Luigi Speranza -- Grice e Sebasmio: la ragione conversazionale della
classe romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sebasmio is a philosopher mentioned
on a list of philosophers belonging to the Roman aristocracy. SEBASMIO.
Luigi Speranza --Grice e Secondo: la ragione conversazionale della gnosi
romana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Ippolito di Roma, a
gnostic who believes that the world is divided into light and darkness. Secondo.
Luigi Speranza -- Grice e Secondo: la ragione conversazionale del cinargo
romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Tacito. A Pythagorean, he
acquires the nickname on account of a vow of silence he takes. Although some
regard him as a Pythagorean, he appears to have led the life of the Cinargo.
Even Adriano can not get to break his vow – although S. may have provided
written answers to some of the philosophical questions Adriano poses.
Luii Speranza -- Grice e Selinunzio: la ragione conversazionale della
scuola di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Reggio). Filosofo
italiano. Reggio Calabria, Calabria. Pythagorean. Giamblico.
Luigi Speranza --Grice e Sellio: la ragione conversazionale dell’allievo
di Filone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Sellio. Pupil of Filo
at Rome. Gaio Sellio.
Luigi Speranza -- Grice e Sellio: la ragione conversazionale del
fratello – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Pupil of Filone at Rome – possibly Gaio Sellio’s
brother. Lucio Sellio.
Luigi Speranza -- Grice Selvatico: la ragione conversazionale estense –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. Estense.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semerari:
la ragione conversazionale e il principio del dialogo in Socrate – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo Italiano. Taranto, Puglia. Grice: “Whereas it
would be considered in bad taste at Oxford, the Italians pun on names – and
there is an essay on the ‘seme’ of ‘semerari’ Witty!” -- Grice: “Perhaps
Semerari is right and the philosopher MUST metaphorise. What better title to an
essay on Carabellese than ‘La sabbia e la roccia”?” -- Grice: “I like Semerari:
His ‘principio del dialogo in Socrate” is reprinted in his invaluable
collection on “Dialogo.”” – Grice: “In a way, we may say that Calogero,
Semerari, and myself, belong to the school of the philosophy of conversation –
not to mention Apel!”. Si laurea a
Roma sotto CARABELLESE. Insegna a Bari. Collabora ad Aut Aut, Critica storica,
Giornale critico della filosofia italiana, Clizia, Historica, Rivista di
filosofia del diritto, Rivista di filosofia, Il pensiero, Archivio di filosofia
e altre riviste specialistiche. Fonda Paradigmi. Si dedica per lo più a
Spinoza, a Schelling, alla fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty e al
materialismo storico di Marx. Altri saggi: Lo spinozismo,Vecchi, Trani; Storia
e storicismo: saggio sul problema della storia in CARABELLESEC, Vecchi, Trani;
Storicismo e ontologismo, Lacaita, Manduria, Dialogo, storia, valori: studi di
filosofia, Ciranna, Siracusa; Interpretazione di Schelling, Libreria
scientifica, Napoli; Esistenzialismo italiano (Grice: “This reminds me of
parochial Warnock and his “English philosophy,” or Sorley for that matter!” --
Cressati, Bari; “Questioni di etica, Adriatica, Bari; Responsabilità e comunità
umana. Ricerche etiche, Lacaita, Manduria; La filosofia come relazione,
Quaderni di cultura, Sapri; Natale, Guerini, Milano; “Scienza nuova e ragione,
Lacaita, Manduria; S., Guerini, Milano; Da Schelling a Merleau-Ponty; Cappelli,
Bologna; La lotta per la scienza, Silva, Milano; Valerio, premessa di Papi,
Guerini, Milano, Spinoza, Marzorati, Milano; Esperienze, Argalia, Urbino; La
filosofia dell'esistenza in Kant, Adriatica, Bari; Introduzione a Schelling”
(Laterza, Bari); Filosofia e potere (Dedalo, Bari); Civiltà dei mezzi, civiltà
dei fini. Per un razionalismo filosofico-politico, Bertani, Verona; La scienza
come problema: dai modelli teorici alla produzione di tecnologie” (Donato,
Bari); “Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, Milano); “La
sabbia e la roccia. L'ontologia critica di CARABELLESE” (Dedalo, Bari); “Dentro
la storiografia filosofica” (Dedalo, Bari); Sartre. Teoria, scrittura, impegno”
(Sud, Bari); Novecento filosofico italiano. Situazioni e problemi, Guida,
Napoli; “Scesi. Studi husserliani” (Dedalo, Bari); Filosofia Guerini, Milano
Confronti con Heidegger (Dedalo, Bari); La filosofia come scienza rigorosa,
Laterza, Bari, Frammenti di diario; l'anno di Istanbul, Schena, Fasano. “La
cosa stessa.” Seminari fenomenologici (Dedalo, Bari); “Dommatismo e
criticismo”, “Deduzione del diritto naturale” (Laterza, Bari); Pensiero e
narrazioni. Modelli di storiografia filosofica” (Dedalo, Bari); Frammenti di
diario; l'anno del Messico, Schena, Fasano); “Fenomenologia delle relazioni,
Palomar, Bari); “Ragione e storia. Studi in memoria” Tateo, Schena, Fasano;
Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo, Tatasciore,
Guerini, Milano; ‘La certezza incerta” Scritti su Semerari con due inediti
dell'autore, S., Guerini, Milano; Ponzio, Il significato della filosofia per
S., in "BariSera", Niro, S.. Il problema morale, Atheneum, Firenze,
Silvestri, Il seme umanissimo della filosofia. Sul pensiero di S. (Mimesis,
Milano). Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Per la illuminata
iniziativa del Prof. Antonio Corsano e con il consenso della Signora Irene
Carabellese, appassionata e vigile custode dell’opera di uno dei più forti
pensatori italiani del nostro secolo, l’Istituto di Filosofia della Università
di Bari ha promosso e realizzato, con questo volume, la pubblicazione dei corsi
organicamente tenuti da Pantaleo Carabellese su La filosofia dell’esistenza in
Kant, negli anni accademici 1940-41, 1941-42, 1942-43, presso la Università di
Roma e mai editi finora. Nel piano delle opere complete di Carabellese,
annunciato il 1948 ma non più portato a compimento (uscirono soltanto i volumi
Da Cartesio a Rosmini e Critica del concreto), era previsto, coi numeri 16-18,
un « Kant (in parte inedito) ». Tale pubblicazione avrebbe dovuto comprendere
unitariamente e il volume del 1927, La filosofia di Kant. L’idea teologica —
frutto, con l’altro libro del 1929, Il problema della filosofia da Kant a
Fichte, delle lezioni degli anni 1922-1925 alla Università di Palermo — e i
corsi romani del 1940-1943, La presente edizione è stata condotta su un testo
conservato nella Biblioteca privata del Carabellese.e costituito da fogli
dattiloscritti relativi ai paragrafi 1-7 e 38-104 dell’opera e da un gruppo di
bozze di stampa corrispondenti ai paragrafi 8-37. Nel testo sono riprodotte
fedelmente le dispense autorizzate dei corsi svolti dal Carabellese quale
ordinario di storia della filosofia professore di filosofia teoretica a
Palermo, Carabellese ha la cattedra di storia della filosofia a Roma e passa
alla cattedra di teoretica, quando subentrò a Gentile. L’Autore non poté
riesaminare, ai fini di una regolare pubblicazione, il testo. Sono pertanto
restate, qua e là, delle ripetizioni Vv inevitabili, del resto, in un corso
universitario che si è sviluppato, sul medesimo tema, per più anni di seguito.
Anche lo stile della esposizione, talora un po’ trascurato, riflette la
immediatezza e quasi estemporaneità di un discorso al quale è mancato l’ultimo
ritocco letterario. L’approntamento del volume per la stampa è stato curato
dalla Dr. Valeria Novielli, che ha sottoposto il testo a un’attenta e paziente
revisione, rendendone più precisa la punteggiatura, emendandolo, nelle parti
dattiloscritte, di numerose sviste formali, controllando e rettificando tutte
le citazioni. Con la Dr. Novielli è doveroso ricordare i giovani, che con lei
hanno diviso la non lieve fatica della correzione delle bozze: Teresa
Angelillo, Teresa Massari, Cosimo Tinelli e Anna Verzillo. *o d*o* Nel
presentare al pubblico questa grossa e ardua opera kantiana del Carabellese, mi
corre l'obbligo di accennare brevemente al suo significato nel quadro del
pensiero teoretico e metodologicostoriografico dell'Autore, sì che quanti
vorranno studiarla o consultarla possano partire, nella lettura, col piede
giusto. Sulla formazione della filosofia personale del Carabellese
l’insegnamento di Kant ebbe influenza decisiva. Carabellese considerò sempre la
sua ‘critica del concreto’ o * ontologismo critico’ il risultato di un
ripensamento profondo e ostinato della dottrina kantiana. Nella Prefazione alla
seconda edizione della Critica del concreto, che è del 1939, Carabellese
dichiarava esplicitamente che Kant gli « fu d’aiuto » a scoprire la ‘critica
del concreto’ e aggiungeva: « questa mi fu poi d’aiuto a riscoprire Kant »!. Le
suggestioni ricevute da Kant per la scoperta e la strutturazione della ‘critica
del concreto” così come il ritorno a Kant attraverso tale critica precisano il
carattere di lettura teoretica, che rivelano gli scritti kantiani di
Carabellese. Convinto che il Kant della corrente tradizione storiografica, il
Kant cioè raffigurato quale punto di convergenza e di fusione di razionalismo
ed empirismo, fosse una falsificazione dell’autentico Kant e che, al contrario,
la verità di Kant fosse l’affermazione della inesauribilità dell’ ‘essere’ o
‘cosa in sé’ rispetto alla na 1 CARABELLESE, Critica del concreto, Firenze,
Sansoni tura, Carabellese ricostruiva Kant assumendo a criterio
d’interpretazione l’esigenze proprie della ‘critica del concreto’: l’essere in
sé (Dio, Oggetto, Idea) e l’essere in altro (Io, Soggetto, Esistenza). Il
volume del 1927 era dedicato appunto alla ‘idea teologica’ ed era concentrato
nell’analisi del processo onde Kant, pur nei limiti dogmatici e realistici del
suo criticismo, aveva posto la idea quale oggettività e ragione e, quindi, la
schietta idealità della ragione. Per intendere correttamente la relazione
dell’opera del ’27 con La filosofia dell’esistenza in Kant, è utile ascoltarne
un passo: « Per ora constatiamo che Kant ha finalmente scoperto la natura dell’oggettività
nella sua distinzione dalla esistenza. L’oggettività è risultata la necessità e
universalità di coscienza: ciò che nei singoli pensanti c’è di identico.
L’oggettività dunque è universale astratto nella coscienza. Ecco la grande
scoperta che Kant ha fatto, ma non ha visto. È l'America, che egli crede India.
E con la scoperta dell’oggettività, Kant ha scoperto anche l’esistenza nella
sua distinzione dalla oggettività. Infatti, l’oggettività, l’essere identico
della coscienza è astratto, perché ci sono le singolari qualificazioni della
coscienza nelle quali... ci è dato tutto ciò che di esistenziale può mai
risultare » Non diversamente da Colombo che, credendo di aver trovato una nuova
via per raggiungere un continente già noto, in realtà aveva scoperto un
continente prima sconosciuto, anche Kant — pensava Carabellese —, incamminatosi
nella ricerca critica intorno alla conoscenza, era approdato, senza rendersene
adeguatamente conto, alla individuazione della dimensione oggettiva o ideale
della coscienza e alla sua distinzione dall’altra dimensione, che è la
esistenza, la soggettività. Questa 1‘ America’ scoperta ma non riconosciuta da
Kant, che, « al di là di questa oggettività ed esistenza che ci risultano e che
costituiscono la coscienza », si intestardiva « ad ammettere ancora una
esistenza. che concretizza l’oggettività fuori della coscienza » 5.A giudizio
di Carabellese, Kant, impegnato a risolvere il problema capitale della
filosofia moderna, quello gnoseologico, aveva, di fatto, impostato vin nuovo
problema, il problema della coscienza nella concretezza della sua struttura e
delle sue esigenze trascendentali: universalità e singolarità, oggettività e
soggettività, idea ed CARABELLESE, La filosofa di Kant. L'idea teologica,
Firenze, Vallecchi CARABELLESE, La filosofia di Kant.ì esistenza, Dio e Io,
ecc. Il ‘ vero’ Kant era ritrovato da Carabellese nella ‘Dialettica
Trascendentale’ della Critica della ragion pura, dove etano stati definiti i
grandi temi metafisici di Dio (idea teologica) e della esistenza (idea
cosmologica, idea psicologica). La improponibilità di quei temi in termini
conoscitivo-positivi, il loro eccedere dai limiti della ‘ Estetica’ e dell’‘
Analitica’, che costituivano formalmente il campo del ‘conoscibile’ e dello
‘scientifico’, davano a Carabellese la conferma che, con Kant, era accaduto
qualcosa di nuovo e di rivoluzionario. nella storia della filosofia moderna, il
passaggio di fatto, implicante un rovesciamento prospettico, dalla filosofia
del conoscere alla filosofia della coscienza e del concreto, passaggio solo di
fatto e non ancora di diritto, ché Kant continuava a restare impigliato nella
logica della filosofia del conoscere, confondendo oggettività ed esistenza, di
cui pur aveva sentito la distinzione a livello di coscienza comune e di sapere
concreto. La filosofia di Kant « perciò s’incentra nei tre problemi della
Dialettica, scrive Carabellese nella Prefazione all'opera, Di questi tre
problemi adunque noi faremo centro per esporre criticamente il pensiero
filosofico di Kant nella sua integrità, prendendo ciascun problema dal momento
in cui esso si formula nella mente kantiana fino a quello in cui dal problema,
risoluto o no, questa si libera. L’avvertimento di quella che, per lui, era
stata la più originale scoperta kantiana e, insieme, dell’imzpasse logico in
cui era stata bloccata dalle contraddizioni della filosofia ‘storica’ di Kant
metteva nelle mani di Carabellese il filo rosso del suo incontrarsi e
scontrarsi con Kant e fissava i termini e il metodo del suo discorso critico,
che si veniva organizzando nei modi di una lettura, come oggi si direbbe,
‘sintomale’, di Kant, orientata a valorizzare, contro il Kant letterale, la sua
scoperta critica liberandone il contenuto dall’involucro formale e linguistico
della tradizione precriticistica, che ne distorceva il senso e ne strozzava lo
sviluppo. Prescindere da Kant oggi, in filosofia, è fare opera nulla. Ora per
una determinazione di problemi che non prescinda da Kant, io credo che bisogna
rifarsi dallo stesso Kant senza trascurare quelle CARABELLESE, La filosofia di
Kant che sono le conquiste dal kantismo, e non dallo stesso Kant, già fatte.
Rifarsi quindi da Kant combattendolo nei suoi residui dogmatici. Ma per
combatterlo appunto bisogna intenderlo nella sua profondità, e per intenderlo
bisogna avere una concezione della realtà da contrapporgli (concezione sia pure
nata da Kant; che anzi deve esser nata da Kant), bisogna avere un pensiero con
cui indagarlo. Solo così si può fare la storia, sia essa della filosofia che di
una qualunque determinata attività concreta dello spirito. In tal modo,
Carabellese progettava la sua lettura di Kant come controllo di una più vasta e
generale interpretazione del rapporto tra la filosofia e la sua storia. La
filosofia, voleva dire Carabellese, non nasce se non sul terreno dei problemi
maturati storicamente (impossibilità di filosofare oggi prescindendo da Kant e
dalla storia del kantismo). La filosofia, nondimeno, non eredita passivamente
dalla propria storia (necessità di combattere Kant nel suo superstite
dogmatismo). Anzi gli stessi problemi proposti dalla storia non possono essere
compresi fino in fondo, nella loro verità, se non si sia in grado di fare uso
di un punto di vista diverso, andando al di là del giudizio strettamente storico
con un giudizio teoretico (Kant non può essere combattuto, cioè proseguito e
superato, se non venga prima inteso, e non può essere inteso, se non si sia in
grado di opporgli un differente pensiero). Insomma, se la filosofia dipende
dalla sua storia, questa, dalla sua parte, è anche condizionata e anticipata
dalle opzioni teoretiche della filosofia. Il proposito di far emergere
dall’interno della dottrina kantiana ciò che appariva essere il suo contributo
più originale e importante, dando, per questa via, espressione a quanto Kant
aveva lasciato inespresso, rendeva la indagine storiografica di Carabellese
altamente drammatica e rischiosa, provocava il mutuo coinvolgimento dello
storico .e del suo autore, al punto che il dovere di capire l’autore finiva col
coincidere col diritto di correggere, reimpostare o risolvere i problemi da lui
lasciati aperti, e sollecitava al salto al di là dei limiti della filologia,
quando ciò sembrava necessario alla risolutiva espressione dell’inespresso. Lo
stesso Carabellese era ben consapevole di ciò e non fu certo un caso che,
introducendo il volume del ’29, difendesse il suo scrupolo filologico: «
M’auguro che l’amore della tesi non abbia mai forzato l’in- [CARABELLESE, La
filosofia di Kant] dagine storica ad una interpretazione che non sia quella
voluta dalla intima coerenza logica dei pensatori studiati. Certo ho messo in
ciò la massima cura. E perciò mi son sempre rifatto direttamente alla lettera
stessa dei loro scritti, perché i concetti risultassero sempre nella loro maggiore
possibile determinatezza. In definitiva, ciò che principalmente importa a una
ricerca quale Carabellese proponeva e perseguiva non è tanto la relazione, che
Kant ebbe con le sue fonti e coi suoi contemporanei, quanto la relazione che
può instaurarsi tra Kant e i suoi successori e, soprattutto, tra lui e noi
nell’orizzonte della odierna problematica filosofica. Era questo il senso della
contrapposizione a un Kant morto, congelato nel linguaggio delle sue opere, di
un Kant vivo che, diceva Carabellese, « io voglio rivivere e far rivivere, e
col quale quindi io ho bisogno di discutere scendendo nelle profondità del suo
pensiero e analizzando questo sia nei suoi germi nascosti, per i quali egli
rivive in noi che con lui discutiamo, sia nelle grossolanità esplicite dalle
quali egli non seppe e non poteva liberare la sua costruzione, e di fronte alle
quali quindi egli deve rinnegare se stesso e darci ragione. A questo punto può
essere interessante ricordare come un’analoga impostazione alla comprensione di
Kant dava, due anni dopo la uscita del saggio carabellesiano, ma in totale
indipendenza da Carabellese, Martino Heidegger con Kant e il problema della
metafisica. Non è questa la sede per istruire il confronto tra il Kant di
Carabellese e il Kant di Heidegger e illustrarne le differenze pur nella comune
ispirazione ‘ metafisica ’ dei due approcci®. Vale, piuttosto, la pena di
sottolineare la identità, nel metodo, delle due letture, che risalta
oggettivamente alla luce della seguente dichiarazione di Heidegger: « Un’
‘interpretazione ’, la quale si limiti a ripetere ciò che Kant ha detto
testualmente è destinata in partenza a fallire il suo scopo, almeno finché il
compito di una vera interpretazione resti quello di rendere visibile proprio
ciò che nella fondazione kantiana traspare al di là delle CARABELLESE, Il
problema della filosofia da Kant a Fichte, Palermo, Trimarchi, CARABELLESE, La
filosofia di Kant, Lo stesso Carabellese volle precisare tali differenze in una
lunga nota della Prefazione alla Il edizione della Critica del concreto: cfr.
Critica del concreto Xx formule. È vero che Kant non è giunto a pronunciarsi
direttamente in proposito, ma è anche vero che in ogni conoscenza filosofica il
fattore determinante non è il senso letterale delle proposizioni, bensì
l’inespresso immediatamente suggerito dalle enunciazioni esplicite. Così,
l’intento esplicito di questa ‘interpretazione’ della Critica della ragion pura
era di rendere visibile il contenuto decisivo dell’opera, tentando di porre in
evidenza ciò che Kant ‘ha voluto dire’. Nel seguire questo procedimento, la
nostra interpretazione fa propria una massima che lo stesso Kant voleva veder
applicata alla ‘interpretazione’ di opere filosofiche (...). Naturalmente, per
strappare a quel che le parole dicono, quello che vogliono dire, ogni ‘
interpretazione’ deve necessariamente usar loro violenza. Ma tale violenza non
può esercitarsi a caso, per mero arbitrio. L’interpretazione dev'essere mossa e
guidata dalla forza di un'idea illuminante e anticipatrice. Soltanto in virtù
di una tale idea, una ‘ interpretazione’ può osare l'impresa, ognora temeraria,
di affidarsi al segreto impulso che agisce nell'intimo di un’opera, per essere
aiutata a penetrare l’inespresso e forzata ad esprimerlo. È questa una via, per
la quale la stessa idea direttrice giunge a rivelarsi pienamente, manifestando
il proprio potere di chiarificazione. Chi abbia presenti i passi dianzi
riferiti di Carabellese, ove si parla di discesa nelle « profondità » del
pensiero kantiano, di « germi nascosti », a cui fanno velo « grossolanità
esplicite », della « concezione della realtà » da contrapporre a Kant per
capirlo e della necessità « di avere un pensiero con cui indagarlo », può
rendersi conto di come Carabellese e Heidegger concepissero, entrambi, il
lavoro storiografico, in filosofia, fondamentalmente come interpretazione,
interpretazione da tentare come sforzo di esplicitazione del senso profondo e
intenzionale, restato nascosto, delle parole espressamente dette. Di tale
sforzo, la cui realizzazione può anche comandare l’esercizio della violenza
sulla filologia, il pre L HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, tr.
it, Milano, 1962, Silva, pp. 264-265. Nella Prefazione alla II edizione
dell'opera, che è del 1950, così scriveva Heidegger: «C'è sempre chi si sente
urtato dalle forzature che riscontra nelle mie interpretazioni. Questo scritto
potrà offrire buoni argomenti per un'accusa in tal senso. Coloro che dedicano
le loro ricerche alla storia della filosofia hanno sempre il diritto di muovere
quest'accusa a chi tenta di aprire un dialogo fra pensatori. Un dialogo di
pensiero obbedisce a leggi differenti, rispetto ai metodi della filologia
storica, legata a un suo compito preciso. Più grave è, nel dialogo, il rischio
di fallire, più frequenti sono le mancanze. supposto è un'anticipazione
teoretica (non casuale, non arbitraria secondo Heidegger, necessariamente
derivata dal filosofo stesso del quale si fa la storia, secondo Carabellese),
capace di trasformare in parole chiare e determinate la ‘intenzione’ del
filosofo oscurata e contraddetta dal suo stesso discorso storicamente
esplicito. Secondo Carabellese, il compito della filosofia dopo Kant, nella
misura in cui Kant veniva riconosciuto come ponte di passaggio obbligato nella
storia del pensiero moderno, era di andare avanti sulla strada di una
‘metafisica critica’, che Kant aveva appunto dischiuso ma non percorso. Sin
dalla edizione, che cura, degli Scritti minori di Kant, il Carabellese aveva
fermamente battuto sul fatto che, a suo parere, il criticismo kantiano non
rappresenta la liquidazione della metafisica, bensì la esigenza e anche il
modello, in qualche maniera delineato, di una sua nuova, ‘ critica ’,
reimpostazione. « Nello sforzo tenace e fortunato che Kant ha fatto per rendersi
conto esatto della possibilità della filosofia come metafisica, cioè come
scienza, che ha oggetti non dati dalla esperienza, si possono distinguere due
aspetti: quello per cui lo sforzo tende, diciamo così, ad individuare con la
maggiore possibile esattezza questi oggetti nella loro essenza, e l’altro, che
è come il riflesso di quel primo, per cui lo sforzo torna continuamente a
misurare se stesso » 1°, L’errore di Kant, il suo limite storico, a giudizio di
Carabellese, era consistito nell’aver dimenticato che la Critica, nel suo
stesso programma, era destinata a fungere solo da propedeutica (‘prolegomeni ’)
a ogni futura metafisica e non poteva, perché non doveva, elevare se stessa a
filosofia. L’errore del pensiero postkantiano era stato quello di non accorgersi
dell'errore kantiano e di aver assunto come ovvietà non più discutibile né
problematizzabile la presunta negazione kantiana della metafisica. Metafisica
positivistica, criticismo metafisico idealistico, storicismo, attualismo,
esistenzialismo, ecc. — tale era la convinzione di Carabellese — erano tutti
prodotti diversi di un medesimo perseverare nell’errore di Kant: la confusione
del problema dell’oggetto della filosofia (il problema cosiddetto esterno) col
KANT, Scritti minori, a cura di P. Carabellese, muova ed., Scritti precritici,
Bari, Laterza. problema del rapporto della filosofia con se stessa (il problema
cosiddetto ‘interno. Esauritosi nel mero esercizio della Critica, finita col
diventare fine a se stessa, Kant fu costretto a occuparsi unicamente del
problema ‘interno’ della filosofia e non vide come la sua soluzione sarebbe
stata impossibile fino a quando non si fosse affrontato e formulato
correttamente, secondo le indicazioni della Critica, il problema ‘esterno’. «
Il problema che Kant impostò riguardo alla filosofia », scriveva il Carabellese
il 1929, «e che è sostanzialmente il problema di tutta la Critica, non fu
quello della essenza, ma soltanto quello della possibilità di essa. L'essenza
della filosofia come scienza era presupposta e dogmaticamente accettata. Perciò
il criticismo kantiano non è la piena posizione di quello che abbiamo detto il
problema interno della filosofia; ne è invece la posizione consentita da un
preconcetto essere intellettualistico » !. In altre parole, Kant, nonostante la
Critica, non seppe rinunciare al pregiudizio pre- e anti-criticistico di un
essere sussistente al di fuori della coscienza e del soggetto e all’uno e
all’altra contrapposto e continuò a pensare la filosofia come uno dei modi,
certamente il più fallimentare, di raggiungere conoscitivamente questo essere.
« Come Cartesio aprì quello delle origini, Kant ha aperto soltanto il problema
della possibilità della conoscenza. E tutti gli indirizzi post-kantiani, che di
Kant veramente tengano conto, cercano di rispondere a questa domanda, ma solo a
questa. E a me paiono ora esauriti i tentativi per darle una risposta. È ora di
cambiar aria, di correre verso una nuova dimensione dello spazio speculativo. A
furia di dimostrare la possibilità della conoscenza, abbiamo finito forse col
dimenticare, o meglio possiamo cominciare a vedere che cosa è questa conoscenza
di cui vogliamo dimostrare la possibilità » 1. La ragione principale della
filosofia di Kant, alla luce della interpretazione carabellesiana, stava proprio
in quel bisogno di « cambiare aria », di conquistare « una nuova dimensione
dello spazio speculativo ». Il che, per Carabellese, significava che Kant aveva
toccato il limite estremo dello gnoseologismo moderno, da un lato
circoscrivendo, una volta per tutte, l’area del conoscibile, di ciò che può
essere ‘scienza’, e dall’altro provando che filosofare non è conoscere. li
CARABELLESE, Il problema della filosofia CARABELLESE, Il problema della
filosofia Che cosa la filosofia potesse mai diventare, dopo essere stata
affrancata da compiti di conoscenza — questo, secondo Carabellese, era il
problema posto da Kant, che Kant non ebbe la forza di risolvere, in quanto
lasciò che i potenti strumenti della Critica restassero inceppati dallo stesso
pregiudizio realistico messo in crisi appunto dalla Critica. Il pregiudizio
restò ancora abbastanza saldo per la svista di Kant, che non si accorse della
grande scoperta ‘critica’ e ‘metafisica’, da lui fatta, dell'oggetto quale
universalità e necessità della coscienza e non più suo ‘al di là”.
Proclamandola impossibile come scienza, Kant mostrava di considerare la
metafisica pur sempre come ‘scienza’. Per lui, gli ‘oggetti’ della metafisica
(Dio, anima, mondo) continuarono a valere come l’‘al di là’ della coscienza, conoscitivamente
inattingibile. Eppure il senso della Critica spingeva a inglobare quegli
oggetti nella coscienza, a ‘ immanentizzarli’ non quali ‘ contenuti” bensì
quali ‘essere’ della coscienza, come la stessa coscienza nella sua originaria e
necessaria struttura !8, infine come l’apriori metafisico di ogni determinato e
concreto sapere, essere e fare. Dopo Kant, quindi, anzi attraverso Kant, fare
metafisica, fare cioè filosofia e non soltanto propedeutica alla filosofia
doveva voler dire, per Carabellese, null’altro che riflettere (riflettere, non
conoscere), sempre più a fondo, sulla coscienza comune, sulla struttura del
concreto essere/fare naturale e storico dell’uomo. Nello spirito, anche se
contro la lettera della Critica e contro la dominante tendenza del pensiero
postkantiano, Carabellese pensava tale struttura immanente e trascendente allo
stesso tempo: immanente, perché intrinseca al concreto, trascendente, perché
non esaurita né esauribile in alcuna determinazione del concreto (la
inesauribilità della kantiana ‘cosa in sé’ rispetto al fenomeno o natura). Per
rivalutare a pieno il kantismo bisogna guardare anche «.. coscienza è il sapere
insieme, noi molti soggetti, un oggetto, nella unicità del quale conveniamo »
(CARABELLESE, La coscienza, nel vol. collettivo Filosofi italiani
contemporanei, Milano, 1946, Marzorati, p. 210). Oggetto umico e noi molti
soggetti insieme costituiscono, per Carabellese, la struttura o essere della
coscienza. Fusi e, tuttavia, distinti nella sinteticità originaria della coscienza,
della coscienza l'oggezto è principio 0 fondamento e noi molti siamo i termini
esistenziali. Tutto ciò Carabellese ricavava dalla Critica, ora direttamente
ora mediandola storicamente, ma sempre sostituendo all’abituale lettura di Kant
in chiave gnoseologistica la interpretazione ‘metafisica’ ossia, nel linguaggio
di Carabellese, ‘ ontocoscienzialistica '. questi oggetti della ragione pura,
non per tornare a ripetere la metafisica kantiana di noumeni sconosciuti e
inconoscibili e pur validi come regolativi, ma per guardarli nel nuovo concetto
di co- scienza maturatosi da Kant, e rivalutare così di nuovo il presup- posto
trascendentale della esperienza. Del nuovo concetto di coscienza, in cui
venivano trasposti e semanticamente rigenerati i vecchi oggetti metafisici
della ragione, La filosofa di Kant. L'idea teologica e La filosofia
dell’esistenza in Kant furono la riflessione, tematizzandone l’una l’aspetto
oggettivo (Dio, Idea) e l’altra l’a- spetto soggettivo (Io, Esistenza). Le due
opere furono i due tempi di una medesima ricerca, i due momenti di una medesima
analisi e anche le due direzioni diverse di una stessa polemica. Infatti,
ambedue — come, del resto, tutti gli scritti teorici e storici di Carabellese —
rappresentavano altrettante prese di posizione nei riguardi di quelle che
Carabellese pensa essere le conseguenze della mai denunciata svista di Kant e,
più in generale, le manifestazioni estreme, nel pensiero contempo- raneo, del
non ancora debellato realismo dogmatico. In partico- lare, il libro,
attribuendo a Kant, tradizionalmente fatto pas- sare per il progenitore
dell’idealismo moderno soggettivistico, la sco- perta della oggettività di
coscienza, serviva a Carabellese anche come arma di lotta contro l’attualismo
gentiliano — allora al culmine del suo successo storico —, che di
quell’idealismo si protestava l’esito più coerente e rigoroso e che fu appunto
il bersaglio permanente della polemica filosofica di Carabellese. Analogamente,
La filosofia del- l’esistenza in Kant, con il discutere la confusione kantiana
di esi- stenza e oggettività realisticamente intesa, consentiva a Carabel- lese
di contrastare l’esistenzialismo, che in quegli anni si andava diffondendo
anche in Italia, e di condannare in esso la sopravvi- venza del preconcetto realistico
e dogmatico « che il singolare sia fuori dell’essere, e che l’essere sia al di
là della singolarità » !9 e, soprattutto, l’errore teoretico di presupporre la
esistenza senza chie- dersi che cosa mai essa sia, a quale esigenza strutturale
del nostro essere/fare concreto essa risponda. Esula dal compito assai limitato
e modesto di questa introdu- zione l’esame critico della ricostruzione
carabellesiana della filo- KANT, Scritti minori, cit, p. VI. 15 CARABELLESE,
L'esistenzialismo in Italia, in « Primato » 1943, p. 65. 16 V. segnatamente i
paragrafi 3, 13, 43’ e 84 di questa opera. sofia di Kant. Tale esame, ove fosse
tentato, implicherebbe l’apertura della discussione sulla generale metodologia
storiografica del Carabellese e, quindi, sulla sua posizione teoretica, che di
quella metodologia è motivazione, supporto e guida. A me premeva solo di dare
al lettore alcune indicazioni elementari e, a mio avviso, es- senziali per un
suo primo orientamento sull’impegno programmatico e sul carattere di questa opera,
indubbiamente originalissima e ri- gorosa, in una epoca che, forse, non è la
più favorevolmente di- sposta a comprendere un lavoro storico condotto con la
tecnica usata da Carabellese e ad accettare un discorso teoretico redatto nel
linguaggio che era proprio di Carabellese. Il lettore vaglierà e giudicherà per
suo conto. Quali che siano, però, le conclusioni di ciascuno di noi, possiamo
essere tutti sicuri che la intera ricerca di Carabellese, nella quale, in primo
piano, si pone la sua lunga meditazione kantiana, è, per tutti noi, uno stimolo
potente a li- berarci dai consunti schemi storiografici e a tirarci fuori dai
luoghi comuni in cui la nostra intelligenza filosofica può essersi impigrita.
Bari. Giuseppe Semerari. Semerari. Keywords: fascismo, Gentile, neo-idealismo
come intrinseccamente fascista, Croce, Vico, intersoggetivo, io-tu, dialogo,
dialogo autentico, comunita, valore comunitario, comunita umana, vico. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Semerari” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semmola:
I FONDAMENTI DELLA PSICOLOGIA RAZIONALE --
la ragione conversazionale della filosofia come istituzione – la scuola
di Napoli – filosofia napoletana -- filosofia campagnese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I find it
difficult to decide if Semmola endorses formalism or informalism in his
monumental “Logica.”” Grice: “While Ayer never liked it, metaphysics is very popular in Italy,
as Semmola’s monumental “Metafisica” testifies.” Grice: “It’s good to see
philosophy as an institution, in the Italian way of using this word, as per
Semmola, “Istituzione di Filosofia.” Uno dei più grandi esponenti della scuola napoletana. Partecipa ai moti
di Marigliano. Saggi: “Istituzioni di Filosofia,” “Logica,” “Metafisica”, Biblioteca,
Napoli. Mente divinatrice ardente spirito investigatore che nello studio della
natura morbosa dell'uomo produsse miracoli di arte e di scienza scolare e
presto emulo del suo gran più ai giovann conchiuse alla novità delle dottrine
una sapienza antica procacciandosi fama in patria e fuori di sommo maestro in
medicina ne rifulse lo ingegno incomparabile dalla cattedra nell'università
napoletana nelle accademie e negli ospedali nei consessi legislativi e nei
congressi scientifici nella parola negli scritti membro della commissione
legislativa riunita in Firenze principale autore di un codice sanitario
italiano inviato unico plenipotenziario alla conferenza sanitaria
internazionale di Vienna deputato e poi senatore nel patrio parlamento onorato
due volte di medaglia d'oro dal proprio governo per le cure ai colerosi da
quello del Brasile per la guarigione del suo imperatore Socio di gran numero di
accademie italiane e straniere Insignito di molti tra i maggiori gradi
cavallereschi. Muore nella fede catolica avita. Questo marmo per voce del
comune Si fa eco della pubblica solenne onoranza cittadina. Le spoglie mortali
riposano nella cappella mortuaria di famiglia ove le vollero la vedova ed i
figliuoli a rendere vieppiù paghi la loro pietà ed il riconoscente affetto. INSTITUTIONES PHILOSOPHICAE
AUCTORE IN USUM SUORUM AUDITORUM I CONCINNATÆ INSTITUTIONES METPAHYSICES.
Napoli Micliaccio. Superiorum permijfu y i PRÆCLARISSIMO VIRO CORRADINO
marchiOni spectatissimo S. D. t T l itterario operi, PrjBclarifllme Vir jam jam
(in publicam lucem prodeunti, nihil majus, nihil honorificentius ab Au« ^ore
fuo exoptari poteft, et fehcius accidere, quam ut infigni aliquo nomina
decoratum emittatur. Jam vero nullum illufirius, ac vere inclytum nomen, niii ^
quod Mentis prsfiantia, ingeniique 2 felicitate 'fit comparatum t quod dein
integritate fumma, maxima lUe fapieQtia in graviflimis expediendis muneribus
fit et >'perfe6lum, atque firmatum.* quod tandem egregio animi candore,
atque incorrupta religione fit numeris omnibus abfolutum. Qui funt hujurce
generis Viri, (funt enitn vero admodum pauci) fummi. profefto funt, &, vere
magni.* hi cum ceteris emmeant, fintque de Societate be-. nemerentiffimi, jure
ab omnibus fincere colendi.* et cum xqui fint, atque idonei rerum zftimatores,
in 'eorum fententiam libentiflime reliqui defcendunt, ut nec au-. dax
obtre£latorum manus alfurgere 'contendat. Solent et alia publicæ exiftimationis
capita percenferi :at cu 2 a proprio cujufque merito non repetuntur, et
fortunam, non jam virtutem comitem habent, natura fua et funt nimis fiuxa, et
eb omnibus, qoeis cor fapit, parvi penduntur. Certe, qui ftulte hifce
gloriantiir, haud recogitant Horatianum illud Ne cum forte fuas repetitum
•venerit olim '' Crex avium plumas, moveat cornicula rtjum Furtivis nudata
coloribus. Bene homines intelligunt, quid inter adfcitum, et proprium decus
interfit; et ut huic juftam, meritamque habent venerationem, ita illud
defpiciunt, et averfantur. Hinc fi qui fplendidis decepti_ nominibus aliquem
hujufmqdi Vmum honefti laboris fui patronum inconfulte deleeerint, tantum
abeft, ut bene rei fua! profpexerint, ut potius in fe publicam hominum
tontemptionem ftultiffime concitent. Hsc quum ita fint, nemo proteao non
probabit, cur tantopere exoptaverim, ut meus ifte labor qualiscunque Tibi,
Przclariifime Vir nuncuparetur | tantoque conceffo honore fummopere mi
caudeam', atque triumphem. Nomen enira tuum tot tantifque de caufis illuftre,
at^ que cohfpicuum, eo profero illujtriuf jure, meritoque celebratur, quod
mp*"* reliquorum hominum fortem, non nmofis imaginibus referta atria, non.
gia majorum facinora, fed tu*. Te virtutes unice extulerunt. Tu apriraauiqu
ætate fori curriculum ingrelfus, tantum ingenii acumine, legum fcientia,
gravitate, pfobifque moribus ceteris prsluxifti, ut inde aufpicium faaum fit,
Te ad ‘grandia natum, quod dein-mox comprobavit eventus. Re quidem vera, quum
tot, tantarumque virtutum tuarum fama diutius fori ambitu contineri non
potuerit, faftum eft, ut Ferdinanjjus providentiflimus ReXj nofter regiorum
Hetruriæ prasfidiorum AflTeflorem, et mox etiam Auditorem in Teates, et Aquilæ
Tribunalibus deftinaverit. Qua vero in hiice muneribus (apientia, integritatis,
ac folida probitatis argumenta praftiteris, ex eo plane intelligi poteft, quod
non multo poft Neapolim fis revocatus,, et in fupremo totius Regni Tribunali a
fapientilTimo Principe Criminum Judex conftitutus.^Per holce veluti gradus
fellinatis honoribus Te a fecretis Regni, Te Realis Camera Sanfla Clara
Confiliarium, Te ternum Confiliarium, et fupremum Sa* erarum Rationum Curatorem
vidimus. Tn vero omnibus hifce muneribus major, re olfendilli, Urenuam in
laborando alTiduitatem tuam nec fene6lute remitti, nec negotiis opprimi pofle. Hinc illa eadem Regis Sapientia, qua Tibi probe
cognito tanta demandaverat, ad majora protinus_ extulit. Te fibi a fecretis in
Ecclefiafticis, et Sacri Patrimonii rebus afllimiit,ut in ampliori theatro
collocatus clarius enitefceres. Qua duo graviffima omnium onera ira per Te
adminiftras, ut et Principi probanffima procuratio tua femper extiterit, et
reliquis omnibus admiratione digniffima. Tot, tantaqua dignitates cura honorum
continuatione habita, eo Tibi majori funt Ihudi, quod certum eft, non gloria
Majorum, non aliena ope, non caco /orruna 'impetu, non externis fubfidiis, fed
tuis virtutibus, et fapientiflimo 'Regis Cbnfilio efle • confequutmn.vin hac
tua tam multiplici, tara iolida honorum, 8c gloria fegete nihil fane erat, quod
operi meo melius potuiffem optare, nifi ut tuo nomine fuperbum, tua claritate
decoratum, patrocinio tuo tutum in manus hominum prodiret. Voti compos
effe6lus, reliquum nunc eft^ ut Te facilitatis in me tua non poenitear,
potiffimum cum Adolefcentium edu~ationr, cui tantopere, 8c fine intermif[ione
ftudes, fit illud infcriptum'; et ego 3e tanta in me indulgentia gratias. agam
immortales. Sis latus, et Te Deus virutum omnium exemplar fofpitet femper, ic
pro publico hujus Regni bono in avum 'ervet incolumem. I I IN UNIVERSAM
METAPHYSICAM PRAEFATIO. I. Icet MET^mSICES nomen forte olim fuifle cufum
videa*|h e W tur; tamen facultati, quam elucidandam fufcipimus, apprime 51 ^
confonum cflfc, nemo profecto ambiget. Si enimPhyfices nomine a Græco vocabulo
Sutrii tPhyJis, quod naturam fignificat, rerum fenlibilium pertractatio
infignita fuit ; jure Metaphyfica dicenda erat, (itrei Titr puur ^ (cientia
nimirum fupra Naturam, facultas illa, quæ res a materia (ecretas, neque
fenfibiles rimatur, abftractionis et ratiocinii ope. II. Equidem, cum noftræ
naturæ conditione fiat, ut prima; rerum omnium notiones e lenfibilibus, et
materia concretis exordiantur, tum gradatim progrediendo ad infenfibilia
afeendamus, et fecreta a materia; ordinis ratio poftularc videtur, ut nullus
Metaphyftces T^erxXva\\2i adeat, nifi Phyficis cognitionibus antea inftructus.
Atqui Majores noftri contrarium tenuere iter ; qui mos, poftquam ad nos ulqiie
devenit, veluti lacer fuit, et religiofe fcrvatus ; quantum enim icio, nemo
hactenus illum adgredi «ft aufus, five id nimia antiquitatis veneratione faftum
llr, five ex animi imbecillitate, five alia quacumque ex caulfa. Nolim rectas
licet sententias no-» •vitate in alicujus cadere offenfionem ; quilibet jure A
uta a Jn Unlverf. Metapb. utatur fuo, &, quam libuerit, fequatur fcmitam.
At illud faltem indigitare ex munere meo duxi, ut difcant Tyrones planum, et
magis profuturum emetiri, quem alias lalebrolum experiri folent, ftudiorum
curriculum. Quæ fupra fenfibilia adfcendunt, et a materiali compage funt
fecreta, diverfa (refpicere poffunt, atque ideo non immerito hinc Metafhyfices
partitionem defumemus. Nempe, quas fola mentis abftractionc affequuntur, fi
quidem generales rerum omnium proprietates fpectant, Ontosophia, prima fcilicet
Metaphysices parte, continentur, Quæ vero fpectant Mundum in genere, atque ideo
extra fenfuum aciem conftituta folius ratiocinii vi agnofei poflunt, alteram
ejufdem partem conftituunt, quam Cofmolagiam dicimus. Sunt vero quæ fuapte
natura ab omni materijB concretione funt fejuncta, Mens fcilicet humana, et
Deus, duafque alias fiftunt ejufdem facultatis partes, Pfycologiam fcilicet, et
Theologiam Naturalem. Poftrema tandem pars hominis relationes erga Deum,
feipfum, fuique fimiles expendens, quæ inde fequantur officia monet, morumque
præcepta decernit tum artem edocet re6fe vitam inftituendi-, ut felicitatem
confequamur j* eaque Jus natura y ifthæc Ethica nuncupari confuevit. Quinque
itaque partibus Metapbyftca continetur, quarum priores quattior modo vobis
exhibeo, Adolefcentes optimi, no» exuccas, nec vanis, garrulifque
fubtilitatibus fcatentes, Icd doctrinis, quæ veram redolent fapientiam,
refertas. Has partim quidem collectas, partim mihi in meis meditationibus
fponte veluti fua Pnefatle 3 fua occurrchtcs, elucubrare, et ingenio veftro,
quantum cognovi adcomodare fategi. Poftremain vero partem, favente Deo, mox ut
otium ^ 8c vires fuppetent, adjiciam. IV. Ex ipfa objecti explanatione, quam
modo breviter profcquuti fumus, abunde quifque intelligit, quanta fit hujufce
facultatis, quam per, quam pro^ ba, ac JubaHa mediocris ingenii cultura
trihua's, quam afiiduis, atque providentiffimis curis Praclarijftmi, ac
beneficentifftmi Nolani olim %4nti~ flitis, mox vero, benemereniifftmi
Panormitani */irA chiepijccpi, ac Sicilia Prafidis probatiffimi PHl~ LIPPI
LOPEZ^Y ROYO in eodem Nolano Se• minario ‘ alumnus excepi. Equidem fi quid in
litteris y In morum difciptma profeci y' libenti ac grato y/fnimd, ncc non
ingenuo pudore fateor^ me Ei acceptum referre. Vale. \ jit ea pofita ponatur
etiam id, cujus ed ratio sufficiens, fecus rurfum infufiiciens foret : quippe
præter illam rationem aliud quidpiam modo requireretur ad ponendum illud, quod
noa dum ed politum. NIHIL ejl fine fufficlenti ratione. Hnjufcc principii
indubia veritas cuilibet fponte fua occurrere autumamus. Si quis vero
demondrationem requirat ex principio contradictionis facile eruemus. Sane infit
enti A quasvis affectio N præter effentiam, ita nempe ut Contradictoria
affectio — N, vcl alia quavis diverfa M eidem ineffe poffit. Ex duabus
contradictoriis affe6lionibus N, et N, quas feorfim in eodem Ente ineffe
poffunt, nec non 'ex diverfis N, et M in eodem Ente asque poffibilibus, vel
aded fufficiens ratio cur altera infit, vel non. Si primum, addruitur propofiti
principii veritas.Si fecundum, A 4 quia ONtOSOPHIA. quia contradictoriæ
affectiones N, et N, nec non diverfx N, &T'M lint in Ente A cx hypothefi
seque pofTibiJes, vel utraque, vel neutra infidere deberet: par enim eft pro
utraque ratio Sed utrumque eft contra hypotefim. Quare fi enti A infidet
affectio N, cum, ejus infpecta natura, ex sequo infidere poiTet vel contradi£ioria
affectio — N, vel alia qusevis M, id aliqua ratione, et quidem fufficienti,
fieri oportet. Nihil ergo eft abfque fufficienti ratione. Hujufce principii
veritatem quam maxime commendat illa in omnium animis ingenita prurigo quærendi
femper cw hoc} cur illud} a qua numquam conquiefeimus, nifi fufficiens hujus,
et illius ratio non occurrat. Eft hxc fine dubio tacita qusedam naturx vox,
nihil effe fine fufficienti ratione. . §. lo.Ex diftis liquet, nullum dari, nec
dari poffe furum Cafum. Puri cafus nomine intel-ligitur eventus, cujus nulla
fit fufficiens ratio. Equidem hujufmodi notio nullo prorfus pa£fo concipi
poteft, et ex iliis eft, quæ omni humanæ rationi pugnant. Quod fi quandoque
plura cafu, et fortuna fieri dicuntur, id ex eo eft, quod cauffas p rationefque,
e quibus illa continuo, et certo nexu pendent, minime pervidemus. Prop/er
ohfcuritatem y fapienter Tullius ^q. *Acad. l. 2. ignorationemque cauffn^ tum
fortuna efficit multa improvifa, nec opinata^ et Juvenalis Sat. lo. fed te Nos
facimus Fortuna Deam, Coeloque locamus. Nempe, ne noftram ignorantiam fateamur,
malumus fortuna inania verba proferre, et ita nosmet-. p ipfos deludenfcs,
ignorantiæ noflr* acquiefcere. Inveftigatio fane cauflarum, et rationum mentis aciem
exigit, et improbum laborem. Hinccft, ut qui minus ingenio valent, vel funt
laboris magis impatientes, plurima cafui, et fortunæ tribuant, quæ acutiores,
et laborioft per fuas rationes, et caulTas facile expediunt. II. SufRcientes
rerum rationes invefligare proprium eft Philofophi. Nam ut inquit Genuen» iis „
populus renun phænomenis efl contentus/ „ philofophus in rerum cauflas, et
principia in„ quire debet, quod egregie vocant Platonici „ mundum
intelligibilem, et populo ignotum „ vedigare. Qua Philofopbia nihil validius
eil, „ atque^ efficacius cum ad vitam pacate ducen-,, dam t um quoque ad
reipublicx tranquillU „ tatem. /frop. Xy II. El. Met. par. prior, II. Caveant
vero Tyrones I. ne aniles reputent fabulas omnia, quorum incomperta ed,vel
impervia fufficiens ratio. Meminerimus imbecillitatis nodra;, et ingenue
fateamur, innumera ciTe, quorum rationes neque perfpeximus ha6lenus, neque in
sevum comperiemus. Ecquis hactenus novit cur Magnes ferrum trahit ? cur
Gymnotus, non eseteri pifees, clectricitate polleat? cur Jovi quatuor fatellites,
non plures, neque pauciores fint conceffi, tum feptem Saturno, nullus Marti,
unus Telluri ? &c. Recogitemus vetus illud ac lapiens Epicharmi decretum „
Nervos ede fapientia:, nihil temere cre„ dere „ fed neque oblivifcamur nimis
temerarium, immo dultum ede, rerum veritates ex xnodulo. nodro metiri. Itaque
nihil gratis aderendum, aut gratis affirmanti concedendum * at ubi prxfto fint
exteriora momenta, quibus aliquid fuperftruitur, hajc prius difeutienda funt,
ne illud pertinaciter negantes temeritatis notam merito incurramus, et veritati
fponte contradicere velle videamur. II- Haud putent Tyrones fufficientes
rationes, quibus Cauflfæ ad agendum determinantur femper ipfis cauffis
extrinfecus quærendas effie, quum pluries queant effe internæ. id quod præfertim
de agentibus libero arbitrio pr*ditis di£lum velim. Qua de re animadvertant,
quod licet ultro fatendum fit, fapientis elTe nihil agere, nihil deliberare,
nifi ex omnium, quæ occurrere poffiunt, rationum calCulo : haud tamen putandum
eft, has. rationes veram, et internam fufheientiam continere, qua liberarum
cauflarum indeclinabilem live flagitent, flve extorqueant aflenfum. Equidem fl
ita res fe haberet ( id quod vifum efl Leibnitianis ), cauflæ illæ nequaquam
liberæ dici poflent. In ipfa natura cauffarum liberarum, five in ipfo earum
libero arbitrio ratio fufficiens continetur, cur fe cieant, determinentque,
quin ulla requiratur alia ratio. Externæ rationes, fi qux adfunt, fuam
sufficientiam ex ipfo libero arbitrio confequuntur, fi quidem confequuntur.
Sapienter Cicero de Fato c. I. Motus enim vohntarius tam naturam in feipfo
continet, ut fit in nofira potefiatty nokifque pareat / nec id fine caujfa,
ejus enim rei caujfa ipfa natura eji.De Ejfenfia ^ et Attrthuus, .Xj.y^Uamlibet
nobis notam rem acutius per» 'V^/ luftrare velimus, notio Menti obveriabitur
plurcs conceptus complectens/ cumque nihil fit abfque fufficienti ratione, mo«
nemur hinc totidem veluti realitatibus rem ipfam conflare, feu totidem
didinctis notis. Has duplicis ede generis, nofcimus ; aliæ Tiquidem perpetuo
res fuas comitantur, aliæ non item : abeunt enim, pereuntque ipfa tamen re
perma» nente, queis aliæ fuccedunt, atque aliæ, vel primæ iterum redeunt.
Deinde notarum, quæ res perpetuo comitantur, quædam videntur veluti primæ,
quarum nempe fufficiens ratio nequit ab aliis derivari ; et hæ appellantur
profrie.tates rei ejfentiales. Aliæ, quæ ci primis fluere videntur, et in ipfis
habere lufficientem. rationem, attributa dicuntur. Notæ vero rem non comitantes
perpetuo, fed quæ continuo abeunt, et queis aliæ fuccedunt, mox vel numquam
rediturz, modificationes, affeQiones., qua. litates, vel tandem accidentia
folent nuncupari. Indivifibilis complexus omnium proprietatum edfentialium, quæ
rei cuique infunt, dicitur ejufdem rei E(fentia ^dc quandoque etiam Uatura,
licet minus proprie. Effentia igitur inliar unius coniideraiu^ venit, cui
fcilicet nihil addi poted, nihil demi, quin ipfa res pereat j et alia atque
alia continuo fiat: atque adeo notio eflentix pendet ab adsquata cognitione
omeciei, et generis notione minime ingrediuntur ^ inter ie diferiminentur,
facile intelligitur, efsentias ctmeretas magis compoliras efse, abftra^las
autem fimpHciofres; feu, quod idem eft, primas plurium proprietatum else
'complexiones, fecundas autenx pauciorum.. qualis a nobis concipitur, conftituit- Hæc me. i rito
fecernenda eft ab eflentia reali • quippe ip. Reales rerum dTentias omnes ad
unam nos latere, aut faltem certo non conftare, ultro ' fateri debemus. Ecquis
enim completam ullius rei notionem fibi comparaffe contendet ? Qui reddi
poffumus tuti vel in ipfis magis obviis rebus nullam ruperefle adhuc latentem
proprieta* tem ? Confer, quæ in Logica diximus. Deinde ea ipfa, quæ nolfe
putamus, non funt nifi mentis noflræ phænomena, pendentia quidem ab objectis
externis utpote renfuum fibras irritantibus ; fed quæ nulla prorfus ratione
patefaciunt, quid intrinfecus ipfa fint objecta externa * qua de re alibi
opportunius. Hinc quæ in Scholis definiri folent Effentiæ, notiones rerum
fpeflant, non res ipfas. Cum ergo noflræ notiones, pr*fertira fubfiantiarum,
numquam fint adæquatæ, tum varient quamplurimum pene pro numero mentium; facile
intelligitur, quantopere in hominibus effentiæ rerum notionales fint tum inter
fe diverfæ, quum a realibus diferepent. 7 iai»» GAP. II. De variis Entium
generibus, ^.lO.^^Um Entis notio tum rebus, quæ actu exiftunt,;tum quæ non
exiftunt quidem, at exiftere pofsunt,ex sequo conveniat; hinc P“ Entis
vocabulum emphatice a Platonicis ufurpar tum w.^rOSOPHIA. IS prima, 5 c
gcneraliffima Entis divifio cfl: in Ens Icu exiflens ^ et potentiale ^ leu
pojjihite» zi. Ens actuale vel ita exiftit, ut tota fuat exiftentiæ ratio
fufficiens in fua efsentia contineatur, feu ut ejus exiftentia in Iu* cfscntiæ
conceptu includatur, et Ens a fe, feu Ens neceffarium appellatur. Hujuimodi eft
foius Deus. Vel exiftendi fufficiens ratio in altero Ente continetur, et Ens
alio dicitur, leu Ens cow-.'Hujufmodi funt przter Deum cætera quavis Entia -
Utriusque entis caracteres alibi opportunius expendendos rejicio, ^.22.
Quiecumque hujus Mundi Entia contemplari velimus, innumeris ea mutationum
viciffltudinibus perpetuo obnoxia efse deprehendimus : interim in tanta
pereuntium, ac fe invicem fuccedentium mutationum ferie, Entia illa adhuc
perdurare intelliguntur. Merito hinc conficimus, tot tantifuue mutationibus
aliquid perdurabile fubftare, cujus diverfæ fmt modificationes quotquot excipit
mutationes. Porro primum illud fubjectum perdurabile, ac modificabile
Subjlantia dicitur. Quod vero hujufce fubjecti modificatio efi, et concipitur,
Modus appellatur. astum legimus, pro eo fcHIcet, quod ærernum eft, et
perfeflilTimum ; hinc res facias non entia ^ fed entium umiras iidein
appellarunt. Hajc equidem loquendi ratio fublimior elt, et vere philofophica ;
Deus enim eft Ens abfolutiflimum omnes entitatis rationes in fe uno coniple« 5
lens. Quis ex
factis Scripturis illam hauftam no» dixerit ! fane Exod. III. v. 14. Ipfe Deus,
quis efset, fcifcitanti Moyfi refpondens, dis it: Ego Jam, qui fum. Primam
fubftantiæ notionem ex entium contigentium contemplatione mentibus noftris
informamus : hinc eft, quod fubftantiam concipiamus tamquam fubjectum aliquod
primum perdurabile ac modificabile. Cæterum nequit hxc fubdantiaz notio ex
azquo aptari Enti necefsario, nempe Deo, cui nullas inelsc pofsunt
modificationes. Deinde animadvertendum notionem fub* ftantias mox traditam
penitus abftractam efse: nullibi fiquidem reperire eft ejufmodi fubjectum, quod
nullas actu modificationes habeat. Quot quot exiftunt, funt undique
determinata, et fin» gularia ; univerfalia, qucd fxpe dictum eft, non 1 'unt
nili Mentis noftræ abftractioncs. Cum fubftantia primum fit fubjectum &c.
^.2a.quodvis aliud fubjectum, cui infit,& inhxreat, excludit,-( ipfa enim
fibifubftat, et fubjc6tum eft quarumvis modificationum, quas ei obtingere
pofsunt) non vero excludit quodvis aliud fibi externum fubjectum, in quo fola
infit fufficicns ratio fuas exiftentias. Quid enim implicat fubftantiam
principium fuas cxiftentijc extrinfecus habere, interim vero ipfam fibi
1'ubftare„quin indigeat eidem principio inhzrerc ad inftar modificationum ? Ex,
gr. decora Palladis forma, quam faxo infCliTp|am miramur, lui principium feu
fufticientem exiftentias rationem ab artifice petit ; at interim faxo, non
artifici inhsrret. Qui ergo fubllantia ab externo principio fufticientem fuas
exiftentias rationem petens eidem principio inhasrere debet? porro ad
differentiam modificationum ipfa fibi fubftare nihil vetat - f S' Dio»: V t/ E
contrario MqM nequeunt Jpfi fibi; fubdare, feci neceflTario natura fua alicui
Subjc£lo inhærere debent. Operæ pretium eft heic expendere impiam non minus, ac
abfurdam Subftantiæ deii* Ditionem, quam Benedictis Spinoza ex fuo je« cinore
c^mpo^’uit. Verfutus Homo pantheifti* eam molem flfuere contendens, definitionum,
theorematum, ac corollariorum exteriori appa« ratu Geometrarum morem mentitus
eB,utLe«, Cot ibus facile poffet illudere. Quare hanc præfniiit Subflantiæ
definitionem : per Subjiantiar» ^intdligo id j quod in fe eji ^ et per fe-
concipi’* tur ; tum explicationem fubdit. hoc efl, id, cujus conceptus non
indiget conceptu alterius rei f s quo formari debeat. Verbis illis quod in fe
efl duplex fubjicl poteft fenfus : i. quod in Je efl, nempe a fe% quamlibet
excludens externam caufam, a qua producatur; a. in fe efl ^ nempe flbi ipfum
Jubflaty quodvis intriniecum SubjeCum, cui in« hæreat, excludens, contra id
quod proprie Modorum efi. Hic fecundus Subfiantiæ conceptus» verus efl, fed
nihil Pantheifmo, cui fludet B Spi (a) Nemo mihi calumniam inferat eo, quod in
au» guflilKnio Eucarifti* Sacramento, permanentibus panis et vini accidentibus,
fide Divina tenendum fit, nullum re. manere panis, et vini fubjeflum. Nam, quos
vulpo mo» dos, et accidentia in hoc Ven. Sacramento appellamus, >ro meris
habeo adparentiis, et phsnomenis. Nen^, leficiente fubftantia panis', et vini,
Divina virrute fup.,Ienrur in fenfibus noAris illz ezdem impreffiones, ou^
ierent a reali panis, et vini TubHantia. Hinc profe^Q (l, ut ilU fe^biles
reprxfentationes oobis occiuraot. Spinoza, favet. Primus, cui foli
pantheifticam molem inzdificare fatagit, falfus e(l, qui neque ab ipfo Spinoza,
neque a quovis ejus Af* Iccla ha£lenus e(l demonfiratus. ir. Neque minus fallax
e(l explicatio definitionis ab eodem allata. ( inquit ) concep» tus non indiget
conceptu alterius rei, a 'quo foy mari queat, Si, conceptum Subfiantt^e
prafcindi poffe a quovis alio conceptu, ultro coBtedimus \ fi vero intelligat,
Sub/iant'ee cotf eeptum neceffario a-fs excludere conceptum alterius rei, a qua
ipfa Subflantiq producatur, feu in qua in/it fu-fficiens ratio, princprum fue
exijientia, et id gratis afferenti in zvutti negabimus. Tnterim ex allata
poenitenda definitione illa fua oracula depromit catus Homo. Unicam in Mundo
Subflantiam extare. Hanc unicam Subjlt.rt 'am ejfe Deum.’ Hujus deinde
modificationes ejfe quotquot in Univerfo cernimus f^c. Sed hac de re fuo loco.
27. Ut poflibilis notio fiatuatur, quot non repugnare dicuntur prznotanda funt.
Ea non mepugnare dicimus, quz
fimul effe polfunt. Ex. gr. Triangulum zquifaterum, Subfiantia cogitans &c.
non repugnare dicuntur, quippe triangulum *^cinn zqualitate laterum confiftere
potefi : SubfWntia cum cogitatione, tanquam ejus pro« p^ietate. ' 28. E
contrario, quæ fimuI effe nequeunt, ep quod unum eorum alterum excludat, et
atnbo fimul fe mutuo deleant, e4 repugnare dicuntur: ex. gr. Circulus
quadratus. nam notio circuli notioneni quadrati excludit, et ambas limuU.
simul-fc mutuo delent. zp. Pojfibile dicitur quidquid in fui essentia nullam
includit repugnantiam, quodque ade& concipi potcft. £x.gr.Mons aureus;
triangulum -æquilaterum. E contrario ImpojjibUe dicitur quidquid in fui edentia
repugnantiam involvit, quodque adeo concipi nequit ^ cujusmodi ed circulus
quadratus, qo- Pojftbilis notio diligenter difcriminanda cfl a notione
probabilis. Poffibilitas enim fpe£lat ipfam entis naturam/ Pxobabi^itas vero
refpicit rationum momenta,jqjuibus,;|Mens ad affirmandum aliquid, vel negandum^
^movetur; feu indicat datum Mentis judicaatis.de exidentia, natura,
proprietatibus &c. Entis. Hinc Probabilitas locum.habet in exidentibus,
poflibilibus, • infipoffibilibus &c. 31. Notio pdJifibills, pofitiva ed ;
sidit enim aliquid Menti contempianti.-£ contrario notio Impojfibilis ed
negativa, non enim fidit Menti aliquod ens, fed duo exhibet entia, quz fe mutuo
delent, adeoque aon ens, feu nibil. 32. Poffibilium numerus faltem duplus ed
numero impoflibilium. ImpofUbile enim coalefcit ex duobus, vel pluribus inter
fe pugnan. tibus: d hæc fingula fecernamus, feorfim non -pugnabunt, adeoque
erunt Ungula feorfim poflibilia. Numerus igitur poffibilium, ad minus im
poffibilium humero duplus ed^ . fmpoffibilinm duo datui folent genera Alia enim
funt intrinfecus, et abfolute talia ^ alia vero nonnifi extrinfecus^ et
hypothetice. Primi generis funt quotquot contradi£Uonem in B 4 / voi- Yolvunt,
de quibus ^.zp.ySc hxc metaphyjice int« ^olTibilia quandoque etiam dicuntur.
Secundi generis funt, quæ nullam quidem in i'ui elTen> tia repugnantiam
continent, pugnant vero ex> trinfecis quibusdam hypothesibus / ex.gr. prop*
ter imbecillitatem cauflæ producentis, propter conditiones loci, temporis,
&c. aliafque adpofi* tas circumftantias, Huc fpectant, quæ phy fiet
impoffibilia appellantur, quippe quæ phyficis Mundi legibus* pugnant. Ex.gr.
Lunam eccliplim pati extra oppofitionem cum Sole, hipotetibice eft
impolsibrie^in! hypothefi nempe, quod Mundi curllis jfrxfi' confuetas leges
cosmologicas pergat : flammam.in ære libero deorium dirigi: Virum obliteratum,
et rudem acute, &. erudite de rebus di^cilibus difputare &c., 34. Ad
Jiypotheticam impoffibilitatem ad cedit, quæ moralis nuncupatur. Illa nimirum
moraiiter impoffibilia' vocare confuevimus, quæ intrinfecus infpefta. funt
quidem poflibilia, non'nifi tambn raro, admodum difficulter effici queunt. Ex. gr. diuturna culpæ declinatio
ia xnediis, et maximis periculis. Diligenter advertant Tyrones, quandoque in
communi fermone fimpliciter impoffibilia appellari*, quæ folum moraiiter ' funt
impoffibilia / idque potiilimum recolant in facrorum Librorum k£lione, ne in
abfurdas incidant Sententias. 35. Sunt qui aliud impoffibilium moralium genus
agnofeunt, idque Dei refpectu * definiunt nempe Ea efle, qux in fui natura.
infpc£la, funt quidem poffibilia,at fieri pugnant 'Divinæ perfecti 0 imæ
Naturas. £x* gr. mentiri in-. af inquiunt, cfl: quidem intrinfecus poflibile,
at Deo impoflibile moraliter, quia fummæ ejus Veracitati pugnat ; fimiliter fe
habet innoxium aternis addicere flammis, quod ejus Juflitiais op« ponatur. Sed
hi parum penficulate hoc impoffibilium genus introducunt, cum revera ad im«
pohfibilia abfoluta fpectent. Sane quid magis contradictorium, quam
ju(litia,& iniuftitia, veritas et mendacium &c. ? porro in nifee, quæ
vocantur moraliter impollibilia, collifio continetur inter juilitiam,
veritatem, fanctitatem &c., qux in quavis Divina actione abfolute, et
cITentialiter elucere debent, et inter injuditiam, iniquitatem, mendacium
&c., quz eidem confociari ponuntur. Quæ ergo moraliter impoffibitia
dicuntur, funt reapfc impolEbi lia mtr/w/ecMj, et fibfolute. Merito Divus
Anfelmus.* quodvis minimum inconveniens efl Deo impojjibile, Sed juvat hic
expendere quorumdam fententiam, qui poffibiie definiunt, omne id quod a Deo
effici potefl. Iftorum fententia, nulla ed quærenda intrinfeca pofdbilitas in
Ente, Ibla extrinfeca poffibilitas ex Divinæ Potentias menfura ed attendenda.
Verum qui ita philofophantur, (i recte de Deo fapiuot, nulla dari impoffibilia
Divinse Potentiæ refpectu datuant oportet' fecus enim, fi aliquid per ipfura
Deum impoiTibile agnofeunt, totam fimul evertunt Divinam Omnipotentiam. Sane, fi podibile idcirco ed pofilbile, quia a
Deo edici poted, erit a pari impoffibile, idcirco impodibile, quia a Deo eddei
nequit. Quare, fi Deus omnipotens habetur, nihil pro impoflibili ftatui poteft.
Quod fi c(l aliquid impoffibile, id nonnifi Divinæ Potentiæ defectu impoffibile
eft, atque adeo Dei Potentia non infinita. Hæc perfpecte vidit Cartefius, qui
propterea nihil Divinæ Potentiæ refpectu impoffibile effe affirmavit 38. At
nihil efle in fe, 8f fui natura impoffibile, omnem evertit humanam rationem, et
ad Pyrronifmum deflectit Ex. gr. Triangulum rotundum, Circulus quadratus
&c. quippe tam clare perfpicimus naturam, notio, nemque trianguli
corrumpere, 8 c excludere naturam, et notionem rotunditatis, et viciffim, ut de
hoc vel minimum dubitare, idem fit ac humanæ rationi valedicere, et in
Pyrronicorum caftra coin migrare. Dantur ergo intrinfecus impoffibilia, fui
nempe infpecta natura. Quare, quæ funt poffibilia, hujufmodi funt pariter
intrinfecus, et fui natura. Sed inquies ; Si funt aliqua intrinfecus, 8 c
natura fua impoffibilia, hæc neque per Divinam” Virtutem effici pofTunt -quf
ergo erit Deus omnipotens? Sed facilis eftrefponfio: Quod nequeat Deus efficere
quæ funt intrinfecus impofi i fibilia, id non ex imbecillitate, et virtutis
defectu, fed ex ipfius efi impoffibilis incapacitate, eo quod ejus componentia
per fui naturam fe mutuo excludant. Horum componentium repugnantia cohibenda
foret, atque delenda, ut pofTet, quod eft impoffibile, fieri; nempe delenda,
vel mutanda ipfa ejus componentia. Sed modo, quod inde coalefceret, fieret
intrinfecus poffibile, Sc omnino aliud ab eo,. quod impoffibile ponebatur. Sane
51. adverti muf Impofftbtle nfeo efle Ens, fcd Nihil, et negatio cujuslibet
Entitatis. Qui ccgo Divini Potentiæ impoffibiiia fubtrahit, nihil fubtrahit ;
cdque Divina Potentia femper infinita, quia omnia et Ungula» quæ iunt Entia,
attingit. De Relationibus Entium. Singula Entia ne dutn abfolute^Sc ir$,
trinfecusy qualia nempe funt in feiplis, confiderari queunt ; fed et
etigm.relative, 6 c extrittfecus, qualia nempi^^ aliorum refpeftu '
concipiuntur. Quid abfolute, et intrinfecus fint quævis Entia » negatum
mortalibus noffe; quippe intimas eorum effentias penitus latere totius
Philofophiæ decurfus edocebit. Confer quæ diximus -ip. Reflat igitur jllas
Entium' proprietates elucubremus quæ ex eorum ad invicem’ collatione
elucefcunt. Has nomine re, lationum continentur. Quæ hujus funt loci ad tres
clafles referri pofle videntur • ad relationes nimirum I. fimilitudinis : II.
coexijlentia : III. dependentia. De Relattonibus Simii ItuiUnis, ^ fw/ 7 w
appellantur Entia, quibus una, aut Mplures proprietates, qualitatesve ex
communi iniidere concipiuntur. Eft ergo Similitudo proprietatum in abflracto
confideratarum complexus, per quas Entia dicuntur fimilia. E contrario
diJJimUia dicuntur Entia, quibus una, vel plures proprietates, qualitatesve ex
communi non irteffe concipiuntuV. Ex quo facile intelligitur, quid
dijfimilitudinis nomine veniat^ 0.“° plures funt proprietates, quibus Entia
convenire deprehenduntur, eo major in eis elucet /imilitudo : minor, quo funt
pauciores. Ex.
gr. fi plures conferam figuras, quæ triangula appellantur, fimiies ftatim
appellabo: de communi enim habent, ut tribus lateribus claudantur, tribusque
angulis gaudeant. Si vero animadvertam ejufmodi effe illa triangula, ut
communem quoque habeant laterum rationem, proprius fimilia vocabo. Ex Entium
fimilitudine rationem de« fumimus, qua in determinatas clades illa re digamus.
Cum enim hujus Mundi Entium tanta lit multitudo, ut nequeant fingula Mente di,
iUncte complecti, ea ad certas clades redigere confuevimus : ita nimirum, ut
quæ determinatani inter fe fimilitudinem habere concipimus, ad unicam revocemus
cladem, et ad alteram clafiem rejiciamus,, quas aliam determinatam
fimilitudinem exhibent. Deinde, cum Entium ad eamdem claflem rejectorum alia,
atque alia intenfiorem, fen peculiarem inter fe fimilitudinem habere
deprehendimus j numerofiorem illam claffem in alias minores redigimus. tum
primam Genus, has fpecies appellamus. Ex.^r. Infinitas figuras tribus conclufas
lateribus ad unam Claffem revocamus, et triangulorum nomine infignimus : tum
animadvertentes ex hifce figuris quafdam majorem inter fe fimilitudinem habere,
puta quod alia fingula latera inter fe æqualia habeant, alia duo tantum, alia
finguJa latera inæqualia/ ampliflimam triangulorum classem in tres alias
minores tribuimus, quarum altera triangula scquilatera, altera ifofcclia,
altera tandem fcalena complectatur. Nihil vetat Entia, quæ fub aliquo rcfpectu
fimilia funt, et vocantur, fub alio diflimilia efle, et appellari. Sic
triangula, quæ modo pro figuris fimilibus habui ob communem proprietatem trium
laterum, et angulorum, diffimiles mox appellabo, fi animadvertam non æquales
angulos habere, neque eam. dem laterum rationem Quare intelligitur, ^ntium
Genera, et Species, ex cujufque Mente conflitui pofle, ut ita Entium
Claflis,quas Uni Species eft, Alteri fit Genus plures minores clafles, feu
fpecies complectens. 4ec effe fuura, in aliis atque aliis temporum, -Jocorum
&c. circumftarrtiis immutatum, feu non aliud habere, idem appellamus.
Confidit ergo identitas numerica in Unitate t» boc effe Entis in aliis, atque
aliis temporum, locorum &c.circumftantiis pofiti. Triplex vero ed Identitas numerica, metaphyftca
fcilicet, phyjica ^ et moratis. ldentisas metapby/ica prædicatur de Ente, in
quo nulla, vel ne minima, mutatio accidit. Soli Deo idhæc identitas convenit.
Identitas phyjica tribuitur Enti cujus quidem qualitates mutationem Subierunt,
led ejus elfentialia attributa immutata permanent. Mentibus, et Materiie idhæc
con^venit identitas. Identitas tandem moralis confidit in unitate dnis, cui
varia media.diriguntur, tum in perfeveranti ad idem habitudine.. Sic Lupus
gregi druens infidias, tum Vigilum fugiens mi^ nas, idem moraliter lupus ed /
non emendatus «nim fugit, et ed redire paratus Vigilibus fomno correptis. 53.
Animadvertendum ed, vocabulum quandoque minus proprie in communi vitæ
confuetudine ufurpari - -l^es enim eadem perfeverare vulgo cenfetur, licet-
ejus locU alia, atque alia incontinenter iuccedat,!! tamen idhxc fuc cef- ccflio
fenfibus noftris non pateat. Ita 'flumen planta, animal eadem hodie dicuntur
efle, qux decem retro annis ; id quod proprie verum efle nequit.• fiemo noflrum
idem ejl in /eneBute, gui fuit Juvenis.* nemo efl mane y qui fuit pri^ eiie.
Corpora noftra rapiuntur fluminum more. Sen. epifl. 58. 54. Triplici expoflte
Identitati . triplex opponitur diflin6IiOy numerica yjpecificaf 8 c generica.
Primam tribuimus Entibus fu b eadem fpecie complexis/ alteram Entibus ad di«
verfas fpecies fpectantibus, fed quz 'fub eodem' genere continentur * tertiam
tandem Entibus ad diverfa genera relatis. Patet, adeo folam. Identitatem
numericam efle cujusvis diflinctionis nefeiam. Identitatem vero fpecificam cum
numerica diflin6Iione Identitatem genericant cum diflin6Iione fpeciflea optime
copulari. Rurfus diflinctio alia efl realis, aliar formalis. Primim tribuimus
rebus, quæ in feip« fis, et nemine adhuc cogitante funt diflin£læ. Quod n harum
una alterius flt modus, appellant; qualis efl diflinctio inter corpus, &.
fuam flguram.Secundam vero prædicamus de re^ bus, quæ in feipHs quidem unum,
funt, fed quæ, diverfls mentis conceptibus complectuntur, ip& rei natura,
quæ multiplex efl fuifleientera ratio* nem fubmihiflrante. Hujufmddi efl'
diflinctio, quam ponimus intellectum inter, et libertatemr Mentis, Quod fi
diverfi ejufdem rei conceptus nodt ex ejus natura, fed ex libidine intellectus
ab*t definitione, genere 'ticinpc ^ 8c difFcren-’ tia conftaot.'" ’ 1 : 5
p. Triplici cxpofit* compofitioni triplex opponitur sJmpIicitks.liimirum physice
jfimplex di. citur Ens, quod pluribus realiter difiin^is. ca* ret; hujusmodi
ex- gr. Mens cft humana. Hanc abfolutam simplititatem efie, vari nominis nemo
non videt.,Metapbysioe vero simplex.yt cujus eiTentia haud confiat ‘ pluribus'
attributis, formaiiter difiin6Hs.* hanc fimplicitatsm Deot convenire arbitror ^
quidquid contra' Scotistx fentiant. Logice tandem simplex dicitur, cujuS)
conceptus non coidlat genere, et differentia.tr hanc fimplioitatem de Geo
prsedtcari pbfieplu* : ritni autumant.-* : ,^.^o.Perdiligenter
animadvertaritTyrones, phyfice Compofita non nifi cx plfffice, et abfolute.
fimplicibus elementis confieri ”,i Sane, cujusvis. Compofiti elementa vel funt
compofita, vellunt abfolute. iimplicia. Sit hoc fecundum, con* liftit afferti veritas.
Si primum, hujufrnodi) elementa, quia compofita, aliis elementis con-' A ari
debent. De hifce fecundis elementis iterum qusBTO, funt ne compofita, an vere^
bc, ab-, folMe fimplicia Pquorfum evadat dilemma iftud per fe patet ; nempe,
vcl progreffum compofitionum in infinitum comminilci debemus, vel exiftentiarn
vere, et abfolute fimplicium elernentorum confiteri. At progreffus
compofitiojnum in infinitum abfque fimplicibus elementis fecum ipfe pugnat ; in
hoc quippe progrdfu' oecturrunt perpetuo compofi^ fine componentibus Quæ ftint
itaque phy/icc Compofita, ex vtre, et absolute fimplicibus elementis conflari
debent. » • !' • I ^.6i. Ex qiR) facile- deduoi poteft,- quamlibet fingularetn
Subftantiam Sub/eflum^.effe pbyftca fimplex. Nam ' -• > Subflantiarum
qualitates^ etfi e^dnOL liflt generis ) vel fpeciei, aliat tamen aliis prJt*
ilant,* moles tnfiniy ta reputahitQr. ia.formica. Elephantis.rnoics
magnitudineita' animakuli a P. Francifco de JL.a> nir obfervati, ideo ' ’j i
nfinities infinita rrfpectu prædicti ianimalculi.r.Rurius (phse« nuy cujus
diameter iGt.. intervallum t Saturni, a Sole /.infinita haberi potefi''
refpectU'i|Tclluris atque adeoi infinities infinita, refpecta.jElephaOr feu.
InfinUttm ftcundi ordinlti dt iofinuies •infinifies infinita reCpectu laudati
pdmiitn ajoi« malculin, tertii W/‘»/x.4'.Hujus^ modi comparationes longius
proivehi pofifunt : ^et itaque : dari pluces, immo infinitos
Infinitorum'.relativorum. ordine» Porro;, in ferie infinitorum Infinitum,
-infensioris, onfinis tfi,in•finite parvum refpectu Infinitr ondinis
fuperioris\ quod propterea appellatur it^nittfimumySc iafinittfintde.
Poffibilis proinde, efi Scabies Infi> natefitBalium.y InfinitoiUoi ex
utraque parte in. infinitum producta,. • ; !: ' »> Quantitates reales.) qux
fint. abfolute 4t)fwitæ' repugnant,;; Quantitas enim nihil,. eft.«Itud quam
plurium.* quæ funt eadem, c6l* lectio «. Sed qujacittnque pofita^hujufmodi
colJectione, fempcr.tui»las adjici poteft; Perrnovara wo tUnitatis adjectionem
Bd augumentum. Quantitas ergo natura fd» talis efl, ut..perpetuo augeri poflit.
Sed quod perpetuo augftri poteft, perpetuo limites habet, (qjippe quodvis
augumentumi fupponit (Imilem defectum antecedentem, adeoque limitem )/&
quod perpetuo limites habet, infinitum efle repugnat. Quantitas ergo, quas fit
actu infinita, repugnat. Ad rem fapienter Mosbemlus Syjlem. intel.Cud. feSi. I.
cap. 5. 24. ». a. de numero, qui fpecies eft quantitatis, fic habet. Sciunt
omnes numerum i» fe nihil effe, fed sd ires,.y.r. >.':r^ i •.infinitusf id
quod implicat.Nulla ergo dari potefi extensio v^e.contanua * 8 c’ quam vulgo
concipimus talem, pro phænomeno haberi debet. Sed de hac re - copiosius io
Cosmo-, • > - ' i, • - *. • logia. Peculiaris, ac detcrrninatus modus, quo
res infiar totius confiderata aliis flmul coexiftentibus coexiftit, dicitur
ejus /ocus ; fitus vero appellatur peculiaris, aC determinatus' modus, 'quo rei
partes præcipuæ aliis llmul coe« xiftentibus cnexiflunt. Si de libro A quæram
ubi eft ? profefto locum flagito. Refponfum, quod petitioni pratflabitur, efit
hujufm^i; Liber A eft' in tali bibliothfeci ordine, ferici primus, fecundus
&c.. Si rurfufti interrogem, qud litu } refpondebitur, reBus\ invcrfus
&c. Primum refponlum innuit determinat^um modum\ quo Jiber ’A aliis fimul
coexiftentibus coexilTit.Secundum vero refponfum"'^innuit determinatum
modum, quo libri partes J^quæ præcipu'e iii ipfq notantur, adjacentibus
coexiflunt.'Quandoque tamen in communi fcrmonc fitus, æque accipitur ac locus.
i V ' 81. Locus, ut modo definivimus ^ realh quidem eft, fed relativus, non
ahfolutus.’Philofophi, qui pro fpatio vacuo rerum, omnium receptaculo communi
pugnant, præter ‘ locum relativum, alium abfolutum agnofeunt. Ex horum nempe
fententia lodjs cujufque rei abfc^ lutus eft illa fpatii vacui pars, quæ ab
ipfa re occupatur. Nos vero qui fpatium vacuum abfolutum pro imaginario habemus
78. folum locum relativum admittimus, et fpatii nomine intelligimus Ibcoruth
omnium collectionem « 'Hoc fenlu ipatium^reale quidem eft, sed relativum, non
ablblufum, ut ita ablatis rebus Jocatis, nihil reale amplius remaneat ; ' fcd^
fpatium, E. contrario in expcctationis ftatu, vel tædii,,vel cujusvis doloris?
breve clapfum tempus admodum longum videtur. (a) Sane in,. ^ • ' hi 00 Hic
illud Poetæ obtindt: mifero longa, ff Itci Luvis, hifcc cafibus Animus raorjc,
tædii, doloris impatiens, e molefta fenlatione fe fubtrahere continuo conatur*
at irritis conaminibus, moleftia perpetuo recurrit. Adeft itaque velut interior
colluctatio, et continuus conflictus mentis, et doloris. Continuu^i hicce
conflictus loco eft continuæ fucceflionis, longum fluxifle tempus, exhibet. Quæ
cum ita Gnt, continu is erroribus obnoxii elfemus, fertempus ex noftrarum
cogitationum, fenlationumque ferie dimetiri vellemus. Hinc factum eft, ut
tutiorem regulam, c^rtiulqus medium dimetiendi temporis fit quæsitum. Kihil
huic fcopo opportunius vifum eft motu æquabili: oam licet quamplurimæ sint in
Muhdo, luccefsivorum feries, hæ tamen, quia æquabili continuitate carentia, ad
rem non videntur. Atqui nullibi forsitan rejjerire eft hujufmodi motum, qui sit
vere æquabilis : conversiones attamen Solis circa Tellurem ad fenfum faltem
videntur æquabiles. Ipfa itaque velut fuadente Natura, pro certa temporis mem
fura, ad hujufmodi' conversionum fericra ‘devenimus.* tum singulas conversiones
in partes minorem tribuimus, per motum artificialiter paratum, menfurabiles,
Illas diximus dies natura* les, harum partes horas denominavimus : tum lingulas
horas in minutiores, æquales partes tribuendo, mirtutortm cudimus.denominationem
ad eas indicandas. §.8p. Ens pluribus continua ferie fibi fuccedentibus
coexiftens, durare dicitur : eft proinde Duratio continu^ jTcu permanens eatis
exi sten. . flentia, qua pluribus in continua ferie flbi^ fuccedentibus
coexiftit, aut faltcm coexiftere per fe aptum eft, po. Duratio itaque non efl
quid ab ipfa* rc durante rcaliter diftin£lum, neque quid ab-‘ iblutum, fed
relativum; est nempe ipsius rei coexidentia ad plura fu^lsiva, sive hasc realia
fuerint, sive tantum imaginaria. 5^r. Duratio cum Tempore confundi non debet :
hujus notio in atquabili rerum luc. cefsionc consiftit ; illa e contraria in
permanenti Entis, quod immutatum, et immobile concipitur, exiftentia. Fingamus
unicum Ens existere, et in eodem flatu perpetuo manens nulli obnoxium mutationi
: modo nullum fo. rct reale tempus / adefl vero realis duratio, quæ fat
intelligi ex eo potefl, quod Ens per fe aptum efl coexiflere fuccefsivorum
feriei. Triplex diflingui debet duratio. Vel enim interminata c(l, et inHnita,
principio nempe carens, et fine, et dicitur ^eteynhas. Hasc non nifi foli Deo convenit. Vel duratio finita,
feu terminata efl ex utraque parte, nempe principio, 8 c fine clauditur,
diciturque fimpliciter duratio. Ha;c durationis fpecies optime tempore
menfurari potefl. Cum enim tempus in æquabili, et continua entium fucceffioæ
confiflat, ex quantitate fucceffionis, cui Ens aliquod coexiflit, hujus
durationem certo determinare licet ; nec non unius durationem, cum alterius
duratione, conferre. 'Duratio limplex omnibus naturalibus productionibus
convenit. Tertia tandem durationis fpccies,, •. vum bi^ :. vum dititap y
'eflque illa j qiuap, initium qi;idem habet'V' attfine* careti. Hstt ad
Materiam et Mentes fpectat, neque poicft tfcrnpore me«n furari,) etfi. djus
initium tempori alicui^ veniat * >. / '•, • 'V r^ifl . r..'.: C..ruUbf f
;,.i >.i,i. De relationibus dependentitr, i*ii de Cauffif », * " ‘i ;•
I Efr qiMcpiam ab alta pendsre dicjtur.j 'X^‘ li huic infit quævis alterius
ratio^.,* ifth^’verb unius ad alteram relatio dspenden^ tia nomine. indicator.
Ex. gri! Jiorologiijrnqtqs ab tappenfo pondere, vel ab intus -in,clufo,..elai
firo ptfwrfefe I dicitur, quia pondus lappenruin., vel elaftrtrm rationem
co.ntinei)t, cur in hpto^ logio motus-fiat. ‘ r«., *. Via, &c. Hujufmodi
Cauffa remota, et media^ ta dicitur. E contrario proxima, et immediata ^
laudit, quam inter. et effectum nuHa interce^ dit alia: hujufmodi in adducto
exemplo eff organicæ plantarum flructuræ insita. 1^. 'XI2. Si Cauffa proxima,
8c immediata de*, lerminationem fubeat ab intermedia præcedente, ^fimiliter
iflhsc ab alta, Sc ita porro; Cauf* fm ftt^ordinata ^dicuntur t 8t connexam
ferieiit i^nflituere. Hujus feriei prima appellatur, quasnulli przcedenn
fubordi natur, cztene vero in« tcnriedise mediata nuncupantur. CauflTz in
ferrem fubordiaata t]vSm6^ di ' funt vel effentiather, vd æcidentaliter. £/•
fentialiter fubordinat» dicuntur, fi fubfcquen* |iuax actiones a præcedentibus
fint excitz, dc M . P i2eterminat«. ^ccidentaliter vero fubordinatv
appellaotur, 11 fubfequentes a prascedentibus ia fola exifleotia peodeaat, noo
item in agendd. 1I4> De GmdSs ba^ potiflimum tenenda funt- '• I. Ex nihilo
nihil fi*. Nullum Jioc* antiquius axiomate in pbysicis, atque cofmologi. cis
facultatibus « magifque receptum communi Philolophorum confenOone. Sed rectus
e)us £enfus Qoo ab omnibus zque acceptus. Ita pmrro antelligaat Tyrones
c,IQibHnm nequit effe net tMuffa effieient, isrc materialis^ nee formatis^ ««.
fue finalis ulliur roi, Sane nihilo nulls, funt proprietates, alias non effet
nihil ; fi nulle proprietates nihilo conveniunt, nulla caufialitadd Ipecica
tribui poteft^*, • 215«. Plures e Veteribus ita intelligendum autumabant, ut
cuilibet productioni præcedens fubjectum, tanquam materialis caufia,
ftatuenduna «tlTet. Hinc «ternum Cahos, e quo omnia ortum haberent illi
imaginabantur, et. crcatioi nem ex nihilo, ex nullo nempe prascedei^ fiib*
jecto, impofiibilem decernebant. De fenfii axioip^ mati a nobis tributo, nihil
efi quod dubitq^ mus, fi indubium cfi contradictionis principium; at vero
fenfus ab hujurmodi hominibut excogitatus nulli certo principio efi
fuperexftructus. Creattonem ex nihilo in CofmolQgia vindicabimus ; illud
tantummodo heic monemus, gratis iupponere Adverfarios, omne quod fit,,ex ali^
quo præcedente fub jecto fieri debere. Certe mp/ tus ell aliquid : interim
contjnuo experimur, ipos varios motus de noyo in corporibus foln D 4 .
voluntate producere jecto, tanquam ex.cauifa naateria-li r repeti. Ecquid^
ergoavetabit,hGau(Tam inii* alita efficacitate prarditara' fola •voluntate 4
^ubftantias dt- nihilo condere? Certe nihil vetat, ficuti ex noto effectuum
diferimine par diferimen inter Cauffa? ponere, ita ex cognito Cauffarum
diferimine, funile dilcrimen inter effe» xtus iptereffe pofle, decernere. Id
quod contra xos dictum fit, qui incogitanter allato exemplo objici, pofle
putant, morum efle qualitatem, non fubdantiam 4 cum contra iubiiantiæ fint
illæ, de quibus' quæflio vertitur, utrum ex nihite creari' peffint'.’ - ^.11 d.
II. Omnis Cauffit debet effe prhr fuo effe. Siu. Sane Effectus exiftentiam luam
tfonfequi» lur ab actione Caufsæ efficientis. Itaque efftetus natura fua 'cfl
pofterior Caufla. «.•* e Duplicem diflinguunt Philofophi priol ritatemiif
natura nimirum, et temporis • Cuni Calilsa tempore prafcedit effectum, hanc
dicunt ^iifitatem temporis. Si vero ' nullo prorfus tvrtpore Cairlia fuum
pra?cedit effectum ^ feu iiumquam Caufsa’fuo effectu fejuncta «xtitit^ modo
nonnifi prioritate naturæ, feu ordinis gaudeti. Hæc naturæi'-priorit.s in eo
coniiftit, quod effectus fuam rationem, fuumque princi*. pium- e caufsa petens‘
fine caufsa exifteotiam conftquiunequit : deinde in noftrarum idearum ofrdinc,
taulfæ conceptus notionem effectus neceffario antecedit. • «. III. potefl effe
cauffa efficiens fui fpfitis. Revera, cui tribuemus caulsalitstein » rei non
adhuc productæ, vel rei )»m -effectæ? Non prjmuni, quippe res ^^on adhuc
exiffens nihil { agere, poteff 114. Non fecundum, canf faiitas'qiiip|X
præcedere debet, non fubfequi effectim; Quare Nthil poteft elTe cauisa
efficiens fui ipfms. .. tiip- IV; Nequeunt duo Entia fibi mutuo effe eduffa
ef^eientts, Sit primo -A caufsa efficiens B. 'A ‘erga:eft prius, B pofterius.
i.i($.Sit xnoda B taufsa efficieii& -A,. Erit A pofteriuss B. anterius';
idem ergo A erit anterhis ffmuiy posterius ^B,‘i(f quod implicat. Igitur
&Cv ' «xoi Vi^ j^Uqmd efi in effe&U y 'debet efi
fe^ht>:eayffai^^9^yfofttttdite0‘'.y vei eminenten-J i2oa^ ^ tineeii
f^rinutite^' OM " res iir ‘ altera ^ ‘ dicitur, fi illa irt hac continetur
fecunduui ifusm ooncre^ tam: effentiam ' ita formaliter * contineri in fii*
rnihe* dicimus futuræ •pI&ntai-^rndinTenta feri* cum in bombycis vifceribus
&c. 'Eminenter vc* fo ^ wtuaiiter ^ B nonnifi virtus," et poten«^ tia
' fufficrehs.aUieri' iniit ^condendi aliam &qui9 exv dnodrit mdtum
femaiiter in Anima, quas xllURl fiia ioluntate^ pradneip,- contineri ? equi^
defn folarViitus, &' ponnfia> motum; produceiid. di «iniiieff a^titBse
pofitis^ifffaliquid eft' in fectu V quod'"non fft 'iii (C^ifa, r» aliquid
vel^ efi mt alia caufla, vel ex nihilo. Hoc fecuifi «iuin r^giiAt t ^ 4 « Si'
primum, effectus it* ei^ non cx utiich, fed-«ex duabus cauffisfociis, et
confiftit veritas effati. IX f; -VI? Series 'omffdtium fuberdhtatarum^
q[MæU*dque ea fit, abfque ulla Cauffa prthha, et indeptn4ertti ^ muino
tepugnat, etfi in infinitam J.1 produB/t concipi velit. In hac infinita fcrie
qua* vis Cauffa cft cffe£Ius przcedcntis. Qui ergo fiatuit infinitam fcriem
caulTarum fubordinata* rum abiqæ ulla prima Cau(Ta,8c independente, ponit
infinitum numerum effe£luum -j- i ab* fi^ue ulla caufla; id quod evidentiflime
pugnat. •§ iiz.
Sed lubet Tyronibus, rerum mathematicarum fiudiofis, id ipfum alias exponere. In ierie caulTarum fubordinata rum, quziibet
Cauf* fa determinatur a præcedente five ad exifiendum, five ad operandum 112.
Nulla ergo caufia continet in fe ipfa fufficientem rationem fux exifientiæ, vel
a£Iioni$ : adeoque nulla cauf* ! fa fufficientem, et adæquatam continet
ratioæft | cau (Tz pofierioris. Itaque przdi6Ia feries in infinitum protenfa,
e(l feries cauflarum ejus natu- i rz, et conditionis, ut in earum fingulis
metum adfit nihil in ordine ad determinatam exiilen* ; tiam cauffarum
pofieriorum. Summa autem om> | nium nihilorum, utcumque numero infinitorum j
efi nihil. Jamdiu enim confiitit, illud Guidonis Grandi, ut ut fummi Geometræ,
paralo* gifmura fuiffe, quo, ex expreffione feriei paral* klz ortz per
divifioncra ~, intulit, fummam infinitorum zero effe revera squalem dimidio»
Series ergo illa, ut ut infinita, omni caret fuf. ficienti, Sc adzquata ratione
ad exifiendum, nifi ab Ente extra ipfam pofito, zterno, et a quovis alio
independenti ad exifientiam deter* minetur. irq. Contra Atheos hoc pofitum ell
theo rema delirantes, omnia in Mundo pendere [ab infinita cauffarum contingentium
fcrie per im* JDca* p- :: --J. SP nienfam aternitatem produfta ; quafi nempe,
quo longius, remotiufquc produ£tam imaginemur hanc commentitiam, fetiera, minus
opus fit Caufla prima, et independente. At contrarium Tana exigit Ratio. Rem
exemplo illuftrabimus, quo Atheorum dementia magis pateat.. Supponamus ferream
catenam ab alto derivantem horizonti normalem,quam, fi lubet, in infinitum
produ£tam imaginemur. Contendat vero aliquis, catenam iftam, immane quantum
ponderanteral nullo fulcro indigere, ne deorfum tota ^uat * fed hujufmodi
pofitionem perpetuo ex feipla fervare poffe, hoc herculeo a-rgumento. Primus,
Sc infimus catenæ annulus, '^.e ruat, detinetur a fecundo, nec ullo indiget
fulcro,* hic fecun» dus, quin et ipfe fulcro indigeat, detinetur a tertio, et
ita deinceps in infinitum. Igitur tota catena, quin indigeat fulcro extra iplam
pofito, perfe verare ex fe fola poteft in illa poutione. Profeao ita
delirantem, non adducis rationibus, fed praftito quam citiflime elleboro,
curare fatageremus.' En typus delirantium pariter Atheorum, qui feriem
caufsarum fubordinatarum infinitam abfque ulla prima Caufsa, et independente
comminifeuntur. Una eademque res p 9 te!} /tmuf ejfe Caujfa finalk, et effeBus.
Eflfeaus nimirum non adhuc obtentus, fed mente præcognitus,» volitus, ipfam
movet ad agendum, ut cfFe6Ium confequatur. Finis, irquiebant Scholaftici, ns
intentione prior ^ in exeqttntione po/lerior, iEger, ut fanitatem confequatur,
pharmacis utitur ab amico Medico præfcriptis. H«ic fauitas eft finis, qui in pharmacorum
ufu intenditur, et quam pofthac xger coniequetur j eadem vero fa« nitas eft
Caufsa asgrum movens, ac determinans ad pharmaca adhibenda contra fuafioncs
guftus, et oeconomiæ. Infcite itaque Spinoza decrevit Etif. p. p. app, ad prop.
Omnes cau fas finales, nihil, ntfi humana ejfe commenta: hanc de fine dbiirinam
naturam omnem evertere nam id, quod revera caufa eft, ut effeSum confideraty et
contra : deinde id, quod natura prius eft, facit pofterius. Nempe non diPtinxit
Spinoza in« ter eflfe£fura in actuali ftatu conftitutum, et eumd^T.on ftatu
ideali, feu in intelligentia Caulsæ efficientis comprehenfum. IZ5* Priufquam
hinc abeamus, celeberrimam qiteftionem, de qua acriter Philofophi jam inde a
Cartelii tempore decertarunt, paucis expendere juvat. Qjue vulgo dicuntur
cauffa fecund(e-, feu atuffa creata, funt ne revera cauffa efficientes }
gaudent ne infitts viribus, queis age» re Valeant, agant} Jfn ne' junt tantum
oc» cafiones, cur Deus per ipfas, et in ipfis ftm» mediate agat, eofqua
moliatur effeBus quos 0 vtrtbus creatarum caufjarum promanare putamus? Jz6.
Primum negant Cartefiani, ftatuuntque creatas cauPsas omni prorPus agendi vi
dcftitutas / nihil adeo ipPas agere, fed Deum omnia operari fecundum generales
a fe conftitutas leges pro variis illarum occafionibus, nempe juxta illasmet
leges, quas vulgo natur* dicimus. Impingat globus A in alium B* hic
protrudetur, ilPe vero vel lentius perget, vel quiefcct, vel refle6lctur juxta
Phyficæ leges. Ex *' 6i Cartefianorutn fentcntia truditur globus' B' non motu,
&. aftione irruentis globi A, fed immediate a Deo, qui, juxta generales a
Te fancitas leges, "pro occafione irruentis globi A,' alium B propellit :
tum idem globus A occurrens in- globum B, etiam immediata Dei actione
retardatur, ad quietem adigitur, vel reflectitur ; non ex reactione, vel
elafticitate corporis percufli. Pariter non ignis pyrio pulveri applicatus,
illum in flammam agit ' fed ‘ex oc>» calione admoti ignis, Deus pyrium
pulverem inflammat • tum ex occaftonc conflagrantis pulveris, pilam e tormento'
expellit, et pe^ parabolicam femitani ducit j qua in parietes impingente,'
iterum liac'*occafione ipfe Deus parietes disjicit; rurfu?, ex ^occafione
corruentium* parietum, fubftantert hominem perimit. Ita de cæteris
quibufciimque aliis’*. Neque corpus humanum aliquid ih 'animam agit, neque
anima in corpus / Deus lingulas in anima adfectiones gignit, quas e corpore
prodire putamus, fingui lolque motus in corpore juxta animæ voluntatem’. Non
moror Malebranchii opinionem ulterius pergentis, de qua alibi opportunius. • ^
lay. Cartefianorum sententiam ' longius, quam par erat, prolequuti fumus,
quippe illam cxpofuifse, confutafse reor - Sane communem illa hominum fenlum,
rationemque evertit. Tu ne, inquiet Cartehanus, præjudicia pro ratione
obtrucljs } Perbelle | ii tara conflantem, univerfalemque hominum, turi^
philofophantium, cum naturali rationis ductu judicantium, fententiam,
pnejudicii et falfitatis arguere velimus, o felices CartefKini, queis unice
bonus fenfus, 8c recta ratio ceffit ! Deinde, fi vel tantisper Advcrfariis
demus fententiam, quam tuentur, quan« tum ab Idtaltsmo ( putidum profecto
delirantiun^ fomnium ) diftabimus? Unde corporum noftrorum, totiufque Mundi
exiftentiam ultra rcfcicmus ? Sane in hoc fyftemate ^ cum nihil inter fe agant
entia creata, fed omnia agat Deus, pronum erit fupponerc, nihil exiftcrc» aliud
præter me, et iplum Deum. {a) ^ iiS. (o) Corporet Mundi exiftentiam noa
aliunde, quam ex Mentis noArz fenfationibus nofcimus. Si has fenfationes non ex
aiAione circumflantium, et ptementium corpo-‘ rum, fed ex Dei immediata adione
fieri ponamus, nullum dein fupererit argumentum, quo contra Idealiflas Mundi
exiflentiam vindicemus. Quod enim Occaflonaliflac fubdunt, fenfaticnes ex
occafione circumflantium corporum a Deo Mentibus imprimi, quas numcuam infet-.
ret nullis eircumexiftentibus corporibus, nimis leve eft, ^ et hypotheticum, e
quo Idealifla facili negorio fe expediet i ita enim regerere poteft. Unde
rejctvifii corpor0 extare * tum, juxta horum circumjltiniium varias occafiones,
Mentem varias ex a&ionh Dsi Jati Jenfationesi Equidem de nofiris
jenfationibus nulli dubitamus^ fed inquirenda tantum occurrit, quanam fit
noftrarum fenfatienum eaujfa. Has ego ex immediata Dei aSione ref eto, quin
quidpiam aliud extftere agnofcams quippe * illum fat potentem,^ Jdpientem ejje
intelligo, qui ideaiis mundi fpeSaculum et /dat, et valeat menti mex exhibere,
ProfeBo nec hilum prnfiat, aliquem realem mundum comminifci, qui et nihil ad
meas fenfationes conferre poteft, quo nullimode Deus indiget, quominus idealem^
mundum menti mea reprafentet. Quare fi nofti, haud Deum decere, entia
multiplicare fine wceffitate, UT fuos adfequatur fines; praclare me gero, dum
nihil prater me, et ipfum Deum extare fentie, Neque. . t%S. Sed quibus tandem
-argumentis Cartefiani hanc fuam conficere rentur opinationem? Duo præcipua
adferam, nam cætera (lomachum cient. L Nequit omnino iiitelligi quomodo entia
cneata jn fe agant, quidv^ fit illud, quod cjc uno tranfit in aliud, li. In
idea rpiritus non elucet profecto conceptus vis corporum motricis. ' lap- I. At
in primo uberiorem Logicæ peritum in Adverfariis eli, quod defideres. Nem
iuvabit Occaiionaliftafn reponere, idealifmum cum Divina Boniute pugnare; nempe
in ea fentenfia Deas grande Mundi rpc6laculutn Menti tam vivide repra^fentando,
ut omnes proclives Hmus, et quali cogamur ad Ivniiis xealis mundi exillentiam
adftmendam, nos profefto illuderet, fi nuilns exificret mundus ; Non,.inquam,
id Occafionaliflas juvat ; ita enim merito refumere poteli Idealifta, fiiamqu.*
cauisam conficere. Pape ! Ei tu adeo vecors, et audart, qui Deo tuos errores.,
ac deliria adjudicas \ eccur judicium tuum, me tibi exemptum prmbertte, haud
cohibes l certe quas vividas fenf asiones te fati ajfeveras, et corporum
extjlentiam, ut dicis, faseri quafi jubentes, et ego patiar s illud reliquum
efl, ut ratione teipfum cohibeas, et ab errore fetves immuitem, ficmti ratione
didicifti et alios plurimos profligate : ut ecce, te tua vi brachium, ac totum
movere corpus, hujus mundi corpora invicem inter fe agere, colores corporibus
inharere &c. Si hos errores Japienter rejicere Jategifti, neque unquam Deo
adjudicandos agnovifii, quippe ratione duce profligantur, ita pariter eadem
duce ratione veterem dedi f ce errorem, et prajudicatam expunge fententi emr,
realem nempe mundum exi flere: tuaque ofcitationi, aic infcitia tribuas,
nonDeo,q iod iu eam dementiam defcendifli: Itaque cum adeo facilisfit, ac
brevis ab Occafionalifmo ad Idealifmum defcenfus, eadem cenibra ambx lignanda;
filat fententia:, fcilicet inter furentium deliramenta reponenck. Nempe hsec
duo • fececoenda cr fuimus, uno conceptu complexis, emereant, compofita
dicuntur, Earum notiones, quippe quæ frequenter in tota Philofophia occurrunt,
feorfim heic exponere, operæ pretiuna duxi. Sunt autem hujusmodi Ordo, Bonitas
-, Perfecto, Pulchritudo. Plurium Entium five coexiftentium;, (Ive fe
confequentium ita' connexa feries., ut iibique eadem ratio deprehendatur in
'modo, quo juxta fe collocantur, aut fc' invicem excipiunt, ordinata dicitur J
ejufque abftraftum appellatur Ordo. Confiftit itaque' in fimiJitudine, qua
plura' Entia juxta'-(e collocantur, aut fe confequuntur. Si fecus illa. fe>
habeant, ita nempe fint Cohftituta, ut nulla- in eis eluceat fimilitudo five in
coexiftendo five ip fibi invicem fuccedendo, inordinata, leu eonfufa dicuntur.
Exemplum fumatis ex- bibliotheca. 132? Et quoniam fimilitudoi, quam ordinerp
dicimus Entibus præter effentiam.convenit, ex aliqua 'profecto ratione pendere
debet. E Ratio ifthcc ' Printifimn ordinis dicitur et PROPOSITIO ENUNTIANS
communem illam rationem, ieu fimiliiiadioem, qua Entia co^xiftere iil» debeat,
vel fe confequi conformiter>huic principio, Rtgulo ordinis appellatur. Ex.
gr. Principium ordinis in bibliotheca cft :| Lilrros od comparandam eruditionem
aptos in promptu ba~ here. Regula vero ordinis eft hujufmodi : J^ihri ejufdem
argumenti Jimul componantur. igg. Atqui communis illa ratio, qua plura entia
juxta le collocari debent, vel fe confequi,ot ordo^io eis eluceat, potell eife
liBiplex, vel compofita. Hinc vel fimplex, vel compoHta eft ordinis regula, et
ejufmodi pariter Ordo iple. In præcedenti exemplo limplex pro bibliotheca eft
>6rdo, tum ordinis regula. Compofitus vero ^it, fi ifihaK compofita regula
obfervetur ; jLihri ejufdem argumenti, /mgutSf ty retatis fimui collocentur. %•
hibetur. Sub Bonitatis abfoluta nomine venit quidquid reale in quovis Ente
concipitur; ejus nempe edentia, fingulæquæ proprietates. Huic opponitur Malum
abfolutum, quod confidit in deficientia cujufvis realitatk in Ente : id quod,
ut patet, nunquam fieri poted. Ipfe concep* tus entis, ed conceptus alicujus
realitatis : nui* ' lun^ Eoa fua edentia expoliari unquam poted. £ 2 Sufboc
itaque fenfu fingulia Euubua ahqua re/a./ua iis tant.m.ribm.ur ^ olinrum
ablolutam bonitatem con et peteciunt, vel confervare, et perlervani, ^ v
immediate, five medtate. E rela»;™» te]ligi potell, Mundi nomine intelligendum
clTe Syftema Entium tum permanentium ^ cum fucceffivorum continuo nexu iater fe
conjugatorum f quodque ad aliud Jimil e fyftema minime pertineat, ' Entium
permanentium nexus eorum refpicit fitum, feu coexiftentiam, et ex CJauffis
finalibus repetendus eft,*> feu ex fine, ad quem refpcxit Qui primo Mundum
fabricatus efl, et unum Ens ad aliud ordinavit. Ita ex. gr. Tellus in ea
difiantia a Sole locata efi eamque orbitam conficit, qua nec nimio ardo* fe
metalla fundantur, vegetabilia, 8c animantia enecentur* nec nimio frigore
rigelcant omnia, rurfumque pereant pjus viventia; fed ejufmodi in lingularum
tempeftatum vicifiitudinibus tem* peraturæ 'limites 'perpetuo ferventur, qui et
vegetantium,& animalium oeconomix conveniant. p. Entium vero fucceflivorum
nexus tempus fpectat, firque per CaulTas eificientes y internofei vero poteft,
quoties fubfequentis exiilentiæ fufficiens ratio in Entis antecedentis actione
continetur. Hujufmodi ex.gr. efi nexus, qui inter fructus, et flores plantæ
intercedit, tum ille, quem hos inter, et fuccos ab organica planta ftructura,
ejufque peculiari phyfi elaboratos, nofeimus. IO- Mundi ergo in genere Eflentia
pra?cipue confiflit in peculiari illo nexu, quo tum Entia permanentia, cum
fucceflfiva inter fe vinciuntur : iiquidem ex ^variato nexu alius atque alius
prodiret Mundus, licet Entia inter fe connexa eadem eflent. Ex. gr. fint A B C
O &c. N &c. ’fuis tandem limitibus concludi illam debere, quQS ultra
progredi nequeat, Nemo ambigere jpfbteft ^ Prima illa componentia, ex quorum
coagmentatione corpus phyficum primo conftituitur, quxque ex aliorum nexu non
funt conflata, Elementa corporum dicuntur r tum ipfa hxc elementa Mater'ut
mundana nOmine veniunt. (a) De hifce elementis, quzremus I. funt ne extenfa,
vel inextenla ? IX. similia, an diflimilia ? ACorpoYum Eltmtnta funt nt
tnttnja, vet inext$nfa} 1 T^Ifcrcpantcs Philofophorum fenteaI J tlx ad duas QafTes,
quod ad rem prxfentero attinet, referende videntur. Alii fiquidem corporum
elementa vere fimplicia ponunt . ( 4 ) ElementoFum nomen diveifo plane Icnfu a
Cbemi. cis ufurpatur. Defignant niminvn quafdam materiales fubfiantias ( non
fenfu metaphfSco, fed vulgari fumunr fubflantijE nomen, vide ont. §/ 6i. ),
omnino fimilarec, cum in fui toto, tum in fingblis partibus, quasque nulla
artis, naturzque vi confiat, ^folvi in alias diverfas fpeciei. Has folent
appellare etiam fn6ftaHti4$s fimpUees ; tum qwque prima carporum componentia.
Vide quantum obiant notiones Metaphyficonun, et Cheroicorun tidan Vocabulo
labjeAc ! So nunt, et inextenfa.• E. contrario alii extenft habent, et
figurata. : • i I. In prima chfCc veteres Cunt Z*»onifl/e\ qui corporum*
elementa punBa dixerunt fimplicia, et mathematica. At rifu a Sapientioribus
excepta.hac lententia, ZerWt/ur, Vir equidem lummi 'ingenii, Monades dixit,
fubftantias nempe vere flmplices, et omnino inexten* ias, natur^ fua aftivas,
Ic diffimiles. Tum poliremus omnium Bofcovikhts inextenforum elementorum et
ipfe Patronus punBa appellavit non mathematica, ut Zcnoniflas, fed realia ;
quas viribus per vices attractricibus, et expultricibus juxta certas, et
determinatas ad invicem diflantias gaudeant. Quid interfit difcriminis has im ter Icntentias,
probe advertant Tyrones. II. Ad alteram claflem fpe£lant veteres De» mocritki,
tum Epicurei, ^|.l' '. ' nere toitdem numero, quot idiomata funt, in quibus
Jingulis omnes ejujdem idiomatts voces re» •perirentur^ qua quittem numero
admodum pauca effent, difcrimine illo ingenti tot tam variorum librorum redaSio
ad 'illud ufque adeo mitius di» /crimen, quod contineretur lexicis illis,
haberetur in vocibus ipfa Icxica conjiituentibus. %^t inquijitione promota
facile adverteret, omnes il. las tam varias voces conflare ex 24 tantummo do
diversis litteris, difcrimen aliquod inter fe habentibus in duBu linearum,
quibus formantur, quarum combinatio diverfa pareret omnes illas voces tam
varias, ut earum combinatio libros efformaret ufque adeo magis a fe invicem di
f crepantes. Et ille quidem si aliud quodcumque sine microfcopio examen
inflitueret, nullum aliud inveniret magis adhuc simile elementorum genus, ex
quibus diverfa ratione combinatis orirentur ipfa littera ; at microfcopio
arrepto metueretur utique illam ipfam litterarum compositionem e punBts illis
rotundis prorfus homogtneis, quorum fola diverfa positio, ac dijlributio
litteras exhiberet. Deinde pp. ita concludit. Mac mihi quadam imago videtur
effe eorum, qua cernimus in natura. T
am multi, tam •varii illi libri corpora funt, et qua ad diverfa pertinent
regna, funt tamquam diverjis con/cripta linguis. Horum quidem chemka analysis
principia quadam invenit minus inter /e difformia, quam fint libri, nimirum
voces. Ha tamen ipfa inter /e habent difcrimen aliquod, ut tam multas oleorum,
terrarum, /alium /pedes eruit chemica analysis e diversis corporibus. Ultertus
analysis harum veluti vocum j litteras mi^ nus adhuc inter Je difformes
inveniret, et ulsi» mo jUxta theoriam meam deveniret ad homoge^ nea punBulay
qua ut illi circuli nigri litteras ^ ita ipfa diverfas diverjorum corporum
particulas per jolam difpesitlonem diverjam efformarent : ufque adeo analogia
ex ipfa natura consideratiem ne derivata non ad difformitatem, fed confor» mitatem.
elementorum nos ducit. ^5. Re quidem vera/ conflat inter Philofophos, diverfas
ac multiplices qualitates, quas vulgo corporibus tribuimus, nihil elTe ali>
ud, quam noflrarum renfationum phænomena * non vero fimiles entitates
corporibus revera in« hxrentcs: id quod et in Logica monuimus, tum in
Psychologia copiolius edocebimus. Rurfus condat, varias in mente gigni
lenfationcs ex diverfo corporum in fenfus incurrentium ta£lu, feu ex eorum
diverfa in fenfus no{lro^ a6lione. Atqui ex diverfo elementorum corpora
conftituentium nexu, et pofitione ad invicem., op« time intelligitur, diverfas
in elementis noftros fenfus conflantibus motiones cieri, quin et ele/• reriKX •
licet rem alias ^explicarent, commentiti formarum lubftantialium theori*
infiftcntes. Et diftis patet, omnium qu* in corporibus infunt, vel ineffe
poflunt fufficientem rationem ex intima ipforum elementorum natura pendere, nec
non cx diverfo elementorum, ouo invicem copulantur, nexu. Cum vero inter ^ \
Phi Erii elementa innumeros diverfos nexus, innumerasque varias inter fe
pofiriones fubire queant 5 attamen quantum ex chemica corporum analyC haflenus
datum ell nofse, videtur faltem telluris noftrs refpedu, hanc eis 1* a fupremo
Conditore legem impofifam, ut nonnifi triginta tres primitivas combinationes,
qus fint fpecifice diverfe, fubire queant. Sicuti nempe punftula illa
nigricantia, de quibus §. 24., e quorum varia pofitione caraderes efticl
pofsent, hanc debent fervare legem pro Boftro alphabeto, et feriptura, ut
nonnifi in 24.. combinariones abeant I Sane nonnifi 35* m^erialia cqmpofita
haftenus novimus, qu* fingula fibi femper fimilaria, et homogenea, nullo arris,
et natura; molimine in alia diverfi generis abire confiitit. Hujufmodi fnnt lux
^ caloricum, fluidum eUQricum, oxygenium, hydrogentumy gezotum, ( quod ab aljis
accuratius nitrogenium appellatur ) carbonium, fulphur, phofphorum., quinque
terra f ftptemdecim metalla, foda^ et fotajfa. Cætera corpora funt
combinationes fecundaria; ; nempe mixtiones, modi ficationes, vel tandem intimæ
compofitiones prodictarum 5?. conibinationum primariarum. Ita ex. gr. Aqua et
«ft intima corapofitio hydrogenii, oxygenii, et calorici. Acidum fulpburicum
eft intima combinatio fulphuris,oxygenii, et calarici &c. Philofophos
conveniat, ab ciTentia aufpicandam cfle fufficicntem rationem omnium, quat in
qua> vis re infunt, vel ineflc poffunt i 6. ont. • per fe liquet, corporum
effentiam in elementorum fimplicium natura, et vario inter fe nexu reponendam
effe. At quis elementorum naturam, variofque ipforum nexus plane perfpectos
habere præfumet ? Corporum itaque eflentia pro incomperta habenda, et verba
efFutiiflc quotquot contrarium audacter prxdicarunt. y De Legibus cofmologicis
T Egum cofmologicarum nomine veni^ unt certæ quædam naturales, ' ac infitæ
determinationes virium materiæ, juxta quas et elementa, et corpora hifce
conflata perpetuo in fe invicem agunt; tum gignuntur in Mundo omnia, pereunt,
moventur, modificantur, et quibus Univerfi ordo continetur. Hæ genericis
quibufdam propofltionibus efferuntur, quarum præcipuas heic exponemus. zg.
Corporum elementa viribus per vices attrahentibus, repellentibus pro va^ riis a
fe dijlantiis gaudent ^ quibus in fe mutue agen (d) Vis motrix in horologio
certam habet determinationem ex ipfa horologii mechanica ftruftura, qua
determinatos motus, et non alios, in indicibus gignit : ita vires elementorum
infitas habent, ac cettas agendi determinationes, a quibus, ne iulum quidem,
recute pof fwt V agentia in fensibiles, et extenfas moles concrefcunt - ( 1
Nifi enim hujufmodi viribus gauderent, quam facile corpora ex illis cotrfiata
di flbl verentur, linde Univerfi moics in informe Cfaaos quam fubito abiret,^
Gaudent vero viribus at. trahentibus in majoribus didantiis, repellenti* bus in
minimis. Primis fe >mutuo, petunt ad acceffum, ne fingula i diffluant,
&*, dilabantur : fecundis vetatur intima eorum penetratio, ne fcilicpt
eorum millena non majus occupent Ipatium, ^uam unum : id quod li folis
attrahentibus vjf ibus. gauderent, extemplo » et neceflario fieret. Cura inter liraites harum
virium cqrporuna elementa funt conftituta, conquiefeunt, et cohærent. Itaque
hac lege mathematicus elementorum contactus / vetatur, &..fimul efficitur,
ut coeuntibus illis ad minimas, &. inobfervabi^ les ; diffmtias, extenfa,
et phyficc continua moles noftris fenfibus objiciatur. • Has autemt vires pro
variis elementorum diftantiis pluries mutari, ut ita attractrices abeant in
expultrices, et vicissim, diverfa corporum 'denfitas, tumidi-' veflb
col^oefionis vis -exigunt ; id quod in Phy,fica uberius exponemus.•, 30. jLEX.
II. \Singula Univirsi corpora Junt' antitfpa. > r ^aatitypiam intelligimus
vim illam, qua corpus, quodvis alteri naturaliter refiftit, ne eumde,m occupet
locum ;feu ne unius materies cum alterius materie intime immifeeatur. Hanc
legem elfe cofrnologicam ex eo patet, quod antirypia e corporibi^. eorumque
clerflcntis fublata, fingula ad unum indivifibi le punctum redigerentur, et
Univerfi moles illico evanelceret, 31. Hæc fecunda lex corollarium eft
pra;cedentis. Etenim elementa j ubi ad minimas pervenere tliftantias, fe mutuo
repellunt, et ita ^ ut decrclcentibus ultra quemvis adfignabilem limitem
diikntiis, e contrario, creicant fimiliter vires repellentes. Hinc profecto
fieri d-bet, ut elementorum compenetratio fit naturaliter impolfibilis. Quavis
polita extrinieca vi corpui ad corpus apprimente, unius elementa ad alterius
elementa apprimentur, Sc quandoque utraque proprius accedent • at id nonnili ad
determinatas ufque diftantias: quippe his ad infinitum delcrelcentibus,
fimiliter augebuntur vires fingulorum repellentes. Singula Universi corpora
funt inertia. Cum dicimus corpora effe inertia \ intelligimus nulla gaudere vi,
qua fponte fua e quiete ad motum, et viciffim e motu ad quietem, vel^ ex una
motus directione, Sc gradu celeritatis, ad aliam directionem, vel celeritatis
gradum, tranleant. Si adeo 'fnoventur, nunquam, ni fi ob externas caulfas
actionem, e motu luo dcfiftunt • fi vtro quiefciint, quietem perpetuo iervanf,
donec imprefla extrinlecus vi moveri cogantur, Sane abique inci tia omnis
mundanus corporum ordo, vel Iponte fua, vel minima quavis vi deleri poflet.
Singula Univerfi corpora inertia else, quotidiana ^ edocet experientia. De
corporibus quidem quielcentibus, gg. Newtoniani vocabulo inertiie alium prsBtcr
expofitum, fubdunt lenfum* vis nempe, qua corpora five quiefcentia, live mota
externis renituntur caullis iplorum ftatum live quietis, five motus perturbare
conanfibus. Hac vi, ipfi inquiunt, fit, ut quarumlibet caudarum externas
a6iioni aqualis femper refpondeat, et contraria rratlio. Hujus equidem effati veritatem fingula motus phænomena
tedatam faciunt, ut de ca nullatenus dubitare liceat. Atqui non quod in materia
illam comminiftamur vim, ut prasfat* veritatis rationem reddamus. Nimi* rum
mufuis elementorum viribus repellentibus, quibus corpora ad mutuum, et
mathematicum contactum devenire vetantur 2p. ; optime intelligitur, corpus
quodvis in aliud incurrens, • ubi ad eam pervenerit vicinitatem, in qua vires
elementorum repulfivx fe exerunt, hilce viribus urgere, et propellere illud in
quod incurrit, unde flatus mutatio in illo neceffano iuboriatur. Similiter, cum
repulfivæ vires elc men quic perpetuo quietem fervant, donec 'aliqua
extrinfecus illata vi deturbentur, nullum forfitan movebunt scrupulum Tyrones 3
non item de corporibus ad motum aftis, qua: ad quietem alia citius, alia
tardius £ua veluti fponte redigi obfervantur. Atqui fedulum ii fi infiituatit
examen, deprehendent, corpora femel mota non fua iponte, fed' externis
obfiaculis,in qua; continuo incurrunt, a motu defifiere, et ad quietem redici.
Sane, quo adcuratius illa removentur, eo diutius in iuo perdurant motu ; ex quo
faris inrelligi datur i quod fi omnia adeuratimme removeri pofscnt obftacula,
perpetuo corpora in luo perdurarent motu. Sed de his- opportunius in Phyfica.
mentorum corporis in quod fit incurfio, æque fe exerant contra incurrentis
elementa, pariter in iftius motu mutatio fieri debet, et quidem in adverfam
plagam. Eli autem una, cademque virium lex in omnibus elementis. duantam ergo
(latus mutationem fubit corpus, in quod fit incurfio, ex repellentibus viribus
incurrentis • tantam fimiliter patitur hoc alterum ex viribus repellentibus
prioris : nempe Uniuf aBioni iC^ualis femper efl, et contraria alterius
reaUiio. Sed quajrent Tyroncs^Qui funt inertia Univerfi corpora, fi horum
elementa activa vi attractionis, et repulfionis prasdita diximus? zg. Activa
quidem funt corporum elementa, fed ejufmodi naturas eft eorum vis, ut
ex'trinfccus fe exerat, non intrinfecus ; (eu ut ronnifi acce(Tum, et rcceffum
in extra pofita elementa juxta determinatam diftantiam moliatur. Nullum
elementum hac vi ad motum fe unquam determinabit ^ ab externo principio urgeri,
et determinari debet, ut directionem, et celeritatem alTumat. Num ne omnes
magnetem inertem fenfu lupra expolito 3 -. diciniDs ? attamen alterum magnetem
juxta certam viciniam, determinatumque (itum agitat, dum et ipfe viciflfim
agitatur, ad accelTum vel recelTum mutuo fe determinantes. Itaque elementa,
etfi vi motricc prædita,- funt tamen inertia, utpote qux nequeunt fponte faa ex
motu ad quietem, et e contrario, a quiete ad motum determinari; (ed
determinanda neceffario lunt ab aliis elementis in certa difiantia pofitis, vel
ab alia quavis Cauffa. Singula Univerii corpora et magna, et parva gravitate
pollent. Gravitatis nomine intelligitur vis, qua corpora ad datum punctum, quod
''appel latur, tendunt. Ita corpora terreflria gravia dicimus, quia fibi
relicta ad Telluris centrum di, riguntur retenta autem conantur delcendcre vi
fuse mairx proportionali, premuntque dcorfum corpora, quibus incumbunt • Id
ipfum di, cendum de corporibus in' Luna, Saturno, Jove 8 rc. exiftentibus,*
tendunt nimirum, et conantur ad Lunæ,.Saturni,‘ Jovis &c. centra. Sane
nullum hactenus corpus conftitit, quod gravitate fuse maflse proportionali non
fuerit præditum (A). Nifi ita fe res haberet, corpora terreflria ex -ipfius
TeMuris vertigine, vel ex quovis alio impulfu, per immenfa vagarentur fpatia,
neque reciderent in Tellurem • Hinc Tellus brevi, ex diflbciatis perpetuo
corporibus, minueretur, ac tandem evanefceret. Idem de Jove, Marte, Luna
&c. dicendum. Itaque Mundus in Chaos abiret corporum undequaque pergentium.
. ^* (rf) Ita quidem ad aniuATim res fe haberet, fi Telluris figura fphierica
foret :. cum autem oftenfum fit a Recentioribiis Phylicls et Mathematicis,
Telluris figuram fpha:toldalem efse, elevaram nempe fub atquatore, et
deprelfain fub polis; id nonhifi quamproxime l«cum habere potest. Sed alibi
opportune hasc expediemus. (^) Lux, caloricum fluidum eleSiricum nullum ha61
errus prxbuere gravitatis fpecimen J fed temere hinc quis colligeret, isthjc
fluida omnino efse gravitatis expertia., ' Sed et magna Mundi corpora vl gra*^
vitatis 'fua petere centra indubium eft. Nempe in noftro Syftemate Iblari
Planeta? primarii S'ol«m petunt; et lecundarii primarios. Ira Luna Tellurem,
Jovis, Saturni, et Urani 1'atcllitcs, Jovem ipfum, Saturnum, et Uranum vi
gravitatis refpiciunt. Tum Mercurius, Venus, Tellus, Mars, Juppiter, Siiturnus,
XJranus, aliaque 'ingentia Corpora 'in Solem tendunt. Nifi enim^ yi, gravitatis
continuo erga lua ccntr.i Ibllicitarentur, nequirent curvas orbitas deleribere;
Ijquidcm corpora curvas de[cribentia continuo a rectilinca directione,
deflectunt, id qucKllbonte fua, line conamine gravitatis, nequeunt tfri. ccre.
qy. Fit nempe tnotus curviliiieus, ut Pby-' fici docent, ex conjugatione duarum
virium, quarum altera lingiilis momentis recta lirgct corpus per tangentem
curva:, quam deferibit j altera Vero indelinenter idetij lollicitat ad aliquod
punctum in curvæ area comprehenfum. Hauc'recundam v\vx\. centripetam dixere ;
primam vero tangentialem^, qox fi motus initio conlidcrari velit, proj e^ i uni
s fibi vin dicat, quippe quæ per projectionem corpori invprefla intellegitur, ab
externa Caulla. Cum atitem Secundarii erga Primarios, et Primarii erga Solem
ita cieantur, ut arq^s delcribant temporibus prop^ortlonales y hinc norunt
Phyfici, v.im ce'nh-ipetnm indelinenter Planctas Ibllicijantem ad Primarios
dirigi, fi de Secunc|ariis loquamiir, ad Solem vero fi de Primariis. Ambigi
proinde non potefi gravitatem ad fingula.! no. peditur, cogiturque fingulis
momentis erga iilud immobile punilum torqueri. Uaibus nempe viribus modo aj»I-
> rur corpus, vi imprefsa projedionis, qu$ per cur tangentem fe exerlt ^ et
vi qua ad immobile punitum per diftentam funem ' continuo retinetur. Hic
fecunda vis ’ typus est et rniago iiljus,..quam ia Planetis dicimas ) vim
gravitatis. ^, eoharent, frve' intime fommifcentur, aliis^ V^ ' ro non item.
Eft vero duplex affinitas, aggregationU^ nimirum, Sc compo/ttionis. Prima co*
haslioniem particularum ^fimiJari-um molitur, ex qua totum emergit undique
homogeneum. Secunda intimam parit unionem particularum diverfæ fpeciei, ex qua.
totum efficitur tertise fpeciei' omnino divcriæ, quin tamen particulæ iUæ ob
hanc unionem, lua le exuant natura, ali^mque dijverfam fubeant.Ita ex. gr. Aqua
aquæ cohæret 'affivitate, aggregationis, Acidum fulphurieuna magnefiæ intime
unitur affinitate cOmpositidHIs y' 8 c,cottl\itu‘n folphatum magnefia, ( vulgo
sai/anglicanum ),qii'vn acidum lulphuricurri, 8c m.ignefia naturæ lubeant
mutationem* Si enim ^prsditio.iolphato. in aqua diluto potaf» fam
fupereffundas, ex prævalenti affinitate potaifam inter ^ Sc acidum lulphuricum,
mox fiet folphatum potaffiK, ( valgo tortarum vitriolatum ), et reftiiUidtur
magnefia. Porro 'utramque affinitatem ad leges cofmologicas fpc6lare, nihil efl
quod dubitemus. Sine affinitate aggregationis omnia corpora ffimilaria diffiol
verentur, ipla adeo univerfi moles. Sine affinitate com politionis innumeras
deficerent rerum fpecies diverfas.* et omnia, quantum ex. chemica analyfi
'hactenus, noffie datum? eft» faltem refpectu Telluris noftras, ad triginta
tres fpecies* materialium, combinationum redigerentur j et hasc ipfa, fublata
aggregationis affinitate, informem.-folutamque molem exhiberent. Vires tandem
vegetationis, . s lot animalixationis fexta cofmolo^ica lege con-* tiitentur. '
Plantarum vegetatio foHs affinitatis viribus nequit expediri ; funt enim pjahf*
corpora A’cre • ' organica, viventia, et feipifa ex femine reprodu* centia. In, viribus affinitatis,
aliifque 'fupra ex-* ^ politis, hon inteffigitur fufficiens ratio' nec ve- ' ^
•. getajionis, nec reproductionis plantatum ex femine. Similiter dicas de animantibus,
in quibus pra?ter vim affinitatis, 6c vegetationis, alia ' agnolicenda efl,
t:^\xx: animalt 9 :ationis nomine infignitur. Vires de quibus hactenus haud
exiflimandæ funt totidem di- • ftincta: vires materiei iniit», fed totidem
determinationes unius, ejufdemquc viis. Ncfnirumvis ' a ftlmmo Conditore
materiei, elargita ejufmQcli,eft'effiqta, et intrinfecus comparata, ut multi-
'' ' plices modi^caliones ipfa fuapte natura- fuheat.juxta diverfas
circumllantias, et occaliones. '. Cum porro intimam hujufce vis. naturam minime
calleamus ; hinfc haud perfpicientes, qui unica illa vis tot diverfas jdetermi
nationes affumat, facile nobis fuademus, has. totideni diftin£Iarum virium efic
caracteres. Atqui funt totidem fpccies, fcu. formæ, feu modificationes,
.unius,.ejuldemque vis ex jpfa ejus natura,flu» entes. Sicuti qx. gr. vis
ipotrix in horologio.^plurimas fubiens modificationes ex mechanica horologii
ftructura, multiplices gignit, ac diverlos effectus puta hofarum, et.minutorum
oftenfiones, phalium lunæ, dierum hebdomedæ, • &c., quos infeienter
profecto ex totidem viri G 3 bus, leu clateribus quis repcttrer. Vis tamen
mjii-^ntionis nequit ioii materiei tribui, fcd potifiimum repetenda,eft. ab
aiia fubfiantia ^ alius generis,, qua: materiei copulata illam modificat,^
agit, ^ evehit ad ipeciem animalem. ' >,,..,, Jllr De Mu fidi, Materia
crigir7e. * ^ 7" E te res on^nes, quotquot de Mundi V origiite'
philolophati l’unt,li folos ’ excipias Habreos KeVelationis lumine edo£los,
Mundi materiam' xternam, improduQam, " in» dependentem, a le ipl'a, et
natura,fua exiftentem poiuerunt. ('’ Epicurus, qui duplicem atomi* tribuit
motum, rectilineum nempe ex naturali * atomorum pondere 'derivantem, et
declinationi? alterum. 'Per inane' fpatium "concurfantes atomi duobus
hifce motibiis in varias,*congeftjE 'for' mas niundum geriuere.Fere’ hanc ipfam
fententiami jam obfoletam in fcenam feproduxit nuperus Auctor anonymus’impii'
Syflmatis natura y qui ex «ternx, '& improductee- materiætiatura, ac
viribus (ut ipfe inquit ) fæcundiflimis, Mundi machinationem, omniumque rerum
feriem auf picatur. ' 4 ^. Orientales hanc coluere fententiam ; Deum aternum
nempe, et actuofum principiuni æternam materiem undique pervadere, Sc cum ci
intime commifccri. Hinc iners materia to G 4, lius d : tius ordinatilTimi
mundi, Hngularumque proH^ 'ctionutn fascunda fit parens. At Xenophanes eleaticæ
fectæ inftitutor abfurdam hanc fentelJtiam abfurdiorem reddidit, ftatueos
unicam in Mundo exiflere iubffantiam asternam, immuta, 'bilem, immpbilcm^ tura unica?
hujus rub/lantise diverfas^ effe modificationes quotquot diftincta,
&’diverla Entia cernimus. Hoc paradoxon arripuit Benedictus Spinoza, quod
geometrica methodo exponere -fibi fuafit. Docuit itaque upi-cara effe
lubfiantiam actuofam, fimpHcem, in„divif]bilcra*f et infinitis prasditam
attributis, quam tum Deum, cum materiam, appellat » De'indtf ex duobus ejus
effentialibus attributis, infinita nempe cogitatione, et infinita extenfione
omnia effe 0nfiata. Nimirum interna- unicas hujus rubfiantia? actuofi^ate; Sc
natura; neceffitate, in varias, diverfarque evolvitur modifiqata^ nes tum
estt^nfio, tum cogitatio: ExtenO^s ^modificationn funt quas appellamur corpora,
cot • gitationis vero, quas funt entia cogitantia ^ $iicUti'..cera, quas.li
interna vi agitari ponatur, -io, vatias abeundo modificationes, varia poteff.
figilla exhibere. Abfurdiffima haBc fententia Pan- ttbifams audit, quippe ^uz
confundit Deum cum Univerfo.. Xns aliquod aternum natura fud neceffititte ' exi
flere ^ indubie demonflratur\ tum ejus ' pracipui carActeres expenduntur. . '
r- » $• * aliquod 'aternum exiflere, ^ quU dem fua necejfitate natura j, inter
primas veritates qua: fponte fua cuiHbet ?- Equidem hæc veritas adeo per fe conat, ut ii ipli, qui
de Divinitate peflime fenerunt, nec negare aufi fint. In determinanda natura
hujufmodj Entis ajterni hallucinati funt, vel ex cordis malitia aberravere /
fed aliquid aJtcrnum exiftere, omnes convenire oportuit. Nec leriem cauffarum
in infinitum commimlcuntur, et ipli fuifmet doctrinis aliquid æternum exifiere
revincuntur. Sane hi creationem ex nihilo impoffibilem ftatuentes, nomine
feriei caulTarum in infinitum nihil aliud intelJigere poflTunt, quam infinitam
feriem generationum, et corruptionum. Materia igitur, qu» iubje£furn efi harum
generationum, Sc corruptionum in infinitum, aiterna efl, Sc improdu-cta.
Coguntur itaque aliquid atternum, et improductum fateri. Atqui caracteres
hujusmodi Entis, quod' æternum e/l II. j&wr, quod, fua ruttura-.necejfitate
exiflit, omnibus 'pofftbillbus realitatibus., ftU perjekfionibus gaudere debet,
et quidem ipja fui natlurd feu effe infinite, per feBum' extenfive, ut
inquiunt, intensive. Id quoque cuilibet ingenue philofophanti'^ evidentiflimum-
eft, quippe- nihiLnobilius, nihil excellentias ifta,natura excogitari poteft.
At juvat metaphyficai^i demonftrationcm adferre. In Ente natur* fu* neceffitate
exj (lente.. • ’ ' nulla nec efle, nec concipi potcft.ratio eccur aliquam a fe
excludat entitatem, feu perfectionem. Nulla Entitas concidi ullo pacto. po*
teli, qus natura fua litpitem expofcat, Se quam tranfilicndo fiat non Entitas^
vel cfetrimentum aliquod ptiatur. Riirfus nulla veri nominis, et pura Entitas
alteri puræ Entitati repugnare. poteft,,,- earaque fe excludere. Igitur fi Ens
naturæ tfuæ neceffitate actu non cft infinite perfectum;, 8 c inten/ive, nihil
vetat per fici in infinitum poffe. At oftenfum eft præc efle intrinlecus
impoflibile, Ens natura; fuæ neceffitate exiftens perfici pofie. Igitur de- ' bet actu effe
infinite perfectum extenfive, inten/ive, » 54. Cum inter nobis notas.
perfectiones præcipue emineant Sapientia, Bonitas, Patentia, quin hifce gaudeat
Ens «ternum, ambigi nulliraode potcft, atque adeo effe beatiffimum. III. £«r fua natura neceffitate
exl/leht debet ejfe pbyjlce fimplex. Ens quodvis, compofitum eft natura fpa
mutabile : eft enim intrinfecus poffibile, fimplicia componentia alium, atque
alium nexum affumere poflfe, unde. Ens compofitum, quod inde conflatur, fiat
plane diverfum. Sed Ens fu« naturæ neceffitate exiftens eft intrinlecus immptabile
51. Quare Ens naturæ fuæ neceffitate exiftens debet effe phyficc fimplex.
Deinde Ens phyfice corapolifum pendet a componentibus. Sed quod,fu«. aaturac
neceffitate exiftit cft^ independens • igitur Ens naturæ fuæ neceffitate
e:nfteDs debet effe phyficc iimplex. /» materia originem inqdiritur^ eamque ex
nihilo conditam vi, &" potentia fupte>ni Na'minis inviæ
df”^onJlratur. > • 5 ^* Entis «terni, fu* neceflt X tate naturæ exiftentis
expendimus caracteres ; hos modo materiæ referamus, ut pateat, fi pro huiufmodi
Ente haberi queat : Bru-' ta materies, muItiplex'^, generationum, et cor*
ruptionum fe mutuo, et perpetuo excipientium, fubjectum, obftipa, iners,
innumeris obruta defectibus, natur* fu* neceifitate exiftit, atque adeo
immutabilis eft, unica et fimplex-, perfe- o ctiffima beatiflima, infinita
fapientia, potentia, ^ bonitate pr*dita. Quid ! Cujus, h*c talia componendo ^
Mens non horret, Sc immanibus non refugit abfurdis ?, Quisquis equidem, ut ut
levem rationis particulam fortitus eft, vcl ipfo primo obtutu agnofeit, ifth*c
e genere cffe circulorum quadratorum, tringulopum rotandorum. Materies igitur, 'ex qua
Mimdus 'hic- ' ce coalefcit,, nequit e(Te Ens *ternum,. natura fu*
neceffitatc'exiftens, et improductum. Quare furentem hic potiuf infaniam, an
fummam impudentiam demirer, nefeib, Au- ' ctoris anonymi Svflematit natura,
nihil fef-. futire dpbitat, materiam exiftere necelfario,-ipfam fu*, exiftenti*
fufficientem continere ratio- nem. Certe ex Petro Baylio ipfi non furpecto
Auctore edifeere potuiffet exiflentintn necejfariam, ce« r D 'convenire pojfe
fulfflanthe ( kilicet materui, de'qua fermo eft ), qits catcroqmn' onitfia efl
\ et »>ieiique prentitur defeSibus, et imperfitiionibus, id efl quod evertit
evidentijftmam 'notionem, nimirum Ent abjolute indspendens, et aternum, effe
debere infinite perfeSium.Difi. hifl. art.Epicur. liem. T. '., 58. Sed quibus
tandem rationibus fuader» ^utat profanus homo’, materiam neceiTario exiftcre,
ipfam* Tuæ cxiftentiæ fufficientcm rariorem continere ? Supponendo rnatcriam (
ha;c ha- 1 bet ) produElam y aut creatam ab Ente ab ipfet dijiinilo^ ipfaque
ma^is incognito, oportet Jentper dicere, hujufmodi Enf, quodcumjue tandem' fit^
neceffarium jtffe, feu in fe continere ca' dinem, eoncentum, quibus furrima et
pulcKet*rima Univerfi harmotiia, flabilis et ornatifTiina magnificentia
cbhtinetut, nequit latis admirari; Omnia fummo confilib, fummaque ratione
ftatuta deprehendet / fingula tum maxima, cum minima, numero, pondete, et
menfura conflare, ultra quam intelligentiflimus quisque adlcqui potefl, quam
facile intelliget. Quum itaque omnium quz funt, vel fiunt, nihil fi* ne
fufficienti ratione fit vel fiat, • prohuiri eft intelligere tyitam, tamque
rhirabilem machinationerh j non atomorum.iiullo confilio, nullaque ratione
pergentium opiiS effe, fcd Mentis ^ lumma fapientia, fummaque ratibhe utentis *
tiic e^o rion tnirey, elegantiisime Tulhus fi Tu de nat. Deor. c. . effe
queitiqudm, qui (jbi perfuadeat ^corpora quadam foilda, atque indruidua, vi et
gravitate feni, mundumque effici ornatifftmum, et pulcherrimum ex eorum cor
porum concurfione fortuita^ Hoc qui exiftimat fie• fi poiuijfe , non intelligo,
cur non idem putet, fi innumerabilei unius et viginii forma literarum vel
durea, vel qualeslibet, altqUo conjiciatur, poffe ex his in terram exuffis
apnales Ennii, ut deinceps poffint, effici ‘ quod nejcio, anne in uno quidam
verfu poffit tantum valere fortuna. 6^. Sed ajunt in poffibilibus atomorum
combinationibus, hape, qua priefenS Mundus conflatur, contineri. Quid ergo mirum’,
atomos per immenfam æternitatem hac et illæ concurfantes -, tandem aliquando in
prafentem conformationem deveniffe ?, . 'Non heic ?qu4ritur j utrubi in
possibilibus atomorum combinationibiis, -hæc, qat* præfens mundus conflatur,
contineatur. Nifi enim contineretur, hiud præfens Mupdus condi potuiflet. S^;d
illud inq^uirimus, an przfens atomorum conformatio, per cafum et fortqnam, ut
Democrito placuit, fit poflibilis ; vel. per ipfa« rum- atomorum naturale
pondus, vfrefque, ut Epicuro adrifit. Et sane primo vellem, fedoceret
Democritus, vel quisvis ejus fectator, quid fi. bi velit hujufmodi Cafus\ 8 z.,
qua du ce, atomorum facta efl concurfio ? Equidem me non intelligeVe fateor,
fatenturqu^ omnes', queis cor fapit,* iifcilicet verba funt inania', quibus
'nulla iubeft. notio. Tum atomos Jeternas natur* lu* vi exiftentes abfque lege
vagari, et in-, vicem concurCari, fecum ipfum pugnat. Siquidem h* atomi'
nonnifi ingenitis viribus, et naturæ fu neceflitate cieri poffunt, fi - quidem
moventur. Deinde cum nulla omnium Iit origo, tum par natura, et.neceflitas,
iingula' eadem directione, et celeritate profecto concurrere debent. Quid vero five n\onftruofi, five ordinati
moliri queant atomi commetoi directione, et celeritate percit*, equidem non
video. At"qui plura in hoc adfpecpabili ‘Mundo funt centra, circa qu*
magna revolvuntur corpora :'tum> horum. fingula totidem funt centra minorum
corporum : nec non vegetantium., et animantium elementa diverfis motibus
cientur / finguJi tandem hi motus certis, fummoqUe confilio ftatutis legibus
perficiuntur. Non ergo cafu j et fortuna, neq^ue c*ca nattr* fu* neceffitate’
in ordixiatiflimum fyftema coalefcere potuerunt ^ H 2 Sa ilapienter Cicero de
nat. Deot. c. a, »nim hunc hominem dixerit, qut cum tam certos eali motus, tam^
ratoi aflrorum ordines, tamqut ’ om§^a inter Je conjiexd f apta viderit, neget
in his uUam inejfe rationem ^ eaque cafu fieri di* . eat ^ qua quanto eonfiiio
gerantur , nullo eotfiUi affequi pofiumus ? ^5. Hujus argumenti t-obur optime
per* fpexi^ Epicurus, quod effugere fibi fuafit duplicem atomis tribuendo
morurh j fectiilneurrl unum fcx. proprio, et naturali pondere derivantem ^
declinationis alterum (c) Hifce viribus* perfeverabunt quidem Pt anet a iif
fufs orbitis, fed nioturn ipchqara rrfinitpe ppj^tergnt.* Yi; Neyvt, Ppif nat.
Sch. geq,,. n ^ hacjeiius e^^pofutrous jabunde patet, nonnifi futnmi. et
intelligentiffirrti Numinis confilio, ?tqiie potentia brutam matc^ri^m in
elegantiffirtium ordinem ' congeri potuiffe, 8c prjefenteni ordinatitemurn Mundum
conftitui Scilicet ille ipfe n^ateriaj Conditor omnipotens eft. Abundi
rapientiffunus Molitor, et Artifex • Spinosa Syflema abfurdorum et
contradi&ionur^ effe.cumti/urri, ojtettditur. d8. I. T^TNicam in Mundo dari
fubftantiam fimplicem, et individuam caput eft ipinoziani fyftematis. Id vero
adeo falfum eft, quam certum innumera efle corpora^ 3c hæe extenfa efte, et
jdividua. Sane sive extcnfio pro fnbftantia. habeatur j ftve.pro fubftantiæ
attributo, five pro ph^nomeno e plurium fubftantiarum coexiftentia derivante (
id quod) nobis arridet ), certe corpora non funt unica, et fimplex fubftantiaj
fed.tot» fubftantiarum con-,. geries,, quot funt partes realiter diftinctaz in
quas phyfice refolvuntur, ''vel,refoIvi tandem poflunt, • Juxta SpinoKatn,
fubftantia hujus Mundi.uriica eft, et fimplex, quæ tamen inter cætera
oftentialia attributa extenfipne fit prædita. Porro extenfionis natura
fimplicitati opponitur, id quod norunt Omnes : tum, eflentialia attributa -non
funt quid a rei efientia, et fubftan • > t • tia quot in decifi? habuimu?
mpojjihih ejfe j /intui ejfe, et no» ejfe. ’, Sicuti unicæ, et fimplicis substantia
utpote extenfe diyerfæ funt modificatione? Vni verfi corpora, ita ejufdem
fu.bftantjæ utpote cogitantis diverfse fupt ippdificationes, quot ppyimus
Entia, cogitantia, Facile intelligunt H 4 / Ty («) QuO. tempore cer® frustum
fpsrica ex. gr. - figura ptsdirum agnofeirnua, cubica, conica, vel alia quavis
llmul affici adeo ration; repugnat, ac unitatem efse mil- > lenarium :
proinde fi 'quandoque plures intueamur diftinT ftas diverfafque figuras,
protinus nulli dubitamus, totideni dfftinftis, diyerfifque fubjedis, leu
fubftantiis illas adjudicare, ,. Ty/ones.hoc fecundum* ejufdem fiufuris cflTc,
ac illud primum, quod pra:c. cxpofuimus. Itaque prselertim "vero Unica,
eademque fubftantia cogitans Igjta erit et triflis ; volens et nolens idem :
amore et odio idem fimul profequens objectum ; approbans et reprobans &c.
Hxbreus ira mq^us, et Spinozas cultri ictum infers, ipfe idem eft Spinoza
ciolo-r rem^-^perferens, et fanguinem ex vulnere emittens. V, Tandem, ne
diuturniori mora in hoc abfurdiffimo confutando fydemate aliquid honoris eidem
tribuere videamur, in memoriam revocemus, materiam, feu fubftarttiam hujus
Univerfi, fubjectum e0'e infinitarum viciffitudinum, perpetuam 'gerere feriem
'generationum, et corruptionum, perpetuis prtmi collifionibus, et op» pofitis
agitari viribus. Nil profecto ea vilius et deterius, ut ita omnes Philofophi
veteres prope nihilum eam pplucrint. At eamdem divi'na conflate natura, perfectiffima, ik. immutabif Ii Spinoza
edocere audet. Tegatur Bayliu? erit. art. Spind?a i \. De neau omnium Mundi
Caujfarum ^ ^ effe6luum : ubi de Fato Juxta Philofophorum placita dijjferitur.
"VTIhil in Mundo cafu, et fortuna ' J.\| fieri, nec immo fieri poflTe, in»
ter primas cosmologicas veritates reponendum efle, Nemo, cui cor fapit,
ambigere poteft. Omnia fane fuis fufficientibus rationibus, cauffarumque nexu
contineri debent, fi ex nihilo • nihil fieri pofle conflat, nihiique cfie fine
fufficienti ratione. Confer ont." 10. Sapienter Tullius nat. Deor. 1. i.
c. 4. E/l enim ad^ mirabilis qutedam continuatio, fericfque rerum, ut alifB ex
aliis nexa, et omnes inter Je apta,,, ^ colligataque videantur. Cujulmodi vero
fit hif ' Cauflaru'^, et effectuum nexus, expendere modo juvat ; tum Philofophorum
de f^atp fenteq», tias ad incudem revocare. Dt nexu omnium.Mundi CauJfarunj, et
effectuum. * /^Uotquot Cauflas in Mundo noviy mus., ad duplicenv cladem recen
fend* funt ; aliai fiquidem cogitatione ( ad intimum confeientite fenfum
appello j ^ ali% fola VI raotrice agunt •, ( quotidia* nat njB id edocent
obfervationes ). Atqui^, confcien tia teftante, cogitatio eft actio ipii
cogitanti rei immanens • motus vero, experientia edocente, eft U'an(iens.
Drverfi ergo generis, diverlis-;, que naturæ habendæ fu n{ Cauflæ cogitatione,
et CauflTæ vi motricc agentes, Equidem alibi opportunius oftendemus
cogitationem non polTe motu abfolvi, adeoque Cauffas fola vi motrice præditas
non pofte cogitationem parere, Curn ergo,in Mundo motum, et cogitationem agno, fcamus,'
duas diverfi generi? cauflas popere co» gimur, , CqufTæ fola vi motrice agentes
ad materiam Ipectaiit, At materiam fiputi vi rno* trice’ præditam, ita.&
inertem efte, fuo loco oftendimus §. Quotquot. er^Q e materia? viribus
gignuntur, juxta earumdem virium mo* tricium legem efficiuntur, neque Jili^S ac
pro-> deunt, fiuntque, per materije vjres fieri, ac prodire poflTunt, Revera
hujiifmodi lex, quat^ tumque tandem ea fif, certa eft, ac determina-» ta live
enim has vires e materi^ finu, na« tura emanare putemus, et erjt earum lex
certa 3? determinata, ficuti certa. v determinata, ^ ex feipfa immutabilis eft
materias natura ; fiv? ex Conditoris arbitrio illas vireq materias contingehter
convenientes inditas, effe prbitremur, Sc neque modo poferit materia ex feipfa
ilH? exui, vel eaffiem ne minimum quidem m^difi’ care j quippe qua fubjectum
mere paffivuna nullis agitur aliis viribus, præter quas Condi-» tor indidit.
Materia igitur fuarum virium le-» gem, ac naturam perpetug feqwi debet, neq^uq
. >, ii3 vel minimum reniti potefl : atque adeo quotquot ex ea gignutur,
fiuntque, nequeunt aliter gigni, ac fieri, q 6. Quff cum ita Cnt, facile
perfpicitur, quod pofita pro quovis tempore determinata, ac certa elementorum
coexillentia, quod deinde' gignitur, phyfica neceflitate ( a.virium motricii um
lege, et e materiie inertia derivante ) c procedenti rerum llatu tale genitum
eft, neque alias gigni poterat. Hoc autem quod modo ge. nitum efi:, undique
determinatum eft tum reIpectu elementorum quibus conflatur, cum reIpectu loci,
et temporis, feu refpectu ad nexu rn, et politionem coterorum corporum, quibus
fti-^ patur. Qiiare quod fecundo hinc, gignetur, rurlus certum erit, ac
determinatum, et phyfice neceflarium, ficuti certa et determinata eft corpot um
mutua complexio, horum materiæ flatus, et nexus nec non phyfice neceflaria vi.
rium motricium lex. Et ita deinceps in con. fequentibus generationibus -
Nimirum quivis elementorum materiæ flatus gravidus eft lubfcquentis, neque hic
alias prodire, per miateriæ. vires poteft, ac revera prodU : ut adeo, fi quis«^
vires ipfas, earumque legem adoquate nofceret, tutn «elementorum numerum,
eorumque.pro quo-, vis tempore coejiiftentiam calleret, et ad calculum adducere
fciret-, is fingulos confequentes effectus," ac futuros eventus in
anteceffum edifferere poffet. Cum ex dictis quævis 'generatio phy^. fica
neceflitate c præcedenti corporum", et materiæ ftatu pendeat, nec non
virium motricium le V» ,\ lege; fi cogitatione ad Mundi uique prlm^rcll^
afcenclamus, facile nobis (uaclebimus, Unl-vtrfum, reJpeBu ad folam materiam
habito, nihil e[pt aliud, 'quam eertum ordinem neceffariant Jet viem cauffanan,
effectum, perpetuo, ac nsi cejfarto fe Cdnfrquentlum ^ Hiec aurem feries haud
gutanda eff abfolute neccfiaiia, ut ita non potuerit alia effe, ab ea qua: modo
efi:, aut femel incæpta abfolu* te nequeat modo, vel in pofierum, commuta^ ri/
vel perturbari. Cum enim quælibet genera* tio, fiatufque materiei pendeat o
prascedenti, 8 $ rurlus hic ab alio antecedenti, et ita porro i nequeamus nutem
in hoc progreffu ad infinitum afeendere, confiUerc tandem debeiVius in aliqiia
Caufia^extramundana asterna, vi «fuaj natura exi* ftente, ctiju* imperio, et
voluntate.Materies primum nexum, primamque conformationem fufeaperit. Series
itaque ^ et ordo Caudarum qtfali^ modo exifiit, non abfoiuta neccffitate exiflh
^ Je4 tantur,} hypothetica, cx hypothefi n?mpe, quocj * Cauffa illa
extramundana talis fiuie feriei exordia fua iibera voiuntafg conceiferit, et
non alia, ^eis omnino diygrfe confequuta fuifiet Cauffarum, effectuiimque
feries. Id rurfus intelligi datur ex co, quod- neque materies improducta eft.
et æterna; vi nempe 'fuz naturas non exiftit 5utr 2 Equc in fe mutuo agere,
queant j,hinc eft, ut altera alteram quamlæpc- modificet, ut ita rerum fe* ries,
ac complexio, quts modo in Vniverjo pergit, aliqua Jaltpn fui parte diverfa ab
ea sit, qi4‘^ pergeret, fl nihil in fe mutuo Cauffte ilLt' agerent, atque
infiuerent. Sane v^. 8i. Humanos Animos non ceeea libidine, abique ulla omnino
fufficienti ratione feiplos / cie. il 6. tierc, et ad agendum determinare,
intimus cori« Icientiæ lenius abunde edocet. Fon-pis nempe rerum, quas ali^iiam
boni, vel mafi fpeciem exhibent^ ad ^t^eiulUM excitantur, atque alii ciuntur.
b« formas, quibus animus afficitur, a corporis fenfibilitatf, et
temperaftiento, l'enluum valetudine > et tiatura objefforum- fenfus
percellentium» pendent. Tum confilium rationis, quo actio vel non actio
decernitur, ex praScedenti animi flatu |,feu habitibus, et ideis adhuc pendet ^
habituS vero, et idcifi ex corporis, fenluumque temperamento’, et
circumllantium objectorum actione rurfus conflituuntur, vel modificantur. Cum
pofro corpOris fenfibilitas, et temperamentum, lenfuUm valetudo, et
circimvftantiuni objectorum natura e necelfariis Mundi Cauffis pendeaht j
liquet inter ipfas Hominum æfioheS, et phyficum Mundi ordinem nexum aliquem
interefTe ^ 8»; Hic autem nexus, quod fedulo animadvertatur velim, et multiplex
efle potefl, eo quod multiplices lunt cauffas,* quas in nos agere poffunt » et
nullus eft indeclinabilis, ac necefiarius.* id quod intimus confeientiæ fenlus,
et noflraram actionum experientia lat lu« culenter ollendunt k Sane formis
rerum non rapitur animus, utcumque percellatur etfi validioribus formis animus
concitatus ad agendum, non cogi fe luculenter animadvertit, et adhuc retinere
facultatem deliberandi,_quin immo a facta deliberatione, et ab ipfa jam
fufeepta ^actione d^fiftehdi, et aliam ‘quamlibet edendi. Merito Tullius tuse.
p^.l. i. Ck 23. Sentit ani. - / mus tif,kttts' fe y idque dum fentlty illud i
jt*a non aliena moveri. Accedit,, quod quandoque datuttt pecullatem nexum
Ivuraanas inter actiones, et fenfationcs ofrinino abhimpimus nulla alia ratione
perciti, quam ut noftratn ' experiamur libertatem ; mus contra id quod temporis,
rumqUe circumflantij^, et ipfaS fenfationes exigere videntur. Datur itaque
nexus inter hominum actiones phy/icunt Mundi ordinem, fed efusmodi, ui illum
moderari, fleflere^ determinate i abturnptre ^ tutn iterum tejlituere pro
arbitrio pojjimus 4 \ t Sicuti humanz actioneS^cum neceffarlis Mundi cauffis
connectuntur, ita materialium, Cb* necBfJariarum Mundi cauffarum series in
aliqua sui parte, perturbari, nioderari, et fieBi pote/i Cauffarum 'liberarum
labitu, O' providentia. Cum enim omne id, quod materialium cauffarum viribus
gignitur pro quovis tempoVe, e ftatu prxcedenti pendcat . ftatum autem harum
materialium cauffarum perturbare, & cOmmutare perfajpc valeant Caulis
liberæ fuO confilio, et providentia pro peculiati faltem locO, et tempore ; quin,
fimiliter futuri confequentcs effectus prafepediri, perturbari, et commutari
poffint, nemo^profecto non intelligit. Ita fulmen, quod neceffatiis Mundi
cauffis e nubibus excuUum regium palatium labefactaret, ibique degentes
ertccatet, humana poteff providentia avertere, fi Opportunos adhibeat
conductores 4 Agrum a i .puta, cum agi' loci, obiecto tis • 'dOSMpLOremum NinSm
res omnes zterna, et immutabili • lege, nullios^ei {labita ratione, dccrevrfle
docent; neque proptercSf qui^pian\ a/nobis libere fulcipi pb^e. Tertia cJaflis
illos complectitur, Djeum fapienter, quidem-. verum.fataliter ac necefliirjo
re» omnes' hujuS Univerfi dilpo • fuilTe fentiunt, Sc ex hac-, conffitutione
omnia quotquot {in Mundo 6 unt, neceflaria et perpetua ferre, proficifci. At
quia fati AflTertoresv divtfrfas,. quo 'quifque fuarVi fentehtiam
conft^i-liret, femitas freflerunt i klcirco hon pigeat prxcipuas' .exponere, jc
evekere ‘ vv. •- 'De Fat^i Democrifiip • ' ' Democritus (, e ‘quo fetura quod
demoeritkum dicitur nomen fufcepit) nihil aliud.' prxfer innumeras^ atomos
ihcreatas, Don fuerunt 'confequut*, hinc negatum drju ; nempee collapfi ftmt, .
• -I '. > ac • f. ac diflbluti finguli ijli veteres Mundi. Pofiremus tandem
omnium emerfit hic adfpeflabilis, et iple poft* fæcula diffblvendus. In hac
itaque. •fententia% cum nihil præter brutam niateriam neceffitate fuæ natura?
percitam exiftat/ 'omniaque fingularia Mundi entia neceflariæ fint illius
modificationes, immite, et indeclinabile fatum. omnia agere perfpicuum e!l. Hoc
fatum, quod, phy ficum alii appellant, definiri potefl ; Neceffaria, et bruta
feriys omnium Mundi cauffarum, • atque effe£luum e natura, Sc neceffitate
bciitæ materia; -manans.,. ! • Monftruofe hujus fententiæ refutatio longa non
indiget oratione* cfl ea quippe con» geftus abfurdorum. Nequit materia effe
increata /e^.II.Nequeunt fola; materiz vires ex ejys 'finu emanantes
ouklinatiflimam, et riun-^ quam fatis admirandam Mundi compagem moliri. et feq.
III. Praster maieriam aliæ alius, nalurte fubflantia; cogitatione, &• libero,
arbitrio prxditæ exi'lunt..79. et feq. Equidem hujus ffntentia; abfurditatem
Epicurus, atomorum cacteroquin feftatpr, agnovit ex’ ea parte, qu* humanam
lædit libertatem,Quare illam emendare conatus’, atomis tribuit declinationis,
motum, qui nec certo tempore, . nec- cerfa loci regione eveniret : ita nimirum
abfoluta, et indeclinabilis neceffitas a Democrito* indufta abrumpi opinabatur.
Hanc rationem ( declinationem fcilicet atomorum ) Epicurus induxit ad tam rem,
ne Ji femper atomus gra - ' vitate ferretur natural'i ac neceffaria ^ nihil
liheram pohis effet, cum' ita moveretur animus, ut atO" >morum motu.
cogereturvTuUiuti de' f^to c. 10. At quain vaBum, et inficetiira,fit ’ hujufmo 4 i
effugium, nemo non videt. Cdnfulatur 6 $. 1 De Spot(orum-Fato y.,« ' '>»
•..... Fatum Sfoicorutn vulgo 'definitur, "ine* Juftabilis, ’ac.neceffaria
rernn* omnium’ lefies.ex ne^efTaria,& immutabili -Dei voluntate •edo»
'ftituta v. fiuc ulla, ad hutftanam libertatctn accomodatione., ' ‘ ". '
§• pi- Quid fati homine,fibi voJue'rint- 5 foi^ ci, res eft perobfcura adeo:
quam «nequiverint haflenus Eruditi extricare ; id quod- partim ib' lit« bujus
Se£la diirentiohi, partim' locUtionir bus nefeio quid poetici, et erophatici
continentibus tribuendutfi videtur..Te«erzfignificatioriem, Itaque futurorum
eventuum præfagia in ftcllfs contineri, dicendum » .- quam, futile ifiud.fit,
nemo non ' videt. Sane non minus infeite, quam arrogan*. . ter cogitari potuit
I. Deum caslefiia figna, nonntJfiris propriis commodis infervienda condidiffe.
II. Cum confequi non valeamus quam utilitatem illa queant nobis afferre,
temere,^ incogitanter*colligitur,ad prafignificandos futuros eventus
confiitufa/& difpofita fuilTc.Num- • ne pluri maraim^ rerum ad ipfam
tellyrem,no^am pertinentium, quasque proprius nos fpectar^ putandæ fuiit, fines
jiro^ynios minus ex. Plo-. I. ij 5 ploratos- habemus? Certe quilibet fans
Mentis libenter affirmabit, plurima npftram Ip^Ure utilitatem, pofle,. quin
refciamus modum, ratiorfemqtie calleamus. IU Atqui lunt P^netas totidem
incolarum fedes non lecus ac Tellus iioftra, qjji omnes circa Sokm, tanquan^
commune centrum, torquentur 5. Sunt ve-. ro inerrantia fidcra totidem Soles,
nempe centra filorum Syftematum planetanpru.m tbid. Sid de his in phyficis
opportunitls, et copiolius. " oS. Q.uarn vero fatuum, atqye commentitium
putandum lit iid ^ ^, oftendunt. I.. Nulla phyfica vi hominum Animt
cngi-poffunt ; folis illi percientur formis, nettipe boni, raalique notionibus;
tum neque iftis rapiuntur, nec indeclinahiliter Heauntur 79. et 8z. II. ^ quam
lepida \ enim ef^, ^ ' fe puto ntft pueroi, qui ad globos i Hos terraqueosy aut
igneos hac ferio referant. Omnem ve- • • ro leptditatem Juperat, quod, infani
ampoflores prcedicant, quum ingenium nojlroritm animarftium Artetis,Tnuri, Leonis,
Capri, atque id egenus altorum calejltbus conjlellationibus, attribuunt Cui.
Calum, Plancta, Stella fixa vel mediocriter nota fuerrnt qtiam ifibac
perridkula, ac putida videri debent. Ego vero nefcio, cur marmorefs fignts •,
quibus aut homines, aut animantia ars humana exprimit, non. fimilher mores
nofirosf aut brutorum animantium tribuamus}' uint.Gen. el. metaph. tom. i.
SchoU prop. iSp. Atqui in fnajodbus ‘Univerfi corporibus univ^faJem, et mutuam
vim agnovimus, qu* gravitat/onis vulgo dicitur! Hac equidem invicem Jntcr /e'
agere queunt, et generati^um feries', quas fingula illa geftant, invicem
modificare.* f atemur uniyerfalem. 'gravitatiobem corporum ' Umv^rfi ; fed
nihil iftha»c fententiie adverfariorum favet, quin immo eam evertit. I. Hjec vis corporum efi, et in corpora
diffunditur / fpiritus nullo pafto attingere poteft. II. Novimus' Illam fequi
maiTariim jlireaam, et diftantiarum duplicatam inver/am rationem ; fit profero
hmc, ut fi Solem,& Lunam exceperis, cztc. rorum planetarum nulla cenfenda
fit in Tellurem a6lib.*quid porro inerrantium fiderum? De i Soleni &.
luminis emiflione, et vi attraftionis in 1 ellurem ^^gendo quam maxime
tprreftres genorationes, corruptionefqiJe mqderari, res ell, qua omni dubio
caret. oimile regimen Lun* attribuerunt Majores poliri, De ‘Fato pantbeiflkq.
')• 100, Fatum panfheifticum, fivc Spinozifti» cum eft tcrum omnium neceflaria,
et immutabilis feries ex ipfa-Dei natura per eflcntiajera emanationerfi
neceffario prqfluens, Nempe hu'jufce fati aiT^rtorCs^^micam exiftere
fubftantiam ponunt,- quapi Deum "appellant, sujus innume» » raj fiint
modificationes quotquot Entia Mundum^confiituunt ; ‘has’ vero modificationes,
ca rum ut 'adeo fuerint lunarium’ phafiitm diligentiflfimi pbferva-' tores :
tum Gomeras, rrialorum' colluviem in Tellurem fiV» pfjefagtentes, fiv%
afTefent;ps,-habebant, metuebantquie 'cane pe)us, angue.. At ex Kecentioribos
'plures utrarnque feritentiam, prayudicii redarguentes ^ ludibrio. V
exceperunt. Quid, fentiam libere edifseram, I.. Qui' lunarem influxiun abfolute
inter præibdicia amandarunt, fatis animum non intendifse. videntur in rnaris,
aflus, qui Lunie motui circa Tellurem a.d amuflim, refpondentes, ex'ejiifdem
attraftione in aquas ufque maris protenfd,, einni procul dubio repetendi.
videntur. Quod fi ita fe 'haber, non video '«ccur ipfius l!uns vi ne-. queat
terreftris atmoiphiera; alternas’ pari viclfiitudines.Cum vero e ftatu ^ et
conftitujione atmofphaiftE pluri, muin modificari queant, qu£E in nofira
Tellure fiunt ptodufliones, prpfeflo prono veluti alveo fluit, Lunas, vim.
phyfiers produflionious aliqpid conferre pofse. Revera ærrefirem afmofphteram
hmx vjjn peffenrifcere ex teorolqgicis obfervationibus Gl. Virorum Abbatis
Frlfii,• et Thoaldl, aftronomias Prpfe.fsoris Patavini conftitit ; ut 'adeo
nondifi ex prsjudicio fententia luparis influxus abfolute inter ptiejilQicla
recenfita videatui'. Deinde, etfi me tniniinfe lateat, Lun$ plena» lucem
cauftico fpeciilo coi- ' lectam nullam in mobiliffimo thermometfo mutationem
afiS»rr&, tamen hgud confedum videtur, lucepi e Luna ih '. '. T-el e /
iigS. ' rumque feriem ex 'ejufdern.unitæ fubftantije na- ' tur^ effentialiter
et neceflTario fluere. • V-ide. 46. Hujufce fcediffimæ* labis parentem -faciunt
Xenophanem Eleaticæ IcftjB Principem, quam. de- • Tellurem repercufsani
nibvegerantiiim, et anlnianfium cecononliæ pri/lare pofse : nam rhermometrum
nonnili r«/or/c/ liberi aclionem ollendere, et metiu poteft; at novimus, lucem
aliud onmino efse a calorico, et jaluHmum.conferre vegetantium/, et aniluantium
phyli, ac' fedenus credidimus. Nolim' vero quis cx diclis inierat, me lunaris
influxus patronum eximium, referatque inter -adverlie immoderanrioris
-fenrentix tautories. Ecquis, cui cor ;l'apir, calculo luo probabit-,. qua:
eflutire folent infani et 'inficeri honiines ex fingulis.Luns.quadraturis,
terreftrium phænomenorum vel vicilfitudines, yel pri-fagia fumerttes Quam fego
‘Luna: adiofjeih in Tellurem, agnofeo, generalis prorfus, et liaruta fua
indeterminata, nec non una.eft, et qmdem minima ex innume-. ris caiilfis in.
