüt miris 1 d quam cinis victus rátio ; CUN TRC fultum Medias, et Paris cenfemus, quod àb Avac. conftitutum eft: Cum jenoras egritudm di » fubtilia recen. id enim in morbisà materi pendcnüibus cmnino intelligendum eft: Bie eniti) lo tempcris in- tervallo materia ncn auccturinec virtus-diflra- hiturà proprio furgendo murere agendi in. materiam: interim enim fuis fc fio eple miciBus, et materia faciens morbum. facilét ficnect. 16. Vtveriffimum eft Medicórüillvd pra- Céptum ; et commune tani ditturpis mcrbis . Bo95d- |! eiiam luculentis Comm entariJs à nobis eft il- dab. vs y 9, €L ; is,9ui $e ali-, utm banda e $ p Aser - EX! SÉ, ! e ien Acuttstn fóribus te nutus ciba dum quá 1 elus acutis Tenutfs. vi dla medz sn flatu se frg. Abb. 8S. veriffi-- 9 de ffa1u benes f»mptoma- ?4. quàm acutis ; JI flatuytenuiori vicluutendum e[- .| v. e, quam in principio; quoniam tamen fx penume- ro evenit;ob ingluviem in aliquibus civitatibus; ventriculos primis ftatim diebus, qui principio || debétur, crudis humoribus effe refertos,in lifde: etiam tenuiori victu, quàm per principium li--| ;... ceret, uti, et aliquando etiàm tenuiori, quàm ini| ftatu, cüm et inedia aliquando omnimoda con--| veniat, oportere cenfendum eft. Celfus /rb. 2..| cap. 16.dicebat: Jzgiria morborum primum [amem.»,| fitimque de[iderant . 17. Laudanda illorum eft. diftinctio, inte-1 : nui,aut craffo victu inftituédo 1n acutis, et d1u-! turnis morbis ; quód in febribus acutis tenuior) efTc debet, datà càdem brevitate, quàm in aliiss] acutis morbis ; quodin illis magis coctioni 1a-4 cumbendum fit; quàm virtuti;ac majora fubfinttj fymptomata : in diuturnis autem. febribus mi-j fius tenuiter alenduni eft ; quàm in aliis diutur--j nis morbis, quodin illismajor;quàm in his fiatt virium exfolutio, et proptereà etiam magis im febribus virtuti eft profpjciendum.. m 13. Cüm Hippocraus aphoriftice fententia]? quàm máximé univerfales etfe foleant; ea itidé;J que lib.r. propofita eft numero 8. quà afferitur:j Cum morbus in [uo vicore con[Iteyit., teutlfimon ^ vitlu utendum e[l. ut univerfalis fityomnibüfqued, morbis conveniat;de ftatu intelligenda erit,quiil| " ex magnitudine fvmpromatü fumitur : fic enim) tam vera erit.1n morbis non fervantibus mate--«! riamad unam criucam expulfionem, quàm in, ícr- L4 fervantibus, fecüs quàm communiter Medici crediderint ; qui Aphorifmum illum folüm ve- tum effe ce .nfüer int in morbis fervantibus ma- teriamad unam criticam expulfionem, de ftatu. ^ arbitrantes Hippocratem loqui, quià coctione céisndnit P fu mitur : in quc D bfervàrunt, Hippocratem Et. de vitiu acuit. 22. 1n morbo non fervante mate- riam ad unam criticam expulfi ionem,ut in plev- ride, 1n ftatu sn ies coctionem plenius nu- ciendum ftatuiffe. Quod fi ftatum penes ma- anitudinem fymp tomatum eti umin iis morbis fumamus, utin plevritide, etiam tenuiffimo v1 tu utitur eogezs lib.tex.a21. Cümos amarefcit, et ficcus morbus eft, tenuius ericalendum; tunc enim,.etiamfi fit principium, aut augmentum. penes coctionem,in flatu tamen penes fympto- mata confütutus efti morbus. Quamvis veriffima Hippocra tis fenten- A bu "x Tenuisi- tia I. Zfp5or. 7. tenuiffimá. dira. utendum effe, 1530 "viélta ]t ubi morbus per purse cít,ó TU EE soul bores; cxim end tamen ab his omnino erunt donsdas 458 fcbres peftilentes, in qi ET quamvis fummo raris, pe- fint fymptomata, et ciaflime ad ftatum perve- gilestes ta niatur, quód vires in cis flatim quafi collaba- se» feres Ícunt, lautiüs et uberiüs eft nutriendum, ipfo fut excie- etiam v190ris tempore ; ut abundé demon(ftra- 2:c74«. vimus in noftro] ibro 4e Peffe. t4 20. Ad formam victüsinfüituendam, puta, "(257 an Ver coena tenul,anmediocri,anomni- "^ 'TST da li nedi ?1 ;al (o k )po yu all fo rbition! bi IS,an c 64 £ercu lis, pU La ; UC Xtà pt lan à, pane coricifo, aut LA COR - Ü * den ^. 4634€44, C" po 4 770A" contritoex jure;quamvis virtus primum locum fibi vendicet; Galeno refte, 9. AMeth.smed.cap.11« (P 13. 1. de.vat. vitl. 1n cut. 44. quod cüm. morbus fui ablationem folum indicet,virtus verofui cuftodiam ; hac potiífimüm victüs formam oftendet, morbi ramen difpofitio etiam ad hoc concurrit: nam ZApbor.7.dicebat,//b: smorbus peracutus eft, C fLatim extremos habet labores,extreme tem[[imo vitlu utendum e|! . pex labores, acceffiones ; et fymptomata intelligens, que morbi difpofitionem conftituunt, ut et colligi poteft ex 24phor. feq. C" 1. acut. 42. 43« 44- (2. esic- dut, 36. ubi ad formam victüsinveftigandam.», bud qu^ xewndicit neceffariam effe cognitionem et roboris E virium,& difpofitionis morbi; et 3. acut. 61. Et jure quidem merito: quis enimncefciat, ex lon- cis, gravibüfque acceffionibus, gra ibüfque íymptomatis formam victüs tenuiorem indica- ti, nenatura tuncin refiftendo caufz morbificze, et (ymptomatibus detenta, ad concoquendum cibum diftrahatur ? Verüm nec virtus fola fufti- cit, neque illi conjuncta morbi difpofitio, nifi iis diftantie ftatüs pracognidonem adjunga- mus; nam,etfi ex conftitutione morbi, et viadü robore folam potionem in prfenti convenien- tem effe cognoverimus;perfedlé ramen hocífci- renon licebit, citra ftatüs przecognitionem, an ciboillo in pofterum fufficere valeat ; Citra vir- rutisincommodum .: Obid Hippocrates, poft- quàm morborum difpofitionem recenfuiffet,. fi fubintnlit : Coz];cere atttem oportet » &gvotamtem, fi feficiet, ANIM A4DFERS. LIB. II. i9 fi [fficiat, cum vitlu perdurare, doge snorbus con- f ftat . Fi tcb 1d. Hippocrates in cc onfidcratione virtutis, ftotüsn.eminit. A morbi igitur difpO« sev» "Ad fincne victüs fcrmam ei iemus ; deindea Oro- ew. tantis virtutem infpiciemus ; deinde ftatüs di» antiam conjlciemus ; demümzaftimabimus; an eo victu, qvem mcrbi conftitutio indicat; virtus zgrctantis ad ftatum, citramagnum vi rium incommodt :, durare queat; in quá fen- rentiam veniffc G: ehum videmus r. "hor. 12. 21. Cümin vi& üsinflitutioneillud maximé fita pud et antique esp atrcs noftros, et recentio- tes contr: verfum, cum d ces admodum ne- presaléte S ectio et fermo vic iis ; et qvantitas determina- dicatióne ta prafcribi r« f: t; ad quam partem przftet de- 555, Errores 45 tenunatiu, clinare, vt minüs Izxdamus, an ad: iumpliorem, fas. ders. in ad tenuicrem ; cb locos Hippocratis co ntfO- riores, f im Verícs, 1. 7 por. C07 2.derar.vict4z acut. acfecia. al:0s .1n €à cif cultate has adhibeat cau e nes Medicvs, Cümà virtute primó illa dicatur infütvi, et per fe, ; peradjectionem ; fecunda fio, ! peraccidens à morbo, per fü btrad 1onem., fi Medico 1n victüs ratione inftituendà, tum i fcrmá,tum in quantitate, viribus non ma validis, nec morbo multin n co intrà Indicante, contineataliqvantifpera recta victüsratione» defiectere Paucis Ito eft, pauló pleni r vt) victu, et ad latus ( ut ajunt) plenioris accedete, quàm ad t:nvicrem, prevalente indicaticne s virtitis . quàm rc A lav ctiam exemp lo cc nfir- iEaVIt Gal.1.4cnt.a2 .Quc madmodum écontfà, Preoalegte Bv a consoc LED. SEPT.4ALII M EDIOL. anorbe funt contraindicatione morbi fübtrahendi przva- deteriores lente, et viribus validis, ceteris enam morbum fei exctffd- adjuvantibus, preftabitomnino ad tenuioremi deflectere, acfi quando errando à recto illotra- mire recedat, minüs peccabit, fiad latus tenuio risaccedet; fic enim ratio dictat, prevalente;có quód fübtrahendum effe indicat;morbo, quod ibidem Galenus affirmavit. Ires ino 22. Obfervandumautem fi pat fit indicatio forma vi-- à virtute, « contraindicatioà morbo, in victüs dius pari i- formà inftituendà equale omnino effe pecca1 5c 545a gutant, qua fortiora [untynocerent s qua debiltora, prode[Jent.facilis [ant ves erat : Multum emm de fecuro detrahere oportebat, ut ad d ebiliffimum de- duceretur . INunc autem uon minus delutum, nec oninus ladit hominem; ft pauciora, defectuaftora, euàm [atis eft, affumantur : fames emm magnam potentiam in naturam bhomims babet Ci famandisce dlbilitaudi, € occidendi : multaautema etiam alia wala diver[aquimedlen ab ii:,qua ox veplettone fanty "mom quit : $; quidem igitur [inapliciter, velut. aliqui ANIM.ADVERS. LIB. II. 2n gan minus autem gravia, inanirionis [unt 5 quamee obremmulto variegatior eff, et majorem diligen- tiam requirit s oportet enipa modum aliquem cone qePlare . Modum autem, neque pondus, ueque ne Ier aliquem; ad quem referas,cogno[ces ; Cer- titudinem enim exattam non veperies aliam, quati corporis fe fenfim... Quayropter valde operofum eff, za exatte condi[cer e, ut parum 1n alterutram pay- tem del ling "AS $ quamquam ego eam eum AM edi- cum vehementer laudarem, qui parum delinquat ; Certitudinem enim exatiam varo viderc contineit. Mox comparat malos Medicos malis na- ARA vium eubernatoribus ; qui dum tranquillum. Je na mare, etiam fi aberrent;ncn fiunt mani» 7^9 . eft eorum errores : atv bi tc mp inoru erit; »iHa eorum det tceit vriencrantia : Ita et Me- dicorum errcres, dum falvbres my db OS CUFahts etiam 1fi n hirixime celinavant, ncn fiunt manifefti :atubio raves m« rbifefei1llis cfferunt curan- di,tunc manifefte d leprel enduntvr. Moxexem- plo (Litieiim docet, non mincra 1nccmmoda,s provenireà repletione, quàmab inanitione ; et loquitur non de quantitate, - de formà vie étüs, ut patet ex pr imis, cum dk 151 que fortto- ya [unt, "0cezt . quod ad fü nct ciborum pertinere conftat. 23. At veró paribus, et ex virtute. et ex mor- bo vigentibusindica tionibus, fi quisin metlen- ^ "m $ Z Krrores i5 JENNSMAM e dà quantitate à rectà ratione recefferit, 1ita ut fip les plusin quantitate, quàm o pot teát, exhibest, 4445" quá aut et *a debità meníurza à aliquid ca letraha p^ P uta, (1 e foy? P3 fex PT) LVD. SEPT ALII MEDIOL. fex uncias fucci ptiffanz exhibere debeat, et aue . octo,aut quatucr prebeat,maj us commtttet er- ratum, fi octo concedat, quàm fi quatuor folas propinet: hoc enim eft;quod Hipp.zex. 57 lb. 2.4CHf. docebat: adjecticni autem cibcrü multó minüs attendendum. Et rationem reddit,jnam quod plus eft;noxas affert inemendabil 65; quod veró minus, facilé emendatur, nempe fi virtus labafcere videatur, cibi exiguum poffum: is mi- niftrare; verüm fi in ventré cibus fit abforptus ; quod füperfluit ; fialiàs, multó magis in acutis morbis, tollere eft difficile. Vbi et Hip pecra- tis, et Galeni verba non de formà victüs, "s d de quantitate effe, manifeftum eft. M [cüm veró id refert, quot niam viciüs f rme«&eradu, et fpecie diverfz funt;cognofcique,& e iei, difcer- nique Medico, in Hippocraus, et Galeni ope- ribus excrcitato poteri ^ SIQve in ea errores committantt: ir, neceffe eft, freciem mutare» ; sícque mæ2na erit muta ee etiamfi per upum folum eradu m,aut fpeciem tranfieris,ut à meli- crato ad inediam,vel fic um pütfanz ; unde et parerrorcommittitur. Átin quantitate;cum» eonjecturà folà uti poffimus, an macis, an mi- nus fit exhibendum, non eft rar ra tio; ; quia ; fil tantam quantitatem exhibe eris primá cibatio- lt « nc, ut commode conficere poffit; nullo morbi autin veh emen tià, aut In acceffionibus facto:| augmento,& eam quantitatem facile ferat, Vi- dcatürq; majorem etizm quantitatem citra in- commodum ferre poffe ; quia inde conjicis, te: minus, quàm oportet, exbibuiffe, in fequena oblatione parüm adjicies, ita ; quod minus eft, facilé emendatur ; quód fi plus exhiberemus ; quàm zerotantis natura ferre poffet, noxasma emendare ita facile non effet : Nam hunc erro- rem hec fequuntur incommoda,gravitas hypo- chondriorum, frequentia anhelitus, febriles in- cenfiones, fitis, capitis dolores, et hujufmodi, quz omnia difficile tolli poffunt; nam repletio- nem hanc dedi camento o tollere non 1 licet, eum. nem. In formà veró fecüs ied; nam fi à debiri forma,vel fup rà, vel 1nfrà ctiam, per unum eræ dum tantum deflexeris, egrum præcipitem. æes in mortem, ut longa oratione docuerunt Wppdersteo! et Galenus 1. ACHT. 30.40. (P 44 Co" 2. ACHf. 19. e ?* 49. Locus veró ^ "Apbor. $. qui » determinationi € directo adverfari videtur, ull odi reptienat ; neque enim loquitur de tenulori victu,quàm par fit, fed de erroribus,& Izefronibus 1n tenui victis ratione evenientibus, dicens, efle majores læfiones, quz accidunt ex rroribus in tenui victu accidétib js, quàm qua 5 x erroribus commiffisin pauló pleniori. Vel m dici poteft, inillo $. Aphorifmoloqui de totà victis rationis formà in toto morbo, quse multó periculofior eft, quia errores commifli maois lædüt:at 2.4€41.237.loquitur de unicá;aut alterà cibi exhibitione in quatitate, quz fi plus fuerit quàm oportet, plüs lzdit,quàm fi minus. D 4 24.4 Ne LVD. SEPT ALII AfEDIOL. Giuspem 24: Ne quis errorem cenfeat,fi Medicus ali- lb deterier quando ex pluribus cibis non malis, minus bo- sod) f44- num feligat, et per totum morbi decurfüum ino vtor conce fam ducat, fi multó magis palato zorotanus v iia e arrideat five ex confüetu linefiveexnaturàpes |! Fielligédi - culiari, fiveex appetitu in morbo : Docebat 2d enim Hippocratés id omnino preftandum 2. "Apbor.58. Sed diligenter attendat,ne luxu, et intemperantià ægri in Crrores ducantur, quod [itu paffim ab adulantibus Medicis fieri video ; qui ut principum virorum cule tamquam manci- pia inferviant, abutentes utiliffimà Hippocra- tis fententil;aut zgrotantes pracipites agunt in mortém, intemperantiz, et dominandi cujuídabo prorogato libidinis poenas dantes ; aut mor arumenas fuas omnino 1mplentes ; cüm fciants Hippocratem dixiffe non abfoluté, fed pauló deteriorem prxftantiori, modo fuavior fit; effe preferendum. ibit 25. Gratificandum preterea quandoq; cgris ibis grati docebat Hipp.6. Epid. fett. 4-tex.S. At id aliquid ! amplius eft, unam enim, aut alteram cibatione:j 24 cdit &gris ce dis Had Col eo eri contra. ÉCLpYCIC 1n quà deje&toappetitu aut V1 morbt » reglas. aut longitudine ; aut utobfequentem magis 3 reliquis habeamus; aliquid concedendutrb s4t jj; quod extra limites inftituti victüs etiam fit po-4 i; (itum, modó modicum fit : interim plura pol- liceantur, ut importunitatem cohibeant. Adoersstj». 26. Aliquando tamen eó ufque dejecta eftin omaino vi- €grisappetentia,ut cibi eenus omne refugiant: Ái aliquan. ac averfentur; quin etiam,ratione fuadete» cun v1m e Vini fibi ipfis inferant cibos affumentes ; ftaum illos evomunt, et tunc Medicus deterrima que- que concedere femel aut iterum debet, ut vires cuftodiat, ne in certiffimam mortem cadant : fepé enim evenit;ut ex malo illo cibo affum pto expetito natura inftauretur,& morbus omnino quafi conclamatus fuperetur. 27. Caveantin averíantibus cibum, neali- menta przparentur ipfis przfentibus ; aut enum major ex diuturnà vifione fübfequetur verfio ; autreculàaliquà minüs illis arridente vis à, in» majorem cadent abominationem .,8. Cüm Hipp.t.-dphor. 16. tebricigngum victum omnem puer n effe d debere fcribat cave, ne cerfeas de humido folüm p iotentik ie qui ; quamvis enim et illud requiratur, humi- dum tamen actu,five liquidum;effe debere ma- nifeíté intellisit:nam alibi,ut 1.7e D£etz,cibum humidum effe debere, id eft, potentià imbecil- lum;fits expertem, coctu facilem, et liquidum omnino teftatur, qualem ibi ptiffanam confti- tuit: humidumveró potentia etiam liquidum cí(e debere, docet et Cornel. C ii 5. 3. CAp.6. CU EI etiam rei ratione m re ddit Gal. Jib. de gpr. Seta ad T brafib. 4.càm ait: Quoniam qua conco- quuntur » effumduntur, ideo C mox diftvibu untur, 49 &grotantes nonvuulto labore in cibis cor ncanes d /$ indieent. Et ab his praceptum ua[citur, Iquidos ci- bos omnes f'ebrici qon comvezire . Quod con- firmavit t. acut. 38.69 1. 4d Glauc. cap.13.de UHTA febr. cont. fine euctie ; ubi cibos omnes fe^ bri. * a) do etia pep fima conte denda. Cibos 4- vexfant tss ne cibos praparare videant « Vasiius Le tmidas fe- bricitantie bus ofai- àus Cconvute£e nit acínu e£ "T 2115 talis bricitantium debere effe liquidos teftatür;quiz humida actu, et facilis in chyli formam redu- cuntur, et ceteris paribus, facilius multó con- coquuntur : cüm enim ex febrecalor naturalis imbecillior reddatur, ea erunt exhibenda; que facile conficiuntur. V iderint ieitur, quàm bene victum in febricitantibus inftituant, qui Pe- P2 AÀ tronam imitantes folidiora concedunt, et non us folum clixatas carnes exhibent, fed affatas etiá, Y in quibus vix humiditas in potentiá reperitur. Sed de hoc pofteà. ANS 29. Vtveriffimum eft, in acceffionibus, id ? agi "s eft, principio, au gmento, et ftatu, abfünendü d», d de, declinatnionémque in continuis, et potius quando cj 1ntervallum in incermittentibus commodum banda, tempus effe nutriendi, ut colliei poteft ex 1. A phor.t1. C? za fige 1. de ratione vill. in acut. ita. declinante febre acutà, fi viresurgeant;forma., aliquo modo erit mutanda, ut fi ptiffana hor- deacea fit forma, in fine ftatüs, aut inchoante.; dechnatione;primó potionem dabimus;ut cre- morem hordei, vel jufculumrefrigerans, vel füllatum carnium cum aliquá aquá refrige- rante, mox interpofitis tribus, aut quatuor ho- ris, cibum jam inftitutum concedemus, ut in- nuit Hipp. 1.acur. zz fige. jo30. In Synochis veró, quz uniformes fint, In $550- . Camdémque à principio morbi ad finem nfaue AS 242,- fetvant formam, unicàqu e acceílione perficiun 72 cibsg--. tUt ; quandonam fit eger cibadus, docuit-Gal. dam . Yr. eth. fed. cap. j.nempe quando xger faciJiüstolerare morbum videtvr, et quando;dum fanitate frueretvr, cibum fimere confueverat: fiigitur et facilior tolerantia cum folità horà ccincidat, hac erit eligenda : fin minüs;femper pravalebit facilis tolerantia, quz fi immanife- fta modó fuerit, à folà confuetudine tunc tem- pus nutriendi erit defumendum. 31. Quod fi contingar, in intermittentibus om intervallum nullum effe, et declinante» jorbo novam exfpectari acceffionem, ita üt tantum temporis à fine ftatüsad novam inva- fionem non intercedat, u t cibus ingeftus coqui poffit, puta ; (p: LC Jp trim horaru m tantüm» ia ut ne R^ m fit aut 1n fum mmo v19o renu- E, vel fequenti accefficnioccurrere cibo in- co&o, et repleto ventricrlo, quod fzpé in pra- xicxercend àoccurrit, quid in eo ca Mh £a |Cjen- dumerit? Anne fatius erit vieenteacceffione - cibv m pro pin: I6, 2n potius viecreevitato, fa- tius erit ; Cibo in ventriculo exiftente, febri oc- currere ? Con mp hiter ?b cmnibrs refponde- trr, deterius effe mu Itó In principio cibum. exhibere, quàm in ftatu; quód nocumenta, principi! cim aliis temporibus ccemmunican- tur, ncn fc: artem nocumenta ftatüás. Verümmvltó fecüs Gal. 11. A erb. sued. ult. rem banc M eerivir ; ubi, cafu p ropofit eodem, confide- randum effeid docet, o uo d mæis ureet,quod- que ma g1s noCituI 'um judicaverimus, fuoien- dum : dox cétque, eííe ccnfideranda locumaffe- (tum; affectionem, princi pli et ftatüs naturam, tum Cibare bre f2af12 fine ffa1?, qu prote tnos ffonem ; c» ouando. (4 / ul "424 h^. ya. tum et morem morbi . Locus quidem, et affe- éctio;ut fi ventriculus, vel hepar afficeretur in- flammatione, fi pauló ante acceffionem cibare- mus,omnino effet perniciofüm : hepate enim affe &o alvi dejectiones unà cum acceffionibus folentinvadere : ore autem ventriculi vexatos fyncopes fuperveniunt. Vbi veró abeft in- flammatio, et vires debiles fuerint; ftatu om- nino evitato, propius principio cibum iie cx pedit, potillimüm fi mos mor bi; princi pii et ftatüs mori refpondeat ; hic veró confideratur in vigore, et principio, fiannotaverimus im. fümmo vigore, an citramagnitudinem febr T. caloris ficeus t. [fu dens, an citra [qualorem nurenss Priorem namque h bumetlante vitlumade- facere quamprimum oportet : In [ecundo.dum plu- vinum calovis remittat » e. vfpettare . In principio vero acce [ponis morem &[imabis, at corporis ex- trema perfrigeret, magna [anguimis revocatto- zen ad interiora corporis faciat, an omutimo corpus zn premat : quippe [ecuedum bocscen faciles man- fietumve contesanes y 1m priore diflinguas oportet. Nam [i ab[que vi[ceris pblegmone, aut [uccorum. vedundantia, motus ad interiora tin acce[[iontbus pollet» zibil offendes paulo ante cibans ; fin vel phleemone, vel redundantia [ubfit, cavenda eff ante acce[Jfwnem cibatio, ceu vesss AXIE nóxia . Cüm tamen multó major fit quantitas morbo- rum,& habitudinum corporis quæ expofcüt, ut potius in fine ftatíis nutriamus, quàm prope principium nov acceflionis, mæis laudarem, Cal || eam propofiuonem medicam, quà aflereretur; urgente hac neceffhitate, praftare e 1n fine ftatüs nutrire, quàm etiam per duas horas ante prin- cipium, quód major quantitas febrium fit ex genere iride ex obítructione ob abun- ;] dantiam crafíorum humoru m, et ex interni, vel externa phleeg: mone; in quibus, Galeno tc- I fte, prai (tat in fi ine fta tüs nutrire, quam p roximc :| ante principium. EL . Commendandus tamen aliquando cibus X 1n 1 principlo, et inauemento, et ftatu, et Booxined ante principium, ubi habitus COrpo- iisaridusadmodum, à tque fc qual lens fuerit; et 9 in febre admodum ardente ; biliofo humore, rante, atque ad ventriculi os trans- lit inedia, vigilias |i d^ qp ] ee o6. di 4 M - (* ] "m, c ws bu et .. ininoadecratasltrititia, c folliatudo, auibus et exiiccatuim elit pius nilniO, c excaicractutin p - Tp ^ 4^7 Ox "£X Ld "E" "e -. COI1 pus » ir ILICQtiC CODn9 C111 a3cr« y s EX HII jdaaces A et 1 ME e£ a. dai 141 N t^ i E qu E o inunmores: proquarebpence inte iii£g ence Mii Àet aus cit. L3a1C€hlis noitcti,I x. IM eti :2CG. eC |» 1»211í0« ve dob: e N- í f. inqgi 1lDuUus caàlibDiis pI. (tabit a nt ein: y: 'nei L : a d "111 ! j &in l DEYi IC11 LG ASM-Æ Lu an |t Lt Verum cum hoc rarius contingat, in caf pi /" ! » f1,, Z " Xf». (17 ^ 44A Bm 1 $7175 *4 13^ 47 p 1 *Yy Poe polito, ub1 à itatu à DI1nci Ji nOV. invalid nlsS nuum temporis Jntercedit, ut comqiTnock CIDLi n i1w vis 1illiitlooe«.iLA&LALCICCIC 3 Ai! liüs effe n n atüsnuütrlre, quàm pr ;Galen./z Com. multó plura referant incommo- da, fi quis in principio cibum offerat ; quàm fi in ftatu. Et hoc eft, quod innuit 1. Zdphbor. 11. cüm dicit,» acceffiomibus ab[Hinere oportetd eft; et ptoxime ante, X inchoante invafione . Mugmotà 33. Quoniamautemaut incomplicatione» acc ejfinis duarum febrium, aut in unà ediamyin qvàtem- minus in- pora adeo extenduntur, ut anteqv àm fup erve- commod? Sat declinatio, nova acceffio fuperveniat, sic- ibat que neque intervallum, neque declinatio repe- quá flatus: v rariin quibus cibum offerre ex ratione pc ffi- mus,1n ambiguo Medicorum animus hzret ; r* quandonam cibum offerre expediat. Auemen- ti tempus prusotes et minores fecum invehe- re lzfiones cenferem ; quód nec ea immineant damna, quz fequi docvit Gal. € 11. AMetb. 1.acut.penult. CÓ" 4.atnt. 39. neque eó ufque ca- lor, et fymptcmata pervenerint ad fummum, utin vieore. Non negandum, noxas etiam ex oblato ciboin augmento non parvas excitari 5 atindicatione à virtute ur2ente,ccm modo teni pore. morbi importunitate füblatà, illud elit cendum cenfemus, quod mincra fecum inves- prium hiti incommoda . Plorg tres D um CR acuoatione 34. Cav eant,ne rempus trium horarum cen--|ii eant fufficere à cibi oblatione ad novam inva-4ii: ad acc:fio fionem, quod pleriqve cenfrerunt, Galeni au-Juj nem » 20 faf cord durer. 8. AMe: b. 4. lH bi: d f(Terit/fatis effe, fiia. fities horas aqu inoctiales, quatuorve, inter] balneum, acceffionffque tempus interpc »natntzj ibalneo enim cibum exhibere folebant ; cümm alioqui Gal. 11. 2etb.1 s. docuerit; maxime in omni febre coctioni 1ncumbendum efle : quia fi adveniente acceffione, cibu s in eric ) non fit confectus, ex retractione caloris ad in- terna febris omnino butsiiesü,; pefimma illas fvmptomata producentur, de quibus Hipp.& Gal.4.4cut.59. Et Avic. 1. 4. T racf.2. cap. 6. 1tà in febribus cibandum praci pit, ut vacuo ven- triculo occurrant : hzc veró concociio ne in fanisq juidem trium horarum fpatio confici po teft, cumin xeris natura ex morbo d« cbilis red- dita feeniter coctioni vacet. S1 igitur fuerit " forbitio, ut ptiflana, aut contrltus pan ida tus ex jure,aut idem concifus,aut hujus 5qi isi WT i ., ; 211-3 4 1^ VEN NS I quinque;iox,al tetiam feptem ati onc eden- A [| daxíunt, plus minus, prorcbcre ventriculi,«& :] A 22-594 I " - p! «conditione Tebris int num [1$ pecccantlsS . fantiCcriun, aut niicuium aiteératum, tres aGul1 ! EB É im MN 3 dem hor xquinoctiales fufncient; de qva re "4Q "EM locu us eit 45» €ID.4. GC XCCCOCCO €nif1n 1 L| raaicum apiiioquitur,non dCIcIDIUCRhC, aut ferculo, quz non exhibuifle ccpttat cb angu ftiam temporis ad fequentem acccftionem;füb- dit enim : $7 vero ctrca ve[peram, aut duabus bo- yis cttius acceffto iervadar um laville mane licea?, tum ciba[[e; ux evitecillaincommoda,;qua fequi docet Hipp. 4.aczu£. 39. ubi cibis incocts in, * ventriculo accefito fi ervenerit: Pezter emm; inquic cær, faflidit cibum, 1mtenditur bypochbonr J^4244912 6Y1477 ; drium, 1atlatur corpus propter saterzam tuyba- tionem, quens fixamon eft, dolet. ager, lancimaturs -pellicatur, vomere affeélat, c fi mala evomnuerit, dolet ipo me[- 3$. Excipienda tamen ab hac tegulà, et ho- c»weaad- Yarum cibandi ante acceffionem, et non ofte- do offre rendi alimentiautin principio;aut ante princi- eibi er" piumacceífionis, ea corpora, qux et calidas 162,00 10. et ficca funt temperamento, et habitu eracilt; jeibus^ quibus fpiritus facilé diffolvuntur, quz ore» ventriculi admodum fentente, et in quibus acris humor, et mordax ad ventriculum trans fufus ita egrum infeftat, ut inipfius etiam in- vafionisinitio fvncope indudià, vcl etiamins fimplicibus tertianis intermittentibus fzpenus4 4A- meró mortem inducat; in llis enim ante inva- fionem,velin illius principio cibandum cenfuit Gal.1o. 7Metb.cap.2.3.4.€9 f. CibusgnA- 36. Adhibenda tamen ea eft cautio, quód;,| do offerédus fi animi deliquia in febrium initio fupervencejn principio tint, affluente acri humoread ventriculum, &y acceffion,. os iius mordicante, cibus vel immediaté ante c quand? acceíffionem, velin ipfo principio erit exhiben-4 pauloante* dus, utadmixta cibo bilis minüs mordicare. valeat. Si veró ex fpirituum fübtilitate exfolu-4i V tio fequatur in principio febrium ; nutriendi erüntzeri per duas, tréfve horas cibis hujuf. modi, qui citó inflaurare poffint fpiritus ; faciww rPa9vatm (couccommutarL, ut funt ova forbilia, jufcula qux inftaurativa dicuntur ; et fimilia, quibu: 4 adítringents fi &onnihil addiderimus, ut fucc] era eranatorum, aurantiorum, aut fimiliu m,opti- me illis confultum fore exiftimamus. ;7. Inacidis tamen iis in ufum du cendis ;il- 4ciderZ s lud maximé cavendum exiftimo, ne nimio plus fs iz febr: limonum fuccus, aut acidorum aurantioruma 45 acatis addátur, quod paflim etiam à doctiffimis viris stilis fed fieri video; qui in acutis, et malignis febribus, shOÆTAT- in omnibus ferculis, et jufculis fucci limonum Enn quàm plurimum adjungunt, non animadver- voii tentes, tantá illi ineffe acerbitatem, ut, fi modü excedat, aut coctione non temp eretur, quod in fvrupo de limonibus, et de fucco citri fit, aut facchari mixtione non moderetur, obftructio- nes in venis pariat inemendabiles, ideó mode- atéillo utendum ; in quà menfura fi in ufum. veniat,refrieerabit, et incidet;altiüfque medi- catas potiones exferere faciet. Aurantiorum., fuccus aliquanto minorem habet aufteritatem; c proptereài non tantà liquoris miftione in- fier 38. Vidum omnem aut craffum, aut tenué, aut tenuiffimum antiquos conftituiffe, docuit Hipp. lib.de prifca Medicina, nempe cünrcraf-|. etu (à comedimus,cim forbemus, et cüm bibimus: nw Quarttim Galenus victüs genus addidit, om- ^ e nimodam cibi, et potüs abftinentiam, 4- Com. ui vecipi? I oleum ent [mum 2 ppellavit; 2u5, c qui quód fi quz forbentur;bifariam partiamur,n£-. exclades- e in tenuem, et craffam forbitionem, omnes 45. victüs habebimus ditfere ntias.Verim quatuor fünt, quz acute febricitantibus conveniunt : E Craffa Vicdlus tt- nauis (n 4-- s di à "e b y ma e ACERO, REDE 1 forbitio,de quà r. cut. 26. eftinteera ptiffana; alica,panis lotus, five contritus, five conciíüs ; et conta carnium. Tenuis forbitio eft, ut tiffana colata, aut fercula eàdem tenuiora. . buen funt autoxymel antiquo more para- tum, mulfa, ftillatitius liquor ex carne, jufcula cujuifquegeneris. Aquz veró frieide potus, ju aut omnimoda abflinentia, fümmé illum te-.i nuffimum victum confütuunt. Quz omnes |i victüs rationes, ultimá exceptà, vires augent, atque inftaurant, quamvis aliquando imbecil- las vires reddere dici foleant, habito refpectu ad corpora fanorum,qui fi illis victibus uteren- tur; ad marcorem ducerentur . Noftris tamen vidus ext e-temporibus victus i1leextremé tenuiffimus, et me tenuit - quatriduana 1lla 1nedia,aut ob confictudinem, we nee autobregionem, exterminari omnino debet ; $ ww. Utpote periculi omnino plena, ex quà et mors E: zensinducitur, et Medicis infamiz nota inu- ritur, fed loco illius potiones induci debent, fyrupus acetofüus, vel de ficco citri, cum ftilla- ütio àliquo liquore, aut jufcu]a alterara, vel cremor hordei . Viclus 39.. Cavendum tamen, netranfitvs fiat ad eraffns i victumillum, qui extra limites victüs febrici- 4CHII5 "^ tantium continetur, ne fcilicet que comedun- hi tine». ear, sáintquefolidiora, non liquida, concedan- 1 »! OS P eur gr panis, carnes, et quod deterius eft, ho- Orb ded [7- viri fruétus, quod paffim extra hanc provin- t CUT gam fierividimus. Herdesm40. Cüm nihil fit, quod inzerotantibuscibandis,; et apud anuquos ;.& apud recentio Ies, antiquo more febricitantibus maximé recte yi- Ccumaünsftituentes, magis inu fu m ducaturipsà putt. lana ho rdeaceà, o pame confultun |. Medicis in hisameis Cautionibus pradicis cenfii ; fi ali- gna OC loco mterp ofüero de rectà conficiendg puffanz ratione, de qna etiam Gal. 1. de al. facul.cap.9.ab dep nf[anascapA. O mde Colicit. I. 11. et Dàul. /zb. 1. cap. 78. podffimüim cum adeo varlare jn cà fcriptores dang 10s videam ; recentiorum autem aliquos. doctiffimos etiam longé aberrare.In cà igitu1 Lprma fit in clectio- ne hordei cautio, qt ód cüm Bardqum fit du- plex, alterum quod fpopte nudu n nafcitur, 1. dc M æne cap. 13.2" lib. EC RN: yicin, cap.6. quod in Cappadccià naía fcribit ; ut ali- cubi euam apud nos Infi; bres ; alterum vefti- tum, quod mæis commune eft ; ; poftremum hoc eligi debet, deglubitum ta men, et à corti- ce exutum; quamvis enim ulti primo illo po- tius utendum cenfeant, €à forté ducti ratione, quod cüm Galenus arte corticem adimat;fatiüs videatur fponte tali nato uti ; fed non bono arpro ptiffaAna quale eligend& » Hordeum «lind fine cortice eraffo na- feitir, a- lttd veffs UG. eumento: ro ieenim illu dicium noverltl.4e alim. facul. 13.e0 tamen non vtitur ; quin fpecie ab alio differre afferit, f;rtéque etiam faculta- te : Vnde Herodctus. Galenoontüquior apud Oribafium r1. Col/e£. dicebat ; illud plurimum Ruttre ; multum fuccum. habere, et proxime 1tritici naturam accedere ; quibus rationibus minimé in acutis convenit : quz enim nimis E 4 multum inultum nutriunt, queve craffum, et eglutino- firm füccum generant, ut triticum;inaácutisfe. bribus minimé convenire poffunt. 1. dealipzfaa |i cult.cap.4. 4I. Sed quáarte preparandum fit; ut cum ^ fru&u, fine damno in ufum duc poffi t; noh5 levem requirit diligentiam, multáque cautio- ne indiget. Farinàaliqui utunturaquz,;aut ju- ri mifcentes, et pultem efformantes ; quam. tamquam flatulentam, et excrementa multa producentem omnino rejicit Gal. /jb. de atre- emuante vitfus vationescap. 6. Cf 1. de raf. vid. is acut.cap. 18.Freffo alii, et fracto utuntur ; at re- felluntur 11 ab eodem Gal. /zb. 1. de al TCI. cap. 9. ^ lib. de attezuante vithucap.6. 9 1. de 2 VAI. Vitl. 12 acutis, cap. 18. quód tormina faciat hy pochondria diftendat, non levis fit ; non Tu- brica, quód denique craffos fuccos producat . Leviter torrefaciunt alri, ut faciliüs exter nà tu- nicà fpoliati poffit, et flatus exuere: At fic ptif- íanam minüs humectantem reddunt, iminüfveuu aptat alvum folvere; collieitur id ex Herodo- to, referente Galeno; 1. de alim. facult.cap.13.. fi pritenam ex ze torrefactà alvum cohibere,af- di ferente : Vnde Oribafius, 4. Collet]. cap. 7. ex. Dievche, hordevumin polentà rorrefa&um al- vum cohibere atfferit5 quod confirmavit Gal. ) 1.de alizz.9. qninimó cap.2 2. ejufdlen : frixa em- t n4 flatum quidem deponunt, fed di "fficile coquum- iln uv, Co adftringunt, craffun yque fuccurm, cenerant. quód obfervans Trallianus /&. 8. cap. 8. voluit in HKordeum quomodo jaradum fro puffana. in dyfenterià hordeum torreri,ne fi fine frixio- piam ne uteremur, alvum fübduceret ; non cohibee etum. ret. Braffavolus hordeum aqvà fz piüs mace- rat, mox ficcat;& in mortario ligneo illud Con- rundens decórticat. Atfi pro primo cortice» expurgando id facit, non eft, quód aquàail Illud prius maceret ; fi pro fecunda briliori, malé facit, cüm coctione fol ^ eximatutr. Galenus igi- vto vn ai cur capit hordeum Integrum» levi manu contu- fum, et hoc modo decorticatum, atque mox panno afpcro pe erfricatum, ut reliquum corti- ^ cis fi quid reliquum eft ; anod verifimile eft ; air levem ictum, to lli poffi t. . Cautio autem 1n quantitate hordei ad zmerdei Pee m, &aquz ad etin m In pl ra paratione quantita püffanz, maxima eft adhibenda ; cüm variafit ad. aqua de his apud grauiffimos euam fcriptores fen- pre ptis tentia, aliis pro fingulà hordei heminà decem. ^4paran" aqua adn ut Dievches apud Ori- bafium, 4. Collect. 7. cenfuit, quam me fecutus eft Conftantinus Cafar,lib.de Re ruf. 9 Antvllus veró, eodem Oribafio teferente» ; 4. Colle&£l. 11. pro fingulà hordei heminà quin- decim aquz adhibet;quam fententiam fecutus e(t Paulus, /ib.1.c2p.73. Braffavolus autem r.de rat vill. in acutis 18. pro fingula hordei heminá trieinta, et triginta quinque aqua mifcebat . Galenus autem 1. de aliz. facult.9. € 10. c Lb. de Priffana; nullius quantitatis aqua» aut ejufd& proportio nis ad hordeum meminit. Neque yero id prater rationem, fed jure merito,quód G4 obfer4uanésíÍnu/ ex obfervatfet hordeum pro varietate foli aliud - facilius coqui, aliud difficiliàs,et docebat ípfez iet /ib. de cibis bomiCP mmals [nci, cap. $. tum etiánt pro varietate nature illins erani ; ut paf- fimi1n ciceribus excoquendisobfervamis; Sed et aqua non levis habenda eít ratio, cüm aliam grana, et Cerealia omnia facillimé conficere » obfervaverimus ; aliam difficillimé, ut docui- mus 72 Com. 17 lib. de ære, aquis i loc. EH ipp: Sitamen ejus eeheris affüumamus, quod intu- [ Ra .ICcat, et coquatur facilé, apiid nos Infübres mE pro fingula hbeminàillius, quindecim, aut vi- ginti aqua affumere poterimus; que quantita- tis aquz varietas erit pro várià conditione hor- dei, et aqua. Propifa 45. Sed'in ptiffane præparatione quid ob- na cóuie? fervandum ? et in condiendà quid cavendum ? da . 2^ Sané Galenus oleum, et acetum addidit, et addenda, falem; illa quidem 1. de al». facul. 9. 4. tuenda va T9 valer, 4. Cf $, equ]dem. 8. lib. de M arcove, ult. 7. : Methb.med.6. S.eju[dem 2. 10.Mfetb.Y1.Orib. 4- Collect. 1. et Paulus rb. 1.cap.88. Salem etiam indendum conftat ex 1. 2//9.9.& Orib.& Paulo loc.ctt. Sed quo tempore hec addenda ?. Gal. r. de alim. 9. acetum indendum cenfuit, cüm ad füimmum intiimuerit hordeum, deinde etiam permittendum, utTento igne in füccum diffol- vatur ; tumaddendum : falem autem addi vo- luit pauló ante tempus diffolvendz ptiffans : olevmaddebat pro condimento ; nos, quibus placuerit; concedemus.. Placet tamen potiüs; ut cx jure oprimo carnium patetur,five integra paretur;five colata, addità aut levi portione » falis ; autfacchari pauxillum plus; pavxillum enim mellis addebat ptiffanz, 5. rende valet.S. cujus loco przftabit faccharum indere: aliqua- to plus illtüs etiamaddentes admifceatur ; prohibemus enim admixtione» ilius nefaccharum 1n bilem vertatur .. Quod fi quisaceti ufurn refugiat, licebit [oco illius aut fuccum aurantiorum, aut citri, aut etiam. » fi aceti nonnihil . L limonum indere, modo fuccus is aliquandiu guetud AC plus cum rcliquis ebulliat, fecus quàm paffim. «^ v» fiat; cim indi foleat füccus immediate tempore ?e/&- e Æ. affumptionis,qui ob cruditatem ; et acerbitaté folet nonnihil obeffe; quamvis mixtio fine co- étione nonnihil terreftreitatis illius, ac adftri- étionis foleat retundere». 44. In pane concifo, aut contrito, pro fercu- lo parando hecadhibeatur cautio ; fi febrem. curemus acutam, aut ardentem, panem omni. Op rius effe lav andum,. "us. n tatà frpiüs aquà aut füperinfpersà fepiüs aquà ; fic enim et fer- menti vis retunditur,« cibüs paratur m inus nutriens;potiffimüm fi paretur ex jure fimplici pu Il: gallinacei; fiiccóque aurantiorum con- fpersatur, fic enim parata panatella minüs etiam nutriet, quàm ptiffana. Cavendum veró, ne panis igne pris cremetur, mox abluatur, quod factum ab Oribafio videmus ; fic enim, ienex partes concipiuntur in pane, sícque et ficcius alimentum paratur, et calidius, quod E 4 per Panatella 1n ACHtis quomodo paranda « C9 Cor fn 4«o per lotionem minimé corrigi poteft; poterit tamen fic paratum convenire, fialvi profluvio cum febre eri tententur, addito aut ficco li- monum, aut granatorum. In reliquis febribus ex pane conciío, aut contrito ferculum conve- (niet; etiam non loto pane, et ex jurecarnium aliquanto validiore. Confum- 45: In confumptis juribus ex carnibus pa- yu Mu randis hzc obfervetur cautio ;. maximéà me; ex cargo lA dariea, que ex carne vituli macrà conficiü- vittling, üt » quód vix in eis elutinofum illud reperia- tur, quod paffim in juribus obfervamus, que » ex pullis conficiuntur ; cutis enim circumve- ftiens; et nervofz multe partes alarum, et cru- rum, gluten illud generare folent;quz vix pof- funt auferri : in vituli autem carne, licet et fi- brarum,& nervorum ratione, et capitum mu- fculorum glutinofa aliqua adfint, mrltó tamen pauciora fünt;atque ex parte etiam auferri pof- j funt. Quód fi quifpiam gallinarum, ant ca po- num jus expetar ; cautionem hancadhibeat, ut alarum duz extreme juncture auferantur, et coxarum ultima pars ; quód fi cute etiam pul- lum fpoliare poterimus, (alubriorem cibum et potum procul d:bio parabimus. 46. Sedentes in lecto alantur;fi enim jacen- tes cibum capiant, vix ad ventriculi fundum. cibum effundent ; deindeà cibo fümpto fe mi- horà fedeant, vel (altem erecti aliquantulum. femiJaceant. 47. Ante cibum memores fint expurgationis euem j- tum tenc- re debeat, dá ciban- tur. IL- os alluen lhis oris: nam à febre plurimi vapores, et fuli- ipines furfum feruntur, quz limum quemdam lin linguà efformant., .qui cüm guftum pertur- Ibet, cibos etiam malà qualitate imbuit: quare li: et lingua; et os colluendum, et osfophagus;qui TENIS. N lfzepe per febres areícit, madore aliquef1gan-. ex acels e£ Jac idus, cui maxime infervit aqua etiam cruda €x - aw . aceto, et faccharo. EA 49. De potu aquz in febribus pro potu quo- . P^vs 4c Itidiano, non pro medicamento ; hec fitobíeg- ;"^ qua- ratio: fi in xerum inciderimus,qui in fanitate it affuetus fit aquz potul, etiamcitra noxam pof- Ife nos utiqu e Hone nop tmam,aut fcntanam; BD obe aut pluvialem cifternin: mc ncedere, aut CCr--,,5 f po té decoctam fimplicem : fin minus affuetus poditn 2212 Qua cibus JL ma- AY » 49Ha no 7u$1nacmAd tuaque zeer fuerit, ne 1n ea 1ncommoda 1nci- zi. dat, dc quibuHipp. 4. de rat. viel. in acur. ali- qu id addi licebit ; quó facilis ex hypochon- driis meet, cruditas reprimatur, atque etiam. «cea "M eevias morbo, fi fieri poffit; A Hldd eios ve wis adver- 9e, : canedio femur; ut fi add faccharum.cinnamomum, E . anifum,femen coriandrorum;authordeumin-- -. Ccoxerimus. 49. Deaquà hordei, quem ) potu Imantiquis 444a bar len Ar m pleri quec enfent, quód nullibi Gale- deris æs nus ; Oribafius, Paulus, A?tius; &aliiillius *5pro po- men tionem fec vei ; ita cenfeo, Hipp. 3. de 2 4 epiinide va) uiél.im acut. 13. (f a. de ratione vilius, 71. po- "limum autem librà à . de Morbis, ubi laboran- tibus tor pore c: 1pitis propin andamcenfet aqua hordeaceam, de cà mentionem feciffe ; ubi eti 1n"aua bor Kein Of. nibus amar 615 n0 Con venit. v qua ber dei Que pa 1Anda . gue intelligere non poteft (accum hordei, quia illis! có fübjungit ; Maze. pro alimento. [uccum. bor--|vck dez exhibeo, utnec in aliis duobus locis, cütmi en potum aquam hordeaceam appellet, füccumaj autem hordei paffim non potum,. fed (orbitio] ji nem appellet .. Neque veró rejicienda eft, po] jj tiffimüm in febribus exurentibus ; quod flatu] ili lenta fit ; fi enim recte excoquatur, flatulenti&il "T exuit; neque fi diutius excoquatur, falfedinemi] «1 contrahit, quod ab aliis objicitur ; fi enim ins] s putfanà, quz longiori tempore elixatur, id nom] «s veriti funt Hippocrates, et Galenus; nec expe-4 ui: rientia id oftendit, in quà mæis hoc feqiiilo deberet,ob hordei majorem ad aquam propor--| tionem, et quantitatem, quà ob craffitiem faT- fedo in elixatione loneà contrahi deberet, cufil idinaquà hordei omninoaquosà, et potu ve--| tebimur ? Cautio tamen eft adhibenda, ne eail In omnibus morbis, aur inomnibus febribus ini ufi m ducatur, ut aliàs fieri foleba 5 fed in iis! folüm, in quibus magnus eftus fuerit, ut ubiil. abfterfioneopus et. At veró in eà conficiendail ». magna adhibenda eft cautio. Accipito hordei vcri, non fpeltz, feu zez, ut plerique faciunt, libram unàm duodecim unciarüm, máceretür tantillumin aquà, mox panno admodum afpe--] IO Oprimé confricetur,donec omnis arifta deci- derit, et quippiam etiam ipfius corticis craffi fit deter(íiim;deinde optiméabluatur,& omniforditie expureata, addantur aque libre quadra- Hi. ^ ginta, et tàmdiu claro ine decoquatur, donec optime hordeum intumuetit, mox depofito de aMesua P ám lever. 1ene decocto, permittatur perfrigerari, deinde transfundatur, quod perfpicuum eft, ac valde clarum decocti;in vas vitreum, in quofi quippiamiterum refederit, denuó In altertim vas transfundatur ; quod perfpicuum eft, et relin- quendum donec refideat ; quod pro potu in» paramus pro medicamento, aut faltem cibo medicato, aut pro potu. Pro medicamento;aut cibo medicato, vel cruda erit, vel cocta; Gal. cocha.Qinimó etiam coctarum alieinteoré co- (**^* étz fünt;alie imperfecte ; quz eciam magls ; && 4A. vavwe Fat ufiim duci poterit. d 1 : Mulfa di jo. In mulfe melicrative compofitione ma: s A ; 77 (7; xima adhibenda eft cautio: Vel enim mulfàm vj ^É pt an ''Ali0 » 3.de alim.f acult. 39. €? 12. Afeth. cap. 3. Cruda.o -Á cds ! E, * . -Á eL. magis alvum [ubducit, munus uutrtt ; contrá aute TLMN E . ec * minus et nutriunt, et dejiciupt, prout magis aut minus coctionem füfceperint. Vtramque euam hanc aut meraciorem conftituit, aut di- jutiorem Hipp. 3.4e rat.vit]. in acut.t.33immÓ 7... Gal.$. A etb.zzed. 4. 1n meraciffimam, medio. n 4»*« we S. 2 " " " . 1 $44 crem,& dilutam dividit. Sed quanam eft mel- 77*^* lis ad aquam, quibus duobus folis conftát mul- jin fa; omnino proportio ? Cenfentaliqui, mera- ell; 1) A ciffimam efle ex una mellis, et duabus aqua, LE fic cenfiut. Avic. /ib. «. et Diofcor. Mediocrem pum idi ex una mellis, et quatmoraquz, ex 4. de tuend. aud vál.cap.6.Dilutam autem ex un mellis, et octo aquz, factà ebullitione ; et defpumatis excre- mentis ; donecfupernatent, ex Paulo £/b.1.cap. 46.Sic vn b. ^£ ptu ex 06 Jh. cC s ^f yr t ou * Et .Sic Mefue, et Rafis 9. ad "dIman[orem ; led: ante hos omnes Oribaf.4. Synop[eos; Cap.39. Hac 1T communior eft recentiorumopinio. Eso verós ut veriffimam hanc effe opinionem cenfeo. in» melicrato pro cibo fimplici . feu medicato : ita]; falfam exiftimo, fi mulfíam fumamus pro potu: 'ad diftributionem cibi parando. Quin. ceníeos dilutam illam, de quà 3. de ratzeze vitius ; 13] mentionem facit; eam effe poffe, de quà Gal. 3. de vat. vicl.12 acut. 15. ubi dicit, mulfam dilu- tam fieri;ubi pauxi illum mellis multz aquz ad- miícetur, ut aqua permeare queatad diftribu- tionem, ne diutius in hypochondriis commo- retur; hoc enim munus eft potüs;utpotus, non üt cibus ; ; quam fortaffe di iveríam à dilutà, de quà 8. Metl-meminit;credere poterimus;quód diluta illa tamquam cibus effe poterit ; ex unà mellis,& octo aqua: at quz diluta eft pro potu ad diftributionem cibi,diluta magis effe debet, quàmutuna fit mellis ad octo aque, neque» enim pauxillum mellis una eft uncia ad octo. Eritieitur mulfa pro potu, fi pro uncià unamel lis viginti uncieaquæ fümant ur,pauló plus;aut. minus ; neque enim determinataaque quanti- tas certó przícribi potett, ut etiam Galenum. videmus feciffe 3 .acut. 13. 3. de alim. facul. 29.8. AMetb.cap.a.qui nullibi quantitatis mellis ad a- quam meminit ; quód mellis videmus effe ma- enam differentiam,càm fciamus, aliud effe bo- numsaliud m: idum. 3-40nt. 2.3. C7 4. de tuend.val. 6. Bonum celerrimé coquitur, et celerrimé definit fi pumam facere, inde minus aque abfimi- Contrà evenit in malo; et prc- I fum effet;plusaqua a 'Inus;fimedium,medio modo. vandum eft,fi aqua forte crafficr fucrit;ut apud lturin coctione. '[prereà in eo coquendo major indenda erit aque ']| copia, qua ab fümi poffit; quà in bonc;quód ex 'l|Philagrio colligitur,qui referete Oribzf. s. Co/- letf.cap.17.in cofectione 2 poivelitis.fi mel craf- ddi voluit; fi tenuius, mi- tiam obferVbie nos Infübres putealis efle folet;quz in melicra- ti confectione fumitur, et optimum melindatUur,cüm ea aqua, ut attepuetu r,lc nglori egeat elixatione, m el vero illud pau m antequàm illi aliquantifper effe clixa ida um ttenuabitur,&in Sf mellis ft Gitan- im recipiet, facil iüsqu e hy| mel indarur, 'leniméa tiam meabit. gr Sed cüm f: ; fic cchondría peramfaccharum, ant iqu Is inCo1. dre CM fd enitu m, faltem perfectum, noftrum in i ufüitn od Aj$* medicü, et inter delicias ouftüs fittradvcium, ancx co mu] Iía parari poterit ? Vuq;,& Opti- ed part- 1na, ci m non tantà poll ! immo in biliofisu ulior erit et fuavior.C extépc eat acrimonia, ut m el, ilf aliqui;non nifi crudam mulfam ex facch laro pazari poffe colliquatione, quod jam faccharv m.. attenuata aqu: i permeab i hiinisarobo bus attenuatis. rur ea adhibeatur cautio, ut prius aqua clixeti Ó, coctum fit. Ego veró et crudam colliqua i^f parari pofle crediderin., fed p rzftantiorem éffe fue cocfa . V €octam ; quia Am cocüonem aqua permifcetnr atione,&melius per dXpcenond rm quàm obtim.; 1 (UY 9 Cu cda ; quàm illiindatur faccharum,& i in minori quam junii py . pitate; ita ut fepé prouncià facchari libra aquai T fufficiat, potiffimum fi affectus non admodumaliii a ftvans fuerit; 1n quo cafu fucci limonum non--joit nihilin coctione addi poterit. ^^) )]; A2 5 $2. Oxymel, et Syrupus acetofus ad pen-Jn.: paraci ra. m veniant;qui et pro pori ad fedádam fitimsdau 310 » et pro cib: cibo in peracutis febribus, et pro medi-1u catà potione in ufüm medicum fe penumero ve-4r«i piunt. Hiintriplici funt differentià pro varic]y) q^ de ufu:vel enim funt valde acidi, vel mediocriter;? vel minimüm.De primo Hipp.3.4041.26. dc fe-4 m cundo 3 .4cut.30. de tertio 3.4€4.57. locutus eta De tribus iis omnibus Gal.4.de tuzd.val.6.d O38. cens illorum mixtionem ex aceto, melle, et a quà ;aut faccharo loco mellis in fyr. aceto f| emm ec Minimé acidum fieri afferens ex unà parte ace? EN ti, duabus mellis, aut facchari, et octo aqua eDænl, De Mecium ex un ià aceti, duabus mellis,.& qua: tuoraqua : Valde acidum ex duabus aceti. d ecu mellis, et quatuoraque. Galenum fecutus etj, Oribaf. ;.Coll. 24. Paulus folius acris meminiifl..... lib.7. c. 11. Mefue folius mediocris meminitij.. compofitic némq; tradidit. Sed animadverterg,, dum,multüm i in cocturà à Grecis differre . Gad. ]enus enim ad quartam, aut tertiam exccqtp.. debere dict. Plerig; i ita intellieendum cenfen]... donec remaneat tertia, aut quarta pars, qv ibub. fübfcribere videtur Mefue, qui feré hoc modi excoquit, ut pertotum forté annum confervtd tur, quod etiam omnes Seplafiarii faciun cV rüm A rüm illud veriffimum eft ; cenfüiffe Grzcos, fo- ""tilamtertiam, aut quartam partem effe abfiimen "dam:docuit enim Galenus; o xymcel efle tempc- jrandum,ut vi inumibidem ; cüm autem vinum, inumquam meracum biberetur, fed tempera- tum ; ut colligitur ex Plinio 14. AVaruralis Hiff. Wicap. ult. Ib.2.3.cap.1.& hocipfum vario modo "temperaretur, aut pari aqu cum vino quanti- "Rtate affump A t plusaqua addétibus :& hoc itriplici modo i£ duabus vini tres aqua;aut u- mi vini vtm ruei ;autdeniqueuni vinl tresa- uæ addentibus; ut docuit Plutarch. 2 3- Sympof. Meuse[?.9. Athenzus Zzb. 1o. cap.S. C" 9. Siigitur o- Ixymel ut vinum temperari dc ibba atjnumquam jad duas tertias,aut ad tres ex quatuor excoqui Jporeft "- lioqüin non modo du pla, aut n Ja ad lim cleri, fed tripl io;aut quadruplo à melle füpe- Jirabitur : quoniam mellis R minus a- dqua ob craffitiem, et vifciditatem abfimitur . Exemplo fint;una aceti, due mellis, quatuor a- quz unciz in qu: irtam redigantur, erunt una illincia cm dimidià, sícquetota, aut penetota "eric mel ; fi ad tertiam ;€runt reliqvz duzun- "rim,quarumuna cum dimidià erit mel, media &ijincia erit a acetum; ncn gum ges duri imilec erit vino; quód fi unica ex qvatuor, aut una ex tribusabfümatuor ; optimétempera- Jfmento vini correfpondebit ; quód fi ! War decoctio cumaquá,vis aceti et in fa flu odore cum melle " hnqvetur didiu coqueretur, mu po re, lía fieret mexæifima . te .K » b e VM^ Aon! UA - MK, ; quód fi tam- mee "v, yy in cra ^ . 46 evita m AAA ]- 9 quét note pode pod. Ps V. v evæe"", e in extrinfecis erat in uft,non per interna. |! Ac Ox nei wen m tg Animadvertendum pratereà, Pharma--| rbi 4; Copolas,ut diutiüs oxymel ; aut fyr. « cetofüm-.| Is rela 4 confervare poffint;ex decreto Mefüz, pris a-- Galizico, quam et mel ufque adeo ex coquere;donec totajj quomod, aqua,aut pene univerfa abfümpta fuerit ; mox i perttr,| acetum addere; et iterü coquere, omnino quoc: aquz reliquum efta abfümentes; sícqueoxyme: non fieri ex aceto mulsá. Vbiobfervandum. |1ii oxymel hoc ita paratum pro potu nutrien te Lin ub ufim duci non poffe : eft enim potiüs forbitio,t: quàm potis. oxysel $4. Cavendum prztereà,ne Medica coma] xi rix muni noftro oxymelite u tantur ad humectani] Z0 btt dum ; cim exficcanti potiüs facultate conftet: a dd cümaquáà carcat;in ufum tameneetiam hoc nof x p fs leote is ducitur, quod di uluatur;liquidümque, et «a. PF i fluxile reddatur quadruplà fere parte aqua: E. aut ftillatitia,aut decocti al licujus addità. Quar! $$. Obfervàndum praterei,in plevritide» T "fot bi cra(fifcnt, et vifcidi humores, oxymel noo] zanbectlle " : ri ; fn m imbecilltus effe;quàm fit illud mediocreqi inaididad cut m in €o cafu valde acri utendvr m docuerij ht »p.3 2.4C€HT.2. á $6. Obfervaridum pretereà,fi per totum) nofirum morbi decurfum utédum fit oxvmelite; aut fyri] 3) acutis. acetofo,neqs acricrineque mediocri effe utem] zit ac-, dum in acutis febribus, quód non humectet comfnoda potiffimum noftrum ita paratum ; fed doce ad era[ia "- Hipp. 3. 4CUt. 37.0tendum effc eo; in quo minii T y de Y - : J4À V^ vt vi 6 mum CLI'A9M . cA MER w^ € h 3 zx - &* mum aceti fitadmixtum, ucmultüm poffit hunectare.nec inteftinis noxam inferre. 57. Cavendum pratereà, ne in oxymcelitis 5. autfyr.acetofi compofitione acetum illud acer- rimum fümatur.;aut ex vino Cretico; vel alio potenti confectum : nam in acutis febribus jin quibus, preter facultatem obftruc&iiones tollen di;abftergendi,& incidendi;requirimus et lhu- mectationem,& refrigerationem, po tiüs ficca- refolet;& excalefacere;quàm humectare: aut fi taleacetum in ufvm ducatur,aquz cuantitas erit augenda ;tunc fortaffe sentebaslenia des " 'erbis Galeni tolli pcffet;cóüm a.ze val.tuend.6. voluerit; ex unà aceti, et duabus mellis fieri oxy mel mediocre ; acerrimi m vcró ex zqualibus aceti, et mellis partibus:cüm in cófilio pro pue- ro epilepticoacidiffimvm oxvmel ex una ace- )& quatuor mellis velit co nfici ; miniméaci- di m ex unaceti,& octo mellis. Nificum doaceti pro oxysmnelie nó ftt acer YImi,n6» que ex vis n0 pottne tffiano, echa ifa CM. &iffimo C iealino dixerimus, libellum illuzi (pen t effe quidem Galeni ; fed multis in locis depra- vatum : potiffimum cümoxymel ex favis confi- ci ibi tradiderit d. 9 oppofitum docuit (2 4.de val.tuend.6. € 2.de Fratt. 29. Qvod fi ex favis QUIS dixerit doc ffe conficiendi m Gal. lib. dt med T her. ad Pa mbil. oxymel,1s fciat,librum illum Galeni non effe, quod vel inde collieitur,quód diverfo modo compofverit ibi Theriacam, ac lib.de T her. ad Pi[onemyac lib. de Aztid. Deinde conf tat, confilium 11lud pro puero epileptico efle depravatum,quoód dies Canicilarcs confti-, quat c E jo. tuat quadraginta, viginti ante exortum Cani- cule, et viginti poft; quod Galeno repugnat, et Grzcis fimul,ac Latinis omnibus fcriptoribus, Caniculares dies ab exortu hujus fideris in- choantibus, ut longi oratione ; &" 72 Cons. lib. Hipp. de æve, aquis, (f locis, in Com.in Probl. "Ariftorelis, docrimus . Colligitur ternó,men- dofibm effe libellum illum ex eo, quód pueris epilepticis apium cócedendum, petrofelinutms -abdicandum cenfet, quód petroíelinum lzdat epilepfià correptos ; cüm oppofitum reperia- - mus apud omnes fcriptores ; apium epilepnicis obeffe,nullà fa&à petrofelini métione : fic Plin. lib. 10.cap.r1.fic Alex. Trall.Izb.1.cap.1 $.(ic Avic. lib. 3. T raft. 2. cap. $$. fic Serapio /ib.Sigupl. cap. 190.& Mefvezn fua Praxi,cap.16.de Dolore capi- tis. Nifidixerimus, corrigendum effe locums illum in confilio epileptico; ut loco, seii: par- res o£fo, lecamus, aqua partes oclo;fic enim ccn- veniec cum loco 4.4e tuezd. val-cap.6. $8. Cümin vino concedendo in febribus, et Vin f? sotiffimüm acutis,tottantzg; controverfiz ex- &ricitant! entur,ob varios Hippocratis et Galeni locos bus acut? ; v ips zoterd. intet fe contrarios, de quorum conciliatione s; emdi per 755 : : fe libi à nobis conftitutum eft, nempe, numquam "V ipuw in ratione morbi effe concedendum, aliquando arqtiscur vero ratione caufz, et fymptomatum, tum eta aliquando ceorum,que fecundum natutam dicuntur,& vi- concedz-. rium . Quoniam autem alicubi concedi paffim Lar. intelligo; ut in agro Neapolitano, et fortafle; frequen^ s, cádémque controverfià quid fentiendumffit, a s frequentiüs,quàm debeat, atque non apparens Æneis parue tibus fignis cocticnis eftuantéq; zgrotantes 5. 9udA-vvemes ve quàm felici facceffusi pfi viderint; nos Infübres. 42447,/& »d laborantibus febre acutà, € malignà cmnino vinum interdicimus ; quod adeo felici fucceffü fit; ut ex viginti laboratibus maligná febre cum maculis vix unus intereat, nifi forté, quod rarif- fimé evenit; ratione virium aliquando conce- datur. $9. Cavendum tamen,quantum maximé pof vis »- |! fumus, nein noftris his regionibus vinum con-. 4az ; ne cedamus;etiamfi coctionis figna appareant ; vi-. 9Pparéti- demus enim plerofque ex quávis vini conceflio- 9! 4wi42 ne,quantumvis minimà, in deterius labi, atque en eH ^ . Y et éh9n15, a- denuó materiam recrudefcere : quod cüm fx pé ni Teis- acfepiüs confideráffem,viderémq; antiquos ad- dian eó frequenter vinum in febribus conceffiffe,, dido, |! non folüm ratione virium vitalium,aut ÍymptO-. e; cur. matum, fed enamad adjuvandam cocionem, vabcaomee Vi fud; materie morbifice ; atque ad promovendamil- - lius per lotium evacvuationem, ut videre eft 11. 7 Meth. med. 9.5 1.2d Glauc. 1m curanda tertiamay 73 C quartana febre;tumad fputum facilitandum, Ut I. AC4/. 22. 3.Aut. 1.C7 4. 4CHf. 37. non aliam horumaptud nos infelicium eventuum ex vini exhibitione canfam effeconjcectavi; quàm vino-. «vsum, rum noftratium conditionem, Rubra;& nigra vufAr«w foy - optima multa fint,quamvis primis menfibus et q . auftera,& craffa,fed mfnüsaptaad febres,quód nec urinas promoveant, necíputum facilitent. Qua alba funt; aut fiava, aut fünt potentia, aut * e i imbeLN Vas ^ ^ ó1 €^ eot ue exéiu pa? n quet ^ D qua dijuatur; pel ne itmbecilla: Potentia, quoniam maxime alba. ex- petuntur à noftris in aperto vafe, ubi compreffis uvis reponuntursut fimul ebulliant,non permit- rüntür tamdiu fitmari ; quamdiu oporteret ; uE debitam coctionem in fe conciperent ; et id, ut álbo colore oculis ; auftero fapore, quem pican- tem vocant, palato gratficentur hinc et aufte- titate coctioniofficiunt, obftructiones excitant, neque urinas promovent, neque fputum adju- vant; pratereà veró caput petunt quàm maxiime ; ieneis partibus validéin ipfo contentis, ob terreftres partes admixtas : Vnde etiam primis»j menfibus eratiffima palato effefolent;,fi dulce-: dinis aliquid cetinuerint,fübaufteris partibus cit: guftui abblandientibus.. dulcibus duplicifapore Imbecilla veró et tenuia alba hujufmodi funt» ut numquam máturefcant, nifi maximo zftatis calore füperveriente, et ne tunc quidem aufterz: partes omnino co&tione evincuntur ; sicque m1nüsapta erunt et viresinftaurare ; et lotia. pro- movere:quod etiam incommodum alterum ex- cipit, quód, ubi quafi. maturuerint ; aufterita- témque depofuetint, aut ftatim ferà acefcát, aut evanida redda . hant,vnde ad ufüm inepta redduntur . "dusigitur quàm maxime pueridis,maxime in acutis, potiffimum enis, et etiam mæis in internis inflammationi- bus,utin pl "debet, potentius potius eligaui, n malia ET. Cau60. ntür;.aut corruptionem contrær Evitan-- B^ pud nos in febribus: evritide;viniufus; et fiin ufum ducti 1 "ENS quod multa a-Cautio prztereà in bibendo adhibenda. Bibende- eft, in febribus potiffimüm aftvantibus, quam. fap, en docuit Ariftcteles 1; Problezz. $6. ut fzpe,& pau- paulatim latim aquam, et alios potus frigidos ; ad fedan- "bdl. T dam fitim illam ex calore febrili excitatam eon- M iria ceffos;affumant: potio enim mvlta;& conferum 5, e, affumpta, nec exficcatas partes humedtat ; qui-. 5, c ca buseftus, et ficcitas ineft,cü ftatim praterfluat; fori. nec fitim fedatzat fi (epis data fuerit; et paula- tim pitiffando hauriatvr; os ventriculi; cefopha- eum, lineuam; et palatuni, dum fenfim per eas tranfit,refrigerat, et humectatialiquà ex párte» parictibus ; et turicisadhzrens: quin et paula- um fefe infinuansin carne confcendit,'& venu- las exficcatas imadéfaciendo,& trrorando hume 7 &at;.. Quodaptiffimo exemplo docet :fi enim» c ri A. multa aqua.& confertim aut decidat;maximé ft »/fe^ . ficca fit,in terram; aut aliunde per cavum eorri- vetur., fuperficiem terra non permeat, fed prz- terfluit,nullam noxam ducés ; at fi paulatimaut decidat, aut deducatvr, füuperficiem paulatimo madefaciens,& ócclufos poros aperiens ; viatfiz fubfequenti ad penetratiorem parat.]Id veró zepiba intellieendum eft deaquá in potim affumptà gt ad fitim fedandam;non veró de eà,quz in multà quantitate affumpta ad exauneuendam febremo ardentemaffutnitur,quz et multa,& affatim eft affumenda;fed de hac rezz Cozz. noflris im Probl. 4 wel illud, quidauid dicatadverfus Ariftctelem Hie- Mie S ua remias Triverius zz lrb. Hipp. de vitu idtotarum.. ved. 61. Quamvis fomnus in acceífionum febriü ES v1 omnium E utens p 7 E Suc P AI á S»m»»us Omnium principiis, confenfii omnium Medico--| aliquando tüm, et mulus rationibus id perfuadentibus, fic] ^" in prizci-- fueiendus, animadvertendum tamen, aliquosi| ^ pio 4t'«[i? teperiri,quiadeó fenfu exquifito in mufculis, &] /! nf "C esrpofis partibus fünt, ur faperveniente effifio-| Pind ne materierum acrium ad illas partes, unde ri-| i Tm" --gofem illüm concuffivum fieri Medici omnes: profitentur, tantis, támque magnis doloribusi| 4! conficiantur, ut vitales vires profternantur, &&| |! mots fepenumeró fubfequatur; iniis non folümz] UU in principio fomnus, eft avertendus, fed potiàss omniingenio procurandus, ut fenfus ille exqui-- fitus retundatur,aut fopiatur,rigorque;& doloij 5i mitior reddatur. Somnus 62. Somnus in febribus potiffimum acutis, ff; immodt- -yyodum cxcefferít,licet majori ex parte malo &«) 74/1? ^ erotantibus cedat, et proptereà fit evincendus ;) i "aq : quoniam tamen,ut omnes alias à naturà factat! € " 2 : ida €vacuationes cohibet, ita eam;quz perfüdorem] i fit, omnino promovet, fi in fine ftatüs univerfa.]. i lis febris,ant in declinatione fapervenerit, eciafí temporc modur excefferit, ita ut decem, aut e) tiam plures horas perduret, non eft impedien«] ju . dus, potiffimüm fi indicatorià die imminere crisd i fim perfudores commonftrarum fit:fit enim fæ] or penumeró, ut promotis per longum illom fo;] mnum füdoribus ex univerfo corpore, et ex illeéd! ti /ode)e ves lomno inftanratà naturà,& morbus fo]vatur, 8& nes eger convalefcat : coenofcemus autem ex fienisdi i) * prafentibus bono ceffurum hujufmodi fomnum] vornvwté $4. :, 4n T /^ -. longum.fifine tertore fit, fi lenis, fi denique il]: t lum / Ó oil . y jum non imitetur, qui in lethargo, comatosisve affedibus paffim confpicitur : Videmus enim, aliquando excitatos zerotantes hujufmodi,e- tiam Medicorum confilio, impeditos in hujuf- -4r modi evacuatione recidivam feciffe . Proptereà cauti maximé in hac re Medici effe debent. 63. Inaére frigido admittendo in acutis, et 4er frigi- zftuantibus febribus,hec adhibeatur cautio: Vt 4us acu? pro viribus frigidus quidem ær ambiens in cu- febricitan biculum admittatur, et procuretur, utomnino tibus quo et infpirari poffit, et interna vifcera xftuantia, "ede ce» refrigerare, et faciei oblectamentum boc affer- eedendus re ; reliquo autem corpori ne nudo obveniat, omnino cavendum ; quin ne etiam nimis tenui ftragulà;ac pervià operto: circumverfante enim acre ambiente frigido aut flatu, et calidus va- por, exhalatiove,quz foras perfenfumeffugien . N tem evacuationem promovebatur, ad interiora ^4? " repelletur, et pori cutis pervii fcrtaffeadftrin- gentur, et internus fervor adangebitur : immi- nuenda quidem in augmento, et mæis inftatu zn v^ erunt cooperimenta, ut zftus ille imminuaturz ewe per univerfim, et natura inftavreturàtantola- ^ bore; at fenfim id fiat,neque eó ufque, ut illa in- commoda feqvi poffint. 64. Non placet tamen eorum confüetudo, Nà zii: qui quafi eeris vim inferentes, plàüs nimio coo- cooperien- pertos,& ftragalis obvolutos tenentfic et tran- 4; fregu- fpirabile mæis corpus reddere cenfentes poffe, ^ 4c? et füdores prómovere : cüm alioqüi illud ni- f'^rieiran mium effluxum fpirituum efficiat, et fübinde, '^*,, D 4 V)IeS eH) Viresimbecilles reddat ; hoc autem violentiam naturz inferat, et aut ctuidum humorem extra- hat; aut qui per alias partes exitum fibi quate- bat ad cutim vi quádam ; naturá re pugnante s attrahatur, xc ELA LVDOVICI 4 PPTATITII.-. Baimaduerfi ionum, et Cautionum Me- dicarum, diui Eas comprehendens ; vorige A2 Qua ad Pbarmaceviscum negotium pertinent . e Ep Vamvistáquam veriffima fit Hip- Medica pocratis fentéuia, 2.24pbor. $2.O7- materia "ia [fecundum rationem facienti. [i nom mutáda s [nccedat fecundum vatioriem,non e[f ^ tranfeundum ad aliud fiante eo, quod e principi o vifum ef? . Cavendum tamen, ne diu- tius in eàdem materià medicá infiftamis, potif- fimum fi in alterantibus verfemuür ; fit enim fz- penumeró,ut, dum longo temp« re eodem remé : gue Pm dio utimur,natura illi affueta ita illud in alimen/Æxsa Área. tum vertat,ut morbificam caufam evincerenon 7 valeat;potiffimum fi alexipharmacum fit; pecu- harique qualitateagat. Immwutanda ieitur crit materia prafidii, et quantitas etiam ; quz adeó Certa przfcribi non poteft : hac enim ratione et '| vii cxiftimationi noftrz confülemus,& eegros obfe-qj quentes magis habebimus;ne tamen id frequen || ii tds fiat,ne ignorantiz notam per inconftantiam || i fubeamus. Puean- 2. In purgandis humoribus per medicamen- |. dunagrg tum five [entens, fivefolvens ;ut multa funt à irte. Medico et animadvertenda;& przcavenda ; ita exptd't," huic noftro Cautionum libro minimé inferen« q«o»do da,quód regule, et canonesilli non nifi cautio- *45f? nesomnesfünt, quibus Medicum jam bene in- £derit« fitutumfü pponimus : hé igítur in immeníum (ec e A erctef. cat liber, folüm cum Hippocrate ;z fræmen " eile 4. t0 Ib.de medic-pareantibus,ilud admonebo,;4ebe- TT re AM edicum pre[cripturum phaymacum quod far- frm» vel deorfira purgat, prits £m '€YTOGAY€ y HHTA alias phavmacum pureans bau[erit ; Cj num alvus ex pur eatoris deor[im f actle fe fol'vat, ac cst oberug Parsvelporius dura fits hæc enim erit cautio pur- € l "T : 4 AFEA CIAM 1 gatorla 1n metu hvpercatha 1COS, ut naturam /!| WU eoo, e. on epa 1 tí peculiarem cognofcat eerotantis,cümnullisno- tis idiofyncrafia cognofd poffit; quam fi cogno-7. Ícere potuiffet Galenus, fe zqualem ZEfculapio cenfüiffer : adeó enim aliqni faciles ad folutio- nem funt;ut vel primo pharmacorum odore tre- .oa,, Pident, atque in fluxum folvantur ; aliiita duri: alvo fünt, ut vix ullisremediis alvus refpódeat;^ fic enim ant mollioribus, et levioribus ;autvæ lentioribus uti poterit. Purtame 3. Atfinüquám pharmacorum alvtm fübs |. dum inter ducentium ufumfe inüffe affirmet, rum demum exquiANIM.ADVERS. LIB. III. f9exquirendum, num, dum fanus effet,officii me- 7?s4re o mor alvus füerit, pro conditione rerum affum- ertet; 2» ptarum, et numà pleniore cibofe in fluxum ef- !riea fit fundere alvus foleat ; fic enim tutius zgrotanti pr confüleré poterit Medicus. 4. In lenientium medicamentorum ufü, cüm LexientiZ videam Medicos adeó diffentientes,& in quan- «f ati- titate; et in hora exhibitionis,& inintervalloab !5s:?ri» exhibitione ad cibum,concedentibusaliquibus, 4?7mer- puta, fucci caffiz ad minus unciam, tum et fe(- *91^?^ quiunciam, vel electuarii lenitivi, vel dia pruni, per horamante cibum, et hunc potiüs matuti- num, quàm vefpertünum, ut fomnum fugiant, quem poft medicinas imbecillas fngiendum;au- &oritate magnorum virorum omnino probant, Je esce vc] eà ratione, quód perfomnum et evaciatio-e Certo .| nes perfeceffum impediantur, et medicamen- - tum naturz adeó familiare alimenti naturam. fübeat;quod in Italis Medicis Francifcus Valle- riola;2.Ezarrat. c.$. maximé reprehendit: Nc- cantibus aliis; aut hzc in principio morborum. effe concedenda;aut fané admodum raró;in quo ; numero Mercurialem noftrum effe video JEgo ww ^^ de hacreita cenfeo: Infebriumemnium, &a- liorum quoque morborum curatione,majori eX ;», (5,45 parte ab initio lenientium ufüm convenire; et UA wav excrementa;in ventriculo contenta, et in vicinis |.,. A 7... partibus, evacuentur, et ut commodiüs, fecu-. riüsque incidentia, tenuantia ; et abflergentia,, auxilia in ufum duci poffint, fine periculo ; nez crudi fucci ad intimiores partes ducantur. Quà NOS oe) : gras * mo lHh e urhe Kata VeTO quantitate ; diftantià à cibo; et dt tempore ?. Sané nifi cautio adhibeatur et diftindo, in errore verfabimur : Aut erífmin» T bs. princpio morbi ad. prefcriptum ufum exhiben- dz,diffg. tU; ut progreffu morbi;ut alvus aliqua dejiciat éio. Andies,cum enemata, » quód aut renuuntur, aut . leduntautnihil fübducunt;a aut alia causa; in u- füni venire negueupr d 1$1 ob primm occafio- nem, et ad unciam, et ad id fefquiunciam concedi zx. ; debent, et a aliquanto tempore ante cibum ; et potiüsmatutinum, quàm vefpertinum tempus eligi debet, nifi aliter acceffio febrilis perfua- deat. Colligiturid ex Gal.2. Ze em facul. cap. 31. de moris, mox etiam de prunis agente, ubi alt : dl vups pruna movent,, Sinai f f prandium gon ftatim. fed aliquamto poft in* ervallo inchoetur, capo t[ola comedantur ; hæc enim communia, omnium laxantiumm przcepta meminiffe opor- Lax Iet ; ut enim perfeinexiftentia excrementa fub- vunt edi qucant »fine cibo per fe concedi debent;ne veró, tmc)en E ' cum naturz ea famil liari ia fint, 1n aPRSCHÉ Ver- E d «t tantur, non multo poft cibus eft 4llis concedén- d Dx 4t - dus;ne veró fomnuminterrumpant,dum alvum (s das p ád excretjionem movent.;c rd poft quatuor;aut fex horas fieri folet - po tis ante prarídium erit Deb; . exhibendum. 1Q: [Quod fiad ex xcrementa,que in. rsen jnteftinisa lagregaptur ex quotidiano cibo,füb- ducenda ex thibe atur, cüm ld fepius fit oriítatt- we dum, multó min or copia Mloru m erit conceden- da, puta, f (cmtu [uncias antea deachnges dein facile folubili, &e2 quidem. jim- mediate (WW dd 4 121] /Á, )1l eAVO (6: mediate ante cibum;vel cum ciboipfo;& porius; cum cana,. quàm cum prandio: ficenim cibüs : emolliens;& lubricansredditur,& ferculum one Jtvculn lud hquidum;aut ju fculum medicánmientofa m. UPC OBPINT induit qualitatem lubricantem ; et felectaà nüs- turà parte nutriente, reliquum, quod adanteftis: na transfunditur, et fxces contentas emollit; et ^ tunicasinteftinorum lu bricat neque .cruduma: fübducit; quoniam ; cüm naturz ea familianas fint; illa non averfatur, aut cum crudis expellit; fec d co ncoctione faétà, quod familiar '€ ma91s at aahit,reliquum.cum ex 'crementitià parte ádin- teftina pellit; quod cum non fiat ; nifi celebratà : coctione ; poft fo mnum folet fiéri : et vut millies p Jy OMA e2o ex pertus fum, et nof ftrates Mc dici meoe exg« "2 Ja 1o cognoverunt ; hoc modo au t famiuncià ; aut ctia un duabus dr achmis fierenumeró 1pajor ex- dg tetas crementorum copia educitur, quàm cüm uncias ' &e etiam fcfquiuncia per horam;ut moris eft5ane te prandium exhibetur : fomnus potius adjuvat: coctionem illam ; et lubricitatem ; quàm impe» diat. Neqtie interrumpitur, quia quantitate» à tardius agit,& non nifi poft cocticnem . Auctos - A ritas illius fententiz-& VaHeriolà adducz ; aut. 2^* de primo modo exhibendi ea intellivitur ; vel v m potius deveré purgantibus debilibus; de PME alis. G. :Ab affumpto autem medicamento: veré 1 viec d * purgante;an fomnus co ncedendusamrerandüf- ZU AN z 91272 '4 vefit ala eft ratio ; neque unà refponfic né po«^ 4072 b] e? eftíausfien ; aliterepim eft agenduniin medime quands. CoIento ; utenchitt «améto lévi;aliter in valido:alia eft ratio, fi me« dicamentum fimplex fitmedicamentum, alia ft venenofi infe quippiam contineat, ut hellebo- rus, Colocynthis videntur : neq; idem imperan- dum.fi liquida exhibeantur;autin boli formam mollioris, àutfclida concedantur, quales funt : pilulesfiex ex blandioribus fuerint, et 1n formá li- quidà, vix eft füperdormiendum, nifi ventricu- lusadmodum imbecillis fuerit;fi bolt molliores fuerint, et medicina fatis potens ; aliquádiu fu- - él mela perdormire licet, potiffimum fi naufeabundus emi 9 fit eær,aut debili ftomacho;fic enim faciliüs ad potnded actum ducuntur, et non evomuntur. |A pilulis " £^ * optimum eft dormire, et longiori tempore, ut PIS etus colliquatz, ad adtámque deduciz, facilé sol i - D PUS fuum exferere poffint . A valentiffimis au- E tem medicamentis affumptisjin « quibus virulen- ti: nonnihil ineft nullo modo dormiendum. ceníeo, nevirusad principes partes, et potiffi- mümad cor per fomnum means, qut ad cerebrü vapores transfufi nóxas pariant in&mendabiles . yin m Malé iis confülitur, quibus ab affumpto -aMfumpto, pharmaco,;ne vomitus fuperveniat,calidi panni 2e / 07A 7v M reet n - p 34A / 7" zeli cs hoc autem et calorem naturalem à loco avocat, lida sop G fa penumeró flatus excitando ex materià inis fentappli ventriculo contentá naufeam promover. Gulz canda. igitur, et ecfophago potiüs frigida fatim sdmovcri debent;ventriculo autem non r.ifi cüm dif- ficulterad actum deduci peteft, aut dolor à fia- ^ £u congula y ant àut gule,aut regioni ventriculi applicantur ; il-. y.gioni yg 10d enim potius vomitum trahendo conciliat. Concitatur, calida applicenuir. Cavendum autem femper;ne calor excedat,revocatur enim -.| potiàs fic natura ab opere. 8$. Cüm Hippocratem viderint aliqui ab ex! J| hibito helleboro, aliove medicamento validio- rl,cremorem horde! exhibuiffe, E reliquie,fi ul quc adh xererent medicamenti eefophago, fupe- ricribusq; ventriculi partibus,fü bh erentur,aftüsq; ex medicamenti vi in ventre productus 'reprimerentur ; poft quodcumque medicamen- !tumaffumptum poft tres horas, fiveevaciare, jam ceeperit;five nullus adhuc motus fiat;jufcu- lum pulli propinant; adjuvari fic cenfentes opus medicamenti. Quod omnino cavendum ceníeo: ficenim medicamenti vis hebetatur, aut preter rationem actio medicamenti confunditur. Ino ^2e44- aod un fine fané evacuaticnis fiquis id pr rxftiterit, opa- me illi confulttim cenfeo;nam et fiti ccnfülitut, 5, -. et reliquie medicamenti, aut humorum fübdu- cuntur, ehuitur ventriculus ; atque vires aliquo modo inftaurantur. 9. Purgante medicaméto dato, fi fpatio qua- tuor,aut quinque horarum non dejecerint egri, nec bene;nec tutó clyfima 1njici poteft; quod paf- fim à Practicis fieri video; nam diftentis intefti- nis pharmaco, ac ruentibus füccis ;aditu prohi- betur remedium; ;fepéque deorfum pellente na turà, et furfum propellente clyfinate, pugnà ex- ortà,dolores concitantur maximi, et aliquando volvulus.promovetur. Glandem ieitur prafü- terit ex melle impofüiffe cum fcmidrachmá fà- lis, Pbhartna- €0 nj pto . son femper in- fco p tres Loret exbsbéda. HH eth . Mu 8U.A. oí " € tædia. PLarz;-- co no €? CHante s, chos 20 " dé sm, Jw Qo df. Cun m o $2 C^fA64 lis, fellis bubuli ; et fucci cyclaminis ; aut cum pülvere trochif&orunvalhandal, fed cum filo . Quód fi clyfma indatur;fit acre quidem; fed fex«. |... folüm unciarum. Praftattemen id promovere. |; cum hauftu octo;aut decem unciarum juris pul-: |.., Ii;addito faccharorubro ad:dvas uncias; aut un^ |i. ciàaddità mannz; aut fefquiuncià . : Vomitus ^. 10. EO ufque mollicies noftra pervenit; ut: quet-NOmitivorum ufus feré exoleverit,ut vel eam ef^ 1 plex, q'ii- fe caufam etiam credam ; ut raro rebelles morbi j.. £4; » C A nobis evincantur;ne tamen id fineanimadver- . |. 4775? fione relinquam ; animadvertendum ; cümdu- j. V^ uley fit vomitus, arte procuratus, Vniverfalis u-, sese Dus; quototius corporis conipages, fi quid malt" concepetit;evacuatur pervomitum : Particula- ex eactrisalter;quo ventriculus autà collectis per fe» . excrémentis infe,autab affufis aliunde ;inani- tur... In primoillo exercendo;cavendám ómni- no effc hyemem dicebat Hipp. 4. Z4pbor.6.quod. «c cim czaffi humcres tunc exuberent ; et viz non. fintaperte ; corporisque compages denfior fit ; juàm ut locum humoribus attractis concedat, difficillimanireddunteam actionem;fecüs eft,fa. J. vacuare humores per fein ventriculo ratos ten--. taveris : frequentius enim id przftare debemus |. ^ . hyeme; auctore Hipp. /ib. de [alubr? Dietas quo- p). " mani inquitjboc tempus ad pituitam f ecundins eft; V7 et quamviseo tempore ventres ftatuantur cali. |. dicres;r.2fpbor. 15. quoniam taroen pituite me-.| tropolis ecerebrem, ob aéris frigiditatem 1naXi- || iné pituita abundat; unde defluxus illius ad pe- || ER Kus» bs étuss et ventriculum ; ideó vomitus hyeme ma- 21s conveniunt blandis iis avxiliisqua naufeam promovendo partem illam folam poffunt eva- cuare;ut docet Ga ld. $. denfupart. cap.a.Atfi he- pate fe exonerante, bilis recipi turin ventricu- loquod ex amarore lineuz, et aliis confpicitur, quovisid anni tempore ex eniat, evomi poteft; licet frequentius id eveniat xftate . 11. Numquam tabidi;,aut in tabem propenfi Vemitz: cvomant,fi fieri p offit, fed per infer DONC cag tabidis i- tur, ob graviorum fvmptomatum metum. nimtcus. 12. Cavendus itidem eft« vomitus,quibus ca- ; 11 E re eren m put c tolet; nifi ex recrementis in ventre collectis quibus no id fiat;a ut quos interna ph leo: 'neobfi idet;aut COWUeIT . qui laborant moleftà aliqu à ham )ptoii 1, aut O- culorum morbis ; lipothy miz,aututerinz affeCüoni expofitis etam 1ncommoda eft vomitio,; ut et 1is,qui fracto;nau ife tiri ndoque funt ftoma cho, et denique cob ptis, et morboexhau- füus. Eoufque progreffa eft hominum tnolli- P2area- ties,rt etiam in medicir is pureantibus affumen : ca vefrige disvoluptatem qu£&rant, dum illas frigidas a- '4t4» vet ctu; quin etiam.fi Deo p ;lacet;glacie refrigeratas tlaciata n expetant,.X fzpé ab adulantibus Medicis con- "Je c? cedantur, non animadvertentibus, et multum NS L de naturá proprià per: glaciem corrumpi i,igne: as partes, in quibus maximé purcandi vis ine extingui, difficillime ad actum deduci, dolos res fa epe excitari, tum ex frieiditate; cum diminu actione medicamenti;& fe penumceró adl j: L h uinc- humores in ventre cexiftentes,.dum adhuc denfat magis,contumaces etiam nimium reddit,unde.» repugnamus actioni medicamenti ; indéq; tor-: mina,& inteftinorum dolores . Phawnz- 14: Cüm noftris his temporibus,quibus Chy eor vali. micis, et Hermeticez Medicine locus fepé datus dorum p eftillud inoleverit, ut extracta virtutum medi- vinum, camentorum perinfufionem in vino;aut in aqua aut. AqHÀ. Nitze fere fiant nifi diligens cautio adhibeatur, U/'4 eX" errores fequentur inemendabiles: ut enim con- MK cedi hocutique poteft in medicamentis blandis, lofa- et placidis;ut Senà,Ágarico,& fimilibus;ut etià in fimpliciter alterantibus ad calidum:ita 1n venenofis,& fortibus non femper eft tutum,;ut it Colocvnthide, Turpetho; Cataputià, et fimili--] »" L L] . M bus;vis enim virulenta altius permeat,;& cordis] palpitationes producit;aut fi virulentia non in- fit; fed mediantibusieneis partibus vehementiam habeat, adeó medio harum mæpnus vi-] gor illisadditur, ut füperpurgationcs, aut fané dyfenterias efficiant ; fitísque tanta exci-4 tetur ; ut difficillimum fit huic fymptomati oc-4 currére. nLabarha 2000s Quinimó, vel ob hancipfam caufam aliá info qua funt etiam blanda medicamenrta,qua quód » vino ex igneis maximé partibus conftent;ut R habarba- Eris k Y^ 2 llc i - bibita fe-. Yum, fiinfufione facta 1n vino concedantur, fe. ; : »WE- " bres exci- bres fepenumeró inducunt non parüm a ftuán t4t tes: irrorari udque antequàm Infundatur R hat... barbarum debet,ut ignez partes terreftribu] multis admixtz quodammodo ad füperticien trahana ie Re i P QA í trahantur ; atinfufioin vino facta nullo modo laudari à me poreft . In. componendis formulis medicamen- Pjarma- torum diligenter animadvertat Medicus, ne ea «4 d mi« miíceat,quz multüm tempore differant in ope- frétur, fint ratione ede *ndà, i ta ut unum ex iis fit, quz non, (* 75 2"4 nifi longo pófttempore et humores peculiares 42^" fé OCC WIOSS: Pp re agite et attrahunt,& fübducu nt; ahud ex uis; quie ve- locifiimé eadem praftant,ut fi quis electuarium ex ficco rofarum cü pilulis maftichinis mifceat: quoc d enim citó vires fuas exferit,i jinteerum füb-- ducet medicamenti im tardius ad æendum, aut dum vix 1d humo res peculiares ag 'creffum erit at bali iere,sicqi ic imperfecte rem idrieb Unt actic- nes medicamentorum, et tormina in inteftinis 5 ac dolores exorientur., 17. In pilulis concedendis, et fecundum ma- Pilula Inem,aut parvitatem efforn andis, ma- quando " da eft cautio : fi enim à capite, aut »magza,et longinq s partibus attrahere deb ent,craffiores qwando mao páttyd ine formari debent, ut diutiüs in ven- ^orve con triculo firmatz;& valentiüs $, et mæis à lo nein- ortén Otis attrahere poffint : atfi ad excrementa fo- /!!If« pre lüm, qua füntin ventriculo, e XC utienda voten. CAPMems 7 7s din Lorej, pro tur,ur folemus de pil.alt ph anginis,«& aloe face- sdiadeula rc, minutulz femper effe debent ; utnon diuibi. hare ant, fed qui àm primüm abftereant ; fic ad iium cicermm magnitud Inem eas pilulas exh ?221720Y € $a bemus; quamvis ex aloe lotà cenfeéke pilla a- liquanto craffiuftule concedi poflint, qu3m 1c ex non iota:cim erumrcbvr vosti2 Ra ; i p. lil Pilula va ld:fima f 7/774 WO fmit. ma£4 Ciyfieves p £7 29 211 Js no f '£ [24 HY» HH Í indaut 5 yfeeres ? pragna ^ 2207 excedant « Clyfteres, por . laborant bus ventb. [;2t parva 8 ille foleant;aliqua mdiu etiá plàs reuneri debét. In validis veró pilulis concedendis,nimis magnz fünt vità ande: cüm enim non nifi longo tempore evincit à calore noftro poffint, atque» colli iquari; diutiüsibifirma tur; unde nimis macna fzpé fitat tractio humorum, unde et fuper- purgatio. 19. Dealoes frequ entiori afu, deillius affu- inendi cenfuetu dineà con 3»de ejufdem quan- titate maximé varià, ac de ejufdem i in (cbtibus ufu,cautiones pluresaut hic,autin aptiorem lo- cum erunt ad dendz,defcribende eodem ordine quo fu perius (criptz funt. :o. Declyfteribus hz fint cautione s Ima, in eravidis non mu Itàm frequens fit clyfterum ufüs: fi Veana ge e e fint, progref fi teitifo: ris per communicationem partes uteri, et adja- entes nimiüm la bande hinezid'in ferna reple- tus uterus prol abitur; fi acriores veró fuerint. et fetu noXxas afferant magni momenti,& ex pref- (ii, quem in ducunt, prolapfum excitabt partis, et fxpenumeró 1 cmorrhoidas maximé mole- ftas producunt " 21. Ingravidis ?randiori feetu clyfterisnon multa fit quantitas, preterquàm enim quód có- primit foetum, flatim quafi etiam comprimente feetu repellitur. Renibus calculo ; vel infífammatio nela$55 PD LI, borantib us, parve itidem fint quantitatis,ne repletis nimiàmiinteft inis compt imendo dolorem adausgeant, In prepingvibus non multüm calentes r, pay pesada folent enim inteftina habere fenfi ma- guibns, e ximé prædita ;ita ut ab injectione quafi fübitó ;zzefhinis expellantur fine utilitate : hoc veró 1n omnibus subi fea obfervetur, qui exquifiti fensüs habét inteftina. fusselyite- . In quibus flatibus maximé inteftinatur- 7*5 7enim ent,qui enema injicit, blandé admodumidfa- ^4"'w m neque cum impetu propellat ; inangvfta e- quens ' calentes e nim loca pro pulfi venti niln n mdiftendunt par Initcflinis 2 eS, atque einde dolores Ízpenu meró v ehem Cn- turgetib? tiflimi et excitantur. flatib. cly 25$. lantumdem damni iis evenit; qui et plus 62; LZ n1mio duratas feces in inteftinis habent,quíaue 42 inácié inteftipna iis nimium repleta habent; pavlatisns di. enim em ollise illas dcbent;atque mibdsacti qua- Clyfferes titatc indita, et blandé admodum. violenter. 216 Ch 3 res,quos ex malvà, alrhzà,mercue 79? s: riali, violarià, betà, et fimilibus decoctis parant ciédi que Dhn: I TN DS OUS ffinis fece patiim Ll'harmacopcla quos Ccmmunes appel$ al. ai. vcpletis « lant, vel- hac telis ne femper fü n ectos habui, "prs, Bey iz. quod decoctum 1llud p: v- tum diu tius Confer- (25,55 ven i Gc quamvis cleo diutiüis fervare incorru- incommq- hujufmodi decocta rrofiteantur,fi tameno da. affim« cl ervaveris,putridas& malé olentia ef- fc coencfces : quo nidore fxpenumeró uterus in mu heribus commoveri flet, in aliis dolor capi- tis excitatur. Qvare pra ftarct mulsà bene mel- lita; et cleoid pra ftare ; aut ex urinà cum melle defpvmato.& o leo e dem praparare, aut fané recens fcmper decoctum 1l lud parare. 27.. Magis veró iidem cavendi erunt, fi addle 4Jisd go Ea tà un 70 LVD. SEPT ALII MEDIOL. eumdem, tà uncià caffiz fiftulz, quam vocant, aut diacaí- incomto- (iz; pro clyfteribus parentur : eam enim paffim» dum. |." parari fcio ex recrementis caffiz abiutis face a- liorum medicamentorum exoóletorum, et fyru- pis jam corruptis loco mellis, aut facchari;ut fe- é et magnos dolores inteftinorum inducant; inalvo folvendà nihil proficiant . Clyferes. 28. Quantitas enematum major fit in mulie- pro mlit- yibus. Oribaf.8.Colle&f.cap.24.funt enim ventri- ti^45 44À. cof v meis,& ventre capaciori;ut cüm uterum. Htate T^ ferrentminüs premerentur . af 19. Salemrecentiores femperadjungunt, et $al clyffe- a a [ .O v ribu: 45; f quis 11lum omiferit, tamquam fi piaculum» indédum . Conuififfet; derident,fed prater ufum antiquo- yum,& rationem: quoniam illo addito non d1u- tiüs detinetur; cüm etiam per noctem integram. aliquando probé detineri fcribat Ætius 7 er. 2. fer-1.cap. 129..., Clyfferi-30 In puerorum clyfinatibus olei ufüs intet- bus puérá- dicatur, et ejus loco butyrum füccedat ; ne ver- "i ole nó mes;fi qui funt;(urfum ferantur:sícque Sebeften indatur. juri,autferoincocti maximé erunt ex ufü ; ex Paulo //b. 4. cap. 53- Clyftere ;1. Vt ante vene fe&ionem optimum aliqua- in indéd^ do eftalvum clyftere evacuare, neinanitz vene jid /*- crudamillam, et feculentam materiam ad fe» P072 V 7 vci bant : ita non placet ftatim fere ab injecto iln4) QU& 6b f: er VAMA . lo venam fecare: praterquàm enim quod et fri- gore tentantur aliqui ex furrectione; et aliis de- liquia animi füperveniunt ; fit etiam fzepiüs, ut naturá adminiculante, noa femel tantum, fed bis, ter,& quater,& fiepiüs dejicerefoleant: un- de aut in ipfo: fedtionis actu alvus perturbatur ; aut edam artifex in ipfo dejectionis actu, ne» tempus conterat, ob lucrum vena fecticnem. exercet. 32. Cüm morbus caufe implicetur ; cave; ne Morbs morbo evincendo infiftas causá poftpofità ; fi e- caw/e com nim illud primó tentaveris,quamvis interdum. ?!tato, mitior reddatur morbus;manente tainen caus, ^^^ vm aut non evincetur integre, aut fané renafcetur fe T proximé majori cum periculo. biens 33. Incaufisremovendis, externa priüstol- Cawfi; latur, fecundó antecedens; tertió continens : fi- "mitis bra quidem cüm alia ex alià nafcatur.nifi in iis evin- tibus, cendisis ordo fervetur, fruftra quod primó ex- € ie petitur, fed poftremó intendimus, nempe mor- ^ ' itd bum füperare;obtinere tentabimvs . aL dai- eon In comnliran diete endis ;4/ ferv&dnis 34. in compiiceus morbis removendis,fiita ^, difiideant, ut variæfedes occupent, nec unius,,,;. 5. curatio alterius curarioni officiat, fimul curari, plicatis et eodem tempore poterunt, atit etiam diverfo, morbis y neque multum refert,ab utro curationem exor- quomodo diaris. procedens 3$. Siveró unius curatio alteri incommodü 4v. afleratrmaximé erit cavendum, ne dum vni ftu demus affecti, alterum exacerbemus ; SOUUNU. "rt merece att e15qui mæis ureet,miaximé infiftemus;alte- ?"!r25 - CDM AF $i " quomodo ro nén neglecto; autfàné (quod potiffimum ob- ELE fervabitur,ubi zqué vrecant) otique mediocri-,,, tate quàdam, et contratiorum permixtione erit fuccurrendum. A E 4 36. In rra 2&. : ; 31^ Rd Y "osi 3» multis. 36. In decernendá remediorum copià he fint ji remediis animadverfiones .. Prima 1n levictribusmmorbis jiu gio proct- par fit remedium, ac (emel, universimque mor- :| é^ dendum - lumfübmovens; cüm enini leve üt ; nullam na 115 ture viminferet. 2 nu Extrebis |. 37, Atincxtremis,& periculofis morbis lineal morbis [^ eunte morbo przftat valentiffimum aádhiberea 55i 2 7, remedium ; quia cim mortis immineat pericu-i: yep lum;nifi univerfim remedio evincatur, præt pesi? rendum. CC in mortem agemus . Hinc extremis morbis: ni extrema remedia adhibenda ; confülebat Ferdi Mobi Ppocrates. auediotri- 39 Quod fi tnediocres fuerint.fenfim,& blà-4ic bus las» dé melius depellentur; niillam enim fic contxa- ga d? occuy- rie qualitas noxam corporiinurent. INec ta-4 rendum. ynenádeó lentz eorum remediorum vires effe nte debent; ut illas morbus non fentiat; exafperatulfo ixi enim fiepé morbus ; et acerbior fit; cüm morbüs €4lid; fo- talia remedia facile füperet . ius nólon 0:39. Tn fovendis externé partibus, üt incaleej n go tépore lcant; prudenter fe cerat Medicus, ne diucius 1r i» ufum utatur;fcripfit enim Hippocrates: Calidüsfi quii ducendi. diu,multimq; eo utatur,zgris damnum auget carnis effoeminationem invehit,laxatis. carnium] fibris, diffipatoque proprio carnium pabulo; 54 indu&to humore excrementitio;unde etiam nerun voróm fequitur infirmitas ; nà eorum robur in.Ji mediocri confiftit ficcitate . Cerebri quoque affi, fert ftuporem,nam fensás,motüs,cmpiümque- Jio; cerebri a&Hionum quafi refolutioné pari et hæ morrhagias concitat,laxatis venis;& fanguine Jh. | fufos wj ma itf fufo; et lipothymias; diffipatis Ro paient) &reil folutis membranis, qua mots 1pfa excipit. At veró nec multim f rigidis diu utatur ; i| nam frigidum;ide manquit E Hippocrates, fi quis incófideraté €o utitur, fpaífmos et r19i res affert; nam exitu omnia corporis inquinamenta prohi- 1l ven et ofhibus;ac cerebro bellum indicit. Ad prohibendum faneuinis flixum ubi- i] que osos frigida; nifiin pectore fue- sl zit malum: fümmé enim frigida pectori fünt inimica; etenim fanguinis, et fpirituum vias in- tercipiuntjlp fiüfque thoracis naturan n,que carulaginea eft, labefad ant ; quod multo calore atad v Ita m fo )venca lam ^ 42 In yehem 1enti sok ^: vel ex multà copià t C aig CCurrat;cavet dotspnerni ident O- ij rusutamvur;fed noni mihl. eorum,que diícutiünt, eritadmifcendum : quz enim adf'rinsendo re- 4 pellunt, cum tunicas ficcando exafperent,majo- d rem inferunt dolorem, hinc potius influxum. j| augentsquz v« TO ÍO là refrigeratio ine id przeftat, 4d. ut: aqua f r1i?1da,nix,2lacies,narcotica,cüm ma- ] teriam nimis craffefacia nt ; Mb conden- M. fent;etfi dolorem minuant, curati. tamen diffi- ] ciema fec i Im reddunt 43« INarcouica qua í J| ne temere in ufum ducantur s fed non s in ve- I hementiffimis doloribus,vbivires concidunt;ut 4i cetfantibus doloribus robur recollieant. Adi la Eori$ vero Medici erit auc auram momo 1 ^ /15 tu poret Coma En CERT T) cn diia MN NEQUE T m Exterois f igid; $ di nom utendum. AÀ (angus eb ios ns fiuxf frigidi. 0b1124 praterqua i2 thorace. Solis rgpel leztibus in printr- pio quado A a, 7 0n fii£fie€ Je £144]73 9 Narcoti- ca nntm- quam sp- plicanda fiétuvis ca ptis - IN arcot: cea mnum- quam in- 1Ya Are. Narcott- ea num- quam in pueris Natura quo ver- git, 0 du- cere opor- i5 quo- apado :inzellicedzt. &» ;4 . captántis ; ca in levibus doloribus in ufum du- cere. 44 Numquam commiffurz cot 'onali, utin cxteris fit; ap plicentur in vehementibus capitis affectibus.fed temporibus; et fronu. Numquam in aurium doloribus intra auris meatum;furditatem enim fepe concitant ; quidquid R hafis contrà fentiat. 46. In pueris narcoticorum ufus omnis füfpe étus:fi enim intüs fümantur, cüm aneuftis venis Bi 4 adhuc conftent; quafi ftrangulantur; extrinfecüs: lits .autemad fomnum conciliandum fi admovean--lj een reliquam vitam me morie multam Jactu--bo: im faciunt. 747. In quácumque evacuatione moliendà à Medicojfive non Operante naturafiv e imperfe--p« &e agente, qu :amvis et quó maximé natura tüil s» partis,tum humoris verei it, có ducere oporteat, per loca c »nvenientia, id eft poffunt;& à naturà etiamyf tentione fünt inftituta, q aut inflammatione;aut alio morbo. Vnde Gal. 1. 4d Glauc. cap. 11. dicit teftina laborent vel vulnere,vel infiamma non effe evacuandum per illa Joca. Tum etiam; fi vicinus locus ille perfe conveniens parti ali- cui laboranti fuerit ; per : fi ventriculus, velin-p tione; »per quz evacuartiflor tem fecundarià inc-e oni eft ventriculus ;,d0/ vefica, inteftina : Cautio tamen adhibenda eft dii quia fepe evenit; qua per fe fnnt convententia 5, ex accidenti talia non effe; ut fi hecloca laborét: eciJe. accidens non erit con--P veniens;ut quamvis thorax, et pulmones ad ex-4i cipie cnP € c ww 3 EE " WA. M reu im. iC s Pv lll Kipiendam materiamà cerebro transfufam apti! Ifimi fint, aborante cerebro non eft per eam viam "JEvacuandum;quia tracheg arteria, quz pulmo- '^ Ini juncta ef; cerebro maxímo eft proxima; et fic Ipericulum effet, ne ad pulmones irruéret, ut te- "^ Mtatur Gal. 2.27 6. Epid. 52. . Quamvis, que ab Hippocrate Medicin? cj»; jparente r.24phor. 22.propofita eftfentétia:Coz- -edicari "I:rotfa medicarz oportet, C" cruda non savere, nifi. opatercs, Ipsateria rurgeat.qua alioqui raro turget;hujufmo- c eruda iii fit, ut maxima curandorum morborum fatio 79» move "i lieà nitatur,ut felicitatem, quà in curandis eeris Vogt? '"Jper quadraginta feré annos fruot;in obfervatio- siu A inem hujüfce canonis maximé referre foleam.; dnd. [quoniam tamen unicam hanc exceptionem ad- (æe "I Mgecit, mft materia turgeat. tunc enim cruda funt eorlatieii- i ipurganda;cum alioqui et in plevritide HIpp.2. troverft "acu. 11. 6c in anginasa. acut. 30. et cüm lotiutmo conciliati "Wicraflum eft, et nebulofüm, 4. zcwr. 43. quod im- perfectæ coCtionis fignum conftituit Galen. t.de » [iC rif. 17.& in quintá die, fi venter murmuraveJitit; Hipp. 4- 4€Hf. 64. et in quartà in plevritide, (quz eft principium, 4. 2c. 76. medicamento yiflufus fit pureante: ut et Gal. 1. Ze differenti: feb. "i ja-in febribus peftilentibus ; ($* 1. de compof. td. lier loca cap. 2. S.curans alopeciam; c 2. eju[- wilden, cap. de curatione doloris capitzs, (9 4. Metb. omlemed. c. 4.1n ulcere;fuperveniente eryfipelate; c qh1. Meth. 9. quod ita puttidum eft, ut Corriei «Ainequeat;ab initio evacuandum;(£ c. 22. in óph- Wkhalmiàa; et linguz inflammatione, ftatimi nitio 41 c firm t4 ÀA1ULA lo 6 LFKD. SEPT ALII MEDIOL. fluxüs medicamentis purgantibus ab 1niti0 s. quod eft; ac dicere; crudà exiftente materia, ufn funt;in quibus certum eft,non turgere materia 3; E bo ; ] 33 et forté eà ratione, quód praftet aliquid. cum. periculo experiri ; quàm a grum defütutum re-4 mediis fineremori. Vndetamquam in falo ha-4., rent Medici,cüm confirmari fententiam 111a mo «4... 232. 1. Sel. videant, 1. Zdpbor. 24. 4- zpbor.Con; 1o. 4. ACutt. 22. 2. Prorrbet. $8. 3. de diebus decret o. Iib. Quos, C quando purgare oportet stum fine, pen), longum proceffumm. quomodo in hoc negouo om: nium, quazad faciendam medianam faciunt maximi momenti, fe gerere debeant ; dubii hæ: rent ;.& quid pro conciliandis contrariis iis fen tentiis dicendum fit,dubitant. Ánigitur cum. antiquis Patribus evacuatione diftinctà1n era epe dicativam, quam in crudà materia numquamy convenire;& minorativam,quam convenire afí& ferunt, fatisfaciendum erit? minime; quód unn ecríalis fit reaula cum unà f0là exceptione; e 4 ACHE. 22. dicit univerfaliter,non convenire, qui cruda non cedunt ; at minüs cedent minoratiyl debilioribus. Nec raró in acutis in principl uteremur medicamentis purgantibus.Et ratio Gal.in Com. 22. tradita ; quód. non fit in crudi tate feparatum bonum à malo, in minorantibu locum hàbet.. An potiüs canonem intelligemt lo ewvacnatione 13145 fat C112 41 ert'à ET x "ep «c 28 de evacuatione,qua fit curandi eratià? et præf vationis eratià cruda ab 1nitlo evacuare poter mus? AtHipp. 4. acut. 22. reprehendenti Meq dicos cruda ab initio. evacuare tentantes ob u fiamba f ! Euh 77 lamma itione;refponderemus;excufàti p Te eos, Iiceremufq l1e;1d ili )s ME IP d pra cautionis erati preftitiffe non € à. At nec placétiiqui cüm ivacuationem aliam conftituant evacuativam 3 1^ tationis, Iblum;aliam revulfivam:1 PEE IV ànumquam Iruda in 1! » rincipio etit evacuanda ;in evacuati- à fimplic ialiqi ando pofk dif erunt ;cumin Mevritide;in anegirà, et aliis inflammaticnibu [$5 Llamus eo tempore revvlfionis eratiàfieri eas 4 IVacuat iones. Pratereà,incommoda, quz fe- qu fcribit Galenusad crudorum evacuationem, "I^ Ts iRAdlfi æm In evacuation ;VvCta fünt; lotiffimuüm cumabfolute, et fimpliciter reeula 'to, nifi t urgeat, BI LL ciim dus A bobo £02 3 bDiubppocrare ponatur. Minus r« ecipi endi,qui ki À A Vacuatione cruaa materla ] Ippecratemire]cere centent ». 2Z2pbor. 23. alibi IT M camdem concedere,frà parte folum áliquà ia TT . " 213^ * f5 /5(« I T o: f C PN ' d'a Mat: Quoniam rationes Galeni non folüm 1n to-, ; TET UT j^w* I PP LEN. X. X mer Ik IT conv eniunt,;fed et in partiali1. LUA.2CHT. 2.2, . leat m5 u'atione ioquit L5 KCuUa c AITCG fit, i t11, ? f 4 Lf 1 Cieccw n * 1 CIICCLLI CIutcoo1 Cal 5 I. non ad totum evacvuandüum; fed ad n27teva ef non ad ictl1 L- uandtiun;iéeaa«d partem ei- 1LP DS ] iuin eit.( jDCCctandaarm cvoraumm. vec dicenc Y; DCctlonem ordinata C Lal üuratione ; coacta veT OW WM a 7 € )primatur zeer,cruda poffe evacuari,ut E. - "* PTWORTAWN P7 2888 C5 on nid I1quibus vifum eft . Nam coactam effe tureen Scruda matel Lr paries pd ivo ; d s] A" là 4Hh^ lam in 22. Zdpbor. excepit, ni mini on d A Pm c E Jeperaddic. Minus etiam dic potefi n liis numquam licere cruda evacuare, ififerte tureeat materia ; 1n morbis autem fine febre ss f cruda poffe evacuari;quod aliis vifum eft . Con--fni vincit enim eos Hippocratis auctoritas, 2. zcst« pi 11.qui in plevritide morbo cum febre, five cur-- putt centiàà principio purgat. Vt igitur jam tandemnafam. in difficillimà hac controverfià;quid aciendunmfan fit,eruamus,non pigebit longiori uti oratione nsn &k preter inftitutum cautionum píacticarumnpui t tradendarum;cüm res hzc bafis feré fit curatio-4oni num omnium, in quà tamen omnes feré aberrà-4ul runt. In primis igitur memoria repetendum efti cruda, et co&a in duplici effe differenti ; aliat enim cruda dicuntur; qua coctione mutatà in. 4liti fubftantiam verti poffunt;alia veró non ves ré cruda, aut veré coqui dicimus, fed per fimilupi idinem;nam licet nutrire cocta nequeant ; tod melicrem tamen conditionem ducuntur . De. Bd duplici hac co&ione, et cruditate etiam prime locutus eft Ariftoteles 4. /eteor. ubi non folürig cibum, chylum, et fanguinem, cruda,& cocta; aprellavit fed et lotium, et excrementa ; vt T Hipp. 2. 4cut. 44. ubi bilem crudam appellat hio et Gal. lib. Quos ' quando rc. C lib.de conjMy art. med. 16. Diftinguuntur autem hzc, quefhi, qua concoquuntur propric ut nutrianteamde-fi, qualitatem, et fübftantiam nutritze partis fufcdfug., piunt;quaz veró improprie, et per fimilitudinenps. cruda. cencoqui dicuntur, non. fufcipiunt ais qualitatem, aut fubftantiam, fed fufci piunt tail cüm quádam fimilitudinem caloris concoqueqe, tis:znam chvlus albus fit in bepate ruber, et faclo. culs feuis ruber albas partes nutriens fit albus. Tn. iM brudo veró cocto, cüm putridum effet, non fit 4muratio fecundum fibftandiam, fed in qualità- "Jte; ut faneuis putridus cru dus dicitur, pér co- j ctio nem albefcit in prs. Hinc Galenus varié illvariis modis coclionem d efinivit. 2. enim de 5 aparurel. facul. cep. 4. Concotlio; inquit ; eff alre- patio, C mutatio epus; quod putvit 2 [rli dier egus quod zutriir : Quom ctiam recepit Hs. de fTrzpt. caufis y Cap. 3. Aiverfam tamen ab Ihac p fiiit aliam 2.77 1. £ pid. cap. 46. cüm di- jJlcit ; C ocf10 eff viltoria inbsds leden: 25$. Et 2225 uuedrte zzed. 89. inquit,Cozcoé lio eft -qua finit purre- edulzzesz, manente [. «bf antia.Ter primam enim il- dam ver a coctio definitur ; du: n Us 11 isalia ; qua uper fim:t; tudiné dicicur,quec; putridi htimoris ir S. de coz zpo[. sed. 72 uridup 1 loc.ca 4p.7 dicit: li C oz coc? 70 eft, Al! era 40 fec: AH0Gb57277. kr 741 Fattoncem » iud /rriztudrmezz.ut vtramcue cc n.prchenderer, Jiquód in utráq; fiat mutatio ad fimilitudinem; afed 1n p rimà fecundum fimilitudirem aualita- itis. et fubftantiz; in fecundà veró tantüm fecun: pidum qualitates. Secundó füppcnendim eft; aAMiquód inflammationes ex Gal.2. Ætb.zed. c. 3. diiduobus modis fiunt: vclà tranfiviffo fà neuine» (ikb aliis partibus ad partem 1nflammandam: vel dnb attracto (a ing: ine: à part eipflammatà. $1 in: ilflammationes primo modo fiant, ut faneuis ab anliis parti busa vo - artcm In if: immandam tranf- qlimattatur,dupliciter etiam fieri poffUnt;vel quia qpartes afficianturà multo fanguine : ve] quias T)!)]!10 n. r eIAAZUCAÀA" puncantur ab acr rifanguine. Cüm enim multus KG partes infurgunt ad illum expellendum, atjue ita expellunt ad partem inflammandam ; n iuten a fangu 1$; SOM taræn dici nó déteste aptus eft, di iguotiiteto x xced citt neque improprià cruditate, we P utre dini eft.qu ia fiin toto abundaret, Íync hum ger nerarét; cüm tamen nulla præcedat f zepe febris. 51 vcróin parte mittente 'compnutru ifi ;jat min eà parte inflammationem produxi iffet; fanguis igi- cur ille transfüfiis crudus non exat . Idem dicen- dum eft de fanguine ex pulfoà parte 9m punctio nem;ex acrimonià bilis fanguini adimixtze;cru da enim nullo modo dici p oteft bi lis 11la: neque» enim cruditate alimétali cruda dici poteft quia et ; f21 bili « nó nutrit:neq; putredinaliquia antequàmi k fluat,facerct fcbrem ardentem, vel eryfipelata 5;] non igitur crudus fanguis ille dici poteft. Vbi vero fangi iis ifte'influxerit in partem inflam- mandam, cüm extra venas eft tcranfiniffus; incipit caleficri, et putrefcere, tüncquecri udus ffi citur cruditate putredinali fenfim veró à calore: natu rali cum €o,qui prater naturam eft, pugnate incipit Conco qui,& ex rubro fit albus; u nde dl... oritur pus. Hancautem d li(tinéctionem elicimus cx fonte Medicinz Gal.1. Proezoff. Cor. ult. ub reddensr ationem,quomoc do fiantin flammatio nes,dicit,fansuinem,vel humorem non nutr 1e1 tem fanguim mixtum, priufquàm influ xerit 1 cridumappellar non pofle :nam tum p rimün tántum incipit alterat1, et à fia natvrà in al leni peumut AT1,c üminfluxer It; nam fa nouis excidés propriis vafis, in priftinam naturam revertere non poteft. fed putrefcit;& mox in pus vertitur, et proprer obftructionem ili calor prarernatu- ram accedit; et immutat;càdem de cansa a. de pat " part.c. Fexvfipelata ! LS preter nituram ex 1 turam fieri dicebar,quód ad retentionem obftrn |éto fequatur;híncque cal rfequatur przter na- turam, qui ulibsieni orfutmp It ; ex quibus hi- jyuftmodi affectiones producuntür ; ut I calidà ^ )| propte er dictas caufas, M" vtr lereddità 1 cryfi- pelata generantur; et qui priis male ol nsnon jberat; factida tandem redditur : de ACHT. 44. Quà p (npp fitione etn CItur,t itin quib icumque infià- i: 1 A i mationibus à biliofo ve hiceatàbinitio pur ] 1 é » ^ 1* ^ yedi2 sgare,quia humor non eft crudüs ; et proptereà non comprehenditur fib Ar Sh rifmo 1llo 25. t. DIOIIl " Section: b 077C( oCcta "eaicarz ó)CYUda verà nan i 9/70 vere oporter, quia bilis in prin cipit ipflan nmatio«nis non eft Mone Ab initio ver« ) pure $. -cj E. Telle in ervfinelare «| hovenos " nto 1 winteiii9go 1n Ccrynrpceiate, nerpete', et ca teris InI flammationibus,& fimilibus;ubi minimum eft, f E - xit; plurimum veró;auod influxutum apett; ut influxuri humoris pars mat r repcllendo Biitic titt fi multura inttuxiffet; p lus peri-, pue ex "à bhai armaco pbtean eretur;ob influ- nateriam, quàm commodi propter fluxt- td r Lili dgrams;utdocuirl [tp] ). 4. AUCH. 2:2 i 1.€111 convenit materiam defluxam detrahere ; quód pro materià noxià bona evacuetur,;vires debili- tentur,& in morbumadducatur. Quibus pofi- tis,facillimum erit intelligere, cur in plevriride abinitio purget, 2. 2C. 11. et cur in angina 4. ac4t. 30. quia bilisin principio fluxionis non eft cruda. Át44.4- 4cut.in lotio craffo, et nebulo- fo puzgat,quia jam«rat cocta materia. 1, vero de Crif. 17.càm craffum louum cruditaus fignum dicir;intelligit de craffo,& turbido . Qnód ve- IO 4. 4CHf. 64. quintà die purgarit, crudo mor- bo.optimé fecit, quod ex hiftorià conftat, fuiffe turgentem. Galeni etiam loci illi reeulz non. refragantur: nam quod de peftilenuali dicit 1. de differentiis feb.4-nihil eft; preterquàm enim; quód in peftemajori ex parte materia turget undequaque mota,;nullum przfigens fibi locum determinatum;dico etiam,vere crudam non cf- fe,ut aliàs docebimus: cruditas enim coctionem (üpponit ; atin pefte majoriex parte eó corru- ptionis materia devenit, ut corrigi, concoqu ive 1 ^ nequeat;de quà putredine locutus eft 2. Z4pbor..].i 17. lib. adver[us Iulia. cap.6.Galenus,quamesy. nonnifi evacuauone tolli pofle docuit. Aucto-].. à . X " IR - » ritatesali: feré omnes funraut de biliofo fan- euine, in principlo inflammaticnum, aut ervíipelatis affluente,quem ab initio purgari poffe», jam docuimus, quód adhuc crudus non fit aut à * ^A A l4 ' de materià alià, que nullo modo cruda dici po- reft,quód non computruerit . in w/o 49. Cave ctiam, ne inter lenientia, potiffimtj rs inbiliofis naturis, et febribus, tum veró maxi- mein acutis veris mc js IS,fV FI im rcf. folitivi- zer Je2i6n recenfcas, qnodà rlcrifque Medicis factum viz:ria n3 ca- dec; cum enun obfervasx IutivMus $vcrim fe penumeró, aut. z,"era- fimplicem, aut ex fer idis ]: he mi tumtantam. 45/4 :m - » y fo 1 z bumcrüm copiam evacu: 'abtam vix inte- "t" f ves i ! ( 5 1 j." ftina;m CIaralCz vene «X ventrici luscap ere £i-. 4o! [f L N ow 2419212 d mul pofic nt.femper fum arbitratus ; ab nniver- CHO fo corpore ; et venis majoribus humores attra- . 4 hcre. 59894 evi et $0. INc 'n negaverm tamen,in aliis febribus, $4 AN * [T1 ul »inteítinls, é p rimis VC- ?A€ 287 niscrud. fun hi mcrum cop1a fubfit, quód al- quando ia t1.:5 vires fuas exícrere nequeat.ta mquàm abfter PA liS.. í«11..m za f Léntum,anel rcf.foclutivum in. Lai lí CULICIH 1 (fc. da . NS .* $1. In fcri lacüs ufu: i uz eP rM plis modo feparetur aquofa hzc lactis fubftantia à bunt es reliquis. Modus enim, quo paff: m no firi utun-^ Jndkan QM Oo ET,Ut CC cl I3 f Da l'éntur,.ut facili icr eft, ita mi. Bo. weit nus falibrr :; rzftat enimfeparare ut Diofc.do-. "7 * CCt; Ib. 2. Cp. 276. quod fit ducbns modis : Pri- mo, fi dec qu: tur lac donec effervefcat, dimo vcatürq; ramis ficuli iium S,& Ubi bis,aut ter defer e bcerit;confpereati r oxymelite, pro fingulà he mina,quz eftoctovuncarum;cyathum illius im- « aH^u/ esL mifcend: id eft, fefquiuir ciam . Secundo modo, r4 a1t; ferum feparari, fi ei cffervefcentiimm erga- tur vas argenteum aqua frigidà »lenum. Idem. docet Gal.4.zcut. 7.& Orlbaf.1. E ypor:[toz, cap. 9. Sed multó diligéuus Accius 4b. 1. Quat.Serg. - e RÀ ^ m S4. 2: €. 96. qui tef it efférvefcat, et ter defervefcat vafculo aquz frieidz pleno voluit;mox oxyme lite, vel mulsà afpereendum,& percolandum effe,quod etiam docuit Paulus lib. I.CAp. 99. 52. In ejufdem feri affumendi quantitate» B seriladis cautio maxima efto,aut enim fv mitur ad univer Wni^;; ritas Perbiriasquo fum corpus exp ru E et tunc maxima il- me lius quantitas hauriend: xeft,fic fecit Hipp. 48y.770de con EL act. 29. dbi cotylas isad minus duodecim propinandas voluit, que tunt centum 2: cé&o uncim ; "* quód fi valide fif on 'es,etiam ad fexdecim pet - venire pofle;id eft, cétum quadraginta quatuot iasyfcribit;fic enim interpretabatur Gal. lib. iovorvas ex. dlc [adubri Díata, » Ap 28. ubi Copeium. poticnis e Tiles am) fimilis propináffi t fcribit ; id eft, centum et octo a pec uncias M ÆEEA 1 ad ventr pue «m,& inteftinao 44 velim abftereenda ; evacuanda bibatvr fe erum, ea» £Mroevex Viii is fue quz tradita eft A Diotc.z5. I. ct eh CA]. 276. nempe qu inque heming. Heminam Pvgon enim prius hauriendam fcribit, iens deam- bulandum,rvrsus aliam bibendam ; iterum de- N eLambulandum;ufque ad quinque. -Hánt (equi- Mace ace gnaviow tur Oribaf. r. Evpori[foz ; cap. 9. addens, hanc ef o jen quantitatem T pos deratam. tam Ætius 1r. Quat. Ser. 2. cap. 96. Paulus lib. 1. Cap. 43* tradit (xa quantitatem dide em tenden remad Ihuc parcio- 4C Tem, tresaut quatuor henunas trà .dens; ps Ic ex- -- plicans cap. 89.etate vieentibus,triginta fex un- cias;junioribus folum decem et c&to, id cf,Ca- v/evam pyo tylas quat ER: t duasconcedens. Aliquando nafta ww :atite m fero lactis utimur, tamquam materia i in£e ^ fufio ini5 $; fufionis, aut maceraàtionis, tunc multó minot jl. lius « pla f fufhiciet: et fic Mefüe lib. 2 : Cap. 9.à fex unciis ad duodecim concedit. Neque objiciat else fn à quifpiam Gal. a. act. 7. aflerentrem,ferum inte- 777 ftina a folum fübire, illàque evacvare;qvod repu- enare 1]! videtur, quo ;d primo dicebamus, ad unck is Cent!m et octo dariab Hip P. 4- 4€ut. 29. "T ad univerfum corpus expureandum. Cum ew - menipfe tantam quantitatem non pr obaret ; 1, conftat ex locis propofitis,cüm folüm inteftinao evacuare fcribit, de moderatà alià intelligenLedicus, n declinatione febrium Purgap- puturidarnm femper medicamento purgante» 45 55 natcria2,qua me se m facie bat,Cvacuationcin femper 17. acere ; quamvis enim fzpe hocneceffarium fit, febris nequerelin quuntur irs Mi ir 2. "Apbor. declinatio 12.Ía pc tamen in * udiciis naturz nihil relinqui-: 7e: tur: iun À dotar indo, eciamfi nulla crifis fa- : 5 iir: (A12. . cta fit,aut recta victüs ratione; et debità abftinen /| tà aut infenfibili per habitum corporis factà evacuatione, aut paulatim er c]yfteres cadem. martcrià evacuata, ^ evacuare1n fine medicamen per (] to tentaremus, colliquatis humoribus bonis; et / carnibus, et fpiritibus cxagitatis, ac excálefa- CLis; nribuqu c deftruciüs ; agrum præcipitem. aceremusin mortem. fai JA 2. ndoigit r cognofcem lus, pureandü pz, (fe corpus in ü e 1 fcb ris? Docuitid Pip poc. 2. quado i ad pbor.8.ci cit u8z quis a morbo cibum « Jj" Wes declinatio non corrobor, ng ^ ium g [locorpus pleaoriuti ili: ge feria : "L2 / 24 EP putridge mento. Quod fi nec capienti id cóptingat,vacuá- sm. tionetumopuseffe procerto habendvm. Vbi ^ sdàome Gal.dicitintelliecre;fi i:bum multum afiumat, é&cumappetenta;que fiadfit;non poteft abun- dare pravis humoribus relictis:sicque non indigebit evacuatione;fi mültum cibum,& cumap- ; petentià affumpfcrit; et corrobcretur: fi veró nó n ge- multum cibutn fumens non córroboretur, indi- raarua i eec evacuatione. Animádvérténdum tamen. ! 2tela . corporis hanc confirmationem non ftátim coenofci, fed trium, aut quatuof dicrem fpatio poft quos dies, nifi fequatur et apperentia, et Co£toboratio,evacuationé per medicamentum. . purgari utendum eft. Purgate $$. Animadvertendum tamen,pureaticnem diinibfa iam et ftatum morbi intermedio illo tempore» delin* (ypponere,& apparcre fiena cocticnis perfecte t9 ^ Yn ufina:fit enim quandoq; ur ceffante febre pér 2 diemwunum,autalterum, febris ante quartz m» . fedeat; nion quód non défierit ex ratione conco- &à materià, quod quandoque fit étiam per ccto fe cde, . 165 ; neqve tamencrmunatus m. rbus dici po- 4. eb . teft; quia adhuc cruda eft materia : et 1n eo caftü FI ficn eft in éofpatio pureandum, qnia nec cocta eft materia;néc feparata mala ab uüili;tenc enim et totmmina,& vertieinés produceret evacuatios colliquatis carnibus, et fpiriiibus evacuatis. 2. "Apbor. 3 $.«& 36. Vnde n intermiffione hac fal- (flo fn. - sà putantes aliqui Medicieffe verám declinatio T bem, poftcoctionem materi factam evacuan- tes, corum interimunt. $6. In In iis, qui durà admodum fint alvo, aut crafsifque multüm füccispotiffimüm in Ventricu ulo, et inteftinis ies ne medicamentum veré purgans concedatur, quin priüs clyfma ve- Ípere injectum fit;ut facil liüs fübducat ; et dclo- res non pariaG;,exitumque per inferna ncn inve: nientes humores, et medicamentum, ad ventris cclum regrrgitent ; quod docuit Ruffus apud Oribaf. 6.Colle£t. 26. Criucis diebus;qvarto, feptimo, vndeci- mo, decimoquarto, vieefimo, fi nihil anté judi- catum fuerit ; re di bitet Medicvsavt purgare, f6. viícid lis avtíonevinem mittere:critici enim tunc ii dicen dl ncn fi nt Tj LM : ind1Caterio die menftratum fit, naturam cl |facturamsnectair en faciat.levi- bus remedii, QqUæctian In mant noí ftrà eft f :b- trahere, manusadqutrices porrigere eàdem die euam poterimus. $9. Cavetamen, nein deficiénte natvrl in, materie motu per alvum id facias, ne major qvam fitfiatevac uatio;fi auxilium medicamen- ti tencadjoneas, cüm femel hauftum pharma- cum revocari nequeat;nec illud amovere liceat: natur& enim 1$ eft mos, ut aliquando cunctetur aggredi evacuationem,& aliquando cunétanter moveat,mox ren validéalvum excludat. Quare poftridie potiüs erit pbarmaco utendu m,quo manv sqnaf adjutrices fatifcenti naturz porri- garus ut quod reftibile eft à crifi imperfectà exclu iens k . Quid 3-; [ T 4; y Clyeseps indédum fp? in al- "Uo daro» ante pnr- gationem. de Crincás d b. qua do purgan nU . Crifi defe Ciente S 240m edo proceden- dum. Cif die Critica di- ficiéteyea- dé die zii- [il fnovesn dum . $8 LED. SEPT ALII MEDIOL. 8ymptema |. 60 Quid fi natura ate codionem fy mpto- sic zatu- MOS LIGE evacuauonem molitur? Die ud k intut ya obtran. hic Medici docáffimi. Ego fic fenuc:fi fiat pet quid loca naturz diffentientia; omnino co hib endams Medo cum Gal. 1. "Aphor. 21. At fi per co nfentanea. fe- Pref adé* eatur, cohiberi non debere:nam.fallit interauni e *« : quz mala videri poterat» bene : iiquando ce- ge dit.4. zdpbor.47. utin Metone cótigit, r. Epraczz- Sect. 3 X unde fi cohiberetur, pravi humores co- pi, vcl qualitate ftimulantes, qui evacuantUr » ad partem aliquam. princip em calamitcsé rapi poffent. Et licet et cruditatis,& multitudinis ; et pravitatis hec e vacuatio fit argumentum., et fienum malum;rauocne tamen cavufe bonum eft, vel minus malum: nam minüs malim cft,humo res educi.quàm p principem partem ferri, S1in otio quicfcerenti 1i fu cci, przfta ret eos ncn ex- cerni,fed cum pra viadeó fint, ut partes irritents praftat eos exclud i. Symptoma &1. Cautio tamen adhibenda, quód licet ta- lici natu- Æm evacuationem non convenia t cohi ibere, mi- va operan- nimé tamenà Medico eft valde juvanda, cin, 16, cant? fiatà naturà non omnino bene agente, etiamfi agetdum. fucrit diminuta. Imó ubi diutius perfeverave- rirtalis evacvatio, et vires profternat, omnino erit cohibendas. giu AM. wf Ll p C 4 Animadverfionum, et Cautionum Me- dicarum, S, Continens eas, Ova in [angunis miffione obventunt : faneuinis evacuatione per fe. can quinis tam venam, licet illi d fit obfer- miffioni andum, ut ventriculo, et venis ao» séber mefcnteri] crrdis humoribus, premitten excrementis IC| letis ; DOhnL 4a alvi le pni I hr t; quàm ea abftereentealiquo,aut le- 7t? niente fLbducantur: cavendum tamei ne.fimor Ibusita ureeat, ut mortis periculum immineat, Mid faciamus : ehe enim miffione fanguinis 1]li Joccurrendum eft;ut in anginà,& vehementi ali- quà inflammatione, et febre : meliüs enim eft, 5 mmunenrem mortem pravertere cum aliquo i damno, quàm czerotantem à morbo op pprimi fi- nere; pouftimum cum Jevioribus iis noxis non, ditfioo difficili negotio occurrere poffinus, Sovguime 2. In faneuine detrahendo cavendum maxi- ilo mi- mé,ne quanto putrior em,& deterioris condi- er ditas tionis fanguinem é vena p rofluere viderimus, "uanti'4s tanto majorem quanttatein effluere finamus ; e»4c422- quod plurimos facere obíetvanuis : tali enim. jo$ exiftente fà inguine, et pauci tores 1 fubetfe fpiritus VM i£, et vires facilltme folent collabafcere. Coloris $n .. Coloris in fanguine, qui evacuatur, mutaf ^. gnune dios qua in evacuatione revult fivà; potiffimum in muttio ? internis Inflammationibus fp ectatur,,non fit ter- [1^ minus,& menfura quantitatis. detrahendz;nam [22027755 in febribus fepe primus fanguis;qui detrahitur, ruber eft,mox niger;atit [acidus;cujus mutauo- nem fi quis exfpectare voluerit, pracipitemr- Cols, &grumagetin mortem. TY Puworb Quin nec in 1inflammationibus internis fanmuine iuidén perpetuo ilfa col oris mutatio exfpectan ia inflam da eft vaut enim vix à parte, et circumfufis ob pittionib. craffitiem quandoque extrahitur ; aut fané tan- on etiam tà. illius eft copia, ut, fi cole ris mütationemo exfpectan exfpectare voluerimus, vires o mnino fimus de- da. jecturi. Colois i^^ «, Mfutatio hieccoloris ab Hipp. 2. aca. to. ioi tradita intellieatur; fi prinium albidicrilleflu- aii ite xerit, mox purpurafcat ; vel cuim primüm pur- lirenda, PUfeus exierit poft livefcens fundatur ; tunc Colori; ji; €nim fupprimendus eft, modo dicto. fanguine 6. Hocautém fervandum erit; vbi vena pro- aziutatioi xima eft affecto loco ; alioqui fi in alns cafibvs reviilfrone Aaflamminationum 1dem quisæcre vellet, ni- inia séper f, AP ex[becian da 4 ac Bed Lyc tios æt RN. ..... gr Ræ eros J| mia foret evacuatio,antequàm fanguisà phlee- /gizqua, I moneabduceretur. - "am cxfpe 7. Inanginà tamen, et hepatis inflammatio- 474a. ne, copiof fiü: s fanguinem extrahere potetimus, I» agma quàm 1n plevri tide, et pulmonià ; Guód 1n 11li maxime et evacuate, et revellereopus fit; in hi le I vcro preterc A od reliquum eft,vbi füppuratü "bos Mfuerit,excreti^ne UTI ERIE E ones olt Jetfi onvs fit anim dlis pie UT lbeallà exiftenre, cenftareillanon p teft ; quàm im S. ni pueris fecto venaz, qua evacvandi offi- alis, c cium folum adimplet,utrariüs In ufi fumes de- eur. Ibect;ob eas,quas Galenus,& fequaces c is C bepatis /j lamta- ATIS Quis CUAien 1m- Ccuart! fàt, usaddu- P»er's et xerunt caufas;non tamen adeo perpetua hzcre- !*væuauo Mv J : T J " ora eula ette debet; quin alicus rdi ante decimum- 7^ r4 "t1T11153 313244 E LI ^ (n ome e ^ At^ an-- quarium annum hoc remedium prafcribi pof- q dosis D. 2 2um atuar fit ; et debeat: tum quód pu bertas fepé tern Inü j ; 4 s (2223: C12 all: m pra veniat;potiffimüm in mulieribi s;tum P dd : à : : 2472 fca quod multos folidicris habitüs, et VIgOFISantÉ,, porofi : e dM deci blu. 1 t "m pus c« nfpiciamus ; tum quód a aliquos tanta fai nguinls COpJà rcfertos np "T L] cbfervemus in. acutiffimos morbos incid Cre, quorum plenitu- bdinem, n1fi fectà venà ftatim (olvanmius certum Jimortis impendere peria Tt cimus. Vnde» lI tPpenumeró natura 1 przveniens (quam omnino Jibene operantem imitari debet M edicus) copio- (" ia pcr nares Mon Rao pun (ubitó m Wbos-Ruz jufm odif5lvit. Et euai nvis huic fententiz re- fracari vic ide atur Galenus,cum tamen Cornelius ICclf fus, Mauritani féré omnes, Hifpani.& Galli "Melerique, et ex Italis quàm ; lürimi in hanc., de1*9 o VvAlilils ei Lvenerint fententiam;his affentiri potius plævia atque experi entis pftopemodum in finitis; fpa- no quadraginta annorum,quo in nuign àhac vr- be,& in magno hoc UG. Va igi 'udinario medi- Fund excrcui, firmare p lum. 9. Quód fi de fanguinis mitlione per fectam.; Patris P? «cnam loquamur,qua revulforia. eft,qualis ett ure qua adminiftr: atur pro internis UE umatoni- femi om bus curandis ab initio,quales fü nt2 incina,phre- nitis,plevrits, peripnevmo )nlà; hepatis inflam- matio,omnino in pueris ante quart Hunac cimum evacuari angnis pacctam venam j rit,.cüm X ftatim, nifi xetr i atur f: antes ju verde cümimp dry dee eire in tT: dixe vcríq; nequeat; neq; ex tra ifpiratione per mol- lem, tranfpirabilémq; habitum fperari pofbig materiam retrahi pofle e,etiamfi concedatur, per meabilem illum habitum evacuatonis vices füpplere pofle ; revulfivum n tamen numquam. confütui ; otcrit veré reme di uim. ro. Preftattamen in pueris a d fextum annu festen- hirudinibus vena: perta fu guinem extrahere; à o 3 à x E 2 " 1 f sdi aan VAL zum pre cuin enin uíc q; ad ieptimmnim annum ob excei- &at bira- fun humiditaus,vena;arteri |DCrvus ferc fimul dizib4sconglobata png »ericulum fübeft;neloco vena, fanguine aut fi: nul cum € À nervus aut arteria pertunda- goacaitar e, " 1 "o 2 Rudd s rud PUcPT tuf. Qu Ó d fi eagam manie Íte 1€ exfera sl 1inCccoe9 CAY AU d. Ee ud : : "i là pertundatur quidet nfed amplum potius,qua profundum vulnus fiat. i Dm næ vore oer eve Tempore Ir. feb ribu S, fi tc tipo mittendi langute-4 anittezdi l jOI puce cnni, IFhoides fluant, quamvis doctiffimi aliqui viri IFenfeant.non priüs quippiam à M edico effe mo- E ddun: quàm evacuationcs illz defierint, etiam I fint im erfeéi 4 qi "Y nefciamus quantum. o IWelit natura evacuare, et cüm imperfeáé ali- Inuando 1n principio: igat, verfus finem autem. [uüppleat ; unde fi evacuaremus; periculum im- minerét, neex exceffu vires deficerent : cenfen- Irium tamen,melhis effe; cum verfus rid vide- mus naturam deficere ; manus adjutrices porri- Ibere,ut ex conjunctis natura, « Mcdici. actioni|bus, facilius evacnemus quantum opus eft ; fic Nf ] AY. 31351 14 363 9913343533, Enim Méetoni aimiftivte fanevinem narium eva- I. 1t] l tX v"3 H1 Loel-4 4 ( e« Ct 3. CAD. 24. F5 ( ] €C4K ] er11111 EX acu1 2 0, i ( O. 1)77 Sect. 2 vC. : ^ 3 3 " 1 n " exeuntem humorem unà,dicebat.debere Me- r I l £21 ptt n ei CIC3quod etiam « .In Coma, x pitCcabat, Id eft, dum imperfecte natura ope ] i "v^ d / "t 1 " l'atur:;non autem dicit.pefft. Sc quod omnetmo Fall l4 ("n.f ! L FOI11C difiiculit: tcn, Asa . js. ! Ci LZ D € Ubi nac - ! 2 1 A IDIOD ecu e Ct, quod 1n eo ca BE Lo ecorncids4 f: todminic fecta Bit mus ilu imt! CLLIS 11 uen 1S aneulinl Ípect Dnoaus cit.Qqtm? I fatis fore v rideb ütur,totum neectium permit- llrendum erit natura;fin minüs,tantum Medicus IHetrahe tquantum fatis videbitur, ut ex c njun ttis ambo bis tanta flat evacu atio, quanta pro Tbvincendo " it neceft ria. Vbi duo funt, bx quibus facili : coll Ieitui rnc life esf ectare.» incm motüs n2 ture,edamfi nperféctus fit.Pri- Inum.quoniam dict /; rir Fal vide "Dh quod hon ceflatum motum oftendit, fed dum in motu eít; DE ( o I! aunnf, f! men, fnere r " gtrit;j pt I C€UACitiaat an i a adeft A£ 001H$ o Grecibt. f Zdo Í ed ie cce Id E £hr 4A ( át ZT« TT €t c RUP ÆRE mulium yum (lac e iu, 1f, 2901/8 d M P^ £ 9)4 LFD. SEPT ALII -MEDIOL. eft, conjectándum effe ex impetu, an fv fficiens futura fitilla evacuatio: Secundum, qucpnic m» fruftra "x impetu 1d con jectari doceret, fufhice- rct nien ceffato motu videre, an adhuc et mcr- s magnus effet, f. ngrin isfubeffecabundan tia; MÁDS n: valétes: cüm autem imp eium fiuen tis fanguinis sfpcétandum Jufl trit; id non alià de causa à faciédum volvit, qu àmut ex impetu con- jectari poffimus;an fi ffeQ ura fit hujuf modi na turalis evacuatio;ut, fi fuffectura fit; pi yen pater ono cemimpetu effluat, totum negotium nàtu- ra relinquam us;fi veró lenté& guttatim, ante- quàm-c 'cfinat manus ad jutrices porrigete va- leamus; ü rutrifque con) junctis»ofhi mus tantum evacvare, aranrtumopus fit; ai à diligentià ad- hibità,ea e" cjemus p rericulayqu eadcó vercban IUur;q" ] contfa fent dunt. r2. In finevinis metiendà quantitate ex babitu corporis eracili, cartio mæna adhibencai eft,atque diligenter confideran dvn |,ànànatt- à eracilitztem nac ttus fit,an à confi Danis: l- u. me rbove.2.de Temper Tibe im avt obo. vichüs parfimoniam, ap iml curas, au it fimiliass4l quia verifimile eft parum fanguinis ip venis CCn-» tineri, minor extrah1 d teb jet euantitas. In 11s ve-4 rÓ Qui ales ft ntnaturà, quia fieri pcteft, vt et liberaliori victu ufi fuerint; et pf ptercà fa neut ne abundent, plus detrahi poterit. 1.42 6 luc eft à do^ i fincHbs . Idemin craffis animadvertendum:Difan] Oi ridi culi erunt carnofi à pinguibus ; in car: nofis; «à G lau 14. cu iix inftituto video multos Medicos rra: exrare, plus fanguinis in iis detrahentes, qui la- Msi s: boriofas artes exercenr, utin fcfloribus,& fimi- i libus,quàm in iis; qui in artibus fedentariis tcti bes da fun ntque iin illis plusinfit fanguinis; viribüfc jue ^^ 'aleant;n llispi iritus, et fanguinem exhauriri:róbur ve- in folidiori fu prà repofitum effe, et ex quoudianoalimento fuppeditari, cim alioqui VCDa n n multo faneu Inc rei erta fi lO px Ot1u« CAM períectan 1 I aiiquan l CUla C1 Cuerit (x; M X6.fi terti i nCccei (li 3 int L ftabit bis facere duo bus diebu: 1 Áni /* «u€;,inrev 1 NJ IM Al an repetitam fanguinis ternos cgi M f f lV cna In Oeadem d 11^? T5 th: A&IkLIOLLhD tasm ittci P^ madvertendum, pra MEMRUSol P. ue - de curaa. vat. per [aug. sail] .cap-21.fi repetitio fiat ulfk OnlsS, ] «ütterendam. fe 1 d Quód f acta fit,interpoínto d1ein DNEERS. XAB.JXr. of nofis,quia plüs fanguineabu: ndantp lus fangui7 nis deu ihi pe 'terit;contrà in pinguibus. Gal ' 13 "i nt Lt1lO «ile, noir Lh Iib. .dátc £14 YaHnád VaL. i £1 T» iq. nmt]. Cap. io mplex fuerit, Urgeat veró ían« termiffionis fieri poterit feprem horarnm. fpati )( Peine, in terrium differri pc teft.In quart I6. [^ evac aticnis gratidorer etenda n potiüs cadcm. ; B » h.n n ER Is DA d 3/2 ) : ^ I*t* bins [27, CH» (d Qf41 1 te$ Lac ^ ani ) làdv ertrentes, etiam in itridis febribus Curadis » £471 Saliqu indo Icquenzi, ahüs pet terpofito, faciendam do- "à o Ulnls, biscadem die inpatio uentecm à hem etla Im 'CIcr- i 1 du- joris invafionis, Iürtana veró pra- intermiflionis, ^47" 7 MED Po) rl auralterum efle, 2a. E I7. Cave Miffwnis fangumss vevulfrua sepetttio quádo £a- denm die Pace uud jácienaa . In cruris dextri in- ; f. amma pone qua pena fece da pro »&- sulfione qai y ETNUNA A "HET jan 9€AUTIS t ks É 2A04 tt[que dei: Cave tamen;ne in pracipiti morbo revul fionem ex pofcente id ferves; cüm enim affiuxus fiat vehemens, utin effufione fanguinis per na- res,aut uterom;,aut hemorrhoides;autin inflam. matione gutturis, hepatis ; pilmonum, nifi eà- dem die fiat; fruftra fequenti die id tentabimus ; quód cum fanguine anima fit effufa;aut füffoca- tio có pervenerit;ut nulla amplius fübfit fpes fa lutis. 13. Cümin revul(ione perfectam venam fa- Gà, et rectitudo obfervetur,& venarum confen- fus,unde laborante inflammatione crvre dextro nunc fecandam jecorariam dextri brachii ; nune faphenam internam cruris finiftr1 pracipiebat Galenus . Hac diftinctione in harü alterutrà feE ^ ; L lisendà ego utendum cenfeo ; fi ex interna catt» o6 à, calido fanguine affluente, fiatinflammatio 5 feccanda omnino erit vena jecoraria dextri bra chii; ficenim verfus originem, et fontem retra hemus fanguinem.fervatà rectitudine, et à cor- pore extrahemus. At fi externa aliqua caufas puta;vulnus;contufio,aut quid fmule inflamma tionem pepcrerit, przftabitex crure fanguin mittere, ut fanguis, qui ex vicinis ad partem laLi borantem affivit,faciliüs per venarum commue- p, nicationem et revellatur, et evacuettur. Cüm fanguinis miffionem ad anim ufq; deliquium concedat Gal.2 5. 1. Z4pbor. in arden- riflimis febribus,;maximis inflammationibus;& Inorbi a sadimittédum efle hoc zenusau nifefte vehementiffimis doólotibus, nonnifi in extremiss| xilii,ma-4 em. pi JNTM. ADVERS. . nifefté oftendit. Verüm cümad illud exfequen- ro ja sa dum tot requirantur etiam conditiones,nem- ducendz, pe ut adfit.atas juvenilis ; temperamentum. «$4 qtsi- calidum et humidum; regio temperata, cor- às» et pus faniguinis miffiom affuetum, anni tempus. &^r* temperatum; quas vix in unoxX eodem corpore reperiri poffe conftat;cavebit juvenis Medicus ; fanguinis miffionem ad animi ufque deliquium aceredi, fed eam perias Medicis; et plurimüns inarte verfatis relinquat;quia, cüm vix tot con- ditiones in uno concurránt;& fiin. uno repérian- tur ; vix cognofci poflint, potiffimum à juniori ; necdum multüm inarte exercitato, przftabit il- ]am omittere, et maturiori judicio relinquere . Non femperante fectionem venz lenien- $474 Vena om da eft alvus; vel leniente medicamento, vélcly- 5 «Sn ftere; fed ubi crudorum humorum colluviem in i aput |! ventriculo, et venis mefenterij adeffe coznove- rimüs;aut ex praterità victüs ratione, velex co- lore linguz, vel ex &ravitate partium illarum. jp juxta ea; qua tradita funt à Gal. 4. de ?wzd.fa- aut. c. $.ócanté ab Hipp.4.zenr. r16.ubi dicit; $i Wfecanda eff venas C al'vus fluat, prius effe adferin- E oim. At ft ad [tr il/esihiol serere gal a fol- || vendam ;,nefczlicet inanitz venz crudos humo- Morzo £y 165, aut etiam corruptos ab illis locis fugant; ac præcipiti attrahant. fanguis 2r. Infebribus putridis,in quibus diturindu mici de tcn, ptzmitti, ubiadfi int crudi illi humores; aut bep ante p putridi in primis veni s, clvfteres debét;aut lenié 4!vi e*t daalvum:atin przcipitimorbosà fluxionefan- !/* G culnis beat facit inAnitto e "mas J*enis bua €bit in fe- viendis, qua cau- iones ad- Libenda. Catutiones £2 mitten do faugut 2e alia,à quibus pe tenda euinis facto,vená prius fecato;nó alvü emollíase 22. Caterüm; omnibusin pertundendisina brachio venis hzc adfit cautio, utbafilica feria- tur,poftquàmfe;junxerit cephalicz infrà eundo per digiti latitudinem ; cephalica: contrà fuprà per diciti latitudinem ;'nam corporum fectio id doce: nam maximis nervus qui ex cervice in- ter primam coftam;& claviculam permeans;toto brachio fertur, bafilicz? fübeft eo loco,'quo ferit digiti latitudo furtim eundo ; fi confocia- tioni bafilicz ;& cephalice imponatur :? tunc fi digitkálterà latitudtinead axillas abieris,eo loco fuperd áreditur bafilica eum nervum, dumnem- pe curfu fim ad cephalicá fl etit; ibi pericu- ium. Quod/fi infrà pergas;in altum fe abditnervus. INecetia tutó in ipfa cójunctione vtriufque |.vene fit (ectioscui plerumg; validiffimi tendines fabfunt; cephalica auté fuperius, ut dictum eft; erit ferienda; nam ibiab. arterià, qus ei vicitia eft; longus abeft ; nec quidquá periculi habet. QE» Plures fi quis in fanguinis miffione,& ve-^1 nà fecandà expofcat cantiones, et animadverfio- nes; Avic.legat 1.4. cap. 20. fed potiffimum .Nicolum Florentini » Sermone 2.T vati. v. Summa 2.Capi 1.17.0 tn ' 18. et recentiores, qui defangui-à nis miffione per íectam venam ex: profetfo fcri- [e píerunr. Dum enimregulas quafdam ad hane:[^ materiam pertinétes tradunt, cautiones pleras--|*& que attingunt, quas,neactumagamus;in prz. nm fentià pratermittendas cenfemus, potiffimum, p cüminanimadverfionibus circa febres, et raor-- pa bos particulares. quàm. plurimasad-hoe. nego- tum fpectantes infrà fimus propofituksi. 24. Incucurbitularum ufu, frlocus fcarifican Cucurbi- dus fit, nop adeó multo igneopuseft; nam prz- r4; pA 77 terquam quód fepenumeró vefice. in cuuculà fzarifca- elevantur aqnà plenasqua fcatificationem cutis tiene,sffi- intcgrz impediüt;attractum ét fanguinem adeó gaztnr ez condenfant, ut mirum non fit, fi incisà cute fàn- £44ce d guis non effluat, potiffimü fi diutiis adhxreant. £7*» et 25. Infcarificandà füb-cucurbitulis cute ad Scarifica- evacuandum fanguinem,.non eodem modo fem- " quado per incidenda eft cutis: nam in cute fuübtili et al- profunda, bà,intenul fanguine et bilicfo non profundis ;; quan de incifuris eft utédum, fed fiper&cie tenus eft fca- 17v; f- rificandum : vbi veró in craffitm corium incide- ciezda. rimus et nierum;crafstisque fanguis, et feculen- tus erit evacuádus,profundiüs crit cütis,& fülz jacens caro incidenda, ne evacuationis fine fru- ftremur;cümalicqui artifices quá plures videa- mus,qui in quovis corpore vix cuticulá tráfetit, folümque ichorofum,tenuem, et in extrem fu- perfice confiftentem fanevinem. extrahunt, ut Inanus 391115, et vix ferientis.nomé adipifcantur. Caveant quàm maximé,ne diutiüs cucur Cuenré;- bitulam;carnofe potiffimum: et molli part, ad- f4/a moa hære fipant : càm enim. vehemens fiat attra- diutitis vf ctio, et multa carnofa fübftantia cucurbitulam., /*4 Pare ingreffa fit, adeó coarctatur, ut fpiritbibus ncn, ^mi permeantibus pars emcriatur, et eanorzna m, "^ quin etiam fphacclum fibeat; unde maxima vi- tx pericula fequuntur. e z L VLl arm d" je?ri- bus interznittentiZ a DAS f^ d üTHU) provo Y2yHiai$. Qontinais febribus top 2dior evAaCttalto La Lam per lot: et à P, , Animadverfionum, et Cautionum Me. dicarum, Eas complectens ; Que in F ebribus curandis ob[evvari debent . f. T vcrumeltin febribus putridis fiu- doris,& urinz provocationem uti- lem effe ; ita in intermittentibus ; maximé autem tertiànis, fudoris $99 ctülioremcenfemus quàm urine. [uu Nam cüm fineulis harum acceffionibus videa- mus feréad ambitum corporis portionem ma- terim transfundi à naturà per fudorem, motum| 4i illius imitari debemus. Oppofitumin continuis fiat: quód in inti-0 miioribus venisineis humor putrefcat, ex qui-- Jui ., N . - bus perlotium aptiffime ex pureatur;nifi forfani«f ferofi nimium, et tenues humores praváleant »» Bs: et zftas cum madórefit ; tünc enim etiam fudo--E ur fibus evacuatur . I c Alec REED F. IOr Intertianà febre verà,& ardente, hecins Teriasis J| clyfteribus adhibeatur cautio;ut ficut molles,& €$rden^1! refrigerantes potentià effe debent ; ita actu vix. tib»s. elj- teporem habeant. feres ioc 4. Vtintertianà refpe&tu fui; aut materieil- J"*e"tes lam facienus, numquam aab initio ante coctio- ^as nem eft medicamento purgante evacuandum.; ita cüm quandoque ad ventriculum bilis acris jh. icit transfundatur et mordens; eraviffima invehens ionem pericula,& fzpe mor tem; po otiffimüm fi eger ad quádoque,vomendum i Ineptus natura fuerit:ut illa preve- sargadz ; niamus,licebit purgatione uti refpectu fympto-- e quado. matis, ut fyr.rof.folutivo ex fero vai odit " vel cui incocti fint thamarindi ; aut et valentio- ribus, ut electuario rofato Meu, aut de fucco rofarum ; quin inacceffione ipsà fymptorate» urgente, ant liydkelz osten; velut vomitum adjuvemus;vel ut decrfi im ducamus;aut fané ut acerrimam illam qualitatem à .ttemperemus . $- Vfusrh abarbari ut omnino Inter principia V fus rba- harum febrium eft interdicendus, quód e eleétivé ^ar? (Stt purget ; quod non licet crudà materià ; et quód cun calidum fit, «& ficcum, qualia omnia evitaridaz, mod E ante concoctionem docebat Gal. 1. 2d Glauc. ita ad deturbandos biliofos illos hum ores, et fyn- copen cx morfu cris ventricult;& vehement n ma alia accidentia;in p rimis tribus, aut quatu«c acceffionibus ante cocticnem cmnino fug len- dus : humores enim illos ferventes ma?is exa- cuit; partem phlogofi quádam afficit; cbftrucio nes in venulis mefaraicis poti&sadaucet, fit?cuE (GG ? (C^ et f TN s^ uci ix losofque denique eeros redditi Inh 6. In purgatione 18 biliofis febribus molien- febrions dà,caveat Medicuss;ne deciptatut.fiypoftafim ih pro pire». urinà albam,;levem, et az: qualem exfpectis: cürn tione [aff epim im biliofis affectibusfola nubes illas habes eit a". conditiones ad concoctionem oftendendam füf- tubem es ficiat»fi exquifi aora illa figna exfpectaverit, re- pea E e facilé occafionem prebebit, quitem^. . Inbilein eftuofiffimis iis febribus evacos- Ya deeli- "Y licet rhabarbarum primasapud omnes Mc- 4atops; CYcosteneat;animadvertendutn tamen omnino küuA»HE CIIt, fl caloradhuc vehemens in declinatione fibriz rba - v elin ventriculo, ve] in hepate, vel in univerfo barbarum, Corpore, et folidis partibus relictus fit, et fitis ez pro j3neens,quodin vehemenriffimis terrianis ali- bile. pur-- quandosfiepius in continuis, et cavfbnecontin- ganda fu eit, preftareillonon uti ; undein illius locom. fpium (übfirere poterimus decoctuim thamatindorü CH, . cum fyr.ref.folütivo,& portione mannz,& fimi dibus. Rhabarbarum enim caliditate fnà, et ficcitate;ac ieneis partibus, ut calorem peracci- deris minuit, evacuatà calida materià ; 1ta per fe in hujufmodi corpetum condidone "calorem, exacuit;ficcitacem adauget;ac fitim inducit:un- deaccenfis denuó fpirinbus, denuó febies exci- tantur ; aut folidioribus magis ficcatis, hecticte introducuntnt£, quod multi non animadverten- tes,non levem 1enominie notam fübeunt, quod go vel declina ata; vel ceffata febris nova corüm Lione excitetut'; GV uonedo Nujvandoautem etiam inis cafibus rhà bulbs. P wi EIS y Würer iride case MEET c AS a0; barbaro uti placuerit, autintertianisipfisadeÓ ;j454724 || non ardentibus, ant in corporis temperie,aut e stipof-,J| conftitutione fic catidà, et ficcà, quód praftan- //mus pro J| tiffimum cholagoeum fit, ac maximé in biliofis purganda ;affectibusab omnibus, et à me commendatum, ^» etis pe ts uA 1 torto ve xA $n «ff uofis potius dilutum, factà in aquis refrigerantibus, bribus aut fero infufione,commendo,ut caliditas illius, fei, et ficcitas retundatur. et ignez partes repriman tur ; aut ex facchoro in fyrupum paratum cum cichoraceis,ut eft fvru pus de cichoreà cum rha- barb.defcript. Gulielmi. Qvódfi potiones quit- piam averfetur, in. ufüm in pulverem quic cm ducetur, fed ad mixtà caffià, ejüsve fuccoad un- ciam, facilé enim fic ficcitas ejus retundetur,& lenez partes compefcentur. 9. Scammonil ufüm ut in biliofis omnibus Scammo- febribus fifpe&tum habere convenit, et non nifi ? &/vs à refracàillius caliditate mixtione aliorum me- 4 fe Idicamentorum refrieerantium;, ut in electuario ion jr .Frofato Mefüz,& de ficco rofaxum,& admodum po » raro ; ita in ardente febre omhino fugiendum MM ieriet tcenfeo:hazc enim febris magls, quà quævis alia, hrefrigeranua expofcit. Quapropter per caffiam, imannam,.fyr.rof.folutivum ex fero, violas, tha- imarindos,fubducere hv mores peccantes conve- Imiet, vel etiam Actio Z'errab. 2. Ser.1. cap. 78. lid perfuadente. 10. Poft blanda hac medicamenta ;Optimé. s/74; "T, Ifaadet Avic. dormirealiquantulum ; cm enlm. furis. lletiam alimentofam habeant facultatem;etiamfi medica- iportio aliqua in alimentum vertatur, refrigcra- mentis, pa G 4 bit, t f - v/ B AA. Caufone laborante T Psrgato » J&€ € : (asi ardentierum la- ePi opti- 222473 « Sacchart vofati ti- f5 » post pegato- zem in Qogadl 915 » ion qrebádus. Ju fbre 9» gerttana eti mter e» [onis eie,vtilus à Gal. c^ alüs infi 11445, «- bud noftra zes pericu- lofuts " xo4 bit; neque tamen evacuatio impedietur ; natura ;| 1^ per fomnum refocillatà... 11. À purgato in caufone humore ; fi.quis la--| 0^ ctis ferum ad frigidum alteratü per duosstrésve:| i dies fümpferit;vel lacafinz;illi maxime confül--| iu tum cenferem:humedctat enim, et refrigerat corr] d pus; fitim extinguit, atque fi forté hectica ince10 perit;omnino eam reprimit. NI 12. Vndeetiam non adeó probanda eft pra] ui &icantium confuetudo, altero à purgatione diez] fem per faccharum rof. ex aliquà aqua refrige uiti rante concedentium, ut calor, ficcitásque v1 ex-- tu purgantis medicamenti facta, et ex febre reli-4 it &a et fitiscompefcatur ; càm experientiffimuss ux Rhafis, 3. T rat. contin. 27. eos, qui calorem, &q qu ardorem in ventriculo patiuntur;illud comede-4 it renullo modo debere teftetur,& maximé fi eftass, ii fuerit;calefacit enim;inquit, et fitim inducit;idls jc quod-etiam in multis experientia docet . Quareq a. praftabitautfero ; ut dixi, uti, aut aquà horde] iu cum füccoaurantiorum, aut julepo rofato ; autij gui violato. 13. Lauté etiam nimis, etiam intermiffionis] un .tempore;cibari mihi videntur tertianà laborans]. .tesab omnibus feré;& à Galeno ipfo:qui cibarg ni; .di modus fi apud. nos 1n ufum duceretur ; omne: qi ex tertianà fimplici in duplicem, aut etam com] iy; tinuam duceremus. Atque hoc fépé; ac fepiu: un; juniores Medici;&üm ex fcriptorum inftitutà vid oj Ctüs ratione victum prafcriberent egrotantibus:| ex perti funt; cium egrotantium periculo, unde ld uj; mutare WE. 3 A s P». "e *. E n TO ix A S (1À5. mutare fententiam coacti funt . I4. Quinimo, fi vinum pro potu incipiente» co&tione curh Galeno,& antiquis cócefferimus, onines in deteriorem condit0nem ducemus ; ut ^ vixin ipsà declinatione concedere illud poffi- mus ; five hoc corporum noftrorum conftitutio- nitribuatur;five vinorum noftranum conditio- ni; five utrique; hoc unum fcimus ; fecurius per totum morbi decurfüumabdicari vinum. 15. In quotidianis curandis febribus anim- advertendum eft; quód, licet in febribus aliis in principio uberius fic nutriendum, paulatim ver- fiis ftatum progredientibus imminuendo; ;inilhs camen primo feptenario tenuiüs funt alendi z- ori, ut et crudz in ventriculo contentz materiz attenuatz;excalefactz,& exficcatz;aut in bonü fuccum vertantur, aut faltem abfumantur, aut per fe,aut ope Media, le 'nientibus,& abítereen- bus fübducantur;in quà re Rhafis, Avic.& re- liqui omnes Mauritani conveniunt, ut nempe» primis feptem diebus tenuiori viu utamur; quàm etiam in ftatu5qui omnes à Tralliano mu- tuari videntur. 16, Siramenà falsà pituità fiat; potiàs vomi- tu in principio expulfa, aut dejectorio abíter- gente per inferna educta, cum nutricatui inepta fitevacuabitur ; neque dixta adeó ab initio erit attenuanda, ne incalefcat magis, ficcetürque minüfque eductioni apta reddatur. Quamvis vomitum in hac febre Galenus Jaudátfe vifus fit;apparentibus fignis ccétionis, quod Vino i€r- tianarti apad nes per totum morbum interdicé- lw quoti- diamis i5 principia fnniAus A- lesdum e- tamqua in ffatu. Pituita falfa ab danteyvte u$ ab ife 2it0 nom adeb attee nunndas » fid evæ cuanda « Iz fcre enuctidis« 2A "vem [^ X e tus utilis ab tnittio, eo quomo do« Siwotilia na in bre, prater qUmiupn ab initio, valenttor evenit i Satu,e€x Gal. . Mel.vof.fo dutivii,l- - «et £n bi- liofo ab i- 3211:0 non €OQventat, 22 pituito Js optima eff veme- dium, c eur. "Aloe 15 quotidia- $5, C a- liis febri- £ns locis, optimum remediis. e/ P d ZI) Í ^ y^vs /9 €. :06 quod in ftatu evenit ; id tamen decà per vomi tum evacuatione intelligit, quà univetfüm cor- puscvacuatur radiculà, cui veratrum album 1n-. fixum fit: cümenim majori cx parte primis die- bus ventriculus pituità fit refertus; fi ad vomen- dumneptus non fit; aut natora, aut. ftructurà corporis;optimium erit,blando facili vomito- xio tentare illius evacuationemsaut fi fit naufea- bundus;à cibo . 18: Quamvis mel, et fyrupum rof.foluuvum in biliofis febribus,abinitio,cradà exiftente ma- terià,in ufüm duci non poffe ad fubducenda ex- crementa communia,jam docuerimus;in quoti- dianà tamen, ad abftereendos vifcidos à ventri- culo humores. przcipué mel preftantiffimum remedium cenfendum eft: attrahens enim facul tas.frigiditate,& vifciditate humoris primo oc- currentis evancfcit;& quafi emoritur; valés au- tem maxime facultas abftergentibus relinqui- tur. jars 19. Ne quis inamphimerinis füfpectum ha- beataloes ufum,ad.deturbanda communia ex- crementa, et pituitam in ventriculo, et primis venis exiftentem fübducendam, vel ob eam ra- tionem,quód bilem potiffimüm illam fubduce- re fcribat Gal. 7. Æt b. med. a4-& S.de compof. med. [ecundum loca, cap.2.. C lib.de T ber. ad Pz- Jonem,4. et Paul. £b. 7. cap. 4.vel fané,quia eam- dem calidam in primo;& fecundum eradum at- tngentem,& in tertioficcam;idem Galenus.có- füituerit;quod quàm fit febribus inimicum,qui- libet; aloe efle facultatem: alter NIMADFERS. libet, qui febris naturam examinaverit, facile poterit intelligere: Animadvertat,dup P. 107 licem ih . 41e, dy 4 am à totà fübftantià jx faci ductam;quá bilem potiffimüm,tum etiatn pitui ;as. tam,fi non à toto corpore, faltem à venis etaim " ^, Circa hepar attrahere, et é corpore pellere con- fievit ; de quà locis propofitis etiam Galenus z alteram deterforiam,& attenuantem,quá et exe crementa, qua funt in ventre, et inteftinis, cue jufcumque fint generis, per inferna fi bducit ; cümqe potiffimum inter feces evacuantià», ÉxxbebeTiXxo d dicta,principem feré locum.occu- pet facilé propofitas omnes difficultates fü peras re poterit. Cum enim tamquam bilis pureatós rium medicamentü affimitur aloé ad drachmas i'edüam duas, et non nifi raró, utalia medicamefta longé à cibo fummo mané,quin 4n febribus biliofis concedi poteft : fi etiam raró veró aloén Hu letjectori medicam 1 üÜte Humamus, ut dejectorium medicamentum, üt "" ^ . - ique deterfione quádam ac attenuatione, quid quid per viam invenit, fibducit, et frequentiüs llafiumi, cum cibo permifccri, 1n mini ri quantiateaffumi, et febribus loneis; tertianis hothis, »& quotidiánis, quàm maxime auxilio effe pote- Iit; pouffimüm fi lota fuerit; nam quamvis jy. e£ IG. de ruend. val.Galenus 31 Oocf neque ficcam, ne' l|Ique melleexceptam fenibus concedendam fta- ftuerit, nifi maona aliqua neceffitas ureeat, c^ 8. Ie compof. med. fecundu loc. cap. 2. bili fis,& ficIE15 corporibus alo€s ufüm non mediocriter infe- Ium docucerit;In aliis (anc corporibus,five moctbo tenLorgis fe» byibHs a loes ufus cópmodus . i^ MERIT æn gant ei (ix iQ1o8bo tentátis,five fanis, ub! vitlofis füuccls utcumqs bent infeítentur, aloé non fine magno commodoin. ufim ducitur, potiffimum ubi ventriculi villisii adhzreant:fic enim Oribaf.7.Col/e£l.cap. 27.abfinthio alo£n cóferens,ftomacho placidiffimam juu effe contendit et fumi quotidie poffe à ceenà ; depu. aT ME aie quod. Ewporiffon cap.9.übi de evacuanübus; eju in fanis corporibus conveniunt, agit; quan- titatem enimiis przfcribit,qui quotidie eam afAAloes va- Pia quanti 345 [umen 8A s [7 pro $urgato- o, C f $ro dei- éforiosat- dicatméete. fébducit euim.» Yaquit c ciborum vis nou bebetat, Mi erattvea fitim uon inducit, C" bominem ad cibos fu-. à anendos facit promptiorem ... Ex quoniam proximé f ante hzc verba dixerat;aloén ad duas drachmas. furi fümptaio, pituitam,.& bilem fubducere: cüma jen addit; [omi e riam quotidie poteff cama.non intel- i: licit de càdem quáütate;fed alium ufum fumits Ki fümunt;trium cicerum mænitudine.Idem eti3; et longiori oratione explicuit Aét. 7'etrab. 1. Serm. 3-c4p.24.cüm enim ad trium drachmarumiJi;, etiam quantitatem ad multos demoliendos mot; ' bosoptimam effe ftatuiffet, commodam etia malos. effe (cribit fanitati confervandaz;fi quotidie antep... coenam fümatur,utante prandium mane: id au--]i... tem effe non poteft in càdem quantitate, fed adi fcrupulum, aut femidrachmam. Sic ex Mauri-1,. eàdem, ut medicamento purgante; agit, ut et apud Mefuen viderelicet. 511g1tur tamquam... deterforium medicamentum, € ventriculum. i expurtanis Avic./ib. 2. cap. 45.de iis.qui fecundà vale-4t. tudine conftituti alvum movere poffunt ; de de-4.. terforià hac facultate loquitur; C Jib. 7. cap. a. ded. n h i ad LI " » E- AA LM, Ixpurgans fümatur,& in minori 1llà quantitate, li ftatim à cibo, vel etiam ante cibum ftatim fu-. fimatur, febricitantibus iis fepé concedi poterit, "lin quibusaut crudi multi humores febres: pro- fluxerint;aut certe ex diuzurnà febre debili red- flito calore ventriculi;multa pituita congeratur, Int in longis febribus veni ire docet Gal. 1. ad IBlauc- Sic 8. de compof. med.fecundum loca, bens 'JlBc Oribaf.Joco czt. in febribus hujufmodi, potit- dMimuüm fi lota fucrit; aloén quàm maxime com- 'Ilmendàrunt, non lotam tamen in iifdem, fi edu- 'Jcendi indicatio pravaleat; etiam concedunt. '«KCócedacur igitur intrepide in iis febribus; cüm; Iguz ex febrili calore defümitur ; indicatio nona 'Iprevalet ; fed qua ex craffis humoribus in ven- lrriculo coneeftis o b diminutum partis calorem, Irum ubi roborandi ventriculi viget indicatio, [quod in longis febribus;& ex pituità cenitis, et lWtertianis fpuriis fepiffimé evenire dicebat Ga-- b en.1. 4d Glawc. Vnde v ^, cmus; Maurit; anos, à Weam fcholam fectantes; et pilulas ex hierà Gale- ni comendare,& alephanginas bis in hebdoma- ddàin paucà quanutatc à 'canà fümptas . 20. Ínufü attenuantium, et diureticorum.., hzc efto cautio, ne tiene eorum ufi nimium jl fint calida attenuantia, fcd moderate aperiant; 4 neaut materia nimis liquata;& fufa majori.mo 3 le tureeícat, et dolorem per univerfum pariat ; :raut exhauftis tenuibus partibus,quz relinquun- ur fontiiob esremancant;& quodammodo lapi- Wi defcant;& ininvictum fere malü gri decidant, Als ill ud : (4€ I bÓA. Atenas tia m p 2m ter calefa- Citntia s, Purgátia valeterra non multüm in febribus ufum medicameétorum. Illud certiffimum eft, 1n Galeni doécteinà 14.4 *5i» Àri pareantium commendari;cüium $.44erb. 1. abío» bus in 45 lutam putridarum febrium curationem trades, VON . Purgatia Iivia repe nta sque ti dianis Covent . ne verbum quidem de purgatione habuerit. Et Il. AMeth. inrefolutorià illà :methodo curativà. earum, cüm putridum humorem evacuationeo effe propulfandum doceat;ftatim fübdat, eligeix dà cffe medicamenta, qua fine calore educant ut funt mulía ; ptiffana;clvfter.| Et 1. 22. G/ane. etiam in continuarum curatione purgantium., medicamentorum non meminerit. In tertianà vero praftare ait medicamenta alterantia,quàm. || quomodolibet evacuare: id veró, quód fe penu- meró per urinarum copiam;aut per füdores, in- fenfibilémque tranfpirationem morbifica caufa fit evacuata ; ; quód, fi qua füperfünt, craffiores potiüs alique portiones erunt, non multz, 111a medicamenus noftris blandioribus non. calidis tolli poffunt;cüm in eà quantitate effe conjecta- bimurquzad alios in putredinis communionem attrahendos apta fit; cüm veró non fepe id in tertianis, continuis, et acutis contingat, raró etiamin fine earum purgationem exercendam. cenfüit Hipp. 1. Zdphor. 23. 2.2dpbor. 29. € lili. dé diua pura. . In febribusautemà pituità venitis, qua : |." intermittunt, levia quafi medicamenta purgan- tia tantum, eáque per iptervalla admittit Gale-. nus, quem fecutus eft Alex. Trallianus; magna:^ vii aüctoritatis,/» I2«£ap. 7. d€ hacre differ €n$5, cüm dicitzVerz oportet auteso ipfos tmiverfrm pur- ) [reete vices, C ftmplicioribus medicament is. 1! €'c. Vnde fortaffe recentioresfuorum mmoran- 9 tiumufüm defumpferunt. quod 1n aliquo cafü, et aliquibus febribus; et poft coctionem conce- dituf ex arte, ad omnes febres, et quocumque, "f tempore, et in principio malé traducentes J^ z3. Levius etiam;cautiüfque in febribüs om- '| fibus purgandum efle conftat, quàm in alns vifcerum,cordis nempe, et hepatis fervor, calor ex hiimorum motu contractus, et deleteria., vel faltem fatis calens medicamentorum qualitas in causa fünt, ut cü timore in febribus pureemus, in: morbo autem non febrilr audacter evacue- mus;id quod Hipp. Jib. de rticuliss in fige, cla- rifhimis verbis o ftendit. 24. Verüm purgare corpcra in febribus cüm opus eft, inclinante morbo, vel poft illum, quo "| tempore vires majcr1 ex parte fü ntimbecillz, et E fpiritus multiüm exhaufti ; cavendum maximc il Medico eft;ne ex affureendi frequenti; aut ex humorum evacuationein fyncopen incidant fui M ueri quod vel in pureandis iis, qui à tertianà |fünt évacuandi; niaximé timuit Averrocs. Qua- ] propter jubeat excrementa 1n lecto exonerare », vafe aliquo huic ufti 1 accommodato füppofito, aut findone plicatà, quod innuiffe vifus eft Gal, : 3.de Cri. cap.9. r s: et ( ÀÀ - E- HÁ ÓMà Pureadg Mone 2 morbis à febre fejunctis : calidiffimorum enim. fZre 444 2:3 alus "orbis e? 471 Debiles dum pur- gantur, e leto 207 furgant. In quartanc febris rectà victüs ratiorie », Quartana d&in quantitate;1lla fit animadvcrfio; utin prin- rin prin CX plo £iplo va- yu; Ui- es, ch quemodo sariadus. &alfatné- 42a quartz Jod: 2 944 LADOr a znuàbuscon- zcdenda, "n parece ; emer. Quaia(cipio non in omnibus fit eadem;neque enim fefe per à craffiori eft incipiédum, quod ex commu ni regulà 1. Z4pbor. colligunt aliqui, in ftatu at- tenuantes. INeque etiam femper per primas tres hebdomadas abftinendum erit à carnibus, et pullis gallinaceis, ut ctudi humores poflintat- tenuari;& abfümi,quod magni alioqui nominis viris placuit; fed diftin&ione opus eft. Saneui- nci,& carnofi, quique lautiàs vitam per multos dies traduxerunt, et qui crudis multis fcatent fuccis, et qui ex fanguinein melancholiam ver- fo febricitant, primis quatuordecim, aut viginti diebus,tenuiüs alendi erunt,atque ctiam.fi fierl poffit ; ab ufu carnium funt 1interdicendi,ut et crudi humores in vétriculo,& primis venis exi- ftentes concoquanturattenuati, et in fanguinem mutari queant, névealtius permeantes obfttu- €tionesadáugeant. Qui veró in primà regione cruda non acervàrunt;& biliofi funt;macri.faci- ]é refolubiles;tum et pueri; aliter funt in princi- pioalendi,atque concedendze erunt carnes, ut diuturno morboobfiftere poffint ; atque ad fta- tumufque cum viribus valentibus pervenire. 26. Quód falfamenta iin quartanis laudentir à Galerio,cavédum eft,ne multo eorum ufu mes Jancholicus ficcus in corpore adaugeatur ; con- cedendá igitur erunt parcà manu,ut medicamen tofa alimenta attenuante vi predita, et utappe- tentiam, quz primis menfibus omnino folet effe dejecta.excitemiüs . 27. Sànguinem quidem in quartaná miffufia pa per fectam venam, fi opportuné hoc auxilium xis vez adminiftretur, Galenus cenfuit optimum reme- /eclio 2u& dium ; opportuné autem fiet, fi multus in venis 4ecozve« fanguis fuerit; et craffus, et fceculentus,niger et "^ craffus. 29. Vnde jure merito Medic prafentia ne- Quarta- ccflaria eft,dum talis actio à venifecà exercetur, »3labora qui qualitatem fanguinis confideret,ut eo infpe- bus di Cto, fi niger, et craffus fit, liberaliorem permit- /?guis tat evacuationem,habità femper virium,atatis, *"4^44- plenitudinis, temporis ratione . Quód fi potius //^» Mess tenuis,& clarus fit, et potis ad flavum vergat, gere fupprimendus erit. shi. . .Adhibenda tamen hzc eft cautio, ne fta- Sanguis 2 tm ac perrubentem faneuinem,& bonum exire "miffione viderimus ; illum füpprimamus fieillatà ven; fenguini fepius enim vidi primas illas duas uncias effluc- z: quarta tes bonz conditionis, quód non ex penitioribus »i» zé fta educantur,fed ex venis brachicrum, quorum //7 fuf- fanguis ob affiduum eorum motum,quandoque PW, purior redditur ; progrediente veró evacuatio- '- ne,nigrum, et craffum cffluxiffe. Quapropter ó Pes, faltem due, aut tres unciz vt effluant, finendz funt ; antequàm certum de hac re feratur judi- Sauguts 7 e» guis optimus é venà fluat, permitti debeat effc /^ 24? ;1 1 "v 3 A i - * ^ 22 54071 xe;neque fif oporteat.fi forté ex antéactà vità, ^^^ et fignis plenitudinis ad vafa cognoverirous, ^ - d tantam fanguinis copiam conoeftam in venis cf- dm Íe;ut nifi folvatur, periculumaimmineat, ne avt. 7/ Á HOovVvuS LFD. SEPT ALII MEDIOL. novus aliquis morbus magni momenti adjun- gatur,aut Certe ex multà illà fanguinis congeftà copià obftructione genità aduratur fanguis, et inatrum fanguinem mutetur, addatürque in, caufam quartana . Ságuitin ..31. Etlicet Galenus deloco, unde in quarta- quartana p fanguis eft evacuandus, agens, cenfüerit ex quád? ex Axillari,five internà brachii finiftri venà effe edu 4t? cendum, illud fumés, quod majori ex parte eveFM. nit,originem quartanarum ex fplene pendere; du, praftattamen hacin re Actium fequi, cenfen- tem, confiderandum effe priüs,an potius vitio hepatis,multum melancholicum fuccum eignen ris,vel affato fanguine;vel aliquà alià occafione» fiat:tunc enim potiüs ex dextro bracbio,; quàm é finiftro;fanguis effet mittendus. dnpefefa .32- In peftilentibus febribus,fic didis; quód j» mini pefüferas emulentur;ut verum eft,ma]ori ex par potest fan te mittendum effe fanguinem fectà venà,confen[ élam vt- dictis,rariüs id auxilium in ufum duci debet:nequa ex acris putredine, nifi magna fabfit pleniperpenfis i gqnisper fe tientibus viribus:ita in pefte;peftiferífq; fic vere fr. ), C queenim umquam, fi à pravis cibis in annonz '| : e " Md ^ quando, penurià fiat, fanguinem mittemus ; neque in cà tudo,& humorumzftus; miffo enim fanguine »» |. et füperfluum fanguinem evacuabimus, et eftüij. frenantes ; ceris occafionem fübtrahemus multi, 7 æris trahendi ; neque periculum imminet tanti). " collapsüs virium, Át cum peftis contagioaliun--j. ^ » de delato alicubi ferpit ; qualecumque fit primüij ^ nrincipiem, miu intrepide poteft ; 11s omnibus "tM perpenfis et obfervatis, quz in reliquis febribus 5 8 putridis confiderari folentquód ezdem vieeant "Rindicationes. Confentit Gal. 3.7 1. Epid. 26. in Critone.& 3g 3.cap.76.in Calvo Lariffe, in qui- I bus voluit miffionem fanguinis convenire ; cüm * E pefte laborarent, 2.77 3. Eprd. iz proezz. Quin et ERuffus;referente Oribaf. 6.5yzopf. 2 5.in pefte», Abi fanguis abundaverit ; vel ubi alii humores ']Rdmixu fintfanguini.fiátque genus aliquod ple- Inicudinis,jubet effefecandam venam.Idem Æt. der. f. cap. 95. et Paulus, b. 2. cap. 36. ex Ruffi )ffententià. Ex Arabibus Aver. Jib. 3.7 bezf- T rad. dB- cap. 7. Rhafis 3.cont. T ratf. 13. cap. 2. c? libro / Me Pefle;cap.6.8c Avic.lib.a.Fen.1.1 rat. 4«CAp«A. jit ii fatiseffe poffint adverfus Fracaftorium, et Inovitios aliquos,etfi magni nominis. Neque ve- Jró faceffit negotium, quód haufto veneno fàn- 1IIBuis ex venà non detrahatur,ne bono faneuine ; "Ur IPX venis evacuato, in venas trahatur, et perfan- "fBuinem difpergatur, non fecüs, quàm de feclá "lrenà crudis in venis exiftétibus humoribus: Dif- ü)ffPar enim omnino eft ratio ; nam hauftum vene- i'ifiuum quamprimum eft vacuandum,;dum in ven- eliriculo;& primis venis continetur, quod vel vo- it /llnitu, vel pureatione fit, venz fectione fieri non Uifboteft, quia fanguis bonus In venis exiftens, de- ullra heretur,venz veró inanitz fugerent, et attra- ""ilrerent ad fe venenum in ventriculo, et mcefcnte- i! RÓo confiftens, quo nihil perniciofius cffe poteft. silDuare Diofc. b. 7.de curationeab haufto ver.e- jillloæens, non meminit venz fectionis; quem fe- 5 H £ cutus Mri. -ec ln Pt le s 33 J : ; : gnisad a- nem, et aliorum Mauritanorum fententiam ea-4t. nimi deli ynus,qui in aliquà pefte ad animi ufq; deliquiunogiui quid no». fanguinem detrahunt;cüm in pefte potius quanagui enittédus: tas minor effe debeat fanguinis detracu, quàmgu : &utus eft Act. Ser.13.cap. 45.X Paul.//b. cap. 28. Ai Atin febre peftiferà venenum, five materia pe-/7 - ftilens,non confiftit in ventriculo;aut primis ve-4t nis,fed jam ineft in venis cum fanguine commix-Jur ta ; proptereáque detracto fanguine, pars illiussiui materie peftilentis fimul cum fan guine inanitureduii Hinc Paul. Jb. $.capit. 2. dixit, veneno in venissfii exiftente,(angmnem effe detrahendum . Difpattjnu, jcitur eft ratio curandi haufti veneni, et febrissp) peftiferz evincendz .: fu ;:. Cavendum tamen,nein Rhafis opinio«jtt: inaliis febribus putridis,quód vitales vires in edm: magis. faciliüs concidant . i| In poffe fo. ..2 4, QuinimO,ne detrahendus.eft fanguis pest in 9? H7 fe tam venamdn brachio,fi morbus jam invaluufi; MM rit ; quód vires qua f in princi pio miffus e(fedin, 2 jeg x fanguis,vegetiores factz effent;,exonerata ab ona, re natur, jam ex virulentià fradte fint, et propteyri; reà refiftentibusmagne putredini;& alexiphar TM macis potilis eritagendum. ! 3$. Quid veró,erumpentibus,aut eru ptis maur, culisillis;aut puftulis? an mittédus erit fan guisslius. 'an potius ex fpe&tandus exitus nature? an jamais, eruptis ? Egofane, dumoperatur natura,à primfs.. -cipio fum fpectator ; mox ; fi feeniter id agit ; 6. plenitudo magna adfit; et fervor humorum;eve., cuo fanguinem fe&tà venà; et fe pe miteftit mor, bus ANIMADVERS. .: try jus, æftus imminuitur, validiüfq; reliquum ad gutim expelli fepé animadverto . Neque enim Wiericulum illud impendet, qucd vulgus etiatn» nigj-iedicorum umet, et adeó exhorrefcit,neífcili- get humores ad cutim impetentes; aut delati re- ulrahantur à circümferentiá ad centrum ; quod Wnifflione fanguinis fieri tamquam certiffimum. Juffumunt;& tamquam affertü à Galeno 4. zuezd; Ital. 1o. Miffio enim fanevinis per fe potis fane fjuznem à centro ad circumferentiam revocat,ut "ixperientia docet, et Galenus apertis verbis tta dudit a. de ruezda val.4.quód fi oppofitum c. 10. aMuu[æm libri atferit ; id de multà fanguinis eva- quauone per accidens intelligendum eft. Cüm Jinim per fanguinis mediocrem evacuationem.; ginguis;qui in venis internis reperitur,ad exter- J| » € extra corpus revocetur, utin intetpisin- qiammetionibus manifeftum eft ; fi ulteriüs pro- Jirediatur evacuatio;cüm interne ille magnæ ves («hz exinaniantur.natura provida; ne partes majo Jis momenti deftitutz remaneant fanguine, ex gccidend, et fecüdarió à carnibus et venulis am- ditüs fanguinem iterum contrà ad interna retra- liit. At i mediocris fiat evacuatio,tantum abeft; Nit mifhio fanguinis per fectam venam kedat ; aut levocetut doceerit Gal.6.Fpid. Sec. 2. Com. 30. in latis illis puftulis Simonis cujufdam;fanguinis dniffionem maximé futuram proficuam.Neque : Niicant; Oribaf:7. Synopíeos 7. €) 3.ad Evnap. 21. jum hac verba ad verbum recenfet, omififfe feAMtionem vene; ut proinde ceníeant additum effe "M .3 in Antbra eibus, t^ bubenib. apparent: &us f«can da vena, € 4o do.LFD. SEPT-ALII MEDIOL. r1 in textu Galeni, cüm in omnibus Galeni codici- || ci bus illa pe reperiatur, ut potius ab Oriba4 dti fii colle&ore omiffam per oblivioné dicere poffi- «| 11) mus ; aut aliunde defümpta verba illa effe, càümug m! cadé difficultasin purgatione etiá fubfit . Quam] tuii opinionem confirmavit Æt. z. Quar.Serm.1 .cap-- Vit 126. puftulas, five vibicesin principio peftiferæimo febris apparentes, fanguinis miffione curans . 7 36. Inanthrace;furunculo, et bubone; potif- rs fimüm fi in emunctoriis cordis;aut cerebri fiants, lunt nullum effe præftantius cognovi remedium ; fiilüni vires conftent, &cin principio verfemur,maximé3 ji fi plenitudo; et fanguinis copia adfit ; fanguiniss[ yn: evacuatione, tum ratione febris peftifera, tum) ratione morbi particularis:càm enim fiant à fan- we; guine craffo adufto, bili flava admixto; quidli equé fanguinem evacuabit peccantem 1n totaxXir corpore, tum et dolorem illum intenfiffimuma d mitigabit, qui fiepé vires dejicit, maximé cümzdliny partem nobilem obunuerit ; tum et materiam; evacuativà revulfione à parte retrahet? Scio;hædin inre, ut et in füperioribus experimentis certari sj; et contrariis quidem. Ego veró in pefteillà in-4n. figni 1475. et 1576. noftrz hujus magnz civita-4fti, tis, profiteri poffum;ex octo illis Medicis;quibuss, pefteinfectorum cura erat demádata; inter quossii, et eco unus erá, càm unus;aut alter vene fectio-Juj. nemin fuis zeris aver (aretur,Fracaftorii, et alio-4.. rum doematibus infiftens, nec ex fententià cura-J». tiones füccederent, mutatà fententià ; aliorumz p, exemplis, et felicioribus fücceífibus utique ex-J citati ^w Dd citati,quàm przftaret fineuinem evacuare, tan- demcognovére. Vndeetiam comimuni confen.- fü in pefte hujufmodi nobile remedium nullo 4 modo pretermittendum effe,decreverunt,modó ftaumadminiftraretur, et parciori manu, cíáque adeffent, quz in co remedioadminiftrando pet- i$ pendendaíünt. Eratautemnon ex acris COrfil- ' 4 ptioneuniverfáli peftis ea.fed contæione,& có- d municata ; et ferpens,falubrialioqui et cælo, &e anni conftitutione faluberrimà ; et rerum om- nium, quz ad vicum faciunt, maxima adetat abundantia ; corpora autem noftratia veré fucci 4 plena conftitui poffunt. 37. Caveant tamen, nefemper ex ehdem aut. 4,5, ven, aut parte fanguinem hauriant;fi enim poft cius, eh d aures parotides exoriantur,aut füb axillis buboe. 2u£ez;- nes, aut anthraces, furunculíve in trunco füpes bus aptæ riori eruperint,ex brachio ejufdem partisftatim *enióus tundetur vena. Quódfiininguinibus bubones ^ £4fe; gU erumpant, et inflammatorium dolorem proei- p^» Pd d gnant,;intalo ejufdem pedis fe&à vená faneuis - Wevacuabitur. Si veró anthrax, aut forunculus 5^ (fapparuerit, ex oppofito evacuabitur ; illà enim Mectione venz et naturam onere levabimus, et qananus adjutrices natnrz porri&emus,ut ad emü détorium illnd humores detrudat ; cüóm enim à dcorde plurimüm recedat, vidimus plurimos ex jf f bubone in inguinibus curatos ; pauciffimos au- gJKem.fi poft aures per parotides; ut fere nullos, fi JMfüb axillis materia detrudebatur. Atfi anthrax dnaícebatur in dextro; puta ; crure, evacnandua H 4 erat - i Xe X rj - 1 E E PLN 4 ULEIXBE 2e ZLPD. erat fanguis ex finiftto, ne majorem molem ma- teriead locum affectum traheremus,unde et in« : flammatio major fieret; et dolor inrenfiffimus ; unde vires collabafcerent ; praftatigitur in con- trarium revellere, evacuando,fimülq;à princie fi pibus partibus virulentiam retrahendo. Do&rn- : nam hanc licet colligere ex 6. Epid. e£. 7. tex. tun ubi dicit;in anginà peftilenti fe venam fecuiffe in 1 cubito. Scarifez- 38. Sed cm in pefteomnia fint inprecipiti. fut tis cur occafione pofita, et aliquando Medicus ftatim . (ite in pefle [^ non accerfetur ; aliquando etiam vene fedio ab [ui Iuberri-. 4]iquibus non admittatur, cuperem ad manus j|: T4* artificem habete qui fcarificationem malleolo- rumfciret adminiftrare : commodum enim effe remedium cenfüit Apollonius apud Oribaf.7« |: Colle&l. c. 19. C 20. quo etiam, cüm aliquando jur pefte effet correptus, afferuit effefanatum; quod. |ui remedium pro plenitudine curandà, quafi venz. . pnr» fe&tioni zquiparaturà Gal.4. val. tuend.4«O 20«. fii Qua actio omnino diverfa eftà noftrifcarifica- tione inloco cucurbitularum, ut conftatex Oris pat baf:7. Collet?. 18.ex Anvylli fententià;fiquis ca- fun put illud, et modum exercendz illius operatio- Bu; nis confideraverit, et quz à doctiffimo Profpero Ju Alpino de hac re fcripta funt ; ib. de Medicina Wu. "Ægyptiorum, quidquid contrà f enferint Avic.I. fü lib. Fen 4. cap. 22. et ceteri Arabes Media. 1 Cueubi-39. Verümfi jam aliquátó progreffusfit mor-. fan tula feri büsis peftilens aut nefciamus, an vitales vires fav. ficata ali- fixing fatis fint; quod aut vereamur,ne pertenta- - P K1S alSfi: apr! ANIMADVERS. LIB. FL. 124 tis arteriis peftemin nobis contrahamus aut le- quiido vi- pe cautum fit ; ne primis quatuor diebus Medic zs fe- Ipulfüsarteriarum tangant,ut apud nos confütu- Zioz;s ve tum eft : certé folebam egoin noftrà pefte .aquà. z«. -icalidà ablutis füris;in internà parte cu curbitulas linjungere cum profu ndlori fcarificatione ; iom Ikca evacuare fangvinem ad fex, aut octo uncias ; pro fienisaut plen tudinis, aut robore Yinubis Iquamvis enim immediaté f; nguinem ex v cnis i fIhon detrahant, fed ex carnibns, neceffe tamen, Ie ft;ut carnibus inanitis, ex venis fübeat alimenA4 ; fum, et confecuenter eiiam totum 1nanlatut . 40. Quinimó et frequétius,& tutiuseft prz-. c,;,,5;. Ifid: ium hoi 'Cc,cum et evacuet fanguinem. Citra» re cum imultam fpirituum exfolutionem, ab he pateau- f'arifica- ftem, et corde, ad longinquam partem vi irulen- tione in fia j;ftiam avertat ; nec verum cft, quód non fint pro- 75 ? peffe Futurz,quianimis diftent à corde ubie: na mina- f/equen- AN ft- Inità plenitudine totius corporis ; ipfas quoque» p "i A72 €- [cordi vicinas partes necefle eft inaniti., 1:21 0 4I. Quid fi inanito cor pore urgeant fy DABIO: ou eniin [mata,& exanthemata lenté prori IDpant;COr V€-,,j, $ doy ro aneuftiis prematur in pe efte, et animi eps fo qua ida Itieliquia, autin fie nis do lor capis UIgeat, QUC zpJicam- Inmil lefvmp tO ma» quod fa penumeroó in " efte» da, d jronungere videmus; erità nobis przftandum ? quádo ni. An « cucurbitule dorfo erunt admovendz Quod ].deó con troverfum inter M edicos video, aliisil- las omnino exhorrefcen übus;aliis paffim, et in, ljuocu mque cafu illas in ufum ducentibus? Cen- jico;fi nihil aliud urgeat;non effe temere, et fine. diíftnVeficitia i5 pesteo aliquado gn ufum duci pof- funt, fed ?AaYD.5 quande* Veficátin $m fobrie bus peiti- lentibus fone. tefle $n ufum duci non debent . p f/" wt F.heitta pavtibus f'spevnts y comatofrs eff cliens - ia $2 LES 5 diftinctione admovendas, fed negotium natur: effe permittendum. In illisautem cafibus, turri (carificatis, tum fine fcarificatione uti nos poffe, et debere judico; neq; periculum (übeft, ne ver- fus corattrahantur humores; propter totius cor- oris premiffam jam evacuationem, potius enim é corde in füperficiem hümores evocarent,cutm» manifeftà internarum partium utilitate . 42. Veficantia, utin huncufum antiquis ino pefte non funt ufitata, ita, fi extremis partibus ; potiffimum füris,poft univerfalem corporis eva- cuationé applicentur,non fpernerem,modó eftus illein corpore non adfit, peccétque potius fero- fus humor, et pituitofüs;fic enimad inferna Viftle lenti humores principibus partibus retrahétur. 43- In peftilentibus veró febribus, quz cum» efte non fünt, fed fic dicuntur, quód infignem quidem habeant putredinem in humoribus, fed non hujufimodi,ut veneni naturam jam fübietit; cüm putredo corriei poffit, et per codtionem emendari, veficantia non in ufum ducerem ; fed non fécüs, quàm aliz febres putride curande erunt;excellentis tamen putredinis habitá ratio- ne,ex exficcantibus aliquo addito, et corde non mediocriter roborato. 44. Animadvertendum tamen tam iniis fe- bribus improprié peftilétibus, quàm in veré pe- ftiferis, ratione fymptomatum, potiffi muüm ]le- tharei,& comatoforum affectuum,nullum effe» przítantius remedium veficantibus ipfis ; aut parti brachiorum verfus humerum, aut etiam íca pu- fcapulis applicitis: ferofos enim humores » et usse le- frieidos cerebrum opprimentes citó, et facil- thargo cà limé et attrahunt;& extra corpus evacuant:Con veziuzt. ftat hoc ex Antyllo,referente Oribaf.zb. ro. .1n peftilentibus affectibus maximam fzpenu- meró effein fomnum propenfionem,in quà fina- pifmos convenire (cribitymaximé in lethargo;& magná fané ratione : nam in lethargo confiuxus fit materiz ad caput, unde opus eft revulfione »; cümque perpetuo dormiant,expereefacere fimi li ?ravamine medicamentorum eos oportet. Ide defendit Æt.-4rchbicene Ser.15.cap.181.& Paul; ain, /[7b.7.c.18. Hinc Aretzus Medicus, his et GalenoantiquiorJibro 1. de curandis morbis acu- 115, c. 2. curatutus lethareum, dixit, tibias urticis effe verberandas, aut etiam valentioribus medi- camentis effe utendum, denique etiam finapi. Cum veró ii omnia priüs tétari voluerint, quàm ad veficantia veniretur,oftendunt, quanto 1n er- rore recentiores verfentur, qui protinus in mor- biinitio veéficantia effe admini(tranda cenfüuerüt. 4f. Aliuseft cafüs, in quo tutóin peftilenti- Veffcdtia bus veficantibus uti poffumus : cüm univerfum ue corpus exterius aleet ; et egre calefieri poteft, ^ bases non quidem fi refrigeratio fiatob virium extin- Pura venies ctionem; tunc enim inftaurantibus Opis eft: fed: ^70 rore. Kain - . (07 p; PP fi ob alias caufas, tunc adminiftrari poffe docuit V efic attin Antyllus apud Oribaf. b. 10. Colleé£]. CAp.13. et in beffilen Archigenes, Aétio tefte, Sy»zma a.c. IS$1. tüncq: tibus, abi et tibiis, et brachiis funt adntovenda » Oribafio corbus alV referente;Zoco addut£o, et Paulo 4E cin. lib.7.cap. getuiliaSce nT : ; ESO NST ME, Le ;.9 PNE ni EE bor be diii Me n4 Quibus locis con fat duobus folis iis cafibus s in acutis, et pefte, veficanubus nos uti poffe ; et hoc eft, quod Oribaf.ex Ruffo //b.6.5 ynopf.- 2$» ocebat ; in pefte calorificis quandoq; effe uten- dum,ad evocandum calorem ex profundioribus corporis partibus ad fuperficiem; ut et Æt. 5er. $.c.95.& Paul. lib.2. cap.36. Vndeneque inom- nibus peftilentibus ; neque femperin pefte vet cantibus utendum cenfüerunt magni ii Medid; fed aut in foporofis affectibus; vel cüm externa Veficztia a|oent,& interna zítuant;cüm novatores ii fem- in peflilen Ser, Gcin omni pefte; peftilentíque febre, quin dipsihar et fi Deo placet, in principio veficantia adhi- Lui 3d beant. Sed non eft mihi in bacre tempus con- m pajfm terendum, cüm à doctiffimis viris res hac abfo- ufurpata . lute, et ex profeffo fit pertractata » et à nobis 1n» libro 4e Peffe; annis juvenilibus, dum totusin cà curandá in patrie mez calamitate verfarer,com- pofito difputata;quem librum Amanuefis meus, ; homo exterus, cüm emendatum meo juffu tran- fcripfiffetad editionem;fuffuratus eft; nefcio quo confilio,cüm ftiret;apud mein fchedis ca omnia T remanere,licet multis in locis defcedata . parenhe- «|. 46* Evacuatio pravorum humorum, caco- me utendi Ch ymises per medicamentum purgans affumptü in pefle, t On minüs,quàm fanguinis evacuatio,in pefteo [wj cur convenit, et fortaffe frpiüsinufrm ducitur:ut [tn enim venz fectionumquamin pefte;que ex pra» qu vi fücci cibis fit. convenit ; et non ita fepéineàs [|i qua ex corrupto ære, fepiffiméineà,quecon- tagio ferpit: ita in lisomnibus purgatioinufüm [i vcnire . 2j venire poteft, licet multó rariüs in eà, quz per contagium vagatur;quód f penumeró virulen- ta communicetur hominibus fnis,& optimis humoribus præditis ; quibus fi medicamenta, purgantia exhibuerimus, et carnes colliquabi- mus, et bonos humores evacuabimus, fpiritus exhauriemus, et denique vires vitales deftruc- inus. Quod firefertum pravis humoribus effe corpus conjectabimur, purgatione omnino opus effe dicemus. In cà veró, que cx ingeftis malis cibis fit; purgatione omnino opus eft; licet etiam ratione virium maxima adhibenda fit cautio. In hancopinionem Medici omnes Graci, Arabes, et Laüuni venerunt ; locis adductis ; ad demon- ftrandum venz fectionem convenire; inter quos Gal.1.de diff. feb. 4. Vnus ex antiqvis Celfus I;b. 3- c4p.7.& ex recentioribus pauculi medicamen- t15 uti purgantibus in pefte judicárunt inutile, quód non putredinem, fed venencfam qualita- tem fimplicem in pefte fübeffe putàrint ; quód veneni naturam medicameta propemodum om- nia, et igneam naturam participare cenfeant ; quód alvi fluor iis concilietur, quo plerofque in pefte illàinteriffe teftatus fit Gal.. Epid. J. cüim nequeCelfi auctoritas przponderareo poffit tot magnorum virorum auctoritatibus, neque recentiorum illorum rationes convincat ; quód atate noftrà tot medicamenta inventa» fint; que nequevenena fint, avt venenatam na- turam participant,neque exceffi caloris ieneum febris x(tum adaugere ; neque etiam alvi fluo- rem effe im z10 i 4) DinvOniüit f Hnveca D ue rem concitare folent; cm non in otrini pefte» fymptoma hoc füpervenire fcribat Galenus; fed in cà,quz fuo tempore vagabatur. In quam pe- ftis conftitutionem fi quis inciderit ; cauté fe ge- ret, et iis uti poterit; in quibus vis aliqua ineft et adftringendi,& roborandi. 47. Invento auxilio in morbis, illius exhi- bendioccafio eft inquirenda, quod maximé in pefte eft obfervandum : cüm enim 2. Z4phbor.do- cuerint Hippocrates et Galenus ; vel ftatim ab initio, vel poftquàm matu rpnerint humores;co- fint; in declinatione humores effe purgi- dos ; difficultas in hoc cafu maxima efle folet etiam inter dociiffimos. Ego, quid prz- fiterim in hac noftrà peftilentià, liberé dicam, et quibus ductus fu ndamentis; cui etiam even- cuim felicem fücceffiffe, fàn&? poffum profi teri, quantum peftis effrenis rabies cócedere poteft. Evacuandum igiturin principio ftaum aut (e- &5 veni cenfto, faltem fecundaà die ; fi putrido- rum, autimalorum humorum copiam füb effe coenoverimus . Neqve "Apbor. 22. 1. Sect. quo afferitur, Concotiæ ffe ved: canda, €t cruda non movenda, nifi materia turgeatsraro autem tuveet ; nobis repugnare cenfendum eft. Quod ut in- tellieatur, confiderandum folüm erit, an fub evida, contineri poffint humores ilh 1 "mE ES: Ciique b ^41 0 CLAÀM 1(VV YT/^111 2 Cil il Tii t tia Nol d dcó putrefadii in principio febrium peftifera- rim. Egofané non video; quomodo materia, qva nullam patitur concoctionem, neque 4li- mentilem; neque impropriam quee pttride materix gmateriz convenit; cruda dici poffit. Crudum., enim, et coctum correlativa fünt ;itautcrudum Ifit, quod coqui poteft, fed nondum hanc perfe- I ctionem per coctionem eft affecutum . Atqui fi gBradum eum putredinis affecutus eft humor is, jut peftem gignat, quo major vix dari poteft, ut jam veneninaturam inducerit, et ad benignum fgmplius reduci non poffit, certé eum numquam Iveré crudum dicere poterimus; aut coctionem [ejus pro purgatione effeexfpectandam. Eóque [iagis, quód majori ex parte materiam hanc, [turgentem effe obíervatum fit: quare càm tur- gentem materiam excipit ; utique peftiferam., E materiam exceptam effe cenfendum eft, Iquód fepenumeró primá dietureeat, aut pro- Ikimà die, aut alterà turgés fit fütura;hancenim IFuam perturgentem intellexiffe Hippocratem Iconftat 4. Z4pZor. 1o. ft turgeat in acutis, eadem fue effe purgandum, atierentem . At acutiffimum Imorbum efle peftem, in quà materia plerumq; Iturgeat, quód acris fepé fit, ardens, virulenta, IQueque undequaque mota principes partes im- Ipetat, quilibet, qui morbos peftiferos viderit, jac diligenter obfervaverit, facilé cócedet. Nos lin noftrà hac peftilentià fepenumeró vidimus in jtodem grotte, eodem tempore à naturá mul- Jas.ac varias tentatas effe excretiones, per alvü, per vomitum,per füdores, per urinas, per cutis Wefflore(centias, et per carbunculos quoque, et »ubones. Docuit hoc Ruffus apud Oribaf. €. ]Wynop[eoscap-2.5. et Æt. Ser. $- cap. 95. SON Q9 Peftis tnn feria turgens fapeDnuta2eràó. Jib.2. cap.36. qui adeó varia, et vehemétiafyms- ptomata in pefte dum referunt ; nihil aliud re-.5 vrafentare videntur,quàm tureétem materiam hinc inde latam; nec certam (edeníhabenteimn: j Quz fi, dum venenata eft, purganda ftatim eft.(iu abinitio, ne repat ad princepsaliquod mem- [0 brum; multó magis tunc evacuandærit,cuümo |t veneni natriram habet;cujus proprietas eft prin ful cipes partes petere. Oftendunt 1d 1pfum pefti-| ti lentes cafüs, quorum libris de orbis vulgar. meminit Hippocrates ; colligimus enim mate- jm zias in eis fuiffe virulentas,& veneni participes; [itm væasitem, et certam fedem nó habentes : cám] aun enim varias fedes peterent, varia etiam fymco-| var promata induxiffe fcribit; in multis papule ap--j t; parebant, qua mox retrocedente materià adl t; internas partes delitefcebant, quz pofteà alias» iti inducebant feva fvmptomata. Neque quif-4 ui ! piam Hippocratem obiiciat dicentem.zz9 zz4-4 tui; Turg?5 -geyjag rursere,nos autem afferere,in pefte fzepe-4 ui mæt, DUDmero tUTgere; fi namq; confideraverimus; p e«t quomoto - A n raro evenire,utiq; materiam raró turgerezdt peftz [epos &n peftefiepe türgere, non effe contraria, autif ois. JE Contradictoria juidicabimus: tureget enim mate, ria,cüm natura à multà, aut pravà qualitate afíjti c&ta.materià concitatà, tentatJnter initia eamuaJi: v. xpellere ; qua mvis importu né: fcimusautemujlu, peftém femper àpravà,& veneni naturam faxis, 'piente materià fieri: Non tamen credat aliquissphuii. nos putare, ubi nonturgeat materia evacuanedly, à . . h dum non.effe : nam cum virulenta fit materiai morbum y4r0,0ov 1n ra i c d d. ^" C- morbum faciens, et timendum fit, ne ultetiüé procedat, reliquos omnes humorésin fidendo; venenique participes eofdem reddendo éx cori- tactu portionis illius prim: ex contæltone ac- quifitz, pureandum ftatim erit;ne ad terminum eum ducantur humores omnes, de quo locutus eft Galen. /ibró adver [us Iulianum,cap. » Quod ubi totus fanevis putrefcit,vel alioqui vitiatur; morbi; quiinde oriuntur, curari nequaquam; poffunt. Inquit enim: ZVoz pollictztur M edici 3 Je omues morbos ex vitiato bumore, 0Hmmeizque pu- tredinem curaturos, [ed eos tantum, quibus corpus t"dhbuc validum eft . C2 vires robu[le ; non aute, quamdo [aneuis penitus corruptus, G" fachus arugi- nofnssut affumptum alimentum in corruptelam tya- bat ; et quz feq. Cüm prétereà morbus is acn- atffimus fit; fi declinationem exfpectare volueri- imus, inanis omnis noftra opera erit, non folüm. quód fruftra exfpectetur coctio, quam nullate- nus humor poteft admittere ; fed quoniam cüm J| declinatio tunc fübfequatur ; càm aut à natur j| extra corpus pulfus fuerit humor,quácumque.; tandem v1à 1d fecerit, aut ope Medici, aut mit- 1! fione faneuinis,aut alexipharmacis,& fudorife- I ris,fruftra tunc Medicus tentabit in fine propel- lere. Non negeaverim quidem,;aliquando ex pui- a eandum eftfe1n fine corpusà reduviis, ut renu. di1riri poffit, atque à recidivis fefe vindicare qu 4 przfervatio hzc potiüs erit,quàm vera curatio . Ij Purgandi igitur potius erunt ab initio humore: J qnod cüm emendari nequeant; quamprimum. : ! exrclli Wes ctr tuta raa nns rs crie RCM EE ette Matteo NE $5 ATDAIAC: S expelli debent : namapuffimo vini exemplo ex* plicuit Gal. 2. d pbor. 17. quod ubi acefcere cce- peri5adhuc vinum eft acidum;& tunc emenda- r1 poteít,& ad priftinam natnram reduci:fi verà corrumpatur, et naturam propriam amittat, nó amplius vinum eft, fed acetum; tuncinon am- pliusad prittinu m ftatum reduci poteft: Ita fan- guis,caterique. humores,cüm pautrefcunt;ad be- nignum ircrum,autíaltem ad conditionem,quz non multüm noceat.coctione.deduci poffunt; at cüm. compurrucrunt, jam naturam mutarunt s ncque corrigi amplius den dy fed tamqua om- nino deletetia ftatim.expelli à corpoze debent . Eít infuper prater morbi cauíam conninentem ; quzeftaut in venis prope COE, aut 1D partibus cordi communicantibus, alia quædam vitiofa., in ventriculo,inteftinis;&.circa præcordia adhe- rens,dolore,colore,aftu;naufcà;amarore, aliísv e fignis manifefta, quz. neceffarió quamprimum. purgationem. SREPI cH aMiquie declinationem po- teft exfpectare. Qua fane.eriam efficit, ut alià rationein principio euam expurgari debeat: nà fiin hoc morbo per totum ejus. decutfi fum alexi- »harmacis., .& medicamentg à totà fubftantià utendumeft, ut etiam i1,.qui fecus fentiunt de hac purgatione, concedunt nonne nccéffarió MES qe concedent,in impuro corpore pracedere debere ps, gud purgationem ? Hxc namq; vel 1pío Gal. tefte ; fit expui-. lib. $.de Janit. tucnd.cap.6.ante non fnt affumen- qa? cr. da,quàm totum corpus inanitum fuerit : cüm po impuro torpore nó Ju enim.€a vel itaanuüpharmaca;vel antidora dican [uL ., ANTAIADFERS. -tur, quód totius(ut ajunt) fübítantiz diffidio 1mmutent yenenatam illam naturam, frangant, obtundàntque, atque prorfüs cxftineuát;&. €Vàec cuenrtà corpore per fudores, atque cutaneas ex- creüones ; nemini dubium effe poteft; in corpus noftrum hzc minime praftari pofle, nifi prius Inanitum.fuerit corpus ;: non enim ad cor vires fuas emittere poterunt, nifi meatus fint SEPhn eati; neque à corpore per- cutaneas excretio venenum expellere poterunt, nifi pariter be fit evacuatum .. Quin neq; e atcuationem per cuum ullam effe diu in eg i totum corpus inanitum fucrit,ex Gal, 8. IM eth. 4. CQ" 11. M4 e- th.1o,at nec rarefaciendum prius, quàm fit eva- cuatum, 11. 74eth. 9. colligitur. Atinquiunbid fieri fanguinis miffione . Verüm quomodo vim argumenu effugiunt;qui illam refpuunt? at om- nes faltem fatentur,in multis non convenire, ut in pefte ex pravis cibis, et in cacochymis cor- poribus; in quibus ex fpecta r1non poteft conco- €io ; faciendum igitur quod jubet Gal. 4. dé 2 tuerrd. val. 4. Quod alienum à natura efl.nt ad pri- flinam bonitatem vediei non poffit protmus evacue- |fwr. Huiusfententiz fuifle Galenum, colligere, poffumus ex Ib. 1. de differentiis feb.4. ubi dicit, impura corpora in principio ftatim effe purgan- da; et ad fanitatem deducenda . quod manifeftis verbis confirmavit 2.77 $i de morb. vulg.in Si- monc;in quo late puftulz efflorefcebant;idq; in libris Methodi medendi TInonftratum efle a f- firmat;quod vel $.Ætb. sed. c.12. conftat, vbi * habet : habetzCarerum,iiinpe[le facile [omari funt, pro- pterea quod præx[iccatn vis» prepuratumdq; corpus otum fuerit;quizppe quod evomuerint ex Tis tonmul- li; onmibus venter profiuxeritsatüs cum ita eva- euati effent qui evafuri evant siis pu[Inle quas exan- phbemata vocant, mpra foto.corpore confertim mul- te apparuerunt, ulcerofe à quidega plurimis, ommibus certe ficca. Cuibus ver bis vel cecis mamfeftum eft ; pureanda etfe corpora ab initio in pefte». Quid.énim per pureanda effe corpora fignificat, nift in principio effe-evacuanda füedicainenm purgante? Nonne pratercà conftat ; excretio- nes has peftilentes nuHas fere effe criticas, fed fymiptoníaticas; qua in principio;vel augmento 3ccidunt? Atnihilominus prepurgatum effe » déberefcribitcorpus, antequàm apparerent; nó icitur exfpectavit coctionem. Secutus eft hanc fententiam Avic./ib. 4 4. Fen 1-Tr.4.capit.4.cum inquit: Summa curatioms hurus febris eff exficca- tio, C 1llaftat cum purgatione, à qua tocipere de- bens -& Kver. 3T bet1fit. T ratl. 3. cap.1.qui in, principio pilulas ex fimocolumbino, aloe, et agarico commendatin pefte. Et R hafis tum 5. Continentis, cum lib. de Pefle ; quos pofteàfecu- tus eft Aver.2.Collett. 56. Éx recentioribus etiam plerique feré meliorisnotz, inter quos Manar- dus Ferrarienfis, 5. Epi. 3. et 13. Eprff. 1. et Vi- &or Trincavellius zz l/bro de febre pe[ilentialin hane venerunt fententiam. Quod experientia etiam confirmar e poffum: Mihi enim. &fociis in 1nænà hac peftilentià magne hujus urbis fehet- CCY ; dag ter ceffiffe, (ciunt et præfecti fanitatis, et cives noftri, publicéque etiam nos laudárunt pro bo- nà,& fedulà preftità operá,cüm purgante medi- camento ab iniuo feré curationis ufi fuerimus. Quod et Gentilis ille Fuleinas fibi experimento conugifle teftatur 1.4. ubiinquit: Ego vidi focios zoftrossviros expertosqui 1n prava pefhilentiaspri- pa » vel [ecunda die,"velin quarta ad [nummum s » quam citius poterant, dabant pharmaca evacuan- L4, exfolueudo materias, ficuti Rbabarbarum, vel "A garicum, aliquando dabant auedicinas Y1g0- ratas cum pauca Scammonea ... Et vidimus plures evafilje per manus 1ftorum, quàm per manus illo- VU, qui gon purgabaut, mfi cum levibus cly[fe- v115, C quandoque [ola caffia.Neq; rationes, quas contrà adducunt, multüm urgent; quód enim A phorifmü 22.objiciunt;jam docuimus;aut füb turgente comprehendi, aut fané veré materiam 1llam crudam dic non poffe, quód nullam co- Cüonem admittat. Neq; caliditas medicamen- torum vcrenda eft quz non avocavit Galenum ab corum ufu;ob majorem utilitatem in turgen- te materia ; minus autem nos Impediet in pefti- lenti;in quà fx pé minor eftus fübeft; potiffimum cum mitiora quàm plurima medicamenta, mi- nus calida ; vel vix caliditatem attingentia, et fimplicia, et compofita ncftris his temporibus fintinventa. Neque vercnda funt mala, et in- commoda, quz fequi docet Gal. 1.24pbor. 2 24. € 2. pber.9.ubi quis crudam materiam in prin €iplo,& non przparatis viis edu3 crit;cb majora E. :3 enin "$a enim mala fugienda in tiizgente materià ; noti» veritus eft ftatim evacuate, ;Ob eandem etiamo caufam nos in pefteidem preftabimus. Néque alvi profluvia;quaz in pefte Hippocratis tempo- re ubi fipervenirent, mortem inferre folebant, debentnosab cxhibitione niedicamen torum in principio deterrere: namietfiin ea conftitutione |^ id.eveniebat; in aliis non femper eft cum pefte» cotijunctum . Sed veró etiam nulfa vis eftargu- menti; nam fluxu illo siulti interierunt, quod nimis oppt effa; acirritata natura fluxüsZ exone- taré tentabat ; fed et füccumbebat; et materias quafieffrenis facta plis jufto fluens vires deji- ciebat,undem ors fubfequebatur; at ftatim pur- gatis himoribus. periculum hoc evitabimiis . Sedatgumentantur preteteà auctoritate Gale- n19. de fimpl. medic. facult. cap. de terra Letmnias tibiinquit, illos; qui tetre Lemniz;ant Bohli Ar- inehi affumptione cnrari non potuefunt;plerof- queinternffe . Ovafi Veróy five manifeftis agant qualitatibus, five cccultis;in ufum hac tutó du- ci poffint, non praimifsà purgatione ; cüm jam. ji Galeniauctcfitate c onftitutum fitjanupharma- €á ; et antidotos tutó exhiber! non pofle impuro corpore.. Peftiferz avtém, ac virulentze mate- rie cum venero coim parátio,quà probare nitun- [ wir;in principio non effe purgandum, nclla eft ; 1 neque convincit: Affumpto enim vencno, cim.» matcria.ea in ventriculo contineatur,vomitorils quamprimüm ex xpelleretentamus; aut fi id ob- üncrinon poffit;emollientibus, lenientibus, vel lubri* T Ex DRM LS od UBL. mts tte S sni eii e s in otn c lu bricantibus per inferna ( fr bducere conamur. Ita 1n peftecüm primüm corafficiatur,omni in- genio Gmnino tentandvm eft, 3 nobiliffimà parte 1llam revocare, ac quamprimüm ex corpore» pellere. 13j 49. Caveat autem Medicus.ne; quod iri pefte Peffilétes conftitutum eft, in iis feb ribus; qu et,quódinfi- z/,, 5. gniorém habeant putredinem, ;quàm vulgares ze peffe » febres putridz, quóodqvein aliqu ibus fyrnpto- cockienens matibus peftiferas veras aiu léritig Peftlentes expe fttt s dicuntür; quales font;qua maculas, qua les puli-. vecz prin- cum morfis »aliáfq; etiam cutis efflorefcentias cdd junctas habét;idem obfervandum cenféat : cm £244 - en1m eó nfque non fit in eis progreffa putredo, ut ad priftinam bo "nitatem revocari non poffint humores,;ait fané cü m per co&tionenrad quam- dam temperiem et mediocritatem reduci pof- fint, ut mitéfcente eorum ferocia, autà naturá, autarte a Iv Medic pelli poflint, exfpectanda om- nino crit eorum ccncocto, sícque non in princi- pio » fed in declinatione érunt vacuandi . 49. Qi 'dunvi Is autem eorum Opinlonern recee Purvatia perimus, quiin peftein princ pio humores effe v4//2a ;» purgandos cenfüerunt veré cathartico medicà- peffe sem mento, inter quos diximus fuiffe Ar abes; et in- c?veziit. ter hos Zoarem,;& Avertocm: ; 'ecipi tamen ho- rum duc rum op nio non debet, qui validiffiinis utendum, et calidiffimis medicamentis cenfie- runt. Nam Avenzoar 3. 7 be; "JIr.cap.4. commen- dat medicamentum ex ev phorbio, et aliud ex fimo colunibino,::Aver.veró 2.Colleél. Cochias ]4 exhibet . Mediocria enim,necimpense calida, potius in ufum duci debent, tum fimplicia; tum compofita ; in quibus etiamfi ícammonn nonni- hil excipiatur ;adeó tamen aiiis ingredientibus orrigitur,ut ad mediocritatem reducatur. Stibii vi- $0. Vitrum ftüibii ; quod tà »ntopere : probatur mm in aliquibus, nullo modo admitti debet ; quód ve- p«fte P*[f nenatà fuà qualitate majorem in humoribus in- 0471 . ducat malignit atem,& ferociam; tum quod ex- perientià compertum fit ; infcliciffimo eventu omnes in bac noftrà idi e: qui confilio Em- a ne um eo ufi funt; ad unum interiüiffe. . Neq; tamens ego fum, qui multotutr. goeerroe crrorem fequar ;utrumque hoc vui magnum auxiliumin pefte, ut &i in reliquis fe- purgatio, bribus putridis,cxe 'rcenüum; cüm Hippocrates e fangui altero folüm- utendum fuadeat aliquando ; ali- nii mif. quando autem utroque; aliquandoauté neutro . Suderum $2; Sudorümjn verá pefte, peftilentibüfque provota- etiam aliis feb ribus promo tio, frnaturà duce fu tio i» j*- (cepta fuerit ut tuta eft, et perplacet; ita difpli- fte: M cecomnino cüm natvra prorfus defes, inérfq ue» ^/P2P4/7 wullatenus munere (uo fungitur, videtürque» ii malo prope fu iccu mbere. Intempeftiva enim» et audax nimiüm efteorum curatio, qui miferos zorotantes fruítra fatigant, alias excitatis toto corpore fudo ribus; aliasadhibitis cucurbitulis ; aliove quovis ezeeza e :x9y auxiliorum genere; quód aliud nihil facia int, quam inaniter egrotan tium corpora vexare;incertámq; pro certà cura- tionem füfcipere:; que omnia ocioforum funt homiPefe jte vantib. femper co tem i]lum gradum putredinis;ac ad exftineuen1 ! E ma m "Y. hominum,atque vires, valetudinem,vitámque alienam pro nihilo habentium. Quantumvis 191turro buftz fuerinta erotantium vires, num- quam admittenda füdorifera hacab initio cre- diderim, nec Medicus Galenicus sumquamJma- Smudores $ turabit exp xilfionem per cutimtentare,exfpecta 7efzequa bit potius,dum aliquid ipfa perfe natura molia- 4o promo- tür,animadvertétque curiosé;quorfüm ipfa ver- vendi gat, quàve parte infenfz mareriz quarat exitü, alioqu 1 naturz motus antevertere, incerta pro certis ageredi;contraria moliri, et ab incepto re- vocare,non fine vite difcrimine poffet: quinimó, ne ftatim quidem per eas partes cevacuare debet, féd folum ubi imperfecté operetur natura. ] heriaca, et Mithridatica ma ignacom- TLeriaca pofitio, ut femper, nifiautaftusineens autin i» peffe. cem pore;aut in corpore fuerit;ad p refe rvandas quado uté corpora à pel íteà me commendantur; ita procà- 47 et quo den Pn dà nonita frequens earum ufus effe modo, ien poteft: quamvis enim ad cohibendum excellen- reis Triend&. dam^4 virulentiam convenirent ; fi tamen ardens éebris (iib fit;a ftüfq; maxim "E humoribus, et Ccorpore,non ita tutó concedi poffunt, ne, dum. venenoobfiftimus, ita febrilem calorem aucea- mus, ut vel ex eo folo mors ipfa AQOISAGRIP S À Iquacumque vcró de causà mors fübfequatur;idé cít. Obfervandui n Igitur erit, "PN valeat bilis kin COI orgia eique putre do illi virulenta fit Iiconcitata, przftare femper, poftpofità Thcria- lica. et Mesià ficcifa; antidotis iUis, C&fclls ut), used DRE c Ft ah ma P str rre i iy i om aue T Mace Lapillorz jrecioforz uus 6d s 0mmmino ve gtciendas, nrc paf- Mim yu* fit, Yecipiendus. Pulvtfen loru» CAaY d acoyz117») ^ f. aJ p 8$[us ocu eibis y fed 14210 YLo 224€ bo re e CipleAus . quz refrigerandi ; et fiecandi facultate, preter alexiphar macam, prædita f unt, ut acido citri, la- pide Bezahar,margaritissX fimilibus. $1ve cro, quod in plurimis obfervaviscalor £ebrilis fit nu- tis.nulloq; mmodoaftuans peccétque aut pitui- tajaut melancholia,in iífq; cóceptà potiffimum fit putredo,vir üfque inde en aftatur;tutó et The riacà, et Mithridatica compofitione, et fimili- bus antidotis uti licebit ; quibus etfi calor febri- Iis nonnihil adaugeatur, major tamen erit ex i]- lorum ufü utilitas, tum in evincendà vi veneni illius, tum in attenuandaà materià;, &cad cuum, temi ; $4. Vt lapillis preciofis,& gemimis non om- nino fidem detraho, Sapphiro,Smaragdo,Hya- cintho, &c. quód multis, et magni quidem no- minis viris eorum ufus receptus fit, &in multis; et magnis antidotis receptas.ilfas íciam,ut in. electuario de zemmis dicto, et alioà Concilia- tore nomen fortito;ita nec eifdem mudltü tribuo; ob eas rationes, quz à doctiffimo lo. Bapt iftà Svluatico, primo Medicine Profeffore in Aca- demià Tícine enfi,amico fingulari ; inlibro huic rei dicato propofitz funt . fos Si quandotatnen in ufüm Medicum dv- cendi funt, communis error erit fugiendus ne ante cibum immediaté ejufmodi pulvifculi ex- hibeantur, ut nec marearitarum: ex illis enum» cibo commixtis cementum quoddam obftructio nibus e1enendis aptiffimu m 1n ftemacho eene- ratur. Preftabit igitur ; fi modo iis uti volue ri- mus, € et - m mMENEEEE TALL 2 P GÀ mnÜáPmÜP pe mus, 1mmediaté ante dulcoratas potiones ; aut fullatitios liquores, fummo manéfolitos propi- hari;illos concedere. 56. Auri ufus et ad ADIHERTOCROTOM et adatra- Aaturi ufus pllarios affectus antiquis et recentioribus com- Pres lai mendatur,quoód, citm fpiritus recteet;cot, nobi- 447dns. uffimum vifcus,robora ire poteft: neq; enim Det- [enil opinionem recipio, qui non nifi in aureà IM lexandrinà rec: ntiorum Græcorum ant!do to, D. n fecipi, aut pro »poni afferit ; cum alioqui I Nicandet;an tiquiffin nus et Poet a,& Medi- rus, auro peros affum pto in alexiphartnacis vta tur; et Diofc. [;b. $.c. 69. de ateento vivo;auri li- atam fcobem mirabili effe aüxilio fcribat. Mo- T lis Veró, quo uti oportet, eft, vel eo i tenuiffi- 4^" E fii - "d es affumé niim pollinem redacto) et comminuüto; hoc p4- j ni tto: Defæcatifffmum,& puriffimum autum eli- mal : featur, et coptufüm tn foliorum form3, aquà ro- jaccà afpersa, fub Porphyrire, aut matmore, ad pinimenti inftar redieatur. Sunt etiam,qui Pan- Phonicos ducatos;u itpote ex purior e anro; fub la- Pide piclorum [xvieatos quàm tenuiffimé acci- pant. Alnafperolinteo condnué affricant, et E s ;in quà defcéndat. Quód fi I. hymicà indufttià in liquorem fólvatur, modó Wimis 1eneas in (d non habeat partes, fortaffe ts 3 commehdari poffet : $7. Stultum veró, meà fententia, eft, aureas T UE -Bionera s,annulos JAUT ca .tenas Intra capones, ju- Wrula;aut ftillatiti s liquores;aliofve quofvis co- eà teræ; J[uere ; cum in his nihil aliud abfumatvr,; quàm. món: multa$, ^ net aí $, Ex avfent co placéta pro corde in pefle de tefland«. incequere, multarum manuum fudor adharens;nihil enim abfardi. ponderi penitüs detrahitur poft illorum elixa- tionem : necetiam quidquam aurum aqua im- primat, nec etiam faporem, odorem, aliüdveo adjiciat.TE 58. Placentas Iacobi Carpenfis ex arfenici cryftallini partibus duabus; unà autem parte» rubri, ex albumine ovi,& tragacanthz mucagi- ne exceptis, quas facculo fericeo, aut ex aliqua tenuiffimz texturz materia obvolutas,& cordis rceioni appofitas, anosà contagii labe immu- nes, omninogq; illzfíos fervare ; «eris vcro ad fa- ]utem magnum momentum attuliffe;creditu m. eft; neq; recipio, et longa experientià in noftra, hac peftilentià doctus omnino rejiciendas con- fulo: neq; enim experientia ; cuiii tantopere in- nitebantur, pollicitis refpondit ; quinimo gra- viffima aliquibus fymptomata induxerunt,ut in aliquibus etiam mortem preci piti quodam im- petu concicarint. Vidimus fervos ; quiin magno illo D. Gregorii Valetudinario ægris; et infectis hoc morbo operam navabant, et Chirurgos hac placentáalioqui munitos;brevi fatis conceffifíes, quinimó multos vi hujus remedii 1n graviaad- có fymptomata, animi deliquia, fyncopales fe- bres, tremores cordis incidiffe obfervatum eft » utfe per illud vim peftis effugiffe fomniarent in vehementiora fortaffe accidentia, et mortem ex remedio incidiffe certó cognoverint. Multáq; exempla in hac noftrà peftilentià afferrezs] poffem,nifi et ratio ipfa 1d perfuaderet:nó enimesp qucd M ! S Ami Joiha CJ PP, 1 $t. Huod aliqui afferunt, conferre poterunt ; quód arfenicum occultiore vi venenis tamquam vene- num obfiftat, cüm arfenicum non occultiore vi, fed corrofione conftet effe lethiferum. Ex quo etiam colligitur ; nullam eorum efferationem, Qui cà ratione afferunt conferre, quód cor in pe- ite primo affici folitum, veneno fenfim affuefa- rlat, undenec tam repente, nec fine negotio po- teft ceca, violentáq; pernicie corripi; cüm ratio nzcnulla fit; quód et experientiam habeatad- yerfantem, nec arfenicum hocmodo inter venc- 14 connu merari poffit. $9. In variolis,. et morbiilis curandis, cüm Jecoctum lentium, paffimapud Medicos AraLentiz de €ockur t2 »esmaximé commendatum, etiam apud mul- see, ge os in ufum veniat; cum abuftm potiüs illum €^ ia vaenfeam, hocloco nonab re effe credidi, etiam *ielis, ip;- iujus erroris inrer medicas 1ftas Cautiones me- prebad . Ipiniffe. Arabesiegitut omnes fcriptores, inter [uos precipui R hafis 18. Coztinentis, € 10. ad IMlman[orem cap.18. et Avic.4. Cant. cap. de cu- Wizndis variolis. ad materiam ad ctim ex pellen- 'Mam,& ad evocandas variolas;ex lentibus folis, I ex rifdem, lacchà, caricis, tragacátho,& hu- qiifimodi, decoctum parabát.ídque cetera omnia irefidia ad hoc munus obeundü parata füpera- PÍcripferunt; quo etiam multi ex recentioribus à peftiferis, et pefülentibus febribus ad mate- iam ad cutim propulfandam;acad fuüdores per- novendos paffim uti folent : Verüm non fatis et Wpo conjicere poffum ; quà ratione lenres aut I fudcres Lentium qu ilita- Ie5. fudores promovere poffint;aut invariolis; pefte, peftilentibüfye febribus concedi ; nam fi earum naturam recté confideremus;eas mali effe fucci ; atque melancholicum fanguinem generare dice mus;inactivis qualitatibus mediam, in paffivis ficcam temperiem in fecundo. gradu foruri ; 1n» fecundis veró qualitatibus varias ; imo contra- rias habere facultates: nam primà earum adhuc integrarum, et non deglubitarum elixatione cie ri alvus folet;quód in extimá füperficie virtus fit: irritandi;& deturbandialvum;cüm é contrà ite- rata decoctio, aut tota comefta alyum adftrin- gat;unáq; opera collectos in ventriculo, et inte ftinisfuccos ficcet,ur que vires corticis internass et integram lentium fubftantiam reciptat ; que vim habent adftringentem;vehemenuus tamen lensin cibo fumpta fimul cum cortice adftrin- citminus veró decorticata, Hzc funt, quz de» lentium naturà ex Galeno, Gracis, et Maurita- nis fcriptoribus colligere potui . Galenus quide 3 frmpl. cap-1 5,9. eju]dæm cap.de..Lente.1.de com- pof omedic-local.cap.8.1.de alim.cap-1.C7 1 8.2.e]u[- dem cap. X8. 44. $. 1n 6. Epid. 33» 1. de vitu tit acut. Com. . 4. eju[dem y cap. 4: C lib. de [alub. Diata.cap.de Leute... Oribaf, 2. Synopf.cap. 1-7 1. Collell. cap.17. et A€t.lib. 1.cap.de Lente.Pau- Yus; /ib. 2." lib. 7.cap.de Lente, et Actuat, lib. de [pivit. animal. nutrit. cap.5.Hos fecuti funt: f. in omnibus. Arabes, praterquàm in tempera»: mento, quod frigidum, et ficcum ftatuunt » for». taíffe Hippocratis fententiam fecuti,6..Epid. Sets. f j: LX TTA [- tex. 33. ubiléntem frieidiffimum cibum fta- iuit; quà inte étiám à -Galeno eo loco arguitur Hippocrates; quód in àctivis qualitatibus mce- lium tenereindé collisendum fir, quód et et ad- tringenre,& (olvente facuftatefit pr&dita;cüm llioqui duplici ratione frigidum cibum confti- 'uere potuerit Hippocrates: Primó, quód cim. tdftringens fit facultas in pluribus partibus, et n majori mole fiibftanue,mæis frie1du m ci- pum poteft conftituere : quód fi poucnes é.con- rà ex lente factàs confideremus, quz folvunt, primam nempe jill: im càctionem validiüs cale- acere dicemus,quà àm fecunda refrigeret; quód Qualirates calidæ facilius in aquá exciplantur, juàám que terrenefürit;& frieide:Sect e for- C frigk dit ffimam ftatuit lenteim Hipp. non ratio- e qualitatum primarum fed quód, cum hu imo- em, et fanguinem proeignant relancholicum, dam.qt latenuscibi funt, frieidiffimzx dici po- I. erunt,squod fuccum produc: ant 1n noftro cor- pore friaidii (umum. Qus .cümita fint de puru- imis, e fecundis lentium qua htatibus ftatuta,, lon video.quomodo Mauriranorum fententia, lhacin re admitti poffit. Nam fi primumeorum Wilecoctum, non delibratis iis; pra beamus;.cüm. iklvum moveat, potiüs à peripherià ad centrum. numores trahemus.,. Quód fi decorticatas, ut JA vic.jubet.imponamus;cüm tale decoctum va- jenter alvum füpprimat, atque fanouinem me- lancholicum reddat valentérque adftringat, at- Ijue obftruat;maximé tragacantho X caricis admixtis, quando ad cutim perfudores, vel aliquo.| alio modo humotes virulentos expellere queat4 non fatis intelligo, cüm auftera qualitas, quæ im. lente perfentitur, etiam Galeno tefte 1.4/77. 18. interreà maximé parte Confiftat,ex Gal. $.de |., fimapl.medic.facul.cap.26.V nde adftringen tüiqua- |." litate et obítructiones augebit; et craffitiem hu- morum, qui ex eà generantur, magisimpinget. jj Pratereà, fi crafsum, et melancholicum fuccum cenerat, fi flatulenta eft, et eà ratione fzpenu- meró morbos comitiales excitat ; ad quid 1n pe- fte convenire ullus umquam affirmare audebit ? Quá ratione etiam ex tragacantho,& lacchà de- coctum, aut fvrupus ab Avic. paratus ad materias ad cutim propellendas, 1n., variolisrejici debet, quód hu- mores noxios potiüs intüs obfepiat, quàm foras expellat, et cor- poris po- ros obftruat, non. laxet . gud, 3E d , «ll Animadverfionum, et Cautionum Me. dicarum, 9S 1 X d. V. C ontinerts eas, Qua; 4d 200r bos part: culares E capite ad membra. naturalia pertinent . e A UG PR LG vOSQT E: ld lt Ne d De dolore Capitis. actu frivida efle de bent L Oxyrbods natn capi N capitis dolore, ab zftu,.Sole, tis dolere iene, et fimilibus, curando, cüm prosit ima oxyrhodina in ufüm veniant, et £'»J^ ** frontalia;illa femper magis laudan ^ ' tur,quz ex alto dela pfa füper fütu- ram corona lem decidunt, maximé fi ad intern cerebrum intem peries pervenerit; quz zft alto deci- Ant» Oxyrbedt 4» pis appli- AlC cata ze frc Ce Iu 47 ec 2. In u(dem ftupis;vel duplicatis linteolis ap- «x cif K ynaterta mpplicen- $4r» Oxyrbod: sis narco fica vix admi[cen dla » NartoticA 8 Capitis dolore vo- ? 2;€ doloris 20 adbibe dla. fed ali quado vo- ne vigilia THU. INarcoricA 3m dolere capitisper fe per os zon a[fa- geuda. Infigaiter vefrigerau da44C4 puta non fear. plicandis,caveant.ne craffiores applicentur, aut exficcarz parri-nimis adhareants conttariuimL enimeffectum pariunt excalefaciendo;& infen- fibilemevaporationem prohibendo. 3. Oxyrhodinis narcotica non mifceantur ; vel leviora : frontalibus autem etiam valentiora miíceri poffunt;ad cerebrum enim vix,& refra- &à vi per hanc. partem perveniunt ; per illam veró, futurà viam prabente ; integrisviribusad cerebrum pervadunt . Quinimó in oxyrhodinis,& fimilibus,num- quam narcotica admifcenda effe cenfeo ratione» dolorum.fed cim vigiliz inde fuccedant;undes maxime vires collabafcunt ;in ufum aliquando venire poffunt ; íed tamen futuris autznulla, aut debilia applicari debent, fed fronti potius, et temporibus. $. Multoque minüs fomnifera hzc per os erunt fümenda,in intemperie calidà fine mate- rià,ratione doloris,càm inde nullum vite impen deat periculum. nec ullus fibi ob capitis dolore manus intulerit, téfte Galeno, ut ex aurium, et oculorum dolore ;'ob diuturnas tamen vigilias fumi poterunt. 6. Animadvertendum autem;aliqua effe cor- pora ;'quorum cerebrum ferre non poteft ufum infieniter refrigeratium;Pueri, ob exceffum huet miditatis,ne congeletur;autincraffetur;indéque in morbos comitiales;& fimiles incidant, tum et ob fübtile nimium craniü: fenes, ob imminutum calorem, et excrementorum copiam: mu liczes molles; ANIM ADVERS. molles; et candidze:& qui cararrhis fzpé tentan- tur,& qui laxas nimiü habétfuturas,ex us funt. 7. Aceti pars in doloribus mitigandis cx in- temperie calidà fine materià.non major fit quar acerrimum continebit ., Oleumitidem rofatum in eo dolore cali- do;ex olivis maturis fitne fi ex acerbis fit, cutim et,ac difflatnionem impediat, potiffimum cüm revulfione non egeamus, nullà affiuente» materià; in tali enim cafu omphacino uti licet . Sitoleumrofatum eoanno paratum oleum fit ejufdem anni :illud. quidem, ne rofa- rum vis refrigerans exfolvatur;hocautem,ne ex vetuftate calorem contrahat r1. In dolore capitis à frigidà materià, qua ad mitiorem reddendum dolorem applicantur ; non fint foetentia;2ravíve odore przdita; reple- re enim craffis vaporibus cerebrum folent, et dolores augere . 2. Indoloribus capiüs ex morbo Gallico, errhinorum ufus nullus fit: five enim ex bile fit ; five ex pituità putri,ulcerain penitioribus nafi partibus ex iis excitantur, et fubinde offium nafi COIrru pt lOoncs. . Inacutis febribus; LIB. FT. n tà;cüm nullus hic fit ufus. repulfionis ;fed ad re- frigerandum addatur, et ad penetrauonem, jus levis portio fufficiet, cum «& calida in eo partes reperiantur. $. Obidacetum ne potentiffimo vino,igneas enim multas partes fic Anh ah, op SERES LO, ando vehementiítK a fimi fit, neg; ex Dolete £x fite ex t5 téberie ca lida, acete porto im exyrhbodi- 2i$ fat par va. AAcetd 19 oxyrbodi- no quale CO veni. Dolore ta- pits ex in téberte Ca^ ltda, olesi ofatum ft £X 0lí- Vl 5 VIAL Yi$. Ole us vo fatum fnt Yeceo 5 » NO foeten ua fint, quá capit applican- Iu. Errbina perniciofa 17; dolorib. capins ex "iorbo Gsllica. I )i ii . A44 gapitis; et xebemetif fimis,im- 9ninente erif, fu- sieda ve- pellentia . Grifi im- tnpinente, quando à capite re- peliendá e pilsle ca- " ^ puta: es 4 i 4:24 r4 ] GBA e M aflzeato yia q4AD- dono con codenda. Errbina, € feauia8torta snala lakun Soo rx por A. 10113 FILAS L2 ; fimi dolores capitis füperyenetint pulfaüles, cü rubore faciei, non ftatim oxyrhodinis repellen- tibus utédum, potiffimüm fi fie his coctionis prz- fentibus: fepe enim füperveniunt inftante crifi» et faneuinis é naribus profluvio proficuo ; quo in cafifi infrigidátibusrepellatur,optimo ope- re naturzinm € aut augefcit morbus, aut 1n cerebro firmatur materia, et cerebri mofbos 1n- vincibiles Spe 14. Quód fi enam crifis i eat dolore» magno füperveniente, fed non ges fanguinem nariun fed per vomitum, ems quomodo di Íícer natur, ex lib. de Cf. colliei p tei ; tancrepel- lentibus,quin et adt Lringent abus uti licebic ne» per vomitum cerebro repleto; dolor per idiopa- thiam reddatur. 15. Non recipienda eft communis multorum confüetudo, piluJas ad humores à capite t: rahen- dos inftitutas exhibentium ftatim à coenà : aut enim cibos corrumpunt, aut illorum vis retun- ditur,aut fimul cum cibo é ventriculo eft fuo fruftrantur. Praftat igitur aut incen cedere, aut fummo ma iné exhibere, fo autalterà horá concetfo. . Si dolor capitis fit à bile, vel àferofo hu- more calido, et falfo; tenuíque, mafticatoria fu- ROT erunt ; pcr 1culum enim umminet ;ina pulmones v ica influxa;aut phthifes p Adel cat, aut pu Imonum alia vitia. 17. Siitem oculi imbecilles fint,'& fluxióotüi- bus obnoxii. errhina ; et fternutatoria fugienda in ie ? j11 fine latis C con- mno una e** h AAA ym TO 11 bmi vv et : DEÆ NUM. ANLM.ADVERS.. Incontumacibus,& diuturnis doloribus; y«frcztie tbi non cederent aliis& potentibus quidem re- optima; e£ mediis,antiqul et Greci& Arabesad puftulan- capit ap tia,rubificantia,& dropaces,fi inapifmofve attra- p'icatasm : 1 hentes confugicbant, ut ab internis evocarent vthemer dir. "vt tiffimis do ta(íam materiam, atq; attenuatam perinfenfiloribus £5» bilem ev aporationcm evacuarent:fed cim cutis ubt capitis craffior fit,c quàm ut liberum humori adi- am tum concedat, ncque ulla fenfü patens fiat eva- cuatio himorum,.eco fzepiffimé expertus fr m., pra ft: ure derafis cap illis vefican itiamponereaut pa rü« lolenti,auttcti etiam Capiti ; fic enimat- Lracta ad exterpa materia evacu res f maxime ea,quz tenuior eft, et calida, et acris; vix enims, etiamfi ciuturnus dclor à craísà materià fiat, fie- i potefl DUEV chementa dolorisadfit;nifi portio aliqua illius humoris fitadmixta . De Phrenitide. I; Dhbreneti- I9 Ixin pbrerindelenienti perosaffumen ^. i à MCL$ flattors TOP T ! * cL » p " V RE L y. do;ad detu rban« 2 €3 (crementa, in. en imr tr1Culo, et primis venis exiftentia, primà die lo- dæ cus datur, fed mclli clvfinate injecto, fi ejus eniá commoditas deti r,m ittendus eft (anevis, fedà in brachio venà : cüm enim influxus jam defie- Faut majori ex E factus fit, fruítra hocau- Vosa lum tentamiüs Dbrenett^ 20. Caveautem,ne in Trollani et alicrvm. cis fribra errorem Incida iS, Qui cüm ob maniacos motus «ebio sez fàncuin iem e brachio detrabere pDequeunt,ve- feri 54 I Y» 4 na itte em qam RENE IDSU,. dotdncap M ei poteit, noh fecam 8a eft ea, quainfio 18. Pbhrenett- €i5 SAgHIS non mitte dus ad a- ntmi ufa5 gdoliquil In frontis vena fec da blandé gula aá- f Y27 41v s Aut brevt z82p0Y€ . Pbrenetiz €is, CHCHY bitulis ap 4 E - politis, qud fa&iendum . In bbrep huy T1 si run Ho LVD. SEPT ALII MEDIOL. ram frontis fecánt; fi enim copia adfit fanguinis in láborante ; ut in hujufmodi morbo majoriex parte cóntitigit;tantumabeft,ut laboranti opem feras, ut potius ; atttacto ad partem laborantem fanguinesmorbum ádaugeas: revellendus jeitur potiüis, atr fcarificatis cucurbitulis ;aüt ; quód melius effet,venis fedis apertis. ii. Néqué etiam iri Hioc cafü ad animi ufque deliquium mittendus eft fanguis, quod pleriíq; placuiffe video; quód; cüm repellentibus friei- dis ab initio etiam ufi fimus, refrieerato toto; ac à capite rettactoadeó multofanguine calido;fe- penuimeró aut phrenitis hectica inducatur cura- tu impoffibilis, aut lerhareus fübfequatur . 23; In venà frontis fecanda adftrictio illa gu- [z?*, quz fit, ut vena intumefcat, aut non multum fit violenta, aut quim breviffimo tempore per- fidiatur ; ne quodammodo ad füperna repulfo fanguine, ubiad' cerebrum et meninges perve- nerit, morbum adauceat, aut fané, eodem in- cratffato,eunderm mætis contumacem efficiat . 25. Cucurbitula, qti breemati,fronti,& re- liquis capitis partibus ; poft evacuatum corpus afficuntiir,ad extrà trahendam matetiam, aren- tes non fint et cum flammà, fed ex aquá calida; nec loneiori tempore hereant ; et fi fübjacens parsin rüborem abierit, leviter eamfcarificabi- mus ; fin minüs, fpongiis exaquà tepente fub- ftratum, et elevatum locum fovebrmus. 24. Cavendumin hoc morbo, ne in eorum. errorem incidamus; quiab initio non effe purgandum cenfent, fed ex (pectand am effe coctio- nem,maturatio enim putredinem jam factam. fupponit,quam corrigat; quo in tempore ; facto dum ab £2ttio, C q440t23080» jam apoftemate, morbus evinci vix poteft: eo- dem igitur,vela idtero die pu irgandá, vel ex Hip- pocratis przcepto; 4. Z4pbor.10. imminet enimu periculum,ne tota 1lla effrenis materia fein par- tem laborantem effundat t,apoftema perficiat t; et vires profternat. Neque tamen crudam evacua- bii fade cei us preceptum Hippocratis. 1. 4- 22. ve] enim turgens erit, vel nondum putefadta; fic nec cruda fanguini admixta bibsin- tra propria conceptacula adhuc confiftens, ut fecidle Hippocratem videmus 2. acur. 16. cm fluentem humorem ad plevram ftatim ab initio medicameto purée fubduxit;tamquam non- aut crudum, fed coctum. In iis, du 1alv o duzioti funt; R habarbaro non ita facilé utendum: fi enim fimul cum biles effervefcentem m: 1e1s bilem red- eredi ay rnis partibus;ob igneas pat- t:& ob hanc unam caufam dum ) putridun non edu CItUr, tes,communicari Avic. ?ranaà cato aut fex fcammonii medi- 1ndidifle in ph: quidauid dicant Grz- culi quidam, acriores Mauritanorum Íctipto- rum reprehenf. res. camentis ex R habarbar: carandaà cenféndum eft, 26. Quamwvis in hoc omnes feré conveniànt, fimpliciter refrio erantil bus primá tantüm dic Eur ipifaébeiiepus a fime et par bus,f. PIRE repellenti- 1n utrepella- ris, et influétium Rbabarbs rii tn phre auide ia ii54H dis riorz funt ALUO 422003 maltum im ufum ducendd o Solis repeb lentibus Aliqua do Sotds 775 eSI pt iit "NE -U humorum temperetur; dolor fedetur;& affiictee arti robur addatur, fequentibus veró diebus mifcenda effe aliqua refolventia ; fepiffimée ta- men aliter faciendum effe,quód urgeant in aug- mentoadceó fymptomata, etus, dolor;vigilia- et mania, ut frieidiffima etiam progreffu tem- poris in ufum duci debean t, Aretzus admonuit . In phrene .. Cavendum tamen, ne nimis affidue iis fiis nón. utamur frigidiffimis;aut narcoticis:tiam dicebat dintis fri Aver.3. Colle£l.3. caput tutó calefit ; at non citra gi [imis pericula refrigeratur ; periculum enim impen- utendum. det,ne quem dormire volumus, poftea excitare non poflimus, ut ait Celfus:fepé enimain lethar- eum calamitofimabire folet;ex folà mala cura- tione phrenitidis. ultraprin epum $ Q PE 3 . » Á Eu * 28. Intop icis, etfi acetum 1n aliqua perucne get admifcere expediat,ut et refrigeret repellat, et md penetrationcm adjuvet ; neque tamen multum plicaydi « admifcendum eft,ne ficcauone vigilias ccncitcts neque acrius, quod calide partes,& ficca ni- mium pravaleant . Acetiloco ;:.29: Nequetamen placet, quod à plerifque» in oxyrbo ICCi pitur,ut aceti loco, acido citri; aut limonum dinis aci- Atamursnimiüm enim adftringit; et ob acerbas, d& citri, terreftréfq; partes neq; pervadio neq; admifto- vel l.mo- rum penetrationem adjuvat : quinimó externos nem uo» wiestüs conftringendo,refolutionem humoris 1n indendli ^ Jis temporibus omnino impediet. F 22i DNI", E ibd » 4 TN "c De. Lethargo. v M MA . lfiinlethargo.fi perfe, et cum febrefu- ropa gi- pervenerit, fanguinis evacuatio per fe-. eis quado PEétam 1n brachio venam, viribus cenfenuenti- fecanda f bus cmnino conveniat ; fi tamen, quod fxpius vez2 e: l'evenit ; vel ad conunuamn febrem fübfequatur ; qu ádo n llvel ad phrenitim firpé etiam male curatam, lomittendam ceníco, neq; fclum dejcétarum vi- Irium ratione, fed ob materiam potiflimum à put. e fejunétam . S1 hecexerceri nequ cato bal ]UamcCaU- (uen Ma: n ". apn it tamen repletu mfi t et nonnihilfían- ;4là in le- lleuinis a« Im ixtum cognoveris, cucurb iru ]leino ££ me ufum venire poterurt,nontamen dcrío, et hu- quado » Irmeris, aut fie bis, ut Md ain vifum eft,fed licanda, li lateribus potiüs pone aures; prope venas applicitz: illa enim fübtilem, m: iie ; fluxilem lian: guinem trahentes, rebellem maois, et frioi- bdam, difficiliüfq; diffolubilem red lent in cere- bro contentam materiam . Quód f € proximic ribus eo auxilio eamdeim talos ARCEM Jumpactz etiam frigide materie aliquam à cerc- -Biorevelferni IS portionem. Eir32 C avendum maximé, ne ab initio h iujus ilimorbi ad excitandum à fomno fternutatoriis Iiramur;ex intempeftivo enim hujufmodi remc- d1o mæis funditu Ir materia, m. igifque fubinde ;, 5ri»c;- limpingitur ; unde et ccntv max mcrbus fit ma- pio 10 » [Ei nn .pople xlv fequuntur. Errbine- fs . Errhina in veternooptima funt; in iis ta- pw» Afni» men Stermuta- fortis 20: utendum A IM ee os oir M : gum Tm m Er E i LetLavgi- cis vepelle 3i barc applican- d&; et [ane «d[trin- gentibus. Vefrcatia 25 letbar- g^ opti- 722,0 qui bus parti- bus appli€22da»s Memoria deperdita vemedia 3200» seper calida, fed varianda, P YOvart - tate Catifa Y 4777. 6 r$4. men, qui longocollofünt, et angufto pectore ; uno verbo dicamsqui proni funt ad phrhifim, et qui fepé morbis oculorum tentantur, in ufum traduci non debent . Inrepellentibus applicandis ; quz non nifi ab initio, et etiam non fumme frigida admi- niftranda fünt, adftringentium ufas omnino 1n- terdicatur, ne et craffior pars huraoris 1nfluxa-» reddatur, et ejufdem evacuatio,quz per infenfi- biles meatus fit; impediatur. 3$. Dropaces,X finapifini, utin ufüm venire debentad attenuandam materiam,eámq; à cen- tto ad circumferentiam attrahendam : ita vefi- cantia mæis coràmendari debent,tum fcapulis, et humeris appofita, ad extrahendamà cerebro pituitam,& aqueum humorem irrigantern;tum derafo capite vertici,& fuper füturanrcoronale. De Cautionibus in la[a, aut deperdztasmemoria curanda. "T. Icet abolita;aut imminuta memoria A, folamfrigidam intemperiem referri vie B deatur à Gal. 2. de fyzapt. caufis, . (e 3.dc.2 loc. affeél. 4. $* s.cüm tamen frigiditas hec non- jum numquá vera fit cerebri intemperies frigida fim-. I plex fine materià;aliquando veró cum materià [1 potiffimüm pituita ; aliquando veró ex defectu ||. caloris parti infixi,aut fpirituum à corde immif. . f forum,& hoc caufas quàm plurimas omnino in- Bii ter fe diftinctas,quin et fpe contrarias habeat : utà fümmo externo frigore ambientis, fric iditatem pofitivaminducente;autab externo calo- re,innatüm caloreém,& fpiritus;unde pars vivés calefcit;abfumente: in hoc morbo curando pro- catarticas, et mediatas caufas Medici animad vertere debebunt ; nec femper medicamentis. niant, càmoblivionem producit frigida mate- ra fimilem in cerebro inte emperiem introduces Vbi veró fimplex fuerit intempeties frieidà, et internis, et externis validé calefacientibus j et ficcantibus erit agendum. Quod fi non pofiti- và frieiditatetentantur, fed défectu caloris in- nati, aut fpirituum parte frieidà redditi oblivio fequatnr Loses: intibus fpi iritus uti oportebit : In remedii ; vero habenda erit ratio caufze ante- cedentis;cüm enim hac aliquando calida fuerit, bt 1][o, cujus meminit Galenis, qui cüm ve colendis vitibus diutiüs füb Sole conttitiffet, inedia ufus effet, in hunc affectum incidet: at; in conflatore vaforum vitreorum, qüi ex fi ith 1- cis immenfo caloré memoriá amife 'fat;qui, cüm !in eo Medici calidisutereritur, et imo rbus in de- Ecerius rueret,embrochis fr igidis ; Capiti à mme ap phatis, ed Irt1o 3t!ol )e ex dec IS ju o frigido fadi à. D. cibis optimé fanevinem,& fpiritus inftauran- s,ad fanitatem eft reftitutus. In aiidBiéer n, I 1 O pA) Jeruinin mé? norie deperdi tione m nC] - Iderat.folüm cenfirmatoantmo, 3€ fpiritibus vi- o « ais Optimi fici inftaur 4tl$ ; CUFAC1O perfecte Ia memo"1A deper- purgantib us curationem uitio, aut caput- dita curd purgis, fternutatc riis, errhinis, mafticatoriis 4a rar? utentur,cüm hiec folüm in ufum commodé ve-. *vænat;o eff. Opus in COTHA:0 fis, primis diebus ma lé oleum cbamame linum cx aceto Ab- plicatur. Comato[is fométa cx oleis nen £sto adbtQe D» f a6 eftadimpleta. Non igitur íemper purgan- tibus, non femper cáput purgantibus, non iem- per excalefacienubus utendum erit in curanda . Hors memorià aut abolità;aut diminutà . In Comates C fopovo[ts affcétibus « m N. iisaffectibus,ubi aliunde ad cerebrum delatisaut craffis vaporibus, aut ferofis humoribus affectiones ez excitentur;non veren- dus eftufus oxyrhodini ; neq; ftatim ad calefa- cientia et interna, et externa crit deveniendum; quinimó aceti quantitas eft augenda, vel dupli- candaadoleumrofatum completum,vel ex Avi- cenne et R bafis fententià,ad diem ufq; tertiam: quin et acriori in iis 2Ceto utendum eft,ut citra tefrigerationem validius repellere poffit. Neq; placet Poffidonii fententia ab Actio relata, qui primisillis diebus chamemelino ex aceto uteba- tur;cüm ab initio repelléda fola fint adhibenda, non autem diaphorcticis fit utendum, fed poft- quàm affluxerit materia ; quo etiam tempore 4 la addi debent valentiora,difcutienti,& ficcan LECCE e M u facultate prædita, ut caftoreum, abrotanu mos; lavendula;ferpillum;verbenaca;& fimilia . LI . . In.topicis 1n hoc morbo applicandis, non Med. ^an [Tu $5 « 1Cacodlis,quia humectatio fiepé actualis ex ole mbrochis quandoque vincit virtutem med n eó tutus eft ufus fomentorum ex oleis; aut de-... E Eu imentorum incoctorum, nifi validà facultate £:c24 cante predita fint;qualibus etiamfi utamur, peu- qe ló poft 4 D57 I[ó poft lineo;aut cannabino panno caput erit ab- (tereendum. dn Pervigilio y[tve vieiliayuz ex 'ce[fa . Y N narcoticorum exhibendorum hcrá eli cenda E- S0nminui fa cüm diflideant inter fe ferip tOres, "a qua bo aliis poft cbum é ventriculolapfum, &anteex- ra exhiIhibiuonem alterius per "bus; alus cum cær ; aliis veró poft coenam per 'lhoram. Egofic cenfeo ; fi ex fomniferis fucrit 'Iwehementioribus, quale eft Philonium utrum- Ique;& recens T heriaca, pizftabit priorem fen- Ireciam fequi;ne coctio turbetur, et cibis admix- dra pom Apes at ' Cüm omnino medica- menti da fi in iss nullam nütriendi facultatem. habeant. Sitamen maxime necceflitas üreeat., Etiam à coena per horam concedi po (unt, v ipo- Aribu: s cibi fa cilius ded ucentibus vi m íomniferam üd cerebrum: fic horà fomni P ilulàs ex.cynoglof- Ilo aliquando propinamus. Si veró fomnifera. Kuerint leviora, aut etiam alimenti aliquid con- Mineant;aut cum:cibo:exbiberi potfu unt, ut emul- IMBiones feminum papaveris albi ex aquà lactuca, Iiolarum,nenufaris, et fimili m,.thvrfi latucze ffaccharo conditi; autfanc à ceená per horam,ut |lyru pus de papavere,.de nymp Pha ex aqua la- jd tucz:fic enim blanda illa cf fftumatio ex cibo Foi Wata nidiori illi, et aliquo modo fr ig1dz ad- à fiepenumet 'ó fomnum con o «mm: ^deratas 1llas vigilias ex fumidà, et t CX h d tres horas concedenti- 2ez4a. exhalatione productas; aut ex calidà et ficcà ce rebri intemperie factas demulcet, et íomnuma convenientem introducit . 40. Quotidianus tamen, et frequentior illo- rü nfüs,nifi nimius partis Caior id perfuadeat;fuSomifz- rortt Af45 frequéenor. eendus eft ; ne, dum cerebro fuccurrere tenta- efft i02 4€ ius; et illius fymptomati;aut contrarium. introedis ducamus affectum;aut ventriculi coctionem im- PR minuamus. 6- . b f^ f T n 41. Pueris parce admodum formnifera hec per os funt concedenda; rariüs fortaffe valentio- a;folent enim quam» ra extrinfecus applicand maximé memoriam labefactare. 42. Non priüs inanito corpore;aut repleto ni- mium capite;nó funtinufimm ducéda: contuma- vationem Ineptos » ya parcins $n pueris 2n ufu "m ducenda. Somnuife- ya repeeto corporeo, cesenim humores; et ad evac aut copi" peros fiexhibeantur, omnino reddunt ; fi veró: ,00» ^^ capitiapponantur. in comatofos affectus &gros minjir9 deducunt. somnife- VA d et - - f Mee) blanda evaporatione cibi meliüs officium iuum la * : ^ » E 43. Átenul admodum cænà exhobeantur; ut! complere quean parcat mole obtruatur. Narcotica o non Hàáda jn princi- turalis;atq; impeditur, ne calor fecbrilis quam- pio pire- primümex pandatur. xy[mi í "ode t:ita tamen ne aut coctio ci-j poff c0 A. que Pepe : Y bi impediatur à frigiditate, aut vis remedii ài 44. Cave; nein principio paroxyfmi narcoti-JsT! oss " «^v . A 0^ E ; ca exhibeas;ex iis enim fæpe fuffocatur calor na-4 In Coneelatione . . T IN catalepfi; five congelatione, cüm vi- r» carale- AA. deam Praécticos omnes ftatim abinitio ca- ;// coz- lefacientibus et ficcantibus uti;in errore«eos cmc- zs. cal;- :[ nes verfari exiftimo : cm enim in iis peccetma- Za ipea teria melancholica, ab eàque morbus is produ- 5?furen- '| catur;fi in principio; et auemento morbi calidis ^* |iis impense,« ficcis utemur,craffior reddetur ;'| materia, ficcior, et ad diffolutionem InCptior ; 'J pre ftabit igitur calidis temperate uti ; ac hume- Cctantibus, ut materia attenuetur, fluxilis redda- tur, ad evacuationem magis apta, quin ut per -J fenfum effugientem evaporationem difcuti ; et TJ evacuari queat; progrefTu quidem tempcris cali- diora adhiberi poterunt ; ad rcliquias materiz abfumendas,& intemperiem à parte auferendá. [99 quet 4: In catale. 46. In topicisitidem remediisinchoclocoace 5,7 7^ i; eÍ ns. : bft aceti tumnullibi 1n ufum veniat; tumne pauciquifü- : cet : j ]4g1e7»da., 'J| perfunt ; fpiritusexfunguantur ; tum .ctiam, ne ifatri humoris ficcitas, et acoradaugeatur. In Vertigiæ . i47. T Llud folum in hoc morbo curando obfer- Veytigino A vandum, cavendum cenfeo;cüm ex hu- 55,7, immoribus in cerebro contentis elevati va pores,& tatorias cin jexhalationes inotdinato motu, et in eyrum cied- capurpur ftur;fternutatoria non effe in ufim ducenda, ne- gia fagiz- que valenda illa per nares attracta caputpurgiaz da. quamvis enim aliqua materig pars educatur, xr1*3^ iIVII YÀÀ ) Qr (91S NA OlS, Cv icrfiam m j y "LA 2n pavoxyf 2320 0 CO catiendt. I bilepr:- / 1 £:$ caf ut Cot80" 2 4 uS nz Fi6€3Ais. ilept iEt €1$. "'UO62213M5 "72vEpi'epti- €15t pa"T v0X y[7720 liosu oot gon nden T». ea 0, ^ Ww fymptoma tamen fepe jJ E aceto;aut finapi;aut fucco ruta perfric: augetur, concitatur ma- .x motu fübito materie morbus isine piutatur. In Epilepfia . acet,quod [, "Ntempore paroxyfmi non pl tif Pu paffim à plurimis fieri video, qui fta 4 VU. corpus concutiunt,quin etiam ipfum caput : fe- u ad numreróenim magis recurrit ex eo mot pe lus perdurat 1nobftruendum materia, et di vafio. 49. Fugiant etiam, et omnino caveant, ne ; dum.turpitudinem faciei, et diftorfionem, ac fpumaumjoccultare tentant, capite, et facie pan- no cooperta, refpiratione liberà impedità, zeros füffocent. $o. Cave nein paroxyfmo vomitum provo- ces ; vidienim aliquos in invafione hocrentan- tes,ftriptorum quorumdam auctoritate ductos; przcipitem in mortem :egros duxiffe:ex violen- |, to enim illo motu, magis repleto capite, ac con--| citatà materià in cerebro exiftéte, ad perfectam cbftructionem faciendam deducunt, unde apo--,.i plexia fequi folet . «1. Vt mirificé placet in principlo patoxy--], finiori aliquid, et mediis dentibus indere ; ttj: hiansos effe poffit, ne lingua intercidatur; fpu--]. ma educi poffit, et palatum realiquà attenuan-], te, puta, Mithridaticá compofitione, caftoreo exu, " iti poffit; ita 1f ut Fw "RT iE E us Je VÍA ita lignum folidius 1mmittere nonita tutum eft, Í» penumeró enim inde excifos dentes vidi. Pte- ftatigitur facculum ex corio,vel ex craffioti telá, repletum. atrenuantibus multis, et validioribus quidem, finapi, evphorbio, caftoreo, rutà, aut ejus femine, et fimilibus, ita parare, ut illius vi- ces.poffit fupplere : fic enim et voti noftri com- potes reddemur fine illo periculo, et morbo ad- verfabimur. In brafei- $2. In prefervatione ab hoc morbo;hzc fitin- vatieze. fecandà venà cauti j»fiinftentacceffiones,nifiex 4^ epile- fu pprefíis menftruis ;aut hzmorrhoidibusori- P qu o)nem morbus fumat m uttendus erit faneuis ex gum bra- venis brachii (fs veró femel aut iterum, vere, vel. ^^"? » e iutumfo fipervenire foleant ; aut. hax motrhoides,aut menfes fint fuppretfi, fecanda erit veria ; in talo. aud s lud. quádo cx talo f^x- gai ?21Íf- tendus. $i ex aurà virulentà aliunde elevatà-ad. rpilepti- mel morbus fiat; nifi infignis plethoraid «iex an- perfuadeat,mittifanguisnon d debebir. ra tieva- $4. Cüm plerofq; videam; Aretzo,& Ttvieen fa » o0 nà duce,in-przcavend æpilepfià validiffimisuri "7742s medicamentis purgantibus, tum per vomitum, / "£5 tum per feceffüm ; ; egó longa experientà doctus Lys profiteorme numquam morbum hunc, in quo- quam per proprium cerebri affectum producti HAPE validiorib jus vomitoriis curáàtum vidiffe fed ex... :o 11s omnes ad deteriórem ftatum deductos:valc: üora autem per feceffi e cducentia aliqua: proi "u flec bfíerv AVl, nod ónon lta B EE uium ducta fuerint; à frequentiori epim eorum A CLLA L ufu, . L/D. SEPT ALII MEDIOL. ufiexhauftis fpiritibus animalibus,a poplexiz facpé concirantur . n yeéicia $5. 1n confirmata epilepfià per proprium ce- in capire rebriaffectum, fi quis derafis capillis, veficanti- eptimum. bus peruniverfumcaput utatuf, atque ad peri- epilepfie pheriam humores virulentos trahat, diutius ul- setsedié - cufculis cuam capitis infeftantibus relictis, ut perlongum tempus ferofiilli humores per ulcu- Ícula emanent, optime curationem irftituet ; contumaciffimos enim capitis morbos hujuífmo- diratione ctiam curatos vidimus. In poplexia. Ataplecii 56- Vamvis excrementis alvorefertà, non eis flatim fit evacuandus fanguis. perfectam ve- voittédus nam, ne ad venas crudi humores trafanguis. hantur;in apoplexià tamen, cum ex niorà confir- metüur morbus, quamprimüm fecare venam ex- pedit, fi abundetfanguis, aut rnixtus fit fan cuini humormorbum faciens. Apopleti $7. Quin fiindicatiofecandz venzadfit;pre- cis repeti- (abit repetitóid agere: fic enim neque refrige- £o [215 cA bitur corpus;aut vires imbecilles reddentur,& mitius. id obtinebimus» quod maximé exoptat Actius; nempe,materiam morbificam commovebimus. ;8. Concudiatur/ blandé corpus, perfricetur ^osdun Calidis, et potiffimumbrachium, unde educen- 25 pof; dus eft fanguis, ut et revellatur, et áttenuetur, emdum quicraffior perfe eft,& factusex refrigeratnione zu. adhuccraffior, facilius effluere poflit . |. $9. Neq; Ap oplecii £s COnCL- Neq; vulnus anguítum fiat quod aliqui- bus placet, uit motus diuriüs perduret, fed latum fieri dcbet; nam craffior cüm fit (anguis, ftatim, quafi reftagnat. 60. Venamifrontis aut pone aures ftatim ab Initio fecare quod aliquibus placet, ut quampri- mum prafto fimus, non eft conveniens, nifi pra- cetTerio univerfalis evàcuatiosfaltem per quatuor horas;admitti ramen aliquando poteritfi pletho rà non adfit, et aliqua fübfit fanguinis copia in, capire. que tamen duas non admittat fanguinis cyacuationes;. 61. In cucurbitulis in hoc morbo affigendis cauto fit, ne parti pofteriori thoracis applicen- tur, ne rcfpiratio umpediatur fed lumbis, bra- chiis,& fcapulis,quin et occipitio,& jugularibus quandoque venis. fed poíftalias ;& tuncomnino Ícarificare cutem fübjectam expedit. 62. Inligaturis-dolorificis non diutiüs perfi- endum,ne pars gangrznam incurrat; fed partes modo ftringantur, modo laxentur,;precepto Ávi- cene,ut et major fiat revulfio, et motus humoris. 63. Cauterium in commitfurà coronali, quod laudat Actus, et alii, nó anvltüm probatur,quód przfentaneum pon fit remedium, multáque alia - ^ E, Á € iam invehat incommoda, de quibus aliàs . 64. Praítat, evacuatione factàsneque nimiüm in exrimis rübefcente parte,cucurbitulam in ver- tice ponere, et repetere, abrafo capite, vel validum medicamentum veficas excitans capiti ap-, poncre, L "A bopledts ct$ dn fec da. vena vuln? fat ataplum . "A popleckt Cci$ "vena frotis qua do fecanda . Apoplectz €t CHCHY- éitula quande,et quomodo Abplican- da. Apot lecis Cis lgattt- r& QUALESo Apopleciz C$ CO MIC Ya? 1 Có mif[ura coromals nate. Cucurlt- 'ula rs/0 '"titeyvel mie adpoplect; €i qua quantitas €byfteriz. In apople- fitis vo- enitus fu- giendus. Antiimi- "minuta fa- £UODHHID. Purgátia frat ex va lentiorib. Gterzauta- toria qua do adinim Sranda. Ilo inuduo oibus ab ipabecillio v btts m "EE i4 Inclyfmateinjiciendo hzc fit animadver- fio; fiinjiciatur primó ut revellamis, et peralvü fübducamus, ea quantitas erit infundenda, quie id praftare poffit; et hociis obfervatis, quz aliás docuimus : fi veróutinteftina mordicanübus, et valenter excalefacientibus vellicemus, et dolorem incutiamus in dimidiatà quantitate 1nfundendum erit, ut diutiüs retineatur : quod fi diu- tius retentum tormina, et inflatimationes in in-« teftinisexcitet;balano elicietur. 66. Vonitus fugiendus;tum quód egerin hoc motu feipfum adjuv are nefciat ; tum quód, cüm fe erigere nequeat; potius fuffocar etür;tum quód in repleto corpore vomitus caput replere folea t. . Sribii igitur ufus 1n hoc morbo, potiíTi- mümin paroxyftx 10, eft fugiendus. 69. Sed valentiora tamen deje dtoriá d: xhiben- da erunt, ut paucà quantitate affümipta etiam à longinquis attrahere, et educere poffint. 69. Sternutamenta ut maximé ex ufü füntin., hoc morbo, et quidem valenuffima ; ira-non fta- timadhibenda;nifi priàs corpus fitinanitum .. $i caput. derafum oleis calidis inungen- dum fit; cautio fit ut à levi oribus priüs 1ncipia- mus, ad valentiora progrec lentes . 71. Vt veró diutius hæreant;ceré aliquid fem- per indendum crit. 72. In merin Chymicà arte in üfam: duücendis hec fit animadverfio: non iis folis t tendum efle », fed ipis me edicatis effe admifcenda : cim enim. ieneà fubftanua conftent ; 1n fuperficie pofita ftatini "9c on. dc RE d RU ANIMADEERS:. im diffipantur,& in halitusabeunt;nifi aéreis,&& 5/7; fj; oleaginofis quafi lieentur; ac coérceantur . In Paralyft . Pf. fed. oleis zneédicatis VAIXTA e ] 73 ]Ifi monet Avicennas, quem omnes fe- 7^fare^quuntur recentiores, in paralyfi in prin- ^ efle purgandi um, n ifi tranfactà quartà.; aut feptima. et netunc qu cos. validioribus me- dicamentis, quod etiam cipionon c habet verit cítn )ateria rs (lefacta, Iancas;cgt. 4- M VE TENUIT L] dicis in ads 4 promoventibu d fudcres movent, de e $9.85 - ha P X l 111 uberiorem bum bhuncvrinis rerentén 11 »^, ki 7 ; rt ptrs- exío) naptibusin deterius rvei é ficra-qucouc edi tím. mon vePe* A PEE tCnll lléXiolUutaà à Pa iltis, fudoribus autem : Queda m ! *noc et i €1l í Q4 d res ;craíffior mæis C1 "Iles. 5 cum UID lo obfervatum vi1- demus; jdtai nen,mée A (ententià; perpetuam non, : fv enim primà ipsà die accerfi- tus Medicus fv ici m nondum nervis impacta adhucin motu eft;dum nondum ;] otf Litmateriam quamprimum. e medicamento fatis va ve ai IC. Atu b )LJà m firmata f alvum fubduce- It; perfectéque obítru- ctionem 1 (€CETA; priüsattenuanda erit, et prapa- àm evacbetur. us comm ittiti r error paffimà Me- urandà,c um cmuffis urinam. lea rromptiüs accedüno; quz coctum Guatiati 'etia1n .Sarza pari- p nea artificia» alioqui eS 27 Nace wer doit InOr-,& ebundé pro- cónfcrtim. ma- A » a crat- autem parte callefcat, cxaf fiot f quando ab initio purga o Paralyti- €i$ fndors fera inu- ülta. roe LAYGUfI- jv, C5 dl ren i Paralyti- eis oleav$ fyeri ex oleis nimiümrcalidisj& ficcis,faltem folis; ?i$ Cali- dn mala. Olea ff:i- sata fola éputilia. Paralti- g1$ vera 115 utilia. Paralyti- : €i vubif- €atia qu do conve- PIAB? . Rubifican Ha guo ufque cuis adbarere debeant . Paralyti- eis cuctur- àiule u:r56 D. fior reddatur;magisobftruat;atq; difficilior red- datur ad motum;& ad'evacuatióoriem . 7$. Quà etiam ratione inunctioncs non debent periculum enim impendet;ne materia nervis ad- hietens nimis exficcetur,& la pidéfcat: quarellis femper pinguia mifceri debent; unde edat vis ignea illorum coercebitur;re exhalet, et diutius adhzrefcent, neque titium exficcando contu- maciorem morbum reddent . 76. Vtin paralyfi curandà aliquando vefican- tia; poftuniverfum corpüs' evacuatum, fca apuhs, aut brachusapplicat? debent, ut materia à cere- bro,& principio fpinalis ad extetna attracta eva- cuetur;ita rubificantia folüm poft illa& t progxef- fü temporis ( Avicennas trieinta poft dies iis uti- tür ) fpinz dorfi applicare convenit, tim ut reli- quias materia extrà vocemus fpiritus 1terum in partem revocerütus, ut ea revifaneuinémque dod 7. Cavendum tamen tenc, re rvbificantia e e adhareant, vt veficas, aut puftulas 1n cure indc cant;fic enim fpirittisa d partém non revoca- rentur;fed diffolverentur: có vfque foitur finapi- fint, dropacéfvectti adhærere quamdiu rubida pars prefía d1eito not fcd robida perfeverát. 78. Cucurbitularutmufaüm quàm maximé com mendat Avicennas' poft ex purgatum corpus, ca- pitibus mufculorum partis labcrantisápplicitaé permittendi fint, n albefat, &,qui,- rum finefcarificatione;nen quidem ad extrahendam ."E 4 LOT oe Jnireda, o eas aa SER: intus eos f nnm ANIMADFERS.]. :3€7 ; dam materiam morbificam, ut cénfuit Geritilis, dot: qus fcd ad evocandos fpiritusad pártem fere demor- texas ap- tuam:quod ut obtinere poffimus, animadverten-P/ieanda - dum, cucurbitulas angufti oris effe debere, cima multo igne effe applicandas, ac divtiüs non effe,, permittendum ut adhzreant;ne diffolvatur quod ab iis eft attractum. De C onvulftone .. . Y N fpaífmo; motu irruentis materize ceffan- Wie : v . es CHC tc, ut cucurbitulze mediis mufculis affixze, ^4 rhitie p ome "- la quado, et fcarificatz extra ufi m funt ; ita cavendum eft, ubi af 3e f£nibhns mufz Wr "n ! -- 5 bnious muículorum ubi tendines funt, affi plicabdá. gantur. $c. Addit Aretzus, in illarum applicatione.» e 15], Cucurbi parce ttammam excitari debere;nam que à lab cucurbitz fit compreffio.dcloris,conv auctcr efTe folet:molliüsi adhareant. FIS (ule i ulfionifque jj; fms gitur trahant; et diutiüs qZo zppl;- canda. Cavendumetiam, ne pars fübjecta; detra- Ceci Cus cucurbitulissfrigore tentetur; pars enim rare- '/!!s faé- facta facile frigido a£re admiffo riecret. latiss p^ $2. Cuftodiendzautem quàm maximé ab am- ^um biente frigido partes, que calidis balneis pro- visis xime 1mmcrfe fucrint ; qug perfricatz, quaii gatz,que deniq; dropacibus,fina pifmis;aliífve » ingeniis ad ruborem deductz, au nes calr- t quovis modo 4j, foe rarefacta; quód nervis frioidit aS fit 1nimica, ma- zz. £eriamq; convulfionem facientem craflefaciat. $3. Quapropter etiam fupervenierte füdore» ossis L. 4 cb dofe fador.fu pervene- rit, quid agendum. LVD. SEPT.ALII 7MEDIOL. ob doloris vehementiam ; maxime obfervandum erit ; ne mador ille adhæreat ; néve frigefcat, fed omnino abftergendus erit ; fed ne rneatus 2 aperü frigiditatem admittat ; Béve effluens fudor virtutem exfolvat ; calente aliquooleo partes erunt MelZcho- licis :pur- gantia li- quida ma gis conve 9UADE S Cuando "altéAus fangnis 5, et qua do fappri- auendmus, f(E9A JE54, ttnhá . delinienda blandé. In AM elanchelia . Vamvisnon negandum fit,in hoc mor- bomedicamenta, qux exhiberi debent ad evacuandum humorem, füb quà- cumque forma concedi pofle ; veriffimum tamen 94. -eft;fi liquida gunntegekuss multó magis utilia effe;necin omhibus ufum pilularum admitti poffe, Ob ficcitatem melancholie; quamvis contumacia materiz ad eas nos revocet : nam robuftius agunt combinatà vi,diutiüfque in ventriculo hzrent; et vehementiüsà capite prolectant . 8:. In miffione fanguinis per fcétam venam, quamvis fciam, plerofque Galeni au&toritate in- nixos hac uti diftinctione, üt viribus confentien- tibus, et morbo masno facto, fecetur vena, « fi ater fanguis effiüat;educatiür ad debitam quanti- tatem ; fin fübtilis, et rubens ; ubiad tres uncias effuxerit; fu pprimatur: petpetuo tamen ho cfer- vandum non eft; aliquando enim aliquà datà oc- cafione, cüm ca perit morbus 1: sin cerebro ; opti- mo fanguine exficcato, fiin univerfo ab undave- rit fanguis, et torofz fuerint venz, (aneuífque in iis nüllam conceperit labem,;fed copi fc làm pec- cet MÓ M -ANIM.ADFERS. FT. T cet, fecanda quidem ierit vena, et fanguis,ctiamfi fübtilis, et rubens effluat,omnino in debità quai titate erit evacuándus, ut revellat à ca Dite, 1m- pediatur, quó minüsin nleram bilem vertatur, aut melancholefcat. Galeniieiturfentengia ve- « "P € ra erit ; ubi non adfint fiena verz plethorz ;tunc D Y, enim pro revulfione expedit fecare venam, et f1* n iorum cundi videris nus,Cümin venis mænis í abundare nierum fanguinen n viderimus,cfflu cre finemus; fir veró fübulem, et rubrum, fiflemus : quod p« otiüs: i ptus fit imclancholicum fanguinem in fupernis exiftentem attemperare, et ad benionain naturam revocare, QCoffa 7 r D Ss $474 U y Leute ru ED D e 2 Y eR ET iunt 56. Foramen tàmen femper amn»lurm fit, ut, fi, i i CIS nA210»T2c* In craffum faneuiném incidamu: s,prompte efflue L3rbabess mw». cH i Ab. re pofht;neque tumor circa fciffuram excitetur. Jit ampla. M e OW *K»TS P T714 ^ y ad. 3 m 957. Admonendus etiam eft venifeca, ut difle- Fzz4547 A5 ven: TP 1113313 7? 3 ^ * lc la f 1^1 T Veto v wap Y incutu 111 mi iquai [a im ud AVL ;Lh€ Crai- vintuli $ fioris fanguinis effufio impediatur. incifa ve- 24,0 me hne f ÆS 2L antLeli- In Epipboi A "IZ C6 p10J0 ad oculos bur u22101- lancholi "hn . * 4/4 ATtflt1 4 C$ e Li ^ 3 Au LJ PUER MMPEAMCTOCNGI TEMOR b epibbo- $8. Vamvis, cumocculi fluxibus humorum. p? f fle : " cenfherir Cial D 2 4 fA0Culort -4, tententur, cenfherit Galenus nmm 6.2d- qni, "we Db0or. 21. Efi 13« AM eb. tilt. ob ad- t "mn " X ) X FIDUS tete) bd d^ 2d dd d í AAA VA-LL4t wr LER, NEIDRU- ftrinzenuum ufo effe abfipendum ; 1n epiphoráa gz As uet y ". : I E ED tamen multoófecus faciendum docet; poufimu "1 -- ^ TR we ^A^31 E " Mood 441 EU in Lema Oo:cumenimailiuxus nuimorls iit €exC» uy). P Re 014115, Ct" In fluxio et materia in Intimioribus recipiatur,& ab exter--| sibus alii; nà tunica quodammodo repellatur.aut faltem abi] ad oculos cà nonadmittatur, cui aqua ex rubi fümmitati- abitinen- bus, ex foliis teneris quercüs, ex fragis, et (imili--| dum 45 ' bus, vel compofitis, aut ferrata convenit :at ad--| «dri»? ftringens ficcitas numquam admitti debet, ubi]. QÓAS. C conmimaciorem et folutu difficiliorem efficiunt affectum, et fiepé etiam actioni visüs non leve af- ferunt detrimentum. 99. Notant recentiores viri doctiffimi, et poft multiplici experientiàà me comprobatum eft, in i Via 9laucis ocu l1s,ubi etiam vene ampla confpiciun- agbla i, ; 'ü f mitioribus remediis agendum effe, quod forG'anmcis 1 "Herila, affe magis fint pervii. agendum.90. Mafticatotiis,&a pophleegmatifmis uten- In epiplo dum.eft potius, quàm errhinis ; quæ tamen pro- va errbi- grediente morbo, et frieidà affluente materià, ?5 ra^ modo validiora non fuerint, in ufim aliquando venire poterunt: fic enim averfio materie fietà æatibus canthorim oculi ad nafüm. 91. À fternutatoriis cujufcumque eeneris o- mninoabftinédum: impetu enim propulfa mate- cul»us LTiàà Cerebro per nares, et pereofdem meatusa poii; f, 9010s promovetur,& ab internis, et meatus ma- gis aperiuntur, *, 247 t2au» SK FA dita- dPor:a $9 v gten ida» - humiditas ad internas tunicas, et intra corpus; p^" T A In Opbtbalmia. . Y N. muliebris lactis ex uberibus recenter emuléti;aut ftillaa ufüad demvlcendum. vehementiffimum oculi dolorem, ut principem, ; locum inter hujufinodi prefidia femper obtinuit; ita cautio adhibenda;ne eadem lactis portio diu- tius parti àdlizreat: fepé enimab zftucc rromp- tur, et à vehementi calore oculi acrimoniam ccn- Cipit;abítercenda Icitur blandé eric, aut novo la- Cte afperfo fn bluenda. 93. Opiinfusin inflammatis ocvlis neque fre- quens fiGneque multus:quamvis enim ip eo prz- valeat refrieerand! vis,cüm tamen amarotis non- nihil habeat, fepé mordet, et dolorem adauget. Qiód fi ex longiori morà prevalente frieiditate fenfus torpefcit ; et fübinde dolor imnünaüitur, tum et per frigiditatem temperatur zítus,craffe- facto tamen affluxo humore contumacior reddi- tir morbus, curatüque difficilior ; tim et visüs actio hebetior fit, vt etiam Galenus cbfervavit, 3- Meth. med. c. 2. GO" 2. de compo[. med. fecundum Mocz; c.1. 94. Obquasetiam caufss rejicieb IAM etb.med. ult. ea,quæ vehementer Jeuamfirefrigerent, et re Imibus oculorum,utaca t'Gat. J rineunt, ellantin inflammatioad [0 I ciam, et hvpocyf ^ tin; n6.» fiuxit,exituü p EN "T (31*5 ITOnlmateria morbifica ; qux eó in lbeatur. 9$. Et quemadmodum remedia in hoc morbo ILeni: Ha effe debent;ita ullum lentcrem ha- bere Laéle ent liebri qua cauttone utenda us obhtbal- UMA e (N n TWIA 06H tbalmia Obt! nfus 2e9u fi 4 Lj guens, 25€ Qt mult» $ Is, Adífrtn- gentia va lid 1 op L thalmia IL. gie da. Leztortn LabentiA bereoportet, ne pertinaciüsadhzreant, néve, fiij epbtbal- 2 xulvifculum aliquem ex pompholyge ; Cadmià, 3C IH- esindda plumbo;adjungamus,arefcant, acrimoniammye.»] vel ex admixtione acris humoris, et calidi adíci- pun Allami- fcant: Quare licet albumii naovorum diutiüs cone--jati Poi. quaffata cum aquà rofarum, vel my illnm Mis fondi va- velfimiliunr, .acípuma yes atq; iterum detra--] i4 :io, € cZ. Ca, maxime omnibus pro "bentur, acin ufum du-Joniic qu2 c4- Cantur, cum tamen tenacins, adhereant ;ut huic "pene * . incommodo occurramus, foleo ego ovum recenssit: ad duritiem quamdam c3 «coquere, et detractáil Andes - flavà parte, per expr effionemex albo aquam ex-4» 1 - 4 À trahere et i illà uti cumaliis; aut fané in loco cavonlile mA UE EV Ta cc iari albi, tutiz, et aqua rofarum por rtione P impofità, in modum cementi ; per duplicem pe-tam expref tione fact, aquam, fuccümve extra-y DESEE o BB li TRE tisocults fine moleftià, &9 maximo cum. fructu utLfolco . ! pios Cod æreis cum Gal. 1j: ELS ) Emplafi jb onmbd.22. emplaftica um vimchabentia, et refri- fut eis in eph cerantia in lHippit udine conyc 'nire., ut diu itzusad- d.) tbalmia Y ereant, loi |gtoríque te porc refrieerando re-Jio pellant;ubi potifimim: iit ophthalmia fit ficca «Jio. aut humor effiuens tenuis;necadharens; ubi vedi rÓ vi dior fit, et mordens, füpcriorem cautio- nem adl übe bin BIEN FH: a9 Obf: Van zu pratercà, Galenum e MEM eb nti»dü - AMeib. xit Ad de coni of. med. lecundum loc... 2 em itpitu interlenientia do lorem in oculorum infian ^E 3n dine, nog tione, cumalbumineovi,& lacte collocaffe deco feine. Cur. de xnu iugraci;id veró plerique Medici paranij ex fek i1 1T S 1 Gianao utendum. 2 x femine; cüm dn mm id mæis fit ca idv mi, nuam conveniat in oculo rum inflammatione »; [um calidum in fecundo gradu, et ficcum in pri- jJmo pofüerit Galenus femen 8. de fmpl. »td. fa- ^ s.d ind. affumi ieitur pro parando hoc decocto ad fc7147 YA Jrendos oculos debebit herba pía, et ejus folia, AS Mond A ilioqui augebitiir inflammatio. v 98. Quinimo in illius ufu hecfit cautio ex Ga- Fzzugrz- enoibiderü, nein ufüm ducatur, nifi priüs ab- cz a&/sen uatur diligenter-; ne pulverem admixtum ha- dum ante |beat; femináque etiam erunt excutienda : sícque 244 Zeco- Iromimunem errcrem - E^; to 99. Infinita propemodum remedià, aquas; |ptilveres ;&alia; cum videa im& paflim pro )jpe- 1l 5 et fcrib! ) placet iili ud h MC pro CaUutloneadnc- i 4ÀAC ; quod 1 Goctrliitno Mercato lib. Iu Jepii: Aii orb. curasi. c. 30. fcribitur . In oculorem curat M vilia ad- ie animadvertendum, quamvis pluri rima pra dpieiited lcripra fint remedia nono '5, àut plurimis j aut femper effe utendum 'Serim boni promut- Jtunt; quàm praftenr, ut a1 G ;alenus . Scio profe- I5, pl ures inom 'dam cocecit atem ded " Ctos piles "vo Í^ p(le copia mdalium um potiüs, quàm defect tu 3 ex Attn Jnequeunt enim ocoli ; quz. proficua fant, citra: Jdamnum perferre; ide Le quz inordinate; et ci- Jtra rationem adhibentur rco. Iníüuffufione perfectà; quam Cataractam I» eatara barbariappellant; curandà;4 aci removendà, 4a oculi drautio hzc adfit, ut niinauam tali cutationl ma- 464 rere inum admoveamus,fi tuffi xoer laboret. Si e- ve742 &o. Ph l1: Planen sleid SZICLA dina stes deed TE PTP RENS. FEET inim acu introducia Íiupervenerit ; perf rationis $ LESE DCIlCll- jexicu ide E Go CE "P A E, x T" ZU cdet ubl CENT AN e E -m w4Ot-periculum impendet: fi veró tunicula depreffas ju: Bre Ciesa, ex.concuffione veheméa dimota recurrit »ut WA.- Sternuta- gneuto 1m pediente ; 90 1705?- dirtpoji. Catara- éfa, ante- quam aca cp 1- "TP quid cavenda. Auribus. fS x si fim - 2106 labo vYaOAIlibus 'Ui Cone nin! . ror. Si veró jam deprefsà fternutamentuma,u( immincre zger perfenferit; unde aut recursüs pe--$io riculum immineat, aut inflammatonis in oculo s; «ri fummitate dieit dextré majore oculi angulo có-- oui preffo, et perfricato, periculum hoc evitabit im- do pedito fternutamento.. Quoniamante curationem hanc per acüs fuii Medici fe pius ut periculum faciant, an fatis in--] i0 craffata fit, ut actioni per acum factz cedere pa- jeu rata fit fine ruptura ; digito pupillam compri- Jii munt;cauté id facere debentne fi valentiüus id fa-. fis: ciant, nimis tuniculam attenuent, facilémq; red b; dant ad difruptionem. Cautiones ip " MAurium morbis curandis . N. aurium internà curandàinflammatio- |». ne, à repellentibus,& oxyrhodino abfti-- nendum omnino cenfeo ; cüm eniminternarumb. |... cerebri parcum repletarum foboles effe foleattk c. materia eó detrufa, fi repellatur ; ad prinapemos.c partem remeabit,& debrium quandoque pariet, kr... aliquando veró alios cerebri affectus... Quód fij... Galenus, 3. de compo[. med.[ecundum loc.xepellene-... tia, et oxyrliodinum in doloribus aurium ; et 1n». |. inflammationibus earbimdem cócedere vifus eft j,5.. id intellizendum potiüs eft de phlogofi,quàm de:j verà inflammatione. Si tamen non magna fuenit;;| atque non multam in particulà,& cerebro fübeffe:| materiam cognoverimus, repelient ia aliqua in ifum venire poterunt . 104. Qualiacumque tamen hac fuerint; qu. 5,5475 "lid leniendum dolcrem, et refrigeranduminfun- 44,245 "entur,edamfi xíftus maximus in parte fue nt, applicita iumquam frigida appli licari d lebebunt ; nam cuüm a4 æm 'Janguiais fint expertes aures;facile ad fibi co 'gna- fsat frigi-. " am intemperiem frigidam flecti poffunt : tepen- 44 3a 1gitur fenpercum Galeno adhibebusm. "y tof. Quód fi dolores contigerint à frigidà ma- /?, «urs 'erià partem extendente, qua actu calida funt, et 4^'»r/óws "potentia omnino inftillabuntur : fic enim et fri- pu ridam intemp »eriem evincemus, craffam mate- ume iam magis difcudemus, « penetrationem adju- lvabimus. Loth ind 106. Intinnituaurium à lue Venere, alioqui 4ucezds. paturá fuà rebelli, et vix fanabili, cauti fint Me- Tionieui lici; neque vehementioribus remediis utantur : asm one& enim experientià obfervavi 1ma]jori ex par- f« morbo re;dum tinnitum hujufmodi nimis cbftinaté evin. G?^"t? rere tentàffent, omnimodam fürditatem induxif- "" ie. Siquod autem remedium illi auxilio eft;uri- 1a afini,jn quà per noctem maducrit lienum. porem X pont] caftorci, et mentaftri fafci-,,,;,, Ifrulus, diftillata; et auribus inftil lata,aut per eva- ex »ior£o "dboratorium excepta ; maxime 1d praftat ; aut Gallico e Apleum Gvajacinum eoffy pio exceptum ;4X auri- modium. pus bon nó . ! calefaci éra nó ap- plicanda. It221t43 Canter CO0YORA li fatuva 1 catarrlEo Pun. ., j De Catarrhbo. 107 Vamwvis optime fciam ;.ab aliquibus etiam praftantiffimis in arte 1 medicá viris in catarrho curando cantera proponi inurc ndaad fituram coronalem,quo lo» co illi committitur faoi Ftajits ut et caput expur- ectur ab excrementis,& ab infernis ad fupernas, et extra corpus cadem revellantur : quoniam ta- men vix greg poteft, craffiora illa excrementa» aícendere poffe, afcenfa vero per futuras permea- rc; vcrifimilius autem eft, externe producta per cas deícendere pof dn omnino re ejicienda,& 7 ab ufu inedico repellenda effe videntur ; quod enim ali- qui (ibi fingunt tfufpendiyintercipique materiam, ne ad pectus fiuat, tidia ufum eftzquo modo enim fufpendi queat ; quod graveeft, nullo retinente ; ne mente quidem concipi poteft: cüm veró hic neque occlufio adfit vafis sali icujus $, neque delica- tio, aut CO Vii lle nc iba mor intercipi dici poteft. At veró nequetxev d eft,cüm nul- 1a fere fit diftantia latera í zuleiteg E enim denudato cranto periculum nof : neque derivatio, cum hac adl]. i&t- qiaminniius t cjuseritufus. Atabufuss]. cognofcat ? ? quis adufto pericranio fecuritatem.s] pollicebitur? quis 1nflamm: interna periculum non vereb! ibi men ibas T externa cum inter "nis per nervos, "2 D 1 T^ "£/51^*vrnmt c 1^5 (^17 dba venas, perat "V Ci pericula viíà 2^ doc ntanum.Coz[ilio 36. pro atio nls et externa, Itür;aduíta parteis. eria: sjunguntur ? Atl :2end: met. io; ob multa» pro Nobili Veronen[e 143. C" 170. Hieronymum Mércütia lem zz T omo 3. Con[iliorum; [aptus, 8c poft omnes Fabium Pacium,z eruait:Jf[imis Com mentaris in lib. Adetb. med. lib. $. cap. 13. 9 "Appendice ad lib-7.omnino genus hoc auxilii de- teftatos fuiffe. Ego veró libere affirmare poí- fum, me quadraginta horum annorum fpacio s quo in magnà hac vrbe medicinam facio, nul- lum ex iis quibus cauterium hoc inuftum eft,vi- diffe à tali remedio adjutum, fe d aliquos etiam inflammatione in parte excitatà effe periclita- tos : potiffimüm primis annisjuventutis mez» quo tempore aliqui adhuc ex iis vivebant ; qui barbaram fectantes Medicinam, frequentiüs Catarvbo senus hocauxilii in ufum ducebant ; fed fübfe- ad pulmo quenti tempore, Medicis fpe fuà feaitlitia fa. "t5 et tho piüs,exoleícere tandem illud, et pofthaberi me- 74/0 1r I1to CC pit. Vente s 108. Vbiad pulmones, et thoracem, quin.Mam et ad fauces irruit materia, five tenuis fit, five lofr, craffa, eargarifmi numquam 1n ufum veniant ; Gargari- ex motti enim attracta materia fepe fuffocatio- fmata fa» nis infert periculum, . Quin et ubi partes fpiritales jam reple- tx funt materià crafsà, à uad abftinen- dum ; cüm non leve inde fuffocationis (ubfit pe- riculum. IIO. Quód f fi homo tabi; aut afthmati obno- xius fuerit ; idem genus auxilii fugiet. Iri. Solümtuncconvenient;cüm fluens ma- teria acris fuerit ; et autexulcerationisin parti- bus M gienda, ve pleto bo- YaCe . Aft bmati aut tabi chbnoxis gargorifmmaf fa 451 . Gar, ear ft ^5 ; eatarrlo. bus gule,aut aneinz periculum impenderit 5 quádo con t&ncque et blandé id erit preftandum ; et addi- veniunt - tisrefrigerationi adftringentibus, Catari Y12. Quoniamaliquos effe fcio, qui, ut con- non [ft^ timacem, et moleftum morbum brevi tempore di narcc!i (e curate poffeoftendant, ftatim nullà urgente» 5» ?7^. geceffitate, ad fiftentia. catarrhum accedunt ; $OAgDA HT nA a 31.5 : TET. d CV. Juste ue Theriacam novam, Philonium, pilulas ce cy ecffitate. nogloffo, et fimilia exhibentes; animadverten- dum erit, iis uti eosnon debere ante humorum expurgationem, et revulfionem;tunc neque fa- ciléad hzc veniendum, neincratfata materia, óc refricerata, fi diutiüsin cerebro contineatur;ce- rebrales aliquos magni momenti morbos pa- tiat. Ad earamen erit veniendum, fi eravia ur- ceantfymptomata, ut fiita effündatur humor in pulmones, ut graviffimam tuffim, metum. fuffocationis, exulcerationis, vel rupturz vena, acerrimà viafferat; tunc enim miffo fanguine, fi opis fit, vel enamillico, et ante purgationem fiftere licet hünceffrenem motum. De Zdngina. PM Voniam in hocmmorbo miffionem quii, loboranti dem fanguinis per fectam venam o--] bus que mnes neceffarium auxiliumeefle fa--], vna [it tentur, fed in loco deligendo variàffe video.aliiss], ficanda. ex brachiis femper emittendum cenfenübus;.f aüctoritate Hipp. 4. de vif. acut. 30. et quodi] fecti$ in brachiis non folum univerfum corpus:| prom- proniptiüs evacuatur, fed fimul.eiiam non pa- rum fanguinis à faucibus revellitur:alus ex par- tibus infernis, faph hanà, vcl e.- venàtali, quód fluentem fanguinem in fluxio nis initio non ÍC- lum ad contraria k ci laborantis, fed et fontis transfundentus, «x ad OM i regula à Galeno tradita revellen dum eíle OQ (tendant : cum.eitHr laborans pars fit collum, fons'autem transíun- dens fit jecur, pracipua íanguinis officina ; fi fanguinem miíerimus (célis venis 1n brachio, tantum abefi ut ad contraria fanguinem retra- hamus, ut po ;tiüs ad partem laborantem av Oce- mus: vena fiquidem cava indelata in duos ra- mos fcinditur, levium, &.dexuum, qui in jugu- lares, et axillares dividuntur: at à jugi axbus externis lary n91s v afa ortum. ducunt . Sanguine joiturex vei nis brachii tracto, certum eft, ad v e- ias juguli edam trahi ; sicque potius morbum. augeri, attract o fanguine ad laboratem partem, vicinià., et inflammatione fanguinem trahente In hac controverfià ceníco ego,on nnino animad- vertendum efle, an Corpus mk iximé affiuat fan- cuine,five natur " mies ibanteactam vita mfive €x folità ali iquà evacti tione (up p reísà ; tunc enim ce níeo; f inguinem velex vena pop nus; vel malleoli effe detrahendum, eàdem autem die, urgente morbo, vel fequenti, Jecoraria, vel ce- phalica erit fecanda ; et fi non cefferit morbus, rübor autemadfit faciei, amp »liüs etiam venicn- dum erit ad fectionem venarum fub lingua Á Quód fitanta non premat fanguinis cop la, In- M a Ltaci1s Mani om M tactis venis inferiorum partium, przftare credi- derim, ftatim cubiti venas fecare; moxq; ad fu- pernas incidendas accedere. Inamgina Repetendaautem et ex brachiis fangvi laboranti 31s miffio eft ; non folüm quód mæis revellat; &us iteri- minüfq; vires debilitet ; fed quód obfervatuum, da fa? $*i 3t Ce pius ad partem laborantem affluxus novos zismf?- Geri. aut parte aliquà ; ut onere; quo premitur, levetur, transfundente ; autob dolorem, et ca- lorem laborante parte attrahente. . Cümautem aliqui ex moleftià medica- Wrlires mentorum, aut quód naturà medicamenta ab- potias dà horreant, facile medicamen ta evomunt; preftat da, quà lemper potione uti, quàm bolis ; aut pilulis : fi in folida €nim- contigerit pilulas, aut'bolos evomi, cm. foma. conferüm, et magno impetu ad anguftias op- preffi ab inflammatione tranfitüs propelantur, fuffocationis, et ftrangulationis periculum non leveafferunt. "ngincfis116. Quiad difcutiendum ininflammationi- fæculi ex bus. aliarum partium ex arentibus pulvifculis difcut:éi parantur facculi ; inanginà numquam in ufim., &ns mali- ducantur, quód denfando externam cutim po- tiüs curationem impediant ; humentibus igitur porius eft agendum. r L) A notpof[rs De Plevritide. qa slewi-. Vamyvis in plevritide curandà fectà [ ^ . vide, dolo- venáà,majoriex parte exfpectanda ve deften- fit coloris in fanguine mutatio, €x Hippocratis et Galeni precepto; 2.404f.10.mO- dente, $5 .dó eger ferze poflit ; ficenim et antecedentemo fa»guizis inflammationis c: .ufam avertemus, et conjun- miffone ctam amovebimus; id tamen p erpetuó,autin, 79 e5 exe qu l'àcumque plevritide obfervandum non eft: fiie aliàs enim docuimus, fervandumid effe;ubive- "975 pa; quz fecatur, proxima eft loco affecto : pro- "P! prereà dolore defcendente, et infimam thoracis partem cccupante, talis non exfpectatur muta- t10: nam tales partes, ait Galenus,nutrimentum fuum bauriuntà venà füb corde ; et cordis par- tes nimiüm Inaniremus, antequàm fanguinem. infiammauorem facientem evacuaremus . ! Quin necfemper quidem in plevritide Neg. viri« partes fu€rnas occu pante 1v itti eó ufquefan- bus debsli guis debet, quó coloris in co fiat mutatio : fepe ws enim dum coloris exfpecta mus mutationem, Vle tales vires concidunt ; nec zger valebit ea € pe- ctore vacuare, quæ aut refüd: int, aut diftupta Vomicà in pu Imones defluxa collecta funt . ; . Etevenit etiam, ut, etiamfi vitales vires Ne; ime confiftant, non exfpedtari poffit ulla colorisin, P^per- fanguine mutatio, fi infederit loco firmiter fan- "!/^"$4- guis, et in denfiorem membranam infederit . dn . Licet plevritidis curationem primo ten- tandam docuerit H1pp.2. zest. fomentis, ut; an iis curari morbus poffit, tentemus, et dolor miI» blevri- tide foti- |bus quan tefat;idtamen neque femper, neq; in qui US doueer- plevriuüde, aut in quàlibet corporis conftitutio- 44, ne,autquovis fctu praftai poteft ; fi enim Jam qwinus morbus auctus cft; aut v ehemens cft inflamma- M 3 to, CZ tio. &dolor; zftüfve magnus, aut corpusimul- to fanguine repletum, non alio hujufmodi re- medio uti licet; quàm aquà repente ; ne 1na- jor eftus ; dolor ;.aut affluxus materie ad lo- cum fiat. 2r. Át magni etiam in iis fotibus; qui ad nzo1 4emulcen dum dolorem in ufum veniunt ;adhi- x a. bendis cautione opus eft: fi epim ad fupernas t^, fons DATUES pertingat ; et verfus claviculam ) dol lor, ftntbug; €um et materia acrior, et maxime calida effe ; di. foleat; calidis; et humidis actu potius res crit uanfigenda : fin ad inferna. vereat dolor,qui Dolore 4; €tiara nonadeó pungeriseffe folet; quiquencn, Jeendetey ]eveus flatuum copiam adjunétam habet; ficca, f«ti- . ediaminufüm duci poterunt, et fané commo- dius ; attenuant enim máagis, exficcant, et di2e- runtzex humidis autém attentiatur quiden )ma- teria, fed crafliores flatus ex fimili materià exci- tad non 1ta commodé difcüti folent. Sarculi fo ^ 122. Sicciii fotus, üt ex i ii lici materia vétes [jg parari folent; ita ea mæis prefertur, quz levis lv, lit5 ficmilium ceteris prafert Hippocrates, pa- nicum, furfures, femina, et flores diftutientes ; : falis autem etiam portio aliqua ob exficcatio- nem hcet admifceri aliquando poffit, minus ta- menilhus addendum. quàm folet, tum ob gra- vitatem, tum ob àcrimoniam. Mirfeeg 123. Quod fi ex fotu etiam dolor mitefcat ; zé dolore, DO proinde tamé ftatim evictum effe morbum ni flatipg, Cerifendum erit, aut à eenerofis remediis ceffan- &[iia- dum,puta.miffione finguinis;fepé enimad pri- mum Ix plevrt ! M À bum, paululum etiam tuffis fuperfit, et corpo- ^7 mee | risadfitaliqua caliditas quz aliquando magis jr infcítet ; quamprimum dandam effe operati; ut.que reliqua eft; materia difcutiatur;aut enim quz relinquuntur recidivas faciunt, aut ad füup- pes ohem convertuntur. EU 26. Non fünt hoc loco pretereunda preftam.,,, [9 iff ma duo remedia, qux doloribus iis laterali- bs SM UL busadco uulia effe cognovi, ut multos, qui j jam p, "aflanti PN jam fuffocari videba ntur, ab hujufmodi pericu- 5»; e lis exemerim, Primum eft;fi poft miffü i hdariz gi hui A : mum fotüs blandimentum mitefcit in phlegmo- 4^» 4 ne dolor, quód pars tenía laxetur, fed revivifcit veris re- mox ardentiüs, novà affluxà materià : quare.» mediis. fi et febris, et fpirandi difficultas enam perfeverent, non erit cunCtandum, fed: affluens ma- teria quamprimum crtit revellenda. I24. In hoc morbo maxime pleriq; qui Me- Exrerzis dicinam P rofitentur, arcana remedia promu nt 7o indifiz externa, interna : in externis nullum committi &e æde. poffe errorem omnes fibi perfiiadent, unguenta cx dialthaa fubuli;/butyro veteri,& cumini pul- vcre patant; alii ex calce, et alus cerata, &cata- plafmata ; alii ex pice, et rebusaliis quàm plu- rimis calefacienübus, cum zgrotanuum detri- mento: cavenda hec maximé erunt, potiffim üm In prin C1p10 ; calore enim fluxiones concitant atq; humores trahunt; alia veró prætereà etiam Iaxant. 25. Obférvandum prztereà, quód optimé !»/Ievrisi annotavit Aretzus, fi poft devictum hunc mor- ^5 relige M» 4 guinem ouinem exhibuerimus tres uncias mellis ro f. fo2 lutivi, et tantumdem butyri recentis ; quód fi etiam progreffus fuerit moibus ; .diffcile autem füppuretur ; aut difiuptá vomica «gris pericu- ]umimmineat fuffocaticnis,maximé etiam cone 2. feret .|In eumdemufi:m feliciter utor quinque 1! unciis olei aínvedalaru m recentis, cum uncià . Hil unaàmannz. |In: eumdem ufüm duco infrà fcri- eu ptum : Recipeoleiolivarum optimi, et maturi unc. viii. aqua fo ntis lib. 11. excoquantur fimul fine cooperculo.in vafe terreo vitreato, ad con- fümptionem totius aque, et póft olei illius unc. vii. dentur, dolorem mitigat ; fuppuradonems adjuvat, alvum blande mollit ;acnon ignetcit ; autin bilem vertitur. e Suppuratione . 127. Vn fuppurati ex difruptà vomicà vix alià vià recté expurgentur, quàm per gar matis tuffim fcreatu, non multum fpei in evacua indà siad Mo. €8 materià peralvum reponere debet Medicus; dice p al- quód ope Medici hoc vix fieri poffit ;. praftat vnm ex-- 1d quandoque natura, quz nobis incompertas furgari, vlàsinvenit ; et ad falutem zgri ftruit ; audacis tamen potius eft officium,cüm non per alias vias excerni péralvum poffit, quàm per cor, et jecur fibi tranfitum materia parante, quod periculi plenumnezotiü femper cenfi; ; fyncopen enim, dum per cor tranfit, inducere poterit: cüm veró euam heparattinget, et inteftina, et dyfente- riam 1» emt" 252416 n0n n M tiam mordaci vi concitabit ; et fanguificatrice» hepatis facultate lzsà hyvdropem faciet. Salu- briter id quandoque à naturà tentatum fcimus ; id Arctaus teftatur: et nos in purulento ex plev- ritide jamjam cx füffocatione moribundo vidi- mus in Mane hoc Valetudinario, qui cüm phlegmone laboraret ; et propemc dum ftrane eularetur, (isdores: jam frieldi adeffent, 1ivefce- rent omnia extrema, po tiffimüm fa cies, fubito alvi flucre fu perveniente, maximà fanici copià effusa, brevi rem ipore conval luit:raró jieitur cum id faciat natura, cüm eadem nobis incoenitas vias fibi ftruat cum p rxtereà non fit pet loca convenientia, omnino ncn erit imitanda à Me- dico ; poti iffimóum quia, fi leviori pureante ute- mur, noxii nihil evacuabimus; fin validiori, vi- res imbecilles reddemus in qu ibus fclis falutis fpes pofita eft,ut et ferendo merbo fintidonez; et materia per tuffim fcreatu cxpelli fatis poffit. 128. Perurinam licet; quz 1n th hnic; pul- monibus continetur materia,difficillimé,& mi- nis tutó educi poffit; promoventibus tamen lo- tium tutó uti poffumus, ut Í alrem materia, quz in vomicà adhuccontinetur, et quz denuó col- z ligitur, per veficam exccrni poffit :quód fciamus; vená azygos interdum inferi ramulis arterie aor tz, interdum ca |vzt vena -bi furcatz ad renes, 1n- terdum vena adipali, vcl em ileentibus,& prc- ptercà frequentior etiam éft per v eficam ejuf- modi materic evacuatio, et proinde etlam 1mi- tanda, cum etiam fit per vias conv - ntes. 1 Subburæ tis dinreti cA COvens re foffunt, e^ CH T» Inuftione; et fectione faciendiin ems | pyticis hec fit cautio;ne à ruptione vomice ftatim 1 fiat, fed cum Hipp. zz Coacis pradictionibhs, dif- ferenda erit in decimumquintum diem, ut et materia coctione ulteriori mitefcat magis, quin ab effaüfione extra locum, ubi: maturuerat, ite- |]., rum alteretur ; et ulteriorrcoétione meliorred- | datur; poft quem diem, fi inuftio facienda, om- nino maturandum. Placet enrm Oribaf. 9. Sy- nop[eos, cap.3.celeriter evacuandam effe;neque » multüm cunctandum, ne virescollabafcant;in. quo caf omnino à tali actione abftinendum eft, ne in ilTud incommodum incidamus, in quod cam certo mortis periculo incurrunt, qui in afci te ad feéchionem numquam veniunt, nifi ceteris remediis omnibus primüm inüfüm ductis, et ja s exhauftis,& morte pre foribus ftante. Supture- jo. In fuppuratis vomitus plenus eft peri- "is vomi- E ;fi enim eodem tempore vehemens tuffis, i As pericu et exfcre: andi neceffitas fü perveniat, fimülque 5 | le[15.. - evomantur impetti multo ex ventriculo cr affio« NT ra, vIX evitari poteft fuffocatio, cc onfpir. ante ad fuffocationem et efophago, et arterià af perii tum prztereà, quód conftrictis mufculis abdo- minis in vomitu, puris copia multa in pectore » repleto ;magisinteeione venofr ar- teri compulfa, fie pé cor ita füffocat ; ut ftatim, I, Supfrya. MOYOES fubf fequ: tuf. ns vsi- «131. Proderiteamen inanem vomitum etiam. t5 9o 5, d1gito provocare, non tamen promovere: fic. B vac £l; . €nim à recs abdominis mufculis ab infernis parEmpnyc attando nsrédiaut f'eandi. partibus compreffo diaphragmate, matéria pa- ratior facilius propelletur. In A flimate . C. Vim majorr ex parte.difficultates ez re- fpirationis à craf:à, et vifcidà materià in fpirit A s partibus contentà producantur, f pce 'tlam non leves errores à Medicis commit- ti fol eant; dum illam pr reparantes ad evacuatio- nem attenuantibus valentioribus utontur, et impense calidis;exhaufta enim fi penu imero pat te tenulori, craflefcunt nimium rel 1Qt ule; Imcr- bum reddunt incurabilem. Cum ; quod qu: Magi iid arefa- ! €tione pulmonum fit, coarctatis,8 frin elc- ! bum ductis pulmonum alis, maona d dilisnria adhibenda erit, ne; dun rattenuare, abftereere, ' 8 et incidere materiam ; quevt plerimüm ànhe- lationem producere f flet, tentamus ; ficcitatein parte adducti, 5s rum1in mortem przcipitem. ldcamus.. Vrinam promoventia tutó in hoc Ibi senere! in ufum ducin on] li valida | fucrint ; fiepé enim |[pa rübus, quz füperfünt Bent Dliorem redd CUratioi dunt " p UNT TR 2E. I3j Qu: mvis qua in C Imor- otfunt, po aftimüm acuatis tenuibus di S thorace continetur ante evacuari * XN $ o» arte aliunde, Catonem atud a € [materia, vix medicamento Nie EH ASIERE U aU t | "^ [UTC poffit; botiffimà m à capite aftu AN r - I » !aoH 7^ 1n ff ]ima te attt-- 214A7111A y e snbe- se calidas Ala. Aft Lmna- ticit ficca fa gtt zda, * A P La. Hct$ diuve HCA724- 'ores reddite.difB. ! ecu pus Aftbmati [44 is 'iraan 1n J fum dar4 náA ^ cet, optimum eritmedicamentis anteceden tem] tti illam materiamstibi przeparata füerit;evacvare,.t At id in magno paroxyfimo preftare, periculi: plenum eft negotium ;neautfupervenjente vO-4 mitu eger fuffocetur, aut dejectis viribus vitali-J te: bus, animalis, quz per tuffim excernit, fuc--iiur cumbat. Aflbmatü 136. À vomitoriis, potiffimüm in vehementia eis vomi- fuffocatione, abftinendum erit, quidquid dicattpu: tus ma. Rhafis ;3mminet enim periculum füffocationissgoi abfolutz : mirum enim in modum nifus ille pe- Non é&us affligit, metüfq; adeft, ne materia in cefo-- fimi phagum adducta afperam arteriam opprimat.. ! . Ius galli veteris ex agarico, fenà, cnicos, ux; A B bmati eis ius gal adiantho, marrubio, hyffopo, paffulis, femini-li veri; Uus difcutientibus, duod paffim paratur, et ài malus,r Mauritanis primó inhoc morbo, et colicis do--| Cur. loribus adeó commendatur, quodque ab anti-.|. quis, et recentibus Pragmaticis paffim ufürpa--[i; tur, quod experientie non correfpondcat, et rain tioni adver fetur, tamquam noxium re ici edumi eft : cüóm enim fepiüs in magna hac vrbe à doe... Cu íflimis Medicis in ufum du ctum cernereimmos, ji 244.5». potiffimum ex defcriptione Benec licti Faventi--fi, Wo niz7 Emptrica ; cüm et ego aliquotiessirrito fuce-fi. ceffu,in Tgiiroogs morbis cxhibuiffem.cur fru) ftraremur noftro £be, indagare cepi ; atque obf multas raticnes cbeffe fzepiüs, prodeffe vix vm-- p... quam, mihi perfuafi. Ex lonoá enim ebullitio--b.. ne nitroft illa partes, quibus maxime prodeffe. jus illud. 2alli vetens crediderunt ; tamquama terreftres fübfident, atque in percolatione reji- "14 cuntur; vifcidz autem, elutinofz, craffz, tum. et perpingues, excute, pedibus, alarum extre- rhis mufculofis denique; -& nervofis partibus promanantes, maxime remanent. Vnde non. folum non adjuvabit materiz ex pectore excre- tionem, fed craffiore, et vifcidiore materià,& antecedente, et conjunctà reddità,contumacio- rem, mæífq; rebellem ad exfcreandum reddet. Quód fi non juris fübftantiam, fed qua illi in- | Coquuntur confideremus,ne fic quidem in hu- jufmodi morbo cum mult pituitz copià conveÁ /f ", A 4- q n Amiet: qua enim pro folvendà alvoindu ntur,aga- ES - t'A€71F124 f^ /bxicus, fena, femina carthami, omnino,cüm pat- "reca iflrmam adnuttante bullitio nem, vim omnem. ifolvendi amittunt, ex longà ebullitione ienéis ix partibus diffolutis ; d ge vero attenuantia etiam qadduntur, ut capillus Veneris,.& alia, cüm in. gfoperficie vi ires fuas fortita fint, ex eàdem illas amittunt; alia veró, ut origanum,.b trys, far- | longà ebullitione putrilaginofa reddun- (rur, atque omnino exfolvuntur | 138. Sudorifera in hocmorbi e enere,qualia , AMfunt deco&ta Guajaci, Chinz, Sarza parilie,Sat- S/derezs ?20ventis Ma fras, ut concedi poffunt in adthzidid ad iine : 2 2 ajE 59a amendam materiam antecedentem, quin et con- Wi pas junctam; ita maximé cavendum eft;ne1 IDSTUCD- 4,422). Cn dg44240 rc magna fuffocationeinu fum veniant: fu iffocan EA Eur enim magis ceri, et auctà neceffitate fpir adi, ec quide quandoq; magna fequuntur jas ula,& venarü ze;. lio pulmonibus difruptiones; quin et morsapfa.; p | 139. Cum ro TER ;:9. Cümtamen exficcanti facultate infigni 4Tbmitt S lleant hec,numquam in ufum venire debent, 2 je nifiadmixtis iis quz dulcore et afpera arteriz fera 1n u- a : ij poffint abblandir, et humores in pectore nit [me pulmonibus .contentos ad excreuonem qmagis dulcibus. paratosreddere. | Inparoxyf | 140. In pazoxyfmo ne medicamento purean- viopurgas te utantur Medici, ne irruens materia attracta.» zà eff pro vi medicamenti non ad ventriculum, fed ad lo- pinand - cum 1mbecilliorem; et folitum, fubitó egruma Inaf bi? iterimat fuffocando . su nó ve-, ) lay : 1 to bam I41. Sic quoque eodem tempore non eft fic- | dion dum á à : ; candum; ne füffocetur zeer; blandiendum enim 4groimpa S asco remporestefte Galeno,quàm curandü M /me. potiüseo tempore,tefte Galeno,quam curandu.. Inparoxyf |. 142 Quin neclyftetibus quidem tunc locus m afib-. eft: neque enim proftratis injici poteft citra fuf- stis ne focationis periculum « | elyfterib. 143. Vomitus etiam;ut diximus, eo tempore3 quid u- evitandus ; neque enim materia 1n fpiritalibus zndam. contenta evacuabitur,fed quz in ventriculo;quq Nec v?! cm per cefophagum vi expellitur, ita arteriamg a £u uéd- o (eram comprimit, ut füffocet . Non[upi- . Eodemtempore füpinus vitetur decu. 2us ia- bitus; nam;utait Aretzus;ftraneulatonis peri« €tat culum affert . Nonfricà o X45 Fricatio etiam pectoris codem tempore dé pecias, Omnino fugien da. N««c fove- r46. Quinne fovendum quidem pectus fponjtt, 4 P di pilas. elis cum laxantibus; calor enim 1lle fxpe flatij bus excitatis; fymptoma auget, et quandoqu SR fuffocat . Quam- | [ To Bil ? 191i « Quamvisin omnibus feré morbis illud Ó "y » cratis veriffimum fit, non effe mutanda libene infüituta remedia, ftante.eo, quod ab 1 initio, I vifumeft;in hoc tamen, commüni omnium fcri- | bentium opinione, cate a ad eumdem fco- [funipesta intibus eadem fervanda fit intentio ; A varianda tamen erunt remedia . In afibrma te fap? mn tanda me dicamen- tá. De Sputo fanguinis. | EE Vm infanguinis per tuffim rejectauo- 7, farto ne foleant Medici ftatim optimo con- 55; c;uis Iilioad d lio nem fanguinis per fectam vena1 gue vena in brachio poufti müm dextro ex jecora rià recur /ecanda- rere, animadvertendum, fepenumero idin mu- 3anguinis | licribus evenire ex fup preffis menftruis purga- ^ /putoex | mentis, autaliaceffante evacuatione, quz. per^ dentis JJ hæmorrhoidas ; et in eo cafu, fi fanguinem ex ^^ ifibns | brachii venis extrahemus; peffimé noftro egro- 7,, J tanti erit confultum; po tius enim flinio ni adde- ^^ | mus occafionem,ad f iu periQi arationevacu rt | euinemattrahentes E it1gltu r,fectà vena lin talo ; ad inferna retr ahere fanguinem, mcx |repeuus vicibus ex brachio etiam conveniet * ll'eumdem corrivare . 149. Sed ut in reliquis occafionibus 1n hoc, " I morbo, dum ex venis brachii fanguinem eva- 5 ;,; icuantes re petitis vicibus, et 10 non mu |tà quan- affatun ef fi ritate 1d à aft: umus ;ita dum ex talo fane ineqa/7; gu:- Blob eas cauf: as detrahimus, copiosé, et affatim idaz derra- 'd praítabiaaus ; ut sera fiat revulfio . b::dum Coqua ven& r2 'sanguin? Conanturaliquiin fanguinis peros re- veieclant jectatione cucurbitulis aut illumad loca,unde 4|! bus cue-. effluit, revocare,aut in lifdem retinere, feliiin- |^ eurbitula terdum füccetfu; aliquando cum zegrorum cala- patti «ff- mitate ; proptercà diftinctione opus eft: namfi |^ x4 quà? ab externaaliquà causa in his partibus vas fue- eonvetit * yic difraptum, indéque per os fanguis rejecte- tur, fi cucurbitulà fluxum retinebimus, phleg- monem in parte fine dubio concitabimus.Quod fi non rofo, aut difrupto vafe; fed reclufo 1d fiat; tutó cucurbitulz tuncadmoveti parti porerunt. 151. Cavendum maximóé, ne, quod plerique. |*^ kii Á faciunt, à rejecto fanguine per difruptam ves | guinis fu PATI glutinantibus ftatim utamur; ut enim hoc [Us 10 quando aliquando confert, fi etfufüs à venà fanguis 1m. coveniat. pülmones,aut thoracem per tuffim fit totus eva cuatus : ita. fi illius poruo adhuc conclufa, et |" fluitans remaneat circa pulmones, tantum ab- | cft, ut elutinantia juvare poffint,ut pocius zegrü precipitem ducant in mortem:vifcidiorem enim [e reddunt fanguinem, et craffiorem, sícque 1ne- [i ptum magis reddunt ad excretionem; unde fuf- .| focationes, anhelitüs interceptiones, febres ve- p» hementiffimz ; inflammationes partis laboran--['u tis et fübinde mors. Grumi igitur prius erunti]/a incidendi, et excernendi, et tunc glutinantiumi'ui ufus eritineundus. In fputo 152. Quod deglutinantibus dictum eft, adi] ii| fanguinis exficcantia, et adftringentia omnino etiam erit adfiringe deducendum . Videas enim plerofque ftam ac tia qua5- infpuentem fanguinem incidunt,non etiam be-3u;. "ET nepetr i e perfpecto vcroloco laborante ; an thorax; et 4» utilia, 4 pulmones illum per fe evomant ;anà capite ad && 422»- Il fpiritalia loca fanguis feratur; neque 2rum1 ad- do won. huc adhzreant, et an fanguis adhucibi fiuitet ; adí(tringentia, X qvidem valenticra 1nj ingere et etiam lambendo propinare, unde ne ales Tru nesoborivntur. | . Prafente febre vehemente, in adftrin- 4f izgé id ous, et La Mig MD... temperati cffe de- "/2 fafre- I bemus 5; potiffimum fiaut ab inflammatione;aut Geciniiw l| eiaminde a s fit: non minus enim ex cà im- eite S £5 CH foc minet periculum, quàm ex fanguinis eruptione, j,, 154. Vb1ab ero fione vafis, vcl euam aper-, li2onc ex acriori fanguine, ac bile referto fangui- 5; q4jp s | nis fiat rejectatio, purgandus ab initio ftatim, ex atri tu A erit biliofus ille humor, ne, dum att emperare» szore. ffa- illum prius tentaverimus, coplà fua, et acerrie mm pu- [mà qualitate perfectum producat fymptoma.; 2224s. ineque enim putrefactus eft, ut coctione indi- Igeat, et cum tenuis fit; medicamentorum attra- lictiont facillime cedit. ^ buf In / 110 15$. Medicamenta tamen non fint valentic- In fputo fira, quod ica calida cum fint ; acrimoniam 1 n hu- hier hes moribus adaugeant X valida motione » nus mctu1ic Mfluxicnem co ncitent : hinc qua fcammmonium. licont un ent; fueienda erunt ; non folum cb« Cam, í caufam, fed euam quód venas aperiant. ^» 4 Quà etiam ratione et aloé,& ex cà Bar. ue ftiv AMrata medicamenta 1n ufum duci: ncn Adag PAUTAS jc c quód 'enarum ora aperiants et acriora fiüt » cannbus ji anm par fit ^ n 4la; a N 1/7. QiiRbabar- barum mm fputo f[an- guinis fufpecium . 1n fpnto fanguiais quado va lenter fic- cantibus utendum "ceti fo- ufas 172 f/puto fa»eguin:s linis falpeélus . Quinimó R habarbarum aliquando inz hoc fymptomate noxium eífe folet ; cimenim igneis fuis partibus altius fefe infinuet ;'& fan- guini mifceatur ; quod vel ex lotioimpense fla- vo ab ejus affumptione perípicué«colligitur; ubi forcé non pro ratione bilis educatur, acutior, et calidior fanguis redditus morbummasgis acuet, et deteriorem reddet. rj$. Inífputofanguinis ex vafis, aut pulmo- nui crofione, illud inaximé animadvertédum, an plus fanguinis exfpuatur ; an puris : fi enim. plurimum fanguinis, ad ftringentibus maximé res érit agenda: fin veró multum puris,& pa- rum fanguinis excerpatur, potenter ficcanubus erit utendum; citra multam adftriéctionem;alio- qui pus perdit pulmones; fic Gal. $. AZetb.6.fo- lis trochifcis Ándronis Polyidz, vel ex chartà combuftà utebatur. Vnde et cüm pus merum. cxcérnitur, folis fimilibus trochifcis utemur . 1 $9. Non placet eorum fentenua,. qui. The- mifonis, et Thetfali fententiam fequentes ina rupto, velapezto vafefincerum acetum ad for- bendum, et lambendum concedunt, uz aut ad- ftrineant, aut grumofam. fanguinem incidant ; certiffima enim utentibus illo fincezo imniiet pernicies; partesctenim certiffimé exafperat;ac ||; ubi per afperamarteriam rranfit,tuffim excitat; | nde nóvum fluoren? promover: dulcórandumi oat erit aut melle, aut faccharo ; atque fic ina ufum ducendum. 16c. Intopicis adhibendis placet Tralhliami] £275 uc Voli confilium, ut emplaftra frequenter mutentuüf » 2565/5; ne incalefcarit ; 1d enim, inquit, fanguinem eó vocat, proptercàirrigationes potius placent. t61. Frigidiffima ramen actu hzc effe non. debent: przxrerquám enim quód talia omia pes étoriinimica effe cenfui doctiffimvs Sener, fi externe etiam partes rubrx et calentes foerint, fangwnenr ad interna propellendo fluorem. conctabunt. 162. Qwvàmvis quz valenter adftringunt, et exficcánt, urgente morbo, maxime commen- dentur ;cauté tamen étiam hacinre agendum eft, et incraffanua erunt adnufcenda, ut amy- ]um, far, et lac: quód àmmoderatvs ficcantium ufüstuflim excitet contvmacem, fed inanem ; undeant nova fluxio fanouinis promovetur,aur vena mæis lacerantur. De Ph:hif. 165. Vm inter omnia prafidia ; quz 1n. phthifi in ufum veniunt, Iac primum. fibi locum vendicet,ut mu ta de fpecie lactis,de quantitate, detempore, de modo; ac mixtione, opum? à Gal. s. € 7. 7M'erb. szed. propofita, recentioribus plerifq; recipienda ; et commen- danda judico ; ita illud ; qwod ab omnibus fere recentioribusadditur, nufquam tarnen à.Galc- no traditrm, non recipio, ut à lacte affumpto non dormiant zeri : cüm enim per qvinque hc- ras ante cibum velint exhibeédum effe xeris lac, fi fomnusinhibcatur, et preftanuffimo auxilio mA tabidi t0piCA fa» piis tnu- tanda. Acin fri- gidiffima effe mon de bent, 944 tboraci 4p pliczantur. SiCCAVtiA valeter 15 fgate fan- £141n15 em pla fits admi[cen da . l^ phbtbifs à lséle ^f Su bto dora nmieaum Tr Phtb 'h ; ÆN y qp anunæ al );£$ ^ ^h "4$ 7220. EU £t. litatis fomnus ille confe: tabidi deftituentur fomno nempe matutino, pociffimüm cüm exficcati fepé noctes infomnes ducere foleant, autob tuffim moleíftam fomnus impediatur; fi etiam eo tempore à fomno arcea- mus, et ficcitatem augebimus,« vires vitales imminuemus ; per fomnum autem.&. vires 1n- ftaurabimus., et cor pus ficcatum humectabi- mus, coctionem lactis in ventriculo accelera- bimus. Neque cnim valet ratio Mercurialis, quód fomno majores fiant eva porationes; quód in tabe, five hecticà febre, five catarr ho;& pul- monis ulcere, blandailla evaporatioiactis ma- xime ad fomnum majori ex parte deperditum onferar; in verà autem phthifi cum diftillatio- ne acri, et falfuginosà, et ulcere pulmonis, tem- perata hæc evaporatio utilis erit ac. acriorum exhalationum calorem temperabit;phitfque uti- et tuffim cohibendo : quàm damni evaporando ; maximé cüm tuflis concuflt ione lactis «tondodbio amediat E 164. Cüm phthifi confümptis; fialuidluor fu. perveners lethale fit maximà cautione uten. dum eft, fiin 115alvus non dejictatin ufu fubdu- centium; blandé enim omnino agendum, neque caffram, prunorum dulcium decoctum, man- na,mel violatum aut ad fummum, mel rofa- tum foluuvum tranfcerdesze debemus. De Tuff. d Vód fcriptum fit ab aliquibus, et do- ctis quidem VAS: E [n ^ E [uriats fitiat; vigilet, qui vbevmata curat . vigilan- in curanda tuffi quàm piures:zgrotantes vigi- e. C liis macerant, ut fluxiones.impediatit ; peflimo 74474» fane confilio: ut enim fuperfluum fomnum ce- rebrumnimis replere concedimus, ita 1mmode- ratas vigilias muito majora incommoda afferre experimur; potiffimum cüm per eas vitales.vi- res corruant, quz in. hujufiriodi morbo maxime neceffariz funt : vieilandum4ane eft cim: à ce- p a. rebro adeó affluit materia, ut fubitz fuffocauo- fa dern nis peticn ilum immineat; «& tamdiu vigiladum, quamdiu tàle imminet periculum: fecus in muíh x 4 moderatà; dormiendum enim;ut concóquantur ALES Nn humores,«& quiete pectus firmetur ;fi enimo "v7 Galenus 1. de /12m.cap:28.ut citat Rabbi Moy- fes 213-.Se£t. Aphor.ícribit, tuffim ; fternutatio- nem, et fingultum cutaria diquando;cüm hcmo fuftinet ; atq; fefe abiis; quantum fieri poteft, motibus cfficiendis abftinet, ( quoniam cum motus ifte fiat à voluntate, fed 1rritatà ; poteft quis interdum volés non.tu ffir) cur etiam fom- num non commendabimus, in quo omnes fiftun tur fluxiot nes, X tuflis quafi fufpenditur ? . Inufu pilulari im in tuffi,ad evacuan- Pilula d dam materiam in capite exiftentem, non placet tu[f mal? aliquorum fententia;inter quos fuit doctiflimus ?^/ cendi Mercurialis, qui volüerunt; eas exhibendas effe 44" - perquatuor,aut quinque horas poft cenam, «quando ventriculus nondum, ut ait Mercuria- E ai lis, ex toto vacuus eft : quoniam tunc niagis fa- 7^ r pernatant, et facultatem mittuntin Pin Des, 4. I d et afpe et aíperam arteriam. Cüm contr illudcer- Giflimum fit ; ex hoc modo exhibitionis multa. -d.. fequiincommoda;nam aur cum cibo cititis fib- ducentur ad inteftjna ; quàm oporteat ; aut fané femiconcocrum ciburs deducent ad inferna;aut ommum fiet confufio | Quare pra-ftat;autince- eM S natum illas fümere, autíane fiummo mane jeju- peor 10; « vacuo ventriculo devorare, procurato forno per ünam, aut a]jteram horam. De cordis Palpitatione . . T N graviffimohoc morbocurandocaven dum maxime, ne Gal.verbis $.4e loc. ai siiid affect. 1. ubi afferit, omnes, qui paffi funt palpi- e 34,,,. 'aUonem cordis, à fectione venz juvamentum »us fan. &CCeptfIes.quem fecutus Avic. 1.5.7 ratd. c. Cap. guis mi- 7:3n omni cordis morbo, fcribens,utilem effe» tndus, Íanguinis miffionem:quifpiam adductus in om- ni cordis palpitatione fanguinem per fectam ve- nam .evacuet; neq; eni: omni, neque fempet Galenus fectione venz utendum ibi cenfuit, fed omnes, quibus fübitó, cm fàni effent, fine ullo alio accidente cordis palpitatio füpervenit; fanguinis eductionem juvifle: hos veró,quód inte: grà,& inculpatà valetudine fruerentur, à fan- 2uinis copià, forfan. et calidioris, in eum mot- bum incidiffe, mihi fit vetifimile;quod quilibet etiam ex Gal.2. de caufrs pulf. cap. 2.collieere po- terit, càm dicit : Z4ccidsr ettam pulfuum imaqualz- (45 Interim ex fanguinis Copia, qui aut in venas aut ertt. In.cordis palpitatio abteriastp[as fit vufu[us; atq; bac quidem [anguimis aniffone fedatur facillime. Hactenus Galenus. Caufæft, quia copia illain venis arteriasillis vicinas premit, et coarctat ; qua fi venz fectio- ne tollatur; tumorem, extenfionémve venarum tollit ;Jocàmque fübinde-dat ad motum arte- ris. Vnde veriffimum eft, cuicumque cordis palpitationi, ex humorum copià in venis exi- ftennum,optimum effe prefidium fanguinis pet venam detraétionem ; quod confirmavit etiam Gal./;b. de veua fect. ad verus Evafiflrataos, cap. 4. Quemadn odum etiam fi aut eftuatio;fervor- ve fanguinis, fiveervfipelas aut coripfum ten- tare agoreffus fit, aut etiam venas;arteriáfque » vicinas invadens, et palpitationém inducens, ad hoc auxilium ag2rediendum nos invitat. Precepit hoc Gal. 13. eth. cap. 11. € lib. ad- verfus Erafiflrareos, cap. 8. Atut hac veriffima,s funt ita aflerendum ett, in veràillà cordis pal- pitatione, qua illi cum aliis particulis commu- nis eft, quz que morbificz folius caufz foboles cft;non conferente facultate, quz majori ex par te ex flatu eft, drminuto calore ; tum etiam nz non verà, quz cordis propria eft, fi vel ex frigi- do humore; qualem defcribit Hippocrates, vel f1 alio, /sb. de facro zsorbo cim fcribit: 57 porro ad cor proereffvm fecerit af fluxus » palpitatie appre- hendst, C anbelarsones, G7 corpora corrumpuntur, «liqui etiam cux: fiunt Cum enim dk dcenderit fi- tiita frigida ad pulmonem aut ad cor, pevfrigerz- tur feng:isy vena autem violentey perf icerate vd N 4 pulmonem, C cor affiliunt, &£ cor palpitar . nullo modo fanguinis miffionem convenire, :Quins ne tunc.quidem fanguinis per fectam^venam evacuatione utendum eft, cum cordis palpita- tioà virulentà materià ccr imp etente fit; autà vapore; fuliginéve venenosà. Quód:fi Avicen- riasin omnibus cordis affectibus venz fectionem utilem effe dixit; non proptercà tamen in omni- bus caufis evincendis morborum cordis utilem cfle pronunciavit; $1c etiam in palp ita tione» Conveniet, at non Íempcr, nequein quàcumque -patpitationis.causà commendanda ; In paljita - 168. .Sedillud in evacuando fanguine per fe- tne cor- &tam venam maximé anima dvertendum; fi ma- dis,«bi in Ximam in corpore laborantis hoc morbo fübetfe fanguinis fæguinis, et humorumabundantiam cognove- abundan Sina qu 12 non tantüm vires premat, fed et i- tia mitt Wa quoq; vafa diftendat, tutó nosadillud auxi- lium defcendere-non poffe nifi fanguinis mo- qu» 95 tum.cor verfus abendé proficifcétis fimul com- X indo: peícamus, ac abipfo corde revellamus : cüm., enim cubiti vena.,.qua fecanda eft, ab axillari axillaris autem non longe ab afcendentis venze cave ramo proficifcatur, unde 1n cor ramus in- fienis coronarius divaricatur, abundantiorem. faneulnis copiam ex venacavà hauriri contin- get; ex quà quidemre fiet ; ut plurimus fanguis Cor verfus iterar ripiat, sícque cbn dis. viícus ma- 21s fuffocabit .. Ne igitur in hoc incommodum incidamus, co ipfotempore,qno in brachio ve- na tundetur, utrifquehypochondriis optimum erit us [ut sá- lerit cucurbitulas affieere,;dextro quidem. 5 «uod inde vena cava exoriatur ; finiftro autem, quód illic plurime terminentur arteriz, quz Mpirtuofum à corde fanguinem revellere pos |rerunt : fic enim fiet ; ut qua:jamiavafura erat licor fanguinis copia, cucurbirulis admoüs re l'vellatur ; quz vero influxit ;venà fectà exhau- P riatur. . Quód fi humoris; et fanguinis tantas linon adfuerit copia, aut fola fufficiet fanguinis l| per fectam venam evacuatio, aut fane poft illam llapplicari poterunt cucurbitula .. Átubi infienis adfucrit fanguinis abun- Idantia ;in utriufque brachii cubito venam ape- | rire, udliffimum erit tfi veró non adeó magnas | fuerit; finiftri tantüm füfficiet fecto . 171. Quod fi ne (ic quidem affectus ceffave- | ritarteriofum,;& fpiritibus plenü fübtiliffimum | in arteriis potius abundare judicabimus;& tunc dis affects j| cum Gal. Ze cur. rat. per fang. mni [[.11. íectiones arteriarum opus erit . Sed in eo cafa non magnas, fed exiles || potius elizemus fecandas ; quales funt ee, qua | per digitos excurrunt:licet enim parva fino ma- I ximum.tamen juvamentum afferunt j atque fa I ciliis inductà cicatrice, fine anevrifimatis peri- culo coaleícunt. 173. Cucurbitulas fcarificatas dorfo affixas cordis palpitationem curare ; fcribit R hafis 7. Continents v At Avic. 4. Fen y 1. Dotl.$. cap. de | Cucurbitulis ; eafdem dorío applicátàs aliquas | quidem Cczur bi- (Hla i pale tttatione cordisqu& de appli- £anda. In pa:pita tone core di: a4 ve n3 fecan- da. Arterioté- 731A 472 COF bus guade C07) GEX1f » Arteria qua fecan d4127 cor- dis palpi- tationt « Cucurbi- ) ] ^ t'i'a dorje ffxa& in x. m HII Cim rn. P cordisqua 9o profsat.? fi ! atit. cordis £ro- vdedut fistibus L^. tricals quidem bona facere fcribit ; fed et vencericulum ledere, et cordis tremorem inducerc: fi tamen cautio adhibeatur ; utrumque optime obfervát- fe dicemus, quidquid dicat Mercurialis nofter in fta Praxt,capsite proprzo ; cüm fciamus ; peri- tum; Medicum numquam. repleta corpore cus curbitulas ante totius ex purgationem applica- turum .. Diftinctione igitur potiüs ali3opus eft; nam fi ex humoribus palpitatio cordis prove- niat » fi dorfo € regione cordis, ur plerique fa- ciunt cucurbitulz applicentur,id in manife- ftam vgri pernicienrfiet; augetu r enim circa cor faneuinis Copia ob calorem, et dolotem : doce- bat enim Galenus rr. A4eth. 17. übi 1n iis fit plethora, non magis ex pulmone in pectus. ali- quam excrementi. partem transferri ; quàm.» ex toto corpore 1n utrumque. At ubi palpita- tionis cordis flatus fuerit in causa » evacuatà materia, unde elevantur, cucurbitularum ap-plicatio dorío é regionecordis. praftantiffimum erit remedium. Quinimmó applicari etiam. commodeé. poterunt, ubi cum flatu frigidus quifpiam humor-conjunctus fuerit: nam ven- tofus fpiritis admotà cucurbitnlà digeretur; qui veró reliquus eft humor; facilis evacuaaione » detrudetur. . Flaubus etiam cordis palpirationem. inducentibus ; femper humorum et in ventri- culo, et inteftinis..& flatuum ibidem collecto- rüm maxime habenda eft ratio, atque ii inde.» fubducendi ; quod. iis inanitis, fepiffimé folu- tos ltos etiam eos obfervaverimus, qui circa cor ob^ Ivcrfabantur . . Fugiendum veró quàm maxime illud, ;, jalpita ide quo nos Galenus 12. Math. ult. admonuit, fuis mum fi adhuc in iis partibus fücci, ex quibus flatus 4; (s fia" Ielevantur, continebuntut,à nullàre m: ac1s eí- tibus, sz- Ife metuendum, quàm à calore, quod eos colli- ters zz Ijuet; atque in flatum vertat, fed digerere ncn.o lids mon valeat: craffa et 1m, et ejutinofa dum calcfiunt, effe. men- Iflariofum fpiritum gienetre folent, Gal. tefte» AMI Pr dv Inbidem . ftutr m ; tertia. Vbi ad cor aut efferveícens fanguis ; laut bilis affluat; ut phlegmones, ucl eryfipela- itis periculum adfit ;, quibus in corde productis; 54. Ideíperata omnino falus effe folet ; ftatim àfan- sellestia, Ipuine miffo, vel dum mitdtur, circa cordis re- cordi Afm. Irionem repellentia adhibete convenit : qua 9lsanda. Iquamvis 1n morbis pectoris omnino fueiendas e(Íc conftitucum fit ; 1n hac tamen afflictione js irum, ad quamcumque partem materia fluens Irepellatur, ea fitignobihor corde, necinde ad- Iro fibitó mors immineat, nullà interpofità mo- Cere la- raapplicanda funt. bordite en 177. Vbi ex craffo fanguine cor hujufmo- erafis hm Hi morbis laborat, à diureticis, et füdorife- 7». Dum mit 71; fa*ii diMreticA "Is erit abftinendum ; nam hec exhauriunt fe- ? | : $» 6 à! beso yg É C fudorie um faneuinis, et fanguinem craffiorem red- ! pela dun! Ld "^j 7 UEntHf, 178. Verüm, fi aquofus humor, et ferofus,,,, ;,, norbumillum producat, nibil eft, quód facifé sobtitaa iius yuin hujus morbi poffit evincere . PLI, 2Difeutien dibus fia- in Cor- dis palpi- faftone, snifcenda fnbadfiri gentia o In flatulentà palpitatione vehementer || rcfolventia damnanda fünt : nam fpi- ritus vitales nimis exhauriunt. Quód fiin ufüm ea ducere .. neceffitas cogat, ad- ftringentia ali- qua erunt admi- fcendaa . 20g LIBETIA Comprehendens eas, JDe dolore l'entrictii. eiendum erit, lAnimadverfionum, et Cautionum Me. dicarum, 4$ no 0908 Ousinvrelk qua. - 1/77 uUualium partium morbis fuat obfer Yauda. SUN inflammatorio dolore, inflam- Dolente W| mationem partis, aut eryfipelato- veztricu- fum affe&tum infequente, genus /^ v6 iz- omne medicamenti pureantis fu- f^amma- nifi fimul affluxam '/?vé» par id ventriculum bilem cognoverimus;in quo ca- i pureantia omnia evitabimus, ob innatam ca- 4 pienda. Iditratem, et nenovz fluxioni ad partem Ja1., fo! ore laborantem detur occafio ; concedemus SIS, cantia fis ramen Sus vcuna $3 ufune daucend2- Rbabarba yum 1n do love vexit: eui infla $9 X 0rto fsgiendz. Qiata n dolore vé- zriculitia- fl^mm TI, yio. quan- do conc.- dcnda. Ventrieu- lo dolente có mflam »lomé . f icida po (as Co ex- irà appofi n0,9Ha5- do cox vten.at. Ventricu- li ia dolore «o6. tamen lenieritia, abftergentia,cumrrefrigerauóe | : t m ne aliqvà: tamarindi, fetum, fyrupus violatus, | et fimilia concedi poterunt.;. R habarbarum, multis in hoe familiare»; omnino fueiendum: nam et igneis qualitatibus nocet, et biliofi humoris affluxum folet con- Citare. 3« Opium, et opiata, licet in omnibus vene | triculi affectibus fugienda fint, urgente tamen» dolore inflammatorio, cum lenientibus ca ad- mifceriin paucà quantitate poffunt ;fic enims neque actionem impedient, dolori fuccurrent et intemperiem imminuent : etenim fic Gal. Ze: compof. med. fecundum loc. circa medium, exayni-- F7 nans medicamentum quoddam Afclepiadis adij* ftomaticos,quod recipit plura medicamenta, &:] ^" inter hzc aloén,& opium; reddénfque utriufq;j 7 raticnem,inquit, alocn vitiatos humores ex pur-4^ care, et infcrné peralvürn évacuare: opium ve«4 *ii 1o fenfum obftupefaciendo, mitigare moleftiamgr'i ortam ex acrimonià humorum; erat tamen opi ad reliqua medicamenta dofis unius ad vigint quatuor; quam etiam non improbat . 4. Im inflammatorio dolore ventricuh, aum incipiente eryfipelate, aqua frigide potum; au^ [) frieidiapplicatlonem ut convenire aliquand 4; concedimus; ita id faciendum ab initio maxim] cenfemus; affluxà enim maseti, fi frigida exhiu'ic beretur, morbus curàtu difficilior redderetur . | «. In doloribus autem ventriculi, et ineft]; zorumà frigidà materi,áutà flatn ex. eà gem]i, tO5 fi | WIH. io; | to, fi contumaces fuerint, et multà fübfitmate- ex. frg: ria, Hiera licet à Gal. commendetur, et à ple- 4a,«t crz/ ifque Medicis, quoniam tamen tardiffiméopes /2 mate| ratur, aC fepe dum ob vifcidam materiam tuni- 1/2 Hrer« | auget,necéffarium effe cenfeo medicaméntum jaliquód pureáns admifcere, quod et materiem cis ventriculi adlieret, attenuata, et in halitus 4/44 ^, * » 1 " A ut converfa. materia ventrem diftendit,& dolorem "^'^^ »n€n1147 Hryoans$ . n smifcendit. adjuvet fübducére,átque Hierz vim intendat, ut diaphainicum;electuarium Elefcoph,& fimi: !lia ; nequémultàm dubitandum eft, ne ad. partem laborantem fiat multus materix affluxus, cum enim támmulta adfitcraffa, et vifcida materia, vim ombium medicámeéntorum hebetat, i| et impedit, ne à longinquis trahat, materiam autem etiam 1n éo exiftentéem, et attraéctam | quamprimüm fübducat,ita ut minima ventriculo noxa inferatur ex affluxu materiz, utilitas '€ró maxima ex caufz morbifice evacuatione s, j| potiffimum fedato dolore. De: Ventyiculi irsbecillitate ex frigida ite npevié . 