Tellure hofpitantibus, *qu3E prsfertim in’ calculo' lingularium phxnorænorum
afsumenaa: perpetuo occurrunt. ' • ^ ' . II..Quod vero Cometas fpeflat, nuMus
certa,’ riifi excors pavebit hæp corpora per oblongas ali ypfes incedentia, nec
ab iis quidquam, boni, inalive iperabit, nietlietque. • Fieri autem quandoque
pofse, ut in laudatum influxus fyftema aliquis eorum, adeenseri mereatur, ultro
fateor. Etenim fieri poteft i. ut aliquis eorum longa infignitus *cauda,fuam
trajiciens orbitam in Telluris vici; nia verfetur-; ex quo ‘fiet, ut mutuis
attra6lionibus eoJnm armofphxrx turbentur. Dudum fane Aflfbnomis c(^- •
ftitif-Saturni farellites’ab ‘artraflione Jovis in conjunflione^posirl, in fuis
rurbari motibus, et vicIUJm. Ita ex vijrinia Comets tiflbari poterit Telluris
muJP adeo nihil addere heic putemus, 'ne rem a£l»m reagere videamur.' . G A R
De Naturali y C* Supernaturali Ua*vis mutatio quæ cuilil^t rei continoere
'poteft, IT ex principio, fi. rei interno manat, a^io appel ; ipii. latnr ; e
contrario pajpo dicitur, G a principio eidem externo Gat, nempe ' ex principio
alteri Enti infito ; illud vero princi^um, e qiio a£lio manat, nun^ciipatur.
Singula fpc6Wbi!is Mundi Entia continuas fubire mutationes, equidem cuique
conftat. Quare Gmplices hujus rnundi fubGantize’ ejufmodi offe debent., ut in
fuis occurftbus, et. Gbus pati /jueant, et agere ; *feu patiendi potentia
præditas eflfie debent, et principiq aliquo aftivo’, fcu vi gaudere. Non moror
quidquid in contrarium* ^afferunt OccaConaliftæ. fecundæ hujus theorematis
parti. Vide Ont. feq. Cerre Univerfurrj Philofophd nuHis præjudiciis
præoccupato in fingulis fuis partibus perpetua objicit a6livitatis argumenta ;
atque, adeof».. dubitare nullo • pafto fas ell,* ejus ' ftamina^vi . aai. X .e
oportet aliqua pottat cx fequentibus conditionibus. T Nullam ede in > •
univerfa natura caudam tanta vi. prjBditain. qua! illi effectui producendo
potis sit • If. Sal- '*' • ' ' tem in’ dato cafu hujufmoldi.caudam defeqidc. -
III. Effectum illum ede contra notas natu ra^ Te-, 1 ges / IV. pr*ter notum,
eonfuetumquc orqi nem. Nam cum rerilm naturat cert». liat ac detcrmii • * !
natæ, certafque fingulæ fequantur l^ges^ a qui- ^ bus ne hilum.quidem dehifcere
poflunt-; quo- • -> ties una., aut altera ex, dictis conditiomb.s in ' •
dato effectu occurrat, certi.erimus ad iiniverfam naturam illum haud pertinere.
Q_iiare ite* I rum patet^ fedula opus ede indagine, et accurata rerum
naturali.um.notitia ubi decernendum • fit de naturali, Si fupernaturaLi...
MuJra; qaian- • doque infanum Vulgus inter •fupernaturalia ad'. ! '. ceni rum
hujus mundi vires cohiberi pofTe, quin fuos edant effectus, nil vetat : ipfa
fane experientia perpetuo edocet, contrariarum cauffarum incurfibus vires
collidi, ut ita vel effjctus earum præpediantur, vel omninp alii confequantur.
Quare, quin etiam intrjnfecus fubftantiatiarum "Vircs deleantur, coerceri
illas pofTe a Cauffa extra naturam univerfam pofjta', ne fuos gignant effectus,
intrinfecus eft poflibile. In hac porro hypothcG effectuum confequutio plane
contraria effet confueto nptur* ordini. Quare iterum conficitur, miracula
intrinfecus effe poflibilia. Quod vero adextrinfecam miraculorum polfibilitatem
adtinet, ille tantum negare eam poteft, qui prxter materiam nll aliud exiflere
fiulte præfumit, cujufmodi funt Spinoza, et Athei csteri. Simulæ vero, recta
cogente ratione popimus, præter Ipectabilem mundum Mentem effe æternam ipfius
Mundi Opificem, infinitam, omnipotentem, pleno et fummo jure in res a fe
creatas præditam, nihil dubitare poffumus, hujus vi, et actione innumeros edi
poffe effectus et contra, et fupra Naturæ ordirem. Luce igitur meridiana clarius
elucefcit cum interna, tum externa miraculorum poflibilitas. Sed audiamus
Rouifpjum adverfariis, quibufeum agimus, non furpectom certe auctoi ctorem, 3. ^crlt. dt la Montaignt.
fe. tejl ne Deus miracula efficere ^ idefl poteft ne legibus ab ipfo ftatutis
derogare ? H^e qutefiio ferto
pertrahat» impia foret, nisi »ffet abfurda. " M'. honoris, ei, qui silam
negative folveret, flagris tribueretur ‘ Jatis effiet inter infanientes eum
concludere. Re quidem vera, Ecquis unquam inficias ivit, Deum pofjfe miracula
perpatrare ? oportebat Htebreum effe, ut qiutreretur, an Deus pojfet in.
defetSo menfam ‘parate, 118. Atqui, quam futilia fint, ridicu la, quæ contra
miraculorum poflibilitatem objiciunt profani homines, operæ pretium eft
expendere. I. Inquiunt, nfiracula Dei op[)onuntur irrtmutabilitati : qui
enimODeus immutabilis confiflerct, fi naturæ ordinejn 3 fe fiatutum mutaret? Accedit quod majeftatis
deminutio cft, et confcffio erroris mutanda feciflTe. II. Miraculum eft legum
mathematicarum, divinarum, immutabilium, æternarum violatio; quare miraculum
expreffam involvit contradictionem. irp. Sed facilis ad hæc refponfio. I. Sicuti
Deus æterno fuse fapientix confilio, æternoque fuse voluntatis decreto natur*
ordinem fancivitj ita eodem conftituit, pro certo futuro tempore peculiarem jn
aliqua univerf* naturas parte ordinis mutationem* inducere. Summa equidem
providentia, Sc numquam fatis laudanda ! ut nimirum fopiti mortalium Animi,
eventuum infolcntia commoti/ tum eauffarum naturalium' impotentiam
animadvertentes, quæ Supremum Numen confilia panderet, venerabundi adorare
moneantur.‘^Hinc patet, miracula nedum nihil Divinæ immutabilitati Occurrere, fed
infuper Divinart Sapientiam, Majeftatem, ac Bonitatem iuminopere commendare. K
2 / %,; rumquc feriem ex 'eju(dern.unica» fubftantia» natur^ effentialiter et
neccffario fluere. • V-ide 4(5. Hujufcc fcedilfimæ* labis parentem 'faciunt
Xenophanem Eleaticæ dcAæ Principem, quam. deTellurem repercufsani
nil*vegerantiuin,'& animantium cs(Jononli pri/iare pofse : nam
titermDmetrnm nonnili cjiImici liberi aclionem oHendere, et metiu potefl; at
novimus, lucem aliud omnino efse a calorico, et jalutimum jCon*'erre vegetantium/,
et animantiuni phyli, ac *liadenus credidimus. Nolim* vero quis cx dictis
inferat, me lunaris influxus patronuni eidmium, referatque inter • adverfte
immoderantioris fententix fautores. Ecquis, cui cor ;lapit, calculo fuo
probabit-,, qua: efiutire folent in-. fani et inficeti honiines ex
fingulis.Lunie quadraturis, terreflrium phanomenorupi vel viciflitudines,,yel
priefagia fumerttes ? Quam fegd *Lunuf acteo nihil addere heic putemus, 'ne a£lam rea» gere
videamur.' Dff Naturali, O*
Supernaturali... ^.loz./^Ua^vis mutatio quæ cuilibet rei \Lr contingere
‘poteft, iT ex principio. • ipfi, rei interno manat, appel lator ; e contrario
pajfto dicitur, (i a principio eidem externo fiat, nempe 'ex principio alteri
Enti infito ; illud vero princij^um, 'e qilo aftio manat, ^I^?/■z'K^M
nur.cUpat^r.^ Singula fpcfWbiHs Mundi Enjia continuas fubire mutationes,
equidem cuique conftat. Quare fimplices hujus rnundi fubfiantia:' ejufmodi effe
debent., ut in fuis occurfibus, et iocurfibus pati /queant, et sgere ; *feu
patiendi^ potentia praidit® effe debent, et.principiej aliquo a£livo\ fcu vi
gaudere. Non moror quidquid In contrarium*.afferunt Occafionaliftæ. fecund*
hujus theorematis parti. Vide Om. i- 5 * 5 ^ feq. Certe Univerfurt? Philofophd
nuHis praijudiciis prazoccupato in fihgulis fuis partibus perpetua objici|t
adfivitatis argumenta ; atque adeof dubitare nullo* pa^o fas eft,* ejus '
ftamina*vi aai. aftiva prodita cfle. Principium aQivum Enti internum cum
patiendi potentia copulatum, /dicitur *ejufdem ’Entis :natura. Ita ex.
gr.matufa planftB eft ‘principium ;feu' vis. a£tiva planta! intimam fuam
fubftatitiam pervadetis, qua vjget, efflorefeit, fru6lus* gerit' &c., et
patiendi potentia, qua fubditur aflionl' 'extcrnaru'hi caulfarum, puta lucis,
æris, &c. Natura gen&rattm, ubi quid sit naturale edocetur. • ‘
i'T\Uoniam Univerfum inftar totius • confideratur complcftcntis omoia, . et
fingula entia : pronum eft, ex naturis fingiriorum Entium notionem effingere
uoiverfalis cujufoiam naturæ per omnia fufæ', &* 'Univerfum- percientis.
Hæc itaque''notio ( quod perdiligenter aniifnadvertatur velim ), nihil re. apfe
e(l- aliud, nifi generica quædam a6Iivitatis notjo ex a£li\itate‘fingularium*
mundi entium mentis abflractione comparata Tta, quam dicimus' plantæ, animalis
&c..naturam \ neque 'eft ani^a quædim fingutaris, et per fe con. ftans,
plancam, animal 5 cc. pervadens, et veluti fufa per ifth*c entia compolitaj fed
eft activjtas, qir$ conflatur ex activitatibus fe invicem modificantibus.
fingul 9 rum fimplicium fubftantia^rum, quæ p/antam,. animal &c;
coiiftituunt. '9 $. io 5.* jatn * Aterq qaamgluribus non fat cau- C (autis*^ a
^propriæ imaginationis illufiohe ab* reptis, univerfalis natur* nqrfiine non
idolum ^ noQræ ræntis intelligendum efle placuit, fed* fubftantiam a fingulis
mundanis rebus prorlus diftinctam, per fe conftantem, intime, omnia
pervadentem, &' Univcrlum percientem, Hanc principium Hylarcbicum,
t/frcheitra.Mundi, £»* ihelechiam y. Animam dcniqu* mundanam appel*. læunt.
Nimirum Philofophi iiU Mundum^ veluti iogens Animal habuerunt ex Anima, et
corpore conftantem ex ejus Anima fingu» las* fieri, quas obfertramus, rerum
generationes, atque corruptiones. -Sed* in.definienda.hac. Natura, feu anima
mundana ipfi ejus Patroni, in diverfas abiere lertteittias. Fuerunt qui com.-.
mentiti* anvm* genus mveiligantes ufque adeo Hallucinati Vunt, ut eam Deum
ipfum elfe de* finierint, ut ita Deus fit Mundi MenS, et J^lundus Corpus Dei.
Hos ji Paotheiftis aflidere firmes, profecto non falleris. At Cudworthqs, doctiffimus
equidem Vir, univerfali namr*Sc ' ipfc favens, genitricem et fi^rit^err, hanc
appellavit, elque id muneris a fuo Conditore coinmiffum ftatuit, ut materi*
difpofitionem,-tcm. perationem, et gubernationem fataliter moliatur.*
tum#ordine, et ratione omnia.gerere iftam genitricem naturam pofuit, ipfam
vero, confilio, ratione, et intelligenfia carere. S^d nihil folidi protuliffe
vifus eft Cl,. Vir, quo hanc ' • •.. fuam .(a) In Dijfertatione de natura
genitrice^ qua: legitur poft cap' j* Syji. intel. fuam conftabiliret
feiitentiam. ' Mofhe-. inius /Vi ^otis /toc? fit,, > ' • IG7. Quotidiana
edocemur experientia Ungularum rerum generationes, et corruptione? lub
(hi^rminafis quibufdam, ac' conflantibus coqditioriibus fieri, nec non
determinato quodam, ac cti^flanti modo. Determinatus hicce modus, rerum fiunt
generatidnes atque corruptionesf, determinatæ iftæ &. conflantes, qux
requiruntur, cOnditiones, id. funt, quod Ordinem natura appellamus /
^.cdnfequuti^nejja rerum, juxta hunc ordinem evenidVitium, natura curjum
dicimus. Cum nulkis fit Ordo abfque ordini» • regula ^, 0«f., proniftn 'efl
intelligere, da ri regulas' -leu normas quafdam, jucra quas Yi* res Entium’
hujus muntii' perpetuo.agant. Equidem, fi nullæ hujulnfddi flatura; ' forent
norrnas a'Supremo CoYidinore nUllus confiflere pofle.t ordo.’, Icd Chaos
perpetuum regnaret. Hz norm»,^eu ordinis r$gn'!z leyts rfatura ' a^jpellantur.ninc quivi^S
effectus a naturjs, leu viribus . Cauffarum ad' hocce Univerfum lpectantiun>
-, et juxta •'præfatas leges Agentium editus, wj-/»r mitlam peperiffe ^miratur
y ts 'qucmodo, equa pariat y aut omnino quomodo natura par -, tttm animantium^
faciat, ignorat, Sed quod crebro L?'^?tur De*'a,Pira. Memoria /ulla pioggia della Mt!7ma caduta /« Sicilia,
yidesis Ablh Dominicum Tata. PioggiA dt pietre mvvenuta nellji cartipagna
Santst,. r X ( bvo vldety non miratur, cur fiat ^ nefcit: ' quod ante non indit
^ id fi evenerit often*um ejje cenfet. Secundum, quod ad miraculi notionem
requiro, eft infolentia/ nempe non quofvis etFe£tus fuperhatiiriles miracula
appellare folemus, Ced qui ob ir/olentiam, five ratione temporis, (ive adjunft
iioim, extra omnem alias notum ordinem vagantur, et in admirationem rapiunt
fpeftatorem.Ex. gr.. ita nemo miraculum appellabit animæ rationalis creationem
et infulionem in humanum corpu,'^ jam organizatum in matris utero degens, licet
omnes fateantur eflfectum hunc fupernaturalem effc. Graviflima licet folutu
facillima heie occurrit quæftio de miraculorum po/Iibilirate, quampravæ mentis
Philofophi impio conlilio exiufeitarunt. Hi nimirum non veritatis amore, fed
revelatæ Religionis livqre perciti, nihil- ex jecinore fuo decernere dubitant,
veri nominis miracula impoffibilia effe; quæque mitacula appellantur, phænomena
naturalia elfe cen-’ fenda, ex ignotarum caulTarum naturalium concurfu genita.
Longa equidem non indigemus ‘oratione, quo ifthæc lalcivientia ingenia
confringa- • ' mus. Sane I. Subftantiarum hujus Mundi vires finitas efle tum
intenlitate, cum extenfione, extra omnem dubitationis aleam pofitum efl. Qua,^
re infiniti Innt effectus intrinfecus poffibiles quos naturales fubftantiarum
hujus Mundi vi! res attingere non poffunt. Porro ad hujufmod* effectuum genus-
miracula fpectant. Miraculo ergo funt intrinfcchs poffibilia. II. ' Subfiantia-
* • ' ^ ru^m . f.- 14gulas adcurate, non perfpexiffe leges ; fed peculiares
aliquas et ignotas leges notis hactenus adverfari haud poffe, nihil dubitare
poflfumus. Qiiz cum ita fint, concedimus quandoque incerta futura elTe noflra
de miracu. lis judicia, adeoque cordatum Virunr haud przcipitem hac de re fe
gerere debere, immo animis fjepe pendere fummum effe confilium j at alias tam
clare patere miracula autumamus, 8c in ipfps veluti oculos fponte fua
incurrere, ut excors fit oporteat, qui de iis fuum velit judicium cohibere, et
irftcr ftupidps adcenfendus. Ut ecce fi Sol hominis obtemperans voci e fuo
ciirfu defiftat, neque occumbere feftinet. Si ma. ris aquæ ex hominis imperio
fcindantur, et con> tra naturalis aquilibrii legem ftantes liberum, iter
fugienti populo per imum fundum præbeant,: fi hominis cadaver molle 8c jam
fætens in vitam fanum et integrum revocetur abfque ullo omnino apparatu, l’ed
fola jubentis voce ; fi mare procellis, Sc tempeftate jactatum quiefcat illico
et indomabilem, qua furebat, iram deponens, ridentem adfumat tranquillitatem.*
8c innumera hujufmodi, quibus Sacra: redundant paginae. Si quandoque in mundo
miraculum ^*^fi'^i'um, eflfectuumque feries, quæ poft. hac lequetur, alia erit
ab ea, qux futura fuiffet, miraculo non patrato. Nam omnia, qu* in mundo fiunt,
contexte, connexeque fiunt, et singula, qu« confequuntur ex præcedentibus
determinantur Si itaque in hujufmodi connexa rerum ferie aliquid novi
ingrediatur, quod fcllicct non fit ex ipfa fcrie, nova huic adcedet"
determinatio » qua equidem citra !T\iraculum caruiffet. Subfequens ergo ferici
|>ars propter novam fufeeptam determinationem non poterit alia non efle ab
ea, quæ citra' miraculum futura erat. «v lai. Si itaque miraculo perpatrato
fubfequens rerum feries eadem, ac qua; citra mira^ culupii fuiffet, pergere
debeat j nonnifi novo miraculo reftitui poteft. Sane res, quæ miracuio mutatæ
fuerunt, alios atque alios natura fua edid iffent effectus, alia»^ poflmodum
feriern con %quentium conflitu^imt ; hæc ut deleatur, ^cipfque loco reffituatur
Hia prior feries, nifi novo ^llfaculo fieri“ non poteft. ^0 Juvabit, ^uæ mox
diximus, ^exemplo ab horologia petito', illuftrare. Sifigulæ, qu^ in horologio
fiunt mutationes’ ex mech,a-' nica partium ftructura, et politione fiuunt^tum
connrxai funt inter fe, et continua'' ferie fiunt, ut adeo, earum curfus hujus
Mundi curfui conferri merito poffit. Ponamus.minutorum' indicem a fitu, quem
hoc momento obtinet, aliquot minutis retorqueri : id ab ipfa mechanica
horologii structura fieri quideni pugns^, nihil vero vCTat, ab extefna caufia
fieri. Deinde retorto eum in modum minutorum indice, et horarius index
proportionali ter retorquebitur, alia^que fient interius mutationes. l*ofthac-
minutorum', et horarumr fignattones pro quovis tempore diverfæ omnino confequentiK*,
ac fi nulla fact^ fuiffet in utroque incfice ^mutatio •. Qiiod fi reftituenda
fit prior otriufque indicis poil. 1 poGtionum feries pro quovis tempore, illa
Icilfcet eadem,.qu* confequtura erat nulla fafta indicum retorfione, iterum ab
externa cauifa impellendi funt indices, et ad eam politionem con(lituendi) quam
modo fponte fua obtinuilTerit, fi horologio fibi rclifto', nulla unquam
extrinfecus illata fuiflct mutatio. Ita miraculum in mundo fieri et
intrinfecus, et cxtrinfecus pofr fibile eft IIJ*,Sed mirapulo patrato
confequentium eventuum feries diverfa occurret ^b ea', qiiz citra miraculum
fuilfet izt. Hzc itaque fi reftituenda fit, pariter per miraculum nova rebus
inducenda efi mutatio, ut eadem, et eodem ordine redeat rerum feries, qux per
primum miraculum deleta' fuit. Fi»!s CofmihgU» I pAo, p-^-^ f-^-1 r^-n r^ r^
r-^ ff.W/KfiW rit 7. et 8., nec non fenfationum phænomena in noftra non furtt
poteftate 18. Quod ad fecundum fpectat, fenfationes non funt im mifliones
qualitatum ex objettis externis in ‘ animam adeuntium iz.Sc ig., neque Mens in
fuis fenfationibus- mere paffive fe habet ^ Sed de hac re copioiius fuo loco.
Qua sit [edes principii fensitiva facultate praditi. 22. '["'Ibrarum
irritatio in organis fenforiis X excitata a quavis externa CauiTa, nifi ad
cerebrum ufque propagetur, nullam in Anima lenlationem gignit. Pridem do
experientiam - Sane obtruncetur nervus, vel fortiter ligamento comprimatur •
quavis producta irritatione infra fectionem, vel ligamen, nihil anima experietur^
illico tamen fenfationem patietur, five ligamen relaxetur, five irritatio ultra
nervi fectionem inferatur. Quare principium fentiens, feu Anima non ubivis in
corpore refidet, et in quolibet organo fenlorio, led in cerebro, cx quo fuam
originem nervi aj^fpicantur. At dua! heic occurrunt qua»ftiones 1. Quænam eft
illa cerebri pars hac prærogativa c£bteris præftans, ut ad eam fint deferendæ
fingulæ fcnfuum irritationes, quo in Anima fenfationes^ant ? hanc cerebri
partem, commune ftnjorium, et Animæ fedem dixerunt. Qut fenfuum irritationes ex
intimis corporis partibus ad cerebrum, vel potius ad commune fenforium
deducuntur ? Quod ad primam adtinet, nulla cerebri pars pro communi Animæ
fenforio flatui poffe videtur. Ut enim aliqua hujufmodi cenferi queat, illud
prius conflare debe^, lingulos’ nervos, quot quot per fingulas cor poris partes
migrant, et lon^e lateque diffunduntur, ex ea primam originem ducere.-Al nullam
cerebri partem hu>ufmodi effe \ recen» tiflime conftitit ex obfervationibus
fumma fagacitate ab Ab. Toffoli captis, {tom. Xlll- opujcoii fcelti [ulle
feien^e, e Julle »Arti. ) Olfactorii nimirum in duo priora cerebri Ventricula
pergunt. Guftatorii ad tertium. Acuftici e corporibus ftriatis labuntur. Optici
e corpore calJofb emergunt. Somniavit ergo Cartefius cum Anim* federa in
glandula pineali locavit : quippe ex pineali glandula nec unus nervus originem
ducit’. 'Idem de Digby dicendum, qui ex glandula pineali in feptum lucidum
animx fe. dem tranftulit. Neque adfentimur CJ. De la Peyronie, aliifque in corpore
xallojo anima* fedem conftituentibus licet enim hinc emergant aliqui nervi,
veluti optici, non omnes tamen. l6. Quo fecunda! qua*ftioni facerent fatis,
Cdduxerunt Nonnulli exemplum chordarum, qux altera fui extremitate perculf*,
illico alteri, extremitati motum fuum tribuunt ; at non fatis penficulate, Sane
tremor in unam chordse extremitatem illatus, ad extremitatem alteram illico’
propagatur, fi tenfa illa fuerit, et in xjfcillando libera, ab omni fcilicet
externo impedimento expedita. At neutrum de nervis dici potefl:, nullam tenfionem
habentibus, et in lui ductu undique irretitis. Alii vero nervos ha. bent veluti
totidem tubulos; quos purior, ac fubtilior fanguinis p&rs, qpam Jluidum
nerveum, et 5c fpiritus animales vocant, perpetuo implet, ac pervadit. In hac
porro hypothefi inquiunt, nequit nervus, nervulu/que contingi, quin aliquatenus
prematur ; neque potejl^ ullatenus premi, quin ob dijlensionern fpiritus
contentus' urgeatur, neque jpiritus il/e sic urgeri ^ quin pellat ^ feu potius
repellat vicinum inflantem, ac pari ratione advcnientetn ex cerebro • neque
ijle porro repelli, quin tota ferie ob' repletionem, continuitatemque compulfa,
fpiritus exi flens ad ipfam originem nervi, nervulique in cerebrum quasi
resiliat- Verba lunt Caffendi phyf, f. membr. . c. 1. Hujus explicationis
exemplum ex tremulis æris undis Ionum deferentibus e corpore fonoro ad aures,
facile eft defumere. Atqui hujulmodi fententia licet comjnuni voto veluti
cæteris verofimilior excepta Iit, Iblida tamen caret demonftratione. Hac
interea utemur, donec melior non occurrerit. GAP. Nuperus Audior Thouriy in
dIfsertatione'Lugdur)enfi Accademiie exhibita, in qua qusftionem exiendir,
utrum atmol'pha:ra eledricitas aiiquid in hunianum\ corpus influat &c.
novum hac de re lyflema propofuit. Utraque,
afserit, eledricitas, pofsttva nempe et negativa ifeorfmi in cerebro
hofpitarur. Siibflantia corticalis puta pofitivam continet eledricitatem,
negativam vero medullaris fubflantia. Utraque habet luos condudores, nervos
1'cilicet, quorum alii politiva; eleflrlcitari inferviunt, alii vero negativ*.
Hi ex extremis corporis partibus eleilricitatem deferunt ad cerebrum ; illi
vero ex cerebro ad mufculos, et ad extreouis partes. SenfatioiTes Menris fiunt
ex appulfu ad cerebrum eledricitatis, quam nervi negativa eledricitati
inlerxientes a corporibus in lenfus incurrentibus rapiunt, ocleruntque ad
cerebrum. \iotus ve De Memoria. I j^.Uotidiana experientia edocemur, Mentem
etiam remotis objectis, quibus afficitur, adhuc fibi prxlentem retinere poffe illorum
ideam,. feu notionem. Hujusmodi Mentis actus coram reti- I nendi ideas,
notionesve objectorum, etiam il» lis remotis ac absentibus, vocabulo
contemplationis y^ockio duce, defignamus. Rursus experientia pat.efacir, Mentem
persæpe occafione externæ cauflæ, persæpe suo veluti arbitratu, et imperio,
antehabitas, con. sepultasque ideas, notionesve revocare. Hunc mentis actum,
reminlfcientlam appellamus. Eadem experientia novimus, Mentem antehabituS ideas
fibi recurrentes ut plurimum recognofeere,• scilicet animadvertere, illas ideas
notiooesque haud elTc recentes, sed jam dlim habuiflTe. Hanc anima:
conscientiam, seu anim.i.ivcr;ionem, recognitionis vocabulo exprimimus. qo. Tres modo rccenfitos
Ment;s actus vulgo Memoria nomine complectimur. Itaque Me. mo vero mufculares
cientur ab ele^trlcirate, quam Anima in mufculos immittit per nervos pofitivs
eleflricitati d-'dinatos. Atqui clariffimus Au6lor in præfata difsertatione ar^qumentum
ouidem fui ingenii præbet, non vero fui fyfiemaris. Ipfemet videtur iftud proponere
pro imaginationis fpecimine ad rem perdifficilem, fi fuperis pbcfet, c:cp!ic
aridam.morla ell illa Anima: lacultas, qiia retinet-, revocatque antehabitas
ideas, ac recognofcit veteres effe. N • -De Contemplatione . *]A yCOtus ab
externis objectis in no-, J.VX ftri^ fenfibus exciti, et ad cerebri fibras
perducti Animam diverfimode 'modificant, live repræfeiitationem aliquam ( quam
dicimus ideam ) five affectionem ( quam notionem appellamus,.),.ingerendo.. j^Quare pronum cft intelligerc, fibrarum
cerebri commotionem eo ufque perdurare debere, quo illa notiq, vel
reprasfentatio Animam occupat. Animaie itaque contemplatio' ex continuatione
motionum in cerebri fibris efi repetenda/ atque adeo ad fentiendi facultatem
fpectat. At continuatio motionum in cerebri fibris duplici ex- cauffa fieri
poteft. 'Vel enim, fortior, et vehementior illata eft, concuflio in' fenfuum
fibras ab externis objectis, et modo cerebri fibræ vehementius commotæ in eadem
fufcepta commotione, etiam citra Animæ impc-' rium, diutius perfeverabunt. Hinc fiet, ut ea-' dem idea vel
notio Mentem five lubentem, five invitam occupabit, et qtfidem vivide. Vel'
fibræ leniter commotæ, ad quietem mox fu a' fponte redirent, quo cafu paullatim
evanefeeret ‘ idea, et notio ; et modo ut in inchoata com-^ motione, illæ
perdurent, Mentis quoddam velu-* M ti '• ' ti conamen adhibemus : hoc conamiiw
fibras in inchoata commotione veluti foventur, con^ fervantur; atque hinc
confervatur, et perdurat idea, et notio coram Mente. Vis, quas in plura
difcerpitur, languefcit ; at in unum colkcta potior efficitur. Quare facile
jntelligimus, eccur ad contempla* tionem faciliorem, diuturnioremqne
confequen> dam,Mens ne ab aliis ideis, et prasiertim fe«« iationibus perturbetur,
cavere debeamus. • r . MI. f » De Remintfcientia t 'I 'AIfficillima occurrit de
reminifcientia inquifitio-. Hanc ineptiffime ^videntur -Metaphyfici vetcreS
perlequuti fuilTe ; quasfierunt enim.* quo abeunt^ receduntqite ideat
nothnefve, cum ab earum contem^atione Mens feriatur ? In ^nima ne, vel in cerebro confepediuntur ad sAnima
imperium rediturai Ecquid funt confepuita idea ? Hiice quasftionibus ineptas
re* fponiiones fuppeditantes, illud quah fuadere vel* Jent, penes Animam
promptuarium eife, in quo ideæ conferventur iterum educendæ ex ejus imperio,
quoties opportunum eflfe judicat, vel ex alia quavis caulfa. Audiant hi
Ciceronem CICERONE (vedasi) egregie cos increpantem',*Qjiid igitur ? utrum
capasitatem. aliquam in xAnimo putamus ejfe, quo tan~ quam in aliquod vas^ea^
qua meminimus infun~ dantur} %Abfurditm id quidem: qui enim fundus^ aut qua
talis «Animi figura intelligi poteft ? aut > quæ tanta 't/fnimo capacitas?
%4n imprirnt qua fi ceram, »^nimum putamus, et memoriam ejff fi' gnatarum rerum.
in Mente vejligium ? Qua pofi funt verborum qua^ rerum ipfarum ejfe vejligia? \
tufc. qq. /. I. c.Ut frbi cavcanf Tyrones ‘ab hifce abi furdis opinionibus,
fufficiat recolere, ideas, notioncfve nihil effe aliud, quam Animæ modifi«
catioiies ex fibrarum cerebri commotionibus genitæ j ut ita ficuti fibris ad,
quietem redeunti-* bus, ftatim illæ Animæ modificationes definunt, ita et ideæ,
notionefve omnino evanefcunt. Cum ergo quæritur, quo abeunt-, receduntque ideæ,
cum ab earum contemplatione Mens feriatur, optimum refponfum erit/ evanefcunt.
Ubi confepeliuntur hi Anima ne, vel ip cerebro ? Nullibi.* nam ab Anima cui
inerant, evanuere. Ecquid funt confepultæ ideæ ? Nihil. De Recognitione. A
Memoriam proprie fpectat, quod jt\. dicimus idearum recognitionem^ Si enim
veteres ideas.Menti recurrentes percipiamus, minime vero nobis confcii fimus,
ilJas veteres effe, nempe eafdem quas olim percepimus, reiterata ifthæc five
notio five perceptio ad memoriam nonnifi improprie referetur. Licet
reminifcienti* cauffam incom pertam adhuc habeamus, recognitionis tamen idearum
facilem explicationem exhibere autumamus. Duo funt principia*, ex quibus illam
deriva, mus. r. Interior experientia, qua a teneris unguiculis novimus
diferimen quoddSm inter ideas, notionefve Menti recurrentes ex reminifeientia,
et ideas notionefve actuali fenfationc in Animam incurrentes. Licet enim verbis
non poffct explicari diferimen' iftud, interiori tamen fenfu difeimus, alior
prorfus modo Mentem affici Cx fenfatione objectorum prsfentium, ac ab 5 deis
notionibufve eorumdem abfentium. Videtur hoc diferimen in eo |»ofitum, quod
fenfatio Animam vividius, ac veluti intime afficiat* € contrario leviter
commoveant ideæ, notionefve objectorum ''ubfentium, et quafi a longe ei
exhibeantur. Lex ilia adfociatibnis idearum, qua fit, ut una recurrente idea,
vel notione, fi. mul recurrant Menti una vel plures aliæ, quo. cunque tandem
modo, priori adfociatæ. Sane recurrat Menti idea, vel notio objecti cujufvis j
five id fiat ex interiori quavis cauffa, five ex externæ caufTæ actione. Vel in
hujus \idea: recurfu excitantur in Mente ideæ ei adfociatæ ex priori
fenfatione, vel non. *Si primqtn • ejuidem objecti idea in duplici illitarum
ferie Menti obverfabitur ; in ferie lci*icet præfentium circumftantiarum
temporis, loci, aliorumque objectorum^ adftantium, et fenfus percellentium, et
in ferie idearum fociarum ex veteri fenfatione, qua; per reminifcientiam
refiaurantur. G,m ergo altera feries, ab altera interiori lehfu dignofcatur
prasc. n. i., facile eft recognofcere, objectum, quod modo Menti occurrit,
alias quoque occurri Ife. 45. Si vero ex alicujus ideæ recurfu ( quacumque ex
caufla hic fiat ), nullæ excitantur ideas focix temporis, loci &c., nulla
fit recognitio, vel incerta admodum, et obfcura, fi nimirum obfcure, et confufe
fuerint excitatæ ideæ focis. Experientiam appello. Hinc efi, quod fi hanc
recognitionem claram, et difiinctam reddere qusrimus, conamur veteres
circumftantias loci, temporis, perfonarum &c. revocare, vel ut alter
commemoret, flagitamus. Hs ides Mentem redeuntes lege adfociationis veluti
ftipantur illam, cujus recognitionem qu*. rebamus, ficque ipfa recognitio
redit. Eadem eft explicatio recognitionis idearum reflexione genitarum. De
Facultate attendendi, et reflectendi. 4^. "A ^^Entem a vividis, claHfquc
five J.VX (enfationibus, five ideis veluti pertrahi, atque occupari; nec non
iifdem libenter cedere, et conquiefeere, quilibet intimo fuo confeienti* fenfu
edocetur. Atqui et interiori experientia non minus conftat Mentem facultate
pollere vividis etiam, clarifqUe five fenfatlonihus, five ideis obnitendi,
quominus iis afficiatur, feque' convertendi ad alias five ideas, fjve
fenfationes etiam remiffiores, et hifcc elicito veluti conamine intenfius
vacandi. Iflud Mentis elicitum veluti conamen, ^uo ipfa fe determinat, ac
defigit in peculia, ri aliqua five fenfatione five idea perfequenda, attentio
nuncupatur; et attendendi facultas illa'met Animæ vis, e qua illud conamen
procedit. Attentionis vero translatio, quam feientes, et prudentes efficimus ex
uno in aliud fucceffive objectum, vel ex una in aliam ejufdcm obje. cti partem,
reflexio dicitur. Facultas adeo refleBendi illamet efl facultas quam attendendi
dicimus, quatenus, nobis animadvertentibus, ac volentibus ^ plura fucceffive
perluftrat objecta % ex uno ad aliud rimandum pergit, reditque ad alterum.
Attendendi facultas alia putanda efl a facultate featiendi, etfi hanc perpetuo
comitem ha. r ; r : tar ;;::tatem ad illam reflectendi revocandam eflc.
RATIOCINARI dicimur, cum idearum A puta et C convenientiam, vel repugnantiam,
vel quamvis aliam relationem intuitive non percipientes, iJIam deprehendere
fatagimus per ioterpofitionem medi* ideæ B. Media porro hæc idea nonni/i ex
reflexione', et analyfi primarum idearum A& C Menti occurrit. Hæc enim me«
dia idea, vel una efl ex limplicibus, quæ in compofifis ideis A et B
continantur • vel ejulmodi eft, ut dum alteram -puta A tontinet, ipfa tamen in
altera B contineatur ex quo inferimus «tiam A in B contineri. Alterutro modo
res fe habeat, evidens efl, Mentem fuam ratiocinationem nonnili reflexione
abfolvere. Facultas generalium idearum nexam, 2^ relationem clare pervidendi,
Ratio communiter appellatur. Hoc fane fenfu Tullius de ofF. 1. i. hoc vocabulum
ulurpavit. Homo enim^ quod rationis eji particeps, per quam confequentia
ctrnrt, caujfas rerum videt, earum progrefjus, et quafi antecejjiones non
ignorat, Jimilitudines compa^ rat, rebujque pr' Huc’ IpeAant ' Ciceronis
CICERONE (vedasi) verba /. 2. di divinat. Sanguinem piutffe ’ [enatui
renunciatum eji clatratum fitniiufn fluxi^^e /anguine : deorum fudaffe
fimulacra atque h(ec ;« lallo plura, ^ majora videntur ti^ mer^il^us ' eadem
non tam animadvertuntur tn pace. ' byterum qutmdam Rejiltutum nomine lauJat 'n
fuo tempore, viventem, qui, et fponte fua, et aly amicis rogatus adeo fe e
fenfibus evocabat, •Ut non folum coram loquentes non audiret, led neque
punctiones, neque inuftiones fuo cor* pori illatas lentiret, nifi cum ab
alienatione Mentis ad fe iterum redib?kt. ^ ^ §. 67. Tandem cum imaginatio ex
facili ^ cerebri irritabilitate dependeat,.confequitur, illam ex mutato
corporis, et cerebri ftatu obtundi polle, nec non obtufam revivifeere. Id cum ex pluribus fieri
queat cauffis, tum pras, cipue ex state, cibo, potuque plurimum pendet. At haud
prstereufidum eft, morbofa aliqua cauffa fieri quandoque, ut imaginatio, et
memoria alias obtufa, et difficilis', vivida fiat, ac facilis ex inducta' in
cerebri fibris fenfibilitate, feu irritabilitate' majori. Nempe,, quas cerebri
fibrs’ olim agitats propter craffiorem; conftitutionem, parvam aut nullam
mobilita tem fulcipientes, minus apt* erant quominus veterem commotionem
renovarent^ modo mobiliores, fenfibilioresque effects, illam diftin-^ cte
queunt renovare ; adeoque, qus olim obtufa difficilis, vel nulla fubjbat Menti
imagi-, natio, et memoria, clara fiet, facilis, et promota. Hinc ftupendi
prorfus phsnomeni rationem' depromere facile poffumus, eccur nempe Rudes, et
illiterati homines febri et delirio correpti plura quandoque loquantur erudite,
et irllomate antehac iplis prorfus iirtomperto; tum hsc iterum ignorant, fi
> N 3 I rio reliquuntur. » 6S. Ad vim imaginationis Mpjierum prægnantium
referunt Nonnulli monflruofos et informes, quos illæ edunt quandoque partus,
tum partuum infolentes macufas. Sed nolim ^ ego quidquam de hac re decernere. e
I — i ^ I I. (Adolefcens quem Prarceptor ;nihil untjuam edocere poruir, quique
nec callebat, ut vulgo dicitur, adjungere adieAivum fubjedlivo, pofl aliquot
dies febris jnalignx, latine loquebatur, nil hsfitans; dodrinas antehac fibi
ignotas recitabant, ideafque quibus eatenus caruerat, egregie edilarebaf.
Medici», fepten. r. i. p« 88. Huart ( !*.«»»« «fcj’£/pr/>j)Ruflicum memorat
bardum, qui ^lirio correptus, eloquenrlflimus evaflt: nec non quemdam famplum,
qui craflillima: licet minervz, et ideis vacuus, morbo tamen laborans,
cordatioris politicas eruditus apparuit. Erafmus italum cognovit, qut in morbi
acce^onibus germanicum idioma, quod nunquam didicerat, loquebatur. Ac.. Hzc
phænomena, et alia huiufmodi quamplura imperite, A olcitanter inter miracula,
rejicerentur, vel magicos efferus. Sola fibrarum cerebri difpofitio vi mOrbi
mutata hos omnes producit effedus. Nempe imprefliones olim habitie, at debiles,
quominus fentibilem gignerent efi^tiun in cerebri fibris pamm mobilibus, novam
majoremque vim nancifcuntur fibra irritabiliori, ac mobiliori per morbum
efledfaj iienti pondus^quod machins rubiginofs adplicitum nullam in ea motum
ciet, extenmlo tamen eamdem in morum agit, f! rubigitie TOlita fuerit, ejufque
axes ex inunco #!fO mobiliores emciaotur. De Facultate appetendi, ejufque '
obje^o '. ubi de dffedibus fummatim. De Facultate appetendi j ejufque ob/eSle.
6 p. ^^Uique ad intimum fuas confcicntiæ fenfum attendenti fequentia liquent.
I. Animus ex quavis Tibi objecta boni, malivi fpecie agitatur * neinpb erga
objectum quod bonum cenlet incJinationem nilum vei ^ invitus experitur/ 'e
contrario, declinationem a malo, et veluti renifum quemdam ad ei ob« fidendum. Illa Animi inclinatio,'& veluti nifus ad
bonum ", appetitionis nomine defignatur / Sc contra averfatio dicitur
Animi declinatio, æ renifu^ a malo ^ II. Quo majus Menti objicitur bonum, ma
lumve, eo vividior eft appetitio vel averfatio/ et contra, ut ita fint
appetitiones et averfationes in directa ratione bonorum, ' malorum ve Menti
repræfentatorum., • III. Appetitiones, et averfationes non fiint in noflra
potedate, nili quatenus Mentem ab objecta boni, maiive fpecie avertet^ polii m
us. Cxterum licetd bonum minime profequamur, malumve fugiamus, intrinfecus
tamen »• quali polient ratione, qua rerum naturam, re-. lationesque
complectentes-, illarum.bonitatem"' malitiamve affequantur. Proinde: in
perfpicqo «ft*, cctur tantum fit ijiter homines ' appetitio ' num
>sVcHOlo6iA 4 T nnim, atque, averfationum difcrimen.Sanc quod uni bonum
apparet, alteri malum videtur, et ^ Contra.'Quod uni voluptatem conciliat,
alteri dolorem, tædiumque ingenerat' 'Ipfi nos fententiam de bonitate et
itoalitia cjusdetn objecti pluries in hora, •& quafi momento tenii poris
pronunciamus, et mox delemus. QuJ in "tanta affectionum, idcarurti ', et
calculi difcre‘pantia ftare poffet appetitionum, averfationumque identitas? [Do
not multiply identities beyond necssity – Grice e Semmola -- - Quæ appetitiones
et averfationes Anima excitantur ex confufa bonorum, malorum- ’ ve
repra?fentatione ope fenfuurn et imaginatio'nis facta, appetitiones carw/j/ex,
feu animales "^diQUtitMT.Rationales e contrario appellantur 'iJlaSjj' quas
Mens concipit ex clara, et diftincta bo-, noruni, malorumve fpecie ipfi
exhibita 'a ratione. Porro p^fæpe fit, ut‘qus veluti bo-T na vel mala Menti
reprefentantur ’ fcnfuum et imaginationis- ope, ea itidem' bona vel mala ex
ratione dijudicemus. Hinc 'duplex iq Animo excitabitur appetitio vel avcrlatio,
carnalis feu animalis altera, altera ' rationalis j modo amba;,hæ convenient.
Alias contra fit, ut qua: tamquam bona* Vel mala" Menti fiffuntur fenfibus
et imaginatione, tamquam mala vel bona ratio, decernat. Quare appetitio
carnalis gum aVerfatione rationali pugnabit, et viciffim ^‘adeoque Mens in
diverfa, &.con-, traria dillrahi experietur, et internum, luctamen,
conflictumque patietur. Huc fpectant illi^. ApoftoU verba : Sentio aliam, legem
^ in memltris jneif, repugnantem legi Mentis Nem. Nempe in Apoftoli Anima ex
fenfuum illecebris appetitiones excitabantur, erga objecta", quæ ipfc
Apoftolus averfabatur ut mala ex monitu rationis. 75. Hanc pugnam ut
explicarent vetcreg Philolophi duplicem diffinxerunt appetitum, animalem et
rationalem : tum non uni eidemque fubjecto utrumque tribuerunt, fed diverfis.
Opinabantur nimirum, duplici parte Animam conftare, wtelie£liva, leu Juperiori,
cui appetitum tribuerunt rationalem, et fenjitiva altera, quam inferiorem
dicebant, in qua animalem appetitum pofuerunt. Has Animi partes et revera
diftinctas efle, et fecum ipfas pugnare, veluti Equus cum Equite fyquæ locutio
Platoni in primis familiaris eft j, /autumabant. Atqui- doctrina ifthæc fenfui
intimo, quo eum conflictumMn, uno eodemque individuo fubjecto ineffe experimur,
repugnat. Accedit quod cum ^ Anima fit incorporea et fimplex lubftantia ( ut
fuo loco evincemus ), vocabula partium inferioris et fuperioris, vocabula funt
nihili. De Jiffefiibut •. ' ^» ' A‘ Ppetitio, vel aversatio vehemenjCX tior, 8c
cum infolenti naturæ humanat commotione fociata,' affectus appellatur. Equidem
quævis boni, vel mali reprpfeatatio appetitionem, vel averfacionem ciet': at
aon qu*vis appetitio, et avcrfatio affectus nuncupatur / quæ incitatior eft, et
intenfior hoc nomine denotatur. Affectus itaque nonnifi ex rcpræfentatione boni
vel mali, quod gravioris momenti putamus, pendet, 70« Inlolens humanse natur*
commotio, qua affectum comitatur, ex actione Anima affectu percita in commune
fenforium leu cerebrum gignitur. Ex intimo enim vinculo, quo Anima, 5 c corpus
conibeiantur, quoad homo vivit, fit, ut ficuti fingula corporis commotiones
nervorum ope ad cerebrum traducta Animam afficiant, ita reciproce Anima
commotiones ex reprefentatione bonorum, malorumve genita nequeunt in cerebrum
non derivare, ipfumque determinato, quodam modo agitare. Cum porro e cerebro
originem ducant quotquot per corpus dilabuntur nervi ; hinc intelligitur cccur
ex Animi vehementiori appetitu vel averfatione, concitato cerebro, et nervis,
'infolentes natura humana commotiones oriantur (a). Ita ex terrore pereuHus
Animus faciei pallorem, cordis pal-, pitationem, artuumque tremorem comites
habet. Ex ira inflammatur Vultus, linguli tenduntur, atque convelluntur nervi.
Ex amor* per. Non quavis Anima commotiones io fm^Ias cerebri partes derivant,
neque eodem modo : fed fingula certas, ac.determinatas partes ceijelHi
afficiunt, tk de*terminato.modo. Hinc unguli Anima affe^us determinatos cient
in corpore motus, qui quandoque funt diverfi, quandoque prorfus oppofiti ^
Juxta affe^uum naturam ». et intenfitatem. ' ^ L (. I percurrit mollis flamma
medullas Scc. Hinc in numera phy fica mala, qux fapientes Medici norunt ' Cum
natura fua Mens in bonum te ratur, malumque refugiat, liquido conflat, aflectus
humanam naturam, qualis modo efl, necefsario confeqai. Quid ergo fibi volebant
Stoici, cum affectus, Animi morbos appd-. tlantes, in Virum Tapientem minime
cader^ pertinaciter autumabant ? Num ne fapientia eo, pertingere potdt, ut
hominem fua expoliet natura, 8 c alia prorfus commentitia induat ? At nemo unus
ex Stoicorum familia ad hunc fa-. pientiæ apicem deveni(. Equidem qui in humana
natura deleri affectus optaret, ille et vim qua Mens bonum naturaliter appetit,
refu^it'' ' qqe malum, radicitus ab ipfa Mente avmlfam vellet »,Hoc femel
conceffo, non video, quid, homo a crudo diflaret latere.* nempe hiccine erit
Stoicorum Sapiens ? ^•7p. Atqui human.'> natura, Sc ut fit,& bene fityfibi non fufficit
• bona proinde quibus caret, ^ profequitur oportet, declinetque ^ impendentibus
malis. Bona vero profequi non
potefl, Jiifl ipforum bonorum appetitu incitata j neque mala refugere, et
propulfare, nifi odio percita erga mala, quæ funt inimica felicitati. Sunt
itaque affectus nedum neceflaria humanæ naturæ -confectaria 70., fed ipfi 8 c
ut fit, et bene fit omnino neceffarii_ clatere?. Sunt præterea affectus inftar
vectium „ quorumdam, quibus mirifica in homine ex„.citatur, aliturque magnarum
rerum effectrix „ vis, nec fine magnis affectibus quidquam f gre ‘ « g**cgjutn
> et prsBcIarum unquam ab homini„ bus factum i R^tio in nobis recta, nullo
im« j, petuofiori affectu concitante, conftantius ope„ ratur, et
xquabilius,l'ed eximium qmdqbam, > „ et diftinctum ipfa per fc-fola efficiet
niin’„.quarn. Eadem, ubi natura vehementiffime „ affecta eft / velut erigitur j
ac, licet paullo' turbnlehrius efficit tamen quje mira viderf „ poffcnt’ nafurs
humanæ vires omnes ignoran> tibus. Itaque Plato fæpe fcribit magnorum
vircrufn fuifle neminem fine enthusiasmo ^ quodam^ ideft vehementio riaffectu;
xAnt. Gtnu- ^ T enfis Metbaph. part. tertia, Scbol. prop. 4 ^* Boni,malive
repraslentationes in Mente factæ five fenfuum renunciationibus, five rationis
adminiculo non femper funt ‘ex æquo' conformes realibus concretifque objectis, qui-
" bus ilias referimus. Quare neque., affectus ex. hujusmodi
repræfentationibus 'r geniti fempet* proportione refpondebunt bonis, malifque
realibus. Hinc duplex affectuum partitio ex eorum relatione» ad objecta Alii
nimirum "funt veri, alii vero /«/>/. Veri dicuntur, qui objecta realia'
refpiciunt, et ipfis realibus objectis proportione refpondent. F7 damus, quafi
nihil ^dhuc ab aliis traditura . Mentem.humanam infita vi, et natura fujc
neccffrtate bonum appetere, et aver.j ' ' fari malum, fuperius 70..,exporuimus
^ Mp»» nemur hinc, nos ita natura comparatos, >.ai; ad bonum in genere, feu
ad beatitatem necessario, et indeclinabili pondere feramur,v et miferiam'
relugiamus, quin valeamus vel-, „minirfium obfiftere. Perfpecte prpfecto. Divus
Au», guRinus inquiebat : Beati effe •^olumui, et nti' feri effe non fotum
nolumus fed nec velle -pofo /limus. At quid 'Anima contingat, quum aliqua boni
j malive fpecie afficitur, operæ prætmm eR ex intimo 'conicientiæ fenfu
perdili- ^ genter edtfcere : ipfo enim Magiftro in devia certe haud abibimus..
r. rntimus confeientiæ fenfus uberrime edocet, quod ficuti ex oblata boni,
malive fpe» cie mox tu Auimo cietur appetitus, vel aversatio A J ^49 fatto in*
ratione ipfius boni, vel mali repræTentati, ita hoii rapitur ab illa fpecie
Animus, fed allicitur, vel t*dio afficitur. Non rapi ex eo I* intelligit, quod
cuique appetitui', averfationi, quoufque durat, efficaciter obfidere* poffe,
tum premjre, et infrenare, evidentiffime animadvertit : %. quod Ipfe fe ad
bo'num perfequendum ciet, fi quidfem perfequafUr, vcl ad malum fugiendum. Sentit Sinimur præclare Tuilius mare fuo tuf.
qq. 1. i. Cw 23. ‘Je moveri, idque dum fentit, illud una fentit, Je vi fua i
non aliena moveri. Animus ex oblata boni fpecie alle£las, ' crampentem mox inclinationem
quandoque extemplo fequitur j alias vero immoratur, &' appetitum cohibet,
ut rationis conHlio adhibito ejC{>fendat, num 'bonum ei exhibitum revera
bo-» /lum fit, atque amplexandum, afl %ero malum fub fpccie boni, adeoque
refpuendum. Inito tandem confilio, et de bp^itate, vel malitia objecti monitus,
fe ad illud perfequendum, vel avertendum ciet: animadvertit vero i. ipfum fe
ciere, hon rapi/ z, etiam 'poflquam perfequi rapit, facultatem integram
defillcndi penes fe, retinere, licet revera non dcfiftat; hanc ut experiatur,
fufeeptam determinationem ex ^rte, vel ex integro quandoque remittit-, vcl,
aliam omnino' diverfam, contrariamve elicit., Cum plura Menti exhibentur bona,
quorum uno tantum potiri liceat, vel plura media ad idem* adfequendum bonum,
rationis ad-' hibernus confilium • fingula undequaque expendimus, et quidem quo
efficere pofTumus accu ratius. et acutius / media propoGta irfter h, et cum
fine comparamus, ut. qu? Gnt aptioia perdilcamus. Hoc demum inftituto examine
Td id quod melius videtur, fe inclinare, feu allici Animus perfentit; at
inclinari, inquam, non 'i nam i. inclinatio illa m attum non Jodit, nifi ipfe
Animus fc cieat, detcrminetaue ad'id,quod melius vilum^ cft amplexandum; 1 quia
quovis' pbfito rationis confilio, Mens ‘oildvertit. le facultatem minus bonum
fe determinandi ;.de hac facultate experimentum capere potett, quoties libet,
ut fui' juris eife plene perdifcat. _ V Ex diais fequentia quam evidentiffime
natent. I. Inefle Menti aaivara facultatem, qua ipfa fe cieat, moveatque ad
bonumx pecu?hre perfequendum, ipfa fe avertat. a peculiari malo Hanc aftivam
Anim* faculutem t^ohn^ " IMbulo dkliguamus. II. Aa.vam fa.-ultatem, nempe
Voluntatem ratioms confilio equidem regi, at ei non lubeffe; rationem Ic«ui
ducem et comitem, ipfam vero etfe fui Lminam, ipfam, f.bi Di vus Bernardus, de
grat. ratio data voluntati, ut tnfttuat tlUm, non up ^cflruai ' deUræret auten
/7 nece(fttatem ulla» i^roonere^. UI- Voluntatem, ^ tionis confilio, deu
incitamento, fuam deter minationem fufpendere polTc,s’immo aliam pominationem
mcitamen nere omnino contrariam ei, q * V. - ritionifque confilium fuadent.
LilLt/r momine.intelligimus eam aaiv/poteht.a, indolem-..90,: nMlU natur* fo* (
V n^ceflState, nec ulla \extcrna coa6lione invincibiliter determinatur, ad
a£liorverq.; redjipfaj fe determinat, 'ut ita, politis oninibus ^djiagpji^urn.
requifitis, queat non agere, vel,aliud;5^qU9dvi^. a politis requilitis alienum.
Qfiandoq^
IJbertatU nomine ipla a£Hva facultas, præfatx -indolis, et natur» intclligitur,..
f - 4 ' pt. Duplex adeo Libectas., diftingui folet juxta duplicem neceUttatem ;
cui activa poten? tia fuhjacere poteft. Alia dicitur likfftfl cejfitaie y qu»
confidit in immimitate. a quavis naturali, et interiori vi rapiente» et
determi^ nante ad datam a£tiodem. Altera
vero dicitur iibirtas a, et hase ia. immunitate a aliquo motivo nihil unquam
vult, nihil advefatur. Sicuti ergo lanx ob impolita pondera inclinans nihil in
fe inclinando libera eft, ita nequi' humana Voluntas, quas a motivis perpetuo
determinatur. At
duo præcipue heic reprehendenda occurrunt I. Mentem a motivis determinari. ' ir
II. Lancis exemplum - Quod ad primum f|sew ctat, fedulo hæc duo' toto cælo'
cliverla fecernenda funt : Mentem a.mdtivis determinari; Mentem feipfam ex
calculo mottvonm determinare.Primurd' fi verum foret, actum eflfet de humana
libertate. Atqui’ illud 'ita evideq^ter f.iffum' eft, quam evidens Animum
lentire fe vi fua, non aliena moveri j fe. a' n?oti vis allici. quidem> 1’ed
non rapi ; fc facultatem integram habere cuilibet appetitui efficaciter
obljftendi/ ;fuiqtie juris perpetuo efle. Alterum vero utique At fjtram quadrare. Sane Lanx nulla
aftiva vi eft£x. gr. Qui tonos a nervo redditos in. ejus tremoribus confiituit,
nequit ‘multiplicium, ac diffimilium tono A norum rationem aliter expedire,
nifi per toti* dem diverlos, ac diflimiles ejufdemque nervi tremores. -Si ab
uno eodemque tremore plures^ac diflimiles tonos effici contenderet, infeite
profecto fe gereret, nec» feipfum intelligeret; quippe in illa hypothefi
necelfe eff^URum eumdemque tremorem unum eumdemque tonum perpetuo reddere. Ita
profefto in hypothefi, qua Mens humana pro materialis fubflantiæ temperatione
ffa-^ tuitur: cum ideæ Sc notiones aliud nequeant eiffe nifi moriones, tot
diflin£tas puitiones, atque diverfas fubflantia cogitans fulcipii>t necefle
eft quot diyerfiis, ac multiplices h:vbet ideas, notionefque. Neqpie juvat'
reponere', Mentem ideam B, t. f:. B, 'qui coram adRat, poflc cum; idea
A,cu-> jus remimfcentiam, habet, conferre. Quid enim cft^iRuci ideæ alicujus
reminifeentiam habere,, nifi illam ideam habere præfentem ? Habebit igitur Mens
bmul prætentes ambas ideas A dc B. Datur ergo quod a nobis pofitum eR. Humanat»
Mentem haud effe temperatienem btu> mani corporis, ac pracipue cerebri^
inviBe y demonfiratur. I. externa Objecta noRri cor?* poris fenfus percellunt,
'6brar* rumque irritationes ad* cerebrum ufque deducun»' tur, mox Anima
(enCationes fufcipit. Sed h». fenfationes phasnomena funt,^ quas tnihibeommune
habent cum fibrarum cerebri, St fenfuum* commotionibus, a -quibus toto c^l»
differunt; ^^.iz.ij.Nequeunt ergo efTe ipfæ commotione^: atque^adeb nec
Subjectum cogitationum eR cerebrum, nec Principium cogitans feu Mens eft.
cerebri, humanique corporis temperatio. Ex intimo confeientiæ.
fenfute.videntiflime docemur, Subje6Ium fenrattoaura, quas five* per unum
idemque organon, five per fe invicem modificantibus, 5c collidentibus
compofitam exprimi poteft, II. Indicatio horarum eft indici prorfus' extranea :
' Nobis- comparantibus indicis pofitionem ad va-, ria quolibet noftrum, haud
foret unus et fimplex, fed adeo multiplex, quot funt illæ partes A, B, C. ' IIL
Tertia tandem 'hypothefis evertit et judicii naturam ( num. I. ), et iotinram fenAita
( n. II. ) nec non fimplicitatem, et ilidivifi•bilitatem perceptionum (» iia,
). Regeri haud potefl, quo farta teffa fiat prior hypotKefis, illas partes A,
B, C cpmmifeeri, vel in unam coire, -atque hinc judicium emergere. Non enim,
nifi fumnrKa' ofeitantia, "effutiri ifta queunt. Quid fane iftud cft
commifeeri ? profecto particularum fitus, pofitiooes, et tactus ad invicem
immutari, et pei^ turbari. At non video, qu? hinc fiat idearum particulis illis
feorfim infitarum collatio, et com. plexa omnium perceptio • adhuc enim funt
illæ particulæ totidem diflincta fubjecta, et feorfim 'cxifientia. Illud vero akerum in unum coire pugnat cum
naturali partium impenetrabil itate. Neque quidquam valet, quod incogitanter
alii reponunt, cogitationem non partibus corporea? fubftantiæ convenire, fed
toti fub* fiantiæ : non humani cerebri pattibus, fed ce* rebro,’ quod veluti
unum totum confiderandmfi venit. Revera, quod totius nomine’ defignatur non eft
aliud, nifi Mentis noftræ conceptus, plu* ra fimul fub communi aliquo figno, et
notione, complectentis : atque adeo, quod dicitur 'P-2 *. • ' unum o ^8
psychologia' unum totum eft quid tantum ideale, non reale. Quod reapfe notioni
totius refpondet, eft collectio plurium, qux propriam fingula, et ieparatam
habent exiflentiam, quzque - proinde æque fe habent, five colIe£live, live
feorfini cxillant. Ita' ex. gr. cum inquam, totus exercitus, totus populus
&c., reapfe hifce. notionibus plurium, et diflinflorum fub;e6Iorum
collectio refpondet, quat^, licet collecta,, adeo funt didi neta inter fe, ac
fi forent fejuncta. Si propterea fubjectum cogitationis eft fubftantia
corporea, plurium nempe realium fubjectorum collectio, jure, meritoque
inferenda veniunt abfurda f^ierius notata. Quævis materialis fubftantia naturar
fua eft iners,* modus autem agendi et cogitandi, qui humanæ Menfis eft
proprius-, inerti* omnino pugnat. I. Nonne Mens vi fua, et fua libera fponte
innumeros ii\ corpore gignit tn9tus, aliofque a caufta externa ipfi corpori
imprelTos, vel ex mechanifmo pendentes cohibet, ac deftruit ? Atqui quid efl
hoc, quod obluBatur corpori^ fi ni hU fumus prater corpus? cum fluvius decurrit
in hanc partem, non potefi fua V» aquas fifterey aut retro flevere in
contrariam partem. Materia nulla agit in je ipfam • nulla machina efl fuorum
motuum, confei a ^ ex illa confeientia fuorum errorum torreBrix, et refor*
matrix. Si errat, nefeia' pergit ^errare, donec ad‘ mota manu %Artificis, aut
Domini in flatum reBum ordinatur f et reflituitur. Thora. Burnet. II. De stat,
mort, O* refarr, c. J. II, Nonne %Animus fenth fe moveri, iJque dum fentit,
illud et una fenth, fe vi fua non aliena moveri} Vividus'hic confcientiæ
fenfus, cui contradicere nemo, nifi efFrxnati Pyrronii poffunt, Juculentiflime
oftendit, humanam Mentem haud elfe poffe e genere fubftantiaruni materialium. Ipfe RoHflojus eo fenfu
monitus, hanc veritatem fateri, coa6lus eft. Natura cuique animali imperat, et
Brutum obtemperat. Homo eamdem Jentit imprefftonem,* at vero ft liberum
agnofcit ad affentiendum ^ aut contra obnitendum ; et in intimo fenju bujufce
libertatis ^nimtr fpiritualitas prafertim elucefcit In facultate volendi, vel
potius eligendi, et in bujus facultatis fenfu nibil eji, quod explicari queat
mechanicarum legum ope. Lockius, etfi non e grege Materiali-,ftarum, fententiam
tamen coluit, qua non immerito vifus eft pluribus, Materialiftarum cauffam
indire6^e egiffe.'Haud nempe conftare pronunciavit, num Deus vi cogitandi
materiam ( subftantiam ex mente iua extenfam, multiplicem, inertem ) inftruere
poffit, ficuti vi vegetandi ornaffe in comperto eft. Certe id opinans, aliquid
humani paflus eft, nec fibi compar extitit : animadvertere enim facile
potuiflet, Animx humanæ immaterialitatem ( fimplicitatcm ) fimili argumento conftabiJiri,
quo ipfe,,Dei naturam immaterialem evicit (b)., u8. Porro Lotkianæ fententiæ
falfitas ex P 3 ha- • * l, / J 'V* * /• V » ' ». Dircours sur l^inegalitedes
iamiptefJ,part,p,'iQ^ (b) SJfai pbllof, cone. i'*nttiid, 'hum, l. 4. liancnus
dl£)is luculentiffime patet. Rtvera
» > cui no^ conflat, Deum non pqHe', qux fa«C intrinfecus iinpoffibilia
efficere ? on$» ^8. Jam vero cagitandi^ 8 c agendi modus^, qui hu« manx Mentis
eil proprius, nequit ulio pa£h> ConfiHere cum extenfione * foliditate, et
drati ' diametros, elTe inæquales, contra vero ^ æquales diametros circuli. Ita
in re noftra, fuf'‘ikit agnoviffe, cogitationem, fimplicitatem iqi 'Ente
cogitante, requirere e contrario extenfiQ* nem, e pluribus coagmentationem :
agendi facul- ^ tatem fua fponte, lua propria eIe6lione, et quidem libera ( qu*
humanæ Mentis eft propria )- f^X iis, quæ haftenus profequuti fumus, difficile
non eft. Mentis hu« ' manæ naturam et genus definire. Cum enim cogitationes, ac
volitiones Hominis nequeant ef-fc e temperatione ODrporis: Rurfus> cum neque
cogitandi, ac libere agendi vis, quæ hominis e ff propria, fubftantiæ extcnfæ,
multi' plici, inerti,cojufmodi lunt quot quot ad ftnfibilem Mundum (peffant,
cohvenire poffit ( art. 3. ): Agnofcere hinc cogimur fubje£fum noftratum
cogitationum, et volitionum effe debere vere, & phyficc fimplex, ac alius
prorfus generis, quani lunt 'Entia quævis fenfibilia. Neque fuipicari
'pofTumus, humanarum cogitationum, ac volitionum *fubje£lum e genere cfie
elementorum corporflm., quæ ex noffra fentertia ( Materiali ftis tamen ncn
accepta ), funt'& ipfa phyficc fimplicia,co/. Nam I. corporum elementa fola
gaudere vi motrice ftatuimus, quemadmodum fingula phænomena edoctnt: cogitandi
autem vis omnino alia eff a vi motrice, neque ut ejus 'temperatio quævis
interpretari poteft. II. Corporum elementa funt natura lua inertia : inertiæ
autem. pugnat illa cogitandi,* et libere agendi iacultss, qua fua natu«
psy:hologia ‘ ra Mens humana juadet : id qiKxl ewncit quoI que, neque ex div na
virtute corporum elemeB-'* lis Subjlantia nuncipari. 125. Opponunt Epicurei :
I. Anima in ' corpus agit, et viciflim corpus in Animam. Similis ergo eft
utriufque fubftantiæ natura: qut enim fubftantia extenfa in fimplicem, et
viciflim, agere poflet ? II. Animi ftatus determinatur a ftatu corporis : ægra
quippe eft Mens, triftis, lata, delira &c. juxta diverfos corporis ftatus •
et e contrario, pluries corporis ftatus ex Animi ideis et modificationibus
pendet. 12 ( 5. Refpondemus ; I. fubflantia extenja in Jimplicem agit ? (tf)
Norunt’ ne melius Ad I nui ' Ii—. II l 1 i a K V Juxta opinionem quam in
onrdiogia §. fequut^, fiimus, qu 2 v is fubftantia natura fua.fimplex eft,
ipfa, corporum elementa vere fimplicia funt §.i6wC^/' stantiam ( fcilicet
"Mentem ) agunt? In nostra ergo da* > fimplkitate elementorum
tenrenria" evanefcftt omoino iHa' apparens contradidio, quæ primo
occurrit, cum invicem^ conferuntur extenfio, qua; corporis est proprietas ((
nem-^ pe_ phamomenun pendens ex plurium C0mristenria)^&fimpUeius; qu£ est
Mentis.. \ .1 ’ ' •. Adverfarii, quf corpora invicon inter fe aganf, pufa, qu?
magnes trahat ferrim ? Corpus equidem in corpus agit, neque ttmen de hoc
phænomeno adeo fenfibus obvio, tot tantifque experimentis, et oblervationibu}
undique expenib, probabilem, imrao verofimiicm explicationem protulere. Quid
ergo mirum, fi æque ignorare nos fatemur, quomodo Mens ( fubftantia^firaplex )
in corpus, et corpus viciffim in 'Mejitem agat ? Itaque infeite nimis Epicurei
ex hac «oftra ignorantia contendunt, unam, eamdemque naturam utrique fubftantiæ
tribuendam. Simplicitas certe humanæ Mentis apodiftice cft dcnionftrata.
Evidentibus ne demonftrationibus vai ledicemus, et in innumeras nos conjiciemus
contradi6iiones, quia phænomenon, cui explicando pares non lumus, occurrit, aftio
fcilicet Mentis in corpus, et corporis in Mentem ?( I -I ' * id) Mons fenfuuih
confnetndir» abrepta nihil follicita 4St rationem, investigate reciproca;
corporum inter fk aiflionis^ feque intelligere putat, quod profoiAo non inf
teJiipit"*» Deinde reciprocæ aftionis notio, quam fenfuum ministerio
nobis' comparavimus,* perpetuo stipata occurrit cum' idea fimilitudinis
-naturse, Teu generis Entium inter /e a,{enrium. -ista idearum. adfociarione
illuhs, tecl{HTOca Entium diverii generis inter fe a^io extra communes ideas
vagari videtur ; atqui noonifi fumina infeitia, Si. temeritate inter
impolIiblU» rejkl potest * $. * invenire (a) ? Sed d 6 hac re uberius infra €•
differam. II. Harmonia, quam inter Animi, corporifque determinationes, et
ftatus perpetuo experimur, non ex natur* fimilitudine, fed ex qua* dam
reciproca utriufque fubffantix communicatione pendet. Sane cum Homo fit Ens
mixtum, feu individuum ex Mente et corpbre conflans, ejus Au^or Deus utriufque
fubflanti* naturas cudit, ac temperavit ejufmodi, ut mutuum inter eas
intercederet commercium, alias biceps monftrum effeciffet. Commercium i(lud,feu
mutua iftæc ani-. mæ, corporisque Temperatio in eo confiflit, ut nc- • queat
Mens, quoufque in corpore degit, inlitarum fibi facultatum a 6 liones edere, nifi
concomitantibus. quibufdam fibrarum cerebri motionibus.; et c- converfo, nihil
queat in corpore ^effici, nifi affines in Anima refpondeant affectiones. Hinp
fit, ut Anima flatura affumat corporis flatui affinem ; et e converfo, corporis
flatus ab illo lyientis modificetur. Quo Adverfariorum oppofjtionibus aliqua
poffer vis conGflerc, oftehdcn*. dum ipfis foret, impoffibile effe, fubflantias
diverfi generis, et natur* in fe invicem agere, 8c quidem evidentibus
rationibus, non infulfa, 8c ridicula captione : id haud concipi poteff, ergo
eft impoffibile. De Commereto Animam inter Cf, Corpus attentionem ad ea, qusc
'in nobis ij perpetuo geruntur convertamus, deprehendemus I. Quoties renfuum
organa rite funt -confHtuta, et actione 'externorom objectorum pultantur,
toties Menti etiam n» appellatur. Præter hxc tria ^ nullum aliud lyftma nec
eife, nec concipi poffe y videtur..... 4. Tria Jsc fyljcmata copcinna
>fimilitudine, e-x duobii horologiis conlonantibus petita, illuftrari pount.
Triplici equidem ratione fieri poteft, ut do horologia lint inter fe con.
lonantia: i. per ifLuxum ^ fi nempe fecerimus, ut alterum in alrum 'agat ;
alterum alterius motiones excitet ac determinet. %. Si quadam præordinafione it
fapienter eas machinas perfecerimus, ut lingip luas exa£le legei fequentes, et
quin in fe invjem agant, barmoriite fihi perpetuo refpondeani 3. Si opificem
operi cwnitcm vigilem, ac perriuum 'adjiciamus, qiri fiugulis momentis alterii
motum unius motui» attemperet, 3 c alterurex altero dirigat Erit modo opifex
harrniæ inter utrumque horologium intercede s efficiens CaulTa, ipfa Vero
horologia cauffauafionales. ff i • / V'' i ' sAdfi flentia SyfleMa.expendhu* f'
ac' refutatHr. O Yftema adfiftw*ntk _^Malebranchium ‘ primum habet Aiflorem.
Nc» torporm ( ita ille )non poffunt vera Cauffa ul' ' lius rei, Mentes etiam[
uciiiflima i» eadem ' verfantur impotentia. Nihil loffunt cogttofcere, nifi'
Deus illas > illuminet. Nhil poffunt feriti're i nifi Deus- illas modijeet.
Nihil pof' JuMt velle'' ^ nifi Deus ipfas verjus Je moveat, l' ‘. Cauffa naturales nor. funt
vera eaufl ' t f a. Nihil funt \ quryn. Catffa oceafionales, qua non agunt, nifi vi, C? efficacia
voluntadivina.. Hinc igitur concludendum efl, homines quidem.velle (movere
trachium, fed Deum > Joium poffe, O" noffe illud nOvere. (a) r ^ 1^4. Alii
moderatius opinantes lolam vim fentiendi corporis modificationes Animæ dene* .
gant y et vira corporis motricem. Deus ; in* ', 'quittht, fenfationes Animat
ingenerat ex occa. ” ^iione motionum corporis, nec non. motiones in corpore ex
occafione volitionum, et affeflionum • Animæ, idque.conformiter legibus a.fe
fiatutis: ^ Cæteras vero ideas ex (enfuu!n motidnibus miinæ- pendentes ipfa'
libi Mens cudit meditatio ne, abfiaa^ione, ratiocinio ''&c. ex antehabiris
tdeis a Deo imprciTis occafione motionum corpo. * i ' t-i r (a) Hecher. de' la
veriti lib. fiuiem, chap, traif. /econd,>part. bG rfoph»nti vacuum, ac
prorfuS ebramentititim videri" iftud OceaGonalidarum fyfteln^i’hihil
dubito. Equidem, ut merito inquit Tullius, magna flultitia efi earumterum- Deos
facere effe£hores\ 'Cauffas 'rerum nort quterere - quidquid enim' oritur, '
quaUcunque ilm tud sJt, cauffam 'hSbeat a ' natura^ neceffe eji. Sane
Philolbphf V^ferum naturaliurii’' -cauffas ia« quirentes, haud Gbi proponunt
primam', et uni« verfalem Cauifam determinare ( ecquis ignorat) rerum omnium
Caudam primam, et univerfalem Deum eflel ), fed aliam pratter Deum quæ» runt,
quæ Geuti a ‘Deo ipfo exidenttem lufce* pit, ita et ageriiii" facultate’
ab-e^em> prajdjta i propria, et i m mediata -phyGca actione effectum
producat. ‘Porro in 'syflbmate-* adGftehtiæ" omnis bujurmodi caufla
fubmovetur, Deus in raa* chinam advocatur. Vacuum^ proiade eft. hujufjmodi
(ydfema’^, &“ philofopho indignum Nonno deridiculus eflet^^qui interroganti
eccur Magnes trahit ferrum* eoalr" Maris aquas pene lenis quibufque horis
'-intumefcaht, tu*!!! alternatim, ^tumclcant, gravittr refponderet, id ex ea ‘
Q.'' iti i, Dt' divinat.^ Si fieri, quod Deus, juxta ftatut.m fibi ipfi legem,
ad magnetis prælcntiam, ferrum ad magnetem ipfum propellat, aqu s vero maris
alternis vicibus elevet, ac deprimat ex occafione determinati aipe^us Luræ ?
Ecquid philolophia iflEæe muliercularum infciiia, omnia ad immedia« tam Dei
virtutem referentium, piæflaret? 1^6 Atqui, inquiunt, iniolubilis. alias eft
nodus commercium Animam inter^ et corpus. QuaG nempe in adnilentiæ fyftemate perdifficilis hic
nodus folvatur, non amputetur potius. Jam vero, quod Animæ, et corporis
commercium fit, phænomenon inexplicabile, id trguit quidem,noftram ignorantiam,
non, vero naturalis caiiOæ- deft£lum. Confer ont. - Deinde fi corpori.^
motiones nihil omnino conferunt ad diverias, Animi perceptiones, cui ufui
dicemus fabricata fenluum organa ? Nempe,! inquiunt, iunt fenfuum organa eo
refpe£fu, neceffana, ut ex. horum mutationibus, tanquam occsdk)nibus,.Deus
juxta generales a ie fancitas leges determinetur ad Animaro diverfifnode
modificandam:. Sed iUi^d yelim edoceant Occafionalilts,. mptationes, quas
fenfuum organa fubitura Junt fiupt ne asione circumflantium, ac prementium
corporum, tel immediate a Deo cx eorum occafione ? Si primum afTe> runt, jam
cau^m produnt :. tribuentes enim corporibus a£f ivam- vim, qua inter fc agere
queant, nuUo jure feofihus, deqegare pofTunt activam vim, qua in Animam agant.
Alterum vero fi- fateantur. ( ut fciiicct ipfi jGbj fint confentanei ),
inutilia efficiunt fenfuum, organa * quippe ex occafione circumflantium
corporum 'poteft Deus illico fenfationes in Animam immittere, quin fenfuum
motiones, ab iplb Deo>excitiaDdat intercedant. Nimirum in adverlariorum
fyftemate circumdantia corpora lunt occafiones, Deo, ut motiones in fenfuum
organis excitet ; deinde ha: motiones funt rurlus occafiones Deo, cur
fenfationes in Animam immittat. Non ne breviori via, &' fapientiori
confilio faftum. effet, fi 'leniationes immediate circumdantium corpo' rum
occafionem fequerentur ex ipfius Dei aftione, quin fenfuUm. motiones
intercederent ? Sane non funt multiplicanda, entia fine necelTitate, et
fi^uftra fit per plura, quod fieri poteft per pauciora. Vel ergo. Deus
inconfulto egit hominem fenfibus ornanda, vel noftrorum fenfuum, totiufque
corporis exiftentia ludrica rescft. Con^ fer quæ diximus in nota iTq. ont..>
; 1. iir.. ' i ' ' Harmonia praflabilita fyflema a Lelkniti», . propqfitum’
exponitur y atque rejicitur.. i tV.' 1 i ; ' ' ' r i » i ' . T Eibnrtius, Vir
et acumine, et fub^ ri*'-'!- limitare ingenii. nulli certe fe^ cUhdus, quo
mirabilem Mentis, et corporis hatH moniam expediret, ita philofophatus eft. t
Et r. quod ad Animas. fpe£lat, pofuit,i. Hominum Mentes vi fibi repræfentandi
Univcrfum prædiras efre,& quafi mappam cofmographicam. interius geftare ;
Nempe efle in continuata ferie cogitationum, et appetitionum ie ita excipiens
Q, 2 tiura. ^4
PSYCHOLOGIA tium, ut quævis cogitatio contineat fufficfentem rationem
fubfequentis : et quivis Animje flatus antecedens gravidus fit pofterioris. 2.
Quamlibet Animam cx fua effentia, ac natura propriam habere cogitationum, et
appetitionum, leriem, et cur potius talem, quam alteram.• Hinc Mentem automaton
fpirituale dixit Leib; nitius., II. Quod vero humana corpora, refpicit, cen-
fuit, I. quod vis corpus automaton effe vi, fibi. propria, et fua natura
fingulas. fubiens motio-, nes etiam in continuata ferie, ut adeo quzvis:
antecedens motio lufficientem habeat -rationem fabCequcntis : 2. nec noq ex fua
natura habere, ut talem potius, quam aliam feriem motionum ceperit,
profequatur, modificcfque juxta varias circumflantium corporum actiones, et
cpnve-r njenter legibus mechanicis. III. Hilce pofitis principiis ita
profequutus eft. Deus infinitas numero Merttes, et corpora fibi quam
diftinftilfime repr*fentans, prxordinavit, eas': Mentes V caque Corpora
confociai^, .quorum feries. operationum ac.flatuum perpetuo harmonicæ elfent,
et apprime confentientes, Ex hat perfeftj operationupi utriufquf autotna^ ton
harmonia fieri cenfiiit, ut videatur Anima in cqrpos-agerC, et vicilfim. At
vero nihil inter fe mutuo agunt ; utrumque quam cepit ex lua natura operationum
feriera, camdem vi fua perfequitur, et independenter a vi, et operationum Icrie
alterius, quin nimirum, alterum in alterum agat: et ita, quidem, ut ufraque
fubflantia. feu Autpmatop4^ Mcns fciJicct.^ corpus, eamdetn; operationum feriem
cepiflTet, ac deinde perfequeretur, etiam Ci fejun£lim' altera ab altera
exifteret, vel nonnifi alterutra tantum condita fuiflet. Ingeniofum equidem
inventum, at extra communes ideas ; et quod nulli fuperex» fru£lum rationi,
mere eft hypotheticum : Id quod et ipfe ejus Au£Ior, et acerrimi propugnatores
WoJphius, et Bilfingerus ingenue funt falli. Sed expendamus utrum hominis
realis naturæ, et phænomenis conveniat. 140. Principio ponitur in hoc fyftemate
Mentem in continua verfari cogitationum feriO, quarum quælibet rationem
fufficientem fubfequentis contineat / id porro eft, quod hominis realis
phænomenis pugnare, et fine fufficienti ratione pronunciatum efle, perpetua
experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*. nuenlis ; fumat quis i»
manus Itxkum aliquod lingua alicujus, catalogum plantarum \ animan* tium, aut
aliarum rerum, di£iionaria artium, fcientiarum, bifloriarum j intra- horam
percurre» re poteji duo millia verborum idearum inter fs nullo modo connexarum,
plantatum dljffimilium. animantium y artium, faStorum, hominum illtiflri* um.
Quis ia omnibus his dixerit rationem pojte* rioris idea aut pereeptionis
contineri in anteric» re y et non potius in imprejfionihus in fenfibus \ aut
cerebro faflls ? Ex. gr. lego hac verba y '%/fa» ron,,Ari/lides y ^ri/lippusy *
4 verrobs y Buflris y Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y
-Cefenates.^ Centaurus^.David y Delphus; Dido, Dantes, totidem,\obverfantur
menti Q.‘i De Commento Animam inter &. Corpus attentionem ad ea, qua;
"in nokis iJ perpetuo geruntur convertamus, deprehendemus I. Quoties
fenfuum organa rite funt -confHtuta, et actione 'externorum objedto» rum
pullantur, toties Menti etiam nolenti-* pras» fto occurrunt eorumdem notiones,
et quidem > vivldai, vel confufæ in ratione irritationum in ipfis fenfuum,
organis factarum, et ad cercbratn ufque productarum' II. Etiam Corporis.affe»
ctiones in Animam redundare videntur,-_Mens nempe (latum adfumit corporis
(latui afHnem 4 ita ex. 'gr.' 'læta eft, et viribus erecta-, (i corporis
temperatio vegetior (it, et valeat • tridis e contrario, 5c veluti dejecta^^
corporis temperatione 'ientcfcente, torpentrbufque viribus; ha. bilis expedita
in fuis obeundis operationibus, vel e contrario tarda, ac incerta,' juxta
æquilibratam', Vel turbatam fui corporis conflitutioncm. ' III. VicifBm. Ex
Mentis arbitrio extemplo’ torporis membra' motiones lubeunt, quæ nie-'^
^anicJt- eorum (Iructutæ fuiit conformes, et io his r.|nvdiu durant, quatmdiu
'Menti libuerit. • ly. Nec' non Anjmj jdta:,& affectiones pluTimum
modificant corpus', ut adeo in corpus ipfum manare videantur. Sic animo ira
concitato rubent oculi, faciei et totius- corporis niu, fculi^tcpJunrur.
Invidus alterius macrefcit rckus opirarn: &t..'-r, i»8. Hzc phainomena ne
dum miram intercedere harmoniam oftcndunt Animam inter et corpus; fed et mutuam
dependentiam ftatuere videntur, nec non arctiliimum vinculum, quo invicem inter
fe con(ociantur. Equidem vinculum iftud, quodcumque tandem fit, ficuti præter
noftri arbitrium feniel conftitutum cft:, ita prjeter noftri imperium, qupad
vivimus, pergit, ac tandem diflblvitur. Ffthæc liartnonia, qua Animi
affectiones, notionelque'* apprime rdpondent temperationi, ac motionibus
corporis ab externa cauffa illatis,* et qua vicifiim corporis motiones atque
ftatus, ideas, affectionefque Animi, feqUuntur, commercii nomine venit.
Perdifficilis heic occurrit inquifitio; qui Commercium iftud Mentis &'
corporis ablolvitur? Difficultas maxima in eo primum con* fiftcre videtur, quod
Mens et corpus fint. naturæ toto cælo diverfæ ; deinde, quæ funt corporis, et
fibrarum cerebri motiones, excitant in Anima perceptiones, notionesque ^ et
viciffim, quas funt Animi ideæ, et volitiones, in corporis fibras, et membra,
motum cient,. 'Definiuntur hypotbefes, ^ua hlfce fuperjirui pojfunt
Metapb/fieorum fyfiemdta ad exptieandum Mentis humana > et Corporis
commercium. y* mirabilem harmoniam Mentem humanam inter 8c corpus expen^ ».
dens, ejus rationes inquirere fa i * tagit, protinus agnofcit jnonnifi alteram
duarum sequentium 'hypothefiura pbfle affumi. I!, Vel nempe realem quamdam, et
reciprocam in« ter utram que Tubllantiam actionem intercedere • ^ ut adeo Anima
fua propria actione corpus mo» dificet, ac moveat: Sc viciflim corpus in
Ani®i^m agens illam di verfimode aihciat, variafque excitet ideas : Vel II,
nullum intereffe reale commercium • Animam inter et corpus, sed 1 tantum
apparens • ut ita nulla fit Animai in, corpus a^io, et vicilSm corporis in
Animam, Jicet^ ftabilem in utriufque fubftantiæ ftatu harv^moniam confiftere
deprehendamus •'*, ' ^ Syftemata,qux priori hypothefi inædificantur ve/ pbyfici
influxus de nominari merito poffunt, Altera vero hypothefis ad duo diverfi
genens fyftemata abire cogit. V^l enim deveniendum eft ad quamdam
prseordjn^tioncni a fupremo rerum omnium Opifice faflaip, qua dua! fubftantije,
Anfma et Corpus, propri'i quidem vi, at fcorfim, quin altera ab altera ullo
pa£lp pendeat, Tuarum aftionum fimilem -.A. « • 8c confonjtn lenem perhcientes,
invicem lint confociatæ. et lyftema iftud harmoma ^rajlab‘f litte nomine
defjgfcatur. Vel ftatuendum cft, Animæ, et Cor|^ri perpetuo adefle. vigilem et
fatis potentem Cauffam, quse juxta corporis flatum', fingulafque fenluum
determinationes, Ani- mam fimiliter afficiat, et conlonas iii, ea gigrtaf ‘
notionesj ac vicifim, juxta diverfum ' Anirr.as ftatum, ejufque dverlas determinationes
limilitcr modificet corjbus, et varios in eo motus cieat' et hoc syft ma
adfiftentite, vel- caUffa» rum occafionalium appellatur. Præter hæc triai,.»
nullum aliud lyftema nec effe, nec concipi pofIc y videtur.., t. 4. 131. Tria h*c fyljcmata concinna \fimili- t
tudine, ex duobus horologiis conlonantibus petita, illuftrari poffunt. Triplici
equidem ratione fieri potefl, ut duo horologia fint inter fe coa» lonantia: i.
per influxum^ fi nempe fecerimus, ut alterum in alterum 'agat ; alterum alterius
motiones exciret, ac determinet, a. Si quadam præordinafione ita lapienter eas
machinas perfecerimus, ut lingulaz luas cxa 6 le leges fequentes; et quin in fc
invicem agant, barmoniee fihi perpetuo refpondeantj Si opificem operi comitem '
vigilem, ac perpetuum 'adjiciamus, qui lingulis momentis alterius motum unius
mgtuir^ -attemperet, et alterum ex altero dirigat ‘. Erit modo opifex harmoniæ
inter utrumque horologium intercedentis efficiens Cauffa, ipfa Vero horologia
cauffa accafionaUs. n mod» ' corftrx ( ita ille )noa poffunt 'effe verg Cauffa
ullius rei, Mentes etiam' uobHijfima in eadem ’ wrfantaf' impotentia. Nibil
poffunt cognofcere ^ nifi Deus itlas^ illuminet. Nibil poffunt 'fentire / nifi
Deus- illas modificet, Nihil pofjunt velle'- ^ nifi Deus ipfas verjus Je
moveat. . Cauffa
naturales non funt vhra eauf'V fie Nibil funt \ qutyn. Cauffa occafionaies, *
qua non agunt, nifi vi, et efficacia volunii' divina... Hinc igitur
concludendum efi, ‘' homines quidem. velle ^fio ne motionum corporis, nec non.
motiones in corpoM ex occafione volitionum, 8? affeflionum ' •Animæ,
idque^conformiter legibus a /e (latutis: ^ CaiTtras vero ideas ex ienfuum
motidnibus mi^ ^1» ime- pendentes ipfa fibi^Mans cudit meditatione,
abflEaSro&e, ratiocinio &c. ex antehabitis tfdeic a Deo impre,flis
occafione motionum cor poRecber'. de la veriti lib. fiteiem. chap, treif.
fecotui.-Part, t b,’.C *i’'‘i 8^ pdris Atqui Alii lyftemati caulTaruni occafio»
nalium tenacius ‘adhærentes, has ipfas ideas a Deo 'infundi perhibent oc inodi lyftfema
; et philofopho indignum.' Nonno deridiculus effet'''qui interroganti eccur
-Magnes trahit ferrumi' eocilr” Maris aquas pene lenis quibufque horis
'-'intumefeant, tum alternarim ^tunfielcant, graviter refpohdcret, id ex ea ' '
Q ' " ' • -fie .(a) '• JL' i. De divinat. fieri, quod Deus, juxta ftatut,m
fibi ipfi legem"'*, ad magnetis prælcmiam ferrum ad magnetem ipfum
propellat, aqu s vero maris alternis vjcibus elevet, ac deprimat ex occafione
deter« minati aipecfus Lunse ? Ecquid philolophia i Illise {nuliercularum
infciiia, omnia ad iromedia^ tam Dei virtutem referentium, pt*Haret? i^S Atqui,
ir^uiunt, infolubilis. alm eft nodus commercium Animam inter^ 8 c corpus. QuaG
nem,pe in adfiftentis^fyftetnate perdifficilis hic nodus Iblvatur, non amputetur
potius. Jam vero, quod Anim*, et corporis commercium fit,ph*nomenon,
inexplicabile, id trguit quidem vjnoftram ignorantiam, non,vero naturalis
catUiæ defe£lum. Confer ont. jzp. - J37. Deinde fi corpo^i$ motiones nihi^
omnino conferunt ad diverfas, Animi perceptiones, cui ufuj dicem.us fabricata
fenfuum organa ? Nem{%,: inquiunt, iunt fenfuum organa eo refpe£lu. nccefTari»,
ut ex. horum mutationibus, tanquam occafiunibus, Deus juxta generales a fe
fancitas leges }i MenS;fcili.cet et corpus, eamdem.: operationum feriem
cepiflct, ac deinde perfe* queretur, etiam fi fcjun£lim' altera ab altera
exifteret, vel nonnifi alterutra tantum condita fuiflet. Ingeniofum equidem
inventum, at extra communes ideas ‘ 8c quod nulli luperex» fruftum rationi,
mere eft hypotheticum : Id quod et ipfe ejus Auftor, et acerrimi propugnatores
Wolphius, et Bilfingerus ingenue funt fafU.Sed expendamus utrum hominis realis
naturæ, et phænomenis conveniat. §. 140. Principio ponitur in hoc fyftemate
Mentem in continua verfari cogitationum fcric', quarum quælibet rationem
fufficientem fubfequentis contineat,* id porro eft, quod hominis realis
phænomenis pugnare, et fine fuffirienti ratione pronunciatum efle, perpetua
experimenta quemlibet uberrime edocent. Adpofite Qe*ruenfis : fumat quii in
manus lexicum aliquod lingua aticujus, catalogum plantarum, animan* tium, aut
aliarum rerum, di^ionaria artium, fcientiarum, bifloriarum j intra- horam
percurre» re pote/i duo millia verborum idearum inter fe nullo modo connexarum,
plantarum dlffimiliuni. animantium y artium y fa Siorum y hominum illujlrt^ um.
Quis in amnibus his dixerit rationem pofie» rioris idea aut pereeptionii
contineri in anteric» rcy et non potius in imprejfionibus in fenfibus i aut
cerebro faSlls ? Ex. gr. lego hac verba, “i^a* tony tAri/lides, tAriftippuSy
*AverroSsy Bufiris, Bucephalus, Binckerfoek, Bilfingerus y Cedrus Cafar y
Cefenates..y Centaurus^ Davidy Delphus, Dido, Dantes, totidem.\obverfantur
menti perceptiones y efl autem quis Adeo ineptus qui di» cat y rationem Jufficientem
notionis ^ 4 rijlidis efft in perceptione fuwmi Sacerdotis » 4,ironis,
*/Triflippi notionis in i^rifiidey -^-verrois in x^ri/lip^ po &c,.... niji
hac componant Leibnitiani y fciant y neminem effe adeo incogitantem, qui hac
Jibi velit perfuadere. Sunt, inquiunt, rationes ^ uf^ fidentes, quas non
pervidemus,* fci licet ita lu» dere cum pueris potuit renatus Pythagoras, ut
jis una e(fet^.rat'Oy ipfe dtxit e at philofophis ut nova doSlrlna
perfuadeatur, rationes faltem pro habiles reddenda junt rhefim rcfta in
iciealifmum, tum et egoifi mum ducere. In animum quis ponat luum, Mentem
automatoA elfe ejulmodi, ut vi et na. tura fua independebter a quavis
extrinfeca cauffa in fua verfetur perceptionum fcrie, undcnam refcire poterit,
fpe£labilem Mundum, ipfum* que fuum corpus exiftere ? Perceptionum feries,
utpote ex Animi natura manans, eadem evolveretur etiam fa£la hypothefi, qua
nullus exifle* ret Mundus, nullum ^corpus, nulla alia Mens. Equidem Animi ideæ
realem libi vindicant exiftp^tiam, funt quippe iplius Animi modificationes,
quas interiori fenfu perfentifcimus atque adeo de ideali Mundi exifientia certi
efficimur. Sed cum hæ ideæ nullatenus ab extrinfeco pendeant, nullatenus
conftarc poterit, extra ipfam Mentem cogitantem aliquid reale exifiere. Caujfalitatis
jyfiema Peripateticum exponitur^ et exfufflatur.,. .,^^ AufTalltatis, feu
phyfici influxu» V y iyflema a.Peripatericis peflime « Sc portentole expofitura
i. duplicem Animas tribuit intelle6Ium, agentem unum, patientem alterum ; i.
duplicem pojnit idearum, feu fpecierum naturam, quas imprejjfas dicunt, et
expreffas. Hifce pofitis principiis, ita rem expediri putant. Externa objecta
ftatim ac in corporis organa fenforia agunt, commotionem in fibris excitant,
quz ad* cerebrum illico perducitur. Hanc fibrarum cerebri commotionem ideam
materialem, et fpeciem imprejfam dicunt. Imprefla ifth*Ec fpecies ab agente
intelleHu arripitur, et fpiritualiratur, feu in ideam vere talem, et
perceptibilem convertitur, et in inteU ie$lu patiente exprimitur, a quo propterea
percipitur • et hasc vpcatur idea exprtffa • Simili modo ungulas corporis
affe£liones Animz communicantur. Quod vero fpe£lat corporis motiones ex Animi
imperio derivantes, inquiunt, vim quamdam ‘ex Anima in corpus manare, et
eorporatig^ari, ejufque membra agere juxta determinationem ab Anima acceptam.
145. Portentofam opinionem expofuifle, confutafie eft : neque enim operas
pretium cft in ea diutius immorari. Alias ergo concipiendum cft caulTalitatis
fyftema. Cauffalltatts fyjlema novo conamine expomtut, quidque tandem
fentiendum fit de *^nima, Cr corporis commercio edocetur, 146. T Ictt
cAuflaiitatIs fyftema feffime Gj i A a Peripateticis expofitum, Gaud tamen ab
eo recedendum videtur j fed potius novo conamine, fi Superis placet purgatiori
philofophia duce adriiti debemus. in eo, adornando. Sane cujufque
phænomeni-'fua. fufficiens ratio effe debet. Cum ergo ratio fufficiens har*
moniæ Animam inter-& corpus nequeat aliunde derivari, quam ex altero trium
fyftemafum, feft cum coV. S cum ad hominem conftituendum natura fua fi
deftinata. ;a. ; /«mnrU in ir. Quod vero fpectat " Animam, quid pugnat
aflerere, A”'™" ' effe natur*, ut affici queat actione et tempe ratione
corporis, ejulque y.m terminari ad vi T l^cu c)us natura fluentes a modificat,
vl, et F^cu^ liari actione um ? (a) Nempe vis, qua fubftantia mate in alteram
ejufdem natur*, agens ; receffum ( fcilicet motum ) gignit, m ulKra fubftantiam
diverf* natur*, An virium, e qui“ if 1 r I I X.. ,^i, ' Nolim calumniam quis
milii inferat ex hoc ex>•mplo. Quorfum exempla fpe^ent, norunt quotquot equo
judicant )ove, quod femelmonuifle fufticiat. Quod ad prafens adtinet, aperte
dico, vim plantjc vegetari* vam ex fumma virium omniurti fimplicium
fubstantiarum, ftu elementorum, quibus planta coalefcit ) confla* ri i atque
adeo yel diflblutis- planta; elementis, vel extra Ordinem pofitis, violenter
aftis, diflbeiatis &c. v \s vegetariva deperit. Contra fe res habet de
Anima, qiiat cum fimplex fit fubstantia j et una, viia^liva cogitandi expoliari
non potest ; ad fummum in agendo obtundi poterit, neuriquam extingui j.
fubstantiarum quippe natur* mutuis inter fe aflionibus modificari" quidem'
poCftfht*J‘at deteri lifequeunt * i • bus actiones fluunt fubflantiarum, quibua
vires, ipfa infunt, mutuæque excipiuntur actiones. At virium quarumvis
incomperta nobis cft interior natura, et realis effentia, non fecus ac
fubflantiarum, quibus illæ inlunt. Et quod ad præfens adtinet., fufflciat
animadvertere, i,, fubflantiarum materialium nos 1 nihil aliud fci pe, nifi
quod invicem in:> fe ij^^pt, et in feni' fus noftros y atque hinc varia^
Meati percipien». ti phænomena occurrere.^ 2. fimilit^ Jiumanæ Meritis nihil
aliud no« fcire, nifi qnod.firnf* plex fit fubftantia, fentiens, attentjcns,
fibi confeia &c. Cum igitur intimam realem effentiam ignoremus utriufijue
generis fttbiftaqtiariHmyi. nec, non realem *:naturam virium ;iis
ipfitprwinlU*'' hint profecto fierlt neqyit *, quia inexj^caubilCf fjt
phænomenon commdrcium Animam inter et corpus, ejufque plendi foli^tio etttra
hutnai nas ideas vagetur, ' , C^uo cpgo, inquies, philofophorun\ fpectant
theoriæ, et fyftemata ? Nempe humanæ cognitiones jeapfe circa phænomena
verfan-' tur, non circa phæriomenorum caufiTas. Cum enim phænomena vel quamdam
inter ie habeant analogiam, vel qiKemdara nexum, tum alia fint aliorum
modificatioæs* ; in eo totius- philofoi pbiæ fumma verfatur, ut phænomena
peculia». rifl;.per pauca* quædam generalia, $c lingulis nota,' ex-po.oaraus,
vel per eis fimilia, quæ, magi^ patent. Analyfis,ope Philofophi ex peculipri^
bus phacnomeYiis generalia,: quorum illa lunt, niodificationes ;; colligunt :
tum inverfa metho»i do, quam fynthefim appellant, h?ec genepalifj phjEnomena
pro principiis ponunt, 8 c in com. binationes, quas fubire pofTunt, inquirunt •
atque hac methodo ratjonem adfignant peculiarium quorumvis phasnomenprum, qua;
per illas combinationes poflibilia funt. Theoriæ itaque, fyftcniata,
explicationes philofophorum &c. peculiaria refpiciunt phænomena ad certam
claffem fpeflantia, quatenus ex primitivis, et generalibus phxnomenis derivari
poffunt. Jam vero cuna quæritur, quomodo Anima in corpus, et viciffim corpus in
Aninaam agit, patet, primitivi et generalis phænomeni rationem quæri, (icuti in
phyficis fi quærerem, quomodo Planetæ in Solem, et Sol viciflim in planetas
agit ; qui vegetantia, et animali^ feipia reproducant, et illa exhibeant
phænomena, quaj cujufque funt propria &c. Cum ergo r. virium interior
natura lateat * 1. nec generaliora, et magis fimplicia nobis pateant ejus
generis phznomena, quorum reciproca Mentis, et corporis harmonia fit
modificatio, nullam adæquatam, vel fufficientem illjus explicationem adfignare
poterunt Metaphyfici. Quam ergo hac de re lupra expofuimus opinionem, et
explicationem, mancam effe, et tenebris circumfeptam, ultro fatemur* fed ab ea
haud recedendum putamus, neque ultra follicitos nos effe debere. 153. A£\ionem
Animæ in corpus negant aliqui eo permoti argumento, quod ipHs ignota fit
fibrarum cerebri textura, tum nervorum, et mufculorum per corpus dimanantium
jorigo, quorum fcilicet ope finguls motiones cieri debent. At id nihil vetat,
quominus Animam ex imperio (uum ciere corpus dicamus j quam enim ii£lioncm in
corpus exercere Anima de* beat, et in quam cerebri partem, experientia
edocetur, quin corpofis et cerebri texturam calleat. Sane videndus, pueros
manus, pedelque &c. diu inordinate geftare, ad objefta parum, aut nihil
dirigere Icicntcs, demum fuoram organorum ulum longa experientia edifeere.
Concipe ab. ingeniafo qmdam tArtifice fontem quemdam ad artis mechanica, et
hydraulica amufjim ita conJlruSum effe, ut quqmprjmum, ajfercuti, per quos
aditus demum ad fontem datur, incedenti* um grejfu deprimuntur, occulto
mechanifmo variarum rotarum y funiumque ope jub affer ibus a b-^ f condit orum,
alia atqua aha mirifica f pectes, e fonte conjejltm profiliant y quales v. g.
fontes Kirc herus, Sebottus, alii que dejeribunt. Concipe Jam tibi y puerulo ad
hocce Jptbiaculum edmifjo.y cum hac adeurrit, "Neptunum cum tridente
minaci obviam fieri y dum illæ, Nereides,* ex alia parte Glaucum marinum y
alibi vero Delphinos ^ 0“ fic porro. Puer ifle mechanifmi abfeonditi ignarus,
nec ad omnia praf entia attentus y non obfervabity fe revera asione fua
producere bofce effe&uSy obfervabit tamen, ft adverfus eam partem
procefferit y jemper fibi hoc potius, quam, aliud obviam fieri obJeCium :
poterit igitur Jam pro lubitu hec phtrnomena moderari, ac fi v. g. Neptuni, ac
Jceptri e/ufdem tricipitis contemplatione deleBetur y tff ere y ut prodeat y fi
Jcilicet verfus certam plagam adeurrat. Nemo dubitaverity puerum horum motuum
cauffam effe, ac aflione fua phre^ namena producere. Ve idearum, mfionumque
nafura, afque origine. 154. TNquifitio, quam modo adgredimur, J. idearum
notionumque naturam, atr. que originem expenfuri, adeo eft cum præce-’ denti, qu*
commercium Animam inter, et corpus ifpe^abat, copulata, ut altera ab altera
fejungi nullo modo poffit / et qui in una erra* veri t, in altera per devia
pergat, oportet. Multiplices,'dilcrepantefque hac de re philofophorum
fententia; nequeunt veritatis confecutionem difficiliorem, et abftrufiorem,
quam reveræft, non reddere Quare hifcc modo pofthabitis, tres animadverfienes,
quæ ad veritatem capeffendam fternunt viam, in anteceffiim exhibebo, tum rem
ipfam expediemus; tandem prasx cipuas aliorum fententias fummatim exponemus, ^
breviter perftringemus,, \. ». i ‘ t/^nimadver/tones • prallmtnares ad idearum,
' notionumque natufam^ atque originem. ^ i'A •' expifeandam, ‘ 155^^ A
J^trnadverfro I. Nihil Mens per’ " ‘jfjL cipere potaft nifi in feipfa. Id equidem
loco axioraatj^ haberi poteft; five enim perceptiones pro aflionibus, live
pro.paffioni» j- J bus Mentis haberi vcJint, funt profe£lo ) piius Mentis
modificationes, et immanentes, non^effluentes. Nequit ergo Mens quidpiara percipere nifi in feipfa. •
' X ’ 155. % 4 mmad. IL Cum dicimus; Menteirt objefta externa percipere, ifthzc
reapfe non* percipit. Si enim ita, cum nihil Mens pfercipere poflit nili in
feipfa, vel Objecta, quæ dicuntur externa, in Mente *formalitcr contineantur
oportet, vel ipfa Mens perceptis Objcftia intime fiat prasfens. Ambo hsc
pugnant. ergo dicimus, Mentem externa obje 6 la pt^eiperc, reapfe oon percipit
ipfa objcfta. §.rea' extra pofitas perci-^^ pere'. Nam i. Si ita: ubinam has
rdeas, fcu imagines refidere' dicemus in Anima ne vel in cefibro Haud quidem in
cerebro; nOi ^ * R quit l T> ai A( quit quippe Mens quidquam percipere,
nifi.iii fcipfa i’ ; a. quævis rei -imago nihil eft aliud ^ nifi talis partium
^ difpofitio, ordo, figura, magnitudo &c., quæ fimilis fjt rei,.cujus eft
imago. Si porro idtæ forent imagines rerum cerebro expictæ', minimæ cerebri,?
fibrillæ tali ordine,>figura tu, colore &c. componi deberent, ut
fimulacrutn rei Menti exhibere ppl^, fent. Sed nihil præter motum in, cerebri
fibris adeftjcum Menti adfunt ideæ.Neqoeunt* igitur ideas efle rerum imagines
cerebro expictæ.. Ad hæc g... qui Mens expictas cerebro imagines- iotuc'*
retur, ipfum vero cerebrum nullo, modo? qua» fi,, nempe pofTit quifpiam pictas
in tela figuras videre,. nec videre telanv ipfam, quæ eft figor»* rum
fubjectum, ' Sed neque poffunt, ideæ efle. imagines Men* ti percipienti
vinJi*ryites v Eft. «nim Mens fim pkx.fubftantia, icuinpfoinde addo pugnat. in
faa(H| rere^imagines exfitbente6,aoagn»tudi«em, fig«9 wm, 'colorem ^ partiup
ordindfn 8cc.^,. ac pu» gnat puncto gefwnetrico triat^lum, polygonum ^.&c.
infcribi 4..Deinde rerum ideæ, cum Menti primo occurrunt, vel ; perpetuo eidem
permanentes inhærent vel femel, perceptæ poft* hac pereunt, evanefcunt. Si
primum Mens ' perennes, ac indeficientes habi^it...pesceptio* nes rerum olim
perceptarum ; Qut -^aim.. fieri poteft, ut pictas, fibique adhærentes-, 8e
immanentes ideas non -advertat? >Si altecuBL, cum- n*i queat Mehs-objecta-
percipere nifi in ideis - hiic« cvanefcentibus, non poterit Mens ad eatumdem m nun
modo abfcntium contemplatiojMlblvdire^ntfi iiu r». js.ite« Malebranchius omnem
agendi vim Entibus creatis denegans, Mentibus etiam' ademit facultatem fibi
cudendi' ideas. Hoc
autem potiflimum argumento rem conficere fibi fuafit. R 4 Ide» («) Sed hac
difficultas ipfum premit A uflorem ideas a perceptionibus fecernentem. Quis
enim ignoti objefU expreflam imaginem intuens, objeftum illud in imagine
recqgnofcere potest? Non magis profeCTio poterit Mens in idea feu imagine ipfi
oblata objeilum, quod ignorat, recognofcere et perpetuo ignorabit cujus fit
obj'efti iniago illa, qua ipfi obverfatur ^ nifi aliunde, feu extrinfe* cus
moneatur. to+ Idea: :unt ver* realitato: imrao funt realiti-' tes ipfis
corporibus nobiliores, quippe fpirituaJes. Harum itaque produaio nihii diftat a
creatione Nequit vero Entibus creatis facultas ereandi ullo paao convenire. Nec
iaitur humana’ p >*as libi cudendi. V Equidem Ide* funt ver* realitates. at
Wa/es ut inquiunt Pbiloiophi, non Mfiam. ah, : feu non funt totidem fubftan- '
•’.P" j', lid totidem Mentis coptantis affeaiones,, feu modificationes, cu
julmodi funt volmones, et nolitiones. CunC Itaque communi Phdofophorum fenfu
creatio fit fubfiamiaimm ptodua.o ea nihilo: idearum pro. duaio toto calo
dillabit a creatione, et „ihil vetabt.eam. Anima; tanquam effearici caufTa;,
adjudicare. Re
quidem vera, ide* refpcau Meo. tis perinde fe habent ac volitiones, nolitionef.
que r utr*que enim funt >/us, modificationes. Si Idearum Produaiva facultas
Animæ repugnat, que pugnabit ipfam Cbi ede iuarum volitiol num efreancera
caudam, eritque.Mens crudus, putufque later. Quod fi volitiones merito Ani' Z’
31 “"' f ‘"‘>“'"d* veni, unt nihil profeao vetare poteft,
qui„ eidem adjudicemus facultatem fibi ipfi cudendi ideas. Quadam Pbtlofopborum
placita, qttof idearum I JpeBant originem fy breviter exponuntur. \6j. idearum
origine communior xn« I ^ fer Peripateticos Tententia fuit, Nihil effe in
intelleBu, quod ^ius non fuerit in fenfu : omnes nempe ideas primam petere
ori», ginem ex fenfuum minifterio. Atqui fententiam iftam per duplicem
intelleftum agentem y ^patientem exponebant. ; qu* quidem hypothefis purum eft,
putumque figmentum a communi abhorrens ritione. Malebranchius de idearum
origine fingularem prorfus fententiam coluit. Hic fuo inh*rcns fydemati, etiam
nobiliffmas,in ea ' verfari impotentia, ut nequeant effe vera cauffa ullius
rei, commentus eft, nihil eas c»m gnofcere poffe y ni fi Deus illas illuminet
133. Nempe ut alibi {a) clarius.* Sciendum eft, Deum mentibus neftris prafentla
Jua arhlijpme uniri » adeo, ut Deus dici poffit locus fpirituum y quem» admodum
fpatium eft locus corporum. Mens itaque in Deo poteft videre opera Dei y
dummodo Deus velit ipfi retegere id^ quod in fe habet, quod illa reprafentat
opera y nempe ideas, quas in fe habet. i6p. Atqui Humanam Mentem omnia in Deo
videre, adeo communi fenfui occurrit, ut ne - *..4 •' dU . R^her. de la verit.
l. Jt p, z, ch. 6 4 nemo Sapicntum fententiam iftam adunco nor exceperit nafo :
nec fine ratione, etfi injuriofe. de eo d:clum fuerit, Ipje, qui omnia in Dec
cernit y haud videt fe injanire '{a). Quifque-^intciligit, fententiam iftam,
præter cætera, quid* piam ftatuere, quod cum Dei bonitate et fapientia minime
congruere potefl: *' tum rcfta ad pantheifmum ducere. 170. Plures e Cartefianorum
familia triplex idearum genus (latuerunt:, qua* 'nimirum Menti occurrunt ex
occafione motionum in organis fenforiis excitarum ab externis '^objectis; quas
nempe Mens fibi cudit cx adventitiis ideis • tandem innatas, quas fcilicet,
neque fcnluum fubfidio, neque reflexione partas, rentur : fed a Deo Mentibus
noftris ab ipfo exordio veluti infculptas, ac perpetuo immanentes arbitrantur.
Sed innatas, quas dicunt, ideas, commentitias prorfus e(fe, binis verbis
oftendi poteft. Vel enim has ideas idem funt ac perceptiones, vel forms et
imagines a perceptionibus realiter diftinctas. Si* primum, inerunt Menti tot
perennes, et fimultaneæ perceptiones, quot funt ideas innatas j quod profecto
interiori experientias refragatur. Si alterum, contra faciunt, praster alia,
quas §. 158. monuimus. Deinde nulla cft fufficiens ratio, eccur præter
adventitias, et factitias ideas, alias, quas fint innatas, agnolcamus' cum
conflet, nullam omnino (a) Lui, qui voit teut ^en DitUy nt^voit paSf\qu* il eji
foH.. ’ J no ideam Menti inefle, cujus exordia c fenlitiva, et reflexiva
facultate nequeant quam facile repeti. Vide, fi lubet, fufe hæc pertractantem
Lockiinn. Efjftff
philof. cone- l' entend, htm. Q A p. X. Ve Animæ bumanæ origine. L ket humanæ
Mentis natura, feu potius genus, philofophia duce. li quido confiet, ejus tamen
origo adeo tenebris cft circumfepta, ut potius, quid fentiendum non Iit, qu»m
quod tenere debeamus, intelligere detur * V. E veteribus Pythagoras docuit,
Deum cGo •Animum per naturam rerum omnem inten~ commeantem,. ex q»o mflri animi
car tum perentur (4). Huic turpiflkno.errori adhæfiife videntur Stoicorum
aliqui, ut ex Seneca, et Epicteto difeimus/ eqmque jam obsoletum itenun
exfufeitavit Spinoza. Hujufce fententiæ abfurditas.tam clare patet, ut illam
refutare nec.operæ pretium duco,., Plato,. qui inter veteres cateris rc. ctius
de Deo philofophatus efi, Animas a Deo conditas docuit, licet eas quafi partes
Animat' Mundi totius habuerit Id vero Pythagoreis, et Platonicis commune erat,
humanas Animas primum aftra incoluiffe, et felicem ibi yitam du- Tullius lib,
I. ile nat. d«or. c. ii. tduxifle: hinc vero expulfas, et in humana corpora
tanquatn in carceres, detrufas, quo commiffi criminis pznas lucrent: tum ad
adra iterum redituras poft corporum diffolutionem, fi mortalem hanc vitam
jufte, et fobrie duxerint, vel in deteriora corpora migraturas, fi novis
criminibus fe obruerint. Hinc celebris apud ifios Philofophos Metemp^ycbo/is.
Atqui Stoicis nec Animarum incolatus in aftris, neque earum de corpore in
corpus migrationes arridebant ' fed illas pofl: terreni corporis fata ad Eteum,
e ‘ quo' dificerptæ erant, iterum redituras afferebant» ^ 175.i^Orlgene^ nimio
e.^ga platonicam philofophiam ametrtr’ abreptus Pythagoræ Plato, nis fententiam
emendare ftuduit. Docuit itaque, Ani mas' nec Dei emanationes effe, nec partes
ab Anima Mundi avulfas, fed a Deo ante corporeum Mundum’ oijines fimul conditas
fuiffe cum intelligibili Mundo • has vero peccaffe a CxmJitort feceiendo'. hinc
pro diverfitate peccatorum a Cteiis' ufqne ad terras diverfa corpora, qua fi
vincula, meruijfe. Et hunc ejfe mundum eamque cauffam Mundi fuiffe faciendi^
non. ut conderentur bona., fed ut mala cohiberentur. Sed hacc deliria funt, quæ
nec refutari merentur. Leibnitius, Animarum præxiftentiæ et ipfe favens, aliter
rem explicavit. Putavit nempe, Deum ab ipfo rerum initio omne$ Animas creaffe,
ac fingulas totidem organicis corDivus Augujt. Lib. XI. De ejvitat. Dei cap.sj*
lop pufculis inferuiffe. Hzc iUnt germina humana, quJB juxta involutorum
hypothefim, olim in JEv» ovario pofita, e Matribus in filias tradu- cuntur.
Sententiam hanc Wolfius ambabus ulnis amplexatus eft.• tum Cl. Carolus Boanct
fuam fecit. Atqui licet primo adipectu, quo ab hifce Auftoribus commendatur,
haud philofopho indigna videatur, fedulo tamen pcrpcnfa, et fuas patitur
difficultates. v Tertullianus, et Apollinaris putarunt, humanas AninTas e
parentibus in filios per traducem propagari; hoc eft Animam >h ilii partem
efle Animaj parris,' quæ 'filii corpufculo in matris utero delitelcenti
communicatur, et /incffabilirer conjungitur. Sed ifthæc fententia cum Animæ
natura, quæ fimplex omnino eft, et cujuivis phyficæ coagmentationis nefeia,
nullo modo conciliari poteft. Communis tandem fententia, et profefto fanior,
eft, Animas humanas in dies a Deo creari, et cum tenera fetus corpufculo
copulari, cum iftud fufficientem partium evolutionem, et organizationem
obtinet, qua par fit ‘ad præcipuas vitales operationes obeundas*.-i ! f ’ ‘i.
Pa/igini/ff philofo^h. Annihilatio creationi, et confervationPe diarrietro
opponitur. Illa erqoCaufia folum. potest aliquod Eas annihilare, quæ illud
creavit, et perenni a^ioce confervat. Sed hujufmodi est tantum Deus: omnes '
tlniveiii Cauffie funt contingentes, quæ nec fuæ existenttæ, et confervationis
fufficientem in'fe habent rationem. Facultas igitur. quidpiam annihilandi
nequit ulli, naturafiuna cauffarum convenire. (c) Lib, L tufe, f. jp. '
•dubitare non possumus, nl/i pla*tf plumbei fumus, quin nibil fit %dnhnls
adrnix» tum, ntbil concretwn, nihil copulatum, nihil ngmentatum ^ nihil duplex
quod cum ita, fit y qette nec jecerni, nec dividi, nec difcerpi^ nec diflrahi
pote/i, nec, interire igitur. EJI enim in» iefitus qua fi difcejfus,, &,
fecretio, ac diremptui^ earum partium, qua ante interitum jun^ione 'gl poribus
funt interfipta quod.rnimfdo : cum autem nihU erit prteter v/Ltimum, nulla res
objeBa im^ pediet y quo minus percipiat quale quidquam fit. Ita eleganter
Tullius tulc. 1. i. c. zo. {a) l et R T. ir. Mentem humanam ex fui Conditoris
voluntate infpeBam immortalem effe, naturali ^ ratione affevitur, . T TUmanam
Mentem natura fua in* J. X corruptibilem atque immortalem clTe, neque ullis^
naturalibus cauffis fieri pofle ut pereat f jam evicimus. Hzc ratio ingenue
philofophanti fatis foret^ quominus de fuprerni Conditoris voluntate, illam
immortalem fervandi f non ambigeret: nullum enim 'in uni verTa Natura occurrit
annihilationis exemplum j nec quidpiam efl, quod^a fummo Conditore S z non (a)
Plures eit antiquioribus Phiiofophis, et ex ipfis Ecclefia; Patribus, quibus
incorporalitatis, et iinmoitalitatis Animorunj dogma probatum erat, opinaii
funt, humanas Mentes nunquam omni corpore vacare:* ut adeo, cum ex ifthoc
cra^o, et corruptibili corpore diflolvuntur, adhuc leviflfimum, ac
tenuitTimuin, live æthereum, et incorruptibile corpus geftent, eoque lint
perpetuo amidse. Sententiam hanc inter Recentiores litam fecit CI. Vir Carolus Bonnet, et
communivit noti contemnendis rationibus ; quam, cum In pluribus locis, tum
pr^fertim parte XVI. paligenifie philof. et.-. pofuit. Si quis in hanc
fentenriam defeendere velit, ^ Adveriariis morem geret, et «na fjmul objeilain
didir «ultatem elevabit. itS non fervetur juxta propriam naturam, et ad fuos
non dirigatur fines. Atqui profani homines, eam non latis effe, contendunt, nec
non dolofe effutiunt, Animæ immortalitatem problema efle, qjuod nequeat fola
philofophia extricare: ad Divinam revelationem idcirco confugiendum neceffario
effe, ut conflare queat, Deum pod corporis obitum nolle humanam Mentem delere,
fed,''velle in æternum fervare. iSp. Ut iflorum levitatem perflringamus,
animadvertant Tyrones, quod quandoque etiam abfque revelationis face, fed Ibla
naturali ratione Divina Voluntas nobis conflare potefl. Etenim ficut naturali
ratione plura nobis patent Divina attributa, ita conflat quoque, non pofTe
Divinam Voluntatem ab illis attributis vel minimum defcilcere, fed iis plane
conformem perpetuo '•effe debere. Si adeo quidpiam Divinis attributis repugnare
clare nofeimus, tuto poffumus decernere, Deum nunquam id velle : et e contrario
perpetuo velle ea, fine quibus farta tc6la conliftere eadem attributa non
poffunt. Hujufmodi porro cfl
immortalitas Animorum, quos fi pofl corporum diflolutionem Divina Voluntas
deleret, nequiret Dei Sapientia, Bonitas, Juflitia, ac Providentia farta te61a
permanere. Rem expendamus. ^ 1^. ipo- I. Naturali ratione pleniflime nofejqaus,
potiffimam Sapientiæ legem eam effe, ut fingulorum Entium Naturæ fuis exa£le
attemperentur finibus, ut ita nec a præflituto fine, deficiant,- nec ultra redundent,
vel extra vageUtur V Quare ficuti ex noto fine, de Entium na Diuiii4tj .
fuprerai Numinis revelationem. Audi ut h«c eleganter profequitur Romanus
Philosbphus tufc. qq. c. Maximum argumentum ejl, naturam iffam de immortalifate
Animorum tacitam judicare » quod omnibus curttf funt y maxime ^quidem y qua
poft mortem f utura Jint: ferit arbores, qua alteri Jeculo projit, ut ajt
St^tiut in Synephebis: quid fpetlans, nifi etiam poflera fecula ad fe pertinere
? Ergo arbores feret diligens agricola y quarum adfpiciet baccam ipje nunquam :
Vir magnu» seges y injiuuta, rempublicam non feret i Quid propagatio nominis l
Quid adoptiones filiorum f Quid teJlamentorum diligentia l Q*dd ipfa f^ultrorum
monumenta f Quid elogia figritficant, nifi nos futura etiam cogitarel.-- Quid
in hac republica toty tantof que viros ob rempublicam interfeSos cogitaffe
arbitramur f iifdenx ne ut finibus nomen fuum, quibus vita terminaretur f Ne/no
unquam fine magna fpe immortalitatis fe pro patria offerret ad mortem: licuit
ejfe otiofo Themiftocli \ 'Jicuit Epaminonda y licuit, vetera y Cb* externa
•moram, mihi ; fed nefeio quomodo inharet in trpinti%us quqfi feculorttm
quoddam augurium futurorum; idque in, maximis ingeniis, dltijfmifque animis ^
exiJiit maxime, iy adparet facillime ; quo quidem demj)to y quis tam ejfet
amens y qui femper in laboribuSy iir periculis viveret' \ loquor de pfinctf
ibus : quid poeto t nonne poji mortem nobilitari volunt t Unde ergo illudf
" Afpicite 0 cives ! Senis Ennii imagini’ formam; Hic ve*»rum panxit
maxima fafta parnm). Mercedem gloria fiagttat ab iis, quorum patres ^ff)' terat
gloria -, idemquey -• Nemo ire lacrimis decoret, nec funera fletu > Faxit :
Cur? Volito vivu’ per ora virum. Sed quid poetas l Opifices pofl mortem
nobilitari vaiunt quid emm fhidias fui fimUetn fpeciem inculfit ‘ • • >,.
'in-. ' ip2. IV. Ad Divinam Ipcflat JufHtiatn'^ atque Providentiam hominum
virtutes muneribus ac prsEmiis ex merito cumuIafC : ficut c contrario
condignis' poenis '“eorum fl gitia corripere. Eft enim duplex in Univerlo OrAn:
phy~ ficus nempe, ac ^moralis 8c ad utrumque Homines procul dubio,, fpt£Iant Si
quis hæc in "Controverfiam adducit, peflime fe de Deo.fendre^oflendit,
quafi hic cardinem c*li ambulet, A n.oftra non confideret: et \r\'*athe'tfmum
fivO IJrolapfum elTe, five jam jam prolabi. Sed experientia Pedante, Kominum
virtutes, ac flagitia admodum raro condigna pr^mia ac p»na« copfequuhtur : ut
adeo vetus Iit iquærela', latos idiu florere nocentes, vexarique pios. Divina
ergo Juftitia ac Providentia utique expoftulant * poft torporum obitum Mentes
adhuc • lervari ia .vilam, ina qua bene vel' male TaSIorum præmin /ecipiant,
poenafve luant. Hajc cum naturali conflent ratione, concludere non dubitamus.,
'plurali quoque" ratione conflare fu mmi Condi‘lofrs voluhtatem de ‘humana
Mcnte in æternum servanda. ' / *in ! "-. l '• J 'i' i . ' ! 3. ' ".au
' :v. ( I»»» ^. 1.. III i mu iii m ^jWii I. Tufe. qq. I. I.. f. X6, '., \ib) ^,
fr) Jn fomn. Scip. /. I. e, X4, > •., (,d) "XmIUhs Iw. cit, f. 12,, 1, w
P */f R S ilu ^.R T ^ y’ Ei ‘ nomine inteJligimus Men» 'n 4 tcm naturæ fuæ
nrceffitate ex i flentem, atque adeo aster aW,®>S af^isiiaSce AK -omni
materiali coneretione fejunfbm, perfe^iffimam, effectricem et liberam Univerfi
Cauffam, ' et omnia providentem. Equidem Dei notio fu^ conceptu primas Cauffas
efficientis Mentibus noflris primum occurrit,* banc poflmodum rectæ rationis
ope rimantes prolatamus, et attributis, quæ omnimodam continent perfectionem,
locupletamus. Atqui tantum abcfl, nos adæquatam adfequi poffe pei notionem,
eamqu.e verbis exponere, quantum finitum inter, et infinitum intercedit. Quf
verbis complectemur-; quem natura iua et effentia undequaque infinitum nulla
creata Mens comprehendere valet Hinc, ingenue fatendum, aul%*’^ nulla
definitione Dei naturam contineri pofle. Facultas, quæ Dei exiftentiam, ejus«.
que attributa rimetur, Theologia audit, quæ in naturalem^ et difpdcitur. Prima
de Deo differit quantum naturali ratione adfequi poffumus. Secunda
revelationis' face myfteria pandit, quæ ultra naturalem rationem lunt pdfita.
Priorem heic perfequemur, quippe quæ fola ad Philofophos Ipectat, 4.
Nobiliflimam vero, ac jucundiffimam hanc efle totius Mctaphyfices partem,
nulftr* ambigere poterit. Quid enim pracftantius, quid- ‘ >e jucundius, quam
rerum omnium Opificem, præfentiflimum totius Univerfi Moderatorem, ac noftri
præferrim Parentem optimtim contemplari? Si quod ex cæteris difciplinis
folatium, atquC' in adverbs perfugium, in fecundis rebus animi moderamen, et
ornamentum capere poffumus.'inhatc profecto cynnia ex eapotiflimum uber- /
Merito Thales Milefius, ut Tertullianus refert, a Crefo qua:fifus, quidvefTet
Deus, post multas et multo, studio perquifitas refponfiones, faffus est tandem,
fe nihil adeurare, quod ad rem quadrarer, dixifTe. Idem de Simonide testatur Tullius
de nat. Deor. 1. zi.' Roges me, quid, aut quale fit Deus ? AuBore utar Simonide
: de quo cum qu/efivijfet tyrannus Hiero, deliberandi cauffa fibi unum diem
pojiu/avit. Cum idem ex eo poflridie quareret, biduum petivit. Cum fapius
duplicaret numerum dierum, admiranfque Hiero requireret, f«r ita faceret : Quod
quanto^ inquit^ d’utius confidero, tanto mihi res videtur obfcurior. Hinc
perfpecte monuit divus Augustinus, nihil, quod de Deo accuratius prsdlcemos,
nobis occurrere poITe, aiC quod U^oiopt^CniibUis fit. naturalis uberrime
confequi poifumus, qu* omnium Lan. gitorem bonorum, rerum omnium [nfpectorem,
et Proviforem optimum pandit, et in ^uo nos efle, vivere, et moveri edocet. Tum
nihil ea utilius in univerfa vita civili.* nequeunt enim ! fine legibus, et
religione in officio cives contineri n arbitror^ inquit, multas ejje gentes fic
immanitate efferatas, ut apud eas nulla fufpicio deorum fit Cic. de nat. deor.
c, 2 ^. Arbitrari fc, non noviffe, aut fando faltem inteUexiff?, repoluit. Nullas
proptcrea tunc temporis innotuiflfc Gentes fine. Divinitatis perluafione,
tacite fatetur. II. Lucianus, acerrimus equidem Divinitatis, et cujufvis
religionis ofor, in dialogo, cui titulus Juppiter tragadus difputantem inducit
Timoclem religionis cauflTam, et afferentem Gentium omnium hac de re
confenHira; at quid Timodi reponit pamides, fub cujus nimirum nomine Lucianus
'latet ? Conftahtiffimam, percnnemque gentium confeufionem fibi objectam ne
carpit quidem ; ejus tantum vim ad demonftrandum, et perfuadendum elevare
conatur adductis futilibus omnino excogitatis, qua mox exfufflabimus. Si quas
Gentes exleges, et a religione extorres Lucianus noviffet, aut fando
audiviffet, nura ne fcirpum in ovo firaulaffet? illas profecto objeciffet, cum
nihil hoc opportunius ad extenuandum Timoclis argumentum afferri potuiffet.
Atqui in diverfa abit Lucianus * dat ergo quod afflv.Tamus, nullum unquam
hominum genus Divinitatis notitia caruiffe. Adeo nimirum Eruditis quibusque
innotuit, quod Piutarchus clegantiflime contra Colotem difputabat: Si univerjam
peragraveris terram invenire quidem poteris urbes sim moenibus, sine litteris^
sine regibus, abfque teSio divitiis, abfque nummis, theatris, gymnasiis. urbem
sine templis, ^ sine Diis, ^quie precibus, jurejurando careat. nemo Videt, nec
vidit unquam. Quantum vero
ponderis ad demon» ftrandum, et perfuadendura univerfali Gentium omnium
confenfui tribuendum fit, in Logica aperuimus. Rc quidem vera, ea cfl hominum
indoles, 8 c ingeniofum conftitutio, ut, fi de re vel minimum obicura, dubiaque
judicium ferre de, beant, tot fere numerentur fententisE, quot capita : id quod
totius humani generis, fed et præcipue philofophantium hiftoria edocet. Si
itaque quandoque omnes Gentes quacumque tellus patet, omnefque Seftas', licet
in cæteris admodum difcrepantes, convenientes omnes ad unam deprehendimus ; id,
in quo conveniunt, vel communis naturæ lenium, yel naturalis rationis
evidentiffimum præceptum, habere debemus. Eft vero omnium ubique Gentium
univerfalis et perennis fententia, aliquem effe rerum omnium Opificem, et
Rtftorem. Deum ergo exiftere, inter prima humanæ rationis fcita, vel potius ad
communem naturæ fenfum referri debet. Ad rem noftram elegantiflime Balbus apud Tullium. Quid
enim ejl hoc evidentius ? Quod niji cognitum, comprehenfumque animis
haberemus,, »0» tam flabilis opt“ nio permaneret f nec confirmaretur
diuturnitate temporis, nec una cum jaculis, atatibufque hominum inveterare
potuiffet. Etenim
videmus cteteras opiniones fi^as atque vanas diutuVnitatp extabuiffe. Opinionum
enim commenta delet dies, natura judicia confirmat \ 12. Neque fcrupulum
faceffat Tyronibus, j. quod quandoque penes hiftoricos athearum Gentium meotio
occurrat. II. quod infignes ex t Ve 'i:^o Veteribus Phllofophi inter Atheos
reccnfeantur ; Uti ex. gr Anaxagoras, Diagoras, Protagoras Anaximander &c.,
quæ fi vera lunt, haud conflare videtur univcrlalis humani Generis confen» liis
de Supremi aircujus Numinis exiftentia. Hæc equidem nulJius funt momenti -I.
Hiftorici etenim grajci, et lati ni, dum Africanas, aut Afianas qualdam
Nationes inviferent, nec templa, idola, immenlumque externarum ca:rcmoniarum
apparatum habere animadverterent, Velut quæ antiquo more fub dio, et fine ulla
pompa Deo facrificarent, quemaamodum de veTuftis Parthis retulit Herodotus, in
eam venerunt fufpicionem, nullos ab iis Deos coli. Quid quod iidem Hiftorici
idem fecerunt cum Judæis, et Chriflianis ? Accedit eodem, veteres mercatores,
aliofque itineratores aut infeies morum earum Gentium de quibus feribunt, aut
non fatis peritos, ut pretium fuis mercibus, fuifque itinerariis adderent,
atheilmi, et irreligionis infamia illas prafpropere notafle ; qu* deinde
portentolse fabellæ novitatis amore, ut fit, creditæ funt Hujufce rei exemplum
temporibus prope noftris de Huttentottis habemus. Hi primum pro Atheis in
Europa vulgati funt, et habiti.* at fummum illos agnofeere Deum, reflatur
Andreas Kolbi in hiftoria ejus nationis, quacum decem annis familiariter uius
eft. Philolbphi veteres, qui inter atheos reputati funt Confulatur Johannes Albertus
Fabricius in ApoJogia Generis humani adverfus accufationem atheifnu THEOLOGIA
i?i funt, nonnifi fumma injuria hanc pafli funt infamiam. Conftat, Anaxagoram
atheum e ffe habitum, quod Solem e Deorum numero expunxerit, et ignitum
habuerit faxum. Conftat, Socratem de Divinitatis natura prx cacteris bene
fentientem, (limma invidia, et lethali calumnia atheifmi accufatum, cicutani
bibifle. Protagoras i inquit
Tullius 1: i. de nat. deor. c, xq. cum in principio fui Irbri sic pofuiffet. De
diis neque ut sint\ neque ut non sint, habeo di^ tere, ^Atheniensium juffu urbe
et ‘ttgro eft exterminatus y librique ejus in concione combufti, quippe— atheus
reputatus eft. Atqui, ut patet, Protagoras de diis, qui a plebe venerabantur
vulgo autem Philofophis, qui præjudicatis opinionibus haud tenebantur,
dcfpectui erant, lo» 'qjyitur; non de Divinitate, leu de Deo fummo rerum
Opifice. Idem de aliis dicas.♦ folum Epicurus inter atheos recenfendus videtur,
etfi de Epicureis nihil certo conftet, quippe Tullius 1. cit. c. qo ija habet,
novi ego Epicureos omnia stgiUa venerantes. Jam vero quilibet, cui coit fapit,
optime intelligit, hujufce gregis opinionem, etfi indubie Divinitati aveidam
fuifle jjonamus, nihil communem perennemque humani Generis fententiam
labefactare pofte. Sicuti enim in M-tindo phyfico peculiaria quædani monfira
quandoque occurrunt, qua; nihil de ordine totius detrahunt: ita fimiliter in
Mundo morali fieri poteft. Igitur inter opinionum monftra, febrientium
deliramenta ifthxc Epicureorum fententia reponenda eft^, quæ nihil de communi
humani Generis fenfu detrahere poteft. Allati fuperius ^ 10 argumenti vim non
fugit profanos homines* hinc omnes intendunt nervos ed earh elevandam. Quare
operæ pretium eft, quæ objiciunt potiora, referre, et explodere Inquiunt itaque
I. Si ex Gentium confenfu aliquid confici poffet, equidem potius conficeretur,
polytheifmum efle profitendum : nam huic coeno omnes infixas fuerunt • Atqui
nihil magis Dei naturam, quam polytheifmus, evertit. Quare.neque Dei exifientia
ex Gentjum confenfu adftrui poteft. Deinde quot quantæque et Gentium, et
Philofophorum diferepantes de Divinitate opiniones ? deos ejfe dixerunt, inquit
Tullius, tanta funt in varietate y ac diffentione ut torum “teflum sit
dinumerare fententias, .11. Hujufce confenfus origo petenda eft ex naturalium
phasnomenorum timore j quo peis culfi hominum Animi, quoddam terrificum Numen,
fupremamque Virtutem ^ illa phænomena producentem, fibi effinxere: Primus in
orbe deos fecit timor, ardua cato Fulmina cum caderent. Petr. in fat. Ad hunc
adeeffit naturalium cauftarum ignorantia propterea quod Ignorantia caujfarum
conferre Deorum CogiV ad imperium res, et concedere rt» gnum: Quorum operum
cauffas nulla ratione vU dere Poffuntf bæ fieri divino numine rentur. Lucr. 1. 6, V. $1? Alias
Divinitatis notio ex Legumlatorum calliditate conficta, et populis inculcata.
Nempe quo ifti facilius populos legum jugo fub« mitterent, et in officio
continerent, Deorum numine illas leges conferiptas efle, fibique concreditas
tradiderunt. Ita Livio tefte, Numas Pompilius nocturnos congreflus cum Dea
Egeria commentus eft, cjufque nurnine ritus diis gratiffimos fanxifle. Eamdem
adhibuerunt artem Ligurcus, Minos, aliique, Confenfus ergo Gentium, ita
concladunt profani homines., in' Divinitatis adftruenda exiftentia nullius eft
ponderis. Ad primum refpondemus. Licet concedere quis vellet, omnes Gentes
polytheifmi cceno volutas, nullo tamen pacto confici poffet, polytheifmum profitendum
efle. Ut iJ concedi poflet, demonftrandum foret, omnes ad unam Gentes eofdem et
numero, et fpccie D eos, et perenniter cognovifle; hi enim funt veri
characteres perennis et univerfalis confenfus, quem natura; fenfum,8c veritatis
vocem efle autumamus. At vero Gentes omnes nec fibi unquam convenerunt, nec
quælibet fibi perpetuo conftitit, quot, qualefve Dii eflent colendi : ergo nonnifi
perperam conficitur, polytheilmum Gentium confenfione firmari. Itaque
Polytheifl* plures, diverfofque deos agnofeentes, Divinitatis declarant
exiftentiam, quippe de qua omnes conveniunt* at vero fibi invicem
contradicentes, tum in numero, tum in fpecie, et natura. deorum, fcipfos
fanatifmi arguunt, fuofque deos T 3 fua 1 1^4 ' fu a e fle commenta declarant,
Si.Phyficos de corporum eflentia, 'atque natura difputantes audiamus, non unas
numerabimus, nec fine moleftia difcrepantes fententias. Quid ? num ne ifti de
corporum cxiftentia dubitant ? Minime profecto,* exiftentiam corporum nifi
perfpectam exploratamque haberent, tot non inftituerent de eorum effentia, et
natura perpetuas concertationes ; jam vero, difcrepantibus fententiis, fatis
clare innuunt, harum nullam certo -ftarc talo. Sane non heic quærimus qUam recte
homines de Deofentiant,,fed fentiant quidquam, nec ne. Hæc duo mifcent Adverfarii rvon fine Logica imperitia,
quæ funt omni procul dubio fccernenda. Quum poflremum conflet inter omres,
invictum efl argumentum, cur Deum efle credamus. Ignorarunt enim vero, et
turpiter hallucinafi funt, qualis eflet habendus, habendum tamen omnes
conftanter tenuere. II. Atqui nonnifi fumma in Veteres injuria, vel faltem
fumma hiftoriæ imperitia affirmant Adverfarii, omnes ad unam Gentes polytheismi
ccsno infixas. Nam i. valde probabile efl, polytheifmum, et idololatriam
antiquiorem non fuiffe babelica turri, i. De hasbraica Gente unum Deum colente
nullus moveri poteft fcrupulus. De Gentilibus vero, fi ftupidam ple be-
Eleganter Tullius more fiw. Itaque inter omnes omnium gentium Jententia
conflat. Omnil/us enim innatum efl i ^ in animei quafi infculptum, effe Deos •
Quales fint, variurri' efl : efl» item» negat. I. a. Indi, Sinenfes, ne quid
dicam de Tureis, uni- ' cum fupremum Numen et Regem adorant. i^uttentotti, quai
Gens nullo alterius nationis com^ ^ j mercio unquam ufa. eft, fummum hunc Deum
intelligunt, etfi illi nullum offerant facrificium, nullas preces, quod ajunt,
quum fit beatiffimus, nulla re indigere. Priufquam ad II. et KL objectum,
refpondeamus, operæ pretium eft iummam, ac , pene incredibilem Atheorum
vecordiam in an, ' ' teceffiim indigitare. Affumunt hi ingenioli oi,
Iputatorcs, id de quo unice quxftio inftituitur nempe religionem commentum effe,
&; fabulam : tum ui cauffas inquirunt erroris, j^rius-, ^ quam errorem effe
demonftretit illud, cujus ori, j gines, et rationes explorant; quo quidem «e- i
Icio an vitiofius, et ineptius aliquid effe pol-. ! fit. Sed expendamus utrum
aliquid momenti infit in objectis.Si prima Divinitatis notio fingulas ; Gentes
e ftrepentibus per æra fulminibus per- ^. terrefa6Ias invalit, quam profe£\o
fortes Atheorum Animi, quos unice, nec fulmina terrent, 1 nec nubila
fiftuntljam vero lemel pavore con cuffis hominum Mentibus, perpetuo ab eis di-.
'., fcelfit ratio, et tam longe abiit, ut nunquam ' fepofito terrore rediret,
difcuteretque prajudicatam opinionem ? nec feri Nepotes, iplis li-. ‘ ] w ig
cet Atheis ducibus, et magiftris adnitentlbus, commentum Avorum nec rejecerunt,
nec agnoverunt ? Equidem, quum conflet, diem hominum commenta delere,
excutiifTent tandem aliquando Gentes prajjudicatam fententiam, vel haftenys
faltem ad cor rediiffent. Sed contra efl; quo enim cultiores fuere Gentes ^ et
Religioni magis incurabuerunt, et tenacius adhjefere. Deinde Divinitatis notio,
quam ubique Gentes olim habuerunt, et modo habent, efl Numinis Uiiiverfi
Rectoris, benefici Patris^^hominum felicitati non modo non invidentfs, fed
cumulantis. Si ex terrore, e quo nunquam homines funt expergefacti, ortum
duceret Divinitatis notio, profecto hac foret Divinitatis terrifica, hominum
bono invidentis, eofque in tranfverfum agqntis : hujufmodi fane funt idese, qu2
animis ex terrore informantur. Nec minimum prodefl profanis, naturalium cauflTarum
ignorationem afferre, quafi ex ea hominum Mentes fupremam Virtutem, feu D um
fibi effinxerint. Si ita foret, effet notio Divinitatis, ac in hanc religio in
inversa ratione feienti*, et cognitionis cauffarum. At contra efl : fiquidem
Gentes literis florentiorcs, et Divinatis fludiofiores fuere.* fummi int^r ve^
teres Sapientes, Thales, Plato, Socrates &c..accur.itius de Deo loquuti
funt, et religiofius fentiere ; inter recentiores Nevvtonus, Eulerus Scc. et
fcripfere elegantiffime, et fumma religione, coluerunt. Quod ad *Iir. fpectat,
perbelle efl obfervare, quomodo profani homines fuo fe jugulant gladio. Qui
circumvenire alios fatagunt, ii Animorum affectiones, quas in hominibus extare
vident, in rem liiam convertere adnituntur, non vero novas in eorum mentes
introducere. Legumlatorum itaque calliditas ac vcrlutia, qua Divinos congrefTus
commenti funt, ne lubjecti populi a legum propofitarum norma defcifcerent,
edocet, populorum Animos ante imperium imbutos fuine Divinitatis notio, nc, nec
non religioni addictos antequam de rebus publicis condendis quispiam cogitaret.
Ita ex. gr. Numa nunquam colloquia cum Egeria finxi flTet, neque leges ac
inftituta fibi ab hac Diva tradita fuiffe, mentitus effet, nifi in populo Ro
nano animadvertiffet notionem Dei alicujus, et propenlionem ad religionem >
alias qui impatientes, elafiicos, et fervitutis nefeios Romanorum Animos
duplici graviflimo jugo et legum latarum, et Divinitatis vindicis fubmittere
potuiffet ? Deinde, fi ab imperantibus in populos derivavit Divinitatis, et
religionis notio, profecto omnibus retro fæculis ante conflitutionem civilis
imperii Gentes et Populi, fuiffent Divinitatis ignari • nec non religione
carerent qui nullis vivunt legibus, neque aliis parent. Atqui e contrario
Nationes, quo primis Mundi cunabulis viciniores, eo magis religiolæ fuiffe
comp.riuntur ; neque deficere religionis femina in illorum etiam populorum
Animis, quos nulla civilis focietas colligavit, penes Doctos omnes confiat.
Delirationes itaque funt, quæ ab Atheis afferuntur Cauflas univerfalis ^ ac
perennis conienfionis Gentium cie Divinitate, ac religio, ne. Quod fi,
Cepofitis Animi Audio, ac prai. judiciis, veras hujufce conlenfus cauAas inve.
Aigare velimus, nullo negotio deprehendemus, has fuifle, I. Gentium omnium ex
communi fti. pite, et protoparente originem.* II, Mirificum Univerli
Ipectaculum fingulorum oculis perpetuo præfens. Ex prima equidem factum eft, ut
Filii, ferique Nepotes a parentibus edocti, primam Divinitatis notionem lacte
fimul exceperint. Ex fecunda, ne
prima ifthzc notio parentum traditione Animis informata in oblivio- ' nem
abiret, quin immo firmaretur in dies. Haic fecunda Caufia, profecto potior
prima, et ipla fola focordes Animos, vetcrifque traditionis vel immemores, vel
indoctas ab Atheifmi fomno fortiter difeutit, Deumque agnofeere cogit. De
attrihufisy qva Dto ^ u^i Enti a . ' fe ^ conveniunt ', ; ' -v v t, » T~^Fi
exiftentia fub notione primxre.1 J rum.omnium Cauflas effectricis adverfus
profanos homines vindicata, illius modo naturam expendere, operæ pretium eft.
Hant-equidem, utpote undequaque infinitam, finitis Alentibus et brevi admodum
intelligentia prædi, tis, vetitum complecti, et adæquate introlpicere. Quare
imbecillitati nofiras conlujentes theologia variis illam adfpectibus feorlim
'^contemplandam fufcipimus, ut quoad fieri pottft, excellentio. rem iplius
cognitionem aflequamnr. nue I ut Ens a (e ; II- ut Mentem ; III. ut huius Mundi
liberam efficientem cauffam conCderabimus, et in pratcipua inculcemus atmbuta,
feu* perfectiones, quæ ei tub hoc triplici adfpectu conveniunt. Re autem vera,
quz icuntur Dei attributa lunt una et fimplex Dm na Elfentia : W vero nifiil
vetat, quin leorfim ea expendenda fumamus, ne (cilicet u in ni tate Divinz
naturæ deficientes, cæcutiamus omnino, nec dein quidpiam delibare valeamus. et
Cum Deus fit prima rerum omnium CaulTa, eft idcirco improductus : nequit pro^
inde cxifiere nifi fua vi, et neceffitate luæ Naturæ - Si aliunde fufficientem
fuæ exiltentiæ rationem peteret, non effet prima rerum omnium CaulTa. Patet itaque Deum, efle
Ens 9 fe et neceflitate -fuæ naturæ exiftens. \ ni. Cum ex nihilo nihil fieri
queat, neque quidpiam elTe poflit caufla efficiens fui ipfius It. 114, et “8 ;
Ens, quod a fc eft, femper cxtitilTe neceffe eft. Deinde cum neceflitate et vi fuæ
natur* exiftat, nequit Ii* bi deficere, et ficuti necelTario lemper extitit,
ita et necelTario femper extabit. Deus itaque eji teternus. r i. - JI. Cum Deus
neceflitate fuæ naturæ exiftat, quidquid ad Dei naturam fpectat, ne celTario
pariter exiftit. Quare nihil, quod Uei eft, nec defecit unquam, nec deficere
ullo mo’ do do pofeft * Dsus adeo eft immutabilis. Finge fane, Deum mutari
pofle : necefle cft, cum aliquid de novo pofle adfumere, vel aliquid, quod
habebat, ex eo decedere poffe. Utrum vis dicas, eflfet aliquid in Deo non
æternum, nec neceflitate fuse natur* exiftens, fed contingens. Id vero eft
abfurdum §. zr. Efl proinde Deus omnino immutabilis - Confer 51. cofmol, 24.
Patet hinc i. nullos in Deo efle, nec effie pofle modos. Sane modorum fufficiens
ratio in parte 1'altcm ab externa caufla repetenda eft ont. 16. Eft vero Deus
omnino independens, alias non eflet Eris a fe. Nulli ergo funt in Deo modi.
Quidquid proinde in Deo eft, ad ejus fpectat naturam, et eflentiam, et
neceflarium eft. Ex utroque mox expofito theoremate patet 2., Deum actu efle,
quidquid efle poteft, et neceffario, et ab sterno; nec ullam realem
fucceflionem in eum cadere pofflp, cujufcunquc generis ea fingi velit. Sapienter Plato in Timso ERAT,
EST, ERIT partes Junt tem» porrs, male transferuntur ad naturam ater^ nam. Huic
EST tantum competit, ERAT vero, ERIT pertinent folummodo ad res in tempore
fluentes ; Junt enim, motiones. Illa fem» per immutabilis Natura nec fenior,
nec /unior ullo modo effe potej }., Contra Divinam immutabilitatem fequentia
obftare videntur.!. Cum Deus Iit æternus, Mundus vero fit in tempore ab eo
productus, ex non Creatore factus cft Creator.' reu actionem in tempore edidit,
qua ab *terno feriatus eft. II. Cum tanta fit rerum hujus ;Univerfi novitas, 8c
mutatio, caque Deum habeat Auctorem, haud illum eadem femper velle, oec eadem
femper nolle, dicendum eft. III. Cum nihil Deus neceffitate fuæ naturæ velit,
agatque, fed ex liberrima fua voluntate ; profecto quæ voluit, nolle : et quæ
noluit, velle po. test; id quod certe cum abfoluta immutabilitate conciliari
nequit. IV. Vel vanæ funt preces, fupplicationefque, quibus homines in fua vota
Divinitatem pertrahere latagunt.* vel fi hac non inutiles fuum quandoque
lortiuntur effectum, Deum mutari dicendum eft j quippe fua confilia, fuamque in
homines providentiam flectit, attemperat &c. zy. Sed fingula ifthæc futilia
funt, et bi. nis verbis exfufflantur. I. Quam dicimus crea, tionis actionem,
nihil eft aliud, nifi Divinæ Voluntatis actus, quo Mundi exiftentiam efficaciter
decernit. Hic profecto Divinæ Voluntatis actus æternus eft, ficut ipfe Deus r
at vero ejus objectum, feu effectus a Deo intentus, Mundi fcilicet molitio,
Tion pro æternitate, fed pro tempore intendebatur. Nihil ergo novi egit Deus,
cum Mundus c nihilo apparuit. II. Tota rerum mutabilium feries, quanta quanta
eft, unico, et fimplici, et æterno Divinæ Voluntatis actu continetur. Deus ergo
immutabiliter vult mutabilia. III. Cum æterna fuerit in Deb ratio tum volendi
quæ voluit, cum quæ noluit nolendi, ctfi nihil necesfitate naturse velit, nolit
-V,. - it V ii VC • '.«i ve ; quz femel voluit, aut noluit ob camdem jtternjim
rationem perpetuo volet, noletve. Sane
incoftantisE, levitatis, vel infeitia e(l argu. mentum nolle quat olim funt
volita, et e contrario, velle qux noiita funt. Sed nihil horum in Deum cadit.
IV. Preces, fupplicationefque ad Deum, non Deum erga homines, fed homines erga
Deum fle unt. Perpetuo manet Deus in amore Juftitiffi, et ordinis : prout ergo
homines vel in ordine manent, vel abeo defeifeunt, vel ad eumdem redeunt, bona
vel mala experiuntur ab imperturbabili et immota Divina Natura juxta ordinis
leges agente. Nimirum preces, fupplicationefque &c. ad illum fpe£l:ant
ordinem, cui Divina Voluntas atque Providentia perpetuo, et immobiliter
adhasret. 28. III. Veus tft Etif infinite peyfeB^n extenrive, et intenfive. Si
non eft infinite per, feftum, eft profecto natura fua perfeilibile. Cum enim
Entitas entitati haud pugnet, quavis finita Entitas nova feraper augmenta
lufcipere poteft' tum extenfive, cum intenfive. Sed quod natura fua
perfectibile eft, hoc ipfo eft mutabile. Id ergo cum de Deo pugnet, necef. fc
eft, eum omnem poflibiiem entitatem complefti,* atque adeo infinite perfectum
efle et intenfive, et extenfive. Revera finis, feu limes non eft quid pofitivum, led
negativum ; eft nimirum defectus majoris entitatis. Fiat hypothefis, Deum haud
elTe infinite perfectum j et quoniam Is eft Ens necelfitate fua! naturæ
exiftens et irm mutabile 1. 2^, erit Deus Ens cjufmodi, ut natur* fu* neceffitate
fit finitum, et in fu finitionis flatu immutabile. Id vero abfurdum cft.
Concipi enim nequit Entitas, quæ naturæ fujc neceflitate certam fui
limitationem expofcat, certamque menfuram, quæque repugnet fui ipfius
augmertto. Deus igitur eft Ens infinite perfectum 8 fC. Confer cofmot. Deus efl
Ens fimpt}ci£imum. Ens compofitum pendet e comptinentibus. Deus vero eft Ens
omnirvp independens. Nequit ergo effe nifi phyfice fimplex. Deinde quodvis
compofitum natura fua eft mutabile. Deus autem cft immutabilis. Iterum ergo conficitur, Deum
effe ens fimplex. 30. In Scholis difpufatum cft, an ntetaphyfica faltem. Vel logica compofitio Deo conveniat. Quod ad
primum Ipectat, affirmativam fententiam . Scotiftæ tenuerunt, alferentes Dei
attributa formalifer ex natura tei inter fe diftingar. At non fatis
penficulate, quippe qupdvis Divinum attributum natura fua nequit aliud effe
quam ipfa Divina effentia ^ in qua fapere ex. gr» idenr-profecto eft ac effe.
Quod fi diftinctiones inter Divina attributa ftatuere folemus, id quidem
efficimus imbecillitatis Mentis noftrs gratia, non quod fit quidpiam in Deo
multiplex. Verbo, funt ilfjE diftinctiones virtutis feu rationis in Mentis
noftras conceptibus fundamentum habentes, non formales in natura rei in
fidentes J Quod vero ad alterum fpectat, ad quaftionem nominis tota res mihi
perduci videtur. Cum enim iogica compofitio CX genere et differentia conffet ^
2. ont. ^ Genera autem fint noftrx Men^ tis notiones abftractione confectæ
appofitis nominibus defignatæ : has primum notiones ac# curate funt
determinandas, atque exponendas, critque poftmodum facillima qujeftionis
folutio. Ita ex. gr. li nomine quis intelligat, id quod in quaque re fjibftat,
et adjunctorum fulcrum eft-, Deus fub genere liiblfantise haud
comprehendi.poteft. Si vero illo vocabulo *intelligatur omne id,f quod ‘per fe
fubfiftit modo Deus ' fubftantia eft. qi..,V. De«/ immettfuf. l. Quipiie
pugnant Deo, utpote. Enti infinito, quavis mirationes ficati effentias_, ita et
exidentist; at» que adeo ficuti infinitus cft in elTchtia,• ita iq exiftentia
immenfus effe, debet.* II. Exifiat tenim vero Deus in- aliquo tai»r tum loco,
non ubique. rSufficiens ratio cur. iq hoc potius rloco, et non in alio, nec
->ubivi| exifiat, vel in ipib loco.inefi, vel (ih Dei tura. Utram vis dicatur,
non r; foret Natura Dei omniraodfiiindependens ; ejufque exiftentia cum iit
d^termbato loco alligata, haudeffet' fibi fuiSr cientilfima et a fe. Hoc autem
repugnat. Deos Igitur ubiquq locorum exiftat) 4 ^us oportet jfiiat immenfitate
naturas., ^ qa. At opinemur illunt, fpatiofa magnitudiiie.. ubique diffundi.,
Qpa de rp animadvertatipr, 00.-« tionem 'Divinis.immenfilatis non pofTe ulfo
pOf eto fecerni. a. notione fimplieitatis vetras, et ab# folutas : 'nequ«; Deum
dici poffe ^imm.eofum, air ii et una J^ui fimplex habeatur 4 $ane guævia c. roa
l,magnitudo minor eft in lui parte, quam in toto ; Deus vero per luam
immenfitatem unus et idem ubique locorum eft, et rei cuilibet intime præiens.
Certe immeiifitas, et limplicitas duæ lunt perfectiones puræ : amb adeo de Ente
infinite per{pcto prædicandas veniunt. Cum vero utriutque perfectionis nec
adæquatas nec pofitivas habeamus notiones / hinc ratio, fibi deficiens ab
imaginatione exfuperatur,' quæ, immenfitatem cum fimplicitate pugnare, faJfo
repræfentat. Quod fi clare pervidemus immenfitatem non poffe nifi Enti limplici
convenire, ratio imaginationem corripiat, neque linat ab ea rapi. ^3. Deus ejl
unus. I. Nulla adeft ratio eccur plurcs efle Deos putemus. Sane Dei notionem ex
neceflitate primæ alicujys CaulTæ effeflricis nobis compatamus: lemcl ac
(latuimus, aliquem exiftere Deum primam rerum omnium caudam, nulla adefl ratio
cur pl u res Deos comminifeamur. Deorum pluralitas manifclliffime rationi
contradicit. Quid lane Deorum nomine intelligi debet, nifi Entia natur* fuæ
neceffitate exiflentia, atque adeo infinite perfeSla? . cof. ^.zS-tieol. Atqui
duo infinita, non inquam plura, manifeftilfime repugnant. Sint, fi fieri
poteft, hæc duo infinita A, et B. Infunt ne Enti A illæ- cædem numero
perfe£liones, quæ infunt B, et viciiTim : vel non,? Si primum, illa duo Entia
A, et B non funt reapfe nifi idem, et numero unum Ens. (’quot yel ad idealem
coexiftentian>, vel ad idealerp fuccffljonem fpectant ex natura^ et
complexione tot is syflcmatis, nec nOn ex nataris fingulcrum Entium
syfleinaconfiantiura, V ‘ fiuc natur'alis fluere debent; nec aliter fluere,
quam i pix Entium naturx, mutuzque ad invicem relationes exigunt. Hinc profecto
efl, ut, vel ex ipfis exordiis cujufque Mundi intelligibilis, infinita Divina
Intelligentia, cui p^enitiflime patent et naturas, et relationes ut ut minimas
Entium ad illum Mundum fpectantium, perfpectiflime, et plenillinie nequit non
attingere lingulas fuccefliones, et evolutiones ad eumdem Mundum fpectantes.
Divina polTibilium fcientia, quam breviter modo expofuimus, fcientia fimplicis
in^ telligentia folet nuncupari. Ejus fons et origo, ut patet, ipfa eft
infinita Dei Entitas Divinæ Intelligentiæ pleniffime patens. Atqui gaudet
quoque Deus completa fcientia omnium futurorum, quæ ad certa quavis et
determinata tempora fpcctant ; quam vi/sonis fcientiam dixerunt. Hujus
fcientia:, eo quod et futura libera complecti debeat, ex humanis ideis
explicatio, acriter torfit Theologorum ingenia. Ita vero nobis exponenda
videtur. Mundus hifce realis, quantus quantus efl (8c duratione, et extenfione,
et intenfitate, expreffio eft et deferiptio uniiis ex illis infinitis
tntelHgibilibus Mundis Divinse Menti longe lateque ab ipfa æternitate
patentibus: illius feilidcf, cui JEterno, et efficaciflimo Divinæ Voluntatis
decreto adjudicata fuit exiftentia in tempore confequenda.Nihil profeqjo eft,
nec fuit, \ncc erit quidpiam in hoc reali Mundo, quod vel latum unguem ab illo
asterno exemplari re. ' C« ceiendo alterutram denegare, quam fui imbecillitatem
ingenii fatentes, utrique veritati acquielcere. Ho. rum nempe Alii, de humana
libertate nihil hslitantes,futurorum liberorum feientiam ab sternitate Deo
adimerunt. Alii vero, Divinam re, rum omnium certam et infallibilem prsfcien-.
tiam pro rata, Sc indubia ftatuentes', Mentibus agendi libertatem eripuere,. Hi
e Fataliflarum funt grege, qui Divinam prsfcientiam nobis neceffitatem imponere
agendi qusciinque agimus, contra intimum confeientis fenfum effutiunt. lif* '
dem ElegamitHme Boethius confoUt. T« cun6ia fuperno Ducis ab exemplo :
pulchrum, pulcherrimus IpP^ Mundum mente gerens ^ fimi lique in imagine
forma'*^') FerfeSla/que jubens ^ per f edum abfolvere partes, ' y dem pene
armis Utrique pugnimt,quo propSam tueantur fententi-sm. Hos audire et refutare
ma. xiniopere infereft,.Inquiunt: I. Gum Dei fcientia certa fit, et
infallibilis, quæ Deus prænovit, neque|int profecto non evenire. Sed qræ
nequeunt non evenire neceflario eveniunt. Quæ ergo futura Deus prænovit,
neceffario funt futura. Vel ergo ‘ nulla funt futura libera, vel fi aliqua funt
tujufraodi, a Deo neutiquam funt 'prævifa. II. Et revera, facta hypothefi, Deum
fingula ab æternitate prævidifllp,k ficuti fi modo aliquid fieret contra id,
qu^ Deus pwevidit, actu Dei prævifio errori obnoxia foret : ita profecto, fi
aliquid contra id. quod Deus prævidit, evenire poffet, Dei fcientia poITct
errori fubjacere. Quum ergo Divina prasvifro, nec unquam a veritate, aberret,
nec queat aberrare : dicendum' eft, rerum omnium et Cauffas, et effectus ne dum
ita pergere, rUt Deus prajvidit, fed nec aliter pergere poffe. firmatur ita.
que, vel nullam habere, Deum* certam feientiam futurorum : vel quæ dicuntur
futura libera non effe hujufmodi nifi vtrbo tenus, reapfe tamen Jieceflaria
efle. ♦ ' s? Ad fingula refpondemus. Ac I. diftinctione indiget, quod principio
ponunt: qute Detts tranavit^ y nequeunt, non evenire." nequeunt profecto
non.hypoihetice y 8 c confequen* ter y non item abfolute ^ et antecedenter. Quæ
diWnctio ut in propatulo ponatur, fupponamus, me, omni illunonis periculo
remoto, Petrum coram ambulantem intueri, profecto,, quandiu 1\ theologia . iUum
a Abulantera intueor, fieritne^uit i ^uin deambulet,* non enim fieri potcft, ut
idctn fit fimul, et non fit» At nemo non videt, 4ticirco fieri non-polfe, quin
Petrus deambulet quia, ipfe fe &.ad deambulandum determinavit, 5c adhuc in,
eadem, determinatione manet ; non quod neceflitatem aliquam tex.mea vifione
paflus fit, vel actu, patiatur. Neceifitas itaque, qua Petrus actu deambulans
nequit non deambulare, hypothetica eft, et co»/e^«»x, fluenS, nempe ex ejus
libera^eterminatione, n deambulantem. certo«intuear, et cur nequeat ille
actualiter et de facto non deambulare. lU porro tera (ejungi nulfo modo‘pofiit,
patet, Deo Voluntatem tribuendam -effe i Revera cum hicce Mundus e nihilo Iit
conditus, nonnift Divinæ Volitati ' tribui* poteft r, eccur inter « infiiiitos
«lios «que polfihiles et fit electus, et fit ad exiftentiam perductus. '• 54.
Dei.;autem 'Voluntas nequit effe' niff rectiffima, fcilicet infinita; fuæ Sapientia;
iciris, æternifque rationibfus apprime* conformis. Cum enim Natura Dei
fimpliciffima fit, ac perfectilfima qo., equidem fieri non potefi, ut in Eo
aliud fit velle, aliud fapere. Sane qiitd magis ablonum quam, Voluntatem a
Sapientia defcifcere, ac' Sapientiam erroris, levitatis, vel ofcitanrias
Voluntatem' redarguere ? Profecto id everteret intimam Dei NatUram numeris
omnibus abfolutiflimam. Divina Volyntas, qua parte objecta. extra fe pofita
iritendir, lilxrrima eft, et immutabilis. Sane nulli externo fato potefi^ Deus
fubjici, eum fit'omnino independens^ et a fe^t neque ulla neceilTtate naturæ,
nulloque interno. impeto- rapi poteft ad profequenda (Ejecta extra fe, quum fit
intrinfecus Sc natura fua bea- « tiffimus, nullumque licet minimum bfatit^t» nis
augmentum advenire ei extrirtferuff poffit, Liberfima igitur Deus Voluntate
gaudere debet. Cum vero nequeat Divina Voluntas noa effe i ni mutabilibus, ac
asternis fua; Sapientiæ 'rationibus apprime conformis' præ., confeqiiens eff,
illam nec unquam mutari nec mutari poffe- - ' ' Qpæ Deus vult, aut non^v^t / ab
' I æterno, ac lemper voluifle, aut noluiffe opor- ^ tet ; nec '^quidpiam ‘Deus
velle poteft, quod ab æterno noluit, aut fnodo nolle, quod ab æter- 1 no
voluit. Itaque Dei Voluntas non inftar facultatis concipi debet, fed
infbarfimpliciffimi actus pci^petuo, et immutabiliter permanentis, -quo • ab
ipfa æternitate voluit, noluitve fingula fi. ntul j, qux efie poterant fuæ
Voluntatis objectum. Patet hinc nonnifi cx imbecillitatis noftraj modulo pl ures
Deo tribui Voluntates, quibus res extra fe intendat, et quas Dei decreta
appellare confuevimus.... iir., De attnhuus, qu(t Dvo, utpote primee rerufn
omnium Caujfa, conveniunt : ubi dt confervittipne, bonitate, ' 0 providentid.De
Conjervatione. «^ fingulæ hujus Mundi fubftantiæ . j non ex fe, et vi fua, fed
efficaci Divina Voluntate olim exigentiam fint confequutæ^ fponte veluti fua
inquirendum modo occurrit, qua vi ha^enus in Tua perdurarint exiilcntia, feu
cui referenda veniat fuse exiflentise continuatio. I. inhæc exidentiæ
codtinuatio nequit Entibus contingentibus vi propriæ effeftiæ con.^e^ire. Si
enim cxiftent^id eorum effentiam pertineret, forent Entia illa immutabilia :
contradi£lorium fane e(l,^quidpiam fua effientia exiiientiam, vei
continuationem exiftentiæ obtine, re, et interim elTe, et beri pofTe aliud ab
eo quod effiSunt vero Entia quxvis hujus Mundi ut origine fuacontingentia ^ ita
&: ejulmodi in fuæ exiftentiæ continuatione. Exiflentiæ itaque continuatio
nequit Entibus contingentibus vi propriæ*^^ eflentiæ convenire : atque adeo
aliunde ejus fufficiens ratio repetenda venit. Ratio futiiciens continuationis
in exi ftendo nequit alia effe a ratione fufficienti exiftenti* primo temporis
momento confequutæ. Revera exiftentia fecundo, tertio 6cc. momento cjufmet
naturas eft, ac exifteotia primi momenti ; immo una eft eademque exiftentia;
nempe Entia contingentia fubfequentibus momentis {'uum ejfe haud aliud et
diverfum habent ab illo, quod primo momento obtinuerunt. Igitur fufiiciens
ratio continuationis exiftehtias Entium con fuam exiftentiam primo aufpicata
funt. In hypothefi, qua Ens sternum niWl curaret entia a fe olim condita, fed
ea veluti ipfa fibi relinqueret, nequirent profecto, ne minimo quidem temporis
intervallo, perdurare, in nihilum illico abitura. III. Quum exiftenti®
contiouatio, eofifervatio appellari foleat, liquet, illum ipfum“ rerum omnium
Conditorem effe Carumdem Coa* Jervatorem optimum. IV. Rerum confervationem haud
infcite continuatam creationem di£Iam effe: quæ phrafis haud ita intelligenda
eft, quafi De« us fingulis momentis. reiteratos edat creandi aftus, led quod
rerum confervatio non conliftit, nifr ex eodem Divinæ Voluntatis æterno, atque
efhcaciflimo actu, e quo ilis luam cxi6- Quoniam Bonitas mora Bs ‘ condUit in‘
conforraitatc actionum liberarum cum prasferipto legis » botio bonitatis
moralis fupponit legem a fuperiore latam ; potentiam in fubjecto morali
delciicendi ab illa ; 3, necefiitatem illam lequendi, ut fuam confequatur
felici-? tatem Atqui hx notiones • pugnant omnino^ cum Divina perfectiffima
Natura, quæ et abfolute independens efl, et intrinfecus ac per fe beatiflima.