6. [ N $uellibonz cornftitucionis ; ave catelli pu; 72 perpinguisapplicatióne reeióni ventris riculo.ap . E - x £^ ; PM A culi, prima lizc fitanimadverfio ; quód cüm in »:4; ze J| tardà: coótione ex friaidà intemperie; nihil fit fomnum quod niagis coctionem adjuvet ; quàm IoBieus, (errim et riori interru ptus forinus, ánimadvertant. pá« P^" - sicrites,Jieexanquietis fit pücr, qui ex affiduo motu motu fomnum patientis. interrumpat-: majus eniminde damnum.ex impedito fomno feque- retur, quàm utilitasex blandoillo calore; quod etiam ex catellis magis verendum ; potiffimum fi patientes ex lis (int, qui et facile ex pergiícan- tur, et difficillimé in fomnumrelabantur. puliin 7. Secundo illud etiam animadvertendum applicatio. ft, Cepenumero ex hoc complexu t udcrem ex- gecaven- citari, quinifi affidué detergatur, noxam affert dus fador. magni momenti : quare vel ab eo defiftendum etit ; vcl- intermedio fübtüliffimo linteolo 1n eo períeverandum. Inm,b- $8, Suntetiamaliqui adeó in Venerem pro- iiio? pi,utexcoamplexu in fomno polluantur aut 45174- 3d Venereos congreffus conciteptur ;1n quibus omnino ab hujufmodi remedio eft abfüncdum, De. INas[ca. € Fomitu. Vomitus 9. E Tfi quàm plurima ad vomitum attinen- fugiendus, tiafuperius propofita fint ; hoc tamen, fieauez-. loco aliquá non fünt omittenda imagbl momcn- tioryfed er tj, qug in vomitu exercendo pro naufez, et vo- gente ^ *- qytüs curatione maxime funt et animadverten- far tne da,& cavenda . Brirnàm igitut fir quód Iicet jio; fc. ir adiquibus, qoibusautob ventriculi imbecil- ^. litatámsatitob afflexum aliunde humorum col-.] lieitur. materia in ventriculo »concedendus fiti] vomimis.frequentius tamen 1d non erit praftane:] dum fed femel; aut bisin menfe, ne et in ma--], lam confuetudinem deducamus;naturam » patrz] tem ww À rem imbecilliorem reddamus; et membrum co- éHoni ciborüm, et nutridionirinferviens, fentina excrementorum efficiatur. : Cüm vomitu materia: expellitur, five» p, pis fponte; five levivomitorio (numquam enim for | 4 4,4755 ti in hoc cafu utendum eft) non erit longiori tem. i4fjfgedz . pore in eo infiftendum ; cüm alioqui cupiditas cvomendi fepe perfeveret; ne. ex nixu, feu vo- mendi impetu, aut vena aliqua in pectore, aut in eulà difrumpatur . aut affluxus.novus mate- riz potiflimum biliofie concitetur, infrà igitur potius fub fi fttendun jT ' TRUM * x i. ?. (Orr Repe ità ctiam potiüs evacuatione,:& petendis, 1nterrx iat | 1C fiat, quàm unica d. nua didi 12. Quinimó prior magis protrahi poteft ;. ;,, ;; ;»/;- pofteriores autem breviores fint; licet cum ali- gadauz r1; 11lud auidebi. ut multa Vezitus is hoc autem,ut craffior repeti fex in fundo ventri- qnales efVonmitus €N pot 45$ TE^ ; m i fubfidens educ qu e po Xflitsfed nullàalie- /e4e27, ni materie ad partem attractione; 13. Si qi is on ex naufca neceffitatem vo- situs, mendi commonftrante ad vomendum promo- 44: fé» yu veatur, fed quod feid effnsere non pofle expe- /» se»fe rimento cognovetit ; ftatutum »» menfe diem., ft, non aut terminum non prafigat ; p. nunc plures, habeant nunc pauciores dies interponantur;ne 1n pra- diem $fa- vam, &inevitabilem confi etude lta dedu- I catur sut fi fl pats, et quaframur | latutum terminum aliqua datà occa- fione tranfcendat, in morbos aliquos incidat. 4, Quam 'ls autem; data hacoccafione; VO- VFontt* OQ mitu qui apftj- itu evacuandi fint, fi tamé ad vomendum ine- mei, ptfuerint, aut fi perpingues fuerint, aut angu- fto nimiüm pectore, aut fi atiàs fputo fanguinis tentati fuerint, aut fi cerebro admodum imbe- cillo, aut oculis debilibus prediti fint ; potius perinferna purgabimus. Womendà | 4$. Vtconcedendum, vomitotia, quz vehe- quádoie- mentia funt, quibus humores ex pelluntur à to- $450 vt- to Corpore,aut faltem à longinquisattrahuntur; tricalo C Tejuno ftomachoeeffe exhibéda; ita in levioribus quando 4 concedendis, quz contentos in ventriculo hu- «cds mores evacuant, ea diftinétio adhibenda eft: quód fiquis ad vomendum non ita facilis eft praftatà cibo vomitum proritare, potiffimum. ficraffi fuerint humores : fi veróad vomendum fuerit facilisynec humores multüm rebelles fint; pratftabicid jejuno ventriculo tentare ; aut levi- culo auxiliojuvare, Cras ba. 16... Quinimo, fi non folüm craffus fuerit hu- soribus more ventriculo evacuandus, fed in paucà quan $n wertri- citate, licet malus ; poft cibum erit vomitu €ji- «ul2(xi-7 ciendus ; admixtus enim cibo facilius expelle- fence ' tur,etiam qui in fundo ventriculi confiftit,quod m ^1, alioquinon ita facilé ventriculus in fefe contra- UU . hensillemelevare ; et propellere poterit. . Cavenda tamen magna ventriculi ex ci- borepletio e1, qui cibum ad vomendum affu- mit ; difficilior enim redditur vomitio, quód ventriculus (ead expellendum, quod illi mole- ftem eft, vix tantà pofità repletione contrahere pcteft. Y opitriri A09 21H $ replegtür. IS. At í11 At. ne ftatim quidem ab affrmpto cibo »,,, ;,. aut evom;endum eft; aut vomitorium fümendüs,;, ; 7, fed tantum tempcris intcrponendum, quantum sto, qua fufficere pofle conjeceris, ut humor noxio ad- 4/4 vo- mifceri poffit, agitar.i, circumvclvi, et verfusos mu» 25- ventriculi fiblevari ; id veró-fit fpacium unius. Zendii hcrz, aut ad fu rini m duarum : 1d autem fem- per intelligendum eft de vomitu ad evacuadum ciexcrementa, quz in ventriculo cconünentur ; et de levibus vcntcrlis ; quid enim in vomitu vniverfüm corpus evacuante, et in vehementi bis vomitcriis obfervandum fit, et alias dictum c(t, et ab Avicenna petendum. De Siti izymoderatA I9. T fitis.ex immoderatà caliditate; .& 55; ;,,,, ficcitate ventriculi, aüt eam COGI. 75; 2547 prafen da h umorts calidi et ficci,eqva frielde 4c frigida largo fa pé potu curatur, " aft m exfünguen- &ibezda, do, et bilemob multam aquz copi lam inecftam C quado fr bducendo ; ita maxime cbfervandum erit ; fi calida. fitis hzcinexhaufta ex falfa pitvitz adhafu pa rictibus ventriculi, vel ejufíem n fundo illius $ mo rà producat! r,frieida potum ncn fcre uti- ]em; quód cont: macem mæ?is cavfi m reddat ; et craffiorem ; eam vcró ctiam fa cile potus pr rg terfluat : przfta ibit 1e1tur tu aovà calidà ; qux maais penetrat, attenuat, divtiüfque in ventte. commoratur, pouffimtm fi quidpiam 1lli ad- mixtum fit ; quod attenuanti facultate. pra di- QD a tum 31»; tüm fit; fed et in paucà quantitate, et non excedens. De Cholera. Cholera | 20. Vamvis in hocaffe&u, et per fuperna, Jaborates et nim inferna humores excerri foleat, quédo per &impetu tali;ut freno potiüs,quàm fupe ftimulo opus fit ; quoniam tamen aliquando ir- C^ 24542 vea tiones quidem adfünt;fed promultitudine» pe vba máteria non complentur ; ideó adjutricem ma- vag4,, Dum Medicus porrigere debet : at tunc ambigi- tur, an fuprà;an infrà. Primo ieitur confidera- bimus, an naturà ad vomendum zeri fint faci- les, et an confueta fit aliquando talis evacuatio; tunccenim per eam partem adjuv; ii am nt, hac diftinétione adhibità : fi cibi corrupti talem niorbura produxerint, ftatim vomitu excerni pofle; uteuam fibiliofi humoresab hepate, aut univerfo corpore fucrint transfufi, quód biliofa per fuperiora f. aciliüs excetnantur »fin vero aut ad vomendum naturà ineptus fuerit ; aut craf- fior fuerit materia ; praftabit. abftereentibus fubducerce. Von ^ 21. Sed fi vomitoriis agendum, ea omnino ria in cbo €evitentur, qua vel aliunde attrahendo vomitu lera fint attractam expellunt. ex. levib. . Sed cüm blanda illa mu! vicem fint;aqua Fomiter te pida; hvdrelzeum, mulfa, ox vmel,quæv aria ria in c)? vatjoneid petant; quomtódo ea in ahi F0424T7 s? Sibiliofa fit; et mordax ut ctiam fyncopen inducat, aquam tepidam, vel jus pu Ili fim- riezate plex, vel hydrelzum potiüs eligemus :Si craí- maierit fior fuerit materia, et picultz admixta, pt rxeh- genda eritaut mulía, aut oxymel cum aquá : S1 trefactus cibus, omnia hec convenient . 23: Per inferna, fiopus fit, id eft;fi moveatur imperfecte, fi biliofa fuerit,à mannà cmnino abftinendum, et abftereenübus ex melle; aut faccharo ; ftatim enim 1n CO rruptelam trahun- tur,&b jilefcun t :fedfcrum lactis omnium erit oreftantiffimum remedium, aut caffre fucci por tio, quz ardorem cohibet;mordicauonem com- primit, * blandé fübducit : quód fi pituita pu- trefacta 1d excitabit, aut bilis craffa, nihil pre- iius rit melle rofato, aut folvente ex fero lactis ; aut facto cum infufione rofarum rubea- rum. 24. Vtvomitoria in aliis morbis curandisin Veste multà qu: inütate affumi debent, ut etiam mole r:aiz cho natura ad vo cé" m proritetur;itain hoc mor /e4 zen bo mincr copia fufficiet, vel Aretzo tefte: quód frat, mul- Ur icmeiovss ventriculo, et difficilior exitus /4 2/2tà humorum acrium reddatur, et major vis,& do- '^//* lor ftomacho inferatur. In repellentium, et roborantium ufi hec adíit cautio ; numquam ftatim ab initio ea 1n. ufüm duci poffe : fi enim ex copià ciborum, aut ;,,, quas humorum 1n ventriculo, et vicinis pasbine Ü- qoid quo lis morbus provenerit, non prius ea concedi pc- 5,4» i5 terunt ; quàm materia 1]la majori ex parte fit. wap d gvacuata : quod (i aliunde affluxerit, nifi vires cez4a . i4 exfolManna, (5 faccha 1? barata s f"fecta $ cbolera* Repellen - tia1n cho it4 exíolvantur, permittendum etiam erit, tit. pars illius evacuetur, ne illius impetu xepreffo ; aut febris exitialis concitetur;aut ad menibrum ali- quod princeps repat ; fed non: dierum. numero hec movenda erunt, quód morbus acutiffimus fit, et aliquando uno;aut altero diezgrosinter- imat ; fed horarum dumtaxat, ut unius quan- doque,.aut duarum horarum fpacio viderim. tantam humorum copiam evacuatam,.ur vires conciderint,.& corpus quafi confumptum, et depreffum undequaque apparuerit . De Cardialeia. Cardial-. 36, Vamvis quz adftringunt, aliquo modo gi lahe- etàm repellart, in hoc tamen morbo rátibus in in principio repellentia convenient, dri atn'dlo modoadftringentia : illa enim affluen- esvenii;, £5ad 0s ventriculi humores mordicantes, po- x2 41/1, ui ffimümin febrium principio affluentesrepel- gea, lunt,adftringentiaautem, licet id praftare pof- fint, affluxos tamen quafi retinent, atque parti impingunt: fecüs tamen evenit, fi repellens ali- quod per os affi matvr ; repellitenim deorfum, precipitatadvenienté;corrngat;adftringit.& in- durat, ut ficillimé;munità parte interná,vim af- fluenus hum: risretüdere poffit, atq; repellere. Cadia. | In vomitu promovendo in hoc morbo, gia labo- heec adfit cautio ; fiflu&tuet materia, et proinde ga"tbu5 perinterval!la invadat, neqne nc va affluat, S qnádo vo VOmitorlo, licet.blando; uti poffumus;ut a: rd aO, . aij , aquà tepida, vel folà, vel cum fyrupoace- »sitoria,ee tofo, vel oxymelite : quód fi vel ab hepate, vel 4444ode- alimmdeaffluat bilis, potiüsrevocanda erit à fu- *^*foria. perioribus, et perinferna fübducenda. 6s cin 28. In biliofis, et acribus fbducendisiis hu« "4d | ^ Cédis acr& rioribus, licet Galenus, et Trallianus aloe; five, dis Hieràutantur, ut fi qua tuniciscris ventriculi jjj, matetia adhafcrit,detergi poffit; alii autem 2,44; Rhabarbato: placet tamen magis blandioribus ;a cardial uti, maximé cüm jam leniora commodiffimas gia,lenio- noftrozvo inventa fint; fic decoctum tamariri- néss utes dcorum, fyrupus rofatus fol. caffia, vel ex prunis 4&7. paratum medicamentum, aut etiam addito fero lactis, ræi1s convenient. 29. Placet tamen magis bolovti,quàm [liqui- S424ucess do medicamento ; quod diutiüs in ventre mo- f'^ &ilie- ram trahens, non folüm commodiüs fübducet /^: ^»mo- tales humores;fed fimul contemperabit illorum "777 cer" acrimonlam ; 1n quo genere et caffiam, et pul- iss pam tamarindorum, fi premum [locum obtine- 77^ 747 rc cenicrem . MT IDE E niant, c 30. Qnodfft1à pitvità fiatacidà, quod rariffi-,, qua for me accidit, euamfi ufis Hiere à me commende- 52. tir, quód humceres ilosattenuet., et fimul füb-: Here pre d'cat;cuoniam tamen et tardiffima eft in aCtio- eardialgia ric,&frpéà materie vifciditate evicta etiam. 7"'/cesdiz imiæis retordatur, unde fiepé fymptoma adau- fter al getür, optimum effe cenfeo, illi aliquod medi- 1*4 *»c- camen'rum admifcere, quod vim illius acuar, et *'c4"»tr7 quamprimüm medicamentum cum infeftanti- * bus bumoribus deor(um ducat. O 4 Ds $15 C0?7)U€i16. . De. INaufeas. Innaufea 31- V1tos video in naufeà orani ftatim aut quado bn evacuantibus per vomitum ; aut per mores vc- leceffum uti; felici aliquando fuccetlu ; aliquan- mt^; € doinfelii: quod ut evitemus ; obfervandum. 2:449 P** erit, an inanis omnino fit naufeay an cum aliquo ftf" vomitu: fi inanis; conjectandum,an aut infarcti Anu tunicis fint humores, aut admodum adhate- a wnbs Ícant; tunc enim omntiio preftabicillos attenua- praparas- 1€» abftergere, et incidere ; ut preparau poflint A. educi facilius : quod fi 1n capacitate ventriculi contineantur, et fymptoma maxime urgeat, ftatim aut vomitu educend? ; adjuto motu, fi ad vomitum faciles finc;aut per feceffum erunt ab- fterzentibus evacuandi . De Hepatis intemperaturis . 32. Y IN calidà hepatis intemperie;neque fem- per ab initio medicamento purgante » jupe, Univerfum corpus, et jecur expurgandum eft, quando Quod doctiffimi quidam viri, ex Archigene, et purcadzg, Galeno 8.de compof. med. [ecundum loc. ad finem, €^ quádo colligunt ; neque femper ab hac abftinendum.;, nen. rictüs folà ratione, &alterantibus ad frigidum contentis, quod ex Tralliano; et Avicenna alii cenfent ; fed diftinctione utendum : fi ex proca- tarticà aliquà causa fubito talis intemperies in- troducta fit in corpore alioqui fano,detracto fan guine vena fedtà, et refrigerandi totius ; ache- patis Hep tis £n cAlida Il trahat, neve calor, e s patis causa, et revellendi ejufdem à parte labo- rante,ftatim ad alterantia veniendum erit:quod fi corpus bile prius refertum fuerit, et paulaum intemperies fit introducta, altiu(q; radices ege- rit, et quafi habitum contr axerit, non. folum. fanguinis miffione erit utendum, fed medica- mento aliquo blando calidi humores jaminde» 'niti erunt | pus exp urgandi, mox reírigeran- bu s erit æendn m. . Neq; vero in ho c cafu fueie nd lus eft ufus Ain ccun i fero, aut (vrupi rofati Í olutivi; guod docti fimo Matt; uie vifu m ef (tob eam ratione quod cüm dulcia fint, periculum fitjne bilefcát: valet enim argumentum in 1is, quz alte 'rando diugcüs in corpore moram turahu nt,non autcm magis evincunt qu: àm ibdt icendo potiüs refri« 1n fubductoriis, qua c evincantur, et bilem fi gerant. ;4. R habarbarum potius m ihi fufpectum eft 1n hOoC Cà cium enim tardius o |peretu ir,19ne€as autem multas x artes habeat, quibus penitiores partes í facilé adire potef s et ] jecur 1 maois excale- facere poterit; ut ex lotio, quod ftaimab: Tum / pto me lican entof flavitiem affumit, e ru ffum. / confp ICItUF, quii bet cognofcere po Jte ít. 3f. In externis ap] licandis ea adf it cau tO refrigcrantia, et adítr in |gc ntia fint modera tai tum actu, tum potci hv m conha fu: 'tla,ne vifcus fcirrl 1 port CS,q 1inde cx halà ES I rerinceantur,ne etiam clau datur via fangu inl,aut LI denique putredini detur occafio, De 2L7 Hepatitis i/i 2016277 perie £ali- ^a man- na uon [wu fpectum . Hepati; 12 Intem- berie cali- da Rbhba- baybari£ f (fpe 7471 L4, Hepatis r1 E intéperie calida ve- rigeratia ett adffris Renta tm peu:? fnfecil. De frigida Hepatis intemperie . In bepetis 36. | IN calidis et ficcis externis applicándis |; intempe- ea fitanimadverfio; ne nimitininiisex- | | "ie frigi- cedant: fitenim (lepenumeró,ut humidioribus 1» da, calda pattibus abfumptis;aut e&ficcátis;fcirrhi in pàr- jen C^ fà "té cohcitentur. f4/pacta . De Hepatis obflruttioge . Hepatis 37.| N topicisinufüm ducendis, piimó hzc jk sn obitru- adfit cautio; ne attenuántibus umquam, éHone 4t- vitamur, nifi longo intervallo poft cibum affum- tenuantia ptum, ut non modó in ventriéulo cibis in chy- eie Iummutatus fit, fed in hepate'etiam jam mitita- dgio donem in fangninem nactus fit. Quapropter |; RA. cümà ceenáad prandium multó majustempo- |i f rs 1ntervallum intercurrat, quàm à prandioad coenam,commodifTimium tempus judicamus c(& fe, fi fiat perhoramante prandium. Linimbiis .. 29 Animadvertemus pratereà,antequamo |... f (us cali- linymenus,aut inunctionibus niramur, femper [s di ai fp;m V1ÍCus effe fovendum decoctis attenuantibus, et [i gia pra- difcutientibus cum fpongià, ut et inunctiones ittedi. altius penetrare poffint, et materia ab actuali »l» et potentiali calore attennatà, aut per fe diffipa- . |... xi poffit; aut medicamentis c corpore duci. RIIANII |.emone nó priàs applicanda erunt, quàm fectio- | ne venz evacuatum fit corpus, et pars materiz ^. I revulía: fi enim fecus fiat,vel fi ob abundantiam e E uo WA e 4 s *. cf ^ 5s Me - - A0. deu SCORE M. - o. ERE UUS De Hepatts inflammatione . 39.Y cet repercetientia extrinfecüs appofita. Hepate iz medicamenta in inflammationum prin //4mmmste cipio adhiberifoleant,in hepatis tamen phle- repelletta "m prine p:o. ante fe élioné ve- n4 non có ; "Y^ (o, EJ 3 *» F^ T* * e » ; ^ ' *p)o l 2, 1* | repellere non poterunt, rebellis magis reddetur 1, . K ÁO Ó N e | timor, et contumax, craffior reddetvr materia, et duritie coptractà fcirrham excitabit, vel re- pulía ad cor, et fpiritalia membra impetu rues, mortem ftatiminducet. 40. Laborante concavà hepatis parte, licet p,;;f'ag; faciliüs fit, medicamento purgante materiamo ;arne evacuare ;id tamen crudà exiítente materià, et bepauisip in rrinciplo fieri non debet, fed ccncoQà, &in «ezva par- decUinaticne. Qvamvisautem 1n phrenitide, !* megan aliquando ab initio, ad revellendum, evacv2n- dum, [cd d: m fit medicamento pureante ; ficut docet in, "* d.cina plevritide, defcendente ad hypochondraa dclo- «oi re, Hiep. 2.4cut. quia, ut aliàs docuimus, non-dum cruda eft materia, fanguis nempe bibofus ; in hepatis tamen inflammatione nullo modo 1d,, infini pre ftandum eft : quód, cüm pars 1!la labotec;,, sone humores, auià venis undequaque evomunt"r 55,5; i adjecur,etiamfi aliquà ex parte evacuentur ; p«»cipio per partem tamen laborantem feruntur ad ven- sos. 2a» triculum, sícaue et 1» becilliorem reddunt, et 454a. reduviz craffiores remanent; magifque impinguntur. 2 AI. | T e Hefatts gibba in- fidsaata, ante dta- retica le- - ninda al UMS. In be 11:$ HZ fla ?2 2 311076 4 yebellentt Dus, itüprilcifi0 niteda . Hepnte tn femato, aciü f !?i da fic fd 7 d 4 la 9 Quz in gibbà hepatis parte fit inflam- matio, et quz ad eam partem affluxa eft mate- ria, licet per lotium commodiüs expurgari,com muniomnium doctorum fententià poffe confti- tutum fit, antequàm tamen diuretica hec in. ufüm ducamus, optimum cenfemtus, leniente» aliquo medicamento, aut etiam abftergente», materias in primis vHs contentas evacuare, ne» ufi ducentium per urinam, quz in primà illà corporis regione continentur,ad penitiora de- ducta, inflammationem adaugeant. 42. Licet autem in principio inflammatio- pum aliarum partium fimplicia repellentia in ufum venire debeant, in hujus tamen vifceris phlegemonealiqua etiam attenuantia calidaad- miíceri poffunt, et debent, non eam folüm ob 220 7» caufam, quód frigida, et adíftringentia ad penitlOres partes facilis devehant;fed etiam;quód, cüm vifcus illud undequaque angufti iffimis ve- nis fit refertum, et illius fübftantia ex iilis: fere folis fit comp ffitasut proinde parenchyma optimé dicatur, fi frigida fola, et adftringentia aut exhiberentur, autapplicarentur, facillime ad- ftrictis venulis, et craffatà materià; fcirrhus in, parte concitaretur ; aut fane tumor per fe incu- rabilis fieret. 43. Vt proinde etiam hzc eadem hepati non valde frigida actu applicari debeant, ob eafdem caufas; tum eti: ime ne naturalis facultas noxam aliquam contrahat ; nativo calore quafi exítincto. 44. 9i j| I: aon: 44. Si tamen nulla adhuc affluxerit mate- zropatein Iia, fed affluxus certó impendceat ; ut in cafü » fz mdi I étu, aut externa aliqu: à Causa, pura repell entia, f1se ate etiam cum aliquà adfirictione,concedi po terüt. riasvepellé 4 $- Quinimo, i in ervfipelate vero eadem pu- !/2/ela c9 ilta conceci poffunt ; cüm :& materia fit renuifhi- (€ 15 efipe aMnpa, calidiffima, ut periculum non fit ; ne ni- eri 1 epa amis craflefcat, &-obftruat venulas . tis, vegellé » Vnde etiam frieida actu repellenua C3.» v fola ci Aapplicari regioni hepatis poterunt j CUm cns eoninnt. Irenfiffima fit ibi caliditas ; qua ctiam medica- /5 er yfipe- Amenti mntenfionem refringere facilé poterit. In. /a:e zepa- IQuo edam cafu pau» dllum aceti indendum crit, ris, frigi- Jr frigidiffimi medicamenti penetratioadjuvas 44 2s Ar? px flit. abplican- 47. Et quemadmodum ratione partis ab jni- B | bebati |, Ho dictum eft;non puis repel Hane. ieudu B. t "T" PA E: infamma (Ie, fed attenuantia aliqua effeadmifcenda ; 1ta | à [102€ 5 17 lin declinauone non pu risrefolv im us utédv I sch æcoiimatio docuit Galenus 15.4e:5. fed nonaihil adftrin- ne puris re Ipentium admifcendumeerit ; ne laxatà nimiümo | (juez j. parte, tonus illius deftruatur. bus non utedum . De Hyárope. 149. Varmwis illud et veriffimumfit;& Gaost bydro- leni auctoritate confirmatum, /:7b. " ferofr H0 $5 TUR que tao pur. CAYC oportet ic- Mast lrofos humoresab1 initio p! Iro ari pc offe, quód. nul 44 ize ; illain eis exfpectari debeat coctio, quód nullam purgarz cionem admittant ; cavendum tamen erit ; 5o, validis fed à levie ribus tn- ehogdum. Poft bydra g^:^ vale 1:a ventri ciilus vobo YADUÁLS . 1n Iydre- picis «tte- nudis tenda s nt butic- yes p wies mua du- "T poffint . In bydvopt DEG m ear1té xWAII2HÍ dia no 1i- ff LCLPDP Iní y iret ín düweti cis nà diu 57 fallenLVDb. SEPT.ALII MEDIOF. cOgIS ftatim ab initiojfed ]evao 222 validis uti hydræ rialiquo med icamento erunt prima excremen- ' ta educenda ; et fic vie ad-validiores evacuatio- nes prxparabuntur. 49. In valenticrum hydragogcrum ufü fem- per maxima ventriculi: ábenda eft ratio : cm., cnim majori ex parte tonum illius I5befactent ; fi frequentiüs, u ità multis foclet;jexhibeantvr;nisíque abillorim exhibitione ventriculi habea- türratio, imminvtà aqvá flates cilicrem, fi Averrci credimus, zerum noftri m» inducemus. jo. Vt veriffimum eft, ferofos hos et aqueos humores nvllà coéticne effe preparandos ; )ta» cüm pctiffimüm perl-tiumfint evacüandi; via, per quas permeare debeznt, infar&u funt hbe- randa: in quem ufim et decocta, &fvrupia atte- nuantes, et abfteroentes, et incidentes maximé converient,ut cráfficres,& limcfi humores vias cbfttventes, et effluxumvrinz ad renes, et ve- ficam impedientes pra parentur, ac facile educi poffin at, $r. Nectamenin horum ufu diutiüs infiften dum eft, ne dum 1d tentamus, morbificam cau- famadauecamus. $2. Hocautem maximé in vfu vrinam proe [Hi mmcventium eft animadvertendvm, et cavendü: vidimus enim quàm plurimos, dvm obftinaté nimis per lotium humores hos fercft s deducere: 1! ec obfervarent,an co-- 1t potionibus 11$ tentatent; pia augebitur, et in^ deteric remfpeciem hydrcgi is, et curatu ciffi- la urinz augeretur, mortem a grc tis fuis acce- Ica petu [entà il!à materi in corpore reten- IEà, et in morbificam caufam mutatà. $3. Praftat igitur per tres, quatuorve dies, lipericulum facere, et potionibus rem hanc tam- iquam aptioribus aggredi : quód fi pro voto hzc inon füccedant, aridis res erit tranfigenda, fuccis Iconcreus, pulvifculis louum premoventibus ; Itrochifcis, et fimilibus. $4. Rhabarbarum, quod in hydrope labo- Prantibus 2 à mune. commendari video ; ut for- . [té aliis pro roborando hepate acmixtum ccnce- lili poteft; ita fi frequentiusin ufum ducatur,aut licommanfum, aut in pulveris formam affü m- | ptum, ad evacuandum numquam probarià me pee quód talia a aprum non fit evacuare, qua- lia opus effet,quoc ique docuerit Gal.Zb.de purg. I ozcd. f acul.eap. 2. quz flavam, vel nigram bilem purgant, Amportuna efTe, et inutilia hydropicis. $5. NNon omittenda eft Galeni animadverfio lex Afclepiade, 9. de compo[. sed. Jeeundum loc. et ; M à Tralliano repetita ; cavendum effe à frequen- f uoribus, et iteratis vacu: auonibus;qu iod hydra- j.o02a hac per fenoceanrz he pati corpi üfque uni- ver(um reddant debilius, et plus phan quam. profint: itaque faris eft; ceftante A lex./ib.9.cap. l| 2. paulatim, et tutó vacuare, quam fe finando, perturbandoque,unà cum morbo agrum de» medio tollere : praftabit gitur, ev acuatà parte materie per feceffum, hepar per aliquot dies ro- borare, moxque yacuationcem repetere. 16. QuamM aum, £5 quando. Potulenta i» bydrope Ex ep? fafüecin. Rbabarba ri Lbydro- picis inuts TH Hydropi- cis rebett- ta fapiss bydrago-- gAnexia« vefeckHa ^ $6. Quamvis duos hydtope laborantes fana- pydlropicis à viderim ; quom in cruribus perfe excitatis, eribus et difrupus;& multà aquà ons eam partem eva- ephlicat^," caatà, exhibitis pofteà multis hepar roboranti- pericula-. us; nullos tamen umquam fpacio h oc quadra-- e cinta annorum,quo in magnà hac urbe medici- ' 'nam facio ; curatos vidi, quibusà Medico vefi- cantia cruribus admota fuéte, fed fere femper cangtznz fubfecutz funt cura itu impoffibiles; ;ut paümée etiam doctiffimus Maffaria longà expe- rientlà obfervavit. e De Lenis obftruélione s C darstie. $7.3 N fplenisobftru&tione non ftatim refol- Veleibis s,quin ne quidemattenuanabus 'alidis medicamentis cftasen dum :cüm enim anenuan Vicus hoc femper fesculenus, et craffis fuccis sibusagé- refertum fit, gi ulum impendet; ne fubtilio- dum . ribus,& liquidioribus parabus abífumptis,craf- fiores, quz remanent, per ea quafi lapidefcant; et verumfcirrhum inducant. Splene ob- (8. Prineipio tetar emollientia adhibenda» Jffructo c (ui t; et fluxilem materiam reddentia ; poft au- duroymil- tem difcutientia tuto adhibere poterimus. dendi Uu. $9. Sed cautione hicopus eft, nó effe utrum- 220, post . vefolven- gum, Splene ob- Firuclo,no validis :ue hocofficium femel tantüm prxftandum;tedij repetitis vicibus;,punc emolliendum;nunc quod emolliítum eft et fufim aifcuti tiendum ; itertimi-J que quod jam emollito fübeft;iteruin emolhen-4. dum; mox ;élbtvendii S digas tota molers$ ditfipetur . . Nec z5j 6o. Nec placet, quod plerifque ufiratum fci- 17 l'en nus, m initio emollientibus attenuantia admi- ticis 9 l| fcere, ut illa incommoda evitemus : cüm eim lentius. eodem tempore ducrum illorum operationes ^" "5^7 | perfici nequeant, fed attenuantium,& difcu üen | rium ;ob caloris efficaciam, actio multó citiüs ll abfolvatur zinillud femper incommodum inci- | demus, quód difcuflis fubtilioribus part ibus, | qua fuperfunt ficciores evadent;ac difficilius fu- perari poterunt. 6&1. Nullo modo Hier. Mercurialis fententia 5?/enicis in obftructionis lienis curatione ; /b. 3. de cogn. '^Xàtións | C c ramdigibuma n corporis aff eciibus, cap. 21. re- aliqua ad | E: ienda eft, càm in lienis affectibus curandis, ^44 imu am neceffarium effe cenfuit, ut medica- "^*^: I"menus laxantibus commifceantur adítringen- | tia, ob eam rationem, quód, cüm viícus illud admodum fit 12no bile ;fuà naturà debet effe la- xum, et latum, ut facile recipere pr fiit humo- I res melancholicos ; cüm fententia hzcé directo | repugnet 13. Z44eth. cap. 17. fed maximé 2. ad E ec. cap. $.& ratio id docet :cüm enim vifcus | fit non parvi momenti,multum refert,nimiüm- ne fit laxatum; fic enim illius tono perfracto,fa- cultatibüfque- naturalibus i edditis 1mbecilli- bus, minüs recte fanguinem defecare po terit,& | hiepa r, corpüfque univer(um expuroare: minus | tam en, quàm in hepate curando hac in re eri- ] mus folliciti, et in minori copià emollientibus ] Bicuingenna admifcebimus. 62. Fruftraobíftructum,;aut duritie tentatum Lies vix p lienem tuno O56 feenda « fe lot: poet PÜeyieióin € fr ncifio TU gon Put- yofos Las 6 J quB s et 4 ob J 11] g'4paran- 20 di r orediuntur ; cium enim mdflns ab hoc vifcere adl vias urina fit tranfitus, Galeno etiam tefte, 15.. Meth. 17.1d fruftra tentare cenfendum cft, in. quo Medicum fruftran fine contingit:per fecef-. fumieitur ea materia ducenda etu Quód fi quan: do aliqui per lotium copiofum curati vifi funt, ut de Bicne fcriptum eft j 2. Sec? 2. Epid. id vell; et per vias occultas factum]; recenfet Hippocrates ;velf ane aliis adhibitis re--|, tamquam rarum; mediis emollie ntibüs X diffipantibus, et per alvum fübducentibus,cüm multa feeculenta. per venas pbi. materia, qua foveri;ant re- novari tumor ille poterat ; per urinas ei fubdu- ét, pra quod imitari Medicus poterit ; ubi nigras craffas, foeculentáíve urinas adetfe COgnOverit : P Jienem curare conantur ii ; qui. diureticisidag-. expurcay i in? rfervatio potius, quàm curatio facta eft::| autt]. diureticis enim tutó tuncuti poterit, adantece-.| &4cntem materiam per eam partem vacuandam..] De lero. Icet Galenus nofter, Jib. OQ; 40$, C2 quando ; purgare eportet, doc uerit ; lenues, et feo j* initio efle évact icteritia biliofi fucci funt ftatim evacuandi ; neiw que enim f: mper ten ucs funt «neque ferofi dicii] poffunt: preparandi igitur ante evacuationem jl et,fi putrefacti, omnino concoquendi ; vel exd K "I d. s ^ d - ! fh fent Ruffi fen -- Ww "2 wi 6 A. Á t :s humores,nullà exfpectatà ccctione, abii 'andos,non proptercà tamen nah Med imperfecto, un lequaque bile difpet: ieve- inert. &4. At veró cüm bilis quàm minima copi: à» e. ida A clerici vA int nalliad inteftina crahifmifs ; ex obítructio- ;, d n F II. 2257 1 [2 "P2: * S x Leltis ned ntiori- Ine veficz fellee;torpida remaneat expultrix fa-. ;, 4j. cultas int eftinort um, va le ntioribus femper mnc- Cc£ADRERTS ldicamentis erit utendum . ond. 6*. Cavenda tamen. valentrora hec medica- C) a5 dà limenta erunt, fi aut ex hepatis inflammatione» wvalentiec1 Íymptorma hoc fuperven« rit, aut motu c ririco, fa furgan De Colicis doloribus . ^ i :, 3 1 anodvnorum in hoc morbo: lud 1s ecolieis P W ha i primóanimadvc denied Bi iritio, fl dulorzbug in ufüm ducantur,antequam evacuata lit mæ- initio teria, non effeadimifcenda valentet difcutientia valere? flatus; ut rutaceum oleurb, autolea quibus ru- [citieita » ta, baccz lauri, et fimilia incoctafint,etiamex ^^: Galeni oracepto 12. 74M erb.8:cüm enim ob co- plam mate riz affidué flatus eenerentur;non va- lentia illos difcutere, fap édok res augent, G7. Erranzimultó magis ; qui 1180 leis vinum E aut fapam (tatim ab REPRE dmifcent; vfteribus infvpdunt: cruciatus ab n fiepe aup» colicis clyfteves ab initio cum vinos eentur, excalefactis, attenuatis nimiüm rai 3 fabA3 T Ó ot. ZEE . á vUeyí j"pyp" fis et frieidis humoribus ; et in halitus ele- 55i. vatis. d. I" ^^?" 1 diss A143 529 )' 6o. t quemaa modum catlidaiozà hact oten- colicis €8 tia,frive itf 351 five extra,!n prit pi lo non la uda- /ida va4l- mus ;itaáctu etiam nimis calida concedendas 4» 44^ s cí C eocamiFt ; tpalá » Pa 69. Anime Chfte 69. Ánimadvertendum euam ; ne clyfteres colicis ge 4ndantur, repleto adhuc yentriculo: fic enim ci- indantay, Dus attraheretur apte ten pus,magi(que impin- repleto ve gerentur crudi humores in intefünis, augeren- triculo. tur dolores, et cvratio redderetvr difficilior . Stubéía- 70. Stu pefacientia quamvis in omni dolore ttezt/27? colico convenire poffint ; frequentiüs tamen in col'icis 9- nm duci poffunt,ubi materia morbum faciens Prom^.po- c lidior fit,& acris : non folüm enim fic fenfim pol O btundim us,fed etiam caufz morbum facientis ris e,Lj. au onem habemus... | dis. 71. S1quando tamen iis utendum eft;eó ufq; Opiata i; ion funt differenda,donec vires vitales jam col- eolicis, vi labafcant ; egérque non longe abfitab interitu : rió4s va- folet enim fzeepenumeró fine dolore dormiendo denriéus . yita terminari . Colicis ip | 72. Incolico dolore ex pituità, fi quis recen- dolor;5j; tàorum dogmata fecutus lenientibus folis;aut ad furgani- fummum ftercorariis admixtis aloe, aut. Hierá éus in ini Galeni ccntentus, à purcantibos veris abftinuc- fio utez- rit tandem honoris jacturà factà;aut eeros mo- dum. ricum maximis cruciatibus finet,aut alterius Medici acceffione, qui cum Grecis omnibus, et Mauritanis, validiori medicamento pureante, et abftergente propinato,materiam ab inteftinis deturbabit, ac eà ratione dolores aut imminuet, aut tollet, exiftimationis non parvam jacturam faciet: non valente enim leniente medicamento vifcidam, et craffam pituitam deturbare, et Hieràob tarditatem actionis diutiüs in intefti- inis commorante, et fepiffimé non valente per- cranZ ^ ^ * ES wg. JERDL Q4 T: 2e C RE--- 0 0 M ANIM-ADVERS. LIB. FII. 229 canfire, fed materiz illi craffe adharente, ele7 vatis flatibus, validiffimi dolores excitantur ; et augentur. Qr'are preftaret u rgenti dolori quam- primum r eductà materià fuüccurrere ; et 118 uti; qua cum attenuantibus mixta citó materiam» fubducere pcffent. Neg; impedit, utad locum aftc 'ctum materiam deducanius: nam neque ve- 1e locus affectus ita lafos eft ; ut hunc Serien non adizittat, cnód ad hoc à naturá fint inftitu- ta inteítina ; et (i qua materia ad eas partes du- citur, fimi le tiam cum præxiftente evacuaturj fi affecta cflet pars, fi inf! ammatlorne ten Haste] tinc maximé peecaremus, fi talem 1n eo caíu evacuaticnem procuraremus. Neque cruda» hac materia dicenda eft cà cruditate;que ab 1n1- tio, pracepto Hippocratis; evacuari non debet; de cà enim ca fententia intellieenda eft ; qua ex pt tredine fadià, Coéctlo nem requirit; qua putri- dis debetur hi moribus, quales fu nt humocresin febribus putrefcentes.. Hxc extra venas eft; 1n locisad evæuationcm inftitutis fine eenereillo putiredinis, ita ut folis attenuantibus aliquibus ; et abftergenübus, tam peros fumptis,quam 1n fufis, preparariad evacuationem pofhit ; quin- imo infu fis per clvífmata Pa U. atà vià,& attenuan übus mediocribus difpofità materiá, fi ctia pureantibusattenuantia admifcuerimus,; X eft Hiera, intceré omnibus fatisfacere. poteri- mus ; fic enim fvbdv cà materià, et diícuffis, quin et expulfis flatibus; aut dolores folventur ; 4 alt certe maitiores fient, Dp j 71, Olei i;0 V/ussli,- 73. Olei velexamyedalis, velex femine lini ij: in colicis wis, ubi multaadfuerit materia craffa ;inuulis;] i 205 €v4- C^penumceró effe folet,reünetur enimaliquan- | í Bus ss do; et vifcidiorem materia reddit : et licet tam--| teria, i,, quàm anodynum quandoque mitiores reddat] i: il. olores, quoniam tamen materiam peccantem /] ii fubducere non valet ; folent non curari dolores ; |ui Íed fepe denu ó infurgere. Oleum in. 74. Apertàig itur vià, et fübductà parte mæ] ui cici; lerie,autenematibus ; aut medicamentis pure «du ou^»do gantibus, fradhuc urgeant dolores ; preftandf--[n optimum fimum effe folet prafidium. préftdib. ^5. Sedíi vereamursautob craffitiem mate-.| rdg riz; aut ob ejufdem quantitatem, ne poffit prz- ddodacs terfluere, admifieadunilli etit nonnihilabíter- abfise, 8 gentium,ut meliis rofati folutivi;aut etiam pur- | tibus, ay; gatum, ut diaphenici l;ve cl electuarit Elefcoph,,| purganti- diffolutoru mcum aqua aut glandium Perfico- | y; éus . rum;autaniforum; aut fimilium . Ín colis |. 76. Quod fia à flatibus.dolores provenerint, à flatuyo- fine mulià copià materiz, nihil eft quod magis ha data exufit effe foleat eodem oleo;etiam ab ii nitioauc | etiam. ab per fe fumpto aut ; quod: melius cííe facpius ex- Jue sr ^- pertus fum, cum pradicus. | EI Seem 77. In ufu vomitoriorum cauti fint maxime: [i A a fi enim ventticulus, et fuperna parces inteftünoe | £olica. s. Tum replete nimium fuerint, ex ufü maxime li fvs, c» 4. €rünt, ut medicamentis ad dejiciendum ingefts: [i éufus... locus detur pertranfeundi: quód fi totus dolor; eiüfquecaufa infernas partes obfideat, non fo- lum fruftra tentatur vomitus, fed aliquando fit. | cum ANILMADVERS. LIB. cum zerotantium certà pernicie;vo Ivulofi enim fipe fiunt; ac cum certo mortis periculo, etiam ftercora per eam partem evomunt . 78. In cucurbitule magne appofitione regio- ni umbilici ea adhibenda cft cautio, ut ea ex illis fit; quz funt in medio perforate: fit enim fzepe- numeró, ut cüm pars fub]ecta mollis fit ac pan- eguis,multa illius rcoles inuró trahatur, qna fub- tractionem-cucurbitulz impedire folet : unde» vel diutiüs retenta 1n fp! acclum fübjectam par- tem deducit, aut fi frangatur, ut hocincommo- dum eviremus, aliquando ex vitrorum fra- ementis cutis vulneratur. 79. Cüm pluribus, potiffimum mollibus, et perpinguibus, hx: antes fere fintumbilici, et ex vi füperpofitz cum igne cucurbitule pinguedi- dosis a portio aliquando trahatur per eati partem, confalo;crifici o1lliut prius fü perponàt parvüm ceratum, puta,ex cerufsà coctà ut tale incommodum evitent - Vrincolicis doloribus ex flatu anodyna ftatim et interna, et externa concedenda funt; ut cruciatus illi mitieentur ; matcria; unde elevantur, fitevacuata; ita ea fu- gienda effe cenfeo cum Gal. 12.7 eth. qua infi- gniter calefaciendo difcut ere quàm maxime va- lent: attenuata enim fnateria. majorem Jocum. occupans inteftina magis diftendit, ac flaubus 1dauctis dolores auget. Cucurbitula etiam in iis dolor'bus ex flaVII 3t eadamfi nondutn : Cucurbi- tale ma- £v4 inco lzcis appls cand& cati £10 e V mlilic? mnunter- dus in ap- plicatione cucurbi(Ux 4. Colicis ex f'atu Ta- lenter di- fcutienits An6XlA « Celieis ex tibus, ubi urgeat fyroptoma, uti poffumus ; fed. f/4tu /a£o FP cctTante vàtes 441 Ce(lante dolore, vel mitiore reddito ; materias; eucirbituunde elevantur, fübducenda eft;alioqui redeüt, le ufam ut optimé docuit Gal. 12. Adethb. cap.8.Si tamen P^44:- non adcó urgeat dolor, utomnem ad. fe trahat indicationem curativam, preíftabit evacuatio- nem pramittere,prafertim fi multa fübíit mate- ria; aut adhuc novaaffluat, ex 13. Z4eib. 19. 92. Contingit aliquando, ut colici dolores adeó vehementes fint, ut omnem Medicorum 444 qu, Operam eludant, 4C quocumque auxilio adhi- doque tet bito potitis augeantur, in quo cafu ad contraria dum. €tittranfeundum:Cüm enim colici dolores ma- jori ex parte à materià frigidà fiant, aut à flati- bus diftendentibus; fit aliquando, utaut ratione dolorum, aut vi igiliarum, aut maroris, ob con- tamaciam aut incalefcant nimium inteftina, accedentibus etiam calidis, et intrà,& forisappo- fitis remediis aut phlogofi quadam tententur, autetiam verà inflammatione incipiant affici, aut multa præxiftens bilis ibidem transfunda- tur; unde ad conrraria erit cranfeundum ; et in- figniter refrigerandum. Quod mihi anno prz- teritoc ont191t, primo in nobili Hifpano, peci- uum duce egregio ; poft in N. à fecretis Iluftrif- fimi, et Excellentiffimi Marchionis Caravagil, qui cüm colicis doloribus per aliquot d lies fuif- fent acerrime conflictati, et jamjam mors efset pre foribus;nulli Jp /^ eget arteriarum pul- fus; fudores adefsent refolutorii, nulla denique ampliüs fuperefset fpes falutis, ne quidem apud Medicos cua prettantiffimos: accerfitus et ego, cum Golicis im delorióny frigida a«x - A "use c EET 1. cim fitim inexftinzuibilem,linguz fcabriciem, nierorem, ac.duriciem, pertactis autem hypo- chondriis, et ventre inferiori, calorem in parti- bus illis eftuantem adetl c obfervàffem, Hifpano aquam multam nive et: um refrigeratam biben- dàm exhibui, cüm naturà abftemius efset, et multz aqua potator egregius ; in íomnum pro- lapfus eft, et quatuor horan m fpatio cüm dor- miviíset, dolore quodam. inferioris véntris, à primo maximé, ut ipfe referebat, diverfo exci- tatus à fomno, miram bilis flav copiam evacua vit, et à doloribus liber evafit. Vndejcollegi; Me dicos, qui illius curationem f fufce, "erant $ 1n Causa nx rbi illius longe deceptos bá e cum. calidis remedus curationem inftituifsent, à fr1- gidà materià factum morbum judicantes . Alte- rumautem, cüm jam agentem animam invenif- fem, non alià ratione ftatim curavi, quàm lineo i|ds plicis in quadrati formam com- to, hine immetfío ; ac mirantibus aftanti- bus quid facerem, ventri füperpofito.cumque» ut dormiret injunxifsem, dnt itiüíq; edam fom4 poopp refsus fine motu cum conquacte CICLU, VCrentes affines, et uxor,ne jam fatis ceffifset,cum experge f ecif: ent, indign: inuitus s, quód tànto bonoe eum privà sen t, quafi € lecto exiliit; à do- Lubin cmnino ibis : 85. Si1ex Miiaienon inteftüni dolorem. fieri conueerit, caveat Medicus, ne ullo qvan- tumvis levi medicam nento fubdi jcente utatur,ne attractisad parteminfiammatam ab illzefis par1 i9 ee si I2 celíci (x inflar H ?97»at105H£ [^ purgatto )* yv TEIZETTS tibus; calidis;aut pravis humoribus;aut inflam-, matio augeatur;aut impedito tranfitu,in volvu- lum de(inat. Caffia dn | 94. Caflie tamen folius ufum aliquando non eoiicis ex refpuerem in tali cafu;quód miti illo,blando,& sfiam- humidocalore lie pé i inflammationem fe det, do- 745"* lorem ]eniat ; et fuppurationem tumoris ad- 1075. juvet ; Seu d 95$. Quamvis venz fectioex brachio in coli- Coco 9? 6o dolore x inflammatione, decreto Gal. 12. dolore ft- da bina AMetbh. zzed. commendetur : sf tamen eó ufque » 514],,. P'orbus pervenerit, ut urinim fü pprimat, fecta liquagdo Vena intalo maxime conferet; aut poft priorem coofep:, Mlamy,fimultaadfuerit plenitudo, aut etiam fi talis non adfuerit, fi ex talo loto fanguis primo mittatur,non erit preterrationem, d expteri- menta. De lvi fluere [ N alvi profiuvioillud ma: ximé cavédum, epus ne,dum virium maxime habere ratio- gui L nem voluerimus, confi et jurt- bis pinguibus laxitatem ventriculi, et intefti- norum nimiam neenon: ius ; alvique fluorem jn Iecamus. I» SN 97. Sunt fepenumeró noftrates Medici in., rf.io frigido potu concedendo reftricti, ut rralint ^ gidaus cum manifefto detrimento tepente aqu àfluxü, potus [epe laxitate introductà, alvi augere, eo confilio, convent. quod frigidum nature inimicum cenfeát, quàm Juíto jufto teri defiderio faüsfacere, quod tamen na- tura eti. am bene operant e fit; ut et adítrictioni Bt fni dumm (atisfiat. $8. Inflammatione tamen verá tentatis inte- ftu nis, frigide potus vitandus eft. 69. C Cavendum in diartheeà, quod plerifque video confuetum, ne femp er aut in plerifque» ftatim abft erforium aliquo d exhibeant; ut mel; aut fyrupum rofatum aut fimplicem, aut folu- tivum cum fero lactis, aut mannà;cüm enim ali- quando bene Opcrante n. atura id. fiat,non erit aut irritanda, aut promovenda, fed totum ne- 9otium natutz erit relinquendum: fin veró ma- là qualitate icritata etiamid natura przftiterit; non etiam erit adjuvanda, ne calcaribus natuta current addius, pt Izecipites in mortem agros igamus : 1peCctatores1g1tur p« nus hu jus tnotüis nature aliquandiu erimus, et morbi morbifice- quecaufe potiílimum rationem ha bebimus, Quod fi naturam hifCere, aut fuccumbete vide- rimus,neque materiam poffe pfo rauone eva- cuare,irritari tamen pattes; fzprüfque ad excre- üuoncm fere inaniter provocari ; tentiginem Hn ano; et inane defiderium egetendi fubcíle ; tunc manus adjutrices petita 'ere coni eniet, atque.» abítereentibus uti ; quin aliquando folventibus blandioribus; ut matind,& (yup o,aut melle f£o- fato folutivo;ut quod pluribus egeftionibus cum dolore, et natura labore evacuati tentatut, bre- viori t€empore,& mincri moleftià educi poflit . De Frigida f'gien: dá .AABngB fla 375 72411058 inteftino- Yum OQuado ab fe '"geati- bus i diay vL&a uten dumIz dyfen- geria qua do purga- dum, c^ a [£4 Jed bono viclu C facili ad alia 236 LVD. SEPT.ALII MEDIOEL. De Dyfenteria. 90. Vmin curandà dyfenteri3 adeó diffidenr tes fint etiam doctiffimorum virorum. fententiz, an reterto corpore pravis, et acribus humoribus, laborante dyfenterià verà, ulcera- tis, aut abra fis inteftinis,conveniat medicamen- to aliquo faltem blando, puta, Rhabarbaro, myrobalanis ; tamarindis, manna, fyrupo rofa- to folutis vo, et fimilibus, humores evacuare an potiüs omnino ab iis fit femper abftinendum,; qt ie in mediciná faciendà maximi momenti effe conftat. Ego nonaliam hac in re fententiam in medium proferre tentavi,quàm eam, quam no- bis tradidit doctiffimus Vallefius 4. Epid. cap.96. qui ab utráque fententià extremé diffidens, ali- quando pureandum cenfüit, aliquando omnino abfüinendum y voluit. Verba eius fünt : wt zn d'yfentertco ef! cusa cacochbymiasmæna exulcera- FIO nondum Wai TAG aut cum exulceratzone magna cacocbymia EXIGHAS AUT ut raqs exiguas aut utraque magna: $z pyimium, expureari debet: S1 fecundum, miti o fe dad [i dores,ad urinam ; ant vomitus »o0t "andum, e infa umaum loce alib Z7A1 777 C i ius 3 cu £X- tertius pro ulcere curando : Si tertium,ue tunc qu. dena localibus admoduss, "eq; purgatzone opus eff, f €UdCcHuA 107€ 5 6 €Yi- vatione : Si quartum, "aic abilis eft, facies aut Hi. bil, aut omia tentandigvatia, velut 12 ve de[pera- Tales enim etiam cui ationes aliquando pro- mihi femper difplicet illud Celfi : ó&pe ] 4A. C iUcrant; : neqs;i JAXNTIM.ADVERS.. Sape quos vatiozon juvit, remery i47 dia peyut à 91. Debet i1giuir quan primum hujufmodi 7» dyfen- humor pravus ;& acris evacuari aliquo ex prz- teria, ubs dictis medi1camentis, fi illius m: enam copiomo PA/*9Z4d, €X CIIS amalrcre, ventris ti his tione, avt aliis qmm fignis fübeffe ccgnoverimus, antequàm ex fre- " id qt enti, fed paucà excreticne ulcera adaugear- Heo e: [Ur,aut vires de ji ICIantu | 92. Animadvcrterdvm tamen, fi fübeffe co- piam arrabilarii humcris cognoverimus;,etiamfi exulcerauc adhuc magna 1n inteftrfüs facta non fit, non ftatim purgeante medicamento cffe edu- ; cendam, cancerofa enim u Icera,& peffima ex- citaret; fe dattemperar!, ejüfqu e ferocia delini- ;e, bris r1 prius debet.: quod ubi factum effe cognoveri- feroia il- mus, cmnino evacuari debebit, fed blandiffimo iss tezzp medicamento ;, deccétione tamarindorum, vel 72454: jmyrobalarorum, cum fi rupo; vel melle violato f"'g26z. folutivo, iifque fimilibus. 3. Rhabarbarum in dyfenterià ab Hs."qUi nLea BAS rt: orum dogmata fectantur,qu1que pur- £227» || gandum fepein cà cenfüerunt quamquàm vl- 4yfzate- I deam paffi m ad hunc finem in ufum duci. potif- ria f/'sfpr- l| fimüm ubibiliofi,«& acres humores abundave- &- rnt;quod tamen et tpa "Enos partes habeat, || quod in fübftantià affumptum, ut in hoc affectu || pleremque fit tunicis intefünorum, et ulceri- | bus adharefcens dolc res pariat implacabiles; ut I fa pius obfervavi, omn ino fuoi ndum cenfeo c; I quamvis fvrupusde cichoreà Gulielml cum eo. ccu. cà | paratus ad/triélione carere fatendum ft, cimo Zadar iamcn y 4») 7 C-0 terta, bue 530Y€ atra y' bilario e, aAa0€Y 217*toG Gulielmt. 4-4 $2 tact» admit FN TS /2 19: &ji Rbhbaba pe bav 4 1er refackuim 2n dente eti at ei £ 164 à am. Df fentert £15 yao 47. s)0n1f fan gHints ys!jf20; (e €Hvr » ramenà cichoreaceis igne illius partes reten- 'antur, fi cum decocto ramarindorum, aut my- robalanorum concedatur, non ita rejictendum., cenferem.. 94. Sed 1agis etiam recentiores communi erróre decipi iuntur, torrefactum R habarbarum in dyft enterià vagis,adftricüonem, et ex- ficcationem augere volentes ; ut utràque facul- tate, purgatork à. .& adftrictorià adauctà, melius intentioni fatisfacere poffint quodi innoc entitis fieri torrendo putant ; cüm experientià conftet, medioctiter tot xefatutn vehiementiüs,:à et mi- nori dofi purgare, quàm integrum ; 1eneas ta- men partesadhuc magis vigere: et fi majorem. sd eto adhibuerimus, purgatorià faculta- te penitüs deftituitur. 95. De mittendo faneuine per fectani vena, cüm graviffimorum virorum fententiz é diame- troomnino inter fe fint contrarizsaliis majori ex parte fanguinem mittentibus, aliis pumquatn.. Eco hujus fii n fententia, fi fimpliater dyfente- riam confideremus, aut ejus caufam, aut multa cx adjunctis, dolores, febres, 1inflammauones ; omnino convenire miffionem fanguinis, quà& |^ fluentes hun ores ad partem laborantem poffint retrahii,& plenitudo tolli, et jecur refrieerari ? fed càüm fopiffimé à diarrhæà proc ducatur, illiüf- que edam perpetuo fit focia, in quà,eti iamfi non fit pro mu ltitudine fufficiens, num quam mitten dum effe fanguinem cenfui i Fil »p.& Gal.4 de 2 rat. yict, t5 acut. tie. ( I.4d Glauc, CAD. 14- aubdi aut pl »1( it 11i "no AGE PCI y dg ima a AND aut vires vitales fint imbecille reddite, aut pe- riculum 1mmineat, ne profternantur ; ra ró cen- fendum eft occafionem dari fanguinis mittendi ; potiflimum cüm majori ex parte in hujufinodi Caíu íciamus peccare humores à fanguine diftin- ctos, et tales gros cacochymiá laborare, facil- liméque tum o b evacuationem, tum ob vehe- men tiffimos dolores, vieiliáfque qu: afi perpetuas,in fummam vitalium virium debilitatem bicidenc.. 96. Sitamen aliquando mittendus erit.fían- Dyferre: euis,alvifluore non magno przefente »1r inflam- cis quan- matà parte, urgentibus doloribus, hepate, 4»,c quo toto iua e b febremzftuante ; aut o D Ca- fmodo[an Icfactos 1 humores in venis, viribus prefentübus, fr confentrientibus, imminentis virium colla » is dicioni: penculi habitat atione; r ec multu m,neque c fertim, et femel, fed parium per intérva illa.& fx pius ev: 1CU: sÉ) ius, Aéti,& Alexandr etiam fententià: Ídque non cà folàm rauicne, quód vi- res non 1ta dif : an ntur,, fed etiam quód iteratà evacuatonce fangu inis meliüs revulfio perficia- tur,qua maxi re in hoc atfectu expetitur,ut Ga- |! lenus auctor eft lib. de eur. vat.per [eciam venam, cap. 12.fiquidc " | natura toties irritata majori cü 'J impetu et facil Itate: affuefcit materiam, ad affc- 'J «tas partes confluentem .1n « ntrarios locos de- pellere, et quafi per alios rivos transferre . 2, $45. ARTS TERR TES Lathis 4 | Delactis ufu in dyfenterià cüm videam ; | Y p ied : Æ . oir furin d ddociiffimos aliquos viros adeo iraffe, ob ^ " L1; 4c Q- mcm pr I " 4 b " j Fev?n | AAÀIPpOCI2US, C izalcni AUCLOILIAUT $ p 70r. X . et Celfi, Ib. 3.cap.25.ut rariffimé in tali mor- boipfumin ufum ducant, quód dejectiones fere femp er in cà fint biliofæ,& fc ebres non leves ma- jori ex parte conjungantur ; cüm alioqui fciam maxime laudari à Gal. P de fémapl.smed.facul. c 3«de alim. facul. cap. 1$. ubi non folüm dyfente- re,fed omnium ventris fluxionum acrium opti- mum dixit effe remedium ; cenferem nullo mo- do, febre prafente, et acribus fluentibus humo- fibus; lac convenire fimplex,& fine; praparatio- nc; at paratum, ut faciebantantiqui,& ut docet Alex. Trallianus, lapidibus; ferto, aut chalybe in co exftinctis frequenter ut et ferofa abíuma- cuf fubftantia, et pinguis, butyrosáque corriga- turlgneis abfümpts.certum eft; non nifi maxi- mas 1n boc affectu afferre poffe utilitates ; quód non accendi, et in bilem verti hoc modo para- tum certó fciamus ;alyum autem fiftere poffe» certum fit, tum ob cafeofam máteriam incraí- fantem, et frigidam ; tum quód ex candentibus lapillis aut chalybe adftrine entem nanciícatur facultatem. in dies 98. Cümin principio difficultatis inteftinc- zerici; cjy F0 » fepenumeró. mucofitatibus quibufdam fieri al apparentibus, p affim Medici ad, Æ Eso a fférgentig €nemata deveniant, neadhzrefcente diutiüis tu- "fas cugy nis inteftinorum hujufimodi humore falfo, ut €autioge . Ypfi putant, exul Icerentur inteftina; fa 'penumeró etiam maximo in errore verfantur : mucofitas enim hujufmodi non adventitia eft, neque præ ter naturam, fed naturalis, quz à ipio inse nis indita eft; ut muniantür, ne à bile, qua cun £icibus in dies evacuatur ; interna inteftinorun pars abradatur ; quz cüm in diarrhocà ab acri- bus humoribus commota, et abraía exire inci- piat, fi clyfimatibus magis abftergatur, denuda- tà tunica eo, quo munitur; faciliüs exulcerari poterit : diligens igitur cura adhibenda eft ut mucofi, et vitiofi humores ; aut à capite, aut à ventriculo defluxi ad inteftina; à naturali muco- fitate inteftinorum difcernantur ; quod licet dif- fcile fit ; hzc tamen frequentius cum pinguedi- ne junéta effe folet, et cem aliqvà rafürà internæ tünicr, et tunc non folüm non eft abítergenda, fcd potiüs incraffanda; pingeicribus,& vifcidio- ribrisinjectis tentanduim erit munire Ioca illa, et acrimoniam fluentium hemorum reprimere, quod oleo rofato omphacino, aut unguento ro- fato commodé praftari poterit. 99. Atin eodem errore verfanturii, qui fluo-. C/yeriz re materiernm ceffante, dvfenterià tamen perfc- abifergem verante, et ulcere in inteftinis,iifdemabftergen- */4 i2 fiæ tibus clvfteriis utuntur, ex aqua hordei, vitellis dyséterie ovorum,& faccharo,impedicntes hoc modo ag- an [Hs o eIntinationem, quód fic penumeró natura vifci- damin fine materiam, nutrireaptam, ut repo- natur, quz naturalis erat jam abrafa, eomittat., e 1 et1a72D rco. Tanta eft doloris 1n hoc morbo vehe- in riti mentia, ut nullo tentato alio remedio narcoticis 5j, "ni fit f'atim utendum, non folüm per os affumpts 5 4, cozve- fed etiam per inferna injectis. , Iniüstamen diutiüs non eft perfeverane Nareoté Q, gum, Narcott pies 9 dum, quoniam fiepé imponunt : cm enim fo- enterta Pon mnü conciliàrint, proinde fluxiones futerint, et zendap, icfrigerando, et incraffando. humorum et acri- moniam,« tluxilitatem imminuerint ;olore ) imminuto morbus curatus videbitur, nifi tamen v lutinantibus, et ficcantibus uicus fanemus, re- crudefcet morbus, et novo dolore fupervenien- te; nova fluxio excitabitur, et ulcere non curato difficultas inteftinorum denuó fiet . Dyetei | 102. Pinguia cuam illa ; et viícidà fübftanria eis pin- prædita ; ut in acerrimi humoris fluxione necef- guia im- farla funt, ad Internam inteftinorum tunicam ssittere | vefüiendam,ne magis abradatur, et ad munien- q4and» das udceratas partes, ne morbus augeatur, et stile, et dcloresexacerbentur ; ;itainilsnon multüm cft ^ infiftendum, quód fordidum ulcus efficiant, et itiniiss: progreffu temporis.curatu difficilius;abfteræn- tia igitur funt 1nterferenda . | 103. Queadeo exficcantia funt,ut arfenicum nimi; *X (t ochifcos recipiant corrodentes, et carnem, fceántes in ulceribus fübcrefcentem altmem poffint, ut in dyfia- paffim à Rhafe et .Mauritanis propcnuntur, teria om- numquam in ufum duci debere confülo ; tum. zino reij- quodadeo quandoque valenter carnem nein cemdi, mant,utreliquamanteftint füubftantiam confü- mentes perforare foleant; ;quamwvisenim paftilli Pafionis, Andronis, ex minio, et quz ex arfeni- Co etiam fepiüs loto parantur, externis ulceri- bus; vrina et callofis applicentuz; fi tamen fen- tienti mul tüm particule, aut nudz,:& non for- dida, nonve callofe ; aut fane applicenrur, no- Xas Clyfferes * » dis b. am. vt. IDdpe pm o | xas afferunt inemendabiles . Et erit; qui 1n abra- ! fis, cruentis, nudis inteftinis, etiam fi ulcere la- ! borent fordido, audeat clvfmare infundere» | acria hujufimodi, et corrodentia medicamenta ; | quibus et acerrimi dolores excirantvr,& intéfü- ! na dilacerantur, et fepe perforaptur ? 104. Siqua tamen acria,& valentet fccantia. Arrius infundenda font, ut mvria olivarum ; aqua na- efus in :urales Salmacidz, lixivium cum fapone, et fi- 4y/euteria | milia, ftatim fuperindendus erit alius clyfter ex quid ffa- | oleo rofato aut ptiffanà,aut decocto furfuris ^7 facié- | cum fyrupo de portulacà et ovis; ut et dolor le- MT | niatur, et tunica veftiatur . 10$. Quoniamautem evenit, ut injectus cly- Chyfer sut | fter ftatimaur exeat,aut propellatur, ftatim at- retzzee- | queinjectus eft, fovendus erit anuslineo panno /^" quid ! intin&o in decocto rerum adftringentium, atq; 74/444 : etiam aliquo conatu manu pars erit compri- menda. 106. Quamvis hepatitis fub morbis hepatis ratis ! collocari deberet,qvia tamen à Practicis fib dy- /imulare | fenterià curatur, volui pra ftantiffimum reme- remediz » ' dium hoc loco docere, quo, fi alio uMo, hepati- ! cos curari poffe experientià multiplici cognovi; ! coque libétiüs,quód ev porifton eft medicamen- tum, et rationi conveniens: Sumitur uva rubra, | quam Pignolam noftri dicunt ; acinis eft ncn. magnis, racemis adftriciis ; ut tardiàs mature- | fcat, et vinum nobile, rvbellum, et quod P;caz- ! te vocant, facit ; colligi debet dum media eft in- ter acerbitatem, et maturitatem, quod folet Q 2 apud inermes e»ecAnti- Pss exhi- bendis quid pr«- Jlandurm. apud nos effevetfus dieim feftum Nativitatis S. Virginis Marie;menfe Septembri; Soli perqua- tuor dies primó exponitur, mox ia fvrno femi- calefacto exficcatur, et fervatur ad ufüm: et ve- niente occafiope, quoniam emollefcit, in vafe.» vitreato, aütad ienem, avtin furno iterrm ex-: ficcatur, adeó ut n pulverem reduci poffit. Hu- jus drach. 1j. per duodecim,aut quindecim dies, ex vini rübri potentis unc. iiij. fineulo die ; per quatuor horas ante prandium exhibeo, et cum. hoc folo pra'fidio non paucos ad ptiftinam fani- tatem deduxi . Nec mirum.fi femper non fiicce- dat, cüm;ubi radices eeerit,difficillimé curetur. Ex vino autem concedemus, fi zeri careant fe-. bre ; qua fi conjuncta fit, locovini fnmet deco- C donem rad. cichorii craffarmm, lone ebrlli- tione cum expreffione, in quà fi chalybs ignitus fzpiüs exftingudtur, meliorem effectum pro- ducet. De Vermibus. 107. Y N medicinis et per osaffumendis,& per inferna 1nfundendis, fem per hzc adfit cautio,ut antequàm ea ipn ufiim ducamus, dulcia aliqua, aut pinguia concedamus, ut iis allecti vermes faciliüs ea comederc tentent, qui pro- pric; et veré et necare, et expellere € COrpore eos poffunt. Melleieitur, faccharo, lacte ; avt pin- guibus przmiffis, füccedent que enecandi vera mes facultatem habent. em | ! . Quin . -sa4g . Quin ne hzc fola tunc danda erunt; ne à dulcibus ad amara, aut acria accedentes, factà tatione in contraria, potiffimüm à gratis ad ingrata ; ab eis abfítineant ; cum dulcibus joitur admifícenda funt, aut pinguibus, utaliquá fimi- litudine ducti, ac 2rato (pore allecti, iis etiam nutriartur, quz occidere eos folent. rc9. Ob hancautem etiam caufam obfervan- dum erit, ut cüm unguentis, aut emplaftris ad cos occidendos utendum erit, pxiüs Indansur clvfteres ex dulcibus, aut pinguibus, ut iis alle- ét ad inteftina inferiora alliciantur, ut. ventri inferiori illis applicitis, et enecari, et expelli faciliàs poffint. 110. In iis autem externis applicandis,ut quz ex farinà lupinorum,aloc, myrrhá, ex fücco ru- tz,aurrutz caprariz five galege, vel aceto pa- rantur, cavendum, ne rcgioni ventriculi appli- centur, fed circa regionem umbilici, et ventris infcrioris:i!Ia enim fepe ventriculo infefta funt; et cavendum etiam, ne;fi ad ventriculum afcen- diffent, in eo loco enecenturz, folent enim ex tali occaficne qvàm plurima, et graviffima lympto- mata prodncl: przftabit 1gitur ventriculum. fovereadfirinsentibus, et acidis, ut roborata parre, deorfum pulfis vermibus ;applicaus ven- tri inferiori remediis, illos cvincere ; et enecare poffimus .. Iniis,qve per osaffumütur, illud omni- no obfervadum eft;ut fi ex iis fuerint; que et ene- Care, et € corpore propellere poflunt, ut eftaloe,; Uu coloVerimes enecanti- bus. dul- Cia, vel pinguia admtifcen dà . Ante en blafira e- necantta, VEFIACS, ciyfd eres dulces ip dendi. In vermi- bus enece dis emplea flra nbt applicanda. Vete e»tcanit^ óns ger 9 fumptis, qutd fa- ^ eendum. Hamor- tboidibus feperf'a? evactany- HPHT, n oàs occlti- denda,a? tna reli 'qu*nda, fententia A3sGoris. colocynthis,& fimilia,ea fatis effe;fo]hüm q'ein- digere aut re aliquiabftergente;áut etiam refri- ectante ebibità: at fi ex iis fuerint; qus eriécan- te facultate f5là przdita funt, aliqua poft fiper- bibenda funt; qu: abftersendo eos jam enecatos expellere poffünt . De FHæsorrboidibu: . r12.] N hemorrhoidum curatione, quia ubi fuperflæ fanguinem emiferint, Medi- Cos iri contrarias fententias abire, cum maxima. eétotantium calamitate, quotidie obfervamus; aflerenübus plerifque cum Hipp. 6. "Apbor. 12. non omnes occludendas effe, fed unam faltem, effe apertam relinquendam ; fic enim et immo- deráti fluxüs fanguinis rationem habebimus;ca- fum virtiitis vitalis impediemus, et morbis ex immodicà hzmorthagià imminentibus contri ibimus ; neque camen morbis illis occafionem. dabimis, qui ex foeculento, et atro humore.» oriuntur, qui per illas partes evacuari folet : Aliis é contrà cuni Actio defendentibus, ubi fi- perfluus fit fanguinis fluxus, omnes omninooc- cIudendas effe; et rectà victüs ratione inftitutà, ftatífque temporibus et ex purgandum effe cor- pus, et fánguinem per fe&tam venam evacuanJ/ ^ étnh dum . [E20 veró hujus fim fententiz,obi fanJuly... guis per easvenasimmodicé effluat,ita ut et vi- : res vitales dejiciantur ; pallor feqvatur magnus, fubtumida confpiciatur facies, ad malum habitum tendat corpus, omnes omnino effe, fi fieri | poffit; occludendas ; quia virtutis füpra omnia.» habenda eftratio, nequeullam apertam relin- quendam ullo modo efie, cium 1n ct rativis indi- cationibus ab ec, quod magis urget, femper fi fit inchoándum. Ne veró res hzc Hippocrati adveríari, et communi feré omnium lv. edicorü fententia videatur, cbfervandum eft ; fanguinis per has venas effuficnem aliquando etle« onfue- tam;ut ftatis quibufdam temporibus, puta; fin- | gulo menfe, aut ctiam frequentiüs, vcl bis, vel ter 1n anno, feri confüeverit; aut c crte vimorbi; p^ 3, In magna febre, cum fura; à plenitudine femel, aut iterum acciderit ; aut denique quód cum ftatis temporibus moderate effunderetur fanguis, v) morbi, aut ali& occafione fuperfluas tunc fverit. Secundó obfervandum ett, anti- quos in immoderata cx veris fedis effuficne.ve- nas ilfasaut [ieaffe, aut fuiffe, aut, uffiffe, ita ut numquam per ligatam aflutam aut ufta m ve- I nam ius fanguis evacuari pc ffet, ut apud | Grccos, Arabes, et Latinos ; et antiquos; et re- centes conftat ; quz tàmen curandi ratio noftris E temporibus exclevit, pulvifculis cemplafti- cs, et adftringentibus contentis ; aut ad fum- Hmumu ftio ne. His fic ftantibus, fi excetfus is hz- orrhagiz mfoFitus fit; et vi morbi, et plenitu- |dinis fuperven erit, cenfeo mpino effe fuppri-, mendum, nullà ap ertà vena reliétaàme vena fan- guinemevoimente, in propofita incommoda in- lcidamus. Quod fi ftatis temporibüs, aut quan Q a ritate ne / netu 72... "A79 y s feides et m7 (3n€794L nqlla AAUC 0^ HE Cf A Cn » n, j «A40 "07 P 4, Yt Tuntn | bg titate excedens;aut qualitate infeftans,aut utrà-]/ » queratione moleftus; à naturà per eas venas ex| - purgari folitus aliquando modum excetfetit, uti] et vitales vires profternantur, et alia incommo-: daindücantur, aut etiam fipngulisevacuationiss| / ; temporibus, puta; per duos ;aut tresillos diess| :folitz evacuationis füperfluat, aut fi frequentiuss| / exiens, quàm foleret; aut oporteret; illa inducatt| incommoda, fi, ut illiscbfiftamus, occludere»] venas illas velimus, fi caufticis medicámentis,,] licaturis; ab&iffione,ati ferro candenteid prz--j ftare quis tentaverit ; càm ex 1llà curandi ratio--] nenon folum tranfitus prefenti tempore fangui-] y ni interclufüus fit, fed omnis via eriamimped 1a-]i turin pofterum, per quam tranfire poffit ; ne ini eaincommoda zeri póft incurrant, de « quibus: itp. G. Epid. et Gal.ibidem. c& 6. Mpbor. va. c7] 3. 1/ 3.ltb. de Humor. necetarium eft;edam aliiss] 5 uflis; atfutis; abífciffis ligatis ; unam relinquere apertam,ut per eam excrementitiusfanguis;quij incorpore in dies ageregatus; ftatis temporibus:f ij, evacuari folet, expurgari ex more poffit ; ne af-- Jl fectus illos melancholicos, maniam;melancho--] ii liam, ulcera; cutis defeedationes, et alia produ--] ii cere valeat. Sed fi folüm pulvifculis adftringen-.| übus; emplafticis; aut et urentibus resagendas fit; et eumcurationis modumfequamur, qui &: facilior eft .& fecurior ; licet aliquando recidi-..| vas admittat ; fi ad eum terminum evacuatio:] « fanguinis pervenerit, qui jam defcriptus eft; omnino via omnis erit intercludenda, ut praesentibus incommodis eccurramus ; cm per hác «curandi rationem non ita obfignentur venz, ut humore denuó-éxuberante, iterum natura fibi viam invenire, et ftruere non poffi;aut ope Me- dici aut perfricauone cum rebus afperis, aut fcalpello, aut hirudinibus aperiri denuo vena nequeant. De Renuum samflammatione, Lii Vm in curandis renum affectibus evaLaborancuatione fanguinis perfectam venam t» reni opus eit, à Quà parte mittendus fit fangvis, non una eft connium Medicorum fentenua ; quód Galenus tb. de cur. rat. per [ettam venam, partie bus fupra renes laborantibus, € parübus fupe- ri: ribus, nempé brachiis, mittendum effe fan- guinem docuerit; infernis autem atfectis, puta, utero, veficà, et coxis, é venà vel fub poplite», velin talo; cüm renes laborant, pene ambigat: libro autem 13. Meth. med. in renum affectibus fecandam venam effe doceat in poplite;aut talo; aliis majori ex parte fu prà ; alus infrà, aliis fine diftinétione alterutram partem eligenübus.Ego cum do&iffimo Trincavellio, habità ratione» communicationis venarum, majori ex parte ex infernis mittendum cenífcrem ; cüm et evacua- tionis eratia;nifi forté plenitudo ad vafa prefens fuerit, et derivationis, certiffimum fit, à parti- bus laborantibus, et vicinis, fectis illis venls ; fanguinem evacuari pofle . At cüm in inflam- matione bus au4 vena fe- £cAnda Tto xd Ee EC. 4: Luc aia oU MES 1j -matrone renum, cüm revulfione opus fit, potif-- fimüm in principio, in contraria retrahi fà debeat, et ex parteà fonte fanguinis verf perna retrahendo, pouffimüm fi (fanguinis mul- tà:Copta refertum fit corpus,à jecorarit brachii dextri,aut finiftri fanguinem extrahemus: quin-- imo, fi etiam in principio inflammationis nons verfemur, fed jam affluxerit (aneuis, fed magna ;| tamen adíit plenitudo, ab iis locis fanguinem. extrahemus, mne fi ab infernis evacuetur, cüm ex motu fanguinis in venis, quiin fonte eft, et in fupernis confertis, verfus locum incifim affa aüam aftluens, per locum affectum, et vicinas partes tranfiens, et dolores augcat., et inflammatio- nem, Quod fiinflammationon fücrit, fed ali- quis ex aliis affectibus, aut renum; aut aliarmm., illarum partium, nec plenitudo magna adf t;in- dicátio tamen mittendi fanguinis concurrat, ab 1n rez, internis,ob venarum conjunctionem et rectiti- ipfam. dinem,mstendum effe fanguinem judicamus., Home,bf? 114. Áb 1n renum inflammatione in princt- [«clam ve p15, potillimüm fi multa fübfit plenitudo, licet, "a ^ ut dictumeft, mitti debeat fanguis ex brachio; ^t? f &- prooreffü tamen temports ex talo mitti etiam, "9 Fin poterit, bt quiin vicinis aut in parte confiftit, ». evacuart, et derivari commode poffit. | Reb. cobPRpVX OI clyfteres in di folent ad refrigeran- lorarióu; C010, et emolliendas £rces, ex ptiffanà, violari chiftesg malva oleo rofàt dæra ds to, aut violato, fyru po violato, fft Ypau et fimilibus, quantitate mediocres fint ca quan -Xepletione fübjecti inteftini re tfta. t,ne per nes comprimant. IIG. Quam- " nguis: [iz i^fü--M i we Quamvisin principio aliarum inflam- J^renw 'lmaaonum mnateriam fli;entem medicaméto pur aj nne- |Bante evacuari poffe aliàs docuerimus, quód ad- (14:9 fac cruda non tit materia, et dum fluit, revul- nod ut- lione evacuau và à párte, quz ftatim eam füfce- 5,, Jptura erat, recràhatur, ut in plevritide docuit 7; Hid; dIfaciendum, dolore de(cendente, Hippoc. 1.40€. Irzr. vicd 22 acit. et ain inflammadaone lingue Ga- fenus t3. ME erb.med. in renum inflammatione, Ki aliqua jam ad partem fluxerit, omnino abfti- inendum, ne perinteftina fluente matcrià cum limedicamento, ma9is renes exardefcant ; quare principio i iena: ^2 7 llcatfià fiitulari contenti, au tfyrupo vi a to folu- lI:kivo, aucf lis;aut mixtis, aut fero lactis ex mal- Iva, violai là, endivià, vel jujubis, fi evacuauone opus fit, ad alias comp lendas indicationes de- Ifcendemu. ; eorum enim etiamfi parsaliqua,in- lIreftina Ri Wes ad renes pervenerit, utili- acem afferetnon mediocrem . 117. Khabarbari ufus in hoc morbo, ut et in. rsfzzza- Jurinz ardore, femper mihi fuit inipectus s et fl n5 rent quando ab aliquibus in ufüm ductus eft .fem- r^z^era Iper male ceffi ile vidixquamvis enim ap uüffimum "t »/» /2 fit inedicamentum adi bile m evacuancam, quiz Peasiduos hos affectus plerumq; producit;quoniam- amen ob 1gneas pattes,q! ibus pollet, per venas kiffundi videmus, et (ubfeque nter ad renes, iIquód lotia crocea poft illiusaffumptionem often Ilunt, merito fugiendus videtur. 118. In m: ERI hoc inchoante, licet ufüs re-. gs. pellentium externé applicandorum conveniat; ;.F, L| : '] Rb 115 tamen, Lx nimiumimpensereirigerant, £55 tæ cem da. cendum . : A í nme I) see, : Adidautem preftandum, licet qua ex-venum v, fiCcante facultate przdita funt, maximé inaliissii lid? ef; Conventant, 1n renum, et veficz ulceribus 0«4 €dnt;,*, Wnthno fugienda fünt, ob mordacitaté, cujus oc-. n[us ea». Cafione excitati dolores novam fluxionem con- lus. citarent; quz blandé igiturabftereunt, et dolo-.] io, s$ refrige- abftinédum eft, Alexandri etiam monitu:quáme-. vantium vis enim, cüm ex parte repellatur materia af-, w/45: eti» fluens,& calor partis eftuans retundatur,videasd, Princi vuraffe&tus mitefcere, et omnia fymptomatazsl,.. ""l5. imminui, quz tamen jamaffluxit matería, autt] ... in fcirrhum vertitur, vel craffefacta indolentenm! . quafi tumorem producit, qui proceffü temporiss] fuppuratus ulcus in parte producit, et morbum)... incurabilem . De Renus ulceribus . Viens ve- aum cito bus, precepto Galeni curandum eft. ut fit maximé foHicitus Medicus, rit ulcus quim. citiffimé ad cicatricem deducatur. ad citatri ris mitigatoria funt, convenient, qualis eft mul--Jt fa, et fyrupus de jujubis, vel ex rofis ficcis, cum portione fyrupi de portulacá . L:Be im I2I. In renum ulceribus curandis, cüm &; ronctden- ynl(à conveniat, et lac;nifi diligens adhibeatur] do in re- num ulce vibtis qua CATEO » cura, et in tempore exhibitionis, et in lacte feliz] gendo, et inillius quantitate, aut fruítra ccnce- di, aut cum detrimento coenofcemus. In prin- cipio enim, poft dift ptam vomicam, aut ulcus: ab acribus humoribus excitattim,cüm ulcus for; didum 1I9. Biautem ulcus fit excitatum in reni. : à ^? i didum fuerit, lac conveniet ferofum, quodque» abftergzere magis valeat, quale afininum :zillud vero ex lotio cognofci poteft, fi in. eo pus fubfit copiofiim, feetens, et fordidum . V bi veró ulcus! meliorem acquirit conditionem, ac à fordibus repureatum fuerit, quod cosnofcemus; fi pusin Urinaà contentum, album à et zquale fuerit, lac Conveniet, quód mipüs abftergat; et trægis car- hem producere valeat, quale eft caprinum. Vb3 autem ulcera expureata rité fverint; ut lotium. non ampliüs purulentum appareat, tunc potius lacus eenus conveniet craffius, mæis nutriens ; carnémque gererans, quale eft: villv m,aut-bu- bulum; in primisillis pauxillum mellis, autfacchari, aut julepi rofati,aur violati adjiciendum erit:in poftremo minimum facchar, aut julepi rofati, cüm levi quantitate tragacanthbz . r22. Quantitas lacis neque vno inomnibus 55; modo metienda eft. R atione loci laborantis, multa conveniret, et potiffimüm fi ad abfterfio- | nem exhibeatvr lac afininum, potiffimum fi la- Qi veeraffuetus fit nec ex ejus ufü moleftiam fentiat, libram concedemus: fin non affuetus fit; q tta titat t2 YCH UTD tlceribtés LLL ab unciis quinque ve] fex incipientes, Pine ad majorem quantitatem accedemus . Caprilfi minorem femper qu antitatem concedemus, nceqr euncias fex excedemus, quód diutiüs in ventriculo cüm commoretur, fi mültum illius cen- cédemus, aut acefcet; aut in grumos concrefcet ; ob quam rationem ovilli& bubuli etiam mino- iem folemus quantitatem concedere, x od De Calculerenum cum. dolore acerrime . Vamvis in calculo renum curando ; vbi dolores non adfint acerrimi, ea» curandi ratio convenlat, quz ab Avicennà, et Mauritanistradira eft; quámque. [uu recentiores plerique fecuti funt ; » repleto ven- . jriti triculo vomitus provocetur, mollibus clyfteri-. pus bus fceces fubducantur, aliis itidem emollieng- f: bus laxatà parte leniantur dolores, et fi quas . fau, materia in intefünis confiftens., unde eleventur: puto flatus diftendentes, abítereatur,& evacuetur; juu mox emollientibus, laxantibus, et anodynis, S& fui mitgetur dolor,dilatentvr vi ix à calculo diften- . tt, quod f. mentis, inuncüonibus,emplafuis,& pi id genusaliis etiam tentar dcbet ; mox conte- | renübus lapidem, et eundem propellentibus diureticis curatio prcfeqvi debet.: quinimo fi Me: evacuarl ventriculus non pou perfe- AT, peros etiam ad fimilia preftanda exhibent [ir iei fiftularis medullam aut per fe, aut ex levi portione olei amvedalarum dulcium, aut diafe- beften ron folutivum, aut diaprunum; mox ab- ftergentibo s, incidentibus, et atem bed aptecedentem,& conjunctam materiam ad evas-- f.i. cuationem pra parant ; numquamautem ab in1--4t«.. tio folvente, et veré purgante medicamentoop,.. utendum judicárunt, ne aut cruda materia aboli initio hon ptzparata evacuetur, aut deorfum latalaborantem partem magis affügat. Quo«m. niam inI3m tamen fepiffimé evenit in noftris hi$ regio- nibus, et potiíffimumin m æna h ac urbe,ut et nimium Genió indulgeant, multàque affidué ingerant,& multis tententurà capite diftillatio- nibus, ut ventriculu s,Inteftina;& venz mefàrel urefertze fint niultis crudis humoribus, à quibus per venas ad renes delatis adeó frequentes fiunt «lolores renales, et podagrz ; qui nifi cevacuen- ur, nequetutó anodynis üti poterimus, neque Iconterentibus lapidem, neque eundem prop cl- llenübus, quin nec diureticis. Cüm pretercà fz- ipe adeó urgeat dol. r,urlongam illam curatic- inem exfp c&tare nec velint &erotantes, nec poffint, nec exp ediat ob collabentes vires ; Menos Ifima vero illa lenrentia, vel lubricant; fzpi ffi-. Ite muneriilluevacuandi materiasanultas, cráf- iS,& vifcidas fatisfacere non valeant,fed reten-- la et 1pfa,:& per fe mclem augendo,«€ com- iIprimendo dolcrem aueeant ; aut elevatis& ex le, et ex commortàa;non ex pul:à materià multis IHatibus, cenfeo fep iffime exyedire,medicamen- out folvente, pro varietate materia benedictà lixativa, dia phanico elec gv ario Elefccph, ele- Ltuario de fucco rofarum, Indo,& finiilibus, ad. .Ilità portione caffiz, vel du com amc]le ro- [to fo lutivo; fic enim et crudas illas materias in JAyentriculo, et inteftinis confiftentes, et fi quc suntin primis viis tamquam caufe antecedentes; Mrvacuabimus, eafdémque, X& fizniles revelle- (fous, molem et fecum, et htmotrum in intefti- dusrene s comprimentem, et doloremaugentem immiLenitniia fola ia cal culo non fufficiant. imminuemus anodynis, mollientibus, laxanti-]: bus, diureticis ; conterentibrs lapidem, et pro-] am ftruemus . Quà curandi ratio-] te,cüm fzcpiüis ad eos acci effemus;qvi nephri-4 pe lenribus v1 tico dolcre laborantes curabanter, priori illoo 1o, clvfteribu llibus videlicet, et bolis exx InOciO,; C1 eribus mo hbbos viIdCilCet,c« DO IS CXI3 caffix medullà, avt lenitivo, avt fchs; aut cumul portiunculà Hierz,medicamento folvente exhi-]: bito,mocx anodynis, mollientibus,laxantibus,&j lapidem propellentibrs adjunctis cito, et feli-- citer; cum mæná meà glorià ac invidià, curationem abfclvi. Cüm veró curandi hac ratic rationibus lis nitatur, quz proximé enarratax] funt, Hippocratem, et Galenum,duo Medicined vera Inmina, habet et doctores, et affertores; Epid. Se&. 1. tex. 6. ubi poftquàm tradidit Hip: pocrates figna, quibus nephriticus affectus coo) enofci poffit; breviffimis ettam verbis totam cuj rationem abfolvit, et juvenes etiam helleborcej pureandos docet : et 27 Com. Galenus, dum. unamquamque vocem varia praffidia medica. continentem fieillatim explicat, dum de puri" cando corpore agit, medicamento purgante-[ tamquam vecte effe propellendum.docet . Ned que veró cruda tunc evacuare, et pureare dice mur, contra przceprum Hipp.r. "Apbor. Conc Bá medicavi, C c.coctio enim illa.de quà in Aphi] rimo, illa eft, quz humori putrido convenit] in potiffimum in febribus, cci coétio illa conventi quz fecundo loco defcribitur ab Atiftotele 44^ Jdeteor. quam putridis humoribus mentig | | et exeredi ug mentis convenire docebat, fecundum quam bi- lem crudam dicimus, et lotium crudum, tam- quam fienum in febribus putridis: at cruda» s qua alimentalem cocü 'nem (ubterfugerunt ; aut P er inediam ad bo nam frugem duci debet ; aut fi plura fint, quàm fuperari | poffint ; atque. àcalore ventric "uli evinci, aut conco qui; ;quam- - primum funt evacuanda aut t lenientibus; &ab- ftergentibus, aut etiam,fi in venulis mefaraicis; et altis infarcta fint, purgantibus; qualia hac e(fe cruda cenfemus, quz in neph isis exubcrant. Neque vero | per evacuationem per infer- naad renes materiam trahimus, fed ab illis re- vellimus, et per inteftina ft ubdu cimus;quamvis enim in tranfitu adfit vicIp1a.non adeft tamen. con] ncl1o; neque periculum eftin tranfitu, nc LA Í noxam renes fentiant,utin rénum inflamma tiohe in tranfitu bilis, quia neque hic inflari. mpatio in parte c adeft, necne calidus eft humor ; quimovetur,fed laboranti parti etiam füuccurri- mus, inanitis inteftinis que ob repleanonemu. comprimebant renes à lapillo undequaque» compretios. 124. Incalcrlorenum curando, ubi acerbif- fimi fuerint dolores, et ex fitu coznoverimus, jam lapillm ureteres occu páffe, fi quis divre- ticis tentaverit calculumà loco dimovere, 15. mænum (ie pen umero periculum zerotantem., deducet.nefcilicetin urinz (uppreflionem eum ] ] » »- r1, » ^4 p»,47, deducat ET oruente afk t!m ad Obfiru ctum 1 lo- Clu1n lot 10 5 e fcp c culi arenulis " fz lus Cuts T5 R craí$à, Diuretica ?roprafe - "aAtione calculi f« pé "0XIA « crafsa,& vifcidà materià . Quare prxftaret runc emolhentibus, et laxantibus decoctis uti;cx ca- ricis, malvà, althase, et maálvze feminibus,femi- nibus item frigidis majoribus, liquiritià, juju- bis; febeften paratis. Quód fiad pe netrationem aliquid diuretici: addere voluerint in pauca quantitate; non repugnarem .. Ad. qvem ufim., etiamoptimum^femper jidicavi olei m amyg- dalinum dulce, ex levi vinialbi tenuiffimi por- tone». 125. Commwuni feré hominum confenfu re- ceptiim eft, proavertendis, et pricavendis do- loribus ex calculo, et impediendà lapidis gene- ratione, ex Men bisaut rer1n menfe diureti« cum aliquid a(lumere, ant in fyru pl longl, aut julepi, decocti, aquarum füillatitiarum;aut ele2598 étuariorum, aut pa dvifculorum formam, quo materie, quz indiesin renibus agercegartur paulatim expellantir, et abftereantut, necaloreaccedente renum indu rentur,& ] lapidefcant : quod inftitutum. ut omnino non eft imprcban- dum;fi cum rauone fiat;ita quàm plurimis per- niciofum effe folet;(i enim ab homine continen- te Ó aticoopbiiil rimaffumptionem leniens, t abítereens medicamentum fiimptum fit; uti ditata afferre poteft. Atí1 cule 1s deditus fit; aut cruda mvlra in primis viisæerecare foleat, vt folent majori ex parte Ape æ et cal- culofi, tantum abeft; ut illorum a (fumpt t1O €os prefervetà calculo, ut potius frequc illi przbeat occafionem, et fepe 'nüorem. etiam 1n füppreti- x ANIM ADFERS. | preffionem ur in: deducat, et graviffimos alios | morbos, &f [ymptomata, deductà materia, quie in ventriculo erat, et in primis viis, ad vias urinc. 126. Cüm quàm plurimi pro lapillis exre- T/;:"; nibus propellendi s aquis 'Thermalibus utan- les tur, ut illarüm ufum aliquando laudamus,cüm. cur; impaócti nimiüm in renibus fuerint;necaliis ce-. caleuL dant remediis;fic enim refrigerats illis aliquà- /* do dehiícentes locum cedunt Ja ipidic commoto, €&4* quin et quantütate aqua pro] ulfüs aliquando deícendit; ita rarius eedem concedenda erunt, quod de deb ero batiteli ad locum lapilli d fepe etiam morbus redditur contumacior, et liquando ad füppreffionem urinz omnimo' ? " lo " 7t* 111" dam per illas egrotantes deducuntur. Lsatid is E22 5 De lapide Vefica.. Q' Cioe2o, et antiquos, et recentes fcri- iJ ptores infinita propemodum, et fimveficà; at horum auctoritate etiam ício quàm 7/2 plurimos ærotantes in perniciem à Medicis ' ts nimiüm credulis deduc bos Æ grotantes cüm ex /?* lapidis per incifionem ex tractione quàm P ;luri- mos mori obfervent, omnia malunt prius ex- periri, quàm cenus illud carnificinz etiam pe riculo "um Medici partim experientia deftitu- ti, promiffis fcriptorum adducti, et fpe przmi ob avaàrit iartiall Cii, curationem pro trahun AK 3? cmnia vlicia, et c mpofita medicamenta tradidiffead czeztu: comminuendum, et frangendum lapidem in fzz Lapidis in veftca a- oatca cura 2/0,EXIYAde f 2 P ^ , LVD. SEPT ALII. MEDIOL. omnia experiuntui ur,.& denique aut fpe defrau- dati,aut]am curationi füccumbentes, ;tandem non aliam fe viam invenire curandi, quàm pe fcctionem, profitentur:fe fed interim zeer crume- nl exhauftà, ob dolores ; et vieilias confumptis arnibus, viribus vitalibus etiam. ob v1 igil as CO! ifi imptis, exará lefcentibus renibus, vefica, et vrina ipsa, ta pcne mirror hanc curationem confentit, et eam etiam ob rem ma- jori ex parte moriuntur diffeéu . Quare p ret ab initio. Lca4 13 etia 1n in vp(ta4 Lc, dum vires vitales v iced COr- pus adhuc car: Yofum, et fucci plenum eft,dum. veficaadhuc mucosà materlà veftita eft, non- dum aut perfric atione l: apidis;a utvicalidorum dicamentorum, et acrium abf ería, unde» Ó acerbi funt; dum deni- dum ad magram molem ex- Crevit, Cul hanctentare, yop timo arti- fice electo; qua les hoc temporea aliquos excel- lentes cogno fcimus ; cüm enim prim 1s etatis mez annis plerique ex hujufinodi curandi ra- ne per (ectionem interirent, triginta abhinc nis eorum major pars füpet ftes evadit, co- rum, quià Ioanne Acorombo no à Nurcià paores non adeo Is non itlO ne ln S Lo &, 4 tre, jam hocannowità functo, et Ioanne eA nto- nio filio curati fuerunt. Quarum A rom tan- qua minftaromnium hiftoria mp ul chis errimam hoc ; » co réfatoe utiliffimum effe duxi. Comes "un roius Ir ite Senator, et Equ es, bona- rum Td rarum patro nus, cum fl rangu rià p à liquot rimnen (es 1: labo xratfet Hs in canali urinz rio Ccarneuim ert ANLM. ADVERS. carneum aliquod impedimentum perfenfiflet ; inillud omn E moleftiz caufam referebat;ut la- pidisin vefic: à,quantum pofl et, fufpicio nem. declinaretme femper reclamante,& maximam la pidisin veficà concreti fufpici ionem fubefle » aflerente .. Cüm antem aliquando ad ameniffi- mal m Sancti Flo rani fuz ditionis villam fecef- fifl c t.in eraviffimos, et acerbiffimos dolores incidit; qvi cüm per quadraginta horarum fpa- tuum fine intermiflione p 'erfeveraffent, citatis equis ego accitus fum, et cün : omnes fübeflenc note, quibus pertu iaderi poteramus, lapidem. icà, faltem prob abiliter,cüm nullum;icnum path ognomon icum lapidis 1] fi seti ad vrbem remigraret, ut certam rei hvjus habere poffemus im miffo cathetere coonitionem. Advenit,fed càm carun- cula impedimento effet, ne catheter in veficam immitti poffer, priàs auferendum fuit impedir ?| (1 i l e qerwer m Qs d disas, e orsa sibisie att ndr cA ai X zi: mentum, « fttata catheteri via,cumque a peri- Á *( 2» Avr11l In M (leo Te invoentnue : d L c 1i L1CC 111 n 1111 S €elicts lapi ;ilVCHLuLuS5CcILt. C)vrarect | nità, utaliauando fe ab acerbiflii n 13 i ^3 ui : le CO! ril us eximeret vir clarifiimus, omn1a qttra- prit;um paranda cenítuit, ut ad fectionem veniret, expurearemus nos corpus,dixit;ic animum. ' /^1 "^ 1; : vIVPITOATMTDI:1».230C 1me011 I r11 113360 101m L1 C [1 A17 at Li C |i N hlliüan ) 1C 11 Ine» C dienis firmaturum, et teftamento de rebus fuis difpofiturum . Nos diem felieeremus ad placi- E | -, fe1 10.c die ftatul c1 e (1 nibus pa- ratis accederemus, fe fcmper paratum fore». Oni IDUS I1(C paratis a CCCOLIIEL $S,alacr1 aniino, f16Sq ^2 LFD. SEPT. ALII 7MMEDIOL. nos excipit, et nosadopus adhortatur, et fe » omnia intrepidé paffurum profitetur: fit fectio, nulla vox querula, nullus ejulatus; adhortatio- nes folum ad artificem, ut intrepidé negotium. perficeret; unus primó forcipe extrahitur lapis magnitudinis magnz caftanez ; alium adhuc füpereffe extrahendum artifex profert : ne du- bitet, extrahat ; iterum adhortatur : (ecundum extrahit, tertium; quartum, quintum, et deni- que fextum ejufdem magnitudinis, fpatio me- die horz; nullaumquam querela, nullus eju- latus, celfi animi omnia indicia, (ola poft actio- nem Deo gratiarum actio. In lecto repofitus, refectus de more, omnia bene cefferunt, nulla, febris fupervenit;nulla inflammatio,nullus do- lor ; fomnus poft tantas vigilias (uavis ; ulcus iermino quindecim dierum pro medià parte optime ad cicatricem deductum; ecce cà die fu- pervenit febris vehementiffima continua, nul- là occafioneà vulnere habità, quz adeó ardens fuit, introductà etiam hecticà febre, ut brevi temporead tabem,& extremam ficcitatem cor- pus deductum fit ; in quà adeó carnea fübftan- t11 confümpta eft, ut etiam cutis exaruerit, ita it extrema cuticula 1n corpufcula furfuraceas per omnem corporis ambitum diffolveretur, et excideret; cutis autem vera tamquam ftorea to- ta fiffuris diftincta confpiceretur, et afpera, du- r3, et ficca tangeretur;ulcus exaruerat, et labia in calli modum exficcata confpiciebantur,nulla amplius fanies, nullus ichor promanabat. Et cum res fere cflet ccnclamata, refpectu ad has res habito ; nulla fpes falutis fere fuperetle videretur, cum ali qui vitales vires adhuc atis valiiz confifterent, ezoq; humceétantibus, et retrigerantibus calori febrili contrairem, et in- ftaurantabus naturaleni calorem foverem, tum humidum fuübftanuficumoptimis cibis repone- Moueynlstiginn fe prcma Meine qa tiin acerille tebrilis calor dafinbpiie ctio cta- quanto À lior reddita eft ; et quod majorem, parere poteft admirationem, majoremque ía- luusípem Vr mri onec rece pore aridum, et quáfi callofum, 1terum recru- duit ; dolere aliqi peuleumb itai micéptii- pem emittere, mox ichorem; póftaliquam etia faniem, deinde per te, nu] adhibito przfidio exierno,1ta convaluit, ut ad | | fanita- tcim fit reftititus, anno aatis fu: xage Silio rertuo,cumadl:uc octvæena RENE. vat,adeo litteris deditus hac etiam atate, ut perpetuo fcré in inftrucütlima fi à Bibliot theca véerfetur, perpetuo etianz cum mortuis v1vens Ccolveéctari videatur. Admirabilem aliam fortafle hiftoriam, n propofitum, fi "0 amí, | l EL » T3 ou^ Ins^3 recenfeam. Nobilis Henricus l'eccnius; Roeetsferidiodshenito viet ft Aoid ribus ex lapide in vef'ca eflet corfitctatus, nec umquam curati rem pcr exiraéilonem admi- fiffet) cim acerbi(Timis doleribusanoctretur, vr fatius moricerferet, avàm huj: fime di tormen. rpetuoóaffiig1, cumqueextractum proxi Á 1n mé lapidem trium unciarum feliciffimé ab Il- luftri viro Cefare Pagano fexagenario obfervàaf- fet,à quo ad hancadmittendam curandi ratio- nem proprio experimento erat incitatus ; tan- dem me accivit ; qui D. Pagani curationiadfti- teram,feomrninoexperiri fortunam füam etia inillà atate velle ; et fe autabacerbiffimis illis doloribus eximere, aut ut fortem vitüm mori » profeffus eft ; càóm uridiq; anguftias fübeffe cer- nerem, quód pauciffimis diebus cum tot ; tan- tí(que cruciatibus, vigiliis,& virium viralium» imbecillitate füpervicturum obfervarem ; eaf- dem tamen vires imbecillas, ztaté jam effetam, et mænitudinem lapidis tanto tempore auétà ; illi operationi repugnare,anceps, et animo du- bius, quid confulerem, hzrebam tamquam 1n» falo, et tandem fux voluntati totum negotium commifi. Oui tandem omnibus expenfis, de- -revitfe huic curationi committere. Excifus ; et extractus ab eodem artifice lapis feptem un- ciarum, et drachmarum quinque ; et quamvis per loneum tempus vulneris curatio tum ob mænitudinem, et dilacerationem ; et angul- nis multi in grumos concteti in veficam colle- &ionem, tum ob «tatem, protracta fit, conva- luit tamen poft duos menfes, et per annum» etiam fupervixit; felix eo tempore, quód dolo- ribus careret, quibus per tot annos fuerat con» flictatus . p '", 4*4 /3« . * e » Q 115 [ 10 fluxu et c st gin » e curando Medicos video à rectà vià aberrare,ut necef129. À Deófepéin feminis hocinvolunta 3 i farium fit, aliqua etiam hac in re annotare». Cum autem morbus 1s ob varias externas occa- fiones olivenire (Gents et ex congreftu V enerec Íacpenume ró communicetur, c Fi di iP eüsmaridum erit, an ex lue G.; oricinem duxerit, an potius ob exceffum 1n "c" Cta,an ex congrefiu cum muliere eo morbo laborantes; e Ci | I] ^ X1* 4 11 11 fine fufpic nc Gallici morbi: fol t enim eti21n»o communicari 1$ morbis (ine Iue Venerea: diffi bro artee 4 ! l » ? 12? e bw de 9? C &fs Gonoybaa G ] lica n8 fla f«pbruneda . 7 Ganor- rhoi mtt- fatur Dm f uxum 2! DI) e (5 2220Yy-£&a altauando minalia, ut tempore debito femen contineant, ex continuo enim affluxu partes ille ret rtz na- turà adeó laxantur; nt diutiüs duret fluxio illa ob illam folam caufam. Vndeetiam, cümex diuturno feminis effluxu acrimonia, et calor materiz refrixerit ; [e penimacró decipiuntur Medici, refrigeranti- busin eo cafu utentes,cüm excalefaciendum fit aliqua Vea femper autem adítringendum : in; quem ufüm ut fiepé foleo decocto ex ligno len- üfcino, aut ex ligno cupretli, aut decoctione maftiches, et aliorunrex aquà chalvbeatà, aut mincr. ic 1s aquis ex ferro . . De cipit v eró et fepe peritos Medicos ; q: id. cümab initioab externà aliquà causa ex- calefaciente, et lixante 15 morbus inceperit, ex longà auté fluxioa e fpiriibus multis inanis et malto femine evacuato, et corporis habitus í It refrieeratus, et multus humoraquofüs, et fri- e1dus genitus, mul Aq; pituita pr« ducta, cum. in primis Illis remediis infiftant; omma in dete- rius ruant, et aneeatur fluxio. In quocafu teme perad contraria erit tranfenndum,& iis n ten- dum Lec en faciunt, et ficcant cmm aliquà fubadfirictione ; 1n quem ufum co coctum cx Giiajaco, cum pa rtione igsbenæe 1fcinlut 1n nlperi, aut cupreffi;aut maí ftiches: nno verbo dicam.;ea omis curatio etiam conventet,, qua prafcribitur mul laborantibus. veniet de- Bu ribus albis purgamentis:f i De Menfium [uppre[[ione, -diminutzone . T infüppreffis menfibus, ubi fan- guinis miflione per fectam venam. | opus eft; (emper Galeni decreto à venis crurum ' evacuandus eft, lib. de cur. rat. per fang. m. cap. 11." 18. itaubi hzc c eadem fuppreflio cu- randa eft, cum magnà fanguinisabundantià, in dubium verti video, an hzceadem curandi ra- btts i tic ofequen da fit, afferente Ætio ; /;b. 16.cap.$7- | prius extrah« andium efe fanguinem ex cubiti vena, mox veró ex venà tali, neaffatim ad 1n- |ferna ob copiam irruente fanguine, magis ac | magis venz uteri repleta bítrüerentur ; ;quam opinionem, tamquam etiam à Galeno non dit- íentientem ; fequuntur Altomarus, T rincavel- | lius, Mercatus, &alii multi. Mercurialis au- al tve vitcho. Item, et Maffarias, etiam fümmà prafente pleinitudine;in fuppreffis menfibus numquam cen- Lfuerunt à cubito mittendum effe fanguinem;fed tfemperab infernis,quód etiam per illam fectic- knem plenitudinem tolli poffe cum Galeno cre- iliderint; et fi qua fanguinis copla per venas ute Iri fertura fupernis artracta ; et am per eandem viam ad inferna attracta evacuetur per infernas lMllas venas. ( rediderim tamen ego przeftare, dum; Vene. - .Atibi plenitudo ad vafa in corpore acervata füe- Iit; illius habità rationc, primó,antequàm füp- IprefTi lonis curationem æerediamur ; fectà venà lin cubit ) 5 illam folvere,In1OX VCIO interpofito | I " | * vrbs debito tempore, fectis Aids tal firppreffioni menfium opitilari ; et cüm prima illa non fit facta ad curationem füppreffionis menfium, fed ad folvendám plenitudinem, hac O ; conveniet "vao Ga Í one operi inrenon repugnabimus Ga le no cenfenti,fem- c .f47 He. 1 (La jw" £/7€ perin fappreffis menfibus curandis fecandas ef- fe venas crurum. Æit tamen non placet fenultio e tentia, quem alii recentiores (equuntur;cenfen2e21i2 Y€f N tis,primó mittendum effe ex cubit nsnnen ls "M / . ; mox ftatim ex pede, ut per primam folvatur [ec Ir'one k 7?) cr prir vera is plenitudo, per fecundam, fi qua ab ute ro ad fii menfibus perna facta fit pet primam evacuationem re- fasrc[fis. tracto, iterum ad confuetam viam uteri retra ^hatur; fic enim et habenas equo retraheremu et poft calcaribus ftimularemus, cüm fieri Gof- fit,ut m M Mie fecta vena füperiorad impe- diendum, quàm altera inferior ad promoven- dum m. MA uas pureationes. Ven: fe- y22 Si avis qua traduntur à a Gal. Zi ). dc ..À Hoi bra- cur. vat. per fola "m Yenam cap. y6.ubiin Biden fe- Pens Clodi M talo. pro curatione füppreffarum pur- sationum menftruarum, tempus folitum, eva- 4 €uatio nisilla rum effe obfervandum docet, atq; HI J^ pertres,aut quattior anté dies effe evacu andum s fimguinem, dilige enter confideraver hi facile in1b 1 I l n Iecov- 2 elu æ, tellioet, 1 1bi plen tudo talis ad vaía ; n c«( X rpore 1 Coah doped 11, quo fuppreffi funt [ibit ci i, non effe TTL TAM Yam exfpecta midst) npus purga tionis folitum adl 'Vacuatione cubito faciendam : tunce NEN 7 PY € cuati CImnocx to faciendam ; tunc enim ) Oo CAL V. -À " T . ? ^ ( iupnprettiol adillyaremus « Ineaincomtnnw« Ubpreitioneadcj;uvyarcinus, ecin vLincomÓos- VOSR 1M. à |] M CL i 1^5 «a 11 1 et avocaretur in contrarium fanouis, et potius H. ANIMADVERS. . a da incideremus, qua d Ma rcuriali, et Maffarià proponuntur; fed iliud przftandum erit in medio menfe, poft decem, aut quindecim dies Z termino : fic enim et plenitudo tolletur, edm confuetus motus, cüm eo tempore nullus fit, avertetür. eia nj uu aulus ZEeineta 1ntelle- Ti juod tamen intellexiffe vix fieri poteft, efie quid illiin mentem venerit, hoc morbo cu rando dixit, non efle fecan im venam ante prafnitum menfium tempus; d per dicet. dies poft. n promoven« is menfibus diminutis ; licet preceptum Gal. /zb. de cur. vat- per [ang. 995i [[.cap. 19. maxime mihi probetur, ut per tres; aut quatuor diesante tempi fanouinem mittamus ; y Penes tamen expertus fum, mæis proficere, fiftatutum tempuz pur- eaticnis finamus adventare, 32 ibi diminuté operari vide povenuni defabiiair: of Pass evacua- tonem, veríus finem motüs manus adjutrices porrigemus naturz, et motum illus promovc- bimus,ut fimul cumpaturà defence totu1no opus perficiamus, juxta Galeni decretum 9. po i" MEC ed. Ó hac dere «eh fentiant ; quunt,aut maxi1i1no timcre c íectione vene ten- tant vi) moms tse endo pcríeccrtam venam » 11 1^ " - ; t1f1 in talo;per er tres,.aut qu. |LULOT gi1es ance ænnituig NEN "WO Kid a Je Doo "ve p ^ "X4 £x Decio 7 MA ee fe yw Kt, 4uA 40 €^ € € . ^to. [WP AT Vez IZOHS J dimuirttis | )Y0?A0- i ^ * f -,F£ " Len Ü. 90 65 *v2t !j L], ;;0- illud tempus, cum Galeno ; fi enim fluente fan- cuine fanguis mittatur, non folàüm non promo- vetur fà inguis menftruus; fed ex animi deliquio, aut timore ita fiftitur, ut amplius per illum ter- "t minum effluere non foleat . Meis 15$. In promovendis menfibus (c&tà venà in pn qrom* exqu, femper praftabit repetitis vicibus,bis;ter, Fu - s aut etiam quater fanguinem evacuare, quàm. vs os: unà cvacuatione fol totum negotium abfolve- [5 - re:fic enim melius fanguis ad motum incitaus mi«- $27 tur, et fepius motus facili üs ad fluxum invi Sechto ve- tatur. lossqézsexialo 136. Placet magis füb noctem ex pede fan- Lex inh. volue fot guinem detrahere, ut ex affiduo motu ; aut fta- fab mo- tione et humores facilis defcendant,& ex mo- PREPSURCUUNQ QE attenuati faciliüs profiuant. fob ixi: : 137; Per duos tamen, aut tres dies ante ab- W- rof luantur crura. ex decoctis attenuantibus;& aro- dfricla. 4. ant X. matibusafperfis, et mox longà fricatione deor- * | fectionem - AV uon € cuini ; | Li onda I 5$. Faciliüs etiam fiet voti compos . fi ante cx ialeti« hecomnia,aut diebus prepara tionis exercitiis 2 dere 4«- ytatur aut univerfi cor poris yat inen par- éet CX?rC! tium infernarum, maxime autem | ]jumborum.; f / fione fan aut fanguinem ejufdem conditionis obftructio- nem inutero facere cognoverimus, priüs fo: culis ex »] ; zai0 oven yuln ' |; regio Tnentis, X emp laftris reeioné uteri fovere; quo» fum trahendo invitetur fanguis ad fluxí9nemi[: adinferna,44 artenuentur humores mixti fans-B: DW 74 139. Praftabit aurem etiam ante fanguini: 1 PoE/14- 221] : miflionem, fi craffum, et v iícidum humoremo.Jnm ANIA ADVERS. . l'rum materia, cüm provectioribus hzc fcriba- | mus; tylva autem prafidicrim apud fcriptores reperiatur paffim, et fit extra noftrum pro po- fitum, apponere non opportunum effe cenfui- mus. 140. In decoctis menfes promovertibus ex- hibendis hzc adfit animadverfio, ut 1llcru m. jmagnam quantitarem concedamus, ut integris viribus ad uterum pervenire poffint; atq; n« n. tolum fanguineman venis exiftentem craflio- Irem attenuaxe,fed et eum, quiin utero 1mpa- ctus, et cbftrvens, impedimento eft fluxui, fe- cernere, et fübtilemreddere., De lAI. Q Fluxu zeen[iruorum immodtco . Vemadmodum in fü ppreffis menfi- bus, dum repetità utimur fanguinis fep endn e emaul yn. A leg evt 1x . Méfes pro 7200€2114 per os fint 2 mmulta quanti 1216 [n f ^ n xà nie fium mifflicne, dictum eft, praftare », PR mon eadem die 1llá repetere, ut modico illo tem li peris fpatio imminutà materia, et o1iis interpo- Mitis et attenvanribus, et attrahentibus, natura JMmeliusaffuefcere potfet ad materian n per illa jf partem de more evacuandam : ita é contrà m, ! hr evulfionehacab utero per fupcrras partes bis, | et ter eadem die rep ctendum cerfercm ; qvód h& cevacuatio fanguinis vreeat ; et retractà qvà- primum materiá, fluxio citius fiflatur,neg; tcm pus Intermeditim neceffarium fit conc dti,Uut lun Pp) reffione, 2d parandam materian 2. ]n hoc« medi 0 fangut "i$ mio epe !iia 7 F att a MP d E ACCQ AA ifectu video multos vereri i fum : medicamentoru E folventium, quód "- fum digpé'ty latus humor biliofüus, ac commotus, unde faépé gandum . is morbus provenit, ad uterum etiam fet ratur 1 aut compreffion ne, quz in regerendo humore fit, venz dehifcant magis, atq; magis profundatur faneuls: quoniam tarnen per eam partem eva- cuatio aut revulfiua eft. fi fluentis ab hepate; autàliene, velà toto materia motutm confide- yaverimus; aut derivativa,ubiautactri,& cali- do per admixtionem bilis fanguine fiat, aut à illámqué revocare à .parte;ad quam fluit.Quod ompreffione mufculorum ventris inciderit, cüm breviffimum fit et humoris irritantis evacuatione, Á egpen [mnt REIN "entium aliquorum. fFriclimr. dici 1 ; quia,et fa dftringentes aliquas partes hadatum, fcrofo, aut psi jc )paümum femper erit, ex- purgato ab use nentis f: inguine, minüs fuz qu xilem reddere, mini (foli acrimonià irricantem, f hs iod incommodum ex motu eveniat .autil ilo sueiusibot et revulfione y^ | Midica- Sint tamen n medicamenta hc aut per] | spenta tz- fe cum aliquà adftrictione; aut adjectione ad-4 n aü- 4 R hab arbarum ín hoc cafü fugiant Me-] i ! [ r^ abat- beat: potiffim! üm fi non multüm maturum fue: 62 7 7 vit, quoniam tamen, inquam; tota illius folvem | fup. [lis di visinieneis et tenuiffiriis partibus pofita Jii Cie eit. qtux facillime venas uic cd c etlam ! faneuinem fuo colore tingunt;& eàrationeacu tiem illiaddunt, et calorem ;càüm tot alia ; 8X fi nplicia, et compofita fup erint, fatius fempe | duxi abillo abftinere ; potiffimum cum ab alii lic, cüm ei, quz aut -i icraffanti facultates aut 774//22* lipEniraspropémodem mulieres ab hoc morbo Incmdton. et facillime P: arabile. Recipit àutem Gor deme 4. iy datvm, obíervàrim, multa in hoc morboattu- life incomimodao.Poft hujt re remedia ea ratione fa(a Pire feri b rdaxitbe corveniant;unumanr pre- /, (ena cnirtema iato Bodo effe cenfiisquo "^ di ;interfecreta "Jn udo refe rvattim. clefcehtibas ; áui fub noftrà tütel: id pPraximi me K Am addiféendàm exercéntur;etia Icomimiimicatum nb&hcomhníbus;ad communem Hiliitenm cc mmune iit ;Qquo feré& nunm- iquam friftra ufus füm,modo exulcerato aliquo vaíe in ütero fluxus as menftruorum aliquaiu.; kon habeareccaficohem-: eftautem omnino eva? ^ aqva libras feptent; 1n'quà 1ncoquo cortüces lerium aurentivm acidorum ; aliouanto adhuc fiubviridiom,'&i1llas in philyras incido ; et exiccanoàd duarum pártium confumptionem; et factà colatrri, vhicias novem vel octo potanda Imane dé: euod fi vay medicamentum paliorebiccirf:m volo;nunrpalum herbz pilofel- 1 31li«c £g *1 . E 11 like 1n fne exccquendum addo : Ines adhuc redditur; fi ie aqvà Villenfi decoctio fiat, aut fi in octo "Hbris aqui fiat? vbi duz terti? partes pér coctiopen abf mypta fverint,& excolatumm ldciimiyehalybetdito ignito fepius 3 PUT 713 roborettir. Boethi u- xoris albo profievio laboratis biftortec o explicata et Gal.lib, de praco- gn. ad Poflbu22H?7 « az De albis per uterum purgamentis. 146. C Vmillud mihi femper fit perfuafum, | |. | in hoc morboeaiterum non laborare.» per fe, mifi cüm ex longo «lefluxuetiam pars ea;, 1;, aut laxatur nimiüm ., aur refrigeratur, aut; jy, cetiamaliquando ulceratur fed vel à totocore. f; pore, aut à ventziculo;aut ab hepate; aut eriam. |i àcapite materiam 1llam transfundi, laudare.» fatis. non poffum,quod Galenus //b. de -pracog.ad Poflhumurz, maxime necetfarium, effeduxit; ut aut totius, aut partis laborantis,& tranfmitten- | |. tis rationem habeamus ;.nec fufficere humores . |... divertere, et evacuare et per alvum, et per uri- ps, ut fecit eo loco. Galenus ; qui non folum... diureticis, afaro, et apio, et hydragogis ufus]... eít, fedlongà, et forti fricatione, ciun non abi]; hepate, aurà ventriculo tumor ille ventrisinfe- rioris, et fluxusaquofus per uterum originem. duxerit, fed ex refrizerato nimiàm,& humente: habitu corporis, et potiffimum carnibos par... tium infernarum,unde per longam, et validam; fiicationem, et fimplicem,& cum melle cocto | EUR. » "e .non folàüm revocabatur ab utero ferofailla af]. fluens humiditas ; fed incalefcebat habitus cor--J poris, et ira ficcabantur carnes, ut (anguis adi]; appofitionem, et renutritionem tranfiniffuss] non ampliü s recrudefceret, autin pituitam, fe--] . rofümve humorem abiret, fed nutrirer,sícque |. optimé nobilis illa matrona convaluerits nona, Jguur [^ 'J vocare «Quod fi af ANIM-ADFERS.: . Igitur oportuit alia etiam adhibuiffe, et exhi- buiffe prarcr ea, qua tradidit eo Iibroad aufe- rcndam intemperiem à tcto; aut parte, üt cen- fuit t doctiffimus laffarlas meus, cm non alia» labcraret: unde excalefaétà; et ficcatà par- t€, ne denuo m aterja e enerayrecur, faris fuit;ges nitam et peralvum, en perurinas ab utero re« '0 &apioufus eft, ad du- cendam materiam " er i mofadd àm,qua tamen etia 27$ 4| perm,enfes, et uterum folent evacua re; ncn vl"A P * f detur mihi reprehendendus;s qui nt và cencra| rione humoris inhibità, rectà victüs ratione; | potiflimüm pottis parfimonia,iX füblatà intem- J| petieà parte laborante; nó ahud habebat;quod | faceret pro eàcurandà ; quàm genitam jam a- | quam evacuare,& à partéad quam tota fereba! div reticis » tur, derivare ; nempe hydræoeis per alvum. per veficam, et iis quidem;que fimul menfes prolicere poffunt; qualia effeafarum,& apic m docuerat 5. C $ xfi med. facul. ^ut etiam fi qua excrementa picultof. | uteri veris, et utero 1pfo i ferofa in, rent;aut ob craf- fitiemretincrentvr, neaut corrumperentur re- tenta, aut iptcanperiem 1n utero 1nducerent, tandem etiam quamp rimum expurearentur, . Ex quacvrandiration e illu d primo col- ligendum eft, ncn hac 3" làin cedendum effe in curando fli xv mulIicbi ahbà enim và 1ncef- fife et alios Medicc: n. cmanos,& Galenum ipfum, ex Hi Medicis anuquvis dcíompt refide pocrate, et optimis qvibufqveo à,Cccnftatex cap1teo $ à illo: Albg bro. fiii fa- bé CHYAV- dut vtría ra- Moe à di tradita et », ls l;b. de pr&cog. ed. Pofl bu 322/4772 . lx arena yanarina fepe: e 2nalum, £9 contra G a. Albi bro- finvi vc- YA CHYAL- Ai TAL.illo: mutàffea item poftcà Galenum fentétiam; poftquàminundià ftomachi regione. ex unguen to nardino precordia perfenfit frizida,& humi- da, ac mollia; ncn fecüs quàm lac coaguíiatum ; nondum tamen in càfeum concretum ; ut ex hi- fori illà tradità Zib.de pracog. ad Poflbusmum.», eap. 8. colligia 129. "XN etroris 'arcuendi. funt ; qui piocurando eo moi rbo ;mulieres in calidá ma- risarenà fepeli endas ex Ga leni. decreto cenfent; cim tamen Galerius fateatur aperte; et ce tcros omnes d C feipfum non firié errore hoc remedium attentàffe: ut magis ii finr. deridendi; qui etiam in divi arena Soli aftivo nudas mulieres exponentes, ac deméreerites ; tentà- runt mbrbutá huncevincere. 149. C urari igitur poterunt fim iles ur orbi, derivatà, et fimulevacuatà materià per vias fe cefsüs ydrago?is; diureticis per viàsu rinz, eo modo, quem docuit Gal. cap. illo o.de pracog. ad Poftb. Inter hvdragoga noftrotempore pri- mum fibi locum vendic at Mechoacani kann fialiquaadmixta fit bilis; £x Jappa,tum ola Q tertüm cum pilu lis ak epha iginis, fuccüs 1reoss potiffimum, f. Bie I? decoctum; et Pa m aj fylv 'CitI1S 14 )a- 541- Ixt il« LI t (imilibus« alia.aut ex 115:2* . Dofita. tiffimum witbid, &'prafentaneum remiedium funt; aque T bermales falíz. vt T'ettuciana ; et fimiles, quód per vias fecefsüs hunziditates de4? " Do v .À d S S asi es AUI FEMA ^ M. ducant. Tot ner hanc viam naturam attuetcat eoi- cCrC. Incafi lium tam een haco n inl daa fient dem tranfimitt y77 Gent, nifi partis cenerantis hos humores ratic- pem habuerimus aut, ftà toto eenerentur;to- uus; propterea, in ufum e. CURED dug intem- periem partis aut touus tollere poflint; puta» EL: | e MN wd fi frioe1da et humida fuerit; quod 1a pius evenit; je. aut ventticuli,aut hepatis, aur toti s,excaiefa- cientibus,«& ficcantibus conabimur evinccre ? commodiora autem hazcerunt, f15ü88nrhoc prc1-4 331311 " ; (^v 1taàlnLls 3 a Vt( Lt : assise ap, o e« 1ncontrarum tractam eCvacliaic co i LHl- C15 potiliiniulu lia totoad uterum trans fundaa- - h 1 * T decoótum Guajaci: aut fi1ntemperies bec frigii Q | :, 1*3 ^ 14 : vw da « humida jecur etiam att1gccr1t; quo d Cx Ia- dice, vel. ilgno oafiairas paratur; ex quorum hr ES, * $^ "s " 14* T^ we 4 | Qe» T C XCInD] l ) CU 111 P xin rima aiia | roponl px (tunt. 1 E I $C. Animadvert« naun Lt 1d Cn,n ja fempet1 aut íerofuin humorem, aut pitu1tcium peccare; peque ícmpernunc cíic. Cx pl rcandum neque 423311 " I ! À ' E a^ bor d x c4 femper calidis cczr1endam efie caufam efncien Puross:8 2 mulie by 12 20) 75ber "t £ J 7 ,211 CALtis Ci 4avanáa o Adftrictus enim locis ; aut nobiliota meinbtáà in-. 1: vadent molefta illa excrementa; aut retenta in., malum habitum ; aut. hydropem laborantes] ducent. De. Vteri prafocatione . Prfoa- 132 f leri prefocatio ut morbus eft per-- 1^ Vis air dn niciofus, ita cutn folis mulieribus,,! tento fei et fepe ex Iimprovifo adveniat ; curationem fe-- [4 ne,odova- X6 € fola fibiadfciverunt, ut inde quàm] j]uri--p £5 vulva 1naà errata introducta e(ífenon fit titm : Inter nen inn quz lllud primum locum obtinet ; quodi infuf-- pun gea. ^ focatione matricis ex retento femine, in matiriss| virginibus, et viduis ; internas vulva partes ;1n--[' ungunt odotatis cleis, ex Zibeto, Mofcho,& fi--|' milibus, aut peffaria talia imponunt;quibus,licet ob fuavem odorem, uterus füpetnas partes: petens deorfüm allictatur ; quoniàtm cunen et titillatio excitatur, et appetitus Veneris promovectr;quaft in furorem viregineum coricitan-- p turmulieres, &à comprefhio ne diaphragmatis retracto utero in proprio loco extenfus, quaft turzente materia undequaq; movetur, ac fynt- ptomata p ropemodum ind icibilia producit; Le- fo cetebro, et corde: hinc cordis palpitationes, et fyncope, hinc pulfüum deperditaiones, hinc:] dementis, lío cerebro, concuffiones omnium partium, convulfiones, et fimilia. Prafota- 153. Quare pra ft arct fuaves illos odotes co- tiséeze o X1$in párte internà prope. puderda alligare, quam onum intrudere, fic enim beneficio fuavis olen- ! tie fruerentur,nec in illa tam magna incom- 1 | modi inciderent . r$4. Nutriquam faciem frigidà in tali Cau afperzant. Minüsautemodoratis aquis. r$6. Quinimó ne vino quidem facies erit abluenda. 157. Quamvis enim vini nonnihil vietiam adapertoore infündi poffit; cum Hipp.Z/b.dc» | morb. mul. cra tamen. eodem tempore malé ! olentia naribus admoveat, vino faciem làvan- I dam non efle docet . 158. TitiHationes aut'dieito medioimpofi- | to, et perfricante os uteri,aut aliis inftrumen- tis,ut femine excreto füblevetur mulier,à Chri- ! füano homine omnino ablegentur . 1f9. Quametiam ob caufam peffi illi ex ali- | ptà, lienoa |Joe,eca ryophyllis, Zibeto, et fi fimili- Pbus parata, licet difcurere flatus uter: valeant, !quin et fermen promovere;quoniam tamen ten- J'tizinem maximam promovent, et Saty riafim. fepe inducunt, in hac fuffoc ationis fpecie ex re- I rento femine non ita tutó in ufum duci poffunt, MEC Cerata ex Tacahamach&, Caragnà, fGalbano, et fimilibus, utin hoc morbo ex re- litentis menfibus ob craffitiem, aut putrefacts, llrron refrieeraris excrementus, ac ex flatibus à Wl proprià fede dimoventibus; proficua funt ; ita, I[mb: ex femine.retento, et putrefacto ortum du- Ixerit; non 1ta fecura erunt, nifi cum exftinguén- S ^ tibus lentia to xis appli- canda . F scies frs qida n9 æ fhergeda. Nec a- quis ode- pyAf:'fe Nec vinos Pauxilis viniconce dendum mai? olem tiba$ na- ribus Appo- fitis « In prafeos catis ex fe mine reti ciéda titi latione. Pe[ft odos raulpra- LUUD e femine reiitiédi » GCeratæx Caragna» galbano » gc. tpr et focatis (ex f 1oine y. Gucarcoi- z ZéLá. 1 " r&- /* J« jocis Za d fit P €? ü4 E tibus femen,aut refrieeran ub us; ficcantibuss uteítagn 15 caftus&« Sorallium»aliquid adjun- ol 1l ^ AX61I«. Scio multas, quo ri Pe. ev t TE 7 emo NE S TEN in locc Pp OpEh yretinea nhtL,Uu6 DnVItCLLiCA alieettio 23 x Ln en excitentur; hujufinodi ceratisex T acahátnach uti,41n.umbilici autem, Cay itate 11 1 f56snere q10n1 nponecie quo aut tria grana Mofchi: fe C 1 quàm ] ehci fucceffu, 1 ipíz viderint ;ex calore enim corporis et lec elevatis bene olenübus vaporibus;fepe in pi focaüones incidunt ., 162. Cucurbitule ut infernis parti ris, et coxis, quin et 1pfi publ appofitz profi- ciünt ia reeioni umbilici | Te» parte Obefle ic lent. adis. In 3 Vero y ftot A nx 3 - Q5 ; 1€ CX re tenti: d inen 1 / ^14 e! * ^x/11133 1140 7 T gor 3 44A Cu iquo n yd. Xxumque appo lli 29 PP! OXAS bi alliüi Lil 1 US E 1 lm. LJ Cc 291 Db 11C5 Li Tas 13 EIU 3x4. 1 ders: s Lou. PLUS 5 ctiam in par: X VilllO a mo s COI LI » poris totus refrigeretur ; Don j« LU 1n DatOoxy. Y ibe enda eft dili S4NIMADFERS:- LIB.FIF .281 T2) 166. Incaauteém, quT Cx Hagone ( Ag ine D o0» fla- T p^des v ducit, cucurbitulà magna umbilici regioni apa ;;, c55- lic rel 3 toin (1617 qo ^ 1 : Prtifi » VCI intcf uroblücum E ul em pl&G- as tadffimum;fi quod aliud,remediun efleíclet. zza ati- ^ 2 Hac tamencautione,utaut €x aGUa ca- 5/75. ÓH 1^ !1 »li "etr! . 111 "Y 1^ ' id-erxa30mnme 13 61 T5 bruvbpi- ldáaapp ICCI1 L5 41 LCI m non nil m 19n€;, pocti- gu Ve» - : E ! "1 : nia : 24/3 7H inum jn pra pinguibus mullcribus . IH: a 255 1698. Sitex iis,qua perforatx funt 1n furn- 5 mitate. j : 3 m. d P m E di 1 2 t 5214 169. Diutius non permittaptul adherere.ne, - - LI * a " MoqT1 48 Í3 t: 4 «1171 1^ 1 (11 ^ if impegito kA AlilLL 2 lllLUl £1l5| D I |) ill «CC 2 ]I1lo 1$ ^^] v m lI13carr- anmod alia p Qe qu oa n91 4Enaln CL. aLLiI 3 quod et iiti LIII «idl . )Yali$ et j i j 1 Z»^r: I * f. Y : | D, ! )! 3 up 1410 J 420A A20 n2^77 0741147253122 : ] Lc 14154 E aud A40, i AF LH222 07-1 A. MI e«LcoATL a Ter 4 Le per mient e j«€?t E m, Medicorum 1n partu naturail ; præ JÆcuncdi, dicorum. Canones veró curationiim omnium morboram muliebrium: diligentiffimé -profe- cuti funt; przterantiquos Patres noftros, Graz- cos, Arabes, et Latinos, ex ecentioribus Mer- catus, Mercurialis, et Maftfarias ; fofüm aliqua attingamad munus füfceptunvattinentia . Obfetrici Primóanimadverto, et frequenti experien- £us non te tià Obfervavi, nons effe temeré credendum ob- mtré cre- ftetricibus aut aftruentibus graviditatem, aut dendil, fea negantibus;,ubi agituraut de promovédis men- Mec Gus aut de fecandà venà ; aut purgando cor- dd ed pore, ob urgentem aliquem morbum; fed Me- Hla iljg,; dicus diligentiam fuam adhibeat, conjecturis expendos, 4$aG has cum dictis obftetricum congu negat, et agar, lufpenfofemper pede in re-admodum judicatu 8 difficili incedat; ne, fi dicta folümobftetricum, 1 aut mulierum fequatur; nimis fecuré incedens, abortum inducat;aut remediis deftitutam lan- guentem finat. Obffetvici | 371. SYumquamtamen in fimilibus cafíbris bus sfferé aperiendi (untoculi, tunc fáné quàm minimum tibus fe- obftetricibus eft credendum,etiam jurejurando tum mor- afferentibus, cüm mortuum effe fætum teftan- P489 59 tur, et valentibus medicamentis excludendum ice . Perfüadent; cüm fepenumeró multas videri- erts mus, à quibus feet!m ramquam mortuum, aut excludendim;aut, quód pejus ett, ferramentis extrahendum effe cenfebsnt obftetrices, et fub füà, ut ajebant; conftientià jurabant, quz non., ita muftó póít vivum,& bene valentem fcetiim pepererunt. E HÁÉÓ € acerbit ter efflæitant à Medi potrigant, pulveres, decocta, àquás füllaauas potrige endo : ; quibi 1S 1 (æp Vta ate dol " utem non ita óbftetricibus; ita aures non f tirientibus, qui aifficatéa de partis ue: Na orm commortz precibus inftanC1: K datur, autirritata natul tcvc T5 i 4* n! dd i cit nac Ale Ob hat tanta rtat undeaut acerbu clu(iis ante temptts à natura cotil fervet ndtur m fitum 1i 1C ipfam cà difficiltàs, unt pra facile SENCASCI éit eben ; ut mahuüs adjuttrice ftit n exe indo. ifaycun laxantib P emolltentibus res erit triti fizenda ati folemus ad expellénd üm fetum 1mnor q mbus tuiim; I74. aut fecur Quod f 1 placidi ráfémpér in aum parturien infantis éxclt Occidàtmus. 17;. multerit neque i enim CO ee A mentes; fueéverint, énim fuübfequuntir fübv« alvus xliquándo citatur : tó convenit, quód dolores 1l foleant,n eet üm . dated. ter er, nin dà df no iearuue I^ [ r1 aus 1ftofi uerih n Ira 1 ^"r41 G "i 1 n T u ; ad]: imyoda arcu CUUccl ! 11€ nfe t d bl CX nil ^ Mc À. a» V $^ CXP ^( 5 5 Xlt loratunm laritm,d Da [im iciimque c fiiper ione exl TÍI nc primipatris 1s fi 1 I 1 uo ) JUS V "f. Cxnh1Dc $ ventric lt s iabeamus, quar e fit; ut infans aut occi- "i tenifpus debituman- cegcto datur;aut ex- utum, non» n partüs ad- OUS » Gt laln 11$ etiam ad hic eft venien« á UL. um ip: ci debebunp ivaré » DC, 'élymus;, " li pfius Im, (ofüinia aut étiam ip d : noftris exhiben video n fluxerti it,neque vc he venit: nire c De "EPIIT fe pc LA o9 E | CC 1l Qui DadIp iCrvenirc non P parParttut »o [rà Uth- vA PTS á Medico ob fprttes parturien I A7 Paviu dm ains vt29 tja fati s bi 07220 Et [cam dAs, 4p 20X1A . Fét& ex- cLedentt- $ QHA7 do dun; - Qieu?n 4^ mys dali. |onü A par- tu hegue femper,ze gue ou Uentt s 4at6Hn)11- ? Us cg Febrttit Li LoUs.a bart : LI ag mut jeans [AU * gz 4 [u- ht f par, 2 201ÉS e. gv i, - piod qua purgatio C07 din et "i ndo obofd, qu. ex £ontvoverY fia b«c til lez d: a . exp eme. A! com bue E ) . LFVD. SEPT.ALII um fiuere velit materia. "176. Sifüpervenerit febris, aut inflammatio aliqua, numquam à fuperioribus venis extra- hehdus erit fanis, qn dgad alu fentiant;ne » retrahantur purgamenta: fed ab infernis fem- pereritevacuandus. M EDIOL.: Aag pe ud De AMforlbis articularibus... ( 7s Íciam maximé. contre um efle, an incipi Sn eplc varticulorum,potufflimüm.po ex ufu fit medicamento elective purgante iid motes evacüarc, multis 1d affirmantibus, quód ;, humores fluxionem facientes evacuentur, re- vocentüf£, et ab articulis, ad quos fluunt, rev Sy lantur; evacuatà enim materias cn urnores fuc- céldent dolores ;& brev lori tempore pii ura- bunt: experientiam bac inre iunltoru m etiain. afferunt ; in quibus expurgatis humoribus me- dicamento, et dolores leviores fuerunt, et bre- v1evanueru nt. B epugna nthuicopiniontali, afferentes, ci dicamento purgante res ad inf iürihantur,*« devehantur;, fpe humores per íé € à medicamento com- motos vehementius irruentes, majori etiam» impetu, majori A ug et magis affatin culos pedum ; et ad 2enua affiuere et vehementiores cfl dcc re dolores : et ob hanc unà caufam, dicunt, et Galenum; et omnes fcripto- restam Gf£zCos, quàm nos« 1 Á IT. [| bns iiLilnoO4p Ccrna e a SICQUuc 1ad arti-4 * Maurit 2QI3060S C lat IOS. m e Crraturos;cu dloribus adfit et expellentis ; à UCTIt COp1a ANIM ADI Dæiscommendáàfle evacuationem factam per contraria humores eoe £T? L| ime. Cij us i cum dili- Zenter caufam 1inveft1io irem; ceno iictl1onem hacin re QC materias Savocare,1d vero au IDnatcria inque'qdquandatrate La ad 111a: RQARSM VEPPE erimenta; ul ex] crie tà cc Ec Cas a l11q l 3 M ic fiuens 5 CX 3 'Clilltas recipientis de,ant rob: controverfiam .düàn fias evacua dà ex £diftin- 2uluc ho . )pri - ü1m. i8 mS "m pr E E ", 26. LED. SEPT ALII MEDIOEL. Ead ut ex fignis debilitas arücnlorum. Facilids Gxtvonviip autem difcernemus, an purgante medicamento ^... utendumfit.an abftinendum, ex experimento facto : fi enim femel aur itezum tentatà purga tione, &ingravefcant dolores ; et diutius per- durent, ab illà in pofterum abftinere oportebit: fin autem melius fe habuerit ; aut faltem bre- vicr faétus fit morbus, omnino intrepide erit corpus purgandum. Purpusio x79. Cum vero, fi purgandum eft; in princi- zpwdsgra piold faciendum fj. freftra preparaturfytupis cü facit. materia; cüm nec putrida fit, ut: cocticne indi- day etl l4 coat; tantem aucferofa., et rennis,queftaum; Us um [466 expureari poteft, Galeno magiftro, Jib. Qwoss:. 9 | da, r Qj quatido purgareéxpediat, avt fané bilicfa.; te- ph wv^^^ quls, non potrida, qua facilé expurgatur;nec. |? Becy)wM coctione indiget, quód fit fine putredine: cum. |. "von netóf v tamen craffa aliquando fb perfit præparari po- pc terit, et atcenuaris ut facilis, fi non refolvatur Acum per infenfibilé evaporationem, cvacuari pofht . 179. Miflio (aneuinis per fectam venam ut / : A T7ÉATCUAAMA . Ppodagri "- A 1 É - : ^ dg quA A: gmaxll ne lauda CUT, ad praca vendam podærà 5. MN (C sis - | JC -irgdus, goinefit refertum ; et ad eandem curandam, ft. |! an guin- bumores mixti fint cum fanguine : ita fi fercft: [uy jJ" dozen. fucrint humores,& frigidi, &frà parübusexe-- pu cernis capitis defluat materia, fruftra tentatut: pni tale remedium, quód. habitum corporis refrie- | ecret, et hujufmodi humori: prftet occafic-- [1t nemo . Pedaga X80, Quin ubi frequentiüs hujufimodi pce] dagrice» [q" ód crudis humoribus tunc det occafionem 5q« | elagricz acceffiones homines invadunt fie piüf- ^ f | quealiquem affüixerint, nifi fumma adfit ple- vei fim- Initudo qui alis inebriofis, et vinofis aggreearl,,;, ji e | folet, hujufmodi remedium erit omittendum, tendus uius /feffatis d vvv eL- eda | habitum corporis refrigeret, nec curfum hu--* yis | morim extra venas«ohibere poffit . E- $1. Repellentia quamvis paffimin princi Podagre | p1o, Ccvacuato tamen p rlüs corpore aut fangui- lalerax f | nis miffione, aut purgatione, commendentur à £u ridiou Jaffirmare,raró tutó in ufum duci poffe ;. fi enim ró Con"ve- ntt Í .lidolores vehementes articulorum non prius ps "6o | zefícunt quàm ubi :materia illa maxime calida, i'Galeno, Acuo,Pau lo,&. Ceteris; aufim tamen. Jeztia va Lin. hu C34Y ^ ad externa prol. abitur, tumorem, et ru Pocos Y m 1p partc excitans,quc modo repulfa refrigeratis »«Æ clot | externis partibus non morbo occoficnem augc- | bit; exitum impediens ? Quód fiadítridio Ten hleigendes | pu lion juncta fit, magis eriam ledet .. Sed ve- - | 1o jam ex parte f'uxa amate ria dolorem excitás, | nonne etiam, fi cà ref riger à dolor imminu: tur, craffeícet magis, magi f ue impingetur; et 2. ad fubind e€contumaciorem mo yrbum efficiet? Non po P» nifrigitur feviffimis doloribus ; omnem ad fe; " curationem trahentibus, verisrepellenübvsu- J| C0. LL a. remur, frigidà, aceto, farinis admixtis, pfyllio, lenticulà pafnftri ex aquà.& accto.& fimilibus; Securius eft oleum rofaccum, quod vocant Com o dos. "- pletum, quamvis enim refrigeret, et alique eec. modo repellat, vi tamen olei laxante tranfpira- c^ tionem non impedit, neque partem conftipat; atit [Let ano WSLGii quatre prat joy: !] -! * v cr el Tn ex Cut: $e), LC piam 2! 3 Í AG eui; articulos po X | CAT. Q. C 4 A do fricart'r,; 1D ^47 03 Li Ü no» " 4 l (t, difcutit nre iatiifa P ter praulel-. 1 IOX123.». Ep: 1,€0 nequaten ^11 v emm Ve V ( nimad A Pa P Oo ^et / Q "C e E tS. EUEM u pti b tione ir dolores li1ttt 1 wi n iupra mí tis enim c [ n di aue huimo* 1naíor 1 Of9f! C | p [: J *eo( (0 CM A 1 1 1117€ p nts 1!! Phvl E 41 [1 ntifl 6€ co" ^nbi 4 LI L idià 1 * Qu tentia, et el | "11 ET A A. 7 [2 ris. (:3Hs^w1S I UETTICIL soni e «& vix falfedo oleo communicatur, foleo ego fa- lem tritum M A EERATE in vini calidi leviffimà poruone pat] aum colliquare, mox falem illum | cciliquatum affidue fpatulà cum oleo agitare »; I et ficoleum falíedinem contrahit: Velin fübti- | liffimum pollinem falem contritum, et oleo ad| mixtum femper ; antequàm 1n ufüm ducatur | dilicentcr concutiemuls . De AMorbo Gallico. - ^ 136. N Venereà hac ]ue cura inda multa fa- À néannotare potero, cüm illud veré af- firmare aufim, poft delatü à novo Qrbe ad nos I| hunc morbum, me fortaffe multo plures hoc I morbo laborantes curáffe, quàm qu ifquam. alius, quód prater innumeros in magna hac urI be paffim curatos, per quadraginta annorum. fpauum magni illius Hofpitalis Brolii,in quo, ll folus 1s morbus curatur ; et fzpenumeró vere I folo fepringentis, quà decoctis, quà inunctioni- l| bus, et fuffumiegis curato adhibetur ; reliquo vero tempore faltem ducent ex ulceribus femJ| per crrantur, purgato diligenter corpore, et Ili multis etiam et pulvifcul 1$, et elec tuariis,alexipharmacis praterea exhibitis ; curam in adole- fcentià mihi demandatam fcmper retinuerim., et adhucin hac tate retineam, ob FRUIR cau- fas ; rtüm potiffimum, ut adolefcertes, et novi- tiosin hoc morbo cerrando poffem exercere ». Vnde cuamanno praterito ; multis poftulantiT bus, adzmifce- tur s fi fal oleo no?» qa idus 04 Lol CÓ voa / p Æ ra pn. Gallici morbi cu- ratio du clort Quo- 7modo frequens, c in ea mal ta obfer- vare quo- 72049 po- tuerit. mw M A MorlLi gal ]l:wei cura- 20 diver- f?» morbo vix 1- €boante, FR mento aliquo füperficiei penis, atit feminei pu- 0e bus, diebus, quibus à Moralibus,& politicis ii meis lectionibus vacare conceffum erat ; pluttbus fermonibüstotam hanc de Iué Veneftea tra- étationem comprehenfis fum. Ex quibus ali: qua, quain curatione hijus morbi finguilaria occurrunt, excerptà hocloco annoranda miht fumpfi. | Primó ieitur illud annotandutm;non eándem eífe curationem luis hujus primis diebus com- municatz, et übi altiüs radices egerit, fedém- que, quam hepar femper cenfüt, occupaverit 2 . ^oi A fiepé enim malà illà qualitate mediante recre--déndi; communtcatà,externas folüm partes oc--J. cupat; ulcufculo cariofo, aut fimilibus excitato; quo exficcantibus curato, aliquando penitiorés partes noh attinet, eu occafioné neque mittendus erit fanouis; néque purgandum corpus ; 4; ne, quz externis partibüs folis adhæret conta: cio;agitata magis diffundatur, magífque ad in- terna trahatur, urndé veré morbus contrahatuür Neque veró timendim eft ; ne contta medica- tzcepta agamus, quibus cavetur, ne umquam localibus utaviur,anteduàm erirverfum fit inásJ, nitum: Id enim veriffimum eftin morbis à cauw si interni ortur ducefitibus, non autem in iis S &. qui ab externis ; tiani 1m miorfü venenatorutns] 4nimaltum ómninoad externa evocamus, fiftt] mus, acad cutem trahimus, denique non. pürn camus; ut comode in fcabie recenter ccntadt . ^, ^. » - N . 4 communicata, in quà fxpiffimé citra purgauea ncm ANIMADFERS. LIB. FII. 394 nem cuti emendanda, et fcabiei tollenda folüm unfiftimus . Neq; tamen placet,quod ab Empiricis paffim commendari video, ut indiftin&é qui- bufvis cibis ; et cujufceumque conditionis utan- ' Iur, multaque paffim ingerant, poriffimüm ubi I:bubones appareant, nec ita facilé eleventur ; uomodo enim naturam opiailantem ad expul f1onem habebimus, aut ad foi confervationem, fiillam multitudine ciborum;aut malà qualita- ite cbruemus? Át neinecià etiam macerandum eft cor pus. neinternz partes 2]imento debito deftitu- Ita, ab ambitu corporis, et externis partibus at- T trahànt. 199. Exercirium, quod alii injungunt, po- tiffimüm in bini bone promovendo, ut non pof- fum non commendare, ita fi excedat ; f peoffi- 'Teere poteft, apertis nimiiim meatibus ss ex- 'THhaufüs intern2rim partium fpiritibus, quà oc- Ieafione virus exrernem fepcad interna remeat: "FQ rows ab exercir1o füdor promoveatur;abij | fter. 'ebet. neaperiis meaubuscumrecremen tis oualitate mala infectis remeet, et interna Tinfciat.. Átveró ne decipiamvr, dilieentet in» 4 carie apparente obfervandum eft, fi à congretfa Babont- bus nàe- XL bas $ n0n "male ta ingeré- da,neque quibufvis vefcendti, cotra Em pirieos. Morbo gal lito. in- ChoADte » tenuis vte« ? malus. Gallico t cboante exércitim valdum fap made lssta Carte gallica atpaI4 Venerco p er quatuoraut quinque dies caries i]- rente; T f laar paruerit . creffn tempcris : fi cilenim primun 4 efle ex fordibus communicatis, et tunc nullà 1 a prean po ;tiüs sr illud evererit,fionum erit,crram mode tr& "7 enda DEAN c9 06? &n1//€ . precedente corporis univerfali evacuatione s exficcantibus folm totum negotium trarfige- mus: fi véró ex labe hepati communicat illud fieri judicabimus, tuncevacaato corpore, ale- : xipharmacis rem abfolvemus ; ingow- | 191. Sic& in gonorrhoeá procedendum:ali- vhs (^ quandoenimà concubitu ftatim evenit ; validà $0763 49? exi(tente natura, et ftatim propeliente per cam enodo pro- artem virulentiam contractam; et tunc nullo cededit « ; f à . à modo per raultos dies erit cohibenda, fed finen da, fübluendum folüm quod adharet . At pro- erediente tempore fi non definat;aut fi novum. aliquod fymptoma füperveniat jam providendum eft fedi, et evacuato corpore ; alexiphar- |j macis edomare vim morbi, vel potius malamo qualitatem tentabimus . Quomos 192. Idemin bubone apparente:fi enim pri--] do proct- mis diebus apparuerit ; quoniam robur arguit] dendw fAcultatis propellentis luem illam ad ignobi-4. £2 €/4* lem partem, omnino actioilla eritadjuvanda ;4, fione, bu- &one gall £o appare gt. nec purgatione; àut faneuinis;miffione evacuan düm erit corpus, ne revocemus naturam à mo- tu illo : et fiepé talem evacuationem aperto bunémque virulentiam evacuáaffe. Ya 193. Obfervatum tamen eft aliquando, tan) 32 bubo-. ^ iyole humorum premi naturam,& adeo craf! ze contu- à snati alina. As aggrediatur natura tale opus,fuccumbat ta ; men oneri, nec dd elandularum locum poffi!] purgandi . à : materiam totam propellere ; inchoatumque- J opus COYbM S » (4m, et contumacem effe materiam, ut, quam bone totam vim morbi edomáffe conftat, ome«4 y | opus relinquat ; 1n quo | I fum,füblevatà naturàà mole, et farcinà, eva- | cuato corpore, foeliciàs omnia ceffiffe, tumo- ! rem in debitam menfuüram effe elevatum, et ! materiam duram, et contumacem ad fuppura- |! tionem effe deductam. nj X n r2 . PUO I r^ ood ac NLLTTISSERPNXEMS LL LS ud cafü fzepiffimé expertus . Vbi virulenta bac qualitas fedem jam| occupaverit,& morbus Gallicus jam factus fit, | radicéfq; jam egerit; edomari illa debebit; atq; N alexipharmacis evinci: expurgarr autem ante | corpus debebit, fed nonab initio folis lenientibusagendum ; cüm enim ii humores veram» coctionem non admittant, fed in eo eenere fint; | utfolàüm pre parariad evacuationem debeant, I lenientibus et abftergentia funt adjungenda,& aliqua etiam veré purgantia;fed in minori quan ritate; et hzc veré funt minorantia . Quin, fi in aliquo morbo, in hoc maxi- mé validicribus eft agendum ; tum quód fpé rebellis,& contumax eft materia, puta, lentas; et vifcida, et fzpiüs adufta;tum maximé,quia, cüm per exrerna prorepferit, et jam bonà ex parte extra venas ad carnes, et folidas partes pervenerit; non potcft nifi validis medicamen- üuseducd. . In decoctis pro diluendis fvrupis;autin fyrupisipfis variis pro varià materlà, cul potif- fimüm infidet virulentia illa; femper admifcen- dum eriraliquid ex iis, quz alexipharmacá fa- cultate x j a" Gallico »orbo pro greffo pur ga ndum In eallico morbo 15 principio lenietibus abífergen I7 N72 ganrtia ad i 06A o In gallico mo bo v4 lidis pur qantibus ACenatmm, T e Iv fyrupis pro morbo gallico zd denda 4- lexiphar» "afa. na, aut faponaria; ex quorum ufü.fepiüs exper- tus fun, poft repegitam purgationem ; et mul- tos affumptos fyrupos adeo imminuta fuitfe ac- cidentia, ut mult fe jam convaluiffe cenfentes, cztera auxilia refpuerent, X ni(i admonuiffem; refractam folüm effe vim. morbi, non. convul- fam, vix alia auxilia amplius admififfent . Pilula ia. 197. Poítremum quod in purgatione repeti» fine perga c fumitur medicamentum, placet effe in formá 10515. 12 /fo]idà, qualia funt füb pilularum formà ; quód enorbo gel Sc) longioribusattrahant, et fi qua à medica- licobF^f- entis, aut (yrupis commota fint recrementa»; rehda . facts ooi dd cs acilius poflint educere. Syvupifol 198. Inrepetità preparatione humorum lau ventt$ i? doadmiícerefyrupos compofitosfolventes ; ut gporbo gal fyrupum Montani, de fumarià compofitum,de ? ?"* bolypodio, decichoreà Nicoli ; vel Gulielmi ; dans e. : tiores, et pouffimüm Maffarias doctiffimus ; neque enimimpeditur coctio;quz nullibi in ta limaterià exípectatur ; fed paulatim. prepata- |J tam materiam, cui virus infidet, evacuamus. Palvfcu . Quinimó,ubi maximam fupereffeads li fc!ve- Syacmaterke coplam cognoverimus, optimtrm. 26$, (9 e Eg uo wiain alli : atico ANT ^ir n 2 5 rs,; aut fuffumigia, pu 'vifculis, aut confectis ex! znendaz-: folvéntibus paratis ; Senà, Mechoacano, Ziapro varietate materie, quidquid dicant recen- | ; effe cenfeo, antequàm ad vera alexipharmacaz.] véniamis,potiífimum autem ante 1nunctiones,,| lr. lappà, Turpetho, Hermodactylis,& fimilibus, : " s *À ^ pro varietate materie exuberatis; add1tà zqualiferéad omnia quántitate Sarzg panilie pulvee;] I1z4l4 5 NT € B t " tC s e ais tunc SDN a. «i vta lora sow ruis cate Se 0" ANIMADVERS. LIB.VIL a9$ d rizatz, exhibitis, materiam illam imminuere 5 uc qua rel iqua erit, aut per fudorem propelli poflit, faciiufque dieere e per univerfum cor- | pus difpet(a edomari, atq; evinci ; aut f1 per os expure zanda fit, peculiari argenti vivi faculta- | te, mole (uà. no * füffocet, aut gravi (fima lla; | quz aliquando folet; fymptomata non inducat. 100. In decocüs ex 1is paratis, qua alexite- Guaiacs ||| ria facultate ; et antipa thia quàdam virus illud fpecies. in | evincunt,.& ex corpore pellunt ; ut quod ex vagos || Guajaco paratur ; primó veniat cófiderandum, 7 Mola illüdque p rimüm animadvertendum, non effe Ie illud inufüm ducendum, quod annofum eft;ni- i| miscraffos truncos habens; ataue peromnia, i| vetuftatem Niediolebes quod paffim Empurici fa- i| ciunt, utacrimonià illà perfectionem medica- i| mentiareuentes a2ris (uis 1m ponant; cüm calor natur disin tali ligno jam fere fit abíumptus,& .|| vis ejufdem effeta dedidit ta; Vimoiridum (hbétantis yn oleaginofa pars abfümpta, aucta ficci- | ta5 » five potius ariditas fine pinguedine ; nam. | ob has caufas,cüm multas partes terref fttes de- i| coctum rale habeat; numquam clarefcit de ter- j| reftres iile partes cama wifteritate quàdám acres yh eram pe: (entiuntur 201. Neque tamen etiam truncos illos mi-,, (l| nores laudo ;. minimus cnim illis ineft vigor, et,,,,; i»- Ji calor h uoi litate füperfluà hebetatur, et fücitlt 2, 4;d;i . |i tas illa à tota fübftangià tamquam in-infante eft imbecilla . 202. Efttamen fpecies quedam Guajaci que Gaaiaci 4 n'meGsaiacs, LÀ b. 9^. dass EL. 3 eie W numquam in ufum ducenda eít, qua nierorem.» cis, c VErumin medio non habet, fed colcris cft íub- sb Obícuricum quádam viriditate, que decc cvm decoclumy facit omnino tur bidum, quod numquam clare- faciens, fcit, tum maximà acredine et in eulà, et fauci- reiicióda . bus ardorem excitat; ob craffas autem, et terre- ftres partes majori ex parte in fplene, nonnum« quametiam in hepate obftructiones inducit ; Empirici fylveftre lignum fandtum appellant fed cüm apud fcriptores nullibi reperiam dupli cem hancífvlvef tris, et domeftici differentiam, potius ratione foli has qualitates acquirere cen- ferem. Guaiaci 03. Ánimadvertendum etiam, ne aut m» Jobs neq, ciafiær particulas, aut in nimis fabtilem pol- erf ]inem minuatur; illud enim impedit, ne virtus fi (nes ligni bene aquz impertiatu IE hoc autem efficit, Sec 7? wt difficillime clatefcat decodhum, fed femper ^' feréebibatur turbidum, undeobftructiones in fplene, aut hepate. Virg opi . 2104. Abfu rdum eft, quód viri quidam alio- mimatc- qui doctiffimi etiam firiptis editis cenfierunt, "4 »1? ^ yon poffe fieri decocta ex vino,aut faltem ex v i4 5 et nof, fed infufionem fieri debere ex aquà ; qan OR Harc diutiüs Reb ime effe, adden- Fives dümque in fine vinum, quod hoc cenfe 'antine- : ptam effe materiam infuftoni; quodque tamdiu cxcoqii nequeat, quamdiu opor teretad clicien dam Enc medicamenti : certum eft enim, et in chymicis extractionibus experientià come probatur, nihil effeaptius ad extrahendas me- dica. coéiis 1n Idicamentorum facultates ipfo vino, aquá vini ; I& aceto; quód igneis, et calidis, fubtilibut que partibus renitiora queque permeans ; intimi rem ise Kun facultatem pcterit extrahere; et lin fc concipere : verum quidem eft, non adeó longam pau coctionem, f fed aut longà infufione id compet fati f let, aut in d ici vafe folet ex- Eoqvi. Parare ego decoctum foleo 1n morbo in: 4^ Iveterato, cum mal VRRBET- : » materia frigida pr dominan te, ex vino; quo aliqucs a pud alios tos ertcéte curavi. Paraturautem hoc ; ea infufione corticis ligni fancti OpUd C | CI: ihmodoe: iml,cra de 'contufi unc. xviij. in vinl alb |ppem |, ut gt od dpbdfid Vernatia dicitur;boc- ica æ Isn (catibos decem et octo / funt auteni: Ilibrz medicineles xxxx1j.) per duos CES exca- lcfacto prius vino, et femper per duos illos dà lin duplici vafe, vel cin ribus cale: 16d í lento iene vel in duplici Và apes IÆ n- ilfüumptionem rertic partis j quo utàturagrotus li& mane loco fv1 upi, et c pro potu in cibis; fümet NEN ac mier Mr nh ie ds mne iid Imane unc. v1]. pot ram proliciantvr fudo- Dr t (d les: in 'xceda linc.xiv.Vti D the [0] M 'O autem, et 1n ceena » nOn ( vid a 444 44 a u-ipett rt oo i i(Timum eft etiam 1n1s, aui inunctioLE LULA 48A p M [A Jecoloss Jo üraaadà fzve P T m » medi [^ bro xir ? gallice . erdum "Y Ie factà ex vicia: v1vo non C nvaluc nt; I& portdoaliqua argenti vivi relicta eft in 76 c; ada "More l^ 2o« Sunt,quiutuntur dccocto folvente ex pc; I3 ta1aco, Sorzà, vcl etiam Chinà, ex Sen, 5 Il'urpetho, Hermodaéctvylis ; aliquand iaim lveratro ni2ro,additofemper carduo benedi pL ^ yo 12 Hil quA, Sudores proliciedi aat i2 by- pocaufto., aut in le- &o, fed qu4 caH- t0 ad pibe Ev1tbora- feriis t5 calidis c fiecis na- furi utem dum. Inter fa- dandum nó freque fer purga dum. Sudores 3 0an a aff umpto ie i^ favo EI lici odit. Chin ras ut Brafavolus, et Matthaolus, et aliu. Hzcía- né in robuftiffimis, et quibus fuüdores aut non» profunt, aut pr olici non poffunt, meà quidem. fententià, in ufüm venire poffunt:fi enim pulvifcülis, et clectuariis aliquando, fi non ad reftineuendam, ad imminuendam faltem labem feli- c fucceffu utimur, cur id etiam cum decoctis praftare non poterimus ? non tamen adeó eft fecurum, cüm aliquando infequi foleant 2ravif- fimz dyfenteriz. S PIER 206. In fudore proliændo, fi fponteab at- fümpto decocto non fluat;uti tutó poffumus aut DX poca ta aut capfülà cum 1gne in lecto : fed n pofteriori hoc diligentia adhibenda eft, mu- cda effe. liftéimina,ne fordes infecbz jam ex- pulfz iterum remeent, quodà paucis obferva- tim vidco: quapropter hypocauftorum ufus, fi tolerari poteft,.multó tutior effe folet. 207. ln calidis, et ficcis temperaturis, et e- maciatis vi morbi, füdores commode evapora- torio proliciemus . 208. Vbifudores commodé proffuunt, non. adeo frequenter intermediis medicamentis cor pus per feceffum evacuabimus; revocatur enim liumoresà füperficie verfus ceatrum,impediüt- que faltem,aut difficiliorem proptereà reddunt füdorem, corpüfque rmbecillius faciunt. 209. Non ftatimab affumpto fudoriferoat- te promovendurs eft fi üdor, fed pel th Drop ln- tercedente, fi fieri poflit, omn ? cec (Krnon. 210. Inradicis Chine decocto parandó,cüm foleant, tid ih £2. 9 !foleànt; fi recens fuerit; et noncariofa ; unciám unamillius in decem librisaqua, vel fi felecta non fuerit, et antiqua, duas ejufdem uncias 1f libris duodecim aqua. excoquere; multi etiam. * cf mat ote Ritt i a ent ehe aaa tg ERREUR Yn, ^ /^ ^ Cem cAvi^ 0e. 0A P ili v ü. à (a0 Á& foe * / 299" dicis deco &o inpa- rando có- munis er- ror MediMedia, ut nimie impente rationem habeant ; corum. ! cüm multi totam illam decoctionem unicá die» abfumere nequeant,vercanturautém,fi 1n alte!rum dicm confervent ; né acefcat, dimidiam Chinz ? portionem in dimidiatà aqua quanttæ te excoquunt, et aut dimidias, aut duas tertias confumunt, fic cenfentes et indemnitati crümee . le confiluitfe ; et decoctum xqué validüm pàá« | raile: fed maximé decipiüntur,& (1 suftüs udi I cium non fübtraxerint,facilé coenofc ent, poten ius multó effe primum illud decoctum ; quàm | fecundum; et rauo * in A Don a: tis eft dari proportio ! | fpectáidum maxim éte 'mpus coctioni js «& actio-, et reactuonis aquz. m dca chapa aquz communicandam ; cüm l| quatuor, puta; horarü fpatium intercedere de- | beat ; quantum confuümetur in abf ümendis pet I elixationerm fex, aut ock | '] diatà qu: intitate im cià, libris fex aqi ue, dimidium c ytiftittiere finà- v Lert e irtes,m ino ride ) qti: I nis caloris igni hendam enum facultate: &- ficcifIima, et mtus; aut du duarum horarü al ni 19nls I cere ] 1m IAdl1CI1S ad libris aQU£s:; pofi C hin: ilente ? Nequ Ie vc eró quis di- is quantitate, et | magis lento igne fi fat €oslio; poffe nos PM 'eTow etifcer« au deat, da incommodo contrà venire : nam ad extrahen- ; e. . A E dam vim hanc ex folidiori fubftantia, debita quoqueignis quantitas concurrere debet . " x P j . A 2aw. Sar[opt'i yir. In Sarzz parilie, quam in edomand$ rd 7*-Gui^i (enpertenere cenfui ; decocto, illud obfervans (ofa. 9e Qeeacls ; (L84 &£« de «Af liz decotlo hac ]ue, et fuperandis fymptomatibus primas prs seper . €? dum, numquam folam in ufum ducendam effe; uitfíceda.cüm enim laxante quàdam facultate preditas fit; et fapore fatuo, adeó eos, qui illà utunturj, naufeabundos reddit, ucob imbecillitatem vi- rium ex ciborum averfione multa illius ufum omittere cogantur; adjicienda igitur tertia, vel quarta pars ligni Guajaci; quinimó apud nos : Mediolanenfes decoctum Guajaci folius vix in L ufum duci poteft;ob temperamentum calidum, et humidum, et ob hepar ejuídem tempera- tura. pisa deci So Obfervandum autem, cüm zftate pa- d ds, CAtür, cumminor quantitas decocti paranda» ; fit ; majorem effe debere aque quantiratem, EY e . : A " " ci msior; quàm hyeme; utloneiori cocturà tota vis Sarze guiatita. communicari poflit ipfi aque ; nam quemad- 'e 4444 modumin decocto Chinz dicebamus, non fo- fier? de-. ]àm eftobíervanda proportio aquæ ad medica- et » C menta, quz fimul excoquentur, fed etiam pro- ENT portio temporis coctionis, tum ut communice- tur vis aqua, tum ratione actionis ienis calidi- tate et ficcitate,tum reactione aquz cum humi- ditate, et frigiditate. Guaiati 213. Curautem Guajacum, cüm durius fit ; deccéluno ex Ííolidius non tantam aqua quantitatem exe» poi1cat; "ML AM ^ " - Vr ennt ir a ier ardere o eel ai Tees nma ra cx c ESL 1T 3ci Ipofcat; nequetam longam cocturam pro extra- Ictione virtutis alexipharmacz,ut China et Sar- za, fecüs quàm cenfuerit doctiffimus Rudius,, [qui temporiscoctionis rationem non confidera- vit; in caufa eft humidit: 1s Mla ærea, et oleagi- Inofa Guajacd, in quà potiffimum facultas illa, álexiteria refidet, quz facilis et extrahitur,& Icommunicatur aqua, quàm qua in Sarzà eít | quz quamvis rariori fi fübftz ntià, et minüs fo- I1idà, ex(ucca tamen eft, et arida; et in hac tcta. | pofita eft facultas S Sarzz. Chinat tamen multó | majoriindiget et aquà, et cod turà tum quo- | niam duriffima eft, tum qu1a;,arida cum fit,nul- Ilametiam habet oleæinofam fübftantiam. 214. Sed quoniam fepenumeró evenit, ut aliqui vel vi morbi;vel procraftinatis remediis; vel Medicorum infcitià,ab hoc morbo macera- |! ti; et ad extremam tabem deduc fint, ut nulla amplius f fupereffe falutis fpes videatur, ne etia n ope medicá deftituti remaneant, remedium quoddam proponam, quo quàm plurimos ex | 3isad optimum ftatum deduxi, fimülque viru- | lentiam exftinxi, &àtalitabeomnino curavi. | Eft veró confumptum quoddam;quod folà ale- | xipharmacà qualitate;fine fudore ullo, fed me- I eliantibus pinguedinofis carnis partibus, ali- '|! menti vim fumens, et in fübftantiam aliti ver- '] fum, et vim illam virulentam evincit, et abfu- | mit, et fanguinem eenerat alexipharma ica illà '] qualitate præditum,ut malàillà iqualitate : l- | tà, inaliti bonam fubftantiam vertatur. Sic autem t Ó' P €HY foiads longa €p- ura igo v 1 at, cum düritás fit Sar[a deco i mira- bile adta &idos ex »jorbo gal lico. gebe bk echt Px Anat - Inte; ;o0. erswxbÁma autem paratur: Rec. Sarzz pàáriliz electa mi- vi tola nutim incifz unc.vj. infundatur per horas vigin ad feq mac .ti quatuor in libris quindecim aquz calentis;ita E 1 utlenem calorem confervet, et operculo bene occludatur vas, mox lentoigne decoquatur, it4 ut nihil exhalet, donec quinque libre abfume pte fint, et tunc cochleari perforato extrahatut Sarza,& tundaturin marmoreo mortario, moX eidem aque reimponatvr ; addendo carnis vi- tuli macrz libras tres, feminum coriandrorum preparatorum, unc.1, aut eorum loco aut ligni (an&i rafi tantundem, aut fantalorum citringos rum minntim inciforum drach.1j. pro varià ho. ft minum, et przdominantium humorum condis : [| tione, et benc operto vafe ; iterum lentoigne»] fimul ebulliant, donec remaneant libre quin--[" que.& in fine aromatizentur cum drach.iij.cin--[ pamomi electi mox fiat colatura cum fort! ex ar preffione, et refervetur in vafe vitreo, vel vi- Jud del cov - treato ; de qnà furimo mané per quatuor horassf i emat - apre cibum capiat zegerunc, vj. aut vij. vefpernp autem iiij.aut y. unciasante cenam, vcl per tre:gqi horasanté ; aut fi tempus non intercedat come modum, immediaté antealios cibos: quód fij * inaftate verfemur ; autfebris hectica adjunctaqlut PeaL' ve tulelt fit, fimulcum Sorzà parilià indere foleo hordesphar 5 excorticati uncias Mij. atque in affumptione-Jpt uri huis decocti per quàm plurimos dies perfeve 3 geb m AN randum eft, jitaut ad Centefimum quandoqu qd j ote dicm perveniam. 11j. NNonomittendus hoc loco ufus altering decoch ANIMADFERS. LIB. FH.) e inecocti alexipharmaci fa icilé parabilis; pro pau (p fperónth Iperibusoptimi, €x fa pon: arià, herbà vulgari; et safor A omnibus notà, parandi ; quin 1n conturaciffi-- ARN mo morbo áliquando u fus fum eo, felici fuccef- lusfed guftui inoratum eft; et propterceà páupe- - libus refervatum . Accipiantur fapona js viri- afe Iis M. 1j. infundantur per noctem in lib. viij aqui mox excoquanttur ad coctura fàpc nada Lteinde librauna cum dimidià aquæ cum herbá jam coctà excoletur cum expre flione, Q )uz Ire- lervétur prof potione matutinàad fud resp roli- (ad Iriendos, fum endo uncias viJ.aut viij. quod ve- Iro fuperet rotulvereRor cum paffulis;autfa iccha- ko, pro potü cum cibis; æftate; et bilicfisratu- IKis;addi poterit aut fonchi,aut cymbalarie Mj."Valet et pro tulieribus ad menftrua alba ab- » hé frt. i fiimenda, cum M.s.cvmbalariz; et addiro tan- ma es nl iirundem filipendulz.Inventum ef efttz apate;Em- aliscmatlo. ipirici Hifpani. Egoautem fzj pé ac fe pius illo Rifus fum. Doct &iffimu s Rudius meus, /jb. $.de2 aptorbis occultis, 4?" venenatis, cap.18. de Sapon: Aria, et ejus decocto facit mentionem; fed vereor féum numquam ufum efTe decocto ilo;ctm pu- ipeillos vj. decoqu átfaponariz inTib.xvj.aqui ad Mdirnidias ; cüm aquz ad fapcnaria m nimia fit pqtianutas : et quod majoris eft momenti, tenel- Aa herba virens non 1nd ciget tam lone elixatio- "line, jienéz enim et acrez partes c Iuninc evanecent; et in nihil iab ibunt; in quibvs temáhn "héértum eft, vim falteni fudoriferam «ffe pofiZitan V [ , Eoi4 LED. SEPT.ALII. MEDIOL. Avv . Eorum,quz ex argento vivo parantur, A JO» medicamentorum due cüm fint formule; qui- tod bus vim. malz hujus quahtatis ; qua 1n mo rbo ef gnenta ai Gallico reperitur x cw ref. lemus, aut é cor- 4C in ufum pore pellere humores malaillà qualitate infe- duci pof- ctos: quorum altera in formam fuffumigiorum, 5 Boa. /5* » € altera inunctionum applic ari folet. Duos hos dii quando. remediorum m: xlos ad evincendum hunc mor- 1; bum experientia Haygptossesubis magniquie jut dem viri,tumexantiquioribus, tum ex recens |t: Dbys,numquamin ufum Pete dos cenfent, jb multas noxas, quas ex argento v ivo in cot--[ lo poribus humanis excitari à fcriptc ribus tradi- tum eft; et (epe experientia oftendit. Alii nullài factà diftinctione, ftatim ad fuffitus. hos ex cinnabari,autad uncliones ex hvdrareyro de-4 i ícendunt, ut faciunt Empirici i. Alii hacin re» fu fpenío q idem pede eunt.p riüs reo11s alexi- | ph: armacis evincere l:em illam tentantes, fed ubi tamquam hydra denvó novum caput emit«| | ] | tereluea : Veneream vid erint, experiri altert irum exiis medicamentis permittunt, fed uni]; dr ver(nm neeotium Empiricis, et ba rbitonfcril;... "m bus committunt; ne fcrm:-]oim quidemaut fuf: é REC t unguenti, qn Auf ri fint; przcognofcer y. es,;quinimo, f fi ab es fc mulam aliquam expo fcas, obmutefcunt ; là timé id Empiricos fcire. re [popdentes . Ego hacin re ita cenfeo, et ita]; apes pax procedo : fiin p! inci pi: » fuerit. morbus, atu, eA uolo caamfi progreffu aia iüs radices egerit, nom. v7. dum tamen ufus fit re elis remediis « alexi phar macls s» I F- ^ nd wd L gue pe c «f ANIAt ADVERS. LIB. FII. 305 nacis, omiffis illis ; quid cum veris alexiphar- Inacls! preftare pæem experior, et quandoque rei »etità üac curan Idiratione, omni ingenio tali id em tento 5 ftc emm et ma ilam illam qual Itaté evincere foleo,& laneuetr entib us particulis robur addo : $in vcro fic vis morbi evinci nequit fed hic nos 'eludit ; Su€ fi cb sis iitatem rei fami- liaris illa 1n ufum duci non poftuünt; tutó;« : ia- cricer ad hiec remedia tranféundum cenfeo ; et ecofzpce illa remedia in ufum duco. 217. Sed cavendum, ne totum id neectium E In pil r1Cl1S I; LE OH CH NN comn Ittàn t5'€ inc m inibus eodem calopodio titentes, autin. multus imperfectum relin quunt neeotium, aut pracipites &grotantes aguntin gr: iffima pe- ricula,aut edam In mortem. 218. Maxi n Crro! reverfantur ii, qui poft omnia adhibita r reoia remedia, cüm zerotan- tcs jam imbecillos videant, M rtüute vitali, et quafi universa carne confumptà ; nec aliam. » Jue e ml m RE e den os! mri Rr mme ee n A fm Intinélto fumigia 04b Eta fries, fsd à fert tis Medi- cis ad mi^ niftvari debent ; nuncio fun ereí lef] Cc)n, qua min ren led iis x hydrarey- l "n 7 rA end Ern Cimes 7 : nes ex ar to paratis ; 1 lla quidem ncedut -. ed debilia, aut quantitate arcenti vV1IVj, aut numero aut inunctionum, aut foftituum;& fp 'cnumeró fti- en olant. Ai t cnim omnino duo hec remedia xcludenda funt, avt omnino valentia conce- fent, et quantitate hvdrargyri, et numero inunctionum, aut fuffituum; alioqui attenuata, et loco motà quidem materi, dolores, et fym- ptomata imminuta viderentur, fcd cóm ea non expellatur ; alium locum quarens, fxpe nobi- | V liorem qento vi- vo a no admint- firanda » att vali- de, trm quantis te COZfi-- nua, 11473 PilCrtL A Á liorem partem impetit, potiffimum caput, EN hydrargyro, et cinnabari na ura fua ten dente $ " et fecum attenuatas materias ducente;quinimo . cümargentum vivum veneficam habeat qualitatem, eoà corpore non evacuato, egrotantes duplici morbo laborant, eo, qui fità qualitate» luis Venerez, et aliis fymptomatibus ; quz ab hydrargyro fiunt. Quoetiam fit ; ut tales feré numquam curentüur, fed infeliciffimam vitam ducant, et tandem tabefcentes marcefcant. Inundlio 4119. Ex duabus formulis femper et tutio- uádopra rem, et quæ meliüs morbum exftirpat, eam eí- ferenda, fe cenfeo, quz cum inunctione perficitur : ino ch 142- emaciatis enim, fi ccis naturis, 1n ftricto pecto" $2 31 do f4ff^- xe,3nanh lofis magis convenit, et in omnibus ængi^- (ymptomatibus magis eft proficua. In caden- tibus tamen capillis; 3n cruftofis, externis ulce- ribus, praferre foleo fuffumigia. Suffumi - 2,20. Abfurdum ett fuffumigiis ilis uti ina gia levia € ncendo hoc morbo; quz levia à doctiffimis Fallopii, Fallopio, Mercato, et ahis dicuntur, in quibus e^ M*r'à noninereditur cinnabaris;exficcant enim exter zin m?'