Nequit igitur hujusmodi bonitas moralis Deo attribui. Divina bonitas eft
Ordinis, cft plena Voluntatis confbrmitas zterno rerum Ordini ab «ternis infioitz
Sap entiz fcitis atque re£liilimist, confiliis fluenti. Itaque non Bonitas
Sapientiz ac Potentrz imperat, fcd Sapientia Bonitatem et Potentiam moderatur.
Quare fi zternus ac iiqnentiflime conflitutus rerum ordo haud patia. tur>,
homines in ipfis exordiis fuz immortalis vitz ( nempe in hac vita przienti )
plenam coflfequi perfcflionem, et beatitatem fu» nature congruentem ; fed
exigat, refervandam eam ^e alteri feculo ; minime profecto Divinam Bonitatem
redarguere licet quod nos non eflPecerit heie^enc felices,.fiveritque plura
mala obrepere. Ita porro rem fe habere, facili argu. m«iu \ 6Oe malis, quz ex
indeclinabili MiAidi ordine patimur, quseque contectaria iunt legum
coimologicarum, nihil efl, quod jufte conque. ri poiTimus. I. enim ex ipfo
Mundi ordine, iifderrique cofmologicis, legibus noflra pendet exiflentia, 8c
innumera illa bona fluunt, queia in præfenti vita fruimur. II. Quod ita Mundi
ordo ab initio (it conflitutus, ut omnium minima ^ pauciora mala irreperent, maxima
vero, et plura bona : id quod pluribus demon* ftrare poflTemus per totum Mundi
orbem mente difeurrentes I (J^uod fæpe numero voluptates doloribus adeq
iinitimæ et conlequentes fint;po« fit*, ut hos fatis, fuperque rependere
videantur. IV. Quod mala illa optima fu nt media quibus a nimio pr*fentis vit*
amore revocemur, neve vit* voluptatibus irretiti ' faifq nobis fua. . deamus,
permanentem heic habere civitatem, nihil de futura folliciti : tum legem
fenfiium legi rationis praferamus. V. Quod>lunt illa auf przparationes ad
virtutem ne peccemus, aut juflz punitiones fi peccavimus, ut a peccatis
recedamus. Nulla fane utilior, atque eloquentior virtutis fchoia > quam
malorum perpaflio j nec capitalior virtutum peflis y quam perpetua vit*
profperitas; Mifyri/e toiSrantur, pcrfpcctc Tacitus inquit, felicitate
corrumpimur. Ilf. Mala, qu* ipfi nobis confeifeimus ma. lo' five corporis ^vc
Animi reginiine plurima equidem funt. Atqui h«c nequeunt certe D/o Sd'
adjudicari nifi fumma inicitiav et stolida temc. ritate, quæ non verbis, led
verberibus.corripienda foret. Quid enim, Deo ne tribuam fi doloribus, vel febri
laborem ( ut id exempli loco auferam ) ex ingefto cibo, potuque ultra quam
natura exigebat, et (lomachi vires patiebantur ? Profecto juRum eft, quod intemperan.
tia! poenas luam : -nec eft, quod Divinam bonitatem redarguam, cUm e contrario
maximopere commendanda veniat.. Hæc fane mala, mali nr ftri regiminis
confectaria, fræna funt, ne in vitia corruamus,. et ad virtutem colendam
caleatia tum juxtæ funt punitiones, fi hac contempta, in illa concc fieri mus. Reftant tandem mala, qusE
'e?c noftris fluunt præjudicatis opinionibus., ab effræna imaginatione. Quas ad
/hanc fp^ctant clafiem, maximam malorum partem capiunt, et ea præfertim', quæ
focialis vitæ felicitatem maximop,ere pertubant. Sed nihil hæc mala contra Dei
Bonitatem faciunt, quippe fepientia et prudentia profligantur, ficuti e
contrario sb inicitia et imprudentia gignuntur,-ScitifSme Epictetus in Encbir.
cap. V. Pet^tnrbant bomirtes non res ipfa, Jed de rebus opiniones Cum- igitur '
aut perturbantur aut trifiamur ^ nunquam alium irtcujemus., ^ed nos ipfos, boe
eji noflras opiniones. Verum vero inquient. Potuifict Deus in alia rerum
(Siconomia humanum Genus conftituere, e qua perpetua bona fluxifient, quin ulla
unquam irreperent mala /' Quod fi ita, haud fumme bonus-, in. bonitate, admodum
parcus Deus fuitje videtur, qui illa podhabita ceconomia banc przfeutem ^
condiderit pluribus Icateutem naalis. 'j6. Sed facilis ad hzc refnonGo • I.
‘Non heic quzrijtur, quid Deus potuerit efficere, fed quid efficere eum
decuerit ^ Jam vero, non, no« ' Ilrz caligantis intelligentiz e(l decernere a
priori, quznam ex poflibilibus oeconomiis przdet ceteris, fitque Dei Sapientia
ac Bonitate di« gnior. II. Nutn ne
tantum noftri ergo Deum condere mundum oportuit? Equidem Deum horni, num non'
demerentium felicitatem velle, i omni dubio vacat.* at Eum in Mundi creatione
noflram plenam felicitatem primario intendifle vel intendere debuiHe, id ed
quid' ^uidpiam ab illa ratione diverfum. Sed hanc rationem five verbis præclare
definire, five pura mente complecti pofie, certe negatum mortalibus effe
autumamus. Ecquis fane perfectiffimam, et undequaque infinitam Naturam Divinam
perluftraverit ? Quas rerum ideas, quasve notiones adeo puras, et præcellentes
mentibus noftris gerimus, queis Divina incomprehenfibilia arcana decentet
relerare audeamus? Verum vero, utut explicanda veniat Divina ifthæc
excellentiflima ratio, et finis ^ autumamus, creaturarum felicitatem, Divinæ- ^
que glorise manifefiationem illa ratione ccrtc contineri. Revera, haud aliter
decebat Deum fe gerere, quam ejusmodi Mundum condere, In quo Hanc rationem et
finem ut expedirent Platonici, aifeverabant, Deum ipfa fua infinita bonitate
percitum fuilTe ad Mundum condendum, ut fcilicet effent, quos benignitatis, ac
famma:,qua ipfe fruitur, felicitatis participes etiiceret : quaf fententia
antiquis Chriftiani ccetus Dodorlbus non difplicuit. Procedente vero tempore
ufu ienfun invaluit inter Theologos, ut Deos glorix fpf caufla Mundum condidi
fle diceretur j quod rede explicatum, et intelledum, nec quidi-uam habet
offenfionis, nec cum priori illa fententia pugnat. Nam ut perfpedt Cudworfhus
Syflem. inrelled. Cap. V. fed. 5. Neq:lTet vel minimum obflare. Q^ua igitur Deus voluntate
finem infendeb.it, profecto et optimum Mundum *legit ex infinitis poflibilibus,
tum et opere complevit. Revera finge, hunc Mundum non effe optimum^ feu fini
pr*4ituto non apprime congruentem ^ equidem vel defectui Sapienti*, vel
Potenti*, vel Voluntatis in Deo tribui debet, quod non Iit conditus optimus
Mundus. At 'priora duo Divina: pcrfcctiffim nanif* repugnant: ternum vero
contradictorium eft,,: media enim ad finem confequendum eadem voluntate,
continentur, qua finis intenditur. Quin ergo hic Mundus fit optimum, et ^ptifiTimum
medium ad confequcuf dum finem a Deo intentum nullo pacto ambi, gi potcft. Sed
hasc rerum Univerfitas fummd Divinas Sapientias confilio,'.ac pie niifima
omnium futurorum ptasfcientia plim a Deo condi* ta, incelfanti actione ab eodem
Deo perenniter confervatur, nec aliter confervatur, quam Men. te concepta fuit.
6 z, Deus 'igitur perenni ifthac confervatione curam oftendit, ut mun« danorum
entium, syfiema illum confequatur fi» nem, cujus» olam gratia * mente
conceptum, tura reapfe conditum eft. Et quoniam mediorum ad finem æcomodatiflimorum electio cura ne ab illo
fine deficiant, providentia vocabulo dcfignatur.* Deum providentiffimum- plane
effe ex modo dictis 81. 82. evidentiifime patet..Equidem Dei Providentia cx
ipla ejus natura tam' arcte ac necefiario fluit, ut p^rfpecte Cicero de.
Epicuro, qui Deos nihil mundana curare fluite effutiebat, dixerit, Epicurus ve
tollit, oratione relinquit Deos (a). Certe omnes, Gentes, ficuti Sdpremi
alicujus Numinis 'exiflentiam agnovere, ita et ejusdem providentiam hffx funt,
et coluere.* quod adeo omnibus in eompertO/ efl ^ ut demonftratione non
indigeat, Di nat. D eor.'l. i, - v. - 'At circa Dei providentiam plura
occurrunt, quæ maximopere intereft animadvertere. I.. Dei providentiam. haud in
eo confillcre, ut per lingulos dies,pcrque fingulas. horas perfpiciat quid.
factu opus ht, et qua flectenda fit rerum feries, fi quuipiara erraverit,
Abfurdiim id quidem, 8c infinita Dei Sapientia indigniffirnum. Potiflima Divinæ
providentiæ notio codfiftit I. in illa rerum omnium præordinat io ne
fapientiffime oliro conftituta ex ad^uata omnium futurorupa prastcientia, qua
præordinatione fingula entia hujus Mundi fuas exacte leges fequentia tum ad
fuos, peculiares fines pergunt, cum ad ultimum illum fipem, qui in Mundi
molitipne fuit a Deo intentus. 1. Divina prexvidcHtia continetur in illa
inceflanti actione, quam confervatiooem dicimus, feu io perenni illa et
efficaci voluntate, qua fit, ut fingula Entia.perdurent, &“ pergere non
definant juxta præordinationem in principio, factam. II' Syftema Divinæ
providentiæ pror fiis incomprehenfibile haberi debet, ficuti enirn ' 3 *
brutis., animantibus intelligi nullo modo poffunt quæ ah hominibus conduntur
fyfteniata politica, mathematica &c., ita profecto multo minus comprehendi
ab hominibus poteft lyftema gubernationis Mundi, quod eft opus ab infinita
Sapientia attern* Mentis conditum. Revera hujusmodi lyftema ferienti
complectitur omnium temporum, omnium entium, omnium eventuum fibi invicem
cohærentium, et lele motuo. explicantium, duantum profecto eft nu jusmodi
fyftema, et qu«m la;c patet i at qu^tn exigua illius pars efl, qux nobis
innotdcit ! Tum, quantilla cft human* caligantis inteJligentiæ et vis et
extenfio 1 quam manca, quam perverfa de quavis ut ut minima re noftra cognitio
1 Num ne rerum relationes, ac nexum vel longe perfpeximus ? Quam plura funt,
qnse de unaquaque re ignoramus, quam qus novimus, vel potius quæ noviffe
putamus? 86, III. Divinæ Providentiæ Syftema eo magis adorandum, quo minus
illud comprehendere valemus. Hinc enim i. in admirationem rapimur Supremæ Dei
Majeftatis, nec, fi lapimus, non poffumus venerabundi non adorare altitudinem
Scientia ac Sapientia Dei, cujus adeo incomprehenjibilia funt judicia y
invefli* gabiles via. a. Incerti de rerum eventibus probamur, et ad fummas
virtutes fidei, fpei, et omnimodæ religionis excolendas incitamur. Totum Divinæ
Providentiæ Sy-, Ilcma dno præfertim peculiaria ac minora Syfiemata
complectitur inter fe fapientiffime, et mirifice connexa ; phyjicum nempe, quod
ad brutam materiam fpectat, et morale, quod Entia ratione, et libero arbitrio
prædita refpicit. Phvficiim Mundi Syftema phyficis legibus regitur, et ad
pra^itutum a Deo finem recta pergit Sunt enirnvA-o phyficæ leges nihil aliud,
nifi certæ determinationes viribus materiæ a Supremo Conditore imprelTæ, quibus
phyfica neceflitate fiunt quæcunque fiunt, et hd smuifim infinitæ præordinantis
Sapientiæ. De hoc phy£co Syftemate fatis in Co/. c. 4. Atqui Entia, Y quæ funt
ratione et libero arbitrio prædita aliis omnino legibus profecto regi debent,
quæ lint eorum natur* conformes j leges quippe, quas phydcas dicimus^ rationem
et liberum arbitrium deftruerent. Determinationes, qu* Entibus ratione Sc li-
bero arbitrio prxditis conveniunt, nequeunt aliæ cfTe, quam qu* ex illiciis
bonorum, et amore felicitatis, vel ex horrore malorum, et mife- ri* odio
fufcipiuntur. Leges itaque, quæ En- tibus libero arbitrio pr*ditis conveniunt,
oc- queUnt aliud efle niti certa et immutabilia tita- tuta Supremi Conditoria,
quibus bonum et felicitatem creaturis rationalibus in ordine n>a- nentibus
præordinaverit, miferiam vero et in- felicitatem creaturis ab ordine
defcifcentibuS. Ifthæc flatuta /e^ef morales naturales dicUntur^ * 88. V. Leges
morales haud cenferi debent creaturis rationalibus extrinfecus et
accidentaliter impotit*.* fed in ipfo Mundi ordine intit*, et in creaturarum
naturis. Neque putandum eft, ex folo Conditoris arbitrio illas luam obtinere
fan- ctionem, fed pr*fertim ex rectiffimis et infle- xibilibus Sapienti*
fcitis, quibus omnis mun- danus rerum ordo primum conceptus fuit ^ tum demum
Divina* Voluntatis efficacitate ad exi- ftentiam perductus. Nimirum generale
Mundi Sytiema ea arte ab infinita Divina Sapientia conditum efl, ut
indeclinabiliter ad felicitatem ducat Creaturas rationales ^ quæ fartas tectas
fervant relationes, quas ad tingula qu*vis En- tia natura fua habeat, fuasque
illis attempe- rant actiones: ticuti c contrario ad miferiam et in- lyp Sc
infelicitatem efficaciter trahat illas Creaturas rationales, quæ eas relationes
violant, corrum- punt, fuifque actionibus peffumdant. Requ dem vera nifi res
ita le haberet, haud foret 'iVfua^ danum Syfiema ordioatiffimum, infinitaque
Dei Sapientia ac Majefia^e dignum, fed opus na- tura fua hians, quod externis
veluti prasfidiis pofimodum circumvallatum, infcitiam et im- potentiam in
Conditore argueret. * Sp. £ mox dictis patet I. generale Mundi Syflema ne latum
quidem unguem a præfiituto fine aberrare, five Creaturæ rationales in fuo
maneant ordine, (ive ab eo defcircant. In fuo enim ordiiie manentes fuam
confequuntur feli- citatem : a fuo ordine recedentes miferiam et infelicitatem
nancifeuntur, et quidem in ratio^ ne fuæ aberrationis - At utrumque verum, et
realen-i ordinem generalem confiituit : utrum- que ad generale Mundi syftema
æque fpectat, et mirifice conrpirat fini, quem ^us munda- no syftemati
przftituit. 2, Patet,Vmnem le- gum moralium naturalium notitiam aufpican- dam
pfTe cx relationibus, qu® rationales natu- ras ad fingula quavis Entia nectunt.
po. Contra morale syftema Divina pro- videntia objiciunt profani homines
maximam ac increciibilrm pene rerum humanarum confu- fionem. Inquiunt, aque omnia
eveniunt omni, bus: nrobis et improbis, religionis contemptori- bus et amicis
idem imminet periculum, et aqua fors. Quin immo perjuri, facrilegi, et
criminoii homines non raro melioribus gaudent fatis, quam optimi, et
juftiifimi. Nullam er- Y 2. go naturalis go Deus, ita concludunt, humanarum
rerum procurationem habet. pi. Equidem vis huic objecto confifteret, fi inter
demonftrata foret noflrorum Animorum cum corpore mortalitas. Id autem cum
tantum abfit, ut contrarium recta ratione dcmonftre- tur, ruit propterea
objectum illud ipfa fui mo- le, tum facili refponflone exfufflatur. Ita præ-
clare Auguftinus ia).' Placuit Divina providen- tia praparare in poflerum bona
juflis, quibus non (ruentur injujli, mala impiis, quibus nofi excruciabuntur
boni . Ifla vero temporalia bona et mala utri f que voluit ejfe- communia ut
nec bona cupidius appetantur, qua mali quoque habere cernuntur ; nec mala
turpiter evitentur, t^tibut et boni plerumque afficiuntur. Dein fuhdit. Si nunc
peccatum (Deus ) manifefla ple&e- ret poena., nihil ultimo judicio Jervari
putaretur.' rurfus, Ji nullum peccatum nunc puniret aperte Divinitas . nulla
ejfe providentia Divina crederetur. Similiter in rebus fecundis, Ji non eas
Deas quibufdam petentibus evidentijpma largi- tate concederet, non ad eum ifla
pertinere dice- remus itemque,fi omnibus ea petentibus daret nonnift propter
talia pramia ferviendum illi eJfe arbitraremur . pz. Qui Dei providentiam
vituperant, quod mala et impia facta non llatim plectat, equi- dem fimillimi
eorum (unt, qui videntes in fce- nsm prodire facinorofos ^ fceJeratofque
homines, eof- de Ci vit. eofque per totum carmen in luis criminibus exulMre,
tragicum Poetam incunctanter convi- ciis petunt } totamque fabulam ut
Icclcratam rejiciunt . Tragoediæ exitum hos expectare opor- tet, mox enim illos
dignis excipi fuppliciis videbunt, fuorumque fcelerum meritas poenas lue- re .
Vera fabula prxfens efl vita : quilibet no- Urum luam in hoc telluris theatro
perfonam fubflinet, et ita, ut de fuo femper aliquid ad- dat fabulæ. Atqui Deus
totam fapientiffime fabulam moderatur, et regit . Is lapientiflime nectit
noftras hujufce vitSB actiones cum fuis geftis, quæ in altera vita lequentur :
eruntqua futura cum pr®fentibus ita inter fe apte Sc con- cinne connexa, ut
fumma de rebus omnibus providentia eluceat . pq. Tandem, fi Deus in humanis
rebus moderandis ubique fusE providentiæ vim, 8c, præfentiam extraordinariam
oflendere vellet, ficuti Adverfarii infcitiflime et arrogantiffime poftulant •
profecto miraculis cuncta elfent re- plenda, naturæque leges perenniter
interpellan, dæ. At quæ fumma confusio rerum hinc pro- diret, quæ maxima
perturbatio ! Edifcant ergo Adverfarii rectius philofophari : ficuti apparen-
tes illa; perturbationes, et monftra, quæ in fyftemare phyfico quandoque
occurrunt, nihil de ejus ordine et harmonia detrahunt, quippe ex ejusdem
ordinis vi 3c legibus confequuntur, et in ipfum ordinem redeunt : ita nihilo
fecius divina de rebus humanis providentia confiftit, licet quædam moralia
monfira quandoque profilire et exultare videantur. Moralis quippe y q or.
NATURALIS ordo, 8c providentia ex harmonia legum cosmologico-moralium, et ex
nexu actionum hujus vitæ cum alterius futuræ vitæ ordinatione refultare debet.
Finis Theologia, TOTIUS OPERIS CONSPECTUS Jn unlverfam Metaphyficam^ prafatio.
i METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In Ontofopbiam prolegomena De effentia, et
attributis. De variis entium generibus De relationibus Entium. Dff relationibus
fimilitudinis. De relationibus, e coexifletftia dependentibus . De
relatio.nibus dependentiis, ubi de Catijfis. De quib.usdam "relationibus
compo/itis . INSTITUTIONUM METAPHYSICARUM PARS ALTERA In Cofmologiam
prolegomena. De Corporum elementis. Corporum elementa Junt ne ex- tenfa, vel
inextenja Similia Jint ^ qn diffimilia cor- porum elementa expenditur . . niTT
De Legibus cojmologicis . De Mundi, Materia origine. sirr: Etis tttiquod
aternutn natura fua necifjitate exi/iere, indubie demon- firatur j tum ejus
pracipui c&araSleres expenduntur .In materia originem inquiri - tur, eamque
ix nihilo conditam vi, potentia fupremi Numinis inviBe demonflratttr . I op
Democriti, et Epicuri fenten» tla refutatur ; ubi Mundum potentia, et fapientia
Entis aterni conditum effe evincitur . I £ 5 Spinosa Jyflema abfurdorum, et
contradiBionum effe cumulum ofien - ditur . De nexu omnium Mundi Cauf- Jarum et
effeBuum : ubi de fato juxta . Pbtlofophorum placita di [feritur De nexu omnium
Mundi Cauf- /arum, effeBuum, lai P bilofophorum de fato fenten* tia enarrantur,
atque refutantur. ia8 De Naturali, et jupernatu» De Natura gener at m ; ubi .
quid fit naturale edocetur De fupernaturaii : ubi de Mi’ vaculis generatim
Pinis Cofinologia METAPHYSrCARUM INSTITUTIONUM In Pfycbohgiam jtrole^omena . g
CAPI L De Facultate fentiendi . j Senjitiva facultatis indoles at» que natura
expenditur ^ &“ plura fenfa ^ tionum do^lrtnam Jpe^antla enucleem tu* . Qna
Jit fedes principii fenji- tiva facultate praditi .De Memoria De contemplatione
DV remintfcientta .De recognitione De facultate attendendi ^ et refle^endi, zS
De imaginatione, De facultate appetendi ^ ejuf~ que objeElo : ubi de affe^ibus
fummatim. De facultate appetendi, ejuf- que objeblo . ibid. De affeBibus . at,
De humana Mentis Volunta* te, ac Libertate . De Mentis humane Natura.. .
•^nimadverfiones ad invejiigandam %Anima humana naturam preeli- mtnares
.Humanam Mentem haud effe ' temperationem humani corporis, ac pra^ cipue
cerebri inviate demonjiratur Ct*tvU fubjlantite corporea in* trinfecus pugnare
cogitationem, /Jw De idearum^ notionumque natura, atque ongtne
%/inimadverfiones praliminares ad idearum,netionumque naturam atque originem
expijcandam. Idearum origo ac, natura expenditur. Quadam Pbilofopbortm.placita,
qua idearum /peliant originem, breviter exponuntur . Df tAunue humana orij^tne’
.De Mentis humana Immorta- litate . I loi Mentem humanam ex natura Jua
infpe^am, immortalem effe, demon- flratur . Mentem humanam ex fui Con- ditoris voluntate infpeBam
immortalem naturali ratione afferitur. METAPHYSICARUM INSTITUTIONUM In
naturalem Theologiam prolefromena . Deum exi/lere invitiis rationibus
demonflratur, et *Atheorum pracipua cavillationes difpelluntur . Deum exi flere
met a phy fice de - monflratur . ibid. ART. II. Dei exiftentia morali demon-
firatione vindicatur .De attributis, qua Deo, ut Enti a fe y conveniunt. 1^8 De
attributis y qua Deo y ut Menti, conveniunt . Dei Scientia expenditur . ibid.
Ds Dei abfoluta Beatitate, De Dei Voluntate. De attributis, qua Deo y ut - pote
prim-rfetur, et fi merito typis mandari pnfit . Ac pro executionc Regalium Or-
dinum idem Revifor cum Jua relatione ad nos di- rede tranf mittat etiam autographum
ad finem', Datum NAPOLI ^ .»79d. FR. ALB. ARCHIEP. COLOSS. CAPP. M. S. R. M. J
Uffu tuo accurate legi docfl-flfimi Viri Sacerdo- tis D, Mariani iJcmitula
in^itut ones philofo- phtCas^ nempe infi/turiones metaphyfices, in qui- bus
quxcunque a ienfibus funt remota ) leu le- ruin naturam, feu univerfi ordinem,
Icu nafU- Tain animorqm, feu durina attributa, quantum i-tio »e adfequi licet,
facili methodo dilucide per- tvadlantur ; atque infitutiones logices quibus,
qu.ie ad hu minam mentem formandam fpeiflant, folide præcipiuntur, in his
utrifque inititutionibus bu8 omnia fumma eruditione, Ir dodlrina, neo minori
pietate explicanrur ; tantum abeft, ut qoidpiam aut juiibus Majeftati",
aut boniS mon. bus advei ium commeant ; quare edi pcffe cen» fto, nifl aliter
Majcftati Veftrae fuerit vifuin, NAPOLI MAJESTATIS VESTRAE. JlVmiliJtimuS
addidi ffimus 6- obfequtl^ffimus, Jofephus Maffcjus Regius Profcffor. NAPOLI
ec. Vifo refcripto S. R. M, fub die 5. currentis 'fnenfis, cSr anni, ac
relatione U, J. Dodoris O, Jofephi lAafiei ^ de commijfione Reverendi ReffH.
Cappellani Majoris, ordiie pr^fau Regalis Majejiatts &C» Reffjlis Camera S,
Clara providet, decernit^ Mtque mandat, quod imprimatur cum inferta forma
prafentis /upplicis libelli, ac approbationis dtdi revi fotis . R erum no<»
publicetur ni fi per ipfun Revi/orem fada iterum reviftone, . ajir- metur, quod
concordat ^fervata forma Regalium ordinum ^ ac ^etiam in publicatione fervetur'
Re- gia pragmatica» Hoc fuum ec, JARGIANNI PECCHENEDA VOLLARO V. A. R. C. Izzo
Cancelliere Rfg- fol, t?, tt u Pafcale Uluftris Marchio MAZZOCCHI P. S. C.&
ceteri Aularum Praefedi tempore lub. impediti . EMINENTISSIMO SIGNORE .M trhele Migliaccio pubblico
Stampatore fup- olicando efpone ali’ E. V. come defidera dare alle ftampe un’
opera tntitolata In/iitutionet, Philolophicte Auctore Mariano Stmmola . Prega
percio 1 ’ £. V. a commetterne la reviiionc a chi piu le piace • Admodum R«v,
Dominus D. Donatus GigUo St Th. Prof. revideat, et in Jcriptis referat. FRANCISCUS ROSSI CAN. DEP.
Institotiones Philosophicae appofite ad Tyrona u captum a S. concinnatas, ea
diligentia, qua tua juffa capeffere par eft. Princeps Eminentidime, perlegi, In
illis, prxterquam quud methodo meridiana luce clariore argumen- ta tum unde
unde exquidta, tum propriae penis depronua (apienter ad Philoruphiae firmanda
dog- mata congerit Audior, in i!l ud porro omnes lol- lertix nervos intendit,
ut et fandi di m a morum ratio redle libi condet, 8c jura Rei gionis, li unquam
antea fufque deque habita*, nunc ut cum maxime pedimo fato divexatx, farta
tedla fer- ventur . Qux cum ita le habeant, cumque nihil optimo Prxfult
antiquius, fan^iufque effe debeat, ? uam ut adolefcentes fandlionbus, minimeque
iibdolis fententiis imbuantur ( nam quo Jemel ejt imbuta recens, fervabit
odorem Tejia diu ) in publica commoda peccatum iri 'rcor, fi hujufmo- di Opus
minime Typis mandetur, Quare fi ita Z * Emi Sminenti* Tu® videbitur, publici
jur» fieri pof- fe cenfeo . l-)ab. ^Alib. Seminat ii Urbani XV Iil. EMINENTUE
TU.E, AddidiJP Obfequentijp, Ta/nuius iionatus Gigli, yy/ff ip is. Mariano Semmola. Semmola. Keywords: istituzioni
di filosofia, l’istituzione della logica, l’istituzione della metafisica.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semmola” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Semprini: implicatura
cabalistica nel deutero-esperanto di Pico -- filosofia italiana – By Luigi
Speranza, pel Gruppo di Giocodi H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Bologna). Filosofo italiano. Bologna,
Emilia-Romagna. S. progetta una lingua internazionale su base latina che chiama
“neo-latino” – “Rubrica del movimento interlinguista” --- e l'anno successivo
ci prova anche LAVAGNINI (si veda) con l'Unilingue (o Interlingue)
pubblicato nel Corso pro Corrispondenza d'interlingue od Unilingue in sette
sezioni a Roma e ancora con MONARIO (si veda), dato alle stampe nel Corso
de Monario prima e nell'Interlexico Monario. Italiano-français.
English-deutsch poi. GIOVANNI PICO (vedasi) DELLA MIRANDOLA. LA
FENICE DEGL’INGEGNI -- saggio di
S. nella quale si raccontano i casi della vita del
principe-filosofo e s’espongono i segreti cabalistici magici e
astrologici della sua esoterica
filosofia. Con un esame delle sue poesie in volgare e un ritratto
fregiato da Carolis ALL'INSEGNA DELLA
CORONA DEI MAGI PRESSO ATANOR. TODI. Il saggio che offre
al suo C. non ha la pretesa d’essere una monografia e molto meno uno studio
completo della vita del Mirandolano. Esso, così come si presenta, porta l’impronta
dei sentimenti e dei pensieri non sempre contenuti che in me sorgeno via via
che il velo si discopre e la bellezza d’una vita intensamente vissuta per un
ideale l’appare nella sua immediata freschezza. Ciò che li mosse a scrivere di Pico non è, lo confessa,
quella preoccupazione pella verità storica che spinge molti a travagliare per
anni interi intorno a manoscritti, a cimeli, a documenti, pur di riuscire a
determinare colla massima certezza le date della vita d’una personalità o d’un
avvenimento storico. È stato il desiderio di conoscere, attraverso un
personaggio quelle altre verità che, non
essendo sempre dì dominio del pensiero riflesso, le chiamiamo con altri
nomi. Tale desiderio l’ha portato a
conoscere quanto Pico, al pari degl’uomini del suo tempo, fosse assetato di
verità, e come più di tutti i suoi contemporanei avesse il senso dell'inanità
degli sforzi umani e della vita stessa. Quanto egli, pur aspirando alla verità
come luce rasserenatrice, fosse convinto, anche prima di raggiungerla, che desso, purtroppo, non è
il fine ultimo della vita, che c'è qualcosa di più alto ancora che più della
cristallina chiarezza del vero esprime l'essenza della vita, e cioè l'amore.
Non è tragico tale sentimento che rende inquieta l'esistenza di quest’aristocratico
il quale, sotto la femminea placidezza del suo volto avvenente, nasconde
un'anima irrequieta e nostalgica, non
già agitata dalle passioni 0 dai
perturbamenti del senso, ma dal dubbio della ragione, dal contrasto che sorge
come nube procellosa negli spiriti meditabondi ogni volta che vedono
l'inconciliabile opposizione fra il reale e l'ideale? E ciò che nel Pico rende
insanabile questo dissidio interiore era il senso del mistero che in combeva su
ogni manifestazione del suo vivere, il senso dell'arcano per penetrare il quale s'illude, come gli
spiriti profondamente mistici, che al di là della conoscenza comune, al di
sopra delle nozioni volgari ci fosse una dottrina esoterica, accessibile a
pochi, per mezzo della quale l'iniziato potesse inoltrarsi nei sentieri
reconditi ove splende la luce che trasumana. Non so quanto sia riuscito nel suo
assunto che era di rappresentare Pico quale mi si rivela più che dai documenti d'archivio,
dalle sue opere e dalle lettere del suo epistolario. Certo sarebbe per lui
motivo di conforto poter constatare che il suo studio potrà essere stimolo ad
altri a darci di Pico quell'opera completa che tuttora ci manca. Bologna, Villa
Serena. In un'alba nasce nel castello della Mirandola Pico. Sua madre, in un
sogno di fiamma, n’aveva presagito la bellezza
superiore a quella delle sue splendide figlie, e l'ingegno e l'amabilità
che non aveva saputo riscontrare nei figli Galeotto e Anton Maria, in perenne
lotta pella supremazia del feudo. Muratori, Amali d'Italia; Tiraboschi,
Dizionario Top.; Bratti, Cronaca; Cronaca della Nob. Famiglia Pico, scritta d’autore
anonimo, illustrata con note e documenti da Molinari, pubblicata in Memorie
storiche della città, ecc. Mirandola;
Ceretti, Giulia Boiardo in Atti e Memorie della Deput. di storia patria
dell'Emilia, Modena; Burckardt, La civiltà italiana nel ri-nascimento, Firenze.
La prima biografia del Pico è quella scritta dal nipote Gianfrancesco e
premessa in tutte le edizioni delle opere. La contessa Giulia, che aveva nelle
vene un po'del sangue del cantore dell'Orlando innamorato, ci si presenta una di quelle donne meravigliose
del ri-nascimento, abilissime nei lavori muliebri e aperte a ogni
manifestazione dell'arte, capaci d’accudire alle cure più minute della famiglia
e di tener testa agl’affari più difficili dello stato. Questa donna, che altrove
ci appare energica e severa, accanto a PICO,
rivela i caratteri più squisiti della maternità. Ora la vediamo tutta
compresa di tenerezza nell'atto che la
nutrice mostra il bimbo in fasce a Merula, ospite durante il suo viaggio per
Bologna delle figlie Lucrezia e Caterina. Ora notiamo lo sforzo della sua
maschia natura per condiscendere a certi capricci e vizietti di PICO. Oh! la
gioia di questa madre quando assiste alle prime rivelazioni di quell'ingegno
precoce, che era pronto a cogliere sul punto qualsiasi istruzione impartita,
che impara con rapidità sorprendente una poesia, che rivela sin dai più teneri
anni una memoria prodigiosa. L'indole dolce e arrendevole che Pico aveva
sortito da natura, l'aspetto quasi femmineo del volto che si tinge di rossore o
impallidiva ai fremiti insoliti dell'età critica dell'adolescenza vicina,
l’inclinazione agl’ardori d’un misticismo incipiente, dovevano senza dubbio
indurre la contessa Giulia a provvedere per tempo all'avvenire del figlio, non
senza quella trepidazione propria delle madri che vorrebbero vedere immutata
l'ingenuità delle loro creature. A Giulia parve che lo stato ecclesiastico
fosse il più adatto all'indole del piccolo Giovanni che, da parte sua, era più
che mai disposto ad abbracciare uno stato in cui avrebbe potuto svolgere più
agevolmente quei sogni che cominciavano già ad agitarlo. Giulia s'interessò per
ottenergli la elevazione a protonotario apostolico, e appena il figlio ebbe
raggiunto l'età di dieci anni, la contessa ne celebrò solennemente
l'investitura. Alcuni anni dopo, nel 1477, Io mandò a studiare diritto canonico
all'università di Bologna . La festante città dei Goliardi, la cui vita
politica era guidata in questo tempo dalla potente famiglia dei Bentivoglio,
poteva considerarsi per il suo Ateneo « il tramite per cui le idee umanistiche
passavano dall'Italia all'Europa. Da ogni regione d'Italia e paese d'oltr'Alpe
convenivano quivi numerosi gli studenti con le caratteristiche e i linguaggi
delle loro terre; e quivi formavano corporazioni con statuti propri. Si deve
far risa ci) SCARABELLI, Dell'antico studio bolognese, Bologna, 54-55; Gavazza,
Le Scuole dell'antico Studio bolognese, Milano, 1896, 78. 4lire a questo
periodo l'attrattiva esercitata sull'animo del Pico dall'ordine domenicano, che
finirà per essere una delle mete sospirate. La chiesa di S. Domenico era il
luogo in cui solevano radunarsi le corporazioni dei « legisti », i quali erano
tenuti a intervenire processionalmente alla festa di S. Domenico e ad assistere
dal coro alla messa dello Spirito Santo. Tra quei frati predicatori che, per la
loro dottrina e il loro ascendente, avevano sì gran parte nelle cose dello
studio, uno dovette attrarre l'attenzione del Pico, per le maniere semplici e
rudi, gli occhi vivissimi, la fronte solcata da rughe e il colore bruno che
contrastava col biancore del lungo saio. Questi era Girolamo Savonarola,
giovane allora venticinquenne, già emaciato dai digiuni e dalle astinenze che a
« vederlo passeggiare pei chiostri, pareva piuttosto un'ombra che un uomo vivo.
È dubbio se fin da allora si stringessero rapporti fra i due, che dovevano in
seguito legarsi coi vincoli di reciproca stima; certo da quel momento i loro
occhi si saranno incontrati, non con l'indifferenza onde passano le innumeri
fisonomie umane, ma producendo quella recondita impressione che rifiorisce
presto o tardi negli scambi di idee e di sentimenti. VillAri, Savonarola,
Monnier. È durante il tempo de' suoi studi di filosofia a BOLOGNA che muore a
Pico la madre, e ci duole di non trovare alcun'eco ne' suoi saggi di questa
sventura. Ma faremmo torto al suo delicato sentire se volessimo ciò attribuire
ad uno scarso attaccamento verso la persona che pili di tutte lo ha amato. La
contessa Giulia che si era portata a Bologna per stare vicina al diletto
figliuolo, fu colpita da un malore che la trasse in breve, il 13 agosto 1478,
alla tomba. La sua salma, trasportata il giorno seguente alla Mirandola, fu
tumulata accanto a quella del marito nella chiesa di S. Francesco. Pico, forse
perchè non si sentiva portato allo studio del diritto canonico, decise di
recarsi a Ferrara ove lo invitava il Duca Ercole I, già imparentato con la sua
casa, avendo sposato la sorella Bianca a Galeotto, fratello del nostro
Giovanni. Quando nel maggio del 1479 giunse a Ferrara, che era allora una delle
città pili popolose e ricche d'Italia, fu assai lieto di poter frequentare la
scuola di rettorica e di poesia di Battista Guarino, che proseguiva con pari
valore le direttive del padre suo, il celebre Guarino Veronese. Come un'aura di
poesia doveva respirare nella città che della poesia cavalleresca ed epica
stava per divenire il centro d'Italia, e come un'ebbrezza 6materiata di
sensualità doveva ispirargli la tragica storia ancor recente di Parisina e gli
amori un po' violenti del padre di Lionello e di Borso d'Este . Il Pico trovò
modo di appagare più di un desiderio come ci attestano i frammenti delle sue
poesie amatorie e Raffaello da Volterra ne' suoi commentari in cui parla anche
del successo che conseguiva nelle pubbliche discussioni. Non ostante la
simpatia ch'egli sentiva per Ferrara in cui aveva contratto varie amicizie
cogli Nell'interno del palazzo accadono fatti spaventosi: una principessa,
Parisina, è decapitata insieme col figliastro Ugo per adulterio (v. Muratori,
R. I. S. lib. XX); principi legittimi e illegittimi fuggono dalla corte e sono
minacciati anche all'estero da assassini inviati ad inseguirli, come accadde;
oltre a ciò continue cospirazioni dal di fuori; il bastardo di un bastardo vuol
rapire a forza la signoria al legittimo erede. Ercole I ». BuRCKHARD. Cfr.
Solerti, Ugo e Parisina in Nuova Antologia. Ivi il Volterra dice di avere
veduto il giovinetto Pico, vestito da Protonotario apostolico, discutere fra le
acclamazioni di tutti con Leonardo Nogarola. Devono alludere a questo tempo le
parole del nipote: « Prius enim et gloriae cupidus, et amore vano succensus, «
muliebribusque illecebris commotus fuerat, foeminarum « quippe plurimae ob
venustatem corporis orisque gratiam, « cui doctrina amplaeque divitiae et
generis nobilitas ac« cedebant, in eius amorem exarserunt ». Opera, Vita, senza
numerazione di pagina. uomini pili in vista del mondo letterario come col
Guarino e con Vespasiano Strozzi, il demone dell'irrequietezza cominciò a
fargli sospirare altre città, a comunicargli il tormento comune a tutti gli
umanisti di allora pei quali la più gran gioia era quella di andare in cerca di
nuovi codici, dì poter frugare conventi e biblioteche, di scoprire qualche
nuovo volume. Benché ormai rimanesse poco o nulla da scoprire, dopo che,
sull'esempio del Petrarca, il Filelfo, il Guarino, Giovanni Lascaris erano
riusciti a riesumare tante opere preziose dell'antichità, non era peranco
cessata la bramosia della scoperta di nuovi libri . Il Pico, spinto da un
ardore che nasceva da uno spiegabilissimo sentimento di emulazione, non
risparmiava spese nell'acquisto di libri, e intraprese anche dei viaggi per
raccogliere o rintracciare qualche codice antico. Nell'autunno del 1480
troviamo il Pico a Padova , dove in data 16 dicembre di quell'anno Sabbadini,
Le scoperte dei codici latini, Firenze, Sansoni. Cfr. specialmente i capitoli
IV, 72, VI, 114. Anche il Muntz, Precursori e propugnatori del Rinascimento,
trad. Mazzoni, Firenze, Sansoni, 1902, 76-78. II Pico rimase a Padova per un
biennio. Cfr. Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, 1902,
749. 8 gli venivano rimesse le patenti ducali con le quali si concedevano a lui
studente di filosofia nell'almo studio patavino, tutti i privilegi che vi potevano
godere gli scolari. Pare che l'indirizzo di studi che si perseguiva in questa
città e l'ambiente studentesco lo soddisfacessero molto, poiché in una lettera
ad Ermolao Barbaro dice che, fra tutti i «ginnasii» d'Italia, quello di Padova
era stato da lui frequentato più volentieri . Era il Pico allora in quell'età
in cui la vita sorride più che mai all'occhio dell'adolescente che,
nell'esuberanza delle proprie forze psichiche, non trova limiti al suo
pensiero, e il bene e il male rientrano in quella sfera che li assorbe, direi
quasi, li accomuna, cioè l'amore. Ciò che in altre età può sembrare scandaloso,
indegno dell'uomo, è nell'adolescente tollerato; e anche quando l'uomo avanzato
negli anni piange, come il Pico, i peccati della gioventù, sente nel-, l'amarezza
del rimpianto il rimorso di così cari ricordi! E il Pico era troppo sensibile
per non sentire questa vita fremente che gli s'agitava intorno, egli ch'era
così bello, colle chiome d'oro svolazzanti sul volto radioso, quasi novello Ado
« ex Italiae gymnasiis mihi sedem ad philosophiae « studium diligerem... »
opera, 376. Cfr.
DoREZ et ThuaSNE, Pie de la Mirandole en France, Paris, Leroux, 1879, 9. 9 ne, come ce lo dipinge il Ramusio in un carme
latino. Testimonianza di questa vita goliardica di Padova, è la raccolta dei
carmi latini di Girolamo Ramusio, ch'egli volle dedicare al Pico verso il quale
si sentiva attratto, oltre che da tenera amicizia, da identico amore per lo
studio delle lingue orientali e per la vita avventurosa , con un carme intitolato:
Illustrissimo loanni Mirandolae principi ac concordine corniti benemerenti,
Hier. Ramusius paiiper Ariminensis. Girolamo Ramusio, della cui memoria non c'è
traccia nelle opere del Pico, benché nella raccolta delle sue poesie si trovino
inseriti alcuni carmi di quel Donato col quale il Pico rimase in Ecco i distici
del carme Lusus in Venerem: Pacem vultus habet, facies exorat amorem Membraque
scytonia sunt magis alba nive. Cuncta dicent Divum, ut sydus ocelli, Et
volitant circum tempora amata comae. citati dal Flamini, Girolamo Ramusio, in
Atti e Memorie d. R. Acc. di Padova. Viaggiò in oriente in cui imparò la lingua
araba, fu a Damasco nel 1484, morì a 36 anni il 5 giugno 1486^ mentre si recava
da Damasco a Beiruth. Flamini, 1. e. Anche il Donato studiò a Padova nel 1476,
conobbe Catta, amata dal Ramusio, e l'amore della fanciulla per l'amico gì'
ispirò versi di rimpianto per la immatura morte, e in essi cerca di riprendere
il Ramusio pe' suoi carmi lascivi. Assistendo alla laurea dell'amico nel 1476
scrisse una saffica per quell'occasione. Divenuto personaggio influente nella
Repubblica di Venezia, protesse letterati e umanisti. 2 10 rapporti epistolari,
era oriundo da Rimini dove fu caro a Pandolfo Malatesta; venuto a studiare a
Padova quivi nel 1476 si laureò, come dice in un carme dal titolo: Dum subirem
artium laurearti in collegio doctorum Ramusius pauper. Nelle sue poesie « di
un'oscenità da disgradarne VHermaphroditus del Panormita... e che sono
veramente nugae da giovani spensierati e scapestrati » canta gli amori per una
bella fanciulla di Narni, di nome Catta, morta in età immatura, da cui pare
fosse corrisposto. Al Pico indirizzò due carmi, nel primo dei quali si duole di
non poter essere sempre con lui, a cagione delle strettezze che lo costringono
a starsene a lungo in casa; nel secondo (ch'è una saffica all'oraziana) ne loda
la bellezza, la dottrina, la liberalità . Si deve attribuire senza dubbio a
questo periodo, in cui dovette influire non poco sulla condotta del Pico la
convivenza con studenti del temperamento di un Ramusio e di un Donato, la
composizione di gran parte delle poesie del nostro, le quali non dovevano
essere diverse Flamini, op. cit., 19. Flamini, Delle donne amate dal Pico, due
sono celate sotto lo pseudonimo di Marzia e di Fillide Peona o Pleona, morta
quest'ultima in Padova nel 1481. Cfr. DoREZ et Th. op. cit., 16 e Della Torre,
op. cit., 758, n. 3. 11 dalle nugae degli altri, se in seguito il Pico le diede
alle fiamme. Ma non tutti gli amici del Pico erano del tipo suaccennato; ve
n'era fra gli altri uno che per la sua anima candida e mite, per la sua
profonda conoscenza della filosofia aristotelica, doveva lasciare traccie
visibili sull'opera del Pico, e legarsi a lui coi nodi della più dolce
amicizia. Eia questi Ermolao Barbaro che da alcuni anni era titolare di
filosofia morale in quell'Università dove si era addottorato a ventitré anni
nelle leggi civili e canoniche . Benché nei periodo in cui il Pico studiava a
Padova, Ermolao stesse per lo più a Venezia, ove copriva importanti cariche
pubbliche , pure, le poche volte che poterono vedersi, si sentirono subito due
anime gemelle fatte per intendersi e per amarsi. Conoscitore profondo della
lingua greca, Ermolao ri Nei Fasti Gymnasii Patavini, Patavii, del FacciOLATi,
abbiamo Ermolao Barbaro prof, di filos. morale; Fr. Io. Battista ex eremitis di
S. Agost. prof, di logica nel 1480, 114; nello stesso anno era rettore degli
artisti Benedictus Ariminensis, 88-89. Cfr. Colle, Storia dell' Univ. di
Padova, 1824. Apostolo Zeno, Disseri. Vossiane, Venezia, 1753, t. II, 368.
Causa la peste a Venezia, ritornò in Padova ove si mise a disposizione dei
giovani che lo pregarono d'insegnar loro il greco. In quell'anno fu creato
senatore. Cfr. Colle, 12— poneva ogni suo intento a tradurre Aristotile, le cui
dottrine solide e profonde erano un pascolo per la sua mente costretta sovente
a ben altre faccende. Bisogna riconoscere che Padova, la quale era il centro
del movimento intellettuale del Nord-est d'Italia e per l'insegnamento filosofico
faceva tutt'uno con l'ateneo bolognese , esercitò sul giovane mirandolano un
influsso le cui traccie si scorgono qua e là nelle sue opere. Anzi tutto ciò
che vi è di scolastico e di medioevale nelle Tesi e in altri lavori filosofici
del Pico, è dovuto a questi anni di studio nell'università patavina che ha
continuato più a lungo di qualunque altra le abitudini del medioevo. Era Padova
la rocca forte dell'Averroismo e uno dei professori piìi ragguardevoli, non
privo di una certa originalità, fu Nicoletti Vernia che insegnò a Padova.
L'insegnamento di questo averroista, che sosteneva senza restrizioni la teoria
dell'unità dell'intelletto, non dovette svanire si tosto che il Pico, il Nel
1475 aprì nella sua casa alla Giudecca una scuola privata di filosofia, e aveva
in animo di tradurre tutto Aristotile; peraltro tradusse V Etica, la Rettorica,
la Dialettica e inoltre scrisse una parafrasi di Temistio. Cfr. Renan, Averroès et
l'Averroisme, Paris, 357-58; Burckhardt, op. cit., 242-244; Mandonnet, Sigerete
Brabant, 2^ ed. 111-112, n. 1; Windelband, Storia della Filos. trad. it. Palermo II, 16-17; Petrarca, Opera» 1581,
Basilea, II, 1093. 13 cui soggiorno a Padova coincide con gli anni scolastici
1480-1482, non palesasse una certa indulgenza per l'arabismo da fargli
vagheggiare l'accordo oltre che fra Platone e Aristotile, fra Avicenna e
Averroè. Durante i due anni di studio a Padova si recava sovente nella natia
Mirandola, la cui quieta e semplice vita paesana gli tornava sommamente gradita
e dove amava invitare amici e maestri. Ma in quegli anni la pace del castello
avito doveva interrompersi agli orrori della guerra fratricida scoppiata fra
veneziani e ferraresi. Anche il Duca di Milano, i Bentivoglio di Bologna, la
Repubblica di Genova e qualche altro staterello, erano stati attratti
nell'orbita del conflitto; e i soldati mercenari coi loro cavalli e carriaggi
taglieggiavano e smungevano, durante le loro scorrerie, i pingui contadi della
pianura padana. La piazza di Mirandola, che era come una tappa sulla strada maestra,
dovette senza dubbio subire tutti gl'inconvenienti che derivavano ai piccoli
comuni incapaci d' imporsi alla forza dei più potenti, La visione di una realtà
intrisa di sangue, quale può essere in periodo di Per la guerra tra Venezia e
Ferrara, vedi Marin Sanudo, Commentari della guerra di Ferrara, Venezia, 1829,
7; Muratori, XXIV, 257. Du Mont, Corpus Diplom., Ili, 2, 128. Cipolla, Storia
delle Signorie Italiane dal 1313 al 1533, Vallardi, Milano, 1881, 603-640. 14
guerra, così lontana da quella che i suoi studi umanistici rendevano idealmente
gentile, avrà certo contribuito a far abbandonare al nostra ogni pensiero di
partecipazione alla vita politica e di scegliere tra l'instabile carriera di
principe e la missione di dotto, questa che gli apriva la via a una meta pili
certa e duratura. Già fino dai primi anni aveva sperimentato la precarietà
della vita principesca, quando poco dopo la morte del Padre, avvenuta nel 1468,
i suoi fratelli vennero a contesa per la supremazia del loro staterello, e di
cui si ebbe il primo epilogo nel 1473, avendo Galeotto fatto prigione il
fratello Anton Maria. Questi, liberato dopo due anni di, carcere, si vide
spogliato dei beni paterni e costretto a cercar asilo presso il Papa e il duca
di Calabria, i quali con grandi sforzi e soltanto^ mediante l'intromissione di
Ercole, cognato di Galeotto, riuscirono nel 1483 a farli venire a un
accomodamento. Galeotto ebbe il dominio della Mirandola e del territorio e il
conte Anton Maria fu ammesso a condividere il potere in moda che i due non
dovessero pregiudicare alle ragioni della terza parte dell'entrata di detta
terra che spettava al loro fratello Giovanni. Il nostro Cfr. Memorie stor.
della ciità e dell'antico ducato della Mirandola, tomo unico, Mirandola, 1874,
IL 15 per essere più libero di attendere a' suoi studi, declinò ogni
inframettenza nelle cose che gli appartenevano, e incaricando il fratello
maggiore dell'amministrazione di ogni suo avere, partì alla volta di Pavia col
suo maestro di Greco, Manuello Adramitteno, mentre col compatriota di questi,
Elia del Medigo di Candia, con cui aveva già cominciato a studiare ebraico a
Padova, rimase in relazione epistolare. Il suo soggiorno a Pavia dovette essere
di breve durata, perchè alla fine del 1482, lo ritroviamo ancora a Padova, di
dove indirizza, il 22 dicembre, una lettera al Ficino, la cui fama d'interprete
e volgarizzatore delle opere platoniche e alessandrine si diffondeva ovunque .
Il Cassuto basandosi su alcuni passi ebraici di Elia, ritiene non risponda al
vero la congettura avanzata dal Della Torre (Storia dell'Accademia Platonica di
Firenze, 1902, 752) che il Pico, partendo da Padova, conducesse seco Elia. Gli
Ebrei a Firenze nell'età del Rinascimento, Firenze, 1918, 286. Proprio in
quell'anno (6 novembre 1482) usciva la neologia Platonica del Ficino e il Pico
nella sua lettera lo prega di inviargliene una copia e di assisterlo nei suoi
studi i quali come erano stati indirizzati al peripatetismo, voleva d'ora
innanzi integrarli col platonismo. Vi è in questa lettera del Pico una frase
che fa sospettare che egli abbia veduto il Ficino tre anni innanzi e cioè nel
1479: « Cum enim apud te essem superioribus an« nis adhortationes tuae nec
unquam ardenter magis, quam 16 « ex illa in hanc usque diem me totum literis
addisci * id., 373, Ma dove aveva egli veduto il Ficino? Il Della Torre nella
sua opera afferma a Firenze, ma senza portare nessuna prova di questo soggiorno
del Pico nella città dei Medici. Egli stesso dice che il 14 aprile del 79 il
Pico scriveva da Mirandola al Marchese Gonzaga che si recava a Ferrara e il 29
maggio era in tale città. Se coi mezzi odierni di trasporto il fatto non
avrebbe oggi nulla d'inverosimile, non altrettanto può dirsi del tempo del
Pico. Comunque il quesito resta ancora insoluto. Pico dopo aver fatto una nuova
visita a Pavia e dopo avere soggiornato alquanto a Carpi, presso la sorella
Caterina e il nipotino Alberto Pio, del quale era allora precettore l'amico
Aldo Manuzio, si trasferì ai primi del 1484 nella città di Firenze. L'Atene d'Italia
si trovava allora in quel mirabile meriggio in cui la vita sociale era fervida
in tutte le sue innumeri attività e l'arte splendeva in ogni angolo della
città, in ogni manifestazione del popolo. Lorenzo Magnifico aveva potuto, col
suo tatto mirabile, rimettere in equilibrio la bilancia dello stato che aveva
Poliziano, Episi., lib. VII, 7; Calori-Cesis, Vita, ecc., Modena, 1866, 14-15;
DoREZ et Thuasne, Pie de la Mirandole en France, Paris, 10; Berti, Rivista
Contemporanea, t. XVI, 1859, 9; Della Torre, L'Accademia Platonica, 747, n. 6.
18 momentaneamente tracollato con la congiura det Pazzi; mentre i suoi
cortigiani e tali erano il Ficino, Cristoforo Landino, Giovanni Argiropulo
cercavano di attuare un analogo equilibrio nel campo del pensiero e della religione,
mediante l'Accademia Platonica, e il Poliziano teneva alto il nome dello Studio
fiorentino con le sue affollate lezioni di letteratura greca e latina. Quando
il Pico arrivò a Firenze non vi giunse come straniero in mezzo a gente
sconosciuta, ma come un amico desiderato dal Magnifico e dal Poliziano, e come
il benvenuto in mezzo a persone che nulla piìi desideravano che il vedere
aggiungersi alla schiera dei ricchi borghesi e letterati un principe umanista
che veniva a fare pìit bella la corona dei Medici. Tra i tanti letterati che
convenivano nella casa medicea, molti facevano parlare di sé oltre che per la
loro erudizione e dottrina per le produduzioni poetiche, filosofiche e
letterarie. In Firenze il lavoro di preparazione, ormai matura degli umanisti
italiani, cominciava a fiorire in creazioni originali. Il Pico sentiva la sua
inferiorità, nonostante che i suoi tentativi poetici venissero lodati dagli
amici; s'avvide che la stoffa di umanista si era ormai invecchiata e conveniva
ristorarsi a quelle sorgive popolari cui attingevano il Poliziano e il
Magnifico. 19 Fra quanti avvicinava, nessuno gii pareva brillasse di pili viva
luce del Poliziano, e nessuno più degno d'essere preso a modello di un «
novizio e quasi scolaretto», com'egli si giudicava, E c'è quasi
dell'accoramento in alcune frasi della lettera critica alle poesie del
Magnifico in cui, dovendo fare da giudice di un poeta « adolescente » esclama:
«So purtroppo di non potere far parte « io pure di questo albo (di giovani
poeti), nò di « essere così maturo da arrogarmi il titolo di «critico». La
lettura delle poesie dell'amico lo aveva entusiasmato; scorgeva in esse i segni
dei tempi nuovi: una certa « vivida luce », una nativa freschezza che sembrava
scaturire in suolo vergine- In quelle poesie che toccavano tutte le corde della
vita: laudi mistiche e religiose, canti satirici e burleschi, canoni d'amore e
« carnesciali »., Lorenzo Magnifico gli si rivelava grande poeta. Tali poesie
gli ricordavano i due pii^i grandi poeti della letteratura italiana: Dante e
Petrarca. Aveva del primo la maestosa serenità del verso « aspro e stringato »
quale si addice a poesia di argomento filosofico, senza però essere come quegli
«impolito e rude»; del secondo la «molle tenerezza * propria della poesia erotica
con in pili la maschia robustezza (iorosus) dell'uomo d'azione. Ciò che spiace
nel Petrarca è il notare qualche freddezza e ridondanza nel verso e una 20
certa ostentazione nell'uso delle parole che tradiscono il lavoro di lima,
mentre in Lorenzo ogni parola appare al suo posto «con naturalezza». Dante vola
sublime e mesce con dignità severa le cose gravi dei filosofi cogli scherzi
degli amanti, ma Lorenzo nell'aver saputo cospargere qua e là versi ilari e
graziosi «sembra abbia superato Dante». Tuttavia se Lorenzo appare più fine,
Dante resta più grande. Questa lettera scritta a Firenze nel luglio del 1484
per l'acutezza di alcuni giudizi, incontrò favore presso molti amici e fu uno
dei primi passi verso la capacità critica del nostro autore il quale, se si è
lasciato prendere la mano dal calore della prima impressione e dalla simpatia
che lo faceva indulgere troppo verso Lorenzo bisogna del resto tenere presenti
le circostanze singolari in cui nacquero queste poesie di Lorenzo, le feste
pubbliche in cui giovinetti e fanciulle le cantavano, le mascherate in cui
venivano recitate rivela tuttavia un acume penetrante e misurato. La frase quo
mihi videris Dantem exsuperasse, potrebbe sembrare una Opera, 349-50. Cfr.
Carducci, Cavalleria e Umanesimo, t. XX delle opere, 1909, 258; ROSCOE, The
life of Lor., ecc., London, 1800, voi. II; Thuasne et Dorez, op. cit., 15;
Geiger, Renaissance und Humanismus in It. und DeuL, Berlino, 1882. Vedi infine
il bello studio di SCARANO, Le selve d'amore in Nuova Antologia, voi. 131,
1893, 49-66. 21 recisa dichiarazione circa la superiorità dell'ingegno del
Magnifico, rispetto a quello dell'Alighieri, mentre si riferisce solamente
all'espressione formale in voga a quei tempi che tenevano in gran pregio V
hilaritatem gratiamque in cui Lorenzo era maestro. Naturalmente il Pico non
poteva rassegnarsi a rimanere semplice amatore di poesia in mezzo a tanti dotti
che avevano pagato piiì o meno il loro tributo alle Muse; voleva anch'egli dare
qualcosa di suo per sottrarsi a quel senso d'inferiorità che gli era reso tanto
piiì penoso quanto piii sentiva in sé lo stimolo della gloria e il sentimento
della propria ca pacità. S'indusse dunque a pubblicare i suoi versi,
distribuendoli in cinque libri, e inviò il primo ad Angelo Poliziano perchè lo
correggesse e criticasse. « Voglia tu essere, gli scriveva, giudice equo non
iniquo, cioè severo, non indulgente ». E il Poliziano gli rimandava il
manoscritto corretto di alcuni versi difettosi, con questo giudizio che non è
privo di grazia lusinghiera: «Ho corretto alcuni versi non perchè li
disapprovassi, ma perchè sembrano cedere ad altri più belli». Il Pico lusingato
sulle prime da simile benevolenza dell'amico per i suoi componimenti poetici,
dei quali in un'altra lettera aveva Opera, detto: . Ecco la Conclusione Si quis
in • opere prnecedentis conclusionls intellectualiter operabi • tur, per
mcridiem li^^abit septentrionem, si vero mun • dialiter per totum operabitur,
iudicium sibi opcrabitur ». 107. Conci. 21, Opera, 107. Conci. 11. 105-10^1.
(4) • Non potest operari per puram Cabalarli qui non est « rationaliter
intellectualis >. Id. 109. 112 mondo, compose il suo Heptaplus o settemplice
spiegazione dei sei giorni della Genesi. In quest'opera del Pico, in cui
l'elemento lirico prevale talvolta sulla serena spiegazione cosmogonica, i tre
mondi: il divino, l'angelico, e l'elementare, sono legati da un'intima armonia.
« Haec satis de tribus mundis, in quibus illud in « primis magnopere
abservandum unde et nostra « fere tota pendet intentio esse hos tres mundos «
mundum unum, non solum propterea quod ab « uno principio et ad eundem finem
omnes refe« rantur, aut quoniam debitis numeris temperati et « harmonica quadam
naturae cognatione atque or« dinaria graduum serie colligentur ». L'uomo, in
questo sistema, è il compendio dell'universo, la sua figura rappresenta i tre
mondi, l'intellettuale, il celeste e il corruttibile; è quindi un piccolo mondo
. Ma l'armonia non dev'essere solo una legge dell'universo, un dato della
realtà in tutte quante le sue manifestazioni, essa deve regnare anche nel
pensiero dell'uomo, e ogni prodotto dell' in Heptaplus. Prefatio, id. 6. « Nam
si homo est parvus mundus utique mundus « est magnus homo, hinc sumpta
occasione, tres mun« dos, inteliectualem, coelestem et corruptibilem, per tres
« hominis partes, aptissime figurai ».61. 113 tcllctto deve seguire la legge
musicale. Come nei mondo esteriore all'armonia si contrappone il disordine,
cosi anche nelle discipline intellettuali prevale molte volte la discordia,
prodotta dalle basse passioni. È scopo nobilissimo quello di cercare l'armonia
e di far notare la concordia anche nelle teorie più disparate. Questo scopo il
Pico se lo prefigge nell'opuscolo De Ente et Uno. Era vecchia la questione se
Aristotile si opponga a Filatone nella determinazione dell'essere e dell'uno.
La scuola platonica ammetteva la superiorità dell'essere sull'uno (unum esse
superius), mentre Platone nel Sofista ne proclama l'identità (!'. Com'è facile
comprendere, i primi avevano preso l' ipotesi per la tesi, e attribuivano come
pensiero del maestro ciò che non era in fondo che la loro erronea
interpretazione. Quando parliamo dell'essere, intendiamo con questo tutto ciò
che è al di fuori del nulla, e in questo senso Aristotile aveva detto che l'um»
è uguale all'essere 2). « tnim vero in Sophistc in liane scntcntiam po« tius
loijuitur esse unum et ens aequalia •. 243. « Quomodo usus est Aristoteles cum
uniens ae. quale fecit. Nec dictionem absque ratione sic usurpavit. « nam ut vere dicitur
sentire quidcm ut pauci. loqui autein ut plures debemus. Contro quei Platonici moderni che presumonodi avere
dalla loro Dionigi l'Areopagita, possa affermare, soggiunge il Pico, che
Dionigi è piuttosto della mia opinione, e gli avversari si trovano nel dilemma
di dover dire che Dio è e non è nello stesso tempo. L'essere in sé che diciamo
Dio, non è l'essere che noi intendiamo, vale a dire l'essere concreto^ ma
quella superentità, che è la pienezza di ogni essere e che non procede altro
che da sé stesso . Noi dobbiamo ritenere l'uno superiore all'essere nel modo
stesso che si dà a Dio l'attributo dell'unità, principio di tutti i numeri.
Cosi si spiega se gli Accademici attribuiscono a Platone l'affermazione che
l'uno è superiore all'essere; senza dubbio intendevano parlare dell'uno
principio di tutte le cose, che è Dio. Nel V Pico espone i modi secondo cui
perveniamo alla divinità, i quali però sono sempre inadeguati a farci
comprendere piena Sed et Dionysius Areopagita quem qui centra « POS disputant
fautorem suae sententiae faciunt non ne• gabit vere a Deo apud Mosen dici Ego
sum qui sum ».244. « Hac igitur ratione vere dicemus Deum non esse « ens, sed super ens, et
ente aliquid esse superius ».245. 115
mente Dio (I). Questi modi sono qiiatii i li f^ico li chiama gradi
dell'ascensione dialettica a Dio; essi corrispondono alle qualtro forme
musicali che abbiamo analizzato. La prima forma, poiché si rivolge ai sensi coi
suoni, ci fa conoscere che Dio non ò forma corporea, come insegnano gli
epicurei e gli Stoici. La seconda che è l'ars numeranJi, ci fa intuire
nell'essenza divina qualche cosa che va al di \h della vita,
deirintelligibilitc^, e cioè la deità che 6 in sé. si raccoglie e si unisce non
come uno fra molti, ma come uno innanzi a molti (2. Colla terza forma, che Pico
fa corrispondere alla Magia naturale, c'imposessiamo delle leggi stesse che
presiedono ai destini umani e nell'ordine mirabile dell'universo Dio ci appare
non solo come la bellezza che traluce in ogni cosa, come il vero che può essere
frammentariamente presente nelle più differenti dottrine, ma sopratutto come
bontà, poiché l'universo rivela essenzialmente un valore etico. La quarta
forma, che nella gradazione pichiana e la Cabala pura, ci • Deus enim nmnimoda
et infinita pcrfectlo est. • Deus ipse sua unica pedectione. quae est sua «
infìnitas. sua deitas. quae ipsc est, in se unit et colligit. « non sicut unum
ex illis multìs, scd unum ante illa multa >.249. 116 mette in rapporto
diretto con Dio, senza peraltro farcelo ben comprendere. Dio infatti non è solo
ciò di cui non può pensarsi nulla di più grande, come dice S. Anselmo, ma ciò
che è infinitamente pili grande di tutto ciò che può essere pensato. In questo
quarto grado la nostra mente è come ottenebrata da caligine, si da poter appena
intravvedere l'essenza di Dio elevantesi al di sopra della stessa unità, bontà
e verità, e innanzi a cui conviene solo, come dice David, il silenzio: « Tibi
silentium laus». Il silenzio! ecco la musica, la sola musica che convenga a
Dio. Al filosofo musicale, è subentrato il mistico, l'uomo cioè che rinnega
ogni armonia, ogni bellezza formale e si ritira in quel mondo chimerico in cui
la tenebra ha lo stesso valore della luce, il silenzio ha uguale malìa del
suono. Gli ultimi anni del Pico sono caratterizzati da una vita di fervido
misticismo unicamente spesa per l'amore di Dio e il bene della Chiesa. A Dio
egli dedicò lo scritto In Orationem dominicam ex oEx quibus colligi illud
potest non solum esse « Deum, ut dicit Anselmus, quo nihil maius cogitari po«
test, sed id esse, quod infinite maius est omni eo quod « potest excogitari. «
Ego vero dico Chimaeram quam mente conci« pimus. 117 positio; per la Chiesa
scrisse l'opera poderosa: In Astrologiam. Nella prima, che è un'analisi
dell'orazione domenicale, preceduta da un'enunciazione delle teorie del Pico,
l'elemento musicale è intimamente connesso a quel desiderio il cui obbietto è
il sommo bene. Diremmo che quanto più la preghiera è elevata e disinteressata,
tanto più è pura musicalità. Quando l'uomo prega non per chiedere favori o
qualche bene immediato, ma per essere purificato dai peccati, per raggiungere
la dolce contemplazione dei beati e conseguire la purezza degli angeli , allora
egli è in contatto di quel profondo io, che, come si esprime il Tagore rivela
l'intima natura dell'uomo « più che « il bisogno di sostentamento per il suo
corpo, « più che la sua avidità di onori e di ricchezze. « E quella preghiera
non proviene solo da lui, «essa è nella profondità di tutte le cose, è l'in •
Scimus autem illud esse sumnie desiderandum « quod est summum bonum •. Opera,
fol. a 1. Et monebimur ad petendum hoc efficacissime su« per omnia a Dee ut
praeservet nos a peccato. Nihil aut « de rebus huius mundi, aut de gratiis gratis
datis vel « desiderantes, vel a Dee petentes. Diximus igitur nihil « ex his
honis... adiumento esse sicut scientia et dulcedo « contemplationem... ^fol. a 2. «cessante stimolo in lui deW Avih,
dello spirito « di eterna manifestazione. Nell'opera contro gli astrologi, nel
mentre il Pico ribatte uno per uno gli argomenti degli avversari che si
erigevano a paladini dell'astrologia, prende occasione per esporre le sue idee
sulla forma e le leggi degli astri, e per far rilevare anche quella superióre
armonia in virtù delia quale si compone l'apparente disordine del cielo
stellato. Intanto fa risaltare subito che è assolutamente arbitraria la
configurazione dello Zodiaco, come fantastiche e ridicole sono le
rappresentazioni animali di cui gli astrologi popolano il cielo. Bisogna
premettere che l'opera del Mirandolano rispondeva a un bisogno del tempo in cui
era tutto un rifiorire di pregiudizi astrologici, magici e negromantici. Il
Pico che in questo tempo (1492) frequentava il Monastero di S. Marco, in cui
convenivano (5) Tagore, Sadhana, reale concezione della vita, tradCarelli,
Carabba, Lanciano. Cfr. Semprini, La preghiera nell' Imitazione di Cristo e
suoi rapporti col misticismo, in Rivista di Psicologia. Quod nos in universum
primo declarabimus, tum « singillatim, quascunque aliquis Astrologorum signavit
co« niunctiones magnas, retulitque ad eventa rerum admi« rabilium, et falsas et
falso supputatas et ad effectus falso « relatas, luce clarius ostendemus lanti
ammiratori del Savonarola, dovette sentirsi stimolato dal frate ad impugnare
quell'arma potente contro la pretesa degli astrologi, che consisteva nel far
dipendere i miracoli dal potere diretto di Dio e quindi dalla sua grazia, non
già dall'influsso degli astri. Era ben vero che egli andava con questo un pò
contro le convinzioni care de' suoi amici, contro il fervore delle idee
astrologiche del suo tempo e in parte contro certe convinzioni sue
precedentemente manifestate. Ma appunto in questa serie di contrasti, la natura
sua battagliera trovava stimolo ad agire e a incanalare le aspirazioni del suo
cuore dietro le orme del Savonarola. Era propria dei popoli primitivi la
concezione che il mondo fosse un vasto organismo le cui parti sarebbero unite
da uno scambio incessante di molecole e di effluvi. Gli astri, generatori di
energia, agiscono costantemente sulla terra e sull'uomo, e l'uomo ha il suo
destino segnato in una delle tremolanti stelle che vibra nella sua corsa pei
cieli insondabili in armonia con quell'essere umano. Tale concezione
sopravvisse nel mondo greco, s'impose agli scrittori latini, ricomparve arricchita
di una vasta letteratura nel medioevo e nel Rinascimento. Al tempo in cui il
Pico scrisse la sua polemica il tema astrologico trovava dei cultori 120
appasionati e già Ambrogio Traversari, Paolo del Pozzo Toscanelli e Matteo
Palmieri avevano preparato, colle loro discussioni nel convento degli Angeli in
Firenze, la materia per i difensori e gli oppositori dell'astrologia. Era pur
sempre in questi lontani e talvolta semplicisti precursori della Astronomia
moderna, l'aspirazione a poter misurare il corso dei pianeti, ridurre in
numeri^ in intervalli di tempo la danza delle infinite stelle i cui movimenti
complessi producono « l'armonia delle sfere » . Ma il Pico, sebbene avesse
avuto un concetto così grande della potenza dei numeri e avesse propugnato la
sua ars numera/idi, quando vide con quale leggerezza fossero numerate le plaghe
del cielo (universas coeli partes) e con quale baldanza venissero attribuite ad
esse le diverse qualità della natura umana (diversas in rebus naturalibus
proprietates), reagì con la voce del buon senso. È impossibile trovare
un'affinità matematicamente determinabile fra le figure del cielo e le
affezioni umane, com'è anche assurdo voler determinare dai segni, dalle case e
dalle con Soldati, La Poesia Astrologica del Quattrocento, Firenze, Sansoni. «
Erraticae stellae per zodiacum aequo cursu non « deferuntur, hoc est non
acquali temporis intervallo... qui « igitur metiri illorum motus et dirigere in
numeros volu«erunt ».561. 121 giunzioni degli astri, il sesso, le qualità fisiche
e morali degli individui. Anzi il Pico sembra andar contro persino alla sua
favorita idea dell'armonia che gli faceva vedere rapporti musicali non solo
negli oggetti tra loro ma anche fra la natura e l'uomo. Egli crede che si
voglia correre troppo quando si applicano questi rapporti musicali agli astri,
poiché la loro infinita distanza rende impossibile qualsiasi esatta
determinazione. Vi sono dei moderni, egli dice, che vorrebbero trovare delle
dissonanze e delle armonie negli astri; come i musici le trovano fra le diverse
voci del suono. Troverebbero delle assonanze, come tra la terza e la quinta, o
dissonanze fra la quarta e la settima, anche tra i triangoli stellati della
quinta e i quadrati della quarta. Ma è un volere, soggiunge il Pico, prendere
per realtà ciò che non può essere che similitudine. Non vi sono spazi celesti
muti, altri dissonanti, altri armonici, perchè il cielo non emette voce alcuna.
Excogitata postremo neotericis quibusdam de « musicis consonantiis alia ratio,
ex qua radios planeta« rum tum concinnere invicem, tum dissonare harmonia« rum
quadam similitudine tradunt. Est enim, inquiunt, apud « musicos comprobatum
ratione et experientia tertiam vo« cem et quintam primae consonare, quartam
vero et sep« timam nequaquam. Nos vero ut omittamus istas in tam diversis re«
rum generibus similitudines, efficaciam, rationem decla 122 Vi è sì l'armonia
anche nell'universo stellato, la legge musicale vige anche in mezzo alle
erranti comete e all'immobile fascia lucente della via Lattea. Ma questa
musicalità è avvertibile da ben altri orecchi che non siano questi sensibili,
essa appartiene a quel grado di cui la musica dei suoni è la forma più
grossolana e, per essere gustata, richiede un processo laborioso della mente
umana, un'elevazione spirituale che non a tutti è dato raggiungere. Nondimeno
tale elevazione fu raggiunta e quei pochi tra i mortali che hanno potuto
gustare il concento della sinfonia universale, si sono sforzati di tradurre le
impressioni in quelle forme del nostro linguaggio che obbediscono più
visibilmente alle leggi della musica. Nell'opera del Mirandolano contro gli
astrologi si trova spesso citato il salmo XVlll in cui il profeta Davide fa
risaltare la grandezza di Dio, richiamandosi all'armonia del firmamento. . E
invero pochi brani delle varie letterature possono rivaleggiare con questo
salmo che sintetizza e rende quasi, con sublime laconicità, il linguaggio'
degli astri. « Coeli enarrant gloriam Dei, et « opera manuum eius annuntiat
firmamentum. « rabimus non habere atque computationem et similitudi« nem non
procedere... sed (coelum) nuUam vocem emit« tit ». Opera, Non sunt loquelae,
neque sermones, quorum « non audiantur voces eorum. « In omnem terram exivit
sonus eorum : et in « fines orbis terrae verba eorum». Il suono della musica
stellare è cosi diffuso e riempie di sé ogni punto della terra, che non c'è
creatura che non goda di una tale armonia e non esulti alla vista del re degli
astri che • spunta fuori qual gigante per correre il suo cammino». La musica
degli astri ha la sua scala e le note, di cui questa si compone, risuonano in
modo diverso nel cuore umano. L'uomo, se è proclive ai beni frivoli della vita,
non trova negli astri un'armonia diversa da quella che ci descrissero gli
astrologi. Se intende l'armonia degli astri da un punto di vista naturalistico,
considera il cielo alla stregua di tutte le cose create soggette a
trasformazione. Le stelle percorrendo le loro orbite sono illuminate da altri
astri a volte compagni inseparabili, a volte sconosciuti che incontrano forse
una volta sola per non più rivedere nel periodo lunghissimo della loro
esistenza, durante la quale mostrano la giovinezza nelle iridescenze del verde
aranciato, la pienezza matura nella chiarità bril «In sole posuit tabernaculum
suum: et ipse tamquam sponsus procedens de thalamo suo: Exultavit ut gigas ad
currcndam viam •. Ps. XViiI, 5. 124 lante, l'agonia nel tremulo guizzo di
porpora. Ma se invece l'uomo cerca nel cielo un simbolo, nelle leggi che
regolano il corso delle sfere un termine di confronto per le leggi eterne che
sgorgana dal profondo del suo io, allora egli non può non proiettare in questi
mondi, così lontani dalla propria esperienza, la trama delle sue piij squisite
elucubrazioni. S. Agostino ci ha descritto in alcune pagine delle sue Confessioni
il momento in cui egli con la madre Monica, ragionando della felicità eterna di
fronte al mare di Ostia, fu compreso da quelle squisite risonanze che
sembravano provenire dall'alto. « Peragravimus gradis cuncta corporalia et « ipsum coelum
unde sol et luna et stellae lucent « super terram ». Dinanzi a quella musica tutto quanto sapesse di suono
era uno strepito^ anche il timbro della voce più cara parlante di cose
spirituali: «Et dum loquimur et inhiamus illi, at« tingimus eam modice toto
ictu cordis et suspi« ravimus et relinquimus ibi religatas primitias « spiritus
et remeavimus ad strepitum oris no« stri, ubi verbum et incipitur et finitur.
Tutto doveva finire e scomparire dinanzi a ciò che era la vera realtà, la
musica celeste. « Si cui AUG. Conf. « sileat tumultum carnis; sileant phantasiae ter« rae
et acquarum et aeris, sileant poli et ipsi * sibi anima sileat et transeat se
non se cogi« tando. Sileant sommia et imaginariae revelatio« nes, omnis lingua
et omne signum,et quidquid *transeundo fit, si cui sileat omnino ». Ecco espresso con linguaggio umano ciò che
rappresenta la musica pura, il misticismo. Il silenzio profondo, ottenuto con
l'astrazione da ogni flusso del tempo, da ogni ritmo che accompagna le cose
viventi, da ogni procedimento verbale che esprime il pensiero, è indispensabile
per metterci in contatto con V Armonia, che, come ben la definì il Pico, è
quella legge suprema in cui si compone ogni discordia, si rappacifica ogni
contesa, si unifica ogni cosa dispersa. Tale è la dottrina occulta del Pico,
dottrina che, pur avendo nel suo autore diverse denominazioni : ars numerandi,
ars combinandi, alfabetaria revolutio, si riduce a un concetto sempre chiaro
nello spirito dell' autore: musicalità o armonia. Ciò che ci riempe di ammirazione
per il Pico è il vedere come abbia saputo valorizzare tutto ciò che nel mondo e
nella vita vi è di occulto € di misterioso, come protendesse sempre lo {!>
AuG., Con/., lib. IX, cap. X. 126 sguardo suo curioso al di là della natura
fenomenica e cogliesse da ogni dottrina, da ogni scuola, da ogni manifestazione
del pensiero anche meno evoluto, anche più avvolto nelle favole e nei miti,
quegli sprazzi di luce sulle arcane verità che accendevano ognora la sua
fervida immaginazione. Ed è bello vedere questo giovane dovizioso e fervente
compreso della verità di questa dottrina occulta che, pur essendo implicita
nelle più antiche filosofie, dalla Pitagorica alla Platonica, dall'Egiziana
(Ermete Trimegisto) alla Cabalistica, non ha mai trovato alcun assertore della
sua importanza metodologica, di scienza, cioè, atta a farci penetrare nel
sacrario delle segrete discipline. È bello pure vederlo sostenere la bontà
della sua dottrina contro gli oppositori e i giudici del santo uffizio. Egli si
sforza, è vero, di trovare qualche scappatoia per sfuggire alla condanna e si
rifugia nella casistica della scolastica, quando distingue una Cabala vera
(tradita) da una falsa, una Magia naturale, da una illegittima; ma, pur
attraverso i suoi distinguo, egli afferma solennemente la lealtà delle proprie
intenzioni, la sua sincera dedizione alla verità. Convinto che la sua dottrina
esigesse da parte degli esaminatori una competenza in materia occulta, cioè una
vera e propria iniziazione, egli prega gli amici e i nemici, i buoni 127 e i
cattivi, i dotti e gl'ignoranti che vogliano leggere i suoi scritti, con quella
purità d'intenzioni da cui era stato mosso nel redigere le Tesi. E poiché molte
cose da lui dette potrebbero trarre in errore coloro che non hanno pratica di
scienze occulte, spera che ciò che è stato scritto per gì' iniziati non venga
esposto pubblicamente a tutti, perchè sarebbe come dare le perle ai porci e
peggiorare la sua causa. Nel corso della narrazione vedremo come venissero
ascoltate queste parole, e come rimanesse il nostro fedele alla sua dottrina
esoterica . (Il «Oro igitur, obsecro et obtestor amicos et inimi« cos, pios et
impios, doctos et indoctos... non explicitas « non legant, quando Inter doctos
eas proposuimus di« sputandas, non passim legendas omnibus pubblicavimus ».
Opera, 237. Parte di ciò che formava il contenuto di questo doveva essere
pubblicato nella collana Ritmo f ndata da Diego Ruiz, alle cui idee originali
sul concetto di musica, benché contrastanti con le mie, devo rendere qui
omaggio. La pri:xioiiia del Pico in Francia. 8cc(MmIo soggiorni» a Firenze Pico
clic riguardava la città di Parigi come un luogo in cui sarebbe più facile
ottenere quel successo che a Roma non aveva potuto conseguire, s'incamminò
sulla fine del 1487 alla volta di Francia. Innocenzo Vili, non contento degli
ordini impartiti alle autorità religiose perchè denunciassero o impedissero
ogni tentativo del Pico per divulgare le sue Tesi e la sua Apologia, si rivolse
anche all'autorità secolare, come fece con un breve indirizzato ai sovrani di
Spagna, fi) Bolctin de la Rcal Accademia de la tìisioria, Madrid, Pico de la
Mirandula y la inquisición cspanola. Breve inedito di Innocenzo Vili, cfr.
DoREZ et Th, op. cit., 71, n. 1. 130 perchè si procedesse all'arresto del Conte
recidivo. Nel Gennaio dell'anno seguente mentre il Pico attraversava il
Delfinato, veniva a conoscenza del breve del 5 agosto « essendo io nel cammino
di Pranza», e fatto arrestare dal Signore di Eresse, zio del re di Francia e
governatore del Delfinato. L'ordine di questo arresto si spiega subito: avendo
il papa inviato in Francia ai primi di Gennaio due nunci di valore Leonello
Chieregato , vescovo di Traìi e il protonotario Antonio Flores, per trattarvi
affari di grande importanza, come il processo dei vescovi che si erano
dichiarati contro la reggente, e il ritorno alla Prammatica Sanzione, incaricò
pure costoro di far ottenere l'arresto del Mirandolano. Ed essi con una tenacia
«degna di cagnotti polizieschi », riuscirono, malgrado che in favore del Conte
intercedesse presso il re l'ambasciatore del duca di Milano, a farlo trattenere
in carcere. La rocca di Vincennes nella quale venne rinchiuso il giovane conte,
dovette ispirargli ben tristi riflessioni sul proprio avvenire con la
prospettiva di una lunga prigionia. Forse allora piia che mai avrà sentita a sé
(1,1 BERTI, /. e. doc. I, 52. Simeone Ljubic, Dispacci di Luca de Tolentis e di
Lionello Chieregato, Zagabria, 1870, 9-11.Cfr. DoREZ. et Th. op. cit., 72, n.
2. 131 vicina l'ombra del grande Origene, le esperienze della cui vita egli
ripeteva con non poca somiglianza! Ma se il Pico aveva dei nemici che tentavano
ogni mezzo per perderlo, contava altresì amici che sinceramente lo amavano, e
che non l'abbandonarono nella sventura. La figura del Magnifico assume, durante
questa drammatica vicenda, un aspetto del tutto nuovo e simpatico, forse perchè
ci è meno noto, e tanto meglio riconosciamo l'umanità del suo cuore, in quanto
sta a lui di fronte l'anima intransigente di Giambattista Cybo, che portò sulla
Cattedra di San Pietro i difetti della sua scarsa intelligenzaLa lettera che
scrisse in questo tempo (19 gennaio) Lorenzo al Lanfredini, il quale non appare
molto ben disposto verso il Pico, è una bella testimo (Ij Fu la sua bolla
contro la stregoneria (1482) che elevò, per dirla col Symonds, a metodo la
persecuzione contro disgraziate vecchie e idiote. Lo Sprenger nel Malleus
maleficarum nota che, nel primo anno dopo che quella fu pubblicata, 41 streghe
furono bruciate nel distretto di Como. Intorno alle persecuzioni contro le
streghe nella Valtellina, vedi Cantù, Storia della Diocesi di Como, e Folengo
nella sua Maccheronea. Non bisogna però disconoscere il debito che deve a
Innocenzo Vili l'Università di Roma «sotto il quale co« minciò a respirare, e a
riprendere in gran parte il vigore « e il lustro primiero ». RoviNAZZi, Storia
dell' Università degli studi di Roma, Roma, 1803, 196-197. 132 nianza dell'
affetto che Lorenzo nutriva per il giovane Mirandolano. Essa dice che le molte
persecuzioni che in Roma si tramano contro il Pico, potrebbero menarlo per
disperazione a « qualche via cattiva»; che è piiì facile riuscire nell'intento
con le maniere dolci che con bolle e scomuniche, che avendo fatto esaminare
l'Apologia a persone religiose e dotte e intelligenti, le quali non trovarono
nulla contro la fede, non può comprendere perchè si voglia essere così
intransigenti, massime quando chi ha scritto tali cose è un « giovane
doctissimo et fresco su la doctrina». Meno nota ancora è la parte che ebbe in
favore del Pico Chiara Gonzaga, sorella del Marchese Francesco di Mantova, la
quale, andata sposa nel 1481 a Gilbert di Montpensier della Casa Borbonica,
cooperò con insistenza presso il consorte, così che questi « motus praecibus et
commendationibus « quae ex Italia mittebantur » , ottenne che il re Carlo Vili,
che non nascondeva le sue simpatie verso l'illustre erudito, menasse le cose
per le (Ij Berti, 1. e, 32. (2i « Numerose lettere gli arrivavano ugualmente
dal« r Italia, in cui contava molti amici, tanto alla Corte di « Milano che a
quella di Roma, i quali lo pregavano di « usare tutta la sua influenza sul re
in favore della causa « del Mir. » Dorez et th,. op. cit., 97. V. anche nella
stessa opera appena, doc. V, 4, 133 lunghe. I nunci, frattanto, la cui opera
svolta in rigida conformità ai brevi pontifici, è ampiamente trattata col
sussidio di preziosi documenti dal Dorez e dal Thuasne nell'opera piìi volte
citata, dovendo lasciare Parigi per accompagnare la Corte « pour l'expédition
des autre affaires dont ils étaient chargés », incaricarono il vescovo di
Grenoble, Laurent Allemand, di volerli sostituire. Ma ormai era troppo tardi:
il Pico, dopo una prigionia di circa un mese, venne posto in libertà, e potè
passare il confine. Corse allora la voce ch'egli si fosse recato in Germania,
avendo più volte espresso il desiderio di visitare la biblioteca del Cardinale
di Cusa e di fare acquisto di libri. Si disse pure che fosse stato invitato dal
re di Castiglia, Ferdinando, che si era mostrato desideroso di riceverlo
onorevolmente nel suo regno . il vero si è che il Pico ripassò le Alpi e giunse
all'ospitale Torino. Mentre attendeva a riordinare in questa città le sue cose,
libri e ba ll i DOREZ et Th. op. cit., 92. Qual'era il movente di questo re, si
domanda il Dorez, la cui slealtà e perfidia sono i suoi caratteri salienti, ad
invitare nel suo regno il Pico? Forse per impadronirsi della sua persona e
consegnarlo al Santo Uffizio per ingraziarzi Roma? l'ipotesi non è
inverosimile. Op. cit., 99-100. 134 gagli, che durante la cattura erano stati
manomessi, e a scrivere in tal senso a Filippo di Bresse e ad altri personaggi,
di cui ora non aveva piiì nulla a temere 0); ricevette una lettera dal Ficino
(30 maggio) che gli offriva 1' amichevole protezione del Magnifico e lo invitava
a Firenze. Intanto nell'animo dei nunci si era prodotto un cambiamento
singolare, come lo dimostrano le parole con le quali terminano uno dei loro
rapporti al papa: « Existimamus qiiod bonum esset si Sanctitas Vestra « eius
conversioni et ad gremium suum reductioni « operam darei » . Tuttavia l'animo
del pontefice era lungi dall'essere placato e disposto a rimetterlo nella sua
buona grazia; forse gli suonava sgradita la frase con cui il Pico lo aveva
qualificato nell'Apologia: cui ab innocentia vitae nomen meritissimum. Si sa
infatti che Giovan Battista Cybo, prima di abbracciare lo stato ecclesiastico,
visse nella depravata Corte aragonese, conducendo una vita punto migliore dagli
altri, ed ebbe due figli naturali : Teodorina e Franceschetto. Sebbene, come
osserva il Pastor, non si abbiano testimonianze sulla sua condotta morale,
allorché entrò nello stato sacerdotale, pure quando fu divenuto papa, Op. cit,
100-101. Docum. V, 6, cit. dal DoREZ et Th., op. cit, 162 € anche -correvano
voci sopra altri figli, ed è notorio un epigramma del poeta Marnilo che taluno
prese alla lettera: . Octo nocens piieros genuit, totidenque puellas; Hunc
merito potuit dicere Roma patrem •. Del resto è con questo papa che si accentua
quell'infausta politica che produrrà la piaga del nepotismo da cui tanti guai
derivano all' Italia. Innocenzo Vili pone sulla scena politica il suo figlio
Franceschetto, giovane più che mai dissoluto, il quale « commetteva disordini
tali, che in «un figlio del papa doppiamente sconvenivano », a cui diede in
isposa Maddalena de' Medici, stringendo così parentela con Lorenzo il Magnifico
(l). Questi perorò insistentemente la causa del Mirandolano presso il papa, il
quale da uomo debole ed arrendevole com'era, si lasciava con dì Pastor, 1. e,
197. Se Sisto s'era arricchito colla vendita di ogni sorta di grazie e di
dignità, Innocenzo e suo figlio eressero addirittura una banca di grazie
temporali, nella quale dietro il pagamento di tasse alquanto elevate, poteva
ottenersi l'impunità per qualsiasi assassinio o delitto: di ogni ammenda 150
ducati ricadevano alla Camera papale, il di più a Franceschetto... Per
Franceschetto la questione principale era di sapere come avrebbe potuto
piantare tutti con quanti tesori poteva, nel caso che il papa venisse a morire.
Burckhardt, op. cit., 126. 136 vincere dai malevoli per intentare qualche cosa
di serio al Pico. Ad irritarlo maggiormente contribuirono alcuni famigliari del
Mirandolano, i quali, avendo « troppo temerariamente e super« bamente parlato
contro il papa » erano stati messi in carcere, recando così pregiudizio alla
causa stessa del loro Signore. Questo incidente impensierì non poco il Pico,
cui premeva che le dicerie esagerate a suo riguardo non finissero per
alienargli la simpatia di Lorenzo, e in questo senso chiedeva informazioni al
Salviati, fornendogli le prove della sua incolpabilità in tale faccenda. A
questa lettera rispose il Ficino rassicurandolo della costante benevolenza di
Lorenzo il quale soggiungeva « il tutto volentieri udì e per ciò po« temmo considerare
che nell'animo suo non era « odio alcuno verso di voi, ma tutto amore » . Che
così fosse lo vediamo in un'altra lettera del Ficino (30 maggio 1488) in cui
narra che Lorenzo, pur nel dolore per la morte di una sua figliuola, trova modo
di pensare al Pico, la cui sorte travagliata gli pare simile alla sua, quasi
che un (1 « É ti fa l'effetto di un uomo il quale si lascia consigliare da
altri più anzi che da sé stesso », scrive l'ambasciatore fiorentino il 29
Agosto 1484. 2' Come attesta una lettera del Ficino, lib. Vili, trad. Figliucci
senese, Venezia, fato gravi sulla vita dei principi e degli uomini grandi, il
medesimo, dopo aver accennato da «quanti pericoli sia questo giovane
minacciato», rivolgendosi al Ficino dice: «E voi avete mai di questa cosa
qualche più ascosa causa ritrovato ? » Al che il Ficino risponde, conforme alle
sue teorie, che la causa risiede nelle essenze che presiedono, come ai vari
ordini di uomini, alle congiunzioni dei pianeti; per cui essendo tanto Lorenzo
che il Pico nati sotto la «copula di Saturno», i demoni di questo sono
ostacolati da quelli di Marte. Tuttavia siccome Saturno è superiore a Marte,
così i demoni che presiedono alla loro sorte, avranno il sopravvento su quelli
avversari (1 ). Questa lettera illustra l'indole mistica e superstiziosa del
Ficino, il quale dilettavasi di predire il futuro agli amici, e a proposito del
Pico soleva dire che era nato l'anno in cui egli aveva posto mano alla
traduzione di Platone, ed era venuto a Firenze il giorno e l'ora stessi della
publicazione. Il Pico da parte sua si tenne sempre esente da queste
aberrazioni, grazie a quell'amabile ironia insita nella sua natura. Ecco
com'egli scherza sul significato del pianeta Saturno e sulla fede che l'amico
dimostra nell'influsso delle stelle. « Forse, 1» lib. Vili, 119-120. 10 138 «
dice, Saturno non è cosi propizio come voi as« serite, perchè il suo moto
retrogado comunica « la stessa direzione ai vostri passi ogni volta «che
v'incamminate per venire da me, perchè «per ben due volte siete tornato
indietro*. Ritornando a Lorenzo, questi non si lasciava sfuggire
nessun'occasione per rendersi utile al Conte. Essendo di passaggio per Firenze
Anton Maria, fratello del nostro Giovanni, che si recava a Roma, Lorenzo lo
incarica di « operare gagliar« damente per indurre il Pontefice a far venire a
« Roma il conte Giovanni. A me piacerebbe que« sta venuta perchè forse
(Giovanni) purgherebbe « questa sua calunnia et contumacia, et sua San« tità lo
raccoglierebbe in grazia » . Veramente nessuno sembrava più indicato a perorare
presso il Papa la causa di Giovan Pico del fratello Anton Maria, il quale
godeva la benevolenza di Innocenzo Vili, ed era dal medesimo protetto in ogni
contesa che, a causa della signoria della Mirandola, aveva col fratello maggiore
Galeotto. Ma non pare che quegli si desse molto d'attorno per Giovanni, e il
Papa era pieno di un si osti li) Epist. libr. Vili, 120. Dal carteggio mediceo,
riportato dal Berti nel suo studio 1. e, 35. 139 nato rancore, che nulla valeva
a migliorare la situazione del Mirandolano. Tuttavia le insistenze del
Magnifico riuscirono alfine a smuovere l'animo di Innocenzo Vili, che
accondiscese a permettere al Pico di venire a Roma a discolparsi dinanzi a
testimoni, riservandosi di dargli quella penitenza che avrebbe creduta
necessaria all'uopo. Il Mirandolano, cui era pervenuta una lettera di Lorenzo
che si dimostrava contento dell'esito promettente delle sue premure, non
sentendosi ancora disposto a fare il gran passo, credette più opportuno di
fermarsi a Firenze. Quivi, nella città che aveva dato il primo spunto alla sua
gloria, vicino agli amici che teneramente 10 amavano, si senti rinascere alla
gioia dello studio, una gioia però velata da un'intima tristezza che gli
derivava dal suo sogno svanito. 11 dissidio interiore che qualche anno addietro
aveva provato nella città fiorentina, si era approfondito in un doloroso
travaglio, che non toccava solo come allora una parte della sua attività,
oscillante da una forma di espressione a un'altra, ma investiva tutto il suo
essere, sì « Laurentius..., scrive il Ficino, praestantissimus, et « metuetur
et Picum ad Florentem revocat urbem ». Opera. da portarlo, attraverso a una
crisi spirituale, sulla via del misticismo. Pur in mezzo agli amici e alle
persone dotte di Firenze che ambivano la sua compagnia, si sentiva inquieto
come se qualcosa indefinibile ma necessaria gli mancasse; la parola «eretico»,
ronzando insistente all'orecchio anche tra i conviti e le adunanze allegre, gli
dava un senso d'isolamento che lo rendeva malinconico. Gli amici, che notarono,
senza forse comprenderne i moventi, l'avvenuto cambiamento, s'affrettavano a
darne notizia agli altri lontani, in vario modo. « Il signor Giovanni Pico
scrive « il Ficino ad Ermolao Barbaro che ora in Fio« renza alla filosofia
attende, assai vi si racco« manda ». E Lorenzo che ha sempre per il suo Pico
parole di tenerezza, scrive: «Il conte « della Mirandola si è fermato qui con
noi, dove « vive molto santamente, ed è come un religioso, « ed ha fatto e fa
continuamente degnissime opere «in teologia; commenta i salmi; dice l'officio
or Knte et Uno». Appena il Pico ebbe terminato il suo Ettaplo l'inviò per primo
a Lorenzo al quale l'aveva dedicato, e il A\aj:;nifico si affrettò a passarlo a
Roberto Salviati, perchè lo facesse esaminare dai dottori, e poscia pensasse
alla pubblicazione. Il Salviati risponde che l'opera del Pico, «primizia de'
suoi studi', gli fece nascere un sincero affetto per il giovane, ben degno
dell'amore di Lorenzo; perciò, essendo stata giudicata eccellentissima, sarà
suo dovere di curarne l'edizione con la massima diligenza perchè riesca utile
agli studiosi. E infatti, tosto che V Ettaplo fu terminato di pubblicare, venne
dal Salviati distribuito a tutti i letterati di Firenze e inviato agli amici delle
varie città d' Italia. Quest'opera armonicamente concepita, scritta in un
latino 150 piano e scorrevole, non privo di colorito nei passi più salienti;
con la fusione ben riuscita delle varie teorie che s'imperniano tutte intorno a
un'idea centrale: la identità di pensiero che riusciva a svelare nei misteri di
Mosè col pensiero di tutti gli altri filosofi che hanno fatto uso del velame
arcano; infine con un'intuizione semplice e grandiosa del cosmo, che dalla
distribuzione dei cieli, delle cose create e delle facoltà dell'uomo,
accoglieva in una euritmica totalità il sistema cabalistico, gnostico,
neoplatonico e peripatetico, non poteva non destare unanime ammirazione nei
dotti di allora. Molte sono le testimonianze, specialmente epistolari, che
attestano il grande successo ottenuto dal Pico, che ormai era ritenuto un vero
portento dagli uomini piij rappresentativi di quel tempo. Al Salviati, che era
l'editore più importante di Firenze, scrivono con espressioni d'entusiasmo per
l'opera del Mirandolano da ogni parte d' Italia gli umanisti che avevano
ricevuto copia dell' Ettaplo. Nella raccolta delle lettere comprese nelle Opere
del Pico, troviamo quelle del canonico della Badia di Fiesole, di Baccio
Ugolino, di Giuliano Maio di Napoli, del Poliziano, che non si stima degno
d'essere avvici Opera nato al Mirandolano, di Ermolao , che confessa d'aver
letto Vexameron tutto d'un fiato, del vecchio Cristoforo Landino, al quale pare
di veder congiunte nel Pico la sapienza dei filosofi greci con la dottrina dei
Padri della Chiesa. E l'eco di questa unanimità di ammirazione per V Ettaplo
varca anche i confini d'Italia, come dimostra una lettera scritta al Salviati
da Bartolomeo Ponzio, addetto alla Corte di Mattia Corvino, re d' Ungheria.
Forse nessuna lode poteva tornare più gradita al Mirandolano di quella
tributatagli dal suo antico maestro, Giambattista Guarino, il quale,
scrivendogli da Ferrara, loda la vasta cultura profusa in picciol volume dal
suo ex allievo (ex tuo praeccptorc factiis sum tibi discipulus). Il Pico era di
quelli che nella gloria non dimenticano chi per primo ha aperto le porte
dell'anima, illuminandola alla luce del sapere. Rispondendo al vecchio
precettore, lo prega di non corrugare la fronte se lo chiamerà a partecipare
della gloria che gli deriva dal suo Ettaplo . Ed era sincero, perchè non c'è
soddisfazione più intima di quella che si prova al PoLiT. Epist. Opera Opera
riconoscimento del proprio valore da parte di quegli che, essendo stato maestro
nell'adolescenza, rimane impresso come un giudice equo e spassionato. Ma quanto
favore incontrò V EU apio fra i dotti umanisti, altrettanto severamente venne
accolto da parte dei teologi romani che vedevano in esso un'altra prova del
persistere del Pico nell'attitudine contraria alle dottrine ortodosse della
Chiesa. Non migliorava quindi la posizione del Mirandolano di fronte al
Pontefice, il quale^ facendo suo il giudizio della Curia, assumeva un
atteggiamento sempre più intransigente. Invano si adoperava Lorenzo per mezzo
del Lanfredini a mitigare l'animo di Innocenzo Vili, e invano gli faceva
pervenire uno schema di Breve, compilato dallo stesso Pico, per dimostrargli a
quali condizioni il conte si sarebbe sottomesso. Il Papa era irremovibile e
rispondeva al Lanfredini che « il caso del Pico era importantissimo » e che ben
« altra cosa era gratificare Lorenzo del « figliuolo (accenna al cardinale
Giovanni) o com« piacerlo non entra questi casi della fede». Berti, Op. cif.
39. Ecco parte della lettera del 27 agosto 1489 in cui il Pico dopo aver espresso
la gratitudine sua al Magnifico, seguita: « Quello ch'io desidero « è un Breve,
nella forma eh' io scriverò di sotto. Faccia » vedere la Sua Santità se per
concederlo, ne li può na 153 II fratello Anton Maria aveva riferito al nostro
Giovanni che un certo monsignore di Napoli lo accusava di due cose: che cioè
egli aveva sparlato della Bolla a Parigi e che continuava a trattare di nuovo
quelle cose che gli erano state vietate. II Pico allora si difende contro la
prima asserzione, chiamando a testimoni gli stessi « ora« tori che erano in
Pranza, se non vogliono tacere « el vero » : e contro la seconda che « non ho «
scripto altro di nuovo che quella expositione « sopra el Genesi ch'io ho
mandata alla M.^'^ Vo« stra, et Lei può far fede se è contra el Papa o « no,
che tanto è distante dalle materie di quelle «conclusioni, quanto è il cielo da
la terra». II Magnifico, infatti, faceva fede che l'opera era « stata veduta da
quanti religiosi dotti ci sono e « uomini di buona fama e di santa vita e da
tutti è « sommamente approvata, né io però sono si cat« tivo cristiano che
quando ne credessi altro, me •« scere o danno, o vergogna, o scandalo alcuno
nella Ec« desia di Dio, ch'io so gli sarà detto di no, se ne sa« ranno
domandati huomini non passionati. Il Breve voria « che fusse in questa forma:
Havendo tu già proposte per « discutere alcune conclusioni fu iudicato per noi
che « il libro di queste non fosse Ietto, come in una nostra «tale Bolla si
contiene ecc.». Dall'Appendice II, doc. I, nello studio del Berti, 1. e. 39 e
51-53. Berti, doc. I, Append. Il, 52-53. 154 « lo tacessi o sopportassilo. Sono
certo se costui « (il Pico) dicesse il credo, cotesti spiriti malvagi «
direbbero ch'è un'heresia ». La lettera poi accenna alla debolezza del Papa il
quale, essendo occupato in molte altre cose, si lascia raggirare da persone
malevoli che, « come diavoli lo ten« tano con queste persecuzioni e sono troppo
cre«duti». Avverte che il conte è «un istrumento « da saper fare il male e il
bene » così che tormentarlo sarebbe farlo deviare dal bene («e ul«timamente si
era ridotto qui a vivere santamente «e con buoni costumi e quetare l'animo suo
*) e fargli tentare cosa che « potrebbe essere di gran «scandalo». E conclude:
«Se la forza gli farà « pigliare altra via, io ci perderò poco perchè in « ogni
luogo dove anderà, so mi vorrà bene, per« che ne voglio assai a lui». Esorta
quindi l'oratore a fare il possibile per riuscire nell'intento « che non
potreste mai stimare quanto questa cosa « mi è molesta e che passione mi da » .
Tutto inutile; il Papa era irremovibile e non sapeva capacitarsi a veder
persistere uno che aveva ancora l'aspetto di scolaro imberbe, a sostenere cose
di teologia, per le quali si richiede una lunga vita Lettera conservata dal
Fabroni Laurentii Medicis Magnifici Vita, voi. II 291. Cfr. Berti in op. citata
pag. 39. Id., 40. 155 di studio: «perchè, diceva il Papa, non si mette « a fare
della poesia ?» Questa gli pareva un'applicazione più rispondente alla sua
giovane età. Cotesta frase del Papa, che può parere ironica, ed è invece
sprezzante, dimostra quanto poco ei sapesse comprendere quell'anima assetata di
gloria e di luce, che coiu)Sceva tutte le ansie del dubbio e il tormento di
tante notti insonni per decifrare, nei libri degli orientali, qualche sparso raggio
della divinità. 11 Papa arrivò a dire, anzi, che V Ettaplo peggiorava la causa
del Pico « essendosi trovata questa opera sopra il Genesi, « et vista per
questi docti di Sacra Scriptura, «l'hanno dannata, perchè in molte parti entra
« nelle medesime heresie, et quelle medesime cose * che sono state detestate
per indirecto, lui le in« troduce in questa opera in molti luoghi». Bisogna poi
aggiungere che il libro del Pico sortiva in un brutto momento per trovare in
Innocenzo Vili un animo ben disposto, essendo in quel tempo amareggiato dai
gravi scandali che Cit. dal Berti, I.. e. 39. Si deve convenire che
contrariamente all'asserzione del Pico che sosteneva non aver tenuto ncW
Ettaplo parola del contenuto delle conclusioni, abbonda invece di quelle idee
che erano state condannate nelle Tesi. E noi abbiamo dimostrato come l' Ettaplo
sia la sistemazione delle varie teorie che formano argomento delle conclusioni.
156 erano avvenuti proprio a Roma in seno alla sua famiglia. Stando cosi le
cose, il Pico si rassegnò per il momento a rinunciare ad ulteriori pratiche e
tutto s'immerse negli studi ch'erano forse l'unica cosa in cui trovasse
continue e pure soddisfazioni. Riprese con gioia lo studio delle Sacre
Scritture e in particolar modo dei Salmi, di cui voleva continuare
l'esposizione esegetica. A farsi aiutare nel lavoro di traduzione dall'ebraico,
il Pico teneva presso di sé un giovane ebreo, Clemente, il quale, essendo stato
convertito al cristianesimo e indotto a vestire 1' abito di S. Domenico, è
richiamato da Lorenzo come una prova dello zelo cristiano del Pico, e un
esempio per stornare la vana calunnia di eresia . Grande Nell'anno 1489 venne
scoperta in Roma una lega d'impiegati senza coscienza,! quali esercitavano un
traffico lucroso con Io spaccio di Bolle papali falsificate. Franceschetto Cybo
dava l'esempio peggiore e getta uno sprazzo di luce sulle condizioni morali
della Corte pontificia. In compagnia di Girolamo Tuttavilla percorreva
nottetempo le vie e per futili motivi aggrediva le case dei cittadini
riscuotendo di necessità scherno e vergogna. Presso il cardinale Riario
perdette in una notte 1400 ducati e si lagnava poi col papa d'essere stato
raggirato. Pastor. L'accenno nella lettera di Lorenzo al Lanfredini è
testualmente così: tra gli altri segni di vita cristiana del Pico, vi è quello
« di aver convertito un ebreo, giovane 157 era l'aspettativa per questo lavoro
del Pico tra i letterati e gli amici, le cui lettere di questo periodo vi
alludono come a qualche cosa del genere dell' Ettaplo. « Ci aspettiamo davvero
qualche «cosa di delizioso, scriveva Matteo Vero al Sal*viati, dagl'inni di
David, ch'egli ò dietro a in«terpretare e a spiegare con grande premura. « A
compiere il qual lavoro mi compiaccio che «in questo momento abbia scelto la
quiete del « nostro Cenobio di Fiesole, dove il solo vederlo «e udirlo è una
vera gioia». Siccome all' infuori del commento al salmo XV, di cui abbiamo già
parlato, non ci rimane nulla, se non qualche frammento inedito, scoperto dal
Ceretti, che possa giustificare l'ipotesi che il Pico facesse un Commentario di
tutti i salmi, dobbiamo ritenere ch'egli continuasse lo studio dei salmi più
tosto per un bisogno suo particolare, per fare cioè una specie di esercizi
spirituali; e questo spiega anche perchè amasse ritirarsi nel Cenobio
fiesolano. Ad avvalorare questa nostra supposizione ci soccorre la lettera
ch'egli scrive il 13 gennaio 1490 « assai dotto in quella lingua, al quale
faceva tradurre « certe opere in casa sua e colle armi sue medesime e « ridotto
a farsi cristiano, che non sono opere da eretici ». Il Berti corregge il
Fabroni da cui desume questa lettera e che publicata con la data del 1492 è
invece del 1489. 1. e. 41. Cfr. anche Cassuto, 315-317. Opera da Firenze a un
certo padre F. B. C. che lo esortava a una vita pia e virtuosa. « Vedrai, sog«
giunge il nostro, che, quando mi sarà dato di « ritirarmi nella solitudine,
allora potrò filosofare « piamente (pie philosophari) e congiungere la «pietà
alla sapienza. Anch'io sono convinto non « esservi vera sapienza quando manchi
la eterna, « poiché il trattare le varie discipline, può ben « dare il colore
alla pelle, ma non farci più belli. « Ma la mente sana, ferma, gagliarda non si
può «sperare che dall'integrità della vita, dai buoni « costumi e infine dalla
santa religione ». Non dobbiamo credere che i soli salmi assorbissero il suo
tempo; coltivava anche gli studi teologici e filosofici, certo anche quelli
poetici, come si ricava da una lettera datata da Firenze l'undici febbraio
dello stesso anno, indirizzata ad Aldo Manuzio. « Ti mando 1' Omero che mi hai
chie« sto tempo fa; mi trovo così stretto dalle occu« pazioni, Aldo mio, che
non ho neppure il tempo « di respirare. Mi sono dato alle lettere le cui «
esigenze sono cosi grandi che ho appena il «tempo di rimettermi in salute . Tu
che stai « per accingerti alla filosofia, ricordati che non Opera, 375. Questa
frase indica che la salute del Pico doveva essere alquanto scossa, e forse si
era ritirato a Fiesole anche per scopo di cura. « vi è nessuna filosofia che ci
dispensi dalia ve« rità dei misteri: la filosofia cerca la verità, la «teologia
la trova, la religione la possiede'». In queste tre sentenze il Pico ci dà, in
ct)mpendio, il programma de' suoi studi, i quali andavano orientandosi verso
quella fase finale della sua attività, che è, come in ogni processo della vita
umana, la liberazione dello spirito dagl'impacci del mondo esteriore. E così
avremo modo di notare come nel Pico questo processo si svolgesse con ritmo più
accelerato che in altri, e il ciclo si chiudesse proprio nel periodo che
d'ordinario separa il trapasso dallo spirito volitivo che cerca di fissarsi nel
limitato, allo spirito libero che aspira all'infinito. Durante la primavera,
per riprendere il vigore delle sue forze, usciva sovente con qualche amico a
passeggio pei dintorni di Firenze: e il Ficino ci ha descritto con insolita
semplicità, in una sua lettera a Filippo Valori, una di quelle passeggiate che
i due filosofi solevano fare insieme, ragionando con poetico fervore delle
comodità della vita . Ecco in che modo il Pico stesso faceva conoscere a
Battista Spagnuoli come Opera, 359. « Alli giorni passati andando a spasso il
nostro Pico « della Mirandola, uomo certamente meraviglioso e io per « gli
colli di Fiesole, riguardavamo cosi per il cammino tutto 160 passasse il suo
tempo. « Al mattino, dice, mi « applico assiduamente alla concordanza di Pla«
tone e di Aristotile, serbo le ore meridiane agli « amici, alla ricreazione
dello spirito mediante la « lettura dei passi e degli oratori, le ore della «
notte le ripartisco fra lo studio delle sacre carte « e un breve sonno». Come
si vede il Pico aveva intrapreso un lavoro che lo teneva occupato le ore
migliori della giornata, e cioè la concordia dei due massimi filosofi
dell'antichità. A tale intento domanda in prestito agli amici i libri che gli
occorrono e, se non li trova a Firenze, li chiede per lettera a quelli che
risiedono in altre città. Ringraziando in una sua Baldassarre Migliavacca di
Milano delle copie dei libri greci inviatigli, lo prega di acquistargli il
commento di Giovanni Grammatico sulla fisica di Aristotile e, se gli è
possibile, anche la metafisica dello stesso filosofo . Nel mentre che si fa
inviare dal carmelitano Battista Mantovano l'indice della Biblioteca di Bologna
in cui risiede, gli chiede ragguagli intorno alla vita di Filostrato « il paese
di Fiorenza, habitazione per certo felice, pur « che due soli incommodi si
schivassero, cioè la nebbia «che l'Arno cagiona e i gran venti del monte che
gli è « opposto ». Fi(;;iNO, Epist. voi. cit. lib. IX. Opera, 358-59. Opera,
370. 161 e del filosofo Zaccaria che il frate aveva conosciuto a Roma . Da
tutte queste lettere traspare il grande affetto che ormai legava il Pico al
Poliziano e nei saluti agli amici troviamo sempre congiunto il nome di lui.
Scrivendo agli ultimi di luglio a Ermolao lo prega, con dolce rimprovero, di
voler moderare le sue lodi {me iani qiiacso lauda modice) poiché gli è stato
riferito dal fratello Anton Maria che Ermolao, lo portava a cielo dinanzi a lui,
agli altri e « allo stesso Pontefice » : per altro lo prega di amarlo senza
ritegno {diun iamen anies immodice) e termina la lettera: «Ti saluta il
Poliziano amandoti e lo« dandoti sempre un immodico (immodicus) ". Ed
Ermolao rispondendogli a sua volta da Roma il 13 agosto, dopo aver detto che a
ciò è mosso da un prepotente bisogno di essergli vicino col pensiero, con la
voce, con lo scritto, perchè trova più giocondo il dire che l'udire essere
l'amico suo pieno di candore, di bontà, di umanità, termina lo scritto: 'Vale
cum Politiano «meo^>. appunto perchè sa che così si rende più accetto all'
amico . Anche nell' epistolario del Poliziano abbiamo la testimonianza di lei.
369.359-360. 391. 162 questo attaccamento reciproco dei due letterati. Degna di
nota è la lettera che il poeta scrive alla «fedele Cassandra», dotta fanciulla
di Venezia, la quale, desiderosa di mettersi in corrispondenza col più celebre
poeta del tempo, gì' invia alcuni suoi lavori letterari (orazioni, epistole,
versi, scritti di argomento filosofico ecc.); ed il Poliziano trovandoli
scritti con eleganza, con gravità, e con una certa virginea semplicità, non
priva di dolcezza, così la saluta: « Decus Italiae virgo», nuova Aspasia,
Saffo, Corinna, degna di stare accanto alle donne più celebri dell'antichità.
Ma non si appaga dell'ammirazione; egli vorrebbe contemplare il volto
castissimo della vergine, vedere il portamento e le movenze della sua persona,
bevere, quasi, con orecchi assetati, le parole ispirate delle muse, poiché
allora trasumanato (consuinatissimus) dall'aflato suo, non temerebbe nel canto
il Tracio Orfeo e la di lui madre Calliope. « Certamente finora, soggiunge,
soleva am« mirare Giovanni Pico della Mirandola, come il « più bello e il più
dotto dei mortali. Ed ecco « che ora. Cassandra, io presi ad amare te ancora
«subito dopo di lui, anzi insieme con lui». Come si vede, c'era una differenza
tra l'affetto del Pico e l'amore del Poliziano : in realtà quello POLITIANI
Episf. del primo era un'amicizia che derivava da quell'ascendente che non può
non esercitare un temperamento poetico, quand'anche l'esteriorità della persona
non abbia alcuna attrattiva e del Poliziano si dice che fosse alquanto deforme
— ; quello dell'altro, invece, era quasi un amore ispirato dalla contemplazione
estetica di un giovane dalle forme squisite, tanto più ammirate in quel tempo
in cui rinascevano, fra tante altre, le preferenze classiche per la bellezza
androgina. Un fatto che in questo tempo tornò di sommo gradimento al Pico e a'
suoi amici, fu la notizia dell'elezione a patriarca di Aquilea di Ermolao
Barbaro. A lui, che da Milano, dove aveva rappresentato in qualità di oratore
la Republica di Venezia presso Ludovico Sforza, era passato a coprire lo stesso
ufficio a Roma, presso Innocenzo Vili, rivolge il Pico la seguente lettera: «
Mi congratulo con te della nomina a Patriarca « di Aquilea dove potrai
dimostrare il tuo valore. «Vi sono tre generi di vita: il civile, il contem Una
nota simpatica di questo circolo di dotti fiorentini, al quale apparteneva il
Pico, è l'assenza sia dalla loro vita come dai loro scritti di quell'immoralità
che imbratta come viscido fango i nomi dei più celebri umaninisti delle altre
Accademie. Per Pomponio Leto, che fu imputato di Sodomia, vedi la monografia
dello Zabughin, Grottaferrata « piativo e il religioso. Esigiamo dal primo la «
prudenza, dal secondo la dottrina, dal terzo la «santità. E tu per l' innanzi
nel trattare gli affari « dello stato, ti sei dimostrato prudentissimo, e « gli
studiosi, amandoti e ammirandoti, ti tengono «per loro maestro nelle buone
discipline: e non « abbiamo dubbi di sorta che saprai del pari «svolgere le tue
mirabili doti nella Chiesa». Ermolao risponde con espressioni di rimpianto per
il bel tempo speso negli studi pei quali teme ora di non esser più libero di
dedicarsi come nella vita secolare, e sopratutto perchè teme che l'alto ufficio
che ora deve coprire, induca il Pico a tenere un contegno piii riservato verso
di lui. E questo non vuole che avvenga per nessuna ragione. « Ti scongiuro, esclama,
per quella be« nevolenza che mi hai sempre dimostrato di vo« lere far sì che
anche sacerdote io sia tenuto da «te, se è possibile, per quell'Ermolao che hai
« amato nel secolo e che ora, fatto soldato di « Cristo, desidero esserti ancor
più caro. Sappi che « Aquilone mi ha trasportato oltre la verità, che « Favonio
mi ha rapito oltre l'amore » . Chi avrebbe detto che il suo desiderio di poter
attendere alla filosofia lontano dalle occupazioni, Opera si sarebbe cosi
presto realizzato, ciie anzi, mentre egli diceva : Si hoc cveniut, ne avesse il
presentimenio ? Difatti il Senato veneziano che si arrogava il diritto di
nominare il Patriarca di Aquiiea, si sentì offeso dall'atto di Ermolao Barbaro,
il quale aveva accettato la nomina da Innocenzo Vili, senza prima chiedere al
governo il permesso voluto dalla legge; e per questo condannò il Patriarca
all'esilio. Questa sciagura che privava Ermolao della speranza di rivedere la
cara patria che tanto amava, fu però sopportata con stoica fermezza e ricompensata
dal piacere di poter riprendere i dolci studi. 1 suoi sentimenti in proposito,
che manifesta in una lettera al concittadino Calvo sono la fedele espressione
del suo animo puro ed elevato, uno di «Nulla vi ha di più preclaro, nulla di
più elevato della fortezza dell'animo. Essa brilla al disopra di ogni • altra
virtù; essa è la migliore fattrice di voluttà e di pace, e mentre tutte le
altre s'inchinano all'impero della • fortuna, la sola fortezza l'affronta e la
pone in ceppi. « Ma fingi pure che io abbia ricevuto una ferita più pro« fonda
ancora di quella che al presente mi grava; quanto « presidio, quanto sollievo
non credi tu che a me rima« nesse da queste tenui lettere che sin da fanciullo
ho coltivato? Godendo io sanità di mente e di corpo, quale • calamità poteva
sopravvenirmi che m'involasse il con • torto degli studi ? Essendo questi sani
e intatti la mia 166 quei nobili caratteri non abbastanza studiati. Frattanto
il Pico, per meglio attendere a' suoi studi, fece dono, di tutti i beni che
teneva nel Mirandolese, e della terza parte del Principato per la somma di
trentamila ducati d'oro, al nipote Gianfrancesco, il quale con tanto amore
doveva in seguito curare l'edizione delle opere dello zio e scriverne la vita.
In quel medesimo anno il Pico, in compagnia del Poliziano e del Crinito, fece
un viaggio nell'Alta Italia per visitare le biblioteche delle principali città,
Bologna, Ferrara, Padova, Vicenza, e i particolari di questo viaggio sono
riferiti dal Crinito(l). Senza dubbio il motivo di questo viaggio doveva esser
quello di procacciarsi i libri che riteneva necessari per condurre innanzi il
suo lavoro intorno alla concordanza di Platone e di Aristotile. Nella vita del
nostro si alternano con una certa frequenza periodi di vivacità espansiva, con
altri di calma e riposata solitudine. Così ora, mentre è tutto immerso nello
studio dei due sommi « vita non può essere se non tranquilla, gioconda, ono«
revole. Oh felice calamità che mi hai restituito alle let« tere e le lettere a
me, anzi a me stesso ! » Dalle Epìst. del Poliziano, la traduzione è del
CoRNiANi, / secoli della Letferat. Italiana, 279. Rassegna Bibl. della Leti.
Italiana. filosofi della Grecia, si sentiva di ritornare alla pietà e al
bisogno di quiete. Con minore assiduità prese a frequentare i convegni e le
feste, cui Lorenzo per le sue mire politiche dava largo incremento; cominciò ad
essere notata la sua assenza nei conviti in cui era solito accompagnarlo il
Poliziano. Questi prova rincrescimento e per lusingarlo gli descrive ora lo spettacolo
di una giostra {cquitum ccrtamcn hastis concurrcntium), al quale partecipa il
fiore della gioventù fiorentina e in cui Piero de' Medici, ch'è divenuto il
beniamino della moltitudine e la gloria della sua famiglia, ottiene la palma
della vittoria. Ora invece gli descrive un banchetto offertogli da un certo
Paolo Ursino, il cui figlio, bimbo di undici anni, si rivelò un prodigio (un
enfant prodigi diremmo noij sia nel suono e nel canto, sia nella recitazione di
prova oratoria, sia nel cavalcare un focoso destriero in singoiar tenzone con
Piero de' Medici. « 11 fanciullo, soggiunge il Poliziano. « aveva dei capelli
d'oro che gli scendevano mol POLITIANI Epist., « I Medici con« cepiscono una
vera passione per la giostra... Già ancor « sotto Cosimo, e poi sotto Piero il
vecchio ebbero « luogo in Firenze giostre celebratissime; Piero il giovane «
poi per tali esercizi, trascurò perfino il governo e non « voleva essere
dipinto se non rivestito dalla sua splen. dida armatura». Burckhardt « lemente
sulle spalle, gli occhi vivaci, lo sguardo « intelligente, il portamento
elegante e nel tempo « stesso marziale. E quando in mezzo al convito « prese a
cantare accompagnato dagli strumenti « musicali, sentivo penetrarmi la sua voce
soa« vissima nel cuore, e inondarmi di una voluttà «quasi divina». Questo brano
ci dice quale ammiratore fosse il Poliziano della bellezza androgina; anzi
quale affinità di sentimenti avesse con gli esteti dell'antica Grecia e
sopratutto di Roma imperiale di cui abbiamo uno specchio nel Satyricon di
Petronio. Ma il Pico era un mistico e non un sentimentale; non amava i festini
e la vita gaudente che per un poeta come il Poliziano erano fonte di sempre
nuove impressioni. Ormai il contatto delle cose esteriori cominciava a nauseare
il nostro assetato di quella bellezza che trascende ogni forma sensibile.
Pubblica il libro De Ente et Uno che volle dedicare ad Angelo Poliziano il
quale, appunto in quegli anni, soleva intramezzare le sue lezioni di
letteratura greca e latina con la lettura dell'etica di Aristotile o di qualche
brano filosofico di altri autori . A tali lezioni inter POLIT. Epist. Isidoro
del Lungo, Florcntia, Firenze, Barbera veniva talvolta anche il Pico e la
presenza del dotto principe tornava molto lusinghiera al poeta di Montepulciano
che all'amicizia univa una grande ammirazione per le qualità dell'ingegno del
Alirandolano. Nella dedica il Pico ci fa sapere come l'argomento gli sia stato
suggerito da una disputa sorta tra Lorenzo e il Poliziano sul modo di
considerare Vesscrc e V unità. Il Poliziano stava con Aristotile che ne aveva
sostenuta l'identità e il Magnifico coi Platonici che si erano pronunziati per
la disparità. Il Pico si schiera decisamente coi primi e viene a dimostrare che
anche Platone identifica l'essere con l'uno. Dove egli trova la più
rassicurante risposta alla sua tesi, che nella mente d i Platone l'essere e
l'uno si convertono, è nel dialogo del Parmenide, ove Platone dimostra non già
la superiorità dell'uno sull'essere, ma la loro identità. Perciò Aristotile,
che parte dal cuore della filosofia platonica e vi scorge questa identità dei
due principi, non dissente aflatto dal suo maestro. Tuttavia il Pico che non
era un superficiale conoscitore della filosofia aristotelica, non poteva
nascondersi che il pensiero dello Stagirita è stato sempre su questo argomento
ondeggiante, sia quando disse che « l'essere non è assolutamente 170 uno», sia
quando, parlando dello stesso essere, l'ha definito ora in un senso ora in un
altro. Lasciando stare l'equivoco di linguaggio a proposito della parola
essere, che è impiegata in numerosi sensi, e che quella di sostanza è impiegata
almeno in quattro, sta di fatto che la contraddizione è flagrante e ogni
tentativo per eliminarla riuscirebbe vano. Ma il Pico, tendendo alla conciliazione
ad ogni costo, concepisce quella superessenza che in sé comprende l'essere e
l'uno, sorvolando sopra a tale contraddizione con un ragionamento che non è
privo di acume. L'essere, egli dice nel quarto, si deve considerare come
concreto e come astratto; nel primo caso l'essere, come partecipazione di
qualcosa, è inferiore all'uno; ma nel secondo, cioè l'essere per sé, é un
essere uno, superiore ad ogni ente (adeo est ut sit ipsum esse, quod a se est
et sit ipsum esse, quod a se et ex se est et cuius partecipazione omnia sunt).
È evidente che in questo caso l'essere è Dio, il quale, come l'unità, é
principio di tutte le cose (Tale autem est Deus qui est totius plenitudo, qui
solus a se est, et a quo solo nullo intercedente medio ad esse omnia processerunt).
Così il Pico si spiega non solo la convertibilità dell'essere nell'uno, ma
anche come l'essere e l'uno siano in Dio, il quale é un superessere e un 171
superuno, e, come dice Dionigi, quia unice est omnia. V indirizzo mistico dei
suo pensiero porta il Pico ad operare la conciliazione di Piatone e di
Aristotile mediante Dionigi e a convertire l'ontologia in una concezione
teologica. Cosi l'assertore della dignità dell'uomo diviene il paladino
dell'infinita potenza di Dio, al quale l'unica lode checonvenga è il silenzio.
Il Poliziano fu molto commosso della dedica del libro e l'accolse con
espressioni tali che parrebbero esagerate, o per lo meno dettate da un senso di
adulazione, se non avessimo avuto agio fin qui di notare la sincerità della sua
ammirazione per il Pico. « Arsi sempre, dice il Poeta, arsi forse un po'
troppo, te lo confesso, dal desiderio di una perpetua fama, a! punto da
ritenere per un niente le ricchezze, la dignità, la potenza e i piaceri in
paragone di una gloria duratura. Ma poichò ciò che ho scritto non mi è valso
molto a perpetuare il mio nome tu, Pico, sei apparso a prestarmi ciò che non
avevo potuto da me, dedicandomi il tuo commentario De Ente et Uno, nel quale
richiami le accademie alla vera sorgente e congiungi in una due filosofie e la
nostra teologia. Che altro dovrei cercare per poter vivere nei campi Elisi, se
vivrò per mezzo tuo e insieme con te ? La posterità narrerà un giorno esservi
stato una volta un certo Poliziano, il quale fu tanto stimato da meritare che
il Pico, luce di 172 ogni sapere, parlasse di lui nel bellissimo libro che
tratta di cose sublimi. Ti rendo, dunque per l'immortalità, grazie immortali».
Questi segni di affetto dei due letterati dovevano senza dubbio tornare graditi
al sofferente Lorenzo che, ammalato da alcuni mesi, era assistito dal
Poliziano, dal quale si faceva leggere ora alcuni passi del De Ente et Uno, ora
s'intratteneva a parlare delle virtìj e dell'ingegno del suo diletto Pico. «
Quanto desidererei, disse una sera l'infermo, passare quest'altro po' di tempo
che Dio si degnerà concedermi, negli studi filosofici con te, col Ficino e con
Pico della Mirandola. E quando fu presso a morire in Careggi (scriveva il
Poliziano a Jacopo Antiquario) guardandomi dolcemente, come sempre soleva, Oh
Angiolo, mi disse, sei tu qui ? — e insieme levando a stento le languide
braccia, mi afferrò strettamente ambo le mani. Io non poteva trattenere i
singhiozzi e le lagrime, cui nondimeno sforzavami nascondere, volgendo altrove
la faccia. Ma egli, senza punto commuoversi proseguiva a stringere le mie fra
le sue mani. Quando si avvide che il pianto m'impediva di parlargli, a poco a
poco, quasi naturalmente, mi lasciò libero. Corsi allora subito nel vicino
gabinetto ed ivi diedi POLITIANI Epist. ed. cit. 452. 173 « sfogo al mio dolore
e alle lagrime. Poscia asciu« gatomi gli occhi e tornato dentro, appena egli «
mi vide e mi vide tosto, mi chiama di nuovo « a se e mi chiede che faccia Pico
della Miran« dola, gli rispondo ch'era rimasto in città, per« che temeva d'essergli
molesto colla sua pre« senza. Se io, disse Lorenzo, non temessi che « questo
viaggio gli fosse di noia, bramerei pure « di vederlo e di parlargli per
l'ultima volta, prima « di abbandonarvi. Debbo io dunque, gli dissi, « farlo
chiamare ? Sì, certo, rispose, e il piij «presto possibile; così feci, e già
era venuto « il Pico e si era posto a sedere presso il letto. « E io ancora mi
ero appoggiato presso le sue « ginocchia per udir meglio per l'ultima volta la
« già languida voce del mio Signore. Con quale « bontà, Dio buono, con quale
cortesia, dirò an« Cora, con quali carezze lo accolse Lorenzo ! « Gli chiese
prima perdono di avergli arrecato « un tale incommodo, lo pregò a riceverlo
come «contrassegno dell'amicizia e dell'amore che « aveva per lui, e gli disse
che moriva piiì volen« fieri dopo aver veduto un sì caro amico». Il volto
gentile del Pico era valso a calmare l'agitazione convulsa di quell'uomo in
preda agli PoLiTiAN! Epist., ed. cit. 124-37. Vedi Berti, 1. e. 44-45. 174
ultimi strazi dell'agonia, resa più triste forse dal ricordo dei falli commessi
durante la vita di principe; e gli occhi vitrei, prossimi a spegnersi per
sempre, parvero rischiararsi alla luce calma e celeste che riverberavano gli
occhi azzurri del Mirandolano. Il male di cui soffriva il Magnifico era di
quelli che non perdonano, e il grande mecenate, r astuto politico, uno dei
primi poeti del Rinascimento, moriva l'otto aprile all'età di quarantaquattro
anni. Si discuterà sull'opera sua di governo, sulla sincerità o meno della sua
liberalità e del suo mecenatismo, quel ch'è certo si è che Firenze e l'Italia
godettero sotto di lui di una prosperità come poche volte fu dato nella storia
della nostra patria; che tanti uomini d'ingegno lo amarono e lo riverirono non
sempre per adulazione (e la lettera del Poliziano è una prova della più sincera
devozione) ma perchè riconoscevano in lui oltre che un reggitore politico, un
uomo dì cuore e d'ingegno. Valga la considerazione di ciò che accadde
all'Italia dopo la morte di lui per dover ammettere che Lorenzo fu una delle
personalità più spiccate e complesse del Rinascimento, un uomo che, come pochi,
ha rappresen TiRABOSCHi, Storia della Letteratura Italiana, t, VI, part. I,
lib. 1, cap. XV. 175 tato le sorti di una nazione. E il Pico fu di quelli che
esperimentarono la generosità disinteressata di Lorenzo le cui lettere e
documenti fanno fede dello spontaneo disinteressamento che sempre animarono
ogni suo atto verso il giovane filosofo, al quale si sentiva legato da un
affetto sereno e sincero. E se il Pico era sfuggito alle persecuzioni dei
propri nemici, se aveva potuto trovare in Firenze un asilo comodo e sicuro, se
era riuscito ad esplicare liberamente la sua attività di studioso, lo doveva a
Lorenzo che per lui fu non solo un amico ma un carissimo padre. IX. Il Pico a
Ferrara nel 14i>2. Crisi Uelii^iosa. L'Orazione Domenicale. Invitato dal
duca Ercole I, si recò il Pico a Ferrara per assistere alla disputa che doveva
aver luogo in occasione del Capitolo generale dei Frati Predicatori. Alcuni anni
addietro aveva partecipato a un altro Capitolo, a quello di Reggio, dove era
stato fatto segno all'aminirazione generale pel suo ingegno precoce. Né anche
ora dovettero mancargli i segni di deferenza e di ammirazione da parte dei
convenuti; ma mentre un tempo si sentiva accendere ai sogni della gloria e
«all'uso di Gorgia da Leontini cercava fama, sostenendo qualsiasi cosa » ; ora
molte foglie vedeva cadere avvizzite dalla sua corona, dopo che ne aveva
sperimentata la vacuità piena d'ama — 178 ritudine. Anzi adesso provava un
sentimento d'inferiorità davanti a quei frati il cui nome non sorpassava la
cerchia ristretta delle conoscenze personali, ma la cui vita al compimento
della quale mettevano in uso tutte le loro energie riteneva alla sua superiore.
Questi sentimenti del Pico li leggiamo in una lunga lettera, in data 15 maggio
1492, ch'egli scrive al nipote Gianfrancesco. Ivi lo consiglia di non dolersi
delle difficoltà che dovrà incontrare nella via del bene, giacché sarebbe
oggetto di meraviglia se a lui solo fra i mortali fosse dato di andare in cielo
senza fatica (sine sudore). E dopo avergli ricordata la massima di S. Giacomo:
Gaudete fratrcs cum in tentaiiones varias incideritis nec immerito quidem, gli
spiega come ogni stato sia irto di difficoltà e pericoli : così quello del
marinaio, del mercante, del principe. Per questo egli ha scelto la quiete del
suo studio, e nulla a mbisce in questo mondo i cui seguaci gridano unanimi:
laxati sumus in vias iniquitatis, perchè le innumerevoli cure della vita li
agita come un mare fervens quod quiescere non potestSiccome tutte le cose
terrene sono caduche, incerte e vili, lo invita a rompere i lacci delle
passioni, a rendersi piacevole più a Dio che agli uomini, a scegliersi la via
stretta della virtìi che mena al cielo. Per fare questo, 179 gli consiglia due
cose: a pregare, e pregare non solo con molte parole (multiloquio) si bene nel
segreto della propria mente e di ascoltare nei penetrali della coscienza la
voce divina che rischiara le tenebre ed unisce a sé coi modi più ineffabili: e
infine che la preghiera non sia lunga, ma ardente e interrotta spesso dai
sospiri. L'altro consiglio è di lasciare le favole dei poeti per aver sempre
nelle mani le sacre scritture (nocturna versare manu, versare diurna nelle
quali è nascosta una tal forza sovrumana, così viva ed efficace, che trasfonde,
in chi vi s’accosti umilmente, un'ammirabile amore divino. Termina la lettera
ricordandogli quanto gli ha detto altre volte, che cioè per quanto lunga possa
essere la vita, si deve pur morire e che il cavallo che ciascuno di noi cavalca
non ha da percorrere che un breve stadio. Quale passo ha fatto Pico di questa
lettera, da Pico dell'epistola critica a Lorenzo cosi piena d'entusiasmo e di
baldanza o dell'Apologia in cui scoppiettavano a volte un virulento sarcasmo, a
volte espressioni così ardite e per quel tempo insolite! Questa lettera sembra
scritta d’un padre religioso tanto è compenetrata di pensieri e di massime
divote: il distacco dal mondo, gl’orrori dell'inferno, l'e Opera, . 180
sortazione alla preghiera, trovano un accento cosi fervente, che ci sembra
d'avere innanzi un vecchio stanco della vita e anelante al riposo del sepolcro.
Pico era ancor giovane, eppure il suo spirito era invecchiato, 0 meglio, poiché
lo spirito non invecchia, era cambiato il contenuto della sua vita. Ciò che ora
lo attraeva non era più la poesia e le sue lettere e i suoi sonetti ci
attestano quanto egli avesse amato la poesia (omissis j'am fabulis nugisque
poetarum cosi consiglia al nipote neppure forse piiì la filosofia e questa era
stata la sua grande passione, quella per cui aveva rinunciato alla vita di
principe, per cui aveva sofferto persecuzioni e prigionia ciò che ora Io
attraeva era una vita più degna d'essere vissuta, per la quale voleva dare non
solo una parte della sua attività, l'intellettuale, ma quella affettiva, quella
pratica, insomma tutta l'anima. E dessa, è ormai evidente, era la vita
religiosa. Ma gli era d'uopo conciliarsi con la Chiesa, dare al Pontefice un
attestato persuasivo della sua nuova disposizione. Era quello l'anno nel quale
avvenne l'espulsione degl’ebrei da tutta la Sicilia e molti si sparsero in ogni
parte d'Italia. Uno di questi Opera (siculus quidam hebraeus) si era spinto
sino a Ferrara, portando seco gran copia di libri ebraici. Pico si senti
stimolato dall'antica curiosità ed attrattiva pel misterioso; per lui un libro
nuovo era un tesoro, e Io legge colla convinzione di trovare in esso ciò che la
sua anima vagheggiava e che tutti i libri precedenti non avevano saputo
accordare. Ricorda, non senza tristezza, quali orizzonti aveva intravveduto
nello studio della Cabala e quante notti aveva vegliato per decifrare gl’arcani
dell'antica sapienza. Chi sa che anche ora non potesse scoprire qualche verità
riposta nei libri di quel giudeo, il quale gli acuiva il desiderio di leggerli
coll'annunciargli la sua partenza da Ferrara entro venti giorni? Al nipote che
lo richiedeva di consigli, risponde che non si aspettasse per qualche tempo da
lui nessuno scritto essendo occupato notte e giorno, sino quasi a perdere
gl’occhi, su quei libri dell'ebreo, che conta di finirli prima della di lui
partenza. Addio, conclude, temi il Signore e pensa ogni giorno che devi morire.
Non Opera Alcuni giorni prima aveva scritto a Malvezzi ringraziandolo
dell'invio fattogli del suo libro De Sortibus che aveva trovato diligente in
quanto alla lingua, acuto nelle osservazioni e gli promette d'inviargli alcune
182 pare che da tali letture ne traesse il frutto che si era ripromesso e
nemmeno la benché minima soddisfazione dello studio per sé stesso. Ormai era
inclinato per quella via in cui si sentiva irresistibilmente trascinato. Si
ritrasse da quei libri con una specie di disgusto, e come da ciò che si
frapponeva alla sua vera méta. Riandando alle cause che determinarono il suo
attrito con la Chiesa e il suo capo, il Pontefice, s'avvide che «buona parte
della colpa era sua, « che aveva troppo amato la gloria del mondo e «trascurato
quella che sola proviene da Dio*, e sopratutto perché all'odio e alla nequizia
degli uomini, aveva reagito coli' impeto della passione, che é figlia di
Satana. Non aveva ascoltato il precetto di Gesù quando disse: «Si vos hodio
mundus habet, scitote quia priorem me vobis habuit»,e quindi aveva agito
ciecamente per la violenza della propria consuetudine, come coloro che sono
trasportati dall'impeto della corrente di un fiume. Non aveva riflettuto sulla
sentenza socratica che se i nemici uccidono il corpo, non possono nuocere
all'anima, e però non si era astenuto dalla vendetta che im sue quisquiglie
(forse alcuni di quegli inni che in questo tempo andava componendo per ricreare
lo spirito col suono della lirai, Opera pedisce all'anima di udir risuonare la
voce soavissima di Dio, unica guida alla verità e alla vita. Oh ! come gli
tornava spontaneo sulle labbra il gemito del profeta: «Delieta iuventutis meac
«et ignorantias meas ne memineris: sed secun« dum misericordiam tuam memento
mei propter « bonitatem tuam Domine » ora che, trovandosi a Ferrara, si
risovveniva del tempo della sua prima gioventù non scevra di quei trascorsi che
imbrattano la coscienza. " Pensa, figlio carissimo soggiunge rivolgendosi
al nipote che la vita ò un punto, un istante; che i piaceri, le ricchezze
avvelenano l'anima e la sottraggono al regno del cielo; che tutto ciò che forma
la nostra gioia di quaggiù è incerto, umbratile, falso; pensa che una grande
ricompensa sta preparata per colui che, disprezzando queste cose, sospira alla
vera patria, di cui Dio è il re, la carità la legge, l'eternità il modo. Occupa
l'animo in questi pensieri, che lo stimolano quando dorme, lo accendono quando
e tiepido, lo rafforzano quando vacilla, e gli apprestano le ali quando tende
al divino amore; di maniera che, quando verrai da me, che ti attendo con grande
desiderio, ti possa vedere non solo quale sei, ma come voglio che sia». Opera.
Questa lettera porta la data del 2 luglio, Ferrara. In questa lettera,
improntata a una maggiore unzione delle altre scritte al nipote, il Pico ci si
mostra ormai preso dal sacro fervore de! mistico. Ed è degno di nota il fatto
che il nostro, le cui lettere agli amici sono di sapore, diremo così, profano,
abbia scelto nel suo nipote il confidente delle proprie aspirazioni. Forse lo
confortava a questo, oltre il legame di parentela che lo univa al figlio del
proprio fratello, a cui non era del resto molto distante per l'età, la serietà
di questo giovane principe che si era rivolto a lui con un abbandono e una
devozione che non si smentì mai. Ad ogni modo il Pico, che pur tanti amici annoverava,
non si aprì mai con alcuno come co! nipote, non fece mai nessuno partecipe
delle sue ansie, dei suoi ardori delle note piìi intime che gli vibravano
nell'animo; né mai nessuno ebbe a chiamare metà della propria vita (animae
dimidium mcae) , perchè nessuno per r innanzi l'aveva compreso come il nipote
Gianfrancesco. È senza dubbio di questo tempo il commento all'orazione
domenicale che va sotto il nome: In orationem dominicam expositio. Il Pico fa
rientrare l'orazione domenicale, che per i cristiani è la preghiera per
eccellenza, nel n ; Il nipote si era già sposato. (2ì Questa espressione si
trova nella lettera datata da Firenze, Opera quadro generale di una teoria
della preghiera; quindi prima di tutto la definisce, poi determina lo scopo per
cui si deve pregare , infine dà la norma che deve seguire colui che prega . La
preghiera, dice il Pico, è sempre un desiderio, e ciò che si desidera è sempre
un bene, e le cose le amiamo in quanto esprimono un bene. Siccome poi, al dire
degli stessi teologi e filosofi, il bene sommo è Dio, dobbiamo perciò amare e
desiderare prima, e al disopra di ogni cosa, Dio, e insieme con lui le creature
che più a lui ci congiungono. Come dobbiamo regolarci rispetto a tante cose che
pur ci dilettano (come i beni della fortuna, la bellezza, la forza del corpo ed
altri obbietti sensibili) e nondimeno non ci uniscono a Dio? Col fuggirli,
risponde il Pico; perchè non può essere buono ciò che ci allontana da Dio e ci
fa peccare. E quando ci sono concessi tali beni da Dio? Allora, incalza il
nostro, dob [\) «Orare non est aliud quam per elevationem men • tiset affectus
excitationem sua desidcria Deo notificare -. i2i « Si ergo debcmus scire,
quoniodo sit orandum, • oportet prius scire quid sit desiderandum. Scimus autem illud esse
sumnie desiderandum quod est summum bonum. L' Esposizione di cui stiamo facendo l'esame è inserita
in principio delle Opere del F*ico, edizione Basilea già citata. Mancando la
numerazione delle pagine, citeremo per ordine numerico degli a che
contraddistinguono i fogli. 13 186 biamo ricordare il detto di S. Paolo che ci
consiglia di far uso delle cose di questo mondo, tenendo da esse distaccato il
nostro cuore. Chi vuole distaccarsi da ciò che è caduco deve far uso della
meditazione, della compassione, della imitazione. Poiché solo meditando la passione
di Cristo, noi sentiremo il nostro cuore punto di compassione per le infinite
sofferenze di Gesù ; ma a nulla gioverebbero le nostre lagrime se non
cercassimo di imitarlo nella sua vita, nelle sue parole, nella sua inalterabile
pazienza a sopportare i più grandi dolori. E non solo dobbiamo sopportare le
afflizioni della vita, ma anche coloro che ci fanno del male. Se vogliamo che
Dio rimetta i nostri peccati e ci preservi dalle tentazioni, accordandoci la
sua misericordia, la quale è come la medicina per il corpo, perchè dovremmo
negare al prossimo ciò che noi chiediamo a Dio, vale a dire la misericordia ?
Se è vero che è per essa che noi siamo salvati e non già per i meriti nostri, a
maggior titolo dobbiamo usare verso gli altri questa grande benevolenza che
distingue gli animi eletti. Quando infine Cristo c'insegna adire al Padre,
«liberaci dal male», non possiamo fare a meno dal non raffigurarci, nella
rappresentazione del Demonio, l'insieme di tutti i mali, l'ipostasi di tutto
quanto è triste e peccaminoso; ecco perchè noi dobbiamo 187 fuggire dal male,
come da una bestia orrenda e rifugiarci nel seno del Padre nostro in cui
riposeremo sempre che lo serviamo con santità e con giustizia. Il 28 luglio
giunse a Ferrara la nuova della morte di Innocenzo Vili, e pochi giorni dopo,
quella dell'elezione alla cattedra di S. Pietro del cardinale Borgia col nome
di Alessandro VI. L'avvento di questo nuovo Papa che, per la larghezza delle
sue idee e i suoi gusti estetici, era ben noto nel mondo letterario ed artistico,
produsse nel nostro un senso di sollievo poiché, essendosi rivelato di un
carattere del tutto diverso da quello del defunto Pontefice, sperava di
trovarlo meno restio a concedergli la sospirata assoluzione. Un'altra
circostanza si presentava intanto a lui favorevole: l'elezione del Rettore
dello studio di Padova, il cipriota Podocataro, a segretario pontificio. Il
Pico scrisse da Ferrara il 16 agosto una lettera di congratulazione al suo
vecchio professore, rimettendogli una supplica per il Papa, colla preghiera
d'intercedere per la sua causa . [\ I Opera, foL, a, 4. (2^ DoREZ, Giornal.
Star. d. ietterai. Italiana, voi. 25, 1895, 355. Egli intanto si mosse alla
volta di Firenze, per potere poi proseguire per Roma ove non gli mancavano
amici e ammiratori, tra i quali il suo affezionato Ermolao, patriarca di
Aquilea. A Firenze, essendosi imbaltuto in un fascio di libri greci (ex his
graecorum librorum fascibus extricavero) s'intrattenne per poterli consultare.
In questa città desiderava raggiungerlo il nipote che ormai non sapeva più
vivere da lui lontano. Ma lo zio l'ammonisce di rimanere per due motivi: primo
perchè potrebbe arrivare a Firenze nel contrattempo ch'egli sarebbe in viaggio
per Roma (ut illuc mihi eudum sit, causam nosti) oppure per Mirandola ; l'altro
che avrebbe dovuto lasciare per lui la moglie, verso la quale l'obbligavano dei
doveri inerenti al matrimonio, cui egli non potrebbe sottrarsi senza venir meno
al comando divino in cui è detto essere gli sposi un'anima sola. « Infatti, soggiunge,
'non puoi es« sere più tutto tuo dal momento che hai voluto « assoggettarti
alle leggi nuziali, nondimeno puoi « essere tutto di Dio, al quale sei
meritevole nello « stesso tempo che lo sei a te stesso ». Lo esorta infine a
starsene in casa per attendere alle proprie occupazioni e alla meditazione
delle sacre scritture e in special modo del Vangelo. A vederlo non istarà molto
tempo, avendo in animo 189 di ritornare a Ferrara al cominciare della primavera
. Siccome non arrivava nessuna risposta alle pratiche che aveva inoltrate a
Roma, nò credeva riuscisse per niente proficua la sua andata in quella città,
decise di trattenersi ancora a Firenze ove poteva almeno attendere agli studi.
In questo periodo attraversava egli un momento di grande sconforto; aveva molto
bisogno di affetto e di parole buone e in questo senso è improntata la lettera
che scrive ad Ermolao nella quale gli chiede anche il volume di Tolomeo sulla
musica . Arriva un momento nella vita in cui la mente nostra fa un cammino a
ritroso e invece di guardare avanti e di sognare si volge indietro e ricorda.
Fra le persone che conoscemmo ed amammo ve n'è sempre una che rimane nella
nostra memoria coi caratteri indelebili di una bontà semplice e gioviale.
Felici noi se, mentre la contempliamo in immagine, tale persona vive ancora e
può accoglierci nel suo seno e ridirci la parola che consola. Il Pico era cosi
giovane quando questo periodo era per lui arrivato che, si può dire, tutti
coloro che aveva conosciuto nell'in Opera, 346-47 la data di questa lettera è
del 27 novembre 1492. (2 Opera, . fanzia, erano ancor vivi e tra questi la
persona che Io aveva palleggiato bambino tra le braccia, e che ora ricorda con
tenero affetto nella sua lettera che gì' indirizza senza rivelarci il nome. «
Nulla mi tornò più dolce e piij gradito, gli « scrive, della memoria della tua
antica famiglia«rità e soavità di costumi. Se la sede dell'ami« cizia sta
nell'animo, in noi allora essa è vera« mente, vale a dire, non c'è motivo, come
scrivono « Platone ed Aristotile, perchè in noi possa for« mare un dissidio la
distanza di luogo e di tempo. « Pensavo or ora in che modo poterti essere «
vicino, né altro mi venne in mente che il farti H pervenire la mia
elucubrazione de septiformi « in sex dies geneseos. Se noi partoriamo dei li«
bri quasi come dei figliuoli, e il padre è in gran * parte nel figlio, vengo io
ancora con esso lui « che ho generato. Ricevi dunque il mio figliuo« letto che
viene a te com' io soleva ilare e fe * stante bambinello. Ti piacerà, lo so,
perchè mi « ami, e ti dispiacerà anche perchè mi ami. Nam * eiusmodi pietatis est et
eorum errata qtios ama«mus signanter introspicere ut emendemus et in*trospectis
leviter undulgere ne vexemus*. Da
ciò si vede che il Pico considerava V Ettaplo come il suo lavoro prediletto; e
invero esso Opera e proprio figlio del suo spirito: tutto ciò che aveva
studiato, sognato e amato, egli lo aveva trasfuso là dentro e se in qualcosa
sperava ripromettersi perpetuità al suo nome, era appunto in esso, che rimane
del resto anche per noi l'espressione più notevole del suo ingegno. Frattanto
non tardò a venire la lettera di risposta del suo Ermolao, ch'egli trovava
quale si era ripromesso, e cioè piena di sentimento e di parole buone, vera
immagine di quell'anima semplice e mite, che, pur cosi erudito passava allora
per uno dei più eletti stilisti latini — rifuggiva il plauso esteriore, pago
unicamente della stima degli amici. In verità questi gli corrisposero e più di
ogni altro il nostro che, esaltando i suoi meriti letterari, esclamava:
«Voglio, o dottissimo Ermolao, « che tu sappia che ti sono amicissimo e che le
• tue virtù mi accendono alla stima e venerazione • per te, così che a nessuno,
anche se ti fosse • consanguineo, permetterei di amarti come ti • amo io». Ai
primi del 1493 giunse a Firenze la notizia che Ermolao era stato colto dalla
pestilenza che serpeggiava allora nel Lazio; il Pico e il Poliziano n'ebbero il
cuore trafitto. Il Pico volle tentare di soccorrere l'amico invian do Opera, .
dogli per mezzo di un corriere uno specifico da lui stesso comprato e che
credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando l'espresso arrivò a
Roma, Ermolao Barbaro era già spirato. Contava trentanove anni; con lui spariva
una delle figure più amabili del suo tempo e più che per le sue opere
letterarie fra cui le Castigationes plinianae erano meritamente celebrate, egli
emergeva fra i contemporanei per le squisite doti del suo cuore, doti che solo
in parte possono trasfondersi negli scritti e che la morte porta
inesorabilmente seco. Per far meglio intendere l'indole di questo umanista,
vogliamo riferire in parte la lettera che scrisse alcuni mesi prima di morire
ad Antonio Calvo, il quale gli annunziava la morte del padre suo Zaccaria
avvenuta in Venezia. Dopo d'aver detto il rammarico provato per non aver potuto
dalla terra d'esilio andare a porgere l'estremo saluto all'autore dei suoi
giorni, soggiungeva: «Forse egli andando sicuro incon« tro alla morte, era solo
sollecito del mio dolore; « sono certo eh' egli non sapeva con che animo «
sopportassi la mia sventura, perchè se mi avesse « veduto, oh allora, senza
dolore sarebbe passato « da questa vita. Del resto mi conforta il pen« siero
ch'egli abbia lasciato il mondo con la co« scienza d'avere fatto il proprio
dovere e di avere 193 « speso la sua vita per il bene della patria e delia
«famiglia. A te raccomando i miei fratelli, sii loro « consolatore in vece mia
e che continuino ad «amare il padre loro oltre la tomba». La perdita di un sì
caro amico gettò un velo di tristezza sull'animo del Pico; il pensiero di
rendersi utile alla Chiesa divenne ora il dominante fra ogni altro. A farlo
persistere in esso contribuiva notevolmente l'influsso che su di lui esercitava
la vita austera di Girolamo Savonarola. Dopo la morte del Magnifico, colui che
in Firenze aveva acquistato maggiore autorità era il frate predicatore, la cui
eloquenza dall'intonazione profetica, la cui vita rigida e intemerata,
cominciavano a guadagnargli le anime stanche della vita 0 desiderose di
purificazione. Il Pico, che già da tempo conosceva il frate , ora che sentiva
più urgente il bisogno d'una persona la quale piij che amica gli fosse guida
nel nuovo cammino, si rivolse al frate di San Marco come all'albero maestro.
Riprese con fervore le pratiche di pietà, passava le ore nella Biblioteca di S.
Marco a conversare col Savonarola di cose religiose, riceveva con piacere nella
sua abita li j Roma. Dalle Epistole del Poliziano. (2; Cfr. la Vita del nipote.
194 zione le visite di coloro che desiderassero intrattenersi in dotti e
cristiani argomenti. In questo tempo, si legge nella vita scritta dal nipote,
il portamento del Pico aveva assunto un fare più timido e contegnoso, il suo
volto, di solito ilare e calmo (vulio hilari semper erat et placido) , sembrava
ora trasfigurato dagli ardori mistici cui si abbandonava. Più volte fu veduto
col flagello in mano (meisque oculis saepius [cuncta in Dei gloriam redeant]
flagellum vidi) macerare le proprie carni per espiare i falli commessi e in
memoria della morte in croce di Cristo. Più nulla poteva ormai commuoverlo dal
suo proposito. Solo una cosa lo avrebbe irritato, se cioè vedesse andar perduti
certi scrigni {nisi scrinia quaedam deperirent) ripieni delle sue elucubrazioni,
frutto di lunghe veglie e che credeva tornassero di grande utilità alla Chiesa
di Dio. Se il paragone non fosse irriverente, diremmo che uguale si presenta in
intensità l'attaccamento per il denaro dell'avaro che tiene sul cuore le chiavi
dello scrigno ove sta il suo tesoro, e dell'umanista per i libri e gli scritti
che tiene nel suo studio : l'uno e l'altro ne morrebbero di dolore se vedessero
andare distrutto ciò che considerano metà della loro anima, come. Cfr. la Vita
del nipote. secondo Pontico Virunio, incanutì dal cordoglio quell'umanista che
perdette in un naufragio la cassa contenente i libri che portava dall'Oriente.
Maffei. Verona illustrata. Cosa tenesse il Pico nei suoi scrigni ce lo dice il
nipote: una farragine di lavori incompiuti, scritti con carattere malagevole a
leggersi «di modo che, come d'in • gegno, cosi fu si celere di mano che,
essendo stato da « giovane ottimo calligrafo, finì quasi col non intendere •
più egli stesso ciò che aveva scritto. Soleva anche scri« vere or qua or là
scrivendo cose nuove sopra le vec • chie, molte opere interrompeva dopo
d'averle incomin«ciate». Egli allora attendeva con più di proposito a un'opera
in cui si prometteva di combattere i sette nemici della Chiesa: gl'increduli, i
pagani, gli ebrei, i maomettani, i cattolici non osservanti a quello cui
credono, gli astrologi e gli eretici. Di quest'opera solo la parte in cui
prendeva a combattere gli astrologi « egli aveva, come • dice il nipote,
compiuto e limato in parte, e noi con • grande fatica potemmo ricavare da un
esemplare tutto • cancellato e stracciato » (Vita). Poiché il lavoro contro gli
astrologi, che si compone di dodici libri è vastissimo, tenteremo di esaminarlo
brevemente più oltre nel nostro studio. X. L'assoluzione del Pico. Risolazioue
della crisi nel misticismo. Le « Disputationes » . Sua morte. Giunse al Pico,
quasi improvvisamente, il sospirato Breve di Alessandro VI che lo assolveva in
seguito alla relazione di una Commissione, composta di un vescovo, di due
cardinali e del domenicano Paolo da Genova, professore di teologia e maestro
del palazzo apostolico da ogni censura o nota di eresia- Il Breve, dopo aver
fatto la storia della esamina delle 900 conclusioni, di cui alcune erano state
condannate sotto Innocenzo Vili, perchè erronee e contrarie alla fede, viene
alla considerazione dell'Apologia. « Inteso poi il detto pre« decesssore che tu
avevi pubblicato un altro libro « apologetico, dove le medesime proposizioni
in« terpretavi in un senso migliore e cattolico, e ne chiarivi l'intendimento
giusta la vera fede, lo « stesso predecessore volendo impedire che le «
premesse proposizioni corrompessero in qualun« que modo i cuori dei fedeli,
vietò la lettura del « libro delle predette novecento proposizioni, però «
dichiarando che tu non eri incorso per tutto « questo in alcuna censura,
siccome più ampia« mente si contiene nelle stesse lettere, il te« nore delle
quali vogliamo che qui si abbia per « espresso * . Qui potrebbe affacciarsi la
questione se il Breve di Alessandro VI veniva a contraddire la Bolla di
Innocenzo Vili,ma noi non
crediamo necessario
indugiarci in essa
che ha dato
campo a vivaci
polemiche fra alcuni
pubblicisti rosminiani e
gesuiti della Civiltà Cattolica. Ci basti dire che vera e propria
contraddizione nei decreti dei due Documento citato da Berti nella Rivista Contemporanea Leone spedì a Pico un Breve col
quale permette al nipote di pubblicare le opere proprie e quelle dello zio. Per
questo Breve vedi Civiltà Cattolica. E per la Polemica vedi Rassegna Nazionale;
Civiltà Cattolica.Vedi anche Malavasi, Pico
della M. davanti al Tribunale della santa sede. Mirandola; Pagani,
Rosmini (an. Ili,,
e Rassegna Nazionale pontefici
non esiste; ciò che appai e invece e
spiega tutto è la diversità di temperamento nei due capi delia Chiesa. Il
primo, invero, non ha mai emesso un atto esplicito di scomunica contro Pico, ma
soltanto tenne sospesa questa minaccia come una spada di Damocle sul capo del Mirandolano, la quale vale a paralizzare
la sua attività e a tenere in angustia lo spirito di lui credente; Alessandro,
d'indole mono puntigliosa e meno proclive a cedere alle pressioni
degl'invidiosi di Pico, i quali sono per altro diradati, e che in fondo non
aveva nessun risentimento personale col
nostro (si ricordi la frase dei Pico a riguardo d'Innocenzo
nell'Apologia), era portato ad interpretare
nel modo più indulgente l'operato del medesimo, il quale, del resto, era venuto
sempre più accostandosi ai dettami di S. Chiesa con una vita veramente pia, e ad
indulgere tanto più verso quelli che, per nobiltà di sangue, per sapere, per
integrità di vita e religione ortodossa si raccomandano la cui quiete e
reputazione ci sta a cuore quando con Dio è lecito. Questo Breve colmò di giubilo il cuore del Mirandolano e valse a
togliere quella specie di op Multa itidem vasa argentea prcciosasque supellec«
tilis partes in pauperum usus distribuit. Vita ecc. pressione che gli si faceva
sempre più penosa di mano in mano che si accostava al centro della vita
religiosa. Questa era ormai l'unica sua aspirazione, l'ideale verso cui tende
il suo pensiero e con cui spera di dare
inizio a una nuova vita. Riduce quindi al puro necessario le sue
bisogna; la mensa rese parca e frugale, vendendo parte del vasellame d'oro e
d'argento per distribuire il ricavato ai poveri verso i quali comincia a
largheggiare in elemosine. Volle essere riconoscente coi fedeli famigliari,
lasciandoli usufruire liberamente dei suoi poderi. Lascia all'amico Benivieni
un fondo cospicuo onde all'occorrenza
alleviasse le persone piìi indigenti di Firenze, sopratutto dotasse le
fanciulle bisognose, acciocché potessero maritarsi. Considerando poi chiusa la
sua vita nel mondo decide di fare il proprio testamento che redatta e rifece il primo settembre dello stesso anno
e a cui fecero da testi Poliziano e Savonarola. Ivi dispone che l'Ospedale
di S. Maria Novella fosse erede
universale de'suoi beni immobili, mentre
di quelli mobili elegge a erede il fratello Antonio verso il quale non voleva
riuscire imparziale, avendo già soddisfatto largamente al figlio del fratello
Galeotto. Sciolto La vendita era stata
fatta con strumento. Ceretti, Sonetti inediti del C. G. P. Mirandola così da ogni legame
d'ordine finanziario, si trovò libero di dedicarsi a ciò che piìi gli sta a
cuore. Due erano le tendenze che si
contrastavano dentro di lui e l'imbarazzavano nella scelta: l'ordine religioso
dei frati predicatori cui appartene Savonarola, e la vita del pellegrino più
aspra di sacrifici e più libera nell'amore. Come luogo di ritiro pelle sue
meditazioni, si era scelto la villa della Fratta dove pochi ammette, per non
essere distratto dal suo raccoglimento: tra quei pochi era Gianfrancesco. Un giorno, narra questi,
mentre ci trovavamo a ragionare del divino amore in un giardino dal quale
l'occhio spazia lontano le prospettive verdeggianti, mio zio proruppe in queste
parole: Te lo confido in segreto, appena avrò terminato certe mie
elucubrazioni, darò il rimanente de'miei averi ai poveri, e, giunito d’un
crocefisso, scalzo, a piedi nudi, me n'andrò pellegrinando pel mondo a predicare Cristo alle città e
alle castella. Sembra che in questa missione egli trova la vera via alla sua
anima irrequieta e bramosa di agire in conformità delle sue libere aspirazioni.
Non altro che per questo egli si era
Spigolature in Giorn. stor. di L. I. Vita in negato una compagna, non
altro che per esser libero egli visse sempre errabondo senza una stabile
dimora, benché abitasse più spesso a
Firenze e talvolta a Ferrara. E quando gli ardori mistici s’acquetavano e
l'anima sua si ricompone in quell'equilibrio normale di cui la sua fisonomia
esteriore era la più soave espressione, pensa al bianco saio di fra Girolamo,
alla maestosa gravità che traspariva dalla magra figura del predicatore, quando
di sul pergamo del duomo colla mano che sembra scagliasse folgori, colla voce annunciante l'ira di Dio,
cogl’occhi accesi da quel furore profetico, suscita brividi di terrore sulla
folla degl’astanti; allora sentivasi trascinato nelle braccia di quell'ordine
che pare istituito per convertire a Dio
colla predicazione e la scienza teologica, gl’eretici e gì'increduli. A tale
scopo cerca Pico di cimentarsi con quelle discipline che suggerisce l'ascetica,
per mettere a prova la sua capacità e l’attitudini
richieste ad un apostolato. È forse in questo periodo ch'egli compose le dodici
regole per eccitare e dirigere l'uomo nel combattimento spirituale. L'idea
Vita, \n Regulae XII partim excitantes, partim dirigentes hominem in pugna
spirituali, in Opera centrale di queste regole è la seguente: Non si deve
rifuggire dalla via della virtù perchè il
cammino è aspro e difficile, poiché anche la via dei piaceri ò seminata
di spine e d’avversità; se si deve sostenere in questo mondo una battaglia
perenne, dato che la vita dell'uomo è una milizia – volontaria H. P. Grice --,
tanto vale combattere per una causa giusta e santa qual'è quella che ci fa
simili a Gesù Cristo il quale non ascese al cielo se non per il martirio.
Perciò Pico viene a riconoscere che fra
tutte le tentazioni dell'uomo quella che si deve combattere e vincere è la
superbia, radice di tutti i mali, contro la quale vi è solo un rimedio, il
pensare che Dio stesso s’umilia per noi sino alla morte di croce. A\entre da
una parte Pico per suo proprio uso scrive queste regole e cerca di metterle in
pratica, SI homiiii vidctiir dura
via \ irtuiis, quia continue oportet
nos pugnare advcrsus carncm. et diabolum,
et mundum recordetur, quod quamcunque elegcrit vitam, etiam sccundum mundum,
multa illi adversa, tristia, incommoda, laboriosa paticnda sunt. Rcf. I. Sicut et caput nostrum Christus, non
ascendit in coclum, nisi per crucem. Rcg.
Ili. Quare super omnes
tentationes, homo debet maxime se munire, contra tentationem superbiac, quia
radix omnium malorum superbia est,
contra quod unicum remedium est, cogitare semper, quod Deus se humiliavit prò
nobis usque ad crucem et mors. Rcg. XII.
non trascura dall'altra i suoi studi, massime in quanto potessero giovare in
qualche misura alla Chiesa. Si propone, come abbiamo detto, di combattere i
nemici della religione e in particoiar modo gl’astrologi, le cui
elucubrazioni piene di sofismi gli
parevano incompatibili col dogma e colla fede. Poliziano, venuto a sapere che
Pico s’era accinto a questo lavoro contro l'astrologia, s’adopera in qualche
modo per contribuire alle fatiche dell'amico. In quel tempo legge nello studio
agl’uditori il suo poema Rusticus in cui, fra le altre cose, fa menzione
degl'influssi della luna sui vari lavori dei campi, conforme ai dettami d’Esiodo. Ora, egli scrive a Pico, io
cominciai fra me a dubitare se cotali osservazioni non avessero qualche
fondamento nella legge della natura o piuttosto non fossero derivate dalla
superstizione del volgo. Siccome tu stai scrivendo un libro pieno di dottrina
contro gl’astrologi, dove tratti appunto argomenti che hanno affinità con
quelli da me svolti ad imifazione
dell'antico poeta, così mi è sembrato d\
fare cosa a te giovevole riassumere in una Quare quoniam tu nunc librum cum MAXIME
– regole – H. P. Grice -- componis adversus astrologos multiplici doctrina,
magnisque argumentis instructum. lettera ciò che si contiene nel mio poema e
insieme anche le ragioni che dei fenomeni ivi descritti sono date da Proclo, da
altri e da me stesso. Poliziano, che
dopo la morte di Lorenzo aveva rivolto tutta la sua devozione e il suo
affetto al principe della Mirandola poiché egli era del numero di quelli che,
avendo servito per tutta la vita, e si serve in tante maniere una persona, non
possono rassegnarsi a vivere senza un protettore scrivendo all'Antiquario, gli
dipinge così al vivo l'amabilità del Mirandolano, d’invogliarlo a sua volta a
conoscere l'uomo celebrato. Infatti
l'Antiquario in una lettera a Riccio, dopo aver accennato all’orazioni e all’opere
filosofiche di Pico, nelle quali si rivela un ingegno singolare, dice di
sentirsi pieno d’ammirazione per uno che pello studio abdica alle dovizie del
suo ricco casato. E Poliziano, rispondendogli subito dopo, gli dice d’aver
fatto leggere la sua lettera allo stesso Pico, come a quegli che era il vero oggetto delle sue lodi, e che
riceve dal Mirandolano quanto prima una lettera doctani. Politiani et aliorum
virorum illustrium, Epistolarum libri duodccim,
Basilea, POLIT., Epist., aciitam, cordatam, plenamqiie humanitatis. Il
nostro infatti gli scrive da Ferrara,
ringraziandolo delle benevoli espressioni a proprio riguardo, sicuro che Poliziano
sa interpretare il suo pensiero, poiché
alle muse non s’addice lo strepito d’un picchio anzi l'aspra voce d’un'anitra,
com'è la sua, di fronte al canto di due cigni, quali sono loro due. Il
contenuto di questa lettera di Pico, tradisce uno stato d'animo completamente
estraneo a quello cui sono intonate le lettere di Poliziano e dell'Antiquario;
qui si sente dell'artificiosità, fors'anche dell'ironia, prova che l'animo del
nostro si è ormai ritratto d’ogni
attaccamento mondano e non vibra più a quell'entusiasmo che era si frequente
nelle lettere anteriori. Questo risalto deriva dalla comparazione della lettera
di risposta dell'Antiquario, in cui traspare quell'intima soddisfazione che
nasce ogni volta s’ottenga un attestato di deferenza da parte di qualche
personalità eminente. Egli dichiara che non ci tiene d'essere paragonato a Poliziano, desiderando solo
essere amato da Pico, per il quale nutre POLIT., Opera. un affetto e
un'ammirazione più antica di quel che non creda, e il suo nome d’Antiquario ne
è una prova. Ad ogni modo non nasconde questi sentimenti per non venir meno a
ciò che l'animo sente, e la lingua esprime, e, d'altra parte, la di lui gloria
6 sì solida, che non ha bisogno di
adulazione, egli ch’ha conseguito tra i nati degl’uomini il nome di
Fenice. Questo fascino ch’esercita la persona di Pico, invece di scemare,
sembra andasse crescendo cogl’anni. Ad altri letterati si chiede un giudizio,
un'espressione di simpatia, un apprezzamento qualsiasi; a Pico si chiede un
sentimento d'amore; non s’ambiscono le sue lodi o la sua ammirazione, si
desidera essere da lui amati. E che
veramente fosse felice l'Antiquario d'essere stato onorato d’una lettera di
Pico quoniam me nuper tuis littcris exornasti, Io vediamo nelle parole scritte
a Poliziano subito dopo. Dichiarandosi suo debitore per averlo messo in
corrispondenza col Pico, soggiunge: sapevo ch'egli è un amabile compagno, ma
non potevo supporre che divenisse così presto famigliare. Ho proprio notato come le sue lettere rivelino,
oltre ch’il sapere, l'innata bontà del suo animo. Quando lo vedi, digli che
riguardi nelle PoLiT., Episf., , questa lettera e datata da Milano mie lettere non ciò che vi è
d'incolto, ma la mia devozione per
lui, e m’abbia come antiquario fra i
suoi amici, poiché la legge dell'affetto non può mai divenire antiquata. Il
movimento decisamente mistico che aveva
per centro Savonarola, alle cui prediche traevano in folla sempre piiì frequenti gl’uditori, aveva poco per volta
attirato nella sua orbita tutti gl’uomini piìi in vista di Firenze. Benivieni,
che diverrà in seguito il poeta, per così dire, ufficiale delle pie solennità
colle quali il priore di S. Marco si studia di riformare i costumi, rimase così
vinto dal fascino di Savonarola che poco
manca non desse alle fiamme le sue poesie d'amore, che esprimevano un
passato di vita leggera. Anche Ficino si sente scuotere dall'eloquenza del
predicatore, ch'egli chiama novello profeta, e rimane suo seguace finché la
fortuna fu favorevole al riformatore; mentre quando si tratta di confessarlo
nel momento della sventura, egli l’abbandona
vilmente con parole indegne d’un filosofo.
Pico piiì d’ogni altro subì l'influsso di Savonarola, al quale si sente
legato da vincoli d’ammirazione di lunga data, e per richiamare il quale da
Reggio a Firenze aveva speso i suoi buoni uffici POLIT., porta la stessa
data, Rossi, Il Quattrocento, Milano presso Lorenzo. Il frate aveva
acquistato tale impero sull'animo del nostro, da permettersi aspri rimproveri
al suo divoto che indugia ad entrare
nella vita religiosa, e gli presagiva gravi punizioni se non rispondesse al più presto alla voce che
veniva dall'alto. E Pico promette di vestire l'abito, appena avesse dato
termine ai suoi lavori in corso, che in fondo, dice, sarebbero tornati assai
utili alla Chiesa. Quasi tutti ormai sapevano dell'imminente pubblicazione
dell'opera polemica del Pico contro gl’astrologi di cui se ne faceva ovunque un gran parlare; e Ficino che, come sappiamo oltre essere
filosofo era anche medico, e la sua medicina aveva per fondamento molti
postulati astrologici, comincia a pensare che l'amico suo non avrebbe certo
risparmiato alcune di quelle teorie che
gl’erano care e che aveva sostenuto negli scritti. Senza por tempo in mezzo,
scrive a Poliziano, che condivideva l’opinioni
del Conte e collabora alle sue ricerche bibliografiche, una lettera,
nella quale, facendo le viste di convenire con loro, cerca di difendere quanto
gl’era possibile salvare. Riferiamo parte della lettera singolare: Contro molti
astrologi, che come già i Giganti a Giove il cielo torre tanto invano quanto
empiamente si sforzano meritamente, Pico, figliuolo di Pallade e VlLLARI, voi
figliuolo d'Ercole, spesso felicemente
combattete. E io, come in tutta la mia vita sempre sono stato del medesimo
animo che voi, in questo studio ancora con voi m’unisco. Gli platonici le
celesti imagini degl’astronomi descritte, non riprovano, né si studiano
approvare. Ma Plotino di tali cose al tutto si ride, e io ne'miei commentari
sopra di lui, come suo interprete ugualmente
me ne fo beffe, parte nella
sua autorità confidato, parte perchè
nessuna certa ragione ho di tal cosa. Ma nel mio libro della vita, com'io posso
d'ogni luogo diligentemente ricerco; non disprezzo al tutto quelle imagini, né
tutte quelle regole refuto e quivi narro le disposizioni dei segni e delle
imagini non come appresso gli Platonici, ma come appresso gl’astrologi ho
osservato oltra di questo nel libro del
Sole non tanto cose astronoonarola: il morto suo conhdente; egli che aveva reso
acuto colle sue recriminazioni quel dissidio interiore che aveva fatto penare
per tutta la vita il povero Mirandolano; egli che avevi esacerbato coi
suoi V,
ultimi giorni ed alteralo colla sua
.^ta dall’astinenze lo sguardo dolce e mansueto del biondo. Ciò non basUva: ei dove perseguitare anche nel regn».
del riposo l'ombra di Pico e molestarla colle sue tetre predizioni. Ma
coloro che l'avevano amato sinceramente, ne sentirono tutta l'amarezza del
vuoto lasciato; e la sua morte immatura fa nascere più d'un sospetto. Si narra
che (ierolamo ! pel dolore della pi-rdila dell’amico, fosse sui .^i
darsi la morte. La frase di Savonarola non avrei mai creduto questo, la descrizione della malattia fatta dal nipote, in cui si parla
del gonharsi delle viscere e d’una febbre
insidiosissima, inhne la e tfatta alcuni anni dopo da e. ;;o di Casalmaggiore d’avere avvelenato (. lo tosegoc . dice il SA>arr() nei
Diari.) Pico di cui era
segretario, sono argomenti tutti che inducono a credere che la morte del
Mirandolano non sia stata naturale. Dorez che ha studiato sui vari documenti la questione, emette due ipotesi:
runa di carattere privato il cui movente era esclusivamente uno scopo
pecuniario; l'altra di natura politica, e connessa coi Utrbidi giorni del
94 in cui a Firenze si
contrastavano partiti e tendenze diverse che mettevano capo, alcune al papa,
altre a Pietro De' Medici o a Carlo Vili. Fra le molte vittime non è escluso
che anche Pico, un tempo amico di
Lorenzo ed ora seguace del Frate, sia stato preso di mira come uno che aveva
tradito la causa dei Medici, Giorn. Stor. ecc.
Un documento del vivo rimpianto che lascia dietro di sé il
Mirandolano, l’abbiamo in una lettera di
Ficino, proprio dell'uomo che, pel suo carattere incostante, ci parrebbe il
meno degno di fede. Se il medico-filosofo prova
mai il nostalgico affetto per una
persona amata, partita per sempre dalla vita, fu senza dubbio nei giorni che
seguirono la morte di Pico. Questa lettera ci mette a nudo pell'unica volta
forse, l'anima di Ficino, non spoglia però d’ogni finzione allegorica, parlante
nel suo linguaggio tronfio eppure
accorato. Oh! Germano, scrive al Presidente della Sorbona, desideri aver
la conferma della morte di Pico, vuoi
accrescere il tuo dolore, poiché
ora che non sei ben certo se sia morto, ti duoli amaramente, credo che ti
dorrai ancor di più quando te ne sarai accertato. Ah, perchè, mio Germano, mi
preghi di una tal cosa! Come vorrei essere ancora in dubbio, né posso compiere
questo pietoso ufficio senza piangere. Il nostro Mirandolano ci ha lasciato il
giorno stesso in «' cui re Carlo entrava in Firenze, e compensava i gemiti dei letterati
coll'esultanza del popolo ch'egli
liberava. Se non fosse stata la luce apportata dal re di Francia, forse Firenze non avrebbe mai veduto giorno
più oscuro di quello in cui si è spento il luminare di Mirandola. Con ilare
fermezza passa Pico dall'ombra di questa vita come se passasse dall'esiglio
alla patria celeste. Qualche rara volta i sacerdoti concedono per un poco, agl’occhi dei profani, i misteri
più riposti e tosto li nascondono, così
Dio concede ai mortali questo divino filosofo, Pico della Mirandola, e
lo tolge. La morte di Pico tronca molte speranze e lascia in sospeso molti
lavori di cui s’attende il compimento. L'erede spirituale di Pico, quegli che
pell'ingegno e la non poca coltura, sembra più indicato a continuare l'opera del filosofo, era il nipote Gianfrancesco; a lui
s’appuntarono gli sguardi di tutti coloro cui sta a cuore vedere publicate l’opere
inedite. Infatti il libro contro gl’astrologi, di cui il manoscritto era in
caratteri cosi indecifrabili che lo stesso autore stenta a leggerli, Gian«
francesco, al dire di Ficino, così pio, come intelligente, si sforza tuttora, quotidie, di
trarlo dalle tenebre, e il medesimo scrive la
vita e le opere dello zio. Da
te, poi, Gianfrancesco, gli
scrive fra Battista Mantovano, che
erediti le virtù dello zio, quasi che il suo spirito si sia trasfuso nel tuo
come quello di Elia in Eliseo, ci aspettiamo questo: che raccolga gl’opuscoli
suoi i quali, benché lasciati imperfetti, causa l'immatura morte, non possono
non essere dalla posterità degnamente letti, amati, adorati. Mantova. Il
medesimo in una lettera del 3 gennaio dell'anno seguente, narrandogli un sogno
avuto in una notte giocondissima, in cui il filosofo gli apparve, discutendo di
cose arcane del cielo e della terra, lo esorta a scrivere la vita dello zio
della quale nessuno è meglio informato di lui e più adatto a farlo, per essersi
proposto d'imitarlo come un esemplare di sapienza e di religiosità. Essa, conclude, riuscirà di
grande conforto a tutti coloro che, come
me, hanno amato il filosofo e sofferto per la sua perdita un dolore più grande
che per quella di qualunque altro. Mi sono doluto si della morte di Merula, mio
condiscepolo e precettore e di quella d'Ermolao e del Poliziano, due uomini
illustri; ma di gran lunga superiore fu il cordoglio per quella del nostro
Pico. Piangono la sua morte l'eloquenza, l'arte, la filosofia e ogni
speculazione, che trovarono in lui un
degno cultore; ma tuttavia egli non è morto invano, noi stimolati dal suo
esempio ci sforzeremo di pervenire là dov'egli gode già di essere pervenuto.
Tale era il rimpianto che lasciava dietro di sé il personaggio scomparso, tale
la somma di pensieri, d’affetti, di care simpatie che, a guisa di scia
luminosa, traccia nel percorso della sua breve vita. Egli scompariva dagl’occhi di tutti in quel mezzo in cui
s'incrocia col fascino della giovinezza non ancor sfiorita tutto ciò che vi è
di bello e di profondo nella vita dell'uomo; e non è a stupirsi se
nell'immaginazione dei contemporanei tanto alto assurgesse colui che, per la
bellezza della persona, pell'ingegno favorito da una memoria prodigiosa, pell
cuore sensibile a ogni impressione e per tutte quelle prerogative che non si possono tramandare
cogli scritti, dovette certo figurare uno di quegli uomini che sono il vanto e
la meraviglia di un secolo Fu osservato che il Rinascimento è l'epoca delle
forti individualità che spiccano con caratteri originali sull'amorfa moltitudine.
Quelle individualità che, come Farinata degli Liberti, il Conte Ugolino, Pier
delle Vigne, Francesca da Rimini,
emergono nel mondo delle ombre per opera del pensiero di Dante (e il
pensiero precorre sempre l'azione) si realizzano in carne ed ossa nei
condottieri, nei commercianti, negli artisti, negli uomini di Stato, nelle
donne celebri del Rinascimento. Non pochi di questi personaggi giunsero sino a
noi e sono ancor vivi nella storia, non tanto per quello che hanno lasciato,
quanto per quello che hanno fatto; non
tanto per quello che hanno fatto quanto per quello che hanno suggerito ad altri
di fare. Borgia non ha lasciato nulla che giustifichi la fama che rende celebre
il suo nome, ma le sue gesta, il suo carattere, hanno gettato il loro forte
riverbero nella mente del Macchiavelli, il quale fu tratto a scrivere il
Principe. E cosi dicasi di tanti altri uomini di quel periodo glorioso la fama dei quali giunge sino a noi per opera
di scrittori e di biografi. Altrettanto può dirsi di Pico della Mirandola, ir
quale, se lasciò non pochi scritti, non è già per questi che è ricordato, ma
per le lodi di cui è stato insignito dai contemporanei. Siamo qui dinanzi a un
problema che non sempre è stato valutato adeguatamente. È proprio vero che la
grandezza di un uomo si debba misurare da ciò che ha lasciato, da ciò che anche
per i posteri può essere materia di esame? Se si dovesse risolvere il problema
in modo affermativo, allora molte figure storiche dovrebbero relegarsi
nell'oblio, fuori del quale esse rimangono tuttavìa chiare e sempre splendide.
Ben disse il Balbo che Cesare appare piìi grande di Pompeo per quello che ha
lasciato, ma non per quello che ha compiuto;
certo in questa assegnazione del compito non sempre la storia si rivela
giusta e imparziale. E non ci sembra privo di significato il detto del Leopardi
quando afferma che la gloria di un uomo dipende più dal caso che dal merito. Ma
noi crediamo che la vera soluzione del problema si abbia quando si tenga conto,
oltre di ciò che può da noi essere giudicato, anche dell'elemento di quell'unanimità che è possibile riscontrare
nei giudizi dei contemporanei su di un dato personaggio. Perchè, torniamo a
ripetere, non tutto ciò che vi è di bello e di profondo nella vita può sempre
tramandarsi cogli scritti, nei quali molte particolarità che rientrano nella
componente di una personalità storica, possono essere trascurate o, comunque,
taciute. E nel caso del Pico non tutto ciò
che vi era di nobile e di affascinante in lui, che lo rendeva così
singolare in vita, si può vedere negli scritti suoi. Quindi il nostro giudizio
finale sul Pico oltre che da un esame della sua dottrina doveva essere
integrato da quanto scrissero e giudicarono i contemporanei. Ecco perchè nello
svolgere la sua vita e le sue opere, non potemmo trascurare anche le lettere e
i giudizi di alcuni uomini del suo
tempo, massime di quelli che vissero con lui nei pii!i intimi rapporti. Inoltre
per meglio ritrarre la figura del Mirandolano, abbiamo voluto seguire un metodo
che, contrariamente a quanto avviene negli studi d'indole storico-filosofica,
seguisse lo svolgimento del suo pensiero procedente di pari passo con lo
sviluppo storico della sua vita. Forse non saremo riusciti nel nostro intento, e la monografia-profilo tra
gli altri difetti presenterà quello di essere inordinata, sconnessa, e poco
chiara. Ma non dovremmo sperare indulgenza se in cambio potremo dare la
sensazione di essere rimasti sempre fedeli allo spirito del nostro autore? Noi
ci siamo adoperati a mettere in rilievo sopratutto ciò che nell'opera del Mirandolano
rispecchia fedelmente gli stati del suo
spirito, travagliato da una crisi interiore che si rivela piij intensa che
negli altri contemporanei. Il Ficino visse più del doppio del Pico e pure,
benché si parJi della sua conversione nel tempo in cui prese gli ordini sacri,
non offre esempio di quel doloroso dissidio che fece soffrir tanto il nostro
autore. Il Poliziano trasse sino alla tomba l'inalterabile serenità della sua
anima ellenica. Il Pico che si era spinto
col pensiero nei vari campi del sapere, perseguendo un ideale che gli sfuggiva
sempre, la concordia di tutti i filosofi e di tutte le scuole, cominciò a
provare quella specie di disillusione che subentra con la coscienza
dell'inanità dei propri sforzi. Dall'aere rarefatto in cui l'avevano portato
certe sue elucubrazioni, senti il bisogno di abbassarsi un poco più vicino
alla solida terra dell'esperienza e di
restringere i suoi studi a quegli argomenti che si fondano sulle incrollabili
basi dei pochi ma sicuri scrittori, le cui opere hanno sfidato i secoli. E
infine, non trovando più neFlo studio che aveva coltivato con tanta passione,
la pienezza cui anelava la sua anima irrequieta, pensò di darsi alla vita
attiva del religioso e di confondersi umile e negletto tra i semplici del volgo dai quali aveva cercato di
distaccarsi colle sue aristocratiche teorie. Non v'è figura forse nella storia
che, come quella di Pico della Mirandola, si contrapponga con tanta evidenza al
dottor Faust. Mentre questi, nauseato dei libri e degli alambicchi della sua
stanza solitaria in cui era invecchiato precocemente, abbandona lo studio al
quale invano aveva chiesto la soluzione
degli enigmi piij affannosi, e si slancia nella vita festante dove sorride il
volto soave di Margherita; Pico invece lascia giovane e bello la corte
principesca con le sue caduche frivolezze, per il fascino di ciò che vi è
d'imperituro e non declina come la luce del giorno, per le idee che illuminano
i nascosi sentieri della verità a coloro che sanno formare in se stessi gli
organi atti a contemplarle. Ciò che
infine piace nel Pico, è di vedere in lui compendiati molti caratteri singolari
della stirpe italiana, che più di ogni altra sente il fascino della bellezza,
della gloria e sa per esse immolarsi. Questa nostra stirpe ha sempre
dimostrato, fin da quando nel Pantheon dei Cesari accoglieva tutte le divinità,
di saper comprendere ed apprezzare le manifestazioni religiose degli altri popoli; e anche quando unificò gli
spiriti nella religione cattolica romana, diede prova della sua tolleranza in
quella stessa Roma, in cui all'ombra del Vaticano, potevano vivere indisturbati
gli ebrei, che altrove erano perseguitati e vilipesi. Ogni volta poi che questa
stirpe fu colta da quelle profonde crisi che non risparmiano alcun popolo, essa
ha saputo riformarsi senza cadere in
quegli eccessi che fanno rompere ogni rapporto col passato 0 che,
abbandonandoci al caos rivoluzionario, ritardano, invece di far avanzare, la
civiltà. E noi assistiamo sovente a questo fenomeno che come nella massa della
nostra gente, si avvera nei singoli, e cioè, che quanto più il volo della
fantasia o lo slancio dell'ingegno li porta a varcare i confini della
tradizione e delle leggi civili e religiose, proprio allora succede un ritorno
o, meglio, un più forte sentimento di amore e di venerazione per la religione e
le usanze dei padri. Se è vero che nell'individuo sono compendiati tutti i
caratteri della specie, possiamo ritenere che, come pochi, riesce il Pico a
compendiare queste caratteristiche della razza italiana. Onde, nel modo istesso
che egli soleva dire che, se fosse vera
la teoria pitagorica della
trasmigrazione delle anime,
avrebbe creduto che in Marsilio fosse redivivo Platone; cosi noi potremmo dire,
in senso metaforico, che in ciascuno di noi rivive un poco dell'anima
entusiasta e pugnace di Pico (iella
Mirandola. Concludendo, il nostro j^iudizio sarà diverso la quello pieno
di rimpianto che di lui e delle ne opere
formularono i suoi contemporanei, se)ndo
I quali la morte precoce impedì al suo ingegno di raggiungere la pienezza degli
anni maturi. La monografia -profilo che abbiamo tentato di fare del Pico, ci
induce a scartare, come assolutamente infondata, questa opinione che potrebbe
anche apparire a un esame superficiale ilella vita del Mirandolano. Noi siamo
del parere che il Pico non mori quando la sua carriera letteraria era a mezzo, ma piuttosto quando era
compiuta. Se la morte lo sorprese, fu soltanto tlla svolta della sua vita,
quando già egli era per intraprendere un nuovo cammino. Il Pico se fosse ancora
vissuto, si sarebbe dato alla predicazione, a una vita di apostolato in
servìgio della religione cristiana: egli insomma non avrebbe più lavorato per
la gloria del mondo e quindi per la scienza, ma
unicamente per la gloria celeste e cioò per la sua anima. Già gli ultimi
frammenti della sua produzione letteraria, accusano i sentimenti di un morituro
alla vita del mondo, di un nascituro a quel genere di vita che, rinnegando il
mondo e le sue comuni soddisfazioni, è
una preparazione a una buona morte. Il Pico poeta. Come abbiamo detto, tra la
farragine di scritti che teneva ne' suoi
scrigni, egli aveva le Disputationes e i versi raccolti in più libri i
presumibilmente cinque); a quelle egli diede pubblicità, e questi volle
consegnare alle fiamme. Tuttavia qualche cosa sfuggi all'incendio: una trentina
di sonetti in volgare che, scoperti contemporaneamente dal Dorez e dal Ceretti,
furono publicati sulla fine del secolo scorso; e in latino alcuni distici ad
esaltazione della Bucolica di
Benivieni i2j;un breve epigramma laudativo a Poliziano i3), e un carme elegiaco. Dorez li pubblica in una rivista romana la Nuova
Rassegna e il Ceretti a Mirandola. Sono stampati. ^Ac.
74b delle opere del Benivieni stampate a Venezia per Nicola Zoppino e
Vincentio Conipapagno) e in Opera. Poliziano
espresse il suo dolore in un epiragmma slg
"còv tcìxov perchè il
Pico diede alle fiamme le sue poesie. In ed. Del LUNGO, pagina 217, num.
LUI. Opera, Dei quattro carmi latini due: De expellendis Venere et
cupidine e In martyrem Laurentium Hymnus
publicati nei Carmina III. Poet.
appartengono al nipote. L'elegia In Inudem Dei et prò oratione ad Deum facienda.
Siccome poco o nulla possiamo dire del Pico come poeta latino, soffermiamoci alquanto sui suoi meriti come
poeta italiano, attendendoci all'edizione dei sonetti curata dal Ceretti. Il
nostro scopo in questo breve esame non è quello di risolvere una questione
estetica e molto meno di offrire un testo critico delle rime in volgare del
Mirandolano; esso mira unicamente, in coerenza all'indirizzo che abbiamo
seguito nel corso del nostro studio, a indagare
se anche nei componimenti poetici si rivela qualche nuovo "lato
della personalità del nostro autore. I sonetti del Pico appaiono più
esercitazioni scolastìche che espressione di stati d'animo; essi trattano per
lo più argomenti d'indole filosofica e morale. L'intonazione petrarchesca si
rivela sin da principio: Ed io sono esemplo al popol tutto il qual verso
richiama il noto sonetto del Petrarca
che incomincia: al popol tutto Favola fui gran tempo. Cosi dicasi del
primo verso di quell'altro sonetto: Spirto che reggi nel terrestre bosco che
ricorda il petrarchesco: Spirto gentil che quelle membra reggi. Tuttavia anche
in alcuni di questi sonetti come nel quarto della raccolta citata, non è
difficile notare qualche sprazzo di luce, un afflato poetico che dimostrano
come Pico sapesse talvolta elevarsi
colle proprie penne e l'ode Ad Pctrum Medicem
=> (che insieme all'epigramma
per il Poliziano si trova nel cod. Laur.
XC, sup.) sono d'argomento
religioso, moraleggiante. G. Bottiglioni, La Lirica Latina neUa 2. metà del secolo XV in Annali della R.
Scuola Normale di Pisa, nel cielo della poesia 5 . Un indice che il Mirandolano era anche uno
studioso di Dante lo abbiamo nel sonetto V, in cui tenta di
esprimersi con lo stile forte e solenne del Poeta, come nella quartina: Quinci colei, da cui mai non iscampa Scese
nel mondo e in alto precipizio Guida chi del gran primo benefìzio Grata memoria
non riscalda e avvampa. Nel sonetto VI c'è un'eco delle sue ansie di mistico,
del suo sospirare alla patria lontana che forse il presentimento della
morte vicina rendeva tanto bella al
pensoso giovane: Non m'accorgeva, dico,
ahimè infelice! Esser qui in viaggio, esser qui posto in bando; Altrove esser
la patria e la mia stanza. C'è qui anche una visione tetra della vita che
oscura le cose più leggiadre, come i fiori che intristiscono sul loro stelo, le
balde esistenze discoloro che avanzano frementi di speranza e finiscono tòsto
per cadere: E che quando l'uom crede
ch'egli avanzi Spesso al suol cade ed e'gran sonno dorme, E che seccarsi e
diventar può informe Subito un fior che verdeggiava dianzi. Ma se il suo
pessimismo se così può denominarsi) è appena momentaneo, egli non poteva ancora
essere assalito dal dubbio assillante dell'autore di Amleto, ne da tutto il
travaglio del pensiero critico che troverà la sua espressione nelle poesie del Leopardi. 11 Pico era ancora
in quell'età in cui l'uomo appena s'inoltrava nelle vie del (5. Ci atteniamo airedizione del CERETTI,
Sonetti Inediti del Conte F G Mirandola, 189». Non hanno notevole interesse la
canzone e .1 sonetto che si trovano nella raccolta Delle Rime Scelte di GABRIEL G.OLITO, Vinesia, dubbio, sì ritraeva tosto
inorridito e abbracciava la croce come
un'ancora di salvezza. E mentre al mio
passato erro pensando Tengo fermo nel cor l'alta radice Di carità, di fede, e
di speranza. E ci descrive anche quando egli si distilla il cervello per
decifrare gli antichi codici cui spera di carpire qualche segreto; e come al
chiaror della lampada, nell'alta quiete della notte, fisso in quei punti oscuri
che arrestano ogni slancio del pensiero, egli
provasse l'ansia, il dolore fino alle lagrime per ciò che invano
sospirava di poter chiarire: Versan lagrime sempre le mie luci E pur quand' altri posa, il sol si parte, Non
men quando al ritorno scuote l'ombra Mentre il sudor distilla in qualche libro
Pel caldo a cui non trovo aura né ombra. Abbiamo accennato altrove come il Pico
non fosse di forti passioni, se si esclude quella per la gloria; non ebbe una forte passione per la donna, e
anche quando ne parla, non esprime nulla di suo e cade nella rettorica. Tale ci
appare il sonetto che incomincia: Era la donna mia pensosa e mesta nel quale il
Pico fa apparire il suo cuore nudo a guisa d'un messaggio a Madonna che, mossa
alfine a pietà, nell'umido suo seno allori'accolse. Né riesce più efficace
quando per colorire meglio dei
sentimenti che non provava,
ricorre alla mitologia. Così nel sonetto
fX) Per quel velo che porti agli
occhi avvinto, pieno d' invocazioni a Venere, a Psiche e a Cupido. Notevole
nella sua forma esteriore è il sonetto che
incomincia: "Io mi sento da
quello ch'era in pria Mutato da una piaga alta e soave, che, anche
tecnicamente, è uno dei meglio riusciti del nostro autore. Non privo d'interesse è il sonetto a forma di dialogo
tra Pa e Po, il quale appare anche nella Raccolta di Poesie italiane inedite di
duecento autori di Trucchi. Nel
sonetto XII sembra abbia coscienza della sua incapacità a
trattare di amore, perchè mettendosi a celebrare un grande personaggio del tempo forse un Papa o Lorenzo il Magnifico
immagina che Apollo Io consigli a lasciare Amore e a cantare
d'un chiaro splendore che alluma l'universo; e riconosce che quando
vuole emulare altri Petrarca riesce meno abile: e fatto emulo altrui Spesso ad
altrui mi fa parer men chiaro. Non privo di grazia appare il sonetto nel quale
Pico, che si ora innamorato di una donna da altri amata, la paragona a una
cerva inseguita da due cacciatori e incerta se fuggire o gustare il dolce
miele. A\a il poeta, commosso della sua sorte, poiché
era In pericolo di cadere vittima del traditore, esclama: Ed io
di ciò me ne affanna molto Che m'accortala del ricoperto fele, E mentre me ne
doglio ella disparve. Forme e modi, come si vede, convenzionali, come
convenzionale è pure il sentimento della natura, non diverso da quello che ci
forniscono i modelli classici. Ecco come II Pico dipinge nel sonetto la campagna che si
ridesta al soffio primaverile: Chiara gemma più assai che chiaro Sole Quando
apre l'anno verde, e rivi e colli Orna di fresche e pallide viole! Ed ecco come
parla dell'estate nel sonetto XV: Era nella stagion quando il Sol rende A' due
figli di Leda il bell'uffizio. Quando ch'io giunsi all'ombra d'un ospizio Ove natura le sue forze estende. L'amore ei lo fa nascere: Quando la terra Si riveste
di un verde e bel colore; 242 e questo
amore è il dio platonico che non muore mai: Ojfendeti la morte o la vecchiezza?
No, che rinasco mille volte al giorno. Ma quando il suo pensiero da soggetti
frivoli o comuni, passa ad argomenti più elevati, per esempio a quello di
patria, allora pare che si ridestino in lui i nobili sensi della sua
stirpe guerriera, e la sua penna sa
foggiare parole taglienti come lama acuminata. Dopo avere notato come il
prestigio che un tempo aveva l'Italia stia per passare oltr'Alpe, e
specialmente in quella Gallia che doveva, proprio nel giorno della sua morte,
mettere il piede ferrato sull'Itali^
egli allora guarda la patria italiana come a un'ombra dell'Inferno
dantesco: Allora mi parca come del ceco
Regno di Dite stanno i spirti bui; Che si conosce un ben quando é
perduto. Ed è pieno di reminiscenze dantesche la chiusa del sonetto: E quando
il danno tuo fìa conosciuto Intenderai, se avrem da pianger teco. Dicendo: non
sai più quella eh' io fui. Anche le competizioni di parte, le lotte intestine,
le guerre fratricide tra città e città, tra regione e regione, trovano un'eco
nel sensibile suo cuore. Egli, che aveva
studiato e agito per trovare una conciliazione fra le idee, per perseguire il
suo ideale di pace fra gli uomini, deve constatare che questi non cessano di
combattersi fra loro in forma violenta e sanguinaria. II sonetto
XVII è l'espressione del suo cuore angustiato di figlio di questa misera
Italia, e sebbene si senta l'ispirazione di Dante, pure il Pico sa rendere abbastanza la sincerità del suo sentimento. Misera
Italia, e tutta Europa intorno Che il tuo gran padre Papa giace e vende.
Marzocho a palla gioca e lunge stende. La Biscia è pregna ed ha in sul capo un
corno. Fernando infuria e vendica il gran
scorno, San Marco bada, pesca e poco prende, La vincta Biscia ora S.
Giorfiio offende, La Lupa a scampo veglia notte e giorno. Nulla di
notevole preserftano i cinque sonetti
che compaiono nella seconda parte della raccolta; prevale in essi l'intonazione
filosofica. Ciò che si rileva è l'aspirazione del poeta ad elevarsi dagli amori
frivoli e passeggeri di questo mondo a quell'unico amore che arde sempre nella
inalterata beatitudine. Egli che aveva provato le pene, le gelosie, i languori
degli amanti: Uno star divoto più che divino
Basi, sussurri, risi: in un momento
Mi han fatto servo: e dir non so di cui. ebbe però anche la forza di
dominarsi e di drizzare l'occhio alla contemplazione del sempiterno bene: e
degno obietto Nel guai ogni sua forza ha posto il Cielo E veramente pur me stesso lodo Che a tanta
electionc hebbi intelletto Levando totalmente a gli occhi il velo. Dopo questo
sommario esame dei sonetti, la figura
del Mirandolano ci rivela un altro lato della sua caratteristica personalità. E
se alle opere filosofiche egli deve maggiormente la sua celebrità presso i
contemporanei, e se per esse lo riteniamo degno di studio noi moderni, non
dobbiamo misconoscere anche i suoi meriti letterari. Noi riteniamo che non sia
lecito tacere del suo contributo, modesto quanto si voglia, alla
letteratura italiana, le cui
manifestazioni se furono cosi splendide nel cinquecento, ciò si deve al solerte
lavoro di preparazione, di prove, di conati che caratterizzano il quattrocento,
del quale il Pico se fu l'ultimo in ordine
di tempo, non fu l'ultimo per merito e
importanza. Sul contenuto e sul valore delle poesie del Pico esiste un lavoro
di Testa, Pico della Mirandola e i suoi contributi in rima alla lirica del Quattrocento, Aquila, che noi
non riuscimmo, per quante ricerche
fatte, a trovare. In Rassegna
Bibliografica d. L.
Italiana, an. Vedi la recensione del Flamini alla publicazione dei
sonetti fatta da Dorez e da Ceretti. Cfr. pure Giornale stor. di Leti. Italiana, e la Rivista Abruzzese. Vedi
infine Giorn. stor. di Letteratura
Italiana. Giovanni Semprini. Semprini. Keywords: il deuteuro-esperanto di Grice,
PICO (vedasi). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Semprini.” Semprini.
Luigi Speranza -- Grice e Senea: la ragione conversazionale della scuola
di Caulonia – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia,
Reggio Calabria, Calabria. A Pythagorian cited by Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Senocrate: la ragione conversazionale della
scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean. Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Senofante: la ragione conversazionale della
scuola di Metaponto – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. Metaponto, Calabria. Pythagorean – Giamblico.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Serbati:
la ragione conversazionale del divino nella filosofia italiana – la scuola di
Rovereto -- filosofia trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovereto). Filosofo italiano. Rovereto, Trento,
Trentino-Alto Adge. Important Italian philosopher. Frequenta l’imperial regio ginnasio. Studia a Padova. A
questo proposito i famigliari raccontavano come, fin dalla più tenera età,
legge alla luce della sua aureola. E in occasione della venuta a Rovereto
del vescovo di Chioggia per consacrare le chiese di S. Maria del Carmine e di S.
Croce, appartenente all'omonimo monastero, che, prendendo parte alla cerimonia,
ottenne il diaconato. Mostra una profonda inclinazione per la FILOSOFIA,
incoraggiato in tal senso da Pio VII. Si trasfere a Milano dove strinse
un profondo rapporto d'amicizia con Manzoni che di lui ebbe a dire -- è una
delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità. Manzoni assistette S.
sul letto di morte, da cui trasse il testamento spirituale "Adorare,
Tacere, Gioire". La sua filosofia destarono l'ammirazione, tra gli altri,
anche di Stefani, Tommaseo e Gioberti dei quali pure divenne amico. Dopo
aver dovuto lasciare il Trentino, per motivi di forte ostilità per le sue
posizioni incontrati da parte del vescovo di Trento fonda al Sacro Monte
Calvario di Domodossola la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità,
detta dei "S.ani". Le Costituzioni della nuova famiglia religiosa,
contenute in un libro che cura per tutta la vita, sono approvate da Gregorio
XVI. A Borgomanero svolge la sua attività di insegnamento e di guida spirituale
in un collegio S.ano, il "Collegio S.", regolato dalla Congregazione
della Provvidenza S.ane. Svolge una missione diplomatica per conto del Re
di Sardegna Carlo Alberto presso la Santa Sede. E presidente
dell'Accademia Roveretana degl’Agiati ed il suo posto, anni dopo la sua morte fu
assunto da Paoli, suo segretario ed esecutore delle volontà, già direttore di
Casa S.. Tra le sue volontà del vi e anche quella di donare a Rovereto un terreno
nell'attuale zona di S. Maria per costruirvi l'ospedale cittadino, e Paoli onora
tale decisione. Porta avanti tesi filosofiche tese a contrastare sia
l'illuminismo che il sensismo. Sottolineando l'inalienabilità dei diritti
naturali della persona, fra i quali quello della proprietà privata, entrò in
polemica con il socialismo e il comunismo, postulando uno Stato il cui
intervento fosse ridotto ai minimi termini. Nelle sue teorie il filosofo seguì
le concezioni di Agostino e AQUINO, rifacendosi anche a Platone. I suoi esordi
filosofici si ricollegano a GALLUPPI, sia pure polemicamente, in quanto S. avverte
con ogni chiarezza come risulti insostenibile una posizione di integrale
sensismo gnoseologico. La necessità di concepire una funzione ordinatrice
dell'esperienza, e a questa precedente, porta S. a guardare con interesse la
filosofia di Kant. Tuttavia non è soddisfatto di ciò che lui chiama l'innatismo
kantiano, legato ad una pluralità imbarazzante e precaria di categorie. Le
quali, d'altra parte, gli sembrano fallire lo scopo di far conoscere il reale
quale esso è, per la necessaria introduzione di modifiche soggettive nell'atto
stesso del conoscere. Il problema filosofico di S. si configurava perciò
come quello di garantire oggettività alla conoscenza. La soluzione non potrà
essere trovata, stante il rifiuto della trascendentalità kantiana e dei
connessi sviluppi, se non in una ricerca ontologica, in un principio oggettivo
di verità, che riesca ad illuminare l'intelligenza in quanto le si proponga con
immediata evidenza, universalità e immutabilità. Questo principio è per S.
l'idea dell'essere possibile, che da indeterminato contenuto dell'intelligenza,
quale originariamente è, si fa determinato allorché viene applicato ai dati
forniti dal senso. Essa precede e informa di sé tutti i giudizi con cui
affermiamo che qualche cosa particolare esiste. L'idea dell'essere, dunque,
costituisce l'unico contenuto della mente che non abbia origine dai sensi, ed è
perciò innata (“Saggio sull'origine delle idee”). Ma qui i problemi del
kantismo, che sembrano superati o almeno messi da parte, si riaffacciano con
urgenza: di fronte al mero ricevere dati, di cui parlava il sensismo, ha
chiarito che la mente umana nel suo uso conoscitivo formula giudizi, in cui
l'idea dell'essere ha funzione di predicato, cioè di categoria, e la sensazione
è il soggetto, di cui si predica qualche cosa. Nel giudizio, inoltre, il
predicato si determina e la sensazione si certifica: se questa è la funzione
propria del giudicare, ogni concetto non può sussistere che come predicato di
un giudizio; né a questa necessità sembra potersi sottrarre il concetto di
essere, che è dato solo nell'attività giudicante, come forma del
giudizio. Tuttavia non accetta tale riduzione, ed esclude proprio il
predicato di esistenza della funzione del giudizio, continuando ad attribuirgli
una natura oggettiva e trascendente. È l'essere trascendente che si rivela
all'uomo, lo illumina e gli permette di pensare. Chi lo nega come il nichilismo
cade in una vuota posizione nullista. Accanto a questa ontologia la sua etica
si sviluppa come etica caritativa (Principio della scienza morale). Dedica alla
politica una breve ma intensa fase della sua vita. Seguì Pio IX riparato a
Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica Romana, ma la sua formazione
attestatasi su ferme posizioni di cattolicesimo liberale e tale per cui e
costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore, a Stresa. Tuttavia, quando Pio IX vuole
istituire una commissione incaricata della preparazione del testo per la
definizione del dogma dell'immacolata concezione, nonostante ben due suoi saggi
(Le cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale) sono
all'Indice. Chiamato a prendere parte a tale commissione, e favorevole allo stato
liberale (vagheggiando la monarchia costituzionale), al costituzionalismo e
anche alla separazione tra stato e chiesa, sebbene non assoluta. Critica lo
Statuto Albertino proprio per il suo porre ancora il cattolicesimo come
religione di stato, elogiandone comunque il tentativo distensivo nei confronti
della Santa Sede. Critica la legge laicista ed anti-clericale. Si convince della
sostanziale bontà della maggior parte delle conquiste dell'età moderna,
criticandone solo le modalità: in tale ottica, critica sia la rivoluzione
francese che l'Ancient Regime, riconoscendo invece la sostanziale bontà dei
princìpi sanciti, distinguendoli dalle successive de-generazioni rivoluzionarie,
in polemica con chi, da una parte e dall'altra, sostene una società perfettista.
Continua a vivere a Stresa, fecondo nel perseguire il perfezionamento del suo
sistema di pensiero con saggi come “Logica” e “Psicologia”. Ratzinger, quando
la questione S.ana era ancora ben accesa, nell'ambito di una serata organizzata
a Lugano, dice. Nel confronto con le parole classiche della fede che sembrano
così lontane da noi, anche il presente diventa più ricco di quanto sarebbe se
rimanesse chiuso solo in se stesso. Vi sono naturalmente anche tra i teologi
ortodossi molti spiriti poco illuminati e molti ripetitori di ciò che è già
stato detto. Ma ciò succede ovunque; del resto la letteratura dozzinale è
cresciuta in modo particolarmente rapido proprio là dove si è inneggiato più
forte alla cosiddetta creatività. Io stesso per lungo tempo avevo l'impressione
che i cosiddetti eretici fossero per una lettura più interessante dei teologi
della chiesa, almeno nell'epoca moderna. Ma se io ora guardo i grandi e
fedeli maestri, da Mohler a Newman a Scheeben, da S. a Guardini, o nel nostro
tempo de Lubac, Congar, Balthasar quanto più attuale è la loro parola rispetto
a quella di coloro in cui è scomparso il soggetto comunitario della
Chiesa. In loro diventa chiaro anche qualcos'altro: il pluralismo non
nasce dal fatto che uno lo cerca, ma proprio dal fatto che uno, con le sue
forze e nel suo tempo, non vuole nient'altro che la verità. Per volerla
davvero, si esige tuttavia anche che uno non faccia di se stesso il criterio,
ma accetti il giudizio più grande, che è dato nella fede della Chiesa, come
voce e via della verità. Del resto io penso che vale la stessa regola
anche per le nuove grandi correnti della teologia, che oggi sono ricercate:
teologa africana, latinoamericana, asiatica, ecc. La grande teologia francese
non è nata per il fatto che si voleva fare qualcosa di francese, ma perché non
si presumeva di cercare nient'altro che la verità e di esprimerla più
adeguatamente possibile. E così questa teologia è diventata anche tanto
francese quanto universale. La stessa cosa vale per la grande teologia
italiana, tedesca, spagnola. Ciò vale sempre. Solo l'assenza di questa
intenzione esplicita è fruttuosa. E di fatto non abbiamo davvero raggiunto la
cosa più importante se noi ci siamo convalidati da soli, ci siamo accreditati
da soli e ci siamo costruiti un monumento per noi stessi. Abbiamo
veramente raggiunto la meta più importante se siamo giunti più vicino alla
verità. Essa non è mai noiosa, mai uniforme, perché il nostro spirito non la
contempla che in rifrazioni parziali; tuttavia essa è nello stesso tempo la
forza che ci unisce. E solo il pluralismo, che è rivolto all'unità, è veramente
grande. Pio VIII dice a S., in udienza. È volontà di Dio che voi vi occupiate
nella filosofia. Tale è la vostra vocazione. Ella maneggia assai bene la logica,
e la Chiesa al presente ha gran bisogno di filosofi. Dico, di filosofi solidi,
di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugl’uomini, non rimane
oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa
condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio
assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque
altra opera del Sacro Ministero. Gregorio XVI, successore di Pio VIII, in
risposta alla lettera che S. gli aveva indirizzato. Diletto Figlio, a te il
nostro saluto e la nostra Apostolica Benedizione. Abbiamo volentieri e con
animo lieto ricevuto la tua lettera con i sensi della tua devota sommissione a
Noi e alla Sede Apostolica in cui ci parli della pia Società, chiamata Istituto
della Carità e che con le tue fatiche è stata fondata nel territorio della
diocesi di Novara con l'approvazione del Vescovo. E soprattutto ci hai anche
informato che il medesimo Istituto è stato da poco chiamato anche dal Vescovo di
Trento nella sua diocesi e che qui molti ecclesiastici, di provate virtù, vi
hanno aderito. Per questi fatti davvero rendiamo il nostro umile grazie a Dio
autore di ogni bene. E quantunque questo Istituto non sia stato ancora
confermato dall'autorità di questa Santa Sede, tuttavia speriamo in bene di
esso e ci allietiamo che lo stesso si dilati con il consenso dei nostri
Venerabili Fratelli nell'Episcopato. Quindi, per quanto riguarda le Sante
Indulgenze connesse a questo istituto, che domandi siano concesse, ricevi
diletto figlio il nostro Rescritto unito a questa lettera, da cui sicuramente
comprenderai che rispondiamo positivamente alla tua richiesta. Ti assicuriamo
anche che ci è pervenuto il libro sopra i Principi della Dottrina Morale da te
edito e mandatoci in omaggio e ti dichiariamo il grazie del nostro animo per il
dono. Tuttavia per la tensione nelle gravissime fatiche del Governo Apostolico
non abbiamo ancora letto lo stesso libro, ma siamo certamente persuasi che esso
sia in tutto conforme alla più sana dottrina e utilissimo alla sua difesa.
Continua dunque, diletto figlio, lo studio e prosegui a spendere le tue fatiche
ad onore di Dio per l'utilità della Chiesa; in Cielo sarà copiosa la ricompensa
per la tua opera. Frattanto la paterna carità con cui ti abbracciamo
nell'umanità di Cristo sia pegno dell'apostolica benedizione, che sgorgante
dall'intimo del cuore ti impartiamo.» (Da Breve pontificio di Gregorio
P.P.XVI,) Pio IX rivolgendosi al Vescovo di Cremona dopo il decreto Dimittantur
opera omnia parlando di S. disse: «Non solo è un buon cattolico, ma
santo: Iddio si serve dei santi per far trionfare la verità. Leone XIII, al
tempo delle aspre e dolorose lotte che si svolgevano intorno al pensiero S.ano
sul finire del diciannovesimo secolo, in una lettera indirizzata agli
arcivescovi di Milano, Torino e Vercelli, fra l'altro scrisse: Ma non
vogliamo che con questo abbia a patir detrimento il religioso Sodalizio della
Carità; il quale come per lo innanzi spese utilmente le sue fatiche a beneficio
del prossimo, secondo lo spirito dell'Istituto, così è desiderabile che
fiorisca in avvenire e prosegua a rendere ognora più abbondanti frutti. Col
decreto del Sant'Uffizio "Post Obitum"firmato da Leone XIII, vennero
condannate, in quanto "non conformi alla verità cattolica", XL proposizioni
contenute nelle opere del S., le quali la sacra congregazione romana
"giudicò doversi riprovare, condannare e proscrivere, nel proprio senso
dell’autore", chiarendo inoltre che non era lecito "a chicchessia di
inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non vengono condannate
per questo decreto, siano per veruna guisa approvate". Giovanni
XXIII, negli ultimi anni della sua vita, meditò in ritiro spirituale le S.ane
"Massime di Perfezione Cristiana", assumendole come propria regola di
condotta. Anche Paolo VI prestò interesse nel S.: in occasione dell’anniversario
di fondazione dell'Istituto della Carità inviò un messaggio all'allora padre
generale, in cui elogiava l'intuizione del S. nel dare un grande peso alla
missione caritativa già nel nome del nativo istituto religioso, appunto
l'Istituto della Carità. Pubblicamente Paolo VI lo cita durante il discorso
tenuto alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana riguardante la cultura cattolica e l'Europa.
Inoltre sotto il suo pontificato venne tolto il divieto di pubblicazione
dell'opera Dalle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Alla morte di Paolo VI
venne eletto Giovanni Paolo I, laureato in sacra teologia alla Gregoriana con il
saggio, “L'origine dell'anima umana”. È bene precisare che Luciani e fortemente
critico nei riguardi del pensiero S.ano, solo successivamente cambiò opinione,
rivolgendo nei riguardi di S. parole di ammirazione e stima. Tuttavia fu
con il pontificato di Giovanni Paolo II che il pensiero S.ano ha potuto
liberarsi delle aspre critiche e delle condanne che accompagnavano l'Istituto
della Carità fin dai tempi della sua fondazione. Nella Lettera Enciclica Fides
et ratio, Giovanni Paolo II l’annoverato tra i pensatori più recenti nei quali
si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e Parola di Dio». Ne ha
inoltre concesso l'introduzione della causa di beatificazione, conclusasi nella
sua fase diocesana novarese.
Ratzinger da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
emana il famoso documento Nota ai Decreti dottrinali sul Rev.do sac. S.. La
nota si concludeva confermando la validità del decreto Post obitum sulle
quaranta proposizioni, e allo stesso tempo con la riabilitazione di S.:
«Il Decreto dottrinale Post obitum non si riferisce al giudizio sulla negazione
formale di verità di fede da parte dell'Autore, ma piuttosto al fatto che il
sistema filosofico-teologico del S. era ritenuto insufficiente e inadeguato a
custodire ed esporre alcune verità della dottrina cattolica, pur riconosciute e
confessate dall'Autore stesso. Si possono attualmente considerare ormai
superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali,
che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum di condanna di quaranta
proposizioni. E ciò a motivo del fatto che il senso delle proposizioni, così
inteso e condannato dal medesimo decreto, non appartiene in realtà alla sua autentica
posizione, ma a possibili implicanze. Resta tuttavia affidata al dibattito
teoretico la questione della plausibilità o meno del sistema S.ano stesso,
della sua consistenza speculativa e delle teorie o ipotesi filosofiche e
teologiche in esso espresse. Nello stesso tempo rimane la validità oggettiva
del Decreto Post obitum in rapporto al dettato delle proposizioni condannate,
per chi le legge, al di fuori del contesto di pensiero S.ano, in un'ottica
idealista, ontologista e con un significato contrario alla fede e alla dottrina
Cattolica. Il documento ribadisce la diversità di linguaggio e apparato
concettuale del sistema S.ano rispetto al tomismo, l'assenza di apparato
critico nelle opere postume e la permanente "difficoltà oggettiva di
interpretarne le categorie, soprattutto se lette nella prospettiva
neotomista". Benedetto XVI autorizza la Congregazione delle Cause
dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo della guarigione di Ludovica
Noè, attribuito alla sua intercessione. Tra quelli portati dalla postulazione
dei padri S.ani, si è scelto di dare maggiore impulso a quello della guarigione
della suora sopracitata, poiché il medico che la curò si convertì in seguito
all'accaduto. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, a
margine del Convegno sulla sfida educativa tenuto a Milano, ha tenuto un
intervento intitolato "Istanze educative e questione antropologica"
in cui riconosce le sue istanze pedagogiche. A. Bagnasco ha presieduto a Stresa
la celebrazione eucaristica per il suo Dies Natalis. Nel corso dell'Angelus
domenicale e ricordato per la sola carità intellettuale e perché testimonia la
virtù della carità in tutte le sue dimensioni e ad alto livello. Avversario del
sensismo e dell'illuminismo e mentore e maestro intellettuale di quattro pontefici
eletti consecutivamente: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II.
Nulla osta della Congregazione per la dottrina della fede che consente l'inizio
della causa di beatificazione. Apertura del processo informativo diocesano dopo
la nomina dei censori teologi e delle commissioni storiche in Novara. C. Papa diventa
postulatore della causa succedendo a Belti, storico dell'Istituto e già
Direttore del Centro di Studi S.ani di Stresa. Chiusura del Processo
informativo Diocesano. Consegna del Trasunto alla Congregazione per le cause
dei Santi. Apertura del Trasunto. Decreto di Validità del processo diocesano.
Schema per la stesura della Positio. Consegna del lavoro sul Post obitum curato
dal Postulatore. Il Relatore generale approva il lavoro sul Post obitum e il
lumen oculorum tuorum Consegna del lavoro sul Post obitum alla Congregazione
per la Dottrina della Fede.Il giorno dell'anniversario della morte di S. viene
pubblicata sull'Osservatore Romano la Nota della Congregazione per la dottrina
della fede sul valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere
del Rev.do sacerdote S., a firma del cardinal Ratzinger e di mons.
Bertone. Rilascio del Nihil obstare per
la Causa di Beatificazione. Il Relatore
approva e firma la Positio. Conclusione
della stampa e consegna alla Congregazione per le cause dei santi della
Positio. Consegna del Trasunto super miro alla Congregazione per le cause dei
santi. Validità dell'inquisizione diocesana sul processo super miro.
Presentazione fattispecie super miro. Revisa della fattispecie con firma del
sotto-segretario. Relatio et vota del Congresso Storico (con esito positivo).
Relatio et vota del Congresso teologico super virtutibus (con esito positivo).
Ordinaria della Congregazione per le cause dei santi: esito affermativo.
Ponente della Causa Fisichella. Benedetto XVI autorizza la Congregazione per
le Cause dei Santi a promulgare il decreto di esercizio eroico delle virtù. La
Consulta medica della Congregazione per le Cause dai Santi, si esprime con
esito affermativo (all'unanimità 5 su 5) circa l'inspiegabilità scientifica
dell'evento di guarigione avvenuto a Noè. Il presunto evento miracoloso è
avvenuto. Al termine del dibattito, i Consultori si sono unanimemente espressi
con voto affermativo (7 su 7), ravvisando nella guarigione in esame un miracolo
operato da Dio per intercessione Benedetto XVI autorizza la pubblicazione da
parte della Congregazione per le Cause dei Santi del riconoscimento della virtù
eroica di S.. A Novara si celebra la beatificazione dando lettura del decreto
di Benedetto XVI che l’iscrive tra i beati. La beatificazione è avvenuta a
Novara: appositamente è stato fatto allestire il Palasport della città, unico
luogo capace di raccogliere un numero di fedeli così significativo. Con
il pontificato di Benedetto XVI le beatificazioni vengono preferibilmente
celebrate dai cardinali, per rendere ancora più piena la comunione tra loro e
il successore di Pietro, e viene privilegiato il luogo in cui il candidato agli
onori degli altari ha vissuto. Così, in qualità di delegato pontificio, la
celebrazione è stata officiata da J. Martins,
allora prefetto della congregazione per le Cause dei Santi. A fianco
dell'altare erano disposti gli spalti da cui hanno concelebrato circa 400
sacerdoti, non soltanto S.ani. A prendere parte alla processione e
celebrare sull'altare, insieme al preposito generale Flynn c'era il segretario
generale dell'Istituto Domenico Mariani con gli allora componenti della Curia
Generalizia dell'Istituto della Carità, il Vicario per la Carità
SpiritualeCrish Fuse, il Vicario per la Carità Intellettuale Taverna Patron, il
Vicario per la Carità TemporaleDavid Tobin, l'allora preposito della Provincia
Italiana don U. Muratore (profondo conoscitore di S.) e il postulatore della
Causa di Beatificazione, Papa. Hanno partecipato alla celebrazione anche
il cardinale ex prefetto della Sacra Congregazione per i vescovi Re, il
cardinale arcivescovo di Torino S. Poletto, il vescovo di Novara, mons. R.
Corti, l'arcivescovo di Trento, mons. Bressan, il vescovo S.ano mons. Antonio
Riboldi e fra gli altri anche G. Zaccheo (che sarebbe improvvisamente scomparso
due giorni dopo), vescovo della Diocesi di Casale Monferrato, mons. Luigi
Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea (che durante la III sessione del Concilio
Ecumenico Vaticano II fece per primo il nome di S.), l'allora segretario
generale della Conferenza Episcopale Italiana G. Betori, G. Lajolo, presidente
del Governatorato della Città del Vaticano, l'allora rettore della Pontificia
Università Lateranense, mons. Rino Fisichella, il Vicario Episcopale per la
Vita Consacrata dell'arcidiocesi di Milano monsignor Ambrogio Piantanida e il
preposito generale dei barnabiti, padre Villa. Tra i numerosissimi fedeli
(più di diecimila) accorsi da diverse parti del mondo per presenziare alla
celebrazione, hanno preso parte anche personalità politiche. Tra queste
il senatore a vita Scalfaro, l'allora presidente del Senato, Marini, e Parisi,
al tempo Ministro della Difesa. S. è il primo beato della Provincia del Verbano
Cusio Ossola. In occasione della beatificazione sono stati moltissimi i
quotidiani e periodici italiani e esteri che hanno dedicato articoli, pagine e
interi numeri alla figura di S.. Sono numerosissimi i suoi saggi. Certamente
il più importante a livello ascetico e spirituale e le “Sei massime di perfezione”,
su cui anche Giovanni XXIII fa delle riflessioni prima di morire. Gli costarono
la messa all'Indice dei libri proibiti le opere "Delle cinque piaghe della
santa chiesa" e "Dalla costituzione secondo la giustizia
sociale". In filosofiia meritano di essere ricordato il “Saggio
sull'origine delle idee”. Altri saggi: “Principii della scienza morale”; “Filosofia
della morale”; “Antropologia in servigio della scienza morale”; “Filosofia
della politica”; “Trattato della coscienza morale”; “Filosofia del diritto”; “Teodicea”;
“Sull'unità d'Italia”; “Il comunismo e il socialismo”. Le sei massime di
perfezione sono formulate per definire il fondamento spirituale sul quale ogno
uomo puo avere un cammino nella perfezione. Siate perfetti come è perfetto
il vostro Padre celeste (Matteo 5,48). Desiderare unicamente ed infinitamente
di piacere a Dio, cioè di essere giusto. Orientare tutti i propri pensieri e le
azioni all'incremento e alla gloria della Chiesa di Cristo. Rimanere in
perfetta tranquillità circa tutto ciò che avviene per disposizione di Dio
riguardo alla Chiesa di Cristo, lavorando per essa secondo la chiamata di
Dio. Abbandonare se stesso nella provvidenza di Dio. Riconoscere
intimamente il proprio nulla. Disporre tutte le occupazioni della propria
vita con uno spirito di intelligenza. Di particolare interesse e “Le cinque
piaghe della santa Chiesa". Mostra odi discostarsi dall'ortodossia
dell'epoca. Per tale ragione il saggio fu messo all'Indice e ne scaturì una
polemica nota col nome di "questione S.ana". L'opera eriscoperta al
Concilio Vaticano II. Il primo a parlare al Concilio di S. e Bettazzi. Mi sia
consentito ricordare S., molto legato ad Aquino. Ma anche studioso e amante del
suo tempo, e che certamente guadagna a Cristo non pochi uomini. Tutto questo mi
sembra si accordi con le cose che sono state già dette da non pochi padri su
questo schema in generale, che cioè gl’uomini non si aspettano dalla Chiesa
soluzioni particolari, ma piuttosto la presentazione di valori che li aiutino a
trascorrere questa vita umana più nobilmente e con maggiore sicurezza. Parlando
della libertà, esaltare i valori dell'umiltà. Parlando del matrimonio, il ruolo
della fortezza. Parlando dei problemi economici e di molti altri problemi,
l'efficacia di un certo disprezzo delle cose. Occorre dunque mettere in luce la
necessità dell'ubbidienza, della castità, della povertà, non solo nella vita e
nell'esempio (e nella Bozza di Documento!) dei religiosi, aiuto agl’uomini di
questo tempo, perché possano vivere la loro vita umana nel modo migliore e più
efficace. Il primo e principale compito dunque per gl’uomoni che coltivano la
sapienza dev'essere, alla luce del Magistero, l'amore delle Scritture e l'amore
di questo mondo in un colloquio franco e aperto. Paolo VI dice. I suoi saggi
sono pieni di pensiero, una filosofia profondo, originale che spazia in tutti i
campi: quello filosofico, morale, politico, sociale, sopra-naturale, religioso,
ascetic -- filosofia degna di essere conosciuta e divulgata. È stato anche un
profeta. Le Cinque piaghe della Chiesa (una volta la chiesa non aveva piacere
che si mettessero in luce le sue mancanze, le sue debolezze). Previde
partecipazione liturgica del popolo. La sua filosofia indica uno spirito degno
di essere conosciuto, imitato e forse invocato anche come protettore dal Cielo.
Ve lo auguriamo di cuore. “Delle cinque piaghe della santa chiesa” è suddiviso
in cinque capitoli corrispondenti ciascuna ad una piaga, paragonata alle piaghe
di Cristo. In ogni capitolo la struttura è la medesima: un quadro
ottimistico della Chiesa antica segue un fatto nuovo che cambia la situazione
generale (invasioni barbariche, nascita di una società cristiana, ingresso dei
vescovi nella politica) la piaga i rimedi. La prima piaga e la divisione del
popolo dal clero nel culto pubblico. Nell'antichità romana, il culto era un
mezzo di catechesi e formazione e il popolo partecipava al culto. Poi, le
invasioni barbariche, la scomparsa della lingua dei romana, la scarsa
istruzione del popolo, la tendenza del clero a formare una casta hanno eretto
un muro di divisione tra il popolo e i ministri di Dio. Rimedi proposti:
insegnamento della lingua romana, spiegazione delle cerimonie liturgiche, uso
di messalini in italiano. La seconda piaga e l’nsufficiente educazione del
clero. Se un tempo i preti erano educati dai vescovi, ora ci sono i seminari
con piccoli libri e piccoli maestri: dura critica alla scolastica, ma
soprattutto ai catechismi. Rimedio: necessità di unire scienza e pietà. La
terza piaga e la disunione tra i vescovi. Critica serrata ai vescovi
dell'ancien régime: occupazioni politiche estranee al ministero sacerdotale,
ambizione, servilismo verso il governo, preoccupazione di difendere ad ogni
costo i beni ecclesiastici, schiavi di uomini mollemente vestiti anziché
apostoli liberi di un Cristo ignudo. Rimedi: riserve sulla difesa del
patrimonio ecclesiastico, accenni espliciti di consenso alle tesi dell'Avenir
sulla rinunzia alle ricchezze e allo stipendio statale per riavere la
libertà. La quarta piaga e la nomina dei vescovi lasciata al potere
temporale. Compie un'approfondita analisi storica sull'evoluzione del problema
e critica i concordati moderni con cui la S. Sede ha ceduto la nomina al potere
statale (e, accenna prudentemente, per avere compensi economici). Rimedi:
propone un ritorno all'elezione dei vescovi da parte dei fedeli. La quinta
piaga e la servitù dei beni ecclesiastici. Sostiene la necessità di offerte
libere, non imposte d'autorità con l'appoggio dello Stato, rileva i danni del
sistema beneficiale, propone la rinuncia ai privilegi e la pubblicazione dei
bilanci. A Rovereto gli ha dedicato il liceo che frequentò quando ancora
si chiamava Imperiale e Regio Ginnasio. Borgomanero ospita l'Istituto S..
Domodossola ospita il liceo delle Scienze Umane "S. (istituto parificato).
Roma ospita la sede dell'Istituto Comprensivo. Torino ospita la biblioteca
Antonio S. del polo biomedico universitario che in passato fu un istituto
scolastico attivo fino alla fine del XX secolo. Trento, dove si trova il liceo
"S.". Farina, Prosser Prosser
Bonazza, L'Accademia Roveretana degli Agiati, su agiati, Accademia Roveretana
degli Agiati, «Paoli artefice della
rinascita dell'Accademia e suo president. Ragionamento sul comunismo e
socialismo, Grondona, Genova, Questa tesi fu messa in discussione da Abbà a cui
S. controbatté nel Diario filosofico di Adolfo, Riv. S.ana, Pagani Rossi. Nota
sul valore dei Decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere). Angelus: S., esempio per la Chiesa, su
agensir, Biografia di S. su vatican. Istituto S., su S. borgomanero. Liceo delle
Scienze Umane su cercalatuascuola.istruzione. Istituto Comprensivo S., su ic-S.
Biblioteca S., su biomedico campusnet.unito. su vivoscuola. M. Farina, Gl’Agiati, Brescia,
Morcelliana Edizioni, Italo Prosser, El
pra' de le Móneghe: cronistoria del monastero di S. Croce nell'antico comune di
Lizzana, Rovereto (Trento), Stella, Approfondimenti Sciacca, La filosofia
morale di S., Torino, Bocca, Pusineri, S. (Edizione riveduta e aggiornata da Belti), Stresa, Edizioni S.ane Sodalitas,
Dossi, Profilo filosofico di S., Brescia, Morcelliana, Valle, S. Il carisma del
fondatore, Rovereto, Longo Editore, Marangon, Il Risorgimento della Chiesa.
Genesi e ricezione delle "Cinque piaghe" di S., collana Italia Sacra,
Roma, Herder, S., Frammenti di una storia della empietà, a c. di Cattabiani con
una nota filologica di Albertazzi, Trento, La Finestra, Giorgi, S. e il suo
tempo. L'educazione dell'uomo moderno tra riforma della filosofia e
rinnovamento della Chiesa Brescia, Morcelliana, Dossi, Il Santo Probito, La
vita e il pensiero di S., Trento, Il Margine, Gomarasca, La forma morale
dell'essere. La poiesi del bene come destino della metafisica, Milano, Angeli,
Paoli, S., Virtù quotidiane, Verona, Edizioni Fede e Cultura, Paoli, Maestro e profeta, Milano, Edizioni San
Paolo, Sapienza, Eclissi Dell'educazione? La sfida educativa nel pensiero di S.,
Roma, Libreria Editrice Vaticana, Giuseppe Goisis, Il pensiero politico di S. e
altri saggi fra critica ed Evangelo, S. Pietro in Cariano, Gabrielli, Comunità
di San Leolino, Una profezia per la Chiesa. Verso il Vaticano II, Panzano in
Chianti, Feeria-Comunità di San Leolino Muratore, S. per il Risorgimento. Tra
unità e federalismo, Stresa, S.nane Sodalitas, Bergamaschi, S. La perfezione
della vita cristiana, Stresa, S.ane Sodalitas, Malusa, S. per l'unità d'Italia.
Tra aspirazione nazionale e fede cristiana, Milano, FrancoAngeli,. Domenico
Fisichella, Il caso S. Cattolicesimo, nazione, federalismo, (Roma, Carocci); Muratore,
Apologia della fedeltà. In difesa dei valori etici e spirituali, Stresa, S.ane
Sodalitas, Malusa, Stefania Zanardi, Le lettere di S., un "cantiere"
per lo studioso. Introduzione all'epistolario S.ano, Venezia, Marsilio, Zanardi,
La filosofia di S. di fronte alla Congregazione dell'Indice Milano, Franco Angeli.
Treccani Dizionario di storia, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. In S.
l'attenzione ai fatti di lingua e la speculazione sul fenomeno del linguaggio
furono non meno vive di quelle di Manzoni, esercitate però con sensibilità,
impostazioni e modalità differenti26. L'origine del linguaggio, in particolare,
seppur poco appariscente, è un tema delicato e importante del suo sistema
filosofico e ricorre a varie riprese lungo tutta la sua opera, talvolta con
brevi cenni indiretti talaltra in forme più estese. Una trattazione piuttosto ampia si trova già
nel saggio Sui confini dell'umana ragione ne' giudizi intorno alla divina Provvidenza
che costitusce il primo libro della Teodicea, ai capitoli 17-21, sotto la
rubrica della 'quarta limitazione dell'umana ragione', la quale recita: «La mente umana non può produrre a sé
medesima veruna scienza, senza che gliene venga dastraniera cagione proposta la
materia»27. Questo implica che prima della azione degli esseri sussistenti' la
mente umana è una tabula rasa, incapace come tale di astrarre senza lo stimolo
di segni che in qualche modo rendano sussistenti gli astratti (88-89). In altre
parole, «l'uomo conosce solamente quello
che a Dio piace di manifestargli
naturalmente soprannaturalmente,
ossia il mondo fisico e i contenuti della rivelazione. Dono di Dio non può che essere anche il mezzo
per passare dall'uno agli altri, ossia il lin-guaggio, perché la rivelazione -
principio paolino - si fonda sull'udito e inoltre presuppone già esistente la
facoltà di astrazione: pertanto «l'uomo non potea dare a se stesso il
linguaggio: onde egli ripete dal Creatore anche questo mezzo di conoscere. La funzione semiotica è condizione necessaria
della conoscenza, in quanto l'uomo «senza i segni non potea né pure concepire
gli astratti; e qui, diversamente che altrove, segni vuol dire senz'altro
parole, e precisamente i nomi di qualità. È questo il punto cruciale della
questione: non c'è astrazione senza segni-parole, ma i segni-parole
presuppongono le astrazioni. Evidentemente, dunque, l'uomo riceve dall'esterno,
cioè da Dio, il primo nucleo motore, già formato, di segni-parole. La tesi
dell'origine divina, già nettamente delineata,
trova così la sua enunciazione esplicita: Erano necessarj all'uomo segni esterni a'
quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se
stesso, mentre per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni
medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. Dunque
Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune
voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni insieme
con esse contemplate; queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione
dell'umana mente. Tali 'voci', prosegue S.,
poterono essere i nomi che, conforme al racconto biblico, Dio attribuì a
ciascuna delle opere della creazione al fine di renderle conoscibili, e
costituirono le prime astrazioni, in grado di mediare tra il visibile e
l'invisibile. Non dovette trattarsi
insomma di un insegnamento esplicito del linguaggio, bensì della sua
trasmissione indiretta unitamente alle verità della salvezza: «Quindi le eterne
verità furono, io mi credo, al linguaggio incorporate e con esso insieme
insegnate, e con esso altresì, «nella forma materiale della lingua quasi in
arca ben chiusa», custodite e tramandate di padre in figlio pur nel variare
storico dei sistemi linguistici. La sapienza e il linguaggio,dunque, «furono
dati all'uomo congiunti nella stessa guisa, sarem per dire, come furon creati
congiunti alla materia i suoi accidenti. Non per nulla la Bibbia attribuisce
allo Spirito santo il dono delle lingue: Pare adunque che l'ispirato scrittore
voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non
poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva
nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della
favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce
l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse
incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e
sussistenti; ma un passo insuperabile, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare
nel dare le voci agli astratti, giacché gli astratti non li percepiva, non li
sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui li mostrasse. Nel
Nuovo saggio, com'è ovvio, quello delle funzioni del linguaggio e della sua
origine, nel senso gnoseologicamente ed epistemologicamente più pregnante, è un
tema cruciale che sarebbe interessante seguire analiticamente lungo le quattro
edizioni dell'opera curate dall'autore stesso. Non potendo farlo in questa
sede, e riconoscendo che «S. non è tutto nel saggio», mi limiterò a qualche
annotazione utile nel prosieguo del discorso.
Intanto, occorre rilevare che la critica alla teoria sensista
dell'origine del linguaggio non è sviluppata nel capitolo espressamente
dedicato a Condillac (del quale lì viene discusso unicamente il Traité des
sensations) bensì di fatto nel capitolo su Dugald Stewart, dove S. avverte che
il discorso svolto contro di lui, ovvero contro Smith, vale né più né meno per
tutti i sostenitori del romanzetto di questo selvaggio» inventore e
segnatamente per Condillac, al quale peraltro riconosce il merito di «aver
chiamata l'attenzione de' filosofi sulla mutua relazione della favella e del
pensiero. E notiamo per inciso che alcune delle contestazioni al «misterio
metafisico del lockismo, e il tono ironico con cui sono avanzate, torneranno
molto simili nelle pagine di Manzoni.
Per mostrare come nel 1830, data della prima edizione, l'impostazione S.ana
siaancora sostanzialmente quella del saggio poi confluito nella Teodicea, riporterò
soltanto due brani. Il primo è la conclusione di una nota facente parte della
lunga critica alla teoria della precedenza dei nomi propri sui nomi comuni,
sostenuta da Stewart sulla scorta delle Considerations concerning the first
formation of languages di Smith; il punto, osserva S., è sapere come la mente possa pervenire
alle prime astrazioni, e conclude: Ora
la mia opinione sopra di ciò la espressi già nel Saggio sui confini della
ragione umana. Io dimostrai in quel luogo, che l'uomo avea bisogno d'essere
ajutato e mosso a ciò da qualche segno esterno (lingua), che segnasse la cosa
astratta da se sola; e tale che fosse atto a eccitare e tirare la sua
attenzione e nella sola qualità astratta concentrarla. E fu di qui che io
dedussi l'impossibilità che avea l'uomo d'inventare da se stesso un linguaggio
completo e accomodato a' suoi bisogni.
Il secondo brano, anch'esso in nota, rientra nella dimostrazione del
linguaggio quale ragion sufficiente per l'astrazione, e accanto alla presa di
distanza da Bonald, presenta una distinzione molto importante. Avvertasi -
scrive S. - che qui non è mio intendimento d'investigare, se il linguaggio sia
d'origine divina od umana; avvegnaché da quanto fin qui ho ragionato la cosa
manifestamente apparisca»; ed ecco la nota:
È impossibile inventare il linguaggio da una mente umana che non
possegga idee astratte; perciocché nessuno può mai dare un segno ad idee che
non ha. Quindi è vera e bella la sentenza di Rousseau, «che non si poteva
inventare il linguaggio, senza il linguaggio»; se non che conveniva
restringerla entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee
astratte riguarda, la quale è la più nobile, e formale parte delle lingue. Non
essendo stata fatta questa divisione, Rousseau potè intravedere una verità
rilevantissima, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di
lui (né pure il sig. Bonald), data una
rigorosa dimostrazione. Ma restringendo la proposizione di Rousseau alle idee,
e vocaboli astratti, io credo che mi sia riuscito di dare quella dimostrazione
rigorosa che può tor via ogni dubbio dalla questione; ed il lettore può ben da
sé ravvisarla e comprenderla ne' principi che espongo in questo articolo sul
linguaggio, e da ciò che ho scritto nel Saggio sui confini dell'umana
ragione. La distinzione in realtà apre
nel tessuto teorico della tesi una smagliatura le cui conseguenze vedremo poco
oltre; e Manzoni avrebbe potuto ripetere che nelle 'condizioni necessarie per
essere una lingua' non si danno gradi, nemmeno di astrazione: si è o non si è
una lingua».apparire fra le pieghe del discorso nell'Antropologia
soprannaturale, dove l'autore sta al gioco condillacchiano di immaginare la
condizione umana primordiale, e scrive:
Supponiamo adunque l'uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però
degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi
raggomitolate in sé non avrebbero potuto avere nessuno sviluppamento; e fra
questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella
colla qual solo vien tratta all'azione la sua potenza di riflettere e
d'astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà ligata senza di ciò e nulla
operante; la qual favella tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovarla egli
medesimo. La fictio speculativa si
prolunga - poco manzonianamente, in verità! - in una minuta discettazione
intorno alla lingua primitiva dell'umanità, «argomento bellissimo. Basato
sull'ipotesi «che Iddio abbia il primo parlato all'uomo primitivo insegnando in
tal modo agli uomini ad astrarre, il gioco ha termine con la conclusione
secondo la quale «la lingua primitiva è parte divina, e parte umana. Una
conclusione conciliatoria e però rischiosa, ma che permette a S. di non entrare
in contraddizione con se stesso, perché se è vero che la parte umana è, come
aveva scritto nel Nuovo saggio, la più nobile e formale', la parte divina è
quella primaria e fondamentale. Pur con
qualche sfumatura, dunque, la posizione iniziale del saggio è mantenuta lungo
tutti gli anni Trenta, e la si ritrova immutata ancora al momento della
riedizione come primo libro della Teodicea. Senonché di lì a poco tale
posizione risulterà modificata in un modo assai significativo, se non
capovolta. Possiamo fare un primo tentativo di ricostruzione, se non di
spiegazione. Se torniamo ai due brani
già citati della Teodicea e li rileggiamo con le correzioni apportate a mano
dall'autore (praticamente le sole modifiche di contenuto in tutto il libro) su
un'esemplare dell'edizione Pogliani, troviamo un ragionamento più articolato e
in definitiva una tesi differente. Primo brano della Teodicea (le modifiche
sono evidenziate in corsivo): Erano
necessarj all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le
astrazioni: né egli poteva dargli a se stesso fin ch'era solo, ché per
inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i
vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. E dato ancora che, aggiunta
la sua compagna per le necessità del convivere, avessero i due coniugi trovati,
con un solo attocomplesso, i segni e gli astratti; qual lungo tempo ci sarebbe
bisognato ad arricchirsene in qualche copia? e con quella scelta che era
necessaria pel progresso morale, e per elevare le loro menti alle cose
invisibili? Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli
insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti
all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate; queste voci poterono chiamare a sé
l'attenzione dell'umana mente. Secondo
brano della Teodicea: Pare adunque che
l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione
del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo,
giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è
tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza
che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella,
non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle
cose sensibili e sussistenti; ma un passo difficilissimo, come dicevamo,
avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, ché gli astratti non li
percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui
si mostrasse. Come si vede, la conferma dell'origine divina si accompagna
all'ammissione di una pos-sibile, seppur poco probabile, formazione umana.
Resta fermo che ai segni-parole l'uomo non può pervenire con le sole proprie
risorse né da solo (entrambe le condizioni sono importanti); ma ai fini
dell'innesco della conoscenza, oltre all'intervento esterno da parte di Dio
mediante il dono dei primi segni-parole, in linea di principio è sostenibile
l'ipotesi che l'uomo acquisisca i segni-parole in società coi suoi simili
mediante degli atti unitari complessi semiotico-astrattivi. I due brani tratti dal Nuovo saggio, rimasti
inalterati lungo le prime tre edizioni, subiscono nell'edizione definitiva un
adattamento analogo, e anzi più marcato, per apprezzare il quale il solo
corsivo non è sufficiente ma bisogna leggere insieme le due versioni. Primo
brano del Nuovo saggio: Ora l'uomo ha
bisogno di essere aiutato a ciò da qualche segno esterno (lingua) che segni la
cosa astratta da se sola; e tale che sia atto a fissare la sua attenzione, e
nella sola qualità astratta concentrarla. Di qui l'impossibilità che l'uomo
solitario inventi da se stesso col suo puro pensiero un linguaggio, che a ciò
gli serva. Nel secondo brano del Nuovo
saggio cambia anche il testo a cui la nota è apposta: Avvertasi, che qui non è
mio intendimento d'entrare nella questione del fatto, se il linguaggio sia
d'origine divina od umana; e né pure nella questione filosofica della
possibilità»; ed ecco la nuova nota: È
impossibile inventare il linguaggio ad una mente umana prima che posseda delle
idee astratte; ché nes-suno può dare un segno a idee che non ha. Quindi la
sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio senza il
linguaggio» si deve restringere entro i confini di quella parte di linguaggio,
che le idee astratte riguarda. Non essendo stata fatta questa distinzione, Rousseau
potè intravedere una verità, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno
n'abbia, dopo di lui (né pure il sig. Bonald), data una rigorosa dimostrazione.
Restringendo dunque la proposizione del Rousseau alle idee, e vocaboli
astratti, ell'ha un fondo di verità. In primo luogo non si può inventare il
linguaggio da alcun uomo segregato dalla società de suoi simili, nel quale
stato né egli ha l'occasione di comunicare i suoi bisogni e pensieri agli
altri, né gli altri possono comunicar i loro. Ponendo poi un individuo umano
coesistente con altri uomini privi di linguaggio, due questioni si possono
fare. La prima, se quegli uomini potrebbero inventare un linguaggio prima
d'aver formate alcune astrazioni, o potrebbero formare queste astrazioni prima
d'avere inventato qualche linguaggio o de' segni, e rispondiamo negativamente.
La seconda, se potrebbero fare queste due cose contemporaneamente, cioè trovare
de' segni e coll'atto stesso formare delle astrazioni», e questo non lo
crediamo impossibile. Una considerazione
più attenta della natura costitutivamente sociale e altresì sistematica del
linguaggio ha condotto S. a modificare il proprio convincimento iniziale: non
si tratta più di singoli individui alle prese con singoli segni-parole, bensì
di comunità che danno forma a un sistema linguistico. Scrive infatti
nell'Antropologia soprannaturale: Se prendiamo una parola isolatamente
dall'altra non mostra veruna similitudine coll'idea, che per essa si esprime.
Ma all'incontro pigliando l'intiero discorso, cioè una serie di parole
avvedutamente ordinate, trovasi tosto una corrispondenza colla serie de'
pensieri. Egli è per questo, che le lingue sono sistemi di segni così
eccellenti che possono esprimere tutte le cose.
Può aver contribuito al ripensamento in questa direzione lo studio
attento delle prime produzioni linguistiche della nipotina Marietta, consegnato
nelle analisi e riflessioni - semplicemente straordinarie - del paragrafo del
Rinnovamento della filosofia. Ma non escluderei un'eco teorica dell'insistenza
manzoniana sul concetto di 'interezza' delle lingue; la si sente risuonare
ancora, per esempio, nella definizione di lingua data nella tarda Logica: un
sistema di segni vocali o vocaboli stabiliti da una società umana, adeguato a
significare i pensieri che i membri di quella società si vogliono comunicare
reciprocamente»36.6. Con il brano dall'edizione definitiva del Nuovo saggio
siamo già alla posizione assunta e sostenuta nella Psicologia, che del resto la
precede. Sappiamo già che la funzione dei segni è quella di «offerire dinanzi
allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare
l'attenzione», permettendo in tal modo la formazione delle idee astratte. Ora S.
è interessato a scoprire come questo avvenga, a vedere cioè «con qual progresso
e fin dove l'uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare
nella formazione del linguaggio. Il
momento iniziale è dato dall'istinto, che spinge l'uomo ad esercitare le
proprie facoltà vocali naturali e, mediante esse, a produrre dei suoni
indipendentemente dalla loro capacità significativa, la cui scoperta avviene in
un secondo momento; «questo - osserva S. - è già un passo grande al suo
sviluppo intellettivo, ma l'astrazione propriamente detta non c'entra ancora.
Che tipo di parole sono queste prime emissioni verbali umane? Riprendendo la tesi lungamente sostenuta nel
Nuovo saggio, S. ripete che la loro natura è di nomi comuni, salvo a precisare
però che vengono u s a ti come nomi propri: una concessione di non poco conto
all'opinione che Stewart aveva tratto da Smith, precedentemente avversata. Da
qui la ricostruzione, al tempo stesso filogenetica e ontogenetica, di come «un
po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti
gli oggetti » di una stessa classe, un tipo di nomi che andrebbero definiti
sostantivi qualificati anziché aggettivi sostantivati. L'attribuzione dei nomi comuni però non
comporta ancora l'attività eminentemente intellettuale dell'astrazione, che è
successiva e richiede altre condizioni. Per illustrare le quali, S. esplicita e
spiega il proprio ripensamento sull'origine del linguaggio: Noi abbiamo altrove espressa l'opinione che
gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni,
per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la
divina origine di questa parte della lingua. Di poi abbiamo fatto più maturi
riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo
adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità. È
indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l'avviamento a parlare
da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della
lingua. Ma trattandosi d'una semplice possibilità metafisica, se l'umana
famiglia (non l'uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno
alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa
operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai
di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno
avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l'umanointendimento. I pochissimi astratti (forse di divina
origine) rinvenibili nelle lingue antiche non esimono insomma dal domandarsi
come «l'umana famiglia potesse giungere da se stessa agli astratti puri, almeno
ad alcuni di essi. La risposta di S. consiste sostanzialmente nel fare appello
al meccanismo cognitivo elementare della metafora a base metonimica: avendo già
gli uomini coniato un nome per il braccio in quanto arto anatomico, per
nominare la proprietà della forza che distingue quell'arto dagli altri, invece
di inventare appositamente un nuovo nome, adoperano la designazione primitiva
estendendone il significato. Un'illustrazione nobile di questo meccanismo
semiotico la si trova nel commento al prologo del vangelo di Giovanni: Pare, che primieramente gli uomini abbiano
nominata la parola esterna e sonante come quella che cade sotto i sensi. Più
tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna non era che un segno
che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo
dunque nominare questa cosa interna significata in vece di imporle un nome
proprio, vi adattarono lo stesso vocabolo che significava la parola esterna,
lasciando, che il contesto del discorso chiarisse quando a quel vocabolo
convenisse dare il significato antico di parola, suono proferito cogli organi
della voce a significare; e quando gli si convenisse dare il significato nuovo
della cosa interna nello spirito colla parola significata. Questa maniera di
estendere alle parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini
estendono le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perché
esigge uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini,
oltrediché le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione con le
idee o cognizioni precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono,
e più agevolmente si prestano al ragionamento; giacché i nessi fra esse e le
notizie più antiche e più famigliari sono pronti. Solamente più tardi, quando
la mente è già sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa
parole nuove e proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero
le parole vecchie da comuni diventano proprie perdendo il primitivo
significato, e ritenendo solo il nuovo 38.
Ma restiamo sul testo della Psicologia, che nel procedimento descritto
vede la chiave naturale per poter accedere alle astrazioni: Ed ecco già trovato
il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più
apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada
perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga
unicamente significativo dell'astratto. Giunge così a termine l'indagine sul
modo in cui «comincia a formarsi naturalmente una lingua. Ora, pervenuta la
mente a fissare alcuni astratti coll'aiuto di tali segni sensibili
somministrati dalla natura,quindi denominati, applicando ad essi il nome
imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più
impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane n a tu - ral ment e spiegato. Nessun ostacolo logico dunque impedisce di
ritenere la lingua un prodotto umano, inventato al doppio fine, cognitivo e
comunicativo, di dare slancio al pensiero individuale e di socializzarne le
acquisizioni: Nel che - conclude S. - è da ammirare la sapienza del Creatore,
il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare
libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell'uomo l'istinto, e di
più gliene ha egli stesso comunicati i primi elementi. La conseguenza del nuovo
atteggiamento di S. è che il linguaggio sparisce progressivamente dal suo
orizzonte speculativo. Anche a non volersi spingere così oltre nella
spiegazione del fatto, il fatto resta: non c'è paragone tra la ricchezza e
l'importanza delle riflessioni semiotico-linguistiche disseminate nelle sue
opere fino alla Psicologia, e — se ho visto bene - la scarsità di spunti, pur
interessanti, presenti al riguardo nell'immensa Teosofia, che lo impegnò negli
ultimi anni. Torniamo ora per finire allo scambio epistolare da cui siamo
partiti. La mia convinzione è che, dopo il silenzio seguito, non sia stato
Manzoni a convertirsi all'idea dell'essere, della quale poteva già essere ben
persuaso, salvo ad esitare davanti alla 'question di cominciamento'; è stato
piuttosto S. - messo in allarme, grazie ai dubbi di Manzoni, circa il possibile
esito pansemiotico della propria posizione gnoseologica (evitato in maniera del
tutto estrinseca mediante il ricorso all'origine divina del linguaggio), che in
sostanza avrebbe identificato pensiero e linguaggio compromettendo la ricerca
sulle idee la cui origine, risolvendosi linguisticamente, non avrebbe più
costituito un problema - a ridurre la portata cognitiva del linguaggio
esteriorizzandolo e tenendolo sotto il controllo della ragione in modo da
poterne postulare l'origine umana, sia pure in uno con la capacità di
astrazione. Non per niente il ruolo del
linguaggio ai fini della formazione delle idee astratte passa dalla necessità
nel Nuovo saggio («necessità del linguaggio per muovere la nostra intelligenza
a formare gli astratti) alla utilità nella Psicologia («fu da noi provata
l'utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli
astratti), per di più con la restrizione: «utilità che in altro non consiste se
non. E pur considerando che questo paragrafo della Psicologia
iniziadistinguendo il problema della pensabilità di un'idea dal problema della
sua formazione, la sua conclusione sull'errore dei nominalisti consistente nel
ritenere che le idee astratte non siano «né possibili a formarsi, né pensabili
senza i segni del linguaggio» è in palese contrasto con l'enunciazione netta di
Teodicea 100 secondo la quale «senza i segni non potea neppure con c e pir e
[che qui equivale a formare] gli astratti»; un contrasto non sanato e forse
nemmeno rilevato, che del resto si mantiene nella stessa Psicologia: «gli
astratti sono pensabili per se stessi senza bisogno dei segni, e contra: «le
astrazioni hanno bisogno di segni per pensarsi. S. passa così in qualche modo
dalla coimplicazione di pensiero e linguaggio, o quanto meno da una loro
stretta correlazione, alla strumentalità del secondo rispetto al primo,
chiaramente attestata dalla Logica dove chiama i segni, o meglio i sistemi di
segni, le gambe e anzi le stampelle o i trampoli del pensiero. Per quanto riguarda specificamente il nostro
tema, riprendendo i termini degli studi recenti di storia del pensiero
linguistico moderno, possiamo dire che, dietro la spinta di Manzoni, S.
parrebbe convertirsi dal 'genetismo' alla 'storicità'40; ne potrebbe essere un
indizio la progressiva presenza nelle sue pagine di diverse sfumature:
l'insistenza sulla socialità quale fattore costitutivo dell'essere umano,
l'accento sulla totalità strutturata del linguaggio, l'attenzione verso il
funzionamento del linguaggio in atto. Si
tratta però di una conversione non perfettamente articolata. Il suo esito
paradossale è infatti che nella Psicologia S. finisce col pervenire, come s'è
visto, a una tesi di sapore condillacchiano: il linguaggio nasce su base
istintuale dai segni (vocali) naturali, che solo in un secondo momento si
istituzionalizzano nella loro funzione semiotica, con applicazione
all'ontogenesi); e Manzoni avrebbe poturo ripetergli la stessa postilla apposta
a un passo di Condillac: «Si tratta proprio di sapere come le grida possono
diventare segni» (Postille) 41. Ciò facendo S. capovolge anche, di fatto -
malgrado la distinzione fra 'natura' e
'uso' di essi -, la successione dai nomi comuni ai nomi propri originariamente
sostenuta nel Nuovo saggio. Pur mantenendo l'opinione che i «pochissimi
astratti» delle lingue antiche siano «forse di divina origine, spiega
l'astrazione come un processo di metaforizzazione di metonimie dal referente
fisico: ecco «n a tu ralm ent e spiegato» il «cammino della mente. Questa
attitudine appare palese nella conclusione già citata di Psicologia 1532, dove
cerca di salvare l'unione di entrambe le tesi genetiche asserendo che l'origine
del linguaggio è umana e che Dio ha assistito l'invenzi on e immettendone
l'istinto e fornendone «i primi elementi».
In conclusione, mentre la propensione storica orientata sui 'fatti'
linguistici, al fondo,faceva negare a Manzoni non tanto e non solo l'origine
umana del linguaggio ma in primo luogo la legittimità stessa di una questione
di origine a proposito del linguaggio, l'impulso alla confezione di un 'sistema'
filosofico complessivo fece passare S. da una tesi ad un'altra ma sempre
all'interno di un'ottica di ricostruzione genetica originaria delle 'proprietà' del linguaggio. Ma è la prima
prospettiva quella che nella svolta dal genetismo del Settecento alla storicità dell'Ottocento si è
rivelata vincente e ha dato nuovo impulso allo sviluppo delle scienze del
linguaggio.. i .mi OPUSCOLI riLOsopci m^ OPUSCOLI FILOSOFICI OPUSCOLI FILOSOFICI
VOLUME IL MILANO DALLA TIPOGRAFIA FOGLIAN MDCCCXXTIU. .# f (g 7*aiiliim abtst ut seribi cntra noa noUmuj
ut id eliam maxime opUmus in ipsa enim
Gnecia^ phUsophiit uuUo in honore nun" quamjiuei, pisi doetMmanm cpfiter|-
Uonibus distensionibus^ue viguitset. Cic, Tusc. q, II, 2. N, 1 KL Volarne
preaeale si contengono due Opu- scoliy aopra i promessi. Em non prendono gi a
trattare dimltamente nessun nuoro punto di fiio" s(^a , ma sono pi tosto
indirizzati a sgombrare la yia dagli ostacoli che si frappongono agli avan
zamenti della Tera filosofia* Uno di questi ostacoli^ e non certo il meno
dannoso, la disacconcia maniera onde gli
umini dedicati allo studio talora comunicano insieme i pensieri e le diverse
loro opinioni. Questa vor- rebbe pur essere serena e tranquilla, quale ne- cessario di onservare la mente e l'animo
ac- ciocch sieno- idonei alla verit; ma in quella vece bene spesso commossa, azzuffata e turbo*
leuta; e in molte scritture ohe si pubblicano presso di noi di letterarie
controversie, egli par di vedere anzi le idee sollevate in tumulto a difesa
dello scrittore o a rovina dell' avversario^ che lo scrittore stesso sorto alla
propugnazione delie idee salutari e della verit. a tor via 160 TI un vizio s nocevole ai
progressi del vero^ a torlo via massimamente dalla italiana letteratura , che
dovrebb^ essere essenzialmente sincera ed essen- zialmente gentile 9* tende uno
de^ due Opuscoli aggiunti^ intitolato: Galileo de' Letterati, L'altro^ che ba
per titolo: Eresie esposizione della filosofia di Melchiorre Gioia, procaccia
di mostrare in tutta la sua nudit ed abbiezione la filosofia di Elvezio',
riprodottsl sgraziatamente in veste italiana da taje^ che se avesse, in vece di
copiar servilmente il male dagli stranieri, ricer- cata liberamente col suo
iogegaola verit, mon avrebbe giammai prescelto d'estinguere^ qoant^era da lu,
nell'uomo l'intelligenza riducendoia alla sensazione, e la morale rivocandola
tutta al pia* cere. Come tutto ci che pu render nobile la filo* sofia
teoretica, si la distinaione dell' /cfea
dalla sensazioney cos non v' ha nulla nella filosofia pratica di elevato e di
sublime,. che noi discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge cke
obbliga, ed una semplice inclmazione che alletta. Se non v'ha nulla nell'umano
intelletto che diffe- risca essenzialmente dalla sensazione, non v'ha n pur
liulla che costituisca una differenza essenziale dell'uomo dai bruti-, e se non
v'ha altra legge morale che l'inclinazione a ci che piacvole,
tolto via con questo ogni ^znVto^ e non- esiste che un fatto. Una tale
filosofia distrugge adun- que V umanit, e non lascia per oggetto della
filosofica investigazione che V animale: ella
dunr ^ Masij perch nuiiGa^li llqo;(ia^due oaaratteri cfae dMiDfiiono la
yer filosofia ^xCM>' (a). .. . i. .
'i ' .-.. '>. . : ; Ini fatti ^
ridiioendo essa alb seassione eorpe^ lea tutto ci che nello spirito uoianO;^ non le reatai
adlog^etto- del suo sapere che lab: materia^ 0 per' meglio dre^ i puri ociden
della ^^nlate^ ria (3): e la materia
suhhiefcto di. divisione- an^ definita^ e non :pu^ somminiatrare^alla
ideate/ al- cuna Qosione di vera noit; gli' accidenit perdono aoehe quella unit
che ayer pob^bbero ove ven gaoo dal; subbietto divisi nel quale esistano^: o
per parlare pi aeciiratamente, del quale for* mM0 il mode d' esistere. Solo' lo
spirito il fonte della unit; e salo le;
essenze che per lo spirito esistono y sono quel legumii intim ; e .spi/ (i)
Vedi la PreCsizone al L"" Valams, paj;. s. (a) Ivi, pag. XI. &\
Ycd* ili.* Volarne, pag.. 87. Iftfll UuiUcke mizzano^pei^eooi dire, yeraceinMAe
k cose i,\ le iMenze ^md' avdr possiamo
uo sublnetto unico, indivisibile , e onde la* materia -stesfta che di natura
sua indcfinitamenle ai moltiplica e sperdyvesto'juna. .fopina semplice e
CMtante, e render dx^nea ia fsirsi oggette de^ nostri in- iQUettuali. ooneelli
e de^ nostri ragionamenti Qamdi ilellil filteofia* 4eUai*eeiisazione a35, a;^ 4 altrove pure ai roonoaceva il
medesimo vero; che forza a conosoerlo i'esperensa di un decadimento precipito0)
sofferta dall^ umanit Mito F educa-* isione materiale de' sofisti ^ cio sotto
un' educa^ zione parziale e priva di scopo 3 e cosi si di* ceva Scoprire il segreto (1) di questa grande armonia interiore^ tale lo studio cbe deve tempi , i' quali ostentando nna fiilaa
modestia (a), affeimafrano (i) If. Organ. I, 120. Va pensiero simile abbiamo is
ma delle lettere di' Seneca : ecco le pargole : Viinam ^ f uemcutmodum unwtrti
mundi facie$ in tonspeetum ve- flit, fi pkUowphia tota potiti oceurrerty
tiirdUimum MUNDO spcetaadtml Prqfcto enim omnes mortales in admirtionem sui
raper^^ r^UcUs hitj qum nune magna, magnorum ignorantia^ credimus (Sen^^ ep.
LXXXIX). Unniverso, Topera della divina Previdenza, presenta il tipo della vera
filosofia, dotata de^ due caratteri, deHa totlitl^ e della vmwk^ perfetta. Un
gentile non poteva che fame no desiderio^ Bacone ne parla pia snimosamente e
piJL SttUimeiaente , percb cristiano. (1) U buon senso italiano non si lascia
gi sempre ia*' porre da una simil modestia. Egli i gran tempo che iL Lami
ossenrsf a, che questa gente piena di
contraddi- noni , e che si trova intricata nelle proprie idee senza sa pere
onde uscirne: indi qual maraviglia che sia modesto dii si sta ravviluppalo ncHa
rete e vi sbatte innlUaeiiUt Ecco le parole del Lami in occasione di rifoiire
le cose del GerdiI contro alia Lockiana filosofia: Facendo qui eH nosccre il P. Gerdii le cootraddzloni qoas
cootinae dol Locke, cessa Ut maraviglia
di vederlo A propenso a d-> btare^ e
m scuopre chiaramente Porigiae ; dr qneU mo
desUa , per la quale riene egli tanSo elebrato ( iVb ^sUc UUer.^ T. XII , n. 39). Questi
dobb perpetui , queste die r uomo non pu cooo^oere quegl' intimi e enefico nella civilt;
dovuto visibilmente alla direzione e e che sola merita il nome di
sapienza^ propria del solo Dio, come ho
detto nel I.^ Vo). degli Opuscoli (pag. 248 e sef;g. e pag. 64 e segg ) : e P
nomo non pu appren- derla che mediante la rirlarione dirina, dalla quale egli jriccFe
quelle uidme proposizioni sommamente a lui ne- cessjirie ^ che sons il
risultato di tutta la scienza^ e la ve* riti delle quali Dio solo pu a lui
garantirla perch co nosce tutte le cose (Voi. I, pag. 76). I gentili medesimi
nel tempo che conoscevano la vera scienza non poter es- ser che quella fornita
de' dae caratteri della unit e della UMUtd^ sentivano il bisogno d una
rivelazione per averla, t dicevano: Sed hmc maior es$e raii^ f^idtiur^ qudun ut
hominum possit sensu^ aut cogitationt eomprchen4i ( V(d. la nota qui sopra,
pag.. xxvii.). La filosofia i T amore e la ricerca della sapienza, come eipraac
V origine della parola. Che cosa dunque vorr dire una Filosofia fornita de'
caratteri dell' a/iil e della tota>' Ut? Nient' altro, se non una. filosofia
diretta alla vera icienza : un amore , ana ricerca mediante la qaale Tuomo si
studia colla propria ragione di avvicinarlesi pia ch'egli possa , di
avridnarlesi indefinitamente quasi a limite de^ suoi voti e de' suoi pensieri.
(1) Ved. Voi. I, XII e segg., 70 e segg., a4S e segg. (1) Il march, di Beavfort
ne^ suoi articoR sopra la G* visitazione. XKt ^ aUMhflueisa oompoteate della
sovranit spi rituale. I disordini che
impediscono la societ di pervenire aliar
sua perfeone y non hanno altra causa che
la ribellione contro, il potere tutto
occupato a dimostra* re le limitazioni dell'umana ragione ne' giudizi intomo la
divina Proi^idenga; come si i^de fino dal titolo ) 5. {Uaatore benissimo si
cura di sapere fin dove la Rivelazine permeUe, e fin dove proibisce il cercare
le ragioni della divina Provi-- denza^ e tratta a lungo que* sto argomento
intutto ilpri* mo Saggio. Essendosi curato dUnddgare un punto s ri* levante^
egli ritrov che la Rivelazione i.^ ni proibisce interamente V indagare le
ragioni della divina Piwi* denza , a. n permete che l'uomo le indaghi ilHmita*
tamente e temerariamente). (i) Come inai parlare di filoiofla chi non ta n
poire che eomprea^ dot D9n ignifica.je non perfittamente conoscere? t elU
questa vera motim parlare aenteiiiioMaiente d tali argomenti aema saper n |Hire
il significato delle pi ovvie parole Jiloeofickef ^ fe duoqiie falso che ci che ncompreneibile f esclada qualunque
oogoiiionc, qualunque ricerca, l confondere i diversi gradi del oonosenvi
pia eoo oscuramente, fu Parte di cui
tanto abusarono gtUocreduI^ per hr credere agli sciocchi , che la religione
proponendo delle ooir in* ^ttmprtneHiUy proponga con ci delle cose di che sia
impofiibllo irere qualunque specie di cognifione. Il vesso drgt^nerMlttli qat alitato dair autore delP articolo della
Biblioteca Italiana: lungi da e r attribuire allo 9tuo i sentinenti di quelli,
de* quali egli co- pia e ripete le insulse obbiesioai. (a) Con tatto questo
discorso sembra che Pautore delParticoIo della ^I. Teglia stabilire che badando
alla Rivelasiooe si deve sospendere cfaalanquo estrciiio di ragione umana
iutorao alla dirins Providenaa. *% xxxri Ptti forse mostrarci Tautore degli
opuscoli che Dio ab- bia voluto soddisfare alla no- tra curiosit o non
piuttosto prescriverci di venerare una Maest occulta infinita e di osservare i
precetti della giu- stisia^dciPonest e della ca- rit? Di d non si cura Pmu*
tare degli opuHoU* I. La Rivtlatione non proibisce la ricerca delle ragioni
della Proyidenza. Pag. 4* Proibisce forse il legislatore sapientissimo che
ricerchiamo le ragioni delle leggi onde i beni ed i mali dispensa, se siamo da
tanto? Ansi a ci tutti c'invita. Pag. f. Egli
appunto col permettere che insorgano nMla mente delPoomo delle dobbiesse
o per dir meglio delle difficolt, che (Iddio) riscuote la inenia di Ini, che lo
provoca alla riflessione ed alla tnvestigasioDe del vero. Pag. 6. Non vuole dir
tutto egli stesso Pottimo Creatore delP uomo , perch P uomo Primi, stabili che
ti deve are dtla ngioiie, e mi imputa oome gnvsuno peccato l'aver io voluto
assrbirey eom^egli spaccia, ogni pernier
umano nelVadoriione religiosa e conquistar tutto Vuomo eolla eoi/de
speda' . La roiuegaenza di ipiette me propotiiioiii sarebbe, che dnoque non si
dttre badare alla Rivclamone perch in tal modo si proibi- rebbe al P nomo il
pensare. Rilevando stmili oontraddiBioD io non voglio attribaire (lo ripeto')
^entmeoti cosi empi e funesti alPaotore delParticdo della Biblioteca italiana:
conosco troppo gli effetti della disatteoaioDe sollc conse* fvente delle
scnlenie che si pronnnciano, so quanto
abbia d^iti- Aienta P istinto della iinitasione, comVsso apra Padito in certe
menti a tutte quelle idee che si credono nooete correnti f e metta sul lab* bro
delle parole convensionali che si rpetoifo perch si odono, e che scusano de^
solidi pcmieri e delle dottrine di un acquisto diA* ile e faticoso. Quanto al
merito della cosa. Il nostro avviso espresso a lungo nel Volume I degli
Opuscoli, si che nella Rivelatiooe ci sia
deiroscu- rit d'^adorare, e nello stesso tempo immensi campi di Inoe pe^ qnaK
spaziare liberamente quasi a dclitia romana iaielligenu. XXXVII non flt rimanga
neghittoso ed inerte: e d^ altro iato non ^ ama di levare alla sua cre'a tura
diletta il nobile piacere ^- ed il merito d^instruirai in pi cose da se
medesima. Per questo fine air uomo diede la facolt di conoscere 9 ac ciocch^
egli potesse onesta* mente rallegrarsi nello svol- gere a se stesso la acienca)
ncir essere egli medesimo in parte il proprio maestro. Pag. rxy. La ragione,
creata tutta per la verit ^ rattamente anela ad imbere quel raggio celeste, che
solo F appaga. Pero amico di e^sa il
Cri- stianesimo^ ed i Pastori della Chiesa (1) eccitarono mai sempre gli uomini
dotati d^in- gegno ad fiutare con questo la umana debolezza , che fa Poomo
immaturo a ricevere pienamente le rivelate dot- trine. Cosi Leone X, nella Vili
sessione del Concilio V Lateranese , imponeva sapien- temente a^ filosofi de^
tempi suoi di escogitare gli argo- menti che il puro lume na- turale offerisce^
co' quali ri- futare ed abbattere gli errori degli Arabi che allora ap- (1)
Questi tono i maestri che noi vorremmo posti salU attedra al palpito : ro^2iBio fivf tof Zim 1 fmtrs
immuo / pro/trM di fauanf xxxTin punto danneggavan la Chic- aa conciossach , diceva | non potendo il vero essere tf giammai opposto
al vero, tutti gli argomenti loro sono colla pura ragione solubili
Pag. 35. Dalla sola cogni* zione di queste vie e di que- sti sentieri (
della divina Pro- vidensa ) ^ aspettava il reale Salmista quel conforto di che
r afflitto suo spirito abbiso- gnava^ dalla cognizione, come espongono Eusebio
e Teodoro Eraclense, degli scopi della Providenza> delle lontane ve dute ,
secondo le quali Iddio comparte i beni ed i mali (i). II. La Redazione
proi" bisce la temert e la pre sanziona neWinvestigarc le - ragioni della
Providenza. Pag. ij. Il primo modo d*u sare della nostra rsgione in- torno la
Providenza divina* t proprio di loro che eoa animo reo e con mente dura o
superba investigano le di- vine disposizioni ^ bramosi , quasi direbbesi,
unicamente di potere in quelle trovare onde condannarle, e quinci coglier
cagiono di negare av- vero di formare quel Dio (0 Questo diaortra w noi fum,
ripntum udU oUa rtUffone di indentare U ragkim umana* che non amano, e che, con
perpetuo loro affanno , fiera* mente paventano. colpa di costoro tutto il disprezzo e tutta
Tonta, onde poscia si rcnoprc dal pubblico grido questo bene preclaro , la ra
gion*^ questo ampio fonte di consolazione, il sapere. Pag 37. Le Scritture me-
desime, che pure imprendono ad addottrinarci ne^ consigli della Providenza
divina , raf- frenano la foga e la baldanza della nostra avidit di cono- scere,
e n'avvisano cht per inuoltrare della nostra mente nelle pia alte cognizini,
essa verr sempre finalmente ad una ultima u linea, la quale di trapassare con
inutile fa- tica travaglier. Coree que* sta linea fatale fra il finito e r
infinito assoluto (i)^ e (1) Qaesto limita da noi tts|ilito alla ragione nella
divina Provi* deaza^ rooato contso.di
noi ia queste jparale Chiederemo a lai
come mai uno icrttore posta ra^anare dei coDMgli della divina ProvaUnaa osse se egli fosse Pintimo
eonfidcnte dei pepaieri di JDo- owneddia
nell^tto cliVgli pone 'osse teorema fondaioentale eh le
intelligenze create non possono avere il coneetto dello siruo Et* sere diTino ? A coi e facile rispondere oosi
a Se noi poniamo per limite delU
-ragiona nana nei giudisi iolomo alla divina Provi^ densa la annoanaa. d^ooa
idea pcMtiva ed.adegwita di Dio, perch
Il quteha cosa non tuoI ^ir tatto : i loflsti H^ineontro vanno i due
eeoMt) ore iembre ohe tutto li eaiMpM eolP amuia ragione, ore che non si ooooma
nvla. 00 E qu^lo' diittotCra he nel tenpo che noa vogliaio annientare la
i*agloe uavaiia , oon la- Togliano n pur rendere temeraria. (S) Presmne donque
troppo la mia regione r non danqae Toro
ehe io la voglia difttroggere. (f> Riirocedere da mia falsa strada aTansaret Torrete dafique voi ehe lo sprito
umano avanii coHamemnt ft^ quMUJda stradm intta, fmU eoi petet 9i miiet Per
salvare P animo vostro, debbo pensare che non sapete M he vi dite.
3.^ilfteoatiiiio ilUaiUlD Opus. Fil. T. JL voglioDO risaoDiC cari , rsuo- nar
enerati ai lontani po- steri. Pag. VII.
rivolto il quinto .Saggio a
dimostrare le agi- tazioni del cuore umano , quando rifuggendo dalla pa- tente
luce del Cristianesimo^ iTOam souTAaio iHDiE^ao sui passi gi fatti dalFuman
genere, e ai costituisce iso- lato fra nazioni pagane, s^ ab- bandona alle loro
Uusom come alle loro abbominazioni: egli percorre tutta la serie de gringanni;
e finalmente cerca orrbilmente Ja requie non mai trovata, neiringanno stes- so,
che perpetuamente rinasce e perpetuamente svanisce. {Alla pag.igesegg.si parla
a lungq del continuo progresso Mia societ urna* na^ che det^e essere aiutato e promosso
). IL Circa la ueechia filo* sofia scolastica^ ecco quello che io scrissi, Pag.
g6. Perchi questa (la filosofia) ritomi in amore ed in credito appo gli uomini,
io credo che bisogni riconci* liarsi in parte colle opinioni degli antichi, e
in parte dare ad esse il metodo de' moderni, lo stile facile, le applicazioni
pili larghe e vicine alPumana f XLII fta, e fioalmente Ponicne dd tutto ed il
oonpinnnto. E forse gli scolaatci caleati A al basso aono Taneilo che rag-
giangele filosofie antiche colle moderoe, e che conviene dili gentemeote
conoscere. Per- ciocch la scolastica era ia vero degradata, diventata pue- rile
e ridicola negli ultimi tempi ^ ma non cosi appari- sce ne^ suoi grandi
scrittori, fra^ xtlll iste nel non
confndere il lume naturale, col lume so* prannaturale^ che pur sem- pre debbe
rimanere distnto. Io ammetto che tutti e due vengano immediatamente da Dio,
tuttavia ii distinguo spe- cialmente dalia diversa na- tura de' loro oggetti :
que- sta distinzione ci che se- para
immensamente , come ' altrove ho osservato , il si- stema platonico dal sistema
cristiano. Pag. 57. Tutte queste li- mitazioni e tutte queste leggi, da cui r
intelligenza umana . vincolata e ristretta, non portano alcuna alterazione ne-
gli oggetti che da lei ven- gono percepiti, immediata- mente^ ond'essa si
rimane sempre un istromento atto alla verit. Le fatiche che questa nostra
potenza sublime ob- bligata di fare,
onde perve- nire alla verit e onde fruire pienamente del suo aspetto divino y i
sentieri anche tor- tuosi che talora debb'essa calcare, la luce immensa, in cui
finalmente s* immerge e da cui resta vinta e beatifi- cata^ tutto ci non toglie
punto che non sia tutto verit pura e semplicissima quanl' ella giunge a vedere^
non toglie XLir che r nomo non possa assi' cararsene, anzi ch^cgli final- mente
non possa non assica- rarseiie. Onde noi conosciamo la distidzone della verit
dal Perrorc? Se le nostre facolt intellettive create non fossero per la luce
del vero; chi mai insegnato ci avrebbe che il vero esste; chi ci avrebbe fatto
nascere il dubbio che ci che percepiam sia men- zogna? Non avremmo avuta
giammai alcuna inquietudine sul vero e sul falso de^ no- stri concetti, se le
nostre in- tellettuali potenze non fossero al vero ordinate. Lo scettici- smo
adunque, il pi assoluto pirronismo un
sistema che non potrebbe esser inventato se non da u essere creato per la
verit* Egli rende per- ci testimonio contro se stesso; egli dimostra e che il
vero esiste, e chVgli P oggetto delle
potenze intellettive del- Puomo, e che queste possono di lor natura al ver
perve Dire a cui tendono incessan- temente; mentre ogni potenza i proporzionata
al suo og* getto : ogni potenza , se non
guasta da accidentale ma* lore e se
direttamente ado- praU, alP oggetto suo na- J. Sili permesso di domaa-
dargli una risposili ai seguenti quesiti : I. Se alla causa della re* ligione
nuocano pia le di* spute teologiche, od i sofismi de' filosofi (^) XLV taralmente e infallibilmente coDgiungesi
(i). ly. (Circa il Teocratismo^ mi rimetto a ci che ho scritto nella
nota^pag.xwu). 7. ( / nostri sentimenti sulle questioni furono i se* guenti).
Pag. 2191. Le quali parole esortano gli uomini alla li* bera comuncazion del
sapere, a mettere insieme d che sa ciascuno , d che eia* senno seppe , per fame
un pubblico e ben assicurato te- soro; terminando questa mo- lesta propriet
esclusiva d'una sdensa individuale, per la quale T individuo aspira a nulla
meno che alla tirannia alla spede intelligente, e i molti individui dsputantsi
lo stesso scettro immaginario alla distruzione fra loro: e le na- zioni ed i
secoli pugnano pur fra loro in tanto pazza e in tanto /eroce battaglia. Pag.
979. E la variet delle opinioni in tutte le parti della filosofia insegner alla
troppo celere e confidente giovent la cautela in giudicare, U (1) Questo
non un mettere sulla cattedra maestri
die annientano Itrafione. (a) Le dispute teologiche, come pure le filosofiche,
ove sieno fatte con amore della Venia e drgli uonini, possono essere giovevolissime:
i sofismi non aono giovevoli mai XLVI 8. II. Se la causa della religione eaiga
di aDuientare la ragiope umana. 9. Uordine poi delle cose fuori di noi ai quello per cui siamo costretti a portarci
d?un tratto quasi con ni" pidissimo volo aW ultimo anello della catena di
fotte le cose^alla ragione uUimaf a Dio. Questa doUriua della totale
abdicasione di se stessi e dello assorbimento totale nella causa del tutto vien
predicata anche dai Bramini indiani ecc. tardit in condannare, la lar ghezza in
comportare opinioni contrarie alle proprie, e il pe- ricolo dello stringersi
sover- chiamente ad alcuno degli umani sistemi : dalle quali virt nasce la
urbanit e la dolcezza delle dispute, la fa- cilit della convivenza, e la
scoperta stessa della ritrosa verit. 8. {Fed. i passi arrecati di sopra ai num.
i , 3 , 5 ). 9. I. (Ecco ilpa^so non mutilato ) Pag. a35. Lo spirito del mondo
0 togliendo dalla na- tura Dio, 0 a lui non pea* sando , 0 pensando mozza-
mente a quello che gli con- Ycnga , non pu concepire la grande unit e semplicit
del- l'ordine di tutte le cose^ ma introduce in esse il disordine e lo scisma.
AlP incontro i cristiani cammitiando al gior- no della fede vedono colla mente
loro tutte le cose com- poste in un rdine solo ri- splendente di mille pregi ,
ma accolli tutti in perfettissima unit, mirando alla quale noa lor conceduto giammai di limitare i pensieri
fermandoli dal loro corso in qualche og- getto sparso in sulla via che XLVII
percornHM^ na moo coatietti a portadi Pan tratto quasi 00 rapidiasimo volo
alPuU thno anello th catena di 'tutte le cose, alla ragione altima, a Dio. IL
SuU'akdicazione di se stessi gone poscia condiaeende ai bisogni ed alle
infermit della non adulta e perfetta natura umana. lla sa bene, cbe V no- moin
questa vita, dove il con- sidera come sempre fanciullo, non pu tasere col suo
spi- rito attuato continuamente nel solo Do, e per tempera il gran precetto di
dovere sempre orare e vegliare in s dolce modo, che non di^ vieti Fuso delle
cose umane, degli amminicoli necessarii a questa povera vita, e altres delle cognizioni
intorno alle opere di Dio, qnando per qule cose nelF animo del- IVoihio tengano
oonlinua sog- gettone e av^amento a quel solo fine di tolte le eose, per
qudPiinico mexzo. Pag. 95a. La Religione in- coraggia tutte le scienze e le
arti anche quelle ch'hanno per ' dcopo gli onesti godi* menti di qusta terra.
Xl/VIfl iwft.fii cootengona nella ma opera, per \ l^ai o^aret pnwao ^hicdiesaia
col dimostrare , mentendo , la ma ^ilm^\pfsdc^sa ed imprudente (pag. 269, Feb-
braio i-Sft&tdiAla'iiBibl. *ltal.)- Quanto a me, io non rico-
;-9aiC0'jMiUa..>.di. e che vibra incessantemente contro alle ^ tenebra
liiftiDaiiriwa che queste giammai la comprendano. SULLA SPERANZA CONT&O
ALCVNE IDEE DI UGO FOSCOLO SAGGIO QUINTO. PIUEtOKDU FAarfJI QUASr ROTA CARRI:
ET QUASI AIIS VERSATILIS COGITATITS ItLIUS. EceleiiMrtictJ^ma. LIBaO FRIMO
DELLA SPERANZA INGANNEVOLE tem fifoni tMfertfacUi$ ^ mu fino sa certo- aegao e
a certo tempo, fino cbejawraaieiite non ha ^tlato il dono inappreabiie della
aua likfert^ di*fieata forza aaraviglioaa e miaterioea ebe il solleva 9 tate la
natara aieccanica: via. dopo di c& egli
condiiienalp dalla floa innata tendenza a segatre il bene cV^gti ti ha
pre- sentato , ch^ egli ha costituito a se medesimo. Non in ano potere sognire an bene od nn male;
quantunque aia in suo potere acguir questo o pur quello oggetto, rendendosi
Fune 0 P aitilo bene o male a se stesso. Conservata adunque al- Tuomo la libert
di appetire e di abborrire i diversi og getti, di scegliere- fra la virtA e fra
il vizio; fermiamoci VD momento a considerare quella tendenza che lo porta al
bene, e non lo lascia * cende; e in somma veggo d' essere anch'io nh pezzo qncUa grande rappresentazione. In me pet
sento altres le canse d^l muovermi , i fini deir'^rreoarml in ' qhesta e in
qaela banda , perch- a qulP 4rz usoii , toroai a qn^ at^ altra: n panni trovare
in- ci mislerio- di sorte.; ApAe stessa. Laonde il non volere star male ,
lnafli uoafB>^ sembrano escludere da lei la n^fiofM, anti ra ^Kww n&iura pure le faQciano cose opposte. Ma
ogni qual volta eolla parola natura Togliono intendere Vessenza delPuomo, non
pot- tono eseluderne la ragione senza dar nelP errore. La nostra natura in Ul
senso formata principalmente dalla
ragione. E questa ra- gionevol natura sente P intima Necessit di amar Tonello
per se tflssoy e senza- interesse) anzi di pi essa trova il suo bene, e perci
interesse massimo nel massimo disinteresse: cose ebe sem- brano disparate y e
pur son congiuntissime. Dei conformarsi alla natura nn antico scrive: Beata est
ergo vita conveniens naturcc juee: non
ideo tamen qxdsquam fiUcia dxerit, quibuM non est ft* Ucttatis inuUectun. Status enim nemo dici poust extra rn^iTATEU
proiectuss beata ergo pifa est in recta certoqu indido stabilita ef
iRiRutoiiif. Seneca, De i. beata. % u imwm due a b ateaMi: il tuoJntarav 4 U
mio^ ab- tf Mina u cuoi di cigMle nobilt tut imporUnaa ^ qd l'amore cbe mDvei
tuoi. paAi' nel filagio, xU mpla^ a a' miei nel tagiirio^ qed priedipifr iM
il^wo ^ateoza le tae aplendide
sollecitudini, quello cbe d Peaiataiva alle mie occsure: motb da usa eomuM lorigiae
attn it giano U motore la Tta ainredua . Ricoaftici perci ia tf me il tao inule
ji.. . Che te eguali nm tulli gli*^09u. i queata Mommk voglia di migliarar at ateas dfi .abbeaociare qaaute. .atta Felicit
appaffiitne^iO panaaM pparteoert^ tutti altvcal debbono awecs il diKitla .di
aoddiaarU. Di pi: poicb quaata i la vaca- pia feiiC) e che in mi gianaaai nan
laee^ dalla KaUura; qiHadi anelli il {n.
Carta e il pi geoaraU lfitlo , a queilrt: quelle perdo finiacane in sa atease^
afiia portano, 8 ilicdite csteti ^it, In si il loro oggtttb^ U'wcoofro U
cognirionc la libert rapiicoao a s
oggetti aoche fuori Ji e iDedei.OiWlc se io qnelle vi una 6sica necessit che otteogano J fiie loro,
in ' fosse n di conoscete . ii volere.
dunque l'oggetto sempre in relazioac colla facolt sua : sicch in quella
maniera che non s saprebbe n pure la esistenza di lei^ se non avesse un oggetto
in cui operare^ GOtt sapendosi la esistenza sua , conchiuder si debbo che P
oggetto esiste. E se aodie non vi avesse qnesU ragione, indotta dalla costante
analogia che si vawsa in tutte le cose della natura, e dalla necessit di
riconoscere le trae* ee di una sapienza che presiede alla medesima v > dii
eonoace un Cnatore nonpu^ non essere chiarissimo, che un desiderio essenziale
alla nostra natura, quando oggttto alcuno possibile non avesse (i),
Paccuserebbc di crudelt e di stoltezza: dacch egli ci sarebbe un etemo afanno,
e un aEanno cornano, all^uomo piik giusto come al pia reo; t avremmo tutti noi
una natura stolta, perch. braaseNbbe eternamente V impossibile. Ma ohe esser vi
debba nell^ universit delle cose alcun oggetto, o alcun essere, il quale
satoUia piemsttm rumano desiderio dcHaFelioit; dico, che non solo vero, ma che
anche un vero si chiaro e si necessario, che nessuno riut mai negato n
pu negarlo. \. > ;'-.. III. bens
avsvenuto, che nello stabilire P oggetto di questa Fdicit gli uomini abbiano
commessi errori infiniti, ed abbiano concepito stravolti pensamenti oltre ad
ogni credere; 0) Si parla di unt fimpoMibiliU atsolutft^ eoBM sarebbe M
ma&- caite V oggsl|Oy ehe si potesse render feli^. 9 Gi gfi anticldf AmoS,
nUe liro divcne sriitaiMe, affer WWQ i 6li principali di tutte le poatibili
opinioo ed i pos- sibili errori in tale argomento. Poich cU la poae nel pia-
cere come gli Epicurei , chi nella rirt come gli Stoici , chi nelU
contemplanone delle eMena:^ come Platone^, e ehi in latte queste cose insieme
come Aristotele. Ma queste quattro gran classi delle opinioni intomn al-* P oggetto
della Felicit amm^tomo innomerevjoli particokri, che in gran parte sono stati
svolti , e talora come nuori trotati proposti si dagli antichi che da' modemL d
an^ cera nel particoUveggiare quelle generali senteoae.si cctt*^ pano tutti ,
anche i plebei *) che in ci lutti filosofimo \ r nessuno in cosa tanto stretta
con s , e necessaria , pu statai dal seguire aVcona seulensa. E per voi stulile
ih ^olgo parlarti seo^pre di hcoe e di male, o veniie ideun* dori f pi
grossolane e diwene FtUt^ e chi psedicam heato il rcqo perch possiede riccheaze
, chi creder laie il voluttuoso perch ha copia di piaceri cosporei^ chi l'oosh
fato perch ne pasce Tambirione, e chi uno e chi altro; nascendo cos tante
FelicitA quanti sono i cervelli, o an* cora di frequente quante V ore del di :
sicch al pvanao v' ha chi la tien nel cibo , ma colmo di questo la oceca nel
sonno, e cos d^ una in altra cosa la nsegue. Anche fra i moderni questa
questione fu trattala molto, con gran
sottigliezza e verit. Ma non mancarono i so- fisti, che scrissero in questo
argomento, come in lutti gii altri delle cose pi stravaganti che mai, e pia
ignobili i ogni plebea credenza. L' arte intiera de' quali consiste ad
iraveslire cose vecchie ^ volgari, con molto artificio e gusto del tempo. IV.
Di questi uscita la pi desolante e
strana sentenza aolP oggetto della Felicit, una sentenza che parrebbe im-
possibile a primo aspetto poter cadere in capo umano, ma che pie attentamente
esaminata, si trova comune quari direi C^ust. FU. a. 10 fra gli uooiioi :
voglio porkre della sentenia che eoHota la felicit unana nella speransa^ fttoah
Tesser felici debba risolverai oon in tltro che in m coRfinao sperare di eoa-
segaire felicit. l)i cos singolare opinioiif ,
eontradditoria cor se mede- sima (i), non awei io fatto TargooMito di
questo Saggio se, Ctonie dicefa, ella 'non fesse pi che non paia diSiisa fra
gli ttoaiini, almeno praticatMute^ e se non Cosse stalo anche in Italia in
questi nostri tempi tale, a cai piacque di profondere una non volgare acutezza
d^ingegno a soste- nere ei 9 che altre tolte avrebbe procacciato titolo di for-
sennato: il qual vezzo tuttavia di gittarsi alle opinioni pi nuove- e pazze,
non un raro fatto v giacch egli seokbra
ohe questo tempo voglia toccate da tutte le 'parti le estre- ntttt e che si
compiaccia di abbracciare in se medesimo oose, penone^ virt, visi, opinioni e
caratteri disparatssimi , scuole perfette di morale sublime, e di pazzie
squisitisaime: le quali due manieve di cose sono per atte egualmente a
dimoatrare quel continuo viaggio, sebbene opposto, nel quale . spinto innanzi,
e forzato infaticabilmente lo spirito Per tanto i sostenitori dalla
sopraddetta. sentenza., cho ripone la Felicit nella speranza, spiegano il loro
concetto in questo modo. Essi affermano, stare la felicit in qu^lo sforz che fa
P uomo, mosso dalla iperanza di conseguirla^ cono, la vita esser nel moto,
nella quiete la morte con- sistere: e perci quanto Tuomo pia agitato, sia di do^ lore sia di piacere,
tanto pia esser''felice> come quegli ehe ha pi' vita^ sebbene n T animo
debba mai Conseguire i suoi piaceri, n Pintelletto la verit, perch allora ces
CO II Savio d^ Aquino preride qualche cosa di simile a questa opi- niene Ik
dove dimostra colla sua solita acute iza , di' egli assurdo ammettere una ^accessione
interminabile di fini, e che perci ri debb* essere una felicit, vmjine tltimo
dell* umana rite. Vedi nella Parte I. della II. Q. I. art. IV. le sue sottili
conaideraiioni sopra dj ii saodo d'operare, ogni tiu e neil'intdktto e
BtfU'tnivo spegnerebbe (i ) - Chi
coniidera nuetto teitenca n poco addentro , per ripagnante ch^ella sembri atF
aoiana rampone ^ trova eh' ella pu sorgere assai naturalmente oel cuore d
aleoot uomiuij giaccbPaomo assai pia che da' priocipii astratti della ragione,
deduce te. suo coodasiotii da d.ehe cspetimoata in se stesso quotidianamentei U
che considerato , si aMotra assai naturale , che cadano in quella scntcnsa ,
ehe la F^ licita nella sola speranta racchiude e nelP assiduo moli- mento per
conseguirU, tst^ coloro^ che n i bem deBa calma hanno mai esperimentaCi, n
quelli d'un armonioso moto delle umane heolt. Questi avvezzi a ternbtle guersa
intesthia per lo sbilancio delle facolt proprie, prodotto di solito da
eccedente immaginativa , credono in tutti gli uo- mini dovervi avere- quella .
agi tasione di desiderii continua^ e di sforzi, e quella* vice di dolori quando
non si soddi* slanno, e di piaceri quando soddisfatti ripullulano. E cosi del
correr sempre senza asai giungere alla meta, fanno gP io- felici la loro gloria
, e del faticare senza corre mai il frutto delle fatiche, fanno il loro premio
: fingendosi per (i) Qifita infeKe teodenaa che hanno gli uo mni ad ingannarsi
perpetuamente suU' indole della felicit e ad. inseguire successivamente delle
sempre vane,speranee. Questo fatto,
l'inclinazione che ha P uomo alle occu- pazioni clamorose. L' anima ,
diee questo scrittore , non riaviene in s niente che l'appaghi^ anzi niente vi
scorga (he non rattristi. Per questo ella s'ingegna di dissiparsi* Nella educazione, a' giovani s' insinua la
cura dell'onore e de' beni. Si stancano
collo studio delle lingue , delle scienze, d^ii esercizi, dell'arti. Si
aggravano d'af&iri,si dice loro non potere esser felici se non s' adoprano in conservare l'onore e la
fortuna. Ecco, direte, maniera ajsai
strana di farli felici, che farebbesi di pi per renderli infelicissimi Z Basterebbe, io vi rispondo, tor loro tutte
({aeste sollecitudini^ che allora vedrebbero s, e a sd pen- serebbero : cosa
loro insopportabile. Che per , prosegue , dopo essere caricati di tanti
af&ri, se hanno tempo di sol- lievo^ procurano perderlo in divertimento che
gli occupi tutti, e li tolga da se medesimi. E inoltrandosi nel ragio- nare,
perch (viene egli ctiicdendo) disgusto tale ha l'uomo t4 di s quando dalk
reKfpoie non * locoono, w im pa- che in fl* rinfieft! n oggtUo disamabile ,
debile , HMKro ? Che in vero il disgustarsi di una cosa , e il trovare disgu-
stosa la cosa stessa , torna al medesimo* Si , chi solo tratto dagli affetti che ritrota nella sua
natura, impossi- bile e , che viva in quel ripose , che gli d luogo a con-
siderarsi. Gran cosa! queir uomo che non ama che s, niente teme quanto tfovaim
solo eoa s. Egli nulla ricerca se non per s, e nulla fugge quanto s ^ perch se
si mira, non si vede qusl dcAidera, ma s^ abbatte in un cumulo di miserie
incvitabftt, ed in un vto di beai reali, che
in- capace dt riempiere. E qui Pascal disamina, le umaoc oou- dizioni pi
riputate felici , e vede che in tutte , quesU supposta* Felicit mettesi io cose
esterno, r^ditvitfl abbiano di tor noi da noi stessi^ e che in qualunque
affluenza di beni anche rcgSi, infelice
Puomo se non distratto, ma sr
lascia a s ritornare. Che v^ha, dice egli, di pi lusio- ghevole per un re, che
V aspetto di sua grandosza? bene, se ne
faccia prva. Lascisi' un ro tutto solo, senia. solle- citudini dello sprito ,
senza compagnia , con tutto V agio di pensare a s che s grande. Vedrassi, un te che mira se stesso,
essere uomo pien d miserie, cui risente al pari d'ogn' altro (i). Quindi 'gran
curai si pone a impedire ch'egli si trovi solo , col non lasciare mancar
cortigiani, che i piaceri fac- ca^no succedere agli* affari: sicch non vi sia
per esso un momento proprio. Per questo stesso dagli uomini s^ amano (0 Non
sembra cbe abbia tolto il Pascal questo tratto dal libro Della consolazione
altributo a Cicerone? Ecco il luogo: Stdfac He- gem esse a bellonan imptu, et a
castrorum puluere remotum, sua pacate pssidentem , nulla hottiwn incursione
vexatwn s suin iecirco tutiorf a miseriis seeuror? quia immo^ ut otvm aatt^H^
s^tvba jrotf FEJI7, ipte sibi molestiamy ac soUicitudinem exhibtit. nam aut de
augendis t>cctgalifus , aut de produeendis finibus ^ deque urbius ad imperwn
acquircndis , aut de iungendis cum potentiorius propin- quUalibus atque
amicitis cogitabit. quee qui animo agitai^ stMc a mo- zw^rr^ ifBEK EST, nec
alios securot ac quUtos esse siniu i5 i pie msoisi soHaari , ta caccia^ 9
ballo^ e altri mmil^ e per giiesto la prigione
un Mipplizio co^i orrendo. Ecco Pirro che si propone goder la quiete co'
suoi binici, dopo ay^r conquietata gian parte del mondo. Cinica lo con- ligiia
d'anticipar egli medeaimo la felicit u, godendo tantosto quella pace senza
andarla cercare per mezzo di tanti percoli In fatti che contraddisionei cercare
le fatiche per avere il riposo? Piace il riposo immaginato e lontano, dispiace
il presente. Dalf una parte tutto si fa per una qliete, dalP altra si cercano i
rumori che tolgano da questa quiete. Cosi v' hanno due tendenze nelP uomo. L'
una gli dice, Nella tranquillit e nella pace
il tuo bene. L'altra il disgusta della pace ^ lo tira al moto, lo
stimola a fug- gire da se medesimo. ... VH. Qiesta strana e opposta lusinga ,
che trova l'uomo in se stesso , fu osservata sempre. Vedete Orazio , non mcn
filosofo che poeta, esaminarla nella 1. Satira. Tutti sono io moto, dice^
ognuno desidera .lo stato altrui^ trava- gliano sempre : domandategli perch?
kac mente laborem Sese ferve y senes ut in otia tuta recedant, Aiunt Paivula^ nam
exemplo eH , magni formica laboris^ Ore trahit quodcumque poteste atque addii
aoer^o^ Quem st'uii haud ignara , ac non incauta futuri. E bene, dice il savio
poeta; la formica . cessa al fine dal suo lavoro, trova il riposo^ e voi lo
trovate? Mai^ * > mm te njauefon^idus aestus Demot^eat lucro , neque hiem$,
ignis^ mare, ferrumy ^il obstei tibi, dum ne sii te ditior alter (i), (0
NcirOde XVI del lib. II osierva U csa stessa, riflettendo di pi , che le
copidit deiranimo rendono X aomo nemico di s e qaiodi i6 Cos Epicuro ed
Aristippo poman ntambi la Felicit nel* piacere* Ma quegli ossenrava, che Paomo
ha per ai- timo scopo di tutti i tentativi suoi la quiete^ e jperi di- cea, il
piacere stare nella oxiosk^* del corpo e deU?.ani- ma (i): Aristippo alFoppoato
vedea Tuoni tirato a godere il faDDo contiMiaBcnte testar di fuggire k te
ttesM, inmergemlo in ooenpzioBi tnmultvose. Io queste, Ira Oiille nuli che
trova, de- sidera quella quiete che fogge. Veggasi se non questa U MTa r^ ^^S9(De di Orazio nef versi
seguenti : OTifim DQS rogai in pdUrai Prewtus AEf^eeo , simul atra nubes
Condidii Lunam, neque certa Jugertt ' Sidero-nautis r Otwm btlUfitriosa 7%race,
Otwm Medi pharetra decori ^ Grosphe^ non gemmi ^ ntque purpura f^tf* naie,
neque auro. Non enim ga%ty neque consularis Summouet lctor miseros tumuUus
Mentis , et curas laqu^tHa cireum Tecla ifolanUs. '7 degli attuali di1fct&, t per facfa
consistere il piacere nella veemenza delPatto del godimento (i). Vili. Fra i
moderni nessuno ha confessato pia chiaro di El- vezio questa verit. Egli senxa
accorgersi la svolge assai bene nella Sezione Vili del suo Uomo : L^ artigiano y K dice, non v'ha dubbio, sposto al travaglio. Ma il ricco ozioso alla noia. Quale di questi due
mali mag*- tf gioTe ? Dopo , prova che il travaglio non male. Ma perch? u Perch con esso si sfugge il
mal fisico della noia {i). Non
questo V istesso pensiero di Pascal ? Voltaire fa qui una osservazione
al ragionamento da Pa ical insttuito, e vi scopre una inesattezza^ ma per lo
scopo nostro egli, lungi da scemare, aggiunge forza al medesimo; giacch egli
non nega quel fatto che a noi importa di fare osservare, quella perpetua
inclinazione che ha Fuomo di fuggire da se medesimo , e di spargersi al di
fuori nelle (i) Questo Tiene a significare anche Lattanzio, lib. Ili, e VII,
ficendo: Epicirus iwnmum bonum in ifolupiau animi ttse cen$et, ristippus in
4^upuae corporis. Poich hk priyaiione di dolore, aia Ite! corpo aU neirahimo,
ottiene quella pacateaza delPoomo, che (hU^ animo gustata; alPincontro le Tolatt corporee,
disgustando r animo, terminano nel' corpo. {2) tt La noia ansi malattia deiraninui. Quale ne e il
principio f 4 La mancanxa di sensasioni assai vive che ci occupi ao *. Cosi TEI
Clio, iri, e. VI. Questo autore mette tatta la felicit nelP occupa- me, cio I.*
nelle sensazioni viye quando ^disfacciamo ai bi iogni corporei y e a.
soddisfatti questi , nella fuga dpUa noia che isrge dalPozio. Egli annorera
totti i trovati del mondo per iscaur *tf qaata noia delP abitar seco stesso,
assai pi minutamente che ^ Pascal. Nessuno di qnelll pu soddisfare quando non
si cerchi ietto iptrito del Crbtianciimo. In questo T avrebbe trovato VEU nio,
come trovoUo Pascal, se avesse preso a disaminarlo. E per ^ fare in Inogo di ci
un Capitolo sopra idee vaghe e false di re legione, come fece nel X/I di questa
Sezione? Esporre qualche riflesso sopra rarle religioni in generale, noA penetrare nello spi- nto di verana. Opusc.
Fil. T. IL 3 i8 occupazioni esterne e clamorose^ ^li anri lo contesU^lo
dichiara intrioseco all' umana natura , necessario. L'errore di Pascal non era
di aver male osservato ^ era di volere inferirne dalla sua osservazione una
conseguenza che necessariamente da quella non proveniva. Dall' ^sser Puomo
insufficiente a se stesso, dal non poter viver con s solo , dal sentirsi dentro
un insuperabile impulso che lo caccia al di fuori , che lo fa cercare nelle
esterne cose agiUzione, svagamento, felicit^ egli volle inferirne la sua
miiera.* bastava che si fosse contentato d'inferirne la sua limitazione. Quindi
VolUire ebbe campo di riflettere, che V uomo
portato alP azione fuori di s necessariamente : che le sue stesse
potenze sono cosi costituite , che abbiano gli oggetti al di fuori: che dentro
a s col pensiero non pu stare che un imbecille ed un insensato ^ in cui P at-
tivit sia morta, e le potenze sieno ottuse ed inerti. In vero nella mente di
Pascal V umana limitaone, e V umana miseria (i) si confusero insieme^ e quella
venne messa nel luogo di questa, o pure di tutte e due ae no fece una cosa:
facile e sottile errore, ma prolifico d'altri errori innumerevoli. Nello
spargersi che Puomo fa al di fuori di s, noi dobbiamo distinguer due fatti, che
per essere insieme, senza molta diligenza ed attenzione non si disccrnonp. i .*
L' uno di questi fatti il non potere in
so medesimo trattenersi e d s bearsi, e questo non prova che y umana
limitazione $ a.** P altro lo spargersi
al di fuori nelle creature per modo ch'egli cerchi. e speri rinvenire in quelle
il bene che appieno lo appaghi^ il che apporta alPuo* mo un interminabile
inganno, e dimostra PecceS&o della sua miserici. Questa miseria dell'uomo,
questa illusione fatale, questo inganno ripullulante che si osserva negli
uomini mon* dani, non pu essere che P effetto di un disordine originale e
primitivo. Ma quel bisogno di uscire da s, d'avere un altro oggetto in cui
trasfondersi , doveva essere proprio di CO Chi bene sserva trover, che non quello tanto un errore del- Puomo, quanto
della scuola di Porto Reale. 9 lui Dche sttjyponenclolo in uno stato perfetto e
intero. La dflrrnza non consisteva se non in ci, che nello stato di na- (orale
integrit ed innocenza egli si poteva trasfondere in un essere maggiore di lui e
perfettamente eccellente , capace di Ratificarlo; mentre netto stato di
disordine e di corruzione, perduta la traccia che a quest^ essere lo conduceva,
egli si rovescia naturalmente nelle cose materiali di lui minori, ed in esse
vanamente cerca Itf' felicit che non pu giam- mai ritrovare. Il riversarsi e
smarrirsi al di fuori d sf nel . Bendo visibile, negli esseri limitati, il fonte de' suoi errori come de' saoi
affanni: giacch portato a ci da ona
fatale speranza ch^ essa stessa un
errore^ e che viene continuamente frustrata, e cosV produce un affanno: que-
Ito peso che lo tira , che lo abbandona alle creature , lo abbassa e lo
avvilisce al di stto della sua dignit e della sua n2tura primifiva. Ma Taver
bisogno d'un essere fuori di s che lo beatifichi^ nel tempo che Io mostra
limitato, che lo fa vedere incapace di supplire e soddisfare a se stesso , altres il germe della sua grandezza : egli
appa* lesa con ci V immensit de' suoi voti , la nobilt della sua destinazione :
Puomo, o dir pi tosto qualunque crea- tura intelligente, non grande se non perch ha un grande oggetto
fuori di si a cui intende incessantemente, e nel quale si slancia co' suoi
desiderii. Se qualche cosa dentro in noi potesse appagarci , se a noi bastasse
quel poco onde la nostra natura si compone; le nostre facolt non avreb- Wro
alcuno sviluppo; noi saremmo infinitamente pi& li aitati, pi poveri che non
siamo: al pi saremmo uomini-, aa , come dice Voltaire , uomini imbecilli ed
insensati. V uomo adunque non ha n pure ad inorgoglire di sua grandezza , se
questa nasce dalla sua limitazione: non ha una natura eccellente , se non perch
essa non basta a se medesima, e verso un altro grand' essere migliore si spinge
fuori di s: l'uomo non grande, se non
perch f%\\ bisognoso. Come per dalla
limitazione dell'uomo, da questo bi- sogno ch'egli ha di godere di un oggetto
fuori di s e di abbandofitrvisi iDtieramente, avviene fa aaa grandczia, quando
pu soddisfarai e pu trovare quelFoggetto s grande che valga ad empire il suo
voto , a saziar la sua fame ^ cosi quella limitazione stessa e quel bisogno si
cangia in miseria, ove il sublime oggetto che richiede gli sia sot* tratto, e
tolta la possibilit di rinvenirlo. . Egli
questo lo stato presente delPaomo che non si vuol giovare de' beni della
religione. Iddio l'oggetto richiesto dal
suo cuore ^ quel solo che pu quasi direi compire V umana natura, e toglierle,
unendosi ad essa, quella limitazione necessaria, che la rende scontenta di se
medesima, e he la spinge , non conoscendo quest' oggetto , a scorrere nelle
cose umane e diffondersi in esse cercando sempre, e sempre in vano, u surrogato
all' oggetto da lei smarrito, e dai suoi sensi in- teriori scomparso. E in
questo stato lo analizzava Pascal. E scegli errava non distinguendo ci che a
lui era natu- rale , il bisogno d' uscir da s , con ci che a lui era acqui*
sito per un disordine deplorabile in lui avvenuto, la gra- vezza che
continuamente lo prostra ed inclina a spargersi "per le creature e a
perdersi nei clamorosi sollazzi \ non
per manco vero, manco profondo il fatto osservato da Pascal, quella
contraddizione perpetua onde Tuomo mon* dano fugge dalla quiete per gittarsi ad
un moto incessante ^ e tuttavia non si d al moto se non per la lusinga d^una
quiete futura, balestrato continuamente quiqci e quindi, e sempre ingannato da'
suoi desiderii , giacchi la quiete presente egli abborre , ma s' ella futura la vagheggia , la vede abbellita di
felicit, e sperando di conseguirla, per essa affatica. IX. Ma se tale i
l'indole del cuore umano, se di due con- trari uno solo pu esser vero, quale
de' due avr la ra- gione? quegli che pensa di trovare nel travaglio la feli-
cit, o chi se la immagina nella quiete/ L'uno e l'altro, risponde Pascal
istesso, suppone, che l'uomo si possa ap- SI pa^r di i, e de* beni sot
piteteoU, senza ri.eiBpicre il Tto del suo caore di speranze immagiiiare^ il
che falso. Ecco adunque di d la
necessaria conseguenza : quelli che non conoscono ci che fienipie il gran voto
del cuore mano , debbono per necessit conchiudere , che V unica felicit
dell'uomo consiste nelP illusione* E seguono tutti gli uomini mondani queste
illusioni pra- ticamente, come si dicea^ cercando torsi da s, darsi alle cose
Tsibili fuori di s, e sperando sempre ne' disegni futuri e neUe intraprese di
rinvenire appagamento: e quelli fra questi, che con ingegno pi elevato
osservano, che pur mai non lo trovano , ignorando ormai che dirsi f conchin-
doQo: appunto in questa continua agitazione di cercare il bene state la felicit
delP uomo ^ di questa illusione gio vam la natura per renderlo operativo ; e se
T uomo tro vaase qtuiato cerca , dover oire di operare,' e pejc a lui dovere
mancare la vita, Qam distinguer ion si debba la vita che sta nel cercare, dalla
vita che sta nel godere, e questa a quella non meriti di preporsi. X. Quanto
dunque miserabile il sistema di quelli ,
che la religione non voglion conoscerei Sono costretti a met- tere la felicit
umana nelle illusioni e negl'inganni. Non arrossiscono tuttavia di questo
sistema, ma pale* semente, il producono quasi ingegnosa invenzione. Se per
confessano, che ogni felicit dell'uomo si contiene in il* lusioui della
immaginativa, in fantasimi che a lui sommi* Distrano i sensi , in isperanze da
cui viene continuamente ingannato, e che appunto per tale inganno egli si
sostiene , vive e opera ^ non confessano dunque , che gli oggetti tutti che
loro rimangono (esclusala religione), aono chi* menci e falsi ^ Ma se
all'inganno, e alla falsit si abban- donano , e non lo niegano \ non dovrebber
vedere, che il contrario del falso il
vero, il contrario dell'inganno la sicortaza ? Perch adunque vogliono pascersi
d' inganni 7 ^rch appagtrsi di chimere ? Donandate perch { ben chiaro. Temon la faccia del vero. Se
anmctteMero veri i beni della religione, non riporrebbero ia felicit nelle il*
Insoni. Ma dato non si vogliano riconoscere- i|uesti beni, altro non resta che
o negare qualunque felicit, o fin^^er- sene una immaginaria. Negare all^
uoom> ogni felicit, im- possibile^
perch ogni uomo ne sente ia propensione nata con s, ogni uomo la cerca ,#ogni
uomo buono o malva* gip, religioso od empio va sempre dietro a quello che stima
a s bene, fugge sempte quello che stima male. Coloro dunque che i beni veri
della religione non cre- dono , altrove cercarla non possono che ne^ beni
terreni. Ma quanto facile riconoscere,
che in tali b^ non v'ha pregio assoluto, ma solo un pregio .immaginario,
chimerico, ^ ingannoso Che cerca ogni
uomo l di soddisfare a' desi* derii di sua natura. Ma nessuno coi beni umani
non con- tento mai. -S^iiumagina chi non
ha beni di fortuna, che avendo ricchezze, troverebbe in quelle un perfetto
appagamento. Le ottenga. Allora si mette in capo , che avendo quel dato ,
posto, niente pi bramerebbe. Consegua anche quel posto. Tantosto quegli pensa a
qualche cosa altro, e di cosa in cosa va ideandosi la felicit colla mente, non
la ritrova mai in nessuna delle ottenute, ma la vede e la vaghegpa in quelle
che ancor gli mancano. Tutto questo
facilis- simo ad osservare nella vita. I filosofi adunque del^ mondo,
che ci considerano in altrui, e provano in se stessi, non sanno pia come
spacciarsi. Dovrebber conchiudere , se vo- lessero ascoltare il buon senso e la
ragione: Ah non fatto Tuomo per queste
cose, vi debbe essere un* altro ordine di oggetti maggiori di questi visibili ,
dove V uomo possa soddisfare quesU sua gran facolt di felicitarsi, perch assurdo che v^ abbia facolt senza scopo. Essi
all'incontro, lontani dal conoscere cosa alcuna fuor degli oggetti sensi- bili,
conchiudono tutto diversamente, e dicono : La natura fa federe alP uomo di
trovare in una e poi in un'altra cosa il suo bene, e' cosi lo inganna sempre: e
con questo con- tinuo inganno, con questa continua speranza il sostiene , e il
rende felice. - i3 Ebbts vide la cm steist : senti ciie P uqid6 mondano, i/
guaio tatti suoi beni ripone m questa
vita^ non cerca k sua boatitudine cbe in un snccessifo inganno : e non voIcAdo
al lutto riconoscere altra specie di beni ^ yen por* tato al sistema di
sapporre che lo sperar sempre e V in- gannarsi tempre sia qualche cosa che il
renda felice. Ecco le sue parole: u Convien sapere, che la felicita della vita preacnte non consiste gi nella tradqnillit e
nella requie deiranimo>-*-Non pu
vivere colui, dederii del quale sieno pervenuti al lor fine, non pi che il
possa quegli di cui i sensi, la memoria
sono periti. La felicit .uii tt continuo progresso d^ una cupidigia alleai tra. i^accj^ui* u sto di ci che prima s bramava^
non che la via al- ce r acquisto di ci
che si brama da poi (i). U sistema.
adunque che ripone. la felicit neUa ^eranea, e che da Ugo Foscolo fu introdotto
neJla letteratura ita liana (2), non gi
nuovo: ma egli fu suggerito sempre agli uomini riflessivi dalia natura stessa
delle cose , quandi dalla religione ssquo dipartiti e ubarono fde al mondo
invisibile. Allora per essi T universit delle cose ristretta a quanto cade sotto i lor sensi :
questo solo V ambito dentro* al quale
qualche uosa per essi esiste, qualche bene che li consoli. Egli vero che tutto trova ao fragile, tutto
illttsoTto: ma possono essi forse negare a se stessi ogni bene? Non gi^
percioccfai noi consente la loro natura, che senza la vista 0 P aspettaiione di
qualche bene non potrebbe sostener Resistenza. Ridotti cosi fra questi due
estremi, cio fra il bisogno di esistere d^una parte e di ammettere perci una
felicit ^ e fra T evidenza dalP altra della impotenza delle visibili cose a
felicitarli^ non potendo n fuggire da una parte perch serrati da una legge
della natura, n fuggire dall'altra, perch forzati dair evidenza della ragione}
non resta loro che di anunettere una feli- ce leviathan, P. I, . XI. C3) In
fatti dopo il Camm dei StpoUii t furono ben molti ^ che piac({uoro di ripetere ed aVudert alle stetae
idee. 4 cita illmorit, e apingarc cori tTMiti il lor traviamento da dover
credere, clie nella sola illosione conaiaU la fe- licit ) diffinendola un moto
eontinuo ^ an pnigtosiD ntor*^ lainable da uoa alPaltra ItuiDghevok capidigia.
XI. Ha il sofista 4 Malmesburj, sponendo tin simigllante si* stema, ne reca una
pia particolare ragione osi soggiun- gendo :
La causa di questo fatto si , che
P oggetto u deir umano desiderio non pu essere gi con ristretto che basti siruomo goderne una sola volta e
quasi pec un momento solo di Aempo; ma
egli vuole rendersene sicuro il
godimento anche per tutto il tempo futuro.
Laonde le azioni dell'umana volont non tendirioio sla* mente a procacciarsi il bene, ma ben ancora a
render* tf selo certo in perpetuo. Le quali azioni per non proce dono sempre per la stessa via , per la variet
delle' pas u sioni da cui gli uomini sono spinti, e parte ancora per u la
differena^a delle opinioni circa le cause da cui il bene ti desiderato pu esser
prodotto (t). In somma un bene sicuro^
immuuMle^ perpHuo desidera Puomo; e non pu renderlo beato a pieno se non un og-
getto che sia fornite di queste doti. Le cose umane e vi- sbili, se non
avessero che questo solo difetto di essere cio incerte, mutabili e
corruttibili, non potrebbero per questo solo esser atte ad accontentare P animo
umano, che uno im mutabilmente fisso, e imperdibile oggetto sospira. IVIa il
dirle inette a produrre felicit, cosa
impossibile, come dice- vamo, a colui che non ha nulla a sostituire alle
medesime, che ci dicendo si nega la possibilit d'esser felice, e si rende
assurdo P esistere. Questi adunque si volger a tentare perpetuamente di
supplire alPincertezza delle cose col rammassarne quante pi pu, di rimediare
alla loro uutabiiit col variarle incessantemente ,' e alla loro corru- p)
Leviathan, P. I, . XI. Mue ed :WMfoe dtht Mzktt deUe ,-vefsdiie ide' empire MMW
, a|i|citL Man a itIimtalaqciiUf ^ffatjcaB sepza -troYjir mai u tefflpei^.e
4n|vagliar.(^r.c%sa cketmai n pieoq noo gli, riesce n
riu8Cf0Mg|i.piiP:y'qiiiiti si guttcf >fin^e^tc.a. saBclttMkne,'ch0:&Uo
ateaso bavaglio inces^aote, io qce- ^o.aot, in iinesl'agilBteiie, io . queste
perpetuo iogjiniu la natura Jb^oeficat dichiarata tale per disperazione, il tnie
dW 'gMmo. att^^al^o via pia iiyianf i , lo liofie 9qcpato ,. divagalo^
iperanaata-, e ^ gK d tutto quel b^e, tutta' 7ieUi| feliciti dr cai egU jac((ttiMl ma solo un optai aiiniLcao delia
feiiert (9)? Non avc ripone Seneca ad insegnare^ CO Plm., ^mpos. , Rh- IV. q.
4. ii) Ariiiot: , Sthi^.y X, 9. F>iis tnim immrtaHu$ Mmi vita kettt^
WtquMi|' ombra di felicit, che a lei era concesso descryere. Peri vedete
Epicuro stesso seriamente decretare , che la laorte non s abbia per un male
(2), e n pure i dolori e fiUcUattm suam fmdtngna^, Neft^jn^i^ nos #olof 'g^cr^
|r^r^ inviare: jf iftsfi Stilponis obiut^^itor . Epicurus , simiUm UU pocmh.
emi^ p- SL cui , iw^uit, %\x\ non videhtub amplis^^ma, licet totius nfuodi
dpminus st, tamen miser est -^ Ut'iciat hum ho^ heriU^ . ' . I^'e^t beatvA^^ene
e qui non ^tat, . . , , \.\ :*.:; : M vi* - " .: ; . -
; Sogginnge ner^ che i) solo ; sapiente
pu credersi beato, che omnis sfldtia
jtahortdyasiiiio sui] con cui egli confessa, che non basta que- sta
"opinfbne d. ficitli , ma he bisogna possedeila Teramente. Or ete 9^ ne'
aei^ piino pu egli credersi lnetol Non solo cfaft. si fltvde.miseft, ma qiM*gli
che pu credersi, tale tten j sppitpo.felio. (a) Epiouro, nelP Epistola a
Mepeceo ao^j^iyrv^taci 4a Diogene Laer* zio Jib. X. Efcquisita portx) notia,
quod mors nihil perlneat adnos^ prwstatf ut hac vita mortali Jr^amur, no^
quidpiam incerti' temporis adjicikns, ted bupidiiate'm ihiMortdtitatii
bjiiiens, Arendo tlta la' fitosoea stMoa per iscojjo' la feWdt, tutti dovettero
cercare, ette i'vnmo di9prc9asse la morte, selAene per diverse rie. Sed hoc
ibie4 ditatum ab adolescentia tkbct esse, dicea Catane presso Tullio ( />e
SettecL XX), mortem ut mgligamus; sine qua mediuuin troi^uilio A^ ^nim9 nemo
potest. Ma come potevano ci fare con vere nagioni , ^ fi^. p9ltof((^c#n QpDiooi
inoerte, nientre non avevano rralasione cicnF altra vita? Mtle imsert idefitaWi
(i);rcfae anzi si ^irdtio piene di heai^ 'i^i^i'teiiia l'ioftfmoj n si cceda
(3):.repicureo'Z* none ed' ^AlistppO'- sUsao rolere ^ cbe si ^avazai ne'
presnti dttett^ n, si estendanola domani le core ^. ma si rada il. fa* taro
dalla mente, acci non vengano molestie. o.ttnon(3)c quasi tuMf gridare^ nella ^
moderazione dei desiderii slajrf la regola de4r ornano 'contentamento: e fai
ogni isfqirs^ con pomposi detti per sottrarre Puomo airincastaosay ed alla
fallacia- dei beni esterni, dalla quale instabilit e 'in* soffieienza a
sasiare^ son tutti amareiggiati, e in veri mali convertiti: per il che que^
Savi costretti ..ai tmvavaoo 4i conefanadere, che se torre potessero alVuomo i
mali suoi, crederebbeto- di avergli fatto toccar V estremo della poi- (O Ctc;
lusij. dispai., liK'in, 3: Epicuro aidem placet ^ opU rdon mali etgritudintm
eie, non natura, ut t/uicumque intUBatur, in aHiquad ntaiut auduaif si i4 ^i^
acdisse opinetur, sii contimi in ^egritudine Vedi la sopraccitata lettera a
Meoeoeo preaso Laertip, e Cicerone TViJCu/. lib. Il, e Seneca Epist, 78. (i)
Per questo dogma di noa ammetter P inferno, credea Epicaro di lerar dalla vita
anuioa il timore; ed eooo come ne vien' lodato da Iiucresio: 1 k Primum Graus
homo mortaleis tolUre conCra Est oculos ausus , primuufue obsistere- eontra
: Quem necjamadeumy necJuUmna^ nee
nattnti .. . Murmure compressit a^lum, ssd eo magis mertm^ yirtutem irritai
animi y confiittgtra ut arcta " 1 '. JPfatwxp primus poriarum claustra
cupireU Ma credeva Plutan:o esaere pia facile dificare una citt soUe mihi , ch^
costituire uno stalo senza credenzar delle cose divine (^Contra Coten. ). Onde
il rimedio di Epicaro non guarir mai gli utteiai dalla paura. 0) Qicehone (TWc.
1II>, scendo la mente delPepicureo 2eMne, dice: Ehun esse beatum qui
prasentibut iH}luptatibu3 Jruo^ttUTf co>tt' ri0SasTquM, sefrmiurum aut in
omni aut in magna parte tritai do- ore non interveniente f aut si intervenireii
si summus fimei ,fuiumm hrwemf iproduciior, plus haiturum iummdi quam maiif
haa^cah ^tTAfTEM ' /ore beatum , prasertim si Anta prmceptis oms * ^^tt^
necmpriem nec Deoa extimasttPtU stbile felicit (i). E Zenone, prin quasi morbis
vobdt earers sapiauem. Cie. tib. I jcad,, e da per tutto nelle lettere di
Seneca. 13) Cicerone stesse in qnetU
sentensa dicea: A maUs mors Mkt^ eit, non a bonis (^DispuL TascuL lib. I ). (4)
Seneca, Epist. 75. Non eupidUas nos, non timor pellet ; inagitaii terroribus,
incorrupti voluptatibus, nee mortem hombinms, nec ds ; sdemus mortem maIwH non
esse, dbs maias kov bssm. Vedi anche He/ra. If,e. XXVII. . ' I : . . Ma perch noor ^- tum hoc quo
oontinmmrf et num est et Dems estt et sodi ets H membra sumus. (i) L** orgoglio
stoico somigliava al Fariseismo presso gli Ebrei. Queste due sette incinavano
agli stessi tzi, essendo somiglianti nellef dottrine y come alleata Giuseppe
Ebreo nella sua vita; Qum $me secUL (PharismoramytUi Stoicortun ap%id Gracos
maxima est eonsenUnea. ii) In generale gli Stoici medesimi bdo credevano
possibile il loro piente fra gli uomini , e distinguevano da hii il ffrofienUf
cbe era pcMsibile 9 come da per tutto nelle lettere di Seneca. AHrave per lo
ammetCOBO. Jfon estj t/tmet Ocm^ scrive Seneca stesso (^De Constant. Mp. e.
V1I>) ife ut soes, kune sapie^tem nostrtmn muquam tiventH- If OH fingimms
istud humam ihgefdi vamam decus , nee ingenlem ima* pnemJaUes rei concipimu:
sedifuaUm cot^rmamus ExmiBirimtrs et UBtsBttfts. Rarojrntan etc. L^amore alU
felicit loro faoea imma- gimiie possibile fuello, che l'amore al vere ler
mostrava impossibile. Ilecetsaeiiiiente dovea 1* uohm allora easaare in
oontraddirione. (3) Uo dubbio su tutto sMntradnsaeaneke'iMU^iiecademia; mentre
cos avea scritto Platone ; ^eritsu prqfieto tum Diis tum homubus dm omnium eet
honorum': cuius quifiUs eatustfuejiuurus ett, sta mab ihilio partieeps sse
debet, HI in penate plurimmm tempii' iam ogat (^[h ieg, lib. V). Eooeoi di
nuovo fra Scilla e Cariddi. riunite
queste sentente non fanno una confeMoee degli antichi, che impossibiie era loro
oeooscere'la felicit, a ohe hi felicit da lare da- critta era perci immaginaria
f 3o noi (come Apelle^ cbe noti nu6cendd a piafeDe la sqbniiaa ad un cavallo,
stizzato gett nel quadro la spugna ove net tavai pennellile questa lasci
intorno alla bocca del ;ca- vallo la schiuma egregrameote osprtasa) neg^do di
dare assenso ad opinione* aUii^a , cheioscjgni il tranquillo vi- vere,
conseguiamo la tranquillit delP ani|Lo fuori, de)le agitazioni di.-qojeali
filosofi conten^eftli (i)* r Sicoli tutti gli antichi Savi 0 neUfc opiniooi
poneant F.eaaeci felici , o. liegayaoo. poter coaosc che dalla divinit di
t{aesto si debba ripetere la diversit de^ s* stemi. Qui autem de summo bono
dissentita dice Gicereoe {De fif^^ 3t ck firtt qii^ites^AlMlze netta MUira
Mossa del^nonoy 111' altro lume, trovavano cootra^diaione ed ostacolo*. Poich s
rintrt^ttt de' lieiii'foto^ aaggervaiqosIFo* miaio , ; .o l'ngam yei , quod
animos hominum immhi tdie tue cNdiuf^bmUin rroj fico mihi Auncarroreai; quo
dtUctor^ ^*w..' Ci^ Lan9l,.CMeJl)(. . .> . . ; ,i |C)) Vii. \f Q(ie* XI..
Ditme cbe si possa slonufe Ja ipcmte datfii* turo colla for^ {Ielle sposaxioni
preseiDti ^ ma cessate queste ^ giacch non possono dprar sempre, come si riterr
il pensiere deir avvenire? Epicaro, contraddicendo a qnell sentenza di non
pilsar che al pre*' aenle', inftegaa nella ietter A'Menfo
diasMMfarsIcoila'meditaxiotie alla morte : pensando, che niente di noi sar pi.
Si appaga il nostro aaimo di Gi6?.Ecoa come quesO anioio risponde eoa Cieerooe
(^Pa* radox. II) : Mon terri^iUs est iis , ifuorum cum witm anmink estingutmf
tur; e nel libro De SenecL e. XXIII osserva, he T amore di lasciara al mondo
una gloria di noi an sentimento chq.ha
Toomo della Im* mortalit. dare debent {i)' ' * : r.'v .. -i .>{;.,. , .^ Ancora il noa potere satollar V igjni^Q^
dcaderip del cuot nostro preeetlaya, la niod^s^figM^ sfi %C4{V|i dico al poeta
tcssd usKivitur pofVQs .^ca^m^^ pakiT^uai ^^pUfuUt immensa tenui saUnum.
(a)Jla:iiit|vi^o.Up)9r? imi^?^ l.eontrario negli i^nstt degli
tiominit^-i^gli^spKwiavji a4.a(yefe! aempre pi^ e {a IoAofii stessa cke era
costretta.^ njptkr/o, noni a questa natura.^ ad altri face^.cQa^o^larJa vastifi
delPaman cuore, che da nulla s'empie , e tende al sommo ^ e dettava a Senecb,
Magna Hgn^rosd resesi nin^ms: humanusz nlts siH poni , nisi eommunes eum Btit
rmins patitur{3) i e noti s contentava per nulla 'di ifp^a feliciu negativ^i, e
condanna^va altrove quella sentenza, Omni.pmaiioM dahrif -^terminari swnvtfim
vo^Uk-^ tem {i^)ymai aggnsafSi'st beai reali e^poailjv; e diceva,* laprrazion
del dolore esser comiine colle* pietre '*e -con tutti gli esseri privati di
sen^o, * distinguersi da tutto il mondo la vpce piacere da quella ai privazion
ili Solor^' perch conchiiide^^ con Tullio^ ^uf Epi4iru4r,,qf^idt^sjit
volaptasy^iamnes morialesquiuii^uesantyAes^iuU (5)J N qiiegK'Scetfid\
osservatori di tadte eontrddiEotii e di tante ineettezze' nella natura i^^ e
hll ragione, tro- varono partito miglidre col sostenere rsscnso da oghi sen-
tcn^:. dacch Jnsiaigaii d'evitare gjli. scogli,, che quinci, e, quindi vedevano
possi dalla no8tca Seneca Ep. CU. (4)Cic Defin,\h, I,c. XI. e/&t. lib.ll,c.
III. 33 Pirrotif^ quando segava il .vero^ irtttj et bummwji hoscjntum.
Cicerone, De fin, , lib. V , e. VII, dico, che la prudenza della vita dipende
dal sapere il fine dei beni, il quale consiste in d, he il primo di tutti
ioTiti a se Tappetilo dell'anima} dice appresso: ttafity ut, quanta differentia
est in principiis naturaUus , tanta sit in finibus honorum mahrum^ que
dUsimiitudo; cio, quante sono le prop rifa un>iinmaginario rimedio? Se dunque reale il retiti- mento , che nelP
anima noatn dimaodU fe^thr^' ab fe- licit reale ai richiede per satollarlo. XV.
.. 1-. Ma voi altri, che vi date taoto
al fantasticare, vai altri che disperate della felicit, e aaaerrte gravemente^
ilPome esser solamente conceduta una lusinga di lei , un^Msbra che sempre
sMosegae e non si raggiunge mai; vi che* per- ci con una disconostenaa inaudita
verso lanatmraye-verso Dio, nominate falso e mensogtiero il seotimentb,
eh^'^alla felicit sprona tutti i mortali^ sapete voi a quali conseguente reca
il vostro sciagurato sistema ? sapete vei che cor ci tron* cate fino'dalla
radice qualunque amore virtuoso, qvialunque nobile passione^ rendete bugiarde
tutte le virt, e indegne perci che a loro si dia retta (i)^ N certo vi sar
uomo*, (i) Lett al Pmid. Bisletherbes (s6 geirn. 176'). L'illusione e r
inperCezionf di tutti i piaceri del mondo
cos Tillenlf^ die apehf dai pi mondani filosofi si confessa. Che elogio
non fa-Di4^rol (.Ved. Philosophie ancienne et moderne par H. Naigeon^ art Dide-
rot. )y come a una gran verit^ a quel detto di Lucrezio medio de Jhnte 'Upo
Siurgit amari aiquid qm4 vhe con annK> btn ^Uspoato amerete voi la patria
ciif aiief tenete in.'ipii i sentimenti doieiasimi della fattiglia,7 gii
affetti di padre, di '.aposo 7 che coltimete le difiqc virt della benecenaai[,.
deiramicizia , e di lina tenera compas- sione /che trova il ano bene nel
mescere ir proprie lagrime con quelle ei miaaii? CI tare io affreava il pasto e
misura che mi avvicinava eX fine del u mio viaggio: 'rgg e scrivo R e
natie: qusto 'Punico mw-cdrf* u /rto. Oh
ocM' ttii sono gravi pe^le t^egUe^ la mia mano 4 stanca u sK scriver, eM tmo
cuore tonsum^io dal(e,cure^ Bramo di
essere u CQ^oscMSt/9 d ffosur^ i fpvp, ci non mi venga fiM^t suro cono- u
sciato dal mio secolo, o almeno dagli amici miei. Sarei skUo pago u di poter io
conoscere me stesso f,ma in questo non riuscir mai n Dopo di ci il Postolo
immediatamrnte soggiunge k chp pr'' ona
u riHa cosi spesa?, a cpal ftnetaBie notti vigilate, e tamil giorni li la- a
boriosi ? tanti saggi di n nobila genio, e d; un onora bene^lon? Cosi bisogna
che dimandi il segnace del sistema della speranna ttu- soria: egli non pu
vedere nn fine, un premio della Tirt; questa' drvenU un trtiviglio ^atnilo, una
soHeitodiae' vems hsebsati: Per nna eooUuddisiBe peii ssmi fsHcis o safol II
rsaeMoutAgti slessb nellii prattaH MO isteaiat s^^mcW oi laan pin siiggf delle
eoe f- Iklke letterarie^ dove wh menar appariso un gmO|ardentoli molta
contenzione a sforao di spirito ooii Ut natura ricalcitm aA governo deHa
ragione trarlata. (t) iittposfibile Ae L'uomo non ai la verM^.