- nas partes laborantessat «im morbi interni not £o FOR cxfüneuunt, neque materiam,in quà virulentia p «nutu Ma refidet, expellunt. " 221. Bafis fit cinnabaris ; addita. portione» 9j t es Antimoenil Wa March efitæ:ut prouno æorotan- £5 "7. tecinnabaris fint uncie tres, Antimonii,& Mar- fo mds chefite ana drachme tres, auripigmenu drach. s. aromatum ad penetrationem additorum, pro yarià cerporum condiücne variantium quanti- tas v1 1 i ck T. ANIM-ADVERS 1 VAR E: 9 d pon. dus caterotri LIB.FVIL. 3 Q im: &[ ichmis fex, v« aiuti di eria f per prunas, corpus in hypo- auftoinclufum univerün piat, C anna ac. ans, sif firanhelo- liquando I| tas it ferea lius frnou] lie dr: es n exci Infpirans, et exípi um tamen erit, Íus, aut aneuft nem illiu sfun 45 1222 j$ Antequam ta IOTacl5s,42 "hs 31 17/3 lexcipere B j 'mie1a caleícat aliquandiu zeer,& p O off i fudores Pic 'O- fluant, non ^ Inutile », 224. Inunctiones ex hydrarevro: apud me»funt multó frequentior prouna curatione,iteratis inun t131 It1Ont Inus tri | quatuor unciis hydrarey i | s falis lgO mw 1n nw Ct1OI 1 35:10. ingeicc l GG CD s nlus tan naxti rta già, qu : "ut: laceo,& fi n «X pulv cribus: Ini, et Gmilibu S alique m Case Marciatiaddü nt; lIidere,; ut aliquibus vifun b feriat. 215. In fricidiffimis natur rià przfente,quz vix attenvar b p CO moveri, 1 Ibi! eft preftantiu aqua | | | aniforum, vel ale,portionem un- placet crocum ad-, quod caputinimis et crafsa mate- ffit; aut de Io- $, quàm fi portio portiuncula olei Gq I 1i 226. Vlratftabit "multàan T Í v 3 catis dofibus, ul OICp OrtiOoibusad fpu bus, vel ber ona ., Ex- | hominis ; commu- 10 Cum. elIn n du plicata dofi e(fe debet, addi- pica,lili ni- "15,1: iaftic em S, benzoi- 07 ulverisil- [uncia unà 1n, Suffü "mi- giA ét ove * aliquado eXCipiei da. Saffuni- g*4 aAZIÍE- quam fiat calor 1g corpore ex [4 71 A A5 LI H»dárar / s,1n quarum una dofi 7 JU prouno bomine Cr AW, v Lr OHAT Hs, £^ VL et 4d a- &a propor 10. CYOCH 1 26i le Ch tones ex bydrar gyro 7:0 i egrediatur. A2uA vis !&, yel 0» lea calida Cbynica, quado "Án £uentis addenda. Vrguente so6 LPD. SEPT ALII A4EDIOL. Iruncédt e»ultam bus multam illius copiam] Pharmacopola ali- quie. quis diligens, fidelis fi fimul prz paret;ut axun- FXericah gla vett iftate cc nt tacta attenuationem adjuva- i urs poffit: at quoties dofis neceffaria eft extrahen "æg da, fpatulà, qua: deoríum erant partes fuprà ponantur,,& piftilli L ongàin gyrum com mmotio- ne optime de novo commifceantur ; gravitate.» enim fuà hydrargyrum femper vafis continen- tisinfimas partes petit. Sudorife- | 217- Peccant communitet practicantes ; 'e ya alexi- graviffimi quoqu e fcr ipto res, quia ante hanc in- pharma- unctionem pr ropinant (iid lorificum aliquod me- cawuipra- dicamentum a alexipharmacum, fic cenfentes affuméda igmminui fymptomata illa fà eviffima, quz poft (ded inundionem illaminfequi f epenumero folent ; ÉH006* cym illud potius fequatur, ut fübtili per f füdo- rem parte cductà, contumacicte crafsa reddita, non moveatur loco; neque ados feratur; vest hydrargyrumn maximáà egrotantium pernicie corpore non ex lens, perpetuam illislafferat mo- "dex leftiam «i infu perabilia; fere fymptomata . abarmaca 238. Preftabitigitur decoctis iis alexiphar- soft inus. WX icis utl poftquàm inunctioneevacuata fue- eg iones c-. Tit materia, five per fputum, five pe r feceffum puma. Áiveper lotium, ut vifcera à malà illà qualita tei fi« anaréuen erii liberentur. 229. À pedibus aícendendo ad os facrum | modas. Qupui nd fiatinunctio, &à carpo vc er(us fcapulas, et per inungex. Ípinam ad collum ufque : nu wt m caput in- | dum. X ungatur,quod peífime aliqui iaciunt. Junto i30. lnunganturadfputi prafilicdns ec] tunc c PER. M * 4 T» - treno t TR i oii BER e e e cati nto tem ANIMADVERS. LIB. VII. 3069 quando cunc per diemintermtttatur ; et fi lenté moveri Edi fputum viderimus;iterum unà ; aut alterà inun- 77 P 4" ctione inCitetur ny s Sjuto zs 231. Si nimis affatim, et cum impetu przci- jj; 4f... pirari materiam ad os viderimus, periculüm- siad di que fübeffe inflammationis, aut füffocationis ; effiwentes deturbanda erit; et ad inferna períeceffum me- c» periei dicamento aliquo erit ducenda ; id tamen raró /» inflam faciendum erit, et non nifi magnà urgente ne- 74/0975» ceffitate . C fuffow €8110/$75 grafente FI MAI. XX quid pra f'andum FOR V:M; Quz in hocopere conamnentur. . P ?" " ! cerum im exyrbodinis mon ftt acerrimum, aut € * 3 2 Ad : C vino potenti[[nmo. lib.6. hi "Aceti loco in oxyrbodimis [uccus citri aut limonum non iudendus. libro 6. 2! "etum pro oxymelite non [it acerrmmm nec ex vino potentif[mo-.-lib.z. $7 JAceti folius ufus im. [puto fanguinis [u[pectus . libro "A cidorum uus 12 acutus. febribus utilis ; fed zodtvandus, C quamodo. lib. 2. 37 ge cerkoodte 2ur-2iddat : Mert PNE A cribus imus 1 dy Hi EY1A, quid fta um prejram- dum. ' b a7 L Í O $ 1eutic in febribus tenui ens M orant -Acutis 1n | eUriDus. TOHWIMS CibAHQO Hm quam 17,5 alitis acutis. . [7 LI T . e /1 * : * ' L ecu Acute l'ebricitantes [Hragulis nom numis cooperien- a /.. Ps ZI / AA e7 14 277 lk / c5 ULL 23 ! DAL Ü CH inflamma- Md ^" n^ ] ^ Y ; -J - 1207€ (9 f €t /€» fi Í»ecta. I1b..6. I j 3 n * . cs r* . ] * Adfieinrentia 1n [puto [anguimis quando conve- niunt, quando non. lib.6. 152 Jer frigidus acuce febricitantibus quando conce- dendus. lib.2.. 63 | e Ld nc flate quomodo ip acutis plus cibi concedendum lib.2. IQ etu IWNSDMESVY "etii fententia vefutata, in [anguinis miffione 121; enim [uppreffione. lib. I3I Albi pr ofi Yit vera curandi vatio que . lib.7. 149 «Albo m fluvio laborantes arena fc peli re malim.» ;b. 145 4lboi 1H Pluoye adftr ingentia omnino fugienda . [ib; 07. IfI uA b: mp: ofiuwvium curatum A Galenotaz uxo € Boetbi 377,eularis fuit cafus ; (9" curatio TAYO "uitanda. lb.7. I46 "Album profs !"PIUm apis us curandum aiver[Aa Ya- Vincula T. radit ;G al £7 / 7 LE l1 jf I "muuaane ovt 7 Voopidibd roa ral 10 5 eo Catttimes. lb. 9$ " LLexipbarmacts vmpuro corpore non utendum. li- rà 0 f. 7 "lots dofts varia, fi p*o pureante [umatur, cft f pro atjeBori. ij I9 "L: oes duplex faculta: 3 fastahorbikana C abfler- feria etrenans eresa les I9 l| Jdtoes Jonmumenm relettantibus mala. lib.c. 156 loes ulis dr riti libi. I9 ah locs ulus in fobribu: quotidtantt » C longis opti- - Ls 27145, C7" quama oeauteuaum . lLb.«. I9 MUI Tx YU T Lb! 2 T] ! JA vi profiuvto laborantibus frigida potus fape con- Yeztt. lib. 7. Q7 Gp), «neotna laberantibus, C b petis "fi (922241 1022€, copiofrus fanmuis evacuart pote[ff, quam in alüs 17 fi. Uy pmeaionbuss € cur. 7 b.4 7 Ant ; ' Aneoiza laboranti bus g (4l Feci PN [7 iz laborantibus repe! 'cida [c£ 10 Y€Z hi . h b. Ó. Æ Cant. v Caut. 174 "nein laborantibus pra[lat potiones dare; quam medicamenta [olida. lib.6. I1j "Angiofts [2cculi ex di[curientibus mali busenutia pra[tave. ib.G. 116 Animi deliquio [uperveniente in principio ex af- fluxu bumorum acrium ad os veutriculiin prin- cipio «cce [[7onum eft autriendum; ff ex refolutt ne [pirituum aliquanto ante . lib.2.. 36 Antbrace, et bubose apparente;pro varietate pav tis à diver[is venis [anguis mittendu rlib.$. 37 aut braces furimenlo, C bubone im pe fle apparcu- te; fécanda vena, et quando. tib. 5. 36 A:uimenium in apoplexia fugiendum. lib. 6. 07 dntimonium in pefle veyiciendum . lib. s. $o Apborifmus quinis prima Sect. quomodo intelli- SCIAMUS. LIU 2. 23 "M:popletlicis aimiimmonitm mon dandum. lib.6....67 JdApople£licis cauteriam in comnailjura coronali 1n- utile. "Apople£fieis ely[levzum quantitas varia. lib.6. 65 Ci pU corpus. l'ib.6. "Apoplett:cis cucurbitula fiucipiti appo[ita utilis. lt4, POETA. rho zi) 2 rA» ddr nesrlisitte HG "p 'DLOCUTCLS COHCHII1CHAMUIP » perjricanaum eft | $8 i Lj bát bro] "A popletitets 12 ficanda vena vuluus. fiat apaplum. "Apopleiticis 1a ctirandis votaitus fugiendus. lib.6 Caut."Ayopletticis ligatura quales adhibenda.lib.6. ..6. "d popletlicis quaudo » C quomodo cucurbitula apiye: plicauda plicanda. lib.6 6i Jd pc aple&icis repetizà fc "euis mittendus. lib. 6. $7 jetpoplectteis, ft [2 net: ei[[oconveniat.flaiin admitni[handa.lib.6. $6 dpoplecztcis p ezaf ontis qua do [« cazaa.l:b.6.60 ledpoplechicus veficantia caput rafoappoft tau ite. Jdpoplexia i curanda, valida meaicemen a coti- veutunt. lib.6. 69 Idpoplexia 1n curandas[ternutatorta quanao ednui- mftranda. lib.6. 69 IVdpoplex:a 12 curanda » ab oleis minus waltáts 1n- choandum. lib.6. 70 Mdqua bordet 12 acutzs febribus optimus eft. potus - lib.2 p : 49 vAqua bordei non comventt 12 ommbus suarbis .h- bs 0 2.4 A9 ^ kdgua bor "dei quo 077 odo paranda. lib. 3 49 liqua op ciflerninas aut fomiana, jop! mius potus 17 ACHI JA lib. p Á 49 T L/ IL4daua vita, € olea calida Cbymica arte parat a» quando cum utilitate wiguentis ex bydrara)ro |. adauntur.lb.7. 22$ Mr: n&murtna, Yel fluviali, laborantes war em 0- flivio zudas [zb Sole fepelire malum effe » et ex Ww ^ NY X a& o de ad Galezo repugnans. Iib; 7. L4 | wr fenico p braparate placenia pro favendo corde, im Fe eflc le. lib. s. (9 duetrrevia qua [ecenda in palpitatrome. cordis . lib. 6. C. 172 «ilti 20ft Zia 1 "77 palp itatione C07 diquando C0AH- Y€AL. ILXLNGUAVEX i 9. id ] b yenit. lib.6. fyI JA[cite laborantibus poft bydvagoga valida, ven- triculus roborandus. lb.7. 49 "Afcite laborantibus bydragoga [aptus vepetit as, noxia.lib.7.. $5 ftbmati ai tenuantia, OQ" impense calida, mala». lib.6. I2X "Af omat: obnoxii gargarifpata f l'neiant.lib.6.110 At omaticis diuretica mala.lib.6. 124 zifhoma icis, fomentis calidis gon fovendum pe- eD&us. lib.6. 146 VAflbrnaticis c Hi veteris jus naxium.lib.6.. 137 "A: flbmatiecis sa pa rox [mo medicamenti m purgansi mon propimaud um. lib.6. I40 Af bmaticts iu paroxy[noo nibil violentum f acien--| ies lib.6. IA4I![ Jl (omaticorum im parox "ox ymo ue clyfleribus uten- dun. lib. I42 A flbmaticis in par oxyfmno nom perfricandum pe-4 Cus. lb.6. L4 55] Lh mat icis medicamenta purgantia que opaodo 12.4] a funr ducen da. Irb.5 T E A: batis quomodo, C' quando ladorifera con-4, : 1 J d YeRIuut. lib.6 : I3 "A febmatteis ficcamtta fugienda. lib.6. 133 Aftbmaticis fit 745 [ "pin u$,72alus.lib.6. I4 flbznatici [udorif iferisnon utantur fine dulcibus lib.6. 1j: "All omatteis vornitus pericn dois. lib.6. I 3f A fl bmaticis vonzius 1a paroxy[mo fugiendus. lbi] ^ Cut Hl. I4 A ft hma2 1 L € TD h ww : d WT "* A o ral ep c 0, S BUE oo caliber à Mie E£MA COD. E 3 I bmatteis varta remnedia mutaada,ct mes lib.6. I 47 l'rzennantta tz ^! 1€ comventunt ad deob[lruendas | vias uriza. lib.7 9) M'rtenuantia 12 princ: 'pio quottdzanarum non ftnt J| valeztey catefacinita. ib.s. 20 I vc | L0 0PIZILIAO cibum aliquando d ætervrima | aueaue concederfa. lib.1. 2:6 Iugoentum acce[[mongs: gmimus incommodeum ciba- quam fLaiusurmente nece[fiiate. lib.a.. 3 TE €a5 722207€ £A, Gc L0 ques quribus 27C0 quer €» ab- " IU furdum. lib. $. (9 Inribus vera inflammatione laboi antibus vepelle " ] 114 ULX C07 D€ZILHM v b b.6. IO3 luribus applicanda vemedia menit alla fricida. ; | Ib.6. IO NES s al us 7 ]1 urium dolor: | "materia frigida, remedia ia- fait vr ftii: IO$ moz ufus per os aamaittendus. lib.«. $6 lurz per os alJuzmendi varii modi. lib.g. $6 ) b bendum [. p €, fed paulatim 1n et fuantibus fel mi bes, mon affattm, C confertim. lib.a. 6o i |] p^ a P ], | febribus, ad offen dendum pureand a» c» pe E 77220* €772, | "vfhcit 1 7 lotio 4ac []e P [/A dir 2Z alba H m p»€?2,C7?' &Qud. pa. lib.,- G andis iedicamæntis alumptts s ' vus [omms po- A JJ Ec[t concedis. Itb. s. IO i T2947 ux 0i All [^ profiu y:o l. "bora "ntis bi "[Toria Xplicata, Q' rao reddita curationis llus . lib.7. Cant. 146 Bubone F.y NS IMESXI Zubone contumaci exiftente ; aliquando purgattomeM y utendum. lib.7. 19551: Bubone Gallico apparente, ques "podus CHYATOHTE enl Bubone non exeutzte, non multa ingerenda neque dd quibu[vis ve[cendum» contra E mpiricos. lb. 7-4 Caut. 196; C Calculo ureteres occupante,diuretica mala. lib. 77 Cat. 122d Caragna, T acabamacha, Galbanum, 1n forma cep vati applicata, in prafocatis ex femine » nul aid lb.7. 1640) Cardialeia laborantibus quando yonmitoria;et quad do dete&loria conveniunt. I1b.7. 2i Cardialgia laborantibus dejettoria [int 1t forma); boli. Lib.7. 121] Carie Gallica apparente, qua cautione proceden, dum in curatione. ltb.7. 19)| Carnofts.quam pinguibus;plus [anguis detvaben.. dug. lib.a. I Cel[ia ia colicts ex taflammatrone utilis .lib.7. 84. Ca:alepfi laborantibus calida P fteca fugiendax),.. lib.6 - 4A Catalepft laborantes aceto intus * foris iutevam cendi. lib.6. " Cataratla oculi in vemovenda, cavendum ne tu[/h. ad[it. hb.6. Id Catavalla oculi antequam deponatur » quid. cavet dum. lib.6. 1d Gatarrbo ad thoracem, C pulmones srruente cam gari[mii| . gari iri periculofi.Inb. 6. 108 Wetarrbt non fi lends narcotzets, nifi magna trgeu da E te. l1b.6. 1124 Vufts rui hissoufüo t bu; quis ordo t2 illis evsa^ C7 er vendus. iib * 2» j: liaufone laboranti purgato [ers exbibitio poft, op ma.lib.5. II iutione s qui multas babere voluerit circa Jangti- nis 7H, fionem T quibus petere dichos, 2€ acta ab aliis &gere vta lcaptr. lib.a. v os uidi Mm 1n futu: a coronal ; cata D0,T€ cien (9 52.0. 9^ Un REMEC - repe aso wt "P | YAiclti17 GCCOCIO p«uranao COPMZZHPEAS error 4 ]fec do tinens "mt Ps , 1 7L cac HT027 LÍD«. /« 2JlIO j "Aalt) OC ) Ibole: Í 0Yantes qaiuaniao pet tpe? 2 € aq 540 ! t? / /Lat f "p - Le. [D.7 B 2 M, AI DAI20H€C 17 HA, AH ALÍ€Ya CT! Leandauma &OoY0oÍtjs Ld E, 4 d I3 DU AUECY 1a? 3 4€ C1005 " £barare Yiæant. lib. 2.Canut. 27 v Y^, ri 4 )4 ; RETOURS KL onspsa osse v T Apb: 17 «Ctt 0KHE OQUAHGOO 0] eT€HAMS ; (d quanao ] ] i JS [2 1 «^ ]4), " [ 5 * " per áuas bores ABC HU. *, ; da " E "P ! "n, ! pons pauio ætertoi,24000 [MAYIOY » COZC CaoHnattse OT Q NOUTT CN Sete PL E b 2. À pl CI.245.010H/0« C etit V2 490977 » LE Un, 4 7 Y J H Wrbu: querido o erre æUet 1» y? "etpio acce) Duy. ub dib.». jj ' J 3 £e ÉL. " d nutaseuutanda YAUDHC lexus, € YoUOTLLS j r Ma, - Uu Col ! À, e 6 f bun 0p €! 15À2 DY1À ctt 10 2 (2 "Zl 4994€510 act efi:g- ] d «hl ?7 j "., "J^ /2 i si j D. : 2 2 y : v ubtes Kroxexes ERI "T IM UTE 7 0j et / c yr&[rat perju J/4€82 [ftaius » € -- Rt Io : juftante acce[fran e CP auando. lib.2. 21 Ci eres abflergentes in dyfeuteria quandoinden- ] aài.lb. 7* 98 cif cerium abflergentium in fine dy[enteria abufus. lib (7. 99 Cly[leres l lande inWiciendi, turgentibus flatuinte- fini Yo. 2» 24. Clyfleves communes cum. decottione folita zzmvete- Válaty 707 let "Idadi ib. 4j. 26 Cl»(lerium commumum frequentes abu[us.lib. 3.277 Cif eres etam refr:, COT AHICS inflammat 25 Y€Hids, fint pauce quantitatis. lib.7. 11j Chyfleres ia effetiibus vepum quantitatis parva. li- bro 2 3* AR Clyfleri in indendo ante fcBlionem venaqua. obfer- vanda.lib.3. 3l |j Clyflerem aute indendum in alvo dura, validum..| muedicamentum exbibendum.lib.. $651 Clyfleres in pragnantibus grandtori | fetu,quanti- tate non excedant .Atb.3. 2I! Cl feres NUM €: fícce antes in dyfentericis rejiciemi di Mib.7. 1044 Clyfieves prapinguibus uonindantur multum calem ) tes. lib. 3. 2.33. Clysieves pragnantibus non frequenter 3ndantur /V lib. T 2 CQ, C! jfrere pro mulieribus quantitate majores effe A. ) iig ID, 2t Clyfleribus puerorum oleumnon indendum.lib. 388 Chysleves violenter non injiciendi, snteffinis facd, oM MUR: PL 2'8 Cly[ler FHAXNTSU Vvfter ut retineaturquid pre[landum. lib.7.. og piscis a flatu olea data ab aito etiam ut ilia.lib.7 . Cant. 76 plicis caltda valde atiu, uoxta.lib.7. 68 plicrs cly[Teres ab initio cum vino, vel [apa noxii. lib.7. 67 pl;cis clr[leres ne zndantur, repleto ventriculo.li- br ME 69 Wicis ex flatua valenter di[cutie €t4 nox 7 J[ib.7 . 60 Up/zers ex flatu laborantes ante u[um cucurbitula puregands. lib.7 i SI E WA 3 TIPIRAS in dolori ibus aqua frigida quandoque utilis ; e Ce quama NH, jJ. 72 92 APIZCLS L7 doi lO0Y 10145 .£ i flammat 1071€» "mca 1 A122 CH - : T j L Q Jzo purean t1, let baie.lib.7 92, LJ. ] 35 »- p/ E 'oyt lecta YYCeAA 277 talo. ]14 "dado confert i "1 "3 ] ! 4 p - " E ss i - Izcis 172 aotoribus non Legientibu. Jolissaut ft Ji 'erco- FAVILIS., «H 'Aræ agentibus med pem C7 1$, Aat ILI zrautegdum Jed pere pur gaumtiuns » (cur. I /b.7. 7 rcr s 172 121110 vale nterdi[cutietia mala. lib.7.66 qWNzczs [T upc facientia potilTipouma con vcaiunt jfi fimt Wa calida mat eria.li ib.7, 70 Meus SEupef acientia concedendas viribus confi flem Sirebus. lib.7. 71 y2C1$ uftes ok orum ab t1a:t:0,202 ali 4 grecede c2 CHAT » Muiuttlis.lb.7. 73 ' | boatna compen C" ion5 ^P MV 0o 4 O0^^ mn zs 742 na44 1 f444^ / FAAULO[L S ! 092€/2: 4 €X olets 208 Iutt 7 "4 bibeg A4 vLlbro IV NS DEM PA. Ais 3$] ( dii io male primis diebus oleum cl« onamcli- ? ex aceto applicati m. lib.6. 37! C inc oCta médicari,cruda ncn movere, c'e Fin pocva 1i fent €fii 1a expHeatz ; loc Hi "ppocratiss! i (C alen: con: roverfi coz ciltati-lib. 3. 48i "on [udi ar iones meæ debent fieri feciufrs arbi-- tris (P eur-liba. I2 Cos[ mpsaqui a porius ex carme vi tulina.lib.2. 4$] Con mp quom odo parcatur«F. | Convt jr partes omnes ca. TUE fo? enda. lib.6. 92, f«do ove [uper Y€81€5H:€ s quid á (enam i (un Q. ;41 4 ib. o: Cordis in palpt'« attore zum ob fers 29 41015 is wbunaa 7 QU x1 z ram mitiendus fi [anguis » qua caurto adf biben da. i;b. 6. 16 Code laboramte ex craffis bumoribus, diuretica.A c fedorifera non cor vertunt. cfi 6. 177] Coáe laborante ob fer ofó buroves, diuretica » C [udov:fera optima. Iib. 6. 17 Cordis] palpitattoni quando, G1" quo cafn fangu "m 'cndus.lib.6. IC E vi ft d fia fente quomodo proct ede dum.lb.s. fi in iamper[ecía ; codem die sibil à AMedicomml, E: €/ don bs 25 Crift immiutntes quando à capite eff repellendum l:b.6. ] Critici: diebus quando sædicamentum purgans eA Crocum inuutliones ex bydrargyro non ingred. 2 Crura Hi PY. liD. 7. IA DX Ey Crura. [unt perfricanda, ' abluenda per tres dies eunte [ethionem tali.lb.7 137 Cucurbitule zn fpa[mo q ducimio applicanda.lib.6.8e Cucurbitule12 dor[o, "E 107 cordi5.quando comvemant.lib.6. 173 Cucurbitule in palpitatione cordis quando applican- da. Cucurbitula in pefle dorío quando applicanda, is quando ag0n.lib.$. Cucurbitule im. prafocatis ex enenfibus famreffis ventri applieite,mala. lib.7. 163 Cucerbitule in prafocatis nbi affigenda.lib.7. 162 Cucurbitula magna in colicis applicanda cautio. Libro 7 y 78 Cucurbinul 4ARAQUHA ventri a pi heit, fi ff f CHZ paunco z2ene.lib.7. 167 Cucurbitulamagna [it ex perforatis.lib.7. . 168 Cucurbitula magna ventri appoftta diu 20 bareat . Cucurbitula noa diutius afhxa parti permittatur . Iib... 26 Cucurbitula [carificata ia pefle aliquando vicarie fechionis vena.libro 5. 29 Cucurbitula [Gavificata in [uris in pe[fle frequenter in ufus venire [olent.lib.s. 40 Cucurbitule, fi cum [carificationes cum pauco 1gue fent afficenda.lib.4. 2 Cucurbitulis [ablatis 1a [pafmzo, fabietla paries fo vezda.lib.6. oI D Debiles dum purgautur.aon ex[uraant. X A -- i Dec CÜINDEM. Decotta folventia in morbo Gallico rarà in ufum yeniant. lib.7. 20j Decrepiti parum, C fepe cibandi; € cur.lib.a. 7 Diapboretica 1n flatibus cordis aur 1n ufum. nca ducenda, aut sllis admi[cenda fabad fl ringentia. lib.6. | 179 Diarrbea laborantibus pinguia [n[pecta. lb.7. 8$ Diarrbea laborantibus quando ab[lergentium ufus conventt.ltb.7. Diureticain a[tbzaate mala.lib.6. 134 Dinretica ia calculo venum in uretevibus mala. libro 7. 124 Diuretica in pra[evvatione à calculo; [epe moxta.». lib.7. 12j Diuretica potulentá won diu in lydropicis in u[um ducenda, G cur.lib.7. $2 Dolente capite ex intemperte calidasaceti portio it ox »yrbodrnis frt parva. Dolente capite ex intemperie calida fine materia, oleum vo[atum 1a oxyrbodinis fit ex olivis maturis, C cur. lib.6. 9 Doloribus capitis etiam vebementiffimisyimmninen te criftsvepellentia fugtenda.lib.6. Ij Dyfentericis clyfleves abflergentes quando conventant.)l. i TU Pi Dy[enterici ex atra bile antequam purætur, fero--| cia illius bumoris prius attemperanda.lib.7. 92:41; Dyfentericis in decltmatione ab[lergentia malas. Dyfentericis per fe convenit [zngurmis »ui[io;fed oll, adjuntla raro convenit. Dyfen- Dy[entericis pinguia in Jict quando utile, noxium. lib.7. C" quando Dyfentericis quando purgans medicamentum cosn- vent, C? quando non.lib. 7. $9 Dy[entevicis quando, * quomodo Janguis mitten- dur.ltb.7. 96 Dyleutevicit quomodo, cf quando narcoticis uten- dup.lib.7. IOt Dyfentericis KR babarbar: ZZ Jufpettus. lsb. 7. 93 Dyfenterici ubi psrcadi,flatim id pra[ladul.7.91 £z EmplafHicis in ophthalmia quando utenda.lib. 6. 96 Empyii a na' ura curari per evacuatiouem mattri& per [eceffumsexemplum.lib.G. I27 Empyiei quando wrendi;aut [ecandi. lib. €. f:, Epileptici in paroxy[mo non concutiendi.lib6. 45 Epitepriets ex aura virulentælevata raro gmitten dies [anguis.lib.G. í3 Epilepticis in paroxy[mo caput non ceoperiendum.». lsb.6. j Eytlepricis lignum ori nom ind£dum fed quid aliud. lib.6. f1 KEpilepticis pralervaudi quando ex brachio, cf quando ex talo mittendu: Janguis. lib. 6. $5 Eptlepticis pra[eyvandis valida purgantta fepe no- xam afferunt.lib.c. | $4 Epileptiets veficantia capiti de vafo applicata, optt mum remeditm.lb.. 33 Epilepticts vomitus malus.lib.G. $o KE pilepricis vom orta fempe y mala.lib.6. $4 Epiphbora i2 curanda tn princrpio «dftringentibus Aytendum. $5 KÉypiphbora in curanda eyrbinorü rarus ufus.lib.6.90 Errbina;et flernutatoria aal laborantibus oculis. lib.6. ! 17 Errbina in letbargo optima »18 emultis tamen fu- gienda, et 1n quibus .lib.G. 33 Errbina funt pe[[ima in dolore capitis ex- morbo : Gallico.lib.6. ! I1 Errovescommi[fi ig ten yillu;pravalente indica tione à virtute, funt majores » fi peceetur minus dando.lib.2. 21 Errores commi[fi in tenui victu in formapari indi catione virtutis C£ morbi exiflenre ; pares fant s c «qualia inducunt pericula.Iib. 2- 22 Errores commi [i ia tenni vitium quan "tates pars exiflente indicatione virtutis CP morbi, pe]ores unt fi plus quàm par frt concedamus.lio.1. 23 Errores 1 tenui vitlu p valete mdicatione à sorbo fabtrabed:, majores»fi peccetur plus dado.l. 2.21 E yacuandum [anguimis mi[fione, antequam motus defierit ; fi tempore mit endi [anguimis men[es fluere contigerit »[ed impevfetie lib. a. II Evaporatorus in calidis,có frecis naturis, ad [udo- res utendum.lib.7. 207 Ex argento vivo inuntliones parate»? fuffumigits zon ab Empiricis, fed à peritis pra fcribi debere; UR yariari.lib.7. 217 Ex bydrargyro parata vestediapro morbo Gallico, an im ufum duci po[fint. C quande.lib.7. ^ 216 Febricitantibus à partu ummquam mittendus [au- 4/721 e guis à f[upevnis.lib.7. 1768 Febribus in continuis evacuatto per lotium comma- dior, quam per [udorem.lib.5. à Febribus in intermittentibus, potiffrmum tertia pis,fudoris provocatiopraflats qua urina.lib. s.t Febribus longis aloes u[us commodus, C quomodo e lib. 5. 19 Fiuentibus ad oculos bumoribus ; ab[linendnm ab ad [lringentibus. lib.6. $8 Fonngraci in lippitudine utendum decocto, mon fe- mins. lib.6. 97 Fanugracum abluendum antequam in ufum duca- tur .lib. 6. 9 Fotidanon [int,qua capiti [unt applicada. lib.G.11 F gium excludentibus quando utendum, Gi quomo- do. libro 7. 174 Fomentis calidis non diutius utendu et cur.l.3.39. Fomentis frigidis a&bu nü dinutenduset cur.l.3.40 Fontanella in [tura coronali in catarrbo ve]iciente da.lib.6. 107 Formam vittus primo virtus o Bendit,[(ecundo [ym P | Die p'omata ertio flatus d:flantia. lib.2.. 20 Forma vitlus qua doceant 1n acutis morbis. Frigida potus [ugiendus in inflammatione inte jfeinorum. lib.7. 98 Frieid:fima atu e[fe nom debent, qua tboracs apple cantur.ltb.6. 161 Frigida «d fiflendum [anguinis fuxum optima... | praterquam [i ex tborace fluat. lib.5. AI Frontis in vena [écanda » blande gula ad[Iringen- dax brevi tempore .lib.G. X 3 Frue . E rullus bovarii in acutis vejiciendi. Galeni con[ilium pro puero epileptico depravatiam . Galli veteris jus aflbmaticis noxium. lib. 6... 137 Gallico12 7ovbo curando, quomodo zAutlor plura s quàm alii ober vare potuerit.lib.7. 186 Gallico iz »orbo in principio lententilss abflergen- tia C purgantia admijcenda.lib. 74.194, Gallico in morbo curando alexipharmaca mi[cen- da.lib. 7. 196 Gallico1n morbo proeve]fo purgandum. lib.7.. 194 Gallico in morbo pargantibus validis agendum; c9 cur.libro 7. 19$ Gallici morbicuratio diver[Aa » inchoante ; pro- ere[[osmorbo.lib.7. 186 Gallicosmorbo incboante C$ bubone vix exeunte 2, tenuis vitlusnalus.lib.7. 18$ Gallicoyaorbo incboantesetuam ad bubonez promo- vendumsexercitium validum malum- Gallicus yaorbus inchoans,ftze purgatione exteris quandoque folis curatur. " ",, Garczavifmata fugiendasis, qui repleto [unt tbera- ce.Iib.6. 109 Gargar:[matain catarrbo quado co veniat.l.6.111 Glaucis 12 oculis s(£ latas-venas babentibusy smittoræxterna comveniunt.lib.G. 89 Glutinantia in [anguinis (puto quando utilia, quando noxia. 11.6. IjI Geonorrhbea Gallica non fLatim fupprimeda. 1.7.1 18 Generrbea Gallica in curanda,quomodo 1t curatio- ne pro- FINE IROBS X se procedendum.lib.7. 19] Gonorrbeamuta:ur 15 f'uxun albu.fi diutius per- feveret., et mnc quomodo curanda. libro 7. 130 Gonorrbea quando calef acientibus curada.l.7,129 Gracilibus quibus plus [anguinis detrabendum, c quibus muixus.dib. 4. 11 Cua]aci decoblum cum dura fit illus fob[litia, qua nodo minus lonea cotitone zndiget. lib. 7. 213 Guajaci ligni fpecies qua in Cura done morbi Gallici re]ciende. lb.7. 260 Cua]aci lignum quod in ufum ducttur,non [ft anno- durm-lib.7. 200 Guajac: [pecie s rejiciatursque eft mimi acris,et tur b1au decoétu facit, pumquam clarefcens.1.7.202 Guajaci fcobs neque craffor, neque im pollinem du&a.lib.7. 203 Gya]aci rune non [int umoris ligzi, neq; parvi, nam [unt in validi.lib.7. 201 H Flemorrboietbus [sperflue evacuantibus, am omnes occiudenda » an una velinqueuda, fententia AA4uCloris.lib.7. II2 Heyate evyfipelate laborantes frigida atla comve- "nunt .lib.6. 46 Hlepate evyftpelate laboraa*e, vepellentza [ola con- veniunt . lb.7. 4j Hlepate f 712:do; calida t? ficcamedicamentæxier na fufpetta.lib.7. 3$ Hepati: eibbainflamata, ante ufum diureticorum alvus lenienda. lib.7. I FHepatico fiuxuis remedium fineulare.lib.7. 106 Ne d Hepaf ND E'zx. Wgepatis in calidaintemperie quando purgandum » ci quando non. lib.7- 3 Hepatis in calida integperie manna uo [ufpe£tum - lib.7. 33 Hlepatis in intemperie calida ref[rigerantiaumpen- se, e adfiringentia [u[petta- Hepatis in inflammarne in principio non purgan- dun- Hepatis ia inflammarione repellentibus attenuan tia etiam in principio mi[cenda . Fiepátis in inflammatione attu frigidafugienda . (im [bi Hiepatis inflammatatava purgandum. fed in decli». fis nationes cotla materia. MH Hepate inflamma:o [ime mate ria,repellentia fola conveniunt Hlepatis in iuflammatione in declinatione mon puris. | vefolv entibus urendum. Hepatis in ob[lruttione attenuantia cur dnte pran- «| dium applicanda. Horde: ad aquam proportio pro pti[Jana paranda .. |l, m Ó dj Hordeum aliud [læ cortice, ve[hrum aliud. lib. 2..11i Caut. ] Hordeum pro ptifana quale elicendum.lib.a. | 4p Hordeum quomodo parandum pro pti[Jana confi--| cienda.lib.z. ATi Hora tres à cibatione ad principium acce[[wumis nom. | fifficere. lib.a. 344] Elunores effc ducendos quo aatura vergit.quomodcià gntellimendum. H»yárarFIXNYXDOcBGI | Ei ydrareyri prouno bomine 1numgendoque quati- tas." qu& ad aliasmar edientta proportio J| Jd ydropicisattenuatia no diu in usu duceda. L 7.5I | Hydropicis Rhabarbarum inutile.J| Hydropicis bumores [erofl à principio purgari po[- fuat; fed à et levioribus tncboandum. li ddyeme plus concedendum. [ed variussa[late miuus; fed [apius.Iib.2. H yeme quando minus nutriendum.lib.z: I1 "i Ilerici inprincipio non purgandis[ed praparandao eft materia. Iilerici valetioribus medicametis evacuadi. Jélevicis valida non danda medicamenta, [i ex ix. patis inflammatione.lib.7. 65 In cardialeia ex vituitaatida dejecloria fiat cum purgantibus. lib. 7 30 Is cardtaleia 1n SrinGSpuA vepellentia conveniunt, non ad[ ringentia.lib.7. 216 In cardia dia fbduiloria fim blanda. Iu empyemate no tentanda materia expurgattio per Po fece[furn. I| Jnflammato bepatesrepellentza ante fecélionem vene non comveniunt. lib.7. 29 IIo palpitatione cordis curanda que vena f[ecanda,. | libro 6. 176 In palpitatione cordis ex flatu pr "ovidendum flati- bus ventricult. Jn palpttatione cordis ex flatibus, exterats calidis non e[[e utendum pra[cuie adbuc materta. 5 In plevriticiseexterms no indi[Lintie utedul.G. Inter Jntev [udandum ton adeà [ape purgandu.lib.7.208 Inunéiiones ex argento vrvo aut non [unt 1m u[uino duccudas aut ft in ufum ducantur valide efJc de- bent. cur-Àib. 7. iid Tnunélio in morbo Gallico magis laudanda. Inuntlio ex argento vivo quando1nte rpolanda. Inuntlio fi fiui praferenda in curatione morbi Gal lici. Jnwungendi roodus.Lac in d'y[entevicis am conveniat » quando, C quomodo parandum Lac in renuma wlceribus qua. diflinélione dandum. Late a[fempto in phibift, dormiendum. Latle muliebri qua di[Hntlione utendum in ophtbal VU, »mia. Latlis quantitas rn ulceribus venum qu&. Lapidem in vefica frangentia medicamenta fiétittia.Lapidis in vefica unica curatio, excifio. Layidum ex vefica extrattorum bifloria due admiranda. Àhu Lapillorum precioforum [us neq omnino ve ficien- dus,nec pe[[amsut fitsrecipiendus. Lenientia:n morborum principio majori ex partem, comvenunt. Bi P Lenientia quo tempore, qua bora, C quantum ane cibum exbibenda.lib.5. $i Lens quomodo Fitppocrati frigidiffima.lib.g.. ye8 LenILentium decobtuma, C f)rupus inpe[le, C vartolis vepiobasdum ie Y MLentium qualitates, variazatura.lib. D? $9 J erbargicis cucurbii ula applicanda | Lei bar. eicis quando [ecanaa veuas C£ quando mon 0 Letbargieis vepellentiaparce applicanda. C fiue 2 aa[tvitlione 4: | Lezimeniis hepatis 1a obflru£lione fotus calidi pra- ?ALTi endi. vs ; cS FS ): Jt, P". ; sc E P - V aLippiiudigi valide ad[Lringentta contraria. d !' MM azrea s, co Jp ccharo parata, 14 chole va fn f Cla» !j M aflicatoria 12 doloribus a calidis, €? temubus bumoribus quando non concedenda. LM edicamen: ovum altevautium materiam t [fc mutandam.lib.s. I JM edieus commre]Tus medicos amet, C quopzodo [e 12 €15 gerere debe. l1b.1. I1 aM edicus cum mulierculis, C imperitis de rebus medici non differat |abyo dM edicus de mercede non paci[catur. Mad edteus C do£irizasC ufu inflrutius artemexer eat lib.i. 24 IdM edicu: fuaiat mollitiem exteruer.lib.t. $ uiuM edieus eratis aliquando curare debet. uM edicus tznan glortasaut nimo [ui amorc aon ten- Ji tetur-lib.x. 9 dub edicu: gratos erian1n nece[[itaizbus non defc- ab -rat.lb.1. 21 AM cdiI'N*JDS.E Medicus in omnibus praftans qualis.lib.t. 3 Medicus im oratione, C farmonibus varius, pro | jo agrorum varia natura.lib.1. 26 lu Medicus juvenis fab datto M edico praxim. addi. Lim fcat Medicus morbos [uos excujet. lib.1. 3 | Medicus nom inbumana [evermate utatur.lib.y.25 li Medicus aon fit jattabuudus, amt nimium pollici- 4. w( tator. |l M:edicus gulli [ctt fít additinus s fed nudam fequa-. Mais rur veritatem.lib.1. 10» M edicus pietatis cul tor.lib.1. Ii Medicus qualis in veftitu.lib.1. 6; Medicus qualis in odorati sfe vendis.lib.t1. 7] Medicus quomodo excolendus.lib.1. HET dicus Jamtatem pra[efe vat.lib.t d v Medicus [ecreta remedia non profiteatur, [cd alis I, communicet.lib.1. Medicus ftt [Fudiofus munditiei.lib.1. Medicus [ylvasm medicamentorum prompi am ha beat. lib.1., Avfel vof fol.licet im bilioft : febribus ab initio 20 CCo vyeniat,in quo'iduanis opiimu eff vemedin.l.s-YÀy, AMelancbolicis liquida macis.quam arida vIEAICUA qenta comvemunt.lib.6. «q €Melancholicis quando fineuis spittendus,quani,. fupprimendus, et quado finendus.hb.G. Mellis ad aqua propor!10 pro paran da sul [a.l.2..] Memoria deperdira remedta non famper calidas cet Galenus ejus caulum frieidam faciat.l.G. .| Memoria deperdita curanda varii modi et contio. rii.) Vit. Lib. 6. 36 jJ Memoria deperdita quomodo à frigiditate; fi fepe à caufis calidis. lib. 6. 36 ^l] Memoria curada rara evacuatione op eff.l.6.36 | | Men[es promoventia pev os fumpta debent effe i2 multa quantitate. lib. 7. -I40 | AMenfibus immodicis in iflendis repetita [angurauts silhofiat endeen die. lib. 7. 141 VAM ez fibus mimodice fluent ibus; aliquando medica- men! o purqante utendum . AM ez fibus promovendi, Jecari pote[t vena in. à ante tempus motus cum Galeno, C? verfus finezo motus. lib. 7. 53 TAM enfibus 12 promovendis mon eff [ecarda ver a dum diminu: € fant tibi mulier aut t1207€ iui afficiatur. aut animo folea: AT lficei re. . | Wa enfibu:: 15 i pramoy enais pra[lat repetere [25gu:-1$ 9i Jf oneza. $ p^ n[tbus [uapevfiuisscum v "edicement opurgaute o | uilcenda. aa[tringentia. [; MR I4 "T enfibus [up ci finis remedin "o "lare . 1.7. 145 m7 e libus fupp: ejfcs LU e Pene yox naa. D ies 131 Mercedem oblat am Mediceus prompte, uon qu gi s] 2 furtim capiat. Irb. I. 2C Map. onem [aneuinis ex talo pracedere debet exer- jn CLUMm RA "me partium m fern un. l7 ode[Ha aceintius Medicus domos dngrediaiur . WM orbis complicatis ton contvrartis, quomodo pro- cedendum WWACER S j "Morbis complicatis eontrarus quomodo provi- acndum dendum.lib.5. ær Morbis extremis; flatim extremms vemediis utendum Morbo cau[& complicatostau[a primo vationem bæ qu bebomus. Morbis mediocribus blande; cum tempore occur ; vendunz.lib.5 Morbo jn pracipiti [anguis prius mitti debet,qu& Vu alvus [ubducatur.lib.4. 21 jd Morbus cum 1gnoratury attenuandus victus . cur »»1) . quomodo.lib.1. AMofthus in umbiliai cavitate pr&focatione gignt «vina . zGXul Mulfa alia crudasalia coéfa.lib.». $c AMul[a aliapro medicamentosaliapro potu.lib.2.. 5 cc (m; 7Mulfa alia meraci[[mmasalia mediocris » alia dilus ta.lib.z. $« ib Mul[a ex faccbaro optima quomodo paretur. AM ufa svekmelicrati d. fEnetro ; e£ conficiendi rad) in IN H10.lib.2. Narcoricaim capitis dolore ratrone doloris ix aad) am pibenda, fcd aliquando vatione vieiliarum.l.6- i r Narcotica:n dolore captis pev fe vix per os concad ai denda.lib.6. Narcotica in dy[entevia parce adhibenda.. Narcoiicasumaua applicada f uris capiti., Narco' ica numquam aurvibu: emmittenda.lb.3 v Narcotica numqua iu puerts in usu ducenda.l.3. Narcoticis varo utendumsQ quando.lib.3. Naufca laborantes quando purgandi, C quado sid, INatn-li TT 1] li Is Do EY ] AMaufea prefente, vomitu excitato,in co sion veul- tum infiflendum ie d Obffetricibus eut affeventibus.aut negatitibus gra- viditatem, Medicus non temere credat. FOb[lerricibus remeré non credendt.cy afferunt fe- tum e [fe mortuum se »iexclidenat, ef[c.l.7. 171 ipOlea in colicis data adjuvanda cum ab[lero ibus, vel pureantibus. lib.7. 7 WOlca f'nllata in wfism mon venient » mft aliis alliez- ta.TOleis cur cera cddenda. lib.G. yÀ: WOleum amyedaltmum a partu ntq; femper.neq; qui busvis coz venit qOlcum per os [umptum quando zn colicis optimum. 4o prafdim. aiOleum rofatum pro oxyrbodinis fft vecens. JOpb: balmta in curanda opii vfus neq multus, neq; A frequens JOph!baimia 1n curanda, qua lentorem babent A comrmoda.lib.c. 75 UOpb:balmicis paucif[ma externa vemedia adbiben | da.lib.6. 99 Dpiatasut 7n alitis ventriculi affctlibus fugienda, sta in dolore inflammatorio eju[Æm concedenda, b C quomodo.lb.7. 3 WOp: ufus frequens im lippztudrme malus. 4D: colluendum anrequam æri cibu [smant. | qDo mel no[t-u imbecille ad cra[faincidéda. 1.2. AQ. ymel H0 ferum 17 ACUETS f bribus non fat 15$ 44CCom eodatum. lib.a« j Oxymel iN Oxymel quamdiu excoquendum. Qxymel feplaftariorum diveríum à Galenico ; C Gracerum. lib. 2. $2 Ox*ymel feplafiariorum fimplex nom eft potus » fed forbitio . lib.2. $3 Q:ymel feplafrariorum non bumetlat. Q»ymellis parandi ratto Oxyrbodina applicata ne ficcentur. » aut ex affa zmateria applicentur. lib.6- 2 Qiyrbodina n capitis dolore magis proficere » ft ex alto decidant.Ox yrbodinis narcotica vix adpiifcenda Panatella an [emper ex pane loto.lib. 2. A4 Panatella quomodo paranda 1 acutis.lib.3. ^ 44 Pazalytici quando ab initio purgandi.lib.6. 73 Paralyticis cucurbitula ubi; quamdáo pn A. ra Paralyticis diuretica optima . lib.6. 744]. Paralyticis olea diflillata folainutisa - lib.6. 760p Paralyticis oleanmmis calida mala Paralyticis rubificantia quando comveniant.l.6. 765m Paralyticis fedorifera non enultum comada. Paralyticis vc ficantia utilia.itb.6. za Partus non accelerandus ob preces parturientium | partu in diffcils varó exbibenda promoventia fei cukdas.lib.7. iz Peffi odorati impoftti in pr efocatis ex femine » ve IL. LA ciendi.I:Pete affecti medicamento purgandi. lib.5- m Pefle !| Peffe laborantibus ex diver [rs caufis, quando smit- rendus fane s.lib. s. ji |! Pefle laborantibus mon [emper conveniunt purga- ros fangumis mito. lib. s. fI | Peffe laborantibus numquam mittendus [anguis ad ammideliquium. | Peffe laborantibus folum im principio [angws mnitti poteft. cur. lib.g. 34 |Peftis materia ab initio puyanda. Peflis materia crudadici non poteft. LPeffis materia majori ex parte turgéns. lib.g. 4 KPe[Hlentes febres, licet peracuta, non requirunt te- nuifhmum vitium . MPeflilentes. febres frne peffe coElionem expo[cunt in "HAI€YIA » nec 1n principio 1u dis purgandu.A MPeflilenti in febre, maculis evumpentibus, [anguis |... fecta vena poteft evacuari Ci quomodo.lib.$. 3 r APharmaca glacie, vel aliter vefrigerata pe[[ime à quibu[dam conceduntur.lib.5. 12 /MPbarmaca » que mifcentur, non ffztt ex dis, qua difpari tempore operantur. IPbarmaco a[wmpto, non dormiendum, cr in qui- buss e quando. IPbarmaco aJumpto, eule, aut vemionz ventriculi calida non [unt applicanda. "dMPEarmaco non évacuante, uon [emper poft tres bo- ] ras pufculapropinanda. lib.5. dPbarmaco non evacuante;clyfena mo indendsz.1. 2.9 Jbarmacorum validorum extratla per vinum; aur aquam vite, periculi plena. JPbrenetict in principio purgandi. WPbreneticis acetum in oxyrbodimis parce adbibene v Y 9 um. e Phreneticis cucurbitulis appo[itis quid faciendum Phreneticis in curandis mon diu narcoticis uiendum. Phreneticis in curandis vepellentiætiam folaultra principium comy emunt Phreneticis non e[l enittendus [anguis ad ammi ufq; deliquium. Phreneticis fi inbrachio fecari vena non poteft, non fécanda easquein fronte. Phreneticis [latim vena fécanda.lib.6. 19 Phtbifi laborantes latte ajumpto dormire debent Phthifi laboratibus blande alvus mollieda.l.6. Y64 Piluleta Gallico morbo laborantibus purgandis in fine praferenda.lib.7. 197 Pilula in tufi f capitis ajfectibus ; male dantur poft cenam. Pilulepro capite expurgando majores » pro ventyt- culo minores. lib.3. Pilule pro capite purgando à cea 40 danda.l.6. 15 Pilule valid:f[ima forma non fiut magna (cur. Dituita fal[a quotidianam producente » plenius mu rriendum in principio, [éd 4 ventriculo deturbaui y; da e[ materia. lib. $. ? Plevrifictí; c€ ante fomentis dolore, non confe[tim| defi flendum A veris remediis. plevriticis, dolore a[cendente » fotus fimt bumidi || defcendente [icci.lib.6. p DPlevriticis » dolore def[dendente ; iH feclione vez) "07? 1] ILLA EX OEAZXA son efe exfpeclanda coloris [anguimis mutatio Plevriticis quando fomenta anodyna conveniunt.Plevriticis [acculs fovetes ex levi materia.l.6.122. Pleuriticis, viribus imbecillbus, nou ex[pettanda coloris ia [anguine mutatio.. Plevriticorum reliquia omnino abfamenda.l.6. Ya y Pleyrsticorum triapraclarif[Timaremedia. Podæra laborantibus varo repellentia conveniunt. Podagra laborantibus am ab suitiomedicamentum purgans dandum scontrover[ia cociliata Pi Podæra laborantibus quando mittendus eft. [anqurs.Iib. Podagra laborantibus frequenter [ecanda varà ve- ZA.ltb. Podagrofís fmunttto ex oleo falito ante declinatio- nem aAla. Podærofi non. [olum oleo. [alito snungendi ». [ed etiam yperfricands. Podævofis oleum [alitum 1m declinatione Optitum. Potulenta 12 bydrope a[cite [epe fu[petla. Potus acutarum f ebrium quis, C qualis. [ib. Prafocatis bene olentta coxis applicanda .lib.7. 153 Prafocatis ex flatu ; cucurbitula magna ventri in- eriori applicitA » praftanti[umum remedium Prefocatisex retento [emine bene olentibus vulva non 1nungenda. Prefocatts f acie: bene olentibus non e[t a[pereenda.3 libra. . : r$? Prafocatis facies frigida non afpergenda.lib.7.14* Prafócatispauxtllum vini concedendum » [ed vmale elentianaribus tunc apponénaa. Prafocatis quando etiam im pároxy[mo po]fit fecars pena. lib.7- nsn 164, Prafocatis quando mon lscet fecare venam. Prefácatis vino facies non abluenda. Preanatibus clyfteves no frequeier indatur. Pregenantibus erandiori fetu cbyfferes quantitate non excedant. Prapinguibus, et fenfu exauifito praditis inte fhinis, clyfteves non indanter »ultum calentes Principio morbi cur aliquando tenui[[ime ciban- dum.lib.2. 16 Priffanæx quo genere bo ydei paretur PuJana ut condiatur » que addenda, quando quomodo. lib.2. 43 Prj[ana ut paretur s quomodo hordeum praparabixinus Puelliin applicatione 'cavendu: fior. lb.7. 7 Puelli in applicatione caveda pollutio nocturna.l 7.9 Pueris ante decimum quartum annumyevacuationtis eratia,aliquando [ecari yote[t vena. lib.a. 8 Pæris ante feprenmum yra [lat bi rudimbus [angui- nem mittere, et cur. lib.4. IO Puevis, c adole[centibus plus cibi concedendum, quam fenibus. lib... 7 Pueris numquam concedenda narcotica. lib... 46 Pueris pro revulfione fecari omnino «ena débet .. | 5m, lib. Pulverei C eletluarias qua etiam fol'vant; n; bo PUN DV bo Gallico comvenive Pulvifculi cardiaci non cum cibis, fed cum potioni- bus fepunis dandi. Purgamenta muliebria non [emper frigida, nec ca- lids curanda... 1j0 Purgandum egrum quid interrogare oportet.1.3.2. Purgandum in principto n pe[fle, Difputatio. lb.g. Cut. Purgandum interrogare oportet » an alvo [it lubri- c4,an dura. Purgandum in vera declinatione . Purgandum non [emper in declinatione febrium pu-. tridarum.lib.3. $3 Purgandum quando in barum declinatione. , Purgantia debilta repetita im. quotidianis. comvenut. Purgantia fint leviora 1n febribus, quam in aliis oorbis, € cur.lib.s. "" Purgantia valenter apud Galenum in febribus varà ia ufum veniunt.lib.s. 3I Purgattone impe[le utendum. lib.s. 46 Purgantia valida in pe[fe non comveniunt.lib.g.. 49 Purgatto in podagrofis fi f acienda» [latim facienda Purulentis nom tentanda efl evacuatio materia per feceffum medicamento.Putrida non omnis materia coquenda Quartana laborantibus vitlus in principio varian- dus CP quomodo. lib.s. 2j Quartana laborantibus [al(amenta concedenda; [cd parca manu. Quarutat laborantibus dum [ecatur vena, prafen« S 5a Medici nece [[avia.lib.s. 1 uartana laborantibus quando et dextro brachio extrabendus [anguis. Quartanis vena [ectio quando convert. Ouartanariis dum [anguis mittitur y non flatim. -fupprimendussetuamfi bonus.lib. 5. 29.(2* 30 Quibus maxume in acutis os colluendum. uotidiana in febre. ab imtio vomitus utilis, qualis.Iib. s. 17 Quotidianain febre quomodo Galenus commenda- yit vomitum validu pofl [rema cocottionis.l. 5. Y7 uotidianis in febribus tenuis etiam, quam iz. flatu alendum in principio Refrigevantia in[igniter qua capita no ferant. Renædiis in multis quomodo procedendum.lib.3.36 Remedium pra[tantiffimum ad wen[es [uperfiuos. j Renibus inflammatis;po[t [etlam venambrachi ea etiam [ecandæ[L, qua 1n talo. Rembus mflanmatis, Rbabarbari wfüs [u[pettus Renibus laborantibus, clyfleres quantitate parva Renibus laborantibus, qua vena [ecanda: Renibus ulceratislattis admunifltrandi ratio varia. Renum 1n inflammatione non purgandum, fed le- niegdum blande. Renum in inflammatione 17 principio ) impense re- WM, Cc frigeranziamala Reuun Ü - UIT PMI E^Zi Renum calculo laborantibus lemientia ab snttzo" ape non [ufficiunt ; itaq; etiam purgandi Renum tn ulceribus valide exftccatiamala. Renum ulcera quam primur o Jm Repellentia in cholera quomodo, Cj quando in u[um ducenda. Repellentia in podagra, [nfpetta.lib.. 181 Repellentia 1n palpitatione cordis, dum mittitur Janguissregtont cordis applicanda. lib.c. 176 Repelle ntibus folis in doloribus in principio quando 10n utendum Repetitio fanguinis mi[fiomis quando eadem die, €& quando altero.lib.a. I6 ] Repetitio [anguis milTionis vevul[iue, contra Galenum [ape eodem dte repetenda eur" quan- do: ] Revul[1o ree. [célam venam quando requirat vecli- Iudinem partium (t quando con [en [um YOnat-Yum. Itb. a. 18 I Rbabarbari safu[lo vino exbibita febres eftuan- te$ excitat. lrib.a. Ij I Rbabarbart ufus £n eflnofis febribus [nfpettus.l.s-g IL Rbabar bar: ulus 12 [puto [auguinis [epe [ufpettus LRhabasbari ufus dy[entericis fnfpettus.lib.7..Rbabarbarum bydr optcis 10utile. I Rbabarbarum im dolore inflammatorio ventriculs fueieudum.lib.7 x WRbabarbarum 12 in nflamnratione renum fu[peétum- y lo ebarbar H2 menfibus [opevfluis noxzu. E Mhatar barum pro purganda bile, 12 dévirmtione | Y D &[tuan- | effuatium febriumsmalum, C quando eo uti pof- famus.lib.s. 7.6 8 Rhabarbarti phreneticis no multu utendum. Rhabarbarum [n[petium in intemperie calida be- patis.lib.7. 0034 Rhabarbarum torrefatium in dy[enteria rejicienadum Rubificantia quou[que cuti adbarere debent. Ay Sacchari ro[ati exbibitio poft purgatum corpus ardentibus febribus, non multuprobanda.l. 5.12 Sal clyflevibus non ita frequenter tndendus.l.3.. 2.9 Sal oleum quomodo [al [um reddat, ft oleo nom liqua- tur . [i Sara et decotlo portio Guajaci cur indenda.l.7. 211 Sara decotlum a[late cum majori quantitate aque. |o parandum; C cur. Sarza parilia mirabile decoblum ad tabidos ex Gal | i; lico s2orbo.Itb. Sanguine malo fetla vena exeunteminor quantitas iio; illius evacuanda . lib.a. 1 Sanguinis in colore zutatio in evacuatiua. eUACHA- i) tione mon vevulfrvas non ex[peclanda. lib.4. 33). Sanguinis in colore mutatio nec in vnflammationi- bus etiam perpetuo exfpettanda. lib.a. T Sanguinis in colore mutatio quomodo intelligendai| lib. 4. Mn Sanguinis in colore mutatio ua vevul[tone a longimsyds, quis non ex[pectanda. lib.4. T Sanguinis 1m colore mutatio in plevritide non ei ex[petlanda, impa 1o in parte bumore. . Yi] Sanguimis gatffiomi non. [emper p Aldi; eni- J lenitio. lib.a. 1 Sanguinis mi[[io ad animi deliquium raro inu[um. ducenda.a quibus, C? cur.lLb.a Sanguinis mi[io quando per [es quando per accidens A centro ad circum[ erentiam trabit, quomo- do.lib. $. 3$ Sanguinis mi[[ionem quando pracedere debeat fa- cum [ubductio. Sanguinis minus detrabendum i1s,qui artes laborio fas exercent .lib.a. I Saguinis repetita evacuatio quomodo facieda.] 4g Sanguinem ve ectantibus cucurbitula parti affix ao quando conventat . lib.G. I1$O Sanguinis [puto ex retentis men[ibus, qua vena [c- veda. lib.G. 148 Saponarie decoélum pro pauperibus 12 morba Gal- lico. Scammonii u[us im e[luofts febribus [nfpetlus, e quando eo titendum . lib.s. Scarificatio crurum tn pe[le [aluberrima. lib.g. 33 Scar: ficatia quando proj unda factenda, G' quando Ww leviter.ib.4. T Gellio venain talo ad movendos men[es melius jit fub noctem.hib.7. 136 Semis in curando profluit diver[a ratto [ervan- da »pro varietate magna occaftoms .lib.7. . X38 Seri € lalle [egreg and: veramdica v mds ie. $1. Seri quantitas varte 4 uarias tradit a.quomodo con- cilianda.lib.5. ! $i Siccanttbus valenter in [puto [anguinis empla[lica o mi[cenda.l:b.6 (6 2, Siti in magna calidas G quando frigidabi- bcn- Symptomatice narra operante quid à Medice moliendum. Symptomatice natura operante » caute agendum. | Iib.ss 61. [s Synocha labcvantibus quando cibus o fferendus.lib.2. Cant. jo Syrupi acetoft parandi ratio. Syrupus » c mel.vof. fol. quando in principio conce- denda.lib. 3. $a. f, Syrupus ex cichorea cum Rhabarbaro Guliclmi, 1t dyfenteriaadmittendus |y, Syrupis pro morbi Gallici materia paranda alexi-- V, pharmaca mi[cenda. Syruptes vof.(ol.inter lemientia non connumerandus», y. fed 1n*ev [olventia.] Syrupi [olventes in cura morbi Gallici commendaniy, di. T'enui[fcmo vitta in ftatu acutorum utendum fem-. per. 1. Aphor. 8. quando verum . lib.2. 18: T enui[fimo vitlu utendum. in peracutis omnibus :) i exceptis pestilentibus.ltb.2. 114 T'ertiana in febre ante cotlionem quandoque pur: n eandum, quando. . T T erttana im febre, etiam intermi[[ionis die; victim [. à Galemo, cà aliis infhitutus apud noftrates perti eulofus. lib.s. ij T'ertianis € ardentibus in febribus clyfleres vii tepentes indendi.lib. s. T beviaca in pe[fle quado tendit, ci quomodo.. [^ "Tiggitui aurium. ex morbo Gallico valentia remit " dizuon applicanda.lib.6. icd] 7 in- d E;AN8 Dx Exe X ! T igmitut aurium ex morbo Gallico remedium pr4- ftanti[J[ymur.itb JT uillatwüesureri 12 prafocatis ex femine vejicien- d&. I Y urgens materia quomodo varo, € in pefle [ape ruygens. l IT ufft laborantibus quando, &$ quatenus vigilan- dum. p WMPenis brachii in feriendis » qua cAMLOHES, vA'100€ Suc funt babenda.lib.4 22 Weza [ettio 1n wedalieliediois fit ampla. Wene fe£htaun brachio menfibus [uppre[/zs quando admini 'Jferanda. Wena fetta 1m talo in fanguinis puto, affatim [angus neo e fe detrabendtuim. iib.. 149 W/entriculi im dolore a frigida, c erafla materias, purgans aliquod medicamentum Hier a aliquan- do «ddendaum. lib.7. $ M'entviculi im imbecillitate, in puellis, aut catellss ventricult reet 0771 eiie » CAY endum, Hnc» Joma us interrumpatur. G eutriculo dolezte ob "mfi ammationcm purgantia fugienda.lib.7. I yos A Abe ob LZ miemationem » In mida po- | $57 €Xt appof 10 quedo c ZH 'UCHIA jt... ("M7 nodi inflammatopre[enti bile quibus vacuam de b I (0«BoPerzmes enecantibus dulcia mi[cenda Aib.7. 108 WVermes enecantibus erzplaftris cly[fleres dulces pra- ponenas. WMerzzes enecantibus fumptis peross quid. facien- z aum.: dum.lib.7. III.(?' Veymibus pro enecandis emplaftra ubi applicanda. Iib.7. IIO Vertiginofis flernutatoria, caputpurgia fugien- da.lib.6. 47 Veficantia etiem [uper caput applicata, im. "vebe- sueuti[femis doloribus optima.lib.6. 18. [^ Veficania in febre pefhlentiali [rne pe[ffe sm ujuma. 1 duci nou debent. Veftcantia in febre peHlentiali in letbargo optima. .]^ V«ficantta bydropicorum eruribus applicatamoxia, V Vificantia in letbargo optima, C quibus partibusi| applicanda. lib.6. 357] Veficantia: tn pe[le aliquando in ulum duci po[[unt »)/ C quando.lib.s. 421] Veficantiaia ye[Hiferis » cum extra corpus alget 4! utilia.lib.5. 4$ Veficantia in peflilentibus peffreme pa [form ufurpata Ati Itb. $. $! Ve ficantia in principio febrium peflilentialium noii] i. conveniunt. lib. s. T Vitus cra[fas 1n acutis rejtciemdus.lib.a. jt Vitlus formatn acutis paffim corrupta y ve '(peCtu ves | cionis mutanda. lib.2.. I: Vitus bymidus febricitantibus confert, bumidwl!n, atu. c potentia.lib.2. PH Vitius immutandus, vatione temperamentorum CO quomodo. IHb.. Y. c4 30 9v2141* 772 J, * ; L bi *, f Vibius mmutanaus, vatiome babitu corporis » CA terperamenti ventrigulilib.a. 4G] lt-ION DoESLY. Vicius mttandus in acutis obanteatla vitam.La. I4 Villus ratto pro vartetate con[netudipis » Ci vegio- "s wautanda. lib.z. Victus tenus pro acutis antiquis quotuplex, Cb qui 4A nobis reciptendus . lib.a. 30 Vicius tenuts 12 acutis cur. lib.a. I Vinculum laxandum, [e£la wena 1m melanchalicis. lib.6. 87 Vinum 1n acutis per fe numquam concedendum.», præfertim apud Infubres Vinum: acutis quando concedendwum Vinum In[ubriues ineptum pro potu acute febrici- tantum .lib.3. $9 Vini medicati formula praflanti[ima pro aliqia.. Jpecie morbi Gallici.lib.7. 204 mum optima materia pro paraudis aliquando de- coctrs pro.quorbo Gallico. 1b.7. 204. Fino terttana laborantes Apud no[lrates per torum morbum interdicendi-lb.g. ' I4 Virtute per [e debili, vitlus ativezicus ct 72 forma ; ft vi wor bi, folum quantitate. ! Virtute debili ob aeevavationems, parten. C varo ; » M inf n 6n gnat pee ob reíolutzozt Wn paruTC i&pecióaraum.l.. i Vite "mhi u""umua lormevitie:i ecutrt.l.a. jg / 7, 2 44. -P pawlir *4h 4 Vomendnm A cibo, cra[]75 in ventriculo exz[lentibi bus huno ribu;.dib.7. 16 Vomcndum quando 1e]uno ventriculo, C quands 7 epleto.lib.7. | r$ Vomitorio ab allumpto, quam diu a vosnttu abfti- nendum .lib.7. 1o OO QS€, m mq 4 P o osa a £5 pi "p LIFE. Kk. 0721IMS TTCOHOEAT10? | 4£;:€/2a13 "deu C27? " PE WT Vomitus in men [e determinati non habeant dies» flatutum Jib.7. 13 Vomitus potius repetendus, quam diu in eo infi 'ften- dum.lib.7. II Vomitus quibus noxas afferat inemendabiles.l.3. 12. Vomitus vepetiti quales effe debeant.lb.7. I2 Vomitus quomedo frequentius byere promovendt ; C quomodo rarius, € im quibus ca[ibus.l.3.. 10 Vomitus tabidi: inimicus lib.;. II Voritu qui ab[Linendi.lib.7. I4 Vomiturinon debent nimium cibo vepleri.l.7. 17 Voritoria in cholera fint ex levioribus » nec multe quántitatis.lib.7. 11.e£ 24 Vomitoria in cholera varianda, pro varietate ma- teri& Vomitu in colicis quando utendum.. M» Vmbilicus aliquando mumiendus im applicationc.2 cucurbitula.lib.7. 79 Vnguenti ex bydrargyro preftare »multam quanti- tatem parare, C" cautio ante illius u[nm.1.7. 226 Veri regio fovenda attenuantibus ante. [anguims wi [tonem ex talo.lb.7. 139 Laus Deo; Deiparzque Virgini ep" E Hez ^ MACC gs NI Aer: ce EO Edd iR c aq. dpa did Ludovicus Septalius. Ludovico Settala. Settala. Keywords: ragion di stato, lizio, sesso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Settala” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Severino: la ragione conversazionale del velino -- oltre il linguaggio, oltre l’aporia di Parmenide – la scuola di Brecia -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Intende collocarsi oltre ogni filosofia permeata dal nichilismo. Si laurea a Pavia come alunno dell'almo collegio borromeo, discutendo una tesi su metafisica, sotto la supervisione di BONTADINI. Insegna a Milano e Venezia. Lincei. Critica sia il capitalismo sia il comunismo, fonti della vita inautentica in quanto espressioni di dominio della tecnica, come d'altronde il FASCISMO, ma anche la sinistra in quanto non è più social-democrazia, rilasciando anche dichiarazioni sul suo punto di vista sul passato e sull'avvenire dell'Italia. Le spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l'abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell'Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assolutoe innanzitutto Dio. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo stato, che detiene il monopolio legittimo della violenza. Questo grande turbine che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tecnica ed è irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di stato. La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in paesi come l'Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l'Italia). Criticando "l'assolutismo religioso e comunista", oltre che tacciando la magistratura di "ingenuità", poiché processando una classe politica a fondo ha rivelato la contiguità anche con la criminalità organizzata, figlia della guerra fredda e, secondo S., impossibile da debellare integralmente in pochi anni senza debellare lo Stato stesso, causando notevoli problemi. «L'Italia è uno stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell'Italia unita.. Sull'evasione fiscale: Una tara storica, come prima le dicevo. L'evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c'è da costruire una strada io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di chiesa facevano capire che se non avessero ritenuto "giusto" pagare le tasse dello stato, avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la "corruzione" di fondo è l'"evasione" del mondo dal passato dell'Occidente. Oltre alle citate critiche, Heidegger parlando con FABRO a Roma ha a dire a proposito di "Ritornare a Parmenide" di S. Immobilizza il mio Dasein. Già da molto prima prima, alcuni appunti di lavoro heideggeriani testimoniano come Heidegger seguie S. (da uno studio di ALFIERI e HERMANN -- è stato criticato da ODIFREDDI, in risposta a un giudizio critico su un'opera di ODIFREDDIi, ovvero l'introduzione scritta all’ABC della relatività di Russell, dove venneno citati alcuni filosofi (tra cui S. e CROCE) in maniera non congrua e "alla rinfusa l’ODIFREDDI l’ accusa invece di non considerare l'importanza della scienza, come già fecero i neo-idealisti, come CROCE e GENTILE, a differenza di filosofi che studiano a fondo alcune teorie. Nel dialogo con Chiara, “Oltre l’umano e oltre il divino” la filosofia della necessità si contrappone alla filosofia della libertà. Fa spesso riferimento a pensatori come PARMENIDE di VELIA, LEOPARDI, e GENTILE. LEOPARDI e GENTILE sono all'apice della follia del nichilismo. Considera LEOPARDI e GENTILE come i due più grandi geni che hanno portato all'estremo la concezione del mulla ovvero l'entrare e l'uscire degli enti dal nulla. Affronta il problema dell'essere. Tutte le filosofie costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo: la fede del divenire. Sin dagli antichi, infatti, un ente (ovvero un qualcosa che è) e considerato come proveniente dal nulla, dotato di esistenza e successivamente ritornante nel nulla. Rifacendosi a VELIA, è stato definito come un neo-veliano, di cui sarebbe l'unico esponente, peraltro criticato in senso anti-metafisico da SASSO e VISENTIN, i quali sostengono, rovesciando la sua tesi, come, contrariamente all'opinione diffusa, in VELIA esiste invece un deciso rifiuto della metafisica.. Riflettendo sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere, dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, ritiene evidente che l'essere non può non rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (S.rifiuta, quindi, il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da Heidegger). Per S., quindi, tutta la storia della filosofia occidentale è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un nulla, sebbene alcuni filosofi tentano di negare tale assunto. Ma, mentre VELIA tenta di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l'esistenza delle cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), sceglie una via differente, portandolo a delle tesi estreme. Dato che l'essere è, e non può mai diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero, ogni attimo e eterno. Il di-venire non può, quindi, che rappresentare l'apparire degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gl’essenti entrano ed escono del cerchio dell'apparire. Quando un essente esce dal cerchio dell'apparire, non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente all’inter-soggetivo. Dunque, l’essente esiste anche quando scompaie ovvero non si perceive. Vedere senza vedere, dice Sperduto in una tragicommedia. Afferma che il di-venire dell’essente è come lo scorrere dell’essente sulla superficie di uno specchio. L’essente, infatti, esiste prima di entrare nel campo inter-soggetivo dello specchio e ovviamente continua ad esistere anche dopo esserne uscite. Il di-venire e l’ immagine inter-soggetiva dell’essere. Questo si estende anche a ogni essente che nel divenire si manifesta. La dimostrazione dell'eternità di tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di non contraddizione, ma non nella versione che ne dà Aristotele nel “De Interpretatione”. In essa anzi il discorso del tramonto del senso dell'essere trova la sua formulazione più rigorosa e più esplicita. Bisogna invece ritornare a VELIA correggerne l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in contrasto col principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il divenire così come uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto, non è affatto evidente. Di qui si potrà proseguire su una via -- quella indicata da VELIA, il sentiero del giorno. Consideriamo la proposizione di VELIA -- è infatti l'essere, il nulla non è. Tale proposizione esprime l'opposizione assoluta tra i "essente" e "non essente". Pertanto ogni essente, in quanto ent-e, è assolutamente opposto al nulla e non ci può essere uno stato in cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non contraddizione aristotelico -- è necessario che l'essente sia, quando è, e che il non-essente non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero di una condizione, in cui l'essente è nulla, in cui essere = nulla. Questa impossibile ed impensabile contraddizione costituisce una follia essenziale. Infatti il pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'essente come essere, ma insieme come di-veniente, cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla. Ad esso sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia. L’essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens rispetto all'ente. Rigetta questa concezione. Afferma che la totalità dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza ontologica è quindi quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente e quello immutabile. L'essere che appare e scompare non è lo stesso essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad alcun mutamento. Tutto è avvolto (fino alla morte) dal nichilismo Un po' tutti i filosofi che l'hanno avuto sottomano hanno inteso il nichilismo come allontanamento dalla verità, e l'hanno dunque declinato a seconda dell'idea di verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell'eternità di tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali, ovvero che l'essere possa non essere,ed uscire e rientrare nel nulla, ovvero credere nel di-venire delle cose. Credere infatti che le cose escano dal nulla e vi ritornino equivale ad identificare l'essere con il nulla: quindi si parla di pura "follia". Al di fuori della follia appare l'eternità di ogni cosa e di ogni evento. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell'ente è il comparire o lo sparire dell'eterno. Il divenire dell'essere è un'opinione senza verità. L'Occidente non domina il mondo casualmente o perché ha una possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura che ritiene più avanzatae dove dunque l'avanzamento non è una virtù morale, ma la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all'imprevedibilità dell'esistenza. Ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di epistème che tendono a dare un ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo stesso terreno. L'intera storia della filosofia italiana è quindi storia del nichilismo. La radicale distruzione dell'epistème operata da parte della filosofia e la rapida ascesa della scienz ai vertici del sapere sono conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica è, infatti, la forma estrema di volontà di potenza). Tutto ciò che appare appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non segue, quindi, una sequenza casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il nichilismo. Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il "mortale" come noi lo conosciamo. Ma l'Occidente è destinato al tramonto, per fare spazio al destino della verità, la verità che testimonia la follia della fede nel divenire. Solo all'interno del destino della verità la morte acquista un significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione dell'assentarsi dell'eterno. Da quanto detto precedentemente appare chiaro come non ci sia posto per il divino comunemente inteso. Nel corso della storia della filosofia, l'affermazione dell'esistenza di qualcosa di immutabile (tra cui il divino in tutti i diversi modi nei quali filosofia e religione lo hanno concepito) è sempre stata fatta partendo dal presupposto che il di-venire non significhi necessariamente la nascita dal nulla e il tornare nel nulla delle cose che in esso si presentano. Quest'affermazione è, inoltre, sempre avvenuta con l'intento di risolvere le varie contraddizioni che quel presupposto implica e di inventare un rimedio per l'angoscia che il pensiero dell'annientamento provoca. Questo genere di immutabilità è, quindi, di segno diverso da quella che compete agli enti sulla base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si annulli. Per questo motivo è impossibile che esista un divino. A maggior ragione è impossibile che esista un dio dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libero potrebbe essere, pel divino, l'annichilimento"diverso dal concetto fisico di annichilazione -, e cioè la volontà di far cessare la durata della loro esistenza per farli ritornare nel nulla). Essendo ogni ente eterno, non può esserci né creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla luce del destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista un significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del super-uomo e della volontà di potenza. L’uomo è un super-dio, ben più grande del divino della tradizione religiosa. L'inconciliabilità fra la dottrina dell'Essere e AQUINO è stata sostenuta da Fabro. BARZAGHI, con cui ha più volte dialogato pubblicamente, ha mostrato la possibilità di utilizzare le intuizioni sull'eternità dell'essente proprio per affermare l'esistenza di Dio e ricondurre il pensiero del filosofo all'alveo cristiano da cui si è staccato (entrambi sono stati alunni, all'Università Cattolica, del filosofo cattolico e apologeta BONTADINI). Pur non rivedendo pubblicamente il suo punto di vista sull'esistenza del divino, apprezza ed elogia la proposta di BARZAGHI. Con “La Gloria” giunge, tra le altre cose, alla dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri". Quando Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la conferma delle ipotesi da parte dell'esperienza, e cioè da parte della presenza certa a me da parte delle cose, si apre il problema della fondazione dell'esistenza appunto di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere del mondo, ma che a differenza della mia non sono apparenti, non sono cioè da me visibili. I fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema (eminentemente proposti ad opera della fenomenologia, sì che questo problema fu certamente uno dei più cogenti all'interno del discorso filosofico di Husserl), a cominciare da quello di Cartesio, si determineranno essenzialmente per l'assenza del senso autentico dell'essente e del senso dell'oltrepassamento. L'oltrepassamento dell'attualità nella costellazione infinita di cerchi finiti dell'apparire del destino è necessità dell'esistenza di un altro apparire finito, diverso da quello attuale. Nella Gloria, perviene alla fondazione del senso autentico dell'oltrepassamento, dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il divenire autentico (cioè non nichilistico) non è il crearsi e l'annullarsi dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ma è in questa sede innanzitutto fondamentale precisare, a partire da considerazioni svolte dallo stesso S. in Destino della Necessità (che le cose della "terra" (termine con il quale S. designa la dimensione degli essenti che via via appaionoe che, per contro, il nichilismo pensa come fuoriuscenti dal nulla ed al nulla ritornanti) "incominciano" ad apparire (il loro apparire esce cioè dall'ombra del non-apparire ed entra nel cerchio dell'apparire). Con "cerchio dell'apparire" si intende, qui, la totalità degli enti che appaiono: è, cioè, l'apparire in quanto ha come contenuto tutto ciò che appare (ossia è l'apparire "trascendentale"); l'apparire delle cose della terra, quell'apparire incominciante di cui sopra, è, perciò, la relazione tra il cerchio dell'apparire (l'apparire trascendentale) e una parte del suo contenuto. È altrettanto fondamentale precisare che l'incominciare della terra (a sua volta eterna), non aggiunge alcunché al tutto eterno che è, con VELIA, appunto, “non incompiuto” (ouk atelePombaon), “non manchevole” (oulon achineton). Anche l'incominciante apparire, difatti, è eterno: il suo incominciare è il suo entrare nel cerchio dell'apparire. Entrandovi, naturalmente, apparema questo apparire dell'entrare è lo stesso entrare, ossia è quello stesso di cui si dice che, eterno, entra nel cerchio dell'apparire. E, così come ogni ente, anche l'appartenenza della terra al cerchio dell'apparire è eterna. L'eterna appartenenza al cerchio dell'apparire entra nel cerchio eterno dell'apparire. Entrandovi, appare, e quest'ultimo apparire è lo stesso apparire incominciante in cui consiste l'incominciante appartenenza della terra al cerchio dell'apparire. L'apparire incominciante è cioè apparire di sé stesso (e di tutte le altre cose che incominciano ad apparire), ed è questa autoriflessione dell'apparire incominciante ciò che entra nel cerchio dell'apparire e incomincia a far parte del contenuto di questo cerchio. Ma ogni essente che incomincia ad apparire (ogni oltrepassante) è destinato ad essere oltrepassato: diventerebbe, altrimenti, condizione indispensabile dell'apparire degli essenti e quindi originarietà che sarebbe dovuta apparire già da sempre. Un oltrepassante che sia non oltrepassabile è impossibile, perché altrimenti esso dovrebbe iniziare ad appartenere allo sfondo (e intende, con questo termine, quel complesso di significati, o costanti persintattiche costanti sintattiche di ogni significato –, senza i quali non apparirebbe nulla, motivo per cui non possono non essere sempre presenti. Tra questi ad esempio vi sono i significati esseree e nulla. Inoltre, la serie progressiva degli essenti che via via appaiono è necessariamente finita; infatti, se in direzione del passato fosse estensibile all'infinito, ci vorrebbe un percorso infinito, e quindi mai concluso, per giungere al momento attuale. C'è quindi un primo passo compiuto dalla terra. La totalità attuale di ciò che è destinato ad apparire è, per quanto sopra esposto, necessariamente oltrepassata. Ma in che senso? Essa non è, difatti, oltrepassata dall'apparire infinitogiacché l'apparire infinito (l'infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie dell'apparire finitodove la Gloria è proprio questo infinito dispiegarsi) non è un oltrepassamento incominciante, ma è l'oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto della totalità del finito. La totalità attuale dell'incominciante è, dunque, necessariamente oltrepassata da un incomincianteil quale non può apparire attualmente, ma è tuttavia necessario che appaia (in quanto l'incominciare è incominciare ad apparire), e che quindi è necessario che appaia sopraggiungendo in un cerchio diverso, altro, dal cerchio originario dell'apparire. La totalità simpliciter degli essenti-che-sono-degli-oltrepassanti (la totalità dell'oltrepassante, cioè, che include come parte la totalità attuale dell'oltrepassante) non può essere a sua volta oltrepassata, perché ciò che la oltrepasserebbe sarebbe un oltrepassante non incluso nella totalità dell'oltrepassante; e se l'oltrepassante (cioè l'incominciante) che oltrepassa la totalità degli oltrepassanti non fosse a sua volta oltrepassato, esso sarebbe quel contenuto impossibile che è, appunto (per quanto sopra esposto), l'incominciante non-oltrepassabile. Poiché la terra oltrepassa anche l'attualità dell'apparire del cerchio originario, sopraggiungendo in un cerchio diverso, il contenuto incominciante che appare nel cerchio originario dell'apparire attuale, è oltrepassato (infinitamente) in due direzioni: (a) In quanto contenuto incominciante, esso è oltrepassato lungo il dispiegamento infinito del contenuto attuale del cerchio originario (o, per utilizzare il suo lessico, lungo la Gloria del dispiegamento infinito della terra che si inoltra nel cerchio originario). Ma non è in quanto tale contenuto è attuale che esso viene oltrepassato lungo il dispiegamento infinito del contenuto attuale. (b) In quanto contenuto attuale (in quanto, cioè, alla sua attualità) il contenuto incominciante è oltrepassato invece in un altro cerchioe in un'infinità di altri cerchi dell'apparire. L'oltrepassante-incominciante, qui, entra nell'apparire non attuale. Anche questa seconda direzione dell'oltrepassamento è un dispiegamento infinito nella Gloria, ma, appunto, nella gloria che consiste nell'infinito sopraggiungere, nel cerchio originario, della costellazione infinita degli altri cerchi. La gloria è l'unità di queste due dimensioni. La dimensione dell'essente, che incomincia cioè ad apparire nel cerchio originario, è necessariamente oltrepassata da un'altra dimensione dell'essente (perché l'incominciante non può incominciare ad appartenere all'essenza dello Sfondo, non incominciante e non tramontante, del cerchio originario); ma anche l'attualità dell'essente che incomincia ad apparireossia anche l'apparire (che, in quanto tale, è apparire attuale) dell'essente che incomincia ad apparireincomincia ad apparire, sì che (per lo stesso motivo) è necessariamente oltrepassata in un altro cerchio dell'apparire; e anche la sintesi tra l'attualità del cerchio originario e l'attualità in sé dell'altro cerchio incomincia ad apparire nel cerchio originario, quando in esso incomincia ad apparire ciò che ne oltrepassa l'attualità; e dunque (per lo stesso motivo) tale sintesi è oltrepassata in un terzo cerchio (e, cioè, l'attualità in sé dell'altro cerchio non è oltrepassata solo nel cerchio originario, ma necessariamente in un terzo cerchio)e così all'infinito. In definitiva, l'oltrepassamento dell'attualità di un cerchio non avviene solo lungo la dimensione "verticale" del singolo cerchio, ma anche lungoquella "orizzontale" della costellazione di cerchi del Destino. L'oltrepassamento hegeliano, invece, conserva "idealmente", cioè astrattamente, ciò che oltrepassa, e non realmente, determinandone la distruzione. In un contesto siffatto è fondata l'impossibilità dell'esistenza degli "altri", perché l'altro, che è il mio oltrepassante, determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad una dimensione puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza degli altri significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi comunque interna all'esistenza produttiva dell'unico io. Il nichilismo è un essente che incomincia ad apparire, ed è quindi destinato ad essere oltrepassato. L'essente che oltrepassa il nichilismo è l'essente che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità. Il nichilismo è, infatti, pensare e vivere le cose come nulla in quanto delle cose non appare il legame alla struttura originaria della verità, e quindi non appare l'eternità. L'essente, o la dimensione di essenti, che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose dalla verità è la gloria (cioè la manifestazione) della verità stessa. L'ampiezza dell'isolamento non coinvolge solo il legame tra i singoli essenti e la verità, ma anche il legame tra gli infiniti cerchi dell'apparire, il loro passato e il futuro del percorso che la terra è destinata a compiere in essi. Nella Gloria non si è il divino, perché il divino crea ed annienta le cose anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell'errore perché l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed eterno, cancellarne l'identità. Il divino è, quindi, infinitamente meno della più umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre il divino e oltre ogni forma di mortalità, compresa la vita umana come credenza nel poter creare e annientare gli essenti. Saggi: “La struttura originaria” (Brescia, La Scuola; Milano, Adelphi); “Fichte” (Brescia, La Scuola, poi in Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi); Filosofia della prassi, Milano, Vita e Pensiero, Milano, Adelphi); “Ritornare a PARMENIDE di VELIA” -- Rivista di filosofia neoscolastica», poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Ritornare a Parmenide. Poscritto -- «Rivista di filosofia neoscolastica», poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Essenza del nichilismo. Saggi, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Gl’abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica (Roma, Armando, Téchne); “Le radici della violenza” (Milano, Rusconi, IMilano, Rizzoli); “Legge e caso, Piccola Biblioteca Milano, Adelphi,); “Destino della necessità. Κατὰ τὸ χρεών, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “A Cesare e a Dio” (Milano, Rizzoli, La strada, Milano, Rizzoli); “La filosofia antica” (Milano, Rizzoli); “La filosofia moderna” (Milano, Rizzoli, “ Il parricidio mancato, Collana Saggi. Milano, Adelphi, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein, Milano, Rizzoli, Traduzione e interpretazione dell'«Orestea» d’Eschilo, Milano, Rizzoli, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Adelphi, “Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Biblioteca Filosofica n.6, Milano, Adelphi); “Antologia filosofica dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli); “La filosofia futura” (Milano, Rizzoli); “Il nulla e la poesia. Alla fine dell'età della tecnica: LEOPARDI, Milano, Rizzoli); “Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti” (Firenze, Sansoni); “Oltre il linguaggio” (Milano, Adelphi); “La guerra” (Milano, Rizzoli); “La bilancia” (Milano, Rizzoli); “Il declino del capitalismo” (Milano, Rizzoli); “Sortite -- sui rimedi e la gioia” (Milano, Rizzoli); “Metafisica” (Milano, Adelphi); “Pensieri sul Cristianesimo” (Milano, Rizzoli); “Tautótēs, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, La filosofia dai Greci al nostro tempo” (Milano, Rizzoli); “La follia dell'angelo” (Milano, Rizzoli); “Leopardi -- Cosa arcana e stupenda” (Milano, Rizzoli); “La tecnica” (Milano, Rizzoli); “La buona fede” (Milano, Rizzoli); “L'anello del ritorno” (Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “Crisi della tradizione occidentale” (Milano, Marinotti); “La legna e la cenere, ovvero, dell’esistenza” (Milano, Rizzoli); “Il mio scontro con la chiesa” (Milano, Rizzoli); “La Gloria. ἄσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di destino della necessità (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); “Oltre l'uomo e oltre Dio” (Genova, Melangolo, Lezioni sulla politica. I Greci e la tendenza fondamentale del nostro tempo” (Milano, Marinotti); Tecnica e architettura” (Milano, Cortina); Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli); Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi,. Nascere. E altri problemi della coscienza (Milano, Rizzoli, Milano, BUR,. Sull'embrione, Milano, Rizzoli, Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli); Ricordati di santificare le feste” (Milano, AlboVersorio); “L'identità della follia” (Milano, Rizzoli). “Oltrepassare” (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Etica e Scienza” (Milano, Editrice San Raffaele, Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, La buona fede. Sui fondamenti della morale, Milano, Rizzoli, Volontà, fede e destino, Grossi, Milano-Udine, Mimesis); L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica, e sulla pena di morte, Milano, AlboVersorio, La ragione, la fede, Milano, AlboVersorio, L'identità del destino. Milano, Rizzoli, Il diverso come icona del male, Torino, Boringhieri, Democrazia, tecnica, capitalismo, Brescia, Morcelliana, Discussioni intorno al senso della verità, Pisa, ETS, La guerra e il mortale, Taddio, Milano-Udine, Mimesis. Macigni e spirito di gravità. Riflessione sullo stato attuale del mondo, Milano, Rizzoli,. L'intima mano, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell'Occidente, Perone, Torino, Rosenberg e Sellier, Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana); Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli,; Milano, BUR,. La bilancia. Milano, BUR, Del bello, Milano, Mimesis,, La morte e la terra, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi,. Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano,. Educare al pensiero, Brescia, La Scuola,. Pòlemos, Milano, Mimesis, Intorno al senso del nulla, Milano, Adelphi,. L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica. E la pena di morte, Milano, AlboVersorio, La potenza dell'errare. Sulla storia dell'Occidente, Milano, Rizzoli,. Il morire tra ragione e fede, Venezia, Marcianum, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente ed Occidente, Milano, Jaca, Sul divenire. Modena, Mucchi,. Piazza della Loggia. Una strage politica, I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana,. In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell'uomo, Milano, Rizzoli,. Dike, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi,. Cervello, mente, anima, Brescia, Morcelliana, Storia, Gioia, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, Il tramonto della politica. Considerazioni sul futuro del mondo, Milano, Rizzoli); “L'essere e l'apparire” Brescia, Morcelliana, Dell'essere e del possibile, Milano, Mimesis,. Sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, Il nichilismo e la terra, Milano, Mimesis, Testimoniando il destino, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi, Ontologia e violenza. Milano, Mimesis, Aristotele, I principi del divenire. Libro primo della Fisica (Brescia, La Scuola). Filosofo dell'eterno. Il mio ricordo degl’eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli, “Parmenideo” -- VELIA, su la Repubblica, Scianca, Addio a S.: ecco chi era il grande filosofo dell'essere, su Il Primato Nazionale, Bovegno, il filosofo cittadino onorario, su giornale di brescia «L'esperimento di Barzaghi è importante e va seguito con attenzione. Immerso nell'alienazione, il cristianesimo è come una casa invisibile di cui qualcuno dice, indicando un banco di nebbia: "Là c'è una casa". Che cosa si riuscirebbe a vedere se la nebbia (l'alienazione) diradasse? Forse una casa. Ma forse nulla. Nel primo caso, il cristianesimo avrebbe ancora qualcosa da dire, e di grande» (S., Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa). «Rigoroso fino alla fine. Solo un po' più triste», in Brescia oggi, Emanuele Severino, il tributo si celebrerà a Palazzo Loggia, in Bresciaoggi. Ecco perché la giovane Italia va in malora", su il Fatto Quotidiano, Odifreddi, La scienza sotto tiro, su la Repubblica, Fusaro e Didero, Filosofico. Miligi et al., "Sguardo su S.", su filosofia.) "filosofo poetante" cf. La Guerra, occorre riconoscere che le sue posizioni, qualunque sia il giudizio che si pensa di dover dare su di esse, non sembrano aver avuto, perlomeno fino ad ora, un vero e proprio seguito tra coloro che si occupano professionalmente di filosofia.» (Cfr. Visentin, Il neo-parmenidismo italiano. Le premesse storiche e filosofiche, Napoli, Bibliopolis) Neo-parmenidismo, su filosofia. Se noi potessimo mai non essere, già adesso non saremmo. La prova più certa della nostra immortalità è il fatto che noi ora siamo. Perché ciò dimostra che su di noi il tempo non può nulla: in quanto è già trascorso un tempo infinito. È del tutto impensabile che qualcosa che è esistito una volta, per un momento, con tutta la forza della realtà, dopo un tempo infinito possa non esistere: la contraddizione è troppo grossa. Su questo si fondano la dottrina cristiana del ritorno di tutte le cose, quella induista della creazione del mondoche si ripete continuamente a opera di Brahma, e dogmi analoghi di Platone e altri filosofi.» (A. Schopenhauer) Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena ed., Fasano di Brindisi, "Ritornare a Velia", in Essenza del Nichilismo, Brescia, Aristotele, Liber de Interpretatione, essenza del nichilismo, follia estrema ed estremamente nascosta: la persuasione che gli essenti, in quanto tali, escano dal loro non essere e vi ritornino: la persuasione che vi sia un tempo in cui l'essente (prima di essere e dopo il suo essere) sia nulla, che il non niente sia niente: la persuasione che è il culmine in cui si mantiene l'intera storia dell'Occidente. Destino della necessità, Milano, Adelphi, L'alienazione dell'Occidente. Quadrivium, Genova); “La struttura originaria, Milano, Adelphi, Sito web Amadori F., Il libero arbitrio, "Filosofia" Antonelli, Verità, nichilismo, prassi. Roma, Armando, Berto F., La dialettica della struttura originaria, Padova, Poligrafo, Crapanzano, L'immutabilità del diveniente. Roma, Gruppo Albatros Il Filo, Cusano, Capire S.. La risoluzione dell'aporetica del nulla, Milano, Mimesis Cusano N., S. Oltre il nichilismo, Brescia, Morcelliana,. Sasso, Dal divenire all'oltrepassare. La differenza ontologica, Roma, Aracne, Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Tra attualismo e metafisica” (Milano, Mimesis); Giovanni, Sul divenire. Gentile e S., Napoli, Scientifica, Paoli, “Furor Logicus” (Milano, Angeli); Aporia del fondamento, Napoli, Città del Sole); Fabro, L'alienazione Genova, Quadrivium, Goggi, Al cuore del destino. Milano, Mimesis Goggi, Vaticano. Magliulo, Quaestiones disputatae, Milano-Udine, Mimesis, Mauceri, La hybris originaria. Cacciari Napoli-Salerno, Orthotes, Messinese, L'apparire del mondo. sulla struttura originaria Milano, Mimesis, Messinese, Il paradiso della verità. Pisa, ETS, Messinese, Stanze della metafisica. Carlini, Bontadini, Brescia, Morcelliana,. Messinese, Né laico, né cattolico. S., la Chiesa, la filosofia, Bari, Dedalo, Petterlini, Brianese e Goggi, Le parole dell'essere. Per S., Milano, Mondadori, Poma, Necessità del divenire. Una critica a S., Pisa, ETS,. Saccardi, Metafisica e parmenidismo – I veliani, Il contributo della filosofia neoclassica, Napoli-Salerno, Orthotes,. Scilironi, Ontologia e storia, Abano Terme, Francisci, Scurati, Pensare l'identità. Milano, Alboversorio, Simionato, Nulla e negazione. L'aporia del nulla (Pisa, Plus); Soncini, Il senso del fondamento in Genova, Marietti, Spanio, Il destino dell'essere. Brescia, Morcelliana,. Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Fasano di Brindisi, Schena, Sperduto, Maestri futili? Annunzio, Levi, Pavese, Roma, Aracne, Sperduto, Il divenire dell'eterno. Su S. (ed ALIGHIERI), Prefazione di Messinese, Roma, Aracne,. Testoni, S., La follia dell'angelo, Milano, Mimesis, Tarca, Verità, alienazione e metafisica. Rilettura critica della proposta filosofica di S., Treviso, Mevio Washington, Valent, Cura e salvezza. Saggi dedicati, Bergamo, Moretti &amp; Vitali, Visentin M., Tra struttura e problema. Note intorno al pensiero di E. Severino, Venezia, Marsilio [ora in Il neoparmenidismo italiano, Dal neoidealismo al neoparmenidismo, Napoli, Bibliopolis, Metafisica Ontologia Episteme Nichilismo Leopardi Velia Valent Galimberti. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Associazione spazio interiore ambiente, Ursini. EMANUELE SEVERINO LA POTENZA DELL'ERRARE Sulla storia dell'Occidente Alle radici della storia dell’Occidente, in concetti come azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione più profonda della verità, ossia l’estremo disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una ricchezza rimanendo impoveriti. A questo principio cruciale della filosofia di Emanuele Severino è dedicato questo libro che, parlando di arte, cristianesimo, politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del nichilismo, il più potente dei meccanismi dell’errare. Quando si parla di “nichilismo”» scrive l’autore si intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.» Queste pagine ci esortano invece a prestare ascolto alla spinta che ha provocato l’inevitabile accadere della resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino allo stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela il meccanismo oscuro che culmina nel rovesciamento del mezzo in scopo. Il risultato è un’analisi che porta allo scoperto come lo “scambio delle parti” derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e che dimostra — con nuovi scorci e riferimenti — come la malattia nascosta (il culmine dell’errare) sia la persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla. Accademico dei Lincei, è autore di saggi fondamentali. Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi sagi più famosi ricordiamo l’autobiografìa 1/ mio ricordo degli eterni (Rizzoli, ora in BUR), Capitalismo senza futuro (Rizzoli) e Intorno al senso del nulla (Adelphi) e La potenza dell’errare Sulla storia dell’Occidente RCS Libri S.p.A., Milano. In copertina: Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Andrea Cavallini / f/zeWorldo/DOT rizzoli.eu La potenza dell’errare. Per richiamare e introdurre Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di processi in cui il mezzo di cui ci si serve, agendo in modo più o meno complesso, diventa lo scopo (il nuovo scopo) di tale agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare il nuovo scopo. Si può dire che tale rovesciamento è uno scambio delle parti. Altri saggi di S. si rivolgono a questo tema. La sezione prima del saggio intende tuttavia mettere in luce la relazione tra alcuni luoghi apparentemente distanti in cui quel rovesciamento si manifesta: arte, cristianesimo, politica, diritto, economia. Ma intende anche richiamare che alla radice non solo di tale rovesciamento, ma dello stesso rapporto tra mezzo e scopo, cioè dello stesso concetto di azione-volontà-potenza si trova Yalienazione più profonda della verità, ossia il disfarsi della verità, in modo estremo, da parte della storia dell’Occidente. Disfarsi, nel senso in cui ci si disfa di una ricchezza rimanendo impoveriti, disfatti. Appunto per questa alienazione il rovesciamento in cui consiste lo scambio delle parti di cui si è detto appartiene all’ essenza del nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione prima). Tale essenza è il più potente dei meccanismi delVerrare. Quanto più l’errore è profondo, tanto più è cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa. Non può quindi esistere un potenza buona e una cattiva: la potenza è, in quanto tale, errare e ferrare è la forma originaria di ogni violenza e malvagità. L’impotenza, tuttavia, non è altro che la volontà di potenza fallita, frustrata. E la potenza ottenuta e vincente è soltanto l’ illusione di aver ottenuto e di aver vinto. L’essenza del nichilismo esprime nel modo più radicale un evento che è essenzialmente più profondo di ogni peccato originale. L’illusione estrema è la fede (posseduta da uomini e dèi) di avere la potenza di condurre le cose dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. È però possibile parlare di errare e di errore, di alienazione della verità, solo se la verità appare, solo se si manifesta ciò che è opportuno chiamare destino della verità per indicare qualcosa il cui contenuto è abissalmente diverso da tutto ciò che, lungo Vintera storia dell’Occidente, è stato chiamato verità. Il capitolo VI della sezione prima richiama appunto la configurazione di fondo di tale diversità. Con questo si sta insieme dicendo che l’alienazione della verità non è soltanto un evento che appartenga alla storia del pensiero filosofico, ma è il terreno in cui vanno via via crescendo le opere, le istituzioni, le res gestae - e quindi anche, e certo innanzitutto, le molteplici forme culturali - dell’Occidente e quindi anche ogni historia rerum gestarum. E forse è il caso di avvertire già qui che, anche queste pagine, per lo più, intendono parlare delle cose segrete, delle più segrete, a lettori che non hanno la filosofìa in cima ai loro pensieri giacché le cose più segrete sono peraltro manifeste, e in piena luce, nel più profondo di ogni uomo (e forse non solo), ed è inevitabile che trapelino nel deserto in cui l’uomo è gettato dall’alienazione della verità. La forma in cui oggi culmina lo scambio delle parti rimane quella che altre volte ho indicato, cioè il rapporto con la tecnica, dove tutte le forze oggi dominanti (i luoghi indicati all’inizio) sono destinate ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza, lo scopo cioè nel perseguimento del quale la tecnica consiste (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, Rizzoli 2012). Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e accompagnata da altre forme dove tale scambio si costituisce tra quelle forze stesse (ognuna peraltro destinata alla fine, come si sta dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo scopo che subordina a sé gli altri e ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza). Ad esempio: lo scambio esistente tra felicità e verità - per cui dapprima la verità viene ricercata per essere veramente felici e poi si vuole esser felici per poter contemplare la verità con una felicità diversa da quella che serve a produrre tale contemplazione (cfr. E.S., La buona fede, Rizzoli 1999, 5-6; Dall’islam a Prometeo, Rizzoli 2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si produce tra cristianesimo e arte cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro - lo scambio marxiano, questo, che ripropone lo scambio aristotelico tra economia e crematistica (dove l’uso del denaro non ha come scopo l’acquisto e il consumo della merce, ma l’aumento indefinito del denaro stesso). In generale: nella storia dell’Occidente la verità sta alla felicità come l’arte cristiana sta al cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno all’individuo, come il denaro sta alla merce, come la tecnica sta al diritto (naturale e positivo) e, infine, sta a tutte le forze che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo per realizzare i loro scopi. Il primo termine di queste coppie è ciò che, assunto inizialmente come mezzo per realizzare il secondo termine, diventa lo scopo di quest’ultimo, che diventa il mezzo. Come volontà di aumentare aU’infinito la propria potenza, e riuscendo a essere la potenza suprema, cioè vincente su ogni altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere planetario, destinato quindi a subordinare a sé ogni forma politica dello Stato e ogni trust sovranazionale che sul fondamento della potenza economica sia riuscito a subordinare a sé tale forma. L’Apparato è cioè destinato a costituirsi come Superstato planetario, essenzialmente diverso dalle logiche politiche che hanno condotto a organizzazioni internazionali come la Società delle Nazioni e l’Onu. La forma politica dello Stato nasce come scopo che gli individui o i gruppi sociali si danno per sopravvivere, rinunciando ai propri impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo iniziale) e riconoscendo nello Stato il monopolio legittimo della violenza-potenza. In modo analogo, la conflittualità oggi esistente tra gli Stati (che ripropone il bellum omnium contro, omnes) spinge verso la forma estrema di Superstato, il Leviatano supremo in cui consiste l’Apparato della tecnica (e di cui il Duumvirato Usa-Urss è stato una prima, ancora acerba ma significativa anticipazione). Esso riesce a essere il supremo monopolio legittimo della potenza quando riesce a comprendere il senso autentico della propria potenza perché sente la voce del pensiero filosofico che mostra fimpossibilità di ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo e quindi all’agire tecnico, che più di ogni altra forza è capace di oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella voce, l’Apparato ha la capacità di mostrare l’illegittimità di ogni Limite assoluto e di ogni altra forma di potenza. Anche ma non solo in questo senso la filosofia è la madre della potenza estrema. Ancora una volta la filosofia degli ultimi due secoli - e propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più inesplorato (cfr. sezione prima, cap. II) - è il fondamento della più grande trasformazione storica del pianeta: quella appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia la coscienza della propria forza, riesce a subordinare a sé ogni altra forza. Questa, sommariamente indicata, è la configurazione complessiva di ciò che abbiamo chiamato scambio delle parti e dell’alienazione nichilistica della verità che sta alla radice di esso. Ad alcune delle forme di tale scambio si rivolgono queste pagine. Quando si parla di nichilismo si intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il 10 nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere. Questo libro mette appunto in risalto (richiamandosi ad altri miei scritti) l’incapacità di prestare ascolto alla spinta che lo ha fatto inevitabilmente accadere, e al significato di questa inevitabilità. Ma mette in risalto anche qualcosa di ben più decisivo, giacché la definizione usuale di nichilismo, nonostante la sua visibilità, è soltanto una conseguenza del senso autentico, ossia di ciò che abbiamo chiamato Yessenza - peraltro nascosta del nichilismo. Inutile ogni rimedio se si ignora la natura della malattia. La malattia nascosta (il culmine dell’errare) è la persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla. Tanto più profonda, la malattia, quanto meno si riconosce di esserne affetti. Ma una volta accertata la vera malattia anche il senso del rimedio mostra un volto essenzialmente diverso. Questo tema sta al centro di tutto il mio lavoro filosofico, ma è prevalentemente accessibile a chi ha già una certa confidenza con il pensiero filosofico. Come già ho accennato, questo libro intenderebbe invece coinvolgere nella riflessione su questo tema - che è la radice più profonda di ogni attualità - i lettori che tale confidenza non hanno. Intenderebbe, appunto, avvicinarli all’essenza del nichilismo e della potenza - quindi al destino della verità, cioè allo stare autenticamente oltre tale essenza. Il linguaggio di queste pagine proviene da un gruppo di scritti (alcuni inediti e altri rielaborati), pubblicati prevalentemente sul Corriere della Sera e sul settimanale Liberal. Il tema di S. si rivolge alla poesia di Dante e di Leopardi può lasciare perplessi. Il fiore! Che serietà può avere rivolgersi alla poesia - e per di più con un’immagine così scontata come il fiore - in un tempo tragico ed enigmatico come il nostro, dove i popoli poveri intendono non essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi e dove la tecnica sta avviandosi al dominio su tutte le altre forze della civiltà? La lotta contro il dolore e la morte si è fatta troppo dura perché sia ancora lecito rivolgersi alla poesia e ai fiori. Ma dobbiamo subito chiederci qui: la poesia non ha proprio nulla a che vedere con la lotta contro il dolore e la morte? È così scontato che la poesia appartenga al regno del superfluo? Queste domande non intendono alludere al luogo comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione dell’estetica, crede che la poesia sia qualcosa di indispensabile per le anime belle. Oggi, indebolendosi, la poesia è diventata anche questo. Ma alVorigine la poesia appartiene invece al gesto essenziale che l’uomo compie contro il dolore e la morte. Appartiene al rimedio essenziale. In principio, il gesto e il rimedio essenziale sono la festa arcaica. All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò che in seguito si separa e diventa canto, mito, rito, danza, poesia, arte, sapienza, saggezza, filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S., Dall’islam a Prometeo, cit., 8). Quanto più la poesia si allontana dall’originaria casa festiva, tanto più si indebolisce e diventa oggetto di godimento estetico - cioè qualcosa che può certamente sembrare superfluo rispetto ai bisogni primari dell’uomo. E invece, nell’antica lingua greca poesia - poìesis - significa produzione. La poesia appartiene cioè all’ambito della potenza. Come gli altri fattori della festa. Anche in seguito la grande poesia conserva le tracce di quell’antica potenza. Nel canto XIX del Paradiso (w. 22-24) Dante si rivolge così ai beati: O perpetui fiori de l’eterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti i vostri odori. Sono, i beati, i perpetui fiori della letizia divina. Fioriscono dall’albero della letizia eterna, che li unisce in modo che i loro odori, per i quali essi si distinguono l’uno dall’altro, paiono e sono tuttavia un unico profumo: pur uno. Mezzo millennio dopo, Leopardi compone La ginestra o il fiore del deserto. Rivolgendosi alla ginestra il canto dice (w. 32-37); Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola. Il riferimento a Leopardi e a questo suo canto può sembrare estrinseco. Eppure il pensiero di Leopardi porta al tramonto l’universo in cui si muove il pensiero di Dante. Leopardi, prima ancora di Nietzsche, e nel modo più radicale, mostra l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni eterna letizia. Non si tratta dell’opinione, della fantasia, del sentimento di un poeta infelice e deluso. Leopardi, come altrove ho mostrato, apre la strada della filosofia del nostro tempo: un percorso inevitabile che tuttora è in attoed è la radice del distacco del nostro tempo dalla grande tradizione occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero filosofico dei Greci. Di questa radice Dante è pienamente e potentemente consapevole. Quando all’uomo non basta più la letizia della festa arcaica, nasce la letizia della filosofia, che per i Greci è la massima di cui l’uomo possa godere sulla terra. Ma, in precedenza, la festa è il primo rimedio c ontro la paura del dolore e della morte perché è l ’immagine della lotta umana contro di essi. Nella festa l’uomo si identifica a questa immagine. L’immagine si solleva e si libra al di sopra della lotta: già per questo librarsi si sente libera dal pericolo e dalla paura, ossia è vittoria, lotta vincente, godimento della salvezza. La paura che è vinta dalla festa è più originaria e angosciante della paura di chi, ormai all’interno del regno della ragione e della fede cristiana ha paura perché si è allontanato dalle leggi divine, dalla diritta via della salvezza. Lo dice anche Dante all’inizio deìYInferno. La selva oscura è la lontananza da Dio, dalla quale proviene la paura; ma questa selva paurosa Tant’è amara che poco è più morte. ( Inferno, I, v. 7) È tanto amara che la morte è poco più amara. Il che vuoi dire che la paura della morte è ancora più amara della paura suscitata dalla lontananza di Dio. È questa ancor più amara paura a essere inizialmente vinta dalla festa arcaica. Il deserto della morte è dunque ancora più originario del gran diserto (Ibid., v. 64) della selva dove Dante incontra Virgilio. La paura che non è ancora raggiunta e vinta dall’evocazione dell’immagine festiva è essenzialmente più radicale di quella di chi, dopo aver abitato quell’immagine, se ne è allontanato credendo di trovare altrove il rimedio, e teme le conseguenze di questo suo gesto - e tuttavia, anche e proprio per questo suo timore è pur sempre in rapporto con la dimensione festiva e salvifica. Di quel più originario e pauroso deserto, da cui l’uomo ha sempre tentato di salvarsi, parla il canto della Ginestra. Il fiore del deserto il deserto consola. Nel mondo di Dante i perpetui fiori dell’eterna letizia sono lo stato più alto dell’uomo. Ma Leopardi vede l’impossibilità di questa letizia: dal deserto che è il regno della morte non si può uscire. La ginestra è il poeta stesso; il poeta è insieme il filosofo; il genio è l’unità di poesia e filosofia, e questa unità è lo stato più alto che l’uomo può raggiungere prima di essere afferrato dal nulla della morte (e dopo che la tecnica ha invano tentato di salvarlo). Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo, effimero paradiso terrestre; sa di essere il genio. Il genio della ginestra consola il deserto perché sa che non ci si può salvare dal deserto della morte. La consolazione consiste nella poesia pensante, nel pensiero poetante. (Cfr. E. S., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli 1990 e Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli 1997). Nell’incontro di Dante col cielo, all’inizio del viaggio nell’oltretomba, la parola consolazione è invece assente in quanto riferita alla paura del poeta. Dal cielo giunge per lui la salvezza. Quando Virgilio glielo dice, Dante si sente come i fiori che escono dal gelo notturno - e questo suo stato è la prima prefigurazione della rosa dei beati: Quali i fioretti, dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li imbianca si drizzan tutti aperti in loro stelo tal mi fec’io.(Inferno) Dalla paura del gelo notturno al calore eterno - un sol calar di molte brace -, da cui si leva l’unico odore dei fiori dell’eterna letizia. Volendo essere il rimedio contro la paura originaria del dolore e della morte, la festa arcaica vuol essere sempre più potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e oggi si presenta come civiltà della tecnica. Potenziamento crescente della festa, che è potenziamento delfimmagine festiva della lotta in cui la vita consiste. Il potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due vie: quella del contenuto delfimmagine e quella della forma, cioè del modo in cui l’immagine esprime il contenuto. Ma appunto perché la potenza originaria della festa sdoppia la via della propria crescita, appunto per questo l’originaria potenza festiva si indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il sorgere e l’articolarsi del mito; il potenziamento della forma è il sorgere e l’articolarsi di ciò che sarà chiamato arte, poesia, tecnica. Gli abitatori originari della casa festiva tendono a separarsi e la separazione diviene violenta e irreparabile quando il contenuto sapienziale del mito non sa resistere alla propria volontà di sapienza e diventa lògos, ragione, filosofìa. Il mito, infatti, vuole sapere per salvare. Ma la volontà di salvezza è massimamente esigente: richiede che il sapere sia capace di resistere a qualsiasi dubbio; e ciò che possiede in modo assoluto questa capacità è la verità, intesa come i Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere che non può essere in alcun modo smentito. Questo il senso della verità che, lungo l’intera tradizione dell’Occidente, giunge fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In questo senso della verità il pensiero di Dante è essenzialmente immerso, e in modo pienamente consapevole. È questo senso radicale della verità a separarsi dal mito e a scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e dunque l’indebolimento degli abitatori dell’antica casa festiva. Li separa da sé e gli uni dagli altri. Separati, è inevitabile che si trovino estranei gli uni agli altri, dunque sostanzialmente in conflitto e pertanto privati della forza a essi conferita dalla loro unità originaria. Arte, poesia, tecnica, sapienza incominciano a vivere di vita propria. La loro capacità di salvare dal dolore e dalla morte si prolunga, ma indebolita. Pochi oggi credono che la poesia o la filosofia possano salvare dal dolore e dalla morte. E il discorso può essere esteso in consistente misura alla religione. Eppure, per quasi due millenni e mezzo la verità evocata dalla tradizione filosofica è la via lungo la quale procede non solo Finterà cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente. È la diritta via, la verace via di cui parla Dante. Nascendo, la filosofia porta alla luce la forma estrema di ciò che per il mortale è il pericolo: intende il dolore come l’andare nel nulla da parte dei piaceri, e la morte come l’andare nel nulla, da cui non c’è ritorno, da parte della vita intera. E per poter così intendere il dolore e la morte la filosofia deve pensare il significato radicale del nulla e dell’essere. La filosofia salva il mortale perché essa crede che la verità esiga che quanto più conta, nella vita dell’uomo, sia già da sempre salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o addirittura sia quell’Essere, già da sempre salvo dal nulla, che è il divino. In questa concezione del divino si inserivano l’esperienza cristiana e la riflessione teologica su di essa. Dante è uno dei massimi testimoni di questa inscrizione. Ma i testimoni non aggiungono alcunché al testimoniato. Questo significa che Dante non è soltanto un testimone. Si sa che il concetto che Dante possiede della poesia va in direzione opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel che pensa. Pensa che la poesia sia soltanto bella menzogna qualora non si faccia banditrice del vero, testimone della verità che sta nascosta sotto il velame della favola e il favoloso e ornato parlare. Dante pensa della poesia quello che pensa Platone. E anche di tutto il gran volume della sapienza greco-latina- cristiana - comprendente anche la configurazione dell’oltretomba e i viaggi che in esso si possono compiere -, anche di tutto questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già stato pensato, per quanto rilevanti siano alcune sue prese di posizione. Scrive allora la Commedia solo per esprimere in un favoloso e ornato parlare la verità già pensata da altri? Per questo impegna e consuma tutta la sua vita? Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di essenzialmente più decisivo. Anche senza rendersene conto, con la Commedia egli intende produrre la nuova immagine salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il dolore e la morte. Questo suo gesto scuote fino alle radici il grande albero della tradizione. Che Dante scriva la Commedia significa cioè che per lui la grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita a essa conforme hanno una potenza salvifica inferiore a quella della dimensione dove la verità e la vita adeguata alla verità sono il contenuto del canto e della poesia. Bella menzogna e velame della favola, la poesia, quando il suo contenuto non è la verità; ma più potente della nuda verità quando, avendo come contenuto la verità, le conferisce una potenza salvifica ben superiore a quella che la verità possiede di per sé sola. La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti. La difesa di Dante della lingua volgare, su cui egli fa crescere il proprio linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente letterario o astrattamente culturale, ma esprime la coscienza che ad attendere e a tendere alla salvezza della verità sono tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono identificarsi a quella rinnovata immagine festiva, che è la verità della filosofia, solo se tale immagine si presenta non nella sua cruda e astrale concettualità, ma, attraverso un ulteriore rinnovamento, con le parole terrene della poesia. Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il cristianesimo), Dante fa cenno all’antica festa di ritornare presso i mortali. Ciò significa che troppo flebile rimembranza è per lui la liturgia cristiana - in cui peraltro si sente ancora forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa che dalla poesia non possa separarsi la festa della verità e della cristianità - cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria salvezza e la propria destinazione all’eterna letizia. La liturgia cristiana deve diventare liturgia poetica. Questo pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la protezione della cattedrale del passato: scava a fondo nel terreno del suo tempo e sbuca in un altro emisfero. In tale pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva come unità di poesia e di filosofia. Dante non si limita a essere un grande testimone della situazione dove lo scopo dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente concretantesi e la vita a essa adeguata: al di là delle sue convinzioni sulla poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte. Certo, la poesia è terrena; a differenza della nuda verità parla, oltre che ai sapienti, anche agli indotti; mentre nella letizia eterna del paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna letizia la poesia, in quanto indispensabile alla verità, è cioè destinata a scomparire come scompare la fede - giacché la fede è l’assenso alle cose che non si vedono (non apparentia, dice l’apostolo Paolo), mentre nel paradiso le cose si mostrano e non hanno bisogno della fede. Ma perché qui, sulla terra, si libri l’immagine festiva e salvifica è necessario che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche la poesia. E Dante è pur sempre un essere terreno quando giunge al cospetto dei fiori dell’Eterno e della candida rosa. Rispetto alla verità che si mostra nel paradiso, le forme visibili della rosa sempiterna dei beati - Il fiume e li topazii / ch’entrano ed escono e il rider de l’erbe ( Paradiso) - sono forme esterne, preamboli, prefazioni - prefazi - della loro verità, che in qualche modo esse coprono d’ombre (son di lor vero umbriferi prefazi, ibid., v. 78), mentre i beati la contemplano in sé stessa. Ma nella condizione terrena - all’interno della quale Dante pur sempre rimane compiendo il suo viaggio nell’oltretomba - è l’ombra terrena della poesia a illuminare la sapienza del contenuto, a rendere potente l’immagine che salva: a rendere potente la sua forza salvifica e a rendersi quindi indispensabile alla potenza dell’immagine: E vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogni parte si mettean ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive. Poi, come inebriate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge; e s’una intrava, un’altra n’uscia fòri. Come semplice verità della ragione e della fede, l’immagine terrena della beatitudine del paradiso impallisce e dunque non dispiega la propria potenza salvifica se i beati non appaiono insieme nelle forme della poesia: come i perpetui fiori dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del cielo, formano le due rive, dipinte di mirabil primavera, del fiume, fulvido di fulgore, da cui escono di continuo le scintille degli angeli della vita eterna, api che sui fiori depongono rubini nell’oro e che restano a loro volta inebriate da li odori. Imponendo la propria presenza alla liturgia sacra, la liturgia poetica, si è detto, scava nel terreno del tempo in cui Dante vive - e sbuca in un altro emisfero. Di che cosa si tratta? La Commedia apre uno spazio nel quale lo scopo del mortale è l’immagine festiva dove la poesia si unisce alla filosofia - e dove la sophla si dispiega nel kérygma cristiano. Anche se Dante deve chiamare commedia e non tragedia il proprio poetare cristiano, tuttavia la commedia, sulla scia della tragedia attica intende riproporre il clima della festa arcaica - sebbene ormai la festa non possa più prescindere dalla filosofìa, che è peraltro il principio della separazione degli abitatori della casa festiva. Dante pensa come scopo dei mortali la festa, nella forma poetica della commedia filosofico-cristiana. (La tragedia infatti si arrende al dolore e alla morte, dice Platone nel libro X della Repubblica e quindi è la commedia la forma poetica adeguata all’eterna letizia cristiana). San Pietro gli dice: E tu, figliuol, che per lo mortai pondo ancor giù tornerai, apri la bocca, e non asconder quel ch’io non ascondo. (Paradiso, XXVII, w. 64-66) Il riferimento immediato è alla corruzione della Chiesa, ma il contesto imprescindibile di tale riferimento è tutto il contenuto della Commedia : su tutto questo contenuto Dante è convinto di dover aprire la bocca e non nascondere quel che in cielo non è nascosto. Non nasconderlo è proclamarlo appunto scopo dell’uomo. E se lo scopo è il dispiegarsi dell’immagine festiva, nella quale il contenuto filosofico- cristiano deve stare unito alla poesia, allora, questo contenuto, in quanto separato dalla poesia, non è più lo scopo a cui l’uomo deve mirare. Ma quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al messaggio cristiano, è soprattutto questo messaggio a parlare alle genti, e a dir loro che la salvezza si ottiene seguendo Gesù e nient’altro. Ogni altro che si voglia seguire è un secondo padrone; e non si possono servire due padroni. Quaerite primum regnum Dei. Il messaggio cristiano non dice di tendere all’unità del regno di Dio e della poesia. La primarietà che compete al regno di Dio in quanto scopo non include la poesia. La bella menzogna della poesia, il velame della favola poetica, il favoloso e ornato parlare non sono necessari per andare in cielo. La Commedia di Dante, già con la sua semplice esistenza, intende invece mostrare che il viaggio dalla terra al cielo è autentico solo se è avvolto, espresso, sorretto dalla poesia. Unita alla filosofia cristiana, la poesia salva. In quanto separato dalla poesia, il contenuto filosofico-cristiano cessa quindi di essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo per poter cantare la verità, cioè per raggiungere quello scopo che è l’unità della verità e del canto. Cercate per prima l’unità del regno di Dio e della poesia. Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva. Questo è lo straordinario pensiero di Dante - anche se in lui tale pensiero può aver evitato di guardare in faccia sé stesso. Tale pensiero è infatti la perentoria negazione del mondo sapienziale e morale - cioè della filosofia e del cristianesimo - che pure è cantato nella Commedia. Nel pensiero di Dante la salvezza può presentarsi all’uomo in un’immagine salvifica che dev’essere guidata da due padroni, cioè dal mondo cristiano e dalla poesia; e pertanto il mondo cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come indipendente e separato dalla poesia, non appartiene allo scopo dell’esistenza. Tale mondo può essere cioè presente solo come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di mondo cristiano e di poesia, e dunque resta negato, essenzialmente negato, nella sua pretesa di essere l’unico padrone a cui l’uomo debba affidarsi - che è la pretesa evangelica. La Commedia si rivolge al divino - al salvifico - per cantarlo; non canta per rivolgersi al divino. Non canta per rivolgersi al divino, inteso come l’unico padrone che si serve della poesia per mostrare la propria gloria al di sopra di tutto, anche della poesia. Così inteso, il divino non salva. Certo, il canto della Commedia canta il divino, ma, appunto, è il divino che appare nella sua inscindibile unità alla poesia - e che è salvifico solo in quanto è cantato. Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta la grande arte cristiana, da Giotto a Bach e oltre ancora, lungo un processo dove il divino diventerà sempre di più il pretesto perché il canto si levi come unico padrone di ciò che rimarrà dell’immagine festiva sapienzialmente e religiosamente salvifica. Diventa sempre più intenso e perentorio il processo in cui, per il grande artista cristiano, al di sopra di tutto - anche al di sopra del messaggio di Gesù - finisce con Tesserci l’arte; nell’arte egli vede, sempre di più, la salvezza. Quando non si sentirà più cristiano, l’artista crederà di essere lui il vero creatore del mondo. La negazione oggettiva - ossia non intenzionale - del mondo sapienziale della tradizione greco- cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della dominazione di tale mondo. Sussiste, questa dominazione, anche quando le forze della terra, specie quelle pratico- economico-politiche agiscono in direzione contraria alla sapienza e alla morale filosofico-cristiana. Anche questo agire è una negazione di tale sapienza, ma è una negazione che avviene alTinterno del riconoscimento esplicito, da parte dei potenti, che tale sapienza è l’inviolabile guida del mondo. È quindi una negazione in malafede. Video meliora proboque, deteriora sequor. Invece la grande arte cristiana, dunque anche la poesia di Dante, non nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché ancora non sa o ancora non rende esplicito che il suo sentirsi indispensabile a tale sapienza, e alla evocazione delfimmagine salvifica, è in effetti la negazione perentoria del modo in cui il cristianesimo, cresciuto sul tronco della filosofia greca, intende sé stesso. È una negazione che dal sottosuolo preme sul pavimento della coscienza, ma che ancora non lo frantuma e non si rende visibile. L’anima riceve vita. Negazione perentoria ma implicita, dunque; e non solo implicita ma an che soltanto sentita, voluta, vissuta, cioè senza sostegno e fondamento che non sia appunto la prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si contrappone al vecchio, sapienziale - il vecchio modo che però ha alle proprie spalle il fondamento costituito dalla grande tradizione filosofica. Per quanto innovatrice, la negazione della verità della tradizione, da parte della poesia e dell’arte, attende ancora che venga alla luce la necessità di lasciarsi alle spalle la verità che la filosofìa ha portato alla luce e in cui si manifesta il vero senso del divino. Nel tempo del dominio della verità filosofico-cristiana, l’arte cristiana apre la porta alla morte di Dio, ma senza ancora sapere quel che sta facendo e senza riuscire a scorgerne la legittimità e la necessità. È Nietzsche a parlare della morte di Dio - e a fondarla (cfr. sezione prima, cap. V). Ma è innanzitutto il pensiero di Leopardi a scorgere questo fondamento a mostrare la necessità di questa morte, cioè Yimpossibilità di ogni eterno, di ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna letizia. Nonostante tutto, la gigantesca potenza filosofica di Leopardi rimane oggi ancora celata, sebbene fosse stata intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca potenza, qui, non si può dir nulla di determinato e pertanto rinvio ancora una volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il nulla e la poesia: Leopardi; e Cosa arcana e stupenda. Si deve però richiamare che il carattere indissolubile dell’unità di poesia e filosofìa, al quale Dante guarda per primo nel mondo cristiano, forma uno dei temi più esplicitamente, potentemente e diffusamente presenti nel pensiero di Leopardi. Ma è presente nella sua innegabile necessità - cioè appoggiandosi al fondamento, di cui qui sopra si parlava, che invece è assente nella negazione del mondo sapienziale cristiano da parte dell’arte cristiana e dunque della poesia di Dante -, cioè nella negazione che è soltanto volontà di negazione, soltanto volontà di autoaffermazione. E va aggiunto che l’unità di poesia e filosofia è presente nel pensiero di Leopardi con il senso radicalmente nuovo che la filosofia assume quando essa si rende conto delfimpossibilità della verità e del divino evocati dalla tradizione dell’Occidente. Leopardi mostra per primo, aprendo la strada della filosofia del nostro tempo, che l’uomo non può salvarsi dal nulla. La verità, ora, è questa, terribile. Ci si è anche rallegrati, nella cultura degli ultimi due secoli, della morte di un Dio divenuto più angosciante della paura da cui egli avrebbe dovuto liberare. Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci si rende conto che nessuna opera umana potrà mai salvare l’uomo dal nulla. Il contenuto del mito consente al mortale di sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che, sebbene unito agli altri tratti dell’immagine festiva, più le conferisce la potenza salvifica e dunque la letizia per la quale la festa si configura come lo scopo supremo del mortale. La filosofia porta il mito al tramonto, ma nella tradizione dell’Occidente ne diventa anche l’erede. La filosofìa della tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola significa appunto festa. Ma quando la filosofia scorge, e innanzitutto nel pensiero di Leopardi, che la verità innegabile è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla, allora la verità della filosofia non può più dare alcuna letizia. Leopardi vede dapprima che la conoscenza della verità rende estrema e insopportabile l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale può esserci, sia pur breve, un tempo di letizia, cioè di festa, questo deve nascondere la verità e non essere altro che bella menzogna - che dunque può essere solo umbrifera, apportatrice di ombre che oscurano e che non possono essere, come in Dante, prefazii della verità. Ma dopo questo primo modo di intendere la poesia Leopardi si avvede anche, ben presto, che ormai non solo rintelletto, ma nemmeno la fantasia può lasciarsi ingannare dalla poesia e che dunque è inevitabile che anche e soprattutto nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato di questa consapevolezza è che l’unico tratto festivo e caducemente salvifico concesso al mortale è la potenza con cui la poesia esprime la nullità dell’uomo. Il genio è il produttore: gignens. Genera quanto ormai, eco lontana, è possibile ripristinare dell’immagine salvifica della festa. Volgendosi all’opera del genio, - dice Leopardi nel pensiero 259-61 dello Zibaldone - l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria. Questa vita è appunto quanto rimane dell’antica letizia della festa - le opere del genio, scrive Leopardi in quel pensiero dello Zibaldone, riaccendono l’entusiasmo, sono consolazione che apre il cuore e ravviva ma tale vita e forza festive posseggono la potenza dell’immagine in cui il genio presenta la terribile verità innegabile della filosofia, cioè la morte e la nullità dell’uomo e di tutte le cose. L’immagine prodotta dal genio unisce la poesia alla filosofia, ma è la potenza della poesia a consentire al mortale di sollevarsi ancora per un poco al di sopra del nulla che si mostra nella verità terribile della filosofia. Nel genio, l’unione di filosofia e poesia è l’ultimo modo in cui, col disincanto rispetto alla tradizione cristiana, è concessa al mortale l’aura festiva di una passeggera letizia. Il pensiero di Leopardi mostra cioè che quando sarà manifesta l’incapacità della tecnica di salvare l’uomo dal nulla, resterà quell’ultima forma di tecnica che è la poesia pensante del genio, l’ultima festa - l’ultimo quasi rifugio, dice Leopardi - a cui tendere prima del silenzio nudo e della quiete altissima della morte. Il genio è la ginestra, il fiore del deserto. La ginestra siede tra le rovine del deserto che il vulcano ha steso attorno a sé: una ruina involve dove tu siedi, o fior gentile. come il genio, cioè Leopardi, siede a notte sulle rive del flutto indurato della lava: Sovente in queste rive; che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che ondeggi, seggo la notte. Il lume divino, le scintille del fiume di fuoco dell’amore divino fulvido di fulgore, intradue rive dipinte di mirabil primavera. è ormai divenuto il flutto indurato della lava, sepolcro che sigilla, copre e a bruno veste la vita annientata dal fuoco del vulcano. La mirabile primavera delle rive del paradiso è vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio, siede tra le rovine delfeterno. Esse sono il deserto. Ma Inodorata ginestra, che è la nobile natura del genio, è contenta dei deserti: guarda in faccia il deserto del nulla e, sapendo di non potervisi sottrarre, ne è contenta, cioè non si illude di poter aver altro, non si sente il perpetuo fiore dell’eterna letizia che d’eternità s’arroga il vanto. La nobile natura del genio della ginestra tien ferma dinanzi agli occhi la verità terribile, non le sottrae nulla, non distoglie lo sguardo dal fato comune del nulla: Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al cumun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale. Non detrae nulla dal vero in cui appare l’essenziale nullità deH’uomo; ardisce sollevare lo sguardo mortale sulla verità: questa forma intransigente di volontà di verità è l’essenza della filosofia del nostro tempo. Leopardi la inaugura. Ma la franca lingua che nulla detrae alla verità è la libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che mostra l’impotenza dell’essere e dell’uomo. Senza la potenza poetica l’uomo è subito risucchiato nella pietrificata contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un poco nell’ultima eco dell’aura festiva, unendo dunque filosofia e poesia. La ginestra non detrae alcunché alla verità angosciante della nullità del tutto; e tuttavia il can i. C’è uno scambio delle parti già a partire dal fiore della poesia, che da mezzo per mostrare la verità diventa fine; per arrivare alla tecnica, che, da mezzo per realizzare gli scopi delle grandi forze dell’Occidente è destinata a diventare il loro scopo. Anche le pagine che seguono possono essere lette come un contributo a una fenomenologia, finora solo abbozzata nei miei scritti, di questo scambio delle parti. Il problema del fiore della poesia conduce dunque al problema della tecnica. Oggi se ne continua a discutere. Ma se ne discute rimanendo all’interno della dimensione che ha reso possibile qualcosa come la festa, la tecnica, la poesia, il mito, la filosofia, il cristianesimo, la scienza. Si rimane all’interno della dimensione dove l’uomo percepisce sé stesso come un mortale, che in preda alla morte e al nulla ha bisogno di salvarsi. Siamo proprio sicuri che questa dimensione, in cui l’intero pianeta è ormai completamente immerso, non debba finalmente esser messa essa stessa in questione? Siamo proprio sicuri che l’eterna letizia non possa avere altro significato che quello che la tradizione le ha conferito? Al di là di questo significato, noi siamo perpetui fiori dell’eterna letizia, ma non nel senso che è stato inevitabilmente distrutto dal pensiero e dalla cultura del nostro tempo. Il senso autentico dell’eternità del Tutto è abissalmente lontano dal senso che l’eterno possiede nella tradizione filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che possa essere rintracciato in qualche altra forma di civiltà, diversa da quella dell’Occidente - anche se esso risplende nel fondo di ogni uomo. Nel paradiso della tecnica, la tecnica può essere guidata e animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si unisce alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in entrambi i casi, per quanto alta possa essere la luce del tramonto, è inevitabile che ci si renda conto dell’essenziale incapacità del mortale di vincere il nulla - ossia di vincere il divenire, il contenuto della fede, cioè della volontà che le cose siano un uscire dal nulla e un ritornarvi. Comunque si configuri, il paradiso della tecnica è cioè destinato all’angoscia estrema. Può essere quello, allora, il tempo in cui l’uomo incomincia a volgersi verso il senso inaudito dei fiori dell’eterna letizia. Esso non è un futuro da produrre e da creare. Già da sempre attende di essere condotto fuori dall’ombra: già da sempre attende che tramontino le ombre che attirano su di sé la cura dei mortali, lasciando fuori del linguaggio (e, in questo senso, nell’ombra) la luce piena di quel senso inaudito. Nella sua essenza il cristianesimo è una grande religione della salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui sarà salvo. La fede, peraltro, può ottenere la salvezza solo se la vuole, e solo se, d’altra parte, questo volerla non è un atto di imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio la salvezza è pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è quindi la preghiera, così intesa. Appunto per questo Tertulliano dice che la preghiera insegnata da Gesù è veramente la sintesi di tutto il Vangelo. Alla fine del Vangelo di Marco (16, 16-17) Gesù dice: Chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato. Ma prima di questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come Gesù abbia unito strettamente e sorprendentemente il tema del credere a quello della preghiera. In quanto inseparabile dalla fede, la preghiera sta dunque al centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice. Abbiate fede in Dio. In verità vi dico che se qualcuno dirà a questa montagna: “Togliti di lì e gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et non haesita = verit in corde suo], ma crederà che quel che dice s’abbia a compiere [fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede [credite] di ottenerle e le otterrete [et evenient vobis]. E quando vi accingete a pregare, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni i vostri peccati. Marco accenna subito dopo a quello che a suo avviso è il centro della preghiera insegnata da Gesù, ma non lo sviluppa. Essa è invece compiutamente riportata nel Vangelo di Matteo (6, 9). In questa concezione della preghiera è presente un grande sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda a Dio qualcosa, per esempio di essere aiutato in una certa circostanza, ma che in un primo tempo Dio ritenga di non dargli ascolto; e che tuttavia quell’uomo insista, sino a che, alla fine, riesca a ottenere quel che voleva. Se ci si chiede che Dio sia mai questo, la risposta è scontata: non è il Dio delle religioni monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non può esserlo, perché se alla fine egli cambiasse parere ciò accadrebbe o perché quell’uomo è più potente di lui, oppure perché alla fine Dio si renderebbe conto di aver avuto torto a non dargli ascolto subito. Ma un Dio che è meno potente di un uomo o che può aver torto non è, appunto, il Dio del monoteismo, non è il Dio di Gesù. Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si prega Dio di avere da lui qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere esauditi. Egli è l’Onnipotente. A Dio si può chiedere dunque solo quel che egli vuol dare. Si può volere solo quel che egli vuole. Appunto per questo, Gesù insegna a dire, nella preghiera: Sia fatta la tua volontà. È sul fondamento di questo decisivo sottinteso che va interpretato il senso deH’affermazione paradossale che la fede muove le montagne e che, se uno riesce ad avere la forza (si potes) di credere, tutte le cose sono possibili per lui (omnia possibilia sunt credenti, Me., 9, 23). Se avendo fede si ottiene il massimo, cioè la salvezza eterna, si può anche ottenere tutto il resto. Purché sia voluto da Dio, l’Onnipotente. Già Platone, dando forma filosofica al mito biblico, afferma che Dio è tecnica divina, cioè la più potente. Inoltre, se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un comandare all’uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che creda. E quindi, pregando, l’uomo deve innanzitutto chiedere, senza aver dubbi, di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo. (Chiedendo di credere, chiede insieme di non aver dubbi intorno a questa sua richiesta. Si può mostrare che chiedere con fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal punto di vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio vuole, non può non ottenerlo, perché Dio è l’Onnipotente. Da quel punto di vista, la fede che muove le montagne non è un paradosso. Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo non solo ottiene ciò che vuole, ma sa di ottenerlo, perché non può non sapere di voler quello stesso che è voluto da Dio, che è l’Onnipotente. E non spezza nemmeno in due quella preghiera, come se nella prima parte di essa egli voglia che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole lui - il pane quotidiano, la remissione dei debiti; la liberazione dal male ecc. Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre vuole che l’uomo abbia il pane. Lo stesso si dica per gli altri doni richiesti. Anche per quello che è espresso dalle parole e perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. Infatti nella preghiera autentica l’uomo può chiedere di essere perdonato solo se sa che Dio vuole perdonarlo. E lo sa per lo meno perché crede che sia il Figlio di Dio a comandargli di chiedere al Padre di essere perdonato, e il Figlio non potrebbe comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare l’uomo. La preghiera di Gesù contiene dunque anche l’implicazione, vincolante e compromettente, tra il perdono per i propri debiti, che un uomo chiede a Dio, e il perdono, da parte di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi confronti. Perdonami come io perdono, dice quell’uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti che gli altri hanno contratto nei suoi confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto che riguardi lui solo, cioè dove Dio lo lasci solo a compierlo? No. Lasciarlo solo vorrebbe dire, per Dio, non volere che l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non perdoni: starsene in disparte lasciando che sia l’uomo a trovar la forza che lo può salvare eternamente - visto che se non perdona non è perdonato. Ma in questo modo l’uomo dovrebbe volere qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a cui è indifferente. Verrebbe meno, allora, il principio per il quale l’uomo può ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che Dio, dopo aver detto all’uomo che se non perdonerà non sarà perdonato lo lasci solo a raccogliere le forze che gli occorrono per riuscire a perdonare le offese ricevute dal prossimo. Tutto questo significa che - quando, nella preghiera di Gesù, l’uomo chiede a Dio di perdonare i propri debiti come egli perdona quelli dei propri debitori - è necessario che l’uomo creda che Dio vuole che egli abbia la forza di perdonarli. Anche il perdono delle offese è dunque qualcosa che l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è voluta da Dio, e che quindi egli otterrà anche questa capacità (più diffìcile da avere che non la capacità di muovere le montagne). L’uomo è salvo solo se ha fede nel Liglio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole quello che è voluto da Dio, e la preghiera è quel mettersi in rapporto con Dio, dove non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole effettivamente, cioè si perdona il prossimo, lo si ama, e si fa tutto ciò che Dio prescrive. E volendo tutto questo si è convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia capace di ottenere quel che vuole. Chi vuole che sia fatta la volontà di Dio è il giusto, il buono, il santo, ossia è quel che Dio vuole che egli sia. Ma è anche necessario che egli sia convinto di essere il giusto, il buono, il santo, perché se fosse incerto di esserlo sarebbe in dubbio anche sul proprio star volendo quel che Dio vuole. Chi si trova in questo dubbio ammette la possibilità di star volendo qualcosa di non voluto da Dio; dunque non vuole quel che Dio vuole e quindi non può nemmeno credere di ottenerlo. Volere qualcosa, infatti, è credere di volerlo. Se non si crede di volerlo non lo si sta volendo ma si resta incerti se lo si voglia o meno, non ci si trova cioè nella condizione di chi, pregando, riesce a muovere le montagne. Convinto di essere il giusto che perdona le offese e ama il suo prossimo, chi prega nel modo dovuto agisce nel mondo e si imbatte in situazioni via via diverse, portando sempre con sé quella convinzione. (Altrimenti abbandonerebbe l’insegnamento di Gesù.) Agisce nel mondo, cioè nella polis. La politica è appunto questo suo agire tra gli individui, le istituzioni, i gruppi sociali. Per Gesù la politica è innanzitutto perdonare le offese e amare. Ma che una certa azione sia un’offesa, una cert’altra sia un perdono e una cert’altra ancora sia una forma di amore è chi agisce nel mondo a doverlo decidere. A questo punto chi presta ascolto alla parola di Gesù si trova davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo in cui egli decide di considerare offesa, perdono, amore certe azioni sia esso stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non può più credere - in relazione alle valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve adottare nel mondo - nell’identità tra la volontà propria e quella di Dio: rinuncia a credere e quindi a pregare nel modo autentico; rinuncia pertanto alla propria salvezza (perché solo chi crede sarà salvo). Sul piano politico è la rinuncia a ogni progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso crede che ogni sua azione privata o pubblica sia la volontà di Dio e che quindi egli sia il giusto, il buono, il santo che sa capire quando un’azione è offesa, perdono, amore e dunque sa realizzare il regno di Dio in terra. Non ammette che sia per un equivoco che egli giudica come offesa un’azione; né può ammettere che nel proprio agire non sia presente il vero perdono e il vero amore, conciliabili con la punizione del colpevole che non può essere che giusta. Sul piano politico è, questo, il passo decisivo verso la teocrazia, che è il regno di Dio in questo mondo, mentre Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo. Certo, chi ha l’intenzione di essere cristiano tenta di ritrarsi da ciò a cui conducono entrambe queste strade (anche se entrambe sono una tentazione costante). Tenterà di camminare un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Ma anche in questo modo tradirà la propria fede, non ne salverà la coerenza. Non sono infatti, quelle indicate, le conseguenze del rapporto che nei Vangeli viene istituito tra il credere e il pregare? Lo scambio delle parti che si presenta nella preghiera di Gesù è una delle più potenti anticipazioni dello scambio in cui la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù l’uomo prega Dio, la Potenza suprema, per salvarsi: la salvezza è lo scopo, la Potenza divina il mezzo. Ma anche Gesù fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura il mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè assunto da un essere bisognoso di salvezza, quindi debole, finito, mortale quale è l’uomo, indebolisce e vanifica il mezzo (la Potenza) e pertanto pregiudica la propria realizzazione. Anche Gesù fa capire che l’uomo deve porre come scopo non il soddisfacimento dei propri bisogni ma la volontà di Dio (Sia fatta la tua volontà). In questo modo gli sarà dato tutto il resto. È, questo, uno dei modelli più rilevanti della situazione in cui l’uomo, dopo aver tentato di servirsi della tecnica, capisce che, per salvarsi, deve dire anche alla Tecnica: Sia fatta la tua volontà, non la mia, che, posta come scopo (volontà capitalistica, comunista, cristiana, democratica ecc.), non ha la potenza della Tecnica e quindi, condizionandolo, indebolisce il proprio mezzo, ostacolando in tal modo sé stessa. Sennonché, ponendo come scopo la Tecnica, la volontà cessa di essere ciò che intendeva essere, giacché per essere ciò che intendeva essere doveva essere scopo. Nello stesso modo, si è visto, pregando autenticamente, il cristiano è costretto a imboccare quelle due strade che lo portano a non esser più cristiano. Proprio per aver fede in Gesù e quindi per pregare autenticamente, per salvarsi, il cristiano non può più essere cristiano. Non lo è, sia facendo la propria sia facendo la volontà di Dio. È indubbio che chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma non è nemmeno vero che chi perderà la propria vita per amor mio [héneken emou, cioè avendo me come scopo, dice Gesù, Me., 8, 35] e del Vangelo, la salverà. Lo scambio delle parti dove la Potenza, da mezzo, diventa scopo e quindi salvifica, non salva, giacché la vita, intesa come vita autentica, cioè cristiana, è perduta anche quando, dopo che la si è perduta, Gesù assicura che la si sia salvata. È perduta lungo entrambe le strade, qui sopra indicate, che chi vorrebbe esser cristiano è costretto a imboccare. Proprio perché, per raggiungere la salvezza, ci si serve di ciò che si considera come la Potenza suprema (teologica o tecnologica), proprio per questo non ci si può salvare; ma non ci si salva nemmeno assumendo come scopo la Potenza suprema, perché, rispetto alla Potenza teologica, la volontà che intenderebbe esser cristiana non può esserlo e, rispetto alla potenza tecnologica, la volontà che vorrebbe essere scopo, cioè volontà capitalistica, comunista, democratica, totalitaria, cristiana ecc., cessando di essere scopo, non può più essere ciò che essa intende essere. Continua ad aumentare la pressione dei popoli poveri su quelli ricchi. Non si tratta solo di spostamenti di masse umane, determinati dal bisogno elementare di sopravvivere. Da sempre, infatti, l’uomo interpreta la propria sofferenza. Il modo in cui soffre nel corpo e nell’anima e tenta di uscirne dipende da ciò che egli crede di essere, dal modo in cui interpreta la propria vita. Cultura è innanzitutto questo credere. Per quanto ne sappiamo, in questo credere sono sin dall’inizio presenti gli dèi. L’uomo crede di essere un vivente che è in pericolo e che sta in rapporto con misteriose potenze che lo possono aiutare o schiacciare. Il senso della cultura è legato a quello della coltivazione e del culto. La pressione dei poveri sui ricchi è cioè un fenomeno eminentemente culturale. Gran parte dell’immigrazione è islamica. Il culto dei poveri è diverso da quello cristiano in cui, almeno formalmente, i Paesi ricchi si riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam a essersi posto alla guida dell’interpretazione della sofferenza e della fame dei poveri. In quest’ultimo decennio si è reso altrettanto visibile - sebbene non nelle forme drammatiche della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato vigore della Chiesa cattolica. Si tratta di un fenomeno ambivalente, perché da un lato la Chiesa non può non vedere nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità, dall’altro non può non avvertire che l’islam è anche l’avversario dove la religiosità dei fedeli è molto più convinta di quella cristiana (non dice forse la Chiesa che l’Europa è terra di missione?), tanto da alimentare quel fondamentalismo che convince individui a immolare la propria vita per il trionfo della causa. D’altra parte non è nemmeno possibile affermare che l’ambivalente tensione tra islam e cristianesimo è il fenomeno culturale che più determina la fisionomia degli ultimi decenni. Se non altro perché la modernità, contro cui cristianesimo e islam si trovano alleati, esiste. La tecnica, che è impensabile senza la cultura moderna, stupisce il mondo. Tuttavia la tecnica sta procedendo senza guardarsi le spalle, cioè senza sapersi difendere dalle critiche della tradizione occidentale, che la accusano di violare limiti inviolabili. Un gigante, la tecnica, che tocca il cielo, ma che rimane incapace di interloquire con chi gli dice che il cielo non va toccato. Intendo dire che chi potrebbe rendere il gigante capace di replicare è la punta estrema della modernità, ossia quella essenza, prevalentemente nascosta, della filosofìa del nostro tempo che è in grado di mostrare l’inesistenza di ogni inviolabile e che quindi il gigante è legittimato a toccare il cielo. E tuttavia quell’essenza è come l’arco di Ulisse, che nessuno dei Proci è in grado di tendere. Da un lato, pertanto, la potenza cieca della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi impotenti del laicismo contemporaneo, che andando avanti così non riuscirà mai a possedere Penelope, cioè a dominare il mondo, lasciando ancora a lungo la scena alla coscienza religiosa. Nel nobile modo in cui Benedetto XVI ha espresso la sua rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del cristianesimo: il cristianesimo si trova oggi in un mondo soggetto a rapide mutazioni e turbato da questioni di gran peso per la vita della fede (in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis prò vita fidei perturbato ). Rispetto a questo problema, che un pontefice dichiari di non avere più le forze per affrontarlo è un tema che, nonostante la sua rilevanza e pertinenza, passa in secondo piano. Nel testo, la parola pondus (peso) compare tre volte: come peso delle questioni riguardanti la vita della fede, come peso del gesto di rinuncia e come peso del ministerium che viene lasciato per il venir meno delle forze. Ma solo il primo peso vien detto grande: la vita della fede è oggi gravata da questioni di gran peso ed è essa stessa turbata dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano (tanto meno un pontefice) non può riconoscere che il turbamento della fede è ben più profondo di quello visibile, dovuto alla corruzione alfinterno della Chiesa. Il turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la fede religiosa, ma anche quelle altre forme di fede ancora dominanti (e che non amano sentirsi dire che sono a loro volta fedi). Mi riferisco soprattutto al capitalismo, alla democrazia, al capitalismo-comunismo cinese, o, in Iran, alla mescolanza di teocrazia e capitalismo; e il comuniSmo sovietico, come il nazismo, era tra le più rilevanti di queste forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di eliminare le proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere l’inevitabilità del proprio tramonto. Non è una metafora né un’iperbole fuori luogo affermare che ognuna di esse si sente un dio che deve distruggere gli infedeli. Ma, come la fede religiosa, anche la vita di queste altre forze è gravata da questioni di gran peso - da questioni che fanno intravedere l’inevitabilità di tale tramonto. Certo, un pontefice deve credere che il cristianesimo durerà fino alla fine del mondo. Ma la gran questione è se quelle forze - dunque anche il cristianesimo - si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le travolge. Il relativismo è stato l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo concettuale e l’ingenuità del relativismo ne favoriscono infattila diffusione presso le masse, e tale diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita della fede. Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente all’avversario autentico quando individuava negli inizi della filosofia moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi mali del XX secolo, quali le dittature del comuniSmo e del nazionalsocialismo, o l’egoismo dell’economia capitalistica. In questa prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso come un parto di quella matrice. Ma tutte queste interpretazioni non riescono ancora a guardare in faccia l’avversario autentico. Riusciranno le varie forme di fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere un po’ più a lungo, non accada loro di combattere i nani, quando invece il gigante pesa già su di esse e toghe loro il respiro? Il gigante che possiamo chiamare Prometeo. Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni cenni; doppiamente insufficienti perché a chi sta per morire, e non vuole, è estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla propria morte. All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere all’uomo il respiro, impedendogli di vivere. L’uomo può incominciare a vivere solo se vuole trasformare sé stesso e il mondo da cui è circondato. Se non fa questo non può nemmeno compiere quella trasformazione di sé che è il respirare in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo nella Barriera che gli impedisce di trasformare sé e il mondo. La Barriera è l’Ordine immutabile della natura. Solo se la penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli vuole. La Barriera è l’altro gigante: il Tremendum (per servirci, ma per altri scopi, dell’espressione di Rudolf Otto). Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché l’uomo può incominciare a vivere solo se domina le parti della Barriera frantumata, e se ne ciba - così come Adamo, cibandosi del frutto proibito, frantumando cioè l’icona stessa del divino, può diventare Dio ( eritis sicut dii, sarete come dèi, dice il serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il tratto essenziale del sacro, del divino, del Dio. La Barriera divina vive inviolata solo se uccide l’uomo; l’uomo vive soltanto se uccide Dio. Il fuoco è il simbolo essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco - uccide l’inviolabilità degli dèi - per darlo all’uomo. Prometeo è l’uomo. Soprattutto da due secoli egli è l’avversario della tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e che su questo meritarlo si fonda tutto ciò che più salta agli occhi, ossia l’allontanamento della modernità e soprattutto del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla vita della fede. (In questo contesto, la corruzione della Chiesa è più grave di tutte le forme passate del suo degrado.) Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia ciò la cui esistenza è considerata innegabile anche da chi si è alleato con Dio. Giacché, dopo l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata, ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e l’uomo della tradizione lo ha trovato meno tremendum e più fascinans, e gli si è alleato, diventando uomo di fede, non solo cristiana ma anche quella degli dèi - delle barriere - in cui consistono le forze (sopra menzionate) via via dominanti nel mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco dell’alleanza dell’uomo con Dio. È la potenza di questo furto a nascondersi, per lo più inesplorata, sotto le rapide mutazioni del nostro tempo, turbato da questioni di gran peso per la vita della fede. Una delle radici dello Stato moderno è il desiderio dell’uomo di sottrarsi all’imprevedibilità della vita facendo funzionare lo Stato come una macchina tecnicamente razionale a cui viene riconosciuto il monopolio della forza e che quindi consente a ognuno di calcolare in anticipo le conseguenze delle azioni proprie e altrui. Così si esprime Max Weber; ma questa constatazione risale a Hobbes. Allo Stato si chiede di eliminare il più possibile il rischio del vivere. Anche il capitalismo è un calcolo razionale (a differenza delle forme violente di acquisizione della ricchezza). Tuttavia è anche rischio, scommessa, imprevedibilità delle conseguenze dell’agire. Due componenti inseparabili, fino a che il capitalismo esiste nella sua forma tradizionale. Il talento dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di vista scientifico è imprevedibile: la forma relativamente più remunerativa di investimento. A sua volta, il talento è inseparabile dalla fortuna. Il più capace degli imprenditori, se è sfortunato, non è veramente capace. È vero: oggi si sa che una teoria scientifica non è valida se non è confermata e che tale conferma è una forma di fortuna, una circostanza felice. Ma l’imprenditore capace deve avere una fortuna incomparabilmente più grande di quella sinora richiesta per le teorie scientifiche: egli ha tanto più successo quanto più rischia, cioè si lascia alle spalle - in base alle proprie intuizioni - le precauzioni della razionalità scientifica - che essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro adottabili anche dalla concorrenza. Sebbene siano entrambi macchine tecnicamente razionali, Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque in direzioni opposte: azzeramento e moltiplicazione del rischio. La tendenza verso lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato - non è soltanto un fenomeno italiano. Alla sua base sta il crescente potenziamento dell’economia e il crescente indebolimento dello Stato moderno. Ciononostante, a quel potenziamento corrisponde non solo l’indebolimento dello Stato, ma anche quello della produzione economica legata principalmente al rischio, al talento e alla fortuna del singolo imprenditore. La macchina economica tende cioè a diventare l’erede della macchina statale e del compito, proprio di quest’ultima, di garantire gli individui dal rischio del vivere. Contro l’oppressione di uno Stato sempre più obsoleto rispetto ai bisogni della società civile, le destre mirano invece, ancora, a un’azienda-Stato diretta da ultimo (sebbene non esclusivamente) da uno o più superimprenditori capaci di rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in questo modo si mira a qualcosa che corre a sua volta il rischio di diventare obsoleto prima di nascere. Lo Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a rischio. Certo, in democrazia l’elettorato ha il diritto di rischiare e di imporre il rischio alle minoranze, credendo che la fortuna continuerà ad accompagnare i superimprenditori statali. Però è opportuno sapere quel che si sta facendo. La difesa dello Stato tradizionale contro le prevaricazioni dell’economia è invece propria delle sinistre. Che a loro volta stentano a comprendere la tendenza, di cui si è detto, che conduce dalla macchina tecnicamente razionale dello Stato a quella di una economia sempre più simile alle procedure scientifiche e sempre meno bisognosa del carisma e della fortuna di certe persone - la presenza delle quali può peraltro costituire un passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre credono nella necessità di rafforzare l’iniziativa privata; e la concezione minimalista dello Stato non equivale, per le destre, alla soppressione di esso. Tuttavia le sinistre continuano a credere nella capacità dell’apparato giuridico statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello Stato può essere superata restando all’interno della politica. Ma si vuol riflettere sul fatto che la macchina dello Stato e quella economica sono tecnicamente razionali? Non è già significativo che tanto lo Stato moderno quanto il capitalismo siano considerati delle macchine? Si tratta di comprendere che è la tecnica a conferire potenza agli Stati e alle economie. E si è richiamato che nel suo significato più autentico la tecnica è la potenza che presta ascolto alla voce del pensiero filosofico degli ultimi due secoli - alla voce cioè che mostra l’inesistenza di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo e innanzitutto all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con un ozio astratto: è la condizione che consente all’operatività tecnica di accrescere indefinitamente la propria potenza. Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del vivere, non sarà più né la forma tradizionale dello Stato, né lo Stato-azienda, ma la tecnica, di cui entrambi hanno così bisogno da doverla togliere dalla sua funzione di mezzo per assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato o lo Stato-azienda che si servono della razionalità tecnologica, ma quest’ultima che si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi siano diventati mezzi: mezzi di cui la tecnica può servirsi per accrescere il proprio dominio sul mondo. Se a questo punto si vuol usare ancora la parola politica, si può dire che la grande politica è destinata a restare estranea alle destre e alle sinistre mondiali sino a quando non comprendono l’inevitabilità della rotazione che dalla dominazione dello Stato e dell’economia conduce alla dominazione della tecnica. In uno dei suoi significati economici più importanti la collaborazione -- di Grice, ‘the principle of conversational helpfulness – efficenza e solidarieta -- riguarda oggi, nel sistema capitalistico, il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori (nel senso più ampio di questo termine). Con la fine del socialismo reale è finita anche, nelle società avanzate del pianeta, la volontà di soffocare questa forma di collaborazione e di sostituirla col suo opposto, cioè con la lotta di classe. La collaborazione riguarda il rapporto tra gli interessi di chi lavora e quelli del capitale. Quest’ultimo collabora con gli interessi dei lavoratori quando non si propone soltanto il proprio interesse, cioè l’aumento del profitto, ma anche la salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A sua volta, il lavoratore collabora con gli interessi del capitale quando non si propone soltanto di aumentare il proprio tenore di vita, ma anche il rafforzamento dell’intrapresa in cui egli si trova ad agire. Il primo tipo di collaborazione conduce alla solidarietà; il secondo all’effìcienza. Fino a questo punto, si può credere che, sia nell’ambito del capitale sia in quello del lavoro, quando esiste la collaborazione di cui stiamo parlando, ci si proponga, in egual modo, la sintesi di efficienza e solidarietà - la sintesi in cui, appunto, consiste tale collaborazione e si può credere che il centro del problema stia nel saper realizzare le condizioni che conducono alla collaborazione. Ma in questo modo si va fuori strada: non si scorge la configurazione autentica del problema e ci si priva degli strumenti per poterlo affrontare. Visibilissima in tutte le società avanzate, la lotta tra capitale e lavoro ha quasi completamente perduto i connotati della lotta di classe marxista; ma non si estingue con la realizzazione di quella sintesi di efficienza e solidarietà che sarebbe perseguita in egual modo dalle forze lungimiranti del capitale e del lavoro: non vi si estingue, perché essa si ripropone a causa del diverso modo in cui tale sintesi è perseguita da queste due forze. Oggi si tende a mascherare questa diversità. Per esempio dicendo che efficienza e solidarietà devono alimentarsi in una circolarità virtuosa - una espressione che si è fatta strada tanto nel mondo imprenditoriale, quanto nel mondo cattolico (o, in generale, cristiano) e in quello delle sinistre. Nella alimentazione circolare i due elementi in circolo sono posti sullo stesso piano. Ma è un’apparenza, come è un’apparenza la virtù del circolo. Infatti, dal punto di vista del capitale i livelli di solidarietà (quelli cioè fino e non oltre i quali può essere spinta la solidarietà) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali il capitale ritiene che l’efficienza (cioè l’incremento del profitto) non possa scendere. Ma dal punto di vista del lavoro i livelli di efficienza (cioè fino a che punto debba essere promosso lo sviluppo economico) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali chi lavora ritiene di non poter far scendere il proprio tenore di vita e la qualità della propria vita. Nel primo caso la collaborazione di efficienza e solidarietà ha come scopo primario e dominante l’efficienza; nel secondo caso la collaborazione ha come scopo primario e dominante la solidarietà. Nel primo caso la solidarietà è un mezzo per realizzare l’efficienza; nel secondo l’efficienza è un mezzo per realizzare la solidarietà. In entrambi i casi le due semicirconferenze della circolarità virtuosa sono diseguali, si alimentano in modo diseguale, la circolarità è claudicante, cioè viziosa. I due avversari possono gettarsi a vicenda polvere negli occhi, invocando ed elogiando la collaborazione. Ma quando la Chiesa cattolica dichiara che il profitto deve avere come scopo il bene comune della società pensa a una sintesi di efficienza e solidarietà, cioè a una forma di collaborazione, dove lo scopo dell’agire economico è la solidarietà e l’efficienza è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista afferma che non si può dire a un capitalista “limita il tuo guadagno”, perché un imprenditore deve produrre ricchezza e quanto più lo fa, più opera per il bene della società, il capitalista che parla così pensa a una sintesi di efficienza e di solidarietà, cioè a una forma di collaborazione dove invece lo scopo dell’agire economico è l’efficienza e la solidarietà è il mezzo per realizzarla. In entrambi i casi, come si è detto, la collaborazione è una circolarità viziosa, dove ognuno dei due fattori circolanti tende a fare dell’altro il proprio alimento evitando di diventare a sua volta l’alimento dell’altro. Ciò significa che la collaborazione è un paravento, una maschera che più o meno consapevolmente nasconde il proprio opposto, ossia la lotta, l’opposizione, il conflitto irrisolto. Si evita di riconoscere che se la collaborazione tra interessi del capitale e interessi del lavoro esistesse per davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far posto all’altro, e pertanto non esisterebbe più né il senso autentico dell’intrapresa capitalistica, né il senso autentico del lavoro; e che se invece questi due fattori esistono per davvero - come in effetti esistono storicamente per davvero -, allora ognuno dei due vuole diventare lo scopo dell’altro e ridurre l’altro alla funzione di mezzo, e in questo caso il loro alimentarsi in una circolarità virtuosa svanisce, cioè svanisce la loro collaborazione. Si tratta infatti di comprendere che se lo scopo dell’agire economico è la sintesi di quei due fattori - ossia è la sintesi costituita dalla loro collaborazione -, allora, in questa loro sintesi, ognuno dei due limita l’altro, gli impedisce di espandersi sino a diventare l’unico scopo, e quindi ne distrugge la configurazione originaria. Se un uomo (fuor di metafora: l’agire economico) ama due donne (fuor di metafora: la crescita del profitto e la solidarietà), e crede che il suo amore per l’una e il suo amore per l’altra abbiano a collaborare, cioè ad alimentarsi in una circolarità virtuosa, quest’uomo si inganna, perché l’amore che darebbe a una se non ci fosse l’altra non può esserci più quando oltre a quell’una ama anche l’altra. Se i due amori si alimentano virtuosamente e collaborano, ognuna delle due donne è meno amata, l’amore vero, esclusivo che ci sarebbe potuto essere per lei è andato perduto; se invece questo amore vero ed esclusivo rimane, allora esso non potrà più dividersi tra le due donne e cioè l’amore vero ed esclusivo per l’una finirà inevitabilmente col detronizzare e vanificare l’amore vero ed esclusivo per l’altra. Fuor di metafora: o efficienza e solidarietà collaborano, ma allora non ci sarà più né capitalismo - cioè volontà di non limitare il proprio guadagno - né dottrina sociale della Chiesa o delle sinistre, che, sia pure in modo diverso, non intendono limitare la realizzazione del bene comune, sacrificandone parti o aspetti al profitto; oppure efficienza e solidarietà mantengono i caratteri che storicamente sono loro propri e per i quali ognuna di queste due forze intende essere lo scopo primario dell’agire economico, ma allora non ci potrà essere collaborazione tra i due, ma urto, lotta, conflitto più o meno mascherati. Per ora, si può dire che ognuno dei due antagonisti tende a predicar male e a razzolar bene. Cioè predica la collaborazione con l’altro (e dunque predica, più o meno consapevolmente, la propria rovina - e questo è appunto il predicar male), ma in effetti persegue il proprio scopo tentando di ridurre a mezzo lo scopo dell’antagonista (e questo è appunto il razzolar bene). Ci sono avvisaglie, nel mondo, che oltre a predicar male i due avversari incomincino anche a razzolar male, e cioè incomincino a collaborare. Ma questo fatto vorrebbe dire che i due avversari - efficienza capitalistica e solidarietà cristiana o progressista - stanno avviandosi al tramonto: così come va al tramonto quel vero amore per una donna quando esso viene a trovarsi in compagnia dell’amore per un’altra. Stanno avviandosi al tramonto perché rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano a sé stessi. Che cos’è oggi un governo tecnico in Europa - e, con qualche riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni, vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza scientifica, si propongono il benessere di quel popolo. Ma tale benessere non è lo stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam ecc.: in generale, per le diverse concezioni culturali dell’uomo e del bene. Appunto per questo, quando si produce un forte condizionamento politico dei partiti che sostengono un governo tecnico (come ad esempio è accaduto in Italia), le decisioni vincolanti sono guidate da una mescolanza di competenza scientifica e di volontà politica, e la competenza scientifica è soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che forze politiche quasi sempre contrapposte hanno del benessere del popolo che esse intendono guidare. Tale concetto non ha un carattere scientifico. L’azione politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la politica (Yazione politica) è un’arte, avvolta quindi da quell’alone di arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per realizzare una forma di non-scienza, tanto più lontana dalla coerenza scientifica quanto più accentuato è il contrasto delle forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per Max Weber la scienza ha un carattere puramente strumentale, il cui scopo non ha un valore scientificamente appurabile; ma è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al servizio della non-ragione, alla quale viene affidata la sorte del mondo. (Certo, si dovrà poicapire che cosa sta dietro la ragione scientifica.) Ma nei governi tecnici che agiscono nelle economie di mercato il benessere del popolo, perseguito attraverso il condizionamento politico, è il benessere quale è inteso, appunto, all’interno delle categorie della produzione capitalistica della ricchezza. In questa situazione, il capitalismo è la condizione ultima della politica e del governo tecnico: la politica è un mezzo di cui il c apitalismo si serve. Chi si propone ancora, nel mondo democratico, una economia non capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le sinistre vogliono essere ormai lontanissime da ogni forma di marxismo o di economia pianificata. La contrapposizione tra destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore comune, è una lotta all 'interno del sistema capitalistico. Parlare dunque di un condizionamento capitalistico dei governi tecnici e della politica sembra soltanto un’owietà. E lasciarsi alle spalle la distinzione tradizionale di centro, destra, sinistra significa, innanzitutto, adottare correttamente e seriamente le regole dell’economia di mercato. Nulla di strano che il riformismo del governo di Monti si sia rivolto a (quasi) tutte le formazioni politiche, rendendo più visibile che (quasi) tutte, ormai, si muovono all’interno della logica capitalistica. Tecnica e politica sono un mezzo di cui il capitalismo si serve per realizzare i propri scopi. Sennonché nemmeno il capitalismo è scienza. La scienza economica può sostenere che esso è la forma più efficace di produzione della ricchezza, ma all’essenza del capitalismo appartiene il rischio, Yazzardo, mentre la scienza è essenzialmente la volontà di evitare che le proprie leggi siano leggi a rischio, azzardate, e dunque arbitrarie. Joseph Schumpeter, amico del capitalismo, ha sostenuto che la sua crisi è dovuta alla progressiva sostituzione del rischio con la routine delle procedure tecno-scientifiche. D’altra parte, anche per il carattere rischioso del proprio agire, il capitalismo si sente autorizzato a porre come scopo primario non già il benessere del popolo ma il continuo aumento del capitale 61 privato. Anche per il capitalismo si deve dunque affermare che esso, assumendo come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la scienza serva a realizzare la non-scienza: che la ragione (ossia ciò che oggi è considerato come la ragione per eccellenza) serva a realizzare la non-ragione. Tuttavia, la situazione si complica ulteriormente quando accade che la dimensione tecnica del potere sia condizionata non soltanto dall’economia capitalistica, ma anche, e magari fortemente, dalla dimensione religiosa, per esempio dalla Chiesa cattolica. In questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere insieme capitalismo, politica e cattolicesimo (evitando le degenerazioni dell’agire economico e politico e anche religioso), servendosi della tecno-scienza. La situazione si complica ulteriormente perché, mentre per il capitalismo lo scopo primario dell’agire economico e quindi del governo è l’incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo primario di tale agire e di un governo giusto non deve essere il profitto, ma il bene comune quale è appunto concepito dalla dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere cioè un mezzo per realizzare questa forma del bene comune. Mezzo, e non scopo. La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da tempo) che il capitalismo abbia come scopo il bene comune e non il profitto è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua volta il capitalismo, assumendo come scopo primario il profitto, vuole, a volte non rendendosene conto, la distruzione della società cristiana. È un problema, questo, che non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma tutte le presumibili coalizioni che governeranno l’Italia. (Quasi vent’anni fa, in un articolo sul Corriere poi incluso in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993, avevo preso in considerazione la proposta di Monti al convegno di Cernobbio di quell’anno, di tenere insieme efficienza capitalistica - e solidarietà - cristiana - e avevo mostrato le difficoltà a cui va incontro non solo tale proposta, ma ogni progetto politico che intenda conciliare democrazia, capitalismo, cristianesimo.) Dico questo per rilevare come anche, ma non solo, in Italia si renda percepibile quella gigantesca trasformazione del mondo che è costituita dalla crisi del capitalismo (e del cristianesimo - e della politica). Un governo che assuma come scopo primario sia l’efficienza sia la solidarietà, assume infatti uno scopo che non può essere né quello del capitalismo né quello della Chiesa, i quali non intendono avere al loro fianco, in posizione paritaria, alcun altro scopo (ma dove l’efficienza subordina a sé la solidarietà, servendosene, e la solidarietà, a sua volta, subordina a sé l’efficienza, servendosene). Se tale governo crede di poter mantenere in posizione paritaria sia l’efficienza capitalistica sia la solidarietà cristiana si illude, cioè si propone di realizzare una contraddizione. Ciò non significa che tale proposito non abbia a realizzarsi, e magari con risultati soddisfacenti: significa che tali risultati saranno inevitabilmente provvisori, instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò che crede di poter ottenere. Come di regola accade lungo il corso storico. Comunque, sia illudendosi di unire efficienza capitalistica e solidarietà cristiana (e politica) sia evitando questa contraddizione, dando quindi vita a un nuovo senso dell’efficienza e della solidarietà e dunque della loro unione, proporsi come scopo tale unione servendosi delle competenze tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui la forma oggi ritenuta la più rigorosa della razionalità umana (la tecno- scienza, appunto) è posta al servizio di forme meno rigorose di tale razionalità. Cioè la potenza di quell’agire è posta al servizio della non potenza. E la potenza, la capacità di realizzare scopi, è insieme la ricchezza di un popolo. Proporsi, come accade nei governi tecnici d’oggigiorno, di eliminare le degenerazioni della politica e dell’economia è però un passo avanti nella direzione lungo la quale si finisce col capire che le società diventano potenti e ricche non eliminando la cattiva politica e la cattiva economia, ma mettendo la buona politica e la buona economia (che anche risanate sono pur sempre forme meno rigorose dell’agire razionale) al servizio della tecnica guidata dalla scienza - della tecnica, il cui scopo è precisamente l’aumento indefinito della potenza. Difficile smentire, nel loro insieme e nel loro senso più corrente e generale, le osservazioni proposte nel 2003 dalla rivista Liberal (n. 19) per la discussione intorno agli Stati Uniti d’America. Esempio. Dall’Europa, dalla sua cultura politica prevalente, si guarda sempre più all’America in modo semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare i valori della sua democrazia e a sottolinearne, al contrario, i limiti. Se le espressioni Europa e sua cultura politica prevalente indicano soprattutto gli umori dell’opinione pubblica europea, allora è un fatto che mentre alla fine della seconda guerra mondiale gli Americani erano per gli Europei i liberatori, oggi vengono piuttosto sentiti come i cittadini di uno Stato che ritiene di non dover dar conto a nessuno del proprio operato. Questo è un problema di psicologia delle masse, facili a dimenticare i benefìci ricevuti (anche perché il ricambio generazionale fa sì che i dimentichi di oggi non siano più i beneficiati di ieri). Se invece Liberal intendesse affermare che oggi in Europa è in atto una critica dei valori espressi dalla Costituzione americana, questa affermazione vorrebbe dire che in Europa cresce la preferenza (o la nostalgia) per lo Stato autoritario. Ma questo non è vero (in Europa i partiti di estrema destra e di estrema sinistra sono piccole minoranze); e non sembra nemmeno che Liberal voglia sostenere questa tesi. Fuori discussione, invece, che quella americana è la prima costituzione liberal-democratica apparsa nel mondo moderno - la prima, cioè, dove il principio della libertà dal potere politico si unisce al principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E fuori discussione, inoltre, che gli Stati Uniti sono nati da una grande decisione collettiva di proteggere gli interessi e il bene comune, definiti soprattutto in relazione a ciò che essi significano nella cultura illuministica. Qui va aggiunto che tale decisione è tanto più rilevante quanto più essa ha inteso arginare (con maggiore o minore successo) gli interessi e il bene dell’economia di mercato, dove l’agire capitalistico non ha e non può avere di mira l’interesse e il bene comune, ma l’interesse e il bene privato, cioè l’incremento del profitto (sì che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica, non sono lo scopo dell’agire economico, ma una conseguenza, un sottoprodotto di quell’incremento). Relativamente allo sfondo (o al contenimento) liberal- democratico del capitalismo si può dire, con Liberal, che è la natura della democrazia americana a presentarsi come un fenomeno unico anche nel contesto più generale dell’Occidente. La domanda centrale (e, se non mi inganno, retorica) di Liberal suona comunque: Non è forse questo - americano - l’unico modo di vivere una democrazia, che altrimenti si limiterebbe ad essere un insieme di procedure...?; e tale domanda è preceduta dalla affermazione della capacità della democrazia americana di credere in sé stessa e di assumersi le proprie responsabilità. Queste affermazioni riguardano un insieme di questioni eterogenee: da un lato, la tesi che la condotta storico fattuale degli Stati Uniti è sostanzialmente fedele al proprio ordinamento costituzionale; dall’altro lato, la tesi che l’Europa avrebbe il miglior ordinamento costituzionale se adottasse quello statunitense; e, anche che gli Europei condurrebbero la miglior vita politica se sul piano storico-fattuale si adeguassero alla propria rinnovata costituzione così come gli Americani vi si adeguano. Tesi, queste ultime, che possono essere veramente discusse, ma che lasciano fuori campo la questione preliminare e decisiva (alla quale abbiamo già accennato), che peraltro è venuta sempre più in luce dopo la risposta americana, in Afghanistan e in Iraq, all’attacco terroristico dell’11 settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni produce uno Stato che agisce in base alla convinzione di essere di fatto rimasto l’unica Superpotenza alla guida del mondo e a proposito del quale si teorizza anche il diritto a esserlo? La risposta americana all’attacco subito era inevitabile (come in altre sedi ho motivato), ed era inevitabile che la risposta avvenisse nella forma della guerra preventiva concepita come legittima difesa. Ma, nonostante tutto quel che si è detto in proposito, non sta qui il problema - il problema preliminare e decisivo. Esso riguarda il contesto delle convinzioni con le quali gli Usa stanno vivendo questa fase della loro storia. Altro è infatti credere che i supremi interessi dello Stato americano richiedano che esso si difenda adottando misure come la guerra preventiva, ma lo si creda sapendo che tali misure, prese in modo così fortemente autonomo, sollevano il problema, non meno grave di quello del terrorismo islamico, del rapporto tra l’autonomia americana e il resto del mondo, e cioè sapendo che tale problema è, appunto, problema e non soluzione; altro è che gli Usa trattino come soluzione questo problema e siano convinti che, poiché sono di fatto venuti a trovarsi alla guida del mondo, o hanno il compito di porvisi, allora l’autonomia esercitata nella loro risposta al terrorismo è la conseguenza naturale della loro primazia planetaria. Due atteggiamenti profondamente diversi, questi due, e, soprattutto negli ultimi tempi, tra loro in contrasto negli stessi Stati Uniti. Il contrasto è alimentato dalla coscienza crescente che gli Stati Uniti non possono reggere da soli il peso immane di cui il secondo, e trionfalistico, di quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli. Affermare che l’unico modo di vivere una democrazia è quello americano significa certamente che l’Europa non può mettersi in rotta di collisione con gli Usa. Ma significa anche che l’Europa deve stare a loro soggetta? Il bon ton della riflessione politica auspica che l’Europa non allenti i legami con gli Usa e che d’altra parte non ne sia succube. Ma può l’Europa non essere succube senza essere forte - cioè militarmente forte, o addirittura competitiva rispetto agli Usa - e continuando ad affidare aU’America la propria difesa? Sembra che vi sia stata la tendenza a sottovalutare l’asse Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in contrapposizione alla guerra Usa contro l’Iraq. Ma si parla anche dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione eu-ropea - sia perché la Russia muove i primi passi verso l’economia di mercato sia per la rinnovata visibilità della Chiesa ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il testo è stato poi incluso ne II declino del capitalismo, cit., col titolo L’Europa tra America e Russia ): Ciò a cui si presta troppo poca attenzione è che la Russia, una volta aiutata dall’Occidente a uscire dalla crisi economica in cui si trova attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella protezione militare, contro le minacce del Sud, di cui gli Stati Uniti hanno oggi il monopolio - e in nome della quale possono pretendere che l’Europa stia in posizione subordinata, perché non può restituir loro un vantaggio di egual peso. Scambio che invece è possibile nel rapporto tra Europa e Russia, perché l’Europa ha sì bisogno di aumentare sostanzialmente il livello della propria potenza militare, ma anche la Russia, che può consentire questo aumento, ha a sua volta bisogno del sostegno economico che l’Europa occidentale può darle. Un processo che d’altra parte già allora si presentava tutt’altro che agevole, soprattutto per quanto riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo, giacché l’Europa potrebbe sostenerne economicamente l’efficienza solo se la gestione e il controllo di esso fossero effettuati, oltre che dalla Russia, anche dagli altri Stati europei. Certo, a distanza di vent’anni, la situazione è cambiata: la crisi economica dell’Unione europea rende quest’ultima molto meno forte nella contrattazione con una Russia che ha superato il trauma dovuta al tramonto del marxismo e dell’economia pianificata. Da ciò si spiega l’aumento della diffidenza dell’Ue (perfino della Germania) nei riguardi della Russia. Sino a che la crisi economica dell’Europa non verrà superata, il processo che conduce a una più stretta collaborazione politica tra Europa e Russia subirà un inevitabile rallentamento. Da satellite degli Stati Uniti - per i quali diventa peraltro sempre più pesante il compito di contenere anche in Europa la pressione del mondo arabo -, l’Europa non intende diventare satellite della Russia. D’altra parte è nella natura della storia dei rapporti secolari tra Europa e Russia, della situazione geopolitica e degli attuali rapporti economici tra le due aree, che esse vengano a formare un unico sistema euroasiatico di controllo della conflittualità internazionale, insieme a Stati Uniti, Cina, India. E se da un lato è nell’interesse della Russia che la decadenza dell’Europa venga arginata per non essere coinvolta, dall’altro lato la Russia non può non capire che gli Stati Uniti non accetterebbero mai che per tale decadenza la Russia divenga arbitra delle sorti dell’Europa. Pertanto, se oggi l’Europa è più debole che in passato nella contrattazione con la Russia, esistono tuttavia le condizioni perché il rapporto tra queste due aree tenda a riequilibrarsi. Non si tratta qui di auspicare (o temere) la simbiosi Europa-Russia, ma di constatare una tendenza che è nell’ordine delle cose, anche se contrastata da molte forze, innanzitutto da quanti, ancora, concepiscono gli Usa come l’unica Superpotenza che non può rinunciare a questo suo status e che in ultima istanza deve rispondere soltanto a sé stessa. (Tra quelle forze va annoverata anche la Chiesa cattolica, che vedrebbe ridimensionata la sua presenza in Europa ad opera della Chiesa ortodossa russa, e che tempo fa, per bocca dell’allora ministro degli Esteri vaticano Tauran ha manifestato perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione europea, aggiungendo che prima si dovrebbe pensare all’entrata di Stati come l’Ucraina e la Moldavia.) Per mezzo secolo il bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la pace nel mondo, nonostante l’insanabile contrasto ideologico delle due superpotenze. Alla guida dei popoli poveri, l’Urss ha anche contenuto e controllato la loro aggressività. Impensabile, in quel tempo, un terrorismo islamico. Per quanto paradossale possa sembrare, l’Urss ha contribuito in modo decisivo ad assicurare la pace delle società democratico-capitalitiche. Da quando si è creduto che il bipolarismo fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati sulle spalle un fardello troppo pesante, reso ancor più pesante dal fatto che la Russia, avviandosi verso la democrazia e l’economia di mercato, si è sempre meno presentata come guida delle rivendicazioni dei popoli poveri e si è sempre più schierata in favore delle popolazioni slave contro quelle mussulmane. Il bipolarismo Usa-Urss è stato (come da vent’anni sostengo) la prima incarnazione dello Stato mondiale - ossia del monopolio legittimo della violenza esercitato su scala mondiale (cfr. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi 1988); e sin dalla caduta del muro di Berlino sostengo che la scomparsa del bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti. Infatti, il bipolarismo ha un carattere primariamente militare, che non è certo venuto meno per il fatto che l’arsenale nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a quello Usa, non è più gestito da una ideologia totalitaria (Cfr. E.S., Il declino del capitalismo, cit.). Se il bipolarismo gestito da irriducibili avversari ideologici ha salvaguardato per mezzo secolo la pace (ho spesso rilevato l’ingenuità della convinzione che le due maggiori potenze della terra considerassero seriamente la possibilità di distruggersi a vicenda), si presenta ora la tendenza reale verso un bipolarismo costituito da due dimensioni economico- politiche (Usa e Europa-Russia), che, in parte già omogenee, per quanto riguarda l’Europa, vanno sempre più avvicinandosi e che, insieme, possono costituire quel centro dello sviluppo storico sulla terra, che non può essere gestito da una sola delle due. È nello stesso interesse di quest’ultimi che tale nuova forma di bipolarismo prenda piede. Ed è prevedibile che alla fine gli Usa prendano coscienza dei loro autentici interessi. Degno di nota, in proposito - ripetiamo - che in Italia il presidente del Consiglio del governo di centrodestra abbia più volte proposto l’entrata della Russia nell’Unione europea. Le considerazioni qui sopra sviluppate indicano il contesto in cui tale proposta può avere fondamento. E forse è interessante anche (e non paradossale, come a prima vista potrebbe sembrare) che quella proposta sia accompagnata dalla volontà di mantenere un asse preferenziale con gli Usa. Se non è una contraddizione, quella proposta può essere infatti condotta a significare che l’Europa può essere la vera alleata e dunque non subordinata ah’America, solo se essa possiede, oltre alla potenza economica, anche quella militare, che oggi continua ad avere il suo fulcro in un arsenale atomico invincibile, cioè in un apparato che sarebbe velleitario per l’Europa costruire (nonostante la chance nucleari di Francia e Inghilterra), ma che la Russia realmente possiede, e la cui perpetuazione diventa tuttavia sempre più onerosa per la Russia - premuta, quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza che in un mondo sempre più pericoloso l’invincibihtà atomica è un bene irrinunciabile, e dall’altro dalla tentazione di intaccare il capitale atomico cedendone porzioni in cambio dei vantaggi economici che i compratori, più o meno affidabili, potrebbero assicurarle. L’entrata della Russia in Europa pone indubbiamente enormi problemi - soprattutto, si è già detto, per quanto riguarda la gestione dell’apparato nucleare russo -, che però sono pur sempre inferiori a quelli dell’alternativa costituita da un mondo sempre più complesso (anche per l’affacciarsi di nuove grandi potenze come la Cina) ed esplosivo, dove gli Usa fossero convinti di poterne da soli determinare le sorti e dove le difficoltà economiche della Russia potrebbero farle perdere il controllo del proprio apparato nucleare a vantaggio del terrorismo islamico. Il problema del rapporto tra popoli ricchi e poveri si risolve riducendo il loro dislivello economico; ma la tendenza verso l’entrata della Russia nell’Unione europea e il conseguente rinnovato bipolarismo stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi ricchi e rende quindi efficace e sicura la loro indifferibile decisione di ridurre la loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati. La costituzione americana è un grande modello di società liberal-democratica, ma è un’astrazione proporlo all’Europa senza tener conto del processo storico reale che spinge l’Europa a confrontarsi col problema-Russia. È un’astrazione anche perché il sottinteso dei sostenitori della democrazia e dell’economia di mercato è che quest’ultime, dopo la fine del socialismo reale, non abbiano alternative. Ma, anche qui, debbo rinviare a quanto vado sostenendo da molto tempo. Infatti il Meccanismo inaggirabile - richiamato anche nelle pagine precedenti - per il quale le grandi forze che oggi guidano il pianeta (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo ecc. - e, ieri, socialismo reale), e che lo guidano servendosi, come mezzo, della tecnica moderna, sono destinate a diventare mezzi del potenziamento del proprio mezzo, cioè della tecnica, la quale dunque è destinata a diventare il loro scopo. Ma la tecnica destinata a diventare scopo non è la tecnica scientisticamente intesa, ma è l’apparato scientifico- tecnologico in quanto esso va unendosi all’essenza della filosofia contemporanea, ossia alla struttura concettuale che negli ultimi due secoli ha mostrato l’impossibilità di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è guidata dal risultato essenziale del pensiero filosofico dell’Occidente. In quanto tale pensiero la guida e le fa scorgere l’impossibilità di ogni limite assoluto dell’agire, la tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a quella di ogni tecnica che invece sia assunta come mezzo e pertanto sia limitata e frenata dagli scopi delle forze della tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la destina - in un mondo che crede sempre di meno nei valori assoluti della tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica che funzioni come mezzo per la realizzazione di tali valori. Già da questo ordine di considerazioni si può capire che lo strumento vincente conduce a una situazione dove la sua tutela e Fincremento della sua potenza sono destinati a diventare lo scopo delle forze che invece vorrebbero trattenerlo nella sua funzione di mezzo. Oggi anche la democrazia si serve della tecnica, ma il mondo procede verso un tempo in cui sarà la tecnica (intesa in quel suo significato complesso) a servirsi della democrazia (e delle altre forze prima menzionate), ossia a utilizzare l’organizzazione democratica della società per realizzare Fincremento della propria potenza - a utilizzare la democrazia, dico, e non quell’assolutismo politico che appartiene all’insieme dei limiti assoluti di cui il pensiero filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la democrazia come scopo della tecnica è qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia che diventa mezzo della tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita buona, cioè dell’etica, è qualcosa di essenzialmente diverso della ricchezza che ha l’etica al proprio servizio; e l’etica che si serve della ricchezza è qualcosa di essenzialmente diverso dall’etica di cui la ricchezza si serve. Ho in più modi indicato perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di scopo e mezzo sia qualcosa di inaggirabile - un rovesciamento, peraltro, che pur non dicendo affatto l’ultima parola, è destinato a dominare per lungo tempo la storia del pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti prima citati: E.S., Il destino della tecnica, Rizzoli 1998; Crisi della tradizione occidentale, Marinotti 1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza 2001; E.S., Capitalismo senza futuro, cit.). La democrazia europea e americana continuano a concepire la tecnica come mezzo per realizzare un mondo democratico. Stando all’interno di questa convinzione, si può vedere nella costituzione americana il modello stesso della vita democratica. Ma se, in forza di quel Meccanismo, la democrazia è destinata a perpetuarsi solo nella misura in cui diventa mezzo della tecnica, e se la democrazia come mezzo è qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come scopo, allora il problema dell’adeguazione della democrazia europea al modello americano diventa obsoleto, perché a questo punto viene in primo piano il problema di quale nuova configurazione venga ad assumere - negli Stati Uniti, in Europa, in Russia - la democrazia, una volta che essa sia ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il Meccanismo di cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge lo stesso problema, prima considerato, relativo al rapporto tra Usa, Europa, Russia. Il processo che conduce verso il nuovo bipolarismo democratico è inscritto cioè nel più ampio e più profondo processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito potenziamento della tecnica - in quanto unita alla consapevolezza filosofica che non esistono limiti assoluti all’agire umano (Dio è morto) - diventa lo scopo delle forze che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque diventa lo scopo della stessa democrazia. La rivista Liberal rileva che la democrazia americana crede anche nelle responsabilità che si assume e nella sua capacità di difendere i suoi principi di riferimento. A fondamento di questa fede si trova la volontà di non cedere agli avversari; e tale volontà è concreta solo in quanto potenzia il più possibile l’apparato scientifico-tecnologico che le consente di non cedere. Ma sino a che tale apparato è mezzo, strumento, esso è soggetto al logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia stessa non può permettere che abbia a logorarsi lo strumento che le assicura la sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in quanto evita che la tecnica, ossia il proprio strumento, attualmente insostituibile, abbia a logorarsi, la democrazia è già sulla strada del Meccanismo a cui abbiamo accennato, la strada dove la democrazia stessa rinuncia a porsi come lo scopo dell’agire sociale e assume come scopo del proprio agire la tutela e rincremento indefinito della potenza del proprio strumento. Lo stesso discorso va fatto a proposito di tutte le altre forze che, come la democrazia, intendono servirsi della tecnica come mezzo per la realizzazione dei loro scopi (reciprocamente escludentisi). D’altra parte la liberal-democrazia americana è unita all’economia di mercato e già da tempo quest’ultima non è più lo scopo dell’azione storica degli Stati Uniti. Essi cioè, in quanto superpotenza planetaria, non intendono sviluppare la propria potenza, e guidare il mondo, allo scopo di incrementare il profitto dei grandi trust del capitalismo americano, ma, all’opposto, intendono servirsi del profitto che l’economia capitalistica va accumulando, allo scopo di sviluppare la propria potenza e dominare il mondo. Infatti, anche questi due scopi sono tra loro conflittuali; ed essere potenti per essere ricchi indebolisce da ultimo la potenza e quindi la stessa ricchezza che dalla potenza è resa possibile e sostenuta. L’inevitabile percezione di questa conseguenza spinge l’America verso un atteggiamento dove essa vuole essere ricca per essere potente, cioè per incrementare la potenza del proprio apparato tecnologico, di cui ci si illude ancora, negli stessi Usa, di servirsi. Peraltro, l’illusione è tanto più giustificata quanto meno viene percepita l’inevitabilità del tramonto dei valori della tradizione occidentale - tra i quali, va sottolineato, vanno annoverati gli stessi valori dell’islamismo. In questa situazione, lo scopo dell’agire non è più l’incremento capitalismo del profitto, e quindi non è più la liberal-democrazia in quanto a esso unita: lo scopo diventa la tecnica; e la democrazia, cambiando volto, assume tratti che sono ancora tutti da decifrare. Ma già qui è opportuno rilevare (e l’osservazione vale per tutto quanto ho scritto sulla tecnica) che il rovesciamento in cui la tecnica, da mezzo, diventa scopo - il meccanismo cioè del rovesciamento - è un movimento che si costituisce alVinterno della fede che esistano mezzi e scopi - e questa fede appartiene alla follia estrema del mortale (cfr. cap. VI). Come tale follia diventa coerente quando essa nega ogni immutabile e ogni verità che pretendano porsi al di sopra del divenire, per dominarlo, così la follia estrema diventa coerente quando la volontà di far diventar altro le cose esce dalla situazione in cui essa si serve della tecnica come mezzo ed entra nella situazione in cui il potenziamento infinito della tecnica diventa lo scopo dell’uomo. Proprio perché appartiene al contenuto della fede nel divenir altro delle cose, e pertanto della volontà di farle diventare altro, il rovesciamento di cui stiamo parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia alla non-verità. Nello sguardo del destino, invece, appare che, commisurato alla verità autentica ossia al destino della verità, il contenuto della follia - cioè della fede, della volontà e della volontà interpretante - è il nulla - non essendo invece un nulla la fede, la certezza che tale contenuto non solo non sia un nulla, ma sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del destino della verità appare cioè che l’apparire di quelVeterno, che è la fede di assumere la tecnica come mezzo, è seguito da quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa scopo - dove questo rovesciamento, cioè questo scambio delle parti, ha un carattere vincolante, ossia è qualcosa di inevitabile, aU’interno della logica e delle regole secondo cui si costituisce il contenuto della volontà interpretante, ossia della fede. In altri termini, è lasciando parlare la fede nel divenir altro, che essa, diventando coerente alla propria logica, afferma la necessità che quella volontà di far diventar altro le cose, in cui la tecnica consiste, divenga, da mezzo, scopo. Il discorso va esteso all’intero contenuto della volontà interpretante: l’intero contenuto di tale volontà è il nulla, ma tutte le determinazioni che restano evocate dalla volontà intepretante sono degli eterni che appaiono con necessità così come appaiono - dove questa necessità è essenzialmente diversa da quella che compete alla logica che guida la fede e la volontà interpretante. Si richiami qui uno dei motivi fondamentali per i quali in queste pagine si afferma che lo scambio delle parti - ossia il rovesciamento del rapporto mezzo-fine - è, all’interno di tale logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, cit.). Nell’agire, lo scopo, come idea - ossia come primum in intentione, come presenza ideale nella mente di chi agisce - determina il mezzo da cui è realizzato: lo configura, lo orienta e gli assegna i limiti oltre i quali esso non sarebbe più idoneo a realizzare tale scopo. Lo scopo, come fatto reale - ossia in quanto è Yultimum in executione -, è prodotto dal mezzo; ma, prima e durante questa produzione, la presenza ideale dello scopo guida, controlla, regola la produzione del mezzo. (Ad esempio, la decisione di far guerra guida, controlla, regola la produzione delle armi che sono il mezzo con cui tale decisione è realizzata, cioè sono il mezzo di cui quella decisione si serve per realizzarsi?) Se uno scopo è in conflitto con altri scopi e non intende farsi sopprimere da essi, e anzi intende prevalere e sopprimerli, l’agire che mira a farlo prevalere non può evitare di potenziare il più possibile il mezzo di cui tale agire si serve per far prevalere tale scopo. Ma non può potenziarlo oltre i limiti al di là dei quali il mezzo non è più guidato, controllato, regolato dallo scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo non può concentrare tutte le proprie energie nella produzione e nel perfezionamento e potenziamento del mezzo, altrimenti non resterebbero più energie e tempo per la realizzazione dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di perfezionare e potenziare il più possibile il mezzo con cui ci si propone di realizzare uno scopo sottrae il mezzo alla guida, al controllo, alla regola che lo scopo stabilisce per la produzione del mezzo. Se, nel conflitto tra scopi (e nella storia dell’uomo nessuno scopo si è trovato al di fuori dell’elemento conflittuale), uno di essi, per prevalere sugli altri, rinuncia alla propria o a una parte della propria determinazione del mezzo e potenzia il mezzo oltre il limite che rende coerente il mezzo allo scopo, gli scopi antagonisti saranno certamente vinti, ma il vincitore non sarà nemmeno lo scopo che, per vincere, ha rinunciato a determinare il proprio mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso. Sfuggendo alla guida di ciò che dovrebbe essere il suo scopo, il mezzo che ha vinto non ha realizzato il proprio scopo perché andato oltre i limiti che determinano il mezzo e che, insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato uno scopo diverso da quello che inizialmente intendeva servirsi di tale mezzo per realizzarsi. Propriamente, lo scopo che è stato realizzato è diventato il potenziamento del mezzo che doveva realizzare un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito da tale potenziamento, il vecchio tenta di restare aggrappato per poter mantenere ancora la propria funzione di scopo. Ma invano, perché la fine di un conflitto è solo una parentesi nella conflittualità che è ineliminabile perché è dovuta all’esistenza stessa dell’agire e della volontà; sì che viene alla luce che lo scopo autentico dell’agire è un potenziamento del mezzo, che non consente ai vecchi scopi di restargli aggrappati per sopravvivere come scopi. Anche lo Stato parassitario che dà loro l’apparenza di scopi è destinato a tramontare. Una situazione, poi, in cui nessun agire oltrepassi i limiti che determinano i propri mezzi e definiscono i propri scopi sarebbe una situazione non conflittuale, cioè una situazione impossibile, perché le cose che la volontà di una certa forma di agire vuol trasformare per ottenere un certo scopo sono le stesse che la volontà di una cert’altra forma di agire vuol trasformare per ottenere uno scopo diverso, e quindi il conflitto tra le due volontà è inevitabile. Quando si afferma che il fine non giustifica i mezzi, si intende che i mezzi devono essere coerenti al fine voluto. Il fine giustifica i mezzi che sono coerenti a esso. Ma la giustificazione dei mezzi è anche la loro limitazione. La giustificazione dei mezzi da parte del fine è la loro mortificazione, il loro freno. Poiché ogni scopo si trova in una situazione conflittuale, l’agire, cioè l’assunzione di mezzi per realizzare scopi, è una contraddizione, dove, da un lato, lo scopo guida il mezzo da cui è realizzato e, dall’altro, per prevalere sugli scopi che impediscono tale realizzazione, lo scopo non guida il mezzo. Da un lato il mezzo è potenziato fino a un certo punto, dall’altro è potenziato oltre quel punto. La libertà dell’individuo moderno è la facoltà di realizzare una serie di scopi, e nella democrazia la libertà di un individuo si estende sin dove arriva la libertà degli altri individui. Lo Stato moderno dovrebbe garantire l’equilibrio, cioè i limiti che definiscono le diverse serie di scopi, cioè la libertà di ogni individuo. Ma anche all’interno dello Stato moderno queste diverse serie sono tra loro conflittuali, e pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione. La libertà del cittadino è contraddizione. All’interno della contraddizione si trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù, che è totale o parziale a seconda che chi si impone abbia una signoria totale o parziale sul vinto. Nel conflitto, chi ha vinto un avversario autentico - cioè che non si limita a subire lo scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere sull’avversario - ha dovuto potenziare i propri mezzi oltre i limiti che determinano i mezzi e definiscono lo scopo del vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso, perché per non perdere ha dovuto a sua volta oltrepassare il più possibile i limiti che determinano i mezzi di cui disponeva e che definiscono gli scopi a cui mirava. L’avversario autentico non perde (diventando in tal modo servo o schiavo) perché non ha oltrepassato quei limiti, ma perché, oltrepassandoli non ha ottenuto dai propri mezzi la potenza che dai propri è riuscito a ottenere il vincitore. L’agire del vincitore è contraddizione proprio perché è contraddizione anche l’agire del vinto. Poiché l’agire dell’uomo è coordinazione di mezzi in vista della realizzazione di scopi, e si trova essenzialmente all’interno di una situazione conflittuale, l’agire umano in quanto tale è contraddizione. È contraddizione dallo stesso punto di vista di chi non vede l’alienazione dell’agire in quanto volontà che qualcosa divenga e sia altro da ciò che essa è. Tutte queste considerazioni sono ora da riferire alla situazione conflittuale di particolare rilievo storico, dove le grandi forze dell’Occidente intendono realizzare i loro scopi conflittuali servendosi ognuna di una certa frazione dell’apparato scientifico-tecnologico, divenuto ormai il Mezzo supremo per la realizzazione di ogni scopo dell’uomo. La filosofia del nostro tempo mostra infatti, nella propria essenza, che non può esistere alcuna dimensione divina e immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso da quello tecnologico, cioè da ciò che nella tradizione filosofica era l’adeguazione dell’uomo e dello Stato alla verità svelata dal sapere filosofico. All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente intende guidare, controllare, regolare e quindi limitare il mezzo tecnologico di cui essa dispone. Ma nella situazione conflittuale è inevitabile che il limite che determina il mezzo e definisce lo scopo di ognuna di tali forze sia oltrepassato e che il potenziamento della tecnica divenga lo scopo supremo di tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente dello scambio delle parti e, insieme, la forma più imponente della contraddizione dell’agire. Capitalismo, comuniSmo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo sono (o sono stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il Mezzo tecnologico a loro disposizione, e, dall’altro, sono (o sono stati) costretti a indebolirlo, cioè a limitarne il potenziamento, per evitare di farlo uscire dal loro controllo, dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la tecnica è il fondamento della salvezza di ogni scopo e quindi ogni scopo, per salvare sé stesso, è costretto ad assumere come scopo il potenziamento del proprio Mezzo: per salvare sé stesso ogni scopo è costretto a rinunciare a sé stesso. Nel saggio di S. La tendenza fondamentale del nostro tempo (Adelphi), ma anche prima in Téchne (Rusconi 1979), e in seguito in altri scritti ancora, si mostra in che senso e per quali motivi è necessario affermare, da un lato, che l’essenza - Inanima - della civiltà occidentale è il pensiero filosofico, e, dall’altro, che il pensiero filosofico del nostro tempo, quando si riesca a scendere nel suo sottosuolo essenziale, mette in luce l’inevitabilità del tramonto della grande tradizione dell’Occidente e l’altrettanto inevitabile destinazione della tecnica al dominio del pianeta. Ma, fino a che non si scorge il significato autentico di queste affermazioni, esse scadono al livello della semplice notizia. (Se non intende essere la semplice opinione di qualcuno, ogni affermazione dev’essere infatti argomentata. La parola argomento proviene dal latino arguo e dal greco argòs, che indicano il porre in chiara luce. Poiché la luminosità può essere maggiore o minore, per affermare qualcosa in modo adeguato bisognerebbe dire che cosa propriamente significa luce e qual è il grado di luminosità di cui la risposta si avvale. Da millenni l’uomo tenta di dirlo.) In che consiste l’identità dell’Europa? È stato indicato in molti modi. Come prendere posizione? Innanzitutto va messa in luce l’indicazione che è in grado di includere tutte le altre e che non è inclusa da nessun altra. È quindi inevitabile che essa sia la più astratta. In quanto è comune alla maggiore o minore concretezza di tutte le altre, tale indicazione sta infatti al di sopra della concretezza - senza tuttavia ignorarla. L’astratto non è qualcosa di negativo; è anzi il segreto in cui è riposta l’adeguatezza della diagnosi. Si tratta di portare alla luce ciò che è comune all’immensa varietà di eventi da cui è costituita la storia europea. Oggi il sapere diffida di ciò che è comune. Si ritiene, oggi, che la forma più rigorosa del sapere sia la specializzazione scientifica - che, appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune. Ma dal comune non ci si può liberare. Ogni sapere autentico - si dice - dev’essere specialistico e quindi il senso dell’Europa si spezza nella molteplicità di sensi che appaiono all’interno delle varie forme della specializzazione e del frammento. Ma se solo il frammento ha senso - se cioè il senso è frammentario -, allora tutti i frammenti hanno questo di inevitabilmente comune : di essere, appunto, dei frammenti. Inoltre l’Europa è, originariamente ed essenzialmente, tendenza e vocazione al frammento e all’isolamento delle cose. A un certo momento, in Grecia si incomincia a pensare che una cosa è ciò che è - l’ente - ed è come ciò che non era e non sarà, ossia è come ciò che era nulla e tornerà a esserlo. Ma ciò che è stato nulla non può avere alcuna relazione con ciò che già esiste, instaura relazioni provvisorie e accidentali che verranno meno quando ciò che è non sarà più. Questo significa che, nonostante ogni intenzione in senso contrario, ogni cosa è un frammento, è isolata da ogni altra. La specializzazione scientifica ha il proprio fondamento nella filosofia greca, che stabilisce una volta per tutte il significato delVesser-cosa, con un gesto che si rende sempre più presente e operante in ogni azione e in ogni conoscenza: in ognuno degli infiniti eventi, grandi e piccoli, che formano la storia dell’Europa, dapprima, e, ormai, dell’intero pianeta. In questo significato consiste Yidentità dell’Occidente. A esso sono essenzialmente legate la volontà di potenza e la violenza estrema. Si può voler annientare qualcosa solo se si crede che le cose (uomini e enti non umani) siano di per sé stesse figlie del niente e a esso destinate. E la violenza dell’annientamento inseparabile dalla violenza della creatività. Dapprima l’Occidente non si accorge del proprio essere volontà separante e costruisce le grandiose cattedrali della volontà unificante: il senso filosofico del Tutto, che raccoglie in sé le differenze e le opposizioni più marcate, il Dio di tutte le cose, l’eguaglianza cristiana tra gli uomini in quanto figli di Dio, la volontà di essere comprensibile da tutti, lo Stato che è il Dio in terra e dunque principio di unità, l’economia di mercato che mette in comunicazione i popoli, la scienza che, prima di diventare specializzazione, vuol essere a lungo unificazione delle leggi della natura, il comuniSmo che si rivolge ai lavoratori di tutto il mondo perché si uniscano, la globalizzazione del nostro tempo: sono alcuni degli esempi più rilevanti della volontà di unire ciò che, essendo stato concepito e vissuto come separato, non può essere unito. È innanzitutto il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo a portare al tramonto la volontà unificante della tradizione. Dio muore e rimane la terra infranta. Su questa base, non solo ogni integrazione e interazione tra i popoli, ma anche tra gli individui dello stesso popolo, della stessa città, della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi provvisori. Auctoritas, non veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari Schmitt). Anche su base linguistica, lex è l’ordinamento imposto alle cose, che quindi le costringe a stare insieme. La verità è il mondo in cui nella tradizione occidentale si vuole legare ciò che è vissuto e inteso come originariamente separato. La verità è quindi destinata al tramonto. E auctoritas significa potenza (anche qui la linguistica lo conferma). La legge è il risultato dell’ auctoritas, ossia della costrizione che lega insieme le cose. La potenza della legge può essere maggiore o minore. Oggi la potenza maggiore è la tecnica guidata dalla scienza moderna. Il sottosuolo della filosofia del nostro tempo ha distrutto la verità e quindi autorizza la tecnica a facere legem. La specializzazione scientifica, Lisciamento e il frammento sono legati alla costrizione che con la propria potenza unisce i frammenti del mondo. Qui è il fondamento di ciò che vien chiamato globalizzazione. Ma se ogni volontà di unire ciò che non può essere unito è una costrizione destinata, prima o poi, a fallire, si apre il problema della configurazione dell’evento che è destinato a lasciarsi alle spalle la stessa civiltà della tecnica. Stiamo parlando a un pubblico composto soprattutto da giuristi. Che però sono anche filosofi del diritto e quindi comprendono bene l’opportunità che nel mio intervento tenga conto anche delle sollecitazioni che prima mi sono state rivolte. Innanzitutto è il caso che ci si chieda che cosa significhi filosofia. Se già qui non ci intendiamo, faremo poca strada insieme. Ne facciamo ben poca se concepiamo la filosofia come un sapere che dipende dalla scienza, se riteniamo cioè che la filosofia, per costituirsi, debba incominciare col tener conto di quanto si afferma nell’ambito del sapere scientifico. Alla filosofia è nota l’esistenza del mondo, e nel mondo c’è anche la scienza; ma ciò non significa che la filosofia debba fondarsi sulle sapienze del mondo (oltre alla scienza ce ne sono anche altre). Se ha bisogno di fondarsi sulla scienza, meglio lasciarla perdere, la filosofia; che non potrebbe andare molto oltre una specie di ricapitolazione del sapere scientifico. Meglio lasciar parlare questo sapere. Prima è venuto fuori il nome di Searle. Che, anche lui insieme a moltissimi altri (in ogni campo), dà appunto per scontato che esista quella forma di storia del mondo dove, in un primo tempo, l’uomo ancora non esiste, seguita da un tempo nel quale l’uomo esiste, e infine da un tempo in cui, con ogni probabilità, l’uomo non ci sarà più e il mondo continuerà a esistere più o meno a lungo. Certo, la scienza procede adottando la convinzione che la realtà esista indipendentemente dalla conoscenza umana di essa, breve parentesi nel corso degli eventi. Spesso (ma con eccezioni) gli scienziati (per esempio Max Planck) lo affermano esplicitamente. (Però Bertrand Russell, senza essere idealista, ammette la possibilità che il mondo intero sia incominciato a esistere da pochi istanti, corredato di tutte le esperienze che ne abbiamo, di tutti i nostri ricordi del suo più lontano passato e con tutte le aspettative e i progetti riguardanti il futuro.) Per Searle, poi, uno che non lo creda è un minus habens. Non credo tuttavia di esserlo, se affermo che la filosofia non può presupporre alcune delle pur mirabili costruzioni del sapere scientifico, anche perché si tratta di un sapere che, come l’amico Giorello sa benissimo, oggi riconosce il proprio carattere ipotetico. Ora, sarebbe sorprendentemente improprio che si desse credito (come mi sembra che Ferraris finisca col fare) al senso comune, e lo si sollevasse al rango di verità incontrovertibile, là dove il sapere scientifico, perfino il sapere logico-matematico, mette in questione la propria incontrovertibilità, la propria verità assoluta. La filosofia è critica radicale, radicale problematizzazione del sapere, e quindi non può procedere dando per scontati i risultati della scienza (o di qualsiasi altra sapienza, quella filosofica compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad affermare che la filosofia, autenticamente intesa, richiede una concettualità estremamente più radicale di quella scientifica. Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a essere (ripeto) un panorama del sapere scientifico, o una specie di pattuglia in avanscoperta dove alcuni audaci, o incoscienti, si inoltrano nel deserto per tentar di vedere di sfuggita e approssimativamente come stanno le cose, in attesa che poi arrivino le truppe regolari, quelle della scienza, che stabiliscono come le cose effettivamente stanno e rimandano nelle retrovie le avanguardie filosofiche. No: sin dall’inizio la filosofia ha inteso essere 1’evocazione dell’innegabile, della verità in quanto innegabilità assoluta. Anche quando si contrappongono i fatti alle interpretazioni si tende a considerare il fatto come l’innegabile, come ciò che non può essere negato, mentre l’interpretazione - lo richiamava il professor Zaccaria - rende sì particolarmente significativo il fatto, ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di non-verità, per cui da ultimo, nel confronto, è il fatto che prevale - e prevale in quanto, appunto, lo si ritiene innegabile. La filosofia evoca il senso radicale dell’innegabile unendolo al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di leggere Heidegger: basta un vocabolario per sapere che i Greci chiamano alétheia la verità. A-létheia significa, alla lettera, non nascondimento. Ciò che è vero è il non nascosto. Heidegger però non rileva che, per il pensiero greco la verità, nel suo senso radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes alethéias (scienza della verità è una delle traduzioni correnti di questa espressione). Ciò che si disvela neW alétheia è il contenuto assolutamente stabile (epistémonikón ). Il tema -ste di epi-stéme, dalla radice indoeuropea -sta, nomina appunto lo stare di ciò che, disvelato, si impone su (epi) tutto ciò che vorrebbe spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si può dire che epistéme tes alethéias esprime sia un genitivo oggettivo (il sapere assolutamente stabile che ha come contenuto la verità), sia un genitivo soggettivo (la stabilità assoluta che è il contenuto del disvelamento). Questo senso radicale della verità - il contenuto manifesto che sta e che, proprio perché sta, è innegabile - è evocato una volta per tutte dal pensiero greco. Una volta per tutte, anche perché quando oggi, per esempio nel sapere scientifico o filosofico, si dichiara di non voler proporre verità assolute, incontrovertibili, definitive, ci si riferisce appunto al senso radicale della verità che i Greci hanno per la prima volta evocato, e da esso ci si allontana. A questo punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò che si mostra nella sua stabilità, significa che ciò che oggi è chiamato coscienza è il luogo dell’innegabile. È nella coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e si rendono visibili. I Greci chiamano phàinesthai la visibilità, l’ apparire (phàinesthai deriva da phos, luce, e il visibile, essendo ciò che sta in luce, garantisce la propria esistenza). Ma come la semplice affermazione che X è X, o che a X non possono convenire Y e non-Y, non è sufficiente per poter affermare che il principio di identità e di non contraddizione sono innegabili, così la semplice affermazione che qualcosa appare non è sufficiente per rendere innegabile il principio della fenomenologia - che in effetti non riesce a essere che un presupposto, un dogma. Perché ciò che appare non può essere negato? Con questa osservazione alludo alla necessità di procedere oltre l’immediata elevazione del visibile al rango dell’innegabilità. Il senso greco deìYalétheia (da cui discende il principio di tutti i principi della fenomenologia) è ineliminabile, ma non può riuscire a essere l’assoluta stabilità e innegabilità richieste dal pensiero filosofico. Quando, sul Corriere della Sera, intervenni nella polemica sul cosiddetto nuovo realismo (cfr., nel presente saggio, sezione seconda, cap. 8) intendevo mostrare quali siano le possibilità del realismo e dell’idealismo, ossia di forme filosofiche che si presentano all’interno della storia dell’Occidente. I miei scritti indicano tuttavia la dimensione che mostra perché tale storia è il culmine de\Y alienazione della verità. I Greci evocano cioè una volta per tutte il senso della verità, ma aprono anche la strada al pensiero in cui si intende come verità ciò il cui contenuto è, in modo radicale, l’alienazione della verità. In quel mio intervento sottolineavo la potenza concettuale di Giovanni Gentile; ma non, ovviamente, perché il pensiero di Gentile sia libero da quell’alienazione. Ciò a cui quegli scritti si rivolgono è abissalmente lontano dal pensiero di Gentile. La potenza concettuale del pensiero di Gentile è massima perché tale pensiero è massimamente rigoroso nell’errare. Non tenendo conto di questa potenza dell’errare, il cosiddetto nuovo realismo (all’estero e in Italia) non fa cheriproporre (sembra senza rendersene conto) quel realismo della tradizione greco- medioevale che è stato messo in questione, e fuori gioco, dallo sviluppo fondamentale della filosofia moderna da Cartesio a Kant, all’idealismo fino, appunto, aH’idealismo gentiliano. Giacché - qui entriamo nel vivo della questione - più decisivo del problema del rapporto tra realismo e idealismo o tra realismo e ermeneutica, ben più decisivo è il problema della sorte della verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è il contenuto che la verità (l’incontrovertibile, l’innegabile) ha assunto nella tradizione dell’Occidente, altro è il contenuto che la verità è venuta in seguito ad assumere - e inevitabilmente. Queste considerazioni coinvolgono anche la dimensione del pensiero giuridico. Quando si confronta il fatto con l’interpretazione, il fatto si presenta come ciò a cui per lo più compete il carattere dell’innegabilità, della verità. Tuttavia in campo giuridico il problema del rapporto fatto- interpretazione riguarda l’esigenza di porre tale rapporto in relazione con la norma : l’accertamento del fatto intende stabilire la compatibilità del fatto con la norma. E l’accertamento della convergenza o divergenza del fatto rispetto alla norma non è fine a sé stesso, ma è operato perché sia fatta giustizia. Il problema del rapporto fatto-norma rinvia al problema della giustizia; e tale problema riceve oggi (penso ad esempio a Rawls e a Kelsen) una soluzione essenzialmente diversa da quella che gli viene data lungo la tradizione filosofico-giuridica. Qual è la definizione tradizionale di giustizia? Nella Summa Theologica Tommaso d’Aquino scrive: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi, la perpetua e costante volontà di assegnare a ciascuno il suo ius. Una definizione in seguito continuamente ripetuta (qualche volte con l’infinito del verbo invece del gerundio). Sono note le critiche che sono state rivolte a questa definizione - non solo tomistica, ma classica - di giustizia. Essa sarebbe un circolo vizioso perché nel definiens si ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il definiendum, ma ius, che compare nel definiens sarebbe daccapo identico al definiendum). Eppure questa definizione non è un circolo vizioso. Si rifa a Platone, al secondo e quarto libro della Repubblica : giustizia è, sì, che ciascuno non abbia ciò che è di altri e non sia privato di ciò che è suo (IV, 433 e), ma quel che è decisivo è 95 che ciò che è suo è ciò che gli spetta in relazione all’Ordinamento assoluto della realtà che è compito dell’ epistéme della verità mostrare, indicando pertanto in che luogo di tale Ordinamento si trova ogni uomo e ogni cosa. La verità mostra incontrovertibilmente in che cosa consistono gli uomini e i diversi tipi dell’umano, e la giustizia è il riconoscimento, nel conoscere e nell’agire, di ciò che, in verità, ogni uomo è e di ciò che non può essere perché, in verità, è di altri. Lo ius che compare nel definiens della definizione qui sopra menzionata non è dunque la semplice ripetizione della iustitia in quanto definiendum. Poiché Yepistéme tes alethéias crede di poter mostrare in modo incontrovertibile l’esistenza di un Ordinamento assoluto e immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è quello che essa è solo in quanto ha il posto che le spetta all’interno di tale Ordinamento), la giustizia è appunto il riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a ogni cosa, e pertanto quella definizione della iustitia non è un circolo vizioso. (Né ciò significa che lungo la storia del pensiero filosofico quell’Ordinamento abbia avuto sempre la stessa configurazione.) Questa grandiosa concezione della giustizia illumina e domina anche la dimensione giuridica della tra dizione occidentale. Uno dei temi centrali in sede giuridica è oggi il rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Il diritto naturale è il modo in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che nella società accade, i fatti, e le norme che la regolano. Tali norme si inscrivono in quell’ordinamento e stabiliscono ciò che spetta a ciascuno aH’interno di esso, ossia ciò che a ciascuno spetta per natura - la natura non essendo altro che tale Ordinamento. Si aggiunga che se il diritto naturale afferma che l’uomo ha un posto che gli spetta necessariamente, per natura, nell’Ordinamento complessivo e incontrovertibilmente immutabile della realtà, allora non le interpretazioni, ma le constatazioni (ossia ciò che è ritenuto constatazione), qui, hanno il compito di accertare se i fatti (ciò che accade) siano o no compatibili con le norme. Al diritto naturale si contrappone oggi il diritto positivo. Questa contrapposizione è la conseguenza, in campo giuridico, di un evento grandioso e spaesante: il tramonto delle forme sapienziali e pratiche della tradizione dell’Occidente, il tramonto cioè al cui fondamento agisce il tramonto dell ’epistéme della verità e dell’Ordinamento immutabile che essa ha inteso mostrare. Essenzialmente più decisiva del rapporto tra idealismo (o pensiero ermeneutico) e realismo - ognuno dei quali intende valere come il contenuto della verità - è, dicevo prima, la domanda: Che ne è della verità?; e quindi: Qual è la storia della verità?. Infatti il problema della contrapposizione tra realismo e idealismo può essere risolto solo accertando perché si debba tener ferma la verità dell’uno piuttosto che la verità dell’altro. Tutto ciò significa che il problema relativo a quella contrapposizione, e pertanto alla questione del rapporto tra fatti e interpretazioni, rinvia da ultimo alla questione di quale sia il contenuto che è necessario porre come verità, ossia come incontrovertibilità. Vado richiamando da tempo che l’autentico e profondo avversario della tradizione occidentale non è il relativismo (come ad esempio la Chiesa cattolica invece ritiene). Al di sotto del rifiuto appariscente ma impotente della tradizione occidentale, proprio del relativismo, al di sotto di tale rifiuto, ossia nel luogo che vado chiamando sottosuolo filosofico del nostro tempo, agisce un pensiero tendenzialmente nascosto, ma capace di mostrare Vimpossibilità che l’Ordinamento immutabile e divino della tradizione sia il contenuto dell’ epistéme della verità. Fra i pochi abitatori del sottosuolo, Giovanni Gentile, Nietzsche, e ancor prima di loro Leopardi. Nell’ epistéme della verità quell’ordinamento immutabile domina il mutamento degli enti del mondo, domina cioè il loro uscire dal nulla e il loro ritornarvi. L 'epistéme è il riconoscimento originario dell’esistenza del mutamento così inteso. Ma è appunto sul fondamento di tale riconoscimento che nel sottosuolo essenziale del nostro tempo si mostra (ne accenneremo tra poco) Vimpossibilità dell’esistenza di ogni dimensione immutabile. Ogni realtà e ogni sapienza sono pertanto storiche, temporali, contingenti, finite. Da ciò segue, e inevitabilmente, il prevalere del diritto positivo sul diritto naturale, cioè segue la necessità che ciò che spetta a ciascuno e ciò che non deve essergli sottratto è tale non assolutamente, ma in relazione a una certa epoca storica dove le forze sociali che sono riuscite a imporsi sulle altre stabiliscono (con una voluntas che quindi non è constans et perpetua ) che cosa sia ciò che in tale epoca spetta a ciascuno (ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non gli può essere tolto. Hanno carattere storico, pertanto, non solo i fatti, ma anche i criteri in base ai quali i fatti sono individuati, interpretati e giudicati. E, questo, sia che i fatti vengano sia che non vengano considerati come indipendenti dal loro essere interpretati. Il tramonto di ogni realtà e sapienza immutabile è quindi l’orizzonte comune al realismo e all’idealismo - la cui contesa si risolve peraltro in favore dell’idealismo solo qualora quest’ultimo si sollevi alla dimensione che l’attualismo gentiliano (come altrove ho mostrato) ha saputo indicare. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo e il positivismo giuridico Se si vuole richiamare in breve il senso essenziale della potenza concettuale del sottosuolo filosofico del nostro tempo (degli ultimi due secoli, si potrebbe dire) - se lo si vuole richiamare in breve e in una forma che possa valere come tratto comune agli abitatori del sottosuolo (che d’altra parte hanno elaborato in modi specifici e differenziati tale tratto) -, si deve innanzitutto richiamare la convinzione di fondo che incomincia con la vita stessa dell’uomo sulla terra, e che lungi dall’esser qualcosa di nascosto in un sottosuolo sta invece alla luce del sole, mostrando ciò che non viene in alcun modo messo in questione lungo l’intera storia dell’uomo: si tratta della convinzione che la terra si trasforma, e l’uomo con essa. La trasformazione è il diventar altro da parte delle cose, il loro diventare altro da ciò che dapprima esse sono. Le teogonie e le metamorfosi confermano il carattere archetipico di questa convinzione. Con l’avvento del pensiero filosofico il diventar altro da parte delle cose è interpretato in senso ontologico : il loro diventar altro si spinge fino al loro diventare quell’assolutamente altro che è il loro non essere, ossia il loro esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla, diventano quell’assolutamente altro dal nulla che è il loro essere, ossia il loro esser enti. La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte nella storia dell’Occidente e ormai del pianeta, non solo il senso della verità come assoluta incontrovertibilità, come epistéme tes alethéias, ma anche il senso ontologico del diventar altro delle cose; e una volta per tutte, lungo quella storia, l ’epistéme della verità pone tale senso come il proprio contenuto originario. È a partire da questo contenuto che, nella tradizione, Yepistéme della verità si porta oltre di esso (oltre, cioè metà, nella lingua greca) e si costituisce come metafisica, ossia come sapere che mostra la necessità di affermare, al di là delle trasformazioni del mondo, 1’esistenza dell’Ordinamento immutabile e divino dal quale il mondo è regolato e per il quale il diritto naturale si fonda su di un’etica assoluta. Il senso ontologico del diventar altro diventa in tal modo l’evidenza suprema delVintero Occidente: sia della tradizione dell’Occidente, sia del sottosuolo filosofico del nostro tempo, sia degli amici sia dei nemici di Dio. Ma è questo sottosuolo e il carattere della sua inimicizia verso il divino a costituire la forma più radicale e rigorosa della fedeltà a ciò che lungo l’intera storia dell’Occidente e ormai del pianeta - dunque anche all’interno del sapere scientifico, religioso, artistico e ormai dello stesso senso comune - è ritenuta la suprema evidenza del senso ontologico del diventar altro. (È per questa fedeltà che il diritto positivo si fonda su una forma storica di etica, su di una Grundnorm, che è tale solo in relazione a una certa epoca storica e che quindi - la tesi è resa esplicita da Kelsen - può avere qualsiasi contenuto.) Ebbene, da un lato, l’Occidente è convinto, sin dai suoi primi pensatori, che l’evidenza suprema sia il provenire degli enti dal nulla e il loro ritornarvi (e si può dire che anche Parmenide lo creda: nel senso che egli afferma l’esistenza di una regione dove si crede evidente il provenire e il ritornare nel nulla da parte degli enti, una regione che tuttavia egli qualifica come illusione, dóxa). All’interno di questa convinzione il futuro è l’ancor nulla, il passato è formai nulla. D’altra parte, in ogni sua configurazione, Yepistéme della verità, che lungo la tradizione dell’Occidente intende affermare l’esistenza di un Ordinamento (o Legge) immutabile, non può ritenere che tale Ordinamento domini soltanto il presente, ma deve ritenere che il suo dominio si estenda anche alla totalità del futuro e del passato, cioè che futuro e passato non possano sottrarsi al suo dominio e alla sua legislazione. Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla del futuro possano provenire o che dall’ormai nulla del passato possano ritornare cose che si sottraggono a tale Ordinamento e siano per esso qualcosa di imprevisto. Nemmeno la libertà dell’uomo e la contingenza delle cose riescono a distruggere realmente la Legge. La Legge deirimmutabile è universale (e chi ha creduto di poterla violare si è ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla Giustizia e dalla Punizione). Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor nulla del futuro e l’ormai nulla del passato e gli prescrive tutto ciò che da essi può veramente (e non apparentemente e provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a essi è destinato ad appartenere. Ma questa invasione del nulla da parte deH’Immutabile rende essente il nulla, lo entifica e quindi cancella o rende apparente il senso ontologico del diventar altro, il senso che sussiste solo in quanto è un diventare dal nulla e un diventare nulla. E tale entificazione del nulla non soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che Yepistéme stessa dell’Immutabile è essa per prima a riconoscere -, ma nega e sopprime anche quella differenza tra il cominciamento e il risultato del divenire, senza la quale nessun divenire, e tanto meno il divenire ontologicamente inteso, può esistere. Così parla il sottosuolo essenziale (cioè filosofico) del nostro tempo. Se una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile esistono, è impossibile che esistano quel divenire e quella volontà di far divenire le cose che per l’intera storia dell’Occidente (dunque anche per la tradizione epistemica) sono l’originaria, suprema e innegabile evidenza. È appunto nel sottosuolo essenziale del nostro tempo che l’Occidente giunge a scorgere, sul fondamento di tale evidenza, che l’autentica realtà e l’autentica verità immutabile sono il divenire di ogni realtà e di ogni verità immutabile e pertanto sono la volontà sempre più potente di trasformare il mondo. Non rendendosi conto del proprio carattere essenzialmente antinomico, la tradizione epistemico-metafisico-teologico- ontologica dell’Occidente elabora la pur potente struttura concettuale in cui si intende mostrare che gli enti divenienti esistono solo se esiste un Ente immutabile; gli abitatori del sottosuolo essenziale del nostro tempo, scorgendo il carattere antinomico della tradizione, si rendono conto che gli enti divenienti possono esistere solo se non esiste alcun Ente immutabile. E questa è conseguenza necessaria della fede che il divenire sia l’evidenza originaria e innegabile. Anche se il sottosuolo non ama questa espressione, esso è dunque la forma più coerente dell’ epistéme tes alethéias, perché esso mostra che il contenuto d éìl y epistéme incontrovertibile non è il rapporto tra il divenire e l’Immutabile, ma l’esclusione necessaria di ogni Immutabile. Appunto in forza di questa necessità tale sottosuolo non ha nulla a che vedere con le ingenuità del relativismo e dello scetticismo. Dalla potenza concettuale del sottosuolo deriva l’impossibilità di ogni diritto naturale; il prevalere del diritto positivo è inevitabile. Il tramonto della forma tradizionale dell’ epistéme (che si dispiega dai Greci a Hegel) è cioè anche il tramonto della configurazione giuridica di tale forma, ossia è il tramonto del diritto naturale. Il senso autentico del conflitto tra diritto naturale e diritto positivo può essere quindi compreso solo se lo si vede inscritto nella grandiosa vicenda che conduce al tramonto ormai planetario degli Immutabili. Tuttavia, anche per il positivismo giuridico la giustizia è volontà di ius suum unicuique tribuere: nel senso che ciò che spetta a ciascuno non è quanto viene mostrato dalYepistéme della verità, ma ciò che, all’interno di un certo gruppo sociale e in un determinato periodo storico, per le norme vigenti spetta a ciascuno. Ma poi, sul fondamento della distruzione dell ’epistéme della verità, a ciascuno e a ogni cosa di ogni luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il loro essenziale divenire, il loro essenziale esser qualcosa che esce dal proprio nulla e vi ritorna; sì che la giustizia consiste nel salvaguardare e assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il loro diritto di oltrepassare ogni limite assoluto (e di non costituire un limite siffatto). In questa situazione, ogni forza si propone di prevalere sulle altre, ogni individuo sugli altri. Ma le grandi forze che guidano il mondo e gli individui si servono tutte, per prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo di tali forze, essa impedisce che l’anarchia totale prenda piede e, subordinando a sé ogni forza, stabilisce una gerarchia, riconosce a ogni forza e a ogni volontà di potenza ciò che loro spetta alFinterno di tale gerarchia e pertanto realizza la forma suprema di giustizia a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà di ius suum unicuique tribuere. 103 4. Realismo e idealismo Quanto alla contrapposizione tra realismo e idealismo (nella quale è coinvolto il rapporto tra fatti e interpretazioni), ho già rilevato che essa si inscrive nella vicenda, qui sopra tratteggiata, del tramonto degli Immutabili. Aggiungo che tale contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero occidentale, una complessità ben più profonda del modo in cui il realismo viene oggi sostenuto in ambito analitico e continentale e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo viene conosciuto. Ad esempio si tende a ignorare la necessità che conduce dal realismo premoderno alla riflessione cartesiana sull’ impossibilità che - se la vera realtà è esterna al pensiero e indipendente da esso (come vogliono il realismo premoderno e lo stesso Cartesio) - la realtà pensata (il cogitatum), in quanto pensata (la realtà che peraltro è il mondo in cui l’uomo vive), sia indipendente dal pensiero. E si tende a ignorare l’ulteriore necessità (mostrata dall’ideahsmo) che la cosiddetta realtà esterna e indipendente dal pensiero sia pur sempre un pensato e sia dunque un concetto autocontraddittorio. (Nella tradizione l’idea è ciò attraverso cui è conosciuto l’oggetto reale, essa è id quo objectum cognoscitur; Cartesio mostra la necessità di intendere l’idea come ciò che è conosciuto, id quod cognoscitur, ma che, ancora, lascia al di là di sé la vera realtà l’essere formale: Kant vede l’impossibilità di conoscere la vera realtà, la cosa in sé; l’idealismo, rilevando l’autocontraddittorietà di ogni concetto di cosa in sé e di realtà al di là del pensiero, mostra la necessità che Vobjectum del pensiero sia idea, ma mostra insieme che l’idea è la stessa realtà in sé stessa, la stessa cosa in sé. Lo stesso sviluppo si ripropone nella riflessione sul linguaggio, che conduce alla cosiddetta svolta linguistica; lo sviluppo dove, dapprima, nella tradizione, la parola è intesa come id quo objectum 104 dicitur - e Yobjectum sta al di là della parola poi ci rende conto che, in quanto detto, è Yid quod dicitur a dover essere Yobjectum della parola, sì che il linguaggio parla del linguaggio, ma, ancora, lasciando al di fuori di sé la cosa; infine si intrawede che anche la cosa è in qualche modo detta e pertanto, non la cosa esterna al linguaggio, ma il linguaggio stesso è la cosa, che peraltro continua a esser concepita come ciò che esce dal nulla e vi ritorna). Ma anche il realismo premoderno è ben più complesso delle sue attuali configurazioni. Per il realismo greco, ad esempio, è propriamente solo quando Yepistéme della verità ha dimostrato l’esistenza della Realtà immutabile, è solo allora che può essere affermata l’indipendenza della realtà dalla conoscenza umana. Ne\YEtica Nicomachea (se ricordo bene, in 1139 b), si dice che quello che sappiamo epistemicamente non può essere diversamente da com’è; ciò che può essere diversamente da come è, quando esca dall’osservazione [ci] rimane nascosto se esso sia o non sia. La potenza di questa affermazione è tale da prefigurare e contenere l’essenza stessa del pensiero fenomenologico dei nostri tempi. Il testo greco dice: ho epistàmetha, che ho tradotto con quello che sappiamo epistemicamente, ossia ne\Yepistéme della verità. Ciò che sappiamo in modo epistemico met’endéchesthai àllos échein, non può essere diversamente [da come è]. Questo non poter essere diversamente è l’innegabilità, l’incontrovertibilità, la definitività deìYepistéme della verità. È in modo assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in modo epistemico non possa essere diversamente; esso non può assolutamente essere diverso da ciò che l’epistéme è. Il testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia alle cose che è possibile che stiano diversamente (e che quindi non sono contenuti àe\Yepistéme), e dice che, quando escono dall’osservazione ( hótan éxo tou theoreìn génetai), allora lanthànei, cioè rimane nascosto, ei estin e mé, se esse siano o non siano. L’osservazione, theorein, è la nostra visione delle cose del mondo, è il loro apparire, mostrarsi, il phàinesthai (Cartesio lo chiamerà cogitare). Ho tradotto theorein con osservazione perché theorein è costruito su theorós, ossia lo spettatore, colui che osserva e vede con i propri occhi. Quando le cose non epistemicamente note escono dall’apparire rimangono, appunto, nascoste, e quindi rimane nascosto se continuino a esistere o no. Ciò che invece continua a esistere anche quando non appare nella conoscenza umana è l’Ente immutabile la cui esistenza è dimostrata, all’interno deWepistéme, sul fondamento del principium firmissimum che nega la contraddittorietà degli enti. D’altra parte, l’apparire degli enti che possono essere diversamente è l’apparire del loro diventar altro; e tale apparire è ciò che innanzitutto il pensiero greco considera come l’evidenza originaria e supremamente innegabile e quindi come appartenente eàYepistéme della verità. Ciò si spiega, perché se quelli divenienti sono gli enti che possono diventar altro, tuttavia che essi possano diventar altro ed essere diversamente da come sono è qualcosa che, appunto perché appare, ossia è originariamente evidente e innegabile, non può diventar altro e non può essere diversamente da come è. Appunto per questo Leibniz potrà considerare come verità (ossia come epistéme della verità) non solo le verità di ragione (riguardanti ciò che non può essere diversamente perché è contraddittorio che lo sia), ma anche le verità di fatto (che appunto riguardano ciò che può essere diversamente perché non è contraddittorio che lo sia). Se la scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e continuerà a esistere anche quando l’uomo non ci sarà più, tuttavia la scienza è una fede; certo, oggi, la più potente. Ma la 106 potenza non è la verità. Il mondo che esisterebbe indipendentemente daH’osservazione e dallo sperimentare non è comunque qualcosa di osservabile e di sperimentabile. Questo anche se all’interno delle regole della fede scientifica si devono trarre (in base a certe altre regole non incontrovertibili) certe conseguenze, che conducono alla tesi dell’indipendenza del mondo dall’osservazione umana. Ma, appunto, si tratta di inferenze compiute all’interno di una fede. Sul fondamento della convinzione che le cose del mondo diventano altro è inevitabile che prevalga la sapienza del sottosuolo, in cui si mostra l’impossibilità di ogni Immutabile e quindi di ogni verità incontrovertibile che, da un lato, si ponga come Legge assoluta del divenire, e dall’altro differisca dalla verità assoluta che si mostra nel sottosuolo. Ma il destino della verità (così viene chiamato nei miei scritti) sta al di là della fede nel diventar altro delle cose e degli enti, ossia al di là deWintera storia del mortale e dell’Occidente, dunque al di là dello stesso processo che conduce dall ’epistéme metafisica della verità al sottosuolo essenziale del nostro tempo. Sta pertanto al di là dell’inevitabile prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni verità immutabile. Il destino sta al di là, nel senso che contiene, mostrandola, la storia del mortale e dell’Occidente. Il destino è l’apparire del senso autentico della necessità e della necessità che ogni essente sia eterno. E la testimonianza del destino non è né realismo né idealismo, perché sia il realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni dell’ente possono esistere anche se altre non esistono ancora o non esistono più; laddove, poiché tutto è eterno, né l’uomo può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere senza l’uomo e senza la più irrilevantedelle sue parti. Poiché si obbietta - come anche in questo nostro incontro è accaduto - che l’affermazione dell’eternità di ogni essente nega ciò che incontrovertibilmente appare, ossia nega il diventar altro delle cose, concludo accennando al motivo di fondo per il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente non è in contrasto con il contenuto che appare incontrovertibilmente, e che, in quanto tale, appartiene alla struttura del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro sentire nei concetti di esperienza, osservazione, dato, fenomeno ecc. Quando si crede che gli enti che si manifestano non siano stati (totalmente o in parte) e tornino a non essere (totalmente o in parte), quando cioè si crede che escano dal nulla e vi ritornino, è impossibile (contraddittorio) che si creda che gli enti, quando ancora sono nulla, appaiano e si manifestino già così come appaiono e si manifestano quando incominciano a essere; ed è impossibile che si creda che essi, annientandosi, continuino ad apparire e a manifestarsi così come appaiono e si manifestano prima del loro annientamento. È impossibile, perché altrimenti, nel diventar altro, il prima non differirebbe dal poi e quindi non ci sarebbe qualcosa come un diventar altro. È quindi necessario che, quando si crede nell’uscire dal nulla e nel ritornarvi, si creda che, quando gli enti non sono, non appaiano nel modo in cui appaiono quando incominciano a essere, pur apparendo ed essendo in qualche altro modo nel loro esser attesi, sperati, temuti, supposti, previsti; ed è necessario che, quando vanno nel nulla, non appaiano più nel modo in cui appaiono quando ancora esistono, pur apparendo ed essendo in qualche altro modo nel ricordo, nel rimpianto, nelle varie forme in cui ci si riferisce al passato. Ciò significa che nella misura in cui si crede nel tempo in cui un ente è nulla (prima o dopo il suo essere), in questa misura si crede che tale ente non appare, ossia non appartiene alla totalità degli enti che appaiono - la quale include anche gli enti che, in quanto attesi e ricordati, non sono un nulla. Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti che appaiono in quanto tale non può nemmeno mostrare alcunché di ciò che non le appartiene ancora (quando esso è ancora nulla) e non le appartiene più (quando esso è ormai nulla); e pertanto l’apparire, in quanto tale, non può nemmeno mostrare che gl’enti escono dal nulla e vi ritornano, appunto perché il loro esser nulla non appartiene a ciò che è mostrato (come non gli appartiene nemmeno che gli enti sono già e continuano a essere anche quando non appaiono). Nella misura in cui qualcosa non è (ossia è nulla), in questa misura esso non appare e pertanto l’apparire non può mostrare il suo non essere. (Facendo corrispondere il cielo alla totalità degli enti che appaiono e il sole a uno di questi enti, allora, quando il sole non è ancora sorto e quando è ormai tramontato, non si può chiedere al cielo che ne sia del sole quando non si mostra nel cielo: in questo caso il cielo non può che tacere sulla sorte del sole.) Aristotele - si è rilevato - afferma che, quando un ente che può essere diversamente (ossia che diviene) non appare, rimane nascosto, cioè non appare se esso sia o non sia. Ma anche Aristotele crede, come l’intero Occidente, che certi enti che appaiono possano non essere. Eppure non può essere l’apparire a mostrare il non essere degli enti che, non essendo, non possono nemmeno apparire. Il non essere di ciò che ancora non è e di ciò che non è più è dunque una interpretazione, non una constatazione; una interpretazione che non solo richiede un fondamento, ma che è negata dal destino della verità, che scorge in tale interpretazione il culmine dell’estrema follia in cui l’uomo si trova. (Tale interpretazione non ha un fondamento incontrovertibile - anche se è sollecitata sia dal modo, spesso terribile, in cui ciò che all’uomo sta a cuore esce dall’apparire, sia dalla constatazione che ciò che esce in quel modo dall’apparire non ritorna più.) Ma qui ci si deve arrestare. Il linguaggio, ora, è di fronte al tema decisivo: l’impossibilità che Tessente in quanto essente non sia. (Sta al centro di tutti i miei scritti.) Il linguaggio è cioè, insieme, di fronte all’essenza dell’uomo, ossia alla dimensione, già da sempre salva, che circonda la follia del mortale e dell’Occidente. Dalla relazione tenuta al convegno fatti e interpretazioni rivolto a un pubblico di filosofi del diritto, tenutosi all’università di Padova, il 30 novembre 2012, e presieduto dal magnifico rettore prof. Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione dei proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra gli altri, dei Illetterati, Milanesi, Scilironi, Testoni. Da centinaia e migliaia di anni prima della nascita di Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo delle stagioni, che i popoli arcaici considerano sacri. I giorni dedicati alla rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli che vanno dal Natale all’Epifania. Nel loro mezzo, il Capodanno, festeggiato dovunque. Soprattutto in quei dodici giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l’integrità e la vita del mondo, consumate e perdute durante il tempo che veniva chiamato l’anno. Ripetono la creazione originaria compiuta dagli Dèi o dal Dio supremo. Oggi i popoli credono sempre meno nel divino; ma la loro cultura dominante ne ripropone, sia pure in modo profondamente diverso, i tratti essenziali. Tale cultura è la tecnica scientificamente orientata e controllata dalla produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di beni e di merci richiede energia. Il consumo di energia ne richiede il rinnovo, la reintegrazione. Richiede la ricostituzione del suo fondo. La rifondazione del ciclo energetico ripropone la ripetizione umana della creazione divina. Il Capodanno può essere anche la festa del ciclo energetico. Noi capiamo subito che l’energia si consuma e dev’esser rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di rifondare periodicamente il mondo? Se non si risponde, anche l’analogia tra tecnica e rifondazione mitica del mondo rimane sospesa nel vuoto. Eppure quel bisogno è molto meno stravagante di quanto possa sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti incomincia a venire in aiuto il concetto di volontà (un 112 aiuto di cui non si approfitta adeguatamente non solo da parte delle scienze dell’uomo). Poi indicherò come le implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il bisogno di cui stiamo parlando - che non è per noi irrilevante, ma è anche il nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di vivere. Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé stessi). Se non si vuole e si resta immobili, si muore. La volontà è la vita. Ma quando la volontà apre gli occhi non ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a qualcosa che non si lascia smuovere e trasformare: l’Inflessibile. Per il singolo è l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è ciò che noi chiamiamo natura, ma che a essi si presenta, appunto, come la Barriera di fronte alla quale l’uomo si sente impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia aprirsi un varco per riuscire a ottenere il voluto e dunque per vivere. Un varco nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta alla volontà come la dimensione della Potenza suprema, demonica, divina. Nell’atto stesso in cui l’Inflessibile acquista per l’uomo il volto del divino, in quello stesso atto l’uomo, per vivere, deve quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne la Barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo. Volendo essere come Dio Adamo vuole uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo rende come Dio Adamo mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo si senta colpevole, in debito. Il bisogno di vivere diventa bisogno di espiazione. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante facciamo esperienza di ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse davanti come un unico blocco che non si lascia spezzare, ci spegneremmo subito. La volontà, per ottenere, ha bisogno di spezzarlo, di agire sui frammenti, sulle parti del blocco. L’agire richiede l’isolamento delle parti dal blocco e tra di loro. Oggi si crede che anche la conoscenza sia seria solo se fa conoscere parti del mondo, non il Tutto, vanamente inseguito dalla vecchia sapienza filosofica. La scienza chiama specializzazione la propria conoscenza delle parti. E la tecnica, da essa guidata, agisce sempre su parti. (Anche l’arte si chiude nel frammento.) Adamo che vuol uccidere Dio ha già un’anima tecnica. La tecnica ha un’anima teologica. E il senso di colpa affiora anche nell’uomo della civiltà della tecnica, ben al di là della preoccupazione per la propria incapacità di realizzare uno sviluppo sostenibile. Per quanto ci dicono le scienze storiche si può dire che ogni forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al proprio centro il mito in cui lo smembramento del Dio è la condizione dell’esistenza del mondo. Dall’Oceania alla Mesopotamia, dall’India alle popolazioni germaniche e alle società greco-cristiane i miti raccontano la creazione del mondo come effetto del sacrifìcio originario di un Dio, di una Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio: Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi, Tiamat (Mesopotamia), Ymir (presso i Germani), Purusha e Prajapati (India), Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo. La creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo in quanto usa, consuma, gode le membra, le parti del Dio. Anche la morte di Cristo sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata creazione del mondo che era andato consumandosi e morendo in conseguenza del peccato. E nel Genesi si dice che Dio si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva fatto e da cui era stato dunque consumato e indebolito. Ma il divino rimane pur sempre la fonte della vita. L’esaurirsi della fonte è la morte dell’uomo, così come lo era l’inflessibilità originaria del divino. E la morte è il pericolo estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario che si restituisca al divino quel che gli si è tolto e che tuttavia è stato consumato e non c’è più. È a questo punto che il genio religioso deve inventare il sacrificio compiuto dall’uomo (che assume anche la forma del sacrificio dell uomo) come ripetizione del sacrificio divino e dunque come rifondazione del mondo. Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei popoli, ma l’essenza della ripetizione del sacrificio divino e della fondazione divina del mondo è la consapevolezza della necessità che, per continuare a vivere, non venga spenta la fonte della vita. Quando ci si convince che qualsiasi vittima offerta dall’uomo al Dio è radicalmente incapace di assolvere il compito gigantesco che le si assegna, allora diventa necessario credere che sia Dio stesso a farsi uomo e vittima con la quale Dio restituisce a sé stesso quello che la violenza e il peccato dell’uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo dire e fare cose vere, si porterà oltre il mito da cui è preceduta (e da cui sarà seguita), le sue prime parole (quelle di Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi dal divino, dovrà necessariamente dissolversi in esso, scontando la pena dell’ingiustizia commessa con tale separazione - dove la separazione dal Dio è l’eco dello smembramento- sacrificio mitico del divino, e la pena da scontare è l’eco della ripetizione umana di tale sacrificio. Quando, infine, nel nostro tempo, non si crederà più né negli dèi del mito né in quelli della verità, e la lotta contro la morte sarà affidata soprattutto alla Potenza suprema della tecnica, allora al consumo di questa Potenza, cioè al suo Sacrificio, dovrà corrispondere una civiltà in cui le saggezze e sapienze del passato, per quanto grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni loro aspirazione al dominio del mondo, e cioè non contrastare il potenziamento indefinito della Tecnica. Sin dagli inizi della storia deH’uomo il giorno del Capodanno, rifondando il mondo e aprendo un nuovo ciclo alla vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della vecchia terra, ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia cadere nell’oblio. (Accade anche nel grande Capodanno de\YApocalisse di Giovanni, dove l’anno della vecchia terra viene diviso da quello della nuova.) Oggi il Capodanno rievoca soltanto le vicissitudini della volontà: non le rivive. Ma a questo punto la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda appunto il senso autentico della volontà - alla quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel senso. Ora si aggiunga che quando, all’inizio, si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da essa. Infatti non può tornare indietro. Tornando indietro, riuscirebbe non solo a far diventare altro il mondo, ma a ottenere immediatamente tutto ciò che essa vuole, giacché tornare indietro è lasciarsi alle spalle la Barriera che le impedisce di trasformare il mondo. Ma la volontà riesce a vivere solo se fa breccia nella Barriera; e il far breccia implica un tempo in cui la volontà è bloccata e muore (è originariamente morta). E non può nemmeno, e per lo stesso motivo, muoversi di lato, a destra o a sinistra, o verso l’alto o il basso. Appunto per questo diciamo che all’inizio la volontà si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da essa. Le metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a comprendere perché, essendo di fronte e insieme avvolta dalla Barriera, il far breccia in essa sia insieme un uscire da essa. 116 Appunto per questo, all’inizio del pensiero filosofico, Anassimandro ripropone il rapporto tra la volontà e la Barriera, dicendo che le cose del mondo, separandosi dall’Uno, divino, ne escono - escono dal luogo da cui proviene la loro nascita ( génesis ). Far breccia dall’esterno è lo stesso far breccia dall’interno, uscendo da ciò da cui si è avvolti e commettendo ingiustizia (adikia). La volontà può riparare l’ingiustizia (e qui la volontà è il mondo stesso che si è separato dell’Uno) solo ritornando nel luogo, separandosi dal quale essa ha commesso ingiustizia: solo morendo le cose che hanno voluto separarsi dal divino possono rendergli giustizia per l’ingiustizia commessa ( didónai dìken tes adikìas). E così si comprende perché le cose debbano tornare là da dove son venute. Dove il sottinteso è che la morte subita dalla volontà fino a che non riesce a far breccia sulla Barriera del divino è diversa dalla morte a cui la volontà (ossia la totalità delle cose del mondo) va incontro ritornando nel divino. Tanto diversa da far dire, in seguito, che morire è incominciare a vivere la vera vita. Ma nel pensiero filosofico, e innanzitutto in Anassimandro, è un sottinteso anche la ferita del divino prodotta dalla breccia con cui la volontà riesce a uscire e a staccarsi da esso. L’intenzione esplicita della filosofia, sin dall’inizio, è di affermare, come dice Anassimandro, che il divino è eterno e non invecchia, è immortale e incorruttibile; eppure la Barriera che la volontà umana trova dinanzi e attorno a sé, a sbarrarle la strada, è sentita da essa come la Potenza dominante, sacra e divina come il Tremendum-Fascinans, l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè corrotto, reso vecchio, ucciso in quanto Inflessibile, perché la volontà possa vivere. (D’altra parte la Barriera, smembrata, è anche la condizione perché la volontà possa cibarsi delle sue membra - e per questo, oltre che a essere il Tremendum, essa è anche il 117 Fascinans .) E che l’uscire delle cose dall’Uno divino sia inteso da Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito, del sottinteso che il divino è ferito e ucciso dall’avvento della volontà. Il pensiero della tradizione filosofica deve trattenere nell’inespresso il sottinteso, cioè la contraddizione per la quale il divino, in quanto trascendente il mondo, Altro dal mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può permettersi di evitarla sia con la fede nell’unità del divino e del mondano (ripresa peraltro, in campo filosofico, dalle varie forme di immanentismo), sia con la fede nell’esistenza di una molteplicità di dèi (per la quale la morte riguarda uno o alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino non muore definitivamente, ma muore e risorge. Ma, detto questo, la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà alla quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel senso. Dai Greci a Hegel la tradizione filosofica è la volontà di indicare come si configura il contenuto del sapere che ha il carattere dell’assoluta incontrovertibilità e stabilità: Yepistéme (alla lettera: il sovra-stare) della verità. Tale epistéme è per Platone tò anamàrteton (Civitas, 477, 35 - una parola che è negazione della negazione di màrtys, testimone, colui che essendo in presenza delle cose non può errare nei loro confronti). Dai Greci a Hegel, Yepistéme a cui compete il carattere delfincontrovertibilità ha un contenuto che non solo è ciò che è, l’ente (tò ón ), ma è l’ente che assolutamente (pantelós) e primariamente è, l’Ente immutabile ed eterno, il divino che è fondamento (trascendente o immanente) degli enti che sono ma non sono assolutamente, cioè divengono, vanno dal loro non essere al loro essere e viceversa. Per la tradizione filosofica Yepistéme è prevalentemente sapere metafisico. Con alcune rilevanti eccezioni (ad esempio lo scetticismo), la più profonda delle quali è l’antimetafisicismo kantiano. Che però intende mantenere il carattere primario àe\Y epistéme della verità, cioè l’incontrovertibilità, e che come immutabile pone la struttura a priori della soggettività finita (immutabile, quindi, sino a che il soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione filosofica è la storia delfincontrovertibilità dell’epistéme e del modo in cui l’ente diveniente ha il proprio fondamento nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme metafisica è Dio. Vessenza della filosofia degli ultimi due secoli è invece la distruzione di questa grandiosa concezione della realtà. Distruzione, dunque, che - nella sua essenza, appunto - è a sua volta grandiosa. Purché la si sappia cogliere. Oggi come ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono per lo più affermate e vissute all’interno di una fede, cioè di una scelta che da ultimo è arbitraria (anche quando si presenta come ragionevole, rationabile obsequium). Sul piano filosofico, il modo in cui oggi si contrappongono amici e nemici di Dio non è per lo più consapevole della grandezza e profondità della lotta tra il presente e il passato della filosofia. Tanto più grande e profonda, questa lotta, quanto meno entrambi gli avversari si rendono conto che l’abbandono del passato non è una semplice scelta o una semplice constatazione storica, ma è la fondazione incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello stesso mondo filosofico la grandezza di quella lotta rimane cioè sullo sfondo, o addirittura sepolta. Non mancano certo forza e competenza, a quel mondo, che si usa ancora dividere tra analitici e continentali. Ma le due prospettive sono molto meno divise di quanto possa sembrare. Giacché per entrambe la fine deH’affermazione filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione. Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto assente la discussione sull’autentico fondamento filosofico che ha condotto alla negazione di Dio. Una negazione che tende quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia, al livello che è proprio della fede. Accade quindi non di rado che oggi sia la filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una fondazione dell’impossibilità di Dio, ma, ad esempio, di essere la semplice constatazione che la fede in Dio, almeno in certi luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure di essere una scelta, una prassi - dunque una fede, che preferisce un universo in cui Dio non esista. Rinunciando a quella fondazione, e a ogni fondazione assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel relativismo o nichilismo concettualmente inconsistente a cui gli epigoni della tradizione filosofica - tra cui la Chiesa cattolica - trovano comodo o tendono a ridurre tutto ciò che la filosofia ha pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo modo quegli epigoni non riescono ad avere di fronte il loro autentico avversario, e gli avversari della tradizione filosofica ignorano la forza speculativa della tesi che essi sostengono. Da tempo i miei scritti mostrano la distanza tra Yessenza profonda e tendenzialmente nascosta del pensiero filosofico del nostro tempo e il fenomeno in cui tale essenza si presenta alterata e svigorita, e che è costituito appunto da quel relativismo e nichilismo di cui ci si può sbarazzare molto facilmente. L’avversario autentico della tradizione filosofico-metafisica è appunto quell’essenza. Tale essenza - si diceva - è la fondazione radicale delfimpossibilità di Dio. Radicale significa che procede dalla radice stessa della storia dell’Occidente, la radice che fa vivere sia gli amici sia i nemici di Dio, sia l’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo sia il fenomeno di tale essenza - non filosofi e filosofi, uomini di azione e di pensiero. Questa radice è la persuasione che le cose del mondo siano un divenire in cui esse escono dal nulla e dopo un provvisorio soggiorno nell’essere ritornano nel nulla. Per la filosofia che è amica di Dio questa oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla non è un assurdo solo se esiste un Dio immutabile ed eterno; per Yessenza della filosofia del nostro tempo tale oscillazione non è un assurdo solo se il Dio immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul fondamento della persuasione che le cose del mondo vengono dal nulla e vi ritornino che Yessenza del pensiero filosofico del nostro tempo mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e che quindi è illusorio ritenere che il divenire del mondo sarebbe un assurdo se Dio non esistesse. Tale essenza è la fondazione radicale delfimpossibilità di Dio perché si fonda sulla radice che essa ha comune con la tradizione filosofica da essa distrutta. In questa radice consiste Yessenza autentica del nichilismo la cui forma più coerente si presenta nell’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Non è questa la sede per approfondire il senso concreto di questi cenni. Qui si può solo indicare il senso generale del discorso, rinviando, per quel suo senso concreto, agli scritti sopra menzionati - che mostrano la Follia estrema dell’essenza autentica del nichilismo e quindi mostrano che la persuasione che le cose oscillino fra l’essere e il nulla è soltanto una fede. Innanzitutto, ciò che è stato chiamato essenza della filosofia del nostro tempo ha un contenuto storico determinato: è un nucleo, circondato da un alone che più si distanzia dal nucleo più ne perde di vista la potenza. Per quanto è possibile guardare nel sottosuolo essenziale della filosofia del nostro tempo, il nucleo ha un perimetro breve. È costituito dalla dimensione centrale del pensiero di Nietzsche e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E, prima di entrambi - e conosciuta da entrambi -, la filosofia di Giacomo Leopardi. All’alone appartengono invece pensatori che oggi sono ritenuti tra i più decisivi, come Heidegger e Wittgenstein. Non si tratta di mettere in questione la loro importanza, bensì di rendersi conto che, nonostante essa, in modi differenti lasciano aperta la porta a un Dio che ritorni dall’esilio in cui è fuggito. Una porta che invece non è lasciata aperta dai pensatori di quel sottosuolo essenziale (e dunque da Leopardi, la cui potenza filosofica, soprattutto nella filosofia anglosassone, è completamente sconosciuta). L’essenza della filosofia del nostro tempo consiste nel mostrare che se esistesse il Dio immutabile ed eterno della tradizione, esso sarebbe la Legge a cui dovrebbe adeguarsi anche il nulla da cui le cose provengono e il nulla in cui esse ritornano. Pertanto il nulla diverrebbe un ascoltatore e un suddito di tale Legge, cioè non sarebbe più un nulla, ma un ente. Ma la persuasione che gli enti provengono dal nulla e vi ritornano implica necessariamente che l’ente e il nulla differiscano - un’implicazione, questa, che sussiste anche se, nell’ambito dell’essenza della filosofia del nostro tempo, il principio di non contraddizione è visto come negazione del divenire e quindi è rifiutato. All’interno di quella persuasione, la negazione dell’esistenza del Dio immutabile ed eterno della tradizione è incontrovertibile perché tale esistenza implica necessariamente che il nulla sia ente - il nulla senza di cui è impossibile quel divenire degli enti che sta al fondamento non solo del pensiero metafisico (che procedendo dal divenire intende condurre al Dio eterno) e del pensiero che invece distrugge la tradizione metafisica, ma anche delle stesse opere e istituzioni che costituiscono la civiltà dell’Occidente. Se si ignora tutto questo - se si ignora cioè la grandezza della lotta tra tradizione e distruzione radicale di essa - anche il dialogo tra credenti e non credenti rimane alla superficie, ossia è un equivoco dove non si riesce a scorgere il dramma autentico del mondo attuale. L’essenza della filosofia del nostro tempo mostra l’impossibilità di porre limiti assoluti all’agire dell’uomo - e dunque a quella forma suprema dell’agire che è la tecnica guidata dalla scienza moderna e il supremo Limite assoluto è la Legge in cui consiste il Dio immutabile ed eterno. Oggi la tecno-scienza non è ancora in grado di ascoltare la voce dell’essenza della filosofia del nostro tempo. Nessuna meraviglia, visto che nemmeno la filosofia contemporanea e il cosiddetto laicismo sono in grado di ascoltarla e si riducono a essere una semplice fede nell’inesistenza di Dio. Ma quella voce e la tecnica esistono, ed è inevitabile che si finisca col comprendere che la loro unione consente la maggiore potenza di cui l’uomo abbia mai potuto disporre. È questa unione l’autentico avversario del Dio della tradizione: non l’incredulità dei popoli europei o il consumismo dell’Occidente. Ma il passo decisivo verso il dialogo autentico, quello tra le due grandi forze in lotta tra loro - l’essenza del passato e l’essenza del presente della civiltà occidentale, ormai planetaria - è il loro prender coscienza della propria anima comune: io. fede che le cose del mondo escono dal nulla e vi ritornano. Che non ci sia bisogno di un Dio perché ciò accada è la fede vincente rispetto alla fede che invece ritiene che di un Dio ci sia bisogno. Ma se ciò per cui le due fedi si oppongono è certo grandioso, esso è ciononostante qualcosa di subordinato rispetto all’esistenza di quell’anima comune, cioè rispetto alla fede che le cose hanno nel nulla la loro culla e il loro sepolcro. Abbiamo più volte chiamato fede quell’anima comune che invece, sia per gli amici sia per i nemici di Dio, è l’evidenza suprema. Infatti a questo punto si tratterebbe di volgersi verso il culmine del pensiero e di lasciarsi alle spalle anche quel passo decisivo, cioè anche il dialogo autentico tra il passato e il presente dell’Occidente. Volgendosi verso quel culmine si vedrebbe che in entrambi - cioè sia nell’affermazione sia nella negazione di Dio - è presente il senso più radicale del nichilismo, ossia la convinzione che le cose (ossia gli essenti, che non sono un nulla) sono nulla: proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente e conclusivamente nulla. E, come sopra si accennava, la convinzione che ha come contenuto l’Errore estremo, l’estrema Follia, non può essere che una fede. L’anima comune degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza del nichilismo, cioè dell’eccidio dell’essere. E, insieme, è la forma fondamentale dell’omicidio. La convinzione che l’uomo, di per sé, sia nulla, e come le altre cose sia il prodotto di Dio o del Caso, è infatti il requisito essenziale perché si decida di rendere l’uomo un nulla. (Ma ogni decisione non è forse, ormai, la volontà di far passare le cose dall’essere al nulla e dal nulla all’essere? Non è forse, ogni decisione, un eccidio? Il linguaggio stesso non avvicina forse il de-cidere e l’uc-cidere?) Nonostante il riconoscimento altissimo e crescente della sua grandezza poetica e filosofica, il genio di Leopardi, insieme al genio di Eschilo, è forse quello di cui meno si è visto il carattere decisivo nello sviluppo storico della civiltà - dunque non soltanto della cultura - occidentale. L’accostamento dei due nomi non è casuale. Eschilo appartiene al ristretto convegno di sovrani con il quale incomincia la filosofia. Appunto per questo la sua poesia è tragica. La filosofia, infatti, porta alla luce il pericolo estremo: che il divenire delle cose del mondo è il loro venire dal nulla e il loro ritornare nel nulla, da cui non si ritorna più, sì che anche la morte dell’uomo assume il volto e l’anima tragici dell’annientamento. Se non ci si rivolge a questo, che è il passato essenziale dell’Occidente, si perde di vista il senso autentico di ciò che Leopardi ha inteso dire nelle sue prose e nelle sue poesie. Anche quel portare alla luce è qualcosa di assolutamente inaudito. La filosofia è la radice del tragico perché intende lo sta -re nella luce (nella quale essa stessa consiste) come la sta¬ bilità del sapere che non può essere in alcun modo scosso o smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità assoluta del sapere innegabile. La chiama, appunto, epi-sté- me (in cui risuona lo sta -re e che inadeguatamente traduciamo con la parola scienza). La stabilità dell ’epistéme è l’essenza della verità. Porta oltre i millenni dell’esistenza guidata dal mito. Ma proprio perché attribuisce questa stabilità al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e ritornano nel nulla (proprio perché afferma che Tesser preda del nulla è verità), la filosofia getta l’uomo nelYangoscia più profonda, più profonda di quella di cui il mito è il rimedio e che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il mito conferisce al mondo un senso che non si mostra nella luce, ma è voluto, e quindi, da ultimo, è una fede, un arbitrio, anche se chi vive nel mito non se ne avvede e crede che esso mostri la realtà. Tuttavia la filosofia è, insieme, la radice del senso che la tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa sorgere nell’uomo anche la ricerca del saldo rimedio (secondo l’espressione di Eschilo) contro il dolore e l’angoscia. Sin dall’inizio il pensiero filosofico porta alla luce l’esistenza di un Principio {arche) divino, eterno e incorruttibile, sì che la nascita delle cose è dovuta al loro separarsi da esso e la loro morte è il loro farvi ritorno, lasciando nel nulla l’ingiustizia, ossia tutto ciò che nelle cose è l’effetto di quella separazione (Anassimandro). Il Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che dà senso al mondo e al dolore è avvolto dal divino, e tuttavia non si mostra nella luce, non è saldo. Eschilo, per primo in modo esplicito, porta alla luce che Yepistéme della Verità, come coscienza del proprio contenuto divino, è il fondamento della salvezza e della felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è espresso da Eschilo con un linguaggio che non può essere quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al teatro nel senso corrente della parola. Théatron, per Eschilo, è la ricerca che culmina nella contemplazione della Verità. Il dialogo di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in genere) viene radicalmente condannata, non capisce di avere nel teatro di Eschilo il proprio più potente predecessore. Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice tutto l’opposto. Porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del quadro grandioso della tradizione occidentale. Un altrettanto grandioso, terribile e inevitabile gesto, quello di Leopardi, la cui potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della cultura europea. Ma come è possibile capire questo gesto - presente in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se non si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto, ossia ciò che qui sopra abbiamo sommariamente tentato di indicare? A proposito di un passo di Diogene Laerzio, in cui si richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi afferma: Oggidì possiamo dire tutto l’opposto. Possiamo: nel senso che dobbiamo, che è necessario, che è tutto l’opposto a dover esser portato alla luce dalla filosofia. Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate vi è un solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un solo male [kakón], il non sapere [ amathìan ], cioè la privazione di quel sapere (màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale solo se è vero, se appare non nell’opinione, nella fede, nel mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la salvezza da lui data sono portati alla luce dall’ epistéme della verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la salvezza del male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo. Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è tutto l’opposto, cioè che Yepistéme è l’unico male e che il non sapere (amathia ) è l’unico bene. Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva, sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che le precede, le segue e le attraversa. Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e muoiono - si è qui al cuore deirultrafilosofia di Leopardi -, il loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza; laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Questa, la potente anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana morte di Dio. Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non saperla, la verità, che saperla; meglio Yamanthìa che Yepistéme. (Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e stupenda, cit., che ho pubblicato per Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e, per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi 1989). Leopardi può in tal modo portare alla luce il legame profondo che unisce Yamanthìa, l’ignoranza della verità, alla poesia e all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è illusione, inganno, menzogna, senza di cui la vita sarebbe però impossibile. Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta incita l’esercito dalla battaglia o di quella dove il canto fa sopportare il dolore e la morte. Nell’illusione poetica - che peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - l’uomo crede di essere in rapporto all’Infinito e aH’Eterno. In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere, la poesia non debba mostrare la verità, cioè la nullità di tutto - e il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo primo atteggiamento, dove il naufragio nel mare delFInfinito è dolce. Ma poco dopo egli sviluppa la grande teoria del genio che unisce nella propria opera la verità terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia e poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il contenuto del canto, ma, sia pure provvisoriamente, convergono nella potenza del canto, in modo che l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria. Infinita ed eterna è questa forza: non nel senso che il genio si sostituisca a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre finita e caduca, con cui egli riesce a esprimere la morte, cioè la finitezza e caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma di vita della cui infinità e eternità ci si può ancora illudere. E sono la suprema salvezza e consolazione concesse a chi non può salvarsi né essere consolato. La ginestra è il fiore del deserto. Il deserto è la morte e nullità di tutte le cose; il fiore è il genio. Egli è mortale, nasce per morire, e questa nascita è natura. Ma nobile. Nobil natura. La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il suo profumo (la potenza del canto) e Yepistéme della verità che vede il deserto. [...] di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola. Ora la dolcezza non si addice al naufragio nel mare dell’Infinito illusoriamente cantato come reale: l’Infinito è morto (è distrutto Iddio, scrive Leopardi, anticipando il Dio è morto di Nietzsche) e il deserto ne ha preso il posto. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte. Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con occhi mortali la morte (il comun fato), non nasconde la verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il quale Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è la nobile natura che unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto poetico e che intende come vero amore il porgere agli uomini questa unione. Come vero amore e come unico rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica, potranno, sia pur fugacemente godere, prima che il fuoco del vulcano ardente abbia a distruggere la ginestra, il fiore del genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne vede il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo profumo consola il deserto. Il genio che consola il deserto non è la volontà dell’oltreuomo che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica di Nietzsche, da questa vetta della contemplazione, come egli la chiama, che si porta ancora più in alto della vetta raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui linguaggio sta tuttavia più in alto del linguaggio di Nietzsche), allora si può dire che sia come filosofia sia come poesia il pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se ciò che viene portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vortice che getta le cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso del nulla, allora il pensiero di Leopardi indica la conclusione inevitabile della storia dell’Occidente e del mortale. Ma proprio a questo punto si fa innanzi la questione decisiva. Possiamo formularla così: è così indiscutibile che quel vortice - in cui crede sia la tradizione dell’Occidente, sia la distruzione di essa, avviata dal pensiero di Leopardi - appartenga all’evidenza assoluta, cioè all’assolutamente indiscutibile? Ogni linguaggio è problematico: non solo quel che esso dice lo dice all’interno di un’interpretazione, che non può mai essere una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del linguaggio è il contenuto di una interpretazione. Noi dialoghiamo perché, nonostante la problematicità dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al linguaggio delle parole, ma anche a quello del comportamento, ma poi a tutte le cose dalla terra e del cielo -, abbiamo fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro interlocutore (se esiste) sia a sua volta un interpretare e ponga a fondamento del suo interpretare le stesse regole che noi, e, daccapo, per lo più inconsapevolmente, poniamo a fondamento del nostro. Ma anche noi - e anch’io - siamo contenuti di una interpretazione. Di solito quelle regole non vengono messe in discussione. Ad esempio che esista un prossimo, una società, che certi eventi sensibili siano linguaggio, che un certo oggetto sia un libro e che sia scritto in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di interpretazione che ne scaturisce in virtù di certe altre regole - analoghe alle regole di trasformazione di cui parla la logica - che appare qualcosa come Storia dell’uomo. Storia dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche (o un certo Nietzsche). Con queste considerazioni non si intende affermare che ogni sapere sia interpretazione. Anzi, solo sul fondamento dell’apparire della verità autentica si può affermare che un certo ambito delle convinzioni umane è interpretazione, ossia non-verità. Nietzsche appartiene all’esito inevitabile della storia del pensiero occidentale - e della stessa civiltà dell’Occidente (cfr. E.S., L’Anello del ritorno, Adelphi). L’attenzione maggiore deve essere dunque rivolta all ’inevitabilità della distruzione del passato, a cui Nietzsche ha potentemente contribuito. Che Dio sia morto non è dovuto alla semplice circostanza che - come lo stesso Nietzsche qualche volta ritiene - la gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli è indubbiamente questa - nonostante il peso che le religioni hanno riacquistato negli ultimi tempi. Ma le tendenze, anche, si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è risorto? L’obbiezione storica decisiva, che per Nietzsche consisterebbe appunto nell’attuale incredulità della gente, non ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero di Nietzsche sta altrove. Non la si trova nemmeno quando si riduce il pensiero di Nietzsche al prospettivismo - che sostanzialmente non differisce dallo scetticismo. (Che peraltro può presentarsi in forma non ingenua quando - di fronte ad avversari che si limitano a rilevare la contraddizione della sua tesi che sostiene la verità dell’inesistenza di verità - esso può replicare chiedendo per quale motivo non ci si debba contraddire; e a questa sua domanda ben pochi sono in grado di rispondere in modo adeguato.) Nella sua essenza autentica - tanto più autentica quanto più nascosta e quanto più rara - il pensiero del nostro tempo non è scetticismo. Non lo è, certamente, il pensiero di Leopardi e di Giovanni Gentile. Costoro, insieme a Nietzsche, seminano l’essenza del nostro tempo. L’essenza del nostro tempo conduce alla sua forma più rigorosa l’essenza dell’Occidente, cioè la fede nell’esistenza del divenire, inteso nella configurazione ontologica che i Greci una volta per sempre gli hanno assegnato: la fede nell’evidenza originaria e irrinunciabile di tale configurazione. Appunto sul fondamento della fede nell’evidenza del divenire - inteso secondo tale configurazione - Nietzsche (come Leopardi e Gentile) mostra l’impossibilità di Dio. Si tratta di capire l’incontrovertibilità - Yinevitabilità, appunto - di questa fondazione. Che Dio sia morto - cioè che non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una necessità. Si tratta di capire il senso di questa necessità. E, insieme, di capire che Nietzsche porta al culmine la storia dell’Occidente anche perché mostra che la forma di potenza che la tecnica è destinata ad assumere per essere la potenza suprema è la potenza della volontà che vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Capire cioè che, proprio perché è necessario che Dio sia un morto, proprio per questo è necessario l’eterno ritorno di tutte le cose ed è necessario che tale ritorno divenga il contenuto essenziale della volontà che costituisce la tecnica. Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può esistere è chiamato da Zarathustra l’Uno, il Pieno, il Satollo, l’Immoto, l’Imperituro. La fede nel divenire, che accomuna tutti i pensieri e tutte le opere dell’Occidente, implica con necessità l’impossibilità dell’esistenza di questo Dio. Zarathustra dice: Affinché vi apra tutto il mio cuore, amici, se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere Dio! Dunque non vi sono dèi ( Sulle isole beate). Ma nell’ Anello del ritorno si mostra che la premessa autentica di quel Dunque è quanto Zarathustra dice verso la fine del capitolo: Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?. Ma nemmeno questa è un’affermazione che non abbia bisogno di essere compresa. Nietzsche aveva ragione ad affermare l’indispensabilità di una cattedra universitaria per la comprensione di Così parlo Zarathustra, da lui considerato il più importante dei suoi scritti. Se si vuole richiamare in astratto la sequenza essenziale che costituisce la grandezza del suo pensiero, ci si può esprimere così: la creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza originaria. Tale evidenza implica con necessità l’impossibilità di ogni Dio. La stessa necessità che implica tale impossibilità comporta l’eterno ritorno di tutte le cose, il ritorno che in quanto voluto dalla volontà di potenza conferisce alla tecnica la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione concreta di tale necessità). Questa è una indicazione astratta. Senza la concretezza corrispondente (a cui L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca strada. Ma è l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò significa che tale sequenza non esprime le molteplici tematiche che nel discorso di Nietzsche le sono più o meno strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della sequenza essenziale presente neWAnello del ritorno esprima qualcosa che appartiene a Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna alternativa che abbia la capacità di modificare questa mia convinzione), ebbene non avrei troppe difficoltà ad affermare - modestia invita - che quella sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la storia dell’Occidente (non cesserebbe di esserne il culmine), per il fatto di non appartenere a Nietzsche. b) Affinché vi apra tutto il mio cuore Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero? Nulla! Questa è la risposta richiesta dall’interrogativo retorico. Creare e annientare: sono gli aspetti fondamentali del divenire, secondo il senso che i Greci hanno assegnato al divenire: andare dal non essere all’essere e dall’essere al non essere. Creare: condurre nell’essere ciò che non era, che era nulla. Annientare: riportare nel nulla ciò che era riuscito a essere. Negare l’esistenza del creare e dell’annientare è negare 1’esistenza del divenire, ossia di ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema. Che cosa mai resterebbe da creare, all’uomo, se gli dèi esistessero? Nulla! L’esistenza degli dèi rende impensabile la potenza creativa e annientante dell’uomo cioè la vita dell’uomo - giacché è questa potenza a formare il centro di ogni divenire, e dunque il centro dell’evidenza originaria. Ma perché l’esistenza degli dèi rende impensabile e impossibile il creare e l’annientare dell’uomo? Incominciamo a rispondere dicendo il motivo per il quale Zarathustra attribuisce al dio i caratteri dell’esser l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro. È ben più profondo di quanto non sembri a prima vista. Il dio è pieno e sazio. Pieno di tutta la realtà, che sta raccolta nell’immutabile e imperitura unità che lo costituisce e lo sazia. Il dio è questa unità anche se lo si pensa separato dal mondo. Il mondo non aggiunge nulla alla pienezza del dio, che dunque è sazio anche se ha lasciato al di fuori di sé il mondo. Pertanto il dio prescrive sé stesso a tutte le cose. Ne è la Legge. Egli non può non prescrivere sé stesso; non solo a tutto ciò che è già, ma anche a tutto ciò che sarà e a tutto ciò che è già stato. Se qualcosa, al di fuori del dio, avesse una propria legge, un proprio ordine e senso, una propria vita, diversi da quelli in cui il dio consiste, il dio non sarebbe ancora sazio, avrebbe ancora qualcosa di cui potersi saziare. Egli prescrive sé stesso al presente, al passato, al futuro, al tutto, prescrive la propria costituzione, cioè la legislazione in cui egli consiste e che egli proietta intorno a sé, nei secoli dei secoli, catturando e mantenendo tutto dentro di sé, sazio da sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al divenire dell’uomo e della terra non resta dunque nulla. Nulla da creare e da annientare. Il divenire sarebbe impossibile, se vi fossero degli dèi. Se vi fossero, come potrei sopportare di non essere dio!?, dice Zarathustra. Non si tratta di una esclamazione vana e infine patetica. L’insopportabile non è tale per un individuo dalle molte pretese, ma per il pensiero che intende vedere la verità e che non può sopportare che l’esistenza del dio renda impossibile e impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e irrefutabile del divenire. Il dio è infatti la Legge suprema a cui tutto deve adeguarsi, che non può tollerare che dal nulla emerga una novità da lui non prevista, la quale sconvolga la sua legislazione e mostri che solo apparentemente egli era sazio e immoto. Con la propria pienezza e sazietà egli ha già raggiunto tutto e non può essere raggiunto e sorpreso da alcunché. È pieno perché ha riempito tutto di sé. Che cosa resterebbe da creare, che divenire resterebbe, se egli avesse tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse raggiunto e occupato futuro, passato, presente, imponendo al futuro di non essere un futuro, un ancor nulla, ma di esser già una regione totalmente adeguata alla Legge; e, trattenendo a sé il passato, impedendogli di essere un ormai nulla e prescrivendogli quindi di non sottrarsi alla Legge, andandosene in una regione dove si possa essere liberi da essa? Che vita resterebbe all’uomo da vivere se tutto questo dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente che l’uomo vive. Dunque dio non può esistere. Il divenire implica che esista un non essere da cui gli enti divengono e in cui ritornano. Ma un dio immutabilmente pieno e sazio ha già da sempre riempito tutti gli spazi vuoti del non essere: da essi non può provenire alcunché di cui egli non sia già sazio, e nemmeno nel vuoto in cui le cose si portano possono trovarsi mondi ed eventi di cui egli non si sia ancora impadronito o che si sia lasciato sfuggire di mano. Ciò significa - ecco il tratto decisivo e fondamentale - che 1’esistenza del dio, la cui legislazione si estende al tutto e alla totalità del tempo, trasforma il non essere, che è necessariamente richiesto dal divenire, in un ascoltatore e in un suddito dell’essere. Il dio identifica il nulla con l’essere, e quindi cancella il divenire, cioè l’evidenza originaria e suprema del pensiero e delle opere dell’Occidente. Molti a questo punto possono domandarsi se sia così scandaloso per Nietzsche che il nulla sia essere e l’essere sia nulla. Non è forse ben nota la spregiudicatezza di Nietzsche nei confronti dei principi logici? Eppure, chi crede nell’esistenza del divenire, quella spregiudicatezza non può averla - o ha un senso del tutto diverso da quello che comunemente le si assegna. Credere nel divenire significa infatti credere nella differenza tra il prima e il poi, tra ciò che ancora non è, ed è un nulla, è ciò che ormai è, tra ciò che è ciò che ormai non è più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del principio di non contraddizione proposte dal pensiero del nostro tempo negano tale principio in quanto esso si presenta ai loro occhi come negazione del divenire, ossia come negazione del senso autentico della non contraddittorietà, del senso consistente appunto nella ineliminabile differenza, nella struttura del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il nulla. Oggi si crede che i problemi dell’uomo possano essere risolti da un ritorno ai valori, alla tradizione dell’Occidente e soprattutto alla radice di tutti quei valori, che è Dio. Ma è un passato che agli occhi di Nietzsche si presenta come una foglia secca, ancora attaccata al ramo - una grande foresta disseccata che all’uomo della tradizione appare ancora come una vegetazione animata dalle linfe della terra e quindi ancora capace di guidare l’umanità. Ma se Dio è veramente morto 139 come è ancora possibile questa illusione? c) Eterno ritorno e tecnica La seconda parte di quella che sopra abbiamo chiamato la sequenza essenziale del pensiero di Nietzsche afferma che la stessa necessità che implica l’inesistenza di Dio implica anche l’eterno ritorno di tutte le cose. Si può esprimere questa tesi anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve perdere di vista la concatenazione essenziale di tre capitoli che nel testo compaiono invece separati l’uno dall’altro: Sulle isole beate, Della redenzione. La visione e l’enigma. La visione e l’enigma racconta l’eterno ritorno di tutte le cose. Zarathustra racconta che ci sono due strade, una che procede in avanti, l’altra all’indietro. Da come si presentano, non si dovrebbero mai incontrare; eppure, assicura Zarathustra, si incontreranno e tutte le cose che camminano su di esse si ripresenteranno, e infinite volte, così come una volta si sono presentate - ad esempio questo ragno e questo chiaro di luna e il colloquio tra Zarathustra e il nano. Zarathustra, qui, racconta. Eppure a Nietzsche è del tutto estranea la volontà di raccontar miti. La sua è una gaia scienza. Gaia; ma scienza. Non la scienza come epistéme che afferma resistenza di Dio, ma come conoscenza che tuttavia intende essere incontrovertibile e innanzitutto affermazione incontrovertibile dell’esistenza e dell’evidenza del divenire di tutte le cose e, su questo fondamento, conoscenza incontrovertibile della morte di Dio, ossia di ciò che rende impensabile e impossibile resistenza del divenire. Il pensiero di Nietzsche appartiene al culmine dell’essenza autentica del nichilismo - all’essenza cioè cui si rivolgono i miei scritti mostrando la Follia estrema -; ma, proprio perché è la forma più radicale del nichilismo, esso è anche la forma più radicale di fedeltà alla fede nel divenire. Gli amici di Dio, che pure fondano questa loro amicizia su tale fede, non posseggono tale fedeltà. Appunto per questo sono destinati al tramonto e a essiccare anche se sono attaccati ai rami. Il genio di Nietzsche sta nel rendersi conto che il rapporto fra la creatività dell’uomo e Dio è del tutto analogo al rapporto fra tale creatività e il passato. Come il Dio immoto, imperituro e sazio è immodificabile dalla volontà umana, così il passato si presenta all’uomo come immodificabile dalla sua volontà. Sul passato non si può più intervenire, non lo si può cambiare. Così fu. Ma questa - agli occhi della fede nel divenire - è la voce della non-verità; come è la voce della non-verità quella che afferma che Dio è vivo. Il passato possiede la stessa anima, la stessa essenza dell’anima e dell’essenza di Dio. Come l’immutabilità di Dio rende impossibile il divenire, così il divenire è reso impossibile daH’immutabilità del passato. Sebbene Zarathustra non usi queste espressioni, si può dire che anche il passato - quando sia visto da chi riesce a portarsi oltre l’uomo - è l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro. La sua esistenza è infatti la legislazione che condiziona tutto il futuro. Non in senso deterministico, ma nel senso che anche quando ci si vuole liberare dal passato e dai suoi condizionamenti non si può evitare che esso sia stato così come è stato, sicché la liberazione da ciò che non può essere diverso da come è stato non può renderlo diverso da sé e non può non esserne condizionata. Una liberazione apparente. Ci si potrà proporre di evitarne le conseguenze, ma non si potrà evitare che la totalità del futuro si mantenga in relazione a ciò che non potrà mai diventare diverso da sé e a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in questo senso più profondo. In nessun luogo del divenire si potrà evitare di rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere più ciò che è stato. La coscienza umana può ricercare il passato - pensa la fede nel divenire -, ma è prigioniera della convinzione di non poter far sì che ciò che è stato non sia stato. La legislazione in cui anche il passato consiste potrà essere dimenticata ma non distrutta, e quindi anch’essa riempie di sé ogni spazio vuoto del nulla in cui il futuro consiste. Anche questo nulla diventa quindi un ascoltatore del passato, un passato esso stesso; così come il nulla implicato dal divenire diventa, con resistenza di Dio, un ascoltatore e un suddito di essa, diventa cioè un essere. Proprio perché non può essere modificato o annientato, il passato è il macigno che anticipa il futuro, e quindi lo annienta. Se esistesse un Immutabile, nessun evento, per quanto lontano nel futuro, potrebbe non tenerne conto, ossia potrebbe configurarsi indipendentemente da esso. Inoltre, da un lato il passato è ciò che è diventato nulla; dall’altro lato, tuttavia, ha un contenuto positivo che non rinuncia a sé stesso e al suo imporsi al futuro, così come non vi rinuncia Dio; sì che anche in questo senso il così fu è l’identificazione del nulla e dell’essere. Anche il futuro, quindi, sino a che l’uomo crede che il passato sia immodificabile, si presenta come qualcosa che non proviene più dal nulla - secondo quanto è richiesto dall’essenza del divenire -, ma proviene dal macigno del passato, da cui dipende come si dipende dal macigno di Dio. Come Dio, anche l’immodificabilità del passato implica la negazione del divenire, cioè di quella novità autentica che è la nullità di ciò che è ancora un futuro. Come Dio, anche il passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non ci può essere divenire, in un essere, in un ascoltatore del passato. Pertanto, come è necessario affermare che Dio è morto, così è necessario affermare che è morto anche il passato, in quanto esso è pensato e vissuto come l’assoluta immodificabilità del così fu. La creatività della volontà implica cioè necessariamente la sua capacità di trasformare il passato, di volere il passato come si vuole il futuro. Si tratta ora di indicare come ciò sia possibile. d) Volere Veterno ritorno e volere il passato Ancora sulla base di Così parlò Zarathustra - che nonostante i suoi tentativi di sviare il lettore contiene tutti gli elementi che rendono la dottrina dell’eterno ritorno una conseguenza inevitabile della fede nel divenire - richiamiamo dunque il modo in cui Zarathustra mostra come la volontà possa volere il passato (il che essendo già stato fondato da quanto è stato qui sopra rilevato), senza essere una semplice velleità. La volontà è il tratto essenziale del divenire. La sua libertà è innanzitutto il suo liberare da Dio e dal passato, e in generale da ogni forma che gli immutabili possono assumere. Proprio per questo, è libera nel senso che non è sottoposta ad alcun disegno prestabilito. Non solo essa è casuale: è il caso stesso. Se essa si presenta dapprima come volontà che vuole il futuro, ormai Zarathustra ha mostrato l’unilateralità di questo aspetto della volontà, cioè ha mostrato che essa è padrona del passato come del futuro. Essa vuole anche il passato. Ma essa non può volerlo separatamente dal proprio volere il futuro, perché altrimenti il futuro, una volta voluto e ottenuto, diventerebbe un passato su cui la volontà non ha potenza. È cioè necessario che il volere in avanti - il volere che vuole il futuro - sia lo stesso volere che vuole a ritroso, ossia che vuole il passato. Questa identità è possibile solo se volendo in avanti si percorre un circolo: un percorso in cui si finisce col ritornare al punto di partenza. Il percorso circolare - l’anello del ritorno - rende possibile che, volendo il futuro, si voglia per ciò stesso il passato. Solo se il divenire del mondo è un circolo, e un circolo che ritorna su di sé alfinfinito - un anello del ritorno -, la volontà che vuole il futuro vuole per ciò stesso il passato, e lo ottiene come ottiene il futuro. Ogni punto del circolo è un punto di partenza. Altrimenti, se esistesse un punto privilegiato, esso sarebbe il punto immutabile, Yarchè del processo: sarebbe, daccapo, un Dio immutabile che anticiperebbe in sé la totalità del divenire, vanificandola. Il circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se inizio e fine sono il nulla (come invece pensa Leopardi con un rigore che è massimo all’interno di una prospettiva in cui, tuttavia, non si vede ancora la necessità dell’eterno ritorno di tutte le cose), perché anche in questo caso il divenire avrebbe una direzione, cioè sarebbe sottoposto a una legge che attribuirebbe al nulla i tratti che sono propri dell’anticipazione divina del tutto. Se il nulla stesso fosse l’origine unica e inamovibile da cui tutto proviene e il termine a cui tutto ritorna (anche la scienza e in particolare la cosmologia si muovono per lo più nei paraggi di questa tesi), il nulla preordinerebbe il futuro e riceverebbe il passato in modo analogo a quello in cui il futuro e il passato sono rispettivamente preordinati e conservati da Dio. Ciò non significa che il futuro non sia un uscire dal nulla e il passato non sia un ritornarvi: significa escludere che i nulla del futuro e del passato si distacchino dai punti del circolo dell’eterno ritorno e si configurino come dimensioni teologiche, immutabili, dominanti ed esterne rispetto alla casualità del divenire. Nemmeno il nulla può essere lo scopo e il riposo eterno dell’uomo. L’esistenza non ha senso. Che il divenire abbia un senso è un modo di affermare che il divenire è guidato da un Dio. Appunto perché è 144 impossibile che un qualsiasi immutabile esista, è necessario che il divenire - e cioè il tutto, la totalità di ciò che esiste - sia assolutamente senza senso. Come è impossibile un inizio assoluto, così è impossibile uno scopo assoluto. Il pensiero di Nietzsche mostra dunque non solo che ogni Dio, cioè ogni Immutabile, rende impotente la volontà, ma che la forma più potente della volontà è quella in cui la volontà vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Sino a che la scienza guiderà la tecnica assumendo la potenza come una volontà che vuole soltanto in avanti e che non sa di avere potenza anche sul passato, ossia non sa di essere, essa, l’eterno ritorno di tutte le cose, la tecnica non potrà raggiungere la potenza massima cui è destinata. Il destino della tecnica è di ascoltare la voce dell’eterno ritorno di tutte le cose e di realizzare l’epoca della potenza massima raggiungibile dall’esistenza (e a sua volta destinata a declinare, a ridursi, per poi ricomparire infinite volte). La tecnica è destinata a volere l’eterno ritorno di tutte le cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che ancora è la più lontana dalla coscienza che scienza e tecnica hanno di sé stesse (anche se la possibilità di un recupero del passato è sempre più presa in considerazione aH’interno del sapere scientifico). Più vicina a quella coscienza è la dottrina che la morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di potenza, anche se la morte di Dio non deve essere trattata come un dogma simmetrico a quello degli amici di Dio, ma deve essere vista nella sua necessità. Tutto ciò che qui è stato sommariamente tracciato trova il proprio significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si deve lasciar da parte, di quel mio scritto, la considerazione dell’aspetto speculativamente più rilevante del pensiero di Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è 145 avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede nell’evidenza del divenire implica necessariamente l’eterno ritorno di tutte le cose, tale fede implica necessariamente la negazione di sé stessa. Infatti, se l’eterno ritorno non è la riesumazione di un’antica dottrina metafisica, esso è tuttavia pur sempre un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai guardato in faccia (e che quindi non ha nulla a che vedere con le considerazioni di Nietzsche sulla tragedia attica) e che tuttavia grava sulle sue spalle è che la negazione del divenire appartiene necessariamente all’essenza del divenire: che il divenire non è divenire. Il genio di Nietzsche è infinitamente maggiore di quello che egli è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente maggiore, perché, senza volerlo - e anzi volendo l’opposto - mostra l’abisso senza fondo su cui si libra la fede che regge l’intera storia del mortale e, al culmine di quest’ultima, la storia dell’Occidente. Non si dovrà dire allora che il librarsi della fede nel divenire sull’abisso senza fondo della negazione di questa fede - il legame indissolubile che lega questa fede alla propria negazione - è il librarsi stesso della Follia - non quella che lacera la mente di un individuo che è stato un grande filosofo, ma quella che sta alla radice del modo in cui l’uomo ha abitato e tuttora abita la terra? Ricordo che due anni fa - Hans-Georg Gadamer era venuto a Venezia, e stavamo entrando a Ca’ Foscari parlando di Heidegger-, mentre ponevo termine alla nostra conversazione, perché la conferenza del professor Gadamer era imminente, volli avanzare quello che mi sembrava il punto decisivo, e gli dissi che tra Heidegger e l’essenza della tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al che Gadamer rispose con un no tanto perentorio quanto gentile. Ma è proprio su questo punto che vorrei un po’ soffermarmi; quindi mi è cara l’occasione per riprendere quel discorso interrompu con Gadamer: l’essenziale solidarietà del pensiero di Heidegger con l’essenza della tecnica, con quell’essenza che secondo Heidegger si colloca agli antipodi della sua posizione. Ieri si è parlato di differenza ontologica: vorrei prendere le mosse da questo concetto. Differenza ontologica significa che esiste una essenziale accidentalità nel rapporto tra l’essere e l’ente. Significa che l’ente non è essenzialmente legato all’essere e in questo senso è un evento che sopraggiunge improvvisamente e imprevedibilmente. Il concetto che è opposto a quello di differenza ontologica è la non- differenza ontologica. Questa lega l’essere all’ente; questo legame, per Heidegger, o la storia di questo legame, è la storia della metafìsica. Legare l’essere all’ente vuol dire assicurare le cose al loro essere. Assicurandole, le cose diventano stabili e arginano, bloccano, il sopraggiungere delle novità storiche. Allora, parlare della non-differenza ontologica è parlare delfimmutabilità, o dell’eternità delle cose. Recentemente, è uscita la traduzione di Was heisst Denken, dove viene sviluppato il concetto che al culmine di questa assicurazione degli enti all’essere, al culmine della non-differenza ontologica sta il pensiero di Nietzsche. Heidegger cita il frammento della Volontà di potenza, dove si parla della vetta della contemplazione: la vetta della contemplazione è il ritorno di tutte le cose. Questa, per Nietzsche, è l’estrema approssimazione del mondo del divenire al mondo dell’essere. Heidegger vede in Nietzsche, in quanto teorico dell’eterno ritorno, l’anticipatore della civiltà della tecnica, perché la civiltà della tecnica consiste nella programmazione che esclude la differenza ontologica; la programmazione che, stabilendo la routine, la ripetizione dell’inedito, esclude la possibilità del sopraggiungere del nuovo, del diverso. Heidegger si muove certamente verso l’espressione dell’essenza del pensiero occidentale, in quanto, allontanandosi dalla maggior parte delle forme del pensiero contemporaneo, capisce che l’essenza di tale pensiero va vista in termini ontologici. Ma è appunto in questa raffigurazione heideggeriana dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale che si cela quella sostanziale solidarietà fra Heidegger e la tecnica, di cui avevo parlato prima. Perché? Il tema dell’eterno ritorno dice dunque che il nuovo è impossibile, ed eterno ritorno vuol dire estrema approssimazione del mondo del divenire al mondo dell’essere. Ecco, penso che tutti colgano il significato della parola approssimazione, che è estrema, ma è pur sempre approssimazione. Ciò vuol dire che la distinzione tra il mondo del divenire e il mondo dell’essere rimane; c’è sì l’estremo tentativo di identificarli, ma è tentativo che lascia inevitabilmente un margine dove il divenire non è l’essere. È il massimo che si può compiere per identificare i due mondi; ma il tentativo è uno sforzo, non riesce. Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce col bloccare il divenire, ma il divenire è bloccato solo in quanto se ne riconosce l’esistenza. Se teniamo ferma la vicinanza che Heidegger stabilisce tra tema dell’eterno ritorno e civiltà della tecnica, allora l’immutabile, cioè la non-differenza ontologica in cui consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è possibile soltanto sul fondamento del riconoscimento dell’esistenza del divenire. L’immutabile protegge dal pericolo della novità, precattura il nuovo, ma proprio perché è la difesa rispetto alla novità che il divenire porta con sé, appunto per questo l’affermazione dell’immutabile è il riconoscimento del divenire. Ma questo riconoscimento del divenire - che dunque è evidente in Nietzsche: proprio in quanto egli si vuole assolutamente cautelare dal divenire - questo riconoscimento del divenire non è nulla di diverso, nell’essenza, da ciò che Heidegger chiama differenza ontologica. Perché, se differenza ontologica significa accidentalità dell’ente rispetto all’essere, il non essere legato necessariamente all’essere da parte dell’ente, allora differenza ontologica vuol dire appunto il movimento di oscillazione delle cose, e la loro eventualità è il loro andare e venire - un processo in cui le cose sono lasciate nel loro andare e venire. Voglio dire che quel divenire, che è necessariamente riconosciuto da Nietzsche quando egli intende rendere radicale (e insieme difendersene) con 1’evocazione dell’eterno ritorno, quel divenire è altrettanto radicalmente riconosciuto da Heidegger quando egli lo esprime in termini puramente ontologici, come, appunto, differenza ontologica. D’altra parte è chiaro che quando Heidegger parla della programmazione operata dalla civiltà della tecnica, che impedisce la storia, dissente da questo acme che la metafisica occidentale raggiunge nel pensiero di Nietzsche e nella civiltà della tecnica. Voglio dire che quel modo di interpretare Heidegger per il quale egli verrebbe a equivalere simpliciter a Weber, non è quello che intendo sostenere. Dal punto di vista filologico è ovvio che Heidegger intende prendere le distanze dall’epoca in cui domina la civiltà della tecnica. Egli rivendica la possibilità del nuovo in contrapposizione all’eliminazione del nuovo. Allora, una prima domanda: qual è il fondamento dell’esigenza del nuovo? Perché ci deve essere il nuovo? Perché non ci può essere un sistema che predetermini la totalità dell’evento, precatturando appunto ogni novità e rendendo impossibile ogni novità? Che cos’è ciò che fonda questa esigenza del nuovo, che è l’esigenza dell’esistenza della storia? Lo so, è l’esigenza di tutti abitatori dell’Occidente: noi vogliamo che la storia esista. Ma perché deve esistere il non¬ sistema? Ecco, sostengo che Heidegger esprime semplicemente l’esigenza, ma non più che l’esigenza, della esistenza del nuovo: si limita a un’atteggiamento, che è proprio dell’intera cultura contemporanea, che non può escludere il sopraggiungere di un sistema il quale riesca a fare ciò che Hegel non è riuscito a fare. Per escludere il sistema, per riuscire a escludere la negazione della storia e della novità è necessario un approfondimento del senso ontologico del divenire, che rimane invece nel sottosuolo del pensiero di Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori del tempo, Armando 1978, il capitolo intitolato Gòtterdàmmerung). Seconda domanda: quando Heidegger polemizza contro la civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione, non si dimentica forse della caratteristica essenziale della scienza moderna, cioè del carattere ipotetico della scienza? L’anticipazione del futuro da parte d elYepistéme tradizionale è indubbiamente una cattura che elimina radicalmente la novità. Se è già aperto il senso del mondo, se il senso del mondo è già aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo è certamente impossibile. Ma la scienza moderna si è costituita proprio attraverso la distruzione d elYepistéme; quindi la programmazione, il piano, in cui consiste la civiltà della tecnica, è una anticipazione ipotetica del futuro: se teniamo presente il concetto di scienza come metodo sperimentale, allora, all’interno di questa prospettiva, la scienza, come sperimentazione, è una programmazione che però resta aperta alla smentita possibile operata dalla novità sopraggiungente. Vepistéme, sì, elimina la novità; dice alla novità: Io so già che cosa tu sei, io sono la tua regola; ma la scienza non fa questo, cioè la scienza realizza appunto a fondo quell’atteggiamento di apertura verso la novità storica, che Heidegger si limita a invocare. Questo sarebbe un primo senso secondo il quale la civiltà della tecnica è l’autentica erede dell’atteggiamento che Heidegger intende proporre. Ma vi è un senso più sostanziale. Il senso più originario e più nascosto della volontà di potenza è la volontà che la storia (il divenire, la differenza ontologica) esista. Solo se si stacca l’ente dall’essere e lo si fa oscillare tra l’essere e il niente è possibile il dominio dell’ente. Alla base della volontà di dominio sta la volontà che esista il campo del dominabile. Questa volontà originaria è l’essenza dell’Occidente. E in questa essenza convengono quindi anche la tecnica e il pensiero di Heidegger. Ma il pensiero di Heidegger, a differenza della tecnica, contraddice la propria essenza, perché mentre la tecnica, volendo il dominio dell’ente, porta a compimento l’originaria volontà di potenza (cioè la volontà che il dominabile esista), e cioè resta fedele alla propria essenza, Heidegger contrappone alla volontà di dominio il lasciar essere gli enti: quel lasciar essere che è stato originariamente violato (anche) dal pensiero di Heidegger, proprio perché la volontà che separa l’ente dall’essere - e che quindi vuole la nientità dell’ente - non lascia essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel suo essere unito al suo essere. In questo senso, la volontà di potenza, nel pensiero di Heidegger, è incoerente (tradisce la propria essenza), mentre la tecnica si libera da questa incoerenza ed è quindi la coerenza del pensiero di Heidegger (e non solo di esso). In questo senso bisogna dire che il pensiero di Heidegger è unterwegs zur Technik, in cammino verso la tecnica. O anche: il pensiero di Heidegger esce dall’incoerenza solo se si pone come il lasciar essere le forze che si contendono il dominio dell’ente, e quindi come il lasciar essere l’organizzazione tecnologica del mondo, che ormai ha avuto il predominio su ogni altra forza. * Intervento al convegno su L’eredità di Heidegger, tenutosi all’università di Padova nell’inverno 1978 (con la partecipazione, tra gli altri, di Gadamer, A. De Waelhens, M. Riedel, G. Vattimo) e poi pubblicato in Verifiche. Le religioni soddisfano i desideri più profondi deiruomo. I miti gli dicono che può accostarsi e unirsi alle potenze supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla morte e renderlo felice in un’altra vita. Dando ascolto a queste voci, per millenni e millenni l’uomo riesce ad anticipare qui sulla terra quella felicità, e a sopravvivere. Crede, ha fede in esse, ne è certo. Ma queste voci asseriscono, raccontano: non possono impedire che il dubbio si insinui e si faccia largo nella gran massa delle loro certezze. Il mito soddisfa il desiderio, ma è inaffidabile. La salvezza è il contenuto di un sogno. Nemmeno le religioni più evolute riescono a uscirne. Si fa avanti allora la religione. Intende mostrare come il dubbio possa esser vinto. La storia breve della religione: due millenni e mezzo. In essa, però, i criteri per accorgersi di ciò che è sogno sono andati sempre più perfezionandosi. E tuttavia il contenuto del sogno non è stato sostituito da una veglia altrettanto salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto vedere - e, di assolutamente affidabile, ha visto soltanto l’assoluta precarietà della propria condizione. Scienza e tecnica fanno sì prevedere, qui sulla terra, l’avvento del loro paradiso. Ma fanno anche capire che nemmeno questo paradiso può uscire dal sogno. Sanno che, per quanto raffinate, le loro procedure razionali sono ipotetiche, fallibili. La condizione umana è precaria, perché precaria è ogni rassicurazione razionale dalla non precarietà dell’umano. Sia pure in modo diverso, la salvezza dal dolore e dalla morte continuano a essere qualcosa di sognato. In questa situazione, i miei scritti indicano qualcosa che non può non sembrare esorbitante e velleitario. Può essere espresso con l’affermazione di Eraclito: Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono. Intendo: da cose che sono infinitamente di più di ciò che essi desiderano, suppongono, sperando di ottenere; infinitamente di di più di ciò verso chi vuole condurre la stessa speranza cristiana, e dunque di più di ogni immortalità e di ogni resurrezione della carne che a speranze di questo genere sono connesse - e infinitamente di più di ciò a cui lo stesso Eraclito poteva riferirsi. Siamo destinati a qualcosa che è infinitamente di più di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può volere. Ma il carattere esorbitante di queste affermazioni è ancora maggiore, perché quel che esse indicano non si presenta, nei miei scritti, come il contenuto di un mito, ma come lo stare, in modo assoluto, al di fuori del sogno in cui rimane ogni mito e ogni forma della stessa ragione. In questo stare al di fuori del sogno non si tratta di attendere l’avvento dell’insperato: già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da una veglia assoluta che è infinitamente più radicale di ogni incontrovertibilità e di ogni procedura critica della ragione - dunque anche di quella delle scienze logico-matematico- naturali. È all’interno di questa veglia assoluta che si mostra la destinazione dell’uomo a cose che egli non spera né suppone. L’uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno credere di essere, ma è lui stesso, nel profondo, a esser questa veglia assoluta. In essa appare l’infinito allargarsi di sé stessa, cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del Tutto, ossia della Gioia che l’uomo, da ultimo, è. Nei miei scritti tale veglia assoluta è indicata dalla parola destino, intesa come costruita in modo analogo a termini quali de-amare, de-vincere, dove il de esprime l’intensifìcazione dell’amare e del vincere, sì che il destino è l’intensificazione estrema dello stare, cioè dell’inamovibilità in cui consiste la veglia assoluta. Il destino è l’apparire di ciò che è, ossia degli essenti. Nel destino appare che ogni essente è sé stesso e non diventa altro da sé, e dunque è eterno; e appare che il variare del mondo è il sopraggiungere degli eterni nell’apparire, ossia è la Gloria dell’inesauribile sopraggiungere della Gioia; e, insieme, nel destino appare che la negazione del destino è negazione di sé stessa, una freccia che, volendolo colpire, colpisce sé stessa. Il destino è il senso autentico della verità. E, ancora, nel destino appare che l’uscire dal nulla e il ritornarvi non appaiono, ma appare il sopraggiungere di quegli eterni che sono il dolore e il piacere, la nascita, l’agonia. Il cadavere - gli eterni che sono oltrepassati quando tramonta l’isolamento della terra dal destino. Nell’isolamento della terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di salvezza e di potenza. Nel suo significato essenziale la morte è il divenir altro (ossia è l’impossibile); e da sempre i mortali hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o diventandone gli alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere la morte con la morte. Certo, tutto questo, detto in questi termini, può sembrare un ennesimo mito che ripropone quanto la tradizione filosofico-metafisica dell’Occidente ha inteso essere: l’unità di quanto interessa l’uomo e di quanto la ragione può dire (l’unità tuttavia che non può essere realizzata né dalla coscienza religiosa né dalla configurazione che la religione è venuta ad assumere nel nostro tempo). Ma, lungo la storia stessa dell’Occidente, quella tradizione è tramontata. Sennonché è proprio nei miei scritti che si mostra l ’inevitabilità di tale tramonto, la quale va rintracciata in quella dimensione più profonda del pensiero filosofico del nostro tempo, che questo stesso pensiero per lo più non riesce a raggiungere. D’altra parte sin dal suo inizio la filosofia porta alla luce non solo l’istanza dell’incontrovertibilità, ma anche un senso radicalmente nuovo della salvezza: si tratta di salvarsi dal nulla da cui le cose del mondo sporgono improvvisamente. Il mito prefilosofico non pensa il nulla e dunque non vede nemmeno che la morte è annientamento. Non vede il pericolo estremo e quindi non salva da esso. Pensando l’eternità del divino, la tradizione filosofica crede che la salvezza dal nulla sia possibile. Ma se si sa scendere nella dimensione profonda della filosofia degli ultimi due secoli si scorge che qualsiasi Essere eterno è impossibile. Impossibile, quindi, anche ogni verità eterna, incontrovertibile, definitiva. Ciò significa che sia la tradizione filosofica sia la filosofia del nostro tempo, sia l’intero passato sia l’intero presente della civiltà occidentale, e dunque, ormai, planetaria, hanno in comune il grande mito - la grande Follia - in cui il variare del mondo è inteso come l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte degli essenti. (Il mito che dunque accomuna non solo gli amici e i nemici di Dio, ma anche, per quanto riguarda la filosofia del nostro tempo, la cosiddetta filosofia analitica e la cosiddetta filosofia continentale). La volontà di salvezza - che è la stessa volontà di potenza - è la figlia di questo mito. Ma è inevitabile che si obbietti: Come può essere sostenibile un discorso che ritiene di essere l’unico a non appartenere al mito e alla follia? Il genio dell’uomo ha sempre fatto perno sul divenir altro delle cose; e proprio quel discorso, che pretende di smentire quel che l’uomo ha sempre pensato, e su cui si fonda tutto ciò che egli ha creato, dovrebbe esser l’unico detentore della verità?. Possiamo richiamare così la risposta a questa obbiezione - che peraltro è sempre stata rivolta ai filosofi e al campo di lotte senza fine (dice Kant) a cui essi hanno dato vita. Che esistano altre coscienze, oltre a quella che appare nel destino è, originariamente, un problema, non una verità assoluta. Originariamente, è un problema che l’uomo sia una società di individui umani. Ed è un problema anche ciò che i linguaggi dell’uomo intendono dire. Li si interpreta; ma l’interpretazione non è una verità assoluta. È dunque un’interpretazione anche Yesistenza del dissenso rispetto al linguaggio che indica il destino - del dissenso che si esprime dunque anche nell’obbiezione che stiamo discutendo. È una interpretazione anche l’esistenza della storia, di cui prima si è detto, che conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli uomini sia sempre rimasto al di fuori del destino, e abbia sempre agito secondo questa sua alienazione, è interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il linguaggio che indica il destino dovrebbe propriamente dire: se c’è stato qualcosa come mito, e se c’è stato qualcosa come ragione, allora l’avvento della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito, e la esprime nel modo sopra rilevato. Certo, al destino appartiene anche la necessità del suo essere presente in infiniti altri cerchi dell’apparire - e in questo senso gli appartiene l’affermazione che Tesser uomo è Tessere una molteplicità di modi di esser uomo, ossia è una società. Ma poiché è sul fondamento del destino che l’esistenza di questa molteplicità può essere affermata incontrovertibilmente, allora, se si scopre che tale molteplicità è tutta o in parte un dissenso rispetto al contenuto del destino, tale dissenso morde la mano che lo sorregge, nega ciò sul cui fondamento è affermata incontrovertibilmente la sua esistenza. Che esista il dissenso che si scandalizza o irride le esorbitanti pretese del linguaggio che indica il destino non è un fatto: è anch’esso un mito. Quando il destino mostra di essere presente in un’infinità di coscienze e mostra il loro dissentire dal destino, tale dissenso perde ogni verità. Che tale dissenso esista viene affermato infatti proprio in base a ciò da cui si dissente. La fantasia è l’insieme delle immagini originarie, delle forme di rappresentazione più antiche e più generali dell’umanità: gli archetipi (ad esempio il divino). Diffusa dappertutto, la fantasia appartiene ai misteri della storia dello spirito umano. Così scrive Cari Gustav Jung. Platone vede nelle idee le immagini originarie di tutte le cose, gli archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non appartiene ai misteri dello spirito umano, bensì alla scienza ( epistéme ) della verità a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l’opposto della fantasia intesa come evocazione misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi. Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo terra la storia dell’uomo e delle cose che gli si fanno incontro. Infatti si può pensare che la più antica origine di questa parola indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il seno e la voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore e il piacere: cose terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo punto della loro vita e poi da molti di essi si allontana. La terra: gli stormi delle cose che vengono e vanno. Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si allontana? I mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare ciò che da sempre la verità è destinata a essere: il destino della verità del Tutto; essenzialmente diversa da ciò che i mortali hanno inteso con le parole destino e verità. Nell’uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme a essa sopraggiunge e si fa dominante la convinzione che l’uomo sia un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive come se in verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna. Non solo le anime, come invece pensa Platone, ma anche i corpi, e tutti gli stati delle une e degli altri. Anche la terra è eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità. Com’è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali. Anche e soprattutto in questo caso la sua inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e da lontano, in che senso è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter scorgere che sia la verità dei mortali sia la loro fantasia hanno la stessa anima e che quest’anima è la forma originaria della fantasia. In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la capacità di portare alla luce mondi diversi da quello quotidiano o da quello che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di andirivieni, entrambi evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E la terra si inoltra nel luogo eterno del destino della verità. Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono queste righe sta pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la realtà e la serietà della vita. Fantasie, appunto. Ma anch’essi sanno infinitamente di più di quanto credono di sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia originaria è cioè la convinzione che la realtà con cui noi abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto, le cose che vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra ; e ormai si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella terra separata dal destino della verità, nella terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la separazione della terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma il pensiero più radicale, essenzialmente più radicale e inevitabile di ogni altra forma di sapere, scienza compresa. Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non lo vedano più. Non si produce in essi qualcosa come un oblio del cielo e del più alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli archetipi che appaiono nella pianura della verità. Quei cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro del cielo direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro che a prenderli, gli uccelli; ed effettivamente li prendono, e gettano loro addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono. La fantasia originaria è il volo irretito degli uccelli. L’arte tenta di rievocare il libero volo, ma, per quanto splendente, rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella metafora, il volo degli uccelli corrisponde alla pura terra, il cielo al destino della verità. La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la terra dal destino della verità. Tale isolamento è la forma originaria della fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti, filosofia, arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali. Discutere il destino della verità, concretezza delVerrare, isolamento della terra, linguaggio Anche oggi il tema di fondo del pensiero filosofico - nonostante i tentativi di eliminarlo, ma anche in seguito alla loro presenza - riguarda la verità di ciò che è conosciuto e voluto dall’uomo. Con diversi gradi di potenza e rigore la filosofia del nostro tempo rifiuta la possibilità di una verità assoluta e definitiva, capace di affermare qualcosa di Immutabile. Un rifiuto, questo, che è cosa ben diversa dal considerare superfluo il tema della verità; e che là dove è adeguato al proprio compito è un rifiuto inevitabile. Esso è tuttavia la coerenza estrema del nichilismo. Da quando abita la terra l’uomo intende le cose del mondo come un diventare altro; da quando la terra è abitata dalla filosofia la filosofia concepisce la cosa come ciò che è (ente) e definisce il suo diventar altro come passaggio dal suo non essere al suo essere e viceversa. La cosa che incomincia a essere è stata nulla nella misura in cui essa non era e incomincia, e la cosa che finisce di essere torna nel nulla nella misura in cui essa finisce e non è più. Procedendo da questo senso dell’esser cosa è inevitabile che la filosofia pervenga al rifiuto di ogni verità assoluta e definitiva e di ogni Ente immutabile e divino; e viceversa, tale rifiuto è inevitabile solo se procede da quel senso - che domina progressivamente non solo i pensieri ma anche le opere della civiltà occidentale e, ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non significa che questa dominante inevitabilità stia davanti agli occhi di tutti i protagonisti della filosofia contemporanea: all’opposto, va invece rintracciata nel sottosuolo del nostro tempo.) Il senso greco dell’esser cosa domina la terra perché è ritenuto indiscutibile. Ma perché non può essere discusso? In questa domanda traspare la dimensione ignota alla storia della terra. Tanto più ignota quanto più tale dimensione si mostra non come un semplice domandare, ma come negazione di quel senso e quindi come negazione di ciò sulla cui base è inevitabile che si pervenga alla negazione di ogni verità incontrovertibile. Tale dimensione è il destino (inteso secondo il senso richiamato nelle pagine precedenti). Il destino è la manifestazione del differire degli essenti tra loro e del loro non essere. Essi sono le differenze. Proprio per questo il destino è la manifestazione dell’impossibilità che ciò che è, in quanto tale, non sia: è l’apparire della necessità che Tessente in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia eterno. Le implicazioni di questa affermazione conducono molto lontano. Ma il destino è tale solo in quanto è la dimensione in cui appare incontrovertibilmente il senso dell’incontrovertibile e Tincontrovertibilità di tale dimensione: non è la fede nella propria incontrovertibilità. Con una espressione che, qui, non può che rimanere astratta, formale, si può indicare il senso delTincontrovertibilità e della necessità del destino dicendo che esso è la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Il destino è la negazione della fede, cioè dell’errare. L’uomo di cui si parla all’interno della terra isolata dal destino è anch’esso il contenuto di una fede. Con ciò si intende qualcosa di essenzialmente più radicale dell’affermazione che l’uomo erra: si intende che la fede nell’esistenza dell’uomo della terra isolata è un errare, un sogno. La terra intera, in quanto appare separata dal destino, è il contenuto del grande sogno in cui consiste la vita e che è il grembo di ogni fede. (Ma in quanto è un essente, anche il sogno è un eterno.) La vera essenza dell’uomo è il destino. Essa non appartiene ad alcuno degli abitatori, umani o divini, della terra isolata. È all’opposto la terra isolata ad appartenere al contenuto che appare nel destino - giacché solo nel destino può apparire incontrovertibilmente l’esistenza dell’errare, della fede, del sogno, ossia della negazione del destino della verità. Discutere il destino è un modo di negarlo, sì che tale discussione nega sé stessa. Infatti discutere significa affermare una differenza: tra ciò che è discusso e ciò che in vari modi gli si oppone. E il destino - si è detto - è innanzitutto l’apparire del senso che compete alla differenza (ossia alla differenza dei differenti). Discutere e opporsi al destino è quindi un differirne. E proprio per questo è condividerne, più o meno inconsapevolmente, il tratto originario: l’affermazione della differenza. In questo differire - condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si ripresenta l’indicazione, prima sommariamente richiamata, del senso dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Discutere il destino è condividerlo; ma è anche negarlo, e pertanto è negare tale condivisione, sì che discutere il destino è negazione di sé stesso. È necessario affermare l’esistenza delle differenze non perché esse appaiono all’interno della fede e del sogno in cui consiste la terra isolata dal destino - e dunque, da ultimo, non perché si vuole che esse siano. È nel destino che appare la necessità della differenza dei differenti e la necessità della loro eternità e di tutto ciò che essa implica: nel destino - che già da sempre si apre al di là del percorso dove gli abitatori della terra pervengono inevitabilmente, sul fondamento della fede nel diventar altro, alla negazione di ogni verità e di ogni Ente immutabile. Discutere e opporsi al destino, quindi condividendolo, è pertanto solo il tentativo inconsapevole di condividerlo. Giacché altro è la negazione del destino, che gli appartiene essenzialmente in quanto esso è la negazione della propria negazione (e questa negazione del destino non è un semplice tentativo di esser negazione); altro è la negazione che appare nella terra isolata dal destino e che se (a differenza dell’altra negazione) si rende visibile agli abitatori di questa terra, tuttavia, in quanto è una fede, è solo un tentativo di essere negazione del destino. Già il vivere è trovarsi nelle differenze - è, appunto, credere, aver fede di trovarvisi. Forse la differenza più antica è quella che la volontà è convinta di esperire tra i propri desideri e le resistenze da essi incontrate. Oggi la tecnica guidata dalla scienza moderna è il modo più potente con cui la volontà domina le differenze. Ma nemmeno la scienza e la tecnica, nonostante il loro rigore concettuale, riescono a porsi al di là della fede e pertanto della fede nell’esistenza delle differenze. La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà di liberarsi dalla fede - quindi dal mito, che è uno dei contenuti più antichi della fede e che a lungo ha raccolto in sé e dominato ogni altra forma di fede (e ancora permane in molte parti del mondo). Eppure la filosofìa conserva il tratto centraledella fede prefilosofica nelle differenze: conserva, appunto, la fede nel loro diventar altro. Il pensiero filosofico conserva in sé la fede che le differenze siano anche un differenziarsi, e nel modo più radicale. I miti raccontano cosmogonie, teogonie, metamorfosi: le grandi forme del diventar altro. La filosofìa, però, intende essere il vero racconto. La sua grandezza sta nell’aver evocato una volta per tutte il senso radicale della verità. La verità è il mostrarsi dell’assolutamente incontrovertibile. Si è poi trattato di stabilire il senso dell’assolutamente incontrovertibile e il contenuto di cui è necessario affermare tale incontrovertibilità. Ma lungo la storia dell’Occidente la fede è prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a essersi sviluppata come fede nel differenziarsi delle differenze, la filosofia si è sempre più consolidata come fede nell’incontrovertibilità della manifestazione (esperibilità, osservabilità) di tale differenziarsi. Verità si dice in molti sensi anche perché molti ambiti della vita si presentano come verità - e per questo si parla di verità religiosa e morale, di verità degli istinti, degli affetti, dell’arte, di verità della filosofia e della scienza; e, complessivamente, di verità dell’esistenza della vita e della terra (quale appare nel suo essere isolata dal destino). Ma poiché queste verità non sono il destino della verità, esse sono tutte verità controvertibili - per quanto diversa possa essere la loro plausibilità (probabilità, ragionevolezza, potenza e coerenza concettuale) e potenza - e raffermarle è sempre una fede, anche quando esse hanno fede nella propria incontrovertibilità. La più plausibile è lontana dal destino tanto qua nto la meno plausibile: infinitamente. (Questo, anche se è appunto all’interno di questa infinita lontananza che tuttavia si presenta come inevitabile, nel pensiero del nostro tempo, la distruzione di ogni verità assoluta e di ogni Ente immutabile.) Si può chiamare filosofia futura il linguaggio che, invece, testimonia il destino della verità. Essa è futura perché se nel presente la sua voce è soverchiata dalle voci della terra isolata dal destino, tuttavia essa è destinata a mostrarsi come il linguaggio dei popoli. D’altra parte, testimoniando il destino, la filosofia futura si rivolge alla dimensione che, eterna, non è inclusa, ma - più antica del più lontano passato - include la totalità del tempo che viene affermato all’interno della terra isolata. Tuttavia, le stesse voci che si levano nella terra isolata, e sono quindi negazioni del destino, vanno rendendo anch’esse sempre più concreto il contenuto del destino. Infatti vanno rendendo sempre più concreta quella negazione del destino che essenzialmente gli è unita, e in questo senso gli appartiene, e quindi senza la quale il destino non potrebbe essere. Ciò significa che la discussione del destino non è soltanto l’opporglisi che, si è detto, proprio perché intende differirne condivide (ossia è il tentativo inconsapevole di condividere) l’affermazione della differenza che in esso appare: tale discussione è insieme l’arricchirsi della negazione del destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di esso. In questo senso tutto l’infinito contenuto della terra isolata dal destino - il contenuto che è, tutto, negazione del destino - va rendendo sempre più concreta la negazione del destino e quindi il destino stesso, in quanto negazione di tale negazione. D’altra parte, la terra isolata, in quanto fede originaria, è interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma, proprio in quanto esso è un conferire, non gli può competere l’incontrovertibile necessità del destino, ed è quindi volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso che, nella terra isolata che appare nel destino, certi eventi appaiono come linguaggi e come linguaggi che negano il destino. Tutte le negazioni del destino che appaiono nella terra isolata sono cioè contenuti dell’interpretare (cioè del sogno) che appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è pertanto un tratto del destino). Gli eventi della terra isolata sono interpretati come linguaggi che, proprio perché testimoniano altro dal destino, ne sono la negazione. Che dunque esista la discussione del destino offerta dalla terra isolata, è qualcosa di voluto dall’interpretare (che appare nel destino). Né può essere diversamente, perché se nella negazione del destino il destino apparisse, essa apparirebbe come negazione di sé stessa, e l’apparire di tale autonegazione sarebbe l’apparire stesso del destino. Se il destino appare è impossibile esser convinti della sua negabilità e controvertibilità. Lo si può discutere e negare, se ne può affermare la controvertibilità e negabilità solo in quanto il discuterlo e negarlo è un linguaggio che nella terra isolata testimonia soltanto essa - cioè un linguaggio che nel destino appare come qualcosa di evocato dall’interpretazione. Sono così evocati anche i linguaggi che, all’interno dell’interpretazione, mostrano di essere affermazione del destino, o di condividere il linguaggio che lo testimonia - e questo stesso linguaggio è evocato dall’interpretazione in quanto esso appartiene al passato, mostrandosi con la proprietà dell’esser mio. Appunto a questo tipo di linguaggio (e non al mostrarsi del destino) si rivolge la discussione del destino nella misura in cui essa riesce a costituirsi - visto che essa riesce a costituirsi solo in quanto non si rivolge al destino, non ne contiene l’apparire, non lo capisce: solo in quanto non ha come contenuto il destino, nel quale la negazione-discussione di esso può apparire soltanto come negata. Diciamo dunque: nella misura in cui riesce a costituirsi la discussione del destino si rivolge al linguaggio che lo testimonia, perché non è non è un tratto del destino che tale linguaggio possegga tutte le condizioni richieste per essere capito dai linguaggi altrui. L’uomo vive soltanto se crede - nel senso più ampio di questa parola, rispetto al quale la fede religiosa è soltanto una specificazione, per quanto eminente. Vivere è innanzitutto credere di esistere e di agire nel mondo. E ogni credere, ogni fede, è volontà. La volontà non vuole soltanto cambiare il mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto vuole che le cose presenti e passate siano ciò che essa crede che siano e siano state. La fede-volontà è interpretazione. Tuttavia credere-volere-interpretare è stare al di fuori della verità non smentibile. Credere è errare. Ma se l’uomo fosse soltanto un vivere, cioè un credere, allora sarebbe soltanto un credere anche l’affermazione che vivere è credere e volere - affermazione condivisa peraltro da gran parte della cultura non solo filosofica del nostro tempo. E invece - ma al di fuori del modo in cui è così condivisa - questa affermazione non è un credere, ma è una verità non smentibile. Ciò significa che l’uomo non è soltanto vita, cioè fede, ma è, originariamente, l’apparire della verità non smentibile. È all’interno della verità che - in modo non smentibile, incontrovertibile - appare la vita, cioè la fede, la volontà. La verità a cui si è rivolta l’intera storia dell’Occidente non è riuscita a essere la verità non smentibile - la verità che d’altra parte s’illumina nel fondo più nascosto di ogni uomo (e ovunque qualcosa appaia). A volte il linguaggio la indica; la chiama destino della verità - come appunto nei miei scritti viene chiamata. Ma, anche qui, che questo linguaggio sia l’agire di qualcuno - che qualcuno ne sia l’autore, che tale linguaggio abbia il carattere dell’esser mio -, questo è daccapo uno dei contenuti in cui la vita può giungere a credere (come crede che l’uomo esista e agisca nel mondo e che sia l’autore dei linguaggi che parlano del mondo). Il nichilismo - inteso nel senso indicato nei cosiddetti miei scritti - è la forma più potente della vita, cioè della fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce anche in questi scritti, che sono andati via via liberandosene. D’altra parte sono il contenuto di una fede sia Vesistenza del linguaggio che conduce oltre il nichilismo, sia quella forma di vita che è il voler dire e quindi anche il voler dire in cui consiste quel linguaggio. Ciò che sta oltre il nichilismo è il de-stino della verità. Esso mostra anche in che senso non è contraddittorio che quella duplice forma di fede (cioè di non-verità) possa condurre al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto tale, non è un punto di arrivo, ma è il punto di partenza di ogni percorso. In un senso che è fondamentale i miei scritti hanno quasi subito guardato nella stessa direzione. Però il loro è stato un percorso, non un salto oltre il nichilismo. Il percorso è incominciato molto presto (nei primi anni Cinquanta), ma l’oltrepassamento del nichilismo è stato progressivo^ Anche ai miei scritti (sebbene, sembra, in misura consistentemente inferiore rispetto a molte altre scritture filosofiche) si può quindi muovere l’obbiezione, considerata nel paragrafo precedente, di essere uno sviluppo dove il linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso dapprima negava. E perché, allora, quel che ora esso dice non dovrebbe essere a sua volta negato da un suo ulteriore sviluppo? Tale obbiezione e la relativa risposta hanno in questo caso un peso particolare perché riguardano il rapporto tra il senso radicale della verità e il linguaggio che lo indica. I molti significati della parola verità, comunque, non tolgono di mezzo la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui contenuto è l’assolutamente non smentibile e incontrovertibile - il destino della verità, appunto - e tutti gli altri sensi, nei quali, alla luce della verità così intesa, le diverse forme di verità appaiono invece come sapere il cui contenuto non è qualcosa che non possa essere in qualche modo negato. Saperi, si è detto (si pensi ad esempio alle espressioni verità morale, verità dell’arte, verità della fede, verità del cuore, ecc.), ma anche intuizioni, emozioni, certezze, fedi, impulsi profondi, desideri, costumi, tradizioni ecc. La gran questione è la determinazione del contenuto dell’incontrovertibile, ossia del non poter essere altrimenti (secondo la definizione aristotelica): il contenuto che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come verità ( epistéme della verità) non è riuscito a essere l’assolutamente incontrovertibile. Rispetto all’incontrovertibile autentico, ogni modo di esperire le cose che differisca da esso è un modo del controvertibile, cioè tien stretto un mondo che d’altra parte può sottrarsi alla stretta ed essere diversamente da come è - per quanto alto e nobile o per quanto profondo e preteso dalle viscere e dal cuore. L’incontrovertibile autentico è il destino-, e la struttura originaria del destino è il centro da cui si irradia la multiforme pianura infinita del destino. Nella sua essenza autentica l’uomo - ogni uomo - ne è l’eterno apparire (e tale affermazione è una forma a sua volta appartenente a quella multiforme infinità). La risposta all’obbiezione che si sta considerando in questo e nel precedente paragrafo, si fonda sul rapporto tra destino e terra. Nel destino appare la terra - ossia tutto ciò che sopraggiunge nell’eterno apparire del destino ma appare nel suo esser isolata dal destino, appare cioè come il luogo originario del controvertibile - ossia del credere-volere - interpretare. AH’interno della terra isolata si crede inoltre che il linguaggio non parli d’altro che delle cose della terra (lo si crede, senza poter sapere che sono le cose - umane e divine della terra isolata dal destino). E tuttavia nello sguardo del destino appare che nella terra isolata anche il linguaggio che testimonia il destino riesce ad affacciarsi; e appare che non è impossibile che tale linguaggio sia presente anche in linguaggi che sembrano essere - nelle interpretazioni del mondo che crescono e dominano alfinterno dell’isolamento della terra - le negazioni più perentorie dei tratti del destino. Quella forma di testimonianza del destino che sono i miei scritti sono eventi della terra isolata, che nello sguardo del destino appaiono alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce l’isolamento della terra - appaiono all’interno dello sconfinato contenuto dell’isolamento. L’obbiezione che si sta prendendo in considerazione è una voce dell’isolamento, cioè del controvertibile. Che la testimonianza del destino sia uno sviluppo dove il linguaggio giunge a dire qualcosa che prima negava è un presupposto controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in quanto configurantesi così come attualmente si configura - potrebbe venire a mostrarsi come incontrovertibile: quella configurazione è una negazione dell’incontrovertibile. Tutte le più incrollabili certezze della vita (che appaiono tutte nella terra isolata) - tutte le forme del controvertibile - sono alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione consiste appunto nel rilevare che tale obbiezione non solo è un presupposto controvertibile, ma si costituisce all’interno di quella forma estrema dell’alienazione della verità che è l’isolamento della terra. In relazione allo sviluppo del mio discorso filosofico - quale appare all’interno della terra isolata - dell’intera storia isolata - sono peraltro complesse le articolazioni che conducono da La struttura originaria (1958) a La morte e la terra (Adelphi 2011), e nelle quali, tuttavia, il centro di quello scritto del 1958 permane lungo tutto il tragitto (e si era fatto innanzi già qualche anno prima). Nel tragitto, la svolta (così è stata chiamata) consiste nella sopraggiunta consapevolezza, per un verso, che quel centro richiede la messa in questione dell’intera storia dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione dell’uomo e, per altro verso, che Valienazione (del senso autentico della verità ) che domina tale storia lascia per un certo tempo le sue tracce anche neìYalone che nei miei scritti avvolge quel centro. L’alienazione del senso autentico della verità investe quindi anche il cristianesimo. Ma anche il cristianesimo, come ogni altro evento storico, appare all’interno dell’interpretare secondo cui si costituisce la terra isolata dal destino della verità. Che il cristianesimo esista e che degli uomini abbiano una fede cristiana è cioè il contenuto di una fede, della fede in cui consiste l’isolamento della terra. Nello sguardo del destino non è invece il contenuto di una fede l’esistenza di quella fede e dell’interpretare che compete all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto ciò che chiamiamo la nostra vita è contenuto della fede interpretante. (Appare aH’interno di quella fede anche l’intera vicenda che è stata riassunta dal titolo redazionale di un mio libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli 2001. Questo scontro, che appare all’interno della fede della terra isolata, sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e quella grandiosa forma dell’alienazione della verità che è il cristianesimo e la sua configurazione storico-istituzionale, ma tale scontro è, innanzitutto e propriamente, la negazione, da parte del destino della verità, della verità di ogni contenuto della terra isolata - e quindi anche del cristianesimo, in quanto appartenente a tale contenuto.) Il mondo è interpretato. Non nel senso che l’uomo, quando voglia, abbia la facoltà di interpretarlo. Anche gli uomini e i loro rapporti appartengono infatti al contenuto dell’interpretazione. La quale, dunque, pur essendo volontà interpretante, non è a disposizione dell’uomo, ma dispone l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da essa stabiliti e modificati. È l’interpretazione originaria. Ma l’interpretazione non è verità: è fede, volontà, ossia errare. Il mondo in cui l’uomo crede di vivere è errare. Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno della verità. Non delle verità del mondo - che sono a loro volta form e particolari di interpretazione -, ma di ciò che nei miei scritti è chiamato destino della verità, o semplicemente destino. L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino. La terra isolata è ciò che appare in questa separazione. Anche le teorie dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del nostro tempo, appartengono alla terra isolata. L’interpretazione, che evoca i propri contenuti sul fondamento di regole e di criteri (di cui essa è più o meno consapevole), può adottare (cioè volere) quell’insieme di regole e di criteri in base ai quali essa può affermare che l’uomo esiste come molteplicità di individui umani e che gli uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un diverso grado di coerenza rispetto alle regole e ai criteri adottati. Ma anche e innanzitutto il destino della verità vede la differente coerenza delle interpretazioni evocate dall’interpretazione originaria. Che la storia dell’uomo sia storia del mortale, cioè della fede che, in modi estremamente diversi e complessi, le cose e l’uomo stesso diventano altro da ciò che essi sono e quindi muoiono via via ciò che sono stati, fino alla morte di tutto ciò che essi possono essere, questa è una interpretazione; che però si presenta come la più coerente, sino ad ora, rispetto a ogni altra interpretazione di quella storia (la cui stessa esistenza è un contenuto interpretato). Non è escluso cioè che - ad esempio in seguito a una svolta radicale delle discipline storiche, linguistiche, antropologiche, psicologiche ecc., si imponga una nuova forma di interpretazione, per la quale l’uomo non ha mai creduto che le cose siano un diventar altro. Sino a che quella svolta non si manifesta, l’interpretazione più coerente è tuttavia in grado di mostrare quell 'ulteriore coerenza, per la quale i diversi modi di pensare e di vivere il diventar altro delle cose è esso stesso un mostrarsi sempre più coerente a sé stesso, lungo il percorso che conduce dall’esistenza guidata dal mito all’esistenza guidata dalla verità e, in seguito, dalla distruzione della verità (ossia della verità che appartiene alla terra isolata) alla civiltà della tecnica. Il destino della verità mostra che questo è il percorso dove YErrare estremo perviene alla propria estrema coerenza; ma è anche questo stesso percorso, in quanto isolato dal destino e dunque con le proprie forze, a mostrare il proprio diventar sempre più coerente alla fede nel diventar altro, dalla quale tale percorso si sprigiona. Non potendo sapere di essere l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a rendere sempre più coerente (e, dal suo punto di vista, sempre più vera) la propria fede nel diventar altro, che all’inizio della storia dell’Occidente si presenta in forma ontologica, ossia come convinzione che le cose del mondo, corruttibili, escono dal loro non essere (dal loro esser nulla) e vi ritornano. E poiché questa convinzione - se il linguaggio si libera daH’incantesimo della terra isolata - è convinzione che l’essente in quanto essente sia niente, la storia dell’Occidente è storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da quello affermato da Nietzsche e Heidegger. Innanzitutto, l’intera storia della filosofia si costituisce il proprio costituirsi come sistema : non in senso hegeliano, come sistema della Verità, ma come sistema dell’Errare. Il compito gigantesco da cui è atteso il linguaggio che sul fondamento del destino mostra il nichilismo dell’Occidente è di allargare a tutte le dimensioni attraverso le quali si dispiega l’Occidente l’analisi in cui appare il suo carattere di sistema : allargarla alla dimensione religiosa, artistica, economica, politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e delle res gestae, oltre che, appunto, a quella delle diverse forme della scienza in quanto sapere della natura e dell’uomo e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste dimensioni è possibile scorgere il percorso che rende sempre più coerente e visibile il nichilismo che in modo specifico le avvolge e sorregge, e la sua tendenza all’autodistruzione. La dimensione filosofica del nichilismo anima tutti gli altri luoghi dell’Occidente e ormai del pianeta - e tanto più quanto più essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione analitica del suo articolarsi dev’esser data la precedenza. Per indicare l’Errare è necessario esserne al di fuori: solo in quanto il destino della verità è già da sempre aperto qualcosa può apparire come l’Errare - che d’altra parte non è qualcosa di accidentale rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del nichilismo non è una semplice confutazione di un errore che, esercitando una maggior attenzione e perspicacia, si sarebbe potuto evitare. La grandezza della verità richiede la grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza delle configurazioni storiche del pensiero filosofico, per la loro inevitabilità - cioè per la loro capacità di andar oltre le forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio perché sono queste stesse forme a richiedere di essere oltrepassate senza peraltro riuscire a soddisfare questo loro intento più profondo, è un modo di pensare la filosofia che troppo presto è stato messo in disparte col pretesto che Hegel ne aveva abusato. Recuperandone la forma (e non il contenuto, si è già detto), si dovrà comunque distinguere il senso che l’inevitabilità del processo storico presenta in quanto considerato alfinterno della logica dell’Errare e il senso di tale inevitabilità in quanto appare nello sguardo del destino. Al culmine della propria coerenza - e dunque nell’incombere della propria distruzione - il nichilismo si presenta come civiltà della tecnica. Come ho richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è infatti il suo carattere scientifico-matematico (che peraltro, oggi, non si scorge come potrebbe venir sostituito da una concettualità più potente - anche se questa insostituibilità è una situazione di fatto, un fatto grandioso che ha alle proprie spalle tutti i successi della scienza). L’essenza della tecnica è la messa in opera del rapporto mezzo-fine: l’organizzazione di mezzi in vista della produzione di scopi, e propriamente di quello scopo che è l’incremento indefinito della capacità di produrre scopi. Se qualcosa riuscisse a servirsi della tecnica - se cioè riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo, costituendosi pertanto come il supremo dominio e come la potenza suprema, tale qualcosa sarebbe la tecnica autentica, cioè la tecnica più potente. Infatti già ora la tecnica assume e usa come mezzo non soltanto le forze che si illudono di servirsi di essa come mezzo, ma si serve anche di sé stessa o di una dimensione parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine di quell’illusione), che qualcosa si serva della tecnica significa che la tecnica, ossia ciò che oggi si presenta come la forma più potente del divenire, si serve e usa sé stessa o una sua dimensione parziale. Poiché la volontà di accrescere all’infinito la propria potenza è lo scopo della tecnica, questa volontà è la forma trascendentale del divenire, che servendosi di mezzi si serve anche di sé e delle forme particolari, empiriche del divenire. Detto in modo sommario: si serve di sé, in quanto potenza massima attualmente realizzata, per produrre sé in quanto potenza ancora maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si serve e usa anche le forme di volontà di potenza che credono ancora di poter guidare la tecnica (e lo credono nella misura in cui la tecnica non riesce ancora a sentire la voce dell’essenza, peraltro tendenzialmente nascosta, del pensiero filosofico del nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni limite assoluto alla volontà di accrescere la propria capacità di realizzare scopi). La tecnica - che può essere mezzo solo in quanto si propone innanzitutto come lo scopo supremo del divenire - è ormai la forma fondamentale del divenire, rispetto alla quale il divenire naturale si presenta come routine, staticità che tale volontà va sempre più sciogliendo. La civiltà della tecnica è, così, il culmine della coerenza del nichilismo (anche se ancora resta da esplorare, da un lato, il rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche intendono la forma trascendentale della volontà che si fa avanti alla fine dell’età della tecnica, e, dall’altro, il rapporto tra questi modi e l’attualismo gentiliano). L’anima dell’Occidente: la persuasione che le cose e gli eventi - gli essenti - escano dal niente e si annientino. Ciò significa che annientati sono niente, e che prima di uscire dal niente sono niente. Ma questa persuasione è la Follia essenziale, la più profonda che possa manifestarsi nel mondo dell’uomo e nel Tutto. È infatti la persuasione che un essente, un no n-niente, divenendo, sia, in quanto essente, niente (come passato e come futuro). In forme diverse, la Follia domina la storia della terra, ma al di fuori della Follia appare eternamente l’eternità di ogni essente: di ogni evento, di ogni stato del mondo, di ogni essente che non sia uno stato del mondo. Il mantenersi al di fuori della Follia essenziale non è una semplice fede, un mito, un desiderio vano, un dono divino, una filosofia, e non è nemmeno un atteggiamento scientifico: non perché non riesca a raggiungere il rigore delle scienze della natura e delle scienze logico-matematiche, ma perché, nel suo significato autentico, il mantenersi al di fuori della Follia ha un rigore, un’incontrovertibilità, una stabilità, e dunque una verità e necessità essenzialmente più radicali di quelli che competono al sapere scientifico, e a ogni altra forma di sapere e di coscienza. La negazione di ogni verità assoluta a cui è pervenuta la coscienza critica del nostro tempo è conseguenza inevitabile della persuasione che le cose e gli eventi siano divenienti, cioè possano uscire dal nulla e annientarsi. Ma in quanto appare, nella Non-Follia, la Follia di tale persuasione, quella conseguenza non è più inevitabile; cioè non si può impedire, al pensiero che si mantiene nella Non-Follia, di essere la verità e necessità essenzialmente più radicale di ogni verità e necessità della conoscenza scientifica, e di ogni altra forma di conoscenza. Destino della necessità si può chiamare questo senso estremo della verità e della necessità, che si mantiene eternamente presso di sé. Il destino della necessità è l’essenza autentica dell’uomo: come apparire eterno degli eterni, l’uomo è infinitamente altro dall’essere un che di effimero, preda del tempo e del nulla, più o meno raggiunto dalla grazia di un Dio o di un Salvatore. Nella sua essenza autentica l’uomo è il luogo eterno che accoglie la terra, ossia tutto ciò che sopraggiunge - e tutto ciò che sopraggiunge è il corteo degli eterni al quale appartengono non solo gli individui umani, ma la stessa Follia essenziale, cioè la stessa fede che gli essenti possano uscire dal niente e ritornarvi. Stando aH’interno della Follia, gli uomini chiamano storia del mondo e dell’universo il sopraggiungere degli eterni, ossia la terra. Al di fuori della Follia, la storia del mondo e dell’universo non è la produzione e la distruzione degli essenti, ma è il comparire e lo scomparire degli essenti, cioè degli eterni. La morte appartiene alla manifestazione degli eterni, è un evento interno al cerchio eterno dell’apparire degli eterni in cui l’uomo consiste. La morte non travolge e non disperde l’uomo, ma è l’uomo a comprenderla in sé stesso come parte della totalità in cui egli consiste. Da sempre e per sempre, quel cerchio è l’apparire della verità del destino. La terra sopraggiunge nel cerchio del destino - che dunque è una dimensione finita. L’uomo è sì l’apparire infinito del destino della verità, ossia l’apparire di tutto ciò che è, nella sua verità assoluta - e dunque è l’apparire in cui non può sopraggiungere alcunché (appunto perché esso è l’eterno apparire di tutto) ma l’infinito rimane l’inconscio del finito: nell’uomo, in quanto luce finita del cerchio del destino, l’eterna luce infinita è destinata a rimanere nascosta, pur affacciandosi, con la terra, 182 in quel cerchio. Come eterno oltrepassamento di tutte le contraddizioni del finito, l’apparire infinito del destino è la Gioia, l’inconscio dell’uomo, in cui egli è destinato a inoltrarsi, all’infinito. Ma che ne sanno, intanto, gli individui umani - o i popoli - di tutto questo? Nulla. Vedono in eterno la verità, ma i loro linguaggi tacciono di ciò che si mostra nella piena luce e parlano soltanto di ciò che sopraggiunge; e la terra appare come la dimensione in cui la volontà dell’uomo ha la potenza di trasformare e dominare cose ed eventi. Due anime abitano nel nostro petto: l’apparire del destino della verità e la separazione della terra da tale apparire. Il mondo in cui crediamo di vivere - il mondo del dolore e della morte - è il volto che la terra viene a mostrare nel suo essere così separata e isolata. Ma intanto, prima del tramonto della Follia l’uomo è rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È infinitamente di più di quel che crede di essere. Rattrappito, perfino quando crede di essere Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia immortale o che anche il suo corpo possa risorgere. È rattrappito anche nei suoi desideri: non perché debba desiderare di più, ma perché l’uomo desidera quando non è consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità che tale ricchezza gli si faccia innanzi lungo un percorso a sua volta infinito al quale, dunque, si addice la parola Gloria. E, tutto questo, non certo perché sia io o tu o un popolo o un Dio a dirlo, ma perché appare, non smentibile, nel più profondo di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre qualsiasi Dio e qualsiasi forma dell’esser uomo. L’isolamento della terra dal destino della verità è il fondamento, la radice più profonda della Follia essenziale. L’isolamento della terra non è una colpa, una decisione dell’individuo, ma è esso stesso destinato all’uomo in quanto cerchio finito del destino. Solo all’interno della terra isolata può apparire qualcosa come individuo umano, popolo, società. Sul fondamento della terra isolata si fa innanzi, nell’apparire, la Follia essenziale e la storia dell’Occidente, che è ormai storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà della tecnica. Quali sentieri la terra è destinata a percorrere nel cerchio finito dell’apparire? Il suo isolamento dalla verità è insuperabile? È destinata ad abbandonare quel cerchio? Quali spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi in quel cerchio durante la vita e dopo la morte - che, comunque, non può essere l’annientamento di ciò che dell’uomo è andato via via apparendo? Nella sua essenza autentica l’uomo non solo è l’eterno apparire degli eterni e degli eterni della terra, ma è la luce che si allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni configurazione della terra) è destinato a essere oltrepassato dal sopraggiungere, nell’apparire, di altri eterni; sì che anche l’isolamento della terra - che tuttora domina i pensieri e le azioni dei mortali - è destinato al tramonto; e la Gioia, pur rimanendo inesauribile, è destinata a mostrarsi libera dal contrasto con la terra isolata. L’essenza autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli eterni, che si allarga senza fine, è la Gloria dell’uomo. L’uomo è destinato a questo rapporto tra la Gioia e la Gloria - che dunque non è un premio concesso a chi abbia usato bene la propria volontà libera -. È necessità che, dopo il tramonto dell’isolamento della terra - e dunque dopo il tramonto della vita e della morte, della volontà e dell’abulia - l’uomo sia l’inesauribile apparire della libertà della Gloria dalla terra isolata. Tale libertà non è oblio della terra isolata: tutto ciò che nel cerchio dell’apparire è oltrepassato è insieme totalmente conservato in quel cerchio. Se il dolore, che come ogni essente è anch’esso eterno, non fosse eternamente e totalmente conservato nel cerchio delfapparire, il suo oltrepassamento sarebbe una semplice immagine, un’astratta rappresentazione (cfr. E.S., La Gloria, Adelphi 2001). Poiché la Gloria - il dispiegamento infinito degli eterni nel cerchio finito delfapparire - è la Gloria dell’uomo, per un verso essa si dispiega nel cerchio in cui appare questa mia fede di essere una forza, individuo capace di trasformare consapevolmente le cose; per altro verso la Gloria è il dispiegarsi, in quel cerchio, e in ogni altro cerchio, degli infiniti altri cerchi finiti. In ogni uomo è destinata cioè a sopraggiungere, in carne e ossa, la totalità infinita dell’umano e dunque la totalità infinita dei modi in cui la terra è stata e sarà isolata. Questo è il venerdì santo che precede la pasqua della terra libera dall’isolamento. Si dice, di Cristo: Nonne oportuit haec pati Christum et ita intrare in gloriam suam? (Le., 24, 26-27). Ma volendo trasformare la terra per prendere su di sé il dolore del mondo, egli vuole qualcosa che invece è necessità che accada in ogni cerchio delfapparire, e il cui accadimento è richiesto con necessità dalla destinazione di ogni cerchio alla Gloria, oportet haec pati in Gloria - e nella Gioia. Cfr. su questo punto, per restare agli studi più recenti, i saggi di Leonardo Messinese L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino, Mimesis 2008; Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, ETS 2010; Né laico, né cattolico, Dedalo 2013; e i saggi di Nicoletta Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana 2011; Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, Mimesis 2011. A Messinese interessa valorizzare soprattutto il mio scritto del 1958 La struttura originaria (La Scuola) - e in generale la prima fase del mio discorso filosofico - e gli interessa valorizzarla anche perché, a suo avviso, essa sarebbe compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece sottolineare quanto del nichilismo permanga in quella prima fase di oltrepassamento del nichilismo, e, questo, per valorizzare il modo in cui gli scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa 185 anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il nichilismo permane in quella prima fase e tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo, compiuto appunto in tale fase, che è quello decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli altri. Eschilo (E): Conosco quel che tu scrivi di me... che oltre a essere uno dei più grandi poeti sono anche uno dei più grandi filosofi che i mortali abbiano mai avuto... e che proprio perché la filosofia è in me così grande può esser divenuta in me così grande la poesia... Ma... c’è anche dell’altro... Interlocutore (I): Se tutto questo - ed è molto! - non ti può bastare... e non certo perché tu sia insaziabile... E. Certo! Tu mi metti in testa al grande Corteo della tradizione dell’Occidente. Ma poi, questo Corteo lo vede fermarsi (o muoversi per inerzia)... e credi che sia sorpassato da un più potente Corteo : quello della civiltà del vostro tempo: la civiltà della morte di Dio, come Nietzsche si esprime, la civiltà della tecnica... Non è così?... I. In qualche modo sì... ma, tu sai bene, ciò che più conta non è quel che si dice, ma la verità di quel che si dice... e la più gran questione, a partire dai Greci, è il senso della verità... Quanto al semplice dire, anche i bambini sono capaci oggi di dire che Dio è morto... E. ... e tu credi invece che si possa sapere il vero perché di questa morte! I. Ma se ti fermi qui non ci facciamo capire... E. Lo so... Perché poi, a tuo avviso, tutti e due quei Cortei di cui ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti da una stessa cadenza... o, se preferite, dalla stessa Anima... Come se la loro marcia fosse scandita dallo stesso Canto... (che però richiede orecchie fini, tu dici, per essere udito)... e per te quest’Anima e questo Canto li accomuna più di quanto 188 la loro inimicizia li divida...: come se celebrassero un rito comune... che però è inviso al Cielo... (chiamiamolo così). I. Sì... purché ci si intenda sulla parola Cielo... Non la uso mai... ma forse, in questo nostro veloce colloquio potrebbe servirci... E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare il riconoscimento che tu dai della mia grandezza poetica e filosofica! Ti sembra che mi ci trovi bene alla testa di un Corteo che, per quanto potente, non solo è superato da un altro ancora più potente, ma che insieme a quest’altro non ottiene il favore del Cielo? L Dipende da questo Cielo che le cose vadano così. Cioè né da me né da te... Ma, intanto, su questo possiamo esser d’accordo: che il Cielo di cui stiamo parlando non può essere il cielo di Dio (non si dice che Dio sta nell’alto dei cieli?)... ma nemmeno essere quello degli atei, che riabbassano il Cielo al soffitto delle loro case... Non credo che avremo tempo di parlare del significato del Cielo inaudito al quale ci si deve riferire. Ma ora lasciamo dire questo... E. Certo! E ... che se non ottenere il favore del Cielo significa essere nell’Errore, l’Errore è però prezioso come la verità... Soprattutto quando è grande come quello dei due Cortei di cui si parlava... Lo dico, un po’ nel senso in cui quell’altro grande che è Emanuele Kant osservava che senza la resistenza dell’aria le colombe non potrebbero volare... E. ... Intanto siamo al mio Cielo: il Cielo di Dio... che d’altronde non è nemmeno il cielo di Cristo... e non solo perché, quando io scrivevo, Cristo non era ancora nato... L Sì, tu ti rivolgi a Dio - ecco le tue parole - con un sapere che sta e non si lascia smentire; e questo sapere non può 189 essere la fede cristiana né alcun’altra fede. Avvolto nello splendore della tua poesia, è tuttavia il Dio dei filosofi e tu sei stato uno dei primi re del pensiero ad affermarlo. La grandezza di ciò che tu hai visto non poteva essere espressa che da un linguaggio potentemente nuovo, che ha attratto gli amanti della poesia ma ha fatto perdere di vista che lì stava nascendo la filosofìa, la più grande delle avventure del mortale... E. Di solito, quando si dice Dio dei filosofi si pronuncia questa espressione con un accento di più o meno larvato rimprovero, mentre il volto e la voce si rischiarano, quando a codesto Dio si contrappone il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e, soprattutto, il Dio di Gesù... I. Ma il rischiararsi di quei volti e di quelle voci è poca cosa rispetto al chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al sapere che sta e non si lascia smentire! E. È il chiarore della filosofia. Quando pronuncio l’espressione phrenòn tò pàn intendo parlare del culmine della sapienza... (come tu traduci) ossia di ciò che noi Greci eravamo in procinto di chiamare filosofia. E il culmine della sapienza è il sapere che non si lascia smentire... Stando su quel culmine e in quel sapere, si abita en phàei, nella luce, nel vero chiarore... I. Sì, nella tua lingua luce si dice phàos e la parola filosofia contiene le parola sophia... che è costruita sulla parola phàos, e dunque suona come se dicesse: grande luce... E. ... Certo: quel so di so-phia è un prefisso che rafforza, intensifica e, appunto rende grande il significato della parola da cui è seguito, cioè, in questo caso, il significato della parola phàos. I. ... e quindi si deve dire che philo-sophia significa aver cura per ciò che sta nella grande luce, al culmine della luce... La cura per qualcosa che è essenzialmente più radicale del rigore del sapere scientifico e della dedizione di ogni fede. E. ... e che per questo, ma solo per questo, può essere detto sapienza... Forse ora si potrebbe incominciare a capire ciò che tu affermi del modo in cui io intendo la sapienza: quel che sta al culmine della luce è il sapere che sta e non si lascia smentire... L Ho dovuto usare quest’ultima lunga espressione per tradurre quel che tu esprimi rapidamente quando affermi di rivolgerti a Dio... E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio pant’epistathmómenos ... che tradotto alla lettera nella vostra lingua significa ponderando bene tutte le cose... Ma tradotto così alla lettera dice ben poco... Se si è capaci di scendere nel senso profondo di queste mie parole greche, bisogna intenderle nella direzione in cui tu ti sei messo... In esse risuona una grande parola: la parola epistéme che alla lettera vien tradotta con la parola scienza, ma che nel suo significato originario significa lo stare (- stéme), dove lo stante non si lascia scuotere dalle forze che vorrebbero scuoterlo, abbatterlo e smentirlo. I. Ti ringrazio per quanto hai detto di me... A questo punto sarebbe forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel tuo Inno a Zeus - l’Inno a Dio - che, parlando del culmine della sapienza, sta esso al culmine della sapienza che guida la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il contesto in cui compare la rapida e potente espressione che ho tradotto con il sapere che sta e non si lascia smentire... E. Ne ricorderò solo una parte... e non nella mia lingua, ma nella traduzione che tu nei hai dato, e con qualche ritocco... Se il dolore, che getta nella follia, dev’essere cacciato 191 dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un sapere che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che a Zeus [...] che ha vinto tre volte. Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria perviene al culmine della sapienza. Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il sapere acquisti potenza sul dolore. Quando, invece del sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza che lo vogliano, sopraggiunge nei mortali un sapere che salva. Questo è un dono dei dèmoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus. I. Quanto tempo occorrerebbe per portare alla luce la grandezza di queste parole!... Bisognerebbe mostrare, innanzitutto, che Zeus è per te ciò che la filosofia, nascendo, chiama Dio... e che tu sei tra i pochi che la fanno nascere... E. Zeus ha vinto tre volte: ha vinto per sempre la propria mente... quindi è il totalmente essente, come tu hai tradotto l’espressione pantelés, che compare nella mia tragedia Le supplici ... I. ... e, ancora, bisognerebbe mostrare che tu incominci a intendere la morte come l’andare nel nulla e dunque a pensare quel significato radicale del nulla che prima di Parmenide, di te e di pochi altri era rimasto nell’ombra... e portandolo alla luce avete fatto sì che gli uomini incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da prima: nel modo estremo e più terribile... E. Morire sapendo di andare nel nulla dal quale non c’è ritorno è infatti qualcosa di essenzialmente diverso dalla morte di chi, la morte, non la può vedere legata al nulla perché ancora non sa nulla del nulla... I. All’estremo opposto di Zeus che ha vinto per sempre la propria morte e per questo è totalmente essente, c’è il panóles, la parola con la quale tu indichi Tesser totalmente distrutto di chi è spinto nel nulla dalla morte... E. Eppure... eppure nel mio Inno a Zeus dico che il dolore che getta nella follia deve essere cacciato dalVanimo con verità...! e il dolore getta nella follia quando lo si patisce come messaggero della morte!... Nel mio Inno io indico anche il Rimedio!... il Rimedio contro la follia in cui getta l’angoscia della morte!... il Sommo Rimedio! I. Sì, tu hai indicato il Rimedio... Di più: alTinterno della storia dell’ epistéme tu sei stato il primo a indicarlo a chiare lettere... Di più ancora! Il tuo Rimedio è il Riparo sotto il quale si sono rifugiati quasi due millenni e mezzo di storia dell’Occidente... e si semplificano troppo le cose dicendo che il tuo Rimedio è Dio!... E. Certo, si semplificano troppo, perché anche nel mio Inno dico che... con verità è necessario cacciare la follia del dolore... con verità!... cioè con un sapere che sta e non si lascia smentire... e questo sapere non può essere nessuna sapienza che il mito ha prodotto, e nessuna fede, nemmeno quella che per chi è venuto dopo di me è stata la fede cristiana o la fede nella tecnica del vostro tempo! Inchiodato dalle arti, cioè dalla tecnica del falso Zeus del mito e della fede, non è forse il mio Prometeo, a urlare: La tecnica è troppo più debole della Necessità? Sono io a pronunciarle, queste parole, perché la Necessità è proprio ciò che si manifesta alTinterno del sapere che sta e non si lascia smentire, e che nel mio Inno chiamo sophronéin, cioè sapere che salva, come tu hai tradotto... L Siamo al centro del tuo pensiero e del pensiero della tradizione occidentale: la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno lo metti in piena luce. E. Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il sapere acquisti potenza sul dolore e questo è il sapere che sta e non si lascia smentire. I. Ha in mente te e gli altri grandi filosofi greci, Gesù, quando dice: La verità vi farà liberi! Liberi da che cosa se non dalla incapacità di sopportare il dolore e la morte...? E. ... solo che in lui la verità è ormai diventata la verità della fede, la volontà che un sapere sia verità perché è lui a rivelarlo... I. ... mentre la filosofia ha cura per il sapere che mostri da sé stesso di non poter essere smentito... E. Su questo pensiero la filosofia si è curvata per millenni... L ... si tratta di aver cura per la luce che non inganni e della potenza che può essere suprema, divina, supremamente liberatrice solo in quanto essa appaia in questa luce... E. Saldi rimedi; saldi, cioè veri, invocano le Erinni alla fine della mia Orestea... Su questo pensiero la filosofia si è curvata per millenni... L ... e si è spezzata... e questo è insieme lo spezzarsi dell’intera civiltà occidentale, e ormai è la spezzatura del mondo... E. Tu vuoi dire che si è spezzata nei due Cortei di cui parlavamo all’inizio?... il Corteo della tradizione, della verità liberatrice, del divino... L Sì, e il Corteo del tempo presente, dove invece si scorge l’inesistenza di ogni Rimedio, di ogni Riparo dalla nullità dell’uomo. E. Sì, il mio Corteo ha pensato (e per primo) che le cose e i mortali sporgono provvisoriamente dal nulla, ma ha anche pensato che dall’angoscia in cui spinge il pensiero della nostra nullità, ci si può liberare solo con la verità che sta, non smentibile, e mostra il divino che ha vinto per sempre la morte e in cui in qualche modo restano salvate dal nulla tutte le cose mortali... I. ... ma una volta che il tuo Corteo ha evocato il canto terribile della nullità delle cose era inevitabile che il controcanto del Rimedio e della Salvezza dal dolore e dal nulla si rivelasse senza forza e si spegnesse, e si facesse innanzi l’altro Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo stesso Inno, diverso al tuo, ma figlio legittimo del tuo: l’Inno del nulla, della incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è inevitabile che il tuo Corteo sia seguito da quest’altro... E. ... ma tu dici anche questa inevitabilità non è a portata di mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il mondo debba essere guidato da loro... I. Sì, lo credono... si illudono... perché sotto la cenere di Dio c’è il fuoco del nulla. Leopardi canta così: ... a noi presso la culla immoto siede, e su la tomba, il nulla e questo canto finisci col sentirlo anche al di sotto delle voci delle magnifiche sorti e progressive della tecnica... E. ... che tenta di allontanare il più possibile il dolore e la morte. L La tua sentenza che la tecnica è troppo più debole della Necessità deve essere rovesciata: oggi appare che la Necessità è troppo più debole della tecnica : considera allora quanto essa (cioè il canto del tuo Corteo) sia debole, se la tecnica stessa che è molto più forte è poi del tutto impotente rispetto al nulla che attende ogni cosa! E. Ma, poi, tu sostieni che l’anima più profonda di quei due Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato all’inizio!). Mi sembra che tu voglia dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla, e che il mio Corteo si illuda, dopo averlo cantato di poter cantare anche quello a Zeus... I. Sì, ma ora è tempo che il nostro colloquio si concluda... E. ... e sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due gli Inni non riescano a ottenere il favore di quel Cielo di cui parli tu e che sarebbe abissalmente diverso sia da quello degli amici sia da quello dei nemici di Dio... L ... sì, ma ora dobbiamo salutarci... E. ... e in quel Cielo appare la Necessità autentica, non quella che si fa vincere dalla tecnica, ma la Necessità che tutto sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni vicenda, anche i due Cortei, e anche i due Inni... I. ... questo Cielo non è una dottrina che passi dalla testa di uno a quella degli altri. E. ... risplende in ognuno di noi anche quando non ce ne accorgiamo... I. Ti ringrazio di aver accennato a queste cose.. E. ... arrivederci, allora! I. Arrivederci! Parmenide 1 Interlocutore (I): Anche tu, gli uomini, li chiami mortali. Della loro mente dici che è plaktón. Dovrebbero riflettere a lungo su questa parola. Di solito la si traduce con errante. Non è sbagliato - purché si sappia che cosa spinge la loro mente a errare. Parmenide (P): Infatti. Sono spinti a errare perché credono che 1’esistenza della nascita e della morte, cioè l’uscire dal nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio Poema. Ad esempio nei versi 39-40 di quello che voi chiamate frammento 8. I. Ma quando dici che la mente dei mortali è plaktón rendi ancora più profondo il senso dell’errare che viene espresso da questa parola. Infatti plaktón, che tu riferisci alla mente dei mortali (fr. 6), prima ancora che errante, significa colpita. E chi è colpito patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e nell’impotenza. Si è impotenti quando non si riesce a ottenere ciò che si vuole. Quando ciò accade si è preda del dolore, e allora si vacilla, si va di qua e di là, si va errando, appunto. La mente dei mortali è errante perché è colpita. È colpita dalla convinzione non vera che nascita e morte esistano. E, preda di questa convinzione, patisce. P. Sì, con la parola amechame ho indicato appunto questa impotenza, angustia, mancanza, questo essere avvolti dal dolore quando non si segue - così lo chiamo - il sentiero della Verità. Amechame indica l’assenza di mechané, ossia della macchina (nel senso originario di questa parola), ossia del mezzo che consente di liberarsi dall’impotenza angosciata. La frase completa dove parlo della mente errante dei mortali dice infatti: Nei loro petti un’impotenza angosciata governa la mente colpita ed errante. I. Dunque tu dici che credendo nell’esistenza della nascita e della morte, nell’essere e non essere di ciò che è, la mente dei mortali è colpita e va errando nell’oscurità dell’angoscia... ! P. ... e che da questa Notte si esce andando verso la luce della Verità. I. Nietzsche ha scritto che tutto il pensiero filosofico, prima di lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu stai indubbiamente al centro della storia dell’Occidente. Un celebre filosofo della scienza ha sostenuto non molto tempo fa che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna che è la fisica e che tutti i grandi fisici del nostro tempo sono stati parmenidei. Di nessun altro Platone ha detto quel che ha detto di te: Venerando e terribile, l’espressione che Omero riferiva agli dèi. Sono d’accordo con Platone. Ma tu sei un grande dio bifronte... ne parleremo più avanti, se lo vorrai... P. Sentirò che cosa intendi dire. I. Ritorniamo, se ti va bene, a quanto stavamo dicendo prima della mia digressione. Quando parli dei mortali dalla mente errante, mostri le configurazioni della loro angosciata e dolorosa impotenza ( amechame ): essi, tu dici, sono ottusi, accecati, storditi. E sostieni che è necessario cacciare via dalla mente, con verità, tale impotenza, che li rende folli. P. Anch’io ho compiuto il gran viaggio verso la Verità, accompagnato dalle Figlie del Sole, e mi sono lasciato alle spalle le case della Notte, le case di quell’impotenza. I. Non è un caso che Eschilo dica lo stesso. Nell’Inno a Zeus, dell’ Agamennone, il coro canta: È necessario cacciar via dalla mente, con verità, il dolore che rende folli. P. Sì, son proprio le sue parole... I. ... e anche le tue; anche se tu, la mente, la chiami nóos e lui phrontìs; e il dolore che rende folli tu lo chiami amechame, mentre lui lo chiama àchthos. Ma quell’affermazione di Eschilo, e la tua, indicano la nascita stessa della filosofia - 198 anzi, sono questa nascita. P. Sì, la filosofia è il sentiero della Verità. Se lo si percorre si è capaci di cacciar via dalla mente l’angosciata e dolorosa impotenza che la rende folle. I. Anche prima della filosofia ciò che i mortali vogliono sopra ogni altra cosa è riuscire a vincere il dolore e la morte. Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il tempo in cui essi credono nell’esistenza delle potenze demoniche e divine della terra e del cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma, appunto, credono, hanno opinioni, si illudono e nutrono cieche speranze (anche queste sono parole di Eschilo), la loro è una salvezza sognata. P. Sì, per uscire dalla salvezza sognata è necessaria la vera salvezza, è necessario che la Verità venga incontro e si mostri all’uomo, e mostri in che consista la vera Potenza. Ma l’uomo può scorgerla solo se riesce a capire in che consista la Verità. Questo è il culmine della sapienza. I. Non deviamo dal nostro discorso se a questo punto ricordiamo che per Aristotele la filosofia nasce dalla meraviglia. Con questa parola si traduce solitamente il termine greco thàuma. Ma è una traduzione che porta fuori strada. Basta tener presente, per giustificare questa mia affermazione, che per Aristotele anche l’uomo del mito (l’amante del mito, philómythos) è in certo qual modo filosofo, perché anch’egli è preso dalle reti di thàuma. Ora, è ingenuo pensare che, nell’esistenza dominata dal mito, sia l’esangue sentimento della meraviglia a esser capace di far rivolgere l’uomo e di farlo alleare, per salvarsi, alle potenze che egli crede supreme. L’uomo del mito è il primo a lottare contro l’immane sorpresa del dolore e della morte. Thàuma è l’angosciato stupore, l’angosciata e dolorosa impotenza. P. Sì, thàuma è Yamechame. Infatti Aristotele afferma che la filosofia conduce nello stato contrario a quello da cui essa procede. Il viaggio che descrivo all’inizio del mio Poema conduce anch’esso allo stato contrario: dalla Notte delYamechame al Giorno della Verità, dove il mio animo vuol pervenire (fr. 1, v. 19). Lo stato contrario a thàuma, a cui la filosofia conduce, è per Aristotele la felicità, per quel tanto che essa è concessa agli uomini, è la loro salvezza. I. Ma, come tu avevi incominciato a dire, il pensiero che stabilisce il senso di ogni sapienza e di ogni agire - e dunque della salvezza e della felicità - è il senso della Verità. Che importa una salvezza se non è vera? E una virtù, una sapienza, una potenza che non siano vere? È un amore per il divino se l’amore e il divino non hanno verità? A te e a coloro che per primi con te filosofarono spetta questa gloria ineguagliabile: aver capito che l’avventura più alta dell’uomo consiste nel portare alla luce il senso della Verità. P. I più pensano ad altro. Lo dice anche Eraclito: I molti vivono come avendo una loro propria saggezza (fr. 2), che è del tutto estranea alla Verità di tutte le cose. I. Tutte le cose! Il Tutto! Tu e quel coro di dèi che voi siete - voi, i primi pensatori greci per la prima volta sulla terra avete incominciato a parlare del Tutto. È un evento infinitamente più decisivo di quello in cui, come si racconta, l’uomo si è rizzato sulle gambe e ha incominciato a guardare il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e profondo è il Tutto rispetto al cielo stellato. P. Sì; e lo sguardo verso il Tutto è necessariamente richiesto dal senso della Verità. Infatti il cuore della Verità non trema (è atremés). Trema il cuore delYamechame; trema il cuore di tutto ciò che può essere negato da uomini o da dèi. Il cuore non tremante della Verità non può esser negato né da uomini né da dèi. Proprio per questo la Verità non può essere la verità di una parte del Tutto: se lo fosse, rimarrebbe esposta al pericolo che dalle altre parti si faccia innanzi qualcosa capace di smentire la verità di quella parte - la verità, cioè di dimensione particolare dell’essere -, e il cuore della verità non cesserebbe mai di tremare. P. Questo è uno dei motivi per i quali affermo che il Tutto non è divisibile, ossia non ha parti. I. Certo, ma su questa tua tesi, vorrei, ritornare tra poco. Ora vorrei aggiungere che la Verità non può essere negata né da uomini né da dèi, non perché per ora essi non siano capaci di negarla, ma domani o in un futuro più o meno lontano potrebbero diventarne capaci... P. ... ma perché è impossibile che lo diventino. I. Solo che è questo impossibile a dover render conto, ora, del proprio significato. Da questa impossibilità dipende infatti 1’esistenza di un cuore non tremante della Verità. P. Infatti, il Tutto è ciò che è, l’essente (tò eón). E al centro del mio Poema sta questa affermazione: È impossibile dire o pensare che Tessente non sia. L’impossibile è appunto questo: che Tessente (ciò che è) non sia. I. E qui tu ti sollevi sopra tutti gli altri. D’altra parte, mi sembra che tu voglia anche affermare che l’impossibile non ha un significato per proprio conto, indipendentemente dal significato dell’espressione Tessente non è; ma che impossibile significa proprio questo: il non essere dell’essente. O almeno mi sembra che nel tuo Poema le cose vadano così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo dire che è impossibile che Tessente (il Tutto) non sia. Tu hai l’audacia di affermare che ciò che è, è ingenerato, imperituro, eterno dunque. E non è un’audacia avventata, ma dà da pensare ai millenni e a tutte le sapienze che son 201 venute dopo di te - a tutte, dico, anche quando esse non se ne sono rese conto e ancora per molto continueranno a non rendersene conto. P. Ma non ci sono quelle due affermazioni che tu hai lasciato in sospeso e che ora dovresti chiarire? La prima, che io sarei un grande dio bifronte; e, la seconda, la tua riserva - almeno così mi è sembrata - a proposito della mia tesi che il Tutto - Tessente - non è divisibile, cioè non ha parti. I. Andando avanti per questa strada - tu lo sai bene - ci avviamo verso una regione impervia e insieme grandiosa, che in questo nostro dialogo dovremo accontentarci di guardare da lontano. Si tratta, ancora una volta, di capire che cosa significa essente. P. Sì. Platone, nel Sofista, mostra con potenza mirabile perché io escluda che Tessente abbia parti. E affermo questa sua potenza pur sapendo che egli ha inteso compiere un parricidio, come lui dice, nei confronti del mio pensiero, cioè ha mostrato che Tessente è necessariamente molteplice, ossia ha parti. I. Diciamolo, intanto, che cosa significa che Tessente non ha parti. P. Significa che il mondo, in apparenza ricchissimo di parti nello spazio, nel tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti, non può essere Verità. Nel mondo, Tocchio non vede, l’orecchio è stordito, la lingua straparla. Le cose del mondo sono soltanto opinioni dei mortali, a cui non compete alcuna vera convinzione. Sono illusioni. Sono soltanto nomi. Dicevo all’inizio che i mortali sono spinti a errare anche perché credono che nascita e morte siano verità. Ma come è illusione la falsa ricchezza delle molte cose, così è illusione la nascita e la morte. I. E Platone mostra perché tu neghi che Tessente abbia parti 202 (terra, cielo, piante, animali): perché, se le avesse, ognuna dovrebbe differire dall’essente. Infatti cielo (o casa o altro) non significa essente, cioè non è essente, e il non essente non può essere. Quindi le molte cose del mondo non sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se le cose del mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici, come è necessario che Tessente sia, così è necessario che il nulla non sia. P. Questo non potrà mai venir imposto, che le cose che non sono siano. So che, secondo alcuni, io non avrei negato la molteplicità delle cose. Ma se fosse così dovremmo dire che pensatori come Platone, Aristotele, Hegel non abbiano letteralmente capito quello che ho detto. I. Sono d’accordo con te. Io sostengo da tempo che non è stata capita la potenza del tuo pensiero. Ma altro è affermare che tale potenza non è stata capita, altro è affermare che non si è capito quel che il tuo Poema ha esplicitamente affermato. P. Tu hai scritto anche più volte che il mio pensiero può sembrare il punto in cui l’astro dell’Occidente viene a trovarsi più vicino all’astro dell’Oriente. Come l’induismo e il buddhismo, dico anch’io che il mondo è illusione - maya, dice l’Oriente. Ma quale differenza! I. Infatti: sono simili le tesi. L’Oriente possiede tesi analoghe a quelle che si leggono nel tuo Poema, ma, separate dalla cura per la Verità, separate dal perché le si afferma, esse non sono filosofia, ma miti. P. Prima di noi l’Oriente è philómythos, non philosóphos. Poi rileggerà i propri pensieri - il cui splendore è indiscutibile - alla luce dei nostri. I. D’altra parte, proprio perché il tuo discorso sulTimpossibilità che Tessente abbia parti è ben comprensibile, non può evitare di confrontarsi con Platone, che mostra, all’opposto, la necessità che Tessente sia molteplice; e lo mostra portando alla luce un principio che resterà alla base dell’intero sviluppo dell’Occidente - dell’Occidente, dico, non della sola cultura occidentale. P. Lo so: Platone mostra che l’affermazione che Tessente è una molteplicità di essenti... I. ... l’affermazione che il mondo esiste... P. ... non implica, come invece io sostengo, che le cose che non sono siano... I. ... cioè non implica che il nulla sia. P. Di questo gran passo di Platone parleremo un’altra volta... I. D’accordo, qui vorrei allora restare alTinterno del tuo discorso, ed esprimerti quella che tu prima hai chiamato la mia riserva, invitandomi a non dimenticarla. I mortali, tu dici, vivono nell’opinione ( dóxa ), che è illusoria: credono che esista la molteplicità delle cose e la loro generazione e corruzione. P. Nascita, dolore e morte, infatti, non possono esistere se non esistono le molte cose del mondo. Questa illusione, che li fa errare lontani dalla Verità, li colpisce e li fa sprofondare nell’ amechanie. I. Ma tutto questo significa che, per te, l’opinione illusoria e Vamechanie e, infine, i mortali stessi sono, esistono, non sono un nulla. E allora, non è soltanto Tessente a essere, ma anche il mondo illusorio dei mortali - giacché, ripeto, quando dici che questo mondo non ha verità, nemmeno tu intendi dire che, dunque, è nulla... P. ... e allora tu mi stai obbiettando che dunque, ciò che è, Tessente, è costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che vorrebbe esser solo lui a essere) e il mondo dell’illusione, che poi è a sua volta costituito dalle molte cose illusorie che sono soltanto nomi - e, anche qui, tu diresti che per me i molti nomi non sono un nulla, ma a loro volta sono. Cosicché io stesso verrei ad affermare quella molteplicità delle cose che invece dichiaro impossibile. E potresti aggiungere che, oltre ai nomi che per i mortali sono cose, ci sono le parole che nel mio Poema indicano la Verità e si distinguono le une dalle altre e che io non sarei certo disposto a considerare inesistenti per il fatto che sono molte... ... Ma a questo punto puoi andare avanti e dirmi perché, prima, mi hai chiamato un grande dio bifronte - e, mi pare di aver capito, bifronte in un senso diverso da quello per cui sarei bifronte già per il fatto di affermare implicitamente quella molteplicità delle cose che invece esplicitamente nego. I. Ma innanzitutto un dio. In questo nostro dialogo non abbiamo il tempo per mostrarlo. Ciò che più conta dovremo quindi lasciarlo da parte - e ciò che più conta non è soltanto il senso del tuo essere un dio. Ebbene, ti dico bifronte rispetto all’essenza autentica del nichilismo, ossia dell’anima e del fondamento dell’intera storia dell’Occidente e, ormai, dell’intero pianeta. P. Se questo è il tema, allora so quel che sostieni. Tu dici che io sono colui che indica il Sentiero del Giorno e, contemporaneamente, spinge verso il Sentiero della Notte: colui che indica che cosa sia veramente il nichilismo e quale sia il senso autentico della sua negazione, ma che, insieme, apre la strada che conduce nel baratro del nichilismo. I. L’essenza del nichilismo è infatti affermare che ciò che è non sia. Non si pensa mai che ogni annientamento degli uomini e ogni devastazione della terra sono possibili perché, innanzitutto, si crede che ciò che è possa non essere. L’errore estremo è insieme l’estremo orrore. Ma poi anche tu - anche tu! -, anche la tua mente è colpita come quella dei mortali dalla doppia testa, dikranoi, come tu dici: anche tu affermi che ciò che è non è, ossia che le molte cose del mondo sono nulla - esse che invece non sono un nulla nemmeno per te, nella misura in cui sono il contenuto dell’opinione illusoria. P. E questo lo dici perché Platone ha mostrato che se una qualsiasi cosa del mondo, ad esempio la luna, non ha lo stesso significato di ciò che è, o di essente - se dunque la luna non è Tessente -, d’altra parte la luna non ha nemmeno lo stesso significato di nulla, luna non significa nulla, e pertanto non è un nulla... I. ... con la conseguenza che, affermando che la luna è, non si è costretti ad affermare; come invece tu sostieni, che le cose che non sono siano, ossia che il nulla è; ed è dunque necessario affermare che le molte cose sono. P. Ma so anche che, per te, Platone, salvando il mondo da me, si porta dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col quale io uccido (o almeno penso di uccidere) il mondo. Tu dici appunto che, col parricidio compiuto nei miei riguardi, Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà ne è il cattivo pastore, e che è alTinterno di questa cattiva cura del gregge che poi si farà innanzi, lungo la storia dell’Occidente, ogni buon pastore. I. Ma quando parlo del nichilismo che anima quella storia, non intendo dire che gli uomini avrebbero potuto pensare meglio di come hanno pensato - e qui mi riferisco innanzitutto a te: gli uomini hanno pensato e agito come era necessità che pensassero e agissero; e anche il cielo e la terra procedono nel modo in cui è necessario che procedano. In proposito non dico altro. Vorrei invece ritornare un momento su quel discorso che facevo a proposito della luna, cioè del suo non esser né Tessente né un nulla. Questo non significa che tra ciò che è e il nulla vi sia qualcosa di 206 intermedio (la molteplicità delle cose, appunto). Significa invece che quel ciò che è, separato dalla molteplicità delle cose che sono, è esso un nulla. Certo, luna non significa essente, ciò che è; ma Tessente non è il non composto, il semplice, ma è ciò che ognuna delle molte cose è, ossia è ciò che è presente in ogni cosa. P. Vedo dove il tuo discorso sta andando. Tu dici che, essente, è ogni cosa. Quindi Tessente è, propriamente, gli essenti. Ma, insieme, tieni fermo che è impossibile che Tessente non sia - e appunto per l’accecante splendore di questo pensiero mi chiami un dio; ma, tu aggiungi, Tessente è ogni cosa e quindi di ogni cosa è necessario affermare che è impossibile che non sia, è cioè necessario affermare che è eterna. I. Hai detto bene anche questo: che quello splendore è accecante. Ha accecato tutti, tutte le menti più alte dell’umanità. Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non si dispiegasse totalmente e in tutta la sua forza e in tutte le sue luci, la Verità non potrebbe esistere; così come il Giorno non potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il linguaggio parli e del Giorno e della Notte, ma che dica sì al Giorno, non alla Notte. P. Della Notte parlano i mortali, la cui mente, colpita dal dolore e dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della Notte credendo che sia il Giorno. I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa, per i quali Tessente non è ed è necessario che non sia, il linguaggio della Notte gliel’hai messo in bocca proprio tu! P. Cioè? I. Voglio dire che, per quanto ne sappiamo, quei mortali sei stato tu a evocarli per la prima volta. P. Perché? I. Perché, per quanto ne sappiamo, tu sei stato il primo a pensare e a parlare dell’essente come di ciò che è assolutamente opposto al nulla. L’Oriente ignora la radicalità di questa opposizione. E se così stanno le cose, prima di te non potevano esserci quei supermortali per i quali Tessente non è ed è necessario che non sia. Esistevano i comuni mortali del mito, che ancora non potevano sapere che la morte è annientamento e la nascita è uscire dal niente. P. E quindi tu affermi che io non solo ho evocato per primo la Verità dell’essente, ma per primo ho anche evocato i suoi nemici, quelli che tu hai chiamato i supermortali. I. Che sono per davvero tali, perché, a partire dall’atmosfera aperta dalle tue parole, essi hanno incominciato a credere di morire dinanzi al nulla che li attende, sì che la loro morte ha incominciato a essere infinitamente più angosciante di quella del mito. Proprio per questo tu hai guardato alla Verità come sommo rimedio contro l’angoscia estrema. P. ... Abbiamo parlato di cose grandi, anche se abbiamo dovuto soltanto sfiorarle. Di molte altre, e grandi, che a gran voce chiedevano di essere dette, abbiamo dovuto tacere. Ora dobbiamo salutarci. A presto! Dal testo richiestomi da Pressburger per le Interviste impossibili, tenutesi nel 2007 al Teatro Stabile di Trieste. Dialogo richiestomi dal Corriere della Sera. Di tutti i miei possibili critici, (dunque, oltre che di quelli passati e presenti anche, di quelli futuri) va detto che tutti, con maggiore o minore potenza sviluppano il Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti. Questa affermazione non suona paradossale se si tiene presente quanto si è detto nel capitolo 6, della sezione prima. Non suona paradossale nemmeno se si aggiunge, e lo si deve, che tutte le possibili critiche al Contenuto dei miei scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno rilevanti, di quel Contenuto (una parola, questa, che va con la maiuscola, miei scritti andando invece con le minuscole). Quel Contenuto è infatti la verità, il destino della verità. Immodesto non sono io: immodesta è la verità che ne ha il diritto perché non è cosa modesta e attira a sé il linguaggio imponendogli di testimoniarla. Ritorniamo brevemente su questi temi. La verità è sola in quanto nega l’errore. Senza errore non c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la rende ferma, nel senso che essa ha il cuore che non trema - per usare un’espressione di Parmenide - solo in quanto mostra che essa è e significa errore e la necessità di negarlo. Essa vive, eterna (e l’uomo ne è l’eterno apparire), solo in quanto l’errore vive; ed è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale, suggestivo, cioè quanto più sviluppa la ricchezza che gli compete. La verità ha cioè bisogno degli scavatori che portino alla luce questa ricchezza con la convinzione di portare alla luce la verità (una convinzione che è presente anche quando scrivono libri e libri per mostrare che la verità non esiste). È, il loro, un lavoro che invece chi scava per portare alla luce la verità non riesce a fare così bene, o non gli dedica il tempo e la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti i critici e tutte le possibili critiche al Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e spesso originali. Anche tutte le critiche che possono essere mosse a proposito del discorso che qui si è appena fatto intorno al rapporto tra verità e errore, agli scavatori dell’errore e della verità, e alla loro indispensabilità. La magnificenza dell’Occidente, che ormai conquista la terra, è il tempo dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la verità non abbandona a sé stesso l’errore: esso cresce secondo le leggi della verità. L’errore cresce secondo le leggi della verità anche perché ogni obbiezione che si possa fare a quel Contenuto (e l’ignorarlo è la forma preminente della negazione di esso) è convinta di affermare qualcosa che differisce da tale Contenuto. Non solo, ma crede anche che il fatto di differire non sia cosa di poco conto. E infatti è di tantissimo conto. Il Contenuto di cui si sta parlando è infatti la manifestazione del senso autentico e della necessità del differire dei differenti. È il punto infinitamente più stabile di quello che ad Archimede sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben vengano dunque, daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere per davvero obbiezioni; ossia intendano differire da ciò contro cui obbiettano e tengano quindi in gran conto la differenza dei differenti e l’impossibilità di negarla. E, una volta che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in gran conto proprio quel Contenuto contro il quale esse vorrebbero andare. Gli scavatori dell’errore sono gli erranti - e come individui tutti sono erranti, anche quelli che scavano la verità. Nel tempo dell’errore - un tempo che coincide con il tempo deH’uomo, cioè con l’uomo quale è inteso all’interno della terra isolata dal destino della verità -, l’errore crede di conoscere ciò che ai propri occhi appare come errore; e si crede capace di distinguere questo, che gli appare come l’errore, dall’errante. Ma là dove domina l’errore che è tale agli occhi della verità, ed esso dice di voler combattere e distruggere ciò che ai suoi occhi è errore, ma non l’errante, là è inevitabile che ci si convinca che il fiorire degli erranti finisce con l’essere il fiorire dell’errore ai danni di ciò che è ritenuto verità, e si finisca col condannare, e punire e distruggere anche gli erranti. Questa confusione tra l’errore e l’errante attraversa tutta la storia del mortale. Eppure anch’essa contribuisce alla costituzione della concretezza dell’errore. Tutta la storia della sofferenza umana è richiesta da tale concretezza. Il destino della verità è destinato a oltrepassarla (cfr. E.S., La Gloria, 2001, cit., Oltrepassare, Adelphi 2007, La morte e la terra, 2011, cit.). Il relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca a conoscere una verità assoluta e irrefutabile. Se ci si ferma a questa definizione, tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto quella filosofica, è relativista. Ma allora va anche detto che quella negazione della verità era già sostenuta 2500 anni fa, e in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo saremmo ritornati al punto di partenza per quanto grande fosse il suo stile? No; perché a quella definizione non ci si può fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli stesso che nemmeno questa sua affermazione è una verità assoluta. (Le cose non sono però così pacifiche, perché un negatore della verità potrebbe replicare che egli intende proprio negare e insieme affermare la verità, perché no?, visto che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il principio di non contraddizione egli potrebbe daccapo rispondere che quel principio, così semplicemente affermato, è un dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli che non lo è). Il relativismo degli ultimi due secoli è tutt’altra cosa. Nega tutto l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno crede che il relativismo possa appoggiarsi anche a Pascal, per il quale la verità assoluta non potrà mai esser trovata perché tutto muta col tempo. Ma Pascal non giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non può esistere nemmeno un Dio eterno e assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non giunge a tanto, perché per lui quel tutto che muta è, propriamente, il mondo. Nietzsche arriva a tanto perché, fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta, mostra Vimpossibilità dell’esistenza di un qualsiasi Essere eterno e assoluto, al di là (o all’interno) del mondo. Ma tale persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di tutta la cultura e la civiltà dell’Occidente - e, ormai, del pianeta. Sin dall’inizio l’avanguardia dell’Occidente - la filosofia greca - è persuasa che il mutamento del mondo sia una verità incontrovertibile (e che il mutamento sia un passare delle cose dal non essere all’essere e viceversa, cioè abbia un carattere essenzialmente più radicale del modo in cui esso era stato precedentemente inteso dall’uomo). O gli odierni relativisti ritengono forse, contro i Pascal sui quali essi si appoggiano, che il mutamento del mondo sia il contenuto di una conoscenza fallibile, congetturale (per usare una nota espressione di Popper)? E la ricerca della verità, che i relativisti preferiscono al suo possesso, tale ricerca, dico, non è forse una forma rilevante di mutamento del mondo? E l’esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il contenuto di una conoscenza fallibile e congetturale? No di certo. (O vedano loro che cosa intendono sostenere.) Solo che è Nietzsche, insieme a pochi altri, a saper mostrare perché, dal fatto che nel mondo tutto muta, è necessario concludere che non esiste alcuna verità assoluta e irrefutabile oltre a quella che consiste nell’affermazione di quel fatto, e che non esiste alcun Essere eterno e assoluto oltre agli esseri che mutano nel tempo (cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche e pochi altri - abitando quello che chiamo il sottosuolo essenziale del pensiero del nostro tempo - sanno fare cioè quel che i relativisti d’oggigiorno non sanno fare; e non lo sanno anche perché, per lo più e più o meno consapevolmente, evitano di riconoscere che anche per loro è una verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose mutano col tempo. Antirelativisti sono invece coloro che lungo la tradizione dell’Occidente condividono sì la persuasione che il mutamento delle cose del mondo è una verità irrefutabile; ma, a differenza dei relativisti, ritengono che verità irrefutabile sia anche l’esistenza di un Essere eterno e assoluto al di là o aH’interno del mondo. Sono gli amici della metafisica. Nel sottosuolo essenziale del nostro tempo appare appunto l’impossibilità della metafisica. D’altra parte, ai relativisti che stanno fuori del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i metafisici obbiettano quel che già abbiamo sentito, cioè che se tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è anche Taffermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale. Ed è quindi inevitabile che i relativisti di superficie non abbiano argomenti incontrovertibili contro la metafisica e la verità assoluta e incontrovertibile. Per trarsi d’impaccio, i relativisti più spregiudicati di superficie hanno finito col riconoscere che anche il loro relativismo è fallibile e congetturale. (Sembrerebbe il culmine dell’atteggiamento critico - ma allora non si vede perché si dovrebbe dar loro ascolto.) Il filosofo liberale americano Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia lo aveva riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito, che però aveva il difetto di non essere americano e di essere fascista, come il suo maestro Giovanni Gentile - che invece, insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo e ha quindi molto da insegnare a tutti i Popper. Comunque, se il relativista riconosce che tutto quel ch’egli sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e congetturale, pronta ad abbandonare i propri valori teorici e morali se altri si rivelano più credibili, lo ascolto con interesse (condividendo anche i suoi buoni sentimenti). Ma aggiungo che anche questa autocritica del relativista è apparente. Domando: chi si dichiara pronto ad abbandonare i propri valori se altri si rivelano più credibili è uno che dubita di esser così pronto? È uno che dice: Forse son pronto ad abbandonarli se ne vedo di più credibili?. È uno che dice: Forse son pronto, perché non escludo che anche se ne vedessi di più credibili non abbandonerei mai i miei?. Se si son capite le domande, la risposta non può che essere negativa. Anche questo relativista, cioè, non mette in dubbio, è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera come irrefutabile, indiscutibile e dunque assolutamente vero il proprio trovarsi nello stato in cui egli è disposto ad abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori. Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di quel che dice. E se dice: Dubito di quel che dico, egli non dubita di dubitare. (Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l’uomo apre bocca solo se non dubita, la maggior parte delle volte che l’apre dice però cose false; mentre le considerazioni di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità incontrovertibile.) A Popper che afferma il carattere fallibile e congetturale di tutta la nostra conoscenza va dunque replicato che, d’altra parte, l’uomo - dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo - è sempre convinto, più o meno consapevolmente, di conoscere verità assolute e incontrovertibili (anche se sbaglia quasi sempre). Come ne sono convinti anche quei logici che secondo certi relativisti avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) che non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria. Come ne sono convinti anche i relativisti alla Popper e alla Hans Kelsen, che sostengono un’implicazione necessaria, cioè assolutamente vera, tra relativismo, libertà, democrazia. E allora? Allora, nella folla sterminata di coloro che - senza saperlo e anzi spesso negandolo - sono convinti di conoscere verità assolute, si trovano anche gli uomini dell’Occidente, per i quali la verità assoluta e incontrovertibile dominante è che le cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la necessità che tutte le cose mutino, nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste alcuna verità immutabile se non quella che afferma il divenire e il travolgimento di ogni cosa e di ogni verità. Restano travolte anche la politica e la morale che, lungo la tradizione antirelativistica dell’Occidente, consistevano nell’adeguare la vita dello Stato e dei singoli individui alla verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare con verità. Se oggi qualcuno auspica una politica capace di parlare con verità, deve tener presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda parecchio complessa. Per questo in un mio articolo sul Corriere avevo domandato a Ernesto Galli della Loggia, che cosa intendesse con la parola verità, avendo egli appunto auspicato una politica capace di parlare con verità. Glielo avevo chiesto anche perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa ad esempio usano questa espressione, intendono un politica e una morale che, contro il relativismo, siano legate alla verità incontrovertibile e assoluta della metafisica tradizionale (aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una democrazia che non sia, come invece lo è la democrazia procedurale, una libertà senza verità. La risposta di Galli della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto - c’era ancora il governo di centrodestra - che una politica che parla con verità è quella che non nasconde ma dice in che stato miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che non riguarda la verità, ma la sincerità, giacché se non c’è verità senza sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur sempre subordinato alla gran questione del rapporto tra relativismo e antirelativismo - visto che l’accentuata corruzione della politica e della morale è una conseguenza dello stato di transizione in cui il mondo si trova: tra la tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre sottoposti al giudizio della verità, e il tempo futuro: il tempo in cui - con l’inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e di ogni eterno Signore del mondo - quella forma suprema dell’agire umano che è la tecnica viene autorizzata, a prendere in mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il sottosuolo, dico, non la vera buona politica. (Un processo, questo, in cui consiste il senso autentico dell’antipohtica.) Con la lettera del pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra credenti e non credenti è giunto a una svolta di grande importanza e interesse.Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è soltanto uno spettatore - che però, come me, sia interessato al problema. Il pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori, di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per fimportanza di questa inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi. Il pontefice scrive a Scalfari: Mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Il pontefice risponde: Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Ma aggiunge: Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì parlato di verità assoluta, ma intendendo non ciò che è slegato, ciò che è privo di relazioni, ma proprio la verità che non è variabile e soggettiva. E il papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: tutt’altro. In questo modo, la domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (Cfr. la recente enciclica Lumen fidei, Editrica La Scuola 2013). A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo, ha lodato l’innovazione di papa Francesco rispetto alla costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità assoluta). Ma lo loda per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal sostenere. Chiedeva Scalfari: la verità è variabile e soggettiva? No, risponde il pontefice: Tutf altro! Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più importante. Dopo aver scritto che la specificità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione, il pontefice aggiunge che da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco. Da quasi cinquantanni (che rispetto alla storia dell’Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire la distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica, nega tale distinzione. Non ho mai ricevuto una risposta adeguata - e mi sembra grave mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche sulle colonne del “Corriere della Sera”. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come d’altra parte non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta? Domandiamo a Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di noi Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e cattoliche). Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi - come spesso si dice, ma senza accorgersi della connessione tra questo dire e il detto di Gesù - è necessario che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che nell’al di là. Ma in questo modo la distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica, che, anche secondo questo pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece radicalmente negata da questo detto. Certo, Yintenzione di Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli afferma è inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile, vuol conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro reciproca opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare). Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz’altro ragione il pensiero laico, che vuol tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede. Nel dialogo tra Scalfari e il pontefice i problemi che ho indicato non sono gli unici, i più importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela della chiarezza del dialogo. Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno ragione. Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza, o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza sono inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità delle categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M. Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley). E se il fisico Léonard Susskind, nel suo libro La guerra dei buchi neri (2008, Adelphi 2009), scrive di non essere molto interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la scienza, tuttavia la sua guerra, combattuta contro il collega Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofìa si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli altri. Per Hawking i buchi neri presenti nell’universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in questa tesi la violazione del primo principio della termodinamica, per il quale la quantità totale di energia dell’universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la costanza dell’energia è il suo continuare a essere; e l’incostanza delle sue forme è il loro venire a essere e il loro ridiventare non essere, nulla. Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’essere e del nulla, ma il primo principio della termodinamica non può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è aH’interno di quest’anima che cresce la scienza anche quando i suoi cultori alzano le spalle davanti alla filosofia, che a quest’anima si rivolge sin dall’inizio. Si ritiene tuttora che la teoria generale della relatività d’Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma Einstein e Heisenberg si contrappongono mantenendosi entrambi all’interno del senso greco¬ occidentale dell’essere e del nulla: per il determinismo di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile (determinato) e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli abbia ricondotto il concetto di onde di probabilità al concetto aristotelico di dynamis, potenza, cioè alla possibilità reale (non alla necessità) che uno stato del mondo sia seguito da un cert’altro stato). Freud ebbe a scrivere, di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali: Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica. Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla caducità delle cose del mondo, che oggi è data comunque per scontata. La filosofìa sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della scienza. La discussione è tuttora aperta. Anche al tema deH’incontrovertibihtà la filosofia si rivolge da sempre. Per il grande matematico David Hilbert il rigore nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra ragione. E II più grande spettacolo della terra di Richard Dawkins (Mondadori 2010), eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: Le prove a favore dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno e non sono mai state più solide. Esse dimostrano come la “teoria” dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale incontrovertibile. Ma quel che rimane oscillante e alla fine oscuro in queste pagine è proprio il concetto di prova, di fatto scientifico, di incontrovertibilità, cioè la loro filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra parte, l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi ritornano così come accade per le forme incostanti della costante quantità totale dell’energia. L’evoluzione è un fatto, oltre ogni ragionevole dubbio, è la pura verità confermata da una valanga di prove, con la certezza assoluta che non ci sarà smentita. Come la certezza, intende Dawkins, che il sole è molto più grande della terra e che l’antica Roma è esistita; come la teoria eliocentrica e quella della deriva dei continenti. Si può certo convenire. Ma il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso dell’inoppugnabilità e incontrovertibilità di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la loro abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della certezza assoluta che di esse non ci sarà smentita. A meno che Dawkins - e allora il discorso potrebbe finire qui - non si proponga altro che allineare la teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo, e per dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico e improprio, che però, tirate le somme, risulta inoffensivo. (D’altra parte egli sottoscrive il vecchio principio che a rigor di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa. Parole che però debbono fare i conti con quest’altra sua dichiarazione: Nel resto del libro dimostrerò che l’evoluzione è un fatto inconfutabile. Infatti se solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa, allora il suo libro non matematico non dimostra davvero che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste possano sembrare all’illustre collega considerazioni da pedanti e da sofisti, però è diffìcile sostenere che non siano a rigor di logica.) Ma che cosa intende Dawkins affermando che il suo libro dimostra che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere oggetto di osservazione diretta, la quale, come egli sottolinea, è inaffidabile. La sua dimostrazione vuol essere quindi un’inferenza che dalle tracce lasciate dal processo evolutivo risale all’esistenza di tale processo, al suo essere, appunto, un fatto. Egli sa bene che anche l’inferenza si deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione. Sostiene però che l’osservazione diretta di un evento come un omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle conseguenze di esso: È più facile che incorra in un errore di identificazione un testimone oculare piuttosto che un sistema di inferenza indiretta come il test del Dna . Sì, posto che sia più facile, non è però impossibile che in certi casi l’osservazione diretta sia più affidabile. Anche per Dawkins. Esser più facile non significa essere incontrovertibile, ossia è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Sennonché da questa ipotesi dipende, nel suo libro, la validità dell’inferenza con cui egli intende dimostrare che l’evoluzione è un fatto incontrovertibile. Ciò significa che anche questa inferenza, e pertanto l’esistenza dell’evoluzione, sono soltanto ipotesi. (Egli rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono troppo lenti per poter essere osservati da un individuo nell’arco della sua vita. Ma chi si propone di dimostrare che l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo lentissimo, afferma arbitrariamente che essa non può essere direttamente osservabile perché è un processo lentissimo.) Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta la possibilità che l’evoluzione, almeno come viene intesa dai biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: Può anche darsi che abbiamo cominciato tutti a esistere cinque minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e capelli incolti. A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della Passione secondo san Matteo di Bach, e, questo, per far sapere che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio - a parte cioè il senso che all’esistenza viene conferito dall’intero pensiero occidentale, che la ritiene caduca, effimera, storica, temporale, provvisoria abitatrice dell’essere e preda del nulla (dunque degna di esser cominciata cinque minuti fa) anche quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio o della poesia o di altra nobile e austera dimensione - a parte tutto questo, come risponde Dawkins a Russell? Risponde scrivendo che sì, è possibile, a voler esser pedanti, che gli strumenti di misurazione e gli organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale inganno, cosicché, se l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare credito. Risposta deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di scientificamente inaccettabile. In secondo luogo perché dal fatto che i teisti non darebbero alcun credito al colossale inganno non segue che tale inganno non possa esser perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell sia da respingere. Queste osservazioni non hanno il benché minimo intento di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione abbiano ragione. Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che decide dove stia la verità non è il costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro incontrovertibilità, ma la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l’apparato scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a dimostrare la verità incontrovertibile dei propri contenuti combatte una battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle logico-matematiche. L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente incontrovertibile. Da quando nasce la filosofia pensa la verità come in-contro-vertibilità, ossia come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile principio di non contraddizione attraversa tutta la storia della cultura. Per Hilbert la questione più importante è dimostrare che basandosi sugli assiomi della matematica non si potrà mai arrivare a dei risultati contraddittori. Ma Kurt Godei dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile. Se lo dimentica Dawkins quando afferma che solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa. Infatti, dimostrare davvero, cioè incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella possibilità. Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine della specie (The Origin of Species). Già dal punto di vista linguistico origine, che rinvia al latino orior (provengo da..., sorgo) corrisponde all’antico greco arché, la parola con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il principio da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del principio, ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata nell’uomo più antico: la fede che le cose, per stare dinanzi a lui - e quindi l’uomo stesso -, abbiano bisogno di qualcosa d 'Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori della stirpe, il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia appare, Yarché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di questa fede è la convinzione (a cui prima si è accennato) che le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra - e poi, quando la filosofia incomincia a parlare, sono di per sé incapaci di essere, e sono preda del nulla. Cose morte. La morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche la scienza si muove all’interno della fede nell’origine (ormai divenuta fede filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per Yarché e l’origine della specie, per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come origine della coscienza. E ancora: per il lavoro, la società, la storia, il linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della mente e della cultura. In generale, per le cause prossime e remote degli eventi. E perfino il nulla è un succedaneo dei vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più oggi pensano, più, o meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza dell’uomo. Ma proprio perché la fede nell’origine porta sulle spalle un fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo? In Italia alcuni fisici e qualche filosofo hanno notato l’affinità tra la tesi centrale del mio discorso filosofico - l’eternità di ogni ente e pertanto di ogni stato del mondo - e la tesi di Einstein che per noi fisici, la distinzione tra passato, presente e futuro non è che una testarda illusione. Ho messo tra virgolette la parola tesi, per sottolineare che quando le logiche che conducono alla stessa tesi son diverse, son diverse anche le tesi che suonano apparentemente identiche. E la logica della fìsica einsteniana è essenzialmente diversa da quella secondo cui si manifesta la necessità dell’eternità di ogni essente a cui si rivolgono i miei scritti. Ciò non vuol dire che ci si debba disinteressare del rapporto tra le due tesi, soprattutto ora che molti fisici mettono in questione il concetto di tempo, che sta in piedi solo se il presente differisce dal passato, ossia dall’ormai nulla, e dal futuro, ossia dall’ancor nulla. L’esempio più recente e tra i più rilevanti di questa crisi del tempo nel mondo della fisica è il libro del fisico Julian Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi). Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia intende comprendere il senso della scienza e della tecnica, scienza e tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma è vero anche l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un fisico come Steven Hawking prevede (1979) che la fìsica debba lasciare il posto a una Teoria del Tutto, si toccherebbe il fondo della povertà di pensiero se non ci si rivolgesse alla filosofia che, da sempre, è stata la Teoria del Tutto. Ma poi la filosofia giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio mira appunto a questa indicazione - in che senso essa non è un sapere ipotetico, esigenziale, metaforico, falsificabile ecc., ma è il sapere assolutamente incontrovertibile - in un senso essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica attribuisce all’incontrovertibile e di cui la filosofia del nostro tempo ha mostrato l’impossibilità. Barbour scrive: Da una quindicina d’anni un numero esiguo ma crescente di fisici, me compreso, comincia a considerare l’idea che il tempo non esista veramente. E lo stesso vale per il movimento. Posso invitarlo a tener presente che la riflessione sull’eternità di ogni essente e di ogni evento è presente nei miei scritti sin dalla metà degli anni Cinquanta e che a metà degli anni Sessanta la discussione su questo tema è stato un non trascurabile evento della filosofia italiana, che continua tuttora a essere vivo? Egli non è uno di quegli sprovveduti che non vedono relazioni tra fisica e filosofia: nella prima pagina del suo libro (di grande interesse e avvincente) scrive che ben pochi pensatori, nelle epoche successive, hanno preso sul serio le idee di Parmenide; io invece sosterrò che l’eterno fluire eracliteo... non è che una radicata illusione. Dirò allora al professor Barbour che qui in Italia, da mezzo secolo, quelle idee sono state prese molto sul serio non solo da me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son certo che al professore non interessa favorire quella sorta di incompetenza che c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana. Letteratura, scienza e religione, confrontandosi con la filosofia, si danno spesso la mano. La Bellezza regna su queste pagine di Roberto Calasso, tra le sue più importanti e ricche della loro disincantata sobrietà: La letteratura e gli dei (Adelphi). Indicano la Bellezza che presenta sé stessa nella sua assoluta autonomia dalla Verità e dalla Bontà. E indicano insieme gli dèi pagani, soprattutto quelli greci, che si eclissano in oscurità variamente profonde, ma per ritornare in Europa, secondo diverse forme di evidenza. Ad esempio nella pittura fra il Quattrocento e il Settecento. Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento: l’età eroica della letteratura assoluta che incomincia con la comparsa della rivista Athenaeum (Schlegel, Novalis...) e si chiude con la morte di Mallarmé. Letteratura assoluta perché indipendente da ogni legislazione esterna, soprattutto quella della comunità è alla ricerca di un assoluto e perciò non può che coinvolgere il tutto. Un anello - Calasso ne intende decifrare la lega - unisce letteratura, linguaggio, mitologia, poesia, arte e gli dèi che appaiono in queste grandi luci. Il sottinteso è che il cristianesimo non appartiene alla letteratura assoluta. Ma non è proprio all’assoluto e al tutto che la filosofia si è sempre rivolta con l’intento di preservare il proprio sguardo da ogni dipendenza da altro, innanzitutto dalla comunità e dal sociale? E, se è così, la discordia tra letteratura assoluta e filosofìa non è la discordia tra due forme della filosofia, sia pure lontane tra loro? Per indicare questa lontananza Calasso scrive ad esempio: La letteratura cresce come l’erba tra grigie, possenti lastre del pensiero. Ma è un accertamento poliziesco di identità (come dice Calasso dei tentativi concettuali di irretire la letteratura) chiedere se quelle parole di Calasso sono erba o lastra? Certo, l’esperienza degli dèi, in cui consiste la letteratura assoluta, intender non la può chi non la pruova. Ma o quest’ultima espressione non ha assolutamente senso, o, se lo ha, ed è innegabile tale senso, è la mano che incorona la testa di quell’esperienza, e pertanto la sovrasta. Calasso intende sfuggire a questo nodo che stringe il collo della proclamazione romantica della superiorità assoluta dell’arte. Ma se non è una possente lastra del pensiero a conferire assolutezza alla letteratura assoluta, allora, a conferirla, è erba che appassisce, semplice aspirazione all’assoluto. Oltre l’età eroica della letteratura assoluta, ma nel suo clima, si ricorda nel libro, Gottfried Benn scrive che al di sopra del linguaggio che raffigura vi è il linguaggio, cioè Nietzsche: E allora viene Nietzsche e incomincia il linguaggio, che non vuole (e non può) altro che fosforeggiare, luciferare, rapire, stordire. Calasso commenta: Nietzsche era stato il primo tentativo di evadere dalla gabbia delle categorie di origine platonica e aristotelica. Che cosa si estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora accertato. Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da parte mia, chiedo a Calasso se non gli sembra che su questo punto il suo discorso possa procedere soltanto perché ha messo tra parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio, che come dice Benn, non vuole altro che... non è forse un volere? E non si dovrà allora tentare di comprendere, innanzitutto, che cosa il significhi, appunto, volere? (E, certo, l’affermazione che al di sopra del linguaggio che raffigura, vi è il linguaggio che stordisce vuole raffigurare o stordire?) Il rapporto teatro-scienza, e in generale arte-scienza è stato teorizzato da Brecht in Scritti teatrali (Einaudi). Una prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente antiplatonica - il che non meraviglia in un marxista come l’autore delle tre versioni di Vita di Galileo -, per altro verso va incontro a una delle esigenze più profonde espresse da Platone: quella di parlare di cose di cui si è competenti. Platone, infatti, invita a diffidare dei poeti tragici e dell’arte in genere proprio perché l’artista può avere soltanto opinioni e non scienza intorno ai grandi temi della vita e della morte, dello Stato, della pace, della guerra, dell’amore e dell’odio, ai quali costantemente si riferisce in modo più o meno esplicito. Certo, Brecht riconosce che il piano della scienza e quello dell’arte sono diversissimi. Tuttavia non solo si rifiuta di considerare semplici hobby gli interessi scientifici di Goe¬ the e di Schiller, ma, con gli stessi esempi offerti da Platone nel libro X della Repubblica (grandi passioni, storia dei popoli, impulso del potere), sostiene che anche nell’arte i grandi e complicati avvenimenti non possono essere sufficientemente riconosciuti in un mondo di uomini che non si provvedano di tutti gli strumenti utili ad intenderli. Un dramma sulla vita di Galileo può essere quindi scritto solo da chi conosce da vicino la nascita della scienza moderna. E Brecht, che per la Vita di Galileo ebbe a ricorrere anche all’aiuto di alcuni assistenti di Niels Bohr, non esita a riconoscere che una quantità di letteratura è a uno stadio fortemente primitivo. Platone respinge l’arte perché non ha competenza di ciò a cui essa si rivolge; Brecht si fa banditore di un’arte che invece questa competenza ce l’abbia, lasciando al suo destino la sterminata quantità di letteratura che invece si trova, per la sua incompetenza, a uno stadio fortemente primitivo. Rimane il problema di come il contenuto scientifico che può essere racchiuso in un’opera poetica debba essere completamente risolto in poesia. Rimane anche ovviamente incolmabile l’opposizione tra Platone, che vede l’anima dell’uomo destinata a una vita immortale, e un Brecht, che in sintonia con il pensiero filosofico del nostro tempo, scrive: Lo confesso: io non ho nessuna speranza. I ciechi parlano di una via d’uscita. Io ci vedo. Quando gli errori sono esauriti siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla ( Poesie, Einaudi). Non è allora del senso del nulla che (anche) l’artista deve avere la massima competenza? Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza sono giunte prima delle scienze della natura e logico-matematiche. In modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. Ci è mancata sinora scrive una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità. Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza. Al di fuori di essa, esiste una istoria senza filosofia, cioè, per lui, senza verità: una conoscenza storica che mostra sì un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, eterna che dia loro un senso unitario, e quindi lasciandole allo stato di ipotesi. La Scienza nuova deve procedere pertanto senza veruna ipotesi: senza le incertezze e dubbiezze che competono alle scienze storiche sino a che rimangono separate dalla filosofia. Ma il nostro tempo - e innanzitutto l’essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo - esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che le scienze storiche si trovano oggi a conservare proprio quel carattere di incertezza, dubbiezza, ipoteticità che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto separate dalla filosofìa. La Scienza Nuova è stata ripubblicata da Bompiani nelle tre edizioni, a cura di Manuele Sanna e Vincenzo Vitiello, con un importante saggio introduttivo di quest’ultimo. Il testo è riproposto secondo l’edizione fattane dallo stesso Sanna, da Fulvio Tessitore e Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del 1730 e del 1744. Un’imponente operazione culturale. Molto opportunamente, Vitiello mette in luce il carattere problematico della conoscenza storica e in generale della nostra memoria. Vico e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica non mettono però in questione Yesistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in questione Yesistenza della natura. Storia e natura sono cioè trattate come indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di mostrare la verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza scientifica - quindi problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente vera, e quindi non scientifica? Né il senso comune può farsi avanti con la pretesa di saper lui rispondere, infatti non può avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a quella della scienza. Affermare che l’esistenza del mondo è una verità innegabile significa affidare alla filosofìa il compito di mostrarlo. È sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che non può esser messo in questione. Da questo punto di vista, non mettendo in questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane indietro rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per altro verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di fronte alla storia, alla natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima affermazione. Il senso comune, in cui si trova ognuno di noi da quando nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue forze. (Vi crede anche la scienza, anche quando essa si discosta dal senso comune.) Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza, e non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è la terra a muoversi attorno al sole, che sta fermo rispetto a essa. Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno forza del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul fondamento di ciò che per essa è la verità innegabile: 1’esistenza del divenire del mondo, cioè del divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni verità che pretenda imporsi su di esse e regolarle. Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo (implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro tempo lo afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a distruggere chi la pensa diversamente da essa. In verità, il mondo non è il mondo (storia, natura, lo stesso altro dal mondo) quale appare all’interno della fede nella sua esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno della non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede nella storia e nella natura, la fede religiosa), ossia ogni altra non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il mondo è la fede nel mondo e che la non-verità della fede nel mondo appartiene necessariamente, come negata, al contenuto della verità. Quando Vico pensa una scienza la quale sia insieme istoria e filosofìa dell’umanità, non scorge che l’esistenza della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede che nell’unione di storia e filosofia la storia sia illuminata dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall’errore. Quale volto deve avere la verità che si mette autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato Prospezioni vichiane Vincenzo Vitiello scrive: Al presente spetta la cura della “possibilità” del futuro, che non solo, in quanto futuro, non è, ma neppure è necessario che sia. Sono d’accordo che questa sia una prospezione vichiana, un proseguire cioè lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla filosofia greca e in cui consiste la storia dell’Occidente: il Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di un’espressione dell’antico Parmenide, lo chiamo Sentiero della Notte - dove la Notte è l’errare estremo. Quella prospezione vichiana raggiunge il proprio culmine e la propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofìa del nostro tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la malattia mortale - l’essenziale non-verità del mondo - che sta al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di essere l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del pianeta che il futuro e il passato non sono e non è necessario che siano. Ho detto che tutto questo vado mostrandolo da gran tempo? Mi son lasciato andare. Rispetto alla grandezza della posta in gioco quel tempo è minimo. Suicidio dell’Europa Lasciar da parte la brocca riempita di vino e porre al suo posto una cavità dove si trova del liquido. È quel che fa la scienza, secondo Heidegger, rendendo un che di nullo la brocca e tutte le cose. Ma già per Goethe la scienza lascia da parte gli aspetti più concreti e intimi delle cose; e questa astrazione è chiamata da Hegel intelletto. Non è nemmeno un discorso perentorio, perché si potrebbe replicare che anche la poesia annulla tutto ciò a cui invece si rivolge la scienza. E quella cosa che è l’Europa? Pietro Barcellona non si confronta con il passo di Heidegger, ma anche nel suo ultimo libro l’Europa è proprio come la brocca piena di vino che è stata annientata dalla scienza e dalla tecnica moderne: è stata sostituita con una cavità in cui si trova del liquido. E poiché la scienza è un fenomeno europeo l’annientamento dell’Europa è un autoannientamento. Il libro di Barcellona è infatti intitolato II suicidio dell’Europa (Edizioni Dedalo 2005). Da molto tempo Barcellona si dichiara d’accordo con vari aspetti del mio discorso filosofico. A modo suo, con sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: Bisogna fare a pugni oppure aprire le braccia. Non mi sembra che le apra alla mia tesi che la dominazione della tecnica e della scienza è inevitabile (per un certo tratto - dunque finito - della storia dell’Occidente. Però lo invito a mostrare dove non lo soddisfano le pagine che ho scritto a proposito di tale inevitabilità. In esse si mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si suicida ma è un albero dove i rami più alti (tecnica e essenza profonda della filosofìa del nostro tempo), per respirare e vivere, fanno appassire quelli più bassi (tradizione teologico- metafisica-religiosa dell’Occidente), sebbene, come 240 quest’ultimi, traggano la loro linfa dalle stesse radici e dallo stesso tronco. Certo, scienza e tecnica non hanno l’ultima parola. E quello dell’Europa è l’albero della Follia. Anche Lucifero è folle, ma è il signore del mondo. Barcellona mi concede che gli eventi del mondo siano l’apparire e lo scomparire degli Eterni, i quali sono pace, guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò che non si lascia vedere e che culmina nella gioia e nella gloria a cui l’uomo è destinato. Ma Barcellona parla anche degli intervalli in cui l’Eterno della gioia, l’Eterno della gloria non si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno di questi intervalli, mi ci ritrovo io - scrive - che, non avendo (ancora) visto la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male. Dice infatti che la tecnica distrugge avvenire, speranza, promessa, profezia, rende tutto presente, calcolabile, manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che vale però per il pensiero filosofico tradizionale (i rami bassi dell’albero di cui sopra parlavo). Volendo essere tale pensiero incontrovertibile, ha infatti la pretesa di dire già tutto sull’essenza del futuro, ossia di ciò che ancora, per l’intero Occidente, è un nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono invece un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza, ma le si adatta, lasciandola vivere e aprendosi all’awenire. Inoltre la filosofìa del nostro tempo mostra l’impossibilità di ogni Eterno che stia al di sopra delle cose create e annientate, ma che non ha nulla a che vedere con gli Eterni, di cui parlano i miei scritti, che non sono i padroni che dominano e regolano quella creazione e annientano, ma sono le cose stesse. Questa sintesi di tecnica e filosofia del nostro tempo, alla quale ben pochi guardano, è animata da quella volontà di avvenire, la cui mancanza fa star male Barcellona e anche altri. Mi sembra che egli oscilli tra l’inconsapevole adesione allo spirito del nostro tempo - che, proprio in quanto tecnologico, e contro quel che di solito si pensa, intensamente vuole e promuove l’awenire - e l’adesione al mio discorso filosofico, dove anche la totalità del futuro è già, eterna, e attende di venire alla luce, oltrepassando quell’Eterno che è la Follia da cui è dominata la terra. A volte Barcellona mi dice che la sua è una fede. Troppo modesto. Alla base del suo discorso c’è invece una filosofia per la quale la verità non può essere che visione. È il principio della fenomenologia. Ma si può dare davvero un rapporto necessario con la verità scrive che non sia la visione? Rispondo: sì, perché la semplice visione non potrà mai essere necessità. Limitarsi, in un paradiso, a vedere Dio, significa esporsi al dubbio di essere vittime di una illusione. La semplice visione non mostra la necessità di quel che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù toccava la necessità che egli fosse il Figlio di Dio. Tempo fa, in un editoriale di Liberal (n. 19, 1998) il direttore Ferdinando Adornato richiamava il problema delle nuove regole di un equilibrio mondiale e affermava la necessità che l’Europa abbia una propria autonomia politica di difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare saggio pensare che tale autonomia debba servire a riproporre un ordine mondiale basato su un “bipolarismo antagonista” nei confronti degli Usa. Poiché in un mio articolo pubblicato su quello stesso numero sostenevo una tesi che a prima vista sarebbe potuta sembrare affine a quella che l’editoriale non considerava saggia, nel numero successivo aggiunsi, in risposta, quanto segue. Siamo d’accordo che l’Europa si trova all’interno di un processo storico che la vede e continuerà a vederla alleata degli Usa. D’accordo, anche, che un alleato non è un suddito. Lo diventa se non ha potenza - se non ha l’autonomia di cui Lei parla. A meno che l’alleato debole abbia grande autorità su quello forte. Ma non è il caso dell’Europa rispetto agli Usa (che hanno tirato diritto anche di fronte alle esortazioni del Papa). Nel mio articolo rilevavo che il processo storico in cui si trova l’Europa la vede anche avvicinarsi alla Russia, nel senso che si profila la tendenza verso la collaborazione tra la potenza economica europea e la potenza nucleare russa. L’unione di questi due fattori fa nascere appunto quell’alleato degli Usa, che è tale solo se non è un suddito. Non si profila dunque un semplice antagonismo rispetto agli Usa. Perfino il bipolarismo Usa-Urss era chiamato dal sottoscritto, sin dagli anni Settanta, Duumvirato (l’espressione era piaciuta anche a Giulio Andreotti). Rispetto alla concordia discors del Duumvirato di allora, il Duumvirato che si sta profilando (e che il mio discorso si limita a constatare) vede considerevolmente ridotta la discordia. D’altra parte gli alleati sono veri, solo se ognuno dei due ha la forza di resistere alle possibili prevaricazioni dell’altro. Solo questa forma di alleanza tra Europa-Russia e Stati Uniti può consentire all ’Occidente di tutelare affìcacemente i propri valori rispetto al resto del mondo. Lei rileva invece che la logica della deterrenza nucleare è obsoleta. Il terrorismo è evanescente e asimmetrico. (D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un ombrello nucleare russo che sostituisse quello che gli Usa hanno tenuto e tengono aperto sull’Europa. Ora, contrapporre al terrorismo l’armamento nucleare è ovviamente insufficiente. Oggi esistono le armi chimiche e le cosiddette nano-tecnologie di basso costo e di altissimo potenziale distruttivo dalle quali è estremamente difficile difendersi. Ma perché i terroristi non le hanno usate, per esempio per difendere l’Afghanistan e l’Iraq? Se l’armamento nucleare è insufficiente, è però anche necessario. Alla fine, sono soprattutto degli Stati ad alimentare il terrorismo. Gli Usa non parlano forse di Stati canaglia? Rispetto a quest’ultimi la minaccia atomica (esplicitamente richiamata dagli Usa prima dell’attacco all’Iraq) non è obsoleta. E allora non si dovrà dire che il terrorismo si astiene dall’uso delle armi chimico-batteriologiche proprio perché certi Stati temono la ritorsione atomica su di essi da parte degli Usa (e della Russia)? Ma poi, la concreta risposta americana al terrorismo dell’11 settembre non è stata forse l’attacco a due Stati? E un articolo di questo numero di Liberal, scritto da un americano, non è forse significativamente intitolato E adesso l’Iran^ È proprio così obsoleto il possesso di un arsenale invincibile (e invincibile lo è tuttora e nonostante tutto anche quello russo), in un mondo dove la rincorsa all’armamento nucleare sta diventando sempre più pressante - come proprio in queste settimane stiamo constatando? A parte il riferimento alla potenza economica europea, che come già si è accennato nelle pagine precedenti si è nel frattempo notevolmente ridotto, le considerazioni presenti in quella mia risposta vanno tuttora tenute ferme. Non credo alla sopravvivenza Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui la comprensibilità del discorso di Jacques Derrida ha tratto, un notevole, giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati Boringhieri e affettuosamente intitolate Jackie Derrida. Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive che per Derrida, cercare di far sì che non tutto scompaia è stato al centro delle sue preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis narcisistica (p. 20). A dar ragione a Ferraris, è lo stesso Derrida che dichiara: Non penso che alla morte, ci penso sempre, non passano dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della sopravvivenza, è veramente la sola cosa che mi interessi, ma proprio nella misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò che faccio, sono, scrivo, dico (J. Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza 1997). Nella cenere tutto viene annientato dice da qualche parte. Ma di quel continuo analizzare il fenomeno della sopravvivenza non trovo traccia nelle pagine di Ferraris. E lo si spiega; perché per quanto ne sappia, non la trovo nemmeno nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che continua a pensarci, ma è difficile venire a sapere che cosa egli abbia pensato in proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli non crede alla sopravvivenza post mortem. In questo senso, non solo Ferraris ha ragione a sostenere che in Derrida non c’è una meditatio mortis narcisistica, ma verrebbe da dire che non c’è affatto una meditatio mortis. Certo, a dirlo così nudo e crudo si sbaglierebbe, perché Derrida conosceva bene la meditazione di Heidegger sulla morte. E tuttavia doveva anche saper bene che è una meditazione fenomenologica, che cioè non si pronuncia sui problemi metafisici come 1’esistenza di Dio, la sopravvivenza dopo la morte ecc. Rimane dunque l’impressione che Derrida abbia distolto lo sguardo da ciò che maggiormente lo assillava. Che è certamente quel che più conta. Sono d’accordo. Ma sono d’accordo perché al tema della cenere in cui tutto viene annientato ho invece dedicato tutto quello che ho scritto. Tutto quel che ho scritto si riferisce alla necessità che ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna, cioè che nessuna cosa si annienti nel cosidetto suo diventar cenere. Vi si riferisce argomentandola e mostrando il senso della necessità e dell’argomentare. Peccato che in proposito Derrida non abbia voluto prendere posizione. Ma limitarsi a dichiarare la propria incredulità intorno a qualcosa non è il momento più alto della filosofìa. All’amico Ferraris vorrei pertanto proporre di non seguire, in questo, Derrida. Che, per quanto ne sappia, non si è mai interessato di Leopardi. Ma la meditatio mortis di Leopardi è grandiosa, straordinariamente potente, unica. E non è soltanto fenomenologia. Leopardi crede di poter mostrare che nessuna cosa è eterna. Ma come è alto e ricco, e argomentante il suo errare! Con questa meditazione devono fare i conti i credenti. Derrida li disturba ben poco. Se non si guarda da vicino il senso del pericolo, cioè dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice dell’angoscia, quale consistenza può avere la ricerca di un rimedio contro la morte ossia di quel far sì che nontutto scompaia? Per Derrida il rimedio era la scrittura, che trattiene ancora per un po’ le cose nell’esistenza. Proust questa tesi l’aveva già analizzata a fondo. Ma, anche qui, com’era ben più radicale Leopardi, che pensava alla scrittura nel senso più ampio, cioè, come opera del genio, ossia di chi sa dire con potenza la nullità di tutte le cose. Per le scienze del linguaggio il sacro è il separato: tiene lontano l’uomo; anche se insieme lo attira. Freud ha visto neH’inconscio la follia da cui la coscienza dell’uomo si è distaccata. All’inizio del suo bel libro Orme del sacro Umberto Galimberti scrive tuttavia che a conoscere questa follia non sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la religione. Ma la religione - osservo - è solo un credere; e se un sapere riuscisse a mostrare che l’occhio della religione vede più lontano degli altri e riesce a scorgere la profonda verità della follia del sacro, non sarebbe allora questo sapere (lo si è chiamato filosofia) ad avere l’occhio più acuto? Più in alto di una testa incoronata sta la mano che la incorona. Per Nietzsche al di là della ragione c’è il caos. Per Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud l’inconscio è il luogo in cui non vige più il principio di identità e di non contraddizione. La contraddizione è il caos, è Cristo, la follia. La follia è la verità ultima dell’esistenza. In ognuno di questi casi, si apre alle spalle della ragione il mondo dell’indifferenziato, dove, scrive Galimberti, una cosa è questo e anche altro. La ragione, tuttavia, non trova scandaloso pensare che un vino possa essere forte e anche nero. I problemi incominciano quando si pensa che lo stesso vino sia forte e non forte, nero e non nero: indifferenziato, appunto. Platone e soprattutto Aristotele sostengono che il contenuto di questo pensiero non può esistere: cioè che il mondo della follia non può esistere. Qui mi limito a riproporre una domanda che può sembrare oziosa. Quella follia che, separata, sta al di là della ragione, è forse non separata? Se ne stata forse al di là, ma anche al di qua, dentro la ragione? No! - risponderanno gli amici della follia, 248 del caos, dell’inconscio, di Cristo, dell’indifferenziato. Ma la follia non, è forse, anche, non follia? A questo punto quegli amici perderanno la pazienza e diranno di aver già detto che la follia è follia - punto e basta. Ma, allora, non è forse molto, ma molto giudiziosa questa follia che se ne sta ben attaccata a sé stessa (e dunque al principio di non contraddizione), e non vuol essere anche altro, cioè non vuol essere ragione - e, dunque, tirate le somme, non si permette di essere folle? Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo trascende scrive Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida 2011, p. 121) - e tale principio regola anche il pensiero di questi due grandi protagonisti del moderno. La complessità del saggio di de Giovanni, implicante notevoli conseguenze sul piano politico, richiede che qui si accenni solo ad alcuni punti. Quel principio della metafisica classica domina effettivamente sia l’antico, sia il moderno; non però il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede altro che sé stesso. Il mondo non ha bisogno di Dio. Che il divenire richieda una condizione trascendente, indiveniente, infinita, significa che essa salva il finito - il divenire (nascita e morte) essendo appunto il regno della finitezza. La tesi di de Giovanni, che l’intento di fondo di Spinoza e di Hegel è di salvare il finito, è quindi del tutto consequenziale. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando molto il suo discorso, si può dire che il mondo è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo produce inevitabilmente un radicale spaesamento del pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Ciò significa che le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono strutturali. In una delle pagine decisive del suo libro de Giovanni scrive: I grandi testi della filosofia non sono grandi precisamente perché gravidi di altissimi contrasti, che sono il vero sale del pensiero?, e questo sale non è forse la profonda istituzione di una dualità che non aspetta vera conciliazione e che però ambisce a vincere la scissione senza poterla abolire?, sì che proprio questo paradosso è la stessa vita umana? Ritengo che i punti interrogativi non siano retorici. De Giovanni non presuppone arbitrariamente 1’esistenza delfinfinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio, cioè l’infinito e indiveniente Invisibile, è, non meno e anzi ancor più del finito, il luogo dove i problemi e le contraddizioni maggiormente si addensano. L’infinito-invisibile è infatti per lui il contenuto di una fede. Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo avviso all’essenza dell’uomo, ossia a quel paradosso che avvolge non questo o quel gruppo umano; non questa o quell’epoca, ma la stessa vita umana in quanto tale. E qui il paradosso indicato da de Giovanni è scavalcato, nel senso che diventa ancora più complesso, la fede nell’invisibile essendo appunto ciò che, come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto dell’essenza o sottosuolo della filosofia del nostro tempo, dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito - diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante all’antico e al moderno (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla, e anzi prende le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti, che unisce l’intera storia dell’uomo e che quindi sostiene sia la fede nell’Invisibile sia la fede dei nemici dell’Invisibile, amici della Terra. De Giovanni contrappone cioè il suo modo di considerare la storia dell’Occidente a quello dei miei scritti, che considera il pensiero dell’Occidente come preso in un unico solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il significato delle differenze, ossia di ciò a cui non si può rinunciare (p. 117). Credo che qui de Giovanni si riferisca alle differenze intese come differenti modi di errare, non come differenze tout court - giacché l’affermazione dell’esistenza e anzi dell’eternità delle differenze (ossia delle molte cose e dei molti aspetti del mondo, innanzitutto) è una tesi costante del mio discorso filosofico. Ma è una sua tesi costante anche l’affermazione dell’esistenza di differenti, infiniti modi di errare; che però hanno questo di identico, di essere errori, cioè negazioni della verità. E l’avere in comune il loro esser errori non cancella i differenti modi dell’errare - così come, per i colori, l’avere in comune Tesser colori non è una monocromia, ossia non cancella il loro differire l’uno dall’altro. Nei miei scritti si mostra che la vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore, ossia il suo essersi separato dalla verità. De Giovanni mi gratifica di un riconoscimento che mi piacerebbe meritare (Sono convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa), ma aggiunge che la pedagogia che nasce da questa profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della metafìsica [...] alla monocroma ripetizione dell’errore. Nei miei scritti si mostra che l’Errore è la fede nella trasformazione delle cose, il loro diventar altro da sé. Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, un solo punto, nella storia dell’uomo, dove non si creda nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si creda in una forma di errore diversa da questa fede. Poi, se vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che questa fede, nonostante la sua apparente plausibilità ed evidenza, è l’Errore più profondo a cui l’uomo è stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico dell’uomo è già da sempre libero. Cresce il rifiuto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in genere male intesa) che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Nietzsche non è un realista. Ma implicitamente il bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi pensatori, a partire appunto da Nietzsche. È ora - sostiene Maurizio Ferraris - di far rivivere su scala mondiale i fatti, la verità, il realismo. Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più di mezzo secolo va dicendo che il senso autentico della verità non è investito dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la verità quale è intesa lungo la storia dell’Occidente, e quindi anche dal realismo. Ma Ferraris vuol far rivivere fatti, verità e realismo dando come cosa per sé evidente (almeno così sembra) che la realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale sarebbe però capace di conoscerla con verità, scorgendo appunto i fatti, ed essendo quindi una certezza che ha come contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel chiamava appunto identità di certezza e verità. Non dubito che Ferraris (e Eco) l’abbiano presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso comune non è la conferma filosofica del senso comune. Anche per le scienze della natura la realtà esiste indipendentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro senso comune. Ma ben prima della scienza è la filosofia, sin dai suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la realtà - e sul significato di queste due dimensioni. Prevale, con la grande filosofia classica (Platone, Aristotele), la conferma del senso comune. E più tardi tale conferma sarà chiamata realismo. La prospettiva espressa dal principio di Protagora che l’uomo è la misura di tutte le cose (e che quindi la realtà dipende dal modo in cui l’individuo pensa e vuole) resta a lungo emarginata. Ma, proprio perché conforma il senso comune, il realismo filosofico non è il senso comune. La filosofia, infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto della parola verità - il senso che domina l’intera tradizione dell’Occidente dai Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità come scienza (epistéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti e il realismo filosofico ritiene che il senso comune abbia verità. Ma è la filosofia a conoscere la verità del senso comune, non il senso comune. Per avere un esempio della potenza e complessità concettuale del realismo filosofico si tenga ancora sott’occhio (cfr. sezione prima, cap. Ili) questo passo deW Etica Nicomachea di Aristotele: Ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversamente da come; delle cose che possono essere diversamente, invece, quando siano fuori dalla nostra osservazione, rimane nascosto se esistano o no. (La parola osservazione traduce la parola theoréin : l’osservazione appunto, la manifestazione del mondo, che accade con l’esistenza dell’uomo.) Si può dire che in questo passo sia addirittura anticipato quell’importante atteggiamento del pensiero contemporaneo che è la fenomenologia fondata da Edmund Husserl, per la quale è verità tutto ma anche solo ciò che è osservabile (manifesto, immediatamente presente, sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità, venga affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato. Proprio per questo la fenomenologia non è una conferma del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale del senso comune in quanto sussistente al di fuori della conferma che Yepistéme gli dà: tutto ciò che esso dice non è scienza (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste indipendentemente dall’uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la fenomenologia c’è scienza (e anche Husserl intende la filosofia come scienza rigorosa). La scienza è infatti, per Aristotele (come per l’intera tradizione occidentale) anche scienza di Dio, metafìsica. Il realismo filosofico greco si è sviluppato nella filosofia patristica e scolastica (Agostino, Tommaso tee.) e quindi nella dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa filosofia moderna prekantiana, che però procede a una forma più elaborata di conferma del senso comune. E il realismo è stato messo in questione da Kant e daH’idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti della filosofia degli ultimi due secoli, Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma quanti conoscono l’idealismo da cui ci si deve liberare? Per l’idealismo (e il neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani. È dalla coscienza trascendentale (liquidata con troppa disinvoltura) che la natura non è indipendente. La scienza, si diceva sopra, è realista. E la filosofia analitica sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna (che non è più epistéme). Sennonché, se il realismo della scienza moderna non vuol essere semplice, ingenuo senso comune, allora è una tesi filosofica è cioè quel realismo filosofico la cui potenza e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al nuovo realismo, stando al modo in cui esso è stato presentato. Si aggiunga che la scienza intende fondarsi suh’osservazione. Ma la gran questione è che la realtà - che per la scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare soltanto a un certo punto dello sviluppo dell’universo) -, in quanto esistente senza l’uomo è per definizione ciò che non è osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non può esserci esperienza umana di ciò che esiste quando l’umano non esiste. Quindi l’affermazione che la realtà è indipendente dall’uomo finisce anch’essa con l’essere una semplice fede, o quella forma di fede che è considerata come altamente probabile. Comune al nuovo realismo e al pensiero debole di Vattimo e Rovatti è comunque l’istanza politico-morale, messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalitarismo. Ora, la filosofia - come il mito e poi la scienza moderna - è nata, sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo senso la filosofìa (come il mito e la scienza), nascendo dalla paura, è mossa da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del mito, ma deve avere verità, e la verità non può fondarsi sulla dimensione politico-morale. Per la sua assoluta spregiudicatezza la verità deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve saper rispondere. Altrimenti essa è semplice edificazione. Un’ultima osservazione a proposito di Nietzsche. La sua tesi che non esistono fatti ma solo interpretazioni non va intesa in senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo esista non è per Nietzsche un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il divenire (la storia il tempo) esistano è per Nietzsche - anche per Nietzsche - l’incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna immutabile, divina che sovrasti il divenire e lo domini e guidi. Questa verità è la Grande Fede al cui interno cresce l’intera storia dell’Occidente e, ormai, del pianeta. La fede che da tempo i miei scritti invitano a dar conto del suo incontrastato potere. Persiste il silenzio su uno dei tratti più importanti della cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni Limite assoluto all’agire delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è capace. Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente il pensiero di Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile, la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla. Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella continentale, di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, reazionario, rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni. Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer ecc.), l’antirealista, cioè la critica alla concezione metafisica della verità sarebbe una scoperta di Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p. 100). Si tratta della critica alla definizione di verità come corrispondenza tra intellectus e res, tra l’intelletto e la cosa. In tutto il libro Gentile non è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella definizione. In sostanza egli argomentava - per sapere se l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come esterna alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario che il pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a essere conosciuta, non è esterna al pensiero, ma gli è interna. Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve corrispondere ad alcuna cosa esterna. Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da quell’appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che non ci sono fatti, ma solo interpretazioni e che anche questa è un’interpretazione, ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma questa sentenza di Nietzsche dovrà dire allora che anche la critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile. Capisco quindi che egli consideri anche la propria filosofìa soltanto come un’interpretazione rischiosa, una scelta, una volontà le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico- politiche (p. 53): Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva dell’esistenza (p. 122, corsivo mio). In sostanza, come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti altri - anche l’affermazione che la libertà è costitutiva dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile? En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo e rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che l’Essere è evento (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il Pensiero come indiveniente). Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a tale corrispondenza toghe di mezzo solo un certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e che sopra chiamavo il nucleo essenziale della filosofia del nostro tempo. Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla verità come corrispondenza, su questo punto è inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel,sostiene ora un nuovo realismo (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta in Italia il libro di Gabriel II senso dell’esistenza (Carocci editore 2012). Vi si sostiene subito un argomento che conduce alla tesi seguente: C’è qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità. L’argomento è che, una volta ammesso che noi produciamo qualcosa, noi però non produciamo il fatto consistente nell’esser produttori di qualcosa - il fatto che dunque è indipendente da noi. Gabriel lascia indeterminato il significato di quel noi (sebbene egli interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco). Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che, certo, questo o quell’individuo non producono il fatto consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo fatto è pensato (anche da Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come invece questo libro sostiene, una realtà indipendente dal pensiero, ossia da noi in quanto pensiero. Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in- un-mondo, scrive Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine chiave apparizione. Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza. L’apparizione non è il qualcosa (o ente) che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c’è apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o queU’individuo empirico, allora, su questo punto, sono d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto, come tutto ciò che non appare). Ma Gabriel intende così l’apparizione? Per lui ciò che esiste esiste necessariamente all’interno di un campo di senso, cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo altro è il contesto del qualcosa, sono d’accordo (ma esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio altro - al rango di assoluto principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa come il Tutto, la totalità degli enti, non può esistere perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere sé stesso, giacché è necessario che il Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’apparizione del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa apparizione contiene sé stessa proprio perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente. Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il nulla è il contesto del Tutto. (A proposito del tema del nulla è curioso che Vattimo, per il quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - 263 tutto è contingente, neghi a un certo punto - p. 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa consistere la loro contingenza e storicità.) L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a ssoluto realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari neorealisti a studiare Gentile. Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere trascendentale del pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’al di là di ogni pensiero, l’assolutamente Altro, l’Ignoto, gli infiniti tempi in cui l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità. L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della comunità, giacché siamo esseri storici e la massima evidenza disponibile qui e ora si costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato (p. 109). Ma, daccapo, questa sua affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle epoche dell’Essere) finisca col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e indiscutibile. La tecnica può riuscire a porsi alla guida del mondo solo se si è in grado dimostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi forze della tradizione (quali il capitalismo, le religioni, la politica e la concezione del mondo che sta al loro fondamento). Ma chi può mostrarlo? Non certo la tecnica e la scienza. È invece l’essenza tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra che non possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze delle tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non solo) per questo la filosofia ha un carattere decisivo. Di qui l’importanza di saper cogliere ciò che chiamo essenza della filosofia del nostro tempo - alla quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a questo contesto si riferiva anche il mio articolo (Corriere della Sera, la Lettura, 16 settembre 2011), intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. D’altra parte, continuo a ripetere, quell ’essenza è la forma più coerente della Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza dell’uomo - la Follia del nichilismo). Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si convince che il mondo esista indipendentemente dalla coscienza che egli ne ha. Questa, la base di ogni forma di realismo. Se l’uomo è il singolo individuo umano, anche l’idealismo è una forma di realismo. D’altra parte, il mito, e il pensiero filosofico della tradizione (sia pure in modo profondamente diverso) vedono in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, divina, di Volontà, capace di dominare la materia di cui le cose son fatte o addirittura capace di produrre ogni aspetto del mondo, come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel, che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina e cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli è unita. Come Cristo, l’uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica è fondata nel modo più rigoroso. Marramao (Il Secolo d’Italia) è limpidamente d’accordo con me circa questo rigore - osservando giustamente, tra l’altro, che uno dei motivi del disinteresse per Gentile sta nel suo stile pesante e ottocentesco. Che però, aggiungo, vanta un nitore concettuale estremamente superiore a quello del neohegeliani del mondo anglosassone del XIX-XX secolo. Contrariamente alle loro intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel, determinando una reazione realistica non immune da consistenti ingenuità, che sarebbe stata di più alto livello se nel mondo anglosassone la presenza di quella forma di neohegelismo non avesse impedito la presenza di Gentile. Ma soprattutto - per quanto riguarda il predominio del realismo rispetto aH’idealismo - la tecno-scienza si presenta quasi sempre come realismo (assunto come ipotesi di lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte sua il realismo filosofico dà spesso per scontato che la filosofia non possa procedere indipendentemente dalla scienza. In questo modo accade che la centralità della scienza nel mondo contemporaneo determini il predominio del realismo rispetto a ogni altra forma filosofica. Nell’intervento di Maurizio Ferraris (la Repubblica 18 settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da Kant a Gentile, noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi. No: questo lo si può dire di Kant (e propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di Hegel o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il contenuto della ragione sono proprio le cose in sé. E a sua volta Gentile ribadisce che solo se si presuppone (arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero, si può affermare che i contenuti del pensiero siano soltanto fenomeni. Per confutare l’idealismo Ferraris richiama l’esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell’uomo, gli ostacoli incontrati dall’uomo, l’imprevedibilità degli eventi. L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste situazioni non si potrebbe parlare se non fossero pensate e che quindi esse non stanno al di là del pensiero, indipendenti da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono, subiscono quelle avversità e muoiono. I miei scritti stanno tuttavia al di là dell’opposizione realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente (Corriere 27 settembre 2011) i loro temi centrali, che nel mio articolo avevo messo tra parentesi per non complicare troppo il discorso. Invece Gianni Vattimo (Corriere 21 settembre 2011) mi trova troppo affezionato al vecchio argomento antiscettico (se uno dice che non c’è verità sostiene peraltro che quel che lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo avviso, che un giochetto logico-metafisico. Un giochetto che però (per richiamare solo due tra molti) Platone ( Teeteto) e Aristotele ( Metafisica) prendono molto sul serio. Platone scrive addirittura che quell’argomento è raffinatissimo (kompsótaton). Ma poi Vattimo dimentica che quel che qui egli chiama giochetto, nel suo libro (Della realtà) lo chiama invece giusta accusa di autocontraddizione. (Comunque nel mio articolo prendevo atto delle sue frequenti dichiarazioni di non voler dire cose vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d’accordo. Ma poi, non è proprio per non esser vinto dall’argomento contro lo scettico che Vattimo, per sostenere la propria negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che quell’argomento ha un’importanza decisiva nel suo discorso?) Da parte mia ho scritto invece più volte che quell’argomento non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi gli obbietta che si contraddice egli può ancora replicare chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene anche che dialogare con qualcuno significa andare a braccetto con lui. Ora, vado sì dialogando con Gentile, con l’essenza del pensiero del nostro tempo, con la storia del nichilismo, con i realisti, ma non vado a braccetto con loro. Dialogo anche con Vattimo...) Per Markus Gabriel (Corriere 29 ottobre 2011) il contenuto dei miei scritti è realismo e quindi, da realista, scrive che apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona. Infatti, a suo avviso, Parmenide afferma un essere indipendente dall’ambiente umano. Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno mostrando che ciò che Parmenide dice dell’essere va detto invece degli enti : di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia è impossibile - è contraddittorio - che non sia), e quindi è eterno anche ogni ambiente e pertanto anche Cambiente umano. Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo, che identifica l’ente e il niente. Nessun ente può essere stato o può diventare un niente. Se realismo significa che certi enti potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una tesi autocontraddittoria) - come l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente.) Gabriel aggiunge che la realtà è parzialmente contraddittoria (e cioè che il principio di non contraddizione non regola tutta la realtà) perché gli uomini continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che invece è l’impossibile, il necessariamente inesistente (Cfr. sezione terza). Con una metafora: i pazzi esistono - e sono pazzi e non sani, cioè sono enti in contraddittorio -, ma (secondo coloro che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son convinti non esiste. L’esistenza del contraddirsi non rende dunque parziale il dominio del principio di non contraddizione - che peraltro, in relazione al modo in cui è stato storicamente inteso, è ben lontano dal presentarsi come un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle espressioni più decisive del nichilismo. Qualche chiarimento a proposito delle considerazioni (Giornale di Brescia 4 settembre 2012) che Massimo Borghesi ha dedicato al mio libretto-intervista Educare al pensiero, gentilmente propostomi da La Scuola editrice. Provo a indicare, con un po’ di esagerazione, il senso complessivo di quanto intendo dire. Supponiamo che si voglia dare un’idea della Divina Commedia affermando che essa è una illustrazione dell’Inferno (punto), e quindi, se non proprio evitando di citare l’ultimo verso della Cantica - E quindi uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo appena. (Per me la vita sarebbe cioè infeliceì ) Chiedo scusa per il paragone inverecondo, ma vorrei sfatare l’impressione complessiva che si può avere leggendo l’articolo di Borghesi. Sembra cioè, dal tasto su cui egli batte soprattutto, che il mio discorso consista nel sostenere che noi tutti siamo eternamente dannati e con noi tutte le nostre convinzioni (punto). E invece, se mi è concesso sfruttare la metafora dantesca, nei miei scritti si mostra che ognuno di noi è infinitamente di più di quel che crede solitamente di essere: è lo sguardo eterno in cui eternamente appare lo splendore delle stelle, l’eterno apparire del firmamento. Sennonché (lo mostro nei miei scritti), nella luce del firmamento che noi siamo si fa innanzi questa nostra terra, la quale, sì, corrisponde aH’Inferno del poeta. Infatti, abitandola, noi ci chiudiamo in quel che per lo più crediamo di essere e non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del quale sta un Firmamento ancora più infinito). Per quanto riguarda la parte dei miei temi considerata dal Borghesi troverei invece molto più adatte queste parole di Angelus Silesius: Uomo, smetti di esser uomo se vuoi raggiungere il Paradiso: Dio riceve solo altri dèi. Oppure, Uomo, se non hai dentro di te il Paradiso, non vi entrerai mai. Certo anche queste sono metafore: ogni loro parola indica e nasconde. Ad esempio è sommamente occultante Yimperativo (smetti di esser uomo), perché ogni uomo ha già smesso da sempre di essere quell’uomo che per lo più crediamo di essere, e già da sempre, necessariamente, ha dentro di sé il Paradiso che peraltro è destinato a raggiungere. Ma poi sono le parole uomo Dio, dèi, Paradiso a dover deporre il loro timbro mitico-metaforico - anche perché sapere che cosa significhi uomo non è per nulla più facile che sapere che cosa significhi Dio. Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che il mio è un sistema di pensiero che rifiuta l’idea che l’uomo possa cambiare. Detta così, questa sua affermazione altera il senso del mio discorso, e, anche qui, perché ne mostra soltanto un lato. Proprio nella prima risposta dell’intervista dico: Invece gli eterni che costituiscono gli essenti [quindi anche gli uomini] hanno una essenziale mobilità; tanto che ho scritto da qualche parte che “solo l’eterno può divenire”. Nel senso che lo spettacolo che sta davanti, costituito dall’apparire degli eterni, è continuamente variante, è il variare che dapprima si mantiene all’interno di ciò che chiamo “terra isolata dal destino” [cioè l’Inferno di cui parlavo] e poi continua al di là della terra isolata dal destino della verità [dove il “destino” è l’apparire, che noi siamo, dello splendore delle “stelle”]. Questo proseguire della variazione degli spettacoli eterni è un proseguire aU’infinito in un percorso che chiamo “Gloria”. La Gloria è l’infinita adeguazione del finito all’infinito (p. 18). Ogni uomo è destinato a compiere questo percorso. Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16 maggio 2012). Massimo Borghesi dà, dei miei scritti, un’immagine certamente più adeguata di quella da lui proposta in prima battuta. In risposta avevo aggiunto qualche osservazione. Ma qualche altra è forse opportuno che ne aggiunga a proposito di questo suo nuovo articolo. Mi sembra che egli non condivida la tesi che Inesistenza dell’uomo sia tenebra, sogno, non-verità, errore. Però a lui, che è cattolico, posso ricordare che all’inizio del Vangelo di Giovanni si legge: E la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno accolta. La luce è innanzitutto la verità; le tenebre sono l’esistenza dell’uomo nel mondo, e sono tenebre perché sono sogno, non-verità; errore, negazione della verità. Dicendo questo, delegittimiamo forse le tenebre, come Borghesi in sostanza sostiene, criticandomi? Si delegittima ferrare dicendo che è errare (con tutto ciò che ferrare implica)? Certo, il pensiero filosofico non può accontentarsi del senso che le religioni danno alla verità e alla non-verità; ma è anche chiaro che il cristianesimo non intende render luce le tenebre, ma condurre l’uomo fuori di esse. Si tratta allora di capire perché, nei miei scritti, si afferma che ogni uomo è già da sempre nella luce, al di fuori delle tenebre, e che ognuno lo è nel modo che gli è proprio e che lo distingue da ogni altro uomo. Ogni uomo è già da sempre Oltreuomo - anche se questo suo esserlo è contrastato dalla convinzione ottenebrante in cui tutti ci troviamo per lo più a vivere. E, ancora, si tratta di capire perché in quegli scritti si afferma che le tenebre sono essenzialmente più profonde ed estese di quelle a cui si riferisce Giovanni, e perché da quel contrasto siamo tuttavia destinati a uscire, e perché la luce lasci sotto di sé le tenebre. Borghesi dice che il mio discorso è un dualismo. E allora? Questo suo dire è solo una descrizione, non una confutazione. Ma la sua descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire cose che non ho mai detto -, soprattutto quando afferma che per me la vita dell’uomo nelle tenebre è l’inutile affaccendarsi di un formicaio. Ancora una volta, vorrei chiedere a Borghesi: ma la vita degli uomini che pensano soltanto al mondo (alle tenebre di Giovanni), e non a Dio, non è appunto, secondo il cristianesimo, l’inutile affaccendarsi di un formicaio? Tuttavia preferisco ricordare che il sogno nel quale consistono le tenebre di cui parlano i miei scritti non è quel vagare delle formiche che per chi non sa che cosa sia un formicaio è senza senso, un inutile affaccendarsi. Il grande sogno si svolge anch’esso secondo la necessità del destino (come peraltro lo stesso mio critico riconosce); e con un ritmo e secondo una struttura che in molti ma molti miei libri sono andato indicando, chiamandola storia del mortale (ossia dell’abitatore del sogno). La follia che produce il grande sogno è la persuasione che le cose si strappino da sé e divengano altro, invadendolo, dividendolo, spezzandolo. Quindi la follia sta al fondamento di ogni volontà di far diventar altro le cose. E anche qui si tratta di capire perché è necessario che la follia si presenti dapprima nei miti, poi nella storia della razionalità teorico-pratica dell’Occidente, e infine nella distruzione di questa razionalità e nella progressiva dominazione planetaria della tecnica. È necessità che nelle tenebre si proceda illuminati dalla luce di Lucifero. L’autentica educazione è il linguaggio che mostra tutto questo, e non invita a incrociare le braccia (anche il rinunciare a volere, sappiamo, è un volere), ma mostra che cosa, in quanto abitatori delle tenebre, i popoli sono destinati a volere. Altre volte Borghesi si è occupato dei miei scritti. Anni fa, su 30 Giorni, ebbe a scrivere che Severino su un punto ha ragione: la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo. Ringraziandolo, con molto ritardo, per aver salvato uno dei miei punti, osservo che non per caso la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola lo sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo della struttura qui sopra indicata. Se la si studia, si può constatare che, nelFInferno dantesco, non aveva torto il Diavolo a dire al suo interlocutore: Tu non pensavi ch’io loico fossi. La vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto. La vita cosciente, dico, cioè quella in cui il mondo si manifesta. Tale Rifiuto nega che il giorno sia notte, l’acqua aria, gli alberi stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone avverte che questa negazione è presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Nei primi decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la tesi che nella mentalità primitiva quel Rifiuto è assente o quasi. Bergson, Durkheim, Mauss mostrano in molti modi l’insostenibilità di questa tesi. E infatti come sarebbe possibile, per l’uomo, compiere il gesto più semplice, ad esempio bere dell’acqua, se la mentalità primitiva credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco, aria)? Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di crederlo. Tale Rifiuto sta all’origine e alle fondamenta della vita umana, la domina e la comanda: tutte parole, queste, che corrispondono all’antica parola greca arché, che viene tradotta anche con principio. Già per la filosofia greca il Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è Yarché di tutta la conoscenza. Ma la filosofìa intende il Rifiuto originario in un modo radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l’acqua pietra, e così via. La filosofia sostiene che questa negazioni non sono semplicemente un volere, ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere e di ogni agire e che quindi è la verità originaria. Aristotele dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un’unica arché, che è la più salda di tutte le conoscenze. Più tardi questa arché sarà chiamata principio di non contraddizione. Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero filosofico riterranno che il tentativo di separare questo principio dalla volontà, facendone la suprema verità incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia contemporanea; e qualcosa di simile accade (sia pure con vistose eccezioni) nelle scienze, nell’arte, nella coscienza religiosa. Popper rileva sì che senza il principio di non contraddizione crollerebbe l’intero edificio della scienza: tale principio è il fondamento dell’atteggiamento razionale; sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è una fede irrazionale, e quindi è innanzitutto il principio di non contraddizione a esser dominato e guidato da una volontà (fede) senza verità. 1 Al di sotto della propria maschera tale principio è in effetti, nelle sue diverse configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel modo da esso prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre quel principio all’arbitrio della volontà.) Tale principio serve certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera. Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente richiamata - la storia cioè del Rifiuto originario - copre e nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo. Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia l’autentica negazione che le cose siano altro da ciò che esse sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il Rifiuto dalla volontà. Dall’altro lato quella vicenda copre e nasconde il sapere più alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è sé stessa), proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa - dunque ogni stato di cose, ogni stato del mondo e dell’anima, ogni situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo. La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del mondo (ossia del cronotopo quadridimensionale) è eterno, ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica scientifica, che è ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia YEternità (anch’essa da intendere autenticamente, cioè in senso essenzialmente diverso da quello che le compete lungo tale vicenda). Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive diverse, ai miei scritti, che indicano il senso autentico del Rifiuto e delfEternità come un dito indica la luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una risposta adeguata alle loro osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e ricchissime le indagini contenute nel sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo libro con uno struggente Congedo dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio - che generosamente, anche in queste sue pagine, considera importante per lo sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del senso autentico del Rifiuto e delfEternità. Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide, anche Leo¬ nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze della metafisica. Heidegger, Lowith, Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana 2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia 278 (Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre la luna, indicata dal mio dito, alla base di ogni sapienza. Un tentativo compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi (Vita e Pensiero 2013). Molto interessante e ricco di spunti anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il postmoderno (Mimesis 2012) si rivolge alla luna e al mio dito. Carlo Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad arrendersi (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: Sì, mi contraddico, e allora?! (La verità è un’avventura, GruppoAbele 2013). Allora, rispondo, se non gli importa contraddirsi non gli importa che la verità non sia un’avventura e nemmeno che ogni affermazione contenuta in questo e negli altri suoi libri sia la negazione di ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che noi siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo siamo destinati a perderlo, egli è disposto a contraddirsi e a riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha presente (come mi sembra che accada a Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove il principio di non contraddizione è la semplice volontà che il mondo non sia contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti - ci si può certo disinteressare del proprio contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose appunto: Sì, compagno, mi contraddico, e allora?!. Raffinato e penetrante come gli altri scritti di Alessandro Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli 2010). Scrive Carrera che questo suo saggio fa parte di un trilogia incominciata con La consistenza del passato: Heidegger, Nietzsche, Severino (Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche, la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni ipotesi heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe sopravvivere se non manipolato dal presente e per i fini del presente (p. 181). Sì, la consistenza del passato è implicata dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma nel senso che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla, questa luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è già scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare. Perché - mi domando, e domando a Severino - la tecnica come capacità indefinita di realizzare scopi (capacità velata di astratto e generico) sarebbe destinata a soverchiare la tecnica della forza, che è immanente al diritto e che accompagna ogni norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella volontà di potenza è più potente di questa? È la domanda che Natalino Irti mi rivolge anche nel suo libro più recente L’uso giuridico della natura (Laterza 2013) che, egli ricorda, prolunga la pluridecennale discussione tra noi due sul tema della tecnica. E la prolunga in modo quanto mai felice, innanzitutto per l’importanza di queste pagine. Dedicate a me nella concordia discors del pensiero. Lo ringrazio di cuore. Con altrettanta generosità l’eminente giurista rileva di quanto si sia ridotto il suo sentirsi discorde. Rimane però quella domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui altre volte ho risposto. Dev’esserci quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e che provo a snidare. Accennerò poi alla direzione delle motivazioni che costituiscono l’organismo della risposta (attendendo che Irti le consideri). Il mio discorso sulla tecnica non indica uno stato di cose già in atto, ma una tendenza (non priva di resistenze): all’interno delle diverse forme di tecnica è oggi in via di formazione il progetto che ha lo scopo di aumentare senza limiti la capacità umana di realizzare scopi, di dominare il mondo. Anche ma non solo per questo vado scrivendo che la tecnica, in quanto è tale progetto, è destinata a prevalere sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La destinazione si riferisce al futuro.) Questa capacità è velata di astratto e di generico (come scrive Irti), ma solo nel senso che oggi l’uomo non può conoscere concretamente e specificamente le proprie capacità future. La sua volontà vuol diventare sempre più potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti filosofico-religiosi posti dalla Tradizione all’agire umano vanno mostrando, soprattutto all’interno del pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e concettuale. Volontà di potenza e tecnica sono sinonimi; ma la Tecnica che progetta Fincremento senza Limiti inviolabili della propria potenza differisce essenzialmente da tutte le forme di tecnica in quanto sottoposte a quei Limiti e che pertanto le si oppongono. Differisce da esse, spingendole altrove, ma agendo al loro interno. Si chiamano economia, politica, morale, diritto, arte, le stesse discipline scientifiche (fisica, biologia, astronomia ecc.) e le tecniche da esse guidate (apparati industriali, militari, burocratici, sanitari, scolastici ecc.). Anche il capitalismo è ancora, prevalentemente, una forma della Tradizione: pone come Limiti inviolabili (e pertanto come verità indiscutibili e naturali) l’uomo in quanto individuo isolato e libero, la proprietà privata di beni e mezzi di produzione, il mercato come dimensione che rende possibile il profitto e la sua crescita, la concorrenza e, anche, il sistema di leggi che garantiscono la perpetuazione di questi Limiti, il sistema cioè che nelle società capitalistiche viene chiamato diritto tout court. Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio discorso, quella tra la Tecnica e le altre forme di volontà di potenza sia la contrapposizione tra una certa particolare forma di tecnica, quella fisico-matematico-biologica, e le altre forme, tra cui il diritto (la volontà capace di regolare altre volontà). E, appunto, si domanda perché debba prevalere Luna piuttosto che l’altra. Sennonché, dico destinata a prevalere non quella forma particolare (sebbene oggi emergente), ma la Tecnica in quanto progetto di incrementare all’infinito la potenza presente nelle tecniche esistenti e che mira a porre tale incremento come la norma suprema - la norma che è il più radicale superamento delle Norme e Limiti imposti dalla Tradizione. Un progetto dunque che non sta sopra la testa di quelle forme (astratto e generico), e non è nemmeno la loro semplice somma, ma tende a esser sempre più presente e dominante in ognuna (e, certo, in modo più avanzato, nella forma fisico-matematico-biologica) e a distoglierle dalla loro soggezione ai Limiti inviolabili che via via sono stati loro imposti. Nel diritto quei Limiti si incarnano nel cosiddetto diritto naturale. Che però tende a essere sempre più emarginato dalla convinzione che il diritto sia positivo, posto storicamente dalle volontà vincenti; non, quindi, espressione di una volontà che rispecchia una immodificabile Legge Naturale. Nel mondo occidentale (ma ormai sull’intero Pianeta, sia pure in modi molto differenziati e spuri) vincente è ancora, e nonostante le sue crisi, la volontà capitalistica, ed essa si impone come la Legge, lasciando sullo sfondo, quasi dimenticato, quel carattere positivo della legge che sta soppiantando la pretesa del diritto capitalistico, di essere naturale. La forza e la capacità coercitiva sottolineate da Irti non competono cioè a una pura volontà giuridica separata dalla volontà vincente, ma alla capacità di quest’ultima di rendere operante la forza e il carattere coercitivo della volontà giuridica. (La contrapposizione tra potere politico e potere giudiziario - o quella dove un gruppo economico è sottoposto al giudizio della magistratura - si svolge completamente all’interno dell’orizzonte giuridico che tutela i valori dell’economia di mercato). La volontà che progetta l’incremento indefinito della potenza non è quindi, come invece Irti mi obbietta, astratta disponibilità, generica forza di raggiungere risultati, indistinta e indefinita varietà degli scopi, nome con funzione riassuntiva - mentre il diritto avrebbe il vantaggio di essere decisione che impone certi scopi escludendone altri (pp. 53-54). Le cose non stanno così. Le decisioni del diritto sono le decisioni del capitale, o dell’economia pianificata, cioè delle forme di volontà di volta in volta vincenti. Le volontà di potenza che hanno come scopo la potenza di certuni e non di altri, di certe concezioni del mondo e non di altre, di certe forme di ricerca e non di altre, non possono avere come scopo la crescita senza limiti ed esclusioni della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo reale ha ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il capitalismo evita la produzione dei beni che, pur vantaggiosi per l’uomo o l’ambiente, non avrebbero mercato, e alimenta forse quella relativa scarsità delle merci senza la quale, cioè con la loro abbondanza e la caduta della domanda, non avrebbe nulla da vendere. E in ognuno di questi casi vengono ostacolate forme di potenza, quali, appunto, la tecno-scienza, il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il superamento della scarsità.) Perché, dunque - riformulo così la domanda di Irti - la Tecnica è destinata a prevalere sulle forme particolari di essa nella misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per il loro chiudersi nella loro particolarità, sia per Tesser ancora soggette ai Limiti della Tradizione? E quindi: perché la Tecnica è destinata a prevalere anche sul diritto in quanto le si oppone nel senso ora indicato (visto che, nella misura in cui sono invece il terreno in cui prende piede la Tecnica in quanto progetto di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica non prevale su di esse, emarginandole, ma se ne serve - o prevale nel senso che quel progetto è lo scopo che regola i loro scopi particolari)? Rispondo così. 1) Oggi la tecnica (tecno-scienza e apparati) si presenta ancora come un mezzo, anzi come il mezzo più potente di cui si servono le volontà di potenza dominanti e tra di loro in conflitto: stati, concezioni politiche e religiose e, soprattutto la volontà oggi più potente, il capitalismo. 2) Ma nella tecnica si sta facendo largo, ravvivandola, la Tecnica in quanto progetto di incrementare ah’infinito la potenza, oltre ogni Limite assoluto. 3) Il fondamento di questa negazione è l’essenza - il sottosuolo essenziale - del pensiero filosofico del nostro tempo. 4) Nel conflitto, ogni volontà può prevalere sulle altre solo se rafforza sempre di più il mezzo tecnico di cui dispone. 5) Tale rafforzamento è ulteriormente rafforzato dal progressivo prender piede, nella tecnica, del progetto della Tecnica di aumentare all’infinito la potenza - e tale progetto è a sua volta rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in testa, di potenziare il mezzo di cui essa dispone. 6) Pertanto lo scopo delle volontà dominanti si trasforma. Infatti, riferendoci ora al capitalismo, esso - e quindi il diritto che lo esprime e sancisce - tende a non aver più come scopo primario l’incremento del profitto, ma la sintesi tra tale incremento e il rafforzamento del mezzo: il rafforzamento che nella sintesi tende a occupare sempre più spazio rispetto a queU’incremento. 7) In tal modo la tecnica, da mezzo, tende a diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si trasformano e la cui configurazione originaria tramonta. La tecnica tende dunque a diventare lo scopo del capitalismo e del diritto capitalistico. E in questa tendenza consiste la destinazione della tecnica al suo prevalere su di essi e al dominio del mondo. 8) A questo punto si tratterebbe di richiamare il senso autentico di tale destinazione (cfr. ad es. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi 1988, o Capitalismo senza futuro, Rizzoli). Ma, dicevo all’inizio, questo è solo un cenno alla direzione della risposta. Pieno di debiti nei Loro confronti, non mi è concesso nemmeno di esordire in modo originale. Perché anch’io, come tutti coloro che mi hanno preceduto, debbo incominciare con i ringraziamenti. Soprattutto io devo farlo - e, certo, mi è caro farlo. Mi rivolgo innanzitutto al dipartimento di Filosofia, all’università di Venezia e a chi ha preso questa iniziativa: i professori Mario Ruggenini e Davide Spanio; e poi c’è l’appoggio finanziario dato a questa iniziativa dal professor Luigi Ruggiu in qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha fatto piacere anche quella sorta di preconvegno, organizzato dal professor Luigi Tarca, costituito da una serie di seminari dedicati ai miei scritti. Il professor Ruggiu ha anche opportunamente sottolinea-to il senso centrale di quanto è venuto fuori questa mattina, e cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno del pubblico può essere sembrato un discorso.... algebrico, astratto, filosofico (nel senso del formalismo filosofico), e le implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione politica. Qui davanti ho appunto l’amico professor Pietro Barcellona e l’amico Natalino Irti, nei cui interventi questa dimensione è emersa in modo più visibile. Mi è capitato altre volte di essere oggetto di incontri come questo, e mi sono sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che di questa università costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista, oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del dipartimento di filosofia. Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere. Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale nella quale esistono forze politiche, economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo così alla buona la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della nostra fede. Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo. Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è quella della civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente. Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto. Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la coerentizzazione della Follia estrema. Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità. Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità. Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della negazione della verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore esige la concretezza dell’errore. Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia - credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto mio Nietzsche sia in grado di eliminare la forza teoretica della grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo, quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede, cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase, la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima), ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della verità. Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni sono molto generiche. Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo struttura originaria del destino della verità, direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo scientifico si produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di discorso, per esempio quello matematico.Nella cosiddetta aritmetizzazione della matematica, l’intera complessità del sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i postulati dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il contenuto semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla struttura originaria del destino, allora ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si rivolge appunto a quella struttura) intende appunto escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori. Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella gòdeliana, perché il fondamento è l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base. Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive come quelle di Tarca sulla differenza) intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione (ob vuol dire contro). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono differenti - quella differenza che è appunto il contenuto primario della struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo punto. Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei miei riguardi. Grazie! Debbo tener presente, oltre alle considerazioni estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua relazione), che hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione, rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il significato) essere non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco. L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di significato della parola essere. Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi: perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei molti sensi dell’essere, non è il risultato di una argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e apparire. Apparire è appunto la parola italiana con la quale traduciamo phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze delle differenze) il senso dell’essere diventa equivoco: non si sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente. Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti, è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze, appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione causa sui - egli mostra di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è perché le si considera appunto come enti che possono esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola neoparmenidismo - mai. Mai; anzi, è scritto sin da Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori - grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è incoerente la pretesa di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa incoerenza è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una fede irrazionale, è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi Il destino dell’essere. Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia. Gli uomini chiamano male tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è chiamata theorìa, che significa contemplazione, immagine, appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze che poi, separandosi, si chiameranno mito, arte, ekklesìa, tecnica, sapienza. In ognuna di queste forze separate si prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle Madonne col Bambino di Raffaello, dell’Amor sacro e profano di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non vedere questo Assente è non vedere la bellezza del bene. Una mostra della rappresentazione visiva del male dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado errato. Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna Madonna col bambino di Raffaello. Ma in queste figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di come è possibile, oggi, parlare di valore artistico, è possibile indicare il senso autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre incombente il male - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni valore artistico - altre forme della rappresentazione visiva, come la fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi da esso. Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano considerate arti vere e proprie (arti liberali) ma arti meccaniche. Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica) richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di una realtà nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si solleva al di sopra del proprio carattere di imma organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di chi festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che di questa università costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver dichiarato da qualche parte) anche per merito del dipartimento di filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è data dalla presenza di pensatori che, venendo da altre università, contribuiscono ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un abbraccio al professor Spanio, in particolare, per l’amicizia con la quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle ben note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se non li nomino tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista, oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato dal professor Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del dipartimento di filosofia. Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo incominciato a dire - di una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico-politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere. Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale nella quale esistono forze politiche, economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede (come ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo così alla buona la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della nostra fede. Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce al contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che vedono la storia del mondo come un susseguirsi di frammenti caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo. Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è quella della civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia per le forme più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente. Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia modestia è stata messa duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto. Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io abbia scritto dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la coerentizzazione della Follia estrema. Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità. Una parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità. Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della negazione della verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione definitivamente vittoriosa della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia negativa della verità risulta astratta. Da questo punto di vista potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo scusa se in questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore esige la concretezza dell’errore. Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia - credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto mio Nietzsche sia in grado di eliminare la forza teoretica della grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale appare nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione, oltre che di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso non riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità degli eterni e dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati del mio discorso filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo, quello in cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a coincidere con lo scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede, cioè dalla verità. E solo per questo può esser qualificato (con verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile, appare l’esistenza della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto questo tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase, la chiamava così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia pure altissima), ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della verità. Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con un’altra metafora geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede nel mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui accennavo prima, è stata dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni concettuali che abbiamo sentito, queste mie considerazioni sono molto generiche. Qualche osservazione, quindi, va fatta a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse, inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo struttura originaria del destino della verità, direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo scientifico si produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta aritmetizzazione della matematica, l’intera complessità del sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che partendo da un certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i postulati dell’aritmetica -, non si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il contenuto semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle obbiezioni alla struttura originaria del destino, allora ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si rivolge appunto a quella struttura) intende appunto escludere una situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori. Sennonché, in relazione alla struttura originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella gòdeliana, perché il fondamento è l’ incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo da sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale struttura, cioè dal chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono da questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che con l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base. Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive come quelle di Tarca sulla differenza) intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione (ob vuol dire contro). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono differenti - quella differenza che è appunto il contenuto primario della struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria (e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi auguro che prosegua - chiarendo questo punto. Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro, con ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei miei riguardi. Grazie! Debbo tener presente, oltre alle considerazioni estremamente interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e di Pagani ieri (ottima la sua relazione), che hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e parlavamo della sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale evoluzione, rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il significato) essere non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato equivoco. L’osservazione che facevo all’amico Berti era questa: il tuo avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di significato della parola essere. Anche se l’obiezione può sembrare formale (mi pare che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser differenze. (Tra parentesi: perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico nelle differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei molti sensi dell’essere, non è il risultato di una argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e apparire. Apparire è appunto la parola italiana con la quale traduciamo phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze delle differenze) il senso dell’essere diventa equivoco: non si sfugge a quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi arriva persino a dire che anche il non-essere è un essente. Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti, è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che vorrebbero ma non riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze, appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro Giorgio Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il concetto di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione causa sui - egli mostra di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede la causa delle cose, è perché le si considera appunto come enti che possono esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice tesi filosofica non è la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a dare significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola neoparmenidismo - mai. Mai; anzi, è scritto sin da Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere monachos, che anche se oggi, come ha ricordato il professor Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe inventarlo quel Parmenide tradizionale che la storiografia contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori - grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è incoerente la pretesa di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa incoerenza è a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è fondato su una fede irrazionale, è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi Il destino dell’essere. Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia. Gli uomini chiamano male tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo sopportabile. La più antica delle immagini è la festa. Nell’antica lingua greca la festa è chiamata theorìa, che significa contemplazione, immagine, appunto. Nella festa sono fuse insieme le forze che poi, separandosi, si chiameranno mito, arte, ekklesìa, tecnica, sapienza. In ognuna di queste forze separate si prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore delle forme della scultura greca, delle Madonne col Bambino di Raffaello, dell’Amor sacro e profano di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le uniche protagoniste della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio per la sua assenza. Non vedere questo Assente è non vedere la bellezza del bene. Una mostra della rappresentazione visiva del male dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva, dunque, fare diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il 299 male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più inquietante perché è lasciato dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella suscitata dalla parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado errato. Credo che in quella mostra non fosse presente alcuna Madonna col bambino di Raffaello. Ma in queste figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò che per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di come è possibile, oggi, parlare di valore artistico, è possibile indicare il senso autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era dal Beato Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in cui il cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra opera dell’uomo occidentale. Dapprima la rappresentazione mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano. Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra Cristo per dipingere, per celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana, diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre incombente il male - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va perdendo la propria potenza ed efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando anche la pittura del nostro tempo eredita il distacco dal divino - prodotto soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come mezzo e pretesto per 1’evocazione della forma artistica. La quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle di quel Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male è mostrato dall’immagine. La forma è tolta via dal contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la dissoluzione della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del mondo, evocato dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più avere la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni valore artistico - altre forme della rappresentazione visiva, come la fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un male che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi da esso. Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e nel Medioevo le stesse arti figurative non venivano considerate arti vere e proprie (arti liberali) ma arti meccaniche. Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della dizione, tecniche per la produzione del materiale richiesto dalla scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica) richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il rovesciamento di mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di una realtà nuova. Con la tecnica del nostro tempo l’immagine festiva si solleva al di sopra del proprio carattere di imma e e tende a diventare la realtà nuova che sostituisce la realtà angosciante originaria, al di sopra della quale già si era sollevata l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più significativi - la tecnica guidata dalla scienza moderna pensa già alla costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la morte siano allontanate il più possibile. La tecnica stabilisce la nuova aura festiva, più potente di ogni immagine festiva perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la produzione che anticipa l’Apocalisse cristiana, dove la terra nuova e il nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il vecchio cielo. Ma la logica della scienza, che sta al fondamento della tecnica, non è una logica della verità assoluta e incontrovertibile. È una logica ipotetica. La scienza stessa è un sapere ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla sofferenza e dalla morte, per quanto stupefacenti possano essere i suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla possibilità che l’intera legislazione scientifica si mostri incapace di dominare le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita semianimale o addirittura nella propria completa estinzione. La tecnica non salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a farsi udire dalla tecnica, a farle sentire che nessuna potenza può salvare necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla, e che dunque la minaccia del nulla rimane sospesa su ogni avanzamento tecnologico della liberazione dell’uomo dal dolore e dalla morte. La nuova realtà e la nuova vita, che la tecnica produce sostituendo l’antica immagine festiva della realtà e della vita, si presenta così a sua volta esposta al dolore e alla morte, tanto più insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura festiva che la tecnica sia riuscita a produrre. È a questo punto che l’arte può riproporsi come l’ultimo barlume dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di sopra della realtà - al di sopra cioè di quella nuova realtà che con la tecnica sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e salvifica della realtà originaria. È, questo, il pensiero di Leopardi: quando - dopo il tramonto della verità definitiva e assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a cui appartiene quel che Nietzsche chiama morte di Dio) - appare che nemmeno la tecnica ha la potenza di salvare con necessità (ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora la potenza dell’immagine poetica che canta l’impossibilità di ogni salvezza non ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono - quella forma di festa dove è la potenza del canto, e non il suo contenuto, a salvare ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, cit.). A volte, certi essenti che chiamiamo opere d’arte stanno in una relazione specifica con l’infìnito. Se non nel senso che essi rappresentano senz’altro l’infinito, nel senso che qualcuno crede che lo rappresentino. Ma, anche qui, ciò che la tradizione filosofica intende per infinito non può essere sempre presente, nel suo autentico e concreto significato, a chi crede in quel modo, ossia a chi ha quella fede. D’altra parte, anche se in tale fede l’infinito può apparire in modo indeterminato, ambiguo, inadeguato, a volte essa è tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa di ultimo, non oltrepassabile, intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo comune è disposto a parlare della bellezza di ciò che gli sta dinanzi; e sono i casi in cui l’uomo comune nomina come può l’infinito. Beati gli umili (gli uomini comuni), perché di costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il Regno dei Cieli è il regno della bellezza che appare aH’interno della fede (ingenua, umile) che qualcosa sia il senso ultimo delle cose, inoltrepassabile, intoccabile. Schelling, come Hegel, non parla di fede, ma di una rappresentazione che, sia pure per riflesso, è verità che essa abbia come contenuto l’infinito, cioè Dio. Si tratta della verità dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo culmine ma anche al suo compimento. Si può parlare di arte contemporanea prescindendo dalla tendenza fondamentale del nostro tempo? Si può parlare di un uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga e dove vada - prescindendo dallo stormo che sta migrando? Oggi il grande stormo del nostro tempo sta migrando verso l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non può che andare nella stesa direzione. Schelling è ancora un grande amico di Dio, ossia dell’archetipo per eccellenza. L’arte contemporanea sta invece vivendo anch’essa ciò che Nietzsche chiama morte di Dio. Ci si accorge che la materia è senza luce, il reale senza ideale. Il contenuto della bellezza si trasforma radicalmente. La bellezza, ora, è innanzitutto, ma non unicamente, la capacità, da parte dell’opera d’arte, di suscitare in qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del mondo che è il trovarsi privi di Dio e la disperazione che ne consegue. Anche qui, ci si può rivolgere a questa terribile bellezza da uomini umili, poveri di spirito, che però questa volta non possono essere beati (o la cui beatitudine può consistere, come dice Leopardi, solo nella forza con cui vedono la propria infelicità, debolezza, nullità). Il tragico, la frantumazione dell’ordine e del sacro, il frammento sono aspetti della morte di Dio. Questa è la vertigine del moderno. Ma pensatori come Benjamin e molti altri del tempo presente hanno molto da imparare da Nietzsche - e innanzitutto da Leopardi non hanno qualcosa di essenziale da insegnargli o un’obiezione decisiva da muovergli. Proprio per questo il nostro tempo è tragico. Se la negazione nietzschiana di Dio fosse oscillante, la speranza nei vecchi valori non sarebbe spenta - mentre in verità è spenta, anche se molti sono ancora quelli che sperano. In quanto tendenza fondamentale del nostro tempo, lo stormo di uccelli di cui qui si è detto è l’ultimo degli stormi di cui prima si è parlato - o il penultimo, se si tiene presente che anche la civiltà della tecnica è destinata al tramonto (cfr. E.S., Oltrepassare, cit., cap. X). Del tragico le élites si sono accorte da tempo; le masse stanno accorgendosene. Infatti, come oltre ai modi adeguati di rivolgersi a Dio ci sono quelli inedeguati, così c’è adeguatezza e inadeguatezza nel rivolgersi al cadavere di Dio, cioè nel pensare che Dio è morto. Nel tempo della morte di Dio, la bellezza è la fede di qualcuno - ma è una fede in espansione - per il quale il tragico è, appunto, il senso ultimo del mondo e che crede che in certi essenti, detti opere d’arte, questo senso si manifesti. Si parlava prima dello stormo di uccelli che migrano. Migrano verso un tempo dove la Tecnica sostituisce Dio. I due si assomigliano molto più di quanto di solito si creda. Ma la questione decisiva è che cosa sia l’Aria in cui lo stormo si muove. Lo stormo non può saperlo. Vola verso la morte di Dio - come lo stormo della tradizione volava verso la vita di Dio. Sono accomunati (amici e nemici di Dio) dalla volontà di dominare gli spazi. Ma poi resta la questione di ciò che qui ci limitiamo a chiamare Aria - che è libera da ogni volo e sta al di sopra della vita e della morte di Dio. Qui, di essa, si può dire che non ha nulla a che vedere con i modi in cui, all’interno dei voli, si è voluto andare oltre Dio e gli dèi e si è pensato alla creazione come suicidio di Dio e alla terra come al suo cadavere. È tecnica il Dio demiurgo, ma è tecnica anche il Dio suicida. Li accomuna la volontà di manomettere l’essere. Nella nostra cultura, chi si vuole portare al di sopra dell’azione e della dimensione demiurgica crede pur sempre nella loro esistenza. L’arte lo ha sempre creduto. Oggi lo crede ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica. L’Aria, di cui parlavo, è invece l’apparire dell’eternità di ogni essere. Appare allora, in questo apparire, che l’azione - anche l’opera d’arte, dunque - è soltanto un contenuto della fede. Cioè non soltanto la bellezza, ma anche Inesistenza dell’opera d’arte - ossia dell’opera che fa essere le cose che non sono (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede. Dice Leopardi che, nelle opere di genio, l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria ( Zibaldone, 261). Una vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale, questo, del pensatore-poeta che ha aperto la strada all’intera cultura del nostro tempo. La prima opera di genio è quella dei popoli più antichi: la festa, che è l’immagine della vita e dunque della morte. L’immagine si libra al di sopra del mondo: gli uomini festivi si identificano in essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite derivazioni che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e, in minor misura, del cinema. Si dice che nei precedenti film di Terrence Malick emerga l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora più crudele la natura, nei film di questo regista, quando il massacro è circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una natura che mostra a sua volta il proprio volto terribile, gli uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende sopportabili. Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per lo meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne sono la radice. Ma, per quanto vissuta nei suoi derivati, la festa non ha cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di Malick la bellezza della natura non è l’indifferenza, 309 incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con cui l’immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita airanima. Se non si guarda in questa seconda direzione, l’ultimo film di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere, sorprendentemente, una strada del tutto diversa da quelli precedenti. La strada biblica (nominata quasi all’inizio del film). Per la quale chi segue la via della Grazia non avrà timore. Che poi è la strada di tutte le religioni. Infatti il timore è vinto, cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di riuscire a stabilire un’alleanza con quella che si ritiene la Potenza suprema - e il Divino è appunto questa Potenza. Perché ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio dell’uomo; e poiché nulla può costringerla 1’accoglierlo è una Grazia, un dono. Si può dire che Inalbero della vita sia questa alleanza. L’anima riceverebbe vita da questa alleanza. L’intera tradizione dell’Occidente lo pensa. Se l’uomo è l’essere che crediamo di conoscere, la fede nella possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo la religione si riaffaccia continuamente nella coscienza umana. La cultura europea ha messo in discussione Dio, ma non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a ritrovarla nella tecnica guidata dalla scienza moderna. In Europa le masse avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va sempre più allontanandosi da Dio e che d’altra parte non si vede ancora sufficientemente garantita da una tecnica ancora troppo confusa con la gestione capitalistica della tecnica. Continuando a seguire questa linea interpretativa, che conduce il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può allora risultare sorprendente perché, prendendo le distanze dai contenuti dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce, sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che viene indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una rispettabile preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo in grado di pubblicare la traduzione di una difficile opera di Martin Heidegger? Il che - si potrebbe osservare tra parentesi - metterebbe in luce qualcosa di più importante, cioè la porta che Heidegger ha lasciato aperta al divino; e che in qualche modo ha tentato di tener aperta anche per Nietzsche, che invece si rifiuta di venir sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti al passato della cultura europea come a qualcosa da cui non si può prendere un definitivo congedo. Solo un Dio ci può salvare, egli scrive - a differenza di pensatori radicali come Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto, proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si verrebbe a trovare vicino se lo sfondo del suo quadro poetico fosse l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell’uomo. Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce l’esteriorità della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del padre, e perde il fratello e non vede la ragione di esser buono quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e tutti si amano. Ma allora - vien fatto di dire - che la fede sia una lotta continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa americana preferisce chiudere presto i conti con il dramma della fede: predilige la compostezza, dove però, il dramma, più che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di Malick rispetto a quella tradizione si ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però parlerebbe un linguaggio che per un verso è d’avanguardia ed enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell’amore e a una natura splendida e sovrana. La forma lussureggiante e innovativa dell’immagine non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante, cioè l’aspetto scontato del film. Però l’interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non rende giustizia a quell’immagine. La quale non esprime l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere festivo di cui si parlava all’inizio. Che il contenuto americano del film di Malick sia edificante e scontato non ha più importanza del fatto che i contenuti dell’antica tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori conoscevano dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che parlano della vita, dunque della morte. Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo l’immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte: l’immagine che è sentita più reale e più rassicurante dello stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare l’uomo evoluto della polis solamente quando esso si trasfigura nell’immagine festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’Europa moderna soltanto quando anch’esso si esprime nell’immagine festiva della Divina Commedia, nella Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore dimensione del cinema avviene qualcosa di analogo. In questo diverso senso, L’albero della vita è davvero un’opera edificante ( aedes facere ): costruisce la casa dell’immagine festiva e salvifica. L’imperatore Giuliano, l’apostata, si adopera perché tra il popolo vengano diffusi e difesi i miti e i riti pagani. E tuttavia non è altrettanto noto che, ai suoi occhi, essi appaiono non meno assurdi delle finzioni mostruose del cristianesimo. Che senso ha, allora, questa sua difesa del paganesimo? Scritto nel 1964, uno dei saggi che compongono II silenzio della tirannide di Alexandre Kojève (Adelphi 2004) aiuta a rispondere. Giuliano è filosofo autentico e grande imperatore. Spesso danneggiato dagli estimatori. Vince nelle Gallie e in Persia. Muore a trentadue anni in battaglia. Se è vero che il cristianesimo è uno dei maggiori fattori della crisi dell’impero romano, la volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i popoli dell’impero è lungimirante. Ed è una volontà politica; non l’espressione di una fede religiosa. Per lui, sia il cristianesimo sia il paganesimo sono miti, cioè storie false in forma credibile. Però il mito pagano può ancora salvare l’impero. In ogni mito - egli scrive - il senso è contraddittorio (falso, indegno), mentre l’espressione o è capace di mascherare la contraddizione del senso - e in questo caso il mito ha come contenuto il divino, oppure, come nella poesia, l’espressione non si preoccupa di nascondere l’assurdo, ma si rivolge a chi, ancora bambino nel fisico o nella mente, può credere in esso. In entrambi i casi, la contraddizione è mobilitata per conseguire un fine utile o per divertire (Pascal parlerà di divertissement), per allontanare cioè lo spettro della morte. Affinché l’impero viva, al popolo bisogna nascondere la verità: che con la morte è tutto finito. Kojève qualifica giustamente come straordinario questo passo di Kojève: uno dei maggiori interpreti di Hegel. Anzi, per lui Hegel è il Filosofo oltre il quale non si può andare. E di Giuliano egli mostra più volte perché lo si debba considerare un “hegeliano” ante litteram. Proprio così. (Per esempio legge in Giuliano l’anticipazione del celebre tema hegeliano del riconoscimento del signore da parte del servo.) Ora, è notevole che lo straordinario discorso di Giuliano, intorno alla contraddittorietà del contenuto del mito, per Kojève non faccia una piega. Giuliano dice che, proprio perché il contenuto (il senso) del mito, cristiano o pagano che sia, è contraddittorio, proprio per questo esso è inesistente. Un discorso aristotelico. Ma è anche noto che il problema fondamentale dell’interpretazione di Hegel è stato ed è tuttora il rapporto tra questo pensatore e il principio di non contraddizione. Sono molti a ritenere incautamente (Popper in prima fila) che Hegel sia pervenuto alla negazione di questo principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera, contraddittoria. Quale occasione migliore dello straordinario discorso di Giuliano avrebbe avuto allora Kojève per allinearsi a quei cattivi interpreti, e dire con forza (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel la Verità) che il discorso di Giuliano non sta in piedi, appunto perché identifica Yirrealtà con la contraddittorietà? E invece niente. Anche per questo silenzio Kojève è un grande interprete di Hegel. I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare; con l’impiego meditato, calcolato della più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita, messe in atto simultaneamente o di volta in volta; con una risolutezza incrollabile nel sacrificare sempre tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo, né alla pietà, né ad alcun rispetto umano; con l’arte di alterare nel terrore l’anima stessa dei loro avversari, o di addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le armi; infine con una manipolazione così abile della menzogna più grossolana da ingannare persino la posterità e da continuare a ingannarci. Chi non riconoscerebbe questi tratti? Una pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi 1990) che Simone Weil ha pubblicato nel 1940. Alla domanda finale la Weil risponde che in quei tratti tutti possono riconoscere la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è una creazione specifica del popolo tedesco - come la propaganda nazionalsocialista sosteneva -, ma qualcosa di più profondo, cioè l’imitazione di un modello che va rintracciato molto più indietro nella storia europea, nell’Impero romano, appunto. In Simone Weil questo giudizio sull’antica Roma - che si estende al rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero romano - è anche più pesante di quanto non appaia dal passo riportato, ma non è arbitrario (si pensi ad esempio alla condanna dei metodi di conquista romani da parte di uno storico come Jéròme Carcopino), o è arbitrario nella misura in cui non spinge sino in fondo il proprio significato. Ma intanto va completato l’intreccio proposto dalla Weil: rendendo esplicita una conseguenza - forse non adeguatamente sottolineata dalfautrice - che discende, da un lato, dal suo giudizio su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo stato attuale del capitalismo. Con molte ragioni, la Weil vede già presente, in Marx, la tesi che i lavoratori sono oggi sfruttati non tanto dal capitale privato, ma dal capitalismo di Stato, divenuto ormai, secondo l’espressione di Marx, una macchina burocratica e militare, che è presente sia nello Stato nazionalsocialista, sia nello Stato sovietico, sia nella democrazia americana di un Roosevelt influenzato dai nuovi tecnocrati. Il comun denominatore di queste tre forze è infatti la tecnica - la disumanità della tecnica che riduce a funzione della macchina statale l’individuo umano. La conseguenza è che l’impero romano è il modello non solo per la Germania di Hitler, ma per l’intera direzione fondamentale della storia. Non solo della storia contemporanea, ma di tutta la storia dell’Occidente. Il Sacro Romano Impero, gli Stati nazionali moderni, Richelieu, Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla stessa strada. Per ulteriore disgrazia, scrive la Weil, a Roma si afferma il cristianesimo, che eredita il Vecchio Testamento, dove la disumanità verso i nemici vinti e il culto della forza si accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma soffocando ^ispirazione divina del cristianesimo. Il giudizio su Roma di Simone Weil, dicevamo, non rende esplicito il proprio significato più profondo. Ma avrebbe potuto trovare in Hegel un aspetto più profondo. Hegel non mette tra parentesi la virtù romana, ma mostra perché si trovi unita, come egli dice, alla durezza e all’atteggiamento compostamente risoluto dello spirito romano. Si tratta dello spirito che assume lo Stato come scopo supremo e ultimo. Tutto il resto è subordinato, a incominciare dalla stessa vita familiare e dai sentimenti dell’uomo romano. Se si pensa per davvero questa affermazione, si comprende l’inevitabilità di tutti gli aspetti negativi, denunciati da Simone Weil, attraverso i quali i Romani sono diventati i padroni del mondo. La Weil, più debolmente, scrive che i Romani sacrificano con risolutezza tutto al prestigio. Ma se si va più a fondo, il prestigio è l’aspetto assunto dallo Stato presso le genti quando vale come scopo ultimo dell’esistenza. Ciò non significa che questo spirito - la volontà di porre lo Stato al di sopra di tutto - non sia stato attraversato da forze opposte e potenti: significa che, nonostante le traversie a cui Roma è andata incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo anche quando sembrava svanito, e ha avuto la forza di imporsi perfino su quei barbari che stavano prevalendo ma che a lungo, nella maggior parte dei casi, non hanno pensato di distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai mortali -, ma hanno inteso diventarne essi la forza portante, e i loro capi hanno inteso porsi alla guida dei processi che continuavano ad assumerel’Impero come scopo ultimo dell’esistenza. Come si spiegherebbero altrimenti i dodici secoli di vita di Roma (giungendo a Giustiniano), se lo spirito romano non avesse esercitato un’attrazione così potente? Appunto alla volontà di potenza, da ultimo, ci si deve dunque rivolgere per comprendere perché quello spirito abbia avuto una tale forza di attrazione - pur non essendo certamente stato la prima forma di volontà di potenza nella storia dell’uomo. L’uomo sperimenta sin dall’inizio la potenza sprigionata dall’aggregazione dei singoli e che appare subito superiore alla somma delle loro forze. Lo Stato (l’aggregazione), deve apparire quindi qualcosa di divino. Inevitabile dunque che sin dall’inizio l’uomo assuma questa potenza come lo scopo ultimo a cui tutto debba essere subordinato. Sin dall’inizio la dimensione religiosa e quella politica si fondono, sia pure con intensità diversa e con diversa coerenza rispetto alla potenza che si vuole ottenere. Se lo Stato si mostra ben presto come lo strumento più efficace per avere potenza, tuttavia, proprio perché la potenza sia grande e crescente, lo Stato non può rimanere soltanto uno strumento nelle mani dei singoli e pertanto qualcosa che non può non risentire negativamente della loro impotenza. È cioè inevitabile che lo Stato divenga il loro scopo supremo, a cui qualsiasi interesse e scopo particolare deve essere sacrificato. Lo spirito delle monarchie assolute dell’Oriente riesce a sopportare a lungo la contraddizione per la quale il monarca è un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia qualcosa di non individuale. Poi la contraddizione esplode, e la democrazia greca tenta di superarla. Senza riuscirvi, perché in Grecia la democrazia non può non sentire la voce della filosofia, cioè della coscienza che non solo non può identificare l’individuo a ciò che non è individuale, ma che, anche a proposito del non individuale in cui consiste lo Stato, denuncia l’impossibilità che uno scopo finito, quale è lo Stato, possa essere assunto come lo scopo supremo, e in questo senso infinito. La sapienza (il cui aumento, dice la Bibbia, aumenta il dolore) indebolisce lo Stato. La potenza di esso è maggiore quando cresce lontana dalla radicalità della sapienza filosofica. Proprio per la sua intenzione di dare la felicità, la filosofia indebolisce la fede dell’uomo negli strumenti di cui egli si serve per sopportare il dolore. È la filosofìa a voler porsi come scopo ultimo. (Poi sarà la fede cristiana.) I Romani dice Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia sono solidamente orientati all’attività pratica, ma non riflettono teoricamente su questo loro orientamento. Hegel non dice che appunto questa riflessione indebolisce il proprio oggetto, cioè Inattività pratica, come appunto accade alla polis greca. E non la sapienza radicale della filosofia, ma la sapienza del diritto rafforza la fede nello Stato, appunto perché a Roma il diritto si sviluppa esplicitamente, a differenza della filosofia, all’interno della convinzione che lo Stato sia lo scopo ultimo dell’esistenza, e contribuisce alla realizzazione di tale scopo. Per i Greci la tragedia è uno dei punti più alti della loro grandezza. Per i Romani l’anfiteatro è uno dei più bassi. In entrambi i casi si tratta però di porsi in rapporto al dolore e alla morte, per sollevarsi al di sopra di essi. E lo Stato appare ai Romani come la salvezza. Ma nella tragedia, che è grande filosofia, i Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso e indicando il senso che il rimedio può avere. L’anfiteatro romano, invece, si limita a produrre realmente il dolore, e la riflessione tende a coincidere con quella povertà dello spirito che è il godimento suscitato dalla sofferenza altrui. Qui, la risolutezza romana raggiunge, insieme, il proprio apice imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma) e, insieme, la propria distruzione, che l’originaria e sobria lontananza romana dalla radicalità della sapienza filosofica aveva saputo evitare. Gl’ebrei hanno qualità positive di coesione e di solidarietà che mancano ai tedeschi. Affetti da eccessivo individualismo, i Tedeschi sono Ariani degenerati. Si trovano in uno stato di debolezza, di divisione, di estremo pericolo. Giudizi, questi, insieme a molti altri affini, che non sono espressi da un severo critico della Germania del XX secolo, ma da Hitler in persona, nel suo scritto Mein Kampf. Funestamente celebre; scritto tra il 1924 e il ’25; il libro più diffuso in Germania sino alla fine della seconda guerra mondiale. Per Hitler i Tedeschi di quel tempo erano un armento. Che non solo si era allontanato dalla creatività, volontà di dominio e genialità del vero Ariano (un giudizio, questo, ripetuto da Hitler poco prima di uccidersi), ma che aveva anche il torto di essere oggettivo, insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si pone al di sopra dell’oggettività), e dunque inferiore allo spirito dialettico degli Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento, di sottovalutare gli Inglesi e soprattutto di tollerare gli Ebrei. Chi ha letto Mein Kampf (La mia battaglia) non sta sentendo nulla di nuovo, ma è nuovo e interessante il modo in cui il libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e da Chiara Volpato (cfr. Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del Mein Kampf, (Patron). All’enorme quantità di ricerche che da ogni punto di vista e con risultati di grande rilievo sono state condotte sul nazismo questo saggio aggiunge una dissezione del linguaggio di Mein Kampf operata con i metodi più recenti della psicologia sociale. In primo piano, l’analisi delle corrispondenze tra le espressioni più ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui giudizi riportati all’inizio non risultano irresponsabili, ma appartengono a un piano ben preciso, che giustifica il successo di un uomo come Hitler in uno dei Paesi più civili del mondo. Stando ai risultati di questo saggio di Capozza e Volpato è già notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia come ci si potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella Ebraica, considerata come il prototipo della razza aliena che ha di mira, alleandosi con i bolscevichi, la distruzione della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che tuttavia hanno ai suoi occhi alcune qualità positive che costituiscono per i Tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita cioè ai Tedeschi il pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi per colpa degli Ebrei; ma non li deprime, perché presenta loro quel Partito nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza capace di salvar-li e farli diventare quel che essi sono nella loro essenza ariana. Il suo partito è unito, ha fede e pur lottando contro il marxismo capisce i problemi della classe operaia. Cioè Hitler scrivono le autrici suscitava antisemitismo non solo tramite la spiegazione dei fallimenti dei Tedeschi, ma anche presentando gli Ebrei superiori ai Tedeschi in una importante dimensione di confronto: coesione, solidarietà, omogeneità: una dimensione in cui non si vuole essere inferiori. Tanto che le autrici possono concludere che Hitler, capace di raffinate intuizioni sull’uomo sociale, per diffondere il suo programma ha operato sulle motivazioni e i processi previsti dalle teorie psicosociali. A loro avviso il testo è basato su tre idee: darwinismo sociale (lotta eterna tra forti e deboli, selezione naturale, spazio vitale ecc.), principio etnocentrico (al centro dell’esistenza c’è una certa razza, un certo popolo) e principio della personalità (l’individuo superiore guida la massa stupida e incapace). Qui vorrei rilevare che quei tre principi appartengono (in modo filosoficamente ingenuo) a una grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due ultimi secoli della storia dell’Occidente. Quelli della morte di Dio. Tutto a posto, allora, ritornando a Dio? No; la morte di Dio è la figlia legittima, inevitabile, della vita di Dio. E invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al senso essenziale e non si sappia mettere in questione la creatività e la volontà di potenza dell’uomo ariano e non ariano che sia. Al capitolo III 8. Piazza della Loggia Trentanni fa c’era molta incomprensione per quanto stava accadendo in Italia con gli attentati terroristici. Pochi giorni dopo la strage di Piazza della Loggia osservavo quanto fossero inadeguate le interpretazioni fornite delle massime autorità della politica e della cultura. Il presidente della repubblica Giovanni Leone dichiarò che il fascismo, ritenuto responsabile dell’eccidio, era morto per sempre il 25 aprile 1945 e che di esso non sopravvivevano che squallide minoranze. Per eliminare le quali, aggiungevano altri, si trattava soltanto di rendere più efficienti polizia e magistratura. C’era anche, però, chi sosteneva la necessità di adeguare la legislazione al dilagare del terrorismo - il cui senso veniva peraltro lasciato nel buio -, ripristinando magari la pena di morte. Il giorno dopo la strage di Piazza della Loggia Alberto Moravia scriveva sul Corriere della Sera che gli esponenti del fascismo erano soltanto dei razionalizzatori per lo più inconsci e quasi sempre imbecilli delle proprie private tare. Nel suo insieme, questo modo di prendere posizione rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben altro dietro le squallide minoranze o gli imbecilli che razionalizzavano le proprie tare private. C’era il problema dell’avanzata del Partito comunista italiano, che con i consensi elettorali ottenuti stava andando verso la conquista democratica del governo - e, questo, all’interno di una situazione internazionale dove la sfera di influenza degli Stati Uniti, alla quale l’Italia apparteneva, non avrebbe mai consentito che al governo, in Italia, ci andassero i comunisti. Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America, Kissinger non solo minacciò il ritiro delle truppe americane dal nostro continente qualora gli alleati europei non si fossero allineati agli Stati Uniti nei confronti dei Paesi produttori di petrolio; ma a chi gli parlava di una troppo pesante ingerenza degli Usa nella nostra penisola Kissinger (è importante ricordarlo oggi) rispose che se l’Italia fosse passata sotto la sfera di influenza dell’Urss, il mondo democratico avrebbe poi rimproverato gli Stati Uniti di non aver salvato l’Itaha dal comuniSmo - dal che si capisce quanto fosse un bluff la minaccia di ritirare le truppe americane dall’Europa, che a sua volta, e a maggior ragione, doveva essere salvata dal comuniSmo. Negli anni Settanta ho dedicato una considerevole attenzione alle connessioni tra terrorismo e situazione politica internazionale. Il mio libro Téchne (Rusconi 1979, Rizzoli 2002) ne è la testimonianza. Ma solo un poco alla volta è maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici esecrandi, che a prima vista sembravano solo esplosioni di una ottusa brutalità, erano invece espressioni di quella dura vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi la sopravvivenza e i privilegi in un mondo sempre più pericoloso. Il terrorismo che ha portato a episodi come quello di Piazza della Loggia non appartiene alla banalità o alla semplice dimensione defl’immoralità, per uscire dalla quale basta qualche pia intenzione delle anime belle. Un discorso analogo vale anche oggi. Rispetto al Partito comunista italiano il fascismo italiano degli anni Settanta è un nano. Che però ha alle spalle una forza enormemente più gigantesca di quella del Pei: il sistema democratico-capitalistico, con gli Usa al proprio centro. Di fronte alla possibilità di una conquista democratica del potere da parte del comuniSmo, tale forza agisce in modo che il Pei risponda agli attentati terroristici con azioni illegali, che avrebbero consentito il ripristino autoritario della legalità e, con la messa al bando del Pei, l’eliminazione del pericolo comunista. Di qui il rifiuto violento del Pei alla proposta di reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non ha reagito illegalmente alla provocazione fascista non è stato per amore della legalità e della democrazia, ma perché, da un lato, ha capito che alla legalità e al carattere democratico del proprio operato era legata la propria sopravvivenza; e dall’altro perché il Pei era consapevole di non potere e dunque di non dovere prendere il potere in Italia. A quel tempo, scrivevo che al governo il Pei sarebbe andato quando non fosse più stato un partito comunista. Tasse e amnistia L’aumento della criminalità in Italia è, come si suol dire, un fatto. Dunque non solo in città come Brescia - dove il tasso di immigrazione, superiore alla media nazionale, è uno dei fattori di tale aumento. Non l’unico. Come l’atteggiamento caritativo della Chiesa nei confronti degli immigrati non è l’unico dei fattori da tener presenti nella discussione di questo problema. Non l’unico; e tuttavia molto importante. Dico questo, per l’analogia, apparentemente paradossale, che sussiste tra il problema delle tasse degli Italiani e il problema dell’amnistia nei confronti di migliaia di detenuti delle nostre carceri - un’amnistia voluta dal centro-sinistra del secondo governo Prodi e, direi, soprattutto e fortemente dalle forze cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle decise sollecitazioni della Chiesa cattolica in quella direzione. Ed ecco quanto intendo rilevare. È molto probabile che, come a suo tempo aveva rilevato l’onorevole Visco, il clima determinato dal precedente governo di centro-destra in tema di tassazione avesse favorito e incrementato la propensione degli Italiani all’evasione fiscale. Quando l’autorità sembra andare incontro alle nostre inclinazioni individuali, quest’ultime tendono infatti a rafforzarsi e a espandersi. La televisione è ormai considerata un’autorità, e accade appunto che comportamenti televisivamente tollerati, o lasciati scorrere con indulgenza sul piccolo schermo, aumentino la propensione della gente a imitarli. Ma è anche difficile, a questo punto, evitare l’analogia tra il problema fiscale e l’amnistia carceraria che ha rimesso in strada anche persone il cui primo pensiero è stato di riprendere l’attività interrotta dalla reclusione. L’amnistia non aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche immigrati extracomunitari. Difficile, allora, evitare il seguente ragionamento. Come è molto probabile che il clima prodotto dalla politica fiscale dei governi di centro-destra abbia favorito l’incremento dell’evasione fiscale, così è molto probabile che il clima determinato dall’amnistia carceraria abbia prodotto un clima che ha portato la gente a credere che l’autorità guardasse con una certa indulgenza l’evasione dal diritto civile e penale, un clima che quindi ha in qualche modo favorito ed esteso la propensione per quella diversa forma di delinquenza che consiste negli omicidi e nelle rapine. Inevitabile che chi ha subito questa forma di suggestione, determinata dall’amnistia, siano stati soprattutto gli immigrati e in particolare gli extracomunitari che, proprio perché tali, entrano nel Paese da cui sono accolti senza avvertire - come invece possono farlo coloro che in quel Paese son nati - la presenza e il carattere bene o male vincolante delle leggi in esso in vigore. Nel caso dell’amnistia la suggestione è stata ancora maggiore, perché il provvedimento era stato proposto non solo dalle forze politiche al governo, ma anche da quell’autorità della Chiesa, che nel mondo può certo vantare un’autorità maggiore delle forze politiche italiane. L’amnistia ha creato un’immagine pubblica del legame tra legalità e carità, che ha allentato il timore di trasgredire la legge. Pensando a questo e ad altri ordini di problemi avevo detto alla svelta, in un’intervista rilasciata al Corriere, che mi risultavano incomprensibili certi atteggiamenti caritativi della Chiesa bresciana. Si parlava dei delitti commessi a Brescia. Ma il mio discorso era rivolto primariamente alla Chiesa in generale, che tenta di seguire come può l’invito, rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare ai poveri tutte le proprie ricchezze. Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai popoli ricchi di dare tutte le loro ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può seguire la sublime follia di Gesù. Non può permettersi di sembrare sublimemente folle. Tenta come può di seguire Gesù: con le forme tradizionali della carità. Le quali, per un verso, lasciano che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si riversano, quando possono, alfinterno dei rapporti civili presenti nei singoli Stati e diventano opere assistenziali di vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è stata appunto l’amnistia in Italia. Che certamente non è l’unica responsabile dell’aumento della criminalità nel nostro Paese, ma che, altrettanto certamente, responsabile è. Lo sport è importante. Perché - forse soprattutto - non è innocente. Tanto più importante quanto più simula le forme della lotta e del combattimento. La gente trova in esso quello sfogo delle proprie frustrazioni, che altrimenti indirizzato le procurerebbe gravi sanzioni civili e penali. Ma bisogna che la squadra in cui ci si identifica vinca e che la vittoria non sia ostacolata. Altrimenti lo sfogo straripa, diventa incontrollabile. Nelle società povere Finsoddifazione finisce col trasformarsi in massacro. Ma oggi anche quelle ricche hanno motivi per essere insoddisfatte. Si percepisce che il mondo dei valori tradizionali va franando. È la notizia che fa da sfondo a ogni altra. Ed è ormai un luogo comune rilevare che i mass media, diffondendola e moltiplicandola, la trasformano nel modello da imitare. Poiché la frana della tradizione è violenza, che acquista mille volti, l’imitazione del modello violento diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa e moltiplicata. I violenti si sentono pertanto ripagati di molte delle loro frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione che si esiste solo se si è in televisione. C’è sempre stato qualcosa di analogo. La violenza è una forma di potenza (o addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è pubblicamente riconosciuta. Non esiste un sovrano o un dio la cui potenza non sia stata o non sia pubblicamente riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie frustrazioni se non ci si sente in qualche modo potenti o violenti e se quindi non ci si rende il più possibile visibili. I mezzi di comunicazione di massa del nostro tempo sono la forma più potente di riconoscimento pubblico e quindi di produzione della potenza e della violenza. Alla messa in scena del progressivo disfacimento dei valori morali, civili, religiosi, estetici delle società avanzate si unisce la messa in scena del disfacimento di ogni regola di convivenza tra gli Stati. Hobbes rilevava che 10 Stato nasce per uscire dal belluino stato di natura (homo homini lupus), ma gli Stati hanno continuato a essere lupi gli uni per gli altri. Questo è l’esempio che gli Stati danno agli individui! Gli Stati, che pure dovrebbero rappresentare la ragione e la civiltà contro l’istinto e l’egoismo individuale! E anche di questa belluinità degli Stati i mezzi di comunicazione di massa danno continua notizia alla gente, dando la maggiore visibilità e quindi il maggior respiro alla violenza. In Italia è tempo di pensare alla riforma del diritto. Ripeto che come la politica finanziaria della destra incrementa l’evasione fiscale, così gli indulti e le amnistie della sinistra incrementano la violenza del crimine. Ma la gran ventura, che riguarda l’intero pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi della civiltà dell’Occidente) non è necessariamente negativa, è 11 guado che dai valori del passato conduce al futuro. Ravaioli: La crescita produttiva continua a essere l’obbiettivo più tenacemente auspicato e perseguito da economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da tutti invocato anche nel discorrere più feriale, che so, al bar, in treno, al mercato; dato come una indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di fede... A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei chiederle che ne pensa: è d’altronde un avvio perfettamente calzante col discorso che ci proponiamo. Severino (S.) Questo continuo parlare della crescita come di cosa ovvia è in buona parte dovuto all’ignoranza. Sono decenni che si va intravedendo l’equazione tra crescita economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro checondivisibile l’auspicio di una crescita indefinita. R. Professore, sta dicendo che l’economia è una scienza consapevole delle conseguenze negative della crescita? S. Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi. Anche nel mondo dell’intrapresa capitalistica - la forma ormai pressocché planetaria di produzione della ricchezza - ci si va rendendo conto del pericolo di una crescita illimitata (anche se poi si fa ben poco per controllarla). R. Non si direbbe proprio... S. Sì invece. Vent’anni fa, quando Lei scrisse quel suo bel libro che interpellava numerosi economisti a proposito del problema dell’ambiente, la maggior parte degli intervistati affermava che quello del rapporto tra produzione economica ed ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti sono molto più cauti... e anche le dichiarazioni dei politici sono diverse da venti o trent’anni. R. In pratica però non fanno che invocare crescita, senza nemmeno nominarne i rischi... S. Be’, in periodo di crisi economica, di fronte al pericolo immediato di una recessione, è naturale che si insista sulla necessità della crescita... Purtroppo però lo si fa riducendo il problema alle sue dimensioni tattiche, ignorandone la dimensione strategica. R. E intanto si verificano sempre più tremendi disastri, che inconfondibilmente denunciano la pericolosità della crescita... Dal Golfo del Messico a Fukushima... per citarne solo un paio dei più gravi e che hanno avuto massima risonanza. S. Certo. Ma, facendo un passo avanti, vorrei precisare che prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono dovuti alla tecnica in quanto tale, ma alla gestione economico-politica della tecnica... Non sono disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica della scienza e della tecnica... Sono disfatte, cioè, del capitalismo (fermo restando che l’economia pianificata di tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente). R. La mia impressione però è che quanti insistono a invocare crescita continuino a ignorare che tutto quanto vediamo, tocchiamo, usiamo, è fatto di natura; e che dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non dilatabili a richiesta. Questa realtà in sostanza viene rimossa. I grandi industriali che si confrontano a Davos, Cernobbio ecc., spesso neanche citano il problema... Automobili, barche, indumenti, mobili, computer... tutto quanto esce dalle loro fabbriche... di che cosa credono che siano fatti? S. Ma è un atteggiamento normale dell’uomo quello di preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando sullo sfondo quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima preoccupazione è tappare la falla... Poi si pensa al luogo dove approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso diventa inutile tappare le falle... Si verificano allora tutti i comportamenti che lei giustamente rileva. R. Scusi, non vorrei aver capito male... La sua è una giustificazione di questi comportamenti da parte di chi, poco o tanto, è responsabile dell’economia mondiale? S. No. Dicevo che è, purtroppo, costume umano non aver occhi che per i problemi immediati, ignorando quelli fondamentali - che magari gli stanno sotto il naso... È però una mancanza di consapevolezza che ha incominciato a incrinarsi anche prima di cataclismi come Fukushima. Sebbene ancora non se ne vedano conseguenze nelle scelte politiche... R. Ma il problema esiste da decenni... Il deperimento dell’equilibrio ecologico è stato clamorosamente denunciato dagli anni Cinquanta, ma nelle scelte politiche è stato completamente ignorato. S. Ecco, forse su quel completamente si può non essere d’accordo... Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al Gore: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli Americani della necessità e convenienza di una crescita economica sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in qualche modo anche Obama ha fatto propria. R. Però nessuno di quelli che contano sembra rendersi conto che la crescita produttiva attualmente perseguita - che è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di fatto col sistema capitalistico. Anche celebri economisti (vedi Stiglitz, Krugman, Fitoussi... per citarne qualcuno) riconoscono la gravità della situazione ambientale, ma non accennano nemmeno a soluzioni che mettano in discussione il capitalismo. S. Sono pienamente d’accordo con lei: è proprio questa la situazione... Ma occorre anche dire che oggi, in un mondo conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una politica economica meno produttivistica significherebbe mettersi dalla parte dei perdenti, indebolirsi anche sul piano militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina... Nella situazione attuale, rinunciare alla crescita, cioè alla potenza economica, significa essere sopraffatti... E sembra difficile anche rinunciare alla base economica richiesta dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a differenza di quanto spesso si continua a credere, la potenza nucleare appare decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un problema enorme, che si tende a non affrontare nemmeno là dove si è consapevoli che la crescita incontrollata... distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato per la soluzione di tale problema dovranno accadere disastri giganteschi... con qualche milione di morti... Ma prima si tirerà la corda finché sarà possibile. R. Certo. Tutto questo che lei dice corrisponde a una lettura intelligente e del tutto esatta della realtà. Mi domando però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una natura devastata - in misura già oggi forse irrecuperabile - da un agire economico fondato su una crescita produttiva che non prevede limiti. S. È da guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare cinico - l’intellettuale che dice alle grandi potenze mondiali: Dovreste mettervi in discussione. Le grandi potenze non cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa che va contro i loro interessi... Ce la vede lei una Cina che rinuncia a una politica economica vincente, e al proprio tète- à-tète attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai anche in Europa la vita va avanti alimentata dalle centrali nucleari. E continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non basta quello che sta succedendo: solo un disastro di proporzioni senza precedenti, dicevo, potrebbe convincere l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo radicale... R. Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla storia? S. In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità, ancora più perentoria: quella del tramonto del capitalismo. Diciamolo in quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche l’agire capitalistico è quindi definito dal suo scopo, cioè dall’incremento indefinito del profitto privato. Quando il capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non più l’incremento del profitto ma la salvaguardia della terra, allora non sarà più capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando avanti così, cioè volendo avere come scopo il profitto, distrugge la terra, la propria base naturale, e quindi sé stesso, oppure assume come scopo la salvaguardia della terra, e allora anche in questo caso distrugge egualmente sé stesso. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo. R. Lei è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane - sembrano aver definitivamente rinunciato all’idea di superare il capitalismo. Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli spetterebbe, perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso ecologico sono soprattutto le classi più povere... Ma no, anche le sinistre sono allineate sull’invocazione della crescita, di fatto preoccupate esclusivamente di occupazione e salari: ciò che certo è comprensibile, anzi necessario, ma che forse potrebbe non limitarsi (come per lo più sostanzialmente accade) a occuparsi di singole situazioni di crisi e magari tentare di spingere lo sguardo un po’ più lontano: dopotutto la globalizzazione è un fatto, che riguarda tutti e - anche se non ce ne accorgiamo - tutti per mille modi ci determina... S. Quando parlo di declino del capitalismo, parlo infatti di qualcosa che presuppone anche il declino del marxismo, delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è che la sinistra sia in una posizione avvantaggiata rispetto al capitalismo... Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma anche i totalitarismi e le teocrazie, e la democrazia, e anche le religioni e ogni visione del mondo e ideologia... - si sono illusi e si illudono tutt’ora di servirsi della tecnica. Ma che cosa vuol dire questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure l’incremento del profitto privato, oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la sinistra è cioè sullo stesso piano del capitalismo per quanto riguarda il rapporto con la forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che il socialismo è quel reggimento politico in cui gli individui sono in grado di controllare la macchina tecnologico-statale-militare- burocratico-finanziaria ecc.. L’individuo - come il capitalista - si illude di poter controllare l’apparato tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione... R. Una prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i possibili. S. Invece andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell’uomo - ed essendo la condizione perché la terra possa esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione - è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi ideologici, per quanto grandi e importanti siano per chi li persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra mondiale, democrazia, religione, e ogni ideologia e visione del mondo, ogni movimento e processo sociale diventano qualcosa di subordinato, diventano essi un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l’incremento indefinito di tale potenza... Perciò spesso dico che la politica vincente, la grande politica, sarà delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica... La grande politica è la crisi della politica che vuole servirsi della tecnica. Andiamo in una direzione dove, dunque, anche le sinistre - e il capitalismo, e tutte quelle forze in campo che ho menzionato - saranno costrette a rinunciare ai propri scopi e diventeranno esse i mezzi di cui la tecnica si serve. Non si tratta di un processo di deumanizzazione, o alienazione, come invece spesso si ripete, dove l’uomo diventerebbe uno schiavo della tecnica; perché in tutta la cultura - anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo - l’uomo è sempre stato inteso come essere tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma neanche remoto. Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà destinata a rendere conto della sua primazia, ma non dovrà renderlo alle forze che ancora si servono di essa ma che sono forme deboli di tecnica. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo. R. Professore, mi permetta un’obbiezione. Già oggi la tecnica, da mezzo, sempre più sembra imporsi come scopo... E - ne abbiamo parlato poco fa - mi pare che in questa funzione stia dando prove quanto meno discutibili... S. No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova di sé è la gestione ideologica della tecnica - è il modo, ad esempio, in cui in Giappone sono state organizzate le centrali nucleari: e lì non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione capitalistica di essa, che per il profitto ha sottovalutato la pericolosità di quel tipo di centrali. (Debbo però aggiungere - ma anche qui chiudiamo subito il discorso - che la tecnica destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o scientisticamente intesa, ma quella che riesce a sentire la forza della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale dice che non possono esistere limiti assoluti all’agire dell’uomo.) R. Rimane il fatto che le tecniche, anche le più avanzate e intelligenti, le più utili persino, finiscono per essere nei confronti dell’equilibrio ecologico naturale delle continue aggressioni, o quanto meno delle minacce. S. Di nuovo rispondo di no, e che è la volontà di profitto a rischiare oltre il livello di rischio denunciato nelle previsioni tecno-scientifiche. R. Ma non è la volontà di profitto a generare, o almeno a favorire, la creazione di tecniche? S. Sì, le ha favorite (e in qualche caso generate), ma allo scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo che questo scopo è destinato al tramonto. R. Resta però il fatto che molti istituti scientifici, anche di largo prestigio, vivono in quanto finanziati da grandi potentati economici... E questo in qualche misura significa condizionarli... S. Certo, questa è la situazione attuale. Ma la tendenza globale è un’altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda conto di non poter più continuare a farlo, perché, alla fine, condizionare (e quindi subordinare e pertanto indebolire) la tecnica per promuovere sé stessi è indebolire sé stessi... R. Si diceva che le sinistre - a parte l’impegno per la difesa del lavoro - non dicono, né propongono cose gran che diverse dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo ben più ampio di quello che hanno le sinistre oggi... Dopotutto non a caso l’inno dei lavoratori era l’ Internazionale... Tentare di guardare un po’ più lontano... Cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non potrebbe portare a una proposta alternativa? S. Questo allargamento va imponendosi da solo. Infatti non si può separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì, come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti politiche oggi si sente dire a proposito dei problemi più importanti: Non è questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica. È un piccolo indizio del processo dove le soluzioni tecniche prevalgono su quelle politiche e ideologiche. R. Mi riesce difficile seguirla... la tecnica viene solitamente vista come uno strumento usato dal capitalismo... S. Questo è lo stato attuale che il mondo capitalistico vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che i servi si liberassero dei padroni. La liberazione decisiva, rispetto alla quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale. R. In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica. S. Sì. O meglio: è la logica del discorso a vederla. R. Una tecnica che - insisto - porta alla devastazione della terra... S. Se la tecnica continua a essere gestita dal capitalismo, sì. Ma - insisto anch’io - sarà il capitalismo stesso ad accorgersi che devastando la terra devasta sé stesso (e cambiando rotta, cioè scopo, si distruggerà egualmente). R. È insomma l’intero sistema produttivo che di fatto agisce contro la salvezza dell’umanità... Non crede che in tutto ciò esista qualche responsabilità anche da parte delle sinistre? Dopotutto erano nate per combattere il capitale, no? S. Ma il discorso che vado facendo da molto tempo indica qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle mobilitazioni, dei progetti, della volontà politica. Riguarda un movimento che procede per conto proprio, guidando e animando la volontà così come, si sa, la struttura del capitale domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva appunto che i singoli capitalisti sono le prime vittime del capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica prende il posto del capitale. R. Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza, in qualche modo, come dire... operante e avvertibile? Oppure si tratta per ora soltanto di un’ipotesi filosofica? S. È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo adeguato (e dunque non soltanto ipotetico) di fare filosofia. Per essenza la filosofìa si riferisce all’autenticamente operante e avvertibile. R. Cambiando discorso. Lei ha dedicato un suo recente articolo, apparso sul Corriere della Sera, al modo in cui il Nordafrica va cambiando. Non crede che forse proprio dal Sud del mondo, non ancora interamente assimilato alle logiche e ai valori del capitalismo, possa muovere una critica, e magari una messa in crisi della cultura dominante? È qualcosa su cui più volte m’è capitato di riflettere. Ad esempio quando un anno fa, in Bolivia, durante il Social Forum di Cochabamba, un gruppo di campesinos lanciò uno slogan che diceva: Non si tratta di cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema; aprendo un orizzonte enormemente più ampio di tutte le altre parole d’ordine correnti, che insistevano soprattutto sui mutamenti climatici, e di fatto denunciando un rapporto Nord-Sud che per mille aspetti ampiamente si attiene alle logiche del capitalismo, e le impone. È solo un episodio, ma non crede che proprio da questi mondi potrebbero partire spinte decisive alla messa in crisi delle logiche politiche dominanti? S. Be’, il fatto che questi popoli vadano riproducendo il modello occidentale dimostra che l’Occidente ha raggiunto la prospettiva più radicale: la destinazione della tecnica al dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo l’itinerario compiuto dall’Occidente... L’autentico cambiamento di sistema è quella destinazione. R. Professore, certo è incapacità mia di seguirla fino in fondo... Ma più volte m’è capitato di riflettere, e anche di scrivere, in libri dedicati appunto alle questioni ambientali, su questo crescente prevalere della tecnica sui modi e i ritmi della natura... Spesso citando quello straordinario libro, firmato dal grande biologo americano Gould, che si intitola Gli alberi non crescono fino al cielo : una critica dell’intera vicenda umana, tutta centrata su una impossibile sfida alla natura. Nella quale peraltro sempre è evidente il senso di colpa... E infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse... tutti sempre vengono puniti... La tecnica, nella mitologia, è colpa... E lo è la scienza in assoluto, si direbbe, se si pensa ad Adamo ed Èva, cacciati dal paradiso terrestre per aver gustato il frutto dell’albero del sapere. S. Onorevole, non solo Lei segue benissimo, ma continua a proporre spunti estremamente interessanti. Quando parlo in termini positivi della tecnica, ne parlo nel senso che essa va ritenuta la forma più rigorosa della più radicale follia in cui l’uomo è caduto. Non intendo affatto fare l’apologià della tecnica ma intendo dire che l’errore, la follia, vanno progressivamente facendosi più rigorosi e coerenti... Pensi al discorso di Freud, che la religione è quella follia - grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le forme di follia dell’individuo... Nella tecnica l’errore è destinato a diventare massimamente rigoroso. L’errore nasce con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper dire perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti né le altre forme della sapienza umana. È vano combattere e incolpare Prometeo, che ha dato tutte le tecniche ai mortali, con strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il capitalismo, il marxismo, il cristianesimo, l’islam, il totalitarismo, la democrazia ecc. sono forme deboli di tecnica. Ma con ciò non intendo dire che la tecnica sia la verità. No. È la forma più radicale dell’errore. Che però sembra la forza più potente. R. Una volta ancora non posso non apprezzare il suo pensiero... Non riesco però a non domandarmi se non ci sia nulla da fare, o per accelerare questo processo portandolo a una soluzione, o in qualche misura per mitigarne la distruttività. Sono tante ormai le persone che si preoccupano per il futuro di un mondo per mille versi sempre più problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati... A tutti costoro che cosa si sentirebbe di consigliare? S. La ringrazio. Per ora siamo gettati nell’errore; ma proprio per questo c’è molto da fare. C’è da favorire il processo che porta l’errore a maturazione. Ecco perché parlavo prima della grande politica. Per praticarla è necessario incominciare a guardare in faccia il senso essenziale della storia dell’Occidente, il senso cioè della volontà di potenza: il senso del fare. Intervista fattami da Carla Ravaioli e pubblicata sul manifesto nel luglio 2011. Al capitolo V 12. Non veritas, sed auctoritas facit legem- Per considerare il rapporto tra processo e tecnica si può certo rimanere alFinterno della specializzazione giuridica. Ma - chiediamoci - è ancora specializzazione Patteggiamento che non riflette sul senso della specializzazione? Si vive in una nave - la si vive come nave - quando non si sa che cosa sia una nave? Certamente no. E d’altra parte, riflettendo sul senso della specializzazione si è ancora alFinterno di essa? (Si profila così un’antinomia, che può essere il sintomo del carattere contraddittorio della specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo aspetto, peraltro fondamentale, del discorso. La tecnica riguarda il processo in relazione, innanzitutto, ai limiti entro i quali le competenze tecnico-scientifiche devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il compimento delle procedure giudiziarie. In questo caso, le competenze tecniche (mediche, psicologico-psichiatriche, chimico-fisiche, urbanistiche ecc.) servono da strumento - da mezzo - per quello scopo che è la conduzione e il compimento del processo. A sua volta, il processo stesso, come fatto giuridico, è scomponibile in un momento tecnico-strumentale e in un momento che è lo scopo di tale strumentazione. Momento tecnico-strumentale è, ad esempio, la formazione dei magistrati, e in genere, dell’organico, e il modo in cui sono formalizzate le regole in base a cui il processo si svolge; lo scopo è la verifica dell’applicazione della legge in rapporto ai casi intorno a cui verte il processo. Ma, daccapo, lo scopo di una società non è quello di verificare se la legge sia applicata: lo scopo è che la legge viga. Affinché viga è necessario verificare se ciò avvenga. E questo significa che la verifica giuridica si dispone a sua volta come strumento, come mezzo per la realizzazione di quello scopo che è il regno della legge nella società. Questo rinvio, il triplice rinvio qui sopra sommariamente indicato, dove lo scopo si dispone come strumento di uno scopo superiore, ha un prolungamento decisivo, che riguarda il concetto stesso di legge, sottoposto a una profonda trasformazione, dove l’atteggiamento giusnaturalistico, proprio della tradizione occidentale, viene spinto al tramonto dall’atteggiamento giuridico che è proprio del diritto positivo. E, anche qui, si tratterà di comprendere l’ultima sezione di questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è a sua volta destinato a diventare, da scopo della verifica giudiziaria, mezzo, cioè strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui dominio il pianeta sta procedendo. A partire dal pensiero greco, e lungo la tradizione occidentale, in cui il giusnaturalismo si inscrive, non auctoritas, sed veritasfacit legem. La verità è il fondamento, il principio ispiratore della legge. Lo ius è dato dalla natura delle cose; e la verità è il luogo in cui tale natura mostra il proprio volto autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i millenni del mito, un senso inaudito della Verità: la Verità come sapere incontrovertibile che mostra, manifesta (e pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia smuovere, un contenuto che sta e appunto per questo è chiamato epistéme ( epi-stéme ). La Verità mostra l’ordine immutabile al quale lo Stato (e il singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua alle leggi che si fondano sulla Verità che il sapere filosofico ha portato alla luce e alla quale si commisura la stessa rivelazione cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo Stato (e l’individuo) è misurato dalla sua adeguazione alla verità, in quanto principio ispiratore della legge. Il valore della legge non è dato dalla pura forza, ossia da un auctoritas che sia pura forza, ma dalla sua dipendenza dalla verità. Ma dopo questa grande epoca della civiltà occidentale, dove verità e legge formano una unità indissolubile, si fa innanzi con sempre maggior forza il principio opposto, per la prima volta enunciato da Hobbes: non veritas, sed auctoritas facit legem. È il principio del diritto positivo, che acquista il proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal contesto in cui viene formulato nella filosofìa di Hobbes - in una filosofia cioè dove, nonostante tutto, resta ancora fermo il senso di fondo che il pensiero greco ha conferito alla verità. La transizione dal giusnaturalismo al prevalere del diritto positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio emergente del grandioso processo storico-critico, in cui la tradizione dell’Occidente viene abbandonata dal pensiero, e pertanto dall’agire umano, e soprattutto e fondamentalmente dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli. Poiché il diritto positivo non si fonda su alcuna Verità assoluta, ed è positivo perché pone ciò che la volontà sociale dominante (del sovrano, dell’eletto rato, di una oligarchia economico- politica) vuole di volta in volta come legge, il processo giudiziario che si sviluppa alfinterno di questa forma di legge è compatibile con qualsiasi tipo di contenuto giuridico, di natura democratica o no. D’altra parte, la transizione al positivismo giuridico è analoga a quella che conduce dalle varie forme di totalitarismo alla democrazia del nostro tempo, che definisce sé stessa come semplice procedura, che di per sé non propone o impone alcuna Verità assoluta ai cittadini ed è pertanto compatibile con qualsiasi contenuto sollevato al rango di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa radicalmente fondata - e inevitabile, all’interno della storia dell’Occidente - l’affermazione che non veritas, sed auctoritas facit legem. Il fenomeno, grandioso, di cui la transizione al positivismo giuridico e alla democrazia sono aspetti particolari - e molti altri potrebbero essere menzionati - conduce al di là delle forme essenziali della tradizione occidentale. È il fenomeno che Nietzsche ha chiamato morte di Dio - sì che il passaggio dal giusnaturalismo al positivismo giuridico è la morte di Dio in ambito giuridico -, è la morte della forma assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel fenomeno è grandioso, non solo per le sue proporzioni, cioè per il suo aver investito ogni aspetto del pensiero e dell’agire tradizionali, ma anche perché si presenta secondo una inevitabilità (cfr. sezione prima, cap. V), per la quale tale fenomeno non è semplicemente un cambiamento di opinioni da parte della società e dei suoi membri. Solo cogliendo il senso di questa inevitabilità si può comprendere che oggi l’uomo non può più cercare la propria salvezza volgendosi verso la grande tradizione dell’Occidente - e dunque verso il modo in cui all’interno di essa viene realizzato e praticato il diritto. Certo, l’inevitabilità di cui stiamo parlando è l’inevitabilità del tragico; ma non le si possono voltare le spalle per il semplice fatto che non va incontro a certe nostre aspirazioni. L’espressione dietrologia è screditata. Ma può essere un sinonimo del concetto scientifico d’ipotesi: l’ipotesi esplora ciò che sta al di sotto di quanto si manifesta comunemente o immediatamente. Al di là del senso screditato della dietrologia, l’ipotesi scientifica ha cioè un carattere essenzialmente dietrologico. Nemmeno quel tipo di disciplina scientifica che è il diritto può evitare di formulare ipotesi, ossia di andare al di là di ciò che comunemente appare e che viene chiamato il fatto. Gli estimatori del fatto - anche tra i non giuristi - collocano spesso l’attività giuridica in un ambito improprio; cioè la considerano come la dimensione all’interno della quale il fatto riceverebbe uno dei più validi e autentici riconoscimenti della sua importanza e del suo carattere decisivo. Tuttavia è nota la tesi di Popper, per la quale la struttura del processo giudiziario è il modello dell’attività scientifica. Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi di Nietzsche, che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Ma tale corollario significa che alla base della scienza non esistono fatti, ma interpretazioni, e che tale circostanza rispecchia la struttura del processo giudiziario, sì che quest’ultimo - lungi dal presentarsi come il luogo in cui i fatti sono posti al di sopra di tutto, come fondamenti indiscutibili - è inteso invece come il luogo che si fonda su interpretazioni rivedibili e falsificabili. Gli estimatori dei fatti, che vedono nell’attività giuridica la più autentica valorizzazione dell ’infallibilità dei fatti, non si rendono conto che la scienza riconosce ormai senza complessi la propria fallibilità e che quando intende chiarirne il senso si riferisce proprio e precisamente all’analogia che sussiste tra procedura scientifica e procedura giudiziaria. L’analogia può essere così espressa: il sistema delle leggi scientifiche viene commisurato a un insieme di elementi che non sono fatti, ma interpretazioni di fatti; cioè risultati di decisioni che un gruppo qualificato di individui stabilisce di assumere come base (o come fatti) del sapere scientifico, in modo analogo alla commisurazione per la quale nel processo giuridico il sistema delle leggi viene applicato non a fatti incontrovertibilmente accertati veri, ma alla decisione di un gruppo qualificato di assumere un insieme di eventi come qualcosa di effettivamente accaduto. Il veramente accaduto è inesistente. Esiste veramente la decisione di assumere qualcosa come il veramente accaduto. Anche per questo motivo la storia di un popolo non può essere ricostruita in sede giudiziaria, appurando i fatti. Comunque, anche questa crisi della verità del fatto appartiene al processo, a cui prima ci si è rivolti, che conduce al tramonto inevitabile della tradizione e della tradizione giuridico-politica dell’Occidente, la tradizione dove il giudice è colui che mostra con autorità la Verità - giudice essendo parola composta da ius e dalla forma congetturale dix, riconducibile alla radice indoeuropea deic, che indica appunto il mostrare; sì che l’autorità del giudice gli deriva dal suo rapporto con la verità. È aH’interno della transizione inevitabile di cui stiamo parlando - cioè dalla vita alla morte della Verità e di Dio - che assume un significato particolarmente rilevante anche il tema della corruzione della società italiana e del conseguente conflitto tra magistratura e potere politico. In base a una logica diversa da quella che intende appurare i fatti, cioè in base alla logica dell’interpretazione, è possibile affermare che nella seconda metà del xx secolo è stata combattuta una lotta mortale tra capitalismo e socialismo reale, una lotta senza esclusione di colpi. Una situazione, questa, che, ovviamente, ha costretto ognuno dei due antagonisti a tenere nascosto all’altro l’organizzazione delle proprie forme di offesa e di difesa. Anche le società democratiche, dunque, sono state costrette, per evitare il suicidio, ad adottare questa strategia. Le democrazie parlamentari sono state cioè costrette ad agire in modo non democratico, giacché democrazia e trasparenza (e dunque quella trasparenza che avrebbe messo la democrazia nelle mani dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza democratica è il carattere pubblico delle decisioni essenziali di una società; e la democrazia, per sopravvivere, non poteva rendere trasparenti i propri piani di difesa e di offesa contro il socialismo reale. Ma questo clima di non trasparenza, di occultamento e di privatizzazione delle decisioni essenziali delle società democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire la corruzione. L’illegalità di alto profilo politico, cioè la necessità che per sopravvivere la democrazia agisse in modo non democratico, ha prodotto l’illegalità di basso profilo, cioè la corruzione per ottenere vantaggi privati, che ha accompagnato gli anni della guerra fredda (che si è prolungata sino ai nostri giorni e anche in futuro alimenterà il conflitto tra politica e magistratura) soprattutto in Paesi come l’Italia, più esposti al pericolo comunista sia per la loro posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti politici che in tali Paesi erano guidati dall’Unione Sovietica. La fine di quel gigantesco fenomeno che è stato il socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene al tramonto della tradizione occidentale - non ha lasciato il vuoto: sul terreno ha lasciato un gigantesco cadavere, con il quale ancora a lungo si dovranno fare i conti. Lo dicevo già, più di una quindicina d’anni fa, ben prima cioè che esplodessero i disordini nelle ex repubbliche dell’Urss. (Infinitamente più complessi di quelli, pur consistenti, che si devono fare quando un capofamiglia autoritario se ne va all’altro mondo.) Durante e dopo la guerra fredda c’è stato qualcuno che, pur di combattere il comuniSmo, ha agito illegalmente; e qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio personale da azioni illegali, ha combattuto il comuniSmo. È stata cioè di alto profilo politico l’illegalità che la democrazia è stata costretta a praticare per combattere il comuniSmo e per la quale la democrazia si è avvantaggiata, ad esempio, dell’aiuto di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più sicuro, dal punto di vista anticomunista, il sistema mafioso che non i partiti della sinistra italiana.) Anche la corruzione italiana (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi dell’Occidente democratico) è dunque una conseguenza della morte inevitabile della verità, del diritto naturale, di Dio. Da un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto consapevolmente in contraddizione con sé stesso; dall’altro lato, ha sopportato l’immoralità privata come tributo da pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed entrambi questi due lati si costituiscono perché, a differenza degli Stati totalitari, o etici, del fascismo, del nazionalsocialismo, del socialismo reale (che sono una versione secolarizzata e distorta del divino), la democrazia non crede più nell’esistenza di una Verità che regoli la vita sociale e individuale e che non possa essere in alcun modo violata. Come il giusnaturalismo sta al positivismo giuridico, così lo Stato totalitario, persuaso di possedere la Verità e di dover adeguare a essa la società, sta alla democrazia che si lascia la Verità alle spalle e si propone come procedura di per sé indifferente alla verità o falsità dei contenuti. Lo stato di cose che ho or ora indicato - e che a sua volta si presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà luogo a un dilemma.Da un lato il sistema vincente è stato la democrazia, o, meglio, il capitalismo, in quanto unito alla democrazia parlamentare. Esso ha vinto il nemico mortale. È una forza che non può quindi rassegnarsi a essere sottoposta al controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un controllo che non può tener conto, in quanto giuridico, della situazione storica eccezionale in cui il capitalismo democratico è venuto a trovarsi. È presumibile che, se questo controllo fosse condotto fino in fondo, il capitalismo italiano (e non solo) vedrebbe minacciata la propria sopravvivenza. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, il fascismo è caduto, Togliatti ha evitato che la burocrazia fascista - che in quanto funzionale allo Stato fascista aveva agito in condizioni di illegalità - fosse incriminata e giuridicamente perseguita. E si trattava di incriminare chi aveva perso; non, come invece è il caso della democrazia capitalistica, chi ha vinto lo scontro mortale e ritiene un’ingiustizia essere punito per un’illegalità funzionale alla vittoria. Come incriminare certi nodi cruciali dell’assetto capitalistico vincente, operando con criteri giuridici che si fondano sul principio fiat iustitia et pereat mundusì Ma, dall’altro lato, non può essere dimenticata la situazione drammatica del giudice consapevole della propria funzione, perché a sua volta egli è e si sente obbligato a procedere contro tutto ciò che gli appare come illegale. Sembra che sino a che in Italia non si farà luce su questo dilemma e non si prenderanno le decisioni richieste per operare una chiara distinzione tra illegalità di alto profilo politico e illegalità di basso profilo, si perderà anche di vista che lo scontro attuale tra politica e magistratura è l’epifenomeno di una frattura ben più profonda - che tuttavia non è qualcosa di statico, ma è in evoluzione, come ora proverò a precisare, ossia si trova anch’esso su un piano inclinato che porta al tramonto tutto quanto si muove lungo di esso. S. inizia queste riflessioni mostrando una sequenza dove ciò che dapprima si pone come scopo, diventa in seguito mezzo e strumento. Si era detto che nella tradizione occidentale (ma ormai ogni altra sapienza appartiene alla preistoria dell’Occidente) il regno della legge, fondato sulla Verità, è lo scopo della vita sociale e individuale. Ma la Verità tramonta. Restano, tra l’altro, una politica e un diritto che sono entrambi positivi. Ogni sapere e ogni azione ormai sono positivi - o è in quanto positivi che essi guidano la storia del mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire tradizionale tentano ancora di adeguare alla verità. Ogni grande forza oggi ancora in vita (sia essa una forza della tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto addio) ha questo tratto comune: di servirsi della tecnica. Ognuna intende servirsi della tecnica, che è lo strumento più potente oggi esistente. Anche la dimensione politica e la dimensione giuridica intendono servirsi della tecnica. Ma la tecnica guidata dalla scienza moderna è destinata a diventare, essa, lo scopo di tutte queste forze. Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la conflittualità che contrappone le une alle altre: dopo il socialismo reale, il capitalismo, la democrazia, il cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le diverse forme di umanesimo laico, e la stessa ideologia scientistico-tecnicistica (che non è più capace delle altre forze di cogliere l’essenza autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un principio di cui spesso ci si dimentica, e cioè che lo scopo di un’azione determina e stabilisce il senso e la configurazione di essa; sì che essa diventa qualcosa di diverso da ciò che essa era, se viene ad assumere uno scopo diverso da quello che inizialmente la definiva e stabiliva. Un diritto, o una democrazia, che si pongono come scopo della tecnica sono qualcosa di essenzialmente diverso da un diritto, o da una democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si costituiscono come mezzi per la realizzazione di tale scopo. Una situazione conflittuale, come quella che sussiste tra le forze di cui stiamo parlando, richiede che ognuna di esse miri non solo al potenziamento crescente dello strumento - la tecnica - di cui si serve per imporre i propri scopi su quelli antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento ottimale di tale strumento. Altrimenti soccombe. Ma quando ha di mira i due tratti che abbiamo indicato, essa è già sulla strada in cui, invece di assumere come scopo i propri valori, ha assunto come scopo la potenza dello strumento che dovrebbe realizzarli. Anche senza avvedersene, tende a uno scopo diverso. Anche senza avvedersene, sta diventando qualcosa di diverso da ciò che essa crede di essere. Andiamo verso un tempo in cui non saranno più la democrazia e il diritto a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua configurazione autentica, a servirsi, se ciò varrà ad accrescere la sua potenza, della democrazia e del dir itto. I due avversari che oggi si combattono - dimensione politica e dimensione giuridica -, e la cui lotta dà luogo al dilemma che sopra abbiamo considerato, sono pertanto destinati a riconfigurare il loro conflitto in relazione alla circostanza che tale conflitto tende a essere di retroguardia, cioè a non essere più una lotta tra scopi, ma tra mezzi che hanno lo stesso scopo: il potenziamento crescente della tecnica - di una tecnica che non è la tecnica che intesa in senso tecnicistico, scientistico, riduttivistico, merita di essere soltanto un mezzo, ma la tecnica riduttivistica che tende a dare sempre più ascolto alla voce essenziale del pensiero che porta al tramonto la tradizione dell’Occidente. Mostrando la morte di Dio e della verità tale pensiero mostra l’assenza di ogni limite all’agire dell’uomo e soprattutto a quella forma suprema dell’agire in cui consiste l’apparato scientifico- tecnologico: la forma di volontà di potenza a cui va già sottomettendosi ogni altra forma di volontà di potenza apparsa lungo la storia della terra. (Dopo di che sarà la volontà di potenza a dover dar conto di sé - giacché le considerazioni che ho sviluppato non intendono certo sostenere che la tecnica abbia l’ultima parola.) Tecnica e pluralità delle tecniche 1 La gente si accorge che le leggi difendono spesso gli interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se vogliono sembrare giuste. Però la gente crede ancora che ne sono fatte e se ne potrebbero fare di buone. Nelle scienze giuridiche tradizionali, buone e giuste sono innanzitutto quelle che rispecchiano la natura dell’uomo: leggi, appunto, del diritto naturale, per il quale la natura dell’uomo rispecchia a sua volta l’Ordinamento vero e divino del mondo, immutabile e inviolabile, portato alla luce dal pensiero filosofico sin dall’inizio della nostra civiltà e poi interpretato dal cristianesimo. Da uno-due secoli questa concezione giuridica è profondamente in crisi (sebbene non sia ancora morta). Si pensa cioè che non esista alcun diritto naturale e che ogni legge esprima un diritto positivo, posto, imposto dalla libera volontà dell’uomo. Anche alla radice di questa crisi si trova la filosofia, quella che mostra l’inevitabilità della morte di Dio e la conseguente morte di ogni natura che, in qualsiasi campo, intenda rispecchiare l’Ordinamento vero e divino della realtà. Anche il diritto (come la democrazia) diventa pertanto semplice procedura in cui può essere immesso qualsiasi contenuto - quello delle democrazie parlamentari, del capitalismo, del nazionalsocialismo, del socialismo reale, del cristianesimo, della grande e piccola criminalità. (La procedura correttamente praticata può anche sopprimere sé stessa.) Che una forza si imponga sulle altre non dipende dalla sua verità, ma, appunto, dalla sua forza. Con Natalino Irti, eminente giurista di grande e rara apertura filosofica, discuto da tempo questi problemi. Un nostro Dialogo su diritto e tecnica è stato ad esempio pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha pubblicato in seguito il volume Nichilismo giuridico (Laterza), sul quale tra i temi centrali figura una consistente ripresa della discussione avviatasi tra noi due. Gli sono grato della grande attenzione e stima che anche in queste pagine mostra nei miei riguardi - anche se mi sembrava di aver già risposto a quanto egli mi obbietta. D’accordo con me, sostiene che il diritto, ridotto a procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui l’essenza tecnica del diritto abbia già, di fatto, del tutto eliminato ogni diritto naturale e ogni Ordinamento vero e divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il passato sopravvive. Anche se è una foglia secca attaccata al ramo il punto è che può persino credere di stare alla guida del mondo - si pensi alle foghe secche che hanno determinato la vittoria di Bush alle elezioni americane. Per questo, da parte mia, si parla di una tendenza che, certo inevitabilmente, conduce dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto conduce alla civiltà della tecnica -, ma che ancora deve fare i conti con la sopravvivenza di fatto del passato. Per Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica almeno il capitalismo e le discipline fisiche e naturali. Non allunga l’elenco perché, credo, vede che, ad esempio, delle religioni, di certe forme dell’arte e della cultura, del comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati del comportamento umano non si può ancora dire che siano già tecnica. Nemmeno del capitalismo lo si può dire, che, proprio perché intende servirsi anch’esso, in quanto si serve, della tecnica, ne differisce. Non sono già tecnica: stanno diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi della tecnica come mezzo, sono infatti sempre più costrette ad assumere come scopo non più i valori che esse perseguono, ma l’efficacia del mezzo di cui si servono per realizzarli, la quale è pertanto destinata a diventare il loro scopo. Ma Irti, ritenendo che tutto sia ormai tecnica, mi dice che la tecnica si scompone nella pluralità delle tecniche, in modo che la tecnica a cui io penserei si svuoterebbe di ogni contenuto. Egli non tiene ancora presente che quando dico che la tecnica non mira a uno scopo specifico e escludente, ma all’incremento indefinito della potenza, intendo che la tecnica (a differenza delle forze che mirano a servirsi di essa) tende a far sì che gli scopi da essa realizzati non impediscano la realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza disponibile. Ad esempio tende a far sì che la produzione di farmaci che arricchiscono certe industrie non impedisca la produzione di farmaci non remunerativi ma indispensabili alla sopravvivenza di intere popolazioni; o che le istanze ecologiche siano soddisfatte evitando la catastrofe economica; o che le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non si limitino a vicenda. Irti vede solo lo scontro (il cui esito sarebbe imprevedibile) tra le forze che ormai sono già tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al di fuori e di contro alle tecniche specifiche, come astratta capacità di produzione. Io gli rispondo che non ho mai pensato a una tecnica siffatta e che lo scontro fondamentale è tra le forme meno potenti della tecnica e la tecnica moderna, cioè tra le forze del passato - fra cui il diritto naturale - che ancora tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi (illudendosi di dominarli), e l’inarrestabile tendenza di questi apparati a farsi strada e a diventare essi gli scopi di quelle forze detronizzandole. La tecnica moderna è il nostro destino perché è la forza oggi più potente, ed è la più potente perché avverte sempre più la voce della filosofia. Tale voce dice che davanti alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna natura da rispettare. Con ciò non si intende negare la presenza di qualsiasi forma di limite. Infatti, la tecnica si dà limiti che, pur non essendo espressione del diritto naturale, sono espressione del diritto positivo. E se in un primo tempo anche il diritto positivo può illudersi di assumere come mezzo la tecnica, nell’età della dominazione del senso autentico della tecnica nemmeno il diritto positivo può essere lo scopo che si serve della tecnica come mezzo, limitandone pertanto la potenza. Anche il diritto positivo è cioè destinato a diventare un mezzo che rende possibile il maggior incremento possibile della potenza tecnica. Il diritto positivo, peraltro, sa di non essere una verità necessaria, incontrovertibile; e quindi ancor meno della Verità della tradizione può avere la pretesa di porsi come scopo del potenziamento dell’apparato scientifico- tecnologico. In latino uccidere si dice anche mactare. Noi diciamo mattanza. In spagnolo uccidere si dice appunto matar. Ma la parola latina mactus significa ingrandito, rafforzato, innalzato, glorificato. Ha la stessa radice di magnus (grande): la radice indoeuropea magh, che è presente anche nel greco mechané (strumento). Una sorta di etimologia popolare latina sente in mactus qualcosa come magis auctus, cioè reso ancora più grande e più ricco. Su mactus si forma il verbo mactare, che significa appunto ingrandire, aumentare, glorificare, innalzare, e anche onorare, placare; ed è parola specifica del linguaggio dei riti, soprattutto di quello del sacrificio. Mactare sposta allora la propria mira dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis, rafforzare il dio con le viscere delle vittime del sacrifìcio), allo strumento del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora anche uccidere, ammazzare: accanto a mactare deum, compare mactare victimam. In qualche modo il linguaggio nasconde la violenza di cui parla; tenta di rovesciarla nel proprio opposto. Ma dai recessi dove il linguaggio costruisce le apparenze da cui sono guidati i mortali si deve risalire ben più indietro. Le trasformazioni del mondo gettano nel terrore i mortali. Essi sono appunto coloro che vedono le trasformazioni, cioè la morte delle forme. Fame e sazietà, freddo e caldo, dolore e piacere, tenebra e luce, comparire e svanire nelle costellazioni celesti, allegria e angoscia, vita e morte; e le metamorfosi dell’uomo in animale, insetto, pianta, roccia. Non appena il mortale si afferra a qualcosa, fuori o dentro di sé, le cose gli diventano altro da quello che sono. L’altro in cui si trasformano è l’imprevisto, dunque l’angosciante. Ci si difende dall’angoscia evocando come rimedio la forza più potente e rendendosela amica: la forza del dio. Agli occhi del popolo greco questo processo incomincia a mostrarsi nella sua intensità estrema: cose, eventi, stati incominciano a trasformarsi in quell’assolutamente altro che è il nulla. Al culmine della storia dell’Occidente, con la morte del vecchio Dio, si crede che la tecnica sia la forza più potente, cioè il dio, il rimedio efficace contro l’angoscia del divenir altro. La storia della fede nel divenir altro è la storia della Follia più profonda. Quella in cui si ha fede che una cosa sia il proprio altro, ossia ciò che essa non è, e infine si ha fede che le cose - gli essenti le cose che non sono un nulla - siano nulla. Affinché Dio ci salvi, bisogna che abbia forza. Bisogna che l’uomo la custodisca e l’accresca. All’inizio del rafforzamento umano del Dio domina il sacrificio: l’uomo offre al Dio sé stesso e quanto possiede. Poi il Dio è rafforzato vedendo in lui, con la filosofia, la forza che non si lascia strappare da sé, ed è quindi immutabile, eterna, e custode di tutte le cose che nella vicenda terrena son divenute cose morte. Anche in questo secondo caso - e proprio con l’intento di salvarsi dall’angoscia del divenir altro - l’uomo cede al Dio la propria eternità e immutabilità, il proprio essere.Un Dio che uccide, dunque - sia come Dio religioso sia come quel Dio tecnologico - che permane al di sopra del tempo degli individui, ma rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui. Da quando Feuerbach mette in tensione la sentenza di Moleschott: der Mensch ist, was er isst (l’uomo è ciò che egli mangia) con Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche Dio è ciò che egli mangia) il nesso tra ontologia e nutrimento - e tra nutrimento, sacrificio e annientamento - non ha più nulla di implicito. (Cfr. in proposito il saggio di Ines Testoni II Dio cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più importanti in questa direzione e che insieme si porta al di là dell’ontologia da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il diventare Dio esprime in forma positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale divenire è infatti un sacrificarsi al Dio. Hegel pensa che nella religione lo Spirito assoluto veda sé come Altro, ceda sé stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa tesi hegeliana pensando che è l’Uomo a cedere sé stesso al Dio. In entrambi i casi il Dio consuma l’essere dello Spirito assoluto e dell’Uomo. E anche Hegel e Feuerbach fondano l’alienazione dello Spirito e dell’Uomo sulla fede nel divenir altro. Tuttavia, in gran parte delle immagini del divino lo svuotamento dell’uomo che si aliena in Dio rispecchia lo svuotamento del Dio che crea e salva l’uomo e il mondo. Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la salvezza dell’uomo, che sta al centro del messaggio cristiano, sta al centro dei miti precristiani: la morte del Dio è creatrice del mondo. Il sacrificio del mactare victimam è preceduto dal sacrificio dove la vittima è il Dio (Prajapati, Dioniso, Cristo) che deve morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima, all’inizio del tempo umano, c’è la lotta tra il Dio e l’uomo, dove il Dio è il Tremendum la cui inflessibilità non lascia vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per vivere, deve farsi largo e abbattere la divina barriera inflessibile, ossia deve uccidere il Dio - giacché abbattendo la barriera e facendo sempre più arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando Dio nell’al di là e infine negandone l’esistenza) l’uomo uccide il Dio originariamente omicida (Cfr., ad esempio, E.S., L’intima mano, Adelphi). Particolarmente interessanti i rilievi critici rivolti a L’anello del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco Totaro. Qui rispondo brevemente solo ad alcune delle obbiezioni sollevate (Cfr. gli atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004 all’università di Macerata). Riprendendo un problema già sollevato in quel libro, Vitiello osserva che la volontà, che nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale rivuole il già voluto, non vuole al modo del precedente volere, e quindi ciò che ritorna non è l’uguale, ma un che di diverso. L’interpretazione dell’eterno ritorno data in quel libro non riuscirebbe quindi a mostrare l’inevitabilità di tale dottrina. Ne L’anello del ritorno si rispondeva anticipatamente a questa obbiezione dicendo che il ritorno dell’uguale non può essere il ritorno dell’assolutamente identico, appunto perché un qualcosa differisce dal ritorno di tale qualcosa. D’altra parte, Nietzsche fonda la necessità che tutto ritorni; e Vitiello non prende posizione rispetto a questa fondazione, ma si limita a indicare l’assurdo che scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia, per Nietzsche tale necessità sussiste nel senso che è necessario che ciò che nell’eterno ritorno ritorna assolutamente identico sia la totalità del contenuto voluto (la totalità che dunque è finita), ma non la forma del contenuto, cioè il ritornare di esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma, ossia Inattività del volere cresca all’infinito. E poiché nemmeno ogni nuova ripetizione può costituirsi come un così fu, cioè come un passato immutabile e indipendente dalla volontà, è necessario che ogni nuova ripetizione sia essa stessa eternamente ritornante e ripetuta, eternamente rivoluta: l’attività è eterna, scrive Nietzsche. Il contenuto ritorna eternamente, assolutamente identico; la forma cresce all’infinito e ogni sua nuova configurazione incomincia a ritornare, aH’infinito, e in questo senso eternamente essa stessa.) La critica di fondo sviluppata da Totaro nel suo confronto con L’anello del ritorno riguarda la tesi, fondamentale anche in questo libro, che anche per Nietzsche l’esistenza del divenire - inteso come venire dal non essere e ritornarvi, da parte degli enti - è l’evidenza suprema, la suprema verità. Nella sua forma più generale questa tesi dice che, nel proprio sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico degli ultimi due secoli (e Nietzsche è tra i pochi abitatori di tale sottosuolo) non intende essere un semplice scetticismo, relativismo, prospettivismo, ma intende essere anch’esso verità assolutamente incontrovertibile, ossia intende anch’esso come verità assolutamente incontrovertibile ciò che per l’intera cultura e anzi per l’intera civiltà dell’Occidente è la verità assolutamente e originariamente incontrovertibile: l’esistenza, appunto, del divenire, inteso nel modo indicato (e una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una verità assolutamente incontrovertibile è una forma di scetticismo). Anche per Nietzsche la rappresentazione del divenire è indubitabile. Totaro invece lo nega, sostenendo che anche per Nietzsche ogni rappresentazione, quindi anche la rappresentazione del divenire, è la posizione di un permanente cioè una inevitabile fissazione del divenire, una negazione di esso, un andare controcorrente rispetto al flusso del divenire. Sennonché - rispondo -, se per Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico- morali hanno questo carattere, non tutte le rappresentazioni lo hanno: per lo meno non l’ha quella rappresentazione che è la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo, giacché se qualsiasi conoscere avesse quel carattere, questa teoria non potrebbe nemmeno rappresentarsi il divenire come tale, cioè come quel flusso che viene fissato, negato da quel primo tipo di rappresentazioni controcorrente. È indubbio che in quella teoria il divenire è e appare come divenire, ossia è identico a sé e quindi permanente; ma se questa identità e permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno divenire e, questa volta sì, il divenire sarebbe negato e fissato nel suo non esser divenire. Come ho già detto altre volte, a partire da L’anello del ritorno, il Nietzsche che si mostra nella interpretazione offerta da questo libro ha la straordinaria potenza (insieme a pochi altri abitatori del sottosuolo essenziale del pensiero filosofico degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso dell’essere che guida la tradizione metafisico-morale dell’Occidente. Ammesso e non concesso che questa interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché violerebbe le proprie regole, bisognerebbe dire che allora (modestia invita, ma inevitabilmente, quella straordinaria potenza compete al Nietzsche arbitrario che appare ne L’anello del ritorno. Ho detto anche altre volte che il mio discorso filosofico dà anche una o due mani affinché il pensiero del nostro tempo mostri tutta la potenza che gli compete - lasciandolo poi al suo destino, che è quello di essere la forma più coerente della follia estrema del divenir altro. Le altre interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che stanno al suo passo) non mostrano questa coerenza e potenza. Restando ad esempio nell’ambito del convegno a cui ci stiamo riferendo, un altro mio critico, Umberto Regina, scrive che per Nietzsche Dio è impensabile perché non consente all’uomo di poter “sperare” di far suo tutto il mondo. Ma - osservo - questo discorso non intimorisce Dio, che, rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a fare a meno di queste sue speranze, come appunto incomincia ad accadere col Dio veterotestamentario, che a W’erimus sicut dii - in cui si esprime la speranza del primo uomo di far tutto suo il mondo -, risponde deludendolo, cioè cacciandolo dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si fonda su tale speranza - o sulle varie forme di prospettivismo - per far morire Dio è ben debole. Il Nietzsche de L’anello del ritorno ha invece la potenza di farlo morire per davvero. (Per mostrare, poi, che la filosofìa di Nietzsche non ha nulla a che vedere con le critiche ingenue che vengono rivolte al principio di non contraddizione, ma, come in Hegel, è una critica del modo inadeguato di intendere tale principio, è sufficiente pensare l’espressione l’eterno ritorno dell’uguale - die ewige Wiederkunft des Gleichen. Come prima si è richiamato, ritorna eternamente l’ identico contenuto - ritorna ogni cosa... e tutte nella stessa sequenza e successione, scrive Nietzsche nella Gaia scienza - e una cosa può essere identica, la stessa, solo in quanto non è le altre cose, ossia non è contraddittoria: ritorna eternamente l’incontraddittorietà di tutte le cose.) Si parla di governi tecnici e di tecnocrazia. Ma il senso conferito oggi a questi termini è essenzialmente diverso dalla più profonda dimensione tecnica sulla quale (ancora una volta) inviterei a riflettere. I governi tecnici - ad esempio quello sperimentato in Italia oppure, a livello europeo, il governo costituitosi con l’asse Sarkozy-Merkel - sono soltanto epifenomeni di quella dimensione: così come l’immoralità e l’indifferenza religiosa delle masse sono soltanto un epifenomeno della morte di Dio a cui si rivolge il pensiero filosofico del nostro tempo. Dal punto di vista etimologico, tecnocrazia significa, certamente, il kratos (il potere) alla tecnica. Ma per lo più questo termine ha il senso di un ottativo, di un’aspirazione o di una deprecazione: di un esortare verso la realizzazione o di rifiutare o far rifiutare qualcosa che si ritiene più o meno realizzabile, più o meno incombente. Si può andare più indietro di Veblen o Spengler: si può arrivare agli inizi dell’Ottocento, a Saint-Simon, il quale comincia a parlare di necessità, di doverosità, di opportunità di dare il potere alla tecnica. Invece quella più profonda dimensione tecnica a cui mi riferisco non è in alcun modo qualcosa a cui si invita, un progetto, una ricetta, un’esortazione o un rifiuto, ma ha il carattere di una descrizione, di una constatazione - che peraltro si trova su di un piano ulteriore, e se si vuole astratto rispetto a quello su cui di solito la riflessione fenomenologica si mantiene (un’affermazione, questa, che sottintende quell’elogio dell’astratto che Hegel invita a condividere). Nonostante abbia l’apparenza di un tema specialistico, il discorso sulla tecnocrazia negli anni Trenta coinvolge qualcosa di profondamente essenziale, che travalica i confini geografico-temporali indicati da quel discorso, fino a presentare, addirittura, un carattere planetario e a costituire una svolta in cui ne va delfintera tradizione dell’Occidente e dei suoi valori. Quel discorso coinvolge la dimensione tecnica, di cui abbiamo incominciato a parlare: in essa la tecnica appare come destinata al dominio del pianeta. La descrizione e constatazione di cui prima si è detto è descrizione di una destinazione, cioè di una necessità. Si tratta di capire in che senso queste affermazioni non siano un’esagerazione arbitraria e incomprensibile, e in che senso la tecnocrazia negli anni Trenta possa coinvolgere una destinazione di questa portata. Natalino Irti ha parlato dell’importanza di Ugo Spirito in relazione alla situazione italiana di quel tempo. Ma prima e alle spalle di Ugo Spirito c’è la figura decisiva di Giovanni Gentile. Questo apprezzamento può stupire, perché (a parte le riserve che si possono avanzare sul piano politico) non solo si riferisce a una forma culturale che spesso vien guardata con sospetto - cioè la filosofia -, ma anche perché si può dire che la filosofia contemporanea ignori quasi completamente il pensiero di Gentile (e in generale la filosofia italiana). Ignora, però, ciò che essa ha di più decisivo ed essenziale. Non solo: può sembrare anche molto strano che, a proposito di tecnica e tecnocrazia, si parli di Giovanni Gentile, visto che in Italia il pensiero di Gentile (ma anche quello di Croce) è stato considerato radicalmente avverso alla scienza e alla tecnica e quindi estraneo al nuovo clima culturale postbellico. Si tratta di capire perché questa prospettiva è completamente fuori strada. Si incominci a rilevare che, sebbene ignorato, il pensiero di Gentile afferma ciò che nel nostro tempo è affermato, si può dire, ovunque (sia pure con tonalità e reazioni diverse): che non esiste alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva al di là del mondo umano. Solo che, quasi sempre, questa affermazione non è altro che un dogma, un presupposto che vien dato per scontato, un’intuizione, un impulso, una fede, qualcosa che sta diventando senso comune; laddove il pensiero gentiliano (insieme a pochissime altre posizioni filosofiche) è la fondazione rigorosa di tale affermazione. Rigorosa, nel senso che è la più coerente al fondamento che è comune all 'intero pensiero dell’Occidente (quindi non solo alle prospettive della tradizione filosofica, artistica, religiosa che invece affermano l’esistenza di una Realtà immutabile e divina, ma anche alla prospettiva tecnico-scientifica). Tale fondamento è la convinzione che il divenire del mondo, il trascorrere delle cose dal non essere all’essere e daccapo al non essere, sia l’evidenza più indiscutibile e originaria. Gentile mostra che tale evidenza implica il divenire del Tutto. A questo punto, ciò che passa inosservato - per chi non sa scendere nel sottosuolo abitato dal pensiero di Gentile - è che la negazione fondata di ogni Immutabile è la negazione di ogni Limite assoluto e inviolabile che si innalzi di fronte all’azione dell’uomo e quindi a quella forma dell’agire umano, che oggi è la più potente, nella quale consiste l’agire della tecnica. Ciò significa che, di per sé, la tecnica non può sviluppare tutta la potenza di cui è capace, ma può svilupparla solo alla condizione che sappia ascoltare e capire la potenza concettuale di quel sottosuolo. È questo sottosuolo filosofico a dare potenza reale alla volontà di potenza della scienza e della tecnica. Appunto per questo vado ripetendo che solo apparentemente Gentile è stato fascista e che se c’è una forma di filosofia radicalmente opposta al fascismo essa è proprio la filosofia di Gentile. Il fascismo infatti, come ogni regime politico totalitario è uno degli Immutabili di cui il pensiero gentiliano ha mostrato l’essenziale impossibilità. L’impossibile è un sogno che per qualche tempo riesce a prevalere sulla veglia, ma dal quale è inevitabile che prima o poi ci si risvegli. Della fondazione gentiliana di questa impossibilità si può dare qui solo qualche cenno, formulandola in modo che possa venire alla luce la configurazione che è comune a tale fondazione e a quella operata dai pochi altri abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali Nietzsche e Leopardi). Gentile mostra che se esistesse una realtà immutabile - che quindi sarebbe una realtà esistente in sé stessa, al di fuori e al di là della nostra esperienza, cioè del nostro pensiero, indipendente da essa (e questo è il volto che il divino ha mostrato lungo la storia dell’uomo) -, il divenire delle cose, il loro uscire dal nulla e ritornarvi, non avrebbe quella serietà che invece gli compete per il suo essere l’evidenza originaria e suprema. Innanzitutto, se esistesse un Dio in cui ogni cosa è già contenuta prima ancora di essere prodotta o creata, allora l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo, sarebbe una semplice apparenza, non avrebbe serietà. Ma l’uscire dal nulla e il ritornarvi è l’evidenza e verità fondamentale (è, questa, la suprema certezza dell’Occidente, quindi anche di Gentile). Dunque non può esistere alcuna realtà e quindi alcuna verità immutabile e divina, esistente al di là dell’esperienza umana. Si può riproporre così questo tratto decisivo della coscienza contemporanea: sulla base della convinzione originaria che, evocata dal pensiero filosofico, sta al fondamento non solo delle forme religiose, della scienza moderna e di tutta la cultura occidentale, ma anche delle stesse opere e istituzioni dell’Occidente, sulla base dunque della convinzione che le cose del mondo umano oscillano tra l’essere e il nulla, è impossibile che esista qualcosa di assoluto, immutabile, divino, perché esso, precontenendo tutte le cose, avrebbe già riempito tutti gli spazi vuoti che sono richiesti dal divenire, ossia avrebbe già riempito quel non essere che (come gli antichi atomisti avevano compreso) è necessario che competa alle cose quando ancora non sono e quando non sono più. Un Dio immutabile (pieno, satollo, dice Nietzsche) e quindi una verità assoluta in cui questo Dio sia eretto sono la Legge alla quale sia il futuro sia il passato più lontani devono adeguarsi, sì che l’ormai nulla e l’ancor nulla non possono più rimanere un nulla ma diventano degli ascoltatori della Legge, cioè diventano qualche cosa di positivo, un essere. Questo, sommariamente richiamato, il tratto decisivo della coscienza moderna. Come già si è detto, esso è anche la distruzione di ogni Limite (Legge) all’agire dell’uomo e quindi all’agire della tecnica. La legittima a oltrepassare ogni limite. La legittima quindi - essendo essa l’agire che di fatto è il più potente nel mondo contemporaneo - a subordinare al proprio scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose, economiche, giuridiche ecc.) che invece intendono servirsi della tecnica per realizzarli. Col compiersi di tale subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano. Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente, la giustificazione di queste affermazioni (rinviando ai miei scritti per il suo senso concreto). Ci si rivolga innanzitutto a un concetto che pur essendo ampiamente presente anche nelle discipline scientifiche va però esplorato al di là delle prestazioni da esso offerte in quei campi. Mi riferisco al concetto di mezzo e di scopo. Lo scopo di un’azione determina il modo in cui essa si costituisce: ne determina il senso e l’essenza. Se si decide di uscire di casa (o di fondare un impero), il contenuto di questa decisione fa sì che si compiano certe azioni e non altre, diverse cioè da quelle che si compirebbero se si decidesse di rimanere in casa. Lo scopo determina la struttura dell’azione. Pertanto, se lo scopo di un’azione cambia, l’azione cambia, è un’altra azione anche se in certi casi si può credere che sia rimasta la stessa. La tecnica guidata dalla scienza moderna è il mezzo di cui si servono o si sono servite tutte le forze dominanti (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islam, comuniSmo e altri regimi totalitari ecc.). Intendono servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi, cioè per realizzare, ognuna prevalendo sugli scopi delle altre, un mondo capitalistico, democratico, comunista, islamico, cristiano ecc. E la tecnica è il loro mezzo: non esiste oggi uno strumento più potente della tecnica. Il teorema sul quale va richiamata l’attenzione è che le forme di azione che perseguono gli scopi rispetto ai quali la tecnica moderna è il mezzo insostituibile, sono costrette ad assumere come scopo lo scopo che è proprio della tecnica, mentre i loro scopi iniziali sono costretti a diventare mezzi del loro nuovo scopo. Le forze che si servono della tecnica sono infatti tra loro conflittuali. Il capitalismo è in conflitto con la democrazia (sia di tipo classico sia procedurale), la democrazia procedurale con il cristianesimo, il cristianesimo col capitalismo e col comuniSmo ecc. La democrazia intende porre dei limiti alla volontà di profitto privato; questa volontà non vuol farsi limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del bene comune; il cristianesimo e la Chiesa cattolica in particolare riconoscono al capitalismo il suo essere un mezzo di produzione della ricchezza più efficace dell’economia pianificata, e tuttavia gli ingiunge di assumere come scopo ultimo non il profitto privato, ma, appunto, il bene comune. In tale conflitto ogni forza mira quindi a che le forze antagoniste assumano come scopo uno scopo diverso da quello che le definisce e per il quale esse sono ciò che sono, e cioè mira a distruggerle. Quando la Chiesa dice al capitalismo di non assumere come scopo ultimo l’incremento indefinito del profitto privato, che invece deve essere soltanto un mezzo per realizzare il bene comune, essa sollecita il capitalismo a non esser più capitalismo. (E questo va detto anche riconoscendo che la Chiesa, spingendo oggettivamente il capitalismo al tramonto, non ha l’intenzione di distruggerlo e intende differenziare il proprio all’agire marxista-comunista, senza peraltro riuscirvi.) Nella conflittualità tra le forze dominanti, il mezzo di cui tutte si servono per prevalere sulle altre è oggi la tecnica: la tecnica, intesa in senso, per così dire, trascendentale, cioè come sistema dei sottosistemi (giuridico, sanitario, militare, burocratico, economico, scolastico ecc.) che coordinano razionalmente mezzi in vista della produzione di scopi tra loro non conflittuali. Ma, dato il rapporto conflittuale tra le forze dominanti, ognuna di esse, per prevalere sulle altre e non soccombere, è costretta a rafforzare sempre di più il mezzo di cui essa si serve, ossia la frazione dell’apparato scientifico-tecnologico da essa gestito. Questa volontà di rafforzamento del mezzo è crescente perché è continuamente alimentata dalla situazione conflittuale. Questa crescita toglie spazio, dunque, allo scopo iniziale di ognuna di tali forze; lo scopo di ognuna di esse viene cioè sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a essere completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale resta subordinato al nuovo e diventa un mezzo per la realizzazione del nuovo scopo. Ad esempio, se lo scopo è un mondo capitalista, allora, per realizzarlo vincendo le resistenze opposte dalle altre forze, è necessario che il capitalismo potenzi le possibilità tecnologiche di cui esso dispone; ma incrementando questo potenziamento è necessario che il capitalismo assuma come scopo non più soltanto l’incremento del profitto, ma l’incremento del potenziamento del mezzo tecno-scientifico. E come prima si diceva che quando la Chiesa esorta il capitalismo ad assumere come scopo il bene comune essa distrugge il capitalismo, così ora va detto che, quando l’area dello scopo del capitalismo a un certo punto viene completamente invasa dal potenziamento (promosso dal capitalismo stesso) dell’apparato della tecnica, la tecnica distrugge il capitalismo - appunto perché, assumendo uno scopo diverso da quello da cui è definito, il capitalismo non è più capitalismo (anche se si continua a chiamare con questo nome ciò in cui esso si è trasformato). E non più capitalismo anche quando l’area dello scopo capitalistico è anche solo parzialmente invasa. Quanto si è detto del rapporto tra capitalismo e tecnica va ripetuto anche in relazione a ogni altra forza oggi dominante. Le forze che non potenziano il proprio mezzo tecno- scientifico soccombono; ma soccombono anche le forze che prevalgono perché tale potenziamento l’hanno operato. Tuttavia il rovesciamento del rapporto tra tecnica e forze che se ne servono per realizzare i loro scopi dipende da una condizione decisiva. Sino a che gli scopi di queste forze sono da esse vissuti come imposti da una Verità immutabile e assoluta, esse eviteranno di alterarli e si opporranno al loro spodestamento da parte della tecnica. Ognuna di esse si farà spezzare piuttosto che piegarsi e la forza vincente della tecnica sarà giudicata illegittima, ingiusta, malvagia, prevaricante, tirannica, disumana, dissennata - priva di verità, appunto. E comunque, anche se non giungeranno a farsi spezzare, quelle forze renderanno il più possibile difficile il prevalere della tecnica e le imporranno, come Limiti che essa non deve oltrepassare, i valori della Verità in cui esse credono. (Limiti che non sono soltanto etico-religiosi, ma anche di carattere diverso, come quello economico. Ad esempio il capitalismo, oltre a porre come Verità assoluta e come Limiti inviolabili la proprietà privata e la libertà di intrapresa, proibisce alla tecnica di produrre beni che non possono essere venduti, o la cui vendita non produce un profitto ritenuto conveniente, anche se sono indispensabili alla sopravvivenza degli insolventi - e tale proibizione è inevitabile se il capitalismo vuol sopravvivere.) Ma oggi la fiducia nell’esistenza della Verità va tramontando. Questo è il clima che, procedendo dall’Occidente, sta diventando planetario - destinato com’è a travolgere fenomeni di crescente presenza del cristianesimo nei continenti extraeuropei. (Nell’Unione Sovietica i sacrifici richiesti ai cittadini potevano essere sopportati quando era più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una Verità assoluta e che quindi la produzione tecnico-economica della ricchezza dovesse innanzitutto servire alla promozione e difesa di tale Verità e non alla riduzione di quei sacrifici. Ma, quando questa convinzione è venuta meno, è venuta meno, oltre alla disponibilità dei cittadini al sacrificio richiesto per realizzare la società giusta e senza classi, anche la disponibilità dell’apparato tecno-scientifico a essere il mezzo per tale realizzazione.) Ora, il fuoco sotto la cenere del progressivo allontanamento delle masse dalla Verità, divina o terrena, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo (il sottosuolo abitato da pensieri decisivi come quelli di Gentile o di Nietzsche), dove - si è richiamato - si mostra Yimpossibilità di ogni Immutabile, quindi di ogni Verità immutabile, di ogni inviolabile Limite all’agire delfuomo e pertanto all’agire tecnico. E tale impossibilità è l’impossibilità che gli scopi delle forze ancora convinte di potersi servire della tecnica siano l’adeguazione dell’agire alla Verità immutabile, che ora (ma ancora, per lo più, sotto la cenere) si palesa come un sogno. La coscienza che l’Apparato scientifico-tecnologico ha ancora di sé stesso è ancora cenere, la cenere che copre il fuoco del sottosuolo, e quindi tende a essere ancora una fede nell ’inesistenza degli Immutabili e nella morte di Dio; ma, nella misura in cui quel fuoco si libera dalla cenere di tale fede, in questa misura la subordinazione della tradizione dell’Occidente (e del pianeta) alla tecnica è inevitabile. Si può richiamare un ulteriore aspetto del rovesciamento per il quale il potenziamento della tecnica diventa lo scopo delle forze che intendono servirsi di essa. Riguarda il rapporto tra capitalismo e tecnica - il capitalismo essendo ancora, nonostante la sua crisi profonda, la più potente delle forze che dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata la produzione dei beni di consumo e della ricchezza. A un aspetto soltanto di tale rapporto qui si farà cenno. Non può esistere capitalismo senza perpetuazione della scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente disponibile non è merce, non è vendibile, nessuno è interessato a produrlo o ad acquistarlo. E il capitalismo, essenzialmente legato alla perpetuazione della scarsità, si serve della tecnica per produrre merce. D’altra parte la tecnica, proprio in quanto mezzo, ha un proprio scopo fondamentale e supremo: l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi. Questo scopo non è escludente - a differenza degli scopi delle forze che si servono della tecnica. Non è escludente anche perché esso è un mezzo capace di realizzare gli scopi tra loro conflittuali perseguiti da tali forze. (Lo scopo del capitalismo è invece un mondo capitalistico e non comunista, e viceversa; lo scopo del cristianesimo è un mondo cristiano e non ateo ecc.) Ora, se per sopravvivere il capitalismo deve perpetuare la scarsità delle merci e si serve della tecnica - la quale ha peraltro come scopo fondamentale l’incremento indefinito della potenza, ossia della capacità di realizzare scopi -, va ora rilevato che l’incremento indefinito della potenza implica Veliminazione progressiva della scarsità. La situazione è cioè quella di un padrone che si serve di un servo il cui scopo è l’ehminazione del padrone. Il capitalismo si serve di un servo (la tecnica) che lavora per lo spodestamento del padrone. Nella dialettica di servo e padrone, Hegel mostra appunto che la storia è fatta dai servi: per servire il padrone essi devono acquistare competenze, sollevandosi quindi al di sopra di quelle del padrone; elaborano tecniche e conoscenze scientifiche, gestiscono e quindi si impadroniscono di quella potenza scientifico-tecnologica che finisce per rovesciare, il rapporto feudale servo-padrone. Ma, anche qui, il servo può rovesciare il padrone solo se non crede più che egli sia il portatore della Verità - solo se la tecnica non crede più che il capitalismo, quindi la perpetuazione della scarsità delle merci, sia la vera e insuperabile condizione umana. La contraddizione in cui consiste il rapporto fra forze che si servono della tecnica e tecnica si acuisce e diventa estrema quando cioè viene in luce che gli scopi delle forze che si servono della tecnica non hanno una Verità assoluta. E a portare alla luce la morte della Verità e di Dio non può essere la scienza o la tecnica (che quando tentano di farlo sono soltanto cattiva filosofia) ma, si è visto, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo. (Così come, d’altra parte, non può essere una fede a rifiutare quella morte e il principio che tutto ciò che si può fare sia lecito farlo.) Non ci si può dunque limitare alfawertimento che la tecnica non ha limiti. Il sapere che dà questo avvertimento è innegabile - è il sottosuolo di cui stiamo parlando -, solo in quanto mostra che è sul fondamento di ciò in cui da ultimo credono sia gli stessi difensori dei Limiti sia la tecnica stessa, è su tale fondamento che viene affermata l’assenza di Limiti. Da ultimo sia la tecnica sia i difensori dei Limiti all’agire dell’uomo credono, appunto, nell’esistenza dell’agire. Lo si crede lungo l’intera storia dell’uomo. Si crede che le cose possono essere smosse, controllate, prodotte, create e distrutte. Per la prima volta il pensiero greco intende la creazione (produzione) come l’uscire dal non essere e la distruzione come annientamento. Pensando per la prima volta l’essere e il niente conferisce un senso ontologico al creare e al distruggere. In modo sempre più diffuso lungo la storia dell’Occidente si crede che l’agire sia creare e distruggere in senso ontologico. Se non credesse in questo senso della creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente non esisterebbe: non esisterebbe, in esso, azione (umana o divina o della natura), quindi non esisterebbe nemmeno azione tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono nel senso ontologico dell’agire anche quando sono convinte di non aver nulla a che vedere con l’essere e il niente. Nel suo senso più alto e autentico, la tecnocrazia è l’ascolto, da parte della tecnica, della voce del sottosuolo filosofico del nostro tempo - della voce che, sul fondamento della convinzione che l’agire esiste secondo il senso ontologico evocato dall’Occidente, fa sentire l’impossibilità dell’esistenza di un Limite assoluto all’agire così inteso, che peraltro è la forma radicale dell’agire. Nella misura in cui la tecnica dà ascolto a quella voce (e tale ascolto è un processo in corso, che ancora fatica ad affermarsi), lo scopo della tecnica, ossia l’incremento indefinito della potenza, è destinato al dominio del mondo, cioè a presentarsi come lo scopo delle forze che ancora vogliono servirsi della tecnica, trattenendola al ruolo di semplice mezzo. Poiché Gentile è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo il tema della tecnocrazia negli anni Trenta non solo non ha carattere specialistico, ma coinvolge, come si è già rilevato, il problema centrale del nostro tempo: dove sta andando il mondo? Ma, ora, si aggiungeranno soltanto alcune sottolineature e alcune precisazioni - rinviando al modo in cui nei miei scritti si configura l’affermazione che il mondo sta andando verso la dominazione della tecnica. (E comunque, si ripeta, non si tratta di consigliare al mondo dove debba andare, ma di osservare dove è destinato ad andare. È patetico voler dire ai popoli quello che devono fare: si tratta invece di capire che cosa sono destinati a valere e a fare.) Nel suo significato più profondo la tecnica non ha nulla a che vedere con la concezione scientifico-tecnicistica della tecnica (e tanto meno con i governi tecnici di cui oggi si parla). Mostrando l’inesistenza di ogni Limite inviolabile, il sottosuolo filosofico del nostro tempo non solo legittima la volontà di potenza della tecnica e il suo oltrepassamento di ogni limite, ma li rende possibili. Se non si sa di avere in mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si vince. Di qui (anche di qui) il carattere radicalmente pratico del pensiero filosofico, ossia di ciò che è il più astratto. L’ascolto della voce del sottosuolo, da parte della tecnica, è un processo in atto che ancora è ostacolato dalle voci della superficie. La voce autentica dice che il vero tramonto degli Immutabili è dovuto alla necessità che la loro esistenza renda impossibile quel nulla del futuro e del passato, quel senso ontologico del divenire che ormai ovunque è considerato come l’evidenza suprema. La potenza della tecnica è dovuta al carattere pratico del sottosuolo filosofico, non alla praticità del sapere matematico (o fisico-matematico) che sta al cuore della tecnica. Il che va detto anche se oggi questo secondo carattere è il fattore per il quale la tecnica ha più potenza di altre forze. Tale maggior potenza è però una situazione storica contingente, perché se accadesse nuovamente che pregando si muovano le montagne e le si muovano più di quanto la tecno-scienza riesca a muoverle, allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica ma quella pregante, destinata dunque essa al dominio del mondo (e, certamente, diversa da quella che si rivolge alfimmutabile Verità di un Dio). Se la dimensione economica - la più potente delle forze che si servono della tecno-scienza - domina ormai la politica e le strutture statuali (si pensi al peso che grava su di esse in forza della globalizzazione capitalistica), ora è la stessa economia che sta per essere oltrepassata dalla tecnica. Non nel senso che non esisterà più economia, ma nel senso che, mentre per il capitalismo la tecnica serve per incrementare il capitale, si sta andando verso un tempo in cui il capitale servirà per incrementare la potenza tecnica. E l’uomo? Molte, le voci che accusano la tecnica di essere disumanizzante. Ma che cos’è l’uomo nella cultura occidentale, ormai planetaria? Al di sotto delle molteplici definizioni dell’esser uomo agisce un tratto a esse comune - e decisivo -, per il quale l’uomo è un centro di forze cosciente, capace di organizzare mezzi, in vista della produzione di scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende essere questo centro. Il mistico è infatti il supertecnico: apre le braccia alla suprema e infinita potenza di Dio e crede, lasciandosi invadere da essa, di poter essere estremamente più potente deWhomofaber spesso dimentico di Dio.) Ma la definizione dell’uomo come centro cosciente di forze, capace di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, è la definizione stessa della tecnica. E allora non si dovrà forse dire che la tecnica è Yinveramento massimo dell’uomo, ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria essenza più profonda, così come, nel tempo che precede la morte di Dio, è nella potenza, ossia nella tecnica divina che l’uomo trova e vive il più profondo esser sé stesso? Anche Dio è stato l’inveramento massimo dell’uomo, perché l’uomo, che da principio chiede a Dio di salvarlo, poi si rende conto che per essere salvo deve essere innanzitutto salvaguardata la potenza del Salvatore, perché se Dio diventa un mezzo nelle deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza, allora anche Dio in quelle mani diventa un debole strumento di salvezza. Nello stesso modo, quando l’uomo si rivolge alla tecnica per essere salvato, e dopo averla assunta come mezzo nelle proprie mani si rende conto di poter esser da essa salvato solo se egli non assume come scopo la propria salvezza ma il potenziamento dello strumento salvifico, allora egli trova e vive nella Tecnica il più profondo esser sé stesso. E lo trova e lo vive solo se la tecnica si è posta in ascolto del sottosuolo essenziale del nostro tempo. La discrasia tra tecnica e uomo - la disumanizzazione dell’esistenza da parte della tecnica - riguarda quindi le diverse concezioni ideologiche dell’esser uomo, cioè l’uomo cristiano, l’uomo capitalista, comunista ecc.; non riguarda il tratto essenziale che è a esse sotteso. Tale tratto dice che l’uomo è azione, prassi, volontà cosciente e convinta di avere la capacità di trasformare le cose fino a farle diventare, da nulla, essenti e, da essenti, nulla. L’uomo ideologico viene certamente messo da parte dalla tecnica autentica, che ascolta il sottosuolo. La tecnica non ha come scopo il benessere o la felicità dell’uomo, ma quel potenziamento indefinito di sé stessa che peraltro dà all’uomo più benessere e felicità di quelli che egli otterrebbe se essi fossero lo scopo del suo agire. Sì che egli è messo da parte non come tratto comune ai diversi modi ideologici di intendere l’uomo, ma, appunto, come uomo ideologico che, da scopo, diventa mezzo per l’aumento indefinito della potenza tecnica. Anche la scienza e la tecnica sono ideologie, cioè non sono verità incontrovertibili, ma sono le ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo filosofico che conferisce loro l’effettiva potenza sia, ormai per l’intero pianeta, e più o meno esplicitamente, la suprema e unica verità incontrovertibile. A questo punto è possibile intrawedere Yinizio del sentiero che conduce a un Sottosuolo essenzialmente più profondo di quello di cui si è parlato sin qui. Si può esprimere così tale inizio. In quanto unita al sottosuolo filosofico del nostro tempo, la tecno-scienza non è scetticismo ingenuo, appunto perché in questa unione si nega l’esistenza non di ogni verità, ma di ogni Verità immutabile che stia al di là di ciò che nel sottosuolo appare come l’unica verità incontrovertibile: l’agire del divino, dell’uomo, della natura, cioè l’oscillazione delle cose tra il loro non essere e il loro essere, per la prima volta evocata dal pensiero filosofico greco. Del carattere pratico della filosofia che abita il sottosuolo del nostro tempo, si è già detto. Ma quella evocazione ha un carattere pratico ancora più decisivo, perché solo se si crede nella disponibilità delle cose al loro oscillare tra il non essere e l’essere è possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che è l’agire in senso ontologico. L’evocazione greca di tale senso è il luogo nel quale soltanto è potuta e potrà crescere l’intera storia dell’Occidente. Tuttavia, se ovunque si è convinti della verità incontrovertibile di quel luogo, perché tale convinzione è verità incontrovertibile? Questa domanda suona assolutamente strana. Non è forse ovvio, e sin dagli inizi dell’uomo, che l’agire esiste e che le cose vanno dal non essere all’essere e viceversa? Non si perde tempo a prenderla in considerazione? È inevitabile che sembri strana. La si ascolta infatti stando all’interno del luogo che da tale domanda è messo in discussione. Ma perché è necessario rimanere all’interno di quel luogo? Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza Se spesso gli storici del pensiero filosofico vedono gli alberi - come si suol dire - ma non la foresta, non è certo questa una critica che si possa muovere all’imponente e poderosa ricerca di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri 2002). Egli mostra come il pensiero di Nietzsche sia potentemente unitario e come in esso le variazioni non siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto tempo prima che lo si capisse - e non è che oggi tutti l’abbiano capito. Sono d’accordo con Losurdo anche nell’individuazione del tratto o elemento che determina il carattere unitario del pensiero di Nietzsche. Egli considera Nietzsche filosofo totus politicus, ma questa espressione non riduce il suo pensiero alla dimensione specialistica della politica: all’opposto, intende “salvare” il filosofo nella sua interezza, cioè nella sua volontà di abbracciare e comprendere la realtà nella sua totalità e nel suo assillo di intervenire attivamente su di essa (p. 900). Solo non rimuovendo l’elemento che l’attraversa in profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia militante della rivoluzione e della modernità, è possibile cogliere l’unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna coerenza ( Ibid .). Losurdo scorge che per Nietzsche la modernità e la rivoluzione hanno un inizio lontanissimo nella storia dell’Occidente: incominciano con Socrate; e, da ultimo, il loro avversario autentico, al di sotto delle sue molteplici forme, è l’innocenza del divenire - quella in cui forse vive il più antico uomo greco, l’uomo dionisiaco, e nella quale intende consapevolmente abitare il superuomo annunciato da Nietzsche. Il divenire è innocente quando, liberato da ogni Verità assoluta e da ogni Dio immutabile che intendono assoggettarlo, è liberato anche da ogni colpa che gli deriverebbe dal suo non adeguarsi alle Leggi vere e divine. Il quadro presentato da Losurdo è tra i più fedeli e pregevoli. Ma quando si mostra il corpo di un lottatore, la rappresentazione è concreta - ossia non è un semplice dipinto -, quando riesce a mostrare la forza del lottatore, cioè la sua effettiva capacità di vincere gli avversari. Nietzsche appartiene al ristretto gruppo dei grandi lottatori che riescono a distruggere i nemici del divenire, i nemici che formano l’intera tradizione dell’Occidente. La ricerca di Losurdo è quanto mai pregevole, ma ancora non dà a Nietzsche quel che è di Nietzsche, cioè la sua straordinaria potenza speculativa, che esige di essere riconosciuta anche aH’interno della riflessione storica. Per cogliere tale potenza bisogna fare i conti con coloro che a essa si sono esplicitamente rivolti. Per esempio Heidegger. Ma qui sarebbe modestia fuori luogo se non mi riferissi anche a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei Losurdo a riflettere - anche perché la scansione meno convincente del suo libro è proprio data dal modo in cui egli fa rientrare il tema deH’eterno ritorno nel Nietzsche totus politicus che lotta per la salvaguardia dell’innocenza del divenire. Losurdo, giustamente, dà valore al modo in cui Nietzsche intende sé stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha posto al di sopra di tutte le proprie dottrine quella dell’eterno ritorno. Sembra che a questo fatto Losurdo non dia il peso dovuto e che, anche lui, si ritragga dal problema. Che certo, è gigantesco: il divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un ritorno eterno! Ancora non si comprende che tale dottrina non è una stranezza, ma, come Nietzsche stesso asserisce, è quella nuova conoscenza che è necessità suprema, innegabile e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta asserirlo: bisogna mostrarlo in concreto. Nietzsche l’ha potentemente mostrato, mostrando l’implicazione necessaria tra divenire e eterno ritorno. Anche lo storico ha il compito di non nascondere tale potenza. Soprattutto la filosofia è equivocabile. Rivolge lo sguardo verso temi che tutti credono di conoscere. Grandi filosofi sono anche straordinari scrittori e, tra chi li legge, si crede che accostandosi al linguaggio letterario si abbia in mano il suo senso filosofico. Quasi sempre i mass media comunicano tesi, dominati dalla convinzione che ogni tentativo di discuterle le sbiadisca, le tolga di scena, le indebolisca. E invece c’è filosofia solo quando le tesi sono radicalmente discusse, fondate, argomentate. Si potrebbe continuare a lungo. Bene ha fatto dunque Luciano Canfora a riconsiderare (Corsera, 11/1) gli equivoci che possono nascere intorno alla filosofia di Nietzsche. Sostiene che i grandi pensieri hanno a che fare con le loro conseguenze; ad esempio il Vangelo con la storia della Chiesa; Marx con l’Unione Sovietica, Nietzsche con il nazionalsocialismo e il razzismo. Ma quasi a parare l’obbiezione che la luce del sole ha a che fare sia con l’azzurro del cielo sia con la putrefazione dei cadaveri, Canfora richiama il fatto che in Nietzsche i valori dell’uguaglianza (morale del dovere, democrazia, socialismo) sono rifiutati. E il fatto c’è indubbiamente. Tuttavia questi valori - che in parte sono anche cristiani - hanno a loro volta a che fare con le loro conseguenze, tra le quali le crociate, il periodo del terrore durante la rivoluzione francese, la stessa rivoluzione sovietica e il comuniSmo, la soppressione fisica di chi, di volta in volta, è stato ritenuto immorale. Nessuno è innocente, nemmeno i nemici del superuomo di Nietzsche. È però necessario che si capisca perché Nietzsche abbia questi nemici. Non si può affermare che egli è un ribelle aristocratico (Canfora riprende l’espressione dal libro di Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si dice che il nostro calzolaio vota per questo o quell’uomo politico (con tutto il rispetto per i calzolai). Si deve invece capire quale fondamento filosofico abbia condotto Nietzsche a quell’atteggiamento. Egli si ribella all’intera tradizione occidentale, perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo, ripeto da tempo, che si facciano o si siano fatti sforzi consistenti in tale direzione. Heidegger ha sostenuto che Nietzsche è rigoroso come Aristotele. Sono d’accordo. Ma si tratta di capire perché lo sia. In Nietzsche, si crede, c’è tutto e il suo contrario. Un eminente illogico. (Anche Leopardi è stato trattato come un dilettante che andava compitando la filosofìa. Il fatto è che quelli che lo leggevano, non capivano.) Se il nostro calzolaio si contraddicesse come spesso si crede che Nietzsche si sia contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le scarpe. Nel suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che giustamente è assunto da Canfora come affidabile punto di riferimento nel problema- Nietzsche) scrive, della Nascita della tragedia di Nietzsche: Per quel che concerne la logica, quale migliore propedeutica si potrebbe consigliare di questo immaginario antihegeliano per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema degli opposti?. La nietzschiana morte di Dio che sta alla base del superuomo appartiene al significato essenziale dello stesso pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la cultura) contemporanea. (A tale significato appartiene anche quel Gramsci che incautamente sardonico riconduceva il superuomo di Nietzsche al conte di Montecristo e ai romanzi di appendice.) Nietzsche rifiuta i valori dell’uguaglianza perché essi sono legati al Dio che muore. Ma, soprattutto qui, si tratta di capire perché egli annuncia la morte di Dio. Rawls, Hegel, Kant John Rawls è molto conosciuto in Italia per iniziativa meritoria di alcuni studiosi come Salvatore Veca, Sebastiano Maffettone e altri. Nel 1982 Feltrinelli aveva pubblicato Una teoria della giustizia, l’opera maggiore di Rawls, e le sue Lezioni di storia della filosofia morale, apparse negli Stati Uniti nel 2000. Sono una gradita sorpresa soprattutto per l’ampia e approfondita attenzione che dedicano a grandi figure della filosofia moderna come Leibniz, Hume, Hegel e soprattutto Kant. Un riconoscimento dell’importanza della filosofia, osserva giustamente Veca nella Nota all’edizione italiana, non abituale nella tradizione che per mera convenzione possiamo chiamare analitica, entro cui la ricerca e l’insegnamento di Rawls si situano. Lo stesso Rawls riconosce le radici kantiane di Una teoria della giustizia, ma queste Lezioni si spingono sino ad affermare che lo stesso Hegel è un liberale riformista moderatamente progressista, che si muove lungo quella linea del liberalismo della libertà che da Kant (senza escludere Mill) giunge a Una teoria della giustizia. Rawls può sostenerlo, perché è convinto che buona parte della filosofìa morale e politica di Hegel possa reggersi da sola, cioè indipendentemente dal suo fondamento metafisico-speculativo. E, certo, qui c’è molto da discutere, anche perché è poi lo stesso Rawls a coinvolgere quel fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di Hegel. È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte più ampia e centrale di queste Lezioni, dedicata a Kant. Il gesto essenziale di Kant consiste infatti nel porre la filosofia morale e politica come, appunto, una dimensione indipendente dalla metafisica. Primato della ragion pratica. Non a caso, un saggio di Rawls tradotto recentemente in italiano da Edizioni di Comunità è intitolato Vindipendenza della teoria morale. Non sembra tuttavia che Rawls risolva il problema relativo alla genesi del teorema del primato della ragion pratica. In Kant questo teorema presuppone la critica del sapere metafisico. Se questa critica cade, cade anche quel teorema. Ad esempio non si potrà più dire che 1’esistenza di Dio, f immortalità delfanima, la libertà sono postulati della ragion pratica e non verità metafìsiche. Ma Fidealismo classico - Schelling, e Hegel in particolare - ritiene di aver messo in luce i presupposti arbitrari e da ultimo contraddittori che stanno alla base del rifiuto kantiano del pensiero metafìsico. Questa convinzione delfidealismo non è cosa da poco - e soprattutto non può esser messa da parte perché sembra trovarsi in contrasto col sapere scientifico. Purtroppo Rawls non entra in questo tipo di problemi. E questo può essere il limite (del tutto comprensibile) di questo suo magistrale interesse - per molti imprevedibile - per le grandi forme del pensiero filosofico.Possiamo riassumere la filosofìa di Bergson in una singola idea: il tempo è reale. Lo afferma Leszek Kolakowski alfinizio del suo studio del 1985: Bergson (Palomar dialoghi, che ricostruisce il pensiero di Kolakowski, dedicato soprattutto alla storia critica del cristianesimo e del marxismo). Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione il tempo è reale non suona particolarmente illuminante, originale o stimolante, essa è invece il nucleo di una visione del mondo del tutto nuova, perché dire che il tempo è reale equivale a dire che il futuro assolutamente non esiste - e questa tesi è invece stata in vari modi negata nelle forme di pensiero che credono in una qualche forma di anticipazione del futuro. In questa pagina Kolakowski si riferisce al determinismo e alla fisica, ma sa bene che per Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente e immutabile è un modo di affermare l’anticipabilità del futuro. L’implicazione tra realtà del tempo e assoluta inesistenza del futuro è indubbiamente decisiva, come appunto ritiene Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa sull’esigenza di prendere sul serio il senso del tempo, non è solo di Bergson, bensì è il tratto fondamentale del pensiero del nostro tempo. Non a caso Gentile parla di serietà della storia: la storia è seria, e va presa sul serio, precisamente nel senso che essa non può esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della tradizione) la anticipi. Si vuole andare alla radice di questa volontà di serietà? Si incontra Nietzsche, e, ancor prima, la straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione platonica dell’idea, la quale è il prototipo di ogni volontà di anticipare il futuro, negando la serietà del divenire e del tempo. Nel suo testamento Bergson, ebreo, scrive che si sarebbe convertito al cattolicesimo se non avesse visto l’ondata formidabile di antisemitismo che sta irrompendo sul mondo. Un gesto di grande nobiltà. Ma nel 1914 il Sant’Uffizio aveva messo le opere di Bergson all’indice dei libri proibiti e Kolakowski ricorda che tutti i principali filosofi tomisti francesi, con Maritain in testa, pensavano fosse Loro dovere combattere la dottrina bergsoniana. E Sant’Uffizio e filosofi tomisti coglievano nel segno per quanto riguarda il rapporto tra filosofia di Bergson e dottrina ufficiale della Chiesa. Alla fine della sua vita Bergson si è sentito cattolico. Ma non ha rinunciato alla propria filosofia, che in sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla libera creatività di un agire, soprattutto per il quale il futuro è del tutto inanticipabile. Un agire senza scopo (come pensa Nietzsche), che solo dopo aver agito può scoprire dove è arrivato e che cosa ha prodotto: una negazione radicale, questa, del Dio della tradizione cristiana. Tuttavia, anche se ancora si stenta a capirlo, il cristianesimo del futuro dovrà dare sempre più ascolto al pensiero che tien ferma la serietà del tempo. In questo processo (dove tramonta la forma tradizionale del cristianesimo), dopo la consonanza tra il movimento cattolico del modernismo e la filosofia di Bergson, quest’ultima, insieme alla maggior parte della filosofia del nostro tempo, sembra destinata - ma non certo nel futuro prossimo - ad attrarre nuovamente su di sé l’attenzione della cultura cristiana. Non vi sono tesi somme, ossia principi, verità eterne che sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo rifiuto, ormai, non sono soltanto le forme filosofiche del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione dell’uomo, dunque anche a sé stessa -, ma anche, e da tempo, la scienza, nella misura in cui essa si libera dalla illusione di essere, oltre che potente, assolutamente vera. La frase riportata all’inizio è contenuta nei Contributi alla filosofia (Beitrdge zur Philosophie), composti da Heidegger tra il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel 1989 (Adelphi). Nonostante le profonde e suggestive innovazioni rispetto a Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel rifiuto di ogni tesi somma e di ogni verità eterna e soprastorica. In Essere e tempo si dice: Che ci siano delle “verità eterne” potrà essere concesso come dimostrato solo se sarà stata fornita la prova che l’Esserci era, è e sarà per tutta l’eternità. Finché questa prova non sarà stata fornita, continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie. Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che l’uomo (l’Esserci) è eterno - eterno non semplicemente immortale -, sarà solo una fantasticheria parlare di verità eterne. Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l’uomo (come ogni cosa del mondo) non è eterno e che quindi quella prova non potrà mai esser data - per Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato e agito da quando, all’inizio della storia dell’Occidente, è apparso il senso del tempo e dell’eterno. Che nessuna cosa con cui l’uomo abbia a che fare sia eterna è diventata ormai la convinzione più profonda e scontata anche presso la gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita di tempo. Il tempo perduto - che fortunatamente ha forme diverse - i miei scritti l’hanno aumentato di molto, mostrando invece che lo splendore delle cose (anche di quelle terribili) è infinitamente più luminoso di quanto si sia disposti ad ammettere. Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che non solo l’uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose: situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la storia, è il comparire e lo scomparire degli eterni. E la necessità che ogni cosa sia eterna è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella prova dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà mai esser data. Dall’inizio alla fine il tema di questo pensatore è stato la domanda dell’Essere ( Seinsfrage ). La domanda - che continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L’Essere non è l’ente, non è alcuno degli enti (case, fiumi, stelle, pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che è e che è questo e quest’altro. Qual è il senso di questo è - ecco la domanda dell’Essere -, da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofìa è stata, per Heidegger, riflessione sul senso dell’ente, ossia è stata pensiero metafisico, e ha quindi velato la domanda dell’Essere, pur dando vita alla storia dell’Occidente. Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla sommità del pensare, ma non per questo è una tesi somma, una verità assoluta. Essa è storica. Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il superuomo, ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la capacità di costituirsi come l’autentica domanda dell’Essere, ma solo il carattere di pensiero transitorio, che ai fini della comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il tracciato del pensiero metafìsico, e i cui sforzi saranno un giorno superflui e ricadranno nell’accidentale (p. 419). In una conferenza pubblicata nel 1964, e intitolata La fine della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà che al proprio pensiero non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione pubblica dell’epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica, e che il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient’affatto fondante, giacché gli basta risvegliare una disponibilità dell’uomo per una possibilità, i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto. Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente dichiara, espressione di una falsa modestia, giacché quell’oscurità e incertezza, quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non sono per lui semplici caratteri della scrittura dell’individuo Heidegger, ma sono insieme, e addirittura, il modo in cui l’Essere stesso si vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo stesso si può dire di quella superfluità e accidentalità che nei Contributi Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una filosofìa che vorrebbe allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute alle carenze di un certo individuo, ma sono le difficoltà in cui le cose stesse si trovano. Ma queste non sono tesi somme? Destano sorpresa anche molte delle tesi, peraltro suggestive, che si incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo più in là di quanto secondo lo stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio le tesi dei venturi, dell’ultimo Dio (Quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano), del modo in cui l’Essere - vibrando, oscillando - si appropria del mondo. Heidegger intende rovesciare la metafisica senza abolirla (e il timbro della sua filosofia è fortemente neoplatonico), senza cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l’Occidente e ormai il pianeta: la fede che l’uomo e le cose non sono eterni. Tra i temi più in vista e operanti, nei Contributi, quello del creare, è essenzialmente metafìsico. (Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e crea-tori, perché di costoro ha bisogno la sua essenza?) Ma - dico - nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E dell’Essere stesso Heidegger esclude che sia eterno. L’Essere stesso è storico. Ma questa fede nella non eternità di ciò che è non esprime forse la follia estrema? Non pensa forse che ciò che è, non è (appunto perché non è eterno)? Che il non niente è niente? Che gli esseri sono nulla? Certo, questa non è come la domanda di Heidegger. Qui la Risposta - positiva - è già da sempre data e non da uno di noi, ma dalla Necessità, e rende possibile ogni domanda. Fenomenologia e libertà La distruzione della tradizione filosofica occidentale, compiuta da Heidegger, non ha un significato semplicemente negativo. Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad Aristotele. Piuttosto egli intende portare alla luce la dimensione implicita che rende possibile il loro esplicito dire. In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro, ahimè così antico da essere stato la mia tesi di laurea, composta negli ultimi anni Quaranta, discussa nel 1950 e in quell’anno pubblicata (e ripubblicata poi da Adelphi, insieme ad altri miei scritti di quel tempo, col titolo Heidegger e la metafisica). Ricordo queste cose per un certo e spero scusabile compiacimento da me provato leggendo l’imponente lavoro del filosofo tedesco Gunter Figai, ( Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, il melangolo 2007), che si muove sostanzialmente nella direzione di quel mio libro, vecchio, ma che ritengo tuttora valido nelle sue linee essenziali. Non intendo ovviamente confrontare l’esperienza filosofica di un ragazzo con il lavoro maturo di uno studioso di grande serietà (e tanto meno vantare priorità). Ma in filosofia hanno la preminenza i concetti, in nome dei quali vorrei dire a Figai, tra l’altro, che il suo modo di intendere la distruzione dell’ontologia tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe ulteriormente rafforzata se anch’egli avesse richiamato quegli avvertimenti quanto mai sintomatici e abbastanza frequenti di Heidegger, nei quali, già a partire da Essere e tempo, egli dichiara che la propria indagine fenomenologica non pregiudica in alcun modo la soluzione dei grandi problemi della metaphysica specialis; quali l’esistenza o meno di una vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o meno di Dio - i problemi, appunto, che ricevono le prime grandi risposte positive dalla metafisica di Platone e di Aristotele. E in effetti un’indagine che si propone come fenomenologia non può dir nulla intorno a questioni che per definizione stanno oltre la dimensione fenomenologica, ossia alla dimensione che, con qualche approssimazione, si può identificare nell’esperienza. È invece più difficile convincersi della tesi che Figai intende rendere più visibile e che è indicata dal sottotitolo del suo libro: Fenomenologia della libertà. Sono d’accordo sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’essere (ontologia) e sul senso della libertà in Heidegger. Ma Figai si dice convinto che la filosofia di Heidegger dia modo di ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente nuovo. Cosa che a me non sembra, perché se il senso ontologico della libertà significa da ultimo la finitezza e contingenza delle cose e quindi delle decisioni (cioè il loro essere qualcosa che sarebbe potuto non essere), allora tale contingenza dei contenuti mondani è pienamente affermata già da Platone e Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso di Heidegger, a qualcosa che, come dice Figai, la si sarebbe potuta compiere in modo diverso (p. 411). Ma allora, come Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene presente), l’idea trascendentale della libertà - dice Kant - non contiene nulla di derivato dall’esperienza ossia non è un contenuto fenomenologico), e pertanto rimane aperto il problema, che né Heidegger né il suo interprete hanno affrontato: quello di mostrare quale sia il fondamento deU’affermazione che è il contenuto di tale idea è anche qualcosa di realmente esistente. Nella bio-linguistica di Chomsky la lingua è considerata come un aspetto particolarmente significativo della mente e dunque del rapporto mente/cervello. Pertanto si inquadra ragionevolmente nella psicologia e, più in generale, nella biologia umana. Esplorazioni in questo campo, da lui peraltro già da tempo dissodato, sono Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (il Saggiatore). Anche qui Chomsky dichiara di voler usare le parole mente e linguaggio senza una valenza metafisica. Così attento al significato delle parole, egli non dice nulla sul significato della parola metafisica; ma è chiaro che il suo intento è di considerare la mente e il linguaggio come oggetti naturali - senza però addossarsi l’onere di escludere ricerche filosofico-metafìsiche sulla mente, il corpo, il linguaggio. E, a prima vista, il proposito sembra del tutto legittimo. Analogamente, come può essere illegittimo l’intento di considerare la nona sinfonia di Beethoven semplicemente dal punto di vista delle scienze fisiche, quando la ricerca non intenda escludere la comprensione estetico-musicologica e nemmeno quella filosofico-metafisica di quest’opera? È lo stesso Chomsky a riconoscere che l’arte può ammaestrarci, intorno alla mente, molto di più di tutte le informazioni che intorno a essa possono esserci fornite dalla biolinguistica. Eppure, come era prevedibile, anche in questo caso la filosofia e la metafisica si insinuano nella dimensione scientifica che vorrebbe tenerle fuori dalla porta. Come il corpo, anche la mente e il linguaggio sono, per Chomsky, uno dei domini empirici analizzati dalla scienza. Anche la mente è una parte della totalità dei domini empirici, ossia della totalità dell’esperienza. Ma, come la parola metafisica, così l’espressione totalità dell’esperienza - o dei domini empirici - non riceve alcun chiarimento esplicito da parte di Chomsky. O, meglio, riceve un chiarimento implicito che rende esplicita la presenza di quella metafisica da cui egli vorrebbe tenersi lontano. Intendo dire che una certa metafisica (ben lontana dal mostrarsi come inoppugnabile) è presente proprio nel concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza. Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha basi assolutamente certe (pur essendo affidabile e applicabile alla realtà), perché i segreti della natura, delle cose-in-sé, ci saranno per sempre celati. Il che significa che l’indagine scientifica si chiude prudentemente in sé - lasciando fuori di sé la metafisica - perché essa non accetta imprudentemente la metafisica della cosa in sé: quella cosa in sé kantiana, rispetto alla quale non solo la dimensione della mente non può essere altro che una parte, ma la stessa totalità dell’esperienza (che potrebbe essere la definizione più ampia del mentale in campo scientifico) si riduce a essere una parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara, per altri motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove la res cogitans ha altro al di fuori di sé, è il motivo più profondo. Come tanti altri che ignorano l’insegnamento idealistico, non vede il carattere profondamente metafisico dell’affermazione dell’esistenza della cosa in sé. L’anima come totalità e come parte di ciò che appare L’anima è in certo modo gli enti: He psyché ta ónta pós estin. Questo, afferma Aristotele nel De anima, Vili, 231 b, 21. Gli enti (ta ónta ) non significa una certa parte degli enti, ma non le altre parti. Significa: tutti gli enti: pànta ta ónta. L’anima è in certo modo (pós) la totalità degli enti. In certo modo dalla tradizione aristotelico-scolastica a Brentano e alla fenomenologia questa espressione è intesa come già Aristotele sostanzialmente la intende: l’anima è gli enti, ma non nel senso che essa sia simpliciter (fisicamente dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si interpreta: l’anima è intenzionalmente tutti gli enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi degli enti. E il pensiero greco chiama phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e quindi Aristotele non intende affermare che l’anima sia onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che vanno via via manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme: che essa è sì la manifestazione della totalità degli enti, ma la totalità si manifesta come processo, sviluppo, generazione degli enti del mondo. E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via via manifestantisi) l’anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l’anima non possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull’anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che l’anima è in certo modo gli enti è proprio l’apparire di questa forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l’apparire in cui l’anima ha come contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto sé stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma come l’apparire della loro totalità. L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono aU’anima (coscienza, mente, spirito), intesa questa volta come parte della totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico), religione, scienza, arte hanno imboccato questa strada, dove l’anima è uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per millenni - e, dopo la parentesi idealistica, tuttora - quelle forme culturali (guidate da un sapere filosofico, che a sua volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano in sé stessi, cioè indipendentemente dal loro apparire e dunque dall’anima in quanto sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi teorie come quella evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella in cui consiste la psichiatria, dove la psiche, intesa come oggetto di una iatréia, è circondata dalla cura come ogni altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero. In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni altra teoria che considerano l’anima come parte - e innanzitutto quella credenza nell’indipendenza degli enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio sull’apparire degli enti, cioè su quell’anima che lungo la storia del pensiero occidentale è sopravvissuta ed è stata pensata come phàinestai, cogito, Io penso, Spirito come atto puro, esperienza (in quanto esperienza della totalità degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di esperienza, si osservi che il metodo sperimentale è, per la scienza stessa, l’indagine che pone a proprio fondamento l’esperienza; sennonché dell’esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta le spalle al senso fondamentale dell’anima per dedicare ogni sua attenzione all’anima come ente particolare. E se oggi si rivendica il carattere linguistico dell’esperienza, va detto che anche con questo carattere l’esperienza è il fondamento di ogni attività teorica e pratica dell’uomo. Ma anche Aristotele, oltre a intendere l’anima come apparire della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l’identità del conoscente in atto e del conosciuto in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a questo risultato è, da un lato, la capacità dell’anima di conoscere (ossia il suo esser conoscente in potenza), dall’altro lato è la capacità degli enti di essere conosciuti (ossia il loro esser conosciuti in potenza). Queste due capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto ed essa è appunto il risultato del processo che conduce dalla potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di intelletto passivo) e differisce dal conosciuto in potenza - ossia dagli enti che hanno la capacità di apparire -, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima diventa parte anche quando l’apparire della totalità degli enti è inteso come atto di un io (persona, soggetto), e si afferma, appunto, che io penso - dove il pensare è innanzitutto quell’apparire. Anche qui, e nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la filosofia greca, e dunque lo stesso Aristotele, ad aprire questa prospettiva. Si ritiene che esista un produttore del pensare e che tale produttore sia un io, una persona, un soggetto. (Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale soprattutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) È manifesto che è quest’uomo singolo a pensare - manifestum est quod hic homo singularis intelligit, si afferma nel De unitate intellectus contro averroistas di san Tommaso. Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo singolo sia il pensante (Tommaso) e che il cogitare sia il cogitare di un ego (Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo filosofica - peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche, Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l’io, la persona, il soggetto (ma anche il corpo, la materia, il cervello) sono parti della totalità che appare. Vintelligere di quest’uomo singolo è il campo di ciò che è manifestum e quest’uomo singolo è una parte di questo campo - ossia dell’apparire della totalità degli enti. A questo punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a un’indicazione sommaria. Se in quella prospettiva io penso significa io sono produttore del pensiero, il pensiero non è d’altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del pensiero da lui prodotto. Ma l’aver notizia è l’apparire. E a sua volta il pensiero è innanzitutto l’apparire degli enti. L’io penso viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno esplicito) a gli enti appaiono a me: io, che penso, sono appunto l’io a cui appaiono gli enti. L’a cui è la notizia che l’io ha di essi. Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me - appunto perché a me non può non significare, in questa prospettiva, apparire a me; sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che l’apparire degli enti appare all’apparire a me... et sic in indefinitum. In altri termini, che gli enti appaiano a me non significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un apparire; e se si intende tener fermo che l’apparire è sempre un apparire a un io, a una coscienza, allora l’apparire a me è l’apparire all’apparire a me, dove l’a me determina un progressus in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l’apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per la quale io penso e gli enti appaiono a me. Nella variante riduzionistica di tale prospettiva, il cervello pensa (o il corpo pensa). Ma in questa variante non si intende sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono - è il loro apparire al cervello, e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece compete alla prospettiva di cui il riduzionismo è, appunto, una variante. Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho considerato in altre occasioni e che è cioè Yanàlogon del riduzionismo teologico. La riduzione della mente al cervello è cioè Yanàlogon mondano della riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente riducibile a Dio, non c’è mondo; e se la mente è totalmente riducibile al cervello, non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale c’è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa stessa afferma: nega quella mente e quel mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà di ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio. Testo, con alcune modifiche, dell’intervento alla tavola rotonda sul tema Tecnica e processo»; tenutosi a Venezia, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Articolo pubblicato sul Corriere della Sera» il 27 gennaio 2005. L’ultimo capoverso è aggiunto. Rielaborazione dell’intervento alla tavola rotonda La tecnocrazia negli anni Trenta» con Giuseppe Morbidelli, Natalino Irti, Guido Rossi. Firenze, Palazzo Strozzi. Già nel capitolo IV de La struttura originaria - dunque più di cinquantanni fa - avevo indicato quanto occorre per rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state rivolte intorno al modo in cui, in quel capitolo, viene risolta l’aporetica del nulla». Questa aporetica, sin da Platone, consiste nel rilevare che il nulla è pensato, e che quindi è qualcosa che appare e di cui il linguaggio parla continuamente, sì che il nulla non è il nulla. La radice di quelle obbiezioni è il pensiero che, sin dall’inizio della storia dell’Occidente, isola la terra dal destino e su questa base isola le cose della terra (le molteplici determinazioni del mondo) dal loro essere, ossia isola (in ciò che è, cioè nell’ essente) il ciò che dal suo è. Tale atteggiamento isolante si riflette, appunto, nel modo in cui l’Occidente pensa il nulla. L’isolamento delle cose dal loro essere incomincia con Parmenide - col Parmenide quale è interpretato nella tradizione platonico-aristotelico-hegeliana. E alcuni miei critici - Gennaro Sasso innanzitutto, e Mauro Visentin - sono giunti, attraverso l’esperienza del mio discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva originaria di Parmenide - del Parmenide, appunto, che è presente in quella tradizione e per il quale, al di fuori della verità dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo intero e l’intera storia dell’uomo sono soltanto dóxa, opinione, illusione, nomi», cioè sono, in quanto tali, non¬ essere, nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso, essere» significa, come per Parmenide, soltanto essere», senza alcuna proprietà oltre a quella di non essere il nulla. In questa prospettiva, la totalità delle determinazioni, ossia delle differenze che costituiscono il mondo naturale e umano, sono appunto il contenuto dell’opinione. Ne viene, allora, che anche tutte le considerazioni sviluppate da questi miei critici per sostenere le loro tesi e per criticare il contenuto dei miei scritti - considerazioni che formano a loro volta un sottoinsieme della totalità delle differenze del mondo - sono opinioni, non sono verità (assolute e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in modi diversi, riconoscono il carattere opinabile (Visentin) o addirittura contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur interessanti e articolate riflessioni (cfr. G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopola; M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano, Bibliopolis). La struttura originaria della verità è l’apparire dell’impossibilità che ciò che è non sia ciò che esso è. L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere implica infatti che qualcosa non sia ciò che esso è: implica (con Parmenide) che le differenze siano esplicitamente poste come nulla; e implica (con Platone e poi con l’intera storia dell’Occidente) che, essendo intese come ciò che esce dal nulla e vi ritorna, siano implicitamente poste - esse, che non sono un nulla - come nulla. Questa implicitezza custodisce il segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del nichilismo. Tale essenza non può riuscire a scorgere che le differenze si distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono nulla. La distinzione, infatti, non è separazione, isolamento. Anche quando intende essere la negazione più radicale della separazione - per esempio e soprattutto con Hegel -, l’essenza del nichilismo rimane prigioniera di ciò che essa nega, perché intende unire ciò che peraltro essa intende come originariamente separato; sì che ogni volontà di sintesi è destinata al fallimento. Ogni differenza del mondo - cioè ogni essente, o significato - è cioè destinata a esser pensata e vissuta come un nulla - anche quando si ritiene che un Dio eterno possa salvare il mondo dal nulla. Il modo in cui il nichilismo pensa e vive la nientità degli essenti determina il modo in cui esso pensa e vive la presenza del nulla. Nella Struttura originaria si mostra che il nulla è un significato contraddicentesi. Data la distinzione, indicata in quelle pagine, tra il contraddittorio», o rautocontraddittorio» - ossia l’impossibile, il nullo - e la contraddizione», che invece non è un nulla, in queste pagine si precisa - IV, 6 - che il significato “nulla” è un significato autocontraddittorio, ossia è una contraddizione» - un significato contraddicentesi», appunto. Affermando l’esistenza di quel significato autocontraddittorio» (cioè contraddicentesi), in tale scritto non si dice quindi che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la contraddizione è (e che la contraddizione sia non è impossibile - fermo restando che questo suo essere ha un fondamento», cfr. ad esempio Fondamento della contraddizione, Adelphi 2005, sul quale nei miei scritti si è sempre richiamata l’attenzione). I due momenti contraddicentisi del significato nulla sono, da un lato, il positivo significare» del nulla, ossia il suo essere nulla e l’ apparire di questo essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e assenza di significato del nulla che è positivamente significante. Da un lato, il positivo significare di ciò che, dall’altro lato, è l’assoluta negazione di ogni positività e significato. (Recentemente ho ripreso e approfondito queste tematiche nello scritto Intorno al senso del nulla, Adelphi). Questi due lati o momenti sono originariamente e necessariamente uniti perché la loro separazione, cioè Yisolamento dell’uno rispetto all’altro, implica l’essere dell’impossibile, ossia che il nulla sia un essente. Infatti, se i due momenti sono (più o meno esplicitamente) intesi come separati, l’assoluta nientità del nulla appare, e appare come significante, ossia è: il nulla appare inevitabilmente come un essente. Se i due momenti vengono separati, è inevitabile che il positivo significare del nulla (il primo momento) si ripresenti nel nulla - ossia nel secondo momento, cioè nel significato che è il contenuto di quel positivo significare -, sì che Y esito inevitabile di quella separazione è la constatazione che il nulla è un essente. Questo esito differisce essenzialmente dal significato autentico del nulla, ossia dal nulla come significato contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché, in esso, nulla (il significato nulla) non significa essente, ossia non è un essente (e appunto per questo il significato nulla contraddice quell’essente che è la positività del proprio significare). Nell’esito della separazione dei due momenti del significato contraddicentesi, si è costretti invece ad affermare che il nulla, essendo significante, è, è un essente, sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla separazione, l’aporia del nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo. L’isolamento-separazione conduce all’essenza del nichilismo, costringendola ad affermare che gli essenti sono nulla (in quanto escono e ritornano nel nulla); ed è ancora l’atteggiamento isolante a costringere l’essenza del nichilismo ad affermare, in relazione al nulla, che il nulla è un essente. Con la differenza (rilevata da Nicoletta Cusano in Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla, cit.) che nel primo caso il nichilismo non può vedere il proprio essere identificazione dell’essente e del niente, mentre nel secondo caso - in relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si inscrive nella struttura originaria della verità (alla quale si rivolge il mio discorso filosofico) - il nichilismo, e propriamente quella sua forma che si è posta in relazione a quel mio discorso (la forma presente ad esempio negli scritti di Sasso, Visentin, Massimo Donà), porta esplicitamente alla luce il proprio identificare il nulla a un essente e intende questa identificazione come inevitabile (ossia come inevitabilità della negazione della struttura originaria della verità). D’altra parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di tale identificazione - ossia dell’assurdo e dell’impossibile, in cui appunto consiste Tessere del nulla - solo in quanto, dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa essere (essente). Se questo assoluto differire non apparisse non si potrebbe nemmeno affermare che l’identificazione di nulla e di essere è una contraddizione che secondo alcuni miei critici inficerebbe la struttura originaria del destino. Il nichilismo non si avvede che l’aporetica del nulla sorge non perché il nulla sia inevitabilmente un essente, ma per la logica isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia perché quella inevitabilità è, ancora una volta, la conseguenza della separazione che, in questo caso, crede di poter prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del suo positivo significare - sì che, presentandosi isolato, tale significato, proprio perché si presenta, non può che apparire come Tesser un essente da parte del nulla. Pertanto, che il nulla sia significante» non significa che il nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del nulla non appartiene al nulla, perché il nulla non è un essente a cui questo significare o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. In quanto il significare è positività (e anzi è la positività stessa, lo stesso esser essente), il significare del nulla appartiene cioè all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto essa appare nella struttura originaria della verità. E che il nulla sia un significato» non significa che il nulla sia qualcosa di passivo» rispetto all’attività significante dell’essere, giacché anche questo essere un che di significato» appartiene a quella totalità. Si aggiunga la seguente annotazione in rapporto al modo in cui Heidegger intende il problema del Niente» (soprattutto in alcune pagine de II nichilismo europeo, 1940, intitolate Nichilismo, nihil e Niente). L’intento di Heidegger è di mostrare che il Niente non è un ente, ma non è nemmeno mai ciò che è soltanto nullo»: il soltanto nullo» relativamente al quale il pensiero metafisico dà per scontati sia il suo esser contrapposto all’ente sia l’assenza di ogni altra forma di contrapposizione alla totalità dell’ente. In apparenza Heidegger vuol portarsi in una dimensione più profonda di quella in cui si dà per scontata la contrapposizione tra ciò che è soltanto nullo» - il nihil -, e l’ente; ma dicendo che il Niente» (che poi è per lui l’Essere» stesso) non è nemmeno mai ciò che è soltanto nullo» attribuisce una funzione decisiva al soltanto nullo»: la funzione di determinare la dimensione che include sia l’ente, sia il Niente» (l’Essere»). In tal modo, tutte le connotazioni del soltanto nullo» da cui Heidegger in quelle pagine intende prendere le distanze, e tutte le aporie che il soltanto nullo» solleva, ma che Heidegger qualifica come conseguenze dell’incapacità di sollevarsi al senso autentico del Niente, ritornano in circolazione, e vi ritornano nel loro non esser state chiarite e risolte - innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma Heidegger non lo rileva), per la quale ogni considerazione intorno al nulla fa del nulla un qualcosa», ossia un ente; l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni apparentemente acute. È probabile, stando all’andamento del testo, che per Heidegger sia solo apparentemente acuta» anche l’osservazione, da lui richiamata che se il Niente è niente [e qui il Niente è il soltanto nullo»], se il Niente non c’è, allora non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi mai nel Niente e che tutto si dissolva nel Niente, allora non ci può essere nemmeno il processo del diventare-niente». Ma anche questa osservazione, che Heidegger sembra trattare con sufficienza e lasciare infine da parte, ritorna in circolazione nello stesso discorso di Heidegger, quando egli, come si è rilevato, di fatto assume il Niente, inteso come il soltanto nullo», come essenziale per poter affermare che il Niente, autenticamente inteso (ossia il Niente che è l’Essere» stesso) non è il nihil soltanto nullo», come d’altronde Heidegger ha sempre affermato nei suoi scritti. Un libro Nella successione» dei miei scritti, Destino della Necessità (cit.) sta al centro. Rende radicale il tema di fondo che si era presentato un quarto di secolo prima; apre i problemi che il filone primario degli scritti successivi intende risolvere. Il tema di fondo è, appunto, la Necessità : di ogni cosa, di ogni aspetto o stato del Tutto. Ma di necessità» gli uomini parlano da millenni. Al di là di ciò che ne dicono, in Destino della Necessità si fa innanzi» il senso innegabile della Necessità. Esso sta : nessuna forza può scuoterlo. La parola de-stino» indica questo stare. Appunto per questo è nel linguaggio che quel senso si fa innanzi», venendo a mostrarsi nel destino, cioè in sé stesso in quanto luogo che accoglie anche il linguaggio: nella già da sempre manifesta innegabilità dell’esser sé di ogni essente. L’esser sé: il non esser altro e tanto meno quelfaltro che è il nulla: l’impossibilità dell’essente di essere stato e di tornare a esser altro e quell’assolutamente altro che è il nulla: la necessità-eternità dell’essente in quanto essente. Tempo, storia, divenire del mondo umano e della natura non sono il venire dal nulla e il ritornarvi, ma l’incominciare ad apparire e il non apparir più, all’interno del cerchio eterno del destino, da parte degli eterni (quindi anche di quell’eterno che è il linguaggio - e anche il linguaggio che testimonia il destino). Da sempre e per sempre il destino è l’essenza dell’uomo. Ma non testimoniando il destino l’intera storia dell’uomo è alienazione della verità. Nel suo stato attuale, ossia nella forma finita del destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione più ampia, è l’isolamento della terra dal destino. Destino della Necessità rende radicale tutto questo, perché Essenza del nichilismo (Adelphi) lascia ancora aperto il problema relativo alla Necessità o non- Necessità del sopraggiungere e del modo in cui sopraggiungono gli eterni nel cerchio eterno, in cui il destino consiste, nelVapparire degli essenti: ogni essente è eterno; ma gli eterni sarebbero potuti non sopraggiungere in quel cerchio, o sopraggiungervi in modo diverso da quello che appare? Destino della Necessità mostra che la Necessità autentica implica anche la Necessità del sopraggiungere e del modo in cui gli eterni sopraggiungono nelVapparire del destino. La contingenza degli eventi e la libertà della volontà appartengono cioè all’essenza del nichilismo ossia alla persuasione che Tessente in quanto essente sia un esser stato e un tornare a esser nulla. La volontà ha quindi un significato essenzialmente diverso da quello che le è stato via via assegnato. Non è una potenza che determini liberamente l’oscillazione degli essenti tra il loro essere e il nulla, ma è la fede di avere tale potenza, la fede che quindi vuole l’impossibile, non sapendolo, ma essendo anche fede di ottenere, a volte, e a volte di non ottenere ciò che essa vuole. La volontà di potenza, che culmina nella tecnica moderna, si manifesta anche nel modo in cui le lingue indoeuropee, cioè il terreno in cui cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del mondo) ( Destino della Necessità). Al di fuori dell’alienazione della terra isolata, la volontà» autentica e il destino, in quanto apparire della Necessità e libertà dall’errore (Verrare essendo peraltro anch’esso un eterno). Nella sua forma infinita il destino è l’eterno oltrepassamento di ogni contraddizione, ossia è la gioia. Nel suo inconscio» più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è l’infinito. Ma Destino della Necessità apre, insieme, i problemi fondamentali degli scritti successivi Nell’ultimo capoverso del libro ci si chiede innanzitutto: Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine [all’isolamento dal destino] o all’oltrepassamento della solitudine?». Gli scritti successivi (soprattutto La Gloria, Oltrepassare, La morte e la terra, citt.) mostrano la destinazione della terra a questo oltrepassamento e le sue decisive implicazioni. Nietzsche e Freud insegnano a Hemingway quanto siano terribili gli impulsi più profondi dell’uomo. Ma già Sofocle, millenni prima, dice che l’uomo è deinótaton, cioè il più temibile» degli esseri. E si può ancora retrocedere. Hemingway concepiva la sincerità come il supremo comandamento morale. Anche e innanzitutto nella scrittura, che non deve nascondere quello che l’uomo prova veramente. Quindi il suo non era soltanto cinismo, esibizione della propria malvagità. Spesso si confonde la bontà con la conformità degli istinti alle consuetudini sociali. Li si nasconde perché è difficile che siano confessabili. La bontà non è la cosiddetta innocenza» dei bambini o la mansuetudine delle pecore - anche della quale si può peraltro dubitare come si dubita di quell’innocenza. Hemingway impara che il piacere della vita è inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è guerra, dice l’antichissimo Eraclito. Ora, intendo dire che non c’è bontà che non sia lotta contro il male esistente fuori e dentro di noi. E da ultimo il male è il dolore, l’angoscia, la morte che l’impulso distruttivo dell’uomo produce negli altri e in lui stesso. L’uomo buono - soprattutto il santo - non è chi sia privo di inconfessabili impulsi, ma chi ne abbonda. Se ne fosse privo, sarebbe appunto l’innocente o il mansueto quadrupede. Forse per questo i veramente buoni e i santi sono spesso insopportabili. La loro indole è terribile. Sono buoni e santi perché, lottando contro di essa, la vincono. Tanto più buoni e santi quanto più la malvagità invade la loro natura. Se i cristiani sono convinti che Gesù sia il più santo, devono credere che natura, indole, impulsi siano in lui i più malvagi e che egli sia il più santo proprio perché, solo lui, riesce a vincerli. La crudezza di certe espressioni di Gesù può essere un sintomo. Il primo passo per vincere quanto di «terribile-temibile» è presente in ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità. Hemingway la possedeva. Poiché credeva che i «valori supremi» della tradizione occidentale siano morti - e che uccidere gli uomini non violi dunque alcuna legge inviolabile -, gli restava come unico valore l’aspirazione alla sincerità, il desiderio di dire la verità (forse esagerando) intorno a quanto di malvagio c’era anche in lui e di cui egli godeva. Ci si può spiegare come alla fine non sia più riuscito a sopportare la vista di sé stesso e, forse per questo, si sia ucciso. Nietzsche scrive: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Che i valori si svalutino significa che essi restano distrutti, annientati. Lo stesso Nietzsche alimenta la convinzione che il vero senso del nichilismo sia la volontà di annientare - e gli uomini pensano che l’annientamento più nefando sia quello di cui son vittime essi stessi. Eppure, per quanto potente sia la riflessione di Nietzsche - e poi di Heidegger - sul nichilismo, essa non ne raggiunge il fondo. Le «guerre di annientamento» del XX secolo sono la conseguenza più vistosa di una persuasione che risale alle origini della nostra civiltà, cioè al pensiero filosofico dei Greci. Si tratta della persuasione che gli esseri possano esser stati e possano ridiventare niente; ossia che gli esseri possano esser non essere, cioè nulla. Il culmine dell’errore, qui, si unisce al culmine dell’orrore - anche se questa persuasione domina ormai l’intero pianeta. Se qualcuno dicesse che c’era un tempo in cui il cerchio era quadrato e ci sarà un tempo in cui il cerchio tornerà a essere un quadrato, tutti, o i più, protesterebbero e direbbero che un tempo siffatto non può esistere; ma nessuno protesta di fronte al pensiero che c’è un tempo in cui l’essere (che ora è) era ancora nulla e un tempo in cui tornerà a esserlo. Qui la sordità è totale. Troppo profonda perché sia imputabile alla semplice debolezza della mente umana. Ma intanto, come potrebbero, un uomo o un Dio, proporsi di annientare un qualsiasi essere, se non fossero convinti che l’essere da annientare possa diventare nulla e, una volta diventatolo, sia vero affermare che tale essere è il nulla? Il culmine della follia non è forse pensare che l’essere è il nulla? E «nichilismo» non è forse, innanzitutto, pensare che l’essere è nulla? E non è forse per questo antico pensiero che possono esser maturate tutte le radicali distruzioni che scandiscono la storia dell’Occidente? Nietzsche afferma che «Fannichilimento mediante la mano asseconda Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è Fannichilimento dell’essere mediante il pensiero dei Greci che non solo asseconda ma è il fondamento essenziale di tutte le distruzioni estreme compiute dalla mano dell’Occidente - la più civile delle civiltà -, che ormai è la mano del pianeta. Emanuele Severino. Severino. Keywords: velino, velia, parmenide, zenone, scuola di velia. Zenone il velino, Parmenide il velino, divenire, GENTILE -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Severino” – The Swimming-Pool Library. Severino.

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