Goiie ^sque malti eridensKpte la odiftao? Ho ncontiatA, TsjMinde Ay^stinoy ^ben
molti, ebe, voWno.iogannare; nessuno mas che volesse Siert tt ingannato.*-- La
ii{eiti si ama in modo tale, che tutti qaellhe tt imano qualcosa altro fuori*
di. lei, vorrebbero ohe ciniche diano tt fosse la rarit: e non volendo csserai
ingannati y moatrano coA ei di na Toler n pure ifev- UifutMUfannatori; Onde
odiano hi verit par iitili altrui, nestreiaegate la atessa utilit? Che se
rptete,>neDMo|^aarsl appunto ctooststoie V utile; la vostra eneficema.
dunque si.cidurri in ttn^arte d^ ingannare gli aitar. Cb aoUit pertanto di
simtire. po- tr in voi essere^ se le pi belle virt siete astaettildi avffle per
frodi ? e chi con questo nero concetto della virt si chiamer virtuoso , se
anche ne esercitasse gli atti este- riori? Ma non pu esercitarli senza
lipugo^za. Non pu adunque un uomo, pieno delle vostre chimere ,. ae. con se
stejtso consente , sentir aua le pure sensaaibni delta virt; ma essa gli 'dovr
parere sempre cosa odisa, nauseante, putrida. 0 dovete adunque depoir P
inganno, 0 tibuttare da voi come una ipocrisia della natura ogni santissimo
ambre di lei. appena che vi sentita
sorgere i pijimi moti e nr iti a iir*bie agli altri, aeeodo il vostro aiatema
dovete (i> JSri librJMrino MitolslO lUumt IttUn^.i Mcopo.Oriis, lUutort Imi
4e8elcitto si yIvo!} SmmUmim^ftOtU eh psmofie smoroM ia a 9MTaiietAaBiiente.f
li uomini per T ardore di e sere-
riamate, saranno sempre Tittime tordi pontile della lofo \ credulit 9. 9 rifuinlarl r pirla del wto, e Cfr.tii* i^j., che ia lui
tolo. ir Miro beii. Si rinfim (n. U
plebe nel gmdino intoni tlk felici^ (cio oC^ra al tetto dell' Mmo) i pi saggio,
ed pia ghitto del 6h^ Mfo spoglio di
reltgwie, 0 ta^clM fibaofo ti diMmi^ aedito ^piesto cose^ e A tu stoSM se,
cladend Prec* ckio alla Matara, non li metti sotto ai pi A ignorante dei.
Aoftali ! pcrdKB dificile non aU^aoBio
pi ignonurie^iw- dere, che io non pooso eradtf Woe quello ^ cbe viro .no,
iredo^ se piesto nn ercore, crrisaio pure bnvelD* ticri, memve
enra eoa -noi Um^ura^ii geaero* imbabo (), ma con noi U Venta. .,j: ;. XIX. Ma
ie i^gltni vedere cdnie afeono possa gnogefe a qael penaste Cosi rovescio, che
il & cjirnefee di se stesso} a noi bis6gn' discendese nel fondo d^i aniali,
e cercare le moHe segrete che M maovooo^ E non
dobbio elcan che V Orgoglio e la * Libidine sieno le piA potenti forte
inianislie deir amanita {%).* Pei* che Otto apj^to corranone del principio pi
nobile, del principio pie doke dell^
nomo r cio POrgogK^ orrniioiia del
deatderip di altessa , ' e Iti 'Libidine
corninone AA desiderio di godimento. E qaanio migliore ki cbsa ohe ci corrdmpe,' tanto peggiorer corvueions di li^ clfti di quella
porte deiruomo ^ che pM gK eslsle, bia^^
rtmenfo pi& funesto il cor^otnpi
mento: conle anche ogpitlio^ vede nel corpo nman, che il guasto d'un piede n^ si grave cosa come quello del petto* o dei
visceriy E perch 'quel nobilissimo*desiderio di sitesa allora I' corrotto, che
ad una ltezaa Cilsa ci reca; e quel eoa (0 Con$uliku stf ti rrandimk es^ tfuod
cum ipt9 mre hum^n^. "rare pidtamur, S. Aug. De ud. crtd. e. VII. CO QaesU
coMy essendo stata sempre, fu anche sempre conosciuta. Cosi dieetttfS^ Glo.
Griaostono (Jin MtUk. Hom. LXXa)t /UUiite- srm; cmum inereduUiais ut, rtTd
nempe coBMUPtJdf et 4t.tM jaMs Opusc. FU. T. II. e viBsimo dcrierio di
godimeirto pmneote guito, qiMda ci porte
ad un falso godimeato: gli di ncccniil,
be se queste due tendesse in ooi si coirottpoiio , >deMa^ avere degli
oggetti illasorii ed apparenti: e qatadi tiaaec che in. quest fabi beai alcuno
si apinga. A^eoc ancora, che da coloro, i quali hanno ingegno pi perspicace
, viconoaeano qne' beni per falsi ed
illasorii ^ e quindi, o abbandonano ae
tanto vigore ha in loro la rsa del lero^
^i$i Luxuriam uuun in PhUosopkUe simi ^hHmuim$, SeDeciyi)F. kmUk, . a finir qtiril vanto; Taonio gi sovrertito^, t eome fnri Aimico dtV amverso.
E se d queste beke mafiie a vantaggioso nudrre i mondo, Pins^gnao i principi
sbatzat dai troni, e la societ di tanti popoli orribiimcvte confusa. XX. Che se
i veicoli ne piace trascorrere per cui si arriva a tal fondo , da sapere , che POrgoglio e PAmore disor-
dinato irretiscono con piacere di tale indole, che pad cre- scere a grandissimo
termine. L* orgoglio gode di nna grandezza immaginata: e cosi queir amore gode
non solo della sensazione corporea at taale'(che forse la cosa minore, perchi sola e mornen* tanca),
ma cP infiniti icfofi di bellezza, dt fusin/^he tenaci sime, di desfderff e
sperane petulantissime. Poich sebbene tutte It creature della immaginativa
sieno o richiami delie godute sensazioni, o immagini delle aspettate; tuttavia
queste sono pia (orti , o pi tenaci almanco di quelle stessei non sol perch si
moltiplicano al sommo, in ogni parte perseguono , e da per tutto' rinvengono
nutrimento , ma ben ancora perch a discrezione delP avidissima fantasia elle s^
ingrandiscono, e si rinforzano: ^i guisa che qusl piacere, che goduto come' uno, sperato e indoleggato diviene come
cento , e come mille. Quindi il diletto del- F amore cosi vivo, cosi moltiplica
^ cosi rinascente, cos necessario alP uomo che se n' reso schiavo , viene tolto da quest'uomo per
h sola felicit^ e dalPistante che la felicit umana non si vede e non si trova
altrove che in questa specie di amore, e tutta in essa si chiude, forz' che al- meno col tempo P uomo riconosca che
tutta la sua felicit illusoria e
sfuggevole , com' illusorio e sfuggevole
quel VITO diletto nel quale egli la fa consistere (i). E in questa (0 Confessa
Io ttes Ugo Foscolo rabhandoDO necessario che hi d* suoi seguaci una speranza
illusoria posta nelPamore, cosi parlando 4i tfutania aeiw ceoigewi vflgoa a
netteni ippaai pec ft m^vilP^nto turale dfl Uro anrno e de' Ijorcf pepsieri, 4i
cui OOP ctnoscoQO le coDRgipfnsei^gli uqidui die. alla dolceMI ddU easibli c^
^affeiionano ed in quella auasi diattenti alcuna volta si soffermano. Sicch non
i a stupire se la societ del prigioniero di S. Elena dopo aver letto un tratto
della Nuova Eloisa discorrendo^ come avviene, conversevolmente delP amore,
conchiudesle che' m 1! amore perCptto er^ la felicit ideale, che s Pano che m
TalUa erano egualmente aerei, egualmente fuggiti^ # u egualmeiiiU miafterioii ,
eguaimcole injesplicahiU.' (t). XXI. La felicit riposU nelPamore dell^ltrt H9U
i una aen- tenza di tetU V antica poesia , eove pure la confessione deir
illusioiie si di quesU che di quello. LUwed^ra di Psiche^ applicata 4a^ poeti
greci agli amori uiMtfii, coutieoe la Slesia dottrina 5. che un elegantf
scrittore, descrivendo quella Civola dipinta da loascenzo^ Fvaucucci nel Casino
della Viola di Ferrara, cosi espone: u Que^ trovatori di favoleggiato senno C0i^ideraf. Seggi sul
Porareay pag. 327. Per altro il Petrarca ebbe sempre anche ne' snoi
vaneggiamenti una sponda a cui attenersi , nella religione, e non darsi gi in
queir abisso ve condurre V avrebbe potuto la sua seguace passione. 0) Las
Cases, Memorial de Stante- Hlne , T, l, 7 De. 181 5. 45 u mdo ftU'iuftika
m^ltkiidiiie cbc si stoplsce alle pene, ff alle inosUn9e,ai pfntmenti di lui,
si stupisce allWio tf o.ai dispretzo 4: al vergognaisi clie lo accompa^^naiu) 0
a gli succedono,: si stupisce in vano , e non conosce la tf natura di amore.
Essi con beiiissimo avvertimento ce la tf mostrarono in quella favola di
Psiche, ossia delP anima *t inoamorata : dove ci rivelarono , Amore non esser
altro che illusione, colla quale ci
figuriamo delP amata per- ir aooa mille beai. E petch' malagevolmente pu questa
e illusione trovarsi aguale ad un medesimo tempo in due^ if quindi rarissimo
Tamore ptenamente ed ugualmente re- ciproco.
Tanto poi maggiore la dffiiolt che alla iUn* a sione succeda nello stesso punto
in entrambi il disin* ' Iranno: qumdi A dolore e i lamenti deU\io(eUcissimo , m
che dofo il ravvedersi deir altro si continua all^ amato U' errore. secondo .queste inteozioni dicevano di
Psiche, bellissima e semplicissima
giovinetta , che avendo sprtito no spasa
giocondissimo , il proprio figliuolo della bel*
lessa , sbbe da lui precetto che stesse contenta al go- derlo, fuggisse di conoscerlo; ed appena P
incauta cu- u riosit vide, ed esplorato con attenta lucerna conobbe e l'aatoffe
di tanti diletti, Pamore crucciato battendo Pali faggi. In vano s affatic la dolorosa
fanciulla^ di rte- nerlo pei piedi* Ella
cadde. E le furono intorno tre an- te celle della madre di Amore^ AiWJtfmuoiUy
Malinconia^ a Inquietudine y che maligne tormentavano la poverina. Cosi la favola fiivoleggii di Amore, il cui
impero qnasi non evitabile a ninaa
giovent, spesso tiranneggia Peta dedite
alla pandenaa, alP ambiaione , alP avarzia .
ad ingrandire P idolo di quesP amore illusorio e Pim* maginato godimento
opera tutto il sentire delPuomo, per altro nobilissima prerogativa^ si^ quello
che viene dalla vivacit de^ sensi , aia dall' abbondanza della fantasia , o sia
dal pensare medesimo per altro nobile , eccellente^ vi** goroso. Poich quegli
che pia sentir 0 le sensazioni cor- poree, o le immagini della bellezza interna
ed esterna, o le ragioni dello stesso pensare filosofico) che sopra di quelle
accresce luce; questi avr pia metri di mpiilicsBii fj^m magtnati godimenti , e
modi di retiderseli pie credibili , pi antoreToli^ e fino (con eccesso
d'Uiganno) augusti e sacri. non sono i
titoli di aagvsti sacri , dTni ^ cbe
essi danno ai pia stemperati amori? XXII. Lo stesso aumento del bene
idoleggiato soccele per fona di fanUsia nella passione delP ambinone e delP
orgoglio. Prestano aiuto aiP immaginaria grandezza delPamUsioso o del superbo
tutte le sue intellettuali potenze, la forza del P ingegno massimamente col
corredo delle sue cognizioni: sicch quale bs pi dMntdletto e di sctenza , tale
ha pi modo di amplificarsi e scolpirsi e rendere a se mederimo verisimile la
immaginata eccellenza di se stesso , p proba* bile il concupito ingrandimento.
Ma quanto poi facile riconoaeeme
PiUttStoiie? Il suo matrimonio, dice Las Cases dei pi
fortunato guer* cr riero de' nostri tempi,. era P ultimo tratto della for* u
tuna: d^ allora egli non aveva avuto altro malcontento, se non quello che nasccvi^U dal non esseve
soddisfatta a P ambizione, ci che si trova in tutte le classi, o quat che vegliardo intrattabile, o vecchia femmina
piangente la sua passata influenza (i). Ma pi delP ambizione P orgoglio, pi di
una immagi* naria grande/za fabbricata e immaginata nelle cose este- riori
sovverte Puomo la baldanza interiore, quella cupa per- suasione di una
eccellenza tutta sua propria ed indipendente da quanto al di fuori. Quanto tristo, quanto labo- rioso questo inganno che PorgogKoso
ingegnosamente tesse a se stesso^ altrettanto
sottile, e come una tela di ragno ai propri occhi si squarcia in alcuni
momenti riposati nei quali Puomo stanco
visitato e sorpreso quari direi dalla Verit, che anche dopo molte
ripulse ritorna. (0 Memorial de SahUe-Hlne^ T. I, i6 Kov. i9i5. 47 XXDL Ma col
lungo miftere^ col costante rifiuto di quella anoreTole visitatrice , diventano
certi uomini , a cui grande ingegno e grande sentimento accresce la miseria,
cosi eb- bri e cesi firiliottdi nella doppia . passione ^ che a s. non veggono
pi Scampo (, n a s^ dato per intiero ad
ma cosa, non ha pia io s vigore per altra ^ essi giovano a s medesimi di volere
in quelli. alare io eterno, e aumentarsi quegli spassi, che in loro hanno presa
tutta la. signoria, ed hanno occupata ogni parte del loro cuore* Onde non
gustando , n per conoscendo piacere veruno fuori che. i loro, U negano tutt^ e
percM escludono h vel^^one, die appunto, stabilisee ima pienena' di piaceri ila
quelli divani: e jier^ eh a loro niente
ptA assurdo d inconcepibile, quanto altri piaceri (2) ^ perci quella
Religione , che ipsegoa la beatitudine, essi la chiamano assurda ^ e la
condannano come quella che renda gli uoojiqi tristi, mettendo -freno ai piaceri
loro f ed iamascherandolL Sicch di l appunto donde dovrebbe essere la religione
amatissima come ap- portatrice d^ogn bene,
odiata al sommo come crudia e nimica ! E tal diventa V uomo infedele ,
giudicando men* zognera la religione perch, stabilisce dei beni da lui non 0)
Ia iMsrione del wnto quell cke pi
avviliioe P omo 0 def^rada. Dovrebbe pere anefae umilierlo $ e pure fk qa enpre
il contruio. Il diifolnlo confesaa la tua debolema, e a oulrrla io* steme
d'or^pn^lio. u Nob pure quasi
impoMibile, dice egli, retiitere. alle
attratiTe di bella donna ; ma non y' che
un imbecille che ri o pOMa Tcnstere i>. leti, CabaL^ T. IV. Gonfesaano aempra che etti non intendono i
beni della wligione { cbumaogli inoonoepibiii , e di coi non t^ abbia idea
veruna, eone ti ^^S8 non si afIi colla ragione d' un sano : e questo dire egli forse ingiusto ? Non vi sono adunque
delle regole nella ragione, per cui si pu federe se quanto si fa e si dice sia
ad essa conforme o difforme l .Per tal modo
vero e chiarissimo che quelli vaneggiano, e hanno un sentire e un
immaginare ammor- baio che fa lor sentire e vedere diverso dal veto: e
vero , che meritano compassione di si
enorme paazia : e vero per ancora , che
se egli Ut conoscono^ dovrebbero amane la mediana e Ja salute* se non vogliono esser eondao* nati j come non
si condanna ichi ha una febbre ( a loro atessi per m'appello se pura sia la
volont nell'acquistare s fatta Cebbre ) ; almeno amar dovrebbero d' essere com
passionati e oompianti(i). Ma se U compiangete, vi dicono scimunito. E questo
appunto l'effetto del male, non d'un
male del corpo (si noti), ma di un morbo dell'anima. Anzi che si pu dire di pi
miserando, se questo morbo dell' anima ha la sede sua nella volont , cio in
quella parte che presiede alio scegliere delle cose, e al determi- nare il bene
e il male/ Onde chi pu negare, che s'essi (i) Alicuni scusano le eccessive
passiooi col dire che sono una feb- bre. Cosi rIvezio Dello Spirilo, e P autore
delle citate Lettere del- r Ortis. Anche S. Ambrogio conviene con essi a
Ftbris Gli artifici degli uomini malvagi
sono gi tatti onoidnti e svelati in millcn anco ch'egli si grande , $i eccelso^ si dieao, che se
potassero inie i contpmsto e invaderio^ avrebbero una vittoria di cui non
saprebbero immagiaara la maggiore* Impotenti sforai l voi ricadete seoipre
sopra voi sterni, vi trucidate colle proprie maut, stabilite solidi simameole
quel Cielo cbe vorreste annullare l Non sapendo dunque come vofgersi per
torsird^attorao lo spavento che li pcrsegoe, non pongono per gi la Spe* rama,
eziandio che nel fondo dell'animo la sentano smen^ tta e confosa# per questo tal gente si pronta ed avida a*
nuovi si* sterni scientifici, che ad ogni voce di novit nelle dottrine, pare
che loro baleni un raggio di inta nel cuore, lusingati di ritrovare sempre nel
nuovo la condanna del veediio viao^ e qualche opinione o scoperta cbe li
giustifichi, o almeno alcuna apparenza cbe li sostenga colla maschera del sofi
(0 Lueresio, lib. I. Jtque, dice S. CtprADO (/> idol uanit,^ hac t9t summa
kUey mllm jghoscme qnm oxomjme o mssss^ Qpusc. FiL T. IL 8 sma^ e iBufo mondo cosi por no poco prolnggi la loio
infamia. Por queito stoaio i eattoKci vori vc^i li vedete p coDtiderati e aggi
nel disaminare, p knti neirab* bracciare opioiooi sulle quali il tempo non ha
recato sen- tenza y e scevri 4a quella smama pr le alraneise sdenti- fiche e
per gb assurdi che ricompariscono ogni giorno in vestito nuovo e con maniere
spesso seducentissime. Quo* gli che
appagato e contento dei proprio sislema non pu& esser inquielo e
fomeKco di qualche altro. E se di solita li veggono gP increduli essere in suIF
avvilire plcheiamente i placiti (Uesofici del tempo addietro, ( petchi pia in
quelli non si nutre )a Speranza di una vera od apparente apo* logia: essendo
dalP universale gi o provati vori e cosi 4 loro sfavorevoli, o nascherati , se
Clsi, e cos loro non favorevoli. Por tanto il mutare ogni giorno' dogmi
filoso&Q una confessione quotidiana
che fanno deU' ignoranza e dello scontento che loro opportuna sempre le proprie
opnionL Ma oh leggieri tanto , che come foglie sempre vi mena un* aura di
speranza &Uace ! confidate dunque negP ingegni degli nomini , che vi
daranna principii a giustificare e rappattumare voi con voi stessi, e a torvi
il timore che v' agita , mentre vedete , che quanti uo- mini al proprio
intelletto s^aQidano , tanti eorsi prendono per arrivare al luogo stesso, e nessuno
v^ arriva mai? e se fra le tante contraddizioni a sistemi nuovi ve n^ avesse
pur uno capace d^acquetsre Paniino umano; perch, non fu scello ancora^ 0 perch
non lo scegliete tutti unanimi^ ma vi partite in quella vece secondo mUe
diverse lusinghe? Se ciascuno vanta il suo pensare , chi avr ragione? Non vuol
dire che se tutti differite gli uni dagli altri , gP in- telletti vostri non
sono valevoli a reggervi? cheijerrate ten tone senza guida e lume 7 dacch
quando una stella co- stante serrisse a voi altri di conduttrice, n^andrestea
corso uniforme : ed chi erra H>certo
, e non ha regola n co* gnizioQ di via , che pef mille andirivieni lontano ai
aggira smarrito. Debole speranza pu esser quella che uomo ap- poggia al suo
ingegno! Un tale barcoller sempre a caso^ e senza la religione peggio assai che nave al Tento af- fidala,
dacch il^favore dell' aria la puA sospngere a riva: ffla aclasa k religione ^
esclnde T ingegno vostro tannico vento a s propisio. Vale Piligcgno pel vero ,
e non il vero per P in^gno. Tolta per la religione alF ingegno, come 1 occhio privato delia Ince. Egli non vi
giover a niente: non v'insegner ai la maniera di ammansar la paara, per- ch
sebbene la cerchiate sempre, sempre ancora la esclndete, rifaggendo da Dio (i).
Poich donde nasce ella questa paura se non daHa Divinit offesa f voi l
offendete^ e poi coMro di lei cercate uno scherno. Ecco la sorgente d'ogni
timore , e la ragione d 4{aeUa confessioni spontanee onde ?! dichia* rate a4-
un tempo aenz'avvedervene e colpevoli e timorosi ^ com' ^ ipiesta del Militare
Filosofi} che trova impossibile Fartiar Dio , e che dimanda E come potrei amare nn a Signore dei gaale io
debbo infinifameote pid temer che sperare
j (a)? IV. In 6tti gli Umini. iireBgioal sentitono sempre dentro a se stessi
questo timore enorme* Essi giammai non sono cosi eloquenti come qnando ra-
gionano di Ini : ce lo dipingono A come belt orribile che inferocisce nell^uman
genere. Che dice per opposito l'd- man genere ? che dicono i buoni intomo a
Dio Voi ve- drete mai sempre j
quanto Puom pia perverso | pi esa-
gerare il timore che la Divinit ingerisce air uomo: e quanto Tuom pi retto e pi pio, pi Cavellarvi di
soavi consolazini, di non mendaci speranze^ che deduce dal medesimo fonte. Ecco
T Epicuro romano che cosi canta ' Praeterea, cui non animus formidinc diputn '
Contrahiiur? cui non conrepunt membm pauorty (0 IHxenirtf i>eo: Mectd a nMs.
Job. jXl. 6o Falminis horribiti cum phga iorrin uUui Coniremit, ei magnum
pereurruni murmum icoelum f Non populiy gentesque tremunt ? regesqu supai
Cnripiunt divum perculsi membra timore ^ Ne quod o admissum foedcy didumve
superbe Poenarum gfwe sk sohendi tempus adaetiun {i)f Ecco Didrrot sserirvi u
II pensate che non vi Dio non e ha nai
spavenUto nessuno^ bens il pensare che ve n^
uno tal quale si propone dalla fede
{i). Sentite voi in queste parole come lo spavento che hanno al solo
pen- siero d^ un Dio, ^ la cagione che muove a negarlo? Ma il negarlo , il
pensare che non vi sia non ha m spaven- tato nessuno ! qnesto pensiero 6glio dd
timoie non i egU quello che lo accresce, die ne rende incalcolabili le Sae
Ibrse? S)^ il pensare che non vi ^ Dio genera il timore^ non un timor dolce ,
ma un timor disperato di Do^ come lo genera sempre il delitto. Le stesse cose
dalPautore del Sistema della Natura^ e da tutti quasi gP increduli si ri*
petono (3). Le loro descritioni* del terrore della Divinit dimostrano n^ animo
.silerrita. Ma mentre asseriscono costoro da un canto con inore dtfail
franchccca^ che tutto U mondo si giace miserabile setto questo ferreo pavento \
non sentite voi dalF altro Puomo retto e trtaoso^) che nel suo Dio ha tutte le
sue rcchesee ed i uoi 4sifocti? I.pi& onesti fra gli stessi gea* 0) Lib. V,
V. 1217. (2) Penst Philosophique , n. 9. (3) P. II e. I e III. Il Raynal d
molti luoghi fa pittare nerissime 4i
bi]i->. Vedi e. XIX della tua Sioria filosofica e politica eoe. Simili
terrori t^ incontrano per tutto nel P opere di questi pavidi eroi: e
singolarmente nelle Bioerche sul dispotismo omenlale p che si pu in v^ero
chiamare un monumento innalsato alla tristezza ed alk) spaventa. 6i tib TI
spingono IddUo colpii mabifi colori: yi parbiife tldia sua ptoTridehia iopra
ikll^nomo on amaiirabiU d scrisioni. Ve lo Kceno Jbaono, g^neroto ,
ienefioentiiMio (i)f a imitarlo vi apronano {%) ^ e yr iosno nangnaTano^ die
JoveVa ossero IP uomo g usto ia morte dolco perch V aira cogli Dei (i), Vlatone
se e andava ancora piA innanzi, e nei godimento di i>ip lipooeva la felicit
(4)* Ho dttn J^ol. J>er^1ib. II ddxx
) rimo la fioe. . (a) Era fpraocllo cpedaloMole 4e(U Stoiei TMutaiiofM 4 Dm,
onte 91 pu vedere in Seneca, in Cieevonei id Apnlek oc, cke tOer* maVano-, Dio
fare ielaneate del bene, e non noocera a vernno. An* ohe Platone, e prima
l'ilagara InsegnaTtno Vimiimct di Diot e tt Vangelo ci eomaoda Zar del
bene tatti 4i appunto, dice, perdi u
anche il voitio Padre elette fa orsere il ole tanto so^ buoni che m tu^ cattivi
(.MMUh. V). XJuelli ee u meritano j/i aitifo, ricooo- aoio ^Innqae il male da
te tetti (S) y. il Fedone di Platone, ed il Sogno di Stipiant o a libra Detta
veodu%9a di Cicerone. Fra fjL Stoici alenai tenevano, che r anima umana si
ricongiongette , ttaocata dal -corpo, a Hio, di ni U facevano parte. Laerxio
lib. VII , Cic Tute, l tea , Cf) PUaoniei dkcnral, beatwm #j hominem fitunUm
Dto, non l'cait torpore i^tl stipao fivitur animus , aui sictU amicut amico ;
sed cnt btce oaUus. Aug. lib. VII! De C D, Vedi Platone nel Timeo. (S)
Indirsaarooo tempre oottoro le loro tpeculazioni filotofiehe a rnTenire nn modo
di torti- la paora della Diyinitii; perch qaetta idea per Joro di feUdtli, ettsr liberati dal
timore Giordano Brani, 6% btti altro scopo noti avte in tali $km che di
alleggerire 01 stessi della paura: sapete to quaoto caro coalerebbe al ttMiiido
quel bene ridicole, che volete fare a voi stessi t quanti cooforti toimte vq^
agP infelici, quanti sollievi a^ giusti, quanti rifiigi agP innocenti
perseguitati, togliendo via la Religione? L^uomo virtuoso, che fedele. aUa
giustiiia rha sostenuta nella sua vita, Pha difesa, P ha preferita a tutti i
beni della terra, vede con. occhio imperterrilo ^ ami con viso ridente (nerela
credensa d^un giusto Dio) il punto della sua aorte, come il punto dal
gttiderdone'{i); prefionore de^ moderni
nel libro della Cmim , principio ^ ed uno (^y inezia i584), confessa
anch'agli d'avere volto il tisieilia suo a torre la paura delV inferno, a
attesoch, dic^, lei toglie il fosco velo
del passo sentimento rca POrco, e P avaro Caronte, onde il pi dolce della nostra vita ne rape e avrelna n.
Tatto il Sistema della Kamraf e i libri simili a , lutt non liberavano punto da questa paura,
e che ami erano la sor- gente di leti e per questo le condannava (V. Laert. in
Epicuro, e Cie. De Fin. lib. t): l dove ai novelli Epieofel piace U principio,
e non la conseguenta. Ma quando animettestero la conaeguenta, non importerebbe
loro pia niente i quel principio. Cosi sono condannati a contraddirsi sempre
Differisce ancom V autore del Sistemm delle Naturm da Epicuro beH^ ammettere
una necessit , di coi Mirabeau rende sebiavo Puomo con tutte Piltre cose (par.
I, o. XIV). Epicuro aiP incontro teder, che questo altres era un contraddirsi:
e- che se si temevano gli Dei, che si possono fendere amici col ben fare, o
phar ed* preghi; molto pA si -debbo temere una neoeaiit sorda ed inesorabile.
V. la lett a Meneceo, e i Gomentar a questo luogo del Oassendo. ' (i) La Natura
ingannerebbe Puomo giusto, che nelPintiOfo senso ^i promette Un premio della
sua wiit forte nelle persecusioni. Non dispiaceranno di sentire a questo proposito
i bei veni laUni di Aonio Paletrio, De hrim. Jnimor. lib. II, v. 4i3. jtf n
uen> tot muneribus fiUciter enetuM Ifet/dapiom , ad lacrjnaas tantum natura
tuUaet HUmahum geniti f 6 e qami^ al mortale^ aiPappieatare^di quel terribil
lao* menCo, vengooo meno tutt^ le cose j e s aaoera la laoe ^ e ceata b ItHnga
di tatti i heni, Mote a poco a poco r
abbaii4oDO voiversak : ah oottCorto iinica e potenlissimo il penaiere e la
sicureiaa di naacere alkra aUaia appunto ad una Tta nuova, e ala|rik| e iieata
etemamestc! Fino io queato istante ultiaio acoompagaa la Religiose V uomo
infelice, e terge le lagrime degli occhi suoi: e gli dice negli orecchi con
tocc autorevole, oonsolntisttma, di ri- pararlo fra unvpoeo a dovizia di tutti
i torti soateputi, di tutte le ingiu9tbio jofikrte, di tutte le angosoie di
questo vivere mortifero e travagliato. Quale v^ avr dunque vicenda nella vita
delPuomo misero, cod rea, sopra eui la Reli- gione non isparga un balsamo
divino? Ma qnal conforta avr il mortale giusto -e infelice dal filosofesche
domanda; che potreble dirsi del nostro
aspettare Fimmort^ tf lit, che tutto non sia compreso p spiegatc AeUa e^ ft>
gueole invoca^nonf della Spe^uiza? a
Assisa, o Dea, sorriderai sicura V Su le rovine, e atlumerai tua face i^ la funerea pira db Natura (t). Vedi per tanto, o incredulo, quanto male
tu fai al monda per torre a te una molestia! tu levi agli infelici ogni con*
forto: tu introduci nella terra la dispecazione, Oon quanta barbarie adooi
confiwid e' vi amiDtttolisces Voi non sa- pete aodalr nnansi fta plesso nello
spiqpre la tt$akvLk e l^artificio del minimo 4e^ suoi predirtli^ non feiftte
tispod^ dere al tninimo quesito die ti propone^ e (fui hanm fine le Yostfe
ventose declamazioni. Vllf. Quando adunque vantate , che il timotv a to
sisgonl'* bra datr animo perch conoscete la natura, e sapete spie gare i
fenomeni di lei; allora mostrale appnnto ^ non conoscerla niente anche
per^iqaeslo solo, olle anpponele possibile liei petto di un. uomo pottcsi
osotenere le lio^ chea^e delb scienau delt^nitvaso^ poidr su non le avete in
voi raccolte t(|e , gi vi wstaiiu delle cose acofa a spiegare. . ' Ita v^ ha di
pi. tn qocMa tessa speransa che avete di. trovare cosa che tolga a voi il timor
di Dio collo studio naturale, mostrate dMgnoftre al tiitto P indole di questo
studio , e la logica si sana e retta , per cui i moidenri dotti (espulse le
ipotesi) s sono veramente inoltrati nella scoperta di molti fenfheni -e loro
leggi. Sappiate dunque che per quanto s^ osserva e si studia' la -natura , ella
non ci d ' che de* fatti ; uva uniformi ora varii , ma sempre i^TTi. Quando
adunque voi assegnate le cause di questi fatti, ella una operazione della vostra mente, un luzio-
cinio^ una ipotesi che componete pi o meno adeguata per ispiegare i fatti che
vi son dati. Per modo d^ esempio i corpi celesti tendono d* avvicinarsi P uno
alP altro: questa universale gravitazione
un fatto, e questo itto ve lo mo- stra la natura. Che la forca poi sia
aderente al corpo, o sia faori del corpo e venga da quuiebe altro essere, que*
sto la natura non ve lo dice^ e siete voi che lo supponete, e ve lo create io
testa per ispiegar que* fenomeni. Newton stesso non vide mai nella gravitazione
altro che un fatto, e tion ^eteM d^iDie^rc eoj(petta UQt C4Ufa; e 4e*prc^ teso
lo aveise, JNewton avrebbe errato. QttM4 nkenlD di cantici al loro Creatore pr
le infiaiCe aoaravglic che contiene , taiyto nel pia piccolo de* vermi, ch^ nel
]ii vasto degli astri (s): eHa Igrda perci tcfriirife flnts^gli empi, ed avvera
continannte - ^oel detto divinai i^^^pmc it aun ilio ^rUi terrmum oAtitE-
insmsuosi^). . . Ma voi altri, die Aon per lo stdio della natura, coA cai si
malamente vi coprite, ma per P impulso delta ver* stra fantasia agitata
aggibngete delle forze agli enti natu- rali, le quali pur debbono essere
inTisibHi, perch la na^* tura non vi' mostra mai cause, ma sempre effetti, come
dicevamo: voi , dico, die contro tutti i principi del retto ti) V. Gie. ^cc. ],
4 -- Tme. V. 4* C>) FunNiO Mritti molti libri, Sap. V 70 pcn^Mt ifltrodMto nella Kisici^ i
in^dcmi | puntate delle tM}c(JiM ipotesi per tor via b Beoenil di un Dio, e
USerUe girafuitamente tolte le coae (i): come poi le fon* date queste ipotesi,
coive le vestite di verisimiglianu f come mostrate la probabilit di queste nuove
vostre immaginazioni aopta P antckissimo e universale dogma deU^esistenaa di-
vina? Per sostenete F ipotesi prima, ne chiamate in soc- corso flelie altre,
sentendo voi stessi, die non -basta intro- durre nella natura delle cause o
forae invisibili aderenti agli esseri naturali, in vero similissime alle qualit
occulte de^ 'Peripatetici ^ ma che vi
necessario peporr^ delle, al- tre ipoiiat, da cui sieno fiaBchcggiate :
colle qqs^li aasal- liate il sistema noiitrario. Quel sistema dunque cbe si so*
ateue. edn lrgnaentiiid? ogni 'aorte , voi pensate di tter- tarlo eolie
ipotesi^ siiiili a que^ visionari che combattono c'tron&no degli eserciti
che veggono correre la nptte nel P^ria. . . Ma dn guarda oltre .91 d^* queste
ipotesi, le vede fog giate* tutte pet modo^ ohe ^lesaoo da qual &m^sia spa
ventata >procedaRn.s^: hanno tsolore nero e terribile. Voi vi deliziate in
tutto ci che trovate di orribile nelP anti- chit : voi trapassate i termini d^
ogni memoria , d^ ogni possibilit: ci fate descriaioni orrende di catastrofi
imma- ginate: la vostra mente perturbata d caca d^Ii spavento- sissimi
^convol^menti del globo, gli esagera e fi dipinge odie tinte pid oscure,
tacenti le stori^. Lo stile fosco e quasi tragico dUn Boulanger e d^un Mirabeau
ci opprime colle diaav^'cnture , che conghietturano avvenute alla terra ne'
tempi antM^issimi : essi vigono in quella oscurit| in (X) li signor Castilhon
nella confutacioiie del Shtema della Wd^ 9urm toglie s Mostrare fra le altre
cose, che aminettendo tale sistena si debbe ammettere altres grattiitameote
otto misien, cio otto snppo Stsitfiii ioeapItraMii, nella ola ^rma parte defr
opera ; e dando fede sUa iecotada biogoa credersi de^ misteri pia che due
cotanti : di che eoDchiude n; rischUtra^
lalaee.del K mondo' essere slata smarrita, il cdrs del sole e d^ pia^ u
net alfet^fo; 'tin regno, d' iiiieeiKli , ' innoadarf^rti ^ Ur^* muoti
tenebre^ traboc esercitare il
potere fatale di perdermi senza rimedio, ol- tf (raggiando o disconoscenda V
arbitro di mia sorte l non avrebbe Dio
mostrato meglio la bont sua onnipotente
Terso me, e operato pi efficacemente alla propria gloriai^. tf se
m'avesse forzato a rendergli t miei omaggi , e quindi i meritarmi un bene infinito 99? Non si vede lo
stesso fine ne' tanfi sforzi, che si trovano pe' libri di .tali scrittori,' cio
di degradar 1' uomo alle bestie , e renderlo schiavo > solo di brutale
istinto? Kn vero, che da per tutto ap-
parisce = che gfttdicand da se stessi? 0 almen cke si vo gUono ingannare^ se
potesse essere , per timuoversi quella molestia dello -spavento ? Che ha fatto
a costoro la propria libert per cosi odiarla ? u Qaesta libert , il confessava
u un'altro dei loro numero, non
considerata come dono fatale snon
da quegli, che sono tentati di abusarne
(i). Ma se siete liberi^ perch non fate* bene, e perch amate piuttosto
di meritarvi l' ira di quel Nume che vi spaventa se la vostra miseria viene dalla libert, come
dite^ non questo un male da voi
procacciato, mentre potete schivarlo? Ah s i Gentili talora si mostrano
dubitosi se fosse bene o male una intelligenza per essi (l) , sfenturati
com'erano ed erranti nel buio , presentano con, ci un fatto quasi direi
naturale, oti argomento anzi del - nulla dell'umana natura abbandonata a se
stessa , che una colpa lor pro- pria^ ma che cosi dicano quelli che nacquero
nella luce delCritftianesimo, sarebbe al tutto inesplicabile, se non vi avesse
appunto n^ir uomo ' quella forza sublime della li berta eh' essi talra negano ,
talora odiano , ma che sempre CO Beliate, PhU, Nat. T. I. C3> CotU presso
Cicerone, lib. Ili De NoL Deor. e. XXVII: IJaud scioj dice , an mtlius fuerit
humano generi , motiun istum celerem co- g^txitUmis , acwnen , solerlam , quam
raonem focamut , tjitoniam ptsjera tit mlth , paucis admodum talutaris^ non dari
omnino quam tam munifice et tam large dari, Opuft. FU. T. II. 10 74 contestano,
colla, quale r||tlano il lcpe vero, e da} male se ne traggoao, se ne creano ano
illusorio, e si rendono cosi possibile V amore del male ! m. Ma se si concede a
cost. e non sono pia avversi d^ ammet- tere un Dio. RoQsseau in questo caso
trae anzi partito dalF altra vita: sente allora anch^ egli, che quella pu
essere un bel sol- lievo per gP infelici. Vi dice tosto cosi: Ah troppo io ho sofferto in questa vita per non attenderne un^
altra* Tutte cf le sottigliezze della metafisica non mi faranno dubitare ce .un
momento delU immortalit dell^ anima, e d'una prov- tf videnza benefattriGc. Io
la sento, io la credo, io la vo- ^ glio, io la spero ' (i). Ma come non
Of^riscono qui i soliti terrori? Ye lo dice Rousseau nella lettera,
stessa. EgU a credere, son sue parole,, che gli
avvenimenti a particolari di quaggi sieno un nulla agli occhi del pa- ce drone
dell^ universo; che la sua provvidenza
soltanto u universale; ch^egli si contenta di. conservare i generi e le specie , e di presedere al tutto senza
darsi inquie- indine intomo al modo,
onde ciascun individuo passa . questa
breve vita. Un re saggio , il quale vuole che eia- senno viva felice negli statf suoi, ha egli
bisogno d^in- formarsi se i bettolieri
stieno a dovere (a) l Se perd a. Dio si
leva il castigare gli empi , come gi ,dair esser tiranno) , e tanto pi caro
amico, quanto pi grande e potente: poich
per ci appunto libralissimo e misericordiosissimo. Ma si parla e si scrve da
molti del Cristianesimo senza conoscere il soo spirito I (a) Lo stesso, eap.
Ill^ dopo altrettali che aveano detto il simi- gliante. 11 Montesquieu
osservava il contrario nello Spirito Mie Leggi lib. XXIV, cap. III. u La
religione, dice, fra i cristiani rende u
principi meno timidi, e perci meno crndeli. Il prncipe si affida u ai
sadditi , e i sudditi al prncipe. Cosa varamente ammirabile l u La religione
Grstiana, la quale sembra avere per solo oggetto la ce felicita deir altra
vita, forma la nostra felicit andie in questa
s( La religione Cristiana ha impedito che il dispotismo si stabilisse ft
neU^ Etiopia, non ostante la vaitit delIMmpero e il viiio del dima. 77 quale
igoMe sensazione della pftnra maggiori sono i se- cali presso questi forti,
qnando viene il punto della morte ^ de' quali aoao piene le loro vite^ come
tutti sanno. Allora quelli che osano dire, essre il timor di Do il principio
della paz;Ba, cominciano a riconoscere come possa essere il principio della
aa^enxa (r). Bla ben pi felici coloro p che non aspettassero, tal punto a
^cessare dalle bravate \ e eoi darsi rinti a queir avversario , che non pu
perdere, A rendessero una volta vittoriosi , e annientassero la ra gione di
quelP infausta paura, amicandosi T oggetto stesso che tanto li fa temere. .
XIV. Ma ben ridicolo d^ altra parte , se
pur vogliono 'se gtttare nella lor vita piena di paura , che capovolgano tutte
le cose e i nomi loro tanto, che fortezxa nominino s) grande vh. Pure; se si disaminano
i contegni e le parole di costoro intorno le mutazioni pubbliche , di cui sono
sempre aridi e promotori , non si scorge in vero sentimento alcuno in essi,
die, spogliato di un certo .fasto, non sia proprio dei popo- lari. Tale
la natura de^ popbli, dice il nostro storico u immortale Guicciardini,
inclifnata a sperare pi di quel a che si debbe , e a tollerare manco di qul
eh' neees- sano,, e ad avere sempre in fastidio le cose
presentii (a). E questa natura i di .costoro. Non disaminare diritti,,, non
consultare ragioni, non prevedere danni e steroEiinii, mw sentire voce di'
prudenza , di piet, di misura:- ma ogni
ed hft portate nel messo delP Affrica i cotaau e le leggi europee ,
Qaaoto aia la rrigione nostra opposta alla Bchiavity V. netto stesso autore
lib. XV e VII. , 0) Il Boalnger, che nel Ofion^Mio s$eUao scrsse, che il ti-
mor di Dio, dtto dalla Serttara il pnocipio della sapienza, pi losko il principio de 11^ pania ; all'
oltimo della vita si eoaverti a Dio, e detest i snoi errori. 0) LK IL 7 cosa
gridare insopprttblU , ogni leggo ingiiwti , ogni stato presente crudo e
barbaro , nel futuro sempre spe- rare felicit e rgeneraaioiie , ascoltare in
sottaa P impeto delle passioni, ehe f della plebe piik ^e al tatto proprio,
ed anche d costoro ; n Uro da quella
differMono che dal grado della pertersHA , tenendo in essi IMngegno guasto il
luogo , che In essa tiene V ignoiransa e la ros* sena (i). (0 La oorratlela
profonda de^ costami non solo ^ il germe delle rlbelliofoi coiitro g] stati, ma
ben anco delle ribellioni eentr I Chiesa. Grande istruzione debb^ essere it
governi il vedere oome la medesima causa che forma i nemid della religione qodla che forma altres i nemid deir ordine
politico. Della corrottela di quelli che si ribellarono alla Chiesa, innumere-
voli Catti si potrebbero addurre: bastino i seguenti de^ quattro prn- dpali
riformatori del secolo XVI. *- i.^ Lutero eomind la sua rtfoma olio sposale el
iSaO Gattevnm de Bore, giovane religiosa, ehe aveva fatta uscire del. suo
oowrent due anni prima per 4techiiuila e per sedarla. Cristiano JancW , dotto
sassone y d ha conservato odia vita di Lutero la preghiera che soleva fare dalP
abbondanza del cuore: u Mio Dio, per vostra bont^ u provedeted di abiti, di
cappeitt, d cappotti e di mantelli'; d vt- u telli ben grassi, dU tmidi*
Ifouioneru.im PUardM $cnmm et rerum pintt- umuntnwmmmia! in ilUs oAm hodU
JtgUur Jo^mnem hwc Colpi* u man, todom^ cowicium, ex EffUecfi et MapsttatMU
imbdtfentia u solo stigmate in tergo notatwn, urbe exceetUte: nec eiutJkmiUm homettissimi viri adkue sUf^erstites]
imparare kacunu poiuerwit, it M hiugjacti memria, qam totijkm&im nttam
aUqstmm imirii, e u ciuids ilUs monumends ac scriniis eraderetur . 3.*
Zoinglio, fondatore della riforma Jllvetiea, ben dimoitr lapu- rtii del motivo
che P impegnava ad abbraodare il nuore evangelio, posando una ricca vedova.
Ecco la confessione fatta da lai stesso
Io non saprei dissimulare, cos scrive di s, 0 fuoco che-mi bru* iGBNT
(i). Laonde se questi tali , come dicon talora, cercassero gloria, dovrebber
vedere che M feili ni hanno troppo tinto addotto dei rimproveri
ditonoranti nelle chiete f> (/ra
Parenae, ad Helt^eL T. I, pag. 1 13). 4*^ Ol archiTi del Gabinetto di
Saiot-James contengono un gran nomer di monumenti della parit de^ costumi di
Enrico Vili fon^ datore della chiesa Anglicana: etti attestano, dopo trecento
anni, che saetto principe non si separ dalla Chiesa cattolica se non perch Roma
condann la tua unione adulterina con Anna de Bonlen^ che egli Bpoi vivente la
sua legittima sposa Catterina d^ Aragona, colla quale era vivoto congiunto
dieiott^annl Appresso, tocco dalla bellezsa di Giovanna di Seymour, fece mozzar
la testa ad Anna di Boulen. Morta Giovanna di parto, le surrog Anna di Cives,
della quale si lisgott dopo sei mesi e la ripudi sostituendole Catterina Oward
; ma fatta questa decapitare nel 1543^ prese Catterina Parr, giovane vedova d**
una beiletia rara, e che fu presso a subir la sorte d quella che la precedette
nel talamo di Enrico. Tali uomini si separarono dalla Chiesa; ma prima daUa
morale: una contraddizione rimaner
attaccati al maestro quando se ne ab- bandona la dottrina, ed amare il giudice
quando si conculca la legge. (0 ^MC lib. IV. Altra sentenza dello stesso
Tacito : Sapientibus ifuUtiM H rtipubUca
cura\ lantgimuM quisque tt futuri nprouidus spe vana Umuns, Multi adflcta fide
in paQt , ac turkatis rtbus jXucmms, et per mmcxt^ tvtssimu Lib. J. questa
no gran fatto rtda ched ena mni, ma
beiai che calcano M cnticro , cai quahmque utmo Tlisaflao pa calcare , e ha
foraa che basti per superale la prpria natura, che gK proibisce di esacre
scellerato. Ma Tagioae pi alta mette in moto costoro : lo sfogo dell'interiore
animo , e il non Tedeare di fuori se non quello che dentro sentono, e l'andare
in traccia dovunque di una immaginata vendetta* contro qntHa vkaiT', che per
tatto sta sicura dalle lor' furie. ^ ^ ' \ * LIBRO TE&ZO^ DELLA RELIGIONE
CHE TOGLIE. LE ILLUSIONI DELLA SPERANZA E GLI AFFANNI DEL TIMORE Ptrftct
caritasjhrag mUtit tbnortm. Jo. Ep, I . IV. .Al^dilino pevlaolo filiti i monarchi
qaesiic ireriCi Con* sderio it torna a conto colle loro leggi promuovere nna
razza di genle^ cbe-neUe convulsioni del loro animo ri pongono il loro bene ,
ed in un continuo moto di aperanzo creato dalla fanUsia^ e guardino se egli non cosa na tarale, che costoro anche al di fuori
tutta tentino per som* muovere le pubbliche cose , e agtaro in ogni parte le
Caci della discordia. Conciossiach sono le esterne inquietudini che danno U
pascolo, e saziano, se esser potesse, le in* teriori. Ma dopo di questo
pronfondino di pi i loro pensieri; cerchino la radice ultima di tanti mali
nella natura me* desima degli uomini : pensino a quello che diceva il Pa scal,
che, quando ancora terrai a costoro le loro dottrine si disperate , e solo
riguardemi V uomo come egli nasce , rinverrai sempre in lui un incitamento di
pervenire alle medesime, se guarito non
dalla religione. Poich qua looque uomo , ancora che non sia di capo
stravolto , tttt tavia per sua natura non pu vivere con solo se stesso , e
cerca il moto e V agitazione esteriore. E qa^^p moto lo cerca per una quiete, E
questa quiete , s' in cosa umana, la
fugge , perchi lo disgusta. Per {a quiete nojo la scena Opusc. FiL T. II. n 8a
mii veramente; ma fia due sceglier sempre un moto tpn' lonque sia : perch in
qaesto sostenuto e ricreato da una
quiete, che vede in lontananza abbellita yagamente dalla speranza, e dipinta
sempre co^ pi bei colori della immaginativa: laddove la quiete, se ella disgustosa, come trova essere tutte le umane,
non ha n pure conforto di q>eranza veruna. Di pi un tal moto si suole
accelerare tanto , quanto r nomo vedesi ingannato nelle speranze; quasi per
risar* cir il tempo perduto, o per una ira che gli nasce, o per arrivare pi
presto al fine. Cosi di sua natura V uomo
un essere mobile e instabile; e se non
diretto dalla re* ligione, se ne va sempre pi veloce sfrenato di tracollo in tracollo. No , non valgono
niente, o princpi, i rmedii negativi contro agli estremi, ove addotto Puomo da questo impulso alP
agitazione : sodo snervatissimi e frivo- Kssimi tutti i vostri provvedimenti
onde impedire i disor- dini delle societ, se non prendete Puom pel suo verso ,
non appagate la sua natura procacciando ^odienti, onde sia illuminato, e
acquietato in quel bene positivo, che il suo cuore ricerca. Questo solo P
avrete col fare fiorire lo spirito verace del Vangelo : non punto con mezzi
forzosi, o legali e politici, che son- freddi, atolti e gettati; ma con caldo e
sincero amore, col quale solo fu diffuso il Van* gelo a principio, e piantato
ne^ cuori. Cristo la luce unica che
dirige gli uomini ne* loro avviamenti; che acquieta le loro angoscie ; che
tempera gP impetuosi trasporti del cuore umano, appagandoli. Oh Religione
santssima di Ges Cristo ! Religione benefattrice! Quegli che ti disamina ti
trova la conoiliafrice delPuomo con se medesimo. Tu con verit spieghi al
mortale la ragione perch fugge se stesso, e perch cerca sempre se stesso: gli
mostri perch sia un esser debole, misero, impotente; e ci colla storia di sua
origine, e del suo primo padre: gH sveli perch egli senta ^ se stesso una
forza, che il tira al disordine, mentre ha una ragione che lo chiama alP
ordine; e perch aenza di te egli venga sempre atterrito, e non mai conso- 83
lato da/le poterne infimbili. Dici ancora alF nomo perch , elle d tutte le cose
del mondo persegua continuo la 6cC senza troTarla mai mai^ ed in fine tu gliela
apri questa tanlo sospirata felicit , e tanto nascosta ^ e T ac certi cosi) ohe
non la Speranza V ultima Dea^ ma ve n'ha
un^ altra non vacua, non menzognera, non cruda* Vuomo che staggir da te
lontano, sente il bisogno che ha di te , e pro^mpe involontario in darli mille
Iodi. Io veggo V infelice Roossean nella sua solitudine di Montmo- renci
fastidiato degH uomini cercare il suo riposo ed il suo appagamento nel seno
della natura campestre. Un lago, e de^ bei colli, e de^ campi rdenti danno in
vero ampio pascolo alla brillante sua immaginativa, e alla fona del uo
sentimento, tanto pi suscettibile delle sensazioni sem- pliei della campagna, (t) AtuoB. Carm. SO9 84 ^ IL Ed cosi. L'uomo desideri, P aomo vuole una cosa
che [appaghi, e non sa che ma. Quando tatto gli venisse coq* cesso ci che
dionanda, ancora scontento. U solo lame
della Religione rischiara le tenebre del suo coore, e spiega a lui medesimo le
sue voglie: e gli d la ragione di queste tenebre e di queste inc^rte*e: gK ia
intendere come non pui trovare nella terra la felicit , perch tutte le cose
della terra sono assai ppicciole della mente e delP animo suo; e con ci lo
certifica della sua eccellenza, gli a c* noscere la grandezza delle brame della
natura sua, e quel vasto vto del suo animo in cui tP ingoiano tutti i beai
finiti senza giamm empirlo. E quel nuovo ordina di beni infiniti, eterni, puri,
e capaci di riempierlo, che egli e sospetta, e desidera, e non conosce, gli
schiude davanti^ e 111 qiirati che gli
promette la quie&e che cerca, e gliela descrire non molestata da alcuna
voglia che il punga, n illanguidita da saziet che V annoi , n deturpata da iner-
zia che rinvilisca; ma gliela descrive quale appunto la desidera P animo suo^
cio pienissima, e scevra dagl'in comodi deHa fatica, e alacre, e gustosa, e
senza Tim- portunit di nuovo desiderio, e attivissima in grado sommo senza il
languore della inazione. In somma egli gliela di- pinge come un amore e non
come un desiderio, come un godimento e non come una speranza: e tatto questo
infi nito, pieno, soverchiante. Ed una Religione che parla all'uomo in tal
modo; che soddisfa nelle sue promesse a' segreti pi riposti della na- tura di
lui; che non lascia parte ne' desiderii, nelle incli- nazioni, nelle molle di
tutto questo maraviglioso essere, su cui consultata non dia risposta all'uomo,
che piena- mente gli soddisfaccia e l'appaghi: una Religione tale, non si
palesa solo per questo evidentemente vera e divina ? Quale Religione fuori di
quella di Ges Cristo soddisfa tanto a tutte le umane necessit , alle necessit
pi intime che 1' uomo il pi perspicace del mondo appena discuopre? 98 Fui eifef
questi idTciaotte d^ altri fuori .ek^ i dotar , che fece V umana natura / e pot
adattarvi per questo una Iteiigione aulle stesse basi eterne ^delia pif^pria
osMRxa*? Quando anche dnnqre non sapessimo cke cosa questa. Re^ Kgone
Usantenga^ da qoeild che prometleisolo ia dobbiamo credere divina : perch Olie
sue promesse si nteiio de iufiota e compiuta sapienza (i). - r f , '
' IH.- '-; Ma oltre a ci la
Cristiana Religione d una caparra atichc a questo mondo delfe sue proiesse alT
altro. Sicch quantunque queste promesse sole per la loro sa^ pienza e profonda
conveniensa colla natura nostra, chia' rumente mostrino la propria veritik';
futtaria eUa non- si contenta di eiiy. riha al cttore delTuomo fa pfesaggiare
delle dolcezze, che Ibdamo si crSAirebhe^ imiijfgtnare da quelli che non le
avessero sentite inai. Una profonda tranquillit delT animo, una cahnia di tutte
le passioni ree, nn^ armonia di tutti gli affetti , una serenit e chiarezza
della mente, una tenerezza di cuore che niente invidia a nessuno e che* a tutti
profondere vorrebbe quel concento che dentro innonda, un 1uon testimonio delia
propfk co* scienza^ immagini lietissime di tutte le cose, purit ed ele-i
vatezza di sentimenH , sicurezza d' essere caro al Cirfo e a tutti i buoni
della terra ! Ed una amabilit della voce di Ges Cristo che sempre dentro
risuona ^ e una fratellanza , e diffusione di carit universale^ e un gaudio, e
una gioia, (i) Trovo tale argomento accenoato ancora da Mauperluis nel suo
Sggio di Filosofia moraU e. VII. a Se io voglio , dice , iitrairmi neir eternit: una pace in somma, una deliiia,
un'amorosa estasi, sensa noia, senza amarezza, senza termine! E questo godono i
buoni quaggi su questa terra, dove vivono da questa tena stac cati, spesso ancora privi d'ogni bene che
dakiveoga; e questo io mostrano negli aspetti ridenti, e ne', volti pla- cidi
ed affabili, e ne' contegni pieni sempre d'ineffabile amore: quantunque
ignorino si, e non credano ponto tali cose coloro, che mai non le gustarono in
se medesimi. Ma peri tutto vero. E con
qntsjtii ft^ligione piena di delizie
solo che l' uomo non fogge $^ stesso, perch in s non trova volo, ma pjenp di filo.: con pibtts vis barjmr ladetf
Belloramqe /dees^ empiale in pace rapinae, Nec ius forte daUan potrit preiiove
repensunt In^ictos anhnos et E^ra frangere corda (i). E M sostengono tutto
Ptmpotente sforzo delle umane cose^ ma nei loro petti hanno la Verit, cbe le
condanna con occulto , e peri pi terribile giudizio. E noir portano negli occhi
un fosco e truce vetro , eoo cui gli empi veggono per tutto nero , e la societ
ilnion di belve , e i regni ti- rannie,
quei the presiedono fiere immani. Ma giusd- danno i aegtnd di Cristo a
tetti il sooi e mentre aoHe^* vano gli Bomiai dalPiagionlo, giogo della
ecbiknt& (y^ non hanno d^tra parte bisogno di perturbazioni a nudrir le
furie, che in s tengono i trati ^ e per cui anelano scam** par da s ,
subissandosi, le potesse ssere, nelle rovine del mondo. IV. Nessuna Religione
quindi ha tanti testimoni, die salla propria esperienza depongano in suo
&vore: che depon* gano essere propriet di lei quello infondere nelPuomo una
allegrezza ed un gaudio, e da ci stesso aoa gran* dezza e magnanimit di animo,
come la nostra. Tutti i Santi dicono unanimemente, che la dolcezza da loro sen-
0) Scip. Gapcii De Princ. rerum Uh. il.
vandovi nulla di terreno. Cosi propone agli uomini que^ pratici esercizi
delio spirito e del corpo, i qtfaK ad un teiapo invitino a godere detto sprito
e del vero, e rr- chieggano svestito V amore alla carne ed al lasto. Basterebbe
per tanto che Tempio risolvesse darsi a buon frutto : e saprebbe ben ella la
sapienza di questa Religione come far pullulare e fiorire il suo buon
desiderio, e nu drirlo con pratici esercizi, che essendo acconcissimi e a
spegnere insieme il ilso amore e ad accendervi il vero, mostrano chiarameute in
lei una coerenza con se stessa ed una sapienza senza confine. vni. La sola
spiritualit finalmente della ReKgion cattolica basterebbe a provare la divinit
sua. Perch non pu ;essere invenzione d' uomo qiielh Reh- gione, clic propone un
fine, e richiede un operare sopru* mane : in modo che dimanda un sacrifizio di
tutto Tuomo per beatificar V uomo. ^ Se V uomo creasse una religione , porrebbe
a fine natu- ralmente se stesso , e non tenderebbe mai a sacrificare se stessow
Non adunque uomo quegK che fece tal
Religione; la quale cosi spirituale ,
che iPuomo per attaecarvisi ve- ramente , debbe abbandonar tatto col cuore.
Poich se que* sto bene spirituale fosse niente,
assirdo che un uomo atesae inventato di privarsi d^ogiA suo bene per un
niente; e se egli non un niente, debbe
anche esser cosa mag* giore di tutto il mondo perch a tutto il mondo la ante*
g6 ponga. Dunque la Religione ver^i e
non uouoa. Tanto pii che questo bene apirituale, ben conosciuto, diverso da tutto il mondo in modo, che non vi
ha nessuna Tutti 1 pmsM ^nmti con
astriMo nel detto ippme^io, sono ag- fiftmti dopo useUa Im ritpoata villana del
signor Giou 1 (3> ImM il suo libello lUfpost agli Oirtrogoti. (jSy n din u
il mio Uologo ha rMUt di mmdre n, pia
ingiu' rioto che il dire u f^ci avtU meniiio n. Questo modo esprime una mm^
90gna$ itfuel primo esprne tma prefissione di menufgnd unita al^i- pocrisia
rifposm. (4) Pretenda che ahbia rubato da lui injtto di morale, cosa strana f
Per altro y GaoUbtt TtcuD oonm latrone jator. (5) I>ieendo ad uno u direte
detto uno sproposito da frusta n^ vei $2 Su ch^egU degno difiusta. Per altro non prmdiamo la
cosa a rigore , essendo principio del JGioia che u chi non esagera non desta
che ite npreMione ( N. G. , pag, 34o)* ^
^ impretsiont . c& i dSepf cercane non la terital rie (i): cose tuUe che
io^ sona ben lungi dal ci" Ure ai tribunali^ a dal fare n pure seria ri*
sposta {2)y bastandomi di far osseruare che una simile irritabilit i imprudente
(3). Essa mi d per un diritto di cui io user y ed i quelTo di scufirre pi
francamente gU errori* perniciosi di (jutsf autore a vantaggio pubblico ,
senza' que^ rlgUi^ che ct^ewz prima dowiti alla sua huoiia fde ed atta sua
dottrina j ed ai quali gU viene nd^ avere col suo imbfzzrrire rinunziato. Col
secondo y' terzo e quarto opuscolo che se* guon al primo ^ intomo i sig. Gioia
^ io comincio * ''^t\QumA t^ t$egna ftet
iUnv* CahUO au il diseorto , per u, ^f/^/iNuu!^, 119M -tucestario che da
ingumoMo, e die la u$nt et, noa perde alcun diriw> ijuando presentata con modi gentili $* Ci.^ed.
Mitan,\pag. aA(); iUorad nttoca protra della verit del t^erso ^Ofifidctf.VlBo
tMliom proboqun cletfiionk scqoor 9. . (l) SeiHf^ndoci jUU^ 7)l)ifi del ^a ad
fllustrare il Galateq de' ietterati^ non U preeendamo no( per risposta :
atnremmo saputo dir H^io, Jt at^stim tUu rfspndem, Il Gima d, pt' cfdcoUute Ufi^giw'^ i dm
eUmenli seguenti : u"* gravit 9 %.^ pubblicit (N. GaL^ pag. 5$). Quanta
alia gravit egU non pu credere di JUrd grande ingiuria tacciandoci di bugiardi
^ perch ammette che si possa talora cercar rotile pMe 4i4la -Velata ( N. Gal., pmg. 3$7). Se
suri avessimo tro^ tOo il nostro onta a mBttitn, mvmhih seguito il suo
prinei/fia , meriteremmo la su hdb't U
dirci hiar. i%ii ha ternata eerto d'ingimiarci pubbiUamenUt ma grafie alla
toerefnm th^suei prineipH che si distruggono pugnando seco medesimi, l^inguia
gU evanita in mano. Potendosi mentire
per utitit , col dirci bugiardi ci ha detto prodenti e sari: pecceito che
4fuesta tod iiuale sarebbe secondo i suoi prtcipii, ecreditata gi neW ongtne^ uscendo dalla bocca
d^uno che si dichiara mentitore! ad
usare di questo irtky; ed in ragione cK e^ mi insulter, io prosegua F esame
delle sue opens con tutta la franchezza e F aperta mani/estazione della
inerita, senza per contraccambiare nessunm parola gratuita d^ ingiuria (i>,
e per rendere vantag- gioso al pubblico il torto che a me vien fatto. Che se
l'autor nostro muter stile j e si render pi umano e ragionesH>le} anch' io
mi creder in dos^ere di usargli giustizia y e di tornare a trattarlo con qu^
riguardi e con quel rispetto che e dos^uto ad un uomo i cui errori non sono V
effetto d un per- vertimento^ ma della labilit y di cui tutti esp&-
rimentiamo tante prove, della ragione. 0) Non crtiamo di far* ingmra ^fuondo
mostriamo gli errori S uno scrittore: sebbene dai medesimi venga a lui
ntessariamenU ata> disonore maggiore o minore secondo che sono pi o men
gravi. Questsi specie di pena the siamo eostretU di far soffrire al nostro
at^uersamo^ inevitabile t noi non
possiamo se non proustre che non vogliamo entrar punto nelle sue intenzioni pia
di 4fUeUo eh' egli sUsso ne^na- Ttt/sta. Cosi ipmndofacdam vedere le male
conseguente degli errori^ non t'Odiamo gf attribuirle aW autore de^ errori :
nuUa c'interessa Vuomoi la perita sola ci sta a cuore. D'altro lato egli possibile difndersi da uno che vi d a
torto il titolo di bugiardo y senza che il facciate ricadere sopra di lui?
Supponete che io poglia dimostrane Vabbienone e la materialit U questa /rase ,
tanto assurda quanto empia f colla quale il Gioia vi assicura u che una buona
digestione u pale cento ante d'immortalit n , pretendendo che u la salute co^ u
porle sia f oggetto pia interessanU per gli uomini n (Jf. Gtlate% 4.* ed. Jlfit
, pag, 355): potrei io farlo senza che pi avesse V apparenta ch'io volessi
collocare il sig. Gioia nel filosofico gregge dei porci? B pure io sono
intimamente persuaso che molte e molte volu in sua vita egU avr anteposto ai
fisici i piaceri intellettuali e morali, e^che forse V amore delle scienze o
deljar bene a^ altri uomini jgfi Mvn fhtt^ dimenticare se stesso, e la sua
salute corporale. * AUeCTIORIS INGENU INDIGIUtf EST , COBPOMS STUDIO
IM910&AR]. ^pidU Man, e XL. 1 ESAME DELLE OPINIONI DI MELCHIORRE GIOIA IN
FAVOR DELLA MODA A DON PAOLO ORSI Vi mando ^ come Toi mi avete chiesto^ un
piccolo esame di quegli argomenti con cui Mel- chiorre Gioia nfl suo Nuoto
Galateo {*) tolse a difendere la moda rispetto alia onest de' co- stumi.
Procede questo esame per brevi osserva- zioni y le quali ae sono giu^e , come a
me pa- iono^ mostraiip ben chiaro come anaorsi i rari ingegni) fra^ quali
onoriamo il Gioia ^ non sieno giammai abbastanasa sicuri da quelle apparenze di
vero in cui s spesso il falso s' involge ^ quando forse per soverchio ardore di
novit ^ abbando- nano il senno antico fermato dalla esperienza. E mi duole
vedere assai di frequente nelF opere di questo - chiaro uomo delle affrettate
conclu- sioni^ e degli errori di pensare; ma questo Sag- gio ^ che n^ picola
prova ^ non c'insegni gi a far minor conto di lui^ m^ a non presumere troppo
della mente umana. A Dio. C) T. I, pag. i33 e legg., Milano i8ia. Opus. FiL Z
Jl. j4 ARGOMENTO DI MELCHIORRE GIOIA IN FAVOR DBLL MODA BliaUAlOO ALLB CLAaiI
POPOLARI ^e la donna fende ^ dunque b
d^nopo che TaoBio et possegga i mezzi per comprare. I mezd debbono essere tanto maggiori,
quanto mag- tf gore il costo de' regali
da presentarai. tf II costo di queste cose cresce in ragione delle varia- u
sioni della moda. u Ora i mezzi per comprare nelle, classi popolari (
escluso il caso de' ladri ) non si
ottengono oke col lavoro. Se dunque la
moda induce la donna a vendere , in tf duce Puomo a lavorare. a Ora aunMBlo di
lavoro uguale a deeremen|o di cor- raziono . OSSERYAZIONE I. Il Gioia considera
la moda da due parti; do daparA della donna . e da parte * dell' uomo. Ora da
parte della donna egli concede a' suoi avversari, chela modaijn&iee vendm. Comincia, pare a noi, da una
oooeessione poco bene pondemta per la migfiore della sua causa. OSSERYAZIONE H.
I Rispetto all' uomo: Jumento di Iwor^
uguah a A* cremento di corrusioffo. Accordo , quando non m lavora per
corrompili. io8 Secondo il GMt a* ivafnta il livoro per aumeDtare T mein da
comperare. Io primo luogo adunque il lavoro si smairiace dal suo fine legittimo
, e si volge a fine pravo. La moda guasU perci il bene che per s suole
apportare il lavoro, in se- condo luogo y non ascendo da^ principii del Gioia ,
il suo avversario ba luogo di fargli questa argomentanone : Aumento di
lavoro pari ad aumento di messi da coni*
perare : Aumento di mezzi da comperare
pari ad aumento d corruzione. ' Dunque aumtento di lavoro , nel caso del
Gioia , pari ad aumento di corruzione.
Non dovea concedere tanto all^ avversario, se voleva so- stenere la causa, da
lui assunta. OSSERVAZIONE IH. egli poi
vero che la moda induca l' uomo a la^om fwre , e udii: aumento di Iworo ^ o lo
prova il Gioia nel suo argomento? . r ' : 'T
Quanto pia sono gli ostacoli che si frappongono alP ot- tenimento d^ una
cosa , tanto meno di quella .cosa si con-' segue. Se poi in ragione degli
ostacoli cresce in noi il de- siderio di ottenerla 9 e per la forza di
propulsarli, allora otteniamo egualmente di quella cosa. Ora il Gioia afferma,
the la moda incarendo la comizioiie, mette im ostacolo di pi a conseguirla. Se
avesse diiuso qui Pargomento infe- rendone, che dunque Tuomo ne' tempi di moda
otterri nono di corruzione, perch ha un ostacob di piada sai deir intrigo,
industria rovinosa per le naaioni, mentre U
non produoe gi, ma solo entra a parte dei prodotti altrui? Da tt quel
punto l'uom tristo mette fuori tutti gP ingegni del suo dispre- u gevole genio;
il litigioso specola sulP escurit delle leggi; il p* u lente iFcnde alla frode
ed alla malvagit, la protezione ch^egli deve cef ' 11 sig. Gioia ei dice che se
s'introduoesse fra' selvaggi r fra"" turchi la moda ed il lusso, si
diminuirebbe l'efiemi- ri8 %atec2a e cornirion di que' popoE Ma ella passibile , io vorrei dimandare al
sigoor Gioia, questa ntrodustone? Quando presso i Romani la moda ed il lusso
avea dis- seccati i fonti deir industria, e resa impossibile la ripro- duzione
per un consumo immenso che non si poteva equi- librare con quella ^ quando il
lusso giunse per tal modo a distrugger se stesso; quando perci nell^ impero
romano si fini per troppo lusso a non esservi pia n moda n lusso ; se alcun
economista si fosse levato a dire u Noi t siamo cosi miseri, cosi corrotti
perch non c^ il lusso e la moda:
guardatevi addietro e troverete che mentre
c^era il lusso e b moda noi non eravamo in tanta velenare e mortificare
la coltura, ed il sofisma tende di oscuraire la verit. * Per altro ritornando
all'argomento del Gioia, che sup- pone il capitale disponibile per la
corruzione essere cosi tao fisso e eastante, cbe quanto pi nQ oomo iconsuma io
mode , Unto eno coosttBi a comperare la corrasione^ merita di osservarai come
il sao errore provenga dal non aver roc- chio fisso che io casi particolari, e
da qicsti volerne in- dorre generati teore. I popoli pi corrotti sono quelli,
da cui trae gli esempi ; e non pens che i popoli pi corrotti formano pia tosto
Teccesione che la legge. Egli pot della Turchia presentare il quadro
seguente Serraglio delP imperatore, per
es. looo donnt^ tt de' bascii lOO tf de' signori . . 5o tf de' mediocri cittadini 3 a 4 Nella Pentapoli cirenaica * i it (i). Da questo quadro cpnchiuse , la
cornicione essere in ra- gione del capitale disponibile. Per vederne l'errore
baste- rebbe sostituire la |tessa scala coi nomi de' signori di un'al- tra
nasione non corrotta^ il che non si potrebbe fare senza insulto al sovrano e a'
ricchi proprietari di quella , e sensa u' evidente falsit. Il capitale adunque
disponibile per la eornizionc solo fisso
l dove la nazione corrot- tissima (a) ;
allora un tal capitale aguale o almeno
pro- porzionato all' intera sostanza delle famigfie, come in Tur- chia (3)^ e
in tal caso non il lusso e le mode capriccioK bisognerebbe introdurre per
ovviare a quel male, ma la coltura dello spirito e del cuore, che porterebbe
pur seco (i) iV. Galateo, 4' ediuone Milanese, pag. 6^3. (7i) La Turchia $ pu
dire corrotta relatTamente alle oailoD ou^ reprr { si pu dire non eorrotta
verso eerti popoli selvaggi ruzione sia
uguale al capitale disponibile per essa. * Non
P uomo una macchina. La ricchezza e la corra* xion dell' uomo non sono
due fluidi che debbano sempre livellarsi in un tubo a due braccia: oltre
l'istinto, v'ha la forza morale e libera che presiede nell' uomo all' uso delle
ricchezze. Ci) If. Prospetto delle Seknzs eeonrnche^ T. IV, paff. 81. 4tpiiS.
FU. T. IL 16 * Rendete Vnomo pi iUniito, e voi dalla vanit deVfe ' mode e dalla
prodigatila del lusso lo condarrete alla mo- derazione e ad ana savia economia,
sena bisogno che diminaiate le aue ricchezze^ che gli sottriate questi aeasi
che non sono necessariamente mezzi i corrompemi. * Rendete Toomo pia i^irUOso,
e voi senza bisogno che lo sproniate alla leggerezza della moda e ad on lusso
stolta, r avrete reso liberale e benefico : egli user de' suoi led- diU, ma con
sapienza: se non comprer delle cuffie o de^ sciali^ stabilir de' premii per le
opere virtuose : se noa empier la sua casa di bijou ^ far scorrere le lagrime
ddU gioia in sugli occhi dei miseri, animer le arti, costruir delle opere
pubbliche, migliorer Tagricoltura, e insieme con una memoria immortale lascier
a^ suoi figliuoli un patrimonio onde potranno imiUre e perpetuare i suoi
esempi, miglior retaggio dello stesso patrimonio* " In somma se ne^ nostri
tempi prevale F economia e pre- vale insieme la ricchezza^ se non si rinnovano
pi quegli obbrobri degli Apici e dei Lncnlli, e quelle stolte magni- ficenze di
Semiramide e di Cleopatra: perch la
ragione umana ri riformata pel corso di
duemiP anni ^ perch il Cristianesimo ha portato la luce nel mondo ^ e
perch predicatori del Vangelo declamando
costantemente con tro la vanit, contro le pazze pompe, la moda ed il lusso,
come contro tutte le altre umane follie, hanno eccitata V industria fli pari
passo che hanno aumentata ^ V intelli* gonza, e per mezzo della virt hanno
condotte le umane ric chezae^ in una parola hanno migliorati gli uomini.
OSSERVAZIONE Vili. La moda ^ dice il Gioia , diminuisce il capitale dis-*
ponibile per la corruzione. Se quello che trae di saccoccia al ricco la moda,
lo cava dal capitale disponibile per la corruzione; alloca, ri- spondo, non lo
diminuisce, ma lo consuma pi presto. Quando un economista ommette di calcolare
il tempo, sba- 123 gfiri sempre tutte le ragioni. Qii adopera ia tre me mille
zecchini, cotisoma il qaarto pia di colui che in u anno iie spetidesse tremila.
La moda Inirabil nell^ ac- crescere
Tcloclt a^ danari che escono , e nel fare andar le famiglie di galoppo in
malora. veto che diminuisce il capitale
disponibile pet la corruzione ^ perch la casa non ispnd piA , quando pi&
non ne ha * Per aver noi osatb di scriTcre queste parle, il Gioi% ci dichiara
autorevolmente ignoranti in econoitiia pubblica. * L^ errof'e , secondo lui ,
consiste a non vedere che la e moda
scioglie le ricchezze straordinarie di pochi, e le a distribuisce con minore
sproporzione sopra molti (i)^. * Noi Uc^iettiamo di buon grado il titolo
insieme col ignor Say, il quale scrive in questo modo Che se
si pretendesse che il sistema che incoraggia le prodiga- la lit, non
fiiverendo che quette dei ricchi y tendesse a
produrre un bene, la dilninusione della ineguaglianza u nelle fortune \
mi sarebbe facile di provare che la pro tf fusione de' ricchi trascina dietro a
s quella delle classi medile e delle
classi povere ^ e son queste che toccano *f pii presto i limiti della loro entrata:
di guisa che la profusine ' generale
aumenta aiizieh diminuisca Pegua- u gtianza delle fortune n (a). ' Non avendo
trovato il Gioia da opporre che delle gra- toite affermazioni a questa
dottrina, il Saj ed io riter- remo enza incomodo, intanto ch'egli studia
qualche cosa di maglio , il titolo che ci ha fatorito OSSERVAZIONE IX. Aficota
: Quello che si mette ne' cocchi , ne' casini , ne' teatri, in abiti, e
orologi, e gioidU , o altre leggiadrie 0) i^. GaL^ 4* edis. Mil., pag. 619. Si
pu vedre UlU risposM pi estesa a qusta obbiezione nel Sa^io BoUa DifflniMCpe
tklU (a) ThtiPconamie politique , T. II. 4 ne^ teapi di voda , pai privare il
Gom , provi die He^ tempi dove le mode
boq sodo^ i spenda tatto cgaaU nente^ e tutto oeUa comittone/ Se hon prova
questo , che vale il auo argomento? Se qoeate speae le h. are la moda, dove
non la moda non sarebbero queste spese.
Il dire che tutto si volgerebbe a comperare altra merce ^ gratuito. E s potrebbe forse pi facilmente
provare il contrario^ non essendo, pare a noi, difficile dimostrare , che la
moda con tutte le sue Itggerezxe snerva ed effe- mina V uomo, e apre un veicolo
, o piuttosto mille voi* coli, per cui il cuore se ne va a^ turpi desiderii.
Soste- nere il contrario sarebbe un affermare che il sottoporre agli occhi de^
ghiotti cibi e manicaretti lavorati con tutta Parte d^ fuochi, esaurisca e
acqueti in parte: i desiderii del palato avvezzato alle ghiottomie. Tutte le
raffinatezzi; deUa moda sono stimoli m* desideri! ^ sono spese le quall^ dove
anche non si dicano fatte a comperar? immediata^* mente la cocrusione,
provocano le spese che immediata* .mente la corruzione comperano Ed avviene in
ci spesso come al vtUano , a cui la prima mezzetta di buon vino ^ che beve in
citt, non tempera gi il suo desiderio ^ mt r ammaestra ed affina, e il trae
spesso nella citt, e non solo alta onesta mezzette^ ma al boccale degli
ubbriaooni^ OSSERVAZIONE X. Accorda il Gioia, che si spende di pi ne' tempi di
mode ^ e per noi chiarito come anche con
quelle spese n cotaipera. Gli si potrebbe dimandare: Chi i disposto a fare mag
gior sacrificii per avere una cosa, non d segno che ama pi quella cosa? Dunque
se in tempo di moda i .ricchi sono acconci a spendere di pi per comperare, ci
che equivale a corruzione, amano pi la corruzione. Ora presso il filosofo, e
anche presso Puomo di buon senso, amorp di corruzione corruzione 4on9 l^ stessa C9sa* 195 Ma fi
Oiei tembra che non eooMca altra corruzione jche. fsterna , ignori come la corrasione delf uomo con Mta
nelle disposisiooi del suo animo. Egli ce la i da ecoDomisf a , e crede di
mia?irare la cerrusone umana come n niiaurerbbe il frumento. Ikllissima e
utiliasima scienza la pubblica economia^
ma non so onde avvenga ( e non vogliamo tacerlo ). che i seguaci suoi vogliono
si spesso recarla per tutto, e specialmente l dove meno bisogna, e farle fare,
maU vista, ed acquistare mala voce, quando colle partite delle industrie del
mercatante, o del colono, entrano a ragguagliare le diverse ragioni del cuore
del- r uomo. OSSERVAZIONE XI. IMce il Gioia, che regnando la mode, il capitale
del r6Go viene impiegato in cocchi, cavalfi, casini, teatri^ abiti 5 orologi ,
gioielli , e simili altre inezie : e che ci gkc si spende per un cappello non
si pub spenderlo per unaa^fiay e ci che si d ad un tappezziere non si pu darlo
ad una mcrdrice. Di quelle spese che la moda ci fa Care, altre aono intorno
alla dama , coU^ altre il damerino adoma se stesso. Sospetto alle prime il
Gioia ci lascia un dubbio ^ poi* che sembra , che fra i tempi di mode , e
quelli in cui le mode non reggino, egli ponga una sola 'differenza; cio che
ne^. secondi si comperi coir4>ro, e ne^ primi si comperi colle cose. Quando
dunque ri compera un gioiello o una cuffia , allora non si paga, secondo il
Gioia^ la me* retric : e pure per chi si compera il gioiello, per chi la
cuffia? per colei a cui si dona. Perci anche quello che se ne va. in gioielli
ed in. cuffie, si spende in egual modo per la corruzione. Rispetto alle
seconde, perch il seguace della moda com- pera quelle molte inezie per s f
perch vuol farsi avve* nente e amabile e grazioso. Sarebbe forse questo, in
vece di imperare colle c^se, un comperare eolPayvenenza stessa ii6 della
persona ? Se s'adoma perch sia veduto , ae vuoi esser veduto per piacere , se
vuoi piacere per avere aniquali si pu trovare la sensibilit fisica delP uomo ,
cio nello stalo di nullo diletto, e in quello di soverchio diletto; e avrisiamo
che quello appetito nello stato di mezzo, dove le diletta- zioni non sieno n
troppe n scarse , s* acqueter prima che negli estremi. Non avere alcuno
sollevamento incre Kcvole alPttom,
sempre mai stimolato dalla ueceasil in '*7 Btta di Motire; t ^ti dove, non
abbia aollaiio onesto^ cercher il diaoneftQ : Paveme troppi intemperante , e fiiappa nella stessa natura
del nostro senso quel morboso appetito che jpl vede ne* ghiottoni , e in tutti
gf intempe* rant , ed quasi direi il
piziicore dello scabbioso , e la sete dell^idropico. Questo sarebbe stato da
dire^ m;^ que- sto Don insegna lasciare ire la moda sensa alcun. freno e
governo , e n pure a struggerla interamente , bui a lem^ perarla (i). ' U
errore in questo caso de^superfirali moralisti
si- mile a quello de^ superfidali idraulici. Quando V ha un fiume che fa
delle rovine, questi sono pronti a suggerire di dividerlo in pi canali,
sperando che le acque cosi di- vise debbano indebolirsi. Intanto il fatto
succede contrario alla loro povera previsione: ed avviene che Tacque rem * Qui
per modb inteDdo TelofM usile fogge dd rtrtire s iktP fernimentl. Oi) L'errore
dei Gioia Tiene da ira errore pia aRo, da qael tue solenne principio o Si pu
riiguardare la teBtibiHtk-deir aemo come
una quantil/^oftUnte in tuttr i secoli n (if. Gat, 4*. ediz. Milanese,
peg. 5 IO): principio di cai non adduce la snenoma pcova. Sopra ma tal ipiOui
egli fabbrica ininiti errori. K oi non possiamo trsKenewi i>8 che passa nel
fiaoc oresee, o eab seconde U[ eeleritk^ e perci sftcondo il maggiore o minore
sfregamento che sof fra nel fondo e nelle pareti de^ canali , ed altre civco* a
mosCraiT rrrrore d'una nmile aMenialle, ma ei conl^leremo di oMcnrar, i *
che vn falfo tnetodo di ngiooare qaello
di piantare nu^ ipoten gratuita, e poi fabbricar opra etaa dei aistfmi} %.^ che
il principio lupposto dal ig. Gioia coii
contrario al aenao cooiiune, che fu impossibile al sig. Gioia stesso di non lo
smentire in pi luoghi delle sue opere. Bastino i luoghi seguenti , tratti dal
suo Prt^ spetto ddU Seienge tconotmcluy T. I , pag. ai , s). A misura che ti CI sviluppa la nostra
sensibilit , s** allarga progressiramente il eiroolo u degli oggetti pregiati ,
s' estende di paele in poeta, giunge ai con- tt fini del gif bo , e s^ aTania
sino ai punti lucidi del firmamento con u coi si rof ttooo in contatto i
telescopi! \ ed noto che il marinaio u
il quale ci adduce i prodotti de^ climi pi rimoti , abbisogna in u meno ai
deserti delT Oceano di eonsaltare i satelliti di. firioTe n. Se la sensibUiU si
sriluppa a tal segno a seconda della cTitiiiaaionc^ dunque n6n ti pu nguaidare
oome una 4pantii cattante in cum' s JTCOl. u La somma delle cose roereate per
bisognoJuico eotianU comune a tutti gli
uomini sta alla somma delle cose ricercate per Npomodb e per piacere, oome uno a mille e pi ; quindi
il numero delle aaioni cresce
indefinitiTamente negli stati nciTiiti , ed
quasi nullo in u molte aitoaxioni selTaggie. V pi movimento in un giorno di la- te Toro a
Londra, che non T^era pel vastissimo impero del Per pria u della sua scoperta
t. V* ha dunque i.^ un bisogno fisico comune a tutti gli uomini il quale costante, e a.* v'ha per opposto una aeit-
ibiUt crescente a seconda della cTIixiaiione che moltiplien le asioni degli
uomini in ragione dei luoghi e dei tempi pi incTlitt: 9o& si pu adunque, in
generale parlando , considerare la teositlU come una quantit costante in nati i
secoii. a I meni prmarii per u accrescere la ci? iliiaazione d' un paese
consistono nelP accrescere r intensit e
il numero del bisogni e la cognizione degli oggetti che u li sodisfanno.
Siccome la somma de* desideri sempre
maggiore e della somma degli oggetti acquistati i quindi aocresoendo primi si
tiene Tuomo in uno stato costaste di carestia, stato che diriene u caum
di moto perpetuo . Per quanto contenga di falsila questo principio, egli
dimostra per l'opinione delP autore che i desiderii delPoomo si possano
accrescere indefinitamente, e che perdo ia eensihiUi costanU in ditti i secoli
sia e non sia ^iniooe del gnor Gioia. sUnze (i). Le paidoD dunque delPuomO) da
cui viene stabiiile il ca|Atale disponibile per U eoiruzioiK, sono. bene.,
spesso cosi perenni e cosi inesauste ^ come sono le (boli cbe alimentano i
fiumi. * Perci il GioiaijDon mostra meno imperizia nella scienza idraulica che
nella mocale, quando, volendo persuadere che col moltiplioar gli oggetti delle
passioni si diminuisce la loro forza verso ciascuna^ rassomiglia la passione
umaiia ad un fiume, le cui acque si diramino in pi canali (a)^ OSSERVAZIONE XUL
Il Gioia dice, che nel regno della corruzione tanto Vuomo vale Quanto spende^ e
il risparmio un gran ri^aU P)oich, come
abbiamo detto ^ il legn della cprrazione non ha sede altrove che nel cuore
umano / mi parrebbe da dire , che la corruzione si misuri non da quanto spepde
Tuomo, ma da quanto vorrebbe spendere e com* pelare. Il Gioia ha fissa la mente
ne^ contratti di merca* tura ^ ma nel regno della corruzione questi contratti
non sotio sempre lucrosi ^ ma bene spesso gratuiti 9 o per dir inolio non sono
sempre cambi di merce e danari, 0 d^una con altra merce , ma di una merce con
merce dello stesso genere: del qual genere di contratti non esempio nel-. (0 DoTendo passare per ogni
sezione perpndiooUre del fiume in ogni tempo la medesima quantit d^ acqua,
egli necessario ehe dove r acqua Incede
pifi lentafainte, iti 1^ mole diraeqnS sia maggiore. Ora, accrscendo i tauftli^
n dimiuisoe lacderiU perch si aamii- tano la superficie fregata dalP acqua e
gl'intoppi, e perci il ano corso ti rallenta. Questo rallentamento dovendo
essere compensato dalla mole dcir acqua che passa in ogni tempo, pu avvenire, e
benissimo avviene che questa mole erapisca il nuovo eanale senza togliere 'I
danno che faceva il primo. Ca) Il Gioia usa di qneela sinuliladHie del flome
diramidO> n^ PT, Gaiaieo^ 41 edia. Milante^ pag. 619. (^US. FlL T. IL 17 iSo
Pecotitfmia civile. Le regole danque delP ecttftooii pttb* blica j et il Gioia
ha endpns in mente, Dot Biipolivap- pBcarle bene al caao noitro. u Consultando
la toria trovavio, che ne^ tempi di roz-
zezt i feudatari, ne^ quali erano concentrate le rie- achezze, si
riservavano deMiritti solle donne plebee clic v attualmente farebbero orrore; i
loro emissari andavano a (c comprare la bellezza ovunque ai ritrovava ^ e la
compra 'u doveva essere tanto pi frequente quanto pi i corn- ee pratori erano
disoccupati , e la loro sensibilit fisica ^ meno distratta. OSSERVAZIONE XIV.
Il Gioia appella alla esperienza de' tmpi barbari , e attribuisce alla mancanza
ddla nfoda t diritti che i feuda^ tari si riservavano sulle donne plebee , e
altre simili cose. In qudla scienza cbe n'apprende il pensare noi'abbiamo
questo isegnamento, ch'essere due cose contemporanee non Pistiiisso , the essere l'una cagione
dell'altra, debito dutiqu del Gioia
dimostrare come i vizi enormi di qne' signorotti venivano dal non regnare
allora la moda. Per isventura di sua causa egli si dimentica al tatto di
&rlo. OSSERVAZIONE XV. Dice che in que' rozzi tempi ed oscuri t compratori
di lurpezi eraiio disoccupati^ e l loro sensibilit fisica meno distrala. V uomo
uccupato per il Gioia sembra essere l'eroe del Panni (i), 0) * fai AMti 11
liff. GidA Mii iMuia uells alPsrini tasto resto eon- tro alla taiitistiina
morale figlia della moda , t cosi lo garrisco
Il i3i Se la sensibilit fiica di que^ sgoort fosse meno di- stratta,
questo parr un problema proposto, ma non isciolto dal Gioia , a coloro che sanno
come que' castellani, erano ravvoili mai sempre in guerre o private delle case,
e pub- bliche deir imperio, o degli altri maggiori partiti ne^ quali si
mettevano, e spesso ancora in giostre ed in pompe, e somiglianti sollazzi. MSK Parini doTera ooQtentani di ofaemire i
Tisi dtlllt nobikk u del tao tempo, e il mmpo era ben aalo. 9Ca questo grand^
amo ti mi iembra cha cada nel difetto di Plinio e di Seneea , aHoreh a ecrca di
far ridere il suo lettore a spese de* purpurei tivalctti^ u delle sottilissime
bende, dei diKeati nngnenti , della serisa zt- Ifoi el alten'amo pia toste*alP
antorit di Piim'o , di Seneca, di tatta Panticbit, del senso cornane, che a
quella individuale dell^u- Core della TWta cMg t penU Al Divoniot Per altre
non gi ebe il Gioia' non sappia la
piceaUmm ifidet che suppone la moda in quelli ebe vi perdono dietro la vita.
Egli anai la mette nel suo Galateo airarticolo u Scrfdito per atti infellt* u
toali , e cosi ne para : er mostfvre ebe dopo averne parlato contro^ ne * ben
anco parlare in fayore. Per altro nel modo di difender la ptccolesM ddU idu
cerio gU ha conseguito la lode di quel retore, ebe nel tempo stesso che dava i
precetti delP eloquenra, ne somministrava ancora gli eseayfl* / i32
OSSERVAZIONE XVI. Perch vttole il Gioia attribaire U acostamatexia Ae^tea-
datari ne' baasi secoli alla sola mancanxa della moda t La prima causa (i) che
ci viene in mente d' an fatto, i (i) * Qai il Gioia mena grande fracasso perch
noi ahbiam detto ch'egli aurihuitce ala mancanza di mode la scostamatezaa de^
(tv- datari de^ secoli di meno (i\r. Gal, 4*. ediz. Mil., pag. G6o). Egli vuol
abusare d* una sottigliezsa metafisica circa il valore delle parole, che il
buon sen^o de^ leggitori dispreger, rendendo a noi giostiiia. In fatti il ano
argomento in favore della moda il segiMnte:
La u oorruiiene e uguale o proponiontU al oapiUle disponibile per essa.
La moda diminuisea il capitale disponibile. Dimifoe la moda u diminuisco ^
eomisione. Perci i feudaUr se aiftsa^ro avuto ce la moda sarebbero sUti meno
corrotti it. Ora il buon senio dt^ leggitori giudichi se alPassenia della moda
egli venga o non venga con d ad attribuire la oornif ione dif feudatari II Ooia
scolastica- mente risponde un bel m pistingoo: come a pprine| e di tirsi
esempia di magnanimo e pubblica ravvedimento. Era necessaria una nobilt ^ una
grandezza di spirito , che trionfasse dei riguardi estemi mediante un amore
intenso della verit e della giustizia , peir assogget- tarsi agli antichi
canoni penitenziali ddla Chiesa e per piangt^re i propri eccessi pubblicamente:
a questi grandi atti , a queste umiliazioni che sona quanto V umana na- tura pu
aver di pii grande e di pia dignitoso, nessun tempo e cosi paco acconci come
quello ove ha piantato il suo impero il lusso e la nloda, la morbidezza e la
dis* soluzione. In qusto degradamento si riceve come neces* cessario sistema
L^iNDiFrsENa (a). lP emendazione ^ al (i") Io sono bea langi dalP
abbracciare tutte le epinioni del signor Bonald. (9) Quanto pi s' accresce la
corhixione , tanto pi si spegne Pin- telligenza e rtma la barbarie. Vindifirerua il primo passo verso r imbarbarimento ^ coin
la stupidit il Ibtomo della consumata
aaWaticbexia. E poich Vindjffrtnza V
ultimo grado della falsa col- tura ddlfe quale insurperbiscono gli uomini fuori
della religione:, perci UJlsa cUwra si pu dif&nire Firenze regnando la 1/ casa de' Medici^ la
Francia sotto Francesco I e Luigi XIV u sono esempi che provano la gran verit ,
che la volutt a marcia di pari' passo colla mollezza e col lusso (e per ce
colla moda), e che per eonseguenza l'una
il ter- u materiali y o irEMere raprenumente iotdligentts indi aaice
che il materialisnio conduce alP
indifferenza speculativa , e per conte- u gaenia alPimbrutioiento, nel mentre
che la Religione innalzando tt Taomo a Dio, famigliarszandolo coi pia alti
pontieri e colle dot- trine pi
tpiritoali, perfeziona alTinfiaito la tua intelligenza, e non M gli concede
dVttere indifferente topra nulla di che
lo interetta tt ettenzialmente fi Opusc. Fil T. IL i8 i38 mometro delP altra (i). Qaesti eiempi e^ parr cbt valgano di pi
del aob aempio de' barbari feudatari. Potr rispondere il Gioia , che quegli cbe
si oppone sia nemico della civilt. A noi pare, che quegti non faccia che
parlare di fatti, i quali a lui non ibt infingere o mutare: e che con questa
allegazione di fatti egli non si mostri gi nimico della civile , ma desideroso
che altri in vece di fare V apologia alla moda cos in genere^ e senza ve-, run
limite (a) ( quella che non si pu &re), avesse pensato dar regole per
iscansarne i mali, e volgerla a bene: pro- prio officio di un savio che
procaccia co' suoi scritti Tati* lit degli uomini (3). Il sig. Omodei j giacch
siamo in medicina , nel suo Giornale medico (4) i^ostr che la propagazione de'
can i posti si sieno recati da H06 che erano , a 63o v. Kn^ Italia e nella
Spagna non t^ apparenza che il numero
de^ pazzi aia tanto accresciuto , r*me in quetle tre nazioni. Dopo % anni che H
Dott. Esquirol arca scrtto V articolo che ci- tiamo sulla pazzia, tratt P
argomento dell'aumento de^ pazzi in un discorso a parte, e lo stamp nelle
Memorie dM Accademia reale di mdicinm di quest'^anno 1838. Egli mostra bensi
nel medesimo die i nigliorameati fatti agPInstitnfi de' pazzi concorsero in
Francia a fame credere il numero aumentato ancor pini che non sia realmente^ ma
per oouchiude che vii est incontestable que les vicea, que les ex-' cs inseparables dea progrcs de la
civilisation , ont fait augraenter (c le nombre dee faisenas \ mais eette
augmsntation est lente et pr* greasire^
i4o questa parte (i), sciagara che fa osservato gi pEocederc sempre di f/Sri
passo colla coltura ^ E se fosse utile il nascondere questi fatti, sarebbe egli
onestai sarebbe egli possibile t Ma non v' ba che ona cosa sola di veramente
utile, la perita; come non vMia che una cosa sola d ve ramente dannoso,
l'errore^ e T orgoglio delPuomo, unico padre, in ul li n>a analisi, itW
errore {t). (0 Ogouno conosce il gran nomer de' suicidii saocetii Panno scorso
nella sola citt di Milano. (a^ Il sig. Gioia stabilisce per principio, che
bisogna cercar V utile anche a spese del vero ( N.GalaUo^ 4*- ^i'* Milan., pag.
389, 388 \ ed ammette che vi sieno dei casi in cui la menzogna sia pi utile
della va-tt. Ci posto noi siamo eerti che il sig. Gioia dioe sempre ci che
crede utiUy ma non siamo certi che dica sempre ci die crede pero. Quindi si
spiega assai bene perch noi meritiamo da lai il titolo di ostrogoti e mi! T
altre rillaoic: egli perch osiamo
palesare i mali che ha seco congiunti la civilt: che sebbene sieno rari, non
debbono esser t^erij perch non utile il
dirli perL Egli non pensa che a dar risalto, cornagli si esprime, alt attuale
ineuilimento iN. Galateo , pag. 5oi >; dunque tutto ci che non gli d
risalto, debbo esser falso per naturai conseguenza. Per altro il suo ano di que' principii della moderna filosofia
che hanno bisogno d** esser tenuti secreti, perc^ valgano qualche cosa t s*
egli lo palesa, che gli varr affermare che noi siamo ostroigoft, e assi- curare
che lutto va bene neWattuale eitfilt? Facendo sapere cfa^egli regola le sue
parole secondo V utilit, egli viene con ci a dire a^ suoi leggitori: ce Amici,
la cosa cosi i io bene ve ne assicuro;
ma arri- u cordatevi di non credermi n ( Ved. il GaL d^ Letterati^ e IL io> egg.). Se a Rousseau sfuggi che *>
la menzofpa non sarebbe vizio se p*
tesse esser utile i, ^gli mise almeno in dubbio pi tosto neg che sia mai utile. Il Gioia
adimqoe non ha le idee di Rousseau he
noi attribuisce, perch egli le ha peggiori. Per altro relativamente ai
mali della civilt e ai beni della barbina non
Rousseau 9, ma Leibnizio che scrive cosi u Conviene (x>nlesoca de^
sofisti, creando di baonsi fede la Terit, n avendo biaogno di sostenere il pr
ed il coa- tra d*ogni cosa, videro quanOera pericoloso l'attingere gli esempi
diP leoeli barbari , dove I* umanit > per cosi dire, rovesciata fuori dalle
sue leggi. Exempla, dice Grozio , quo
meUorum sunt Umportun tic /opttlonim, eo plus habent auctoritatisi ideo Graca
et Romana yetera^ u cmUris prmudinms n (l>e iure et ,' Proleg. n. 4^.)-
Conriene stndiwr la natura dove non alterata
, per conoscerla , e poterne indicare Opusc. FiL T. IL ' 9 H Gm tripaM a vtdere
la com da un altro lato. L'amore,
dic, di su natura esckisiTo; egli vuol a
esaere proprietario assoluto, e oenaa divisione. cr Aumento di affezioni
amorose dunque aguale a .di ii minu2ione
d godimenti comuni. u Ora in generale le affezioni amorose crescono in ra- tf
gone della bellezza . OSSERYAZIONB XXI. Alla prima di questo tre propomioni
non che rispon- dere , ma solo da fare
un'aggiunta per dare un liimc mag- giore alla natura dell' amore sulla quale il
Gioia innalza U suo argomento. L'amore si deve considerare ndFamante e
nell'amato. L^amante non vuole li conoorreotr, n emuli, . Vuftddtk di Elena trattatat bea pi aoleaiie- mente. Meaeiae oKraggiatov ma san v^ka akimo che a cerchi
io 1 i5i OSSERVAZIONE XXV. Crede il g.
Gioift ohe la poligaua aia il segue certo della connnione d^iHtt gente? Se lo
crede, a'iiiganoa. Pei- che dove U paligania aHsaiete ajpfoee, ok^elia , beacb
sorgente in se stessa d disordini , non ne prodace p^r tali e taiit^, si eke gK
nofliiBi aprendo da se slessi f^ occhi j B* indacano ad estirparla. La poiigana
sarebbe V ultima rovina d^ una nazione colta e raffinata : e s i(i tale naaipne
fosse permessa ^ dimostrerebbe quegli uomini venttti all' ltm grado oli
inciviliti j poich questa operazione doloro-
9fUf(^ ricercano ed ambiscono 4t gii anM di nune o ^^^ilXi meU^Ho^ i
ptni di ttetr^ ed altri corpi iitcmii, c^ amali fs|f^QSA la/ronu, |e fionce, le
orecchie, le na- u fUijt^ (e. IMm w adornane. La passione per gli ornamenti non
e u durufue un ^elia della cwitizzazionen {^N. GaL^ ediz. 4-* Milanese, pag.
5o5V Orquici l|a fericfio cho V Apologista della moda venga alle aniie^ pcicb
questi toglie alla civilizzazione il me* rito della passione per gli ornamenti
: e mette questa passione nel numero de* vizi. Certo V Apologista deUa moda non
dichiara il signor Gioia QD tm/rmlista ptdant^t uo utocents, un ostrogoto. Non
c^ altro che il pfwcipM d^ utilit b^i intesa che possa conciliare questi due strani
pecsonaggi I (^O ^ JBlla insaUaUcherebbe : t^e
il caso de^ selyaggi. Questo caso da noi qui afioinoato il Gioia ce lo
porU contra di noi. I selvaggi non sono popoli nwff^mente roa^ i, come tante
volte abbiamo avuto Tocca* sione di dire , ma corrotti a^zi degradati. La
poUgasa toUerabik in n popolo nascente ,
che sia rozzo , ma oan eorrptto: in qyiestp caso l' esistere di essa una prova della bont di quel popolo Se questo
popolo si rende adulto e corrotto, e s^introduce in esso qualche specie di* eivilizzaaione
o d raffinamento, allora deve succe* (dere x. o che la corruzione la Ynca sui^
principii morali e sulle \n^ ^e&to tlB si ^te solo quasi Dell^ esordio
delle nssioni ^ quando yivendo nella semplicit e neUa rozxesza ^ no cercando
ne^ maritaggi rhe la prtipagasone della specie , e ti soddisfacimento di questa
ioclinanooe aatorale. qoq istmotata
dall^arte, loro deskiani erano moderati
e eoo* iCitasioni, e in qnesto ciao qqeste aono troppo deboli per abolire la
folifainia: elli resU, e mluppa 4t* danni incaloolabiU che condueono la naoDe
di grado in grado fino alT ultimo imhnitimento ed alla sai- Taiichesia} a.* o
die trovandosi pi forti i principii morali e intel- lettuali della corruzione ,
si risolTe di mettere de* provTedimenti all crescente corrusione, e di far
delle leggi che Tanno a togliere la po- ligamia ; e queste seno le nazioni che
hanno poi un corso lungo e glorioso, elevandosi ad un grado pi o meno alto di
vigore intellel- tnale, di polenta e di gloria; 3.^ o finalmente non ai giunge
a sradi- care la poligamia, ma solo a metter de* ripari ai mali disella
apporta^ formando de* serragli, come in Turchia; e queste nazioni non possono
arrivare ad sa grande cirilt , come le
seconde, a per diaeendona al totale imbrutimento come le prime. Ecco le
osservazioni di Montesquieu al nostro proposito sulla po- ligamia. Ne*gran& stati vi sono per necessit
grandi signori. Quanta u pi sono agiati di beni di fortuna, tanto pi trovanti
in 'grado d tt tener le donne in un* esatta dausnra, e d* impedire che
entrino nella societ. Per questo appunto
negP imper dd .Tureo f di Per- sia, del
Mogol, della China e del Giappone, nirabiU aono i os stumi delle femmine n (a) Non pu dirsi lo stesso delle Indie, che I*
infinite isole, e la sW tnazone del
terreno, hanno divise in infiniti piccoli stali, che dal grandissimo numero di cagioni , ch*io non ho
qui agio di riferire^ tt vengono fatti dispotici li. tt Col non vi sono che
miserabili che rubano, e miaerabiK che aon u rubati. Coloro che chiamauiii
grandi, hanno piccolissimi modi:qnelK tt cJm diconsi ricchi, pi non hanno della
lor sussistenza. Non vi pn^ tt essere si esatta la clausura delle femmine; non
vi si possono pren- dere precauzioni
cosi grandi per contenerle; vi
mconcepibile fai corruzione de'
costumi In Patana la lubricit delle
femmine vi tt ki grande, die gli nomini
sono costretti a farai certe guerniture tt per ripararsi da* loro attacchi.
Secondo il sig. Smith le cose noa tt van meglio ne* piccoli regni di Guinea.
Pare che in qn* paesi i tt due tessi pevdano fino le proprie leggi w. Lib. XVt,
e. X# () Noa biiAB , aa ainbK rcUtivaate
i* clic polrebbre eMre. Si cftvoM i53 tentabili. Per qoeslo la troviamo
anche nello sUto patriar- cale permessa da Dio , usata da uomini santi y e la
tro- viamo nella legge di Mos. Laonde quantunque si opponga la poligamia alfa
perfezione e alla natura del matrimonio , tuttavia ella pot essere tollerata
sul principio delle nazioni , nella stato in cui non erano ancora corrotte: e
per il segno bens della loro imperfezione
, ma non della loro corruzione. E cosa
naturale, dice il Montesquieu ( Spir.^ ce L. XVI, e. IO. ), che l ove il
vino contrario al clima, tf e quindi
alla sanit, l'eccesso ne sia punito eoa severit
maggiore che ne^ paesi ove f ubbriachezza produce po a chi effetti
cattivi . Ma che la poligamia non sia segno della corruzione d'un popolo, ma
della sua imperfezione , e insieme della primitiva e naturale sua semplicit ed
in-- nocenza , lo ha provato un sommo scrittore , a cui io mi rimetto, il sg.
Bonald, nella sua opera sopra il DivorzK), cap. yi. Nella rozza e feroce Sparta P adulterio avea
perduto tf il carattere del delitto : neir incivilita e umana Atene tt V
adulterio non era ignoto , ma V opinione pubblica e e le leggi lo comprimevano
r*. OSSERVAZIONE XXVI. Non intenderanno que^'aavi lettori, a cui corra aott'
oc- chio questo brano del Gioia ^ come egli introduca- Atene per dimostrarci
che la civilt e T umanit non conducano alla dissolutezza de' costumi: e crederanno
ch'egli dovesse farlo , avendoselo proposto , con qualunque altro esempio prima
che coli' esempio di Atene , nella quale si trova in tutti gli scrittori deUe
sue storie ,' che di pari passo colla civilt e coltura mont la dissolutezza, e
oe^ tempi di Pe- ricle come non vi fu citt alcuna pi colta , cosi parve . che
non ve ne fosse alcuna pi dissjluta : nel che trova- rono sempre i savi la
ragiume principale della sua caduta^ Opus. Fil. T. II. 20 i54 OSSERVAZIONE
XXVIL Dair esservi leggi io Atene contro T adulterio , e non io bparU, ai potr inferire
che fossero pi' frequenti gli adttlterii presso gli Spartani che tra gli
Ateniesi f E non sa il Gioia ^ che k leggi e i costumi di solito stanno in
ragione contraiffo? non sa che le leggi si fanno contro i disordiniate solo
allora che questi traboccano f Secondo r argomento del Gioia si dovrebbe
inferire che vi fosse stato minor lasso in Roma negli ultimi tempi della repub-
blica che nei primi, perch in questi ultimi tempi vi erano molte leggi
suntuarie che proibivano il lusso , mentre non erano ne- primi tempi ^ ma ci
prova appunto tutto il con- trario. * Wallace cadde nello stesso errore del
Gioia, quando si mise a provare la grande popolazione degli autichi dalle leggi
che la incoraggiavano, iAogaa conoscerli. E per nasce che dove pia conoscenza, vi sieno anche vizi maggiori
\ dove pA ignoranza , come ne^ ppoli
rozzi, ma non ancor guasti, vi sieno henA miaoti virt ^ Bla insieme minori vizi
, cio minor corruzione. Perci sapientemente Giustino scrive, che meglio giov a^
barbari V ignoranza de' vizi, che ai Greci la conoscenza delle virt, ,
OSSERVAZIONE XXXIL Lo stesso a dire de'
Germani antichi. Non si pu con uno, Sciocchezze f distruggere tutto quello che
racconta Tacito in favore de' Germani (i). Se il Gioia avesse detto che Tacito
pu aver^ esagerato nella narrazione della con tinenza germanica per fare
arrossire i suoi concittadioi , sarebbe stato da comportare; ma negare tutta
intera quella virt , chiamarla un mero infingimento d Tacito , spac- eiare anzi
tutto il contrario di que' popoli, questo
troppa ingiura al snno di quel sommo istorlco. Poich non avrebbe certo
ottenuto che i suoi cittadini vergognassero di se slessi, ma rdessero di lui
narrando fatti patentemente falsi ; e presumere altramente sarebbe stato da
sciocco. Si ram- menti il Gioia , che i Germani ne' tempi di Tacilo erano gi
apprsso i Romani sufficientemente conosciuti per le guerre , che in qne' luoghi
vi avevano fililo, e vi facevano. rende degno nuovamenle di omparire, come noi,
Ostrogoto agU oc- bi di colui , i cui meriti Terso atla civilinazione sono d^
aver ritro- vato il modo d'^nnestarr la morale, e la veriti come rami sai
tronco della pubblica econonia! (Ved. il Galat. U^ ZetUraii, e. IV, ^ ). (i) "^ Tacito ha autorit solo quamlo
parla a sfavore de^ Geriuani. Allora il Gioia lo clU con rispetto (iV: GaL^
edit. 4.* Mil., pag. 5o4, 5o6). Eccellente principio di eritica, uon dar fede
agli lrtori ed ai fatti che quando favoriscono il proprio bittema! ^arte crtiea che i) signor Gioia idiegna ai
gioranetti; i6i OSSEBYAZIOIfE X2CXIIL JNbn
lsolo Taeito, che descriva i costami ieyeri e cod* tneoti dei GermaBi.
Anche Cesare ci dice diiaro: Infra ani9um rigesimum foeminat notitiam habuisse^
in tur* pisMmis kaent rebus; e ancora poco innanzi: Qui dia* tissim
impuer&s permansisrunt maximam inicr suos ferunt kauUm: hoc ali staturam^
ali hoc 9rcs neryos* ifue confirmari putant (\)\ e Quintiliano nella declama*
zioue in favore del soldato Mariano la cui pudiciia era stata offesa : Nihil
tale nouere Germani , et fonetius apu4 Oceanum t^iVifur. Ma senza le autorit,
non conviene con questi austeri costumi tutto il modo di loro vita? Poich
essendo dati i Germani interamente alla caccia ed alle armi, ogni mollezza
rifiutavano' e avevano in obbrobrio : vita omnis 5 dice Cesare io questo luogo
Ut$so , in i^cnatio^ nibus y aiqufi studiis rei militaris conwtit: abpan^utt$
labori oc dariiiaa student. OSSERVAZIONE XXXIV. Ma basta un pochissimo di
filosofia per intendere, ri* lossc le autorit, pur col solo ragionamento, come
il ri* gido clima della Germania dovesse raffrenare la lussuria^ ed esser
questa meno nel settentrione che nel mezzogiorno. Lo sviluppo del corpo ne^
climi freddi pia lento, e per pia lenti
sono gli. stimoli della libidine, fion solo Cesare ci dice come fardi loro la
pubert, ma anche Pomponio Mela (a) chiama la loro puerizia lunghissima*, a cui
a capello risponde quello di Tacito: Sera iuvenum venus coque inesausta
pubertas nec iHrgincs festinantur (3), Laonde la narrazione di Tacito ha il
suggello della espe^^ rienza e della filosofia. CO De httto Gali lib. TI. De GirmmdL Opus. FiL T. IL ai OSSERVAZIONE
XTST. Quanto sippifeaie interno a' Germani antichi ai alEk colia torii 4i tatti
i popoli roai ,' ma non ancata corrotti^ t in particolare eoA ({Utilo cha detto de' Lacedemoni. 'Po* che leggi e poche
canlet contro aHa dissoluteraa, peacM $9d oh errnm neccaiarie. Non aolo Tacito
e Cesare ci dicono la lavo ondili^ e promiscui
hitacri me^ fiumi ^ ma ancora Seaeca e Mela od altri. B mwafigiano quegli an*
fichi t civili scrittori come questo non fcsa cagioite di gravi sconei; e gli
adulteri! fossero rarsslB^esolto l'anno vigesimo ittrplsrimo fosse appreasp di
loro , e pere molto di rado awefilsae, che nomo avesse avut notlis di donna.
Narrando le quaH cose Filippo dtvetia nella Germania untica, e considerati i
costumi de' suoi tempi) non si tiene dallo sdamare: Sed pn>k dolor quanta
rnukitol Nane fere sla Germania inter Europaeos . . . non modo brachia ac
lacertosa sed omnem pect0ris pmrUm tegit^ nuditatemque heic in aliis gentibus
miratiir et abhor- rei: non tamen rtm^ 9enus ittieita^ non rara adulterio.
Tegere omnem eorporis partem in gemina quae libi- dinem irritare possit ,
laudabile equidem est^ maxime' 'que pudicitit eondwsibile: at ubi animus
eosrtxputs est, neqaid^uam vestii egit , quae ille adpetii. Il che torna a quel
fenedesinio che tioi osserviamo, cio che ne' popoli rozzi la libert del vestire
e del conversare bench sia no- cevole , non
Cosi nocevole e ruinosa come ne' civili , per- ch meno corrotto hanno P
animo. OSSERVAZIONE XKXYL Una riflessibne aocora in- su' popoli rozai, au non
guasti*^ ed questa. Gli stessi popoli
rozzi conoacono qoeslo danno delia civilt 9 il quale s'intromette facilmente
nelle nazioni che si fanno civili, e prima d^li tessi beai che essa ad duca:
conoscono cioi come la civilt apporti mollezza, e snervi i costumi. Quando Catone temeva he le
greche lei* terc c9nmfi$89to la giofcnti fMPftaM^ e ahciata^ro k Kepablklica,
vfdeva ndU natura 411 Go#e, e' G dalla coltura sta il raffioameato del vizio;
alta qual oo^a dchbe atteoderr il savio e Boufiascoadcrk)^ ma studiarao ria^dii.
un fatto .attestato ad uoa voce dai viaggiatori, che la degradasione delle donne cresce in rsgioBa
della liar- barie aaaionale ^.
OSSERVAZIONE XXXVII. Non neghiamo il fatto, dove per la parola degradazione a*
intenda assoggettamento a dure fatiche, e vita penosa. Quest' awilimeiito delk
donoe certamente un male ^ ma non segno
d maggiore dissolutezzji. Mi pare siogoiara trovare doe aomiai , quali conveneodo in uno stesso fatto, ne
tirino due ooosegoenae totalmiente opposte. Questi sono il Gioia ed il fionald.
U Boaald nel* r opera sai Oivoryio ohe abbiamo di 9efee ditata, vede odio stato
di avvilimento, in oui atamio le donne pres^ i po Nel Saggio auIP Idillio e
eaUa^iaova Lettiratora Itatiana, ho partioolamieiite avuto lo mira di tcatUre
la rUzione fra la Veliera* tura e la inerita. Lo scopo principale di questa
eperetta di trattare la relazione che ha
colla t^erit la gentilezza, Parmi che pi si medita pi ancora si troya e intimamente
si conosce come tutto ci che in- teressa Puomo in ultima analisi si risolva e
termini nella (verit. Questo risultato , che senza che io me lo proponga vedo
per sem- pre presentarmisi spontaneamente nella fine delle mie ricerche fifo-
sofidie , giustifica e spiega ci che ho dett nella prefazione del primo olome^
pag. X e segg.{ eio che Tuno de^ due caratteri della filo- sofia da me
seguita una incessante tndenza che
conduce alla URITA^ ove non il sapienle ma si vegga il piccolo ambizioso abu-
sare dellMngfgno a trovar qualche artificio rettorico, qual- che luogo comune ,
qualche vigliacca ingiuria di cui af- fliggere Tavversario , intenebrare il
vero, ingannare momen- taneamente il pubblico pi volgare sul grado d'onore da s
e dair emulo meritato^ allora tutto il bene
perduto che 0 dairuso de' giornali o d'altro modo di pubblica
corrispondenza potrebbe e dovrebbe la nazione, e princi- palmente l'italica^
aspettarsi ed esigere. E pi volte io ho concepito in' animo il desiderio, che
alcuno si levasse contro tanta domestica ignominia ^ traendo sicuramente in
palese e additando singolarmente i modi spiacevoli e le sconcezze tutte, che
fanno cosi sovente non che agresti e barbare, ma parer ben anco scurrili o
turpi le scritture de' letterati presso di noi , e cosi fanno inutile, fanno
disorrevole e pernicioso alla nazione un eser- cizio di sua natura utilissimo ,
la libera e nobile comu- uicazion del pensiero e delle varie opinioni. Di che
ne sa- rebbe riuscito quasi un piccolo codice della letteuria ur- banit, un
galateo de' letterati ^ ed io medesimo, ov' altri non ponesse mano a tal opera
, di dar ad essa alcun av- viamento , secondo la mia possibilit , divisava. Ma
veg- gendo come lo scrvere sarebbe tornato vano e perduto l dove coir evidenza
degl' indegni esempi , de' quali e libri e giornali gran copia mi avrebber
fornito, non avessi com- mosso il pubblico ad un giusto disprezzo di coteste
lette- rarie batoste che tutto di c'intronano col loro strepito e ci annoiano
colla loro sciocchezza ^ indugiavami a ci per non dovere spiacere forse a
troppi involontariamente , a cui il vero tornasse grave , e io non fossi altrui
parato un cer- cator di brighe con quello stesso trattato che per ispe- gnerle
dettava. Del quale impaccio una buona occasione che mi si d innanzi ora mi trae
, la qual cogliendo ,' quella operetta io far che divisava: mettendo in vista
le maggiori scon- venevolezze e le villanie che imbrattano principalmente le
dispute de' letterati , i quali pur dovrebbero esser fiore di 174 dvilt: e qui almeno
, oel^baon volere di aiutare il venire avanti di qoefta, ai parr il mio amore
per lei: che noo poco ella gHadagnerebbe, ove altri gungeaae a mettere in
univcrsal odio i modi radi e orgogliosi, e sbandirli dalle letterarie contese,
e a far che i letterati gareggiassero in- sieme qoinci innanxi di gentilezza e
di generosit, e le parole, T abito de^ lor pensieri fosse tntto cosi mondo e
decente ^ quale Ila verit , a coi solo qaelli tender deb- bono, si conviene. Ma
io debbo, prima di por mano al lavoro, render conto della occasione che mi vien
dafa , per la qaale io m^ho acquistata ricca materia da illnstrare peccati che mi conviene accennare contro il
galateo de^ letterati e contro la vera civilt , con degli esempi reali , nuovi
e solenni. Sono adunque pochi anni, che nsciva in Italia U teria ediaione di un
libro assai pernicioso al retto pensare ed a' buoni costumi (i), e forse pia
die T altre opere deU Fautore stesso; non perch egli non avesse anche in ana,
nessun acume o puntura , sebbene la grossezza degli errori l'avrebbe potuto
altri suggerire: m'ingegnai di conciliare, quanto io sapessi , la causa della
verit e la minor vergogna del- P autore che ae ne allontanava: mi sono fatto un
devere di non accennare a ncssui^ mala conseguenaa morale e reli* giosa che
venir potesse da que* principii , consapevole, che ci che l'uomo ha di pi
delicato e di pi prezioso la sua morale
riputasiooe: e per una delicateaza che potrebbe (0 Esmme deUe opinini "di
Melchimre Gioim in/kiffm Mia moda ioterilo fra le Mtmari di Ri^oney di Morale e
di LeUeiulura che ti itaai^iio m Modrna , Tomo VI. Qarsto Eiabm* si 'ciU nel
preseate Qllro wetono la namerata di questa edizione la quale contpoe uo^
Ostenraiioiie di pi Mi' ediiione Modenese. (a) T. 1 , pag. i33| e m> dMk
tersa edisioue del Nuovo GaUteo. 176 parer soverchia , noo ho fatto pare ob
motto di quelle sue espreasiont (h trivio e da bordello , nelle quaK aporca lo
alile, cosi impolite e achfoae^ apecialmente in un libro pe' giovanetti (1)9 e
delle allusioni satiriche cosi rancide e inette contro d(f' religiosi (a): per
non dovermi partir giammai da quel grave carattere che aveva assunto di
semplice e quasi freddo ragionatre : parendomi d^ una parte che pr* vata la
falsit de^ principii, il lettore medesimo avrebbe potuto conostem^ il danno, e
dalP altra, che la muder- xione e il passartni di tatti gli accessorii, mi
avrebbe do voto conciliar l'animo dclF autore medesimo, del quale d^ altro
canto mi riputai obbligato di dichiarare con can- dore chMo onorava l'ingegno e
le cognizioni, e di prote- tare, che mettendo fuori gli errori dov'egli era
incespi- cato, io non intendeva dar mostra del suo personale di- fetto, ma di
presentare una nuova prova della labilit della umana ragione (3). 0)11 portare
della soostamateua aotto la i&iHtadioe di oq mercato che fanno di se donne
ed uomioi, maniera la pi laida e la pi
ri- buttante. Sembra che non si calcolino per nulla i gradi intermedil Mia
oormiione, e che si Yoglk spingere sempre P immaginanone agli oltimi gnidi deUa
medesima: sembra che non ci aia altra oorru- aioae che dei bprdclli} o pure che
tutto il mondo non sia che un Tasto bordello. Con quelle espressioni in fatti
scriverebbe con pro- prit^ta ^h parlasse della immoralit di questi luoghi di
prostituzione $ ma non gi chi ragiona della scorrezione de^ costumi' nella
comune eriet; H molto meno dii ha in mira le societ colte e gentili, pe^ membri
delle qnali si suppone fatto pi^che per altri un Galateo. (^a) Il Gioif in collera co^ poeti satirici quando dicono
mal delia moda : allora essi per colpire
fortemente V immaginaaione de^ loro u lettori , sono costretti ad esagerare , e
nelle loro pitture violar tutte le
gradasioni ff. Quando satireggiano i religiosi, od altre cose atte* nenti alla
religione, o checchessia non piaccia alPumore del sig. Gioia; allora essi
'fanno testo. Tutto il IfuoVo Galateo
irigrossato de^ loro ersi : v*
taglinazato dentro il Salvator Rosa cogli altri che si di* wtbhe proprio
aver il Gioia composta Popera sua in comune con essi. Scartare i poeti satirici
perch passano nelle loro pitture tutte le misure; fare nno'smnurato abuso de'
poeti satirici: eooo il ofiata. (pi) HeiU lettera che precede le Ouervasiom. 77
Ora Pautore scritexootro quelle osservaiioiii (e parche ttedifaase tre anni) ud
Capitolo (i), che di RipoU noa ha che il titolo^ perch ttttta la sostanaa fatu di villa- nie, le quali ha saputo co^
beue iuaieme agggruppaie ^ che io poco spaaio mi offeriece uoa nuova e copiosa
miaiera d' esempi, onde io possa chiarire e mostrare cornee in realt ogni maniera
di sozao fallo quasi direi che mi venga O) Es
intitolato RUpona agli Ostrogoti. Noi tiamo Ottrogod perch pensiamo
dTersamente del Gioia che la Civilt in
persona, come ognun veda. Qoesta bella parola. Ostrogoti, gli va ioftnitamento
a fangoe , e molto si compiace delP invenzione : gi eredeai in poa- aesso d^ un
talismano generale per annichilare tntti gli avversari suol^ ed anche quplli
che non gli sono avversari ^ questi per una cotale valentera. Ma se le parole
vote di senso operarono grandi coae a' d nostri, e incantatono gli ifomlni
eiviliisat^ siccome hiscie al sonato del cefrelano; giover nulla d meno oiK
inventore di questa il non Carne troppo sdalacquo, com'egli ci paro ne
&|Dcia, poich'ella per* iiercbbe ogni suo prestigio. In fatti la generosit
con cui distribuisco il titolo , fa crescere sempre pi il numero de^ nostri
compagni Ostro- goti : e poco fa oon un suo decreto dichiar siccome noi
Obtrogoti anche tutti gH autori della Betnu Bhcjrciopdufue, Il nuovo eroe della
Manica non teme d^ ingrossare le no8ti barbariche schiere: u Orazio sol contro
Toscana tutta * ! ta promulgatrice del decreto inesorabile fu la Biblioteca
Itslian| e la Ifet^ue (mai, 1898) osando dir qualche ooaa in diacolfMi,
comincia coti Le Cahier de mara 1838 de
la BibUoiUe^ ftmtiana^ qui se po- MblieMilan, contient un artide, ou pi.ot4t
vsb m^Taiis, de a M. lelchior Giou contre un article de la Revtu ncjrclopdi^u ,
u intitute : De Pobjet et de VutiUti des statistiques. '4 cette occasion , w nou sommes
compars une acadmie d^Ostrogoths , et
Tauteur ts de Farticle (H. J. B. SAY) est veprsenU comme un swicmi d!is u
humres. Il 7 a va pbu o'ivoaATrnmB ^nunaas; car lea ouvrages a de li. Say ,
tool ennemi qn'il est dea lumires , oiyt foomi
u M. Gioia une bonne partie de lon livre anr rconomie politique, ' QVI b'bST qV^JiMM MKOVB PBArsaASB DBS BOBS
AOTaUBS 9OI OBI u icaiT sua cbtts matibbb .
dopo aver dato un saggio della dia- triba del Gioia, senia perdersi pi
oltre a confntaria conchiode u xa U mAme JVSTICB WS fcA MMB lOMS ffOI SS
SSIBOWBIIT 1i3H%^WS AOT* a BBS CaiTl^UBS 9^ Op^isc. FiL T. li. a3 in capo contro la letteraria
ari>afii(: delia quale miniera io penao^ cia dicea, di giovami. Bea ni dnole
cbVgtt volesse vedere nello scritto eontro di Ui un atto ostile , dor gli
sarebbe stalo tanto agevole' di ravvisar solo m. caosa delk verit trattata con
rettitadDe, iKacTezione ed amore : e che con uno atik armto d* ira e di
citationi siasi consigliato far mostra contro il pacifico avversario de^ suoi
errori , di tutti gli argomenti di chi ha il torto. Che chi ha il torto ) e non
vuole o non sa riconoscerlo, ne-
cessitato a dimostrarsi incivile, e quasi solitario e forestiero nel genere
mano. Non essendo egli io grado di far uso in propria difesa della forta della
verit, non gli rimano che dar di piglio per sostenersi a^ bassi artifizi di una
falsa eloquenaa, ove per si sente sempre che manca qual- che cosa, cfae ha un
cerio vano, una certa inefficacia ii^ e medesima^ che la rende inetta a
produrre na piena, un^ intima persuasione^ quegli stesso che la adopera per
quanto si creda ingegnoso e potente a prestigiare le menti colla sua loquacit,
tuttavia conscio di ^uellMntima de-
bilezsa che conservano le sue parole: egli si sforza di ac- crescerne il calore
naturale, egli esagera, egli si sdegna, egli pronuncia pi francamente quanto pi
si sente sfug* gire di mano la verit : egli scarica finalmente nn rovescio
dMmpropori suir avversario , che non debbe essere cosi indiscreto da risentirsi
di quelle ingiurie, le quali anzi che nn^ animosit personale contro di lui,
sono uno sfogo ed un soHie^ che cerea Fumana natura aggravata: sono una
confessione spontanea della natura ragionevole in ossequio delU verit,
'confessione onde Tuomo espia involontaria- mente la propria volontaria
ostinazione nell^ errore. Attinger adunque a questo fonte tutti gli esempi de^
vizi che offendono IV urbanit e la letteraria gentilezza , e mi studier di
laceorli come sapr in questo pccol trat* tato, ove i letterati veder possano^
quasi in un quadro^ quelle sconvenevolezze che loro bisogno sfuggire per non parer forse, senza
ohe infinita erudizione gli scu^^ sca- bri e selvaggi^ e le loro lettere,
principaioMnte juelle che 79 umane oievaosi dirq anticamente, or qnasi con yiao
ar- dgQd e 4>a?cntevole non isgaoiAotina e caccino da si. gir uomini y manii
grazio^/e tA amorevoli^ e tntle cidentl gP in- vitino a s , ed aflabiUnent^ li
tnggano. C per dare alcnn ordine aUa materia, toccher prou alcune di q,aeUe
brutture che macchiano la %eM de^ pen* eri, cio le parole e lo stile , e
mostcano aoimo sco#tu mato e rozzo: posqia on poco pi addentro mostrer quali
%no i segni della zotichezza negli argomenti co^ quali gli scrittori cercano
dMnsDuarsi negli animi de^ leggitori, e d' ingerrri prevenzioni a s favorevoli,
agli avversari con- trarie, ma che troppo spesso a contrario effetto loro rie-
scono : e finalmente caver fuori le principali incivilt che si commettono nel
anodo di trattare lo stesso assunto prin- cipale dellescrittiire: e da questa
analisi delle letterarie scoQvenieose ^ kk alcuna dette -quali troppo icile dMn- eappaie agli scriUoti s soj^a di. s
molto non istanno, ukimamonte fac prova a^ vedere .9t cj vico dato di sol
levarci ad un principia unico deUa bella cosIfimatefaUi, e ad un nnive^saU
concetto del gainteo, cio delParte della gentilezza e della urbanit. CAPITOLO
II. Scow^eniea^t melle/erme sodo U quali si presentano U proprie idee. Pefcfa
nQi veliamo quali ieno. i modi soan e plebei che Mubrattpno le parole e In
stile 91 egli baator ^e noi poniamo V occhio a vedere* e notare ci , che pia
xauta^ mento sfuggono* qiielk, die di gentili e colli sciittori so- gliono av^
grido* ^ e quali' cose fur4)no e aono tuttavia* pi avute a schifo e punite: di
pregia da quelle nasioni e da que^ tempi, ove la cirilt fu* ed i pi in fiore ^
e il senso di ci che notabile e bello
apparii pi fino, dlicato e qaasi sdegnoso. Il qaal principio qnasi tome regolo
noi osando a reet et che diritto e ci che torto sia in ragione di civilt nelle
maniere dello scrittore , troreremo che nb' tempi pi colti e nelle societ
Tenute pi innanzi ne' progressi del iver civile e nel gusto di ogni
gentilezza, modi che ora IO diro A nel
parlare come nello' scrvere sono mai sem- pre come sconvenevoli e vili
riprovati e sfoggiti. Ed essi son quetti che ora ad uno ad uno enumerer Segni
iP ira. Il primo P usar parole iraconde:
poich Tira fa sen- tire in se medesima un non so che' di triste e d* irrazio-
nale ; come alP opposto la placidezza rallegra gli uomini, dimostrando in essi
al di dentro un animo lieto ed una mente serena. Laonde saviamente il Gasa
mette fra^ modi da evitare nella privata conversazione il lasciarsi prender
dallMra in altrui presenza^ perch, egli dice,
come gli agrumi che altri mangia
te veggente, allegano i denti anche a te
, cosi il vedere che altri si cruccia , turba te^ fi (i). ^r quanto pii. da
sfuggire questo vizio dagli scrittori che non in presenza di piccola brigata ,
ma por in pub- blico e in cospetto di tutti gli nomini conversano e stanno
colle loro scritture? e le parole de^ quali si suppongono non uscite improvvise
al momento del bollore, ma lunga- mente appensate , e corretto dalla
meditazione ? L' officio del letterato oltracci esclude essenzialmente ogni
turba- zion dMra: perciocch pare cfa^egli non consista in altro, che in una
piena e continua ragionevolezza, se pure
vero che lo scriver de' libri altro non sia che un grave e un
perautnoiltie lugionare ad utilft degli nomini. CO S 3^ i8i Laonde noiosi e
molesti al pubblico riescono xjaegli scrit- tori , che incontanente che vengano
contraddetti danno se gni di grave dolore , e imbiuarriscon contro il loro av-
versario ; discuoprendo cosi inawedatamente agli occhi del pubblico una
spiacevole deformit e debolezza in se me- desimi ; com^ quella di non saper resistere a' moti della
passione non pure in secreto, ma n anche in palese ; e dandosi a credere di
dover tenere a bada il mondo di questo loro privato dolore d^ essere
contraddetti , mentre pur non dovrebbergli parlar d^ altro che d^ suoi grandi
intereari, come esige da essi, della verit^ e di tutto ci che rileva al bene
universale. Vero i, che difficilmente riesce velare il proprio risen* timento a
chi se ne lascia dentro in6ammare^ perciocch quella brutta perturbazione si
riversa al di fuori e traspira da se medesima dondechessia , e non solo in
aperte in- giurie , ma ed in motti pungenti ed in sali ed in ironie , e sopra
tutto nelle esagcrarioni , e fin nel colore dello stile, e neir atteggiamento e
positura delle parole. Laonde lo scrittore che vorr esser. puro di questa
schifezza, avr una sola regola sicura, quella d^essere moderato e imper-
turbato interiormente. Lo scrittore del Nuovo Galateo con queste parole annun-
zia di essere stato impugnato: Fenne im
mente alPautore a delle Memorie di religione, di morale e di letteratura, tf
che si stampano in Modena , di farvi voluminosa con- ce futazone ^ ,(i): e quel
t^ voluminosa 9, quel solo tf Venne in niente n basterebbe a svelare lo sdegno
chV- gli ne prese ^ perciocch quella
maniera particolarmente di sprezzo , la quale sembra significare che le
idee del- r avversario non sieno da alcun vigove d^ intelligenza go- vernate,
ma come a caso svolazzino in qua e in l, quasi nella mente di un fatuo , e le
prime che a lui s^ affac- clano^ quelle egli abbracci. Con si poco uom turbato
tra- -disce e teuopre se medesimo ! Or quanto pi d trista idea CO Paf. 6ia 18%
di s a^ l^gitori qodio scrittore di cosi iicile levatura ^ che brontoli da un
capo all' altro della sua risposta col- r avversario t E molto pi che que'
piccoli e ({Man indiretti indizi di collera, voglions da' costumati scrittori sfuggire
le maniere apertamente colleriche ed esagerate^ come sarebber que- ste del
Nuovo Galateo : Egli ( V avversario ) va
ingol- a fajidott in sempre piA dense tenebre h : Precipita di tt abisso in abisso :
Dimostra la pi supina ignoran- ^ za M (i) ed altte cotli viUanie, di cbe l'autore del
Nuovo Gabteo ad ogni pie sospingo regala il suo avver- sario: i quali modi
turbati ed eccessivi ptostrauo un uomo mollo pien di s , ed offendono U
modestia , mettendo fuor quella petulanza c^ pronuncia in propria causa e
previene il giudizio de' leggitori v da' quali , direbbe il vecchio Galateo , siccome da diritti e
legittimi giudici tf non si dee 1' uomo appellare a se medesimo (a)*
>. Mansuetudine simulata. E lasciata un tratto apparir fuori l' ira
da cui lo scrit- tore dentro turl^ato^ a
v6to egli cerca poscia con accon- ciate parole di ipedicare il fallo : e d'
indurre nel pub- blico suo giudice persuasione, ch'egli sia anzi che ad altro
tutto composto ad amore e a beoevolenza nel suo avversario da lui svUaneggiato
: il che voler dare ad inten- dere pur
solo da zotico e idiota , e dal colto pubblico 4 spregiato. Il costi^mato
scrittore adunque sar sollecito ebe tutte le sue parole sieno. d''un tenore^ e
bea consenta- nee insieme ^ ipostrando per tutto benevolenza ; perciocch ove
pugoino sconyenevolmente fra loro sicch alle maniere sprezzanti e irose succeda
qualche ricercatura di amore- di non per maliaia, ma per trascurag- gine e per cattivo uso ^ non di meno perch
egli si mo- ie strerebbe superbo negli atti di fuori, converrebbe cb*egli fosse odiato dalle persone: imperciocch la
superbia non altro che il non isdmarc
altrui^ e . . . ciascuno appe- 4 tisco di essere stimalo ancora che egli noi
^glia * () 5- IKmostraMion di 4chioeekezta. II BMi mostrar di sapere come alla
propria causa imoca mai sempre la presunzione e Tinsolensa, una dimostra* ion di sciocchexta. E non peccato che pia rigorosa- nenle il pubblico
castighi negU scrittori, della scioccheaza: perciocch per essa egli si' trova
ingannato e frustrato nel fin? che si propone in leggendo , il quale non altro che V istruzione e il piacere
intellettuale. E avvegnach tal di- fetto si perdoni forse negli altri uomini
illetterati, quando per la stolidezza loro non venga dalla presunzione, che
allora in tutti schifosa ^ ne^ letterati
non si rilascia giam- mai: a quella guisa che non si rimette P ignoranza del
proprio mestiere' a chicches4a , eziandio che iion si faccia colpa a veruno del
non sapere P altrui. in molte ma- niere
pu lo scrittore parer sciocco , ove sottilmente non iitisuri le sue parole: ma
non ve n^ha forse alcuna pi sgraziata di quella di promettere assai, e non
attenere^ (0 s 34. 187 pcfciocdi PaatoiVsi ssol gMdiair mai wmpre da ci che
propon di fare : e cosi chi promlteMe di racchiuder in UD 90 volume tutto il
sapere umano colle aue particolarit, o di essere iofallibile, questi come
sciocco 0 pazzo si scher- nirebbe, eziandio che per altro molte belle cose
dicesse , ma per questo solo ch^cgK non fece ci che propose, e non mantenne il
promesso^ che nella promessa il tema che
espone egli medesimo , e la legge secondo la quale vuole essere giudicato.
Ridicolo ancora ove altri volendo
difender s ed.offeader altrui, dice cosa che toma al con* irario > e senza
ch^ egli se n' avvegga si d della zappa in , sul pie : della quale incivile
disavvedutezza non pochi esempi m potrebbero trar foori dalP autore del Nuovo
Galateo, ma baster uno. A lui non conveniva, volendo abbassare lo scritto delP
avversario , nominarlo i^oluminosa confuta-' Mione (f): perriocck^ con quel
rimprovero egli richiama alla mente de' kggitori cosa , che in suo grave danno
ritorna: i quali veggeudo, quella confutazione essere scritta con breve e
conciso stile, e non esser che una semplict enumerazine d errori manifesti,
forte si maravigleranno ^ome tuttavia ella crebbe a segno, di dover fs^ere
t^olumi^ nosa. E .poscia , per chiarirai meglio , osservando tro vaodo come in quella confutaneoe, che vkn
denominala voluminosa per vituperio, si rilevino pi di quaranta sviste ed errori
massicci (a), e nello spazio di sole quaranta pa- gine si dimostrino: e come
alP incontro fautore che pres^ a rispondere alla medesima, e che dclU esser
vohmUnosa volle farl^ un^ignominta , n^empie dlie pagine pia di cin- quanta^ e
non gi trattando tutti gK argomenti di quella, ma restringendosi a parlar di
due proposizioni accessorie alla question principale (3)^ essi non si potranno
tener Ci) Paf. ei& (a) I#e Ot^ervsiioBi sopra ^JpoU^m tUUa mtda, tentalA di
fare e DOB iatta d] tig. Gioia, aono 44* Ognuna contiene per lo Meno una ivisU
od errore. Ma alcune ne oooleugona due o ire. (3) Il ftig. Gioia dimeMica, o
motira dimeniicare cbe VJpohgim 4elU mok
T nonio prncipals. Lasciati aduo^ae pmdciiCeaieole dalle risa, e
dirantto seco BiedatH : Or redi oottin, cIm 8i i^la oelk propria tete. 6.
Indole /erita. Si riaiaiie adaoque addietro oella cirilt qaelio scritlove
diiattcoto^ che volendo schcmir rawersaro, non a^accorge di olEHider ae aleaao
; e ai fa rimile a quella gente dan- nate di cai dice il Poeta che col maao sbnffa. E colle paline ae medeama picchia . Ma via
maggiornanle della sdocdietsa offende Tindole benigna della civilt certa
teaipera leriia e crodele, la tL prte tut^ ali aifopupiti to' fiMli e^ dilige
drettneole la mocUf perch mostrali soppicar
I. Ommettere il confronto de^ beni e de^ mali delle eose: qoi farne il
panegirico e l la satira separatamente $ a.** accusare di menzogna V aTversario
{>ereli oensera H panegirico isolato , addioendo per iscBsa che in altro
kioge n^ ha ttto la satira; S.* stxgHere Patten* ' 2one de' leggitori dal
pisnto ptincipide della questione dove si senti la propria dcficenta, e
richiamarla sopra oa aeetis&H dove si crede d'ayer ragtone 9 affenaando
francamente die quert* actessari il
punto principale : ecco 1} sofiita. 9 filale dalla ptmia dell' inrbano
acrittore trae de' modi 9gfr e iomnaiM , pe' ^ nafi direbbesi a Che tiene an^T
dei monte e del nacigno . La qale fiereaaa a cbi vira nella calla naatra aociet
aesz'easera potuto mai matnvare perder
la nativa acer* beaza , impatata a
difetta d' muna anzi ehe d' altro ^ e i dtfetti delP animo^ oome moraK
de&nnilk , amai piik ribattano e nnettecevoli sana che non quelli della
nat|^ra e dello intelletto: fra' qnal potrebbero mattarsi nominati di sopra, V ira e V arroganza e la
sciocchezza^ giacch proprio vizio di
natura rustica emere amara ed irosa, come quella nella quale la ragione a
raffrenar le passioni an- aora
impotente, ed piaprio viaio dalF
intelletto Pigno^ ranza : ma il desiderio del nuocere una cotale tristezza propria di animo fiero,
che amnmamefte apiace, eome scortese e brutale. Qaando adunque li accade di
dover dire : Questo i u un cmr. grave,
tu guardali dal dire cali' autore del Nuovo Galateo: Questo i uno sproposito da frusta (i); se pure non vuoi dar segno d'animo dadla
presente civilt al tulio strano e pecoresca; perctocdi quel modo appena ohe si
comportasse nella bocca di un moszo di stalla: es aendo disonesto a pesare, non
che a dire, che gli errori dell' inteUeOa.umam) aUiiansi a punir colla frusta,
come gli scappucci de' oavaUi e de' muli. E aempre l'usar modi onde senifara f
eziandio che eii non s'ahbki nell'animo ) che si tengan gii uoiMtti in conto di
mandre , d indizio di tristo o vile , o per lo meno selvaggio animo: .e la
buona societ so ne tien vilipesa : perciocch come l'idea dq[li uomini suol,
farsi da quelli co' quali si uai; cosi il trattar gli nomini da bestie egli
sembra non poter tuet che di oohtt, il quale abbia menata la vita sua tutta in
ad uonnni bestiai ; se pur non abbiasi a dire ^he (I) Pag. 655. 9 a taluno,
tnco ntmd^ colle ttinik |ieioiic, non mn mai fatto di disboscare o dissodare il
ao terrea dom^ al quale zoticone in mesao alla universal civilt converrebbe me-
glio che la penna e t libri , studiar la vanp e aaneggiare a traverso gli
armenti suoi il vincastro. Egli awmi poi che lo aoriltort si asiM|{i aatmlvente
in s) ridicole minaect t faismnrio,. k quale plon d^ ar- nento, ove ima retta
coacienza lo avvisi finftmsf niente die Allibile r tfNio ; e die non iat bene a neasano di
fare a* filli altrui ma troppo severa legge, eha poA ntaiocfii alcuna volu in
danno di Ui medofiaao. y. . . . 4 rigor
smmtl^ Nessun eWile srrittoiie forra adunq per io awiao a fir da giudice
criminale sol suo avversario, evolto meno a condannarlo senza precesso alla
frusta de' maMittori e de* somari: ansi eviter ogni rigor soverchio, non aolo
perch agP inciviliti uomini suol far ribrezzo fit vedere altrui metter tosto
luor Pngae, e ogni tiUto saostrwrco- stuBM di animale feroce anzi che di benigno
e damealco^ ma perch ancora quella rigidezza e femeia incita a farne vendetta ^
e provoca il pubblico a gfqdfcar con maggior severit , e puoir d^tnfamia ove
trovi Ontta queiParroganza e furor leimino non essere da ragiott aonretto, ma
pur nato dalla troppo viva ragione delP avversano , |a qnale laloc balenando
non vale a vincer le tenebte doiP ahmi miei- letto , ma ad accender V esca delf
animo orgoglioso. ' E tutto eie che sa di puntiglio , o di aommo diritto , o d'
iperbolica nel tassare le colpe dell' avversario^ ai sfng* gira come contrario
aHa oifilt ed. alla modestia dal ben creato scrittore. Laonde quegli , a citi
la' gentilezza del viver civile abbia levato d* addosso le scaglie della nativa
rozzezza , non vorr dir tosto del suo avversario , come suol far V autore del
Nuovo Galateo , Egli ha men- 9 tf
tHd (i) ^ qoand* in vece potr dir di
Jai Egli mi ha naie kiteso, e Mi ha mate piegato n.Hi ac
lo tro^- yer coDvenire con lui ia qualche concetto , V accuser per questo
immantinn aspra n y come insegna il vec chio Galateo^ molto men si conviene che
col pubblico, al quale richiesta pia di
riverenza, si faccia sentire il suono d^ un animo fiero e quasi
sanguinario. ci che parr qui mirainle si
^ che come i delatori sono sempre lo scolo pitt fetido delia societ^ cosi
quegli scrittori che ap pongono altrui con tutta facilit le meosogoe , sogliono
essere i pi bugiardi (3): e quelli che si querelano che CO Pag. 616. Chi Ma il
bugiardo, se il Gioia o il tuo avvertano, apparir nel corto di qoetio piorol trattato.
(X^ Pag. 619. Si potrebbe domandare te tia furto rubare a] ladro. In fatti io
vorrei domandare al sig. Gioia che cosa crede d** aver in- ventato egli di
nuovo circa i limiti della moda , che non sia frtto e rifritto in mille libri
tcritti prima di lui ? Se il convenire in que. te dottrine , che a dir vero non
tono peregrine, egli chiama forte, viene con ei 1.* o a dar mostra
dMnconcepibile ignonmta, ereden* dosi il primo inventore di un taper vecchio^ e
che il solo boon tento taggeritce, 3.* o a condannar altrui di furto in
malajide^ o almeno tenza accorgerti che topra di lai cade la ttessa condanna :
anzi sa tolti gli scrittori che espongono delle dottrine comuni , tenza inten*
der per qaetto di dichiarartene autori. I.* Immaginarti dVttere autori di cote
rance ; 9.* pretendere ehe gli altri tieno venuti da t a prenderle, mentre le
poterono attingere dallo spaccio generale dlle medesime o dal proprio buon
tento , e gridare arrogantemente , AI ladro : ecco il to&sta. Itfa di pi
vedi la nota (.0 alla pagina seguente. C3) Che il Gioia voglia mentire io noi
dir, perch non entro nelle ine intcnzbnl non avendone il diiitto : che gli
sfuggano innomera* bili falsit dalla penna, apparisce da tutto ci che siamo per
dire. lor ria rubai j nAe volte baoiio coia die da loro ter ai vokase (t): ae pur ne faaiiDo alauu, ella piava po ticda, rabacchiata qua e li da
queste comacckiaccie a* pavod. 5 8. Meccanismo nel compor l^ri. Cornacchia vien
detto un autore, i libri del quale non aieno da capo a fondo che un centone e
un ricucivAento d citazioni : cornacchie
facitori di zibaldoni \ V arte de^ quali
d fare in brani, quasi direi come il capo dlp- polito, ogni libro capiti
loro alle mani, e spargerne le squarciate membra in tante cassettine
numerizzate, classi- ficate: e indi da^ que' sepolcreti del sapere, al priego
forse di stampatori disoccupati, cavar qua e l di que* morti brani , e
raggiungerli insieme ili varie forme e mirabili , e cosi dar esistenza a nuovi
mostri lettera'rii: arte vile, ma^ benefica , direbbe qualche corto economista
, perch fa sentire il dilettevol ticchio d^ esser uom letterato a chi non r
avrebbe sentito mai^ nuovo guadagno nella somma de^ pubblici piaceri^ e perch
schiude un novello fonte di la- voro e di traffico fra librai e scrittori , e
nutre ambedue queste classi di pane a spese de^ semidotti, che pascono intanto
le loro menti di vento: crescendo il lavoro e sce- mando P ozio degli uni e
degli altri , e de' terzi ancora mediante una cattiva occupazione : e
finalmente perch mette in celere circolazione le cognizioni positive ed i fat-
tarelli inesatti , i quali dove fossero inaneggiati solo da chi l trae fuori a
proposito e li racconta con esattezza , avrebbero un moto troppa lento e quasi
stagnante, e non (t): perocch parmi che
con questa debilzza di consentire a' pi importuni, volendo evitar noi uno
scoglio , rompiamo nel suo contrario^ e per non riuscir forse molesti a quelli
che irragionevoli sono e non degni (0 Quo3 cbc lor si badi , con noi medesiii e
colla Ymtk noi ci rendiamo inginsti e &bi , e perci a tutti i colti e savi
uomiai akresi piacevoli ^ cbe troppo
maggiore incivilt e yiUania di quella prma : e di tanto, di quanto la
verit pi reverenda degli uomini , cio
infinitamente ^ e di quanto lo piacere a cl ha ragione, pik villano peccato cbe lo piacere a chi ha
il torto. se quelle parole di Monsignore
csiandio pel conversar privato sembrano peccare io queato , ohe insegnano una
soverchia condiscendenza ^ jDoUo meno agli scrittori si conviene mostarsi
ddicati di soverchio , ed al vero timidi amici \ ma nobili debbon es sere ed
aperti, e seguire il documento di Galileo , il quale Yolea cbe nelle sciillure
de^ letterati si pariasse con quella u
libert che molto ngionevofanaite dee potersi usare da u qucUi , ohe piA ansiosi
sono della verit cbe della osti*
nazione (i). que' letterati che non soffrono d^ essere mai
contrad- detti, fanno grande ritardo aUa civilt, pecche impediscono la nobile
Iranchcsza , colla quale pi insieme trattando ma- terie scientifiche, si vuol
venire a conoseenia perfetta delle medesime. E se neUa privata societ 1' esser tenero e u vexaoso anco si disdice
assai ; e massimamente agli uo mini ^
peiqjiocch V usare con si fatta maniera di per- c' sene non pare compagnia ma
servit ; molto pi nella societ pubUica, e non a' volgari :ma a^ dotti questa
mor- Lidezza disdice e nuoce : che l'aver da ir con essi scri- vendo altro da'
lor pensieri ninna akra cosa che im-
pacani fra tanti ^^^(tilissimi vetri ^. Sicch a recano le u persone a
tale, che non johi li possa patir di vedere^
perciocch troppo amano se medesimi fuor di misura (&), e troppo si mostrano nimici alla
vera ed alla comune ci- vilt. Ma se rutile verit occultar non si debbe per -non
dis- gustar altrui cbe forse non Fama ^ il che sarebbe pec- co Opa^, T. Ili,
pag. 381 . w s 43. cito u vano alle
carte ^ e rappreaentavano anche delle commedie: ma in it messo a questo
abbandono di gioia esse si rispettarano , e dagli uomini erano rispettate. Mai un gesto , una
parola , uno sguardo ai non oltrapassara la barriera delicata che separa la
libert dalla li- et censa ; e la loro vi'gnale ihnocensa non fo mai contaminata
dal m pi leggero alito ddio sciAdalo e del aospetto m io non ao, come diceva,
fin dove si pssa credere a questo racconto, che solo la na- tura del clima
rende in parte credibile. Or quelli che escludono Pi- fluensa di questa cagine
sugli amam costumi , che consegaensa trar^ niDBO da nn simil fatto ? Questa.
Egli fu possibile a Losanna, dunque debb^ esser possibile dovecbessia : vi
vorranno perci instituire a foraa qdla soet di ftiactr in tutti i luoghi delia
terra egualmente, e oosi sacrficheran'kio al loro errore ostioato rinnocansa e
la costuma- tessa d^tnnomerabile giovent. Togliete air incontro un uomo non si-
atematico, come il sig. Gioia, un uomo che segua Pesperienia, e che aecondo i
riunitati di questa dia peso altres al clima neiaistemi dVdu- catione; egli dob
cadr gi in falli s perniciosi Ecco come scrve Madama Campan rel^vamente
ali^educasione da temperarsi ai dimi de^ diversi paesi : u Esiste a . Londra un
altro uso che io ben mi guardai dadP
imitare. La domenica il ballare essendo vietato dalla Chiesa anglicana, tutti i sabbati per
terminare i lavori della sett- mana
nivanai insieme delle pensioni di maschi
dalle penuoni di femmine^ ma the fpreauboy e thejroung must deglMnglesi
u hanno n prolungamento d^ infanzia di tre o quattro anni, effetto u del dima e
dei costumi del paese. In Francia tali unioni sarebbero troppo pericolose . 1
fatti adunque recati dal Gioia per provare che sotto i climi fred- dissimi si
trovano de^ popoli dissoluti, non valgono a distruggere Pinilaensa del dima
sulle inclinazioni umane: ed il voler tor via questa inAnensa a dispetto della
natura, non fa che produrre un n^ tUmm falso che porta le pi gravi e pi foneite
pratiche cooseg> ^^> Qaalclie>olU ^ la debo- Ifzza di mutare le parole
d rali: ceco il tao solito vezzo' (Oasery. ztiii ). Egli come non aTCsic
inteao, attuine nella tua risposta il tuono di maestro, e si propone dMnsegnare
a^ giovanetti Paso logico de^ fatti: poi accusa altrui dello stesso Tiiio. Egli
m^Trebbe aec osato dS^iifto se io avessi fatto altret* tanto!! ^11 E ftle
ttgione. Ndla qttettitiie della contioenia gema- Bica e della romana trattavaai
a cki doveate darti il van* faggio de^ fcuon costumi , se a' Romani , o a^
Gersani : la questione era de' tempi antichi di Cesare e di Tacito, in qael Umio. Or V uno de' de scrittori grida
baldan- zpsamente aU' allro : Tu sei ano scempio: tu hai dimen* teaii i primi
ekmenti di geografia moderna/ (i)
Geografia moderna? non parliam noi di tempi antichi, di popoli nascenti?
-1- Eh sciocchezze le tue: odi i miei estratti di giornali e gazzette, ch'io
ben te ne scioriner un cen- tinaio Ma ,
amico , stam fuar d' argomento Nalla
monta, .pedante, teologo che tu se': Nella Svezia pa- renti non restano offesi (e qui una trombettata
d'estratti e di citadoni che ammazza ). -^ Ammiro invero la vostra fatica \ e
ben mi vincete colla lena de' vostri polmoni: ma se voi volete a tutta forza
che parliam di tempi moderni, ebbene, io son con voi: Con vostra buona pace,
leggete meglio la mia scrittura: leggete particolar- mente l'Osservazione XXXV,
e vedrete che, trattata prima la questione de' tempi antichi, ivi discendo
appunto ai moderni : ed ivi medesimo reco un passo lampante di Fi- lippo
Cluverio a provare qnadio i moderni costumi de^ Grei^ mani sieno rimutati dagli
antichi , e la corruzione sia pur entrata anche ne' climi freddissimi ; e come
anche col la scostumatezza possa montare ad of^i maggior grado, ove la licenza
del vestire e del conversare e l'altre cause morali rendano inutile il
vantaggio del clima rigido e quasi direi continente. Laonde se noi non vogliam
dire che questi sbagli ma- dornali e che portan lo scrittore incivile a mirar
fuor del segno , e come a dire a tramontana in vece che a mezzo- CO Vuoilo
Galateo , |Mig. 696w Egli non sarebbe mica credibile die un uomo poteste Unto
sragioaare, e anzi uscire al tutto d^ gan- gheri y come qi)i fa il Gioia , se
non se n^ avesse documento stampato cornee cotesto che ognuno pu^ vedre rivedere a Mia posta cogli #cchi suoi ! ^1%
giorno , sieno prette malitie e gaglioffaggini ; nflo. Popoli rozzi ma non
corrotti sono state tutte le grandi nazioni nei loro esordio ; e debbono a
quelP antica incorruzione lo sviluppo t^ loro posteriore grandezza. Popoli
rozzi corrotti ci presentano t secoli di
mezzo, imbararki dalle orde settentrionali e marciti nelia eoltiira
meridionale. Il popolo corrotto pu essere rosiso e coito. Popolo corrotto e
rozzo sono i selvaggi che toccano V estremo sa della rozzezza che della
corruzione. Popolo corrotto e colto erano i Romani al tempo dei Gestri: la loro
eorrusione avrebbe distrutta la loro cottura se anche non foa- aero sUti
vendati ai barbari dalla propria moUezzm e dal propri epicureismo. Considerando
questo marciume Cicerone che Tdeva un poco pi addentro nelle cose politiche
della sua Repubblica del no* stro Gioia, diceva che la repubblica
apparentemente si conservava , ma in sostanza era gi perduta da lungo tempo :
rempuklicam specit qwkmTetinmmu f re autem un pridak tumimm. nire, e mm gli
staaiooarii o gi fraeidi: e H pia ivi ai afferma , che dove la corruaione si
mette in un rozzo dch polo, come ne' selvaggi e se' settentrionali quando
inval- sero IMmpero romano (i), quella debV esser un male di (i) In eemisione
dei eolu romam non si difTase ne* barbari inra- sori itttantaneainenlej ci wm
polea pssere; ma penetr io essi net corso di alcani secoli dopo che stabiliti
si furono nelle contrade del mezzod, e solo ne* secoli X e XI, essa sembra
essere giunta al suo colmo. Perci ,r autore del libro De gabematione muntU,
attribuito a Salviano, ebbe ancora campo d fare, nrl V secolo, arrossire i
romani coprt col confronto della barbarica castumaUzza, e di giustifieartt la
Provvideaaa rendicatrtce della loro estrema perversit. Egli non parlava, come
Tacito, di popoli lontani , ma presenti, i costumi de* quali eran sotto gli
occhi di tutti ; e in tra V altre cose diceva : inter ptidicos barbaros
impudici swnus. Plus auBiuc dicof offnduniur barbari ipsi impuritfOibus
nostris. Esse inter gtHhos non licei scoria* torem goihum: soU inUr eos iiuUdo,
pretiisdicio nationis et nominis parmiituntur iit^mri esse. romani. Et 4fiue
nobis rogo spes ante Deum est? Impudicitiam nos diiigfmus; gothi txecrantur:
puritatem nos fu* gjum*Si illi amani. QckPSte autorit universali e costanti di
tutti gli asttichi scrittori in favore de' costumi de* barbari a preferenv de*
romani , valgono un poco pi di tatto il disprezzo filosofico che ne ostenta il
sig. Gioia, sostenuto da chiacchiere interminabili e da ira* conde sentenze, ma
privo pwr di una menoma autorit comtempo- ranea od antica, cio fornita di
qualche peso. Mi si permetta ancora 'un* osservazione di confronto fra il buon
senso deir autore citato e aJUosofia inappellabile del sig. Gioia. L* autor
citato, di un basso secolo com*egli , confronta i due popoli e diee Tuno
pudico, Taltro impudico non assolntanvcnte ma r^ativamente r il Gioia, nel
nostro tempo, si dispensa da ogni confranto. L* autor itato non crede di do-
ver chiamar corrotti i goti perch v*abhia fra essi qualche donna pubblica ; ma
anzi di far osservare che quelle donne fra* goti veni- vano pubblicamente
dichiarate tali, infamate, segregate
mentre i romani erano si guasti , che il loro solo nome bastava a dar
loro II diritto di prostituirsL L*osscrFar queste differenze che segna il diva-
rio fra la debolezza umana e la innoltrata corruzione, o^ostra buon senso , e
mette sulla via per discernere quando la prostituzione in un popolo sia prova
di corruaione e quando non sia. Il Gioia si abbatte al fitto di Tamar nella
Scrittura, e senz* altri esami grida: Ecco ba- fascie: ecco corruzione; e cos
mostra che la filosofia da lui seguita tira assai pi cotto dell* antico buon
senso. Finalmente qual segno d 1* autor citato di corruiiono? Vamore della
medesima} non un fatto ai6 tslti grtfistBO, e quui ineptribile, perch Tumm oom
guasto neir animo non ht n pure vn vi?o lane dallo in- telletto che gli mostri
la brattexsa de^ mali sno, e la strada d^uscime. N le parole colle quali
affermavasi darsi de^ popoli rozzi insieme e corrotti, erano oscure ed incerte;
perocch cosi dicevano: Un esempio di
questi popoli u rozzi insieme e corrotti si ha nel medio evo, quando u i
barbari usciti da^ loro confini, e datisi alle conquiste delle contrade incivilite , bevvero tutti i
vizi che vi tro- te varono^ e questi stessi vizi^ senza sapere imitare le virt
tf che distrussero , recarono alP eccesso , come nasce iie^ u barbari aiutati
dalla licenza e dalla baldanza militare u nella vittoria. E sempre quando una
nazione rozza viene tf insegnata ne^ vizi, non ha pi modo^ ma allora i il tempo in cui alla nativa rozzezza congiunge
la corrut- u tela (i). Delle quali io
non so che cosa aver vi p* tesse di pi chiaro :; n quelle erano da ribattersi
con isto* rie di selvaggi, cio di popoli venuti alla corruzione noQ solo , ma
allo stesso degradamento: n con tutte quelPal- tre lunghissime tiritere e
narrazioni d^ infamit commesse da genti rozze ^ perocch quand^anco quelle
provar potes- sero che esiste scostumatez^a sfrenata senta incit^ili^ mento
(2), come si propone di provar Fautore, non rom- V altro visioto. Vedete un popolo che pecca,
ma mottfs nello flteaao tempo eiecrasione ed abborriraeDl^ del peccatot dite
eh' egli un p* contro il ieCleralo , che
frequentemente si mostra subdolo e ingannatore., non trova grazia n pare allora
che dice il vero , eccetto forse da quelli eh' egli liscift , o da' set- tari!
e EMitori suoi; ed il civil pubblico incontrandosi ne^ suoi libri a cosa buona
e vera , parr sempre acconcio 9 ptesto di dir di lui quelfe^ che una
gentildonna diceva d' nn cavaliere che solca spesso mentire : il c|nale affer
mando un giorno non so io che, e nessuno a lui voten- dol credere, wd, alcuno
della brigata ad accertar che pure era il vero ; a aoi- Ha incontanente : li E
s' egli tt il vero j ioggiinse ,
perch veniamo ad altre incivilt. Il
pariar laido e sboccato pure ripresa A
vecchio Ga- lateo, il qual dice: N di
alcuna bruttura si dee favel- lare, come
che piacevole cosa paresse ad udire: per- qpiu. FU. T.IL ^9 2^ tf ciocchi alle
ncsle pers^De non ial bee (i). Il qual pre* cetto avvegnach non cos appuntino e
sempre Posservasae quegli tefso che il diede j appar non di meno giusto e
ragionevole ^ ed egli forse pi attentamente vuol guardarsi ne^ tempi presenti
che in altri mai , come in quelli ai quali sembra la diffusa civilt aver
aggiunto. una singolare dilicatesaa e quasi moQessa morale (non piccola lode a
dir vero ) , per la quale dalle nobili noatre brigate noi reggiamo aversi
sommaaiente a schifo ogo? ombra d^ im- purit ne^ ragionamenti 9 e pi al vivo
conoscersi e acn tirsi quasi con finissimo tatto spirituale quanto indecente e
sconvenevole sia di cotale materia metter discorso ^ cha oltre aver nna cotal
turpitudine In se stesai quando senta bisogno se ne parla o motteggia,,
esce.altrea molesta agli orecchi ben- costunmti come al naio cosa che puzzi ^
ed inquieta e imbarazza T altrui verecondia e dignit. IL perci .n anche il
nobik^ acfftt^re nstt se ne debbe mo* strar ago, nut anzi quanto e^ poissa la
af^gif^ e dove non posfa al tatto perla necessit deVar^mento, almeno con si
coperti e dilicati nands ne tratter, che il suo li- bro possa tuttavia
leggersi. liberamente., se^za.che pure il giovinetto e la giovinetta nella lezione
a quando a quando debba arrossare : e massiinamente se iljibro vuoi dirin gersi
air innocente e aopor .candida ^t. Il non saper toccar la passion d'amore con
dilicate pa- role ed oneste, e non fermandosi mai alle gradazioni ondi gli
umani costumi da quella leggiadramente e variatamente si colorano, correr
sempre a toccar le ultime sue estre- mit che pur sole d' un velo coprir si
dovrebbero ^ suole parimente essere usanza di malcreato e di plebeo se non di
scostumato uomo : perciocch egli pare che quegli che cosi parla non abbia
giammai avuto occasione .di vedergli accidenti delP amore in alte e genlili
persone ^saa pur nel* r infima e pi vii classe della societ, o peggio, ancora;
0)44. , , ove Pamore in somma ridotto al
positivo ed al mate- rialr^ e delPelevato e dello, spirituale nulla conserva:
nel quale stato egli spoglio di ogni
buona gentilezza e di- gnit, e s mostra nelU forma sua pi abbietta e quasi
disadorno ed ignudo:; nella qual forma non di porgerlo al- trui da considerare
quasi piacevel cosa , ma di rimuoverlo dalPaltrui attenzione, come schifa e
deforme, ogni urbano scrittore quanto pu il pi procaccer. Perciocch, senza
contare P altre ragioni, di un cotal vizio del favellare la buona societ se n^
offende , quasi a lei ingiurioso : egli pare allora o il letterato non curarla
punto , e non iscr- vere per altri che"" per treccole, sensali,
mondane e simil gente ^ o reputare anche t costumati cavalieri e le nobili ed
oneste donne d^uaa stessa fazione con quella greggia, e degli stessi cosumi, e
a coi uno stsso parlare ^asso e sboccato si confaccia. Laonde intollerabii cosa
sarebbe che un precettore , il quale a gentili donzelle in qualche nobil casa
insegnar dovesse i belli e buoni costumi , cos loro incominciasse,
ammaestrandole, a favellare: Signo- rine
mie riverite , voi belle e graziose siete ^ e potrete certamente a molti e molti piacere. Ma se
badate a me, a io v'insegner a vender pi cara che non sappiate far a da voi
stesse, qaesta vostra mercanzia. Perciocch saper dovete che in generale s' abbassa il prezzo
delle cose u tuUCy a misura che il bisogno di i^endere a pi pa- M lesi segni si
mostra hel vendiiore. E perci sebbene a io dal vendere non vi sconforti, che
anzi Parte ve ne tf intendo insegnare ; tuttavia voi dovrete infingervi
cosi sottilmente, come sanno far le pi
accorte donne, quasi tf di essere mercantesse non aveste pensiero alcuno. E per
tt questa ragione il pudore ne' vestiti vostri , e il tener mezzanamente coperte le merci molto vi raccomando,
tt Che aspettando i compratori, il 'mercato della roba vo- tf atra meglio si
condurr , che non andandoli voi mede- a sime ricercando .(i)* (0 Egli sembra
incredibile cbe con rimile parlare prenda il Gioia ad ioatilUre il padore alle
giovantttt nel ano Galateo; ina perch n8 Or io bcD credo j che e il eaialierB o
la geotildoima, a evi qll LBiuUe fossero figlie, a qaella lecioDo prestoti si
ritroYafscfo, eoa ragicoe si sdegnerebbero fieramente ^ Doredibi non tembri,
ecco le sue parole, che trarrete alla ptf. i5S dflU 4-* edUonr df 1 Nuovo
GaUtMu u La dpona fa dalla aatarm u dotata di tali sentimenti, che vuole unir P
onore della difesa al u piacer delia sconfitta; u La donna, come sai , ricuta e
bramai Quindi, allotrch ella, per coti
dite, aaMdc in vece d'^eaiere ama lita}
allorch, ih vaca dUpbtta.iis i coifPfiiToai, va
aiCBaoLaLi, u mostra speciale bisogno di vendere. Ora in generale s**
abbassa il u prezzo delle cose tutte , a misura che il bisogno di vendere a pi
4t palesi segni si mostra nel venditore 9. Per eccitare maggiormente le donne a
conservare il pudore , nella faccia preacdenle avea recnto loro V esempio della
celebre Poppea. Meritano di esaere sentite anehe quelle parole ^ perch meglio
s^ intendano le filosofiche ragioni di cui si arma il nostro predicatore del
femminile pudore: a Esse (,le tto giaeerri una diaiolateita pA cbe altrove
rotta^ casi gi patefser per cpealo aolo ne' lor coatMii pi ^ieta- nent^ dormire
e pi aaporkameote. Le qaak villaoie $om tutte . recate a aioda da' aafisti ,
ckt nel secala passata borosaiBcnte filosofi voleaao essere Boninati^ i quali
corrappsro U gusto de' dTiii costumi del letterato^ e nella letteratura
ntrodassero i modi fai e Tillani o turpi , de' ifaz gi non pochi fin SnppoQamo che io Volessi qui riportare la
lista di tattr i pro cessi criminali , e di lutti i delitti eommessi nello
spasio di soli io anni in qualunque delle nationi pi colte d^ uropa :
sup^ouiamo di pi cb^ io mi restringessi anche al solo regno Lombardo* Veneto.
Certo io presenterei de* misfatti che fanno orrore^ degli eccessi da fremere,
rrei forse prorato con ci che il regno Lombardo- Veneto il paese de^ popoli errottif Non gi. Ora il
Gioia vi ffaette faori una lista di scelleraggini che empiscono quaranta o
cinquanta pagine: pren- dendole da tutti i secoli ; perch comincia a
raccoglierle da! princpio del mondo fino al nostri tempi, da tutti i popoli
antichi e moderni j e ci per prorarri che i popoli rossi sono correttissimi.
Ecco quali qitao gli argosoienti de^ sofisti l!I fer; non perch quelli aleno
tali sceondlo H TaikMr della, parob ^ ma perch
peccati e V ntetna corr azioB di que* sii nolla si contano , a quelK
paragonati. AUa stcfloa guisa chi dicesse, che i desdier del povero tono pi
derati d qae del rieco , non von*ebbe etcludere ne^ po^fcri rin* temperala de'
deaiderii^ ma vorrebbe solo dire che il ricco, come quegli ebe pia beni alle
mani ha e tuttod ne esperimenta, pi altres ne desidera, pi coooscendono; e pi
bisogni , che il potere, patisce l ove qoelli gii ven* gan meno (i):-meii*re il
povero laen cenooct e men brama. Dalla vilbMia dinKfue e sconvenevolezaa neltr
materia re ligiose non mai scompagnata
nn^ altra deformit , che consste nella mancanza di vn ben connesso
vagioftamento e di cortesia. CAPITOLO HI. Sconi/enienze negli ateessorii al
priocipaU mrgwaenu^, E non le parole aole e le maniere del dire , ma i pcn*
aier ancora contengono una cotal bellezaa e graaia lor propria onde piacciono
agrintelletti, ower^ nna deformit e disgrazia onde a qneU dispiacciono: e i
letterali che di dar altrui quel piacere o di allontanar quel dispiacere co^
loro scritti punto noq corano^ parimente incivili si pos- son chiamare^ e a
tanto maggior ragione, quanto che ad una pi eccellente facolt dello spirito
amano si fanno molesti e rncrescevoK. Se non die quel merito lor de^ pensieri
pe^ quali graditi si rendono e cari ,
nna bel* lezza di uu genere lur peculiare , che dalla verit si scorge
Ci) Le contraddizioni del Gioia sono noqmerabili : per esempi egli dice, pag,
G^a m In queste situaeioni economiche (dor si esige e nelle cose, che sparge in
esse l'amabiliti e F amore, e dbe^lBama latto il genere ummio ad na immensa
uniformit, e risponde al potente senti* mento di nna immnaa esistenia sociale.
Ove il principale argomento di alcuna scrittnra sia vero, pu dirsi , eh* ella
abbia quasi un* anima retta buona in se
medesima : ma ove sia lalso ., essa pu somigliarsi ad un essere invasato da ano
spirito immondo e malefico, che tolta la contrafflk e ritorce , e in tutte k
sue parti la ioaozza. Poich quegli che favella o scrive, tiene in tutto rocchio
rivolto. at suo principale argomento, e ad esso tutto il resto del suo discorso
che prende colore e forma da 4|aeIIo V ^ perci s'egli ialso, falsifica altres que'auoi accesaorii
onde si suol preparai F adito alla persuasione del prtiictpale, e pur le
maniere e le frasi aUo stesso aceoii sentono, e auicchiate appariscono d^una
medesima falsiti e quasi complici dello stesso delitto. E giacch circa le
parole e k naaniere delle scritture gi vedemmo a qnai segni si riconoscano per
falsate^ e perdo per incivili al tres e guaste ^ ora veder dovremo quak sia la
falsit e la incivilt da sfuggirsi negli argomenti accessori! , e come questi
vengano a dar di s brutta mostra , ed a rinscire al colto e savio pubUieo noisi
e molesti. a38 Indur prevenzioni a danno deW a^ersario. Il gentile letterato
adunqae si , e gli argomenti poi non debbano esser che purissima luce. A lui
parr che dove Ma P errore ivi stiano le tenebre , s dove sta la ve- Opusc. FU.
T. II. 3i rit iti itia k loce : e che per dimostrar quelle osserva- zioni esser
cope e tenebrose , come si predicano , non ci avesse altra via sicura che di
mostrarle falise ^ via abban- donaU dair autore del Nuoro Galateo. 3. Luoghi
comuni. Una spiacevolezza che cagionano i letterati incivil , al* tresl quella di usar troppi luoghi comuni
e vieti , a so- stentare de' soEsmi e deprimere P avversario. Perciocch sebbene
la verit sta sempre bella e mai non sia antica , non assi per a credere avvenir
il medesimo delPerrore; che questo non ha alcuna amabilit e vaghezza in se me-
desimo, ma ne trae talvolta dalfesser nuovo, e ingegnoso: colla qnal novit e
ingegnosit gli riesce di sorprender gli uomini e di allucinarli. Ma un gran
bene , che per quanto ingegnoso esser
possa V errore , e sottilmente tra- mato y tuttavia dandosi tempo agli uomini
da pensare^ que- / sti penetrano nella sua falsit e la discuoprono *, e cosi
conosciuto e svelato, nessun pi credito ha n piacevolezza alcuna. Laonde il
regno deir errore labile e breve, e se non
fosse che degli error nuovi continuamente si surrogano ai vecchi, quali rinnovellan T ingann, in breve volger
d' anni la verit sola regnerebbe pacificamectte ; ma per quella moltiplicit che
delP errore propria , onde come la testa
dell'idi! egli rinasce, v'ha sempre di contro al trono del vero eretto qui in
sulla terra quello del falso : se non che su questo i regnatori giustiziati per
dir cosi Pun dopo l'altro si succedono rapidamente; l dove su quello la verit
senza successione alcuna sebben perseguitata regna immortale. . Molto pia degli
error vecchi, i quali hanno perduto fede , sono d' aversi in conto di villania
e d' inurbanit lor puntelli, come sono
le accuse gratuite contro i difensori a43 del vero, gi dal tempo corro e
guasti. E di questi grande caso facevano i sofisti francesi poco fa , cpiando
abbatter volevano h religione e i loro errori sostenere: I quali per molto
usarli, come arliao con tonm da oracolo? ( N, G, pag. 652). 45 quasi da un eto
ri sentoo ripetere. E non vaele sapere il leggitore se le osseryaxioni eontro
di voi sien netafisicht 0 fisiche o d^ altra scienxa j ma a* Ile sien vere o
pur 61se. E se 2 peccato rotto e villano contro il proprio avver- sario questo
battargli in faccia anti che ragioni la iac- a d'esser involto in una tenebra
metafisica^ molto pia colpa contro la
oniversal civilt quello sforco incessante de' predetti sofisti d' impoverir V
universo scientifico d' o gni soperior ricerca o circa lo spirito umano , o
circa k pi sublimi nature: ma le verit vitali pia che dagli uo- mini stessi
sono lor conservate da una fatai prowidenta. N per questo meno peccano quelli,
se ancor ve n'hanno fra noi, i quali non tendono a meno quanto da s, che di decurtare l'umano sapere nella
sua pia gran parte ^ e che seriamente sembran vietare agli uomini di non pen-
sare e d non sollevarsi alle pi eccellenti ricerche del loro spirito, sotto
pena della loro indegnacione^ ma di costringersi nello studio degli oggetti
naturali e sensibiK^, che il primo passo
onde l'uomo estingue la propria in- tdligenta, e da se stesso pitnendosi
pettoruto discende a collocarsi nella linea de' bruti. N altra scusa hanno-,
fuorch non veggono il termine al quale d'avviar cercano 1' umanit ^ che le
sciente si rimarrebbero estinte ed il mondo indubitatamente inselvagirebbe, ove
il principio n(.o* rale si spegnesse dalle menti degli uomini : quest' anima d
tutto il sapere ^ questa luce, che si difibnde a ravvivar la natura e che tien
viva l' intelltgenta : poich da quel solo morale principio a tutte le cose
sensibili (i) superiore e da tutte indipendente, l'intelKgenza si puA dir che
nasca e che continuamente si accenda. E questo avviso giovi mas- simamente
all'italica giovent: si guardi da quelli che in tutti i tempi cercarono di
spegnere quella luce e quella rital, e U riconosca a questo segno. Non si lasci
limitar da eo a foggia della vite, cio
mettendo in- sieme co^ fruttiferi de^ tralci inutili e superflui, i islituzioni assai libere peih sieno in
armoni^ coU^ indipendenza 256 aperta ai nobili seiitimeiiti , men carante di f
e pi ddla dignit della 8oa azione (i)? forse in quello tato dove il piacere dei
aensi T ubbriaca, ed abbriacato fonda teore cbe sollevano questo piacere ed
ssere il principio ed il solo termine delPacione e deiresistensa/ La stessa me
mora dov' pia tenace e pii tnpft, oolla
giovent o nella vecchiezza dei popoli (2)? E cbi sono i'veri autori finalmente
degli stessi beni della civilt, se non quelli che ingratamente poscia dai
poster infiacchiti e lassi si o de^ nostri spiriti , bm atsai mofisrchiche
perch soiteD^no la de- fli bilena dei nottr cottomi t. In somma la deipocraxia
fin qui oonosdqta un sistema pabblioo,
he non pu sussistere in una nazione avansata orila civilt, per la stessa
ragione onde non pu sussistere nella medesima il sistema do- mestico della
poligamia. Si Ptino che Paltro (prescindendo rispetto a questo secondo da altre
ragioni maggiori ) hanno in s una impera fiiioru cagione d^ insopportabili mali
in popoli che abbiano una pro- fonda cognitiotu d^ 1^ come sono i popoli colti
$ ed air incontro cagione di minori mali e sopportabili in popoli che abbiano
ancora Vignorartza d^ p^ e delle abitudini semplici ed innocenti. Ha il sig.
Chateaubriand , autore del passo riferito, sar anch' e^U sicuramente un
Ostrogoto! Il (i) u Per un popolo ammollito dalla dvlinaaione sovvsaiKK il u pi grande de^ mali ; per li popoli nella
giovent dello stato so- u ciale e che consumano i loro giorni ne^ pericoli e
nelle lotte fisiche, . la virt ? La
disinteressata virt non trova grazia appresso il Gioia da poter formar parte
delP incivilimeoto: tutti gP interessi terreni ^ en- trano: la rirt sola barbaral!! Serva questa osservazione a non
laaciarti abbagliare dalle belle parole di rojgMiie eUU che dichiara madre
della civilt alla pag. S. Gerealene la spiegaiione , e voi tro^ verete che questa
ragion sodU nella boooa del Gioia non
ohe sn cmlcoU d^ uiility e non gi un Auam$ ^ cittitk a6 la politezza
soddisfa ai bisogni esteriori ed aDeort li crea, li noltiplica: ma che
alPiDContio la civilt risponde ai saprenii bisogni delia intelligenza e della
moralit, bisogni immatabili in tutti i tempi come la stessa umana natura, come
T anima Immortale; ai bisogni, dico, di una giustisia interiore, di lina
coscienza stiblimemente tranquilla > di una grandetta e quasi onnipotenza
edificata ndP uomo dai rispetto costante alla inflessibile verit, alta legge
eterna, e dalla incessane adorazione deU^Ente degli enli dunque una stoltezza ifichiarare incivili le
case de' patriarchi perch eran pa-^ Btor , e i disordini che in quelle
avvennero recarli i mezzo come frutti della incivilt nella quale erano que*
virtuosissimi e perci civilissimi: una
stoltezza mostrarsi cosi cbbrio della mollezza ridondata in noi da tutte le
arti fiorenti, la massima parte delle quali e le pi importanti dovuta ad invenzionf fatte dai nostri
maggiori, mostrarsi, dico, ^oai cbbrio da mettere in cielo il nostro , e tutti
i secoli scorsi air inferno : i setoli scorsi in monte , que stMdea cosi
confusa (i): quasi che sessanta e pi secoli, che tanti n' ha il mondo , cosi
vari di civilt e di poli- tezza , dove tante nazioni sursero e caddero ,
fiorirono ed isterilirono , presentarono tanti aspetti e tante vicissitudini ,
si possano rammassare insieme come un sol tempo tutto d'u solo colore e d'una
sola barbarie, e raffrontare in poche pagine , e con alquanti fattarelli
piccanti, sfrondati delle lor circostanze, scelti tutti d'una stessa mena, e
appareggiarli col nostro tempo, e mostrar questo infinitamente a lor supe*
riore, per dar cos una lezione di maneggiare logicamente i fatti e cavarne
conseguenze^ sicure a' giovanetti inesperti; o pi tosto, a me sembra , per
mettere in piena luce la propria mancanza d'ogni criterio, e dar un segnalato
^esempio dell' abn^o de' Catti , acciocch imparino ad evi* 0) Il Gioia parla
teiB|ire A* secoU sconi cosi in monte ; e in po- che pagine setrrte per
Piomwnao campo dilla storia eome nn poledro, Qf ihaente e di buon umore. i6i
tarlo , come ricura cagione fidiaci e
danDoemime con- legaenze (i). "
False idee sul progresso della dinli e della politezza. perch P errore i fecondo d'errori; questa
confaaione delb cTilt colla politezza, questo sarrogamento di questa a quella ,
V agiatezza alla virt : questa baldanzosa spe ransa ehe ingenera ne* cuori
degli uomini superficiali V a farebbe una fatica infinita ed inutile f ci&
Tergognerebbe beoA T au- tore, foa non farebbe neMon Tantaggie alle maaaime le
quali sole aono lo aoopo e la ragion per cai ti debbo scriTere. Egli vi
trascegli presenta tenpre I fatti e le
circostanze pi debbio ed incerte della storia on nn^ assoluta ctflrtcna, oone
fosse stato egli presente agli Tvenimenti ; qvando per^ fanno per tL Ognuno se
ne potr con- vincere da s quando abbia la parzienia di esaminare criticamente i
soli fiitt della storia romana come sono narrati dal Gioia , e special- mente
que^ de' luoghi segnati pag. 64o, VI, VIII5 64a, XII5 643, XIVi ^4, XV, XVII)
eB, eoe. eoe. 0^ indotte a credere che k dtiltit ti polesfe misurtre ed
esprmere quasi per una progression contioua in ragione dclPet che lia il genere
umano. Quindi il sistema 'oppo- sto a quello racchiuso nel verso tf Declina il
mondo e peggiorando invecchia : il quale
senz^ esser vero, non rende vero il contrario. Semplice a dir vero il sistema. Volete voi segnare i gradi della
bar- barie quasi eopra sicnro termometro ? Divideteli in ragione do? tempi:
qnanto pi vi arfctrerete dal secol nostro, tanti passi far^ altres indietro
dalla dvill degli omini Ascendete a' primioaia^ li trovenle o bestie, o vicini
alle bestie (i)^ 0) n Gfoia ve ne Mseuni.
Ut* primordi dell sorH, egli ia m in generala , g U oomM aon si
diilIngvoDO gran fittlo dai bratt ( pag.
0a6 ). Voi vodcle qui e m tanti altri logU tegviCa dal Gioia 1^ ipotesi d*
politici leorat del secolo tcorao, che partono dallo stato di natura y e
succeuTameote conducono rumaoiU alla coltura pi faffinala, dandosi a credere
che l'uman genere segua proprio le leggi di' essi trovano bene di prescrivergli
colla loro fantasia. Questi sono i dottori che pretendono insegnare la maniera
di adoperare i fatti a cavarne delle stenns ooiianio sta'bilite da Dio, e
nacque la comunit delle donne e gli accoppiamenti fortuiti : ae farete loro
osservare che 41 medesimo debbo esser succeduto dopo il diluvio la seconda
voltai ina solo paqrfal mente: e che fu solo quando alcuni popoli ai aol leva-
rono da questa sccoada estrema decadenza di oeUame per ritornare 963 a alia
{[eneront de' n^tri filosa parr di far tal graaia col lasciar loro ancora un
tantoim di ragione, e non tatH porli o pesei o belve rampicanti in quattro
piedi, o meno ancora', eaaeri inaenaati prima, oirganiaaat poada, e animati per
ultima da na operazione interna, arcana, nelle viscere della terra operata,
d'una terra dotata aUora di una portentosa fecondit che ba perduto per sempre.
I pt generosi peri e cortesi, come dicea, vi faranno gli uomini muti, dal solo
iktinCo diretti; pi fortanati dell' altra belve perch perven nero i primi ad
inventare il linguaggio e a prevalere ad esse e a tiranneggiarle. In somma
eccovi in quel singolare stato di natura, che i il aero del loro termometro
intellettuale e civile. Q'oesl' quello stato di natnra dal quale partendo il
genere umano a'imials grado grado fino alla presente ci* vilt , tutto opera
della sua portentosa scaltreaaa , e della sua pia portentosa organisaaaionei
quello stato di natum sol quale si soo edificate tante chimere morali e
politiche, incognito ai monumenti piA antichi del genere umano , ma non a
iadabitstsme ntt meaio di contro a sostCBer^v Mud vilUAm ed odiosimml f^i nodi
del oAita^ meatvt yie$cmto cari e pregiai questi el gentHe scrittore : i tfmtH
nessans digml , nessma eievatma n
modesti, lA verit u tir ti ^ hi cpicsti luce ini oare sentimenlo d mantf deearo
, im sobBnie disiateresse , quasi direi una dimemioaiiia A at stesso , ed una
dilicatiasivia sotKeituw ditte delia Tetki , delk giostiaia, della paressa di
sue p rok , le quali Aon al i^ento ma si rnrolge al genere mayn ttttegpa^ di
qaella riveitiuca e di qaelP aaiore eke a laciea uditola derulo. Laonde peee Paiftore' del Nuoro
Galateo^ il quale er- dendos ripreso (i) dellUrtr fatto f apologia della oukd^^
tolse a giosti&eursi dPermando ehe a farla fa mosso d^ vedere come t dal
pergamo Hnefm giormmlmenU da m^ensmu n (%} : quasi P esser nua cosa oeHe ohteK
cai- toliche ogtfR \ biasiouta, sid usa bvona tagion di lodarb; ^ P addurre
Ihnie Scusa noo rechi altrui a rsgionevol ao- spetto ehe a un Sale autor
piaccia diconpurire la seimia di que' sofisti oltramontani , pe* quali eerto
non era ra gion mq[ltor o pi eficuce di fevoreggiare uaP opinione che deHP
essere dalla rdigion riprovata ^ o dieondaunkda
vilipenderla , cbe dtlP esser dalla religione approvata favorita. Egualmente frvolo riesce ^1 sario
pubblico qur- st^ argomento delP autor nostro :
Altri scrittori biasima- ^i>
db OMervani some tifile OMervsionl f Ate IPApotogia deOa odo, io BOB
iipefor la mia opinione u pr n contro la mtdesiuia ae non in senerale diotodo ,
ebe e* da dir qaino e quindi, e che il
risaltato non pu trovarti ae non da chi calcela esatlamente ci ebe sta per le
due parti. In 000 le OstaH^tiom non danno alcuna doMroa intorno alla moday ma
solo dimostrano che P^/roIcgifM fwn t ha djjfis* kaH% il che ivi mi sembro
dimostrato 'Uno all^ evidensa. VauloM del Nuovo Galatto senza* badare a questa
ritenntena di Tarlare , si scaglia col suo impeto barbarico contro di me come
un nineo dichiarato della jnod!a non solo, ma ben anche di ogni cM^i/tyl:
^tiasflh la causa della moda e queUa deUa civilt fosse proprio la UBdesiman (a)
V*^. 61^. ^6 TOQ la moda ; danqae io la voUi
difeodcM (i). Bella ragione da vero!
ella vai quanto uo dirvi manifesto:
Sap piate che io sono nn sofista
r> \ perciocch non possono essere se non i sofisti ed i pasci che diCendoiio
ua^ opi- nione perch altri la biasimano. E come nessuno vuol mai comparir pasto
, cosi nessuno dovrebbe voler comparir u sofista^ e dovrebbesi vergognare non
che a dire ma pur a pensare dC egli scriva alla foggia di un avvocato ( come
avwen di dire al nostro autore )^ acciocch il publ^lico uditi gli altri e udito
lui , poscia giudichi (a). Certo il pubblico
giudice degli scrittori^ ma giudice in appello. Guai a .quello scrittore
che non ha prima giudicato se stesso! Laonde ciascuno a cui caro V esser avuto per gentile ed oaes^ , non
ragioni e scriva se non ci che V intimo sen- timento gli detta per vero e per
buono, e sfugga quasi iu ima ogni anche minimo indirio di que^ modi e di que^
costumi del nauseoso sofista^ e chi da un sofistico spirito preso, guardisi almeno dal aon perdere anche
il pu- dor, dal non far quasi professione pubblica di sofista , dal non
arrossire a palesarsene come femmina svergognata , M vantarsene^ dal pubblicar
siccome qu^lo sia un me- stiere lotto pro/N)rzJoiiato alle sue Coiue ed al suo
gusto (3). (3) Ecco tutto il passo del Koovo Gaaieo alla pag. 617; a Altri CI
scrittori ayendo fatto la crosura della moda, e, buona o cattiva, . 69 $ >.
ConsMerur te cose da un soio lato. Detto aotico i j che tutte le cose sono come
degli orriaoU a dae manichi. Questi due manichi sono cariasinii a' ao- fisti,
perocch possono pigliare cosi ora uno ora T altro aecoodo che meglio loro
incontra al momento. Come noi abbiamo veduto, essi giammai non cercano
l'ultiasa con- clusione di o argomento , quasi integri giudici , ma eome
mercenari awocat arringando per una sola parte. -Questo ataneggiare o mostrar le
cose da u lato solo , acconcia loro assai per pi ragini: prmieramente se cos
iion fa- cessero non potrebbero sostenre il pr ed it contira di tutto, a
piacimento degli orecchi a cui parlaho o delPesi- - gema loro: di poi ci d loro
campo di mostrK piA sotti- gliesia, e potenza di lingua , e di comparir nella
mento della plebaglia quasi direi gli arbitri del vero e del falso, che muta
faccia e natura nelle lor mani; il che
pur sem pre il supremo punto a cui aspiri rumano orgoglio: finalf^ mente
tal modo loro presta un'apparente difesa ' scheinio quandochessia a tutte le
obbiesioni che contra kr si mo vesser; perciocch a chi li rimprovera di eccesso
in qual* ehe .assunto, eccoli acconciati a rispondien : n Mentite scioccamente
ji, e a Vedete ci che bo detto in quelPak -tf tro tempo , ci che ho scrtta in quelP altro luogo , e a
troverete il contrario! avendo essi
sostenuta ora una. cosa ed ora un'altra. I quali aftificii tutti e giochi
sebbene- possano essere ingegnosi^ sono tuttavia spregevoli, e p* sticci senza
rad)ce alcuna^ e non fanno impressione %nona sugli animi de' civili uomini^ ma
cagionano loro grave e jintoUerabile molestia , ed eccitano un gravissimo tedio
e fastidio dello scrittore csi garrulo y e ardito e villano. Tal vesso incivile
degli scrittori sofistici V imit ed espresse, pi vivamente che non bisognasse V
autore del Nuovo Ga- lateo: di che dar un solo esempio. Gli veniva fatta la.
censura di un suo capitolo intitolato jpotogia della moda^ i t fra r altre cose
gli si notavi ch^egli per fare qnelPa^ pologia rafpooevolmente doveva prima
d^ogo^ altra cosa Mtter la moda dentro i sno giiuti limili y e o stabilita
chiara e precisa la tesi, difenderla. Or egli risponde e grida: Alla mmiaogaat
Mai menzogna ! perch? forse dia voalf
Apotagia restrisgetc voi la moda entro certi e ginati kmMt ^^ QiMsto do ^
ma , . . Cke volete dire cai^ ftfsato ma^- cke non
esclade il primo mo -^ ehm cpi.e arbarel sui quali non si pu mercanteggiare u
accre- scer' la ricchezza degli stati ? o pi tosto il moto della rie- chezza t
che ignoranza di politica economia ! far cos poco conto degli abbigliamenti di
moda f che cattivo gusto! Ma quello che
pi,, ia rmgione si , ptr u che una distoluiezza ne tim eeeo sempre
unlakran, I bisogni adun- ca SKtnaati dal sig. Gioia, che discordano dal
sistema della poli- gamia , non vengono gi soddtfiitii da qwaliinque altro
sistei^ j e ^ella serie di desiderii non discorda gi fftu dalla roonogamia che
Bon faccia dal suo sistema contrario: n perci frono bene cratte risiati qoando
li chiam u bisogni e desiderii discordanti dal sistema u della monogamia
n. Opus. fL r. IL 36 a2 ed intanto
tragittar gli errori. Rousteau per altro non era almeno , come quelli ,
interamente perverao e finto : era sofista; ma una bolgia meno gi di costoro. N
tutto ci ohe Rousseau scrsse, fu falso ; talora bello e buono. Qua! timore, a
ragione d'esempio, pi nobile e pi rispettabile di quello eh' egli dimostra qua
e li per T estinzione della moralit ne' nostri tempi materiali ? qua! cosa pi
vera , pi evidente che la descrizione de' filosofi de' suoi tempi (i)? Quale
domanda pi dignitosa, pi importante di questa, qub DEVIENDRA X.1 VERTU QUAMD IL
FAUDRA s'BHRlCHia A QVELQOK PRix QUE CE soiT? La qual sola basta ad annullare
de' vo- lumi in quarto di dna brodosa e materiale politica eco- nomica. Le
quali cose , tutti i savi le sanno. Laonde non pu fruttar troppo bene al nostro
autore il fare l' avver- sario suo seguitator di Rousseau, senza dire in che
pajte^ se nel buono o se nel cattivo : senza citarne un passo : tutto
confidente di spaventare i leggiti timorati con lina sola voce, col nome di
Rousseau, cosi come le femmine ^aolevan gi fare impaurendo i fanciullini col
nome della l^efana. 7. Principio deW interesse. E sebbene l' intendimento di
questo piccol libretto non sia quello di entrare addentro nell' intime ragioni
delle (0 II Gioia dovrebbe 1.* dimottrare quali aieno le proposiiioni in eui il
suo avvertano conviene con Botmeao \ a.^ dimottrare che quelle tono falte. Egli
dimentica di fare ti Pnna che P altra di qaette due ootet grida che il tuo
awenario tegnaoe di Rontteau, ed i
tcimu- niti Patooltano, e c^'edon la cauta finita. In prova di ci eoco le
parole della Biblioteca Italiana. Etta an* nuDsiando la quarta editiooe del
Nuovo Galateo, con mirabile tem. plicit coiii dice : a Nella ftitpotta agli
Ottrogoti P autore impugnando i tofitmi
di Routteau contro delP incivilimento , risponde ad un mpo alle obbietioni che
(atte furono contro la tua Apologia della i possa dedurre i loro doveri verso i
ma- te gistrati che queste foi^ giornalmente mantengono, e quindi inne- u stare
questo ramo di morale sul tronco della pubblica economia *. Io tengo per certo
che il Gioia non avverta il male che contengono qtirste parole: e perci lungi
da me Pimputargli male intenzioni. Ma lasciando sempre da canto le iotension, e
favellando solo del valore delle parole, non posso ommettere le seguenti
osservasioni. i.^ Ci che caratterizza il diverso sistema di quelli che
aromettons una morale di fatto, e di quelli che l'ammettono solo di nome ma nel
fatto la negano, , che i primi ritengono la morale come il tronco, e l'economia
e le arti di piacere come rami da innestarsi in su qnel tronco s mentre i
secondi ammettono recononia o qualche arte di piacere come il tronco, e la
morale vogliono renderla un ramo d questo tronco. a. Quando la morale cangiata in un ramo di economia f essa distrutta : alP incontro quando V
economia innestata sulla morale e resa
un ramo di lei , questa non distrutta ,
ma conservata insieme la morale e
Veconomia : di pi, P economia acquista allora una nuova dignit; ella viene si
pQ dire santificata. 3.* Quando voi volete innestare la morale sulla economia,
facen- dola diventar niente pi che un ramo di questa ; voi adombrate il
moralista; voi lo costringete a far guerra alP economia come ad una scienza
usurpatrice. V innestare alP incontro l'economia sulla morale vi guadagna lo
stesso moralista , che diventa il difensore della eco- nomia come di untarle
buona e benefica. Dite lo stesso d tutte le altre scienze , ^di tutte le arti
utili , di tutti i piaceri della vita *. vo; lete salvarli? costringeteli ad
entrare nei loro confini: ad ordinarsi , e a non azzuffarsi colla morale. Voi
allora sarete benemerito verso P iiman genere perch non P avrete lasciato
privare di questi beni i glieli avrete conservati , ed egli se li potr godere
in pace e senza hotiL scusare gli aitnit
difetti aache a spese della ve r rt, aHorch non ne viene danno ad altri n (i);
egli vi mette per lionite alia noda' il. pudore^ ma carne nn meczo onde le
femmine possano rendere piA forti i loro vezai, e signoreggiare gli nomini (a),
facendolo do A ser- vire al loro interesse : e perch tutti gli altri limiti
^son pure all' interesse ridotti , non resta limile alcuno vera- mente morale
che T autor nostro ponga alla moda^ e quindi quand' anche il suo avversario
Tavesse di qaeslo tassato (3), rimorsi: ro in Ul modo arrete generalizzati que^
godimenti perch i buoni tessi ne godranno in comune coi cattivi. Filosofi che
dispreuate la morale, cercando solo il piacere! t ricorda Tonnipotenza della
morale : non la offenderete impunemente : se non vi prirer dei vostri beni , li
sparger di un amaro che ve li render disgustosi e fonesti. (i) Nella nota alla
pag. BS7, conferma il suo principio colla sen- tenza di un re, riferita da
Mustadin Saadi , la quale la seguente: u
La menzogna che fratta an bene f vale pid della verit she pro- it duce un danno
n. Ha sapete voi tutte le conaegaense di una meo- zogna, e tutte quelle della
verit? Qoal uomo pu calcolarle? Ecco a che si riduce il principio deir inurtsst
: ognuno crede di bene in* tenderlo; intanto perch fosse ben inteio
bisognerebbe avere una sa- pienza divina che calcolasse tutta la catena delle
cause e degli effetti: che intendesse in somma a fondo il satenui intiero delP
ontverso , e la natura deH' infinito che
il punto su cai si sottiene. Intanto la presanzione della falsa
filosofia che non vede questa difficolt, dopo arer distrutta la morale
ridncendola air economia, distrugge in egoal modo la ferit, ridncendola
aWinteressej e ci ^necessariamente, giacche la t^eril il principio della morale. (9) Pag. 1 5i iSS.
Fa da ridere il Gioia quando nelP Apologia della moda, dopo di^arer parlato
delle donne oome fossero tutte da chiasso, , si scusa dello stil poco delicato
dicendo che 1 difendendosi dai la- dri,
non si pu pensare alla delicatezza del sentimento w (pag. 178). Sono i soli
ladri che a lui fsnno paura: fi comperare e'il vendere fra uomini e donne >ene incoraggiarlo : un ramo di pubblica eco* nomia!!! Per questo
forse usa lo stesso stile da per tutto nel suo libro y anche quando non confata
obbiesioni e non si difende dai ladri, come alla pag. i5i 153. Vedi ci ehe ho
osservato pi soprm cap 11,8 5. (S) Il suo avversario gli rimprover non aver
egli messo limiti alla moda nella sua Apologia, e nnll^ltro : il far supporre
di pi im^ impostura del signor Gioia.
non poteva dirsi memognero sensa riientre: e se rantore^ forte del suo princpio
dell'in terease, reputasse qaesla stessa calunnia da lai apposta al sao avversario
esser cosa mo* rale ,. secondo il solito abuso' che h di questa voce per- ch a
lui utile ; non iscinvcrebbe per questo la figura di stolto ) giacch non gli pu
essere appresso g^ intendenti se non dannosa: poich impossibile opprimere P inten- dimento del
genere umano , schiacciare il cervello con ona parola di tutti gli uomini.
CAPITOLO V. Prncipii generali del Galateo. Ora che, enumerando le impolitezze
letterarie, abbiamo procurato di ridurre il raziocinio a sensazione cogli
esempi che V autore del Nuovo Galateo ci ha riccamente fomiti ^ prendiamo
commiato da lui, e con sua buona pace tea* tiamo un tratto di sollevarci un
poco pia so, se ci riesce^ ad alcune idee universali, le quali ci possano
condurre ad acquistare un chiaro concetto di quest' arie delle buon creanze ,
di cui molti scrissero , ma pochi si diedero cura di direi precisamente che
cosa ella sia. $ I. Il mezzo proprio e perfetto di comunicare colta societ
pubblica la scrittura, come il proprio
mezzo di comu- nicare colla privatr la
parola. Laonde il nostro Galateo de^ letterati alla societ pubblica appartiene,
cosi come quello del Casa o altro tale spetta alla privata. La societ privata
vien prima a qualche grado di per fezione, che poscia comunica alta pubblica.
La societ pubblica cosi migliorata , finisce di perfezionar la privata , e fa
insieme la perfezion di se stessa. Perci era naturale che prima si scrivesse il
galateo della privata societ: e molto dopo quel della pubblica: sebbene questo
sia di molto maggior rilcraiiza , e poaia iolo einilur quello alU soa
peifexione. . Il galateo della societ pri?aCa-, ed il griateo della so- ciet
pubblica non possono essere, rigorosamente parlando, che due parti d^ un' arte
stessa, perch con uno stesso nome di galateo* si possano convenevolmente
chiamare. N un'arte stessa sar, se non vi avr nn.solo princi- pio il quale
sostenga : due applicaaioni per forvia, che, ap- plicato alla societ privala,
ci dia quella serie di avvertenie e di precetti che, raooolti issieoie, galateo
della societ pri- vala si nomina, ed applicato alla sociel pubblica ci ge- neri
pure un'altra serie di documenti che fiarmino la so* stanza del galateo della
societ pubblica. M. Uintendimento di questVte, ohe noi con una sola voce ' di
Galateo chiamar soffiamo, non altro pu essere che quello di ammaestrarci a
renderci piacevoli e cari alle persone colle qoaU noi uspmo o tcattiamo^ al che
ottenere il V buon senso del Casa tocca un principio assai generale l dove dice
che le nostre maniere sono atfera
diette- tf voli, quando noi abbiamo riguarda alPallrui, e non. al tf nostro
difetto (i)r Certo tal principio comune tanto al galateo che insegna a gove
snar le maniere che si usano colhi societ privata , quanto al galateo che i
modi addita convenevoli da tener colia pubblica , perch o sia da quella 0 sia
da questa noi siamo. tvilti cari ed amati e riveriti. E Pesperienza ci mostra
che questo principio dagli scrit- tori gentili
naturalmente seguilo^ c.in quef tempi e in qne' luoghi ove V urbanit e k
buona piacofoleaza in fiore, v^ne pi A
sottilmente/ osservato. Veramente quanto V uomo
pia wwao , tanto aeao cgb conoeio
di tra* sporUrsi colla sua immaginativa negli altri iioniini, e, in- nanzi di
proferire o d^ agire, considerar quello ch^esot sieno disposti di giudicare di
sue parole ed aaioni: e al- r opposto pi
inclinato a giudicar ciecamente tutti gli altri da se steasoy e ad.atlrilNiir
loro le proprie passioni f le sue accidentali pertorkaiioni (i). Mbdesimameate
i tempi ed i popoli roazi avvertono mena a questa rotieaxa degli scrittori,
dove anche questi la mo^ strino: mentre d popolo gi molto kmansi proceduto
nella eiflt, di molto s^ adonta se Tede quella groaseaza della scrittore di non
sapere uscir di si , di applicar a tutti le proprie afierioni , di non aceo^nt
cbe * aL pubblioo doa cale punto de- suoi particolari interessi , che non ha ra
fione d'esoeme impegnalo e riscaldato siccome Tha egli. Quindi i civili popoli
sono dilieati censori di tale quasi inerzia di mente , e non la perdonano a
verun patto ^ Iad dove i popoli che poca coltura hanno, sono cogli scrittori
loro indulgenti^ sicch questi riescono senza quella fina deHeatezza ed
avvertenza che tanto piace in quelli di na- soni coltissime Cos la coltura
detta nasone esige e forma quella dello scrittore , come d^ altro lato pu lo
scrittore correggere e limare in parto h scabrosit deHa nazione. I peccati
contro il Galateo de^ letterati, che noi ahhiamo in questo Khretto raccolti ,
tutti eritar li potavbbe quello scrittore che quest' unico principio, di
riscontrare Je pr** prie parole col- giudisio che hanno diritto d'aspettarsi
dalk pubblica aoeiel, e col piacer 4i questo, timtM sempre presente. M. '
. Tuttavia troppo vag4 ad
indetennato ancora questi^ principio,
perche irgli nom d mastri e facda conoscere ci (0 il principio del Vico t u L'uomo per P
indiffiniU natura della Beute umana, ove qnesU si roveaci neiri|oonuiza, egli
fa. s regoU dell' universo n, Sdana tTutH^a^ Ljb. L 1 6he iBi sociel
pkbblicrMglia coaumcineate pi|oeitt.X2er- chtMiofie adanque un altro pi
alletto, che ci fia cgme di criterio col quale poaaiam discernere ci che alla
ab** ciet pakbiiea piaccia, e ci cbe dispiaccia. Il priueipio 0 il criterio
'che a ci conoscer ci acorge, sar in generale, che gli omini a richieggono che
nelle tf maniere di coloro co' quali usano , sia quel piacere che u pu in
cotale alto essere i (i): il cbe
ragionevole e giosto. Perocch maggior piacere che quello che pu es- sere
in tiascnh atto , nessuno pu ragionevolmente desi. derare^ che cosa impossibile^ e ehi ne d minore che V
atto possa riceverne in se medesimo , gli pare che de- fraudi gli altri d^un
bene che potrebbe loro senza suo in* comodo dare, il cbe suol esser tenuto poca
gentilezsa o^ beifevolenaa. N si fatto principio manco del primo ac^ coficio a' due galatei ,
che distinti abbiamo : ma govecb che alleandolo brevemente :al trattare cosi
colla sodet privata cbe colla pubblica, veggiamo come nella sua ap plicaafpne
esso si m^odifichi , e da esso i due galatei, o se si vuole pia rigorosamanle ,
le due distinte parti d'un m),d\i|QmcM^.. palla qatpn, e d' infinito nella
stessa divinit. E cii^ cbO'OsveffiaiBo de^ ragiosttmeati privati pabbUci, fi pn parimeote.osfrsvarp- della
privata vita e delia pub* Mica. Poichtaebibeno la verit^ la betlesia e la virtA
ornar debbono tatti gli atti 'della nostra; vita privata, che aoo
4aUa|.cogmxiono 4lel v^^, dalla por^^M del bello ^ e d^tt'f^rciaio dfUCi^nctto.
al njeva sopra quella degli alta aniaMliV'tiillavia nella eoeiot pMUili^a. ohe .questi nobi*
Ussiini: beni.ddl^ apinto apiegfmo tuttavia loro.magnifi- i;cmsa , e lo
^pet^colo iootmparabile dalle loro attrattive, fuan la semplicissima baos' del
vero io tante cooseguenio, in. tantc^applicasisnf ella SrOpre e biiUa in na
vagbea&a ipqin^T^ e iMci^ ve variate, veMe U pia soblime catat- tere , ed
innalza la libert df Ilo spirito su tutto |^i pMrtQ^ la cosa dall'uomo presen- tata y. quel nuovo,
vero, quella statua, quelU virt, che sono t4itte eoas amabili indipen4e]le2za e
dellf virt^. La dolce, la pia benevolenza che impone il Galateo, vien per fai
modo a maneggiare con mezzi dilicatissimi e onestissimi T altrui amor proprio
onesto^ laonde si appeo a do^ bisogni naovi, e a procurar nuovi coniodi e
piaoerir il piale aitmanle 4i 4iUiUidinbe soperare le altre tn dottrina o probit,
senza che pf^ qusto neceisiTfamente le su|^erasse in richetxa nel senso pr- .
-p^otMi fitttU. La dbttrna, tk verit e la virtA sono eerto pi che ta riecheita
mmtaiatej tn. non formano f oggetto della ficono- mfa ak non in qdanto esse
tnfloiscoBo solla ricchzza nutkriaU , o l^ehsM aiutano Ta phubtoin, perch si possono coli quella aMual- tbedtSe
cofliauitare: per propria natura quei behi' apt^^rcengono al altre scienze. Vi
sono delle virt e delle scienze che non influiscono se non in minio asai
lontano sufi* Ecoliomia , e che non soddisfanno meno par questo d^ ^erf bisgni
detl kpirto. Quando si rolease parTare in Conomia di tutto ci Att atto a soddisfare un bisogno, o a pi^urar all^nomo
un piacere , converrebbe in essa parlar di tolto: eira Vioscirebbe una ieseoknt
confusa d^ idee svariate, ^di- .strnggeuftbbc, assorbendoli in s, tutti gli
altri rami ilei sapece. Il Ciota che (in va pA intero esente da questo difetto
nel modo di trattare la scienza economica , deve il medesimo alla sua
'filosofia ^ssa e materiale { qiiesta rduc^ tu^to 1* uomo al suo corpo, perci tittk ta sapienza umana a d^le
specufazioifi economiche. ^^ In terzo luogo ^ vi i^aasono essere degli oggetti
materiati die soddisfacciano a dei bisogni e producano dei piaceri , e che
tMttsrvia 3 IO ^ 3.'' I truporti del qobmmMo, il qaale fteando i pr- dotti
ddr^^icoltuia e dellUrti ne^ luogU pii aocpod ad emtft contattati. oMia
diaCributndoli m ragme dei ksogai e dl deaidoni, li reode eoa ci.pi4 otti a
aod- disfare si qoeUi cbe questi) giacch veagooo a' medesifl accostati e qaasi
applicati ^ mentre restando loataoi da essi on polevabo giannai rispondere alle
esigeoie. Questa maggior attitudine o /acuit di soddisfare de' bisogni e di
prodorri de^ piaceri ai valofe ed una
ricdieasa ag* giaata o al tatto di- nuovo creatar per questo solo non si
considerino come ogfetto dell' EooDomia: Ule
Paria y il sole eoe ComiiM^no questi a direntare oggetto della
EcoiuNDia, solo dal momento che comincaoo ad esigere della spesa o dfl
travaglio .p^ mantenerli, o che oonviene diffnderli dai troppi eonaumatori: in
tal. caso possono essere Tsodalti comperati, Fino cke abbondano'a ti\|lti senaa
spesa s traTaglio, ncMuno dUposlo a
cambiar con essi un^altra cosa per minima eh^ella sia, non hanno vn prezzo,
sebbene gi suppliscano ai bisogni pi (grandi della Titar in tale stato sono
csdosi dai novero .delle eoseappresubUi, di che tratta P Economia. , La
riccutaa adunque^ in quanto il oggetto
deirqsnomia ed in un senso ancora alquanto largo, formata i.^ da quelle cose ma- Uriali che
sono atte a soddisfare un bisogpo p procnrare^nn piacere, o. da quelle cote
tpUitnaU che influiscono sulP aumento di quelle; quando per ottenere quelle o
queste si esiga ui^ qualche 4pea o travaglio, o insomma perdita di altra cosa
che costituisca Iqro il l^rrsao mmirole, e le renda atte a4 esser mutate ad
essere con^e- rate e vendute Una definizione stretta e precisa della
rochena che deteni|ina reggette del P
Economia, volando trattare qnesta scienza con ^me- todo rigoroso sarebbe,
secondo mio credeif , la seguente: ** Quegli
oggetti materiali che sopravanzano alla sussistenza propria , e che possono essere usati nc^ propri piaceri od
essere impiegati alla suf- sistenza ed
ai bisogni altrui, formano la ricchezza n. In questa de- finizione, oltre
evitarsi i tre difetti accrpoati^ i^ si determina, in qualche modo dove
comincia ci che si pu chiamare abhondaiitAf a. sMnchiude Pidc^ della possibilit
attuale d'ausare ci che sover- chia alla sussistenza: il qual uso o Atvt^)
apportar piaceri % wt.o hy consstere nel cambio con altre cose , ioch quel
sorerchio ptsa essere oggetto (delP altrui affezione. Su 4/ Tatte I abilit
personali qa^tde possono aeddi- sfare un bisogno, 0 produrre on piacere, od
eaaer can- giate con cose he haDOo qoest'attitiidD6, e infloir in qualunque
maniera a produrle. ' In tutu questa enumeraiione si vede che P lenenlo
principale che costituisce la ricchezza,
V attitudine di un oggetto qualunque a soddisfare de* bisogni , o ad p-
portare de* piaceri. Di pi : Vattitudine che ha un oggetto a soddisCne de'U*
sogni o a produrre de* comodi e de' piaceri, pu essere immediata o mediata. Il
pane ed il yino, le vest, V ailii di un cantore quand' presente, o di un medico
sono cose che hanu. attitudine immediata a soddisfare de* bisogni, e procurarci
de* comodi e de* piaceri ; poichi noi non abbiamo che a mangiare il pane e bere
il vino per 'riparare alia fame e alla sete, non abbiamo che a porte indosso la
roba gi costruita per ripararci dal freddo, non ha il cantore ed il medico che
ad aprir la bocca per dilettarci gli orecchi il primo, per consigliarci sulla
nostra salute il secondo. AU* incontra il frumento non ha un'attitudine
immediata a nutrirci , ma deve prima esser ridotto in pane ^ la lana ed il lino
non ci vestono se non dopo che sono stati tra* sformati in abiti ^ VaUlit
delPorologista non ci procac- cia il comodo di conoscer le ore se non mediante
1* oro* logio jche costruisce ^ e lo scrittore di musica non ci di* letta Et
non mediante il cantore 0 il sonatore che esegui- sce la sua composizione.
" Le aUitudini dopo di d possono essere mediate pi o meno, secondo che
hanno una serie pia 0 meno lunga di mezzi o di pasi da fiire prima di pervenire
allo scopo prefisso delta soddisfazion de* bisogni , e deU produaion de* piaceri. Se jrumento ha bisogno, a ragion
d^esem- . jno,, di (are un passo per nutrirci, cio quello di essere con- ertito
in pane ^ 1* abiUt del coltivatore del frumento ha Pattitudine di nutrirci
mediante due passi, o P intervento di 3i due DMzii^ d i/ b prodncione del
{mment, %.^ U fili- masknc del pane: PabUil dello scrittore che imegpa li
DgiUre collivatioae del fruaientO) contribuisce a nutrirci mediante tre passi,
ossia usando una serie composta di tre messi ^ tio) i/ P istruzione sua
comunicata alPagncoltore^ x* Peper delPsgricollore che produce il frumentp , 3/
Po mia in molti errori Uq^ altra conseguenza dlie cose dette si che rkchttsM pro- priamente parlando non sono
che gli oggetti atti immediatamente a soddisfare un bisogno e produrre nn
piacere t 'tutti gli oggetti die tendono a ci mediatamente, non sono riechtMa
gifirmataf ma solo istrumenti onde si forma: sono ,/Wi S ricchtzza, ma non rie*
chetUj esattamente parlando. Come per nella causa si contiene r effetto, cosi si
pu dire ricchezza in un senso meno rigoroso anche a quegli oggetti che hanno
VattitudinB non di soddisfare i bisogni e ^i apportare i piaceri, ma di
influire afi^caistenia di qnelli che la hanno. Opuse. FU. T. II. 4^ 3i4
tnerolmente nelP inventario delle ricchezze di una na* zione* Vuso adunque di
qualunque oggetto che pu fermar parte della ricchezza, doppio: i.^ o aoddiafa de^biaognt e produce
de^ piaceri, a.*^ o influisce alla produaone d altri oggetti eaffaci di
soddisfare de^ bisogni o di produrre de^ piaceri. Neir ano o nelP altro di
questi due modi onde si uaaoo le ricchezze j succede Tono o Paltro di questi
tre acci* denti: i.^ o che la cosa usata
migliora, come le forze e le abilit di un agricoltore o di una
cantatrice, usate con discrezione, si accrescono fino ad un certo segno; a.^ o
che la cosa usata mutando interamente di forma, si consuma del tutto, come il
frumento che si consuma interamente sotto la prima forma quando si cangia in
pane, o il pane che si consuma interamente quando si mangia; 3.* o final- mente
che la cosa non si consuma interamente coir usarla, ma solo in parte, come gli
anelli che si portano in dito ,. o Paratro onde si fende il terreno; nelPoso
de^ quali oggetti il consumo
insensibile, malconsiderato in lungo tempo distrugge interamente. la
cosa e rientra nel secondo degli indicati accidenti. Egli evidente che i.^ rispetto alla cosa di cui si
t fatto uso nel primo accidente, vi un
guadagno; a.^ nel se^^ondo e nel terzo vi
una perdita, essendovi la distra- rione di una ricchezza o totalmente o
parzialmente. Ora qual il compenso JV Pro-tnettO, T- I, pag. 390^ 3ao Mon dunque pia h riccbeiia V miuifsa delie OMe
atte a produrre le senaarioD aggrtdevoli , aa oia sano le scnaazioni stesse che
formano la rcchena. In questo caso ben comprendo che chi pia gode, chi pi si
procaccia sensazioni aggradevoli, quegli sar il pii ricco: quindi per esser
ficco in questo nuovo senso, P un- nico modo
di moltiplicare i consumi di lusso che ap- portano piaceri : egli vero in tal caso che i consumi di lusso lungi
di nuocere aHa riccbesza, sono quelli soU che la producono. L\ avaro , quando
ci sia, che ha colme le arche di oro accumulato , o il grande speculatore che
am* massa i suoi tesori ne' fondachi e sui navigli , sono gente povera ^ V uomo
dissoluto che d fondo alla sta facolt moltiplicandosi i piaceri, il prodigo che
tutta la spende per acquistarsi dtle set^azioni Aggradetfoli j sar Tuomo ricco
a giudirio del sig. Gioia. Basta annunciare una si- mile teoria per sentirne P
assurdo, per conoscere che contro il
significato aggiunto da tutto il mo^do alla parola ricchezza ed alla parola
povert , che in somma in un tale ragionamento si chiama ricco il povero e
povero il ricco, si chiama produttore quegli che consuma e con- sumatore quegli
che produce ed ammassa. E pure questa
una delle maniere onde il sig. Gioia difende i consumi di lusso, una
delle maniere onde ne L il panegirico. Ella
cosi strana ed incredibile , eh' io mi credo tenuto di dover arrecare pi
passi del nostro autore dove ripete lo stesso argomnto, perch non aem* bri chMo
lo calunni e che gli apponga quello eh' egU non disse. Alla pag. 293 del T. I
del Nuo90 Prospetto opponendosi alla raccomandazione di risparmio che fanno gU
scrittori di Economia, e di accrescere i capitali anzich consumare i redditi,
quando si voglia aumentare la ricchezza^ egli si fa a dimostrare il contrario.
A tal fine pianta la sua nuova definizione della ricchezza cosi: tf La
ricchezza pubblica si riduce ad una abbondanza
di piaceri diffusi per la massa nazionale 1. 3i Qaindi icile gli
discende la confotazione degli a^yersari. Dal momento che la ricchezza si
riduce a' piaceri atesai e non consste pia nelFammasso degli oggetti atti a
produrre j piaceri ed i comodi e a soddisfare i bisogni , egli ben delle dimostrare ch/c V accumulazione de^
capitali non il modo di rendere una
nazione pi ricca, ma anzi il liberale impilo de^ medesimi. Perci egli prosegue
cosi : tf L'accumulasione d^una specie di questi oggetti, oltre di npn essere seguita da una accumulazione
corrispoii- c dente di piaceri, ci toglie i mezzi di procurarci gli altri di
cui siamo suscettibili. "^ Se di fatti voi moltiplicate allVccesso gli
abiti, le scar- tf pe, le camicie, la mobiglia ... (i)^ voi non avrete un cuoco che vi cucinile rivande, un servo che
vi rassetti la stanza, un barbiere che
vi rada la barba . . , una tf bella
sinfonia, una rappresentazione drammatica, un u fuoco d'artifizio^ tutto ci che
solletica momentanea- mente l'odorato,
il gusto, F udito > sar estraneo albi
vostra sfera vitfle SI, sar
estraneo alla vostra sfera imitale tutto ci che solletica Inodorato, il gusto y
V udito \ sarete privo d'una moltitudine di comodi e di piaceri : ve lo
accordiamo : non questo che negano gli
economisti : la questione non ist punto qui: si tratta solo di sapere se dando
voi tutti questi solletichi al vostro odorato, gusto ed udito, sarete dopo di
ci pi o meno ricco f si tratta di decidere se dopo aver impiegata, in
procacciarvi tali diletti, parte della propria ricchezza, vi siate reso ancor
pi ricco di qiiel che sardbbe se aveste quella ricchezza posta a frutto ,
impiegata a com* perare e migliorare de' terreni, ad instituire ed ampliare (i)
GN scrittori di eoonomt non niooMiiaiidno 4i aoeomalar io , qwstia^ O'edtoty dico, non dhe P opinione ddftf rechesva, lapofeensa dt
aver queU quando d voglia, in una parola una potaibililli di potsi- bilit. Gli
uomini sistematici che Torfebbero clie hi natura delle cose fosse semplice come
le lono teste, eclodono queste diMlnziont reali e le mettono* nel novero delle
soolastiehere, per nessun^altm ragiono se non perch sono loro incomodo. Bil
possono formarsi un mondo adattato alla loro eapaoit, ma non mutart il teslc^
3^4 prodoce ima tilit in gnere, tmvagUo'
produOore . i produttore d'an piacere ancke qael travaglio che (anno le
naacelle de' ghiottoni qnando divorano i cibi, e quello che &nne le gambe
de' baUerni che non per altrui ma per proprio aoUazio si dimenano danzando. Ci
per d cui oi tratta si di sapere qaal
sia il travagUo produttore di ricchezza j,i), giacch qnesto-^ Pargomento
deU'economi sta^ e non qual sia un travaglio produttore d^zuiilitd in genere.
Ora il travaglio produttore di ricchezza noa produce il piacere che
indirettamente, cio creando quella ricchessa che diventa mezzo onde chi la
possiede pub conseguire i piaceri. Fermo in questo errore il Gioia oppone a
Smith e agli altri scrittori che raccomandano Veconofiia (2), ossia i ri sparmi
annuali, come mezzo di aiutare il progresso della ricchezza aumentando i
capitali necessari alla produzione della medesima, oppone, dico, che
questo un volere a che u si lavori senza
godere n (3). 1 proprietari del suolo e
i (i) In fatti la denominazione di travaglio produttore alquanto inleteroiinata : questo diede luogo
al sofisma. (a) il senso eomone ohe ha. attaccato a questa |aro1a di JBconomi
il Talore di risparmio, depone in favore di Smith. Il senso comune rderebbe di
un Economista, che parlasse contro T Economa. (3) Contro Paccumulaiione de^
capitali raccomandata da Smith, fra l^altre cose il Gioia die che i prodotti
delle fabbriche institiiite con que^ capitali y agli esteri noto si potranno
vendere giacch ti predica a $U99a twria anche ad esn (T. IV, 78). Ma oltrech
tutte le naiioni , dato anche che eenoscessero egualmente questa teoria 9 non
la potrebbero eseguire egualmente per la variet de^ prodotti ne^ di- versi
climi, e delle diverse abilit, abitudini e geni degli uomini, sicch mancherebbe
sempre ad uno ci the alPaltro abbonda; oltre a ci, dico, conviene osservare
quanto sia falsa T obbiezione del Gioia anche per un altro lato. Sopponiamo
pure predicata a tutte le nazioni la teoria de^ risparmi ; che ne verr? che
tutti la eseguiranno? Nulla pi di quello che eseguiscano la legge morale : per
essere a tutti comunicata, non da tutti
adempita, n in egual grado. Quindi le nationi meno pigre, meno corrotte,
e pi industriose, pi econome, saranno quelle che avanteranno J^ altre in
rcchessa: la provvidcnaa promicr eon ci 1$, loro laboriosit, in loro
inteUigenca e la lora 3a5 jr Gt^taUili^ tgli ioggiiMige^ pBttcrud ciMcan
tao PeccedeDle della loro rendita al sao
aumento, vedreb^ m htfo ciaflCVD anno aceumularsi i loro capitali, senza
e/* sere pia /lici ^ simili alFavaro che
nella contediplaiionoi tf de' suoi tesori gosta tutti i godimenti, assomiglia
la pos* siblit alla realt, la
sopposizione al fatto, essi non
sarebbero 9^enunenU riechi che al momento in coi de* ponendo V idea dell' attmento indefinito,
darebbero ai loro tf capitali altra direnone a (i). Quando tutto ciibsse vero,
non sarebbe meno evidente che il Gioia nei passo citato esce intieramente della
questione economica: qui non si esamina gi in che modo l'uomo riesca ad essere
pi/- UcCf ma in che modo egli pu aumentare la sua ricchez" sa / non si pu
. coufondere V idea di felicit e l' idea di ricchezza.* il pi ricco pu
benissimo essere il pi misero. Se l'avaro
infelice, questo non toglie ch'egli poasa in sieme possedere molte
ricchesse: sar immorale la sua avi dita 9 0 il suo esclusivo amore posto in un
bene materiale come la riccheasa: il
Moralit per questo, o pu es- aere anche V Eudemonologisia ( mi si permetta di
dire con una parola greca il maestro dell'arte d'esser fielice) lo cor- regger:
davanti all'economista egli non
colpevole se non quando contempla la om ricchesaa giaoenk ne' forzieri
in luogo di larla fruttare e produrre dtra ricchezza coU'am- tempertnsa. Qoindi
ma emnlsstone baona fra le naoni: ena pad- fica gaerra non fatta colPame, ma
eoli* industria : U quale a oneiCa fino a che T amore della rodimia li rimane
rafoBevole, i neisi che ^adoperano per superare sodo giotti, e la contensiona
scambleTole non entra negli animile non t semina la gelosie nasiooali, i paaa
orgogli, le inlmidaie: Il Gioia eoi suo argomento direbbe ad un Go- Temo, che
si occupasse a rendere la naaione pi forte e pi munita col migliorare la
tattica o la discipltna militare, u Chi vi ba inse* M gnato.di migliorare la
disaiplioa militare, vi ba data una fidsa tee*
riat tanto e vero che predicando la stessa cosa a tutte le naiioni, mt* gliorerebbero tutte egualmente lo stato delle
loromilisief e perci M nessuaa si renderebbe proporzioniltamente pi forie n.
Bravo uomo d Slato cbe sarebbe il nostro economista! . (0 iV^. Protpttto^ T.
IV, pag. fi. 36 j^Have i c0Biiepei, tender U flibbriditf, e Mirare la cohura d^
nrc^ih Dt^ cM m Peeoooflitata tmm ncdrjp rfgi bada aoiafo, e d'afta affnione
awMaa, eebbma ai^aato aiate daanihiala. Questa teda ao nen fogNanio a lu
soenarla : se' P abbia tutta: dielaaiO' safo che la tali kofM spastse
l'economi- sta, ed entra ne* giardini della Slosoin Ctf alla pag. 79 del T. 1 9
dchr egfi> stesso conviene dei daatfo the nasce alla ric* ohfe f
aix>l?atio, ma mA&jrimetr n**loro'or-edii; slfinooiftrO'ildiMflore
d*diia MtMoa'dt panni da eoi, por etempo, eseono Sooo pene air anno, noe
proliice aieaa piaoeM immedisto ne* sensi del proprietario, ma in fine
dell^aano, riuscito lo amcrcio, empie a Ini le taaohe di sonanti lE^tttiini.
l97 ^acMe f (Mie idi Imm in far puoir piantagioni , in ac ifusidri , stau y
c^ehi , ehiaea^ gUere: allora caochiudet Ecco qiiaato ricco attorniato di una
mollitttdine di piaaeri che non aveva prima 1 adeiao ai cb' egli i meramente
ricco (). Ma m quel a|^ora, dopa (0 ^' Pr^tptao, T. IV, pa|[. ^9. Ca) Quetta
spresfione di veramenU ricco e luatt dal Gioia pnr Cor inteadere la ao I4ea ^el
pMio cbe ebbiano llegaie di aopra pag. 3a5. Egli comp ae dtceave tt Chi h^ aolo le
^iodkeYze rioco faameote^ u ma qufgli
che le uaa ricco reramente . Il bisogno
d^aggiangere queVatfverbio, ipdica che quello che gode piaceri non s dice ncco nel senso proprio della
parola , nia in un senso traslato che bAogoa aTyertire con una spiegazione:
come, con un altro traslato pu Lu- creaio diiamar ricchezza la parvit della
vita , avvertendo la muta* zione del seniio dato a yicehetze coirepiteto
grandi^ Ditfititg grandet homini nmi, vi^^ert pm^e JBquo animo . 3S dito il
consglio M Gioia, gli lifpottdMe 'u fligoor Ectt- u DomisU, voi mi volevate
ioaegaaie ad eaoer pie ricco r per altro
in fine alP anno io ho conattmatn lo aleaao :
m vero che i miei prodotti ai anmentnono, ma ^nctto aa- u mento secondo
voi non mi h pie ricco: io debho in- j piegarlo in ahri oggetti d piacere per
esser tale. Onr r per giacch non trattasi che di caogiar piacerr con pisceri , sappiate che la mia sanit da voi
riconoaciatai come fonte dj onesti
piaceri, Irioo pia soddirfslla col mio u imponente seguito di cavalli e di
servi , che con tatti f gs6 a e diletti che mi sngfgerite. Che volete chMo vi
dica? io u sar forse di cattivo gusto: ma quando si tratta di gusti tf bisogna
lasciare che ognuno segua i suoi i. Io non credo certo che questo ricc^ U
ridke#M cominerciale, T. I. L^ MUt de^ artisU
I suoni e i canti gi eseguiti non possono certo Cur tf parte della
ricchesia nazionale, come non lo possono Iure
lo zucchero consumato, i liquori bevuti
i merletti dt u strutti j ma i suoni e i canti che si possono
eseguire^ e di cui il suonatore ed il
cantante hanno ripiena la te* u sta , loro fondaco o bottega, faranno benissimo
parte della u ricchezza, nazionale , se vi saranno de' compratori, come lo faranno i liquori del caffettiere, le
cuffie del modi* tf sta , se qualcun! vorr farne acquisto (i). Con queste parole il Gioia risponde al
sig. Simonde^ Popinione del quale , come vedemmo, che VaUlit del sonatore e del
cantante sia bens ricchezza , ma uon i canti ed i suoni che dilettano e non
arricchiscono. 11 Gioia non si contenta che sia^messa V abilit del cantore o
del sonatore fra le ricchezze nazionali^ vuote che sieno messi fra le ricchezze
nazionali anche i suoni ed i canti possibili: i quali a dir vero essendo
indefiniti, faeebbero essi- soli una ricchezza interminabile (a) (0 if.
ProspeUo dette Seienu eeonomi^^ T. I, pag. 990. ii> Ciatevio rte che il
Gioia s condotto in questo tofiaina dal- 1^ ftbnto 4r0i aalntli I suoni ed i
canti peeiili non sono die un^attnisione : essi non esistono reslmenle oome
esistono le sedie, i 336 Ma m aik amrda di oMdeiuc ciUf Amt \ diverse
i."" rabilil del cantore e ilei ianalore, %."* i canti ed i Moni
possibili, viene smentito tosto appressa dal Gioia medesimo : il quale perduta
di vista la ridicoh distiBone, non parla pi di suoni e di canti possibili, ma
deU^ abi- lit stessa del sonatore e del cantore, cosi soggiungendo dopo le
pargle surriferite In somma V abiUt del
suo^ 'u motore e del cantante si eambia con tanta bcilil io ' danaro (i) con
quanta le oCelle ed i confetti. Un ter u reno anco sprovisto d'alberi e di
frutti una riccbciaa. ed ha un vidore, perch scuscettUUc di prodotti^ eoa u il musico ed
il cantante debbono* essere valori , perch a capaci d'eccitare sensazioni che,
sebbene momentanee, si comprano colla
cessione delle cose pi,pretiose (a) j. sof, I fonieri ftlegnime oettmiti e che Mspiono la soa bot-
tega. Che osa aono adanqae i no potMUt Non altro che l'abi- lit ttesM del
cantore acconcia a produrli: questa solo v^ di reale. Quando adunque il nostro
filosofo si d vanto di seguire fedelmente la via de^ fatti, egli ci fa delle
prometse di buon me^Mlo, che non mantiene. (i) Quando il sonatore od il cantora
venda i tuoi anoai o ^nti ai sooi oonnasionali, allora segoe un cambio fra
ricchessa e piacere : la riccheaia nazionale non si aumenta punto, ma solo
cangia di luogo: ci pu ben rilevare per la dittribworu della ridie%zaf ma non
sucofde con ci veruna produzione. Quando il sonatore ed il cantore vende i
canti ed i sooni ad una nazione estera , e tortia a casa con nolta riocbf zza ;
allora aecresoiota la riccbezza
nasionale. Tale an- laento per solo
relativo alla nazione del sonatore o cantore, gi** che d^altretlanta ricchezza
venne a scemare la nazione da lui diver- tita colla sua perzia in quesl^ arti
di piacere. N pure in questo caso adunque Vha una vera prodazione} v^ha solo
una trasmutazione. Come nel primo caso era seguita una trasmutazione da
indTidoo a Indivadoo,. cosi nd seoondo segui ana trasmuUziene da nazione a
nazione. Conviene adunque dlstingnere Panmento di riccbezza rato- tiyog
dail^auraento di ricchezza assoluto s nel primo caso trattandoai solo che una
nazione acquista d che Paltra perde, non c^ alcuna vera produzione $ mentre
questa. cV nel seoondo. Siodi si pn.dire a tutto rigore che le arti di piacere
non Steno mtii propriamente produttrici di riochcva in un modo 4iit(to , di che
noi p^^**"*^ 337 Ma obi ha negato che H moaico d il eadtante non sieno
ricchezza? Questo s accorda: la questione sta a vedere se il musico ed il
cantante , cio V abilit loro , sia una ricchezza distinta dai canti e dai suoni
possibili : giacch gli eseguiti non sono ormai pi igicchezza , a detta del
Qioia medesimo. Nel caso del confetturiere, oltre VatiUt sua ossia oltre le
confetture possibili ^ si debbo calcolare, per ricchezza narionale anche i
confetti gi fatti. La bottega di falegname
piena di mobili, coin la testa del can- tante ^ piena "di canti.
Ebbene: in questo secondo caso i canti possibili che empiscono la testa del
cantore, sono la stessa cosa che l^MUi del cantore^ allMncontro mo- bili cegitt dal ialegqiiM, sono cosa
diversa 4McAiUt AJkUgname osrfa da quelli ch'egli pn.a sua volont esHeguire.
^Per tal modo .con una serie di sofismi v^n molto acuti a dir vero, ma lidi per
a cui, come mostra resperienza^ non pochi disattenti leggitori presso di noi
restano tutto di pMN^ il Gioia t GalaUo, |>ag. $09. {Ed. 4.* mil.X Sauth,
Saj e Daaoyer looo dichiarati nemici de* governi europei Ut 39 EU mk pMvft idet
r*polgi^ ceonoaiet dei piaem, del hsiOy deUft eda, ad iniegoerci Fartt di
godere prefu* euKDle ,' e di readerd vme i Mairi ecost BberaU. Noft iniitakiii,
perehi troppo evari eone a eoo gindieie gli uo* mini del ostro lecoio
oalcolatore ed austero ! Egli peri da queeta cenfoeiette dMdee, e da qiieoto
dppio eeoeo che in diverse parb ddP opere eoe attriboi* sce alla voce
ricehezMa^ rorioa necessariasiente in molti akfi errori e contraddizion Poichi
qnegK che si i impe* gnato nella diCraa di un sistema assmrdo, non pai stare
tanto vigilantemente in guardia di sae parole , ehe la ve- rit sfiiggenddglt
repentina dal labbro , noi HMtta alle mam con se medesimo. Cosi nel eoo Prihma
di ^lUtfiare PaUuuUe miseria del popolo in Europa {\)y egfi venne sensa
avvedersi condotto a distioguere nella naaione ona miseria reale, e una miseria
apparente; e ad affermare ehe tf la miseria tt d'nna naaone reale qaando i tolto agli individai il potere di spendere, la miseria d'una
naaione appa rente, qaando la sospensione della spesa
dipende da alterazioni nel volere . Come
aduaque vi sono dae mi- serie secondo il sig. Gioia, Fona reale P altra
apparente j cosi vogliono esservi due ricchezze , Tana reale P altra ap-
parente. Questo era Tunico modo di conciliare in qualche modo fra se stesse le
sue due definizioni della riccbezsa. Egli viene a dire, che piando ha riposto
la ricchezza nel* r oso delle cose, nel lusso, nel maggior nnmero de' con sumi
apportatori di sensazioni aggradevoli , allora ha de- finito la ricchezza
apparente: e quando Tha collocata neirammasso delle cose usabili , allora ha
definito la ric^ tketza reale. Concedo anchMo che quanto pi la nazione brillante per il grand' uso di tatti gli
oggetti di lusso, e quanto pii si veggono ori, argenti, gemme , finissime stoffe
, e mense imbai\dite di ci& che tributano alia mol- lezza i pi lontani
climi \ tanto pi i a' sensi visibile upo
ehe cootendcvano seriamente a sapere a ck di -loro apparteoette
Pinveozioiie di mangiare il fegato del Poca ingrassata a merle ^ e
rigoairdandola cen ecobe fib- sofico j trova . di paragonarti al bedefioo
trovatore delP in- nesto delle piante (i)! i lisci ed i serdidi imbeliettamenti
delle femmine, i soawsmi unguenti, de^ quali aspersele galanti donne romane
lasciavano dopo di s un Inngo e durevole solco nelT aria , onde attirare nel
loro passaggio anche gli uomini che non le avevao vedute , non hanno la menoma
colpa, n pectano punto contio V economia n contro la morale , a sentimento del
(iioia ! Cos la dignit umana sparita
dagti occhi suoi, cos smarrita la mo-
rale , e dietro a questa tutto ^ e P economia stessa per* modirmwione dal tig. Gioia predicata!!
Le panie di loaio e di pisoeri ehe SODO indicate pii sotto, non hanno pur case
nulla che ceceda 1 limili che il sig. Gioia pdne alla vanit ed al fasto
piacevole I Guai per a chi dicesse chVgli eccita ad un lusso sfrenato: questi
sarebbe un bugiardo: il Gioia stabilisce anzi dei limiti, predica anzi una mo-
derasion al lusso, alla moda, al piacere!!
poi vietato Tesaninare ae questi tieno veri od apparenti: sarebbe ci un
inoltrarsi troppo addentro nei segreti del sig. Gioia e di tutti gli altri
sofisti , che con parole indeterminate, avciti comunemente un senso buono,
cuoprono egoarentiseno agli occhi della moltitudine le dottrine pi false e le
massime pi depravate. (i) a Assolvo quindi da ogni laooia le pia gentili e
galanti donne u Romane 9 se di grati e soavissimi unguenti asperse lasciavano
dopo di a un lungo e durevole solco
neli^ara^ onde attirare nel loro
passaggio anche gli uomini che non le avevano vedute n ( If. Pro-
spetto, T. rV, pag. 47')$ il che Plinio, autor gentile, riferisce come ar-
gomento di UBA estrema oonruttela morale. Il nostro astore proseguo col solito
suo tuono assoluto u JE cmrio wn nurkovano deun nm^ u prot^gro allorch ai tempi
di Tito e di Vespasiano onwvano le M chiome grondanti di unguento con corone,
Indiane di seta a vari- u color, e intrecciate con foglie di nardo n. Voi
udiste ? Il sacerdote della dea volutt usa la parola solenne, Aatqhfo s il
filosofo della ci- viliaiiasione pronuncia cd tripode della sua ragione J?
cerio non aie- rU4wano. BasU cosi! osereste voi timre il fiato mentre si promm*
esano tali accenti sovraumani? sareste nn barbaro: un Ostrogoto, 34^ aata. Il
JSaarlm che m ddoh ti ripigMi che fa 4i sotto il Mo flDoa ima; i^Ma di toa,
sarebbe il piik oseritarote di lotti i nisrtsB, gioila la teerb de' piieri del
aaatro astore , se con qaesta slia stosibtiit eecemva effi mm et esponesse poi
anche a nake seosaaioni disaggradeil(i). Ma per tecaare alPeeooosia, di vena
che per latta qve. sia rieebesaa appaiente che agli occhi dei Gioia a ona
mpressioDe cosi dilelteTole che P abbaglia, nsa so che aosBCBlo Mila- naaiove
sia per acquistate la rechetsa reale. Spora fofse die oeHa dissohileasa de'
costami fiartscaoo le case , e 1^ naaione che delle case sngole si eompoae, ne-
sea pia dovinosa? Intanto converrebbe essere eeceasWa* niente ciechi nel lustro
delle esterne cese^ per non vedere che questa licchetaa apparente di natura sua un cooti- Buo consumo della reale. Certamente
ricchissima era Roma delle spoglie di tutte le nazioni , quando per V eccedente
lusso , secondo Fespressione di Sallustio , sono i oostoaii in modo di torrente
precipitati. Laonde in quel fatto avrebbe avuto almeno il Gioia da poter dire
che quello sfarxo, queiP apparenza di ricchezza et segno non Callace di rie*
chezsa reale. Ma QpuUntia politura max cgfisiaUm / i%ylS(iN,Pr9MpmOy
T.IV,pftff. 47, dke: Si pu rignariaro one u tovercba U mc^lesaa del SiiMmU, che
onricaioM aopra un strato oopcrta' i
rate, dolettsi d'alcuna faglia ripiegata sotto il sii# fian- co, giacch questa sensibilit cooessitra lo
esponera a moiCB teiisa* tioni
disaggradevoli, o lo oaodamiava ad osa perfetto ommImIM m Di questo poco di
biasiiDa cbe il Gioia d al Sibarita, ^en questi eompensato in altro luogo, doro
il uottro amabile scriCtore toglie a difendere il esatoaie che era fira^
Sibaritt, d^inyitar le donne ai fe u
itioi e pranti pubblici un anno prina, acdocch avessero iMipo u di prepararsi e
coasparirvi con tutto lo sfarao della belletta e daf^enx td^ tccdeot ricckeiM
id tetta 'cttte , di Ligi OUV? Ma aMlanetile oaflcnif' i(Saj) o. u- ambe 1ealiioiiib iMracc deUa
icdiil,qiikla sasiatav: per gli nogobri sfarai di fiie):iiilklalrtava i|iif I
dMo ^, tfMo feci alla Francia povart.rtrowAi^Xtttlocfar amlarpii A tranefaotrJo
sbi lanctt ideile fioMn ooUdkuiM il fdebit: Ji deUlo codmai ilmakaotealot
iAflaakaaltnl'iprl Maone a.ipial bm- lioi|riiiidi pmMan' e aibisMi ui avem il
lisao ^adasiniA aUmcQtafti^ e fi.k)l hiuialdai^ft'iKtli/le Msnli'Vevcol w
voiire(:fM -U frandaaiq^lfttadMci., detta ftfolazianr. Il liHMi adi|M > DM*
. di tinliiai se .inw iL sgno the la rie* cbesaa f iy.etli?ella]flid dicbena
.leeei'^ aapfxribi di:i^ifdni|tof^ciie.ta^ tempkllsff odale? dai 4naliMei^'BliUpi,^a
^pnai Ihtiti gli. aadiph aarittaria !( aonnnabaa^ bei pdagi e h atataev o:tlti
gii ^MMuaantJ niialfii jJU^arti batte, a i giaacfai ,10 yfmaiffi, a ttatle
ifei^oUeaariidel i?ae, eraaa'piB aaiiHatloi detti; ateasa
ipUica]llfel:doniiaaMe ^ cbe voleva coprire agli occbi del volgo le veraci
miserie dello slato, e far tacere il foi^ip ilb .pagha .pl^fipOde 344 di cifoj
CQDcioiMckii fa iCMpte al.popob, e fra il p- Itolo fate che qui :si jQe8C0U.ii
lig. Gioia, argoneoto dalla prosforit Dauooaky la navonak, o dir j^ onBeote la
ettadineica ed^minlataza. Lo teito amore
di vedere la nasione pattoeto brllaote ohe rcca^ e. di con&indere la
riccheva appaiente colla reale, oiaiiifeata il nostro fieooooista quando teoto
buh ttras lusingato e sedotto dal moto e ddla Mito Agi Itoti tnoJern II moto e
la^ vita degli stati oiidenii iit>
vero una aeosasione ii|[|[nKlevle: ma aoa so eoa quanta* ragione il Gioia ae
ean ima lode^ al lusso do* rodii in jpiesto niodo:i li' ambialone de^riehi cke profondoiio , a
die* egliy Sem* d'esca ai'vogli|siid*rricebirsi. DalPab* tf *bassanieotQ di
iodtdiiv ribcUo^daU^elevaziofle A indi- ca vidni.lab9rosi ed -economi:, deriva
Pemulasione di tntte u le dami , la sperafesta df sdrpaUami , la migiiora di
tolte tf le condizioni f il mnco^e la vita degli Stati moderai (i). Non v* ha
dubbio iebt; per mm 'ptpvvida - legge mceate dalfai aatmra'idtUe cooo^- noU'
tragga il supremo Prowisore molti beai'dagfi eM mutamenti dielle fortune , dagU
atessi rvro^tmeoti de' popoli y^ daHs stesse guerre pia accanite ohe allagano
la terra di' oangne^ fa osservato,' che 'per una - rrvobisiono die' awnnga , si
sregla lo spirito nasio fiale, si la pia enesgicaianaiiaaey si- sviluppano
talenti di molti gremii 4 '.:.:.,.... . : estiano i Per oqminciart da queat^althuo
parola la aMda adunque nuoca al pofero: la moda nuoce a tutti quelli de^ quali
fomentando m va- niy e mettendoli in voglia di gareggiare co' ricchi signori
senz^a* T^re il modo di farlo, mandano in malora le proprie famiglie per
KMnltre a* propri capried fuspiratt dalla maapna fede.- In qiianto ai fl^n
patrimoni, scegli aia un bene o no che vengano diminuiti, noi non vogliam ora
deddere; questo olo d basU, fl dire che se anche fosse bene che venissero
diminuite le fortune co- lossali; non sarebbe per mai un bene che veiiissero
diminuite me- diente i vili /mediante un eceessiTO lusso, >ddle
oBd^eaprieooie} ma solo mediante la liberalit, la beneBoenaa, e la carit
ohe U modo indicalo dal Vangelo per
togliere le noeyoli dianguaglianae ra gli uomini. La moda vana ed il lusso
soverchio resteranno sem- pre riprovevoli, e non saranno degni di una seria
apologia; come il vizio resta sempre vizio ancorch produca indirettamente
qualche bene, e come la corhuione reste sem|>re cetruiiene anoordi dipi-
iiaisea i soyefdiiamente piogui patrimoni. 347 Ma con perpetua coi(tra un fine
: ecco la prima idea deli^ intelligenza e dell^ in- tf dttstria. pig- 3o ejeg.> Opusc. FU. T. U. 45
354 L^Ddustria del canarino risalta da
dae ide associato (i ). te i.^ Il pane bagnato nelP acqua s^ ammollisce ^ tf %^
Il pane ammollito si mangia meglio (a).
II. Llntelligenza delPuomo non dififerisce che per gradi da quella del canarino
e della scimmia. Dal numero tuttavia delle idee associate si scorge Firn* tf mensa differenza che passa
tra intelligenza delie bestie u e quella degli uomini. I mezzi de^ quali fauno
uso le bestie, non sogliono oltrepassare
le due o tre idee, men- tf tre ne' mezzi umani compariscono le venti, le
cinquanta^ u le cento. Per toccare con mano questa dififerenza , pa- u ragonate
V arte natatoria de^ pesci e delle oche , colla
sublimit della nostra liautira, le tele di ragno coi finis- ci simi veli
di cotone, le grotte de' castori coi maestosi r> nostri tempii, il canto
degli usciguuoli colle arie di Pae-
si'ello 0 Pergoiesi ecc. (3). (i)
Il Gioii TI aaserisoe francameot che li cagione di qoesti movi- menti del
canarino mdo delle idee a$$ociaU, n poteva dir altro non ODOioendo la vera
distiBiione fra le $en*taiomt le idui se Paveue conesduta, si sarebbe contentato
di riporre quella cainone ndle.jcn^ Mttiwd asaodaX, Non si ferma per qui :
wM^JStereio ogieo diatri- baisce anche i vari gradi d^ intelligenia bestiale ,
e molta egli ne d alle cimici, alle tignnole, alle sanzare, alle foehe ecc.,
e^e gli vor- ranno certo saper buan grado della sua generosit. Sembra j^er che
dubiti dairDgpgno delPoca, ma non dubita punto del suo cuore, giac- ch, Hiee, a
Si pu disputare seriamente sull'intelligenza deiroca, ma nissuno porr in dubbio la sua affeiione
pe' suoi Bgliooletti n (pag. 149;. Noi da vero nob osiamo metterci in una
disputa tanto seiia. (2) EUmen di Filosqfia, Milano i8aa^ T. I, pag. ia5. (5)
Elementi di Filosofia^ 1, pag. 127 e segg. Ammesso il principio, he quando
negli atti , (i)- IV. Veduto, che P
intelligenza dell' nomo non gi es
senzialmente diversa da quella delle bestie^ e che i gradi di estensione
maggiore, che gode l'intelligenza dell'ani- male uomo sopra quella degli altri
animali, si spiega 6e- nissimo colla organizzazione pi perfetta che ha il corpo
dei primo, .e co' suoi effetti^ bisogna ora che vediamo, che cosa sia questa
intelligenza. Ecco perci la spiega- zione dell' intelligenza. Un garofano e una viola agiscono sulle mie
narici ^ io sento l'uno e l'altra: ecco
due sensazioni prnUtye: u sento che l'ima
diversa dall'altra: ecco una sensazione tf secondaria. Giedicare si
riduce a sentire (a) i rapporfi u tra due sensazioni primitive. CO Ia Mgooe per
U quale le bestie non parlano, perch
hanno meno giudizio e meno paura delP uomo. NelP uomo u il maggiore u giudizio
e la maggiore paura debbono fargli apprezzare Potiiit u che pu trarre daH
aooeorao de^ suoi timil Quindi da per
tutto une trovato un linguaggio articolato pi o meno perfezionato^ cbe e
facilitando la reciproca comunicazione de^ bisogni, facilita Peier- u cizio de^
mezzi di aoddisiarli ^ linguaggio tempre meno imperfetto *t di quello che si
osserva tra gli animali {EUmend iU
Filosofia p T.Il,|iag.a39). (a) Il rapporto di due teasamoiii egli una sansazione ? E ae la senmziooe una modificaone della materia nervosa, il
rapporto fra due *modificasioni della iMiteria nervosa , sar egli pare una mo-
difieaaiaae della nuteria medesima 7 Un rapporto congionge insieme i dae
termini fra cui egli si trova t dunque se il rapporto fra due modificazioni
delia materia nervosa pure una
modificazione di essa, le due prime modificazioni saranno nello stesso htofp di
quest^ ulti- ma. Ma le due senaacionl o le due modificazioni della materia di
coi si cerca il rapporto, stanno t$tt nello stesao punto della materia? o* non
possono essere sensazioni di diversi organi ? queste dufe modifi- cazioni come
ti trasporteraoDO in tal caso in u solo ponto materiale? 96o Tatti gli oggetti de' nostri giudizi , OMit
fatta P iin mensa massa ideile
sensazioni primitive^ o eceitate o ri*
chiamats, pu essere ridotta a tre classi: i.* sensizioiii come
tnsporlindori in un solo ponto materiale noe si coofondemiBo insieme, ma
tenendoti aepantq e distinte produmone ana tersa mo- dificasione nello steaso
pasto poro non confusa, anxi ben distinta dalle duo prime ? Questo sono delle
diffiooll, a ed il nostro aatoro Bon credette iil^s di rispondere
(Zmeoa'dk'/^tojo/^T.I,p^ i4o). Ignoro per, se in un** opera posteriore (
JErsrctsio logico, BG- hno i8a4) egli abbia inteso di richiamar ci che dice nel
passo so- praccitato, giacche in essa cosi si esprime: u La facolt di
comUnare U sensatmi dlrorsa dalia JkeU di scntirt. In fatti 1.^ La iacoll di soalire pu rimanere intatta,
mentre alterata o parsisi mente o totalmente la facolt di
oooabinare, come ai vede negr imbecilli
e ne^ passi j u a.* Si pu giudicarti combinare, riflettere sensa prorare alcuna
# sensasione n ( psg. 33). Qaal per
questa di?rsit riconosci nta dal nostro autore fra la facolt di combinare le
sensasioni, e la facolt di sentire? Egli
la apiega con una similitudine, a Queste operssioni, egli dioe poriando
a del combinare insieme sensasioni , non si possono confondere colle semplici sensasioni, come le macchine che
uniscono, Tagliano, u crivellano il grano, non si possono confondere ool grano
stesso n egli solo pu essere
astratto. tesi bene spesso assurde, come
quella che abbiam toccato: ma eooone qui alcune messe in riga : I.* ipoUsi gratuita
; che i nerridel corpo umano terminino latti in un solo centro , cio in quella
mirabile particella unica die aU tende i e quindi sia quella stessa che a tutte
le operazioni umane : a.* i/K>tW gratuita : che una particella del cerrcUo
possa esser aemplioe , mentre fra i filosofi per lo meno si dubita ancora ae
en- tono degli elementi materiali semplii ( d^ altro lato t^ sUa non fosie 363
^ BM stessi^ die cola m la. noitra editenzi, die da cm die ^ abbiam veduto ,
non pui easer diversa esseoaialiiieQte da semplice, non sarebbe uni particella
sola , ma molte, t quindi sta- rebbe a Tedere qaale di qaeste t qaeila che
attende ") : 3.^ ipeua gratuita : ebe una partoella di oiateria sempliee,
ciofi qacat^csaert ipotetico rieeTm couleaiporanflBaent pia impalai i 4.*
ipiOesi ff-attsUaz che reafiica ai medesimi impaM senta con- fonderli insieme ,
ossia che nella reaxione congianga in s pia moti in diverse direzioni , se nxa
che tatti questi moti non si distruggano n si confondano in un solo : 5.*
ipoten gratuita ; che la reasioat di on corpo loeeo da nn altro corpo, cio on
mto sia lo stesso che VattenaiaUf ipotesi che
tanto intelligihile quanto queat^altra a Supponiamo che il peso di due M
oncie sia lo atessso che il color bianco 1. Se una sola di queste ipotesi trovata falsa, la teora del nostro au- tore
stramxxa; onde ciascun vede qoant' ella aia Mirabile , cammi nuido so cinque
piedi ideali , ipotetici ed assurdi. Belle cinfune ipotesi indicate quella che
sembra meno assurda delle altre si la
pWpa , la quale per come f altre quattro
gratuita perfettamente, dee che i filamenti nerrost vadano tutti a terminare in
un centro, che gli anatomisti non ha^no giammai scoperta ' tato,' come fa il
noatro' antere, pi'otestandoti per altro di esser ieguaoo df iitt metodo
rgoraso, e del fatti. Dico, che la meno
assurda pren- dendola in un senso grosiolano , cio non intendendo per centro
una particela veramente semplice , come rchiede 1* unit df I subietto aenxienfe
e intelligente , man punto fisico , una parte del certello minala seUiene non
semplice; che e quanto dire un ctntro che non
centro, in fttli se * intradesse tana fMnrtioella veramente semplice (
quand* anche qoeMa fosse pOaiblle)| non potrebbero terminare in essa i nervi
senza che le loro estremit si confondessero in on punte, qnasi fossero linee
matematiche: in qul punto non' potrebbe nascere n pare vcruMi laiprteMione, n
ammetterebbe in alcun cangia- mento,
giaeeh eaiendo privo di parti non potrri>be avere un molo dentro- di so, e
quindi n pure modificasione di sorte. Ma se non assorda , ipotetica pure la supposixione di nn punto fisico, in
cui i diversi nervi si concentrino $ giacch questo non f . L^amiaettero il
midollo allungato oome il punt in eoi confini- seno le origini di tutti i
nervi,, non ancora ' ridur le orgini di
tutti ad Uba soh. I progressi delPanatomia sembra che ci allontanino amiche
avvienarci a^ rinvenire ima origine comune de^ nervi del 364 ^adla di tuoi gli
altri caieri animati: il che dpo & eke fa detto, ntn trova difficolt a
dacoprff. Tutta la nostra esistenza un movimento contimi u d sensazioni i.^
eccitate o reali, primitive e seconda* u rie; a.^ richiamate o immaginarie, cio
idee e sentii u meati. u Da una parte tutte le sensazioni primitive traggono tf
orgine dai sensi ; dalP altra, qualunque
idea o seoti- u mento si spiega colle sensazioni reali richiamate dalla a
memoria , modificate dalP immaginazione
(i). corp amano. Gali e Sponheim ctederano d^air ritioyala che la
sottanaa cinerea foMf la matrice t\ ncrrL Ma le onore OMcrrasiom deir italiano
Rolando sembrano prosare in contrario, che oiaacnn tessofo ha un organitmo
proprio, una propria nutrnoiie, cheper* ci ripugna che un tetiuto dia origine
ad un altro. E se il fenomeno del sentire non comincia se non quando
rimprcMone portata nel supposto orntro
de^ ner?i, se questo centro ooUa smreaaione
quello che sente, a che fiorerebbero .i diversi tessuti, mentre un
oeiitro semplice non pu esa^r toMoto o organiaato in nessun modo e non. pu
reagire se non con una reaaiooe senpliory con una reaiioiie che non prende se
non, egualmente un punto? In somma cooTien ccnchiudere che nitsuno riusciio a s^rigre, come dice il nostro
Gioia, in che modo la reaaione della materia possa essere V atUnMUme : perch
una cosa assurda per ogni lato inesplicabile.
Questo almeno ! sar di vero nella dottrina det no-* stro autore : egli vi dice
a Sappiate che la rtagione dd oerrello
ci che si chiama attenilones la oosa sta osi, sebbene non solo a non v^
argomento ehe ci sia, ma non ^ n pura ai^menlo u onde si prori che ci possa
essere } ?e ne tono anai motti dke lo dimostrano impossibile. Vedete in che
consista la modestia filosofica ? in confessare che non si sa spiegare la
possibilit di ci che si sa Icancamenle asserire. (t) EUnun di Filosofia^ I,
pag. i4o. A primo aspetto aembrerebbe difficile ad intendere eonie in questo
sistema si apieghi colla ala aen- saiione reale de^ suoni rintelKgensa stessa
delie paroles ma ci che impossibile di
spiegare colla rtgione, ri riuscir famliitiBa a apie- garlo se adnprcrete in
vece la vostra fantasia. FigarateTdie*.il pen- siero sia come un oerpicciuolo^
il quale dopo aver attraversalo l'aris ' ondeggiando per essa sostenuto e
portato dal suono delle parola quasi da piccole ali o da navicelle leggre,
venga approdando ne* vo- stri orecchi eiiattcndp io essi i ecco il pnukro
portalo negli orecci 365 Ora se i. fotta la noatra esistenza censiste nelle
sensa* aioD^ se 2.^ le sensazioni tatte vengono dai sensi ^ non resta se non a
vedere che cosa sieno questi sensi: allora noi cooosceregio noi stessi
perfettamente. 1 sensi sono parti del
nostro eorpo, che delle qualit u delle cose esteriori ci avvertono, e di quanto
neirin* m temo della nostra macchina succede i (i). VI. Concludiamo adunque:
i.^ i sensi sono parli dlao atro corpo ^ a.^ i sensi venendo modificati dalle
qualit dei corpi esteriori, e da quanto nelIMntemo della nstra mae china
succede, producono insieme colla reazione del cer- vello le sensazioni^ 3/ lo
sensazioni formano tutta la nostra esistenza: dunque la nostra esistenza
consiste in certe inodificazioni della materia: quod erat.demonsirandum. Questo
sistema apporta un bene notabile, ed , che le bestie non sono pi esposte al
pericolo di elevarsi in su* perbia pretendendo* a quel ((rado di esistenza, al
qmle Punititi delFuomo filooofe a diffevensa dei volgo ignorante e prosontooso
si abbassa. con Hn InUe immaginuione lo Mpiagtctteal cervello, il qoale
rcMiffodo frk Tatlo drIlVUnBtiawo occettcrio a riceverlo. Che co v'ha ora .di
pie facile e di pi lffia4^ dell' intcllgeBM delle pa role ridotta alle
sensaiioni reali ? Tale la apieganone
iofegaosi- aioM delPoutor nttroi a Setiaa rddito, dic^egli iacedo l'elogio
di questo sento , l^ueno sarebbe ridotto
al linguaggio d^asioae, e m jiM
ntelligeMa avrebbe gli stessi limiti cbe il soo linguaggio. Non a sono in fatti
soiamciite i ramori pia o meno farti, i svoni pia o meno- u meMioai , le
aDoiiie|iia o meno araioolche die V edito fa giasgero . a noi } il pennm^ jAmso lnuM#o mUra^ert
de^ria ^fmg al no- ( tiro orscdkio n ( JBwrciaio logico^ pag. 96). Chi sa che col
pragreaso dello sdente natarali non sMoventi un microscopio cosi perielio da
pater vedere anche il pensiero che attraversa Paria leggiadramente per ventre a
colpirci Torecchia? Intanto per che s^iaventa la macchinetta, colla qaala' si
possa aocorgerai deU'*esisleoaa di questo oorposcoTo che nuota insieme col
suono nelParia, e che si chiama pensiero , Ibrs^ ammetterla per ipotesi: giacch
in tal modo noa rbione. della fanta- sia si rende un esaere reale s e quindi un
esacre necessario al sistema c;he apiega tatto clle aensaaioni reali, e che il
nostro autore 1^ assi- cura esser verissimo. io Elementi (U Filosofia ^ I, pag.
1 1. PARTE PRATICA L Nozioni preliminari. VII. Come fatta T enstenn delPoemo ti
rdaee a delle MttBakiom ^ cosi a delle sole sensarioni ai ridocooo gii sti-
moli del stto operare, e tolta la morale^ cbe egli avr co-^ mmie cogli altri
animali suscctiUiili di seosaaoo (i). Vili. Qoiodi ai conosce Pignoranaa di
tutti i moraKst antichi e moderni , che hanno cercato V origine dei doveri in
ttttf altro che noi piacere (y). (0 Sebbene parli lango il nettro autore delle rirtm vere o
top- poste degH tniroali e de* loro riti , e tttrbttisen toro ! potenst cal-
colabriee de* piaceri e de* dolori ( Eserefio iogieoj paf. i39 e aeffg.), nella
U aaa morale; tuttiTa qfli TTeffe ehe Pi
a scrittori trasformarono i corti di storia natarale in altrettanti cale* u
chismi di morale. Questo metodo, trasmessoci daLIUnticltk , natte a con
giudizio pu essere utile, ma conduce ad errori quando ma-
neggiato daHa preTeniiofie. Avidi di migloTare P uomo col pnn- ttgolo
della vergogna- , pareedri nalnnlisti athibuirono alle bestie ir de* prf^i
immaginari onde far arrostire qnlU cbe ne sono privi tp i. Erravo logico, XIT).
(py. Ecco il dispresto , di cui la modetta superiorit del nostro filosofo
carica gli autori di morale e di politica ia generale, m Gli an- tt tori , die*
egli, cominciano le loro opere con addurre io scena le beiK il ImgM, cene
ablnni detto ^ uno staio inifimto e
doloroso i nostri otgani, e perci non
anch^essft che ant modificasiotte del corpo ^ tot* Uvia diftingueremo
tre maoiere di biaogoi, fisici^ inUl^ kuuaii^ morali (i). (i) JBUmenti di
FUo9ofia^ II 9 pff- 9ii. SMotraileri aae ci m potsibUe da ci che gerire il
noslro autore aiiUe enuiiooi: u Le aensazioni richiamate o tono una riprodaiione
fedele , nna pittura, onMmmagine delle
sensazioni reali, e le chiano lee; ot* u vero sono combhailB delle sensazioni
reali, ma dTerse da case u nel nimero, nelP iateml , nella ditposiiione, e le
dico^Sutfoste. , avvezzi a rispettare
qne^ Tooiboli ,.per Passociaztone delle idee rispetteranno altreo le nostre
dottrine , e riceveranno pi dolcilmente ^li utili sofismi. In scnma Tom delle
parole accrediUto pu essere utilissimo per acquie- tare gli scrupoli sopra le
dottrine pia screditote. Se alle dottrine di Aristippo e di Elvezio il nostro
autore non aveue fatto che aggiin- ;ere una veste di vocaboli joocsti e
generalmente uditi eoa riverenza 369 XII. Dalla nnggior vivacit della memoria e
della m magiiiazione , come abbiamo vedata ( n."* Ili ), nasce che' ^
ruomo abbia due classi di bisogni in vece d'ana sola, do i.^ i bisogni naturali
comani colle bestie, 3.* i bi- sogni immaginari propri delP uomo : a queste due
classi- si riducono tutti i bisogni umani ( n.^ IH ).* I bisogni naturali
comuni alle bestie sono i.^ i bisogni fisici, a/ parte de^ bisogni morali ^
come il bisogno di aociet (i). I bisogni immaginari propri delPuomo sono
i.^ bisogni inUUeUuali , a.^ parte de'
bisogni morali. Egli evidente che noi ,
ammettendo queste due ultime specie di bisogni, non contraddiciamo a ci che
abbiamo detto siili' uomo^ che tutto in lui finisca e si riduca ai nervi ed al
cervello j supposto centro de' medesimi (a). e con amore dagli uomini, egli
sarebbe per questo aolo tmmenfamentc benemerito di quelle t si come altamente benemerita delle agaaldri* nelle
quella attuta vecchia che loro insegna a yettinf oen deeenia e a contenrare un
esterno pudore pe meglio aodalappiare nelle dolci reti i merlotti. (0 Bementi
di Fliotjl, II , pag. ai 1. (a) tt II eentro, in eui s^uniseono te sensatlonii
o fl cerrello negli t animali che lo posseggono , abbisogna 4elP asiane da^
nervi, eome u le maeclitne abbisognano delP asione de' motori. Ma se vorrete
spie gare i dirersi prodotti di qaeste ,
fark d* nopo che esaminiate e I 4 motori eie macchine; giacch, per es., la
stessa acqua pn mnorere . Alla po gina 909 e seguenti dello stesso libro
parlando a lungo delle qua- lit affettive degli animali a sangue ealdo e a
sangue freddo, d agli uni cbe agli altri
la prtitiont ^ fiau^ bisogni , la sensiilii Me oUn syenturef il daidmo del bene
altrui , e la capacit di fare d/ *9erifiM eroici i quali cose tutte sembrano supporre , nel
sistema del nostro autore , un calcolo di piaceri e di dolori. (a) Teoria dtnU
e penale del divoraiot Milano i8o3, pag. 93. Que- sta neUia di vk Umtmsdmo
av^mbrt k utilissima immaginazione per rendere pi piaccroU i successivi btanti
che compongono questa vitiu 374 vita presente , quanti pregiaditi cadono a
terra d^ nn ob colpo! Ogni aostert di morak perisce: e vengono distro tte
quelle massime severe con cui un perfido
asceticismo u corrompe la mente da molti secoli
(i). Essendo la virt figlia del piacere (a), o pi& tosto nello stesso
piacere insistendo, si riguarderanno per cause delia virt solamente quelle che
accrescono i piaceri della vita.
Inarcheranno per istnpore k ciglia i pedanti, mora" listi f\o dir cfat le nostre virt sono figlie
della va- tf riet introdotta n^li alimenti e nelle bevande non iib briacanti, della coltura ne^ giardini, dell'
eleganza ne* (O Ttmia U penale M umrm^
pig. VL Ghianando un perfido atcelicUmo tutte le leggi monli, die io vece di
piegarsi al piacere de^ tenti si uniformano alla severa ginstsia ed alla yeriU,
si ottengono due vantaggi nel sistema del nostro autore: i.^ si copre di
dispreuo la morale della radume , a cui si Tuoi sostituire quella d^ eenei i
a.^ si dii una botta al Crstianeaimo, che troppo rigido sostiene i diritti ^la
ragione e predica alPnomo T onest in vece del piacere. . Par che dubiti pure
della morale delle beitie, giacch dopo aver par- lato delle loro y'itt , mette
n paragrafo con questo titolo AUre u wrt
euppoete o reali n ( Eeereixio logico y pag. aai). Questa titn- bansa espressa
con qualche sfuggevole parola , che sembra insorger nelP animo, del sig Gioia quando
si tratta di dedurre delle oonse- guenxe d^ suoi principii, non si ravvisa per
nelP ammettere i prn- cipii medesimi : in questi ci sembra costante i * La
senssxione cor- porea ci a cui tutti si
riducono i fenomeni, e forma il principio della sua filosofia teoretica ; a. Il
piacevole corporeo c a cai tutte si
riducono le aiioni umane , e forma il principio della aoa filosofia pratica. Il
giocare di parole e di sofismi utili , non rende meno chiacm ed espressa tale
costanaa del aostro eotore ne^ saoi principii 375 M mobili a negli abbigUanenti
^ dei progressi sella ma- tf sica nella letteratura e nelle scienze (i). Di pi. Chi tf predica V astinensa dai
piaceri va spar- gendo pel mondo il seme
de' Vizi pi grandi e delle passioni pi
nocive ff (l) ^. L^ astinenza dai piaceri, . la mortificaiione dei sensi ,
V ansterit ' della morale , come ci
vengono prssentate dagli antichi e moderni stoi- M ci j non solo svolgono i
semi di tutti i vizi , ma chi- dono la
fonte delle pi dolci virt (3), In una
parola V esistenza delP uomo non essendo che sensazioni , e tutta la sua morale
un calcolo de! piaceri , ne viene che u vergognarsi di cedere al piacere e al
do lore vergognarsi d' esser uomo n (4).
XYIIL Ora giacch il piacere V unico
stimolo deU V uomo (5) , ne viene che al piacere tutto il resto deb- b' essere
sacrificato , non esclusa u pure la merita. (0 Temn'm cnU pmutU M dwniOf paf. 77. Ca) Ivi, pai?.. 79-
(3^ lyi, pag. 83. Gli antichi 4 i modtnd stoici e ant di qndle de- nominazioni
odioie che sostitaite in luogo di ragione , fanno il loro buon effetto, e sono
guttlficaUdlU utiKti. C4)Ivi,pg. 8:^. (5) Secondo il nostro autore a in
qnalnnqae istema mm ti dk ae non per
ricevere n (Pel mero eoe., I, pag. i85). Egli non vede ne pur powibile che
Tuonw dia ^s|ohe oeaa alPaltr^uotto te non pel fine di riceverne il cmbio.
Ittuatra' il tuo detto nel modo aeguentes u Ho d^to che in qualunque siatema
non si k se non per ricevere. u In fatti il prncipe pi A saggio e pia buono
dando earche ed onori u alle persone pt accreditate e piA- degne d'esserlo,
riceve la pub* iVrcrt, appunto perch essa non
piacere. {}).&, Agostino. Ca) JM merito 'e ddU rieompenu^ 1 1 aS i.
$77 Mustadin SaaJi nel suo Ihsarum polticum riferisce che un certo re condann a
morte uno de^ suoi schiavi: a cui un suo cortigiano tent salvare a vita con una
men- zogna. Un altro cortigiano, iniquo
per carattere,, facendo rimproveri al
primo, gli disse che non conveniva ad un
uomo del suo rango il mentire alla presenza del * re Il re offeso da questa gratuita e inopportuna
mal- tf vagita. Ci pu ben essere, replic^ ma la menzogna che voi gli rimproverate, pia che la vostra
verit prege* vole^ giacch con questo mezzo egli procacci
di salvare la vita ad un uomo, mentre
voi tentate di togliergliela : tf ignorate voi questa massima f La menzogna che
/rutta un iene 9 i^aU pi della ^ferit
che produce un ,a danno (1). XX. La
verit si pu^ sacrificare al piacere tanto allor- ch ci si rende vantaggioso al
piacer nostro, come se si rende vantaggioso alP altrui. In quanto al piacer
proprio. Alfieri neg d'essere autore
bell'opera intitolata Del principe e
delle lettere ^ quando lo svelarlo avrebbe
prodotto un delitto di pi contro le lettere, nissun van^* u taggio reale
al pubblico, e sommo danno all'autore (s). XXI. tf Allorch poi si tratta di
verit che, dette ad u ztx, frutterebbero loro dispiacei^e senza corrispondente
(.1) N. Galateo y 4.' eduione milanete, pag. 387, (a) Del merito ecc. ^I, a3i.
Perch tante rettrizioni ? Il mtenu del piacere
semplicissimo di raa oatara. $fi il piacere V aniea re gola deir operare , basta che il
negare d^ etser antere d* un libro , ili cui si
autore, faccia evitare il dolore, apportando insieme il maggior piacere.
Il vantaggio del pubblico non pu entrare in que- sto sistema che come una cosa
piacetele al nostro bugfardo\ il quale se non ha il enso per un tal piacere,
chi mai lo potr condannare, mentre non c^ altra regola , secondo la quale
giudicarlo , se non la sensazione piaccTQle ? L^ introdurre adunque nel nostro
sistema il vaniamo del pubblico, lo scredita: pare che P autore ne senta l'
insof fidenza , e tenti d* inserinri ancora alcnno di qie^ vecchi prncipii
moraii proclamati da que' moraUsU pedanti ehe seguivano la ragione anzi che la
sensazione. Oput. FxL T. II. 48 37 u vantaggio, non v^ motivo di seguire la
masamai degli a Esaenj i (i) , che
facevano voto di prendere a^mprc u il partito della verit (a). 0) t^
merito ecc., I, 23t. Cai) Del merito ecc., I, aSi. Pereuer oerenti nel sistema
del piacere^ onrerrebbe dire i .' che se il dispiacere altrui a noi iodi/fn-eotr , in tal cas non c' ragione di
dire altrui pi tosto parole piaoerol che dispiaoevoli , pi tosto rere che false
: a.^ se il dispiacere attrai m. BOI
spiacevole, dovreno dire altrui parole piacevoli, tieiio poi vere
o-sieno false , questo indifferente :
3.^ se poi il dispiacere ahrui a noi
piacevole, dorremo cercar parole che altrui dispiaooiano , es* tendo
seapre indifferente che sieno vere o che sieno false , parche ottengano questo
fine del piacere. Questo terzo caso sarebbe
care l'altrui bene pi tosto che Taltrui danno, se oltre non fesser.
dannoM) il bene altrui, non ci altres
piacevole: a. che qaando egualmente
piacevole la verit e la menzogna, si debba anteporre la verit} e pure non
c^ alcuna ragione di far ci nella detta
ipotesi: noi non potremo \d tal caso nulli pi che essere indifferenti alVana ed
alPaltra. Altrimenti il dire che noi dobbiamo preferire il bene altrui anche
nel caso che egli sia a noi indifferente,
un tnpporr che il bene altrui sia rispettabile anche indipendentemente
dai pia- cer nostro: il dire che la verit, sopposta egualmente piacevole della
menzogna , si deve preferire a questa,
un ammettere qualche pre- gio assoluto nella verit, diverso dal piacere
t un ricadere in quel perfido
asceticismo che ammette un'altra fonte delle obbligazioni morali, diversa
affatto dal piacere, e che corrompe da tanti secoli U morale de' sensi, e
quelle dolci virt che colle bestie accomunano gli uomini. ^79 te L^oomo buono
scusa gli altmi difetti anche a spese ti della verit, allorch non ne viene
danno ad liltr y> (i). XXIL La licenza che accorda il nostro autore di poter
dire delle menzogne, comodissima. Siete
in tempi di per- secazioni? le menzogne (i) vi aiuteranno a acamparne. Eccovene
un esempio: Parecchi tra i primi
Cristiani, detti libellatiei^ imitarono CI in qualche modo la condotta di Bruto
^ ecco in quali occasioni. I governatori
delie provincia romane, troppo prudenti
per non combinare lo zelo pel paganesimo a col loro interesse (3), vendevano ai
Cristiani, in tempo u di persecuzione, de' certificati de^ libelli^ ne^ quali Questi govemator prudenti conoscevano asMi
bene la morale, d^ piaceri. ro- scrivere agli nomini- ci che lor debba piacere?
Non lo sapranno eaai stessi quello che a loro piacer ? E se a loro piacer , lo
faranno j altrimenti nessuno avr il diritto di ooslrngerli a far cbecchesaia.
L^ esser loro piacevole questo o quello,
un fatto, e non pu esser dovere alcuno: perci ognuno nel sistema del
piacere rimane nella piena sua Ubert. Tanta
questa libert, che alla fine il piacere stesso, quand'anche fosse una
persona in carne ed ossa, non potrebbe imporre dovere alcuno. La sua roce non
sarebbe che questa: a La tal u cosa
piacevole, dunque tu falla , se vuoi godere; ma se non ti tt cale di
godere , sei dispensato n. Ecco la roce di un legislatore di nuova specie:
VobUigatione morale in somma sparita; rimasta sola la inalinasione a ci che
diletta, che di natura sua resta in u> bitrio delPuomo. (1) Del merito ecc.
, I, psg. a33. (a) Perch mai il nostro autore preferisce la verit air errore ,
quando con quella si pu ottenere un utile uguale ? Forse perch la verit
ceeteris parOfus sia pi utile ? questo
escluso dalP ipotesi : abbiamo supposto egualpsente ultlt Terrore come
la venta. Forse perche la yert abbia un pregio in se stessi indipendentemente
dal- l'utilit che ne pu venire alPuomo, il quale la renda venerabile a
preferenza dell' errore? in tal caio il nostro autore assdereUie al piacere
qualdie altro principio morate ^ e contraddirebbe al fou^ mento del suo sistema
, la sentawme reaU, 383 a.* Che tra le
opinioni erronee, ia parit d^effieacia, u fa d'uopo scegliere quelle delle
quali impoisibile o qaasi impoasibile dimostrare la falsiti nella data
situazione u della pubblica intelligenza;
3.^ Che permesso ricorrere alle
accennale opinioni u soltanto n^ casi d'utilit manifesta e d'importanza spe '
ciale (i); Da ci segue ad evidenza (a)
che , siccome le idee erronee perdono
l'efficacia a misura che l'opinione publ- ic blica si illumina, perci non
conviene far uso nel se- tt colo XIX di quegli espedienti che riuscirono nel
X od XI
(3). XXV. Ma per abbattere maggiormente il pregiudizio de' teologi
pedanti, che suppongono esistere una distinzione morale fra la verit e la
menzogna, mentre non esiste che fra l'utile e il dannoso, e piil propriamente
fra il piacere e il dolore; sentiamo altres le ragioni con cui il nostro autore
difende la risoluzione del sopraddetto problema. Ecco quali t^Mit sono: (0 Prdi
Bei soli cui ^imporUuita speeialeT Se U verit non ]ia nulU di preferbile aV
errare iDdipendentemente dalPatile che apporta, egli ragionevole di servirti deirg. aSS e s^;.
Skxlie , perch i governanti possano mentire Uberamente, si richie^ i.^ che la
menogna sa olile a loro giadtxio, su** che non possano essere scoperti o
basMatL Ca) Questa massiba, non c^ meizo alouno, o oonTene rniet* lerla in
tul|a la sua generalit , o bisogna condannarla del tutto. I prineipii de!
nostro autore stanno per la prima sentenza, percii i.** il solo piscere il 6ne di tatto, e a.** anche la mensogna la
riconosce Sita apportare il maggior
piacere. (3) Questo il calcolo che ne fa
il nostro ntore : per altro al ConsaTi sar sembrato pi piactifoU il contrario.
In tal caso c^t potr condannarlo, te il baicelo del piacere gli riuscito diverso? ehi pu aspmre in sisiili
caleoli alPinCrillbilit f ' (4) IM mefii eoe, |, pag. nBS. (5) L^ onesto ci che si deue fare : l'utile ei che ^mee di fare. V*ha donqoe distiniSon
essenziale fra l*ntile e Pooesto: ed
falso ebe coloro che riconoscono (|nesta distniiryiie, dhnentiebino di
consi- derare che altro T utile
inoifBsnto/ieo ed altrt> flauro. Essi affer- mano che tutto Potile momentaneo
e di pi il futuro, losse pare di tat infier questa vita, nofi mUoritta nessuno
a tidre i ano do* Vere; questo dorerc po^ esiitere indipendentemente dal
piacere, per* 88^ fi kn^l&t tdativaoiCBt il progetto di temistocle, sul quale questi non vi)Ue spiegani che a lui
solo. 'Il pro getto di Temistoc^ ntilisaimo, disse Aristide, al popolo fi
adunato^ ma ifeigiustiaBinio. Si crede
di seorgeire qui^ K aggiunge Bentham, un'opposizione decisa tra Inutile t il giusto, e si inganna^ qui aftro non v'ha
che un con- fronto tra i beni e i mali.
Ingiusto una parola chtf presenta 1^ linipn di tutti i nali risultanti
da una situai ziooe^ in cui gli uomini
non possono pi fidarsi gli ni u agli alfri (i) Aristide avrebbe potuto dire: Il
progetta a di Temistocle utile al
presente, ma nocivo pel future^ ci
ch'egli vi d nulla a fronte di ci che vi
toglie (a). che il dovere viene di Una
te^e cti^ I^aomo riceve dal di fuori ^
die bon diverst dalla sua*
aen$aiione. Dico nari auaritia^ perch it dire obbliga sarebbe nna
eontraddizione ih termioi, secondo Tespres* sione de^ logici (O Falsa
defihitione^ ma tile ^ secondo ^il giudizio delPautor no- stro ! in fatti ,
ella ha per iscopo V utilit stessa. La definizione vera della itigiustizia ,
sebbene meno utile ^ giacche 1^ utilit
da essa lclasa in quel mado che nna essenza esclude Paltra, sarebbe
questa! Ingiustizia H tort*e fdUrui 5:'per esempio, levando to la
yita ad un uomo che passa con voi per una foresta, nella quale nessuno "Vi
ved^y nessuno vi scopre, Voi siete iogiusto, sebbene vi arricchiate impunemente
delle ricdhezze ond^ carico qucll^innocente viaggiatore. >, avesse potuta
dire a utile al presente, ma nocivo pel
futuro n $ una asserzione he non si
prova , ed oso dire , che non si pu& provare. In fatti il progetto di
temistocle era quello di abbrnciare i vascelli de' Greci tutti raccolti nel
porto Giteo, onde assicurare T imperio del marei e perci il dominio della GrecU
agli Ateniesi. Aristide esamin que sto progetto, e non fttrono gi le
conseguenze del medsimo che lo impaurirono : ansi egli vedeva che il progetto
poteta riuscire, e che poteva assicurare la grandezza di Atene. 9e egli avesse
temuto qual- che conteguenia fuifestat per Atene dalP incendio della dotta
greiia^ non v^ha dubbio che avrebbe parlato diversamente agli Ateniesi i egli
avrebbe detto loro: u 11 progetto di Temistocle ha a dir vero una utilit apparente^ ma In realt molto pericoloso, perch io M ben prevedo che
trarr seco delle funestissime conseguenze n. Ma- egli nulla di questo diste, si
bens: a Ateniesi^ nalia Ji pia atiia 388 XXVIII. T ha feto di pi& io furore
della falsila. Essa colkgaU s tKtUmcDtc;
col Utema del piacere, che u io rtrTO M progetto di Teaisloele, ma nnlU di pUk
Dgiiuto Il pretende che Ariftide dicesM
co^ non pereb Tette nn^idee delP onest, distinta esseniialmente da quella dcH^
utilit, ma tolo perch prcyedctse delle coniegueuM sinistre da quel
progetto, cos gratuito, come tutto ci
che si jUsume dalla storia per far serrire al proprio sistema colla tiolena
logica, propria degli uonni state- natid. Aristide in Ul caso ayreUe parlato
contro il sento eomape e oontro il valore comunemente attribuito ai Tocaboli.
Di pia, altre sono le basi da assumersi Tolendo gMidicare n pro- getto simile a
quello di Temistock, contrario alla giustiaia; ed altrt Tolendolo giudicare
contrario alla utilit. Per giudicarlo contrario alla giustizia , bastaya
rilerarc i.* che era un riolare la propriet altrui sema bisogno di difesa, na
per una anbiiionc d'*ingrandi mento; a.^ che era un Tiolarla perfidamente* AlP
incontro per giu-^ dictre che quel progetto fosse stato contrario alP utilit,
bisognava prevedere le oonseguense del medesimo, e calcolare, tconcSo In Te-
risimiglianaa , come U cosa sarebbe aildata a finire. Sono dunque cose diverse
T utilit e la giustizia, esigono nn krtn edcola e dipendono da diversi prncipii.
Io richiedo ancora se si sentirebbe in caso il Bentham, o U Gioia tuo seguace,
di dimostrare veramente che il progeUo di TemUio^U sarebbe italo dannoso agli
Atenies Per me io lo credo impossibile tanto pi che trattandosi di calcolare le
conseguenze di un>^peni- zione, opn si pu in nessun modo instituire una vera
dimostrazione f ma non si pu che fare un calcolo di mera probabilit: un
calcolo, che appunto perch non si tratte che di probabilit, ya riera in tenti
modi quante sono le teste che lo fanno : un calcolo, nel fare il qoale un uomo
forse si avviciner pi delP altro, secondo che possiede maggiore esperienza, e
maggiori cognizioni delle minute ciroatlanze delle cose e delle persone ; ma
che si pu per sempre francamente asserire, essere superiore a tutte le foi^ze
delP ingegno umano ritro- yarne il risultato certo s perch nelle cose future
contingenti vi tono tempre delle circostenze occulte e nascono teli accidenti
impreye- duti, che fanno trovare poscia in errore i pi grandi cakolater. Per
tei modo il pretendere che V uomo trovi ci dhe
giusto mediante Il calcolo di ci che
utile, un piretendere P
impossibile : nn yo* lergli far prendere
una yia interminabile, quand'anche queste ci fisse e menasse allo stesso
termine, in vece d^una comoda e breve^ Il so- stituir poi alla giustizia P
utilit, oltee che un annientar quella
fino nella sua essenza j ancora a
abbandonar gli uomini a tcguira 38^ secondo ijuesto aiateifla, in essa che coesiste la ^lA b^a parte della
morale , e la pi umaua viiit. ei giudifi Tarid>ilMiiii e faHaeftsimi, i
quali DOn potrebbero in alcun BMdo atcre in a ci che si richiede per formare
qoaklio iihh rale auCorit. Ma di nuore, e non poteya forse rlascr ntile afii
Ateniesi Pn* giusto progetto di Temistocle anche in futuro? Chi mai presume di
veder tanto nel futuro da poter affermare indubitatamente il con- trario ? Non
T^ ha dubbio , che i Greci da quel fatto sarebbero stati degnati. Bla c^i pu
assicurare che non s fossero potute rinvenire delle vie per calmarli 7 Intanto
la fona sarebbe rimasta tutta nelle mani degli Ateniesi : in questo Aristide
era d' accordo con Temsto* eie: agli altri greci non sarebbe rimasta che la
ragione diMumaim, HM-Vepiniotu stessa chi pu affermare che non si fosse potuta
divi* dere ed elidere col tratto del tempo ? Chi pu dimostrare che gli Ateniesi
non avrebbero potuto inventare qualche pretesto specioso, cbe tirasse molti a
dar loro ragione ? Supponiamo che avessero dt- iliiarato di far ci per loro
difesa , per difesa di tutta la. Grecia con- tro la prevalente potenxa degli
Spartani , che erano alla testa della fona navale. L^ odiosit gettata sopra
questo popolo guerriere ed aspirante anch^egli realmente al. dominio delia
Grecia, ben colorita^ resa verisimile con dei fatti interpretati astutamente ,
con degli aned* doti inventati I con delle parole equvoche raccolte e
interpretate aalisiosamente dagli Ateniesi $ non avrebbe egli potuto diminuire
in gran parte l'esecrazione del tradimento i se non fors'anco eangiailo in un
pubblico bene6zio ? Sarebbe egli assurdo che gli Ateniesi dopo quel fatto
avessero mantenuta la loro prevalenza sopra tutta la Grecia a quel modo stesso
che la mantennero i Romani, pubblicando aolennemente a suono di tromba la
libert greca, e facendo ricevere il beneficio della medesima dalla magnanimit
de^ vineitori , o pi& tuiiii ingiusfina universale. In fatti un
principio di natlun toa umventolc: ora
cangiata nello menti degli nomini Pidettdella ginetii in qneli deHPutilitii,
deve nascere nna teoreta dMtnza , e m qocHo stalo che presenta p V unione di
tutti i mali risullaAtI da na titnaaioney in cui gli u^k* ^ mini noti pottono
pi fidarsi gli noi agH altri w In- tal caso il t- ftlk# th^iHitU e ingidit,
findi^^tepMido i printipq di'cgla sto iMc
il dmpo dcHa monle nwoM (o.* HI),
diJTc- rcmia deUa bestiale ^ giacch le bestie smo melasse nel mondo
reale. L^ illusione apporta on piacere immensamente pia grande della realt \
perci egli evidente T importanaa della
il Iasione sili nostri doveri, i quali tutti consistano nel ten- dere al
piacere. In itti vi sono paracelHe
aitnasiomi d^aaimo e d'ii- telletto ,
nelle quali talvolta Pinten'sit delle idee vere
u minore dclP intensit delle opinioni erronee od afTenoDi coQtr^e
(i). Ed abbiamo gi veduto come ci che ffimpaginaaiane aggiunge alla
realt delle cose, aia immcn'r aKrb" consiste la ntntna dignit, tanto
superiore alla dignit Bestiale. XXIX. Nel sislema morale del piacere , tanto
adunque kmgi che si debbano distruggere
k fidsit, che anai non ai deve se non ae occnparsi ad aoeiescere le falsit ^ta-
ret'ofi facendo goerra solo a quelle che sono piacem^li, It piacere i di sua
natura individuale (a): Puomo sa- riebbe:. un perfetto egoista ae non avesse
qualche illusione Misoet cgK ha ia M il geroM del proprio anlb: e rotilitk ,
dopt aver liflnitU la giaatiiia, laogi .dal poter godere delP morpoU ti- muiu,
dtmgge kimansiite te laedetiiiu: aa rende tino inpot* Jibile la propria
eitoUnia. L^ ammetterti dal aotlro autor la menwogmm come atile in akeoiM aai,
e lo tabiiint il ealcolo deVutilit per prDcpio della morale , dimoitMcbe egli
parla deiruii^ii raodiua dentro a^ limiti deU vita preaeDtej giaoekae &
trattarne delb futura, non ai narrerebbe air utilit per eonoaaece oi ebe giuttOy ma ai ricorrerebbe aOi ifiattiaia per
ooaotceic ci obe utile. Ho aggiunta
questa dichiara^ mone a si lunga aola per togliere altrui apcbe la voglia di
cariUare. eiiti iiB't|ipareiiza che noi rispettiamo gli altri coitar /&t|
ina ella non che apparrnia) in fondo noi
non possiamo nella teoria de^ piaceri che considerar gli altri come mtzii :
essi rispett a noi non sono propriamente persone, ma cse. D** altro lato il
nostro au- tore sembra oooTenire in pi luoghi , che si debba considerare come
un assurdo morale riguardar gli altri come fossero cose e non per^ sohe. Ma chi
pu indovinare che cosa egli intenda per persona ? le bestie possono certo
aspirare alla personalit : nac non differiscono che in gradi dair uomo. 0)
Distrutta in noi ogni altra fonea f eccetto il piacere , non resta he una
orribile idea delP umanit : la feroea dei ragni
ben poco a confronto di qiiest^ uomo umiliato dalla filosoGa. Tale idea
triste e desolante quella che presenta
dell' uomo il Mostro autore. Ma dopo ayer cosi avvilita V umana natura , sembra
che si compiac- cia ad insultarla aggiungendo alla sua similitudine del fagno
queste parole: u Sema calunniare la -natura umana si possono spiegare i 4 pi
generali fenomeni del mondo morale^ eombinando P azione 4 degli interessi
personali col concorso delle, circostanze esteriori ; ecco come : if Due galliae
amorosissime ilatino in una capponaia : finch^ io pre- t sento loto della carne
in modo che tuttaddue riescano a pascersene 4 a beir agio , restano tranquille
, quiete , amiche , attendendo eia- 4 scuva ad empirsi il gozzo a pia non posso
: ma se io presento la 4 carne da una banda ed in maniera che una sola gallina
giunga a u beccare nella mia mano ^ quella che ne rimane priva , picchia col 44
becco r altra e tenta di caocia*rla per eollocarsi al di lei posto. S^io 44
torno colla carne nel mezzo della capponaia, le galline si mostrano ft di nooTO
tranquille , pronte per ad inimicarsi s^ io ritorno colla 44 carne ad un
angolo. Eoco gli uomini : essi sono nemici quando un *4 solo pu corr il
vantaggio cho molti vagheggiano, e tornano amici t4 quando il campo resta
aperto egualmente a tutti n (^DW ingiuria^ dei danni ecc., II, 3iS). L^ amore
che possono avere que^ losofi che a principio della mo- rale hanno il solo
piacere, e Palnora di qoeste galline! Se volete ancor meglio conoscere la
natura di un tale amore, aggiungete al fiero istinto dei cibo delle galline
Varnhizionsy la vanit, V amore delle ricchezze, r avidit in una parola de*
piaceri illusorii propri delP uomo , co^ quali questi sopra le bastie si eleva
\ e voi ben vedrete , come gli. Opasc. FU T. IL 5o 394 (( ragni che corrono
addosso a qialiiii. (3) Qui il nostro autore va negli astratti : la Jbrza
pubblica non pu essere che una collezione \for%e private. La forza privata
ossia il piacere, unica forza morale^ pu tendere al bene altrui -per va- nil per compassione istintiva ; in questo caso
sembra che il no- stro autore la chiami^orza pubblica. Ma se altri non avesse
il pia- cere della vanit o della compassione, chi gliene far un dovere?
nessuno: perch il dovere non emana che dal piacere: se questo non c^, il
legislatore assente, o dorme, o al tutto
non esiste. il caso in cui ajbna
sottentra al diriho , come vedremo pi a basso. (4) DeW ingiuria y dei danni
ecc. , II , Q17 , 3f8- La vanit qui rf suppone che sia diversa dalla virt. E
pure questa vanit utile. V^ ha dunque
qualche virt diversa dalP utile? v'ha qualche C019 nella vanit di deforme ,
anche quando ella apporta delle utili con- seguenze? questa una di quello tante confessioni
involontarie, colle quali la ragione smarrita ricomparendo nel nostro autore ,
dichiara falsa la sua teoria dei piaceri:
in tali confessioni , nelle quali per XXX, La aoit qd* illoaioDe ntite^ ana neccamii, pcrcb V
uomo tia Trtuoso dcI sistema del piacere, cio
acciocch sottrigga qualche cosa al bene penonalc a tf vantaggio del bene
pubblico n (). L'autore dice, che la causa per la quale le fanaioni dell' animo
possono essere egualmente aggradevolt che quelle del corpo , si rifonde nel piacere d'essere applaa- a
dito, ammirato 1 ricompensato (a): di
che la virtA che uiometiti ifag^eToli la ragiru riprende il posto usurpatole
dal pia ceref che il nostro autore
accomuna coi teologi pedanti e coi jbo- rmlitti ciarlatani. (i) Dicendo
u i sentinenti rirtuos, o sia le sottrazioni al bene u personale a yantaggio
del bene pubblico n (^DcW ingiuria It, ai^^, sembra che il nostro autore non
riconosca virt nell'uomo indlT- duate, ma solo ^elle sue relazioni colla
societ; il che ropinione di Elrezo.
D^altro lato egli d dei doveri all'uomo disfiafo dal cic- tadino (Elemtnti di
Filosofia y II, ao8 e segg.); e airabitttJine di eseguir dei doveri sembra che
non si possa negsre il nomi? d tnri. (^Jtfiy pag. 31^. Questa contraddizione
non si pu spiegare ae non col sistema del nostro autore : utile di adoperare il nomerai doveri e di virt
in sensi diversi per imJ)arazzare il le|tore e persuadergli dei sofismi utili ;
dunque questo un dolere nella morale
della utilit. (a!) Elementi S Filosofia, I, 189. Sebbene qui riduca tutti i mo-
tivi , pe^ quali V uomo ama d'*aoqustare i pregi delP animo u nel pia- cere d''essere applaudito, animato,
ricompensato , tuttavia altrove con una felice incoerenza riconosce la fona
delPidea astratta della giustizia :
Portare l'idea astratta delia giustizia a tale ioleosit che a riesca a
superare le forze associate della vanit, del P ambizione, dell'interesse, delP amore della vita, un Jhnonuno infinitamente *t raro , e che
solo air influenza abituale della religione pnossi attr- u buire e delP onore n
(^Del merito ecc., I, !i79)b Se alla parola gin- clizia non si annettesse che
l'idea del piacere; questo periodo non avrebbe alcun senso: la vanit , P
ambizione, l'interesse, U viCa, in quanto soho accozzati insieme per modo d^apportarc
il maggior pia- cere, sarebbero gauiixia. Potrebbe per darsi che sotto la voce
di giustizia intendesse il nostro autore un' illutione, una cJUmera for- nita
di un piacere suo proprio, diversa dagli altri piaceri: il anppor ci l'unica maniera d conciliarlo con se stesso,
ma noi non v^ , gliamo abbracciarla. 397 . nasce dalla morale del piacere 'laminosa, perchi. sarebbe impossibile di
operarsi alP oscuro (i). L^ illusione della vanit per tal modo base della virt I.* perchi accresce i
piaceri, a/ perch un motivo ne- cessario
deir umana benevolenxa: 1.^ tf La somma delle sensazioni aggradfveli che
la natura ha destinata alPuomo, non eccedente; quindi M in vece di censurare t
modi d^ accrescerle (a) , conviene u lodarli. La vanit sa corre queste sensazioni
si da og- u getti di nessun valore come da oggetti d^ valore aN u tissmo (3).
a.* La serie degli ornamenti che va
riproducendo co* staotemente la moda ,
presenta perenne occasione di la* (0 L^ illustre autore delle Osstrytmcni sulU
MoraU CattoUca 'parlaodo d ci che narra l'anonimo che tcrase la Tifa d^ElTezio,
cio che queati disse al suo cameriere, testinionio d'alcuni suoi atti
benefici, Vi proibisco di raccontare
quel che ave^e veduto , anche u dopa la mia morte n\ soggiunge Qaestai scrittore non ricorde- * rehbe una
tale ciroostania se non fosse d^ opinione che la Tolont u di celare i heneficii
che si fanno, una disposiione Tirtuosa.
Essa tale senia dubbio; ma nel sistema
di HcWetius impossibile das- u sificarla
fra le virt n. Il Gioia stabilendo che nella finzione, se questa ^ piacerote,
possa consistere la virt, c'insegna un modo a noi molto spiaccTole
dUnterpretare la modestia d^Elvesiot egli Ter- fobbe a Csrcl credere che
TElTeiio fosse Trtuoso in quelle parole per averle dette aocioochc poi fossero
pubblicate e fors^anco regi* trate, come furono, nella sua vita. (a) La
sentenza assoluta e illimitata, come
quelP altra che di- chiara buoni egualmente tutti i mezzi, purch acconoi al
fine, il quale il piacere. Osservate che
il nostro autore qui si appella alla natura^ e che egli solo ha il diritte di
questo appello: a^ suoi avrcr- sarl che qualche volta osarono di appellarsi pur
essi alla natura , egli rispose oo|i u Ignoro profondamente cosa sia la natura
, e mi rido de^ suoi dettami, quai
ch>ssi sieno h ( Teoria dei Divorzio ^ pag. ay ). V uso della parola natura
in sua bucca com fri'qnente come quello
di filosofia: la natura stessa, la filosofia slessa in persona, che parla per
la bocca di tale che rinnega la natura, e che estingue la filosofia. 0) I{
Prospetto delle Seienze economiche, T. IV, pag. ^. 398 voro a pi arti e nestiert. Le persone
superficiali non tf veggono che la causa della dimanda^ la Tant (i}^ ii filosofe che segue questo' movimento ne' suoi
cffetd, ac- certa (n) che se il ricco
non fosse vano, il povero mo* rirebbe dt
fame (3). Laonde u in. delicatezza degK
u oggetti consumati, o la inanit in chi li consuma, non le olirono motivo di
censura, e la parola lusso aoa pa- ce
rola insignificante (4)* Come osserva elegantemente Rayna)*; il
travaglio della u fame limitato come
essa ^ il travaglio delP ambizione
cresce con questo vizio stesso
(5). (1) Se la vanita non fosse male, giudicata secondo i prncipi del
senso comune , si potrebbVIla condannare anche vedendola sola ? e sVIla male, potr scusarsi pe** buoni effetti ? E
nelt^uno e nell'altro caso sarebbe un confessare che ella ha nna deformit in se
stessa, che ella male; i) che nuocerebbe
alla filosofia del nostro aatorcf come quella che autorixzerebbe il male. (q)
La filosofia del Gioia nmi sa dubitare: egli vi' accerta che tatto cb che a Ini
apparisce vero , indabitabile. (3)
If/ProMpetto, IV, 93. Il nostro antore non distinguendo, o al- meno non potendo
distinguere senza contraddirsi, gli onori dal giusto o dair ingiusto, ma solo
dal piacere e dal dolore, suppose cke tutti egualmente sieno cagione di un
piacere che egli chiama con nome generico di vam'fd M Non dimenticando, egli
dice, che qualunque a ricompensa pubblica porta seco un sensibilissimo piacere
di vanit, u perch ci rende oggetto degli altrui sguardi, pensieri e discorsi, u
andr svolgendo qurlle aggradevoli sensazioni fisiche, colle quali u \
legislatori tentarono di trarre a se la Tolontli de"* popoli e di ft
convalidare P azione della vanit con quella de^ gusti sensuali n (^Del merito
ecc., Il, i83). In alcuni luoghi parla con dispregio de- gli uomini vani, e
della Tanit: si concili egli con ae medesimo; che noi abbiamo tolto ad esporre
le sue opinioni, quali sono, e non a conciliarle insieme : Frigida pttgnabant
calidis , humentim siceit . . . (4> N. Prospetto, IV, 57. (5) Pel Gioia massima assoluta questa 4umrRto di lavro uguale a decremento di corruzione (iV. Gal,, pag. 174). Quindi rambiiione la madre della virt, e nella teoria del
piacere le mas- sime morali sono le segueqti u Quanto siete ambizioso, taOto
siete (f sioni che seducono $ perci a
filo^fia non pu biasimare la brama di
stima pubblica , la quale sostituendo alP interesso naturale lau- a guentc, un
interesse ariificiaU pi sensibile e pi costante, diviene stimolo airesecuzione de^' doveri, fonte di
servigi importanti, osta- u colo a mali innumerabili n (^Del merito , I, 245).
Secondo il nostro autore , perch noi operiamo costantemente il bene anche in
que* casi in cui noi vediamo connesso col nostro in- teresse, fa bisogno che
succeda in noi un inganno utile, ed ecco quale : u Siccome P avaro comincia a
ricercare Poro pe* beni che rappre-
senta, poscia, quasi dimentitando i beni, ricerca Poro per se
stesso, e la sua fclicitii cresce o
decresce, secondo che crescono o decre* u scono le raccolte monete ; cosi nella
roerca della stima , anehe non ti vedendo distintamente i vantaggi sociali che
la seguono, rt^stiano che le imma- gittate:
'Qaanto si mMtfa man y tanto pi
bella * ^ a giacch la ftintasia , allarch inuDagina una cosa , la veste , l' additia di tutti i pregi , e si
compiace a co- u lorirls -) n questo succede quando la fantasia si trova (f dai
limiti della realt circoscritta : il perch Ltcui^ , ti il quale voleva
diminuire il potere delle donne tair a-
nivM degli nomini, permise che qaelle dannssero ignude. tf Il qaadto d' Aczione, che rappresentava le
nozze di u Alessandro e di Rosane, ed in cai vedcvasi Efestione che u portava
le faci d^lmeneo, quindi Imeneo stessono finalmente una trba d'Amorini, alcuni de' quali intomo
alle armi u d'Aiossandffo scherzavano, mentre altri sollevavano il velo di Rosane , e parte de' suoi vesti coprivano
e delle sue a attrattive , questo quadro , dico , inebbrio V animo de' tf Greci
di pia voluttosa sensazione , che non il quadro d tf Parranio, il quale
rappresentava Atalanta immersa nelle pia
sozze dissolutezze dlie donne di Lesbo
(i) XXXIV. Una finta pudicizia ed un finto pudore nella morale del
piacere deve raccomandarsi alte donne non solo pel piacere degli uomini, ma
anche pel maggior piacere di loro medesime.
In fatti la donna Ai dalla natura dotata di tali sen- tf timenti, che
vuole unir l'nore della difesa al piacere
della sconfitta: tf La donna , come sai , ricusa e brama n (a). (0
^' vincoli di fa- ci miglia^ gelosia di
possesso, e Parte della, civetteria o (^Esereizio logfc, pag. i53). CO iV.
Galateo, pag..i53. (a) jy. Galateo, pag. i5j| 16^ I|ifQitr9 aqtere insegna alle
dqnpt i loro interessi , ossia la morale ben di frequente nelle opere sue. Nel-
l'opera Del Meritq ecc., I, 3o5, cosi ripete u Sarebbe desiderabile che u tutte
le donne intendessero gPinteressi della loro uttnit come Pop> pea y la quale, secondo P espressione di
Tacito, si mostrava tfelata parte orie,
ne eaiiaret aspectum fel quia sic deeebaL Le donne che svelando tutto allo sguardo escludono il
gioco della fantasia , btWingiuria, ilei
Janni ecc., II , 137. (a) K. GaiaUo, |m^ 1731 173. 4o5 tf Le TDYetixioni della
musica e della pittora, per essere u finte ed illasorie, lasciano forse d'essere
piacevoli f. Producono lo stesso effetto
le invenaioni della moda cr I fior che
adornano i cappelli , i nastri che agita il u vento , crini che scherzano sulla fronte , i vrl che
i datori. u SopDopeie un uomo yelU akeMaf:Cfi)tiMq9,JWNK>nfre, per a
esempio, un c^o^ero odl'altioio spq j^eijoda Iq questi pfj|i Je it medicina
iion si permrtte altro. che l'uso dell'oppio in dosi, gene- rose.
egli permesso fare qualche cosa di pi ? u Considerata l caso entra i
HimH d^ rapporti sociali , Inatto 'che u troneaaa la vila, sara|>be,
oaU^eMitto, uguale a oriiaiAeDe 'dl^toic tt nel paziente e orali aslaot^ e oeUa
q^fMik MHf^ y^\f^ ^V ^^ u che taglia on braccip spenato od. infetio ^fiel asrtto.c^c, I, 236). La limitaEione
posta entro i lfttU de* rappfifU sociali. t sup^prfloa, i.*^ perch la virtii
non isr clie ne^ rapporti sociali, a.*^ perch la ragione che si d un oalcdio
piaceri e' tK idofOri, a eoi tutto 'dere cedere, e in cui tutta la
morale consiste, la rnora}^ inlad del 'no- stro autore. L^esempio di ci che ai
fa colle bestie troaca fiaalmcote ogni questione. In fatti unMngioria tuatti^? r.ilWi^^Qma aj grattano i
bruti, per esempio come uo bufi perch, qgli fiOii .multiplo nel aup Talore di
un apimale bru(o), bisagoa' tratlnvlo 9ome cfU fosse uo dieci buoi, un mille
buoi: t^n h\fQ\p^, ^ c^gpne. d^esfipD dif- tt ferisce come 10 dal boa che tira
rimira nnf^^V?- >l profcssfire dif- tt ferir dalle stesso animale
cpme>ilOQAr (Jteif ftfgiuri^ t dfs' dan- ni tee, 1, 34X Ma quesU 4iffereo;|a
oan foglie. c^e^i p^i^a af^ic^re all'uomo quella ragipqe per Ui quale.
s^^pimi^zaoo ihrut f:rili a morte: anzi quella ragipne di^eoM^ pirfor|enpes
i?uof|io c|ie.equi- rale a io, e talor ^ncb* a ioeo,l^>i^ti. i.r ., . ; ... Jn.tal modo meiaa in laeiftpr.P9flt|.l9 digpi|^- oimo^ !
0) Teoria ci$^i^ f pejifdf 44, 49f7m \8f S5- i . ' 4o7 li divorzio latokindo* k^sflbHttM U potosa i
gasCare attri jpieeri fisici >
faorlt, deVe ^slir- un fondo tl^m^ K mortiztazioii ^^ Vaghi ed '^rriMti
d^es&drii che li ri* u coreano (i).
XXXIX. Ed infanS ottd' (tei pacire equiftito de' priu iatati tV Unione nfeariul
? Prtacipalmente dalla illuskim'e. ' L'
allegrezza attaale degli sposi novelli
prodotta te dalVillusione della speranza (a), la quale promettendo a,
loro una felicil indefinita , impedisce alla fantasima di scorrere soUe Aoie, suHe dissensioni, sugli
odti che te segaofto costanteBienre il matrimonio inissoliAile (3), (X) Teoria
duiU e penale del divorzio^ pag. 62. Qiyi\ sistema delP illiisione della
speranza qaello in cui neccn- saramente
eade V uomo clip abbandona la giustizia e la yerii, come ho mostrato nel V
degli Opuscoli fllosfici. Ugo Foscolo e Melchiorre Gioia sono verniti a!
mededmo centro da due vie dlverse: il primo seguendo Hobbes, fi secotfdo
ElVezfo. (3) Quando si supponga Aie due sposi non possano esser congiunti dhe
dal piacere e* ensi , 10 ^daTle illusioni dlia fantasia; qnando non ai conosca
quen** unione indissolbile che nasce fra due esseri morali da un sentimento
doveroso e veram'enUe morale >, il quale santifica tutti gH altri legami, e
che rendendo le persone giuste, le rende in* sieme infinitvaente l' una afl''
altra rispettabili e care , le rende forti a sopportarsi quanto sollecite a
prevenirsi, e )e rafferma in una ele- vata ed invariabile volont di stringersi
ognor pi insieme co^ bene- ficii : questi, privo della cognizione di un fatto
importante della na- tura om^na, deve necessariamente discendere nella sentenza
, che V odio segua cstantemeMe alP amore negli indissolubili matrimoni , e che
le noie e le dissensioni succedano ai piaceri ed alla pace ap- parente prodotta
dalla novit dei piaceri. L^ illusione svanisce di sua satura , il piacere manca
: i due sposi sono sciolti per P essenza della eosa , se altro non era il loro
vincolo che il sensibile godi- ineniOa Che cosa
in tal sistema la fede coniugale ? Un effetto del pia* cere, o per dir
meglio il piacere strsso. Quand^ he ^Jelicit de- $ gli Sposi ( dimanda il
nostro autore ) e quindi la fede coniugale u gtmgotto 1 maximum ? Quando
l'amore vivissimo, a me sem- u bra.
Parimenti , pare che V una e V altra languano e s* estinguano u a flusura che P
amore si rtifredda e s^ annienta.
Siccome legge 4e8 L^ illuMone dIU peraasa po paragoatrsi
all'UlwioiK dell^ occhio, il quale
riguardando da lungi un peata ia
prmavcra, induce ranimo a crederlo una anperficie con* tf tDua di fiori
senza permettergli di pentare alle erbe u molto pia numerose che sono loro
trameazo (i). Se fra gli sposi in fatti non v^ il saldo glutine di una virt
diversa dal piacere, come pretende la ciurmaglia del coor umano che T amor*
vada lanf oendo , languir dunque q- u che la felicitk , e quindi la fede
eonlugale n ( Teoria eunU e fM- naU del dit^or^ pk^ 6S, 64 ). Se non T^ha alU
fona che M ^Mccre, aita a tenere uniti gVi i poai , il raiioctnio giuatMinio : ma se si Am- mette che oltre il
piacere t^ abbia la coscirnsa del proprio dovere, in tal caso si spiegher un
fatto che tutto di avviene fra i coniugi buoni e cristiani, cio, che sebbene
fra di loro seeniino i piaceri sen- ibili col progresso delP et , tuttsTia si
r|^forti T attaocarocnto e la fede mutua , e cresca P unione de^ loro spiriti
talora io ragione oon- irara appunto a quella de^ corpi : come pure qoesO altro
fatto, che V amore ^it^iatimo delP et giovanile non sia punta scompagnato da
in- fedelt. Ma nella supposisione AA nostro autor^ che, scemando i pia- ceri,
debba scemare la coniugai fede, egli tro?a utile il divoreio, perch alla
mancanza di frde rimedierebbe, fino ad un certo segno, ooP im- pegnar le donne
a MmuLare per interesse quella fede che non hanno nel cuore: u II div4irsio,
egli dice, le costrnger a regularsi aeoondo f i prncipii d^ogni calcolo
commerciale pagare per avere del ero- u
dito esser vero per ottener oonfidensa servire per essere ser- u Tito n (^Teoria e.
e p. del dwartioy pag. 5o). Infelice il giovaac marito , persuaso di una simile
filosofia ! egli non creder alla fede della sua sposa che oome crede alla
durata de^ suoi gioranili piicert Egli sa ci di che il nostro autore tanto
istantemente P avvisa, che tt credere alla perfezione delP oggetto amato,
credere alP eternit della passione che
si sente e che s^ inspira, sono illusioni perdo* u nabili a due ragazzi
nell^accecamento delP amore n ( Teoria ce p. del divorzio j pag. 19): egli
oonchiude dicendo a se stesso: Ahi questa bella yeiie costante non e diversa da
questa illusione fugace! Dispre- gevole oggetto che alP occhio di questo filosofo una sposa piena
forse delle pia sublimi virt e per una eterna bellezza morale ama- bile oltre
il sepolcro! una sposa che sarebbe custodita come un og- getto venerabile sacro da un marito probo e religioso non addot- trinato nell'abbiczione di tale
filosofia! Certo se il divorzio potesse giustificarsi , egli sarebbe per la
spasa di un filosofo materiale \ (i) Teore^ e. e p, del diyoro, pag. 33. e'
moralisti (i): se il solo piacere ci che
pu tenerli insieme^ egli i evidente che l' unione verr a mancare allo scemare
della piacevole illusione che gli occupava, il luogo della quale pronta occupar
deve la noia. L'esperienza giornaliera
dimostra che il poeta aveva ragione
allorch disse: . Ca) Nella teoria morale del piacere non si studiano gi i fatti
per istabilire un diritto, ci che fu rimproverato a Grow noi non po- siamo
passare una linea oltre de^ puri fatti: essi sono tutto, perch tutto il piacere y e il piacere un fatto. Fra le ragioni, onde T autor nostro
commenda il divorsio e P eco- nomia $ perch cosi egli ragiona: u l fisici e
morali appetiti (dei ma- tt rito annoiato della sua moglie ) non soddisfatti
coniugalmente, ri- ci chieggono una secondai spesa per soddisfarli con unioni
fortuite > ( Teoria e. e p. del ditnir. 9 pag. 9 >. Questi appetiti moraU
che hanno bisogno di unioni fortuite per essere aoddisfatti, fanno ben intender
quale aia V idea della moralit che ha il nostro aatore. ^1. scrivesse le donzelle , le levatrici , le
edueatrici , le co- u nosceaze , le amicizie , le parentele . . '. Dunque
noa potendo la legge impedire il
concubinato, deve sancirlo 0 tollerarlo
soltanto (i). Aggiunge che unb fra gli altri bni del concubinato sarebbe
quello d^ iniziare molti ce tf libi al
matrimonio, e di ritenerli fors^anche a vita y> (2): iniziamento santissimo
a ricevere un sacramento ! XLI. Conscguente alle sue idee V autor nostro fra
gli altri fonti di secure. noti aie , che suggerisce a^ giovanetti, indica le
donne prostitute (3). XLII. Stabilito che la morale deve ndtirsv tutta al pia-
cere; che la venti non ha alcun pregio se non relativo al piacere ; che la
falsit preferbile , quando questa si
reputa di magi^iori piaceri feconda; finalmente che, la mag- gior parte de'
piaceri umani trovandosi neir indefinito campo delP immaginazione , la
illusione un fonte infini- tamente pia
ampio che la realt , di piaceri e di felicit per gli nomini: tutte queste
dottrine, l'una colPaltra in- dissolubilmente congiunte, da noi stabilite e
fermate; re- sta a ve4re in che modo si faccia Jl calcolo de' piaceri , per
rilevare in ogni accidente della vita, qual sia la somma maggiore che di essi
si possa ottenere. NoQ esistendo al mondo che individui , questo calcolo non pu
esser fatto cbe da individui : quindi egli deve riuscir diverso, secondo che
gli uomini hanno pi 0 meno di abilit nel calcolare, e massimamente in certi
casi difBcilt. Grave a la difficolt def
calcolo allorch vogliamo tf confrontare beni e mali s per intensit che per
specie M diversi, giacch sebbene tutti si riducano a sensazioni dolorose 0 piacvoli, ci non ostante non cosa agt*
vole il porli in equazione. Un giovane lacedemone si spezz la testa piuttosto cbe abbassarsi i
servigio degli schiavi ; eguale calcolo
non avrebbe fatto un Perdano ^ (.1) Teoria e. e p, del divorzio, pag. 187, 188.
(2) ivi, pag 189. (3) Elmmti di filotofia ad ma de* gfd^anetUf T. I , fBg. 9$*
4ia e i Romani al Mmpo d^Annitek
calcolavano b^i djer u sameote che al tempo d^ Alarico (i). Quale avr ragione di questi diie? chi ha
fatto meglio il calcolo i^ Poieh questo non pu dipendere che dal gtado di
piacere e di dolore^ e poich v'hanno de' piaceri m- maginarii come de' piaceri
reali, non si trova nna tegola onde poterlo giudicare, altro che il gusto de^
singoli: ae al Lacedemone fu pi piacevole quell'atto di estrema fierexza che il
vivere, ebbe tanta ragione, quanta n'ebbe il Per- siano, al cui gusto riusci
nullo il piacere di quell'eroismo^ e piccolo il dolore della schiavit verso al
piacere del vi- vere E di vero il pretendere che gli altri si conformin ai
nostri gusti, un assurdo nella teoria
de' piaceri: bi- sognerebbe che potessimo mutar loro gli organi corporei, la
memoria, l'immaginazione, e le altre facolt clie dal l'immaginazione procedonp.
XLIli. Quello che certo si , che
ridacendosi tutte a le determinazioni degli uomini a cambi di piaceri e di dolori
(a) , nessuno pu avere per fine altre che se stesso: il suo doyert (3)
non pu consistere che nel pr- CO EUm, di fi, II, ali. (a) DeiV ingiuria^ dei
danni eoe. , T. I, pag. xiu. (2) Kitengo la parola dovere, perch il DOitro
autore troTa utile di tenerla. Per altro, secondo Posserrazione gi d^ noi fatta
altre Tolte, questa paiola non ha senso nella morale del piacere. In hti cbi
di- cesse questa praposition L^aomo
det^e acure il piacere , e si volesse esprimere eon quel deue un dovere morale
, si potrebbe ri- spondere cosi u Come provate voi che l'uomo deve seguire il
pia- cere, se il piacere solo Punica
forxa che determina l'uomo? a La vostra proposizione, sostituendo il
significato ohe .date il db- tt fere, s? potrebbe tradarre in questuai tra: a
L'uomo ha il piacere tt di segnire il piaeere , il che un nen-sensor O dovete adunque u cettre la
ragione del doverfuri del pi4u;ere: o pare dorete oon- u venire che perdete
ogni diritto di usare una parola, a col voi nos ce annettete alcun senso
diverso dal piacere stesso 99. Forale dunque convenire, che ogni qual volta il
nostro autore usa la parola dx^en, egli pronunzia nna parola o^ata e rispettata
, a cui sottrae colla tua teoria ogni significato,' e colla quale egli copre P
estinzione di ojni morals e ranQuliomento fino della psfsibilt de^ doreri. 4i
caccarif i maggiori piaceri de' senai , e ctnsare da si piik ch'egli possa i
doleri corporei. Se per non vi pai essere an cakolo fisso e generale dei
piaceri e dei dolori , a cai latti gli nomini si debbano conformare; giacchi il
giudice di questo calcolo ciascano lo porta ne* propri organi e nella propria
immaginazione: e perci se non si d ana legge sola morale , ma altretr tante
quanti sono i gusti e i capricci umani; potremo al meno esporre quale sia il
gusto particolare, in questo fatto, delP autor nostro , quale il calcolo ch^
egli arriva a fare coir acume del suo ingegno sul piacere o dovere (percioe* .
che queste due parole riescono sinonime ) degli uomini. XLIV. Io posso avere
dei piaceri e dei dolori tanto da me stesso come dalla societ d^li altri
nomini: il -calcolo sui piaceri e sui dolori che posso avere da me stesso , cio
dalle mie facolt, produce que' doveri che s possono chiaM( 44 XLVI. la qoante
al primo, cioi ad accrescere le pr* prie facolt, ^ la sanit la base di totti i piaceri; ie ma- le lattie
sono fonti d^incessanti dolori. Senza la sanit, tatti u i beni altro frutto non
danno cke il dispiacere di oon u poterne godere (i). tf La debolezza del corpo
trae seco la debolezza dello e spirito, la pusillanimit e tutte le piccole
passioni che u r accompagnano. tf Le care che richiede un corpo valetudinario,
sono ff altrettanti momenti sottratti^ ai piaceri dello spirito. tf L^obbligo
di accrescere le forse intellettoali
appog- giato a motivi forse maggiori. a Se la vita delfaemo
ignorante un tessuto di timori abituali ^ se i timori abituali , oltre di
diStruf^ere la felicit ^ impediscono *le
azioni produttrici e conserva- trici;; chiaro che il primo m^zzo per esser
felice tt r istruzione (a). L'istruzione necessaria in molte maniere ad accre- scersi
i piaceri , le ricchezze , e la stima altruL (0 Cm pure ndropera Del Merif
ecc., T. I, pag. 64 a La Tta es- ci tendo la condisione neoeasaria al
coDaegainaito d ci stolte, sebbene i, sommamente difficili, e x^ rispetto agU
al- tri sommamente utili. Non pare che nel suolo sacro d^ Italia un sistema
cosi filosofico possa allignare: Vi negli uomini una potenza, dice un
Italiano, ohe gli sforza a disapprovare
tutto ci che appare loro esser falso ^ u e come essi non possono disapprovare
le virt disinteressate, cosi a vogliono. un sistema, nel quale esse entrino
iiome ragionevoli n iOsserfaxioni sulla Morale Cattolica, Gap. III). (3)
Elementi di Filosofia, II, ai 5, 316. Del timore, dal quale sono sempre affaccendati di liberarsi i
sofisti, senza mai rivacnie/ fa ngionato a lango nel Lil|ro XI del SasQ titUtC
SpprantUL , 4*5 XLTII. Le ragioni del econdo dovere, cio d^mpiega^e le proprie
forze ^ secoDdo il calcolo dell' autor nostro so^o le seguenti: tf Non al gusta
il piacere del riposo se non da chi ha tf traTagliato , come non s gusta il
piacere del cibo se non da chi ha fame.
^^ Inattivit ottimo antidoto contro la noia che la u pi mortale malattia di quelli che non
fanno nulla. U occupazione uno de* pi sicuri preservativi ^con- tf tro i
disordini ed i languori dell' animo.
Ella una tf verit dimostrala
dall'esperienza, che nell'ozio noi siamo tf pi sensibili ai mali fisici e
morali (i)^ e i pensieri mo- M lesti fissandosi nell' animo -^ degenerano in
pazzia. tf L' inazione fa che irrugginiscano le facolt dello spi* tf rito, come
irrugginiscono gli strumenti che non s'ado-
prano -*- ; il che equivale a perdita d* eventualit fa* ^ vorevoli e a
realixgazione di eventualit sinistre. L'
ozio e P inerzia sono disposizioni che conducono infallibilmente al vizio. Senza desiderii ,
senza progetti - la vita non
che tristezza e languore (a). (i) Come un buon mcito di fuggir P osio ,
il noitro tutore eoiD menda le occufMiiiom della moda : 19 Del resto ( ecco le
sue parole ') tale r indole delP nomo, che d^ oocupaaione
abbisogna e di (t trastullo: T uniformit lo annoia , la novit lo diletta. Gli
orna* menti dcHa persona sono una specie
di trattenimento per lo u stesso selvaggio: nel dipingere figure sul suo corpo
^ forse pi al (I bisogno di sentire egli cede che al desiderio di piacere. Per
le u persone che la noeessit non costrnge a lavoiare per vivere , ere* u
scerebbe la somma de^ momenti noiosi, e quindi gli stimoli alla corruzione, se intorno a"* loro a^ilx,
a^ loro vezai, alloro gioielli.
seriamente non ai oocnpassero
'^fwwo GmUUeo, pag. i6a 163>.
Non adunque il. nostro autore troppo
severo quando prescrive di fuggir Fozio; menti concede che si fugga co^
trastulli della va* Dita, e colle ineiie della moda. - C^) Sebbene queste
ragioni possano essere tutte buone, quando si propongano come siharo alla
coscienia de^ propri dot^er , oome stimoli aoc(*ssoriji al piineipale che V obUgauon morale ; tuttavia esse diventano
litibcoln e nulle in quel sistema nel quale il dovere non esiste, l'obbligauone
morale non che rlnelinssione al piacere
4i6 tf Un nono che lascia passare il teaupo seaza aegnario tf coD atti
utili, un uomo che rilene nello scr^oo
il denaro in vece di trafficarlo y o
lascia il campo senza u coltura. it Un uomo attivo trova de^ soccorsi, perch pu
pce- 'starne^ ottiene de^ capitali a credilo, perch pu resti- u tuirli i chiamato api incumbeoze lucrosf ^ perch pu tf
disimp^guarie (i) u U uomo oiioso , riguardato come un calabrone cbc a vive a
spese delfapi, dispreazato da
tutti. V indipeodenia il primo bisogno del saggio ^ dan-
que se i vostri meati di sussistenza sono scarsi , appli- tf catevi ad
un mestiere per accrescerli y. al quale, appunto perch e una tempice
inclinazione, ognano puh aensa al alla quale la yert sua la condanna. Ma
IHllusione momentaiiea: qua e l ella
sparisce; allora la filosofia insegna ad ogni individuo d^ isolarsi da tutti, e
gli dice di non isperars che in se stesso, (pi) Questa ragione non ritrari*k
molti dall'eccesso de^ piaceri; p^ rocche chi si persuader che la disgrazia di
diventar pazzo tocchi lui ? chi non
riputer anzi pazzi gli altri che se stesso ? Pure ella sarebbe buona se fosse
presentata come la sanzione di un dotter morate s ola ove questo non esiste ,
poca forza pu essa avere : la paz- zia non che una crudelt, una imperfezione
dellf nostra natura,' un male fisico senza una colpa che lo spieghi. Opuse. FU.
T. IL 4iS a quelle, accondo Fodere, che favoriscooo di fk il de- tt aiderio
eoccMvodi onori e di ricchezze (i). ce Tra i poveri , le caase principali del
delirio aoBo la tf spefattsa o la tentazione di divenire ricchi acna lavoro, u
ed il libertinaggio (2). u Le profcaaioni che esgono un esercizio cooIdoo
di corpo sono quelle che garantiacono di
pia da qneaCa tf crudele malattia (3).
Ove finisce il bisogno ivi coaaincia la saziet 9 e chi non sa moderarsi ne^ piaceri , vede qnesti
appasre nel- Fatto che voleva coglierli.
Tale si la coatitozione de? u nostri
organi 9 che necessario un. intervallo
tra la aod- u dis&zione d'un bisogno e la sua riproduzione (4). u Si
osservano effetti consimili nell^abuao di tutti i pia- ce ceri fisici , e aono
i seguenti : ce 1.^ Diminuzione di forze fisiche. A misura che ace- cc mano
queste, i beni della vita si riducono al rincresci- ci mento di non poterne far
uso^ non si pu pi A andare ce al teatro quando si vuole ^ fa d' uopo privarsi
d' una ce conversazione che si bramerebbe ^ riesce impossibile d^as- i sistere
ad un pranzo d' amici ce a.^ Malattie d^ ogni specie pi 0 meno dolorose. ce Ciascuno pu vedere xhe gli uomini intemperanti
im- ce piegano una parte della vita a rendere infelice P altra, ce e ad
aCTrettaroe il termine. Oltre i dolori di cui ci zg^" vano qua^ vizi, ed i piaceri di cui ci
privano , fa d^oopo CO N per questo ti prmadeninio gli uomini d* smart poco meno gli onori e le rioclietsp , che
tono i mezzi dei dmfm mttL mth raU del nostro autore, cio de^ piacri, (a) N
piire i poveri corranno lasciare per quecto il mmriio M* rarriocfaire osando i
meta pi comodi al ^ne loro; merito ce viene loro assicurato dai principii del
nostro autore. (9) EUm. di Filos., 11 , a^O e segg. (4) Vuol (Kre che le fibre
non contiene tenerle in continuo moto, ma lasciarle rallentare, perch'ielle
possano di poi esser tocche pia piaceirolmente. Qui non c' in vero quell*
austerit bpida di morale che Tigeya in secoli pregiudicati- 4'9 u ealeolare i
lucri cessanti per impedito lavoro , e i danni
emergenti per spete di medicine e aervizio, senza par- u lare del fiore
della bellezza che si perde pria della con-
sueta et , e dclP alito fetido cui talvolta ci assogget- tf tano/ 3.^ Diminuzione di forze intellettuali. 4*^ Pericolo d^eseguire azioni nocive agli
altri, quindi u soggette alle leggi penali,' come succede spesso per ub- a
briachezza e lussuria (i). u 5.^ Perdita, di piaetri sociali. a. 6.^ Perdita di
eventualit lucrose. cr ^.^ Da un lato decrescendo i beiti colPabuso de^ pia* c
ceri, dalP altro crescendo il bisogno colP abitudine, si ce gioDge ad urto
stato oostantetnente penoso. 8.^ L'
intemperanza diminuisce il piacere delle anime
nobili, la libert; giacch esausto il nastro fondo, o u non contenti di
esso, andiamo mendicando soccorsi od a impieghi, cio vendiamo il nostro teuipo
per una libbra di carne od un boccale di
vino. ff Alla fine de' conti si trova che talora , rendendo i tf piaceri meno
frequenti, si guadagna nelP intensit cii
che si perde nel numero; e che talora si pu accre- u scere il numero
moderando P intensit (a). In uba parob P
uomo deve godere fino dbe le forze fisiche del suo corpo gli ba^no-, sensa peri
guastarle, e senza che incolga in altri mali (3y. (i) EUsehdo soggetto He U^
penali , tu ti esponi a un dolore : quindi pecchi se nuoci, con tal pericolo,
agli altri! Un'altra cosa sa- rebbe se le leggi penali non fossero, o tu avessi
modo di sottrarti ad esse. (a) EUm. di FiL, II, aaS t te^^. (3) Qaodi la
temperanza notabilmente diversa per uot
Ubo robusto , per un poUnte ecc. Il primo potr arrivare assai pia nire nelP uso
de^ piaceri, che un debile : non dico gik ne^ piaceri leciti so- lamente ,
perch la distinzione fra il lecito e V illecito
una pedaa teria de"* teologi : fin dove V uomo robusto pu arrivare
evitando g)i scogli descritti, v^ arrivi:
sempre nella temperanza della cosi detta morale del nostro auter^. Il
medesimo dicasi del pottrUe, che p\i 4^ E di pi 8i def osservare , che le cure per la coa^ et servazione delle forze
fisiche possono giungere alTeccesso u e degenerare in vilt: allora si cambia il
mezio in fiae^ u giacch noi cerchiamo la salute per travagliare e go- te dere ,
mentre quella pusillanimit sacrifica il travaglio a e il godimento alla
salute ed imita V avaro che cerca u il
denaro per se stesso, non pe^ piaceri che pu pr- ce curargli (i). A malgrado di questo la salute
P oggetto pia infie- ti ressante per gli uomini {^}\ e quindi
i miglonUbr u di morale sono i libri di medicina (). Ed ecco quanto pi semplice questa morale nostra di quella
de^ pedanti: questa diminuisce i libri inutili, e le sciente chimeriche , una
delle^ quaU era ci che s chia- mava fio qui inorale: la medicina sottentra in
suo luogo: e V economia viene in appresso a suppUre a carte part, a cai la
medicina non si estenderebbe (4). L.
L^economia alcun poco diversa
dalla temperaiue. u La somma de^ piaceri compatibile colla temperanza si estende sino al punto in cui restano intatte
le nostre facolt^ la somma de^ piaceri
che permette reconona evitare i mali delle leggi: il calcolo de^ piaceri saoi
puh tutrio enere pia liberale che quello delle persone plebee: giaceb le tesse
Icfgi civili ooo sono che reoomandate dal calcolo de^ piaceri. (I) Elsm. di ni,
JI, aia, aSS. (a) Nuot^o GalaU0, pag 355. Ci che aggiunge qui il nostroantore,
tt che una buona digestione vale pid di cento anni d^ immortalit i, mostra
quanto poco calcolino I sofisti P Ulusiont, su cui Togtion pura aTTare la
perfettibilit del genere umano: in fatti cento anni ^im- mortalit, d* una
immortalit che yal meno di una buona digeitone, non pu essere che una mera
illusione, (3) lem. di FU, li, aag. (4) Ma perch tuttavia osfiuarsi a ritenere
questo nome di morale, s'odia non alla
fine che la medicina, e P economia Dseme con- giunte? La ragione di ci per far nascere con q sesta parola una
illusione utile: sentendo risuonare ad ogni tratto questa parola mo- rale, gi
consacrata a delle idee venerabili e indistruttibili , il Tolgo crede che
l'autore che ne fa uso, ve le aggiunga pure; ed inlaotr 4" f alquanto minore : V uomo economo si
risparmia. Puso ^ di beni che sarebbero innocui, per due ragioni (i): a 1.^ Per
avere un fondo o pi larghi che quelli messi a^'inedesimi dalla medicina. (q)
JOementi di Filosofia 3 U, 2. . ? \ .. . ' E qui pure si ha il vantaggio di
eliminare la moralt t^olgarte surrogare ad eisn l' economia che , iosieme colla
medicina^ la morale de^ sfistT, morale che rdoceado ogni motivo al piacere ed
alP interesse , sterpa dalPaman cuore ogni elef ato e pur motivo delP operare ,
e inaegna loro a perseguitare fieramente i teologi , la pedantera de^ quali
vorrej^ condur gli uomini dietro la ragione , senza accorgersi delPimpossibilit
del loro malinconico tentatiTo. IIL Doytri del eittadino. LL La somma totale delle azioni umane tende a
far u cessare un dobre od a produrre un piacere, qnalun- 9 que ne sia la
specie. DaiP ottentotto che vegeta sta-
ptdamente nelia sua capatina , sino al SfosoA cbe m^- ce dita sul
sistema delF universo, non v^ha altro principio u d^ azione (i). LII. Per questo principio,, tutto cip
che dobbiamo alla aocieti , BOB poBlo
altro che i piaceri che dtrfditBmB a Boi stessi. ' I piaceri, come abbistB
veduto, dipendono AzWau' mentare, impiegare^ e conservare le proprie /cot:h
societ aluta a far , d : dunque ci torna a conta il rispet^ tarla: ecco
Pobbligo, secondo il calcolo del soste autore, che abhinmo terso la societ. LU.
Che la societ ci aiuti a far ci, il nostro autore cos lo prova : - il.bi&ugno di procreare, inernte alla
natura umana, ce avvicina il maschio alla Commina come il ferro nlla cala* mila, e dandio nascita alla prole , sviluppa
il sentisaentn della paternit. La societ non 2, non fu e non sar giammai
altro che. un mercato generale, in. cui
ciascuno vende le sue me dunque sostitai al dolere il pia- cere, eosi por disse
che il rimorso non altra cosa se non la
vista dt* dolori a cui il delitto ei espone. L^Ehrzio, che Tiene dal Gioia qua
e li punzecchiato quasi ininiicoy e copiato da per tutto^ anche in questo la stella del nostro
filosofo. Ci che questi riconosce negli scellerati, u dilBdesza abituale^ sonni u interrotti da
neri fantasmi , laceraxioni d' animo risultanti da ri* membranae atroci, da vergogna attuale, da
timori, figli della per- u suasione che meritando P altrui esecrazione | le
altrui foric pot- u sano rivolgersi contro di noi (^Jhl merito, I, 364)* Parlando di Lord dive,
che ci per le sue concussioni ed avanie feoe perire (, u cVgli') due o tre
milioni d^ Indiani n, attribuisce le sue smanie, i suoi furori, il suicidio a u
quel sentimento di dolore che in noi
nasce dalla vista deiraltrui dolore
.Quegli infelici, scarnati dalla
fame 9 cadenti per languore , in atto di chiedergli alcune on^ie di M
rso, si riproducevano al suo pensiero e gli rendevano odiosa la M vita n {Del
merito, I^ a4o). La coscienza della iriolazionfi dlia legge non s"*
introduce a spiegar que^ rimorsi : s' introduce solo la r^mpassione di que^
miser in un uomo spoglio di ogni compassione. 4*4 a nito , t^ndo sempre
possibile un cambio tra com da u sieme
eonftiw*,' ed neoeataria qoalehe
destreua di calcolo per u separarle, onde scoprirne la differenza n (^Teoria
ettnle e penala del diifanio, pag. VI). Se questo non parlare da aracolf non che manchi il tuono assoluto , inappellabile
: che
un parlare da ' eco, che ripercuote i suoni del Lucrezio oltramontano: e
Pltalia allorn solo perde tutta la sua dignit , rinnega tutto quel buon senso
che le si proprio 9 quando ad una
volontaria servit assoggetta il raro dono del suo pensiero, e mette il sue
genico net ceppi stranieri. Opuse. FU. T. II. '54 4i)6 tilit e sui propri gesti
(i)^ queiti diiirefn eaUoli momU, eo' {uali ttgeiiQo considera solo se stesso,
csercitaorfo Catta la ttioraie filosofia, SMllerebbsro a pericolo Pesstessa
del- V uman genere. Ci vuol dunque una forza, colla quale si sottomettano
lutti gusti ad un gusto solo, e il
calcolo di ciascuno sia obbligato di arrendersi ad un calcolo solo, fatto da
UBO o da pia , secondo che la farsa prevalcotc
nelle mani di un solo, ovvero di pia: nel qoal caso questi 0 devono
distruggersi fino che prevale il gusto d^tm solo , ovvero ciascuno far deve
qualche sacrifizio del pro- prio gusto, perch dal gusto di tutti (n) riesca un
solo gusto che passa in legg. Perci se
voi oscite dalla societ, voi nou vedote pi it che bisogni rinascenti e focosi
da una banda, braccia e (0 NoDie il vieU avrati U legge civile: nwkVobkU^i^
perch non tttie; non la^^nuii^gale, perch
fVM. d^aoo Uto a fneiU anteriore. (a) Non e** nna ragione nalla morale dal piaeera par
istabilre die aia pi giusto queato Moood modo nel qnate i goati di luUi lono
insieme ooniemperaiU in modo che n^ana un aolo, anaidi il primo , nl quale il
gusto d^un solo si renda prevalente, perch non esiste n pura T idea di ^utaia.
Il dire che giusto aver riguardo a^
gusti degli altri cosi assolatamente,
assordo nel satcma dal pis> aere: si deve aggiungere a m il badare ^
guai olCni soaopid il vostro gusto:
s^egU vi accresce il piacer voskro. Perch mai PoUiona bader al giuto * suoi
aahiavi, ai quali non garberebbe dVasar get- tati nelle peschiere di movono ohe
mantneva oUe loro ovm', men secondo l'autor nostro: (i) Eitrdsio logico ecc.,
pa^. 3oi. ei Jlftriooe.J, IO I i.IlcoDtcstoconqi]eIlodiefeg;e,eooB tutto il
tUtf ma del nostro autore, d luce a queate ed aHe preedenii parole. (4)
AbusTamente , cio contro il senso della pareb ai chiam^ di' riuo ci che
noB che una/nM $ un fatto. Nel liateaMi
del noitrs 4^4 Ancora pi strani (coti
egfi) sono i ragionamenti di Rousseau
contro lo stabilimento della propriet (i). Egli cr pretende ohe V idea della
propriet supponga anteriori u progressi nelle cognizioni e neir industria, e
quindi un a lungo corso di generaiioni , a coi la propriet era ignota* a Mi pare che il sentimento della propriet (a)
sia ine* tf rente alta natura d' ogni essere sensibile , si sviluppi ne^ tf
primi istanti della Wta e divenga presto abituale. In autore non restano
chetiti, eome pi yqlte abbiamo 088frrato:'i ritti noD tono n pur possibili $ una parola affatto Tla di senso , una chimera della fantasia. Ma il dire
apertamente che non si am* inettono che dt^/atti,t non t? diriui^ nuocerebbe
alla propria causa la quale apparirebbe qual
: couTien dunque parlare sempre di di ritti y come pure di dweri, di
tnrij di moraU ecc., ma spiegar tutte queste parole in modo che altro
significhino dal senso ordinario : e poi dichiarare , che a le diverse opinioni
religiose estesero il signi- eoe eoe
(^Elementi di Filosofia^ II, 1 13). (0 Ecco qual in due parole la caom di Rousseau e del
nostro au- tore. Rousseau cerca il modo , onde gli nemini stabilissero quel S*
ritto di propriet che presentemente
nelle societ stabilito : egli trova dilGcilissimo il dedurlo da principii di
ragione. Non paija mica Rousseau di un possesso di fatto , di un attaceame nto
di affetto ad una cosa , possesso che si difende anche colla forza ^ e che
hanno an- che le bestie. Per ispiegar P orgine di questo possesso di fatto non
si richiede alcun principio di ragione, ma solo la sensibilit, P istinto r
abitudine : n ci voleva tutta V erudizione del nostro autore per sa- pere che
gli uecelli difendono i loro nidi , le fiere i loro covili ecc. In questa causa
il nostro autore dissimula il nodo della questione, non essendogli utile il
manifestarlo : suppone che la questione prima non esista: che diritto voglia
dire possesso di fatto, e nulPattro, ed esclama u Chestranessa di Rousseau a
trovar tanta difficolt nello spiegare Pori- e pia forte cbe riusc a levar di
bocca V osto ai piA debole : non c^
oaibim qvi di propriet , ma solo di un possesso diJaUo (3) Le parole
metaforiche eredit, Muurpatoref assdio e hoooo, tolt^ da ci che fanno gli
uomini secondo i principii di giustizia e di ragione, e trasportate a significare
ci che fanno l. op nnm^ cMnmmo'dk farti pplQare il detto cvangtl^co
uEficeprimuM tteaken 4r4JruFt ud n, - iO'BtroitiQ lgiso co., pag. k53 e oolo d^ esser colto dalle leggi penali?
tarebbe un dUiUo V atsalre? tarebbe on c^srs Della morale del nottn autore ?
Certo : qoesb espressione , entro i limiti dMm difisOy non discende da' suoi
priocspb: egli r avr trovata vecchia nella memoria, adita forse da qculcifte p
dre predicatore in saa gioTent. Tali incocrense don ti possono spie gare in
altro modo in un nomo che vi assicura ohe ogni Morale di- versa da quella del
piacere , nna morala da prgmm , com^
egli a suole esprimere. (3) Eatra forse fra questi anche il primo che disse :
DiUgtt M^ micos t^stros, hmefaciu hit qui oderuni nof , tt ermte pr pen' bero provato
nel primo, ed u rinfitnuaa la fiat
eoniugaU i^Ttor, ciV. e ptn, del dw.j pag. 161 ). (3) Due sono le dottrine
circa ia morale ; T una la morale del
piacere, P altra il Vangelo. mirabile la tendenza* e P effetto di- Terso d
queste due morali. La morale M piacer
tolta sollecita nel fare il calcolo dt* pis- ceri, per riosrire ad
ottenerne la massa maggiore $ e in questo unl^ alndio # tutu oacnpaU, n in
altro che in questo essa conais^e. 436 k parie il mal del delitto, o Ut
vergogna risoltanle dair insulta. Voi
dite elisio aono un pitocco^ io traggo La morale evangelica anf i \ limitar T
oomo a qoesto solo ilcol^ fP infonde quasi un obblia de^ propri pacfr e di te
stnao: Poont eoD qu^fta morale abbandona la causa della tua felicit ai ano
Crea- tore y ed egli antieb de' snei /riViorri si occupa solo de^ oi dbpcri. .
Il calaolo de^ piaceri conduce il seguace deUa morule dei piaont a trovar
necessaria la fiereasa contro i propri ocuiici, u raccDaMnWjr la rendetta,
Podio, la persecusione de^ medesimi. Il Tanto della bravura soatenut dalla punta
della spada. L^ oasenrania de* propri doveri conduce il seguace del Vangf^o al
pcrdone delle ingiurie , alla diletione dei nemici , ad una nnsncla* dine
dichiarata dai moralbti del mondo debiletaa e pasci. Qual 1' effetto di questi due sistemi di morale ,
rispetto al bene degli uomini nella vita presente T esaminiamo i fatti. Il
sistema della vendetta dura fino al Vangelo ; e con questo prin- cipio, onde gH
uomini sUrgomentano di procacdarri la maggiore y- Kcttf non esiste in sulla
terra, per quaranta senili, che Mtrocitk e barbarie : con^istatori e
conquistati, tiranni e schiavi, inplics perch privi de^ piaceri, e pi infelici
ancora perch in possesso della forza. Il sistema della dilezion de' nemici si
generalitsa coUa diffusion dd Vangelo ; e con questo principio gli uomini s*
argomentano di pr* cacciarsi la maggiore wirt, e non che dimenlicbi, ma ai
naoatrano Uno ad un certo segno inimici de^ piaceri de^ senti : io tanto i
piaceri retcono alP umanit in ragione che questa eoo oocIho aaatero H mirat un aumento
di benevolensa universale calma le ire , rannoda i cuori , mette una pacata
luce nelle menti , e gli uomini ai ricono- aoono simili, si proclamano
fratalli, si riabbracciano con un amore |Mri
qnello di due amici che ritornano da nn lungo viaggio e pica di
sciagure, e che ai riveggono rioonoacendo Pano nelT altro le an- tlche
sembianse. htJiUmofiM ( cosi detta ) tent^ di fare a cf di tasci m pugna d^ oro vi confonilo (i): yoi dite chMo sono n pile {)i io gnoino la spada e mi
no* st^o disposto a battermi. ) Ifi
cotale atto alto la fronte e o guardo fiso quella capagtia ohe , ioooraggiata
dai vo tcsivoea pOttiaU cht fitere i OMCttr
e i propagatori della miseriai t quelli chf non peoMo the a lui, troTno
soli la frlcit di cui sem- brano ti neghinoli; aerioorb apparisca the a lui
ubbidicce il tutto e ch*^ egli ha posto con sapiensa aH^CTaTters le atte leggi
(0 Quett^atto plebeo di cavar fuori un pugno d^oro per moAtfArai ricco; non
ptoTA abllai: il pia grii'igiiorQBotidiTrlN-mi f|ugno d'oro, DCofliediaiiBDjpe]
no pepe, in ap^oooia ; e qualcJie mezza camicia , come ai dice in qualche parte
d"* Italia, portando aero tutto ci che possiede o in proprio o a prestito
, potr benissimo darsi un ruAo cosi insulso y cosi insolente, csi sofistico.
(a) Per una piiiohi voi TtHefe tffetMggei^ la filn'd^fi'4aio zi meglio ^maseare
gli altrifcbfteofftirQ d'iesfer qhieii^to vie^i Tale e la
oonsegueosa-deUimff^e: del^iqoirt: di qifeWe morale che i^see dal eonaMerar V
nomp come un peiao di materia ^ che
finisce col trorarPapice della felicit ne^ piaceri iUutorU, in tal' calo ancb;^
queste due atllabe di cui composta la
parola mie, possbno essere ntt^ offse
maggion della morte, giech Pilliisiooe M iia confini \ wme-i^ 'eltt
sillabe, elee |perela Aravo, poaaotie' eontenere in s la Toslni felMt , se -rpi
#iele 'cos p^i^ao ti riuTenire in esfc colla ina'magina- sione tutto il paaooo
della Tostra vanit. In fatti la morale del pie- nere suppone seriamente che
colla pania gli uomini possadiO^formafe le loro felicit, u Non pochi st troyano
in quella situasione d'animo, ft dice il nostro autore, io coi troyaTasi il
passo Ateniese , il quale u rigeerdendo come sue propriet tutti i faseelli che
entraTano nel Pireo I enfiUce pel
si|0.atesio errore: sarebbe stato barbarie il *i disingannarlo (Dei Afitrilo
eoe, I^aSa). Questo esempio poetico egli
lo prende a rigore ^lofofice e ne indo^ pi che non comprenda, do non
solo ohe taWre non si debba disingannare altrui , ma ben ' eneo che ai debba
ingannere, come pi ^pra accennai Per
altro lo | orrei redeee un aofirta, nud reggcntesi della persona per effetto
della morale dc^ piaeer, chiamato iFle da un ^rm^. colla spada alla mano, a i
haBoees della stra4a a beffeggiarlo | e son persuaso che in tale frangente
aaprebbe ben egli trovar delle buone ragioni per dimostrati he la brafura
delPuomo non ist nella robustezza e nella destrezze del corpo, ch'egli non resterebbe d'essere quelPacuto'
sofista chVgli , etbbene non asppia o esi ebbia il ore di baUersi 0S u stri
detti ^ iraa iotiaiorita ndaUfl Itgff^ disponeva a fcr- veg^arn, t eilinguo od di lei an4iio le naie
voglie 9 (t). LXIV. in. La terza eonsegueosa 4eUa morak, a cui il piacere e la
forza sno i due perni su. cui rigira ^ sar r elogio della maldicenza che pu
supplire alla Corta se questa vien meno l>ia ma naggiore io matto, e purch
giovi al nostra piacre^ ' hie ei
nmac, utile a se stesso ? Che cosa
arrerrebbe da d, se non queUo cho abbiamo vcdolOf o che Teggiamo aTTcnire
tatUyia f 44t hnqve cravensiMe fri gli iitoiinL Neisoao Ubligito a lare alle convemiooi con proprio
daono^ ae non fosse per evitare un danno maggiore. ISon personificate adunque la conifgtuiotu
temo avete personificala la niUum {i)y t
rieordatevi che la fona di naa
convenzione non la oonvenxione alessa,
ma ti a vantaggio mutuo delle parti contraenti: colla scorta di questo vamta^io si distinguono i casi, ne*
quali la u convenzione debb^ essere conferauta, dai. casi , in cui defab^ essere disciolta; Se la convenzione
facesse , a cosi dire , lgge per se
stessa, avrebbe sempre lo stesso ef-
fetto^ma se la sua tendenia perniciosa la rende nulla, dunque la sua tendenza utile, ed essa sola la
convalida* giaeah il pia- cere che crea e distrugge la medesima
vcritii. Opuse. FiL T. IL 56 4** a cadono da loro stesse. Pretendere Topposto,
i pretendere che una pietra priva, di
sostegno, resti in aito io vece u di cadere (i). ^ ce Ma gii obblighi finiscon
forse, quando finisce il pia- cere? Si,
e no, si pu rispondere^ d, quando la aomma
degli obblighi , ossia degfi aggradii (s) uguale alia
809nia de^ piaceri ottenuti^ perci cessa nei servitore u TobbKgo di.
servire il suo padrone, quando questi cessa
dal pagargli 1^ onorario (3)^ no, quando i piaceri otte- nati sono msggior degli aggravi! sofiferfi^
perci conti- tf nua nel marito robi>tigo di mantenere la moglie nel u
declinar delP et dopo aver colti nel di lei seno i pia- ce ceri deir amore
nelPet pi fresca (4)- LXYII. VI. La sesta conseguenia sar che non essendovi m
giusto n ingiusto, ma solo piacevole e dispiacevole, il legislatore dovr oreore
gli obblighi, cio degli a^frarii fer- mati dalla fona , non secondo de^
prncipii intrinseci ed immutabili di giustizia, ma unicamente i pi piacevo/i
che per lui si possa, secondo il calcolo ch'egli sa &nie (5). (i) Teoria cU e penale del dHnrtio , pag. 3x
(a) Ma non itt egli meglio chi gli rimane pi piaceri die aggrtTi? perdi dovr
mitehiarc i piaceri ottenuti oon degli aggcaTi di^ ei pn afaggirer parlate rat
di an calcolo di piaceri, o di equiif
Ecco la legislazione personificata: sciogliete questa persona pia*
tonica in uomini reali: questi non si propongono altro problema che di pascersi
di tutti i piaceri possibili. Ecco i legislatori! (a) Anche i desideri! della
corruzione origi|iale, riconosciuta dal nostro autore , sono desiderii costanti
: da ei he il nostro autore cava V
elogio della vanir,. deiramMMORe eoe. per non opporsi ad un desiderio costante.
444 u eoa Ittita r impeto da quel ada meato , die on resta u aperto (i)*
Secondo il detto calcolo, y^Ie $ iark il bosIto au- tore ( porche il calcolo
varia oecondo k aUlil de^ cal- colatori), coBoegiie che il desiderio eostanfe
die ngavdt Tuaione de' sessi, non po eisere soddisblto eolia maggiore utilit
mediante vincoli indissolubili. E per aiutare il legislatore nel calcolo de^ piaceri
, il nostro autore somministra i seguenti principii : 1. Tale T
indole del cuor umano^, che la facolt (I di soddisfare un appetito qualunque,
ne secma la lorsa, eome Tmpossbiiil pi
viokolo lo rende, nitimur in u iFttiUun n (i): di che converrebbe senza
lmitaaioDe la- sciar vagar gli appetiti. a."" In altro luogo pori
loda bens il lasdarli vagare , ma non senza confine. tf U divonio dohb' essere
permesso, ma iv cm precisi u e ben determinati dalla legge: h filosofia non
richiede CI nulla di pi. Ella sa che P inquietudine del deadeni e tt inerente ^
necessaria , inseparabile dairuomo; perci u dia permeUe aUa speranza d^ errare
sopra vario evea- tualit , persuasa che
queste scorse (3) siano taofle sot- M traaioni alla forza recalcitrante degli
umani afi'ttis (4). 3.^ Bisogna avere una morale rilassata, perch una mo- rale
severa hnpossibile, giacch il solo
piacere ia molla dciruomo. La morale austera paeey yero, ia teoria (5)| perch (0 T99na
aU^Ue penU dil dltfoniof pay. rx (s)
Teorim duiU e f^enaU del ditHtrtio, pag. 6i. (3) Queste scorte, questo errore
nel cogliere i piaceri, confema quanto dicevamo , che la monile del nostro
autore non estendo che mediciaa ed eoooomia, proibisce Peeeesao dcgK atti
imtnorali, ma noi alcuni y che possono crescere ano al limile della salate e
della borsi (4) 7*eori4i cwiU pamU del
Stnrtio, pag. 6g, C5> Qui send)ra che il Gioia conceda che la morale anstcn
meltt e* innaliii riconosce adunque qualche pregio intrinseoo in essa: noe dunque che per manoanM di coraggio di^ egli
la rifiuta. Dove ci: ia, io mi asterr bene dal dirgli file, perch non mi sfidi
al dutlh* 44* m piace tutto che o mtlt c^innaba a malto ci deprime. Sia che mi pingiate eoo forti colori il
saggio degli stoici u ohe sta ritto e fermo aolle rovDc del mondo ; sia
che mi atrasciaiale al Cmmo de^ sepolcri
, per mostrarmi i fc miserabili avanzi delP umano orgoglio, siete sicuro di tf
piacerini j e questo piacere fa tutto il successo dei pre- dicatori da pergamo (i). Ma non si tratta qui
dei tuo- ghi topici della rettorica , ma
delle basi su cui deve u inalzarsi la morale e la politica, tfra consultate la
sto*> ria (u) ed dia vi ^r die una
morale severa destando solo una steifle
ammivaiiofie non mai seguita in pra- u
tica che in drcostanze momentanee d^ entusiasmo n (3). 4.* Finalmente dovendo
il governo secondare tutti gli appetiti perch non ha forza bastevole da
raffrenarli, deve sacrificare ad essi anche la verit : la veriti egualmente
come r errore) conviene ohe all^utik dia tributo. Collocato al centro di tutte le
opinioni, governo (* deve prestar a
tutte la stessa protesone , perch in ma*
teria d^ opinioni, Terrore ha gli stessi dritti della ve- ce rit*-^La
sola difficolti consiste nel decidere quali sieno le coae indlEerenti. Si trova per sempre la
soluzione di questo problema in un
esatto catalogo dei piaceri e ce dei dolori privati e pubblici (4). (1) Almeno
em predicHM mb he molte e^innslta : to eonfetMte ^ allenerriy col non ndrii, s
c6 che t abbaMS. (,> Siamo dfi nooTO nei generali s la storia pgrtrdficaUi
Cve n^ao- certa P autor ooitto) depone od tcaftimotiio IsTOrevole alla morale
de* piaceri. E non t^ ha dobbioi porche ii cancellino da csm dician- noTe
secoli , quelli del Gratianeatmo. (X) Teoria eiV. e ptn. del Suortio, pag. 80
ai. Ghi mmclU le illaaioni delk fantasia come fnti di piaceri condanner ogni itm- Mjfiio pel vero 9 pei
bene? Qoando ci& fotae, io non la direi una contraddixiones "nn tale
entusiasmo ben altro ehe una illusiono.
(jO TVotmi etV. e /ren. del dwwmOf pag ni. Ghi potr tessere que- sto esatto
catalogo de* plaeeri ? chi prevederli tatti f che cosa sono i piaceri pobblid ?
forse piaceri, di cui gode qulebe ente reab ehe si ohiama pmikU^o? o non pit
tosto una aoHtzione i ffiaceri prpioi 446 LXVin. Ma vediamo meglio qol sia
roficlo dd kgj^b* tore. SappoDamo primieramenU ^ ci che oasurdo nella morale de' piaceri , avervi ano
o pik legialatori, che eateoclo pazzi atlisimi e commeodabiliaaimi (1)9 s
propongano di (1) Queit Mrebbera paisi nel sUtema M pnere, peicfa fMve rebbro
contro ragione: in fatti ad una chimera, ad ona iibuione, ad una lemplice idea
senza nessuna realt, sacrificherebbero il proprio piacere reale. La filosofia
del piacere tottaria l trova commendabi- lissimi, perch sono quelli che
accrescono i piaceri fra gli ltr ao. mini, cio Tutilitk comune. Per meritar
lode, secondo questa teoia, bisogna esser iUusi, bisogna operare cxmtio la
realtk delle ooae, con- tro ragione. Per altro questa filosofia impone essa un
dolere a questo legisla- tore d** illudersi stoltamente ? questo impossibile nel senso proprio della parola
dovere t come tante Tolte abbiam detto, non c^ che il fatto in tale sistema ;
manca il principio per provare che debba esi- stere questo stimabile pano: egli un todente, che un uomo ab- bia il gusto di
esser tale: o l^nomo ha questo gosto d^ esser boopo, o non lo ha : non e** luogo a censura od a lode,- se pur forse non
convien fingere anche una censura ed una lode perch utile , cio oonvien lodare o biasimare quello
die non ha nulla in se stesso che il renda lodabile o biasimeTole ; e ci di
nuovo perch lile, per creare un
interesse illusorio vantaggioso a molti Ma chi
qae^ sto Filosofia che eosi prescrive? Una femmina non credo, sebbene
pur seduttrice di molti. Egli un uomo,
che parla come fosse la Fi- losofia in persona; e vi assicura di predicare
questa dottrina unica- mente perch gli piace. Ma siete voi obbligato di badare
a quest^ uomo coperto sotto la maschera femminina d^ioa idea astratta ? solo se
"fi piace, perch non potete far altro che seguire il piacer vostro. Ma se
una dottrina predicata non ha nessuna ibrza in se stessa di strngervi , nessuna
necessit di ragione o di morale^ perch predicarla? perdi posbono esser
pia;evoli anche le chimere, le visioni, i sogni, sebbene non contengano alcuna
ragione da creder loro. Quando sia cosi , a me non piace di abbracciare simile
fikwofia ^ A belPagio: badate quello che dite:
se piacesse a^ filosofi che la predicano, di tempestarvi d'insolenze e
d'ingiurie perch oon siete del loro gusto? se vi vomitassero addosso tutta
quella bile, che la sanzione unica delle
loro parole .... ? Come il loro ffusto li porta a stabilire la societ civile
sppra i due elementi del piace^ e della Jrzoy e come da questo connubbio del
piacerf* e della forza vogliono figliato tutto ci , a cui em danno il nome di
diri^ 0 di dotterei 447 ottenere colle loro leggi la massima felicit divisa pel
mag gior numero , e ci costantemente , anche in que' casi , in cui il loro
interesse privato viene in collisione con questo loro irragionevole (i) ma
nobilissimo scopo. Ecco ci che queste persone, che hanno in mano T autorit
perche hanno in mano la forca prev^ente, dovranno fare per soddisfare a quella
loro illusione che li fa esser curanti della fe- licit comune pi che de^ propri
piaceri e della propria dicit. V interesse priifat ^ secondo il nostro autore ,
non va d^ accordo .coir i/ilercM6 pabtUco. Ma Tuomo non pu agire che per
interesse privato: dunque il legislatore deve colle pene e colle ricompense
creare un interesse artifi* ciale priifato , cio far diventar utile al privato
ci che utile al pubblico (2). Siccome la tendenca dell^ uomo a farsi centro
di tutto tf agisce gi naturalmente contro Pidea dei doveri (3) ; per- cosi qatl
maraviglia che non piaccia loro di striogere in una simile schiaTit di ferro
anche il mondo letterario , come vi hanno stretto il mondo civile , e che sieno
gelosissimi di qaei diritti che nascono loro dalla potenza di una vile ed
insolente loquacit maritata al pia- cere di un orgoglio che aspira a trionfare
della ragione? CO Se non si d qualche fede ad una illusiene, di essa non si pu
godere $ e il dare ad essa alcuna fede,
irragioneyole essenzialmente, perch
un assenso dato alla falsit. .(-ai) Il nostro autore non mai obbligato di esser coerente a se stesso,
giacche il piacere ama la ^arUt. Non
dunque maraviglia se in altri luoghi parli in modo da far credere che T
interesse pub- blico sia sempre immedesimato coir interesse privato. forte uno de^ siatemi pia caratteratki
delta depravaaioBe d? im popolo. In
altri tempi ai pu off^'ndere la virt; ci non natante te ne riconoioe ancora la sua autorit ,
quando le ti aiaegnano de^ limiti f ma
quando si giunge sino a spogliarla del auo noBe^ ella perde i suoi diritti al trono , e il Tizio se
ne impadronisce e ri ti . a.* Altri pretendono bens che VmUres$e prpoSo di
natura sua roiocida e sMmmedesimi oolP interesse pubblico, ma non credbo che i
privati conoscano da se stessi questo interesse : t^ interesse pri- ato non
coincide colP interesse pubblico ^e non quando
ben intesOf 0 non cos facile ben
intenderlo, n tutti bene Pintendono. Quindi debbono gli uomini esaere istruiti
sul loro interesse privato, perch questo, diretto maeitrerolmente, riesca una
cosa collMnteresse oo* mune. 3.^ Altri sostengono che quand'anche i privati
sapessero calcolare perfettamente il loro interesse, e perci lo intendessero
benissimo; ne pure in questo caso P interesse privato e l' interesse pubblico coior
ciderebberoy ma sarebbero, in un gran numero di casi particolari, opposti fra
loro: e questa P opinione (IclPautor
nostro, sebbene egli non sia sempre coerente con s medesimo, e parli talora per
forma da far credere che P interesse privato, purch sia ben inteso, formi lo
stesso interesse pubblico, aenz''altro. Or dunque non con- venendo P interesse
privato ed il pubblico di lor natura, fa bisogno^, dice il nostro autpre, che
il governo crei un interesse artificitde, me* diante delle pene e delle
ricompense; il quale interesse giovi a fare che dovunque P interesse privato
s'* allontana dal pubblico , incontri nn dolore, dovunque con esso coincide
incontri un piacere prevalente : in tal
modo si renda artificialmente il bene pubblico di tal qualit, ch^ egli sia
sempre anche il privato. Questo sistema y se non foss^ altro, riposerebbe sopra
una sa))po*> sizione gratuita, cio che sia possibile nel fatttf una
eoincidenza r- 45a fi siderando non alconi momenti della vita d^ vn individuo y
a ma la somma di tutti i momenti ossia la di lai intrra et esistenza , si pu
affermare che non v* ha nomo , il qaale ^
per quanto dipende da lai, non tenti di sacrificare la tf parte, che gii
tocca nelP azienda pubblica al suo inte- u resse privato (i) Restando dunque con tutta ragione tf fissate
delle pene ai delitti e delle ricompense alle vir^ a tu (a), crescono i motivi
che s^ oppongono ai primi, e a promovono le seconde. LMdea delia pena reagisce
con- a tro la spiata del delitto 9 e T estingue in molti animi ^ Tidea della ricompensa reagisce contro T
inerzia gene- rale , e rende V uomo pia
attivo (3). tificiale de^ due intereisi coti perfetta che ti aTTcri per dascun
uoaM in particolare, e in tatti i momenti della sua vita. L^eaperema oom
aomminiatr mai P esempio d'una tal tociet, che larebbr il preteso sialo
giuritiieo di Kant ; e tutto ei che abbiamo oasenrato nella nota precedente a
quetta, lo dimostra irapoitible. Scegli poi fotte patti* bile, sarebbe lo stato
di una inaudita servit del genere umano, e della pi inesorabile tirannia. (1)
Eitmenti di Filosofia, U, 373 973. Cosi
dovrebbe esaere nella morale del piacere: e se fosse, la societ sarebbe
impossibile: ma la societ esiste; dunque gli nomini non operano pel solo
piacere. (^a) Pene e ricompense aensa colpa e senza merito: punire colui che
non pu che seguire il suo piacere, perch Io segue! colui che seguendo II suo
piacere esercita dei doveri morali ! Cosi la societ he si vuoi erigere sulle
sole due basi della fona e del piacere, ae anche non fosse assurda , sarebbe un
edificio che si erige sui supplizi degli innocenti ! sarebbe un patibolo ertto
dal piacere ! ed a chi ? non alla coi^a, ma a se medesimo: perch egli solo
esiste: il piacere di alcuni uomini sacrificato al piacere di altri nomini ,
ecco tutta Is legislazione, tutto il secreto della societ de^ sofisti. (3)
Elementi tH Filosofia , Il , 27$. Questo avverr in gesurale; ma in particolare
milla fa al nostro caso. Perch F uomo sia tirato co- stantemente al ben
pubblico, bisogna che non si poika mai trovare in casi in cut la pena o la
ricompensa noi segna : bisogna eh' egli non abbia mai in vista un interesse
maggiore della pena minacciata , o della ricompensa promessa :* bisogna che
quelli che hanno In mano P autorit pubblica, abbiano sopra di t un'altra
autorit, altre pene, altre riaompense, altii magistrati: nel secolo scorso ^
sono prese* tati i sofisti ed hanno gridato all'* universe, Questi aaagiatratl
tm 453 LXDC II nostro autore peri s* accorge che ae neces- saria nna data distribusone di pene e
di riconpense per dare^una direzione alP interesse privato tile al pubblico;
dunque ih descrivere i vantaggi della societ civile in ge- nere , come fece di
sopra , non un sufficiente motivo per
impegnare gli uomini a rispeCtarb: conviene di pi chVssi ne sieno costretti d
fatto dalh presenza continua della forza e del piacere fattizio (i): ed in
questo la tendenza noi. Era il topo che veniTa s porlur Pdefante che porta
ralla soa schiena la terra. Ci) Nella teoria del noatro autore gli aomini
dovranno riapettare i diritti altrai ed eiegoire i doveri solaiaeote allora
quando k ocfefd ciVile in cui vTono sarii eoitituita per forma ctie rkiteretsc
pabbliro e rtnteresie privato verranno neeetiaramente e perfettamente a coin-
cidere: in fatti impossibile in detta
teoria che l%iomo prefeiisca l'in- teresse pubblico, fino a tanto che il suo
interesse privato vuole altra mente } e il nostro autore vi assieora che non
v^ha n por un nomo solo che ci& faoda, considerando la sua vita in
generale .non qualche mo- mento d^entnsiasmo
Cn.^ LXXIII'). La morale aduoqae deirantor no* stro una morale pel tempo futuro , per qoH tempo
lontano lonta- no, indeterminato, a cui
sperabile che T umana perfettibilit con- durr il genere umano. Intanto
contentiamoci di rimanere scusa morale t contentiamoci di mcriftcare il ben
pubblico al 'ben nostro privato in tutti quei casi ne^ quali crediamo dia
questi due beni non Tsdan d* accordo. Ella
por bella quella prcvidenta filoaofica che prepara nna morale ai nostri
posteri, una morale che sar solo ap- plicabile dopo una lunga serie di secoli,
quando verr qnel tempo felice che ancora
Incerto, quello stato di cose che non si sa an- ora se sia possibile, quella
conformazione di societ che probabil- mente non i che un sogno filosofico, un
arbitrario sistema, una spc- rania illusoria senta realt, ma cara, troppo cara
ai leggiadri sofisti, perche intanto li dispense realmente da ogni legge, e li
scioglie da ogni obbligazione. Gente benemeiita dell^ umanit t iXaCro Ul regala
del hr piactrt , unica forza attiva dell^uomo, essi intanto fanno tutti i
tentativi y tutti gli sforzi per ridurre la societ presente in uno slato tale
in coi T interesse privato ogni qoal volta tenta di diverger dal pubblico abbia
una pena. per riuscire a ci ch^ essi si
vantano gli amici , i protettori dei governi esistenti , e accusano di nemici
di questi tolti quelli che non pensano come loro (if. Gml- , pag. Sog). Ma come
? essi non hanno altro modo che le pene e le ricompense per far coincdere Plnteresse privato col
pubblico, e pensano di rio- 454 continui deir interesse privato a sottrarsi ^
qaette dae bar- riere, trover. bene spesso via 4i sormontarle ioooccote- menle:
a cui risponde cosi: scirri ? chi qa#ta
idea ^olfettra a cai dal^ il nome di pubbUea^ e non PuDoiie di molti privati?
Mniono qiH^sti privati ch^ {ormano d che chiamate pubblico, il mtggior numero?
ma perch il ma^or Somaro dovr prevalere opra il minorf ? per qiial principio T
per quello del piacere? ognuno ha il tuo gusto, e come dimostrereste voi che il
gusto dei molti debba prevalere sopra il gusto dei pochi ? perch^ egli pi retto ? ma che regola avete voi da
mianrare questa rettitudine se non lo stesso piacere? perch il maggior
numero pi forte ? ma perch non pa&
esser la forca prevalente nelle mani del minor oomcvo? sar egli ci iugioslo?
ohi v^autorssa a dirlo se non ammettete nessun principio di ginsticia che vi
diriga in que- sto giudiio ? volete forse per pubblico intendere il bene di
tutti ? sa* rebbe gratuitamente: ma in tal caso ogni astone di qualunque citta-
dino dovrebbe riuscire d\m vantaggio a ciascun altro , o non dovrebbe reeare
nessun dispiacere ai gusti, ai capricci ^ alle passioni di neasoa altro t
giaech rimossa la ra^ontf a lascialo il ^'cerv, questo trovasi ancora ne^
eaprieci e nelle pi scellerate passioni. Pretendere ci sa- rebbe impossibile t
giaech ciascun nomo rimarrebbe nelle catene pi4 dare: mentre n v^ quasi nessuna aione particolare (e tolte aono
particolari, non essendovi aaiooi astratte) che giovi a tutti egualmente, o che
con oertetia s possa asserire non dover recare dispiacere a ve- runo, n pure
alPinvidioso , n pare al tristo Questo principio por- terebbe I.* una schiavit
di ciascuno, non solo insoffribile ma ancora impossibile assolutamente; %?
tenderebbe ad una uguaglianza per- fetta in tutto, cio ad una chimera
impossibile: uguagliansa consi- stente appunto in una uguale assoluta
dipendenza e schiarito di cia- scuno da tutti , si qufoto alle persona che
quanto alle cose: I fautori filosofici della rivolnzione francese nel. mentre
che si pro- ponevano una assoluta libert ed assoluta eguaglianza nelle loro menti
alterate da una immaginazione eccitata soverchiamente; lavoravano senza
accorgersi nel fatto > e tutti i loro passi tendevano a sacrificar l'uomo
reaU ad nna chimera chiamata pjubblico: essi avrebbero rea- lizzato, se la
natura umana avesse potuto tollerare un progresso naa^ giore |Ie^ loro piani a
lei ripugnanti, questi due ultimi termini: I.* una schiavit di ciascuno piena y
assoluta: a.^ una uguaglianza perfetta in questa schiavit o nel troncamento di
tutti i piaceri pri- vati, cio a dire di tuoi i piaceri ^ nel rigoroso senso
della espres- sione, perch i piaceri non sono che, essenzialmente privati. Bla
le pene e le ricompense onde si vnol realizzare questo sistema, non vT u Si dir
che se P interesse privato s'oppone spesso al- le r interesse pabblico,
cosicch necessario reprio^ere e quello
colla minaccia di sensazioni dolorose, noi veniamo a distraggere i vantaggi della societ che
abbiamo van- tf tati di sopra. CDtrano che come un Murdo i in fatti si le pene
che le ricompense ioiio beni e mali che si fanno soffrire o godere ai privati;
esse alte- rano adunque Passoluta uguaglianza: esse non sono di quelle axioot
che a tutti egualmente piacciono, o che a nessuno dispiacciono. Non dunque possibile che sotto il nome astratto o
collettivo di pubblico si voglia intendere realmente tui, nessuno eccettuato, i
cui piaceri si debbano procurare egunlmente^ i coi dolori egualmente rimuovere.
Bester adunque che i pochi debbano esser sacrificati ai molti, o per dir meglio
i deboli ai forti. Voi non potete gi dire che r colpevoli solo debbano essere
sacrificati : perch chi sono i colpevoli , secondo voi , se non quelli che
fanno azioni dannose air interesse pubblico ? Se dunque il senso della parola
pubblico non altro che Punione di quelli
n.elle mani de* quali la forza
prevalente, ne verr che quelli che hanno la forza in mano potranno dichiarar
asi'om' criminose, o delitti tutte quelle che si oppongono a^ loro gusti , a^
loro piaceri , e questi non diretti da regola, se non dal calcolo che fanno
essi me- deiimi de^ lor piaceri ; ne verr che questa sar quella immedesima-
tione delP interesse privato col pubblico a cui tende la perfettibilit umana, e
a cui aspira P immaginazione de^ nostri filantropi: una im- medesimazione in
cui I. P interesse privato di ala'uni
sacrificato (^BCnza nessun riguardo aliatigliela, perchj' questa resta
esclusa fin dal principio del sistema) u\V interesse di alcuni altri il quale
si chiama interesse pubblico, perch
sostenuto da una forza prevalente; a.** che i privati che non hanno la
forza prevalente in mano , noti hanno altri diritti n altri doveri , che quelli
di una ubbidienza Jr- zata quale vien loro comandata dal volere di queHi che
hanno la forza in mano, il qual volere si chiama legge civile^ 3.^ che quelli
che hanno la forza prevalente in mano, i quali pochi o molti che sieno e
ragione o torto che abbiano si chiamano governo , il oui in- teresse privato si
denomina interesse pubblico , il cui volere ha II ti- tolo di legge civile,
possono piantare questa massima : la somma legge della societ l'interesse del pubblico: tutto debbe cedere
a questa legge: non c^ altra giustizia che quella che da questa legge suprema
come conseguenza risolta. Si osservi che questa conseguenza fu carata da quelli
stssi che hanno formeto questo mostruoso sistema. L^EIrezio stabilisce preci*
pamente come conseguenzn la massima seguente : a tutto diventa 456 u Alla qaale
obbieoae ti rispondk che ebbene tatti i u tass ^ di coi composta ana casa, tendano a cadere (t)^ u
non ostante la casa i ottima in?enaione , perch ci r- para dalle intemperie delle stagioni e ci
difende dagli u animali feroci^ per la stessa ragione, benck cno ne* cessane delle pene per enere in piedi V edifio
della A CI Icfgittino ed anche Trtuoto per U mI vetta pubblica n {De tEtprUy
Oifc. II, e. VI). Questa matsima fu roerata cune principia a^ noatrt giorni t
la pratica della aedetima Ten a torrenti il pi paro tan^ue della Franda: il
nostro autore , e vuol esser coerente a se stesso, non ha nulla a rimproTerare
a xpielli che V hanno versato l^oissencs. Secondo PElTCtio, mal fecero
gringlesi ad annoyerare fra i Bartiit Carla L Essi avrebbero dovuto farlo considerare come una Tittiois u
immolata al bene generale (Ds VMtpritf
Disc, li, e XXII). Non si tratta di giudicar la sua causa : il suo interesse
privato scom- pare agli occhi del pubblico: diritti privati non ce ne sono :
trattasi di sapere quali viitime il k^ne gm&raU esiga, questo bene misterioso,
q4esto nuovo nuo^l filosofioo, a cui certo altro non piace che il pi pingue
sacrificio, che delle Tittime le pi prelibate, delle carni e del sangue umano.
(0 La similitudine va soggetta a qualche cooetione. l sassi di cai conposta una casa tendono tutti al centro ,
ma vi tendono in uni sola diretone : quindi
facile sostenerli collocandoli gU uni perpeih dicolarmente sopra degli
altri. AlPincontro gli uomini non sono sassi: ooncfdendovt anche che tutti
tendano in generale al centro del pro- prio bene, tuttavia i.^ questo bene non
e gi un punto fisso e de- terminato come il centro a cui tende il sasso,
ma vario indefioita- mente, e
indefinitamente variabile secondo che i diversi nomini, nei diversi. istanti
della loro, vita, mettono il proprio bene, cio il pro- prio centro f ora in una
cosa ora io un^altra. Voi dunque dicendo che Pttomo tende al bene come al
proprio cenljro, abusate, secondo il vo* stro solito, di un termine generajej
in vece di andar dietro alla realt delle co^ ^ voi andate dietro ad una idea
tistratta e dietro a qnelU vi smarrite in un sofisma ridicoloso. Questo
bene bens una parola sola, ma con questa
parola sola voi significate cento mila cose e pi, cio tutti i beni veri e
chimerici che poesono essere sraati dalPuomo. I centri adunque deIPnoao reali,
cioe'i beni a cui egli pu tendere, sono infiniti ; e non gi limitato a quel termine unico a coi lin- tato un grave nella sua caduta. a.
L^uomo non e comparabile si sasso anche per la moltiplicit dellf vie o de* ess,
pe^ quali tende si jSne che si propot9-
Snpponele ehc tatti- i sassi di cui con-
457 aodet, ci non ostante la vita
sociale infinitamcote superiore alla vita errante e selvaggia ^
(i)* IV. Religione. LXX. L'nomo non ha
altro motivo impeUente che il piacere e il dolore , o questi rducansi a delle
sensazioni reali o ad immaginazioni. La verit non ha nessun pregio ae non
relativo air utilit cio al piacere e al dolor/e. JSoi^ si deve dunque n si pu
cercare quale sia la re* Kgione vera, qwle la falsa, ma qual sia la religione
utile, quale la dannosa agi' interessi della vita presente (2): posU U casa
voUrt diveQtaMei:9 vivi alPifUnie e riceveMero un'^anina e una potensa di
muoversi come hano* g!i uomiiii, e tutti Tolessero coottani al centro della
terra: starebbe essa in ppdi la vostra casa ? o come ritarretie voi i tassi che
da tutta le parti vau via ? agoi s^sso vedendo che gli iippedito di sef aire la via perpendicolare,
uscirebbe ipimaQ^inente dal suo luogo, e prendendo una via obli(|ua, andrebbe
per la pia oonoda a collocarsi io sul terreno. Voi potreste circondar qualche
sasso da dfgli altri che il ritenessero da tutte le parti : ma come siterrete
questi che hanno la atessa voglia di fuggire al bssso 7 l.a supposta aoeieU
civile fatta di uomini che non tendono n pos- sono tendere se non al ceptro del
piacere ( s^nsa rguarde a nessun altro prioelpio di giusti^a) starebbe in piede
appunto come questa casa incantata, le cpi pietre rese vive scappano da tutte
parti. Gonvieii dire che i nostri sofisti fabbrichiao di somiglianti castelli,
perch '^im- magioano che gli uomipi sieno pietre^ e questi loro castelli faooo
paura I hanno dentro il foretto, viaggiano i tetti e camminano le muraglie 9 e
il potvero fabbricatore trovasi sempre a cielo scoperto occupato in meditar qualche nuova fattucchieria che tenga
a dovere i diavoli stessi, (i>
ELemend di Filosofia ^ U 276. (9) Non
essendovi altra molla neH^uomo che il piacere 9 non ^6 succedere se npn che T
individuo scelga queUa religione ch'egli cal- cola pi oenfacente a^ suoi
piaceri, e, se reputa pi^ confacente ne*- suna averne, che tutte le abbandoni.
Al mondo non esistono^realmente che individui : dunque con ci k detto tutto
ci& che pu avvenire. Ma per descrivere le diverse mo- Opusc. FU. T. l. 58
458 u La storia di tutte le societ presenta questo muJfato; Don s d associazione civile senza culto. i
Merito eoe II, 17$.) Quindi la necessit della pena e della ricompensa, perch
anche il gusto re- ligioso de^ particoleri si arrenda al pubblico bene, cio al
gusto de^ pi forti. Quindi s^ intende perch la religione filosofica sia essen-
zialmente intollerante. Questa religione filosofica una parte della legge eivile : e la legge
civile quella che crea i doveri col
mexzo della forza: quindi anche la religione cnU non che
fotta, rirotm. al pubblico bene, cio al bene di quelli che Phanno in
mano , i quali non possono far altro che seguire il proprio piccere nnioa forza
at- tiva che li muove. Pu ben darsi il caso che questi nomini pi forti degli
altri fingano una passione anche pel bene ovvero pen^ zieno aueoondati andic i
gusti altrui , giacch P e^rienza fa loro oono- aoere che in questo modo
otterranno maggior rispetto e maggior pia- cere, ti l rispetto ff (alP autorit)
cosi insegna il nostro autore u scema u a misura che si veggono prevalere i
gusti privati e personali sulJa a passione pel pubblico bene o snllo scopo cui diretta P autorit i Del Merit ecc., II, ^5). Questa passione
per gli gusti oomnni i.^ basta che sia finta; ed essenzialmente finta ogni qnal volta non
nasce che da un calcolo del proprio piacere; e quindi, 3.^ non pu essere che
finta in un filosofo seguace ((ella filosofia del paere, poi- ch In essa non
vede alcuna dignit e bellezza, n^ solo vi aerea i buoni effetti per se medesimi
; 3. pu esser yera in qualdbe teologo pedante, il quale nel fiir bene altrui
trova una essenziale bellezza , indipendentemente dagli cffetjti che a lui
vengono da quel bene chVgli fa, V dalla contemplazione di quella, cava un
diletto squisito che il fa dimenticare se medesimo per gli altri : in tal modo
il nostro con* templatiTo utile a tutti
, perch non filosofo e non ha per unico
principio P utilit ,* 4**^ finalmente anche qualche Btosofo delP utilit sente
alcuna volta le attrattive di ci che
conveniente, varo, retto, giusto , benefico, in certi momenti della Tta
in cui la filosofia Pah- 459 tf Quasi tutti
calti ammisero una vita futura nella
quale stanno preparate pene ai delitti e ricompense alU virt : tf Bisogna rinunciare al senso comune
per non rcono- u scere i uaniaggi di questa idea. In fatti la presensa d' un ^ere onniscio e onnipotente , giusto e
buono : I.* Tende ad atterrire quelli
che abusano del potere a danno de^
popoli, e pu agire sul loro animo pi che
n^n agisce Pidea delP infamia e della gloria presso i u posteri (i) : 2.^ Sparge il balsamo' della speranza (a)
sulle rina'- iMindoiui, da sua natura trionfa, $ensa ch^egli possa resistere,
della sua mente , di quella sua mente tutta ingombra di una spregiudicata
filosofia che tende a distruggere la natura. Tornando air intollepmsa della
religione filosofica , ecco la diffe renza coir intolleranza del Cristianesimo.
La filosofica dice agli uomini: u Voi .dovete professare questa re- Ugione non gi perch sia vera o sia falsa, ma
perch t^ ha chi la u giudica conicenle al pubblico bene : quindi chi non la
professa sar CI reo di stato, sar punito colle tali pene fisiche n. Lai Chiesa
cattolica dice agli uomini : Voi dovete
professare que- tt sta religione perchVIla
vera, e perch Dio stesso Tha data agli M nomini: chi ricusa di
professarla non ha nessuna pena corporale, tt ma solo escluso dalla partecipazione de^ doni
spirituali di questa u religione nella presente e neir altra vita n. Ecco le
due intolleranze. Di pi : la filosofia pretende di ottener colla fhrza fitioa
dagli uor mni rimpossibilet in fatti egli
impossibile alla natura umana di professare una religione non perch ella
si creda %fera , ma solo per- ch essa si creda utile: egli annunzia con ci di
fare pi che mira- coli, giacche annunzia di fareNci che contradditorio in se stesso. Non si pu
oonchiudefe se non che questo annunzio sia ya^o, e ch^ essa intenda distruggere
ogni religione servendosi di una /al" sita utile. (i) Nel solo caso per
ch^essi ammettano la religione come fera ^ e non solo come uU : in somma nel
caso che non professino la filo- ofio del nostro autore. (a) Si tratta qui
d^una speranta ih^oria o reale? Nel sistema del nostro autore non pu essere che
illusoria, e per tale riconosciuta; ae la religione non scelta che seguendo futilit e. non la verit^
sar in tal u nna spgranMi ht maUa tperu, ptrcb n^lia orrM sulla verit, u
risolta che un uomo onesto non predicher mai deUe raaa- u sime contrarie alP
utilit pubblica, ma. non s^ impegner in una
guerra civile, come si racconta de^ Russi, per fare il aegno della croce con due dita piuttosto che con tre {Del Merito eoe, I, pag. a3a'). Cosi resa pari la causa della uerii con quella. di
nna esleron religiosa: come di sopra ha resa pari la causa de IF fsnbrifd
f^i> gosa colla religione medesima. Dico di una esinioni wjyoNi , per- ch il
Gioia si ferma ai segni estemi : dalPisUnU che ai pu^ mentire, 1p parole, i
riti, le cerimonief i simboli, tulli in somma i segni p^ quali succede la
comunicazione de^ pei|sir, non sono clw mere inezie: 46i crificare il fine al mezzo , itaittaDclo V
avaro che eomD- lora in esso V ignoranza popolare che u sostituisce le chimere
u della imaagioasionc alla reaU delle co^e n. Bla il aittema dd no- stro autore
consiste forse 4n volere ridar P uomo alla fredda realt delle cose? non mai:
egU pose per carattere distintTo delPaomo sopra le bestie i maggiori prodotti
della immaginazione, e mostro come i bisogni delPaomo ed i suoi piaceri
procedano immensim^nte pi abbondanti dalla fonte della immaginazione cbe daRa
realit d^lle cose. Perch adunque qui s' abbaruffa colP ignorana volgare percbc
alla realt delle cose preferisce i prodotti della immaginazione ? Ma osservate:
tutto ci che trova nelh religione, e di cui egli non vede P utilit sociale ,
fraMcamentt ve lo dichiara chimera della immaginazione: il vero od U falso egli
non cura: cura sola l^ utiie sociale, e 1' utile calcolato da lui, il che non
pu esser altro , per- ch ciascuno che parla on pu giudicare che colla sua
mente. Or bene; e^iisro ci che egli non
vede itttVs. N^n si accorge dun^pie che eolla parola chimera egli fa uso di
quella riprovazione naturale, che d non dir P uomo, ma 1' umana nstura a ci.ch4
jalao^ per rendere odioso ci che disutUe
7 Cosi strappa i suoi diritti alla ye- fity per darli alP uttiir; ma nello
stesso tempo rende testimonio a quella, giacch usa della sua autorit i
delPapprovazione .che danno a quella gli uomini in favore di questa. Ma
finalmente che osa dunque ci che nella
a^ligionc non chimera della fantasia
secondo il nostro filosofo? Forse ci che
vero e non lalso ? nulla meno; ma ci che
utiTe, sia poi egli vero , sia falso. Anzi il aooJaUo resta che non sia
chimera , mentre una religione che non si consideri che come mezzo all' utilit
sociale , essenzialmente /a2a e
chimerica. Per tal modo chi dice falso al vero , costretto di dir poi vero al falso. Il
'nostro autore dichiara chimerico nella religione tutto ci che non sia mezzo
alP utilit sodile; dice peixi chimerica It religione considerata sotto il solo
aspetto di una giustizia che gli uomini rcn* dono a Dio; dice falso al vero:
egli costretto dopo ci di dire vero al
falso : non rimanendogli nelle mani che nna reUf^ume finta dagli uomini ,
egli costri>tto a dichiarare che
questa sola non dmerica, pereh^ ella possa
pure essere qualche cosa, A tali contraddizioni conduc4 il sistema di Elveaio ;
ed il Gioia non il primo ad essere stato
spinto e infrantosi in esso. Ssint -La* bert, il cantore delie stagioni, e
Pautort della vitandi Elvezio ebbe l sventura di seguire il suo amico, e di
comidcrare U religiatto come 463 ad essa si debbano antepone i ponti e le
strade perch caie pi reali della religione.
Debbono ottenere ne^ consumi la preferenza qaelle cose cbe migliorano FesisteBaa fisica, e procuraio
piacere in ogni tempo Sarebbe strana cosa cbe presso una naee
a'^cate doTCttero rettituir tutto eie che hanno preto o pnre imparato dalla
(fgitlasiooe di Giottiniano. . (3) E te altro richiedo lo ttito, dtro la
religione, come dunque Tolete tottomettere la religione allo atato ? Tolete oon
fio ^Iraggert ci ehe rehiede la religione? Se la religione alito ricUedo ctacn
?iolBrnte perch adunque afTemate talora- che qnetta debba mt* fterfif 0 P uno o
Taltri deye annullarti. 467 (x nazioni
delP nniverso (i). Quindi *tf introdurre
qae- u itv qtfelPidei teltgrosa nella
costruzione dell' edificio tf civile
introdurre delle parzialit nocive , ed esporlo ti agli ^ti derP i^ctsi e
del nitM (ol). Ma se non si deV
infrodcrrr msstkna idea religiosa nelP edificio civile, come il governo' ptotr
servirsi deflsT retfgfone in iftHfSr pubblica , e ^rch avr e^Ii , o in' che
modo di- rigeli ({neHa specie d^impirgati che vuol il nostro aufr eh' esso
abbiar , cb s? ^aoiafnlo clitb 1 LXXIV.
Intanto die iT nostiro autore trova mdor di ri- spondei'e' questa dotnaifida, noi seguiamo sentir da lui quatl sta il catcol' de'*
piaceri che il fegislatoVe , se (os- /e^, forgerebbe nella scelta delle
reKgloni. Ili generale egli ^infsegn che
se il govern fsse u costretto a de'cilei'si per qualche opinione rIigio
, egfi non dovrebbe da^ h preferenza n
alla pi severa, (4). LXXT. Quindi 1^
autor nostro vi loda egualmente TI ^a- gane^Amo ed il Cristianesimo, dov,
secondo il suo calcolo, trova che 0 quello coUa superstizine 0 questo coa ye
rit accresca la ioifama de* piaceri : in fatti abbiamo gi (i) Teoria dviU p$riaU del dit^cnUo , Vili. Ca) Teora tiyte e
pnale dedltforzio, tl. I tDDistri della reli- fione non possono esistere fuori
dello stato, non pouono formare uif cffo da $e (Ved, MKTI)! nello ^toada si deV
intrbdiirre neuuna idea religiosa: 1 rdifione ilkibque iF neessaVianrenti
1hS*>' ^lla tetra abitala da* aoftsU^
da odMk adb foto dotr* trine edificate. ^ 0) Deir esser vera o dell^
esSer^ai^a u pure una parola > io non hi d4 far nuUa. (4) Teora eitnU e
penale del divortio, pag. i|3 il 4- H
calcolo hnpossibile a. farsi, eome
yedemmo: ma si eonosce eg|i impo|sibiUtk da^ sofisti? e non hanno la massima
sjjeditezxa a fare qualunque cal- colo if possibile ? seosa dubbie: la loro
aritmetica il proprio gt#: il calcolo e
infaUibile. 468 slabilito pi& sopra che il gveroo deve anebe iagaonare il.
popolo se ci crede utile, o non cevcare di trarlo d'in- ganno. u Convien dunque
trarre partito da queste forze diverse
(deir opinione), e talora associarle alla forza deir inte* resse, talora farle agire isolate^ acci
Fattivit e la vita u circoU per tutte le vene del corpo sociale , e ciascan u
istante, sia fecondo d^ un nuovo prodotto. Cosi il saggia 4 Numa , per esempio
, impieg F apparecchio imponente a della religione per accostumare i Romani a
far oso del u pane , od almeno a mangiare il loro grano cotto , in vece di mangiarlo crudo. Ad imitazione di
Numa ano u scrittore inglese propose come nezzo d^ aumentare il u commercio
dell' Inghilterra ^ di spedire de'. Missionari u presso i Negri ed i Selvaggi
del nuovo mondo. Il pro- getto di questo
scrittore ^ o per dir meglio negoziante, tf non tendeva ad estendere P impero
della fede, ma ad tt indurre i Selvaggi ad abborrre la nudit, quindi a ve* a
stirsi, e perci consumare stofie inglesi, indi assumere tt il gusto delle
superfluit che accompagnano il vestito ; ,tt in somma creare in essi de'
pungenti bisogni , i qu^ gli inducessero
a lavorare', affine di procurarsi i mezzi tt di soddisfarli fi (i). La
superstizione e la falsit fecero dei gran beai al mondo nelle mani de'
filosofi! Allorch Numa servendosi et
delle idee popolari per farne sostegno ai diritti, converU tt termini de' poderi in altrettante divinit
(2), rese un tt servzio tf i. Che si estendeva a tutti i proprietarii
erettamente, u ed indirettamente a tutta la nazione ^ tt a.^ Che nella
valutazione comune supera tutti gli al- tt tri servigi, se si eccettuano quelli
che salvano la vita^ tt 3.^ Che doveva decrescere col tempo, a misura che. 0)
Nuwo Prospetto eoe, I, 372. (a) Queste diyinitk noa sod chimere^ sono cose
reali perckc/idtt ma ttfi7f. te inen
feioci i cosliiui e rinfomto P ordine sociale, tf n potesse sostituire Ma
/alsa^ idea di Nunui il timore tf della legge che panice i ladri e dlP opinione
che gli V infama * (i)* iir incontro qoegli che non approvasse in simili casi V
idolatria y e cercasse di togliere la sapcrstizione, sarebbe un teologo pedante
e non nn filosofo, perch avrebbe 1 seiocchezaa di preferire la inerita M^
utilit. Eccone il caso. Diocleaano
innalz presso Elefantina un tempia e de
gli altari comuni' ai Romani ed ai Barbari, acci la par tecipazione alle medesime preghiere ed ai
medesimi sa crifizi gK unisse coi legami
d'un' amicizia sacra ed in violabile^'
scemarono cosi le discordie, le liti^ gli omi i^-) Del Meri ftfM.,1,1%5. 47?
non d^utiKt, e dichiarando Taltie religieiii false, ella diTcnMrl daimdsar ai
piacevi e dstoiber la (Mce d^gU omoni:
Tanto pggio ptp la ReK]{ne cattobca^, oosl if a nostro autore, sVssa
fosse intollerante. Ella mefitereU>e
PeBtr proscritta da ogai paese, eome gi Ai pi^cnUs m Jati'IngtteiVa. Ma,
beridb i di lei ninistri abfcwno
predicata la tolteranz qtAoilo an deboK , Vimifrm^ tf quando divennero
pallnti , ci non ostante r pniieipii di u questa Religione sono toUerantissiiBi
-^ L^aMsite d di^ in^rve s dimoallra
q4iindi cosi ignorante nella RelgaQe i che diisndc, darme fttrvn* cittadino.
Giacch sP^ip^e- a tende che la aa ReK^one proscriva tolle le altn*, eia* cana di queste araMT' la' steasa pvetaaar,
edr eco orga- nifefeataf la gaerra
civile* (i). Non per chu ai de^ crefenw i) filbofe oovIfo tl
krahte come qa diinostlra : egli
condanna UniUroHza dei falso, perch vuote sotifnSta Invera intoHeranxa fiJo-
sofica, che" qi^^a- cht tion
toliera ci che spoppane al piafoere, ^ia eaao verit osia falaft: di cb^ baciano
fde le partfli^ ohe imnfedatattKente snasegoono alle rferke', & che aono
tate ainro cKe foUefnntissimt a Quiio teologa tf cbo Viene a prdlcard uns^
religione intollefWnle , me- u- ffiur d' esaere trattata M governo cio r
ciaciatanl, che spacciano delle droghe
nocive (2). In fatti ciarlatani sono
tatti quelli cbr spargion il i^ero, droga nociva aozi mortale alia falsit ntile
de* sofisti. V'ha dt pi: qui aopra egli vi dice chc( i principi! della
setigione oattolieia sono ottn^ntisnmi^ e d il eoo voto (f) Teoria auiU e
penale del divorzia^ pag. 1 16! N'on ci pa s- serp guerra civile proditU da una
religioBe che non ha altro ib" lineiti aicetici ri promettono mever eento
per no^ e pi che cento. oc il ealeolo gi latto dal loro apo e maettro : u
Ognuno che la* u teiera la eaia, oi fnitatli, o le soralle^ o l^padre, o la
madre, come il ooatro autore VaooeEta,
non aveva alcon traTaglio flaico n iolellettuale n morale, o Dol reato anche grilletlerati ateaai negli eremi
aoqniatarono le cognizioni oe- ceaaarie
alla lor perferiono per le ialmzioni, che gli aomta dotti u della aolitudine
loro facevano o ttelle viaite acambievoK, o aeile radunante ordinarie n iM coiimi tifi
aiMcaraia egam e #- naci, operetu del Con. F. C h\ . 3* TVof agito morale t Se per monde a^
intende il eakolo dei* pia- ceri de^ aenai; l'oraaiene e reaereizio della carit
del proaaimo naato dagli anacoreti della Tdbaide, cerio non erano alcnn morale
traTaglio. 0) Tali impoatmre atili non meriterdibero d^caaere coofatate. Senta
dir nulla della atorinra de* prncipii, aceonttntiamocf di ret- tificare i
fatti, a Qoeate manifatture n (^parla delle manifattore degli ' anacoreti
egisiani e airiaci) u erano portate a laoghi abitati da per- Bone y che^ prendeane cairn dei aolitarii ,
riportando ai medeaimi il u lor biaognevole, come pane, aale, olio, libri,
abiti. . . Ordinaiia- mente quegli
uomini indefeaai lavoravano aaaai pi di quello, che u abbiaognaaae al loro
tenuatimoaoatentamenlo, e tutto il aaperflott a veniva dai medeaimi proearatori
d^li anacoreti diatribdito in li- ei moaina ai poveri I penitenti che vivevano in aociet, ovrcio
i monaci , avevano V iateaaa maniera di
vivere coi propri aadori Queati
eaercitavanai in fonnare aporie, atuoie, corde, ed altre ai> a mili coae ,
che portavanai alle citt per vendere, e molto andavano anche nel coltivare le terre. I poveri dei
pacai vitini a tali rada- ci nanie d monaci laboroai e caritatevoli, aolevano
aentirae molti aoeoorai $ poich la loro
paraimonia nel vivere e nel vestire ren a deva molte volte aaperfloe le loro
fatiche, e queste erapo desti* I nate in tali limoaine i ( Bh, opera
eitaU). non quando diviene stimolo alle
nostre fotze, come non lodevole la
speranza di vincere nel soldato quando ne u scema la celerit e il coraggio. a
Se certo eh' egli ( il Creatore ) lascia
agire le cause Del Merito ecc. , II ,
78. Sono un mesxo di ottenere da Bio le grazie \ non unicamente di eccitar V
uomo al larroro. 9 Cf) 7Von ciV/e t
pwnaU d$l dirwo f pag, tofi. 486
Egli d lo stesso litoh di magit^ a certe stfpenliom de' Turchi: Regna in Twcka ropkione che la rvafe, tt
ripetendo perle parole miilenose e ftceodo alcsoe ce- rioione magiche alIMslante iella celebra^Me
d^ un matrmoDto , pei riaociM ad
ingaimare i desiderii degli ff sposi e sospendere reserciaio delta virilit (f). E pianta per massima universale la
s^ucnle: In gc u nerale , siccone le
parole in qqahwqoe modo pranno* ciato e
i moti della mano noe possono nvHa su? corpi
inanimati e distanti, perci patri dirai tanto maggiore P ignoranza qnanto maggiore sar 1* effetto
ch'essa a tf questi attribuisce i (2). LXXXX. Quindi si pu conoscere Fides del
nostro r ri- stiano intomo la fde , principio del Cristianesimo : La
fede^ die' egli, eonsideratat in ae stessa, non un me- tf rito, giacch le manca l'elemento
della difficolt Wota ^3). In fatti,
lungi che P intelletto umano sa rentfeiHea cre- *t dere, vi k indinatissimo ;
non v* alcono sArro nel cre- (0 La
eerimoBla de'* Tordii certo una
lupmticiooe: ma ai pu^ eonahadere da est alla maasiffia generale cbe il noitro
autoce tuoIc stabilire? (a) Jkl Menu fa., I, 33$. Parlando il Dfstro autore eH
Padre Trtael incaricato della difTufioBc dcUe indulgenze dalla aaola S^c, lo
paragona ai ciarlatani che Tantano V
effioacia indefinita delle loro tt pillole, droghe, elixir, apeciftci, segreti
. .,nCDel Merito ree, n, 16). Gli oa ganti che osa la Chiesa cattolica, rgli II
collocs aef an- nero della tupcrslizioni ^ a per far cradert, al suo solila,
cii'e^K non tooca ci ohe fa la Chiesa presentemente, ne parla codio di uas
illusione di s. Gregorio papa che Tirer nel seoolo VI 1 acooinpa- gnando
Taooaaa saa di lodi in questo sodo: h Si pA dire che Gre- tt gorio trovayasi al
ponto pia devoto dello spirilo umano od VI se* u colo. Ora se un cosi gran
uomo, del quale aissmo pu porre ia
dubbio la buona fede, ai ksoiaya illuder da idee falae auppo- u nera nagli olii nn' effioacia ohe
aan esiste, in quali rortici teoc tt brosi di falsi gindisi non mtwMtu nIroTara
le oacati delle daasi Ci inferiori n? ( Pel Marito ano., I, 921). C3) Se ci
fosse ?ero in tutta l'estenaioo della propomtoae, le- atcrebhe da spiegava un
fioio che avviene giovnaflicDle
Perch ^* (^aL , pag. 63o e segg.,
eoe eoe >. Quando qualche ooaa non gli acoomoda, egli la eniuneni fra i
sofismi de padri della Chiesa. ( Ved. Del Merito eoe., Il, 8). Le decisioai
della Chiesa qaaado non gli Tanno a grado, Te rigetta aUrbuendole ai teologi,
agli ascetici, ai fflonaei, agl^ iiitisi dei sacerdoti ecc., come abbiamo aToto
occasione di vedere in alcuni hio- ghi. di sopra arrecati. (a) J>el Merito,
eoe , Il , 46. (3) Mille Tolte fu risposto a questo luogo comune degP
increduli, rhf> nei rTflati misteri c^
tanta loee quanta b^ita per sredcre, e 489 sotttniialiti del Verbo, fai precessione
dello Spirito Santo, u la maternit divina di Maria cose tutte rispe^* tabilissime e che hanno infinitti peso sulla
bilancia della ce teologia , ma che non sembrano influire nella pratica a delie
tirf sociali (i). Richiamate qy gli Ussiti
che si batterono furiosamente nei XV
secolo per essere comunicati sotto ambe le spe-
eie , come us ne' primi tempi della Chiesa ^ il the fu u Un iota, con egli, agganto o sottratto vi
faoera di- tf vcDre grande o piccolo
dotto o ignorante , buono o tf malvagio , angelo o demonio (i) u Vi
toglieva la carica e Vi cacciava in esilio u LMmperatore Costanzo, se nel
vostro siii^>0lo entrava la u parola homoouMs, ce Teodosio homoHisios, A giudizio del primo eravate ignorante,
bciceone, reo a di stato (2) y se davate al Figlio il titolo d^ uguale , u un
?ejr dottore n ecc. {pel Merita ecc., I, Q7*f N, GmlaUo , ecc. ). (1) Del
Merito ecc., II, a5. (%) Nulla di tutto questo y ma solo ereiioo. (?)D$lMerit0
eocl, II, 25. FRAMMENTO DI LETTERA SULLA CLABSmclZIORB DE' SISTEMI
FILOSOFICI SULLB DISPOSIZIONI NECESSARIE
A RITROVARE IL VERO SAGGIO DECIMO. FRAMMENTO DI LETTERA JLe qoestieni
fitoaofiehe che mi pro^^nt nella sua Ut- fera , eome Ella nedesima ben vede ,
potrebbero estere soggetto non che di una lettera famigliare, ma di un li* bro
, ami di molti. Ella sa quanto le varie parti della filosofia stieno connesCie
fra di loro^ come ciascuna riceva lame da tntte P altre ; ed a pena che io mi
creda p* tersi rendere al tatto chiara qualche verit, qnand\lia non ai mostra a
suo luogo , non si espone insieme eon tutto il sistema delle verit a cui quella
appartiene: ciascuna di questo verit
piccolo membro a un gran tutto*, ni sMn* tende a fondo, o almeno non ci
pare d' intenderla a fondo, se non si concopiace non solo la sua natura , diri
cosi , ma ben anche le sue relazioni, quelle verit che la pre cedono o che la
susseguono, e delle quali essa o la ra*
gione la conseguenza. E tuttavia non posso
negarmele a esporle con brevit akane cose che io penserei sulle questioni
proposte, pregandola, non gii a ricevere queste eonsiderazioai che io esporr^
come quelle che a me soddi* sfacciano compiutamente, e molto meno come quelle
che esauriscano le importantissime risposte da Lei desiderate, ma solamente
come quelle che mi concede nna lettera fa- migliare e la brevit del tempo. La
sua prima dimanda riguarda la clasiificaaione dei diversi sistemi filosofici Mi
sembra, a questo proposito, che i sistemi filosofici si possano classificare in
due maniere : i .^ o col nome de' loro inventori, %^ o colla diversit dei
principii che pongono. 494 1U mostra nella sua lettera i seguire il pcimo
neCoiIa. Ma sebbene io ai tutto non U rigetti, tuttavia n pure M esso non potr
mai essere recato a quella csattesca^ e fornito di quella distinzione precisa
che nelle dottrine filosofiche
desiderabile e necessaria. bens
semplice , e, come il primo che viene alla mente, fu commieneale adoperato. Ma
questa divisione mi pare che riposi, se Le debbo dire il vero, in quel
soverchio d'autorit, che io altri tempi fu conceduto ad alcuni maestri, i quali
per le loro dottrine essendosi partiti dai comune degli uomini, furono dagli
uomini, veggendoli si alti, venerati quasi altrettante deit. di questo soverchio d' autorit io dubito non
{orse ancora si ritenga V effetto nel tempo nostro , senza che noi pure ce ne
avvediamo, e bene spesso anche ma- ritando questo difetto col suo opposto, cio
con quello d una frunchezza soverchia in portare giudizio di uomini gran-
dissimi' certamente, e delle dottrine loro, giacch nello spi- rito umano simili
contraddizioni non sono rare. E veramente questo modo di partire le filosofie
co' nomi degli inventori, suppone che i diversi maestri ed in ventor di t8$e
sieno sempre coerenti con se medesimi per tal maniera, che Tuno s'abbia un
corpo di dottrine al tutto compaginato e perfetto , e diviso da tutti gli altri
corpi 0 sistemi di dot|rine. comunemente
quelli che hanno voce di fondatori di cotesti sistemr, procedono cosi alti
nelle loro promesse, almeno in tutta qaella parte nella quale confutano le
dottrine altrui, che mostrano di non vo lere aver nulla di comune cogli altri ,
e presumono di avere cavata tutta intera da s soli, quasi facendola esister dai
nulla, la filosofia. Promesse di prosunzione umanal Se noi gli esaminiamo imparzialmente
, massimamente l dove, dopo aver distrutti gli altrui sistemi, cominciamo a
edifi- care i propri, veggiamo che per quanto procurino di di- vidersi dagli
altri con nuova disposinone di cose, vengono per sempre ( negandolo essi )
presso a poco ne^^i stessi sentimenti: talora ponendo alcun principio diverso ,
non consentaneo ad principio, deducono le conseguenze^ ed en- 495 trano, senza
pare avredenene, nel stateaa altrui. Per quanto io abbia riflettuto, non
mi. occorso giammai di vedere un sistema
al tutto compaginato e stretto con se medesimo e perfetto i almeno mi riesce
impossibile il credermi in caso di affermare , che questo sistema vi sia : per
dir oi do- vrei credere, che vi sia qualche libro, il quale contenga tutti i
procipii necessari! per iscioglere qualunque pr* biema della filosofia. Come
adunque nomi di due filo* sofi sono
totalmente diversi T uno dalP altro ^ cosi venendo a classificare i sistemi
secondo questi nomi , sembra cho si supponga , i sistemi stessi essere
interamente P uno dal F altro diversi, ci che non si avvera o difficilmente si
pu verificare, essendo cosi vasta la filosofia. Di vero la filosofia, e anche
se vogliamo, la sola me ta fisica un
aggregato di pi scienze (i)^ e quando an- che due filosofi in alcuna di queste
scienze realmente e non di sole parole discordassero, potrebbero concordare in
qual che altra: laonde co' nomi degli autori potr bens distin- guere
materialmente i libri dello filosofie, ma non mai formalmente le stesse
filosofie. Poich quando si vogliono dividere le specie , non debbe entrare nelP
una quello che neir altra, altrimenti non sono bene divise. Per sono ve- nuto
pi volte in questo pensiero, cho non si possa aver giammai una classificazione
perfetta, ed una storia della filosofia , fino a che non stata fermata la perfezione stessa della
filosofia. Allora raffrontando alla perfetta filosofia le altre non perfette o
false, si potr determinare in quali parti discordino: e di ciascuna discordanza
si potr formare la base di un sistema falso , e quasi il germe di tutlo il
sistema (). (0 Sebbene So creda che le seieoie filotofiche si posMne 'ridurre 4
HD solo prDdpio f onde acquisUno quella unit che di molte una sola scienza
superiore a tutte > della quale quelle sono parti, ne rie* sce; tuttavia a
me non noto che questo sia staio ancora
fatto per* rettamente da nessuno. (a) Anche gli errori necessario che sleno dassificati e registrati
direi qustfi negli arduvi dello spirito nm|io : sono gli scariche fanno Ma pf
rohi queste* cose skno ekiirits d alcm pio, prcndiame nsn |p tutta la
filosofia^ pokhi oon stata ancora
ridotta ad un aenpiice pracipio^ e no ^eac Significata con questa parola una
acienaa aub^ au pren* diamo por usa parte della filosofia^ che di an aulo pnn
pio , o da una soia questione dipenda. E sia Quella di cai pi s occupa oggid il
Aondo y e che Ella aii tecca Bella sua lettera^ deU^ origiae delle ideo.
Queda liduoe ad un solo principio, o per
dir laegiio ad una aula dimanda: In che modo lo spiritn nostm venga in possesso
delle idee. Le (ar una classificazooe di alcune delle prDcipali opi nioni
tenute sulla questione. Queste opDioai dTerae o questi principii diversi,
riduceifedosi ad un solo oggetti , dTeo- tano naluralmeiite germi d vari
sistemi, i quali, scno o non sieno abbracciati dagli autori ^ aono per fra d
loro totalmente diversi perch sono figli di un priilcipio solo totalmente
diveno E prmieramente osservo ebe alcuni filosofi m aono il pie occupati ad
eaamkiaito la potenza di produrre o d^avere le cognizioni delle coa e le idee:
altri hanno fetmatal aaag* giormente la loro attendoae sui messi o aiuti
ealenit onde quella potenza ha bisogno per operare, l sistemi adunque suir
origine delle idee si possono dividere d4 questi due capi di divergenti
opinioni : A. dalla diflerenza dello opi aioni de^ filosofi intorno la poUaza
di conosoeie, B. e daBa diifereaza delle opinioni intorno gli aimi storni della
po- tenza di Qonoacere* A. Cominciando dal primo capoy . I. Alcuni peosatlono
che bastasse davo aH*aaima ufaapo* te'jsa o facolt , e per oggetto di questa
potenza le sen* . sazioni ricevute per gli organi corporei. Cosi prima delle
aensasToni, non posero nello spirito umano nessua traeeia di cognizione: Di
questi Ella vede cho il Locke, ) Coa- Miste
ecc. rlevare i chAri,* aoiif gli seogUcd i buncbi di leua aeaaaU sulle earU ^c^
navigaiifti. 497 n. Altri dissero che la facolt di pensare non bastava
concepirla nell'uomo prima del suo sviluppo , come una mera potenza, ma
bisognava dare a lei qualche traccia di cognizione non ricevuta dai sensi,
lasciando poi d^esa* minare se questa cognizione innata formasse parte essen-*
ziale e s' immedesimasse colla stessa facolt di pensare , 0 si dovesse
dbtnguere fra la facolt di pensare e questa innata cognizione. Ad ogni modo
costoro non si appagavano di cousiderare la facolt di pensare come una potenza
in genere e quasi diremo di natura incognita, come i Lockiani; ma volevano
protrarre pi A innanzi la loro investigazione (i), e non sem- CO Vedendo da
questo lato il Bstema di quelli che ammettono nelto ipjrto umano cfotlche cosa
dMnnato, apparisce chVgli e meno eontrario al Loekismo di quello che si crede
comunemente ; e che roppoeiiione fra i Loc^ini e gli altri minore fhe non si sfonano di far credere gli
itessi contettd*nti. Io prendo il Loekismo quale si troTa ne^ iMiont scrittori
^ e non disguisato e guasto dai materialisti: di pia, non parlo di tutte le
proposisioni di Locke, ma della princi- pale proposiiione del suo sistema, o
per dir meglio, parlo di ci che un tal sistema ha di positivo, e non di ci
ch^esso ha di negdtfo. Quando il Lockiano dice agli altri . FUosqfi chg ammetu qualche cosa d^in- nato :
u Or sareste to disposto di entrare con me ad esamioAre cfa (I qualit e
requisiti debba ayere la potenza di conoscere, perck^ella a sia atta a
giudicare e fare gli altri atti che le s altribuWoono*? Lockiano: h Questa questione possiamo bene
trattarla: io aono^ u eon voi n. Ora sapponiamo che i due filosofi entrassero
in questa ricerca , e ohe quegli che ammette qualche cosa d^ innato nello spirito
amano, conducesse il Lockiano a convenire che quella potenza di oonoacere cb^
egli ammette nclP uomo, per esser Uje, per poter fare gli atti a cui ella destinata deve aver qualche cosa di peculiare
da tutte le altre potenze j e contenere in se medesima qualche primitTa na-
sone : che cosa creder il Lockiano di buona fede d^ aver fatto con ci? Forse
mutato il suo sistema? Non gi; almeno a prima giunta. Egli piuttosto M
accomiater contento dal filosofo che lo ha tirato in lina tanto sottile
ricerca, cosi dicendogli: Vi ringrazio che m'*avete (c condotto a conoscer
meglio la poienza di pensare , che io anunet-
teva bens nelP uomo, ma che non mi dava poi cura di esaminare u
ulteriormente di che maniera ella dovesse esser fatta , e di quali propriet fornita; bastandomi d^ ammetterla
tale che possedesse in s tutto ci ohe e
oecefsaro a fare gli atti alla stessa appartenenti, - ^> tentiamo da
Leibnizio stesso il genuino suo sentimento: a Si l'ane reaacvibloii ces tablettes vuides, les rerit seroient en
nona somme la figure ft d^Hercule est dVns un marbr, quand le marbr est
tout UH A indiff^rent receyoir ou celte figure ou quelque autre. Mais s^^il j avoit dea veinea dans la pierre, qui
marquaaaent la figure d^*r- . cule prfnblemcnt
d?autjres fignrea erfete pierre j seroit piw deterraine , et Hercule y seroit oommc ione
eo quilfoe fa^a , tt quoy qu^il fallt du trarail pour dcouvrir ces veines et
poor Ir nettoyer par la politure , en
relranchant oe qui les empche de tt paroftre. Cest ainsi que les idees et les
reVileVs nous sont innes, u oomme des Indo'ations , des dispositions , des
habitudes ou dei u rirtualits naturelles, et non pas eomme des adtonsi qonyque
ee$ Tirtualit^s soient toujours
accoiqpagaes des quelquea artions so a rent insensibles, qui y repondent n
{Nouveaux Euidt jtir fEn- Undement huniain etc, Amsterdam et Leipzig MOCCLXV ,
pg 7 - In queste passo egli sembra che Leibnizio contrapponga la simit- tudine
del pfzzo di marmo colle vene nel suo intemo che detemi- nano le figure,
alPaltra similitudine usata da Hobbes della stallia eoo tenuta nel marme senztf
che fesse in esso tracciata da Tcae. Ecco
k Sol btto si creasse per ttna fotta dciraoiflM detemiiiata col presentimento o
coU^iaslioto aUc idee, E parai questo il sistema di Leibaizio. lY. Ka^t pu
ayere avuto da qnesti instinti, omie Leb* niaio iceva T anima mossa alk idee
(i) (quasi queste idee stesse fossero potenze separate che si riducessero ai-
Patto per una forsa Uro intrnaeca ), it primo concetto deUe sue forme
iwiate,.le quali mm soao dltro ehe determina- zioni dello spirito venute a lui
dalla sua propria atura ^ per le quali egli
costretto a veder le cose in un deter- minato modo subbiettivo, vestendo
tutti gii oggetti si del senso esterno cke del senso interno , come delP
MteUefCo, e della ragione (secondo la divisione ch'egli & delle fa- colt
delP anima), di queste forme; o per dir meglio con- siderando tutte le
cognizioni come fenoaseni dello sprito. A questo viene Kant; e faciloMnte Ella
comprende come abbia chiamato filosofia trascendentale It sua dottrina, giacchi
parla della forma di cui tutte le nostre possibili cognisioni nef^essaris mente
sono vestite, della quale perno non le possiamo giammai svestire; sicch il
parlare di esse piglia un oggetto che trascende lo stesso conoscere; e vede
ancora perch la sua principale opeiia egli la denomini: Critica detta ragione
fura^ assumendo a fare la critica prole di. qoest^altimos Mend ergo ium^ et
totitts Mundi fiUa Phi- htofim in u ip$o tstf nontbumJrtasttJqiftraUiy wed
gtniton Mundo quaUs 0rat in Prindffio ifrmi simitis. Faendum srgo Ubi ut quod
jaciunt statiutriif ifui maUriam excupentes suptr^acanemm ^ Imagi* ntm
non/kciuni $ed weniunt ^Lettera al Lettore, premetta alla tea Filotofia^. Per
aKre la timiKtiidine materiale che ate Leffmizio, per la rpiale P anima e
pangonata ad un marmo deteimioato a firme partkolari da delle vene interne ^
mottre ebisramsnla P origine del pirronkmo eritieOf natcente come abbiamo
altrove veduto, dall' applicare allo tpirito df Ile lifoitazioni timili a
qaelle di cui fornita la materia. Ved.
Volume I degli Opuscoli, pag. g e teggi (f) Kant approfitt assai da Leiboixio^
e leggendo le opere di que- sti due aiotofi attentamenSr, si vede ebe II primo
copia bene spesso le frasi del secondo e le immafoi sensa ctairls. 502 Ila
stessa ragione^ o a sciorre la questione, prima di tutt^ se questa stessa
critica sia possibile. Questi quattro sistemi differiscono, come diceva ^ dal
di- verso modo onde considerano la facolt di conoscere: il primo ristringendosi
a considerarb come ana meta potenza di conoscere, senza esiger pi oltre; gli
altri tte Radi- cando necessario di considerarla altres nella soa peculio
natura : e fra questi 41 primo pretendendo che in ea sia . necessario di
supporre ancora delle idee al tutto forviate; il secondo a volere che queste
sieno solamente certe po- tenze che si attuano quasi instinti primitiri; il
terzo final- mente insegnando'
necessario il concepire la ragione for- nita di modi 0 forme venienti dalla sua
stessa natara^ - e dicendo questi tre ultimi d^ accordo che non pu spie- garsi come P uomo si procuri le cognizioni
col solo im lagioare una potenza conoscttlva, se anche non ne disa- . mina la
natura. B. L'altra classe di ideologi si divide non tant per la diversit nella
quale considerano le stesse facolt di pen- sare , quanto per la diversit nella
quale conriderano la necessit di oggetti primitivi , su cui operando la facolt
di conoscere, ecciti o formi o crei a se medesima le cogni- zioni. I. E di
questi alcuno vuole che non bastino le sensa- zioni ricevute per gU organi
corporei , ma gli oggetti da cui viene affetta. la facolt di conoscere, e da^
quali colla sua attivit crea a se medesima la scienza, sieno, oltre le
sensazioni, tutti i sentimenti interni: ed Ella riconoscer in questo , per
nominare alcun recente , il Laromigniere. II. Altri esigono , oltre gli esterni
oggetti influenti sul- r animo, un continuo lume della divinit che a ki ri-
splenda: e qui vede il Malebranche. III. E Platone aveva certo veduto il
sistema di Male- branche, e travalicatolo, aggiungendo i molti lumi delle sue
idee eterne sussistenti quasi esseri al di fuori della divinit, emendato in
questo da s. Agostino, che fece la via al filosofo francese dcU^ Oiatorio. Soi
IV. Alciioi poi ( maisiinanente fra' moderni) non oon- teot di quelli vari
peosamenti, giunsero a credere che. alia facolt di conoscere, oltre le
seosarioni, ci voleva, un altro aiuto anch^csso esteriore fra il sensibile, dir
cosi, e r intelligibile, cio una favella, e dissero che Puomo non poteva
accorgersi del suq pensare giammai senz^ avere l'espression del pensare. Di cui
nacque al visconte di Bo- nald il suo sistema. E si avvicinano a lui alcune
sentenze di Platone e di Socrate ; e molti altri lo avevano gi prima traveduto.
Tra' quali il vide, prima di fionald, un Italiano che ne fece un orrendo abuso.
11 quale in alcun luogo scrive ; u E questa facolt di articolare la voce
applicandone i u snoni agli oggetti,
ingenita in noi , e contemporanea tf alla formazione dei sensi esterni e
delle potenze men-* tf tali, e quindi anteriore alle idee acquistate da' sensi
e a raccolte dalla niente: onde quanto pi i sensi Pinvigo* tf riscono alle
impressioni, e le interne potenze si eserci- if tano a concepire, tanto gli
organi della parola si vanno tf pi distintamente snodando . E in altro luogo
ancora dice cosi: t La ragione, che avvertita continuamente dalle tf alterne
oscillazioni del piacere e del dolore, equilibra a e dirige per mezzo del
paragone e della esperienza tutte ^ le potenze della vita, ove fosse destituta
della parola, u non sarebbe prerogativa dell' uomo , ma , come negli K altri
animali, ridurrebbesi all' instinto di misurare i beni it e i mali imminenti
colla forza delle sensazioni 9). Tutti e due conoscono T assoluto bisogno del
parlare per dare origine ai pensiero; se non che il secondo non vede da questo
di necessit assoluta, che il parlare sia velluto al > Puomo da tradizione;
mentre.il Bonald crede cop .ci stesso diffinito, che come la facolt di
parlai;e in noi nativa, cosi l'arte di
parlare sa io noi acquistata: quan- tunque poi dica: Soit que PlLtre supri&me ait cr Thommc (f
parlaut, soit que, par des moyens qui nous sont incon-, u nus, et qu'il nous
est inutile de connoitre, il lai ait u donn($ la parole apris Pavoir cr "
Sai Questi altri quattro sistemi admqve differiacono Ab ariet dfgli oggetti ed
aiati ^ da cai credono cbe sieM . essere assistita la facolt nostra di pensare,
perdk elb giunga al pensare. Ora essendo questa questione delP orgine delle
idre nnca e semplice, si possono benissimo, com'E//j recfe, classiS^are con
tutta esattezza i diversi sistemi saNc me- desima anche per mexzo dei nomi
degli aator ^ aeoaa dare loro una soverchia autorit , e presupporli DCalilxIt
nel tirare le conseguenze dai diversi princtpt.
danque necessario, prima di classificare i sistemi della filosofia o di
qualunque altra scienza, di rdur quelli ad un principio solo, 0 se questo non
si pu&, di ridurle a quel minor ou- mero di principii che possibile , e poi per ogni princpio fare una
diversa classificazionoi In tal caso poich da un semplice priocipio nasce va
sistema di conseguenze direi quan infinite, quando io ho classificati i
principii , vengo ad avere ancora ,'classificato accuratamente i sistemi che o
sono stati giustamente tirati da quei principii, ovvero si possono tirare da
qaelli. Iton m^ allungo con altri esempi per non essere infinito: ma diri solo
, che chi volesse classificare i sistemi aeeonde i sommi criterii della
certezza, allora avrebbe on^ altra questione pure semplice onde potrebbe cavare
una esatta classificazione. Che se poi dimostrasse, che tanto la que- stione
deir origine delle idee , cose la questione del sommo criterio della certezza
dipendono da an solo prin- cipio antecedente, allora avrebbe trovato il modo di
di- atinguere con qna classificazione i sisteibi che vengono dalle due proposte
questioni , non formando esst in questo caso se non due parti di un altro
sistema maggiore. E facilmente Ella da questo intende, come, se tutta la filo-
sofia potesse ridursi ad mi solo principio , allora solo si po- trebbe ben
classificare tutta la filosofia con una sola das- aificazione , bastando
distinguere bene le dtrerse opinioni sol principio da cui dipende. So5 Ma .ben tempo che io passi a dire una parola
snlla seconda richiesta che Ella mi fa, colla quale aspetta la mia of^iniooe
sopra i vari sistemi della filosofia. Ella vede, che la risposta che io Le
posso fare, dipende atrettameate dalla prima che le ho fatto. Sarebbe forse
possibik rspoodtre bene o male aopra qualche panto della filosofia partieolare^
ma sopra i vari sistemi di tatta l filosofia non. mi pare che si possa dir
naila di ferino e aenxa equivoco, meotrt trovo, come dissi, tanta difficolt
solo in cnvenire io che differiscano questi sistemi. D' altra parte,, per mio
credere, non si pu giudicare con siciireaza e senxa pr.'^onzione degli altrui
sistemi se non p^r mcazo di un altro sistema gi formato j pel quale sia veivita
in animo grandissiaia persuasione di aver con seguito la. verit che sola giudice dell' errore: e quando anche
alcuno fosse venuto a questo, sarebbe cosa assai ar* dua esporlo chiaramente
Oelle angustie di una lettera. Mi conceda adunque che in luogo di risposta io
attenda pia tosto P indieasionc d qualche questione particolare , sopra la
quale Ella desiderasse sentire quello che mai mi riu* scisse dirle : e per
questa le faccio una sola osservazione generale. Io credo giovevole e iodesta
cosa considerare i sistemi de' filosofi, coir occio pi Civorevole. Mi parato di ve- dere che quasi sempre essi
sieno caduti in ergere per im- perfezione dUdee, non per bbaglio nel
ragionamento; e per che tante volte bastasse aggiungere in luogo di mutare ^ e
ricondurvr alla naturale interezza i germi che ossi hanno posti in luogo di
distruggerli e gettarli di nuovo. Molte volte ancora due filosofi trattano di
un argomento diverso, e credono di trattare lo stesso argomento , e vengono
alle mani come inimici \ mentre che V uno batte una strada , e r altro ne batte
un' altra , sensa incontrarsi (i): Pano chiarisce un punto deU'urliaao sapere,
P altro ne chiari* sce un ahco a quello contiguo bens, ma che non quel- 0) VedL un sicmpio di ci ila noU (r)
della pag. 497- Opusc. FU. T. IL 64 5o6 lo : e perch sono nelU stesso
tenritorio , mt !}?* UD^at- tra parte di esso , si avmaoo di combattere. iiMese
per lo stesso ponto di terra. Li conduce a questo ^ ootifcssis- molo ingenaaflMnte
, mio caro Signore ed amico , qaeli presunzione e quella baldanza che Unto
insensatamcote entra nell^ animo delPuomo che aspira al conquisto della scienza
, senza arer ricevuto e portalo il soave giogo della venti. Peri mi riesce
dolorosa cosa e importevole il v^ere come .tutti quasi i filosofi si
assaliscano e oaordano scam- bievolmente: vogliano che tutto sia nuovo ne' loro
libri; 0 basta che rinvengano nuove vesti ad un aulico pensiero per dichiararsi
creatori di un nuovo sistema, e scopritori di una verit non isplenduta giammai
agli occhi de|^ uo- mini che gli hanno in terra preceduti. queste male disposizioni si proprie de^
mortali non i a dire quanto impediscano i progressi del vero sapese, e eolla
discordia ddle sette quante verit venute li* aperto non rimettano forse per
secoli novellamente sotterra colla derisione e collo spregio del sistema nel
quale enuio coo- tenote; Cosa lontaniasioia dal dolce e concorde spirito che
mette in noi solaJa Religione della verit! E cosi non facevano il grande
Agostino ed il gran Tomaso, n al* euno dei sommi splendori della Chiesi , che
^puuto per questo sono dalla. piceoleaaanfiaila. degli' uomini tenuti meno in
pregio di filosofi e men seguiti perch non hanns spacciato se stessi a
fondatori di sistemi, solo partecipi della verit e di tutti gli altri sistemi
distruttori* Ed Ella vede che con questo stesso io ho cominciato a rispondere
alla sua terza interrogazione: Come arrivare alla scoperta del vero. . Le belle
disposizioni delP animo suo, mi pnre, sena alcun dubbio le ||^i precipue di
tulle: di poi la eleva- tezza, della mente: la fermezza sulle basi della
Religione cristiana, che quanto pia si studia, piA fa creseer Tali al* V
ingegno. e spiegarle ai metafisici voli: nel medesimo tempo la libert dai ceppi
tatti che mette ^I progresso dell^ in- gegno la piccolezza degli uomiai :
avezzai|i a contemplale Soj le idee stesse prive delP involucro delle parole,
degli schemi, de' metodi: sapere avvisare la verit sotfo qua- lunque forma e
colore; amarla sotto tutti: abborrire la setta e il sistema in quanto limita
queste forme della ve- rit , e studiare assai nelle parole. Nelle parle (
questo vero discende dalle osservazioni di Bonald, e prima so- nava alto nel
Vico ) nelle parole sono contenute le scienze delie nazioni: per guardarsi
dairakerarne il /senso fisso lore dai popoli , dir di pi dalla Providen^ , da
Dio : la propriet delle parole strettamente conservata, Panico mezzo alla chiarezza delle idee, a
fisiarlf , a concordar- le. Di questa propriet fu sottilissimo investigatore,
fermis* Simo mantenitore s; Tomaso. Il volere alterare il valore delle parole
fu Parte di molti antichi e moderni. sofisti, e di molti filosofi profani :
appena ^ inganna il mondo ie non con questa alterazione : di quasi tutte le
parolo filosofiche e politiche si abus, e t mostramento di ci furono fatti
molti scritti. Chi osservasse gli errori venuti dalP abuso della parola zTtcr
nella scienza del diritto e della morale, dlie parole siRSAsiom, pugiiui^
solorc nella metafisica, delle parole vouiGLunzA e libkrta^ nella poltica',
della parola rigchbzz nella economia, e di molte altre consimili, alle quali
comunemente non si fece che aggiungere un senso pie estieso del senso dato loro
dal eomane uso; avrebbe raccolto le orgini d'incredibili in- ganni alla mente,
o d'incredibili guai alla Umanit.. . t Pi Eeverelo, il M i ol^brt i8^. i n E
INDICE i^aggio sulla Speranza contro alcune idee di Ugo Foscolo 1 LiB. I. Della Spendn^^ ipgann^t^oU. . . n 3
LiB. IL Del timore che si mesce alla Spe* ranza ingtinne^ole >* 55 Li. lU.
Della Religione cke toglie le iUu- sioni della Speran^^ e gli affanni del
Timore n 8i Arrso sui quattro Opuscoli seguenti . . n loi Esame delle opinioni
di Melchiorre Gioia in fasfor della Moda. ...,. io5 Galateo de* Letterati *>
169 Cap. I. Occasione di quest^ operetta. . . .
17 { Cf. II. Scom^enienie nelle fonne sotto le quali si presentano le
proprie idee, n 179 1. Segni d^ira 180 $ a. Mansuetudine simulata. .... 9
182 3. Ingiurie 184 4'
Asserzioni gratuite i85 5. Dnostrazion di schiocchezza. . . 186 6.
Indole ferina 188 7. e rigor sof^erchio 190 8.
Meccanismo nel conipor libri. . . iga $
9. Lusinghe del pubblico '^ ^94 IO.
Bugie e imposture I. Famiglia, Tran" camenti di luoghi, .... 2^5 ifi. Parlar^ irreligioso. >. . . .
^ 229 Cp. III. ScQni^enienze negli aceessorii al principale argomento i>
a36 I. Indur prei^enzioni a danno deWav*
versano " ^38 a. Continuazione a4o 3.
Luoghi comuni y !i4^ 4* Disprezzo
dell'alta metafisica. . . i> ^43 5.
Accusa di odiar la civilt. ... 14^ $ 6.
Continuazione. ........ 9 a49 $ 7. A/^e idee intorno la civilt. . . !i5o
8. Continuazione 25i $ 9. Causa
della civilt confusa colla causa de' tempi 9 aSy 10. Mancanza di distinzione fra la ci"
vilt e la politezza a58 11. False idee
sul progresso della ci' vilt e della politezza 9 261 Gap. IV. Sconvenienze
nella trattazione del principale argomento. . .- . . . n a64 $ I. Ignorare la
dignit della letteratura, m a65 a.
Considerar le cose da un solo lato, n 269
3. Continuazione 9 271 4-
Mancanza di definizione. . . . .
273 5. Abuso d^ fatti. 276 6.
Abuso d? autorit 278 7. Principio dell'interesse 282 Gap. y. Prineipii generali del Galateo. -
Pa. s86 Saggio sulla definizione della Rtcehezia. n 'oy Partb I .. ^ .'.... 3o8
Vkwsm II. . . 33 Breve esposizione della
Filosofia di Mei* chiorre Gioia 335
Parie Teoretica Parte Pratica. .........
^^^ %L Nozioni preliininari* . .
. \ $ IL Doveri dell'uomo ^li $ III.
Doveri del eiuadino^ n 422 $ IV. Religione.
n ^Bj JFhtnunenio di lettera sulla class^razione ds? sistemi filosofici
e sulle disposizioni necessarie a ritrovare il vero. . . 4^ AVVISO
prtgmo M po^sudt il primo pUmui 'dtgU OpuMoli iloMiei 4 fiune tul
unduimo ie spgmn c^rrmord importami. OH Paf. ziL lin. 7. pia v^ la 98. te medesimi cMi medesimi 38. n. aSw
colefta questa sa ^ 9 iu tua 88. n M> penrtrsitk noireirmlil .. 96. i . Dl
primsipio Del mn nel principio e nel Anc
111. n i3. edato poco aTTedato ai& n , \, Porgano formato . Porgano
.fonnato aa3. aeeonda . tutti proclamano U prima 378. n 18. i quali suscitano
rma iUnti nel bene che la a4. n II. dell^rdire dalP ordine ^9- ranmenlargliene
a54. 99 a5. cada alle aoffcrrnie ceda alle sofferense !l6l. n 9; che ingenera
evi ingenera ^ 471- n 17. tacer a voce
tacer a voi 373. i3. qaeati
scaltretcamante si qnellt scaltrcicamente si taodono tMDdono ^^ ' 6. ttnito
fcnao 399. n 99. iiell*oBo dairnoBO m 4r* >6. iionie aecresoe nome noti
nocreaoe 374- 9 4 oMflte ' morale tl n 92. d^esso eaclutiTamente 1 . * V
. d* esso solo eadoiTa- mente ti. 9 37. piacevole piacere lA.pMaeme.Qfyera e
posto sotto la aalvagoarda delle leggi* et* praaorivoao. ^ -.f Dalla libreria
Pogliani si trottano ttndibiU le seguenti Opere dello stesso autore. Delle lodi
di 8. Filippo Neri. Venexia 1821. Del modo di catechizzare gV idioti , libro Ji
6. Agostino volgarizzato. Idem 182 1. Saggio sopra la felicit. Rovereto 1822,
in 8. Volgarizzamento della Vita di s. Girolamo , testo di lingua. Roveredo
x824) q 4- Breve esposizione della Filosofia di Melchiorre Giojd) raccolta
dalle sue opere. M<l. 1828. ( una
Confutazione di questo Autore ). Nuovo Saggio suirOrigine delle Idee. Roma
i83o, tom. 4) Q S* Principi della Scienza Morale. Mil. i83i, in 8. Della
Ecclesiastica Eloquenza. Discorso pronun- ciato nel Seminario di Trento il
sgMarzo iSSi. I. . DELL' ABATE A
/ ' KD8SMBI1 aiMMH swu
8TAB22*2JBlTrO TU. E OAXiO* VI OAKC S4?8XiZ*I I OCSHT. Largo 3. Giovanni
Uaggure I. 30. 1844. Digitizred by Google Dgitzed by Google FILOSOFIA DELLA i
aj a & b a VOLUME IV. Piatit eci by
Google Digitized by Google Digitized by Google Digitized by Google DEL PECCATO
ORIGINALE IN DIFESA SS> GRASSA? S&&A GSgSS87SA CONTRO IL FINTO
EUSEBIO CRISTIANO. Digitized by Google Digitized by Google A 'accoglie questo
volume alcuni scritti co' quali f autore rispose a degli avversari che
attentarono di mettere in dubbio la sanit della sua religiosa dottrina. A ha
non parve di dover tacersi in cosa s principale, eziandioch alcune censure a
lui fatte fossero e di poco peso e in modi sconvenevoli esposte. Perocch la
verit cattolica la vita degli scritti
suoi ; ed persuaso eh' esser debba la
vita degli scritti di ogni persona, a cui abbia la divina Bont conceduto di
possedere si pienamente la ve- rit, da appartenere a quella Chiesa che n la colonna ed il firmamen- to. Laonde ehi
potesse dimostrare d un tale scrittore, che dalla purezza e pienezza della
sapienza cattolica si allontanasse ; avrebbe gli scrini suoi ferito a morte, e
resi imitili quelli a cui pure sono rivolti. Concios- sinch a chi altri possono
essere indirizzate principalmente le parole di un cattolico, se non ai fedeli
della sua Chiesa ? E che altro intendimento Rosmini Voi. XII. 425* Digitized by
Google pu egli avere , in iscrivendo, se non di difendere, illustrare o
sviluppa- re la dottrina eh egli, con essi, credendo, professa ? Troppo
avventurati sono i figliuoli della vera Chiesa di Cristo, pel deposito che
hanno delle salutifere verit ! e troppo han ragione di ser- barsi gelosamente
un tanto tesoro, che loro non pu venir meno, guaren- tito neir unit deir
apostolica cattedra a cui sono discepoli ! Non fluttua- no essi neir oceano
tempestoso del dubbio, come pi o men di fare
mestieri a quegli infelici, che dalla beata societ loro stanno divisi.
Ai quali non resta se non il laborioso travaglio di cercare la verit, men- ir
essi ne godono gi il possesso, la meditano e contemplano, e quasi ali- mento
saluberrimo in propria sostanza la cangiano. Onde non uopo a' cattolici di tornar sempre addietro
nello studio della sapienza , e rimet- tere in questione continuamente ogni
cosa, come se nulla conoscesser di certo, e fosser sempre ai primi elementi del
sapere : questo desolante gioco rimane bens a fare all umana filosofia, se sola
e senz aiuto di fe- de procede ; la quale va, va ; ma su' lunghi suoi passi
incessantemente ritorna, incerta com ella
sempre d averli ben posti. Di che apparisce che l' attenersi alla
cattolica verit non solamente necessario
alla sala- le, ma condizione altres indispensabile al certo progresso della
scienza. N perci l argomento di questi opuscoli si limita alla difesa della
dottrina dall autor professala : anzi questi volle cogliere altrettante oc-
casioni di svolgere pi ampiamente qualche punto speciale di essa ; pro- curando
in tal modo di aggiunger loro qualche importanza anche per que' lettori che
quella difesa non curano, o di cui non sentono alcun biso- gno , e questi non
saranno per avventura pochi, certo i migliori. Cos a ragione d'esempio il primo
opuscolo , che anche il pi este- so,
toglie ad esporre c la dottrina del peccato originale i, che si gran Dgitzed by Googl XI porle delia
cattolica fede, tanto importante a tutte le dottrine morali. Ri- volgendosi a
una verit rivelala s misteriosa, l' umana filosofia trova quella luce di cui
ella non pud far senza, nei buio stesso pi profondo della Fede. Gli opuscoli
seguenti del pari, in difendendo le dottrine dall' autore gi esposte,
svolgeranno qualche nuova parte detta morale filosofia on- de non senza ragione il volume ha per
titolo Opuscoli Morali, e fa parte della Classe di opere appartenenti alla
filosofia della Morale. Digitized by
Google Digitized by Google LETTERA lieti llltislriss. e Reverendi. ss. Signor 1). Paolo Gio. Ilerlolozzi , Canonico detta
Metropolitana di Lucca , ali abate D. Antonio Rosmini Serbali , Crepolilo Ge-
nerate deli htituto della Carit (1). Chiarissimo Signore ^^he dopo tanto tempo
dalle relazioni fra noi sospese, anzi adatto cessale dot Giornale di
Pragmalogia, io le faccia rivedere i miei caratteri, parr forse un po stra- no
; ma v ha circostanze alcuna volta , che aperto carteggio , e contralta servit
e obbligazione, come avviene di me verso la stimatissima sua persona, non possibile il tacere. Mi muove a scriverle l'
interesse che ho grandissimo per lei, cui ho sempre a memoria dopo le usatemi
cortesie, talch come io mi compiaccio se altri loda il suo merito , cos mi
rattristo se la sua fama venga da qualche suo emulo attaccata ; e di questi ne
ha molti, che la virt e la scienza eminentemente posseduta desta l invidia e l
rancor de malevoli. Or non pu credere in quant amarezza d animo io sia ca- duto
per essere stato assicurato che gira un opuscolo che attacca una sua opera mo-
rale, cui non conosco (e credo non sia pervenuta in Lucca), come una piazza
inve- stita da ogni Iato, e di cui si vuole comunqne 1* intera mina. Mi si dice
da chi lo ha letto, provarvisi che questa sua opera ridonda da capo a fondo ci
inesattezze , d' ar- rischiale proposizioni, di manifestissimi errori; che vi
si riproducono le massime di autori gi solennemente dalla Chiesa condannati ;
che I' eresie, le proposizioni erro- nee di Baio , di Quesnello , di Giansenio,
di Calvino , di Lutero apertamente vi cam- peggiano, vi si rilevano senza molto
studio; e si conchiude che il Rosmini, quel s famoso scrittore.... che il mio
Rosmini traboccato nelleresia! Mi si
dice inoltre che quest opuscolo assalitore
scritto con evidenza di tali ragioni , che previene e svi- scera sino al
midollo I ascosa mente dell Autore, e dichiara il mal uso e lo strazio eh egli
fa della dottrina di s. Tommaso e dellApostolo per colai guisa da non restare
all Autore medesimo che o rendersi a discrezione , o capitolare
vergognosamente, purch ne campi la vita. Tanto mi stato detto con assicurazione. Fra pochi di
spero di vedere questo audace scritto ; ma non fo intanto alcun giudizio contro
di lei : rispetto (1) Quota lettera e la seguente fu pubblicala in Lucca, e
ristampala a Torino e n Nove- ra, o inserita nel Propagatore Rcligioto. Stimasi
bene ili premetterle qui come una colale in- troduzione storica alla seguente
risposta. Rosami Vol. XII. 4-G Digitized by Google 2 e venero nel signor abate Rosmini
un prete non pnr dottissimo, ma cattoRcissimo e zelantissimo. E non quel desso il Rosmini che or fa sei anni
scriveva all* infelice de la Mennais una lettera tutta carit, stringendolo coi
vincoli della ragione e della reli- gione, ed esortandolo a rientrare nel
perduto sentiero? E donde mai si partiva quel- 1 unzione di che tutta la famosa
lettera ridonda, se non dallo spirito di Dio il quale investe, muove, rapisce
sol qoeche son pieni della sua carit? D' altra parte, chi costui che, stando in aguato, avventa colpi
alla riputazione d' un uomo s conto nella repubblica de' dotti, e s chiaro
nella Chiesa ? Perch s intnge di nome, perch stampa alla macchia? Ei dunque
teme tanto il Rosmini da non tenersi salvo che con ascon- dersi perfino alle
ricerche del tipografo ? Sar, io dico, che il suo scritto abbia ogni apparenza
di verit, e supponiamlo anche vero in tutto quanto il sabbietto; ma come egli
apparisce all esterno con intera la sembianza della calunnia, oos non pu fare
cne tutti, fino almeno conosciutala verit, non si accordino meco a tenerlo
calunnia- tore, o a ristare, per la men trista, su quanto egli francamente ci
vuol far intendere ; perci dissi scrino audace. Perloch io ritengo che colui a
chi sta in cuore il vero, e brama sia conosciuto dal mondo, non dee vergognare
di palesarlo a fronte scoper- ta, o se , non cercando il rnmor del mondo, ne
piace la modestia, taccia pure il suo nome, ma noi mentisca, e non commetta
solo al millesimo l edizione del suo scritto, sul costume del secolo scorso ,
quando il regno de' miscredenti andava in fooco di guerra contro i Gesuiti e la
sacra Inquisizione. In effetto non picciola ombra ne offre l epigrafe che mi si
narra posta sulla coperta dello stesso libercolo, tolta dal Purga- torio di
Dante, canto xvm : Drizza, lettor, ver
me le acute luci , ecc. (1). A persone dabbene che vorrebbono trattati gli
uomini colla carit evangelica, troppo increscono questi modi scortesi. Mal s'
incomincia un ragionamento , e mal si pre- viene il cauto e discreto lettore a
danno dell autore e dellopera stessa, se al primo gittarvi so l occhio accada
vedervi manifesto il sarcasmo. Ragion di pi per non cre- der all' annunzio che
vuoisi dimostrato della caduta veramente orribile falla da uu uomo sommo dall
altezza e dall' apice della gloria nel pi profondo abisso deli igno- minia e
dell infamia. No, mio caro signor Rosmini, io non credo a s grave infortunio ;
non credo che chi ha dato lungo saggio al mondo di virt, di scienza, di zelo,
di vero spirito ec- clesiastico , che ha faticato nella vigna del Signore eoo
tanto utile delle anime , che ha ritornato nella via della salute tanti
traviati, che perfino da pi del patibolo donde nn miserabile pendea per
soddisfare alla terrena giustizia , colla rispettata c temuta sua voce ha
santamente scosso la gran moltitudine degli aspettanti quivi concorsi ni
tremendo spettacolo, non credo affatto che abbia potuto di rovescio balzare
nellere- sia. Che ammirazione, che scandalo in tutta la Chiesa di Dio non ne
vorrebbe, dato caso che ci fosse !! A questi tempi soprattutto, che altri chiama
felici, cd io li chiamo infelicissimi per la quasi universale corruzion de
costumi e delle massime morali
religiose, per le manifeste persecuzioni che si muovon alla vera fede,
qua} rumore non menerebbe la caduta d un uomo la cui fama non basta solamente
all Europa , tanto smisurata! Ma ben mi
ricorda in proposito i disastri incontrati da monsignor di Fnlon ; c l invidia
mosse contro di lui aguzzando la lingua e accoccando gli strali, perch non
polea sostenere tanta virt e tanta scienza. Ebbe il povcr uomo alcuni terribili
mo- menti che il posero fieramente in battaglia , ma ne usc vittoriosamente.
Furono mo- ti) Ila sentila parlare duaa nuova edizione di quest opuscolo ,
nella quale sarebbe lotto tutto ci ebe sera di pungente contro il (losmini.
Digitized by Google 3 menti dalla Provvidenza eletti a depurare la sua virt. E
pure tuttoch straziato, percos- so, avvilito per ingegno de malevoli, qual oggi la sua fama? intera. Tutti ricono- scono
nel Knlon I' uomo virtuosissimo ; le sue opere girano portate in varie lingue
per tutta Europa, e sono avidamente lette, altamente pregiate. Solo le sue
Maxime* de* Saint* trovnnsi registrate nell'ludice; ma si legga l' istoria,
vedaosi le sue lettere di discolpa , e chiaro apparir non avere la santa Sede
pronunziato contro di lui, se non perch posson correr pericolo d esser male
interpretate ; e pi il potevano allora per il Fervore de suscitati partiti.
Coraggio , signor Antonio ; chi sa che questo non sia un cimento donde abbia
del pari a uscirne glorioso come quel degno Prelato? e meglio ancora, cio
superar gli attacchi senza passar per la grave umiliazione da lui
ottenuta? Ecco intanto il perch le ho
scritto. L'opuscolo in proposito essendo di recente stampato, non so se pervenuto sia per anche nelle sue mani ;
pi probabilmente s, e potrebb essere gliene Fosse fatto dall'Autore stesso il
dilicato presente. Nel dubbio in ch'io andava ondeggiando, presi la
determinazione divertirla: qualche amico me ne sconfortava; ma io era sempre li
fitto col pensiero d e notte, non senza profonda puntura d ani- mo nello
scorgere s malamente concio un uomo insigne, a coi mi professo d altra parte
obbligatissimo. Se colla gravezza del
mio dire, o forse anche con inoppor- tuno divisamelo mi son fatto troppo ardito
e increscevole, deh mcl perdoni! Se mi vedesse il cuore mi dispenserebbe al
certo da ogni scusa. Perdoni altres qualunque frase o espressione men
ponderata, perch ho scritto in fretta c a molte riprese dalle molte faccende
che mi pongono giornalmente al torchio. Lucca, 23 aprile iS4-i. Devot.
obbligai, servitore Paolo Ci. Can. Ukutolozii. e Digitized by Google Digitized by Google
&X.SP@TA DELL" ABATE il O S M I V 1. Reverendissimo signor Canonico La sua cara
lettera un pegno di vera cristiana
amicizia, uno di que pegni che non si dimenticano mai. Io ne la ringrazio con
lotto il caore. L opuscolo di cui ella mi parla come messo in giro anche cost,
ma da lei non veduto, neppur io potei aver- lo ancor nelle mani. Ne seppi
lesistenza solo pochi giorni fa: una persona lo port alleminentissimo Cardinal
Tadini, arcivescovo di Genova, il quale lo mostr ad un mio amico. Questi nand
in traccia per Genova affine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano,
tutti nc parlavano, ninno seppe dirgli dove fosse, donde lo potesse ave- re. Ho
ragione di credere che una copia ne sia stala recata altres all arcivescovo di
Torino, e ad altri prelati e magistrati. Tosto che mi verr fatto di
procacciarmelo, po- tr dirle qualche cosa del coulenuto. Le posso per parlare
Gu dora del pi im- portante. Il pi importante
la mia fede, che, come sento, si attacca. Io non pretendo gi di essere
infallibile; ma goai se la fede cristiana dovesse riposare sullinfaliibili- l
dell'uomo ! Essa riposa tutta sull'autorit di Dio rivelante, il quale ci fa
conosce- re la verit per mezzo delia santa Chiesa. Sa questa autorit la mia
fede, come quel- la di ogni altro fedele,
basata : ella dunque indipendente
al tutto dal ragionamen- to, ed io non ho mai fatto de miei ragionamenti ( Dio
me ne guardi! ) il sostegno e lappoggio della mia credenza, gli ho considerati
sempre come cosa da questa diver- sa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso
qoel ragionamento che fosse anco me- nomamente opposto all'autorit delia
Chiesa; cos, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che seuza
accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso 3 uest infallibile
autorit, ci proverebbe bens in me dellignoranza e della fallacil i giudizio, ma
non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono gi nato per esser
dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, n mai a questo fu- mo ho
rivolto le povere mie fatiche ; ma sono nato bens per esser credente, e fallo degno
delle promesse di Grato, qual Ggliuolo devoto della sua chiesa. Da questo el-
la conoscer, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di
letterato che ella mi dice avermi per 1 addietro acquistala, e che Tesser io
convinto digno- ranza non quel che mi
pesa. Il mio tesoro la santa Fede e
qui anco il mio cuo- re. Laonde se
avvenisse, poniamo il caso, che la santa Sede Apostolica mia maestra e maestra
di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi
certo difficile il far qualsivoglia pubblica dichiarazione che rendesse la mia
intemera- ta credenza pi luminosa, giacch tutto ci che io avessi detto contro
questa credenza T avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e
ritrattandomi, non farei altro che esprimere quel pensiero immutabile che io
mebbi sempre fermamente nel Digitized by Google G cuore, e solo correggerne
l'espressione esterna manchevole a renderne con esattezza quell intimo mio
pensiero, voglio dire la mia piena fede. Che anzi le dir di pi. A chi mi ebbe
mostrato qualche mio sbaglio, io professai sempre gratitudine, come vo- leva il
dovere, n alcuna difficolt sentii mai a correggerlo, per amore di quella ve-
rit che sola voglio ed amo in tutte le cose mie: e se questo feci e fo nelle
cose pi indifferenti, come noi farei io in od ponto si capitale com' quello
della mia Religio- ne ? dove, oltre l'ffendere la verit c nuocere allanima mia,
mesporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa
bo io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora
le pervertir io stesso? e ad oc- chi aperti ? Iddio noi permetter mai, io ne ho
tutta, e in lai solo la fiducia: in lui che minfuse la fede bambino, e mi diede
una illimitata devozione alle decisioni del- la santa Sede Apostolica; in Ini
che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi
farebbe desiderar quasi d esser caduto iu un involontario errore, purch
senzaltrui danno, per potergliene rendere una confessione pi alta e solenne. Ma
questo involontario errore ci sar egli dunque nelle vostre opere ? ella mi
domanda. Le rispondo con s. Paolo : AVA/
mi hi conscius sum, sed non in hoc justificalus sum. Mi parla nella sua lettera di errori di Baio,
di Quesnello, di Ciansenio, di Calvino e di Lutero ! Il solo sentir questi nomi
mette, a dir vero, rac- capriccio. Le detestabili dottrine di questi
eresiarchi, eretici, o fautori d eresia, so- no state condannate giustamente
dalla Chiesa : io le ho sempre condannate e dete- state insieme con essa ; e
com egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia essere aneli io un
tralcio reciso dalla vite, buono da pittarsi solo sul fuoco? Dio mio! 1 udir
questo certo una grande umiliazione. Le bolle de sommi PonteGci, che condannarono
il giansenismo in tolte le sue diverse gradazioni, sono certamente sot- to i
miei occhi ; e pure io non veggo che n no solo de sentimenti espressi nelle mie
opere, e nominatamente nel Trattato della Coscienza che, come credo, si prende
specialmente di mira, s approssimi ai sentimenti condannati di qne novatori.
Che anzi pi volte io citai le proposizioni condannate in essi, affin di
mostrare qual sia la strada perversa io cui quelli eransi incamminati, e qual
sia perci la contraria che noi dobbiamo percorrere ; pi volte mi son dichiarato
in modo da non lasciare intor- no a ci il minimo dubbio. Che dunque si pretende
con tali accuse ? qual progetto ci cova nascosto ? Vuol ella che le dica in Gne
di pi ancora ? Vuol ella che le apra tolta l intima mia persuasione ? Vuol che
le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente pre- vede dover avvenire da
quest aggressione alle spalle che or mi si fa ? Mascolti beni- gnamente, e non
attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza c il
testimonio interiore dellanimo depone in me stesso, ed a lei ingenuamente
confido. L' autore dell' opuscolo che secretamcnle si sparge, sar stalo mosso
da buon zelo per la purit della fede; ma egli
probabile assai che siasi grandemente riscal- data la lesta, e che mal
pratico delle dottrine filosofiche; e dello stile rigoroso, che io stimai bene
d adoperare nel Trattato della Coscienza come nelle altre mie opere, per
ridurre le quistioni complicale a' loro semplici principi, abbia preso, come si
suol dire, delle cantonate. Egli facile,
appigliandosi a qualche frase staccata, a qual- che periodo mal inteso, farne
uscire un senso a rovescio ; come facile
comporre un centone di passi, che dicano tutti insieme precisamente l opposto
di ci che volle dire 1 autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle
frasi del Vangelo si pu be- nissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perci
? Certo che dee nascerne neces- sariamente da nna tal frode qualche susurro per
ogni canto, massime che ci sono anche assai di quelli a cui bucinano da s gli
orecchi. Questo dee portare di consc- guente una costernazione ne buoni, un
gaudio ne tristi, un colai sospetto nella mol- titudine che non pu giudicare in
merito, de partiti ardenti, uno scatenarsi delle paa- 7 sioni ; ci appunto che
voleva l inimicus homo , qui superseminaoit zizania- Io ne addoloro pel ben
comune : per veder quelli che doveano essere meco uniti , cosi di- vidersi. Ma
iuGne ? Se si tratta di mere calunnie, bench sottili e potenti le temer io ? Eh
! non vive egli Iddio ? Non regna egli Cristo ? Non vede i cuori ? non cono-
sce egli i suoi servi ? Non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel
bene della sua Chiesa ? Che c a temere?
Gli dar io cagione di dirmi : Modicae /idei, attore dubitasti ? No certo, colla
sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario ? Il Pa- pa non egli assistito e condotto dallo Spirito santo
? I giudizi della santa Sede han- no forse niente di comune coi giudizi
precipitosi c riscaldati di alcnni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum
scienliam ? Ecco dunque ci che avverr. La san- ta Sede tutto esaminer colla sua
solita posatezza, imparzialit, prudenza e sapienza; ella andr al fondo della
cosa e giudicher con piena cognizione di oausa.il suo giu- dizio stato sempre la mia regola, sar tale ancora.
Io amer egualmente una re- gola si cara, s dolce, s certa, s sicura , qualunque
ella sia, qualunque cosa ella prescriva o a seconda o contro della mia
persuasione. La quale per non le voglio lacere qual sia. Sio nulla veggo, la
santa Sede, giudicando sane le mie dottrine, le render pi utili ai miei
prossimi, pe' quali io le scrissi, confidato di scrivere quello che il lume del
Signore mi suggeriva; di pi, accrescendosi, mediante questa contro- versia, lo
studio ai esse, si verr a conoscere che vi si contengono degli argomenti
validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Bajo,
Quesnello, ed altri sopra nominati ; e in questa vista veramente furono da me
scritte. Ma ella ritenga sempre, che questa mia persuasione, dettatami dalla
coscienza insieme e dalla cognizione non leggiera delle materie ne' miei
scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede, la quale semplice, e in altro non fondasi affatto che
in Dio, e nella santa sua Chiesa. Sono coi sentimenti di sincerissima stima e
grata riconoscenza suo Slresa, 28 aprile i84i- V utilissimo e obbligatissimo
serto A. Rosmini-Serbati Pi epos lo Cenante dell' Istillilo della Cari l.
Digitized by Google Digitized by Google RISPOSTA AL FINTO sosaa-is
sasssa&st Et ne aufertu de or me o vertuta venienti usguequague. fa. CXVUt.
1. L^t nomo che impose a s slesso il nome di Eusebio Cristiano, che Tiene a
dire on Cristiano pio e religioso, pubblic alla macchia un virulento opuscolo
contro di me, il qnal da prima in varie citt dItalia segretamente fu sparso, e
a poche e certe persone confidato : di che uscitone il rumore, parlandone
tutti, rari erano tut- tavia quelli che letto o veduto lavessero : di poi,
resosi pi comune, anche alle mie mani pervenne ( 1 ). Non avrei obbligazione di
rispondere, n risponderei certamente, se I* incognito autore avesse combattute
delle mie opihioni indifferenti ; attesoch le sopraccresrenti mie occupazioni
mi tolgano il tempo e le forze da entrare in discus- sione con quelli che di
loro osservazioni m onorano. Ma non una
placida discus- sione a cui m' inviti Eusebio Cristiano : anzi volgendo a me,
come a reo convinto, uno sguardo severo, m intima la capitale sentenza, e colla
maggiore solennit an- nunzia al pubblico che io ho travialo ( 2 ), e fa sapere
a tutti eh egli ha finalmente scoperto il tsco delle mie dottrine mortifere
(3), c scrive solo acciocch i suoi na- zionali noi succino : queste mortifere
dottrine mie esser colali che convengono a ca- pello con quelle orribili di
Calvino, di Lutero, di Giansenio, di Molinos, ai Baio, di Quesnello, e se altri
vi sono nomi pi esecrati nella Chiesa ! In fine per, sfogatosi, fa voti al
cielo perch io conosca gli umani miei errori, e la radice funesta d'onde son
pullulati (4) , per la quale radice pare che egli voglia intendere la mia
super- bia, che egli vede naturalmente nel mio coore cogli occhi suoi ;
continuando per a credere, come dice, che il signor Rosmini abbia erralo senza
delitto di sua vo- lont (5), e che parli con verit quando fa la bella protesta
c di voler mantenere i . (2) R. Ad. HI, face. 13, nella noia. (3) Nella
citazione che Eusebio fa d questo passo
corso un errar* di stampa indican- dosi malamente il capo, c non il
libro ( che i il prioto, cap. XV ) dlie Ritrattazioni del Dot- toro di Ippona :
il che dimostra che degli errori occorrono a tutti i lipograli, e che egli ben piccolo il vantaggio che si argomenta di
cavare ( face. 5 del libello nella nota ) dall essere sta- to stampato morale
in vece di mortale io un luogo del Trattato della Coscienza. Le parole dt a.
Tom mas;, nelle quii cadj q iella parola malamente stampala, sono subito dopo
riportate i.u Digitized by Google 14 Eusebio vuole, senza che egli se u
accorga; dimostra oio che la parola peccato non sempre significa, secondo sani'
Agostino, una vera colpa da cui sia libero alla per- sona il guardarsi, ma
significa ci solamente quando trattasi di que peccati che sono meramente
peccali, e non quando trattasi di quelli che, oltre esser peccati, sono an- che
pena de peccati, come egli appunto il
peccato originale. Ecco il passo apertis- simo : Definitili peccati qua diximus
, Peccala r n est volutila retinendi vet con- sequendi quod justilia velai et
unde liberum est abstinere, proptkrea vera est , quia iti definilum est quod
tan tum modo peccatesi est, non quod etum poeua peccati (i). Laonde per sant'
Agostino non ogni peccato tale unde li-
berum sii abstinere , ma ve n ha di quelli unde liberum non est abstine- re ,
qual appunto l originale , il quale est
peccatum et etiam poena pec- cali. Se dunque non ogni peccalo tale che in s racchiuda la libert propria
della persona a cui aderisce , e della qual sola sempre si parl e si parla ;
quando non vogliasi cavillar vanamente, conviene pur dire che chi dee definire
il peccalo nel suo genere e non nelle sue specie , chi lo dee definire in
questo suo ge- nerai significato, e non in quello in cui si usa a significare
la specie delle colpe, con- verr che escluda dalla definizione del peccato la
libert della persona a cui esso pec- cato aderisce. Maravigliosa cosa il vedere come un uomo che con tanta
franchezza interpretando Scritture e Padri fulmina anatemi a chi non gli
acconsente, come fa il nostro Eusebio, non abbia saputo intendere un pas-o cosi
chiaro e cos palmare di sant Agostino chegli stesso produce! e in quella vece
abb a potuto sentenziare uni- versalmente cos
dunque secondo santo Agostino,
dottrina della fede cattolica comprendersi ne! concetto di peccato (
senza distinguere i significati diversi della parola) il concetto di libert e
di colpa ! La qual maraviglia dee accrescersi tuttavia, se si considera, che
quello che os- servammo circa il terzo de' passi di sant Agostino citati da
Kuseh o nella nota alla faccia i3 e i4, vale egualmente pe due primi; i quali
non sono che quella stessa definizione, chegli poi nelle sue Ritrattazioni ,
onde estratto il terzo passo, dichiara
esser vera non gi per ogni peccato, ma solo per quella specie di peccati i
quali sono meri peccati e non anco pene di peccati. Il quarto passo finalmente
del dottore d Ippona, lungi dall esser contrario alla dottrina da me esposta,
la conferma espressamente; perocch ivi si ammette un pec- cato (loriginale) il
quale aderisce a persone che non l'hanno liberamente commesso, e che perci in
queste persone considerate da s sole non
colpa, la quale ritrovar non si pu se non riccorrendo ad Adamo autore
libero d quello; il che appunto quanto
io volli dimostrare ( 2 ), A che dunque si riducono le autorit citate con s
magistral sicurezza di sant Agostino? IV. Egli chiaro, che chi vuol definire iid genere % non
dee far enlrare nella definizione le differenze che cosliluiscono le specie.
Perci se vuol darsi una defini- zione del peccato in genere, si fallnmenle che
abbracci le due specie di peccati', lori- ginale' e fai Ina le, converr non
fare enlrare in essa la libera volont di colui a cui il peccato aderisce;
converr anzi che essa abbracci tanto quel peccato unde liberum latino, e in
esse trovasi stampato mortale o non morale ; le stesse parole sono anco da me
tra- dotte in italiaoo, e Della traduzione legges stampato mortale o non
morale. Ma tutto ci si ta- ce. e con questa buona fede procedendo, non si manca
di . avvertire il lettore che potrebbe be- nissimo essersi commesso queliYrror
di stampa con frode. E poi falso che scrivendosi ue| te- sto la parola mortale
in luogo della parola morale , esso non avrebbe nulla provato al propo- sito ,
perocch non volendosi ivi provar da ma se non che la colpa non si d senza I uso
del libero arbitrio, riesce del tutto indifferente quella parola. titanio poi
allo sbaglio occorsomi d'avere acrillo cu/pam in vece di peccatum nc parler pi
sotto. (1) Rettaci. !, c. XV. (2) Li mia questione era qucsla : c Se si possa
dare nell' uomo uno slato di peccalo non imputabile a colpa ni loi stesso i (
Veti, il Trattalo delta Coscienza, face. 33 Digitized by Googh 15 est abslinere
, secondo la maniera di parlare di sant Agostino, quanto quello unite liba um
non est abslinere. Onde quella definizione generica che abbracci entrambi
quelle specie di peccali, dovr prendersi da ci che il peccato originale e il
peccalo attuale hanno di comune, il che
I' avversione da Dio, e non da ci che 1' attuale ha di proprio, che la libert. Perocch il proprio del peccato
attuate si il potere che I* uomo ha d
evitarlo, quando rispetto all originale la cosa non va cosi e per non libero. Ond io dissi, che i nella nozione di
peccalo in genere che ci d la Scrittura
e la Chiesa, non entra l'elemento della libert, ma bens quello della vo- ti
lont . In qual maniera entri l'elemento della volont nel peccalo in genere, lo
ve- dremo pi sotto, dove dimostreremo che la volont dell'uomo pel peccato
originale trovasi da Dio avversa, indebolita, ed al male inclinata. Intanto
quelle mie parole misero in sulle furie il nostro Eusebio, il quale grida: I testi delle sacre Scritture, sui quali il signor Rosmini fonda la presente
osservazione, alludono tutti al peccato
originale, che non gi il peccalo
in genere, iua una specie di peccato parlicoln-
re (i). Verissimo che i testi da
me addotti alludono al peccato originale: verissimo che il peccato
originale una specie di peccalo, e non
il peccato in genere; forse per questo,
che quei testi non dimostrino qual sia la nozione del peccalo in genere che ci
danno le Scritture ed i Padri ? Anzi, appunto perch il genere abbraccia tutte
le specie, esso dee abbracciare anche quella del peccalo originale linde
libertini non est abitinere, come le Scritture e le sanzioni della Chiesa ce lo
descrivono; e per dalla definizione del peccalo in genere dee escludersi quella
libert onde l'uomo pu evitare il peccato; perocch questa non che la differenza specifica del peccato at-
tuale. Ecco come un po di logica avrebbe risparmialo al nostro Dottore quello sfogo
dira irreligiosa che egli manifesta Delle pagine a coi noi rispondiamo, e quei
sospetti ingiuriosi di cui avvelena ionvvedutamenle le note apposte appi delle
medesime ( 2 ). V. Ma per darci Eusebio un'altra prova irrefragabile deila
sicurezza sua ndl'lu- lenderc ed inlerpretare gli ecclesiaslici autori, dopo
aver egli detto t essere indubitato fra*
sacri Dottori che neppure nelloriginale delitto non si fa dalla Chiesa
distinzione di sorta Ira colpa e peccalo
1 , reca a provarlo due testi de sauti Tommaso ed Ago- stino, i qnali quando
calzino bene al suo assunto si potr vedere da questo. Luno il passo di s. Tommaso, peccatuin
essentialiter consistit in actu liberi arbitrii.W quale n contiene la
definizione del peccato originale, n quella del peccalo in genere, mu so-
lamente quella del peccato attuale, come ognuno pu scorgere sol che l'esamini
nella I. II, Q. LXXVU, art. vi, dove il santo dottore cerca ulrum peccatimi
al/evietur propler passioner , e per manifestameole parla de soli peccati
allnali (3), a quali certamente
essenziale il libero arbitrio, 0 , come dice sant Agostino, unde libertini est
abslinere. Se poi abbia recato pi a proposito laltro testo di saut Agostino
mede- simo, basta a vederlo il considerare che quel testo non se non la slessa definizione del peccato
sovraccennala (Aon esse peccatimi nisi provimi libcrae voluntatis as- ii) H.
AflT. VII, foce. 29. (2) Fce. 2-30. (3; E per,
4 I 1 vero colpe. Laonde io non avevo ragione alcuna da importarmi, che
a. Tom- maso in quel testo scrivesse pi loslo percatum che dica ', giacch
usandosi spessissimo pec- catum per culpa , come ho gi detto, e come io stesso
lo, quel testo prova egualmente ci che 10 volevo con oso provare, cio ha colpa
non si di senta libero arbitrio. Vero i che nel Trattato della Coscienza, face,
-li, fu stampalo per isbaglio culparn in ecco di peccatum ; ed Eusebio
Cristiano mi fa lonore di stimarmi capace tin di alterare i testi de santi
Dottori ( e conseguentemente degno del bollo do falsari ) per provar con essi
le mie opinioni, a cui cosi cercherei, a dir v e ro, un sotido appoggio ! 1
aosi non cootento di mostrare di me s bassa opi- nione, giudica con
sorprendente temerit clic quello sbaglio assolutamente non pu esser colpa del
tipografo ma si dello scrittore ( face. 5, nella nota ) Do trattar cosi vite e
scortese si suol rinvenire ben di rado negli scrittori di questo secolo ,
eziandio che non sieoo n Eueebii , n Cristiani. Che anzi nelle discussioni
loro, sogliono assai sposso dimostrare urbanit c stima scam- bievole,
siccome dovere d ogni costumata persona.
ized by Google 16 aensum: eum inelinamur ad ea qtiae jusitia velai , et un de
libere si est arsti- nere), definizione che esso sani A postino ne suoi libri
delle Ililraltiftioni restringe, dichiarando non esser vera se non applicata a
peccati che sono meramente peccali, c non ancora pena di peccati, com' appunto
loriginale : propterea vera est, ripetiamo le sue parole, quia id defi ni tu tt
est quod t anturi modo peccatesi est , non quod est etiah poena peccati. E pure
Eusebio, compiacendosi di aver trovato de' testi cos concludenti contro di me,
non dubita di affermare, che un solo di essi atterra e distrugge la strana
dottrina del nostro autore ! ( i ). VI. Ma andiamo aranti, seguitando a vedere
quanto alla cattedratica franchezza di Eusebio, risponda di quella perizia eh
egli pur millanta nell intendere gli ecclesia- stici autori. Spicca veramente
nna franchezza maravigliosa in que' suoi modi di parlare asso- luto co quali me
intende onorare: Si comprova evidentemente
bugiarda chi afferma, che l'Angelico nelle cose
morali faccia distinzione tra la voce peccato e quella di colpa > ( 2
). E falso che l'Aquinate distingua
nelle cose morali tra peccalo e colpa
(3). Io avevo detto che s Tommaso distingue fra il concetto ( ratio ) di
peccato e quello di colpa (4), e mi ero fondalo su queste proprie parole
dell'Angelico, che sono tanto chiare che noi possono esser pi, ben inteso, a
chi sa latino: Sicut malum est in ptrs guata peecatum , ita peecatum est in
plfs quatti culpa. Ex hoc enim dicitur actus culpabilis , tei lauda bilie ,
quod impulalur agenti : nihil enim est alitid lauda- ri vel culpari, guam
imputaci alieni maliliam tei bonilalem sui actus. 'fune enim actus impuiatur
agenti , quando est in palesiate ipsius ita quod habeal dominium sui actus: hoc
autem est in omnibus aclious volunlariis (liberi, come s intende da quel che
segue). Quia per votuntatem homo dominium sui actus habel. Il che viene a dire,
che il concetto di male pi generale del
cornetto di peccato, e il concetto di peccato
pi generale del concetto di colpa , e per sono concetti diversi: viene a
dire ancora, che incolpare significa
riputare altrui la malizia 0 la bont del suo
atto ; onde vi dee essere ci che costituisce prima lalto malizioso,
acciocch poi questo si reputi a colpa del suo autore: ci che costituisce latto
malizioso precede adunque di necessit, nell ordine de concetti de quali
parliamo, ['attribuzione di colpevole che indi ne riceve il suo autore:
questattribuzione succede eome conseguen- za dell'alto reo. qualora il suo autore
sia libero; onde in ogni colpa vi ha peccalo, perch la colpa non che l' imputazione del peccato ; e perci il
santo Dottore dice, quod libitum vel malum in solis actibus volunlariis
(liberis) constituil ralionem lau- di s vel culpae; in quibus idem est reatum,
peecatum et culpa ; come dissi appunto (1) R. Air. VII, race. 29 ( 2 ) II. Aff
I, face. 9. (3) R. Aff. Il, face. Il, Ecco le parole che ro ottennero da
Ensrbto il titolo di bugiardo eoo tolto il resto : c Di qui nasce la disi
azione clic trova di dover fare s. Tommaso fra il ctocbtto di peccato c e
quello di colpo. Il santo Dottore fa consistere il concetto di peccato in un
atto della vo- (face. 6). Or se
confessate che 1 Ange- lico distingue questi concetti, perch poi dite ora che
egli ( esclude adatto la distinzione apposta- gli Ira colpa e peccato > ?
Distingue, ma non distingue : che parlare
cotesto vostro ? N con- fondete, maestro mio, pi questioni insieme : qui
trattali di saper solo se s. Tommaso distingua
concetti di male, peccalo e colpa : pi follo poi tratteremo anche 1*
altra questione, se diasi in fatti uno stato di peccalo che non sia anco stato
di colpa : questa questione totalmente
dalla prima diversa. A torto poi chiamate la distinsion de' concetti una cosa
grammaticale : la gram- matica non c entra qui per nulla : ella proprio una dislinzioo logica, sebbeu si
pentito daver dotto il valor logico , a cui sostituite il valor letterale (
Vedi in fine al libello d Eusebio la suo corresiuni), che non ba nulla a faro
colla monte del santo Dottore : quella gran meDte so- leva bens distinguere i
concetti accuratamente: ecco ci eh' egli fece,
che noi a lui devoti vogitam mantenere. iioSMINi Vol. XII. 428 18 essere
pi incolpabile di un altro , e che quindi la colpabilit dee distingnersi dal peccalo
che riceve l' incolpazione, perch quello pu esser lo stesso, e questa varia-
re. Nella risposta poi il santo Dottore dice cos, soda bene : In peccato
aditali duo possumtts considerare , scilicel ipsam substantiam actus, et
r.atioseji culpae. Dunque, secondo s. Tommaso, la ragione della colpa non la stessa sostanza del- l'atto disordinato,
clic peccato si dice. E prosegue : Ex parte quidern subslantiae actus palesi
peccatici aditale aliquem defediti n corporalem causare sicul ex su- perfluo
cibo aliqui infirmantur et moriunlwr: ecco qua un effetto prodotto dal pec-
cato non nella sua qualit di colpa, ma semplicemente nella sua qualit di
peccato , di disordine reale. Seri ex parte colpak, seguita a dire, privai
gratta, guae datar homini ad reclifcandum animae actus : ecco un altro effetto
del peccalo in quanta egli colpa, non in
quanto egli un atto sostanzialmente
disordinato. La nozione ndunqne di peccato
manifestamente diversa dalla nozione di colpa, secondo 1 an- gelico ; e
senza nna tale distinzione importante, molte dottrine teologiche si rende-
rebbero inintelligibili. Vili. Ma Eusebio, fermo tuttavia nel suo assunto, si
volta da unaltra parte : d di piglio ad allr arme. Affinch, non ti sembri indifferente cosa,
egli dice, il sostenere, che nel
concetto di peccato non si comprenda la colpa c la libert ; rammenta essere dalla Chiesa dannala la
proposizioue 46 di Baio che difendeva
una simile sentenza : /td rationem et deftnilionem peccati non perline I
volunta- c rium, nec definitionis quaestio est, sed causae et originis , utrum
orane peccatum debeat esse
voluntarium fi). Rispondo, che io
condanno questa e tutte laltre proposizioni condannate di Baio, come le ha condannate
la Chiesa, e altrettanto quanto le condanna il Signor Euse- bio ; ma essa
proposizione non fa menomamente al coso nostro, perocch la medesi- ma non paria
che di quella specie di peccali che sono vere colpe, i quali esigono si-
curamente la libert: parla di que peccati linde liberum est abstinere, e non di
quel- li uiulc, essendo anco poena peccati, liberum non est abstinere. Certo
poi che anco i peccali venienti alluomo in pena di altri peccati come sarebbe
l'originate, hanno avuto nn principio libero nel primo padre; ma non cos in
colui a cui vengono comu- nicati, e a cui aderiscono, giacch neU'oomo che nasce
vi ha il peccato bens inter- no, proprio, aderente, quod mors est animae, e
tuttavia manca la libert. Ora la proposizione da me proposta, e dal signor
Eusebio nascosta, non fu, per dirlo di nuo- vo,
se si possa dare nell uomo uno stalo di peccato non imputabile a colpa j
; ma fu bens, se si possa dare nell'uomo
uno stato di peccato non imputabile a colpa di lui stesso ( 2 ) proposizione grandemente diversa
dallaltra, giacch ('articolo di cui questa
il titolo nel mio libro, tende benissimo a dimostrare che il peccalo
ori- ginale viene imputato a colpa del primo padre, e che perci in causa fu
libero. Che se si volesse prendere la parola voluntarium , usata nella
proposizione di Baio, per quel che suona, cio per volontario semplicemente, per
volontario in genere; or do- ve trover mai il nostro Eusebio, che noi abbiamo
detto un cosi grosso errore, qua- le sarebbe quello, che dar si potesse peccalo
dove nulla vavesse di volontario, quan- do anzi il peccalo per noi, come sompre diciamo, una stortura
della volont? pi tosto potremmo ben noi ritorcere, ed il faremo pi estesamente
di sullo, quella pro- posizione condannata contro di lui medesimo. Noi dicemmo
solamente, che si pu riconoscere un peccato nel suo generico signileato, e non
nel significalo speciale di colpa nel quale lo prendea Baio, anche prescindendo
non dalla volont della perso- na a cui esso peccalo aderisce, ma s hene dalla
attuale libert di questa medesima persona; dicemmo adunque con ci, che
voluntarium , pcrlinct ad rationem et defi- tti K. AIT. t, face. 'J, nula. ; !)
Trattalo ih. Ha Coscienza, face. 3 j. Digitized by Google 19 nitioncm peccali,
e che questa questione, se il volontario appartenga al concetto ed alla
(leGnizione di peccato, non est quaestio causac et originis ; il volontario cio
co- stituisce propriamente il peccato, e non solamente la causa e lorigine del
peccalo; c questo il signor Eusebio col nega. Laonde quella proposizione
condannata di Baio, presa in questo senso, proverebbe e suggellerebbe la mia
dottrina dal signor Eusebio impugnata; dottrina che si far ancor pi chiara
sciogliendo 1 uno dopo laltro i sofismi tutti eh' egli le contrappone, e
dimostrando quanto necessaria sia la distinzio- ne fatta da s. Tommaso e da
tutta ('ecclesiastica tradizione fra il concetto di peccato e quello di colpa,
ad esporre la genuina dottrina cattolica intorno al peccato origi- nale, coma
tosto prendiamo a fare. Digitized by Google Digitized by Google QUESTIONE II.
SE Si POSSA DARE NELL UOMO UNO STATO DI PECCATO NON IMPUTABILE A COLPA DI LUI
STESSO. IX.S^on queste precise parole io proposi la questione nel Trattalo
della Coscten- xa, dove oe ho anco definito accuratamente lo slato (t). Tutto
ci Eusebio Cristiano dissimula: contentandosi solo di riferire e riprendere
acremente queste mie parole come contenenti di gravi errori : Secondo la dottrina cattolica, pu esser nell
uomo c vi uno stato difettoso della volont, che in s ha la nozione di
peccato e non quella di colpa i . La quale affermazione non feci io
gratuitamente; anzi a provarla, oltre a vari altri argomenti che il nostro
Eusebio lascia d 1 un canto, io adoperai altresi lesempio del peccato dorigine,
il qoale non pu chiamarsi certamente colpa se non in rela- zione alla libera
volont del primo parente che lo commise, di maniera che la que- stione da me
proposta e risoluta affermativamente ,
se si possa dare nellaomo uno stato di peccato non imputabile a colpa di
Ini stesso , chi ben la considera , iden- tica a quellaltra, se si possa dare il peccato originale . Ma il
signor Eusebio, che ha una special sua dottrina intorno a questo peccato, lo
nega, e dice in quella vece, che il
peccato originale, se si consideri solo nell uomo che ne partecipa, e si
astrag- * ga dalla volont libera dell nomo primo che ne fu l autore, secondo s.
Tommaso non ammette in s neppure la
nozione di peccato a ( 2 ) in genere, cio per con- trapposizione alla nozione
di colpa. Non posso io a meno di far qui una osservazione sulle ree intenzioni
che Euse- bio si piace di supporre in me, pel distinguer eh io feci i due
concetti di peccato e di colpa (3). Nino calore io posi a sostenere quella
distinzione : la proposi come cosa dell'Angelico. Egli ne infuria: ci vede
tutti gli errori. A che un tanto zelo? Ve lo dir; quella distinzione fatale al sistema da lui abbracciato intorno
allorigi- nale peccato. E se questo suo sistema fosse erroneo? oh, non
sarebbegli allora ve- rissimo che tutto l impegno eh egli dimostra di
scancellare dalla Somma dell Aqui- nate la distinzione di peccato e di colpa,
avrebbe in lui qoel perch appunto, che cos malignamente vuol sospettar in me ?
Ora se il sno sistema intorno al peccato d ori- gine sia tanto cattolico quanf
egli vanta, noi lo vedremo : procediamo gradatamente, cominciando dal
dimostrare , come , secondo 1 Angelico, abbia il peccato dorigine in s la
nozione di peccalo , e relativamente ad Adamo , suo libero autore , anche
quella di colpa ; e come perci non sia punto vero quanto afferma Eusebio, che
luna e l altra nozione consista nella semplice relazion con Adamo. (1) Face. 35
e segg. (2) R. AIT. face. io. (3) Egli cori ii esprime : c Si penserebbe,
essersi posto prima cotanto studio in voler distia- ( guere fallacemente urite
morali azioni fra il concetto di colpa e
(R. Aff. XI, face. 43). Digitized by Google 22 X. Intanto dall'
accennata distinzione di s. Tommaso fra il concetto di pec- cato e il concetto
di colpa, risulta, per dirlo di nuovo, che il peccalo ( preso sem- pre come
genere , e non come specie ) qualche
cosa che essenzialmente sta ine- rente alt uomo , un disordine morale esistente nell uomo, una
sua stortura, unae- versione da Dio (i) , una deviazione dalt ordine di ragione
( 2 ): laonde non pu darsi un peccato pro/rrio dell' uomo, se a lui non islia
inerente quel disordine che ne forma 1 essenza. Cosi , a ragion d' esempio , il
peccato originale non potrebbe esser proprio del bambino che nasce , come ha
dcGnito il Concilio di Trento (3), se non fosse inerente al bambino quel
disordine che forma appunto 1 essenza del peccato. All' incontro la colpa
consiste in nna relazione fra il disordine inerente all'uomo e formante 1
essenza del peccato, e il principio libero che lo produsse e a cui s' im- puta.
Laonde questo principio libero, causa del peccato e a cui simputa il peccalo ( per
la quale imputazione il -peccalo diventa una colpa), non necessario che sia sempre nella persona
stessa a cui il peccato aderisce, potendo anzi esistere in altra persona: come
pure non necessario che si trovi in
quella per tutto il tempo durante il quale a lei aderisce il disordine
costituente il peccato, potendo essere che nella per- sona peccatrice continui
il peccato, e cessi tuttavia la sua libert. Cos, nel caso del peccato
originale, il principio libero, causa di esso, non trovasi nel bambino che na-
sce infetto da quel peccalo, ma sta collocato in un' altra persona, cio in
Adamo ebe liberamente il commise, e perci solamente in relazione alla volont di
Adamo il pec- cato originale dicesi colpa. Perci giustamente fu condannata la
proposizione 47 di Baio, Peccalum originis vere habet ralionem peccali, sine
ulta raiione ac respectu ad voluntalem a gua originer habuit, perch Baio
parlava del peccato in senso di colpa, non nel senso generico delia parola che
abbiamo di sopra spiegato ; e fa ben maraviglia, come, avendo io stesso
proscritta e condannata questa proposizione nel 'franalo della Coscienza a
face. 4z, 43 ( e non 55-36, come per errore di stampa dice il mio correttore
(4) ) , il signor Eusebio tuttavia osi dire di io parlo il lin- guaggio di r/ueir
eretico (5)! Laonde i teologi pi insigni (bench ignoti come sembra, al signor
Eusebio), conoscendo a pieno la necessit di distinguere nella originale
infezione ci che la costituisce un peccato, da ci che la costituisce una colpa
che limputazione, tratta- rono di questi
due punti in separato, considerando prima la macchia originale nella sua qualit
di peccato, e poscia rispetto alla sua imputazione a colpa; c valgami per tutti
il celebre Nicol Lirano, il quale, nel suo Commento sull epistola di san Paolo
ni domani, enumerando i capi a cui si pu ridurre la dottrina cattolica intorno
al peccato originale, dice cosi : Primum est quid sii originale peccalum.- Secundum (1) Defechi peccati consistit in aversione a Deo. S. !I.
II, XXXIV, 11 . (2) Jtlenditur per deviationem ab ordine ralionis ad Jinem
communem humanae vilae. S. I. Il, XXI, ir. (3) Si qui t hoc Adae peccalum, quod
origine unum est , et propagatone , non imitai ione transfusum omnibus ini sr
raicniQni rsopaicx , eie. Sess. V. (4) 11. AIT. 11. face. 2. Chi potesse
malignare potrebbe credere che, citando erroneamente qui o in altri luoghi il
mio libro, volesse il sigoor Eusebio imbrogliare i lettori, impedendo loro di
andare a vedere in fonte le mie parole. Afa non voglio io imitarlo certamente
in tali piccoleiic, ma sol mostrargli che anchegli ita bisogno di quella
indulgenza che nega a noi con tanta fierezza. (5) Ivi, nella nota. I.a proposizione di Bajo erronea anco sotto un altro aspetto, cio
purch ella nega che la macchia originale sia peccalo in senso stretto, cio
colpa ( vere habet ralionem peccali), prescindendo affano dalla volont di Adamo
( sine ulta rottone ac respectu ad voluntalem a qua origine m habuit ). Ora il
voler torre olfatto ogni relazione con Adamo,
un rendere inesplicabile l esistenza del peccato ne discendenti ; e
perocch questo peccato nei discendenti procede, come da sua causo, dal peccato
adamitico, il togliere dalleffetto ogni rela- zione colla causa, un rendere lctTcto impossibile, c per
conscguente un togliere lo stesso effet- to. Ma nulla ha da far ci colla
questione che noi trattiamo. Noi nen prescindiamo da qualunque relazione del
peccato de discendenti colla volont di Adamo. perch anzi nc riconosciamo da
quel- la la propagazione. Dlgitized by Googl 23 est r/uomodo peccatum Adae
posteria imputatur (i). E in fatti prima egli parla del porcaio d'origine, c
poscia dell' imputazione del medesimo a colpa. Ma veniamo a S. Tommaso. XI. A
provare che s. Tommaso insegna che il peccato originale non colpa se non in relazione al principio libero
che lo produsse, cio ad Adamo, io addussi lart. i della Q. LXXXI della I. II,
della Somma, nel quale il santo Dottore cerca se il peccato del primo padre si
traduca per generazione ne posteri ( ulrum primum pec- catimi primi parcntis traducalur
per originem in posteros)', e la difficolt che egli trova da superare a
dimostrar che traducesi, consiste tutta nello spiegare come quel peccato ne
posteri abbia ragion di colpa. Perocch egli dice : Dato quod aligui dcjectns
corporale s a parente transeant in prolem per originem , et etiam ali qui
defectus ANI MAE ex conseguenti propter corporis indispositionem ( sicut inter-
dum ex faluis fatui gencrantur), /amen hoc ipsum quod est ex origine aliquem
depectu m habere, cidetur escludere rationem culpae, de cujus ralione est, quod
sit voluntaria (libera). Unde etiam posilo, quod anima rationalis traducere-
tur, ex hoc ipso quod infectio animar prolis non essel in ejtis voltoliate
(nella sua libera volont, come spiega altrove ( 2 ), amitterel rationem culpae
obligan- tis ad poenam : quia, ut Philosophus dici! in 111. Eth., nullus
improperabit caeco nato, sed magie miserebilur. Il che viene a dire : c a
spiegare coin per la generazione trapassino i dfetti corporali ed anche l
infezione dellanima, non gran fatto
difficile; ma il difficile sta a spiegare come questa infezione dell anima
possa imputarsi a colpa obbligante a pena nel generato 1 . Ecco la difficolt.
Non qui la distinzione fra il peccato
(in un senso generico) e la colpa? Ira ci che sirn- pula, e l'imputazione
stessa? Che cosa che s' imputa a colpa
net generato? Il pec- cato, che Et inest proprium, come dice il Concilio di
Trentoi I infectio ani- mae (3), come dice s. Tommaso. Dunque l infectio
animae, il peccato, cosa che sta
inerente all'auima del bambino, una cosa
propria del bambino che nasce. non il
peccato di Adamo inerente ad Adamo. Ma questo peccalo, questa infezione
dell'ani- ma del bambino, non ha il principio libero che lo produsse nel
bambino, ma fuori del bambino, in un altra persona, cio in Adamo primo padre.
Dunque il peccato pro- prio del bambino
inerente al bambino, considerato in relazione col principio libero di
Adamo suo padre, riceve il nome di colpa, cio viene imputato ad Adamo, pec-
catore attuale e libero, e viene castigato Adamo; ma essendo Adamo capo e padre
della nmnna stirpe, il castigo di Adamo ridonda in questa, e si dioe anche
questa colpevole insieme con lui, perch unita e formante una cosa stessa con
lui suo primo padre. Laonde s. Tommaso usa due similitudini a spiegare non il
peccalo, coin peccalo in senso generico, ma l imputazione del peccato (
che il medesimo che la colpa) : I una
(ulta dalle leggi civili, che considerano gli uomini di una comunit come un
corpo solo : Omncs homincs qui nascunlur ex Adam, possimi considcrari ut iinus
homo, impiantimi corweniunl in natura quam a primo parente accipiunl', se- cimi
limi quod in civilibits omnes homincs qui sant unius communitatis, repulanlur
(1) la cap. V. ad Hom. (2) t.aue et vilvperium (teli culpa) coneeguuntur actck
voldntaricm sxccndcm prutrECrAN voLVKTAim ritiokeh, dichiara nella (. 11. Q.
VI, 11, ad 3. La perfetta ragione del volontario allorquando il volontario libero. S. Tommaso adunque riconosce un
volontario diverso da quello clic produce l'imputabilit, la colpa; un
volontario cio non libero. Tutte queste
cose io le Ito spiegate a lungo in vari luoghi delle mie opere, e specialmente
nei Trattato che precede imme- diatamente quello della Coscienza , elio ha per
titolo Antropologia, a Cai rimetto il lettore (L I V, c. si). Di tutto ci
Kusebio Cristiana mostrasi perfettamente ignaro: mala fede o ignoranza^ Levi la maschera, e
mostri a tulli ciiiaro che non la sua
mata fede; ed io goder a favor suo. (3) Si noti esser dottrina di s. Tommaso
elle quidguid peroenit de corruplione primi pec- cali ad animarli, /label
rationem culpae ( S, 1, II, L \XXYIU , ) cio a dire; ha la ragion di peccato
imputabile a colpa. Digitized by Google 24 quasi unum corpus ; et Iota
communitas quasi unus homo : l altra tolta dalle mem- bra del corpo umano, che
formano una cosa sola colla libera volont dellaomo, che le muove, onde dice:
Homicidium quod manus commitlit, non imputabktur ( par- lasi dunque di ci che
forma Incolpa, l'imputazione) manui ad peccatum (i), si con- siderarelur manus
secundum se, ut divisa a corpore: sed imputa tur ei tnquan- tum est aliquid
hominis , quod mooetur a primo principio motivo hominis ( 2 ). Questa certo lunica maniera, per quanto a me pare,
di spiegare come possa imputarsi a col- pa il disordine di cui nasce infetto il
bambino. Il disordine adunque costituente il pec- cato (3) essendo inerente al
bambino, passar deve per generazione, al modo duna f- sica imperfezione ; la
colpa poi, che consiste in una relazione all autore libero del peccato, passa
colla natura umana; perocch quanti individui nascono di questa natu- ra, si d
luogo ad altrettante relazioni col primo padre peccatore, e per ad altrettante
imputazioni, ad altrettante colpe: allo Btesso modo, per continuarmi coile
similitudini di s. Tommaso, che se ad nn uomo condannalo ad esser tanagliato
nascessero di mano in mano delle nuove membra, il martirio si estenderebbe a
queste, e queste sarebbero straziate siccome ree non pel delitto proprio.ma per
quello del loro capo. Laonde non si potrebbero trovar parole a significare pi
acconciamente la trasfusione del peccato originale, di quelle di s. Paolo
citate dal sacrosanto Concilio di Trento (4), Per unum hominem peccatum inlmeit
in mundum, et per peccatum mors ; ila in onuies homines mors pertransiit, in
quo omnes pcccavcrunl; le quali parole, inerendo alla dottrina sopra esposta
dellAngelico, potrebbero tradursi : per
un solo uomo entr nel mondo a il peccato, e per il peccalo (venendo imputato al padre comune, e perci a
tutta la natura umana) anche la morte u
(pena conseguente dellimputazione 0 sia della colpa): 1 cosi in tulli gli
uomini pass ia morte da colui net quale tutti peccarono : perch imputandosi il
peccato a colpa di lui solo, ed a lui solo dandosi la pena, es- sendo egli capo
del corpo dellumanil, veniva quella colpa e quella pena di neces- sit a
ridondare in tutti (3). (1) Qui peccalo
preso in senso stretto, per co'pa : il contesto lo spiega. Inutilmente
adunque per ia sua causa , o fuor di proposito il signor Eusebio dice : t lo
questo medesimo s articolo lo stesso santo Dottoro chiama colpa
ioditlercotemenle e peccato ta macchia di che , che era la questione da me
proposta. XII. Ma il signor Eusebio muove ogni pietra, e non la perdona a bugie
per le- vare dal mondo quella distinzione antica e fermissima fra la nozion di
peccato e quella di colpa , che si gli cuoce ; perocch essa sola il suo erroneo
sistema distrug- ge, come accennammo, intorno all' originale peccato.
Conciossiachc, per dirlo qui in prevenzione, a niente meno egli mira che a
negare alla macchia originale la no- zion di peccalo, lasciandole solo quella
di colpa, sperandosi di coprire poi facilmentn il suo madornale errore, col
dire che colpa e peccato del tutto una
cosa medesima; quasich la colpabilit esister potesse senza che esistesse il
peccato di cui 1 uomo s' incolpa. E di fatti egli stesso in appresso, con un
secondo errore pi grave del primo, riduce a nulla la colpa stessa originale
altres ; e cosi il dogma dell' origi- nale infezione del tutto annullato, tanto nella soa qualit
di peccalo, quanto nella spa qualit di colpa, dal zelante nostro
controvertista. Ma prima di venire esponendo le falsit che egli dice, ovvero le
illusioni che egli prende intorno a ci, giover che togliamo a considerare la
cosa pi dall alto, mostrando in generale che dee distinguersi il bene ed il
male morale, dall' imputa- zione di quello a lode e merito, e di qncsto a colpa
e demerito. Ella cosa indubitata e
decisa dalla Chiesa, che a poter meritare o demeritare si richiede la libert :
Ad merendum vel demerendum in siala naturar, lapsae non requiritur in homine
libertas a necessitale, sed sujfpcil libertas a coactione ; la terza proposizione condannata di Ciansenio
( 2 ). Ma un altra questione si , se, ol- s. Tommaso, non dica che inordiiutio
quae est ir. ilio homine ex Adam generato ( ecco il peccalo in genere ) non est
volualaria ( libera ) voltoliate ipsius, seti v oluutale primi parenlis ( onde
dinen peccato colpevole, colpa ) fui motel hotiohk usibuiosis omnes qui tx
ejtis origine dericanlur ! (1) Nella risposta alla arconda difficolt del citato
articolo l'Angelico ripete e conferma questa distinzione, dicendo : Per r
irtutem semini traducitur Humana natura a parente m pro- le* 01 , et sihcl ctM
narra*, nate sa* usriCTio ( ecco ci che e inerente al bambino c che ba ra- gion
di peccato): ex noe entm ( ecco il passaggio alla colpa, ali' imputazione ) fit
iste qui na- scitur consors cCLPar primi parentis ( sicch il fondamento della
colpa 6 il peccalo : vi dee essere il peccato nel bambino acciocch queslo possa
riferirsi al principio lbero in Adamo , e Cosi divenir colpa ), quoti naluram
ab eo sartitur per quondam generalicam molionem. (2) La condanna di questa
proposizione fu da me addotta per argomento a provare la ne- cessit del libero
arbitrio per meritare, nella Filosofia della 'morale voi. Il, face. 325: ne bo
dimostrato l'erroneit in moltissimi luoghi delle mie opere. Tuttavia Eusebio,
che si dee credere non aver Ietto che poche pagine di mio sfacciatamente
m'accusa di consentirvi, e senza punto intendermi, mi rinfaccia d'aver detto
che I quando l'uomo si procaccia la coscienza morato, le . E ne induce, c
Dunque, se- c condo Rosmini, le operazioni nell uomo hanno merito c demerito
anello sema coscienza s Ll- c okrtas (face. 46). Egli ci attacca del suo quell'
ultima parola, z libzht*, affermando con ar- ditissima menzogna a goffissimo
errore ( debbo dirlo , e mcn duole ), clic io abbia dello che lo operazioni
dell' nomo possano esser meritorie senza i.ibzhta. lo lo sfido qui pubblicamente
ad indicare un solo luogo delle mie opere, dove egli abbui trovalo detto da me
un tale sproposito-, ma chi sfido io ? ahi una masche ra I ebbene, eh' egli
arrossisca della sna impostura sotto la sua stessa maschera, ovvero, se non impostura la Sua, tragga gi dal volto la
maschera del Goto nome, ed a viso aperto dica: mi son ingannalo. Cosi prover
che lerrore fu in Ini aenza col- pa. Quanto poi al poter l'uomo aver merito o
demerito senza coscienza, non mai senza liber- t, questa c una questione diffcile
e sottile ; ma volendo andar per lo brevi, mi dica egli : lm proprio coscienza
di tutti i suoi meriti e di tutti i suoi demeriti? c quando opera, ha proprio
il siguor Eusebio coscienra di tutte le segrete molle del suo cuore, che lo
fanoo operare? So mi ilosMtM Voi. XII. 429 Digitized by Google 26 Ira il merito
ed il demerito, ci abbia un altra forma inorale, cio una forma di san- tit, o
pure una forma contraria, aderente alla persona, distinta, e talor anco indi-
pendcute dal merito di questa: se ci abbia quindi ima forma di santit che
consista, poniamo, nella unione dell' uomo con Dio senza che attualmente I uomo
sia libero -, ovvero uua forma di ingiustizia che consista, poniamo, in un
avversione dell uomo da Dio senza clic, di nuovo, attualmente l uomo sia
libero. Ora, che si dia questa forma di santit e del suo contrario, egli indubitato nella dottrina cristiana cattolica
; e (ale verit niente aifalto pregiudica all altra ve- rit, che merito o
demerito non si d senza libero arbitrio : perch una verit non distrugge mai l
ultra. Che poi sia ci indubitato, il dimostrano ad evidenza le se- guenti
ragioni. A Dio non pu mancare la maniera di comunicare s stesso, la sua grazia,
la giustizia, la rarit e tutti gli abiti delle virt teologiche all anime intelligenti
da lui create, bench queste non siano ancor pervenute all uso del libero
arbitrio i e cosi di fatto accade ne' sacramenti conferiti ai bambini o agli
adulti fuori di senno, i quali non porgono alcun obice alla grazia, appunto
perch sono incapaci di libera elezio- ne, e perci non possono porlo. Si guis
dcerli, cosi il Concilio di Trento, sacra- menta unirne legis non conlinere
graliam guani significant, aul graliam ipsam non ponenti/nis obicem non
conferre, gitasi sigila tantum externa sin l acceptae per /idem grilline vel
justuiac.et notac guaedam citrini ianae professioni, i, gmbus aptid homines
discernunlur Jideles ab infidelibus , analhema sit ( i). E si noli, che la
grazia che conferiscono i sacramenti non
la semplice remission de peccati, ma
di pio ima santit e carit inerente allanima, come lo stesso sacrosanto
Concilio dichia- ra : Si guis digerii homines juttijicari nel sola imputai ione
just itine Chrisli, ve/ sola peccatori] m reuissione exc/usa grada et charitate
qvae in corui- JWS EU RUM PER SpiRITUM SanCTUM VIFEUNDATVR ATQUE ILLIS
INUAEREAT; aul elioni graliam gua juslifkamur esse tantum favorem Dei ;
analhema sit ( 2 ). Dunque vi sono dei beni morali, coni* la giustizia, la carit c I altre virt increati
all anime intellettive, dilfusc nel cuore dell' uomo dallo Spirito santo ; il
qual cuore uon gi il cuore carneo c
materiale, ma il principio volitivo dello spirito ; e quei beni morali stanno
nell' anima senza bisogno alcuno dell uso del libero arbitrio, e perci senza
merito della persona in cui essi si trovano ; ma bens provenienti dal merito, e
dal principio del merito, esistente in un'altra persona, cio nella persona di
Ces Cristo, redentore e salvator nostro. E dico, che la carit, che il Concilio
di Trento dice, con s. Paolo, tlilfusa ne cuori dallo Spirito santo tanto negli
adulti quanto ne bambini che si giustificano da sacramenti, informa il
principio volitivo in quanto questo appartiene all essenza dell' anima umana,
perocch, come accon- ciamente dice s. Tommaso, charilas secundum guod est
virtus non est in concupi- scibili, sed in folcntatb (3). Ma di questa volont,
che in qunnt radicala uel- l essenza
dell uomo viene sunliGcala dalla grazia di Ges Cristo, parleremo in appresso.
XIII. Debbo fare qni una digressione, per difendermi da una ioconcepibile ac-
cusa che il signur Eusebio mi d relativamente a questa dottrina della
giustificazione e della grazia che 1 uomo riceve da sacramenti ex opere operato
e non ex operp operande. Volendo io dire che 1' uomo giustificalo e santificalo
da qupsta grazia ha in s un potere, col quale gi pu vincre lutti i suoi nemici
spirituali, se vuole, c conseguire la salute, cosi mi espressi : ilice di no ,
mi d ragione ; se mi dice di s , si sporr allo risa di quanti udiranno la sua
ri- (1) Sess. VII, cao. VI. (2) Sew. VI, cao. Xl. (3) . I, LXj ni) ad 3.
Digitized by Google 27 Se dunque la
giustificazione che Dio opera nell' nomo mediante il battesimo, si fa nell intima essenza dell'anima, che
vien riabbellita di grazia, e crealo in
essa un istinto soprannatorale, una virt di volere le cose divine; la
cooperazionf. da parte nostra a una si
fatta giustificazione in questa vita si fa nella parte su- periore della volont in noi rinnovata,
sebbene la concupiscenza seguiti il suo co
stume di ripugnare, e di ricalcitrare alla legge divina (i). Ma entrala
nell' essen- n za dell anima la grazia, e aggiuntavi la cooperazione del
semplice nostro vo- li lere, la salute umana
sil urata, dicendo s. Paolo : n Se Dio sta per noi, chi con 0 tro di noi ? Chi porter accusa contro gli eletti di Dio ?
Dio quegli che giu- stifica
: e per mostrare la saldezza di questa giustificazione, ed anche
limmO- bilit di questo volere superiore,
soggiunge Imperocch io son certo, che non la
morte, n la vita potr separarmi dalla carit di Dio, che in Cristo Ces Signor nostro i (2). E dopo queste parole tiro
immediatamente la conseguenza, che il
principio superiore delluomo il germe
della salute di tutto l'uomo , concltiti- dendo con queste parole di 8. Paolo:
t Laonde, o fratelli, noi non siamo debitori alla carne , da voler vivere secondo la carne. Che
anzi se vivrete secondo la carne,
morrete : ma se collo spirito mortificherete le opere della carne,
vivrete ( 3 ). Or chi mai potrebbe
indovinare la terribile accusa che mi d il nostro signor Eusebio? Uditela
attentamente, o cortesi lettori. i Si legga il canone 16 della sess. VI del
Concilio Tridentino , cosi egli, che
dice anatema a chi, senza speciale rivelazione divina, afferma di avere
il dono dol- ) Ecco un altro saggio dellardita e falsa maniera di parlare o
dargomentare del no- stro Euseb o ; c Quando il vclcuo manifesto, non ha duopo di molti argomenti
per indicarlo. Digitized by Google 29 dai dire che una cosa opera per necessit,
non conseguita che la libera forza delluo- mo non possa impedire quella
operazione di natura sua necessaria. Ma
perch non fate vi menzione, mi replica, di quanto dice il sacrosanto Concilio
di Trento intorno alla coopcrazione del libero arbitrio delluomo nel prepararsi
e disporsi a ricevere la grazia del'a giustificazione? Perch non faceva a proposito del mio
discorso. Dun- que avete negato quanto
decise intorno a ci il sacro Concilio di Trento, e siete in- corso ne' suoi
anatemi. Falsissima conseguenza:
lormnetlerc ci che non fa al pro- posito del discorso, non un negarlo: il discorso era dell' infusione
della grazia del santo battesimo principalmente ue bambini , non anco arrivati
all uso della ragione: voleasi dimostrare che essi sono in uno stato di santit
prima ancora di far uso del libero arbitrio: perch appunto, come dicemmo, havvi
una certa forma di santit che aderisce allanima senza attuale libert dellanima
stessa, come havvi una forma di peccato c d iniquit per l opposto , che
aderisce all anima del bambino senza alcun atto di libert fatto dal bambino
stesso. Anche negli adulti la grazia del santo batte- simo opera ex opere
operato, e perci in un modo fisico, necessario ; ma essa pu tro- vare I obice
della mala volont, ed esige certamente che I uomo col suo libero arbi- trio vi
ai disponga specialmente cidcm gratiae libere asscnlicndo et cooperando. Io
dico ancora di pi ; stimo cio opinione conforme alla piet , alla tradizione ed
alla ragione, che come nell adulto coopera alla grazia la volont dell uomo in
un modo libero, cosi nell'infante cooperi la volont (bench egli non ne abbia
coscienza, giac- ch la coscienza e la volont son due cose diverse ) attratta
dalla grazia, come le pa- glie dall'ambra, spontaneamente e necessariamente
verso di lei movendosi. Intanto, se il nostro Eusebio teologo , non pu certamente ignorare , che ci
che io dico della grazia santificante che viene infusa ne' bambini pel santo
battesimo posso dirlo a un di presso anche in generale di quella grazia che
santAgostino, e gli scrittori eccle- siastici dopo lui chiamarono operante ;
non pu ignorare, che questa grazia operante viene definita indeliberatus motvs
intellectus et volvntatis coclitus ini- missns , per quem Deus incipit bonum
opus in nobis (i); e che di essa dice sant Ago- stino : Ut ergo tclimus, 31 NE
nobis opcratur(2)-,e che quel sine nobis egregiamente viene spiegalo dal
Totirnely, dicendo: Non ijuidcm sine nobis physicc ac vilalitcr agenti- bus,
sed sinc nobis libere conscnticnlibus ( 3 ). E s. Tommaso : In ilio cjj'ectu, in quo mcns nostra est mota et non
movens, solus attieni Deus, movens opcratio Dco tri- builur (4). Nella grazia
operante adunque la volont si lascia movere -, ella non opera con libert , ma
con isponlaneit ; e questa dottrina sta benissimo insieme con tutto ci che
decide ed esprime con divina sapienza il sacrosanto Concilio di Trento sulla
parte che negli adulti ha il libero arbitrio eccitato dalla grazia a preparare
e di- sporre 1 uomo alla giustificazione. Dico a preparare e disporre I uomo
alla giustifi- cazione , non a produrre la stessa giustificazione. Di questa
noi parlavamo, c dove- vamo parlare; e il nostro censore riottosamente ci
rampogna come avessimo quello negato. Intanto, per ritornare a noi, e parlare
della stessa grazia della giustificazione dell empio, e non delle disposizioni
che la precedono, giovi qui il ripetere, a gloria del Signor nostro, eh
ella un dono del tutto gratuito, e non
dalia libert nostra n da meriti nostri derivante, ma unicamente dalla
ineffabile bont di Dio e da me- riti del Signore c redenlor nostro Ges Cristo:
Gratis autem juslficari ideo dica- tnur, per usare le parole dello stesso
sacrosanto Concilio di Trento, quia nihil eorum c Siccome oggi unge, clic la grazia di Dio a*
infonde nell 1 uomo per necessit, egli eriJente- Quelli che hanno Ietto tutte le cose mie
potranno dire s' io parto senza distinzio- ni : conriensi poi avvertire il
signor Eusebio , elle al Trattato della Coscienza io bo mandato avanti un trattato
degli alti umani, intitolato Antropologia, dove egli polca rinvenire, se avesse
saputo clic esistesse, tutte le distinzioni chegli accenno, cd altre molte ebe
io credetti necessa- rio di far andare avanti ni Trattato della Coscienza, c
elio in questo suppongo gi conosciute. Fra le distinzioni esposte nell
Antropologia v hanno altres quello che riguardano la libert, ei diversi
significali in cui i sacri scrittori e i teologi presero questa parola ,
dimostrando come giansenisti abusarono
di alcuni passi di santAgnstino per non avere distinto bene quo vari sensi ne'
quali egli adoper le parole di libert o di libero arbitrio ebe vanno spiegate
dal contesto ( Anlrop . face. 216 227 ).
Fra questi vari sensi della parola libert io bo notati quo' duo elio
distinguono i teologi colle maniere di libertas a coactione , c libertas a
necessitate , e nel Trattalo della Coscienza ho detto clic Tesser la volont
libera da ogni coazione o violenza una
propriet sua essenziale : laonde c in gczrro senso la volont sempre libera essentialmcn- t le ( Trattalo della Coscienza, f. 34, SS, nota )
: ma non alt' incontro una propriet sua
essenziale Tesser ella libera da ogni necessit, soggiungendo per che c tuttavia
nell uomo non ( sopprime qui il
religioso nostro Cristiano, come ognun vede, le parole importanti, in questo
senso, che dichio. rano tutto f equivoco eli' egli ' introduce ! ) : c Che nell
uomo non manca mai la libert po- ( il.
f. 25). Or perch mai queste parole , spiegate dal contesto , sono niente meno
che perverse cd ingan- nevoli/ S ascolti T uom caldo: Dizsi parole perverse, perch c condannala
dalla Chiesa la , non incorrono nella proposizione condannata , perch spiegano
ai qual libert parlino. Chiamar adunque perverse le parole di chi vi dico che
la vo- lont essenzialmente libera di
quella libert che esclude la violenza, come di nuovo insegna s. Tommaso ( S. 1,
VI, iv ) del pari ua oltraggio da uom
scimunito. Se il signor Eusebio di buona
fede, come io voglio sempre sperare, rilegga il contesto, e medili un po' pi, e
gli so- prabbaster a convincersene. Se poi egli non di buona fede, lo rimandiamo a leggere per
so- prassello la face. 217 del trattato nostro che precede immediatameote
quello dellu Coscienza , dove a confusione della sua impertinente ignoranza
trover scritto cosi : c I teologi distinguono due specie di libert, 1' una
delle quali chiamano libert da violen- ( za ( libertas a coaclione ), c chiamao
V altra libert da nccessi ( libertas a necessitate ). c Beuch poi all* una e
all altra specie applichino il vocabolo di libert, tuttavia insegnano che preso questo in senso assoluto senza
nulla aggiungervi , non pu applicarsi propriamente ( a una volont che sia
libera da violenza, ma tuttavia necessitata. c Sicch, a line di evitare ogni
cquivocaziooe, gioverebbe distinguere (a spontaneit dalla c libert. La volont
non pu operare mai altramente che in modo spontaneo ; ma tuttavia non ( opera
ella sempre in modo del tutto libero. c N per avventura egli di lieve importanza il distinguer loperare al
tutto libero dal- ( 1* operare spontaneo: e nella chiesa questa distinzione
venne solennemente sancita dalle decisioni c de Concili e de' Sommi Pontefici,
i quali condannarono la dottrina di Calvino, di Giansenio e di ( Antropologia , L. Ili, Sci. li c. VI, a u).
(1) Giustamente insegna sanlAgostino, che la volont umana allora pi perfetta, quando in lai modo viene
spogliata della sua libert, ebe non pu pi peccare, perch tutta stabilita nel
bene, come accade ne' celesti comprensori. I passi di sani Agostino furono da
me recali c spie- gati nci' Antropologia, face. 2 1 6-224. 32 da prima sema lor
merito per sola misericordia di colui, che prior delexit noti in questi tali si
avvera quello che dicemmo, che talora la santit aderisce all anima senza
un'attuale libert di questa, e per senza che quella santit sia uo nuovo me-
rito -, non potendosi essa chiamar merito se non solo in relazione al principio
libero col quale luomo precedentemente oper il bene, e si merit qual premio del
suo ben operare una santit cotiGrmata ed inamissibile. In altri celesti
comprensori con solo manca la libert attuale, ma non lebbero mai, n pure
virenti in sulla terra. Tali sono tutti i bambini battezzati, morti innanzi di
giungere allet della discrezione del bene e del male, o altri anche adulti che
mai non ebbero il pieno uso della loro ragione c il dominio della propria
volont. La forma della loro santit
dunque indi- pendente dalla libert che in essi non e non fu mai: ella diversa dal merito, ncn avendo quelli mai
meritato. Laonde quella loro rettitudine, virt e giustizia, non a 1 imputa ad
alcun principio libero che sia, o sia stalo in essi ; ma si al principio li-
bero che fu in altra persona, cio nella persona di Ges Cristo Signor nostro, pe
me- riti del quale essi hanno conseguito la salute, la santit, la vita eterna.
Altro dunque la forma morale della
santit e della giustizia, ed altro
l'impu- tazione a lode e a merito di essa : come altro la forma morale del peccato c della iniquit,
ed altro l imputazione a colpa e a demerito di esso. La forma della santit e
della giustizia aderisce necessariamente alla stessa anima intellettiva, quando
il princi- pio libero a cui s imputa pu essere stato in essa solo io nn tempo
precedente, ovvero esser fuori di essa, trovarsi in unaltra persona-, come del
pari la forma del peccato non pu che aderire allanima che n il soggetto, quando
il principio dell'imputazione a colpa pu o essere stato solo in essa ad un
tempo anteriore, ovvero trovarsi in altra persona. Dobbiamo ora noi, chiarite
tulle queste cose, richiamare il ragionamento al peccalo originale, e
rispondere all altre difficolt e male intelligenze del signor Eusebio in una
dottrina cos importante. Che cosa la
giustizia? che cosa la santit aderente
all anima? XVII. Se si parla di una giustizia naturale, questa consiste nella
rettitudine di tutte le potenze di cui luomo
composto, di maniera che la parte superiore, la vo- lont, imperi e
diriga la parie inferiore, secondo il dettame della ragione ; e la parte
inferiore, risultante di senso e distinto, si lasci dirigere e armoniosamente a
quella consenta. Ma questa non ancora la
giustizia soprannaturale, la santit. Ivi giustizia soprannaturale non consiste
nella gola rettitudine c armonia di tutte le potenze natu- rali delluomo, ma in
una vera influenza e comunicazione di Dio all' uomo, in una pa- rola una giustizia informata dalla grazia, per la
quale I* uomo non pur conosce spe- culativamente Iddio suo principio, ma lo
sente, e il conosce ed ama per suo ultimo fine e sommo bene, e pu goderne,
unendo volont a volont, e al piacer di lui con lutto s stesso tendendo. Laonde il
sacrosanto Concilio di Trento insegna, che la causa effi- ciente della
giustilicazione si misericors Deus , qui
gratuito abluit et sancii ficai, signans et ungens Spirita promissioni sondo,
qui etl pignus haereditatis nostrae-, c che unica forma liti causa est justitia
Dei, non qua ipse justus est, sed qua nos juslos facit , qua vidilicet ab eo
donali, rcnocamur spirita mentis nostrae-, e an- cora, che id lamen in hac
impii justificatione fit, dum ejusdem sacralissimae pas- sionis merito per
Spiritual sanctum charitas Dei diffunditur in cordibus eortim qui
juslificantur, atque ipsis iniiaeket (i). Che se l'uomo giustificato ha luso
del libero arbitrio, egli accrescer pu la sua santificazione stessa colla
cooperazione e colle buone opere, e tutta questa parte di santificazione, e
queste buone opere che, liberamente cooperando alla grazio, s accumula, vengono
riputate a lode e merito di lui, clic il
libero autore delle medesime. Altro
dunque la santit , maleria dell imputazione, altro l' imputazione al (I)
Scsi. VI, cop. VII. )igitized by Goosfe 33 principio libero che, in qualche
modo, causa di quella. Polrebhe mancar
questa ed esservi quella ; ma non potrebbe mancar quella eil esservi questa,
perocch non si pu dare imputazione, se non si dia prima la materia di essa.
Cosi ne bambini rige- nerati nel fonte battesimale vi ha santit, non vi ha
ancora in essi imputazione ; ma in nessun uomo adulto pu darsi imputazione a
merito, se non v' ha in lui la cosa buona che a lui, come ad autore, s' imputi.
Passiamo al peccato. Che cosa l'
ingiustizia, l'iniquit, il peccalo ? L ingiustizia, l' iniquit, il peccalo si e
la stortura della volont, il disordine delle potenze dell' uomo, che si pu
considerare o rispetto a Dio, o rispetto alla di- sarmonia delle potenze fra
loro. Il disordine nelle poleoze amane rispetto a Dio, non consiste gi in una
involontaria ignorazione di Dio (t), il che non sarebbe peccato, ma in un
avversione della volont da quel Dio a cui 1 uomo ordinato. Il disordine morale rispetto alle
potenze havvi ogni qualvolta la volont dell' no- mo, in luogo d' attendere al
giusto mostratole dalla ragione, opera l'ingiusto sedotta dal senso e dall
istinto. XVIII. Altro donqoe il peccato,
l iniquit, materia dell imputazione, altro l' imputazione stessa di lui al
principio libero che u l'autore: limputazione al prin- cipio libero ( la colpa
) sappone dinanzi a se il peccalo, che
la materia dell im- putazione. Che cosa adunque si pu imputare a colpa ?
Forse un azione iodilferente ? no. Forse una qualit o propriet dell' anima
priva al tutto di malvagit ? n pure. Egli
necessario che se uo azione, o leffetto di essa, una qualit, o propriet,
o stalo d unanima, s' imputa a colpa al suo autore, quell'azione o quell'
elTetto sia malva- gio ; altrimenti sarebbe impossibile ed assurda l'
imputazione, perocch mancherebbe la materia di essa. Applichiamo tali principi
evidenti al peccato originale ne bambini non rigenerali dal santo battesimo, il
quale s imputa a colpa del libero suo autore, il capo dell umana generazione,
Adamo. Acciocch questa imputazione sia possibile, conviene che nel bambino
esista la materia dell imputazione ; e questo non pu es- sere che un disordine,
un male morale, in ona parola, un peccato. Il peccalo adun- que presupposto dalla colpa , giacch colpa
non ohe peccato imputato al suo au-
tore, e, come dice s- Tommaso, pcccatuin est in plus quam culpa ( 2 );
qualunque cosa sia questo peccato, egli dee essere inerente al bambino e
proprio di lui, com deciso dalla Chiesa,
e come risulta da paragoni che usa In divina Scrittura a spie- garlo ; fra gli
altri da quello d immondezza ; onde Giobbe, citalo da sant Agostino e da Padri
comunemente secondo la versione de LXX, ebbe a dire : -/Verno muntiti t a sorde
, nec injans ctijus est unius dici vita super terroni (3). Il che se deciso,
del pari deciso che nell' uomo si
d ono stato di peccato non imputabile a colpa di lui stesso , e che agli stessi duerni della
Chiesa si oppone il sigoor Eusebio con- tendendolo, com egli fa, e negandolo.
XIX. Noi ben vedremo pi sotto i suoi vani effugi ; noi ribatteremo gl impo-
tenti suoi sforzi, che sembrerebber diretti ad annullare il peccato originale
conver- tendolo in un mero nome, e rendendone cosi impossibile anche l
imputazione, o sia la colpa ; vedremo ancora coni egli si lascia inutilmente
scappare tali parole, le quali (1) Infitielitas pure negativa in hit, in quihus
CAristus non est praedieatus, peecatum est. E la prop. 68 condannata di Bajo.
Come pu difendersi il sigoor Eusebio dall urlare in questa condanna, egli che
dichiara ?cra colpa la semplice privazione ne bambini neonati della grazia
santificante? (2) Meritorium
namque, dice il Card. Gaetano, eupponit et praeexigit laudabile : et laudabile
rectum : et REcruM , bonlm moralitkr. In
S. I. II , XXI, li. La medesima cosa pu dirsi del demerito , della colpa, del
peccato e del male morale, perch contrariorum eadem eet ratio. (3) *C.
^LIV. Laonde Tertulliano dice assai
acconciamente di ogni anima: peccatri.c auleta quia tmmunda ( L. De anima, c.
XL ); l dove si dovrebbe dire il contrario di Adamo, il quale fu immundue quia
peccator. IOSMINI VoL. XII. 130 34 struggerebbero anche il nome di quella colpa
e la pena a lei conseguente ; e tutto ci in atteggiamento di campion della
fede, che combatte a visiera calata, per pre- cauzione, e a dritta e a sinistra
mena colpi spielati, che una maraviglia
a vedere. Ma per non uscire di via, proscguinm ora a dimostrare con nuovi
argomenti la proposizione eh egli impugna come contraria alla sana teologia, la
proposizione cio che si pu dare nelluomo
uno stato di peccalo non imputabile a colpa di lui stes- ti so , o anche
che, secondo la dottrina cattolica, pu
esser nell'uomo e vi uno stato difettoso della volont , che in "s
ha la nozione di peccato e non quella di v colpa . Fra gli altri esempi di
questo stalo, io ho recato quello evidentissimo de dan- nati, ncquali la
volont perversa, ma non pu pi demeritare
perch priva di li- bert ; al quale argomento risponde il signor Eusebio
unicamente cosi : i Stimerem- mo perdita
di tempo dimostrare ci che gi troppo
manifesto per le autorit arrc- cate (i), e ci senza avere recata in mezzo n pure
una sola autorit che parlasse dello stato delle anime de dannati, n dettane una
parola. Non questa una maniera assai
comoda di trarsi d impaccio ? XX. A confirmare il mio assunto intorno allo
stato di peccato in cui sono i dan- nati, bench non possano demeritare, addussi
ci che ne dice san Tommaso \ ed egli scioglie la difficolt in asserendo senza
esitare c senza provare , che da quel testo
non si rileva alTatto la distinzione fra peccalo c colpa a (2). Ma se
non la rileva egli, la rileva bens qualsiasi uomo di buon senso ; e gio- ver
riporre qui sottocchio pi alla distesa quella dottrina dellAngelico. Questi
inse- gna espressamente che i dannati habent necessitale m peccandi, ma che
perci ap- punto perch sono necessitati al male, essi sono scusati dalla colpa ,
perch necessi- tai peccandi excusat a
culpa; tuttavia essi sono colpevoli in causa dello stato di peccato in cui
sono, perocch il principio libero a cui , come a causa , simputa la loro volont
ostinata nel male, sebbene non si trovi in essi presente, fu in essi in pas-
sato, quando vivevano e peccavano sulla terra, et sic tolum demeritum sequentis
cul- pae videtur ad primam culpain pcrtincre ( 3 ). Chi non sente in tulio ci
la differenza chiarissima fra il peccato in cui i dannati sono ostinali, e la
colpa, clic l'imputa- zione di quel loro
peccato alla volont libera che avevano in sulla terra? Tutti lo sen- tono,
fuori d' Eusebio. Vha ne dannati una volont difettosa, perversa, ostinata nel
male, che perci ha in s la nozione di peccalo. Sicut in bcatis in patria , dice
s. Tommaso, crii per- fidissima charitas , ita in damnatis crii perficlissimum
odium (4) : dice ancora che Dcum pcrcipicntes in cjfcclu justitiae , qui est
pocna , cum odio habent ( 3 ) ; c che tanta erit invidia in damnatis , quod
etiain propinquorum gloriae invidebunt (6) ; che superbia eonim asccndit semper
(7) ; che voluntas malitiac peccati in eis rema- ne, t (8), c che ininuitatem
volunt (9) : in somma la volont de dannati
infetta da lutti i [leccati. Vi ha dunque uno stato di peccato in essi
che non stato di colpa ( se non in causa
), perch privo di attuai libert. Laonde egregiamente s. Tommaso conchiu- de,
che perversa voluntas in damnatis ex obstinationc proccdit, quac est eorum poe-
na;crgo perversa voluntas in damnatis non est culpa , per quatti dcmcrcantur {
io). (1) r. act. ir, r. u. ( 2 ) Ivi. (3) Supp. XCV1I1, VI, ad 3. (*) Ivi, iv.
(S) Ivi, v. (li) Ivi, V, ad 1. ( 7 ) Ivi, v, Se d contro. (8) Ivi, 11. (9) Ivi.
ad 1. (10) Ivi, vi Seti contro. Digitized by Google 35 Concludiamo: secondo la
mente di s. Tommaso e la dottrina della Chiesa ri ha una forma d iniquit e di
peccato diversa da quella della colpa e del demerito, chec- che piaccia di dire
in contrario al nostro signor Eusebio. Ma tolto ci verr maggiormente confirmalo
e ribadito dallesame che ci resta a fare della dottrina di lui intorno al
peccato originale : al qual esame a malincuore pongo mano, perch non gli potr
tornare troppo onorevole : ina naccusi s stesso : egli me ne costringe
caricandomi d' orrende imputazioni da cui debbo pure giustifi- carmi ; n il
posso fare senza dimostrare lui stesso in errore. Digitized by Google Digitized
by Google QUESTIONE III. SK SIA VERO CI CHE PRETENDE EUSEBIO, CHE LA NATURA E
LA VOLONT UMA- NA DAL PECCATO ORIGINALE NON SIA RIMASTA INFETTA NE GUASTA, MA
SOLO PRIVATA DE DONI SOPRANNATURALI. -Avendo io dunque affermalo che s. Tommaso
non fa consistere il peccalo origi- nale in una mera negazione (i), il signor
Eusebio acremente m'assale come avessi bestemmialo, pronunciando che t il santo
Dottore a malincuore di chi lo nega, ri- ti pone precisamente 1' essenza del
peccato originale in una privazione, come fanno
tutti i cattolici ( 2 ). Qual sia
la mente di san Tommaso sull' essenza del pec- cato d origine lo vedremo tosto
: mi valga qui prima osservare. i. L ignoranza o malizia del signor Eosebio,
nell' aver sostituita la parola pri- vazione a quella di negazione da me
adoperala. Ciascuno che abbia solo
delibata la scolastica teologia sa troppo bene che negazione si prende per una
semplice man- canza, che dicesi anco carrntia ; l dove riserbasi la parola
privazione a indicare la mancanza di ci che dovrebbessere in un soggetto, e
parlandosi di cosa morale, che esser vi dovrebbe secondo la sua propria morale
esigenza (3); per il malo sempre una
privazione, e non una mera negazione- fi) Ecco le mie parole che mossero nel
signor Eusebio quell' atra bile di cui non ai vede a primo aspetto il perch
: Ved. U. f. 18-20. 34, 33. (2) II. Aff.
IV, f. 19. (3) Si noti bene questa clausola : te manca ad un soggetto ci ebe la
sua natura morale esige, vi ha privazione morale, male morale. Perci qualora la
natura dell uomo fosse perfetta, e sol priva di quella grazia che alla sua
natura non dovuta, non potrebbe dirsi
eh' essa aves- se una privazione morale, un peccato. Di che procede una
siogolare conseguenza, ed che il signor
Eusebio non pu dare una spiegazione ragionevole della sua maniera di pensare
intorno all originai peccalo, se non precipitando in quel Baianismo eh* egli a
ine imputa. In questo si- stema la grazia santificante diceva! dovuta alla
natura umana : 1/umanae naturile eublimatio et exaltatio in coneorlium divinile
natura debita fuit interritali primae candilionit, et proin- de naturali i
dicendo est , et non eupematuralie : la
prop. 21 condannata di Baio ; e il me- desimo viene a dire la prop. 26. Ora se
la grazia santificante fosse dovuta alla natura umana, di guisa che si potesse
dire un elemento integrale di essa, e perci naturale, come pretende Baio ; in
lai caso s* intenderebbe benissimo come la sola privazione di quella grazia
lasciasse questa natura imperfetta moralmente e difettosa, io istato perci di
peccato, il ebe sostiene il si- gnor Eusebio. Ma avendo la Chiesa deciso che la
grazia una esaltazione delta natura
umana a lei indebiia ; egli chiaro, che
qualora zi supponga che la natura umana sia prescDlemente spogliata della
grazia, ma del resto perfetta, come se Iddio l'avesse creata in islato di
natura sana ed in- tera, non potrebbe mai dirsi ch'ella fosse moralmente
difettosa, eli ella avesse iu s un'alfezione peccaminosa. Risponder il signor Eusebio con altri , che
la grazia dovuta alla natura ex or-
dinatione Dei , non ex exigentta naturo e.
Ma l' ordine da Dio stabilito non pu obbligare se non quelli a cui fu
intimato, e perci Adamo era certamente obbligato a conservarsi io grazia, perch
conosceva che questo Iddio voleva da iui ; ma ci spiega come Adamo si potesse
incol- pare della grazia da lui perduta a s ed alla stirpe , e come la stirpe
sua dovesse restarne pri- va ; ma non come la sola privazione della grazia
nella stirpe acquistasse la nozione di vero pec- cato , inerente a ciascun
individuo , unicuigue / roprlum. So dunque il siguor Eusebio pretendesse
Digitized by Google 38 a. Il dire che tdtti i cattolici mettono il peccato
originale in una mera priva- zione, on
dire che dunque non sono cattolici tutti quelli che non mettono l' es- senza
del peccato originale in una mera privazione. Non temerit questa? non intolleranza di tante opinioni teologiche permesse
dalla Chiesa? Che diranno lotte 1 altre scuole cattoliche che vengono da questo
nostro arcifanfano cosi recisamente scomunicale? (i). XXII. tgli vi dice
ancora, (cos egli, quasi ci che egli
afferma fosse un dogma), che , ma
che in realt, come nel corpo, cosi nell
anima (i), ora nasciamo e siam tali, quali
nasceremmo e saremmo se fossimo stati da Dio creati nello stato di pura
natura (al. Anzi, in pena della falsit
con cui egli cit questautore, fora anco senza conoscerlo soffra che noi gli
rivolgiamo aoanto quegli dice del Pighio : Quam forte distinctio- nem { tra il
senso formale, e il senso materiale della espressione : giustizia originale) si
inspexisset Pighius et sui, nunquam mficias icissent , IN nobis INESSE
originale peccatum : e il pubblico misuri anche da questo esempio il valor vero
delle eusebia- ne affermazioni e citazioni. XXX li. Al quale esempio
aggiungeremo il secondo, ancor pi bello, se pu essere, quel del Gaetano, che
Eusebio vuol tutto per s. A malgrado di questo soo buon volere, il sentimento
dellacuto commentatore (1) Lo stesso Eusebio Cristiano cita queste parole di
>. Tommaso alla face. 11 dot suo li- bello, qwdquid percenti de compitone
primi peccali ad anima m, hakel ralionem cutpae; ma io realt , qui dice, Illune
corruzione pass ah' anime de discendenti di Adamo. Dunque in lealt Diente vi
Ila in questi che abbia ragion di colpa I (2) Si confrontino le precise parole
di Pelagio , conservateei da sant' Agostino, e da questo aaoto Padre condanoate
per eretiche , colle parole di Eusebio Cristiano, e si vegga quanto i duo
zelanti difensori della fede ortodossa se l intendano. Le parole d' Eusebio
sono le riferite, eh* ( io restii, come net corpo, cos neiC ma ora nasciamo e
siam tali, quali nasceremmo e sa. c remino se fossimo stai- Da Dio creati nello
stato di pura natura s. Le parole di Pelagio sono: Sine ulta malo , se utio e
ilio parvuloe nasci , et hoc eolurn in et# cete , quoti De u candida, non
sviaci guoD immetti utruxix. S Aug- De Pee. Orij. cantra Pelag. et Cdmi, c, XV. Digitized by Google 46 Hell'Aquioale a lui oppostissimo. Osserva il Gaetano, che
s. Tommaso espressa- mente insegna (i) che I nomo col peccato fa privato non
solo del dono della grazia santificante , ma ben anco del vigore delt anima col
quale egli teneva a s soggette le parti inferiori ; il qual vigore essendo
essenzialmente naturale, bench da Adamo fosse posseduto gratuitamente insieme
col dono dell' originai giustizia, non pu man- care alla natura umana senza che
questa rimanga, non pi intera, ma guasta e cor- rotta : Quia igilur vigor iste
possessive est gratuilus, quia non habetur nisi in con- junctione ad statum
gratuitum originalis justitiac : et essentialiter est natura- li s, quia vigor
est supcrioris partis animae noslrae secundum naturata rationalem ad solum et
omne bonum rationi proportionatum se extendens : ideo sic adiunctus puris
naturalibus constituii statum naturae INTEGRAR, et per istius deperditionem
natura est corrupta. Non trattasi aui dunque della privazione della sola grazia
santificante, a cui Eusebio riduce tutto loriginale peccato, e a udirlo,
anco tutti i pi celebri dottori
cattolici con esso lui, anzi tutti i cattolici a dirittura ; trattasi
secondo il Gaetano, da lui citato qual dottore celebre in prova delle
magnifiche sue asserzioni, di corruzione nella natura stessa umana, trattasi d
svigorimento di questa natura, ridotta a cos mal termine, da non poter pi operare
n pure il bene natura- le interamente, costretta di conseguente a cadere di
quando in quando in peccalo. Vero , che questo vigor naturae non trovasi ne
principi costitutivi dellumana nata- rn separatamente considerati; e che egli
non a lei essenziale, ma solo
un'acciden- tale perfezione. Ed questo
che trasse forse in errore il signor Easebio, il quale non saccorse, che il
Gaetano per islalo di catara pura intendea la natura umana co suoi costitutivi
soli, e non punto pi. Perci il Gaetano dice benissimo, che a questo stato da
lui immaginato di pura natura non si appartiene larmonia delle potenze fra
loro, e il dominio della parte superiore sulle inferiori; e quindi che da un
tale stato imper- fetto non differisce il presente, se non come differisce
luomo spogliato dall'uomo nudo. Ma che perci? dice forse egli altrettanto della
natura integra, cio della natu- ra umana senza peccato e senza grazia, ma
fornita per di quell'ordine e di quellar- monia che le naturale, e che Iddio avrebbe saputo darle
nella sua sapienza c bon- t, acciocch ottenesse il natarale suo fine, l'onest e
la felicit, nellordine della na- tura, se a lui fosse piaciuto di crearla cos
senza grazia e senza peccato ? Questo noi dice egli; anzi dice il contrario:
dice che la natura, qualor non sia integra, ma svi- gorita, giustamente
corrotta si chiama: Vocabulum quoque integri et corrupti, ratio- ni consonai :
quoniam natura integra est, quando NIRIL naturauum non solum coslituentiurn
naturata et Jluentium ex ea, sed rcquisitorum secundum caia decst: corrupta
autcm si quid horum perdidcrit, dictus autem vigor secundum naturam est
rational. Laonde lo stato di pura natura, secondo il Gaetano, uno stato in cui luo- mo non pu osservar
sempre lonest naturale, fine della natura razionale, t'ita fiu- mana in et ex
puris naturalibus pera gi non palesi absque peccalo, et hoc ex intrin- seco
dcfectu virium animae : al quale stato difettoso e manchevole pari certamente I nostro, non a quello della
natura integra priva solo della grazia santificante, qual quello che Eusebio pur ci descrive. Et quia
aequalis, est sujficientia naturae la- psac, et naturae in puris naturalibus
consequcns est, quod appellationc naturae in- tegrae non intelligatur in lilera
in puris naturalibus: sed intclligitur natura in stata consono naturae
rationali, qui addit sopra pure naturalia vigorem rationis scu su- periori. r
partis animae ad conscrvandum statum rationi in nullo dissonum. Che que- sto
vigore della mente non sia una parte essenziale della natura umana, cosicch
scu- zesso non si potesse questa pensare, niuno lo nega; come niuno nega che
non sia es- senziale al corpo umano larmonia perfetta delle sue membra, di
guisa che qualor anco un braccio fosse pi luogo dell altro, non riuiarrebbesi
per questo il corpo dal- (1) S. I. Il , XCI. vi. VjuL 5 gle 47 lavere i snoi
naturali costitutivi. Ma che fa ci? riman sempre fermo, che quel corpo sarebbe
privo di sua naturai perfezione, se sproporzione vi avesse fra le sue membra,
Molto pi la natura umana sarebbe imperfetta, so non gii fosse dato quel vigor
della mente da poter l altre potenze secondo ragione dirigere, evitar il
peccato ed ottener pienamente il sno fine. Perocch se l'aria e la luce e gli
altri elementi, che pur non entrano nella natura delluomo, son per tali che
senzessi l'uomo non vivrebbe di vita animale, e per Iddio li cre insieme coll
nomo; cosi molto pi il vigor della men- te, col quale l'uomo creato nellordine
della natura, potesse infrenar sempre le infe- riori potenze e vivere secondo i
dettami di sua ragione, appare necessario cotanto al fine di questa razionale e
morale creatura, chegli troppo da
credere, che non glie- l avrebbe negato Iddio, qualor senza grazia gli fosse
piaciuto crearla. Imperocch sia pure che le parti della natura prese a parte,
imperfette a s stesse e insufficienti si dimostrino; ma il complesso per di
esse, l'uoiverso intero vedesi ordinatissimo a tale, che all' insufficienza
delle stesse parti mirabilmente
sopperito e provvedalo, di guisa che della natura universale parlando, pu
applicarci a ragione il detto, che natura noti deficit in nccessariis (i).
Lumana natura adunque in coi la ragione di comandare pienamente alle parti
inferiori fosse incapace, imperfetta e reanchevol sa- rebbe; e per soggiunge il
Gaetano: Per naturam corruptam, com la nostra pre- sente intelligitur natura
privata dono justitiae originali s et vigore rationis, ac per hoc privata dono
supematurali, et DONO NATURALI non fluente ex natura, sed sccundum naturam
debilis sibi. Ed per la privazione di
questo natoral vigor della mente, non per la sola mancanza della grazia
santificante, che ne discendenti d'Ada- mo si sfren la concupiscenza: Propler
defeclum quippe talis vigoris, sumus desti- tuii in nostra pronitatc ad malum ,
quae concupiscentia habitualis superius nomina- ta fluii ( 2 ); dalle quali
parole pu anche Eusebio imparar di passaggio un altro vero ch'egli non sa, cio
che alla concupiscenza appartiene non solo la carne, ma altres lo svigorimento
della mente e la debolezza della volont voltasi male; cose che det- te da me a
lui parvero grossi errori. Conchiude adunque il Cardinal Gaetano, che la natura
umana com'ella nasce presentemente non solo
spogliala della grazia santi- ficante, ma, con buona pace d Eusebio,
anche guasta e vulnerata in s medesima; Est igitur fiumana natura sibi
derelicta, sublata originali juslia, VULNERATA, ac per hoc infirma in
naturalibus , id est in his quae sunt sbcundum natu- rasi, id est in
habilitatibus ad virtutis bonum, et hoc per apposilionem : integra auleta in
naturalibus, id est in natura, et his quae sunt a natura, id est principili et
potenliis et inordinationibus ex parte subjecli: quia nihil per subtractio- nem
ablalum est (3). E gi prima ancora avea detto,* che naturalia elsi non sinl ablata a nobis , sunt tamen
infirmata (4). Di che si vede- esser ben lontano il Car- dinal Gaetano
d'accordare ad Eusebio che (5), 0
che il santo Dottore (Tommaso) t a
malincuore di chi lo nega, riponga precisamente 1 essenza del peccato
origi- naie in una privazione, come
fanno tutti i cattolici' (6) ; ma si
contenta pi to- sto il buon cardinale d' essere scancellato dal libro in coi
Eusebio registra i cattoli- ci: dichiarandosi continuamente, e senza equivoco
alcuno dicendo, a ragion desem- pio : Intendit ( D. Thomas ) peccatum originale
esse tam n abito m , quam di- spositionem in CORRUPTIONE consistente si ; il
che importa qualche cosa di positivo, come la malattia. E bench Eusebio non
vorrebbe sentir paragonato a un (I) S. Tommaso, S. I. CXVIII, ir. (2/ Io I. II
, CIX , n. |3) Io I. II, LXXXV, iu. (il Io I. Il , LXXXil , 1 . (5) R. Aff.
Vili , f. 35. (6) R. Aff. IV., {. 19. Digilized by Google 4S mal Osico l
originai porcaio, tuttavia egli mi perdoni se, essendosi egli appellalo al
rnnlinal Caetauo, io debbo lasciarlo segailare a parlare, come parla, cosi:
Sicut enim aegritudo est habitus cansistens in eorruplione humorutn : ita
peecalum ori- ginale est habitus consistens in eorruplione parlium animae.
Corruptionis enim nomea, ut palei in octavo Physicorum, ad omnem alicujus
desitionem extendi- tur : et sic corre pt io contra Pii rasi prieationf.m
distinguitur in litera. Privalio enim dici i negationem in subjeclo opto nato :
corrvptio vero a unir positi r usi contrarivi t, fvnda ns iLLAM negationem. Non
sanavi enim pri- vatine dici t sanitatis negationem in corpore capaci
sanilalis. /Egrum vero di- cit humores corruptos per contrarias dispositiones
ad sanitalem : ac per hoc et dicit aliqvid positifvm, et est habitus corro
ptus, id est in eorruplione con- sistens.
Et simile est de
peccato originati, qui langv or est naturar (i). E da ludo ci impari di nuovo il signor Eusebio, che
col cilar falsamente delle auto- riia a proprio favore, comegli fa, quando gli
sono contrarie, nulla egli guaJagna, se non del ridicolo. XXXI11. Ma passinm
pure oggimai dal discepolo e dal commentatore, al mae- stro ed al testo ;
voglio io dire all' Aquinate: e bench anche i soli luoghi del santo dottore
allegati fin qui basterebbero a mostrare che forse Eusebio nulla in fonte ne
lesse ; lottavia mettiamo di tal guisa la cosa io chiaro, che ciascuno la possa,
per cosi dire, palpar colle mani. Avend'io detto, che l' Aquinate non pone
l'essenza del peccalo dorigine in una semplice negazione (2), il signor
Eusebio, non contento di darmi gi per lo capo il I tolo di correttore di s.
Tommaso (3), mi vuol Gn escluso dal numero de' cattolici (4). E pure, che la
cosa sia come vuole d signor Eusebio, cio che s. Tommaso eviden- temente dica che il peccato originale
sia dna privazione soltanto , non pare a me, n credo possa parere a chicchessia
abbia letto I Aquinate, se pure il signor Eu- sebio non mi neghi che le
seguenti parole sieno proprie del santo Dottore: peccate m non est pura
prieatio, sed est actus debito ordine privatasi). Mi deve negare ancora, per
sostenere la sua tesi, che di s. Tommaso sieno quest altre: peccatum non SOLUM
Si gnificat IPSAM PRIE ATIONEM boni, quae est inordinatio : sed significai
aduni sub tali urivatione, quae habel rationem mali {6). Deve egli an- cora
radere dalla Somma dell Aquinate quelle parole, colle quali, applicando laccen-
nato principio, che il peccato non est pura privalio, alla macchia del peccato
d ori- gine, scrive che macula non est aliquid positive in anima : nec
significai pri- eationem soiam, sed significat privationem quondam niloris
animae in ordine ad suam causarti, quae est peccatum (7). Non basta : gli
conviene stracciare unal- tra pagina della Somma di s. Tommaso, quella cio dove
il sunto Dottore dimostra evidentemente essere gaglioffaggine I evidenza dei
sig. Eusebio. Imperocch come poteva il Bantu manifestare con pi di evidenza la
mente sua al nostro proposito, che scrivendo cos : Sicut aegritudo corporalis
(8) habel aliquid de privatone in gttan- tum toltitur aequalilas sanitatis, et
aliquid habel positiee, salice t ipsos humores (1) lo S. I. II. Q. LXXXtl, 1. (2)
Trattato detta Coscienza , f. 38 , noia. (3) . Tommaso che la sommissione delle
po- terne inferiori alle superiori in Adamo era 1' effetto della grazia
santificante , ne viene dunque secondo sao Tommaso che nello stato di para
natura in cui mancata la grazia dovea esistere la mala concupiscenza; ma noi
accordando che in Adamo T armonia delle umane potenze dipen- deva dalla grazia
santificante elle possedeva, neghiamo al tutto la conseguenza che se ne vuol
trarre, cio che la mala concupiscenza esiztesse in un uomo creato da Dio senza
grazia a prin- cipio e senza peccato, come esporremo piti sotto: sialo che se
non ti vuol chiamare di pura natura, pu benissimo chiamarsi di natura integra :
non dovendosi questionar di parole ma s di cose. (1) De nuptiie et mneup. L. Il,
c. XXXV. (2) lei, L. 11, c. IX. (3)
Ivi. (4) De miptiie et concupite. L. Il, e. XXVI. Ved. ancora il cap. XIV di questo stesso
libro, e De peccato orig. conira Pelag. et Caeleel. n. 4, dove distingue
accuratamente il santo doUorc ci che aUVztmto detta natura appartiene, o ci cbe
al disordine della concupiscenza. (a) R. Aff. I, f. 8. Per tutte prove della sbadataggine ( dico
cosi per sua scusa) del nostro Eusebio basti notare, che adirandosi egli meco
perch io dissi che talora T istinto nelle operazioni sue precorre la ragione e
la volenti, sostiene che con ci io m oppongo alla senteoza Digitized by Google
56 tanlo sdegno per aver io dello che
avvenir pu, che nell uomo anche desio operi ii solo istinto animale, senza clic la volont
concorra positivamente colla sua azio-
ne (i). Non si oppongono queste
parole mie certamente alta sentenza di s. Tom- maso , che membra non
applicantur operi, nisi per consensum ralionis , come s. Tommaso non si op|tone
a s stesso quando dice che conctipiscenlia (/uac tran- scendit limite ralionis,
inest homini contro naturata ( 2 ); e non si oppone n pure n sant' Agostino, ii
quale, dopo aver dello: sin non etiarn mine in ccrpore morti s htijus imperatur
pedi, brachio , digito, labro, linguae, et ad nulum nostrum con- tinuo
porrigunlur ? soggiunge: Quanto ergo J'acilius atipie tranquilli^ obedicnti-
bus qenitalibus corporis partibus et ipsum membrum porrigeretur, nisi homi- nibus illis l'nobedientibus
tnembroruni istorum inobedienlia justo supplicio redde- rettir (3)? Perocch
Giuliano pelagiano sostenea pure, altrettanto quanto Eusebio, che le membra non
si movessero che col consentimento della ragione, ad vo/untaiis pror- sus nulum
membra in hoc opus creala famulari (4) ; e preteudea di trovare in con-
traddizione saut Agostino seco medesimo, per aver questi detto che. la
disubbidienza delle membra del corpo era pena conseguita alla disubbidienza
dell' nomo a Dio , e poi aver tuttavia nominale certe membra , che a volont
dell' uomo si muovono: al che saut Agostino risponde: Hoc ego dix, genitalibus
utique exceptis, quae corpo- ris nomine nuncupavi: ac per hoc et corpus
voluntali servii in aliorum motione membrorum ; et corpus voluntali non servii
in motibus genitalium. Non stinl ergo verbo mea inter se contraria, quamvis te
palianlur, vel non inlelligendo, vcl alias intclligere non sinendo, contrariata
(5). Laonde ben posso anch' io dire al signor Eusebio col medesimo sauto
Dottore : Multum guidati laborasli , ut hacc mvenires , di >. Tommaso,
membra non applicantur operi, nifi per consemum rationie ; ma nello stesso
tempo egli mette a pi di pagina il testo intero eli* contiene la limitazione
dallAngelico apposta al suo detto, ed : Quanooqce vero ratio poteet passioner escludere divertendo
ad alias co- gttahoncs, vel impedire ne euum consequalur ejfectum ; quia membra
non applicantur operi, nisi per ronsensum ralionis. Se quandoque , dunque non
sempre! Avesse etnica letto il signor
Eusebio l' articolo precedente nella Somma di a. Tommaso ; egli avrebbe trovato
che il Santo vinsegna come appetitile sensilivus potest se h aber e ad liberum
arbilrium et astecedinteb, et conseqiienter. Antecedenler quidem , secundum
quod passio appetitili sensitivi trahil rei in- clinai rationem, vel
votuntatem, ut supra dictum est ( S. I. li, LXXVII, vi) ; il che 6 eppunto ci
che io dissi. Nella sua inconsiderata
passione adunque ( non so se precedente , o conse- guente in lui all uso della
ragione, Iddio lo sa ) il signor Eusebio si consigli di mordermi co- tanto
onninamente da metter lino in sospetto T esattezza della mia morale I E il tent
anche altrove ( R. AfT. IV, f. 19, 20). Ma quid projicil tantum ne fai ? mio
caro Eusebio, perch cosi sprecare il vostro vipereo veleno? (1) Tratl. della
Coscienza, 32, 33. Questo io dissi, non
quello che mi fa dire la ba- loccaggloe (perch voglio sempre sperar bene delle
sue intenzioni) del signor Eusebio. Parlavo io de primi moli, e dicevo che
talora ( Trattalo della Coscienza t . 32
). A provare come possa essere che listinto prevengo la ragione, io dissi che z
so si esamina la natura dell' istinto ani- mate trovasi chesso per operare non
ha bisogno dell eccitamento della ragione, di maniera che se si suppone che
questa si stia del tutto osiosa, ancora pu benissimo concepirsi un'operazione
nell uomo, perch fornito come le bestie appunto dell' istinto i. Si parlava del
poter fisico dope- rare; e il signor Eusebio mostra a!l incontro dintendere che
con ci si volesse signi beare elio potesse l'uomo lecitamente lasciar dormire
la ragione, ed operar l istinto a suo grado! Osa dun- que d' attribuirmi, o
tenta alinea di far credere a'suoi lettori, che venga per me liceniiato listin-
to a faro tutto quello che pu, tacendosi la ragione ! Deb, mio signor Eusebio ,
perch mai vo- lete che il lettor vostro dirizzi verso di voi le acute luci del
suo intelletto ? per veder forse la vostra ignoranza? basta a vederla delio
luci non punto acute. (2) S. I. Il, LXXXII, in, ad i. (3) De nuptiis et concupite. Lib. II, c. XXXI. (4j Parole di Giuliano riferite da
sani Agostino. Conira Julian, Pclag. llb. V, n. 20. (S) Ivi, n. 19. 57 nuac
conira le pollus quarti contro me (licerci : sed in tali caussa non libi asci
ne- cessarius labor , si adesset pudor (i). XLI1. Ma qui mi si conceda un
intramesso di alcune poche osservazioni, che giovar dovrebbero a dar maggior
forza alla verit.. Il signor Eusebio regala altrui con maravigliosa generosit
il titolo d eretico, calvinista, luterano, giansenista, baianisla, molinosista,
eccetera, eccetera: con qual fondamento poi, ogni uom di buon senso sei pu
vedere. Or pazienza lutto ci, scgli fosse ben sicuro d' aver nette le mani di
lai sozzure ! Noi credo io gi un ostinato eretico: credo tuttavia non ponto
cattoliche molte delle sue frasi ; e certo le dottrine da lui poste con aria s
magistrale nel suo libello pussooo ribattersi ottimamente con diversi di quegli
stessi argomenti, che sant' Agostino adoper ad abbattere la pela- ciana empiet.
E quantunque io stimerei mio dovere risparmiargli un si odioso con- fronto,
qualora egli avesse errato di buona fede, o avesse- ragionato o anco sragio-
nato con cristiana modestia; tuttavia rinunziando egli con un Vi ingiusto e
villano procedere a riguardi dovuti agli onesti, e dando tanti probabili indizi
di mala fede ; ragion vuole eh' io parli a dirittura quello che pu meglio
giovare alla causa del vero e della cristiana fede, usando a dirittura di
quella legge chegli fece a s medesimo. N alcuno si creda perci, che io miri n
pur da lontano a fare onta a qualche scuola cattolica ; ch tutte io le rispetto
altamente. E bench apparisca assai chiaro, che il signor Eusebio spera di
salvar le spalle appoggiandole appunto ad una delle cattoliche scuole, alla
quale i giansenisti diedero a torlo per addietro ed ingiuriosa- mente il titolo
di pelagiana ; tuttavia egli non sar troppo sicuro per questo ; giac- ch neppnr
quella scuola, io credo, di cui egli si mostra alunno, il vorr riconoscer per
suo ; ch, se io non erro, egli esagera e storce le dottrine di essa ; e le
dottrine di una scuola qualsiasi esageratc e storte, si possono pi dire
dottrine a quella scuola appartenenti (a) ? Ad ogni modo io dir aperto quanto
nel sistema del signor Eusebio intorno al- I' originale peccato a me paia
vedere d assai vicino al pelagianismo ; n questa sar pi che opinione privata,
lino che la Chiesa non parli ; ma pure sar opinione degna a' d nostri che ben
si consideri. Perocch abbattuto il giansenismo, qual mai errore rman pi a
temersi nella chiesa di Dio? Il razionalismo (3) : ceco il nemico vero dell et
nostra. E che cosa poi egli il
pelagianismo, se non un ramo del raziona- lismo ? Laonde si vogliono anche
oggid distrutti i misteri, si esalta fuor di misura la potenza dell' umana
ragione ; e s inclina sempre a scegliere infra le sentenze cat- toliche, non
quelle che abbiano pi fermo e costante appoggio di ecclesiastiche au- torit, ma
quelle che meno incaglino il corso del proprio umano superficiale ragio-
namento (4) : lo quali una sola linea pi in l del dover che ,si portino, fanno
tra- boccar nell errore. Ora son di nuovo con voi, Eusebio mio. (1) Ivi n. 20.
(2) Per esempio v' hanno ite' teologi che , senza negare che U volont deli uomo
sii in- clinala al male lin dati, nascita ( quando il signor Eusebio va in
collera perch io pongo un guasto originala nella votomi), dicono lullavia che
il guasto della volont c solo un effetto del peccato dorigine e non levaenna
proprio di esso. Ora un tal parlare ben
altro da quello del signor Eusebio; o come si vedr a suo luogo, non mollo
differisce dal mio conccUo, nel quale si distingue V inclinazione al male, dal
guaito onde quella iDcliDozioue s'origina, e in questo, Don in quella riponcsi
t essenza formale dell* originai peccato. (3) lo ho distinto due sistemi di
razionalismo, il filosofico ed il teologico. Ved. la mia tetter al professor
Polli, inserita nel Progreuo di Napoli, e pi altre volle stampala. (4) Lo
stesso Bolgeni , autore per altro eh* io stimo, dichiara di scegliere le
opinioni cat- toliche, con questo criterio delia ragione, rigettando quelle,
sebben del pari cattoliche, ebe alla ua ragione non si affanno. a trb, sed ex
mlndo est ; cujus mundi princeps dictus est diabolus : qui eam in Domino non
invenit , quia Dominus homo non per ipsam ad homines venit. linde dicit etiam ,
ipse , Ecce venit princeps hujus mundi , et in me nihil invenit : ni hit utique
peccati , nec qtiod a nascente trahitur , nec quod a vivente additar, liane
iste noluit nominare in his omnibus, quae commemoravi/, naluralibus bonis , de
qua etiam nuptiae confunduntur , quae de his bonis omnibus gloriantvr. J\am
qtiarc tllud opus conjugalorum subir hitur et abscondrtur etiam oca hit JUiorvm
, nist quia non poi- stmt esse in laudando commistione, sine pudenda libidine ?
De hoc erubuerunt etiam qui primi pudenda tererunt , quae prius pudenda non
fuerunt ; sed tawquam Dei opera praedt- canda atque gloriando. Tunc ergo
tererunt , quando erubuerunt : lune autem erubuerunt , quando post
inobtdientiam iuam inobedientia membra senserunt. ( De nuptiis et concup. L.
II. c. V ). jOOgle 59 dottrina di sant' Agostino e di s. Tommaso intorno al
disordine della concupiscenza, considerata non coin uno spogliamento di qualche
dono soprannaturale, ma come un vizio e un morbo della natura, agli occhi miei di fede, min solo perch da tutte le Scritture
e da tutti i Padri attestata ; eccetto forse da qualche moderno scrittore, che
fuor del debito assottigliandosi, cerca schivare le chiare decisioni
ecclesiastiche; ma ben anco pel decreto positivo del Tridentino Concilio, il (piale
non chiama gi la concupiscenza una parte, una condizione, un effetto della
umana natura; nel qual caso verrebbe da Dio, autore della natura ; ma bens la
fa procedere dal peccato, ex peccato , e lanatema pronuncia contro chi dice il
contrario, come venite a dir voi, mio teologo sopralCno. Itane concupisccntiam
, quam aliquando A postola! pec- catum appellati sancta Synodus declami ,
Ecclesiam Catholicam nunquam inttlle
fisse peccatum appellaci, quod vere et proprie in renalis peccatum sii ,
sed quia zi pece Aro est, et ad peccatum inclinai. Si quis aulem conlrarium
senserit ; analhe- ma sit (i). Or perch mai colpisce questa concupiscenza il
sacrosanto Concilio, men- tr ella gode pure la protezione dLusebio nostro,
campione s zelante della parit della fede? Se la natura presente dell'uomo non
ha nulla in s di vizioso, sol che
spogliala de' doni superni, perch il Concilio colpisce una parte di
questa natura uma- na, la concupiscenza, e dell'altre non parla? Se dal
peccato venuta una parte della natura; dunque
anche altre : dunque la natura tutta
procede da un cattivo princi- pio. Vedete voi, mio Eusebio, in che modo la
vostra novissima teologia vi conduce da un errore all altro suo opposto, e dopo
essere stato pelogiano, vi fa divenir ma- nicheo? vedete voi, che se non
ammettete un vizio originale insito nella natura, voi dovete o tutta lodarla,
come facevano i pelngiani, o vituperarla nella sua essenza, come facevano i
manichei? ( 2 ) Scegliete dunque : se col Concilio di Trento fate ve- nire da
nn cattivo principio, qual il peccato,
la concupiscenza; dunque tuttala na- tura umana, per esser voi coerente al
vostro principio , derivar dovrete dallo stesso principio cattivo ; essendo
tutta egualmente intera e sana in s stessa, egualmente spoglia rispetto a doni
soprannaturali. Se poi volete co pelagiani che nella natura umana nulla vi sia
d'infetto, dovete, contro il Tridentino Concilio, come fate venir da Dio gli
altri elementi della natura, far venire da lui pore la sozza concopisceaza ,
della anale scritto che f non viene dal
Padre (3). XL1U. 2 .* Che se la natura
umana cos intera e sana in s stessa,
quale sareb- be se fosse uscita dalle mani di Dio priva di grazia a principio,
ben s' intender come I uomo possa produrre un altro uomo spoglio de' doni
divini ; ma non s intender mai come l' infante debba uscir peccatore alla luce
; c questa era un' altra obbiezione, che facevano i pelagiani contro la
propagazione delloriginale peccato. Dovete dun- que, mio caro Eusebio,
rinunziare a quanto sant Agostino e la tradizione tutta co- stantemente
professa, che dal seme virile nou naturai, ma vizialo, vien 1' uomo pro- dotto,
semini'ius ex orijine litialis; ne quali semi riconosce pure sant Agostino che
tutto buono ci che appartiene alla mera
natura, e non al vizio da essi contratto, aggiungendo : in qttihus bona est ab
ilio (Deo) creala subslantia (4). Perocch egli da per tatto distingue la
sostanza del seme che da Dio viene, dall infezione di esso che vien dal
peccato. A 'eque nunc agitar, come altrove dice, de natura seminis, sed de
nrro. Illa quippe habel auctorem Deum, ex isto autem trahitur origina- le
peccatum (5). Niente affatto, ripete il
nostro Eusebio, prendendo il tuono di teologo zelantissimo della fede : quel
preteso vizio del seme di cui parla sant Agosti- pi) Si-k. V, Decr. de pece.
orij. (2) Manie turni t/uidtm naturai n humanam detertaliliter vituperai ; lei
tu cruitliUr lau- dai. ( De nupliii et concup. L. Il, c. Ili ). (S) I. Jo, II. iG. (4) Cantra Jtdan. Pelag.
L. VI, 0 . IX. (5) De nuptiii et concupite. L. Il, c. Vili, Digitized by Google
60 no, non che nn naturai Jifotlo, e
l'uomo l'avrebbe avuto anche creato da Dio col- ta sola natura, spoglio di
grazia ; ella una naturale condizione
nostra semplice- mente, che ora mirasi come un guasto, una ferita, una
degradazione, una pena (t); ma non tale se non di nome, non tale se non pel confronto allo stato
soprannatu- rale, in cui 1 ' uom si trovava e si dovrebbe or trovare. Invano
sant Agostino s affa- tica a provargli, che dalla corruzion di rjuel seme vien
comunicalo il peccato dori- gine ; invano vi reca i testi manifestissimi della
Scrittura divina, i quali accusan nel- T uomo non una sola mancanza de doni che
eccedono la natura, ma una intrinseca naturale malizia ; in vano domanda : Aam
si semn ipmm nulium hahel titium ( parla del semen ipsum, non della natura
tutta spogliala de' doni ), quid est quoti scriptum est in libro Sapientiae
: Non ignorans quoniam nequam est natio
lito- ti rum, et natcralis malati a ipsorum , et quoniam non poterai mutavi
cogita- ti Ito illorum in perpetuimi ; semen enim era t maledictvm ab
inilio (a) ? sog giungendo : Nempe de
quibascumque dicat ista, tic hominibus dicil. Quomodo est ergo cuiuslibcl
hominis it aliti A naturali s et sejuek maledictvm ab indio, iti- si ad illud
rcspicialur, quod per unum hominem pcccatum intravit in mundum , et per
peccatum mors , et ila in omnes homincs pcrlransiit, in quo omnes pcccavcrunl
(3) ? A queste domande il nostro Eusebio non degnasi di rispondere meglio che
non faces- se il pelagiano Giuliano; e pur vanta egli solo d'iotendere
sanamente, egli solo d' avere per le sue opinioni il suffragio de pi celebri
dottori cattolici, e dell' Aqui- nate massimamente ! Che se io citassi uno o l
altro' di que moltissimi luoghi del dot- tore angelico, dov egli insegna,
consentendo a sant Agostino e a tutta 1 ' ecclesiasti- ca tradizione, che
libido transmittil pcccatum originale in prolcm (4) che caro iivpi- cit
animam inquantum est principium acticum
in gcnc.ratione ( 5 ), che in semine corporali est pcccatum originale sicut in
causa instrumcntali , co quod per virtutem activam scminis traducitur pcccatum
originale in prolcm simvl cum natura Auma- na (6); povero a me ! che griderebbe
allo strazio indegno chio faccio di s. Tommaso, e direbbe Apprendi, apprendi la cautela con coi van
Tette le opere del Rosmini! (7), e
giurerebbe che s. Tommaso c a malincuore di chi lo nega (8), non mette infezione nella natura se non
di nome, ma in realt ( son sue parole )
come nel corpo, co- si s nell anima ora nasciamo e siavi tali quali nasceremmo
e saremmo se fossimo k stati da dio creati nello stato di pura natura (9). Anche nello stato dunque - rire, come un
saggio di quo mollissimi luoghi de' Padri e altri scrittori autorevoli , che
senza alcuna fatica potrei riferire al proposito. Ecco come espone la vera
dottrina il grandissimo Papa accennalo: Ex semnibut ergo porcina atque coanvrui
ccncipitur corpus corruptum pariter et foedalum, cui A sua tandem infusa
coam'MPircn el rorniTCa: non ab integritale et munditia quam habuit , sed ab
integritale et munditia quam haberet , si non uniretur foedato carpari et
corruplo , quoniam et creando infmditur , et infondendo crealur. Sicut enim ex
vare cor- ruplo liquor infusus corrumpitur , et pollutum contingens ex ipso
eonlactu polluitur : sic ex contagio corporis anima corrumpitur et foedalur (
Ad Ps. IV ). Lanima guasta dunque, non
perch so nesca dalle mani di Dio priva de doni soprannaturali , corno vuol
Eusebio; ina perch si guasta al contatto del corpo infetto , come vuote il papa
Innocenzo con tutta l Chicca. (5) De peccalo originali cantra Pelogium et
Coelesl. cap. XXXVII. (6) Iti, c. XL. ri by Google 62 nell' uomo di presente la
sola natura pura, ma si bene il viz : o , onde il demonio re gna sulluomo non
rinato, non in quanto egli uomo, fattura
di Dio, ma in quanto egli dal peccato
corrotto, recava in mezzo il rito della Chiesa d'esorcizzare i bam- bini prima
ancora di battezzarli ; perocch anche i pelagiani dichiaravano colle pa role di
rispettare i riti della Chiesa ed i sacramenti, bench nel fatto ne annullasser
l effetto: quac ( sacramenta ) tam priscae traditionis aucloritate concelebrai,
ut ea isti ( Pelagiani ), qunmvis in parvulis existimcnl si u viatorie POT/US
QVAM SE baci ter fieri , non t amen audeant aperta improbatione rcspucre (l).
Cos credeva il grand'uomo dabbattere leretica pravit, Ma ora insorge il nostro Eusebio, e
francamente vi dice, che non va presa cosi la cosa. Ma come adunque? Con- vien concedere, prosegue, a Pelagio e a
Celestio, che nella natura umana com'ora ella nasce, non v'ha vizio alcuno di
pi di quello che vi sarebbe nella natura umana uscita dalle mani stesse di D o
se egli l'avesse creata senza la grazia. Cos
affer- mano decisamente i pi
celebri dottori cattolici i ( 2 ). Ma se
concedete tanto a Pelagio, se gli concedete elte niente di ci che vha nella
natura umana al presento sia corruzione; ma tutto pura e vera natura umana; or
come potete poi rispondergli, quando domandavi in che modo il demonio domini
una natura in s medesima pu- ra, e che non ha niente che da Dio non provenga
? Posso rispondergli assai meglio di
santAgostino, Eusebio ci replicher con
tutti i pi celebri cattolici dottori ;
perocch io dico, che Lumaca natura quantun- que realmente non punto guasta, la
si mira e la si considera siccome guasta, c per la ragione stessissima la si
considera e la si mira come se il demonio la possedesse; e ci lutto perch
ella semplicemente ignuda de' doni
superni! Ah ora ben io ca- pisco ragione
onde, essendo voi, mio dolce Eusebio, un logico si sottile, scriveste in su'
cartoni del vostro libro, come foste la teologia In persona , Drizza, Lettor, ver me le acute luci Dello nlelletto !... N io certamente, n tampoco sani Agostino, n
la Chiesa cattolica, per quantio cre- do ( e di credenza di fede ), ha quelle
luci cotanto acute che bastino a raggiungere i vostri voli. Ecco dunque il
vostro sistema. Iddio, in pena della colpa di Adamo, spoglia Adamo e tutti i
nascituri suoi figliuoli de' doni gratuiti. Qaesti nascono perci spogliati ed
ignudi di tali doni, ma del resto realmente perfetti senza macola e senza
difetto. Or Iddio, dopo averneli spogliali, dice loro : Dovevate nascer vestiti ; e cos imputa loro a colpa la inevitabile
nudit. Poscia Iddio ancor soggiunge :
V'ho spogliali de' doni miei, e l'ho imputalo a colpa vostra; ora,
essendo voi colpevoli, il diavolo sar il vostro padrone I Niente affatto, Eusebio, che vedeli cos
scoperto, risponde; voi non mavete inteso, lo non dissi che (ulto ci sia, ma
che si mira, si considera come se ci fos- se.
0 mio dolcissimo Eusebio, scegliete adunque: o un tal sistema, che dal
vostro principio dell' ignuda natura discende,
cero, o finto .- sia che mi rispondiate l'una cosa o l'altra, io non so
come aver possiate ardimento di nominarvi, non che catto- lico, ma pur cristiano. Consideriamo pure
ciascuna delle due risposte che sole dar mi potete, e reggiamo ci che ne viene.
XLV. Se voi mi rispondete che quel vostro sistema vero , cio che Iddio sottrae ai nati d'Adamo
i doni soprannaturali, n vha altro peccala loro aderente; e che imputa loro
veramente a colpa la lor nudit, bench del resto s'abbiano la natura umana sana
e perfetta ; e che in conseguenza lasciali veramente in balia del demonio (1)
Ivi. (2) H. Aff. VI, f. 54, 55. Digitized by Google 63 fino die non vengano
battezzali ; in tal caso, voi cangiate Iddio nel pi stollo, ingiu- sto e
crndele tiranno. Ed in tal caso, come potevano parervi cos crude dizioni
(i) le mie, in paragone di queste vostre, quand'io, descrivendo gli
effetti dell'originale peccato in quelli che nascono e che non sono per anco
rigenerali, dicevo che lutti sono guasti gli uomini nella volont. Non ci
ha bisogno di condannarli, basta la-
sciarli in preda al loro guasto : con ci non si fa loro torto, lasciando
loro il suo : questa riprovazione come a dire un mal fisico, che ci viene sopra
inevitabile per conseguenza dellu colpa
del primo padre (2) ! Non dite voi forse
assai pi col si- stema vostro, se parlate da vero ? D'altra parte considerate
un po con quest' occasione le mie ragioni, per le quali io mi son cosi
espresso, lo rassomigliavo a un mal fisico,
vero, la riprovazio- ne originale; ma il facevo perdio a un mal fisico
appunto la rassomigliano i dottori ed i Padri tulli: un morbo, a ragion
desempio, la chiama sant Agostino (3): a uu mal fisico s. Tommaso la paragona :
Est enim quaedam inordinata disposilo :
sicut eliam aegritudo corporalis est quaedam inanimata dpositiu corpuris
, sccun- dum quain solcitur acqualitas, in qua consisti t ratio sanitatis :
unde peccatimi origi- nate hwguor untume dicitur (4). Infine la Chiesa chiam
sempre e in tutti i secoli 0 morbus , e languor naturac la originai perdizione;
ed una verit di fede colesta , che questa
ci venga sopra quando nasciamo , siccome un mal fisico inevitabile, ap-
partenendo a' soli eretici il dire il contrario (5). Ma oltre di tutto ci, non
havvi certo cagione perch tanto dura espressione vi deliba sapere questa di un
mal fisico da me usata, se a voi piaccia di considerar bene il contesto del mio
discorso. Descrivendo io condizioni s crude, come voi dite, ma pur verissime,
fumana disgrazia, miravo pare a fare risaltar maggiormente il divin benefizio
della nostra redenzione; peroc- ch quanto
pi grande l'abisso in cui luomo pel peccato primo caduto, tanto pi splende la gloria della
misericordia del Padre, e il trionfo di Ges Cristo Salvatore, ebe alla
sanguinosa croce affisse il chirografo che di tanto con vince vari debitori.
Laonde dopo aver io detto che questa
riprovazione (del peccalo originale)
come t a dire un mal tisico, die ci viene sopra inevitabile per
conseguenza della colpa del primo padre
, soggiungevo immediatamente : Ma sia
introdotto un altro prin- cipio
nell'uomo, non per opera di libera volont, ma di nuovo per necessit, venga f
cio infusa la grazia. La dannazione
tolta incontanente (6). Volevo io
cos es- primere quello di s. Paolo : Conclusit scriptum omnia sub peccato , ut
promissio ex Jide Jcsu C liristi daretur crcdcntius (7) Ma voi, mio Eusebio,
per inavvertenza forse anzich per malizioso artificio, distaccando del tutto le
prime mie parole , che descrivono la miseria de* figliuoli dAdamo, dallaltro
che a quelle susseguono, e che descrivono labbondcvol rimedio da Dio posto ad
essa; prendeste occasione e di con- dannar per soverchia la grandezza da me
descritta dellumana sciagura (S) dallacol- pa prodotta del primo padre, come se
io detraessi troppo con ci al libero umano (1) U. Aff. Vili, f. 33. (2) Troll,
delta Cose. Tace. 46 0 seg. (3) linde ilio magno primi homi tua peccato ,
natura ibi nostra in de ter tua commutata ( sentite qui che la natura stessa elio soffri detrimento, non
le iole sesti di cui essa era or- nata?), non solum facta est peccatrix , verum
eliam generai peccatorea : et tamen ipte languor quo bene vicenni virt a periti
non est ctiquk natura, sed Tirasi (badate bene a queste parole): ticut certe
mala sa corpore taletcoo (che il mal
fisico di cui io parlavo, se intendete la- tino) non est ulta tubstanlia vel
natura , ttd titum. (De nuptiis et concup. L. IL c. XXXIV). (4) S. I. II, LXXXI). 1 . (o) Onde il sommo pontefice Innocenzo III
esclama: Oh gravia nccessitas, et infelix con- d lio ! Antequam pcccemus ,
peccato coatringimur , et antequam de/inquatnus delieto tenemur / ( De
Contempi. Mundi, L. I, c. IV ). (6) Trattato della Coscienza, f. 46 e seg. (7)
Gala!. III. 22. (8) R. Aff. Vili. Digitized by Google 04 arbitrio, o la
dichiarassi inevitabil nel Tallo ( 1 ) ; fi di condannare poi, in altro luogo
del vostro libello , per soverchia egualmente la grandezza da me celebrala
della re- denzione e della grazia battesimale infusaci pe' meriti del Signor
nostro Ges Cri- sto ( 2 ), come sio volessi con ci .di nuovo al libero arbitrio
detrarre quello che pur gli spetta. Io volea mostrare che tutti gli uomini
hanno bisogno della grazia delSal- vatore a salvarsi, e che questa grazia pura misericordia, noti ci vien per diritto
che alcnno se nabbia : laonde dicevo: tutti sono c guasti nella volont: non ci
ha biso- gno di condannarli : basta
lasciarli in preda al loro guasto : con ci non si fa loro torto, lasciando loro il suo. Questa
riprovazione come nn mal fisico che ci
viene sopra inevitabile per conseguenza
della colpa del primo padre , mal fisico che non si sana (3) se non per la
grazia , che a noi viene infusa pure con operazion necessa- ria, cio pel
sacramento del battesimo, ex opere operato; in una parola, per la po- tente
salutifera virt di Cristo. XLVI. E qui di passaggio ancora ^ osservi quanto
inesattamente s esprime il nostro Cristiano. Volendo egli dimostrare che senza
la libera sua volont niuoo dan- nasi, cosi dice: Raccordiamo noi collApostolo (4). (quanto sta male lApostolo, si grande
preconizzatore della grazia di Cristo, in bocca d Eusebio 1 ) ]. Perocch senza
i meriti di Cristo potevano c dovevano dire anche que'santi antichi, col
profeta Isaia; Et facli sumus ut immundus omnes nos, et quasi pannus
mcnstrualac universae justiliae nostrue (3); e anche di essi pot del pari
dir'CKS Cristo: Omnes quutqiiot venerimi , fures sunt et latroncs (4). Della
salute loro adunque fu causa la divina piet, a cui quegli uo- mini corrisposero
col libero lor volere, venendo per questo stesso eccitato e aiutato dalla
grazia; n tuttavia poterono evitare i peccati veuiali , l'un solo de' quali ,
fin (t) Sess. VI. De juelif-, cap. VIt. (2) llaebr. XI. Divinamente descrive questa fede il
sacrosanto Concilio di Trento, dicen- do :
Credente e pera esse, fune ih finitile revtlala et promisea sunt :
ttJi/uc iiut in chimi-, tiro j unti
firari i m/ i u m pan uairusi rjus , per redem/tlionem fune ist tu Cintelo Je*u
: e/ tinn ptixUToais se eeee rnle/Uyenlee ( non adorni delle virt per le quali
vuole il signor Ku- sebm clic gli antichi piacessero a Dio e si salvassero ), a
mi nine juifiliae timore , tjuo uttUler roneutiunlur, mi cnneiileratt'ltim Dei
Miscaicoaui sm se concerlrndo. in epein eriijunlor, Jden - tee Uria stai
paoprsa Cuaiircst paopiuuM rosa, eie. (S*ss. VI, De juelif., cap. VI).
Tanto lungi adunque elle gli antichi
piacessero a Dio c si salvassero pus l>: luso vinr , elio ami tutta la loro
salvazione dovea incominciare dal ricont scersi spogli di virt c di meriti, c
dal peccalo aggravati , aspettando la- loio saluto unicamente dalla divina
siisEatconuiA , la quale avrebbe e loro condonate le culpe , c loro dalc le
fmz.i ad osservare i divini cuiuaudameuli, o loro infuse le virt ; a colie
forzo o colie virt ricevute, sempre pi, cooperando alla graziai avrebbero
meritato. (3) Is. L,\lV. (4) Jo. X. Hosmini Voi. XII. 434 G6 che non rimesso, basta od impedire l' ingresso nel
cielo fi); ed nuche mondi dalle veniali colpe, per gli meriti sempre del
Salvatore, non poterono per meritar di pi che di scendere ni limbo, (ino che il
loro liherntor generoso Ges Cristo vonissse a trarli di quella prigione, senza
del quale non potevano uscirne. Che dunque il solo peccalo originale che vien
nell'uomo senza sua volont trag- ga seco di necessit la dannazione e la servit
dell'uomo sotto il demonio fa), questo
di fede; come di fede, che il Redentore
del mondo port il rimedio di peste cos mortale e vinse il demonio. Ora dicevo
io, ella Torse piu eroda questa mia
sealenza, o della Chiesa piuttosto, di quella del signor Eusebio, qualora egli
pretenda che il bambino venga al mondo schiavo veramente al demonio per cagione
non dun peccalo a lui inerente nella sua propria natura, ma duoa mera colpa
posticcia, per cos dire, imputatagli cio da Dio, perch ignudo de doni suoi, c
ignudo perch egli glieli sot- trasse in pena del peccato del primo suo padre ?
1,csser pi cruda l una o laltra di queste sentenze, non dipende gi dalla gravit
della pena; poich noi supponiamo in tale ipotesi una pena uguale, supponiam
luno e 1 altro che il neonato sia al demo- nio in preda; ma dipende dal rilevar
se la pena sia inflitta pi ragionevolmente nel sistema mio, cio ia quel della
Chiesa, o in quello d Eusebio. Nel mio sistema il fi- gliuolo dAdamo guasto, non
sol della grazia privalo; ha una volont a Dio av- verso, che impedisce
la grazia ( perocch la volont nelluomo anche bambino non manca mai): egli morto perci nellnnima, mortale nel corpo:
Iddio adunque l ha in ira: il demonio ha su di lui un colai diritto di
conquista, se lice dirlo, essendo egli stato causa, qual seduttore, della
perversione della creatura : Iddio dunque gliel la- scia come gi suo, fino che
non gliel ritolga con nuova conquista. Nel sistema vo- stro allincontro, Iddio
abbandona al demonio la sua creatura, che nou ha iu s vizio alcuoo, e sol
perch spoglia de doui ch'egli non le ha
conferiti: qual crudelt, quale assurdo non
cotesto ! XLYII. Ma voi, gi ben veggo, rigettate quest' ipotesi, e mi
rispondete nel se- condo modo de due possibili, venendomi a dire che tutta Irnslata la vostra manie- ra d
esprimervi; e che voi dite bens, a) Che ne discendenti d'Adamo havvi peccato;
ma per peccato intendete il me- ro spngliamenlo de' doni soprannaturali, che
non in s peccato, ma che mirasi per tale
relativamente alla sua causa, il peccato alluulc d' Adamo, il quale Tu
perdonato e quindi non pi imputabile se non per modo di dire, di guisa che
se si astrag- (1) Della giustizia degli
antichi santi parta santAguitino di. frequente. Il lettore potr eoo- suilarc De
gratin Chrieli cantra Pelagium et Cacle*t>um, c. XLVIIf, dose dice che la
giusti- zia guae ex tege est, in etercoribne et detrimenti s i/eputavit. De peccato originali . , cap. XXIV e
XXV. De nuptiis et concnpi.icentia , c.
XI. (2) Dicendo dannazione , non foglio io qui dichiararmi per l* una o l'altra
delle sentenze cattoliche, die pi o meno alleggeriscono le pene a* bambini
morti senza battesimo. Or il signor Eusebio non devi* credere per questo, quasi
leggendo col suo cannocchiale nella mia mente, che a me piaccia di scegliere
fra esse la pi severa. Vero , clic io ho adoperata, anche parlando del peccato
originale , la parola dannazione usata dalla Chiesa ; ma ci era bisogno di
andare Inni* in collera per tal cagione ?( Vcd. R. f. 32, 33). E non dite voi
stesso clic t il non andar c dopo morte a godere dell* ctt-rna soprannaturale
felicit, se si muoia senz'essere rigenerati, c c lessere esclusi affatto dal
cielo, si riguarda come una positiva dannazione? j (R. 33). K se si riguarda
come una posila va dannazione , perch salile dunque si sconciamente >n sulla
bica per aver io adoperata questa parola senza aggiungervi spiegazione alcuna,
ma lasciando che ciascuno la si prendesse per quel che gli piace ? INon la
usano forse i Padri , non la usa sant* Agostino continuamente, come, parlando*
del peccato originale contro Pelagio c Ccleslio, l dove dice. Ac per hoc Deue
hominem damnat propter titidm quo natura dehokkstatuk ,* non propter natlium
guae vino non aufertur ( De peccato orig. contro Peiag. et Coeleet. c. XL )?
Cessale dunque dal solito vostro vezzo di sognare che io dica quel che non
dico, imputandomi i sogni vostri morbosi, e volendomi estinto ia pena di questa
strana vostra imputazione. Ma su di ci tornerai! fra poco. ized by Google
67 ga (i) dalla volont libera dell'uomo
primo che nc fu laufore, non
animelle in s neppure la nozione di
peccalo (a): b) Che v'ha nell'uomo
com'egli or nasce, guasto, ferita, degradazione, pena e colpa; ma che tutte
queste cose sono solamente i naturali
difetti dell anima e del corpo nostro,
che nello stato di pura natura si sarebbero dovuti mirare come na- turali condizioni nostre semplicemknte ; ora
che decademmo si mirano come un clic
spieghino il passo del* T Apostolo in cui dice che i noi siamo per natura
ligliuoli n t l l 1 2 3 4 5 6 ira Come
pretende il signor Eusebio. Quanto all* Angelico poi da lui nominalo in
particolare , se non sozza menzogna la
sua, egli certamente un delirio! Le
proprie parole, colle quali l'Angelico nel suo Commenta- rio sulle lettere di
s. Paolo ( Epln-s. II, 3 ) spiega il Cum essemus nalure filli trae, sono pre-
cisamente queste : Peccatum vero ori (finis insinuai dicens : c Et eramus
rtalurd filli trae . c Eramus nalur , id est , per originem naturar, non quidem
natiuae et natura est, quia sic bona est 1 1 a Do, sed katcrie u f vi ti at a
(intenda bene il signor Eusebio) : c fitti rae , id est vindictab poexae, f.t
geiiekme et hoc sicut , et ceteri , id est Gentilcs. Vegga il lettore se si
potrebbero trovare parole pi ellicaci di q teste a prostrare I errore
noli-cattolico del signor Eusebio della pretesa natura umana non viziala !
vegga ancora Cno a qual segno una velenosa passione possa traviare la mento c
la lingua d' un uouio ! (6) S. Aug. De nu pliis et concupisc. L. Il, c. V.
Digitized by Google 68 pura natura umana, e se naturala hominis ipsc (diabolus)
non condidit (i), perch dunque quella che
(ulta opera di Dio nasce ora schiava del diavolo? li so ancora che saut Agostino gli
rispondeva, non cos ideo teneri (a diabolo). quia homines sani, quod naturae
nomea est, cujus auctor diabolus non est ; sed qma peccatore! sunt, quod culpac
nomea est, cujus diabolus auctor est ( 2 ) ; ed Ancora : de vitto hic agitar,
quo est depravata natura bona, CUJUS vi tu auctor est diabolus ; non de naturar
ipsius bonitale, cujus auctor est Deus (3). Ma il nostro Eusebio non potendo
risponder cos, perocch egli comincia dall accordare generosamente a Pelagio,
elio l'umana natura di presente non
viziata, ma sol nasce spoglia della grazia santi- ficante, e quest tutto ci che in essa per colpa si mira (4) :
che cosa altro potr a quellempio rispondere, se non, il diavolo esser autor del
peccato, doversi interpre- tare co pi
esatti dottori per tult'altro da quel
che suona ; e, nascer l'uomo schia- vo al demonio, doversi intendere
semplicemente per nascere da Dio disgiunto, cio privo semplicemente della sua
grazia, senza per essergli in disgrazia ed in ira? Non dice veramente Eusebio
questo in espresse parole ; ma implicitamente cel Fa co- noscere. E da prima
assolve egli il diavolo con sottile argomento dall' esser autor del male,
perocch scrive: I traviamenti morali ci
sono: e quanti! Chi se ne dovr qual
conseguenza del peccato d'origine , riducesi ad uoa maniera di dire che
lutlallro significa; la parola poi dannazione , come toccai pi sopra, pel cuore di lui, dolce (in col demonio, tale
nn eccitante , che lo mette in convulsione, e dal suo tesoro il fa eruttar su
di me villanie copiose e menzogne. Ilo io sol nominata quella parola, senza
spiegarmi di pi ; e perci sol mi condanna co- gli eretici al fuoco. Non
contentasi egli di decidere ex cathedra, che quella parola intender si deve
per non andar dopo morte a godere
delleterna soprannaturale fe- c licit,
ed essere esclusi all'atto dal cielo
( 2 ). Se di questo solo appagato si fosse, mi basterebbe dirgli : c
Fratello nel mio Trattalo della Coscienza che voi straziate non trovasi pure un
mollo n in favore n contro a questa vostra sentenza: lasciatemi dunque in pace,
poich io non sono entralo, n entrar voglio con voi in tale questione >. Ma
va pi innanzi: egli mi morde e dilacera per aver io nominato semplicemente le
voci di dannazione, di perdizione e di riprovazione, riferendo e spie- gando
alcuni passi dell Apostolo, de'quali egli riporta, non so io se per iscaltrezza
o per la sua solita semplicit, solo il seguente: Usquc ad legem enim peccatum
erat in mundo : peccatum autem non imputabatur cum lex non csset. Sed regnanti mori
ab Adam usquc ad Moyscn dia in in cos, qui non peccaverunt in similitudmcm
prue- varicaiionis Adac (3); dopo di che cosi mi rimbecca: Dov' qui la dannazione, la (I) Pelagio
ammetteva che si dovessero battezzare i bambini : aon volea orlare colla Chie-
sa ; iua realmente a' riti battesimali sottrata la virt , riducendoli ad ima
simulala e vanissima cerimonia. ( Ved. santAgnstioo Ve peccato orininoli ecc.,
c. V ). ( Eph. II ): non dice clTeravamo
figliuoli del giudizio ; non ti parla di un giudice che pro- c noncia una
sentenza ma di un padrone incollerito, a cui il servo odioso. Cosi pure: t Tutti ( quelli, dice,
che hanno peccato senza lo legge, pehiha.i.no sema la legge; e tutti quelli ohe
henna 70 perdizione, la riprovazione, di
che parla nel suo commento il signor Rosmini?
A cui rispondo, che il signor Rosmini non cit dellApostolo quel testo
solo, ma prima immediatamente quesfaltro: Quicumque enim sine lege peccaverunt,
sine leje pe- ri bunt ( i ), dove l'Apostolo nomina la perdizione : rispondo ancora,
che in quello stesso passo dal signor Eusebio recato, pu trovarsi benissimo la
perdizione, senza op- porsi menomamente alla lista d interpreti che
bugiardamente egli cita, dequali mette alla testa, coninGnila impudenza,
sant'Agostmo : la quale impudenza trarr io in luce fra poco. Come pu trarre egli quindi, cosi prosegue a
investirmi, la generai de- s dazione, che tulli gli uomini, senza eccettuare n
pur coloro che non peccarono mai con
colpa attuale e libera, sono guasti nella volont? Tutti gli uomini, senza eccettuare u pur
coloro che non peccarono mai con colpa attuale c libera, come i bam- bini, sono
pur peccatori per conseguenza dell'eredit funesta dell'originale peccato: Omnes
dec/inaverunt , simul inuti/es facli sunt (e). Ora nel sistema d Eusebio, in
cui loriginale peccalo non alcun vizio
aderente a ciascun che nasce, gli uomini che non abbiano attualmente e
liberamente peccato, non debbon certo essere guasti nella po lenza morale, che la volont, come non son guasti nell' olire;
ma lutt'allro nel si- stema dell'Apostolo e di sant' Agostino, nel quale la
natura umana tutta viziata, cujus vilii
auctor est diabolus (3). Nel sistema dell'Apostolo e di sant' Agostino si dice,
che vulnus quod peecatum rocatur , ipsam
vitam vulnerai , qua rf.c.te Vivebatur (4); ed era certamente colla buona
volont, che vivevasi rettamente pri- ma dell originale peccato; et lamen t'pse
languor quo bene vip indi virtus pe- ri it, per continuarmi colle parole
chiarissime di sant Agostino, non est utigiie na- tura, sed yiTiuM (5); laonde
non solo perita nella volont umana la
virt di operare soprannaturalmente il bene, al che si richiede la grazia ,
ma debilitata al- tres ( quantunque non
al tutto perita ) la virt in essa volont di operare il bene onesta naturalmente
; e nel catechismo imparammo esser noi lutti al male inclinati. Laonde il
signor Eusebio rinunzia veramente al catechismo, negando che noi siamo ni male
inclinati e per guasti nella volont ; e dee far si che anche il mondo vi ri-
nunzi prima di persuodersi della sua teologia; come pure sar uopo clic rinunzi
alle decisioni del sacrosanto Concilio di Trento, il quale cosi si esprime:
opirtere ut iirus- quisque agnoscal et Jaleatur; quod cum omnes homines in
pracvaricatione Adae c peccalo nella leggo, per la legge idratino
giudicati ( R >m. II ) : dove a
quelli clic erano senza c legge attribuisce la perdizione, e a quelli che
aveano la logge attribuisco il giudizio; dislm- C guendo cosi sottilmente fra
la dannazione e la imputazione , propriamente c strettamente della. Anzi, sebben gli uomini peccatori perivano
anche senza la legge, c* per avanti al a logge, lul- c tavia s. Paolo dice
espressamente clic aranti la legge il peccalo non ' imputava. c Fino alla leg-
c ge, cosi egli, vera nel mondo il peccato ; ma il peccalo non s 'imputava, non
essendoti U legge > C (Rom.). Non rera dunque imputazione secondo la maniera
di parlare dell'Apostolo ; ma v' area C tuttavia dannazione e perdizione ,
soggiungendo : c Ma regn la morte da Adamo fino a Mos anche in quelli che non peccarono alla
similitudine di Adamo i (Rom. V ). cio olla colpa c attuale e libera, come pecc
Adamo, Vi avea dunque peccalo abituale e originale , v* area C dannazione; non
per ancora in istrctio senso imputazione; la quale esige il libero arbitrio, C
che specialmente si sriiuppa colla cognizione della legge positiva. Tutti
adunque sono guasti C gli nomini nella volont. Non ci ha bisogno di
condannarli, basta lasciarli in preda al loro
(Usai. Ili) Troll, della Cote pag. 44> e seg. (1) Rom. II, 12. (2)
Adopera questo testo s. Paolo (Rom. IH) a dimostrare Puniversal corruzione
prodotta dall* originale peccalo. (3) S. Aug. Ve nupliit et concupite. L. Il,
c. IX e c. XXVIiI. Il d atolo non pu
sot- trarre la grazia di Dio agli uomini, j rocche della sua grazia disposare D.o solo; tua lidia* volo pu ben
viziar la natura che a lui si d in preda col peccato. (4) De nuptiit et
concupite. L 11, c. XXXIV. (5) Ivi. Digitized by Google 71 innocentiam
perdidixsent (i), fatti immondi ( e non solamente ignudi di grazia ), et, ut
Aposlolut inquii, natura filli trae,
usque adeo ss un f.rant peccati et sub potf.state dia boli ac mortis (
attendete bene, signor Eusebio, alla forza di tulle queste parole, che fanno
tutte per voi), ut non modo gentes per virn nata - rae, sed ne Judaei quidem
per ipsam eliam litleram letjii Moysi, inde liberati ' , aut sorgere possent ;
torneisi in eis libertini arbitrium minime exlinctum esse t , viribus licet
attenuato M, et inclinatosi ( 2 ). Dalle quali ultime parole non vi pare ora a
voi di rapire in che stia il guasto della volont prodotto in tutti noi dal-
loriginale peccalo ? Ma il signor Eusebio, stizzito tuttavia, che, dopo aver
citale quelle parole del- lApostolo, regnavit mors ab Adam usque ad Moysen , io
abbia nominata la parola dannazione, cosi continua mordendomi : Chi prende qui la voce morte per sinoni- la parola regn io carattere corsivo ; ma ci
non dee avere eccitata I attenzione d' Eusebio. ( 7 ) Ivi. Digitized by Google
72 E se non basta ancora, rechiamo un altro luogo del santo Dottore, dove ili
nuovo spie- ga l apostolico, testo : eccolo: Sed regnavi!, inquit, mors ab Adam usque ad Moy-
sen i : id est. a primo /tornine usque ad ipsain edam legem qitac divinitus
promulgala est, quia ncc ipsa potuit regnum mortis auferre. Uegxvm cnim morti S
riLT INTEL- ligi, quando ila dontinatur in hominibus rcaltts peccali, ut cos ad
vi t ani aclernam, quae vera vita est, venire non sinai, sed ad secondisi etiam
, qvae poenauter aeterna est, MORTESI trauat, e poco appresso: Ergo in
omnibus ( It. A ir. Vili, f. 33 ). Il
mio signor logico fuor di casa : it dire
che I uom va soggetto ad un male , non c un negarne la medicina. N ho io mai
dello che manchi ogni aiuto di grazia attuale ai non battezzati, come egli
sugna ed afferma. In qnat maniera poi la grazia del Signor nostro esiga la
coopcrazione negli adulti del loro libero arbitrio, ella una questione separala del lutto da quella di
cui si trattava , c intro- dotta da voi, voglio credere, non per malizia, ma
per quella lurbazioue , iu cui mostrate, per Vostro male, d'aver la mente. (S)
Cornai. D. Tk. in h. I. Digitized by CjOO^Ic 73 della Ipro interpretazione!
Dovea veramente esser riserbalo al nostro secolo il pr- durre uo ingegno s
sopraffino, clic contro di loro con illazione mirabile conclu- desse: Chi prende qui la voce morte per sinonimo di
dannazione e perdizione, d a sospettare
di volere mandar dannati tutti quelli che vissero nella legge uatu- rate. > Dunque voi, .santi Dottori miei,
siete lutti sospetti. Tremate, o sapientissi- mi miei maestri, sotto un
imputazion criminale cos assoluta che il signor Eusebio v' intimai Io per me,
omiciattolo come sono, intanto che con voi altri leroe combat- te, mi sto queto
queto nascosto sotto un gherone del vostro trionfai vestimento. L. 5." Ma
a nuove iancie pon mano Eusebio, dopo spezzate le prime, per con- figgermi
siccome eretico marcio eh io sono , perch con inaudita temerit e novit nella
Chiesa, dichiaro fin condannati i bambini non ancor rigenerati dal santo batte-
simo, e d una dannazione che viene lor sopra, se muoiono , siccome un mal
fisico inevitabile ! ' Quando la
dannazione sia come un mal fisico (
udiamo colla debita atten- zione il profondo suo ragionare ) che ti vien sopra inevitabile per conseguenza
della colpa del primo padre: e tu non la
puoi schifare, come non puoi schifare la morte c del corpo ; come si avverer
quel che dice Dio por Osea (111): Perduto tua Jsruel : lantummodo in me auxilium. tuum ? E nel di
del giudizio non potranno pi dire * tutti i riprovali : Hos insensati. Ergo
erravimus . invece di dire al Signore :
J it- ti stus es Domine , et reelwn judicium tuum ; dovran ripetere: .
Questa certamente una dannata bestemmia
; quella all 1 incontro un'opinione per-
messa : ani Agostino la tenne, l dove scrisse : Qui non in regno , procul dulo
tn iguem ae- ternum ( Sorrn. CCVCIV ). S. Fulgenzio del pari : Jgnibus arsuri
sunt sine baplismate nut- riente s pannili, qui nihil boni aut mali egerunt (
Ve ventate pr ardesti nat. L. I. c. XIV ). Il papa s. Gregorio M. pure dice ,
che perpetua quippe tot menta pcrcipiunt qui nihil ex propria voluntate
peccaveruni ( Moral. L. IX , c. XXI }. Il papa s. Strino del pari raccomanda
che si battezzino i bambini con ogni sollecitudine, ne exitns unusqutsque de sacculo et regnum
perdat et vitata ( Ep. 1 ad flimer., c. Il ). Giovanni Vili del pari loda quel
padre che battezz il bam- bino morieote, ne ammam perpeti/d morte peaecntem
dimitteret , ut eutn de polestate auctor
t mortis et tenebrarum eriperet { Dccr. Graliaoi, I*. II, caus. XXX, q. I, c.
vii. La Chiesa che ha dato ai parrochi il Catechismo Romano acciocch ammaestrassero
i popoli nella sana dottri- na, ha fallo scrivere io esso, che miri per
Baptismi gratiam Veo renascanlur , in sempiternam mtseriam et interitum a
parenlibus procreentur . Quam legem non
solum de iis qui adulta oetate sunt , sed etiam de pueris infanttbus
inlelhgenuam esse , idque ab apostolica traditione Ecc testami acce pii se ,
commoms patkom sententi* ir alctoaitas conpiemat ( De Bapl. Sacrarn. ). E la
ragione di ci, si quella addotta dal
Concilio di Trento , che : etsi ille ( Christus ) pr omnibus mortuus est, non o
ranci tamen ejus benej ium rccipiunt t sed ii dumtaxat quibus me- Kosbini Yol.
XII. 435 Digitized by Google 74 Questi sono appunto gli stessi argomenti, che
usarono lutti gli eretici, c tutti gli empi che presero ad impugnare il dogma
delloriginale peccalo: pretesero essi sem- pre di dimostrare che un lai dogma un assurdo, un ingiustizia , una crudelt da
parte di Dio. Non sono adunque io che ho qui lonore di essere assalito dui
signor Eusebio, ma la Chiesa stessa. A me soprabhasta di poter opporre alle mal
consigliale chiacchiere del nostro Eusebio la semplice fede del carbonaro, e di
dirgli : Io credo, perch mel dice la Chiesa, che in ogni bambino che nasce vi
abbia un vero peccalo, nna vera colpa, una vera pena: credo che esso bambino,
finch ri- generalo non , bench privo delluso del libero arbitrio, s' abbia pur
contro /rara et indignalioncm Dei , nltjiie ideo nuirtem, et cititi morie captivilatcm sub cjus po-
tcsiatc qui inorlis deinde habuit imperium , hoc est, diaboli (i). Dico anchio,
perdo- natemelo signor Eusebio, Si quis
inquinatum illuni (Adam) per inobedienliac pec- catimi, mortein et
pocnas corporis tantum in omnc genns humanum transfudissc, non aulem et
peccatimi, pi od mors EST Atti MAE', anathema sii (2); dico che se il bam- bino
muore prima di rinascere col santo battesimo, passando dalla morte alla vita,
strappato de potestate tenebrarum (3). egli si rimane in eterno morto nell
anima, e schiavo del peccalo c del demonio. Dico questo perch questo di fede (4); ma non dico di piu. LI. Alla
vostra domanda poi, signor Eusebio mio dolce :
Come questi dannati Ila morte eterna ed alla eterna schiavit del
demonio, colpa c pena che viene lor sopra senz attuale loro demerito, potranno
riconoscere la giustizia di Dio, e non do- vranno anzi dire: Dove Signore la vostra giustizia? rispondo: che questa che voi mi Fate, si uninutile, temeraria ed empia domanda;
rispondo che egli certo essere Iddio, quanto
verace in ci che ci rivela dA credere, altrettanto giusto in ci rrVum passionia
rjvs communicaltir ( Scss. VI, Dtcr. de jutlif. ). Or non eli* un temeri- t inconcepibile quella del
signor Eusebio elle mette insieme con Citrino quanti afTcrmann die n. Ab hac
igitur potestate tenebrarum , quorum est diabolus princeps, id est a potestate
diaboli et angelorvm tjuSy quis quia erui cum bai lizantur ne g aver il
parvvlos , ipsorum Feci e sia e sacramentorum ve- ntate convtncilur , quae
nulla ha eretica novilaa in Ecclesia Christi auferre v et mutare per -
snitiitur , regcntc atque adjurnnle capite tatuai corpus suum , fiustllga cum
magnis ( S. Aug. De nuptiis et concupite. L. I, c. XX ). Digitized by Google 75
che egli opera; rispondo ancora, non avere voi pnnlo inlesi i lesti che
prognate in- serendoli in quell indiscreta voslra dimanda, Perditio tua Israel
ecc., e No . t insen- sati ecc-, i quali testi agli adulti solo appartengono, e
non ai bambini; e finalmente rispondo, che se voi la ragion non trovale da
spiegare a voi stesso la condotta divi- na nella trasfusione dell'originale
peccato e delle conseguenti penalit, ci non dee far maraviglia alcuna, pprch voi
non mostrate poi d'essere, come snol dirsi, fin- ventor della polvere; e
quand'anco foste, adeguar non potreste mai I alterca dogiu- dizt divini, e vi
converrebbe credere ed adorar tuttavia, se pur vi piacesse salvarvi, senza
negare apertamente il dogma o con sottigliezze vanissime pervertirlo, quel vo-
stro capo abbassando, che va si curioso di pur sapere quel che non pu- Lll.
Smgolar cosa a vedere, come non avendo
io io alcun luogo spiegala la mia opinione in solla sorte de' bambini non
battezzati, nondimeno Eusebio Cristiano sia tutto fuoco contro di me,
immaginandosi i mei pensieri! Veramente che questi sieno contrari ai suoi, non
s ingannalo, dovendo io cosi da Ini
separarmi, .per rslar colla Chiesa. Ma odasi con elle buon -proposito venga
egli di nuovo a parlare di que- sta materia sua prediletta, a face. 35 del suo
tremendo libercolo. Dopo aver detto; Ma
in realt come nel corpo cosi nell'anima, ora nasciamo e stani tali, quali fia-
li Beeremmo c saremmo se fossimo stali da Dio creati nello slato di pura
natura. Questo si trac dalle
definizioni medesime della Chiesa ; egli
viene a recare iu mezzo queste definizioni, e tre ne riporta. S' ascoltino bene
, perch certo meritano grand'attenzione le decisioni di santa Chiesa. La prima
.consiste nella proposizione 55 condannala di Bnjo, Deus non poluisset ab indio
totem creare hominem , quali* mine nascitur a la seconda la decisione dot Fiorentino Concilio , ebe n
chi perde leterna felicit solo per lo
peccato originale, non patisce le pene medesime di chi va dannato por proprio personale demerito:
puenis tamen imparibus cruciandos ; c la terza finalmente si la dottrina condannala del Sinodo ili
Pistoja, che vitupera- va come una fola de Pelagiani il limbo de' pargoli. Non
si sa veramente , come da queste tre definizioni della Chiesa il teologo nostro
intenda dedurre, che noi dunque nasciamo colla natura umana perfetta, c solo
Senza la grazia santificante. Ma fallo sla, ch'egli tosto cosi conchiude: Dalle quali cose tutte ben pesate appare che
noi non siamo stati ingiustamente puniti per colpa non propria (i); per la qual colpa non propria , egli non
pu intendere qui altro che l'originale peccato, che lut- to, secondo lui. al
primo padre riportasi, c di cui solo parlano le definizioni del Fio- rentino
Concilio, e della Bolla /tue torcia Jidei da lui arrenate ; e la dice non
propria, come prima avea detto che non
nostra , senza punto temere gli anatemi dei Triden- tino Concilio che
dichiara espressamente il contrario, cio loriginale peccalo inesse unicuitpie
propriusi La sua conclusione dunque
riducesi a questo entimema: Tesser puniti per colpa non propria ingiustizia : dunque quelli che muoiono colla
colpa originale senznitro peccato attuale, non essendo quella colpa lor propria
( secondo lerronea supposizione di Eusebio ), non debbono essere puniti :
dunque quelli che muoiono senza il battesimo non hanno alcuna punizione. Egli
vuol dimostrare che non hanno punizione i bambini morti senza il battesi- mo,
(raendulo dalla supposizione falsa ed eretica che non abbiano colpa propria !
Ma qual circolo poi questo suo? Perch
vuol egli dimostrare che non hanno punizione quebambini?Per ritrarne che in realt come nel corpo cosi nell'anima, ora
nascia- i mo siam (ali, quali nascerenuno e saremmo se fossimo stati da Dio
creati nello ' stalo di pura natura , il
che quanto d : re, t senza colpa propria , e colla sola imputazione della colpa del
primo padre, perocch il peccato
originale, se si con- sideri solo nell
uomo che ne partecipa, non ammette in s
neppure la nozione * di peccato (a). Or
chi non vede qui il circolo in cui naggira? A d'iuostrnrc che (1) R. Air. Vili,
f. 33. (2) R. AIT. I, f. io. Digitized by Google 76 1" noni che nasce non
ha colpa pi opra, prova che egli non ha punizione nell'altra vita: e a
dimostrare poi che non ha punizione nell'altra vita, prova che non ha col- pa
propria, perocch, argomenta, il peccato originale consideralo solo nell'uomo
che ne partecipa non animelle la nozione
di peccato, i Loica maravigliosa! e che sanit di dottrina! che evidenza della cattolica ve- ri , secondo t
il parere de' pi celebri dottori! Pure a
me, caro Eusebio, lasciando a voi lutti i sottili ragionamenti, cooviendi nuovo
dichiararvi che eleggo di sentir colla Chiesa. Questa, d'infallibile autorit
dotata, mi dice die il peccato d'origine
proprio di ciascheduno che nasce, ed io il credo. Quanto poi alla pena
di tal peccato nellaltra vita, attenuatela quanto volete, non vi contrasto: ma
quando pur mi diciate che quel peccato non porla punizione di sorte alcuna, se
non di nome, allora non posso pi tenermi dal dirvi : havvi qui errore, fiatcl
mio, havvi eresia manifesta. E non ho bisogno, a provacelo, che delle aatorit
che voi stesso mi date in mano. Bella a dir vero si quella del Fiorentino Concilio, portata da
voi, come sem- bra, a provare che i bambini non abbiano punizione, n insita
colpa! Ise parole di quel Concilio, che voi non osaste addurre tutte intere,
sono pur queste : lllorum au- tem animai, quac in n duali mortali peccato, vcl
solo ORgtnalt decedunt, mox in infermali dcsccndere, pocnii tamen disparibus
puniendas. Basta udirle, e la questio- ne
decisa : parlano pur d' inferno, parlano di cruciali anche per quelli
che il solo originai peccato hanno in sull' anima ; sebbene di cruciati minori
(cura ben giusto) rhe non per gli altri
; dunque ciascuno che muore non rigenerato dall' acque battesi- mali, porta in
s stesso e una colpa, e una pena eterna. Dunque ha peccato proprio il bambino,
dico io, come dice il Concilio di Trento, eziandio che non abbia ancor libert;
perocch la libert dell nomo che ha in s il peccalo, non necessaria a co- stituire il suo peccato,
come dissi nel Trattato delta Coscienza con tanto vostro ram- marico, ma necessario un libero suo astore a renderlo
imputabile, cio a far si che acquisti la nozione di colpa. LUI. L' altra
autorit che arrecate la condannata
dottrina del Sinodo di Pi- stoia, il qual rigettava siccome min favola
pelagiana il Limbo de pargoli ; e anche questa dehnizione della Chiesa, avendo
voi avuto giustamente paura di- recarcela in- tera, vi siete fatto lecito d
addurla mezza, lasciando fuori, gi s' intende, quelle pa- role, che del tutto
prostrano il vostro errore. La qual definizione della sapientissima Bulla
Auclarem Jidei , restituita alla sua integrit,
per avventura cutesln : zzivi. Doclrina, quac r eliti fabulam Pclagianam
explodil locum illuni infero- rum ( quem Limbi pucrorum nomine Falde* passim
designant ), in quo animae dc- rcdcntium nini sola originali culpa pocna damai
dira pocnain ignis punianlur ; Perinde
ac si hoc ipso quod qui poenam ignis removeot, imlucerent locum If.LUM, ET STATUII MEDIUM EXPERTEM CULPAE ET
POESE 1STKH REGNU DeI, ET S D.iM.NATIuNEM AETERNA V, QUALE KAUULASTBR
PkLAGIANI (l), Falsa , temeraria, in
scholas calholicas injuriosa. (I) Tulle queste parole in carattere rotondo, che
dichiarano tolto quale aspetto venne con- dannata la dottrina del Conciliabolo
listojrso, vennero del tultn ammesse dal signor Kutebio; te per incolpevole
distrazione o per mola fede, pensi ehi tocca. Certo per altro, clic di tutte le propoaixiooi
condannale ch'egli adduce in copia nel suo libello, non si mostr mai sollecito
di ricercare il vero senso nel quale dalla Chiesa vennero condonnale,
prendendole materialmente, o interpretandole a fantasia: bench il cercarlo sia
estremamente necessario, massime trattandosi delle proposizioni di Bajo, di cui
disse la Bolla stessa elle le condann, guamvis nonnulla! ali - */uo paolo
mtineri posimi-, e le sruole cattoliche disputino fra di loro del lenso in cui talune
di esse fu condannala. Cosi sogliono fare tulli quelli che Tua de parlili e non
cercano la verit. Digitized by Google 77 Avole ora inteso in che consiste la
favola pelagiana? Non neHammeltere il Lim- bo de' pargoli ; ma si bene neH'amniellere on luogo e stalo medio privo
di colpa e di pena, fra il regno
de'cieli e la dannazione eterna. Che
dite di questa parola dannazione eterna, che vi fa tanto paura, applicala ai
bambini, e per la quale, es sondo stata da me applicata a quelli che muoiono
col solo peccato originale sull'ani- ma, mi volete scomunicato? E ondale
gridando come un forsennato: Dov' qui
la dannazione, la perdizione, la
riprovazione di che parla nel suo commento il signor Rosmini? >
C benissimo, io vi rispondo, fratei mio; come c nella Rolla Auctorem
/idei, a cui voi appellale per provare che l'applicarla a coloro che non peccarono
mai con colpa attuale e libera, un
grosso errore! Voi siete dunque di quelli che volete accettare la Bolla
Auctorem Jitlei negli utili, come dicono i legali, non accettandola poi ne'
disutili: volete accettarla quando dichiara che il Limbo de' pargoli non una favola pelagiana ; ma non parlale pui
dammetterla, quando del pari dichiara che
una verissima favola pelagiana
lani- mettere nn luogo e stato di
mezzo, privo di colpa e di pena, fra il regno de cieli e la dannazione eterna. I! voler dunque, come voi fate, che quelli
cl;e muoiono co! solo peccalo d'origine in sull'anima senz altra colpa attuale
e libera, non vadano in eterna dannazione,
bella e buona favola pelagiana , condannata dalla Rolla Auctorem /idei,
che per vostro male allegate: e per, secondo quella Bolla, voi pu- tite di
Pelagianismo. Egli pur singoiar cosa a
vedere, come sempre quelli che ebbero dannoti er- rori a sostener nella Chiesa,
.simularono d'essere zelantissimi della cattolica. verit, e invocarono a lor
favore le decisioni della Chiesa medesima, come voi fate, signor Eu- sebio,
sopprimendone cio ano parte, unaltra contraffacendone, o astutamente inter-
pretandone. Sempre quelli sfacciali apposero la taccia d'eretici ad altri,
massime a quanti contro a' loro coperti e' subdoli errori difesero il dogma
cattolico; e cosi i santi Ambrogio ed Agostino furono dalleretico Cioviniano, e
da Pelagiani e Celestini per eretici accusati. Perch voi dunque, Eusebio,
imitate costoro? h date a me la glo- ria, bench non la meriti, di sostenere con
que'gran luminari del cattolico mondo la stessa calunnia, e di poter dire
anch'io ci che risponde il Dottor della grazia , tac- ciato d' eretico al pari
di sant Ambrogio, fios cum ilio homine Dei ( Ambrosio ) pa- licntcr ve Ara male
dieta et com'icia sustinemus (l). E dunque deciso, per tornare a noi, dalla
Bolla Aucloremjdei che non un errore
quant' io dissi nel Trattato della Coscienza si calunniato , che il solo
peccato originale senz altra colpa attuale c libera irne dietro a s dannazione,
perdizione, ri- provazione, et qitidcm aeternam, come aggiunge la stessa Bolla
: deciso che anzi nn error il negarlo, come voi fat : ell'
appunto l'antica favoliT.de Pelagiani i quali anticamente dicevano darsi nn luogo e stalo di mezzo tra il regno di Dio
e la dan- nazione eterna, luogo e stato
privo di colpa e di pena ; in onta alle stesse parole di Cristo, che dichiar,
senza mezzo alcuno, qvi non est mecvi . contea me est. Non temete voi dunque
ancora, mio caro Eusebio, che il pubblico, schietto, comesser suole, v intimi
forse qoel detto stesso di sautAgnstino a Giuliano : frustra Jngis inipctus
fulminanti s, cum spircs fumuni potius fulminali. (2). (1) De nuptiit et
concupite. V. II, c. V. Ved. . Ambros. Ep. LXXXI. ad Siricium. Ogni eretico imput sempre ai cattolici ali
errori contrari a quelli ch'egli professa. Cosi so Gioviuiano diceva
ssnl'AgO'lino essere Manicheo, gli Ariani lo accusavano di essere Sabelliano. Vcd. s. Aug. De nuptiit et concupite. L. II, c. XXtlt ,*
et Operit itnp. contro Jui. L. V, cap. XV.
E chi sa che quando Eusebio mi nomina coli* aria delta derisione 1 il
tloveretano 1 ( K. AtT. X, f- 41), non si creda egli di fare una qualche altra
felice imitazione di qoel Giti* liano, che chiamava santAgostino per contumelia
pocnus diiputalor (Ved. aanl'Agost, Cantra Jul Pelatj. L. Ili, n. 32). (2)
Operi 1 imperfecti contro Jul. L. IV, c. CXVIII. Digitized by Google 78 Troppo
celebri sono le fallacie che us Pelagio per ingannare l' apostolica Se- de, e
troppo lastuzia onde al papa Innocenzo scrivea in quella lettera che fu poi
consegnata, lui mono, ni suo successore Zosimo, se ab hominibus infamasi, quod
neget parculis baphsmi Sacramenlum, et absque redemptione C liristi alitpiibus
eoe - lorum rcgnuin pronai tal. Perocch Pelagio n negava a bambini il
sacramentale lava- cro, come voi pur noi negate, n apriva a chicchessia le
porle del cielo senza la re- denzione di Cristo, come voi pur non le aprile
(l): ma qual era adunque lerrore che si opponeva a Pelagio? Quello, fra gli
altri, che si pu anche apporre a voi, stando alle parole ed ai sensi del vostro
fibello: Objicitur autein illis ( Pelagianis ),
santo Agostino che il dice, quod non baptizatos parvulos NOLVNT damnatio
ni primi homi ,\/s ornoxios confi turi (2). Tale appunto n pi ne meno il vostro er- rore,
signor Eusebio, quando fate a me tanta guerra, per aver io colla Chiesa catto-
lica confessalo, non baptizatos parvulos vamnationi primi'hominis obnoxios. LI
V- Ed anche in tutte f altre maniere vostre d esprmervi, voi stale pure ai
Pelagiani molto dappresso, stiracchiando le espressioni dalla Chiesa osale, e
in tutta lecclesiastica tradizione, a significar tutt' altro da quel che
suonano. Se incontrando voi per via un uomo spogliato da ladri delle sue
vestimento, gli diceste, c Voi siete macchiato
; ed egli vi rispondesse: lo non
ho macchia alcuna ; voi poi gli replicaste :
E vero, ma io considero come uun macchia la vo- sira nudit > ; probabilmente vi volterebbe
le spalle il tapino, dicendovi : Siete
un pazzo. R la Chiesa disse sempre
essere loriginale peccato una macchia ; or voi rispondete : No, egli una semplice nudit della grazia santificante,
ma la si con- sidera come macchia, perch essere non ci dovrebbe. Con una tale
stiracchiatura non intese certamente lAngelico la macchia del peccalo, il quale
cosi sapientemente la spiega : Habcl antan anima hominis duplicati nilorcm :
unum quidem ex reful- genlia LUM1NIS NATVRALls rationis , per qnam dirigitur in
suis aclibus; alium vero ex rcjidgcntia divini luininis . Linde ipsum detrimentum niloris macula ani-
wae mciaphoricc vocatur ( 3 ) : con che dimostra lAngelico, che per macchia non
si pu intendere solamente la mera privazione del lume di grazia, ma ancora la
dimi- nuzione del nitore veniente dal lume naturai di ragione, il qual pure resta
dal pec- cato diminuito. Se diceste a quello slessuomo: t voi siete ferito ; egli direbbevi : M hanno i ladri nudalo, si, ma non ferito:
son tutto sano ; e voi replicaste; cat- tiva alla volont, possa farle
prendere no atteggiamento propenso o
ritroso al be- ne ed a Dio (2) : Natura,
dice sapientemente I' Angelico, etti sii prior quatti voluti- tarla aclio,
tamen BABET INCLINATIONKM Al) QUA N DA il VOLO NT ARI AH ACT/O- neh : unde ipsu
natura scctindum se non variatile propter variationem voluntariac aetionis :
sed ipsa inoli natio e a ria tur ex illa parte qvAe ordinatvr ad del 11 (3) ; e
tosto appresso spiega la mala piega della volont da questo, che ap- petitus
SEnsitifus inclinat rationem et y olu ntatem (4). l-aonde se l'ap- petito
sensitivo fosse nella sua integrit e perfezione, come sarebbe nell uomo creato
da Dio nello stato di sana natura -, egli non potrebbe inclinare al male la
volont ; ma dalla volont retta essere prevenato ed inclinato. Egli dunque provalo che secondo I' Angelico non fu
l'uom solamente pel peccalo adamitico spogliato de' doni sopran- naturali, ma
olTeso altres nella sua stessa natura, ci che la ragione stessa conosce dover
essere conseguente al peccato, d accordo coll esperienza, elle conferma nascer
]' uomo con una volont debole, guasta, ed al male inclinata. LVIf. E qui
veggasi nuovamente come il nostro Eusebio, senza saperlo, vada tuttavia
ricopiando gli artifizi di Pelagio nelle forme del suo parlare. Afiin di velare
sotto oneste parole, la schifezza della sua sentenza che vuol 1' umana natura
non pun- to viziata, si guarda bene di non nominare il disordine della
concupiscenza; ma Id- c dio, die egli,
avrebbe potuto creare l'uomo in quello stalo medesimo in che ora na- ( sce, privo
cio di grazia santificante e colle naturali tendenze che ha di preseti- * te in
s stesso (5). Dice ancora che 1 naturali difetti dell anima e del cor- c po
nostro, che nello stalo di pura natura si sarebbero dovuti mirare come
natura- ut condizioni nostre
semplicemente, ora che decademmo si mirano coin un gua- sto
(6) Ora io potrei dire al signor Eusebio, altrettanto quanto sant
Agostino al- leretico che confutava, perch nominale naturali tendenze, naturali
difetti, naturali condizioni, e non nominate libidine, concupiscenza della
carne, ed altre tali parole che propriamente significano la piaga prodotta dal
peccato nell' umana natura? Questo in fatti faceva Pelagio, evitando con somma
cura tali parole quando volea provare che f umana natura non era infetta, ma
tutta intera opera sol di Dio ; nominava i cor- pi, i tessi, le unioni, cose
buone perch naturali, ma non nominava il disordine che in tali cose si mescola,
cosa cattiva e contro natura : Sed inter tot nomina bonarum rcrum , id est
corporum , sexuum ; conjunctionum, libidinem vel concupisccnliam car- nis iste
( Peiagius ) non nominai. Tacci , quia pudet : et mira ( si dici potest J pu-
doris impudenza, qvod nominare pudet, laudare non pudet (7). L veramente (1) I.
Il, LXXXV, 1. (2) Trattale Arila Coscienza, f. 38, nota. 0) I. Il, LXXXV, 1, ad
2. f4; Ivi, ad 3. (5) R. AIT. Viti, f. 34-
Lt proposizioni- 58 di Bajo Deus non poteisset ah inilio tale m creare
hominem tjuatis nunc nateli ur. anello
da me romlannala come la condanna la Chiesa ; e ben pretto vedremo in qual
tento ella tia siala proscritta. (fi) Ivi, nella noia. (7) S. Aug, De nuptns et
concupite., L. II, c, VII. Digitized
by Googh 81 il Tnr passare la concupiscenza della carne e la libidine gotto il
bel nome di naturali tcmlenze , come fanno Eusebio e Pelagio, e il pretendere
che quelle cose sozze si troverebber nell uomo creato da Dio colla sua sola
natura, il chiamarle iu tale stato
naturali condizioni nostre (l),
egli manifestamente un lodarle, un
dichiararle in s buone, come buone sono tutte I' opere di Dio stesso ; quindi
medesimo un in- giuriare altamente questo Dio santo, autore rendendolo di
quelle cose, quac pudent ( 2 ). Laonde sant Agostino, continuando a smascherare
l'astuzia di quelleretico, dopo aver recalo un passo di lui dove coonestava
colle parole di naturali tendenze tutto ci che accade nellunione maritale,
soggiunge : Ecce iterum diccrc noluit, carnis concupisccntia cognovit uxorein,
sed naturali, inquii, appetitu : ubi adhtic possumus intclligere ipsam
toluntatem justam et lioncstam, qua toluit filos pro- creare, non Ulani
libidinem, de qua iste (parla forse di Eusebio Cristiano?) sic cru- bescit, ut
ambigue nobis loqui matit, quam perspicue quod sentii cxprimcre (3). Pe- rocch
tutto l'artificio -di Pelagio consisteva nel far passare ogni cosa che presen- temente neH'aomo, per una naturale
tendenza, e quindi per cosa buona; e lutto lo studio di sant Agostino per
lopposto vdlgevasi a costringerlo a riconoscere che nella presente natura umaoa
v ha qualche cusa di naturale e qualche cosa di vizialo; e gli adduceva in
prova il santo Dottore ci in cui il vizio si mostra pi patente, e che leretico
stesso negar non poteva che fosse vizio, senza doverne cosi facendo arrossire,
ed era che motus eorum ( qenilalium membrorum ) non est in homin palesiate (4).
Laon- de, per non venire a questo punto, Pelagio non nominava mai tali coso se
non in sulle generali, chiamandole naturali tendenze , naturali condizioni e
simili, come appunto vien facendo pudicamente il nostro Eusebio. Onde anchio
posso lodare la modestia del suo parlare, come santAgostino la loda in Pelagio,
e dire di lui altres ; Ita q tappe iste (Eusebius) sibi circumlocutionis hujtis
obstacula, sicut illi ( Adam et va ) succinctoria consueruni (5)1 Lasciando
dnnque le sottigliezze d'Eusebio, noi professiamo di crdere con tutta
lecclesiastica tradizione sulle Scritture stesse fondata, che lumana natura fu
in con- seguenza del peccalo originale non pure de doni superni spogliata, ma
vulnerala al- tres e viziala in s stessa; e in questo senso intender devesi,
pare a noi, il canone del Tridentino, che dice che se alcuno non confessa tolto
Adamo per illam praeca- ricationis ojjensam seccndum corpus et animasi in
deterius commutatum tuisse : ana iberna sii (6). (1) R. Air. Vili, f. 37. (2)
Avendo Pelagio recato il testo del Genesi, et erunt duo in carne una gli sfuggi
dalla peana che il prof.-ta ; Mose) arca scritto ci senza pericolo d* offendere
il pudore. Oode sant A- gostino il c> ( R. AfT. IV, f. 20 ). Egli parla del
male che volontariamente facciamo , ma sc- ia ragiono buona per un tal mate , eUa buona egualmente per quella che noi
ereditiamo. Tanto pi che egli dichiara con assoluta sentenza, che ripugna agli
attributi divini che I nomo aia condannata senz attuai suo demerito. Le sue
parole sono assolute. 1 Si oppone troppo alla c giustizia e alla bont infinita
di Dio, ed alle sue divino dichiarazioni ( Futi orane# luimiaes c salvo*
fieri), il concetto di no Dio, che come per un colai male fisico inevitabile
mandi lao- I ma alla dannazione, stara avvero sco nwtairo s ( R. Alf. Vili, f,
SA I. Queste parole nel senso in cui it signor Eusebio le dice, cio parlandosi
delta dannazione conseguente ai peccato d'origine, contengono, per quanta a me
paro, una formate eresia; essendo ni reni, cho al pec- cata originala anche
solo (senza attuai demerito \ segue la dannazione in quelli che muoiono non
rigenerati, e che questa dannazione viene lor sopra come un mal fisico
inevitabile, e che perci non ripugna niente tutto ci alta giustizia cd alla
boot di Dio 1 . Tutto fin qui di fede:
ie opinioni teologiche cominciano l dove si tratta di stabilire quali sieno le
peno annesse atta dannazione de* morti col salo peccato originale sullanima.
(3) De nuptiis et concupito. L. I, c. XVIII. (+) Contro Julianum Pelag. L. VI,
c. VII. (5) Corpus tnim quod corrwnpiftir, sono parole delta Scrittura,
aggravai animam et terrena inhabiuitio deprimi! scnsum multa cogilantem (Sp.
Vili, 15). (6) Ad P. IV. Pocnitcnlial. Digitized by Google 83 ma a Padri e da
tulli gli scolastici ripetuta. Vero , che a primo aspetto riesce dif- ficile
assai lo spiegare come il vizio del seme, non essendo peccalo, diventi poi
(lec- cato nell' anima. Ma questo per
spiegabile, in sulle vesligie de Padri e de'leolqgi, conciossiach
non punto assurdo il pensare che possa
il corpo viziato dare allani- ma una mala pendenza (i). Tutta adunque
l'ecclesiastica tradizione ricorse al vizio del seme ed al disordine della
concupiscenza che rimane tuttavia ne rigenerali dopo il battesimo, per
ispiegare come anche questi comunichino ai loro figliuoli I origi- nale
infezione. Ma non pu pi darsi aPclagiani una tale risposta nel sistema eU et,
ut homines ab uno originer traherent, decretiti, fltorum corpus futurum simile
corpori patri* , oc e astieni plus mima impressione* habiturum ; animam autem
corpori unilam, quibusdatn inclina- t toni bus futuram esse obnoxiam , quo tiescumque
ejus corpus quasdam suscepissel impressione s, dummodo tamen exterior causa
illas non immutarsi. Sis Adamus rum peccato suo harmoniam corporis immotasse t,
atque perlurbavisset , leges ideirco ante peecatum constitutas permutare Deus
opportunum minime judicavit : quibus le gibus existentibus y Adamus necessario
jilios suo* torpori* viliati participes fecit , et animae bisce corporibus
conjunctae costiera depravata contro- xervnt inclinati ones. Uinefit , ut
animae Jiliorum, antequam in vii am ingrediunlur,habitu in res creata s
propensae evadant , easque ameni eodem fere modo , quo homines s osculi etiam
cuti j somnum copioni , diligunt mundum (Prosp. ah Aquila, V. Peecatum
originale, IV). (2) Sess. V. Decr. de peccai, orig. (3) Se si considera il solo
scuso, egli pure inclina al suo bene; te poi si considera il senso 84 dice s.
Giovanni (i), inclina, secondo il Concilio di Trento, al peccato, ad peccatum
inclinai. Tema dunque il signor Eusebio la conclusione che pone il Concilio di
Trento alla esposta dottrina: Si jais autem contrarium semerii, anal/iema sii/
LIX. E temendola, converr forse meco, che l'umana natura non virala dal- 1 originale peccalo, ma solo nudala de gratuiti divini favori (2), non
per av- ventura credenza di tutti
i cattolici 3 ( 3 ), come imperterritamente asseriva , dichia- rando gi
traviati ( 4 ) e recisi dalla sua comunione quelli che il contrario tenessero ;
ami penso io, che i cattolici tutti deploreranno piuttosto in lui un errore,
che tanto diminuisce il pregio della redenzione, e l' efficacia del santo
battesimo. Imperocch se noi abbiam ora una natura in s stessa perfetta, e solo
priva del soprannatural vesti- mento, ci
stala dunque utile la morte di Cristo, ma non necessaria. E se colui che
viene rigenerato coll ncque del santo battesimo, altro non riceve da queste che
i doni soprannaturali e la conseguente soprannatural beatitudine; dunque il
battesimo viene conferito bens por utilit, ma non per necessiti Cristo adunque
non pi uri medico di cui sabbia -l
inferma natura umana bisogno per risanarsi , ma
solo un Signor liberale che regala ornamenti alla nostra natura gi sana.
Non la sentono certamente cosi, n mai la sentirono i veri cattolici, i (inali,
grati al loro Redentore c Salvatore e al medico delle profonde mortali lor
piaghe, sanno e confessano Don poter avere in modo alcuno, senza di lui, n
sanit n vita, o siano adulti o sian anco bambini. S'o- dano i sentimenti de'
cattolici esposti da sant'Agoslino, e si confrontino ad essi quelli d Eusebio :
Catholici dicunl humanam naturam a creatore Deo dono conditam bonam , sed
peccato cilialam medico Cbrislo indigere.
Pelagani et Coeleslia- ni dicunl humanam naturam a bono Deo conditam
bonam , sed ita esse in ria - scentibus parculis sax am, ut C/iristi non
habeant necessariam in illa aerate ie- dicikam ( 5 ). Eusebio Cristiano dice,
che in realt, come nel corpo, cosi uell
ad- ma ora nasciamo e siam tali, quali
nasceremmo e saremmo se fossimo stati da Dio
creali nello stato di pura natura >, cio in quello stalo, comegli
spiega , nel quale ci poteva ben creare Iddio ( 6 ): di che avviene che niente
manchi a questa natura , ch'ella debita aspettarsi dalla morte di Cristo, se
non solo di essere innalzata da una condizion buona, ma naturale, ad una condiz
: one migliore e soprannaturale. E vera- mente egli pare che Eusebio, il
che al suo principio pur conseguente,
non solo as- solva i bambini, morti prima dessere rigenerati, da qualsivoglia
pena, ma loro con- ceda di pi una naturale felicit ; giacch egli dice, che 1 il
non andar dopo morte * a godere dell eterni soprannaturale felicit , se si
muoia senza essere rigenc- Galal. Il,
21. (3j non dissimulanter sed
apertissime guanti* palesi disputando viribus agii ( Pela- gius), ut u Mura
/umana in pattuii* nullo modo ex propagine mura crzdatcr cui arro- gando
satulem . invidet eihatobe*. ( ih pece. aria, conica Pelag. et Coeiest. c. XXI.
) (4) De pece. orig. c. XXIH, (5) Operi* t rnperf. centra Julian. L. IV, c.
LXXII. (6) Chi Tuoi f ar uso con efficacia di tali proposizioni condannate ,
dee prima istruirsi del la maniera , onde te intendono c spiegano le varie
scuole cattoliche , e qualora vi abbia fra queste diversit d opinioni , senza
che sia intervenuta I autorit della Chiesa a deciderle , per quel rispetto che
li dee appunto atte cattoliche scuole, e che la santa Sede impose sempre agli
scrittori, guarentendo a tutti selle cose dubbie la libert dopinare, non
conviene menar colpi all impazzata, n pretendere di condannare e anatematizzare
a proprio capriccio. Se io dovessi imporre alla temerit del signor Eusebio una
penitenza ( perdonatemi anche questa ) , io vorrei mandarlo a leggere tutto
intero il dottissimo Cardinal Norisio , il Belletti , il Berti ed altri tali
autori i pi opposti alla sua scuola, acciocch costretto egli a considerare le
cose setto tutti i lati e gli aspetti , venisse formandosi no po di quel
giudizio e di quella discrezione , che ora tanto gli manca. Rosmini Voi. XII.
437 gitized by Googl 90 grazia santificante, non passa pi diilerenza alcuna: sono tolti e due, come dice, ignudi
egualmente (i), la differenza non
trovandosi nelluomo stesso, ma nella cau- sa ; giacch nello stato di pura
natura sarebbe stata la volont spontanea di Dio crean- te che avrebbe fatto
luomo cos; e nello stato presente il peccato d'Adamo avreb- be data a Dio
loccasione di cos farlo. Bench nel sistema d Eusebio Dio stesso auche di presente, che, in pena
del peccato di Adamo (scontato per mediante la pe- nitenza ( 2 ) ), sottrae la
grazia santificante a suoi figliuoli , e cagiona in essi quella privazione in
che Eusebio mette lessenza del peccato, non essendovi altro peccalo, che la
grazia impedisca. Laonde in realt , ripeteremo anoora le precise parole d
Eusebio, f come ne! corpo cosi nell anima, ora nasciamo e siara tali, quali
nasce- remmo e saremmo se fossimo stali
da Dio creati nello stato di pura natura t (3). Egli pare a me, che essendo
questo del signor Eusebio un tirare conseguenze alla scapestrata; non faccia
poi bisogno duna grande scienza teologica per poterlo assicurare, seDza temere
d'incorrere nella sentenza pronunciata giustamente contro Bajo e contro
Giansenio, delle seguenti cattoliche verit : a ) L'anima dell'uomo che viene al
mondo e che non rigenerato nel 9anto
bat- tesimo, ha in s il peccato originale che inest unicit/ue proprium ( 4
). Perci la Chiesa col condannare la 55
proposizione di Bujo non ha certamente inteso di deci- dere n che questo
peccato pi non esista, ne che esso consista solo nella mancanza della grazia
santificante, n che Iddio potesse creare an uomo con un anima a cui fosse
aderente il peccato , come le di
presente : 6 ) Lanima a cui aderisce il peccato originale morta di morte eterna, e non pu essere
richiamala alla vita per nessuna opera sua buona, ma solo pel santo bat-
tesimo, o pel desiderio di esso, secondo il canone del sacro Concilio di
Trento: Si quii dixerit, sacramenta ttovae letjis non esse AD saluteai
necessaria, sed su- perflua ; et sine eis, aul eorum voto, per solata Jidem
homines a Deo graliam itati- ficationis ad/pisci; licei omnia singulis
necessaria non sinl: anatherna sii ( 5 ).
Perci la Chiesa col condannare la 55 proposizione di Bajo non ha
certamente inteso di decidere che Iddio potesse creare un uomo collanima morta
qual di presente egli nasce (6) ; (I) R. Aff. Viti. r. 34. (2; Si osservi come
serpeggi lerrore in lutto il libello ti* Eusebio ; a eoi debbo a mio mal gra-
do rispondere. Egli sostiene, die avendo Adamo fatto penitenza, non possa
essere oggimai pi aggravato dette conseguenze del seo peccato. Parlavasi ( R.
Aff. Viti, f. 20 ) dille conseguenze necessarie del peccalo originate, come
sono i primi moti, che si possono dire, in nn senso , peccati volontari ma non
liberi, e si riducono al peccato dorigine, come vedremo, col quale in- sieme,
cessano ne battessati , sicch il discorso d Eusebio ha unegnal forza anche pel
peccato originale. Ora vuol forse diro che la semplice penitenza dAdamo labbia
potuto riconciliare con Dio senza i meriti del Salvatore? Cosi parrebbe ;
perocch altramente niente varrebbe la aua argomentazione. Perocch s egli pur vero, com di fede, che qualunque
penitenza fatta da Adamo niente potea valere da s sola a giustificarlo appo
Dio, ma tulio il merito di quella pe- nitenza dovea rcnire da meriti del futuro
suu Redentore; dunque la penitenza di Adamo non poteva impedire la passione e
la morte di Cristo, che b una pana e conseguenza del suo pec- cato; non potea n
pure impedire le altre pene ebe derivarsi doveano ne discendenti, fra le quali
il peccato dorigine e le conseguenze di questo: dunque Adamo ni poteva
giustificar s stesso, n essere giustificaio e purgalo dalle conseguenze della
sua colpa, se non oon quell'ordine, che prima quelle conseguenze (la
trasmissione del peccato e delle pene) realmente si avverassero e gli fossero
altres realmente imputate, e poi fossero rimesse a lui pur la morte di Cristo
appli- catagli col gratuito dono della grazia, cooperante il suo libero
arbitrio e producente cosi le opere della penitenza, come vengono rimessi il
peccato originate e gli attuali ai singoli suoi figliuoli, a cui si applichi il
inerito della passione di Ges Cristo. (3) R. Aff. Vili, f. 33. (4) Conc. Trid., Sess. V. De
pece. orig. (5) Sess. VII. De Sacrata, m gen., can.
IV. (6) Lanima dell'uomo creato in istato di pura natura, bench priva della
grazia santificante, non si potrebbe mai dire morta, perch la morte
dell'anima una conseguenza del peccalo,
qaod more eet animar. (Conc. Trid. sess. V. Dtcr, de pece, orig.) 91 c ) Lanima
a coi aderisce il peccalo oggetlo dell
ira di Dio, in quel senso nel quale le Scritture attribuiscono a Dio l ira, che
esprime la vendetta della enon piu
(3). Perci la Chiesa col condannare la
55 proposizione di Bajo non intese certamente di ordinare che le parole
dell'Apostolo, eramus natur filli irae, si debbano inten- dere, come le spiega
il signor Eusebio, contro l'universale consenso; n che Iddio po- tesse creare
degli uomini che uscissero dalle sue mani c per natura figliuoli dellira come nascono di presente : d) Luomo
peccatore, in istalo di morte e dira di Dio, come viene ora al mon- do, in potest delle tenebre, e dal demonio
posseduto, onde la Chiesa co'suoi esor- cismi lo scaccia in virt di Cristo da
quelli a cui conferisce il battesimo.
Perci essa Chiesa col proscrivere la 55 proposizione di Bajo non ha
certo volnto dichiarare che 1 uomo non viene pi al mondo soggetto al poter del
demonio, n che Iddio po- tesse creare nn nomo sotto la potest e in balia dell
angelo ribelle: e ) L nomo ora nasce condannato, nam judicium ex uno in
conderrmationem, dice s. Paolo (4): non viene al mondo scritto nel libro della
vita, e, se egli non rigeneralo, deve
soggiacere alla pena, Qui non inventile est in libro vitae scriptus, missus est
in stagnum ignis (5). Perci la Chiesa
col proscrivere la 55 proposi- zione di Bajo non ba certo voluto dichiarare,
che l'uomo che entra nel mondo non sia condannato, o che Iddio possa creare un
uomo gi condannato : J) li uomo ora nasce colla concupiscenza : la quale
non il solo istinto ani- t male
vizialo; ma qnesto con aggiuntovi la debolezza e la mala piega della volont, c
che s abbandona agevolmente a consentirgli s (6), e quindi, come dice s.
Giovan- ni lucurrieeeque (Adam) pir
offeneam praetaricationie hujusmodi tram et indtgnalio- ntm Dei. (2) Traci.
XLIV in Jo. (3) li. Air. Viti, f. 35. (4) Rom. V, 16. (5) Io non voglio
conchiudere da onesto testo, che ai bambini morii sema il battesimo sia ri
serbata la pena del fuoco : essi potrebbero esser messi in stagnum Igni* sema
tuttavia sentirmi il dolore, poniamo, se atti non fossero a patire ab hujusmodi
activts. E troppo autorevole e ra- gionevole ci che dice sant Agostino: Si enim
qu od de Sodomie ait (Metili. X, 15; XI, 24), et utiqus non de eolie fntelligi
voluti, attui alio tolerabilius in die jdieii punietw : quis (R. Aff. V, 21). Dove ba egli trovato che io
nella concupiscensa faccia entrare s .'atto dilla volont che >' abbandona a
consentire al perverso appetito? > lo lo sfido ad indicare nn aolo luogo
della mie opera, dove si trovi l'errore ch'egli qui inventa. Chi ba un po
dintendimento dee distia- 92 ni, non viene ex Patre (i), dal qual viene la
natura umana ; e lungi da esser cosa naturale,
contro la natura umana, come la chiama s. Tommaso co' Padri ; peroc- ch
la umana natura chiede anzi che la ragione abbia autorit e vigoria di coman-
dar senza sforzo alle inferiori potenze. Che anzi la parola stessa di
concupiscenza esprime questa relazione di disarmonia fra l appetito e la volont
, questa lotta, traendo origine , comegli pare , I" uso di quella parola
dal luogo dell' Apostolo che dice : Caro concupisci't adverstis spiritum ( 2 )
, n d nna bestia mai direbbesi che concupisci!. Laonde il sacro Concilio di Trento
dichiara che la concupiscenza , 1 appetito insultante e lottante colla ragione
infiacchita non viene ex natura , ma bens che ex peccato est, et ad peccati- m
inclinat (3). Di pi, lo stesso sa- crosanto Concilio non riprova, anzi
veramente mostra di favorire 1 opinione di quei teologi, che in quella
concupiscenza che 1 uomo porla al mondo nascendo, nella con- cupiscenza cio di
quelli che non sono ancora rinati pel santo Battesimo, ripongono 1 essenza
delforiginale peccalo, perocch decidendo : eccleuam catholicam nunquam
intpllexisse pecca tum appellari\concupiscentiam ) quoa vere et proprie in j.ena- tis prccatum
sii (4). viene ad immettere, che dunque la concupiscenza ne non rinati sia i
eminente e propriamente peccato, come tante volle dice sant Agostino, in quel
senso che pi sotto dichiareremo. Che se si prende la concupiscenza non per /'
abi- tuale conversione dell' uomo alla creatura, ma per V inclinazione ad
operare il male , che da quella conversione procede, s. Tommaso colla piena
degli scolastici ri- pongono in essa la materia del peccato originale; e per la
fanno un vero elemento c una vera porzion del peccato fino che ella sta colla
forma del peccato congiunta: dalla forma poi staccala, non pi elemento, non pi porzione di peccato ;
perch la materia dalla forma disgiunta cessa dallessere porzion del composto: e
tale la con- cupiscenza rimane ne battezzati : ne' quali tuttavia ella un male, un impedimento al bene, e quasi il
corpo inanime del peccato. Laonde ella rimane altres il veicolo, pel quale si traduce
loriginale (leccato nella specie umana di generazione in generazione, come
dicono i Padri, Ex hac car- mi concupiscentia ( user anche qni le parole di
Agostino ), quae licei in regenera- tis jatn non deputeiur in peccatum , tamen
naturai: non acci di t nsi de pec- cato
ex hac int/uam concupiscentia carmi, tamquam vili a, peccati et quando
illi ad turpia consentilur , eliam peccalorum maire multorum , quaecumque
nasci- guere la debolezza e la mala
piega della volont clic a' abbandona agevolmente a coosentir- un male abituale, a cui i pu resistere ; e
resistendovi si merita , anzich si pecchi. Per questo lo stesso sacro Concilio
di Trenlo dice che ad agonrm relieta, ett ; non sarebbe relieta ad agonem , se
non costasse nulla il vincere l'appetito; c nulla costerebbe questa vitloria se
la volont non fosse al male inclinata; n l'appetito sarebbe perverso, se non
lusingasse la volont a consentirgli.
dunque riposta la mala concupiscenza non gii nell ap- petito solo, che
ne'bruti natura, come dice sant Agostino
; Tantae enim excellentiae etl m cnmparatione peeorit homo , ut vitium homini,
natura sii pecorit ( L. 11. De pece, orij., r, IV ) ; ma nello tgutltbria fra
le forze dell appetito e quelle della ragione e della volont , per guisa tale
clic quelle sono pi forti del dovere, rispetto a questo che son del dovere pi
debo- li. quindi poi il maggior merito di chi vince dalla grazia aiutato. Ma
tutta lira del signor Eu- sebio nasce da questo, che io ho supposto lappetito
viziato, e la volont ioclinata at male, ed egli vuole l'uno e l altro perfetti,
come sarebbero nella sana natura, lo per mi sto assai pi volentieri col
Concilio di Trento, che avendo detto della concupiscenza che ad agonem rettela
etl, non consider l' appetito solo, ma lappetito in relazione e in lolla colla
volont, e indic quel disordine ebe non viene dalla natura, ma si dal peccato cd
al peccalo inclina, ex pec- cato est et ad peccatum inclinai. (1) I Jo. Il, 16.
(2) Gal. V, 17. (3) Sess. V, De pece. ortg. (4) Ivi. Digitized by Google 93 tur
proles, originali est obligala peccato, itisi in ilio renascalur, quem sine
isla concupiscentia Virgo concepii (i). Convien danqae dire di nuovo, che la
Chiesa col proscrivere la 55 proposizione di Bajo non ha inteso di dichiarare
che la concupiscenza della carne contro lo spi- rilo, come sta in noi di
presente, o certo almeno come sta in quelli che non son ri- nati alleterna
vita, sia un elemento necessario della natura umana nello stato di sua perfetta
sauit, e poich quella concupiscenza noturac non accidit nisi de peccalo, la
Chiesa non intese n pur definire che Iddio avrebbe potuto creare un uomo con
que- sta conseguenza rea del peccato'. In una parola la Chiesa, condannando la
proposizione 55 di Bajo, che dice. Deus non potuisset ab imtio talcm creare
hominem qiialis mine nascitur, ha indubi- tatamente inteso di deGnire che Iddio
avrebbe potuto creare luomo nello stato pre- sente, con tutti i suoi principi e
limitazioni naturali, eccetto per il peccato e quelle appendici che dal solo
peccato, non da principi della stessa natura sana e ben ordi- nala, come Iddio
la farebbe, provengono. LXl V. Vero che vhan de teologi i quali sostengono che
la stessa concupiscenza proceda necessariamente da principi naturali dell'uomo;
ma io mi sto con quelli che il contrario pensano, i quali certo dalla Chiesa
non furono, per quantio so, ripro vati, ed anzi a me sembra che le due opinioni
si potrebbero insiem conciliare. Perocch i primi mostrano evidentemente
dintendere per concupiscenza il solo istinto animale, non dcGnendo poi di qual
grado e di qual modo; e che un istinto animale ci dovess essere anche nello
stato di sana e pura natura, ci non si nega da noi dipendendo questo dalla
natura stessa della materia e dellanimalit. Ma i secondi non intendono per
concupiscenza, come dicevo, il semplice istinto animale, il quale da s solo e
nella sua natura considerato non vizi,
se non dege- nera: intendono bens il muoversi quell istinto nell'uomo e
linsorgere a dispetto della ragione, che uul vorrebbe, e che noi pu a tal raffrenare
che almeno non ne senta l'insulto, onde ebbe a dire lApostolo : Si quod nolo (
n\alum ), illud facio, j am non ego operr illud , sed quod habitat im me
peccatosi ( 2 ): intendono la maia influen- za che quellistinto esercita ora,
quasi altro serpente, sulla volont delluoino, lu- singandola, seducendola,
traendoia a falsi interni giadizj sul valor delle cose, e quindi ad esterni
peccati, perocch e quo' falsi giudizi sono peccati, c peccati sono 1 opere a
que falsi ed iniqui giudizi seguenti : alle quali lusinghe con tanta difficolt
luomo da s solo, 0 anche in niun modo di presente, senza la grazia divina, e
l'ora- zione che quella gli ottenga, resiste. Onde sautAgostino ebbe a dire :
.Ideo in pcco- ribus malam non esse concupiscentiam , quia non adversum
spiritino concupiscit (3) : e altrove nega che la concupiscenza sia
semplicemente il sentire che fa lanima la di- lettazione, non cnim scnsus est
morbus , niti dice che la concupiscenza ilio scnsus est quo nos morbum habcrc
scntimus (4). La concupiscenza adunque, nel senso di questi secondi teologi di
cui parliamo, la lotta della carne collo
spirito, c pi ancora, ella una tal
lotta, in cui perde lo spirito se colla grazia non si difenda, 0 avendola gi,
come lhanno i rinati che non ricaddero, o chiedendola ed acquistandola se
ancora non lha. Perocch dice sant Ago- stino di una tal lotta : Volunlas ergo
ipsa nisi Dei gratta libcrctur a servitale qua facta est serva peccali, et ut
pitia superct, adjuvetur; recte pieque vivi a mor- tali bus non potest (5), ed
ancora approdare falsa pr veris ut crrct invitus et resistente atque torquente
dolore carnalis vincali, non posse a libidinosi s operbus (1) Ite nvpiiis et
concupite-, L. I, c. XXIV. (2) Hom. VII, 20. (3) Contra Jul L. IV, c. XIV. (4) Contra Jul., L. V,
c. XIV. (5) Kctract. I, IX. Digitized by Google 94 temperali, non est NATURA
INSTITUTI noni NI S, sed poena damnati (i), e di nuovo : Nam quando tale est
(peccatimi) ut idem sii , et poena peccali , quantum est quod vaici voluntas
sub dominante cupiditale , nisi forte, si pia est, ut OREt apri- Liuti ? ( 2 ). Dove chiaramente apparisce che sant Agostino
nega che possa essere, ( natura di un uomo da Do istituito , quella condizione
in cui l'uomo nasce di pro> sente colla sua volont, la quale senza la grazia
non pu osservare a pien la giusti- zia; e chiaramente insegna che ci non pu
essere se non pena di un precedente peccato (3). S'ammette per che la
sommissione della carne allo spirilo in Adamo non era ( 1 ) De Iti. arbitr., L.
Ili, c. XVIII. ( 2 ) Retract. I, XV. ( 3 ) Distinguati adunque quella concupiscenza
de non rinati, incoi sant' Agostino ripone IV#- senza dell originai peccato; da
quella, che i una conscguvnsa della prima, e che rimane nei rioati, i quali gii
converti a Dio, indi traggono ancor la fona da vincere la lusinga del se sibilo
: ijvae ad agonem rettela est. Or che Iddio non potesse hreare l uomo con
quella prima concupitecela senza dargli la gracia e laiuto da vincerla fuori di controversia; se Iddio poi potesse
creare ! uomo colla seconda, dandogli per aiuto e grazia da vincerla (si noti
bene que- sta conditioDe), sicch l'uom fosse atto a mantenere la giutlisia o
naturale 0 soprannaturale a condoch a quella ovvero a questa venisse ordinalo,
eli lult'allra questione. S. Agostino, n
i teologi cattolici, credio, non mosscr mai quella prima: il Dotlor della
grasia tocc bens in- direttamente la seconda. Dico indireltameute , perch non
domand gi ; giacch per po- tersi lodare
l'autore duo opera batta che l'opera sia buona, quantunque ottima anco non sia,
quamvis, ignoratala et dJficullas, eliamti esimi hominis primordia ttaturalia,
nee rie evlpan- dus sed loudandus esse 1 Deus. (lletract. I, tx ). Cunvieo
riflettere, che sant Agostino parlava contro i Manichei, i quali non volevano
per nulla riconoscere il peccato originale, e per ispie- gare i mali, da' quali
luomo vederi afflitto, ricorrevano ad on principio essenzialmente cattivo,
autore del male. Laonde sani Agostino cosi ragiona con argomento ad hominem
: Quantunque : questa quistione riguarda l essenza del peccato. Voi conFondeste , acutissimo
come voi siete, questa seconda questione con quella prima ; ed essendovi
scontrato in aleu- ti) Gen. Vili. (2) Sci. VI, De juttificat. can. X. Si dee attentamente osservare elio la
giuslticazionc clic riceviamo per gli meriti del Salvator nostro a noi
applicati non consisto solo nella sempli- ce remission de peccati, per la quale
cesserebbe l' imputazione a colpa, ma consiste di pi oel- 1 infusione della
grazia di Cristo , per la quale vien sanato lutto ci che ha ragion di peccato a
noi aderente. Che se fosse vero che noi non avessimo alcun peccato a noi
aderente , come vuole Eusebio , ma che ci venisse solo imputato a colpa il
fallo di Adamo, potrebbe operarli benissimo la nostra giustificazione coll
esserci solamente rimessi i peccati , cessando cosi l im- putazione, la colpa ;
in tal caso noi ci troveremmo nello stato di pura natura senza peccato , o per
atti ad avere una giustizia naturale ; ma il Concilio di Trento dichiara che
non cosi viena operala la giustificazione nostra; noi non possiamo ora essere
giusti, se oltre esserci rimessi i peccali, e cos cessare l imputazione (la colpa), non ci sia data
ancora la grazia che tolga da noi qnel peccato clic inesl unicuigue proprium ,
e cosi ci restituisca allo stalo di giustizia so- prannaturale, che solo per noi possibile. Si quis dixerit iomines
fuslijicari vel sola imputa- Itone justiiiae Chrisli, vel sol* peccstohim
bemissioks, exclusa gratili et charitate , qua e in cordihus eorum per Spirilum
sanrtum dijfundalur , alque Ulti inhacreal ; aut citarti gratiam , qua
justificainur, esse tantum favorem Dei : anathema sii ( Sess. VI, De justific.,
can. XI ). Ecco adunque di nuovo, come sia necessario distinguer bene la nozion
di peccato da quella di colpa anche per intendere la dottrina della giustiiicaziono
esposta dal Tridentino ; di che nuo- vamente appare l error d f Eusebio die
rifiuta tale disliazione. (3) De gratta primi hominis c. V. (4) E questa
eccezione del peccato non manca mai di farla sant* Agostino come li dove di- ce
quae peccala non nisi propriae roluntati
ea rum ( animarum ) tribuenda sunl, neo ulta ullerior peccatorum causa
quatrenda, dopo di cho passa a parlare dell igooranza e della dif- ficolli ia
quanto sono effetti del peccato, o non peccato ( Vcd. De lib. Arbitr. Ili, XXII
). by Google 99 ne parole del Bellarmino e degli nitri autori citati, che
restringono {'effetto del pec- cato d'origine allo spogliamento dei doni e
dicono la Datura del resto non vulnerata; credeste a dirittura d'aver in mano
un'autorit calzantissima, per provarci che dun- que V essenza del peccato
dorigine non consiste, giusta quegli autori, se non in questo mero
dispogliamenlolll Ma no, mio caro, nou affibbiate i vostri errori a uo- mini
tali, giacch cos calunniereste quelli per la troppa buona voglia di calun- niar
me. Per altro se noi toccar vogliamo anco la questione non dell eviene del
peccato, ma dell 'effetto ( che pure non e la nostra ), potremo ben veder
chiaro, come n pure in questo il Bellarmino e gli altri valentuomini stien con
Eusebio: che nessuno di essi neg giammai, che il peccato sia egli stesso una
ferita profonda della natura, e non un mero dispogliamcDto ; sicch la question
che propongono fa sempre a questa ferita eccezione, e riguarda propriamente l
altre ferite: riguarda gli elementi essen- ziali dell' uomo ; non la loro
armonia e buona attitudine ni ben morale. E nel vero, l dove dice la natura
umana non esser di presente ferita, parla egli evidentemente deso/i principi
costituenti essa natura, e per cita quel passodi s. Tom- maso, linde factum est
, ut primo hominc peccante, natura humana t/uac in ipso crai, sili ipsi
rclinqueretur , ut consisterei sccundum conditionem suo rum principio- rum (i).
E vedesi ancor ci manifesto dall' argomentar eh egli fa da quanto accadde a'
demoni, perocch dice : Naturalia in dacmonibus post casum ( teste Dionysio )
mansisse integra. Quod idem sine dubio de homine quoque intclligi dcbebil ( 2
). E re- ca a provarlo questo passo di s. Girolamo in Osea Dcmones qui lapsi
sani a propria dignitatc et nihil antir/uae gratiae possidentcs aridi runt et
velcri siccitafe marcen- te! (3). Sul qoal passo cosi argomenta : Si cnn nomine
gratiae dona naturalia intel- ligeremus, consequcns esset, ut Angeli nihil
naturalium dononim post peccatum re- tinerent, atquc adco ad Ninnisi redacti
essent (4). Il qual discorso non pn valere se non a provare che 1 uomo, come gli angeli, dopo il peccato nulla
perdette de principi costituenti la sua natura, nulla della sua sostanza , nel
che siamo piena- mente d accordo; perch la questione nostra non ist qui. 11
peccato non che un accidente della umana
natura, come sant Agostino in tanti luoghi lo chiama; non per fermo n una porzione di sostanza, n un
deperimento d'una porzione di sostan- za. In questo senso e s. Tommaso, e gli
Scolastici, e il Bellarmino dissero, e dissero il vero, che naturalia non
pcricrunt. Ma de vedersi se la volont
ora torta e svi- gorita s o no pel peccato pi che ella non sarebbe
quando fosse innocente , bench priva di grazia, di maniera che ella ora non
valga pi a contenere a pieno le infe- riori potenze quanto potrebbe a ci valere
se un uomo perfetto fosse da Dio senza grazia creato, il (|ual uomo n fosse
scaduto dalla sua naturai dignit, n fatto servo ai peccato, come e l'uom di
presente, n al peccalo venduto, come ancora lo chiama lApostolo: ecco la
question tutta. Certo, se da quello che avvenne agli angeli pravi dobbiamo
argomentare a quello che avvenne alluomo, la soluzione vien facilissima. Agli
angeli pravi avven- ne che non pure furo privati della grazia santilicante, ma
perdettero ancora la na- turale facoli di volere il bene onesto proposto dalla
ragion naturale, e come dice il Damasceno citato dnH'Aquinale, Hoc est enini
hominibus mors, quod angclis casus (li), onde sunt in peccato obstinali ( 6 ),
ili guisa clic adirne manet in diabolo peccatum quo primo pcccavii quantnm ad
appetitimi ( 7 ), onde l'appetito e il libero arbitrio de de- (1) In II sent.
D. XXXI, q. J, a. I. (2) De aralia primi /immuta, c. VI. CS) In 0*., c. 111.
(4) De gratin primi hominia , c. VI. ti>) Orludoxae. Kid. L. Il, c, IV. :
cose manifestissime in filosofia, dalle quali appar chiaro, che chi vuol
trovare inerente al bambino qualche cosa che di peccato possa ragionevolmente
avere il concetto, dee ricorrere alla virt volitiva non uscita all' alto, ma
nell' essenza del lanima contenuta. Dico alla sua virt volitiva nellessenza
dellanima contenuta , perocch so io bene, che 9. Tommaso sottilmente e
giustamente afferma, non essere la volont come potenza, ma lessenza dell 1
anima, il soggetto proprio dell'originale peccato. E per questo appunto anchio
dissi di sopra, soggetto delloriginal peccalo essere f aniina intellettiva e
volitiva. Perocch io soglio distinguere due volont, Cuna contenuta nell essenza
dell'anima come nn suo elemento, e questa
quella che , a mio pare- re, il soggetto dclloriginAle peccato ; e f
altra poi che comincia ad uscir fuori e ma- nifestarsi come potenza
dall'essenza distinta. Quella la radice
di questa; questa quella stessa, ma in
virt ancora nellanima esistente, ma pure realmente esistente. che questa sia anche la mente dell Aquinale,
vedesi manifesto da quella questione, dov egli esamina se 1 originale peccato
possa essere nella carne come in suo sogget- to; e prova di no, ma sol
Dellanima, dandone questa ragione, che la carne non pu essere il soggetto della
colpa, ma bens l'anima: Sic igilur curri anima possi! esse subjeclum crt/pae,
caro aulem de se non habeat quod sii subjectum cu/pae : guicr/uid pervertii de
corruptione primi peccati ad animam, habet rationem cul- pae (2) ; quod autem
pervenit ad carnem, non babel rationem cu/pae, sed poenae : sic /itur anima est
subjectum peccati originalis , non aulem caro (3). Ora perch mai f anima potest
esse subjeclum cu/pae, se non perch ha in s la virt dell in- tendere e del
volere ; essendo la virt volitiva qaelia in cui finalmente pu stare ogni
moralit, sia essa buona o cattiva, sia spontanea 0 sia libera, sia la forma di
santit che necessariamente aderisce all anima, 0 sia il merito che l anima
colle proprie li- bere operazioni si procaccia? Vero che questa volont da prima immersa nell es- senza dell anima, e, come
dice sant Agostino, la parto razionale c volitiva del bam- bino quasi in lui consopita, ma esistente per.
Conciossiach il santo Dottore il dimostra dicendo. Parvu/us vero , in quo a
liate ralionis nullus est ttSiis (nega che vi abbia luso della ragione, non la
ragione), voluntate quidein propria nec in botro est, nec in malo ; quia nullam
in a/terutrum cogitationem versai ( nega che la vo- lont operi, non che
esista), sed vtrumqve in ilio consopitvm vacat, et rio- num naturale rationis
(clic sono le delle potenze), et malusi orici nave (1) C. Ut. (2) [Son egli piacevole il sig. Eusebio, quando egli
stesso cita questo parso a tace, si del- . lo sue Riflessioni ? e lavrebbe egli
citato le lavesse inteso, (3) S. 1. Il, LX XXIII, 1. Digitized by Google 108
peccati ( clic il vizio delle potenze ).
Seti anni s aecedcntibus , cvigilante ratione (ecco la prova che esisteva),
verni mandatimi , et rcriviscit peccatimi: quoti adeersus crcscentcm cum
pugnare cocperit , Urne apparebit quid in infante latueb/t, ri ani vinci t, et
tianmabiUtr ; aut vincitur et sanabur (i). Conciossiach stanno in noi
certamente delle cose nascoste a noi stessi ; onde anche leggasi della sapienza
di Cristo, che ipse cnim sciebai quid esset in homine (2); e se il signor
Eusebio fosso porr da tanlo, potrebbe facilmente convincersi di una verit da me
dimostrata , che in tolte le potenze umane, ed anche nella volont, molte cose
sono e si fanno senza che l'uomo n abbia pure coscienza . LXXIII. La qnal verit
risultante dallo studio dellumana natnra, opportunissi- ma torna a mostrare la
sapienza divina della religion nostra, la quale co dogmi del peccalo dorigine,
e della infusion della grazia nel santo battesimo, quella verit suppose,
siccome a me pare, ancor prima che essa fosse chiaramente dall umana fi- losofa
conosciuta. La qual verit travide di nuovo snnt Agostino, e la indic colla
solila sua acutezza quandebbe a parlare della maniera onde lo Spirito santo
s'in- fonde nellanime de bambini senza che questi punto sei sappiano; intorno a
che il santo dottore si esprime cos: Dicimus ergo in baptizatis parvulis,
QVAUriS m ne- sciant , habitare Spiritimi tanclum. Sic enim cum ncsciunt,
t/uamvs sii in eis, QVEMADEODOM NESCIVNT ET MENTF.M SVAU\ CttjuS VI CS ratto,
qua ulinondum possimi, velati quaednm scintilla sopita est, c.rcitanda actals
successa ( 3 ). Vi ha dunque la ragione, vi ha la volont ne' bambini , ed essi
non ci riflettono , non ci pensano; cos del pari nella ragione vi pu essere un
minore o maggior lume, o un lume daltra specie ; nella volont una maggiore o
minore inclinazione al bene dalla ragione mostratole ; e tutlo questo senza
bisogno alcuno di propria consapevolezza. Che anzi pi profondamente
investigando un fatto cos importante e misterioso , ma pure al vero filosofo
indubitabile, altri veri al servigio della religione preziosi si scuo- prono,
de' quali indicher qui io alcuni' 1.* che appena che esiste l'anima, in quan-
i' intellettiva, ella ha un lume, un oggelto cio universale che la fa
intellettiva , in cui snllissa, ed esso
l'essere in cui e per cui tulle I altre cose poi vede; 2.* che del pan
appena che esisle lanima, in qunnt volitiva , ella ha -una tendenza che verso
1 essere universale la porti, dalla
mente naturalmente intuito , e cos l'essere divien suo bene, ed questo un primo atto universale che
cosliluisce la volont slessa 0 potenza di volere, dalla quale tulli gli altri
atti poi sortono , come da loro originaria virt ; 3 ." che I* uomo, fatto
cosi intelligente e volitivo, tostoch
uomo, muove subitamente e la ragione sua e la sua volont, dietro
loccasione de sensi, le muove segretamente ed efficacemente ; e sol pi tardi
egli si forma poi la coscienza di s medesimo 0 delle proprio sue operazioni ;
cio allora che egli comincia su di s e di esse a riflettere e ripensare. Le
quali tutte cose in vari miei scritti , de quali |l signor Eusebio , bench
pubblici , mostrasi del tutto ignaro ( 4 ) , io di propo- (1) Contro Jtilian. Pelag^
h. Il, c. IV. (2) Jo. II, (3i Kp. CLXXXVH, ad Dard. c. Vili. (4) Da questa
ignoranza, spero io, pi tosto che da piena malizia si dco derivar la calun- nia
di che il sg. Eusebio m* incarica, osando egli dire, come anche di spra hn
notato, ch'io orti meda un mento c anche gonza coscienza e libert ( R. A(T. XII, f, 40, (B) ). Senza li- bert
no, noi dissi i6 mai, ed tutta giunta
del gentilissimo sig. Eusebio, per potermi condan- nare, comegli fa, per
giansenista marcio. Senza coscienza si,
questa c luti altra cosa. Peroc- ch certo io non credo che i santi
abbiano coscienza di lutti c di ciascuno i meriti clic s* ac- quistano, n credo
tampoco clic gli emp abbiano coscienza di tutti e di ciascuno i demeriti che
pur s* acquistano. Nesrit homo utrum odio an amore dignit sii etc. N egli fa
bisogno cono- scere lutti i nostri peccati per averne la remissione, che con un
allo ri amor perfetto o col sa- cramento della penitenza ci son rimessi ( Vcd.
s. Tore moto, S. Il, LXXXVI1, i). Ma oltre qursla impostura, le riflessioni che
il S g. Eusebio pone sotto I' affermazione XU, tono Me IIP Icsauio d'insolenza
c di tuUil, che assai bene dimostrano se la causa del sig- Eu- 100 silo
discussi c provai ; c ad essi rimollo quelli clic bramassero saperne, o
portarne giudizio. gebio sia quella della purit della dottrina cattolica,
com'egK ostenta, ovvero tati* altra. Guai se la nostra santa fede avesse
solamente di tali difensori ! Annoverer qui alcune delle asserzioni false, che
compongono un tanto imbratto. I menzogna.
Dice che io c con istupenda franchezza do implicitamente il titolo di
volga- f ri, a quanti non sono della mia scuola, compresi tutti i Padri e i
Dottori 9 lo lo sfido a mostrar dove o
implicitamente o esplicitamente io abbia dato il titolo di volgari a un solo de
Padri o de 1 Dottori della Chiesa, o ad altro scrittore ecclesiastico; ovvero
io invito a ritrattarsi. II menzogna.
Dice che 1 0 quanti non sono delta mia scuola, compresi tutti i Padri e
i Dottori appongo che tengano senz'altro, che ogni bene c male morale nell'uomo
dalla coscien- za, come da sua causa, derivi 9
lo lo sfido a mostrare dove abbia trovato che io a tutti i panni v
dottori abbia attribuito tal cosa; ovvero lo. invito a disdirsi. Prima di
andare avanti nell* enumerazione resa necessaria di queste frascherie , sar
piacevo! cosa l'udire che cosa egli soggiunga alle parole con cui m'
attribuisce d'aver io imputato a tutti 1 padri e dottori quell'errore: c Poich
(d ; ce cg!i gravemente) ci non vero in
tutti i son- c si, n in tutti i sensi si pu dire, n da noi si dice 9 Adesso
intendo! Siete voi dunque un Padre o un Dottor della Chiesa? non lo sapevo
davvero, n potevo saperlo lenendovi masche- rato per pura modestia. Ben potrei
qui esclamare con s. Basilio: Deh! che Padre, che Dottore ignorante! Ili
menzogna. Dice che la comune definizione
della coscienza sia quella eh* egli ripor- la, nella quale non si trova
nominato il giudizio pratico 9, venendo cosi a negare che nella co- mune
definizione della coscienza non si adoperi 1 espressione Jumciuu pbacticum.
Dove sono due le falsit unite insieme, 1." luno che la definizione ch'egli
arreca sia la cornano, fl. laltra che nella comune definizione (giacch la
comune quella che egli apporta) non si
definisca la co- scienza un giudizio pratico. IV menzogna. Dice che c io stabilisco che ogni altro che
non son lo, 0 della mia scuo- c la, per coscienza intende un' aziono pratica, o
cosa che si riferisce all* azione pratica senza c pivi 9. Non liawi qui una
menzogna sola, ma un gruppo di menzogne legale insieme con uo bel nastro
d'ignoranza, che una cosa clic consola!
i. d menzogna. Io non ho dello che tutti
intendano cosi com'egli dice la coscienza, ma ho detto che c comunemente si
suote appellare la coscienza un giudizio pratico 9 ( TraU. della Cote . , f. i4
), e questo innegabile; n ci vuol dire,
che la chiamino cosi tutti quelli che non sono io o della mia scuola. 2. 4
menzogna. Io non ho detto mai n che
lutti, n che n pur un solo de* teologi morali r per coscienza intenda un'azione
pratica, 0 cosa che si riferisce all'azione pratica 9. Ma ho dello che c
comunemente la coscienza s' appelli un giudizio pratico 9 , cadendo la mia
osservazione sull' appellazione che si d alla coscienza, appellazione che, com*
io notai, non esprime bene quello che per essa i teologi intendono. Questo il nastro d' ignoranza con cui Eusebio lega
le gemme delle sue menzogne. 3/ menzogna.
Io non dissi mai, n mai sognai, che nessan uomo al mondo, per isci-
munito che fosse, intendesse per coscienza c un'azione 9. Dissi bens che la
parola praxis si- gnifica azione; non dissi, n poteva dire, che la parola
coscienza significhi azione 1 ell'invcn. ziooe uscita di pianta dal cervello
limpidissimo del sig. Eusebio. 4." menzogna. Io non dissi c azione pratica 9 : altra
scempiaggine che il sig. Eusebio coni a posta per regalarmene. Se pratica vuol
dire attiva , qual buassaggine non sarebbe que- sta di azione attica ! Ogni
parola adunque della sopraccitata a [Formazione dEusebio una val- uta ben rotonda. V menzogna. Dice che io ho detto cosa che equivale c a
questo detto : c tutti gli altri clic hanno dato, la definizione della
coscienza, non si accordano n colla ragione, n colle dot- trine dogmatiche del
Cristianesimo 9. Non avendo io mai detto, n sognato tal cosa, lo sfido a indicare
dove egli I' abbia trovata, o a ritrattarla, con tutte le altre sue sviste. Ora
le parole mie, che lo hanno fitto cosi imbizzarrire, e eh egli mette l staccate
al suo solilo dal contesto, sono pur queste ( f. 4 ( 2 ); se pure dal mimer de
catto- lici non Sbandisce s. Tommaso, il Bellarmino, e ludi quelli che sentono
con questi due antori anzi che con lui. Che se gli piace di porgere ancora i
suoi rispettabili orec- chi ad una parola che s. Tommaso vorrebbe dirgli su
questo proposito, ella qua ; la rumini a
suo bell agio : In infectione peccali originali . '1 duo est considerare :
primo inhaerentiam ejus ad suhjeclum : et secundum hoc primo respicit essenliam
animar , ut dicium est- Deinde opnrtet considerare inclina t io neh ejus ad
actusi : et hoc modo respicit potentini animac. Oportet ergo tjuod Ulani per
prius icspiciat, tjuae primam inclinationem hahel ad pcccandum : BAEC AUTem EST
FO- LE NT AS, ut ex supradiciis palei. Un DE PECCAI USI ORIGINA LE PER PJUUS RE
SPI- CIT FOIUNTATEil (3). LXXV. Le quali parole chiaramente distinguono il
soggetto dell originai pec- calo, che
l'essenza dellanima in quanto in essa trovasi insita e immersa per cosi
dire l intelligenza e la volont, dalla potenza che ne prova la prima i funesti
effetti , la qnale si la volont gi
uscita e quasi emersa dallessenza dellanima ; la qual ne riceve la proclivit al
male. Ferita cosi e guasta la volont, le altre potenze che a lei tutte
dorrebbero pel bene servire, si rendono restie e contumaci ; e quindi inco-
minciano que' molti disordini morali che
avvengono attualmente nell uomo di ne- t cessila , i quali al signor Eosebio
dispiace aver io nominati e averli delti t effetti ed alti del peccato d' orgine (4) >- Ma
che il peccato originale abbia i suoi effetti ed atti, se il nega Eusebio, il
dice per s. Paolo, le cui parole sfuggite, come pare, agli occhi d Eusebio, io
recavo nel Trattato della Coscienza. Perocch lApostolo usa appoolo di queste
espressioni : Peccato * 1 per mandatum operatosi est in me omnem
concupisccnliam (5). Nunc antan jam non ego operor itlud , sed tptod habitat in
me pecca TU! (6). Peccato occasione acceptd per mandatum, sedu- xit me (]). Sed
peccatosi, ut apparcal pcccalum , per bonum operatum est situi mortem : ut fiat
supra moduin peccans peccatosi per mandatum (8). Code (1) R. Aff. )V, f. 19. ( 2 ) u. Atr. iv, r. 19.
(3) S. I. II, LXXXIII, in. (4)
R. Aff. tv, f. IO. (5) Rom. VII, 8 . ( 6 ) Ivi, 17 . ( 1 ) Ivi, 11 . (8) Ivi,
i3. Digitized by Google 112 il peccato originale secondo 1' Apostolo, fa nell'
uomo suo operazioni ed atti, e por- tavi i suoi effetti. Ma anche ne rigenerati
? S, rispondo sant Agostino, e tutti i
cattolici con lui bench in minor grado
Ma non morto egli ne rigenerati ? E morto , e pur non cessa di operare come un
cadavere che, non seppellito, ancor opera col suo puzzo ed infetta l aria.
Quomodo eniin peccatimi mortuum est , cura nuilta opcrctur in nobis
rcluctantibus nobis? quac multa? itisi desideria stilila et nenia, tpiae con-
senltenles mcrgunl in intentimi et perditionem: qua e utique perpeti , eisque
non con- sentire ccrtamen est, eonflictus est, pugna est. Quorum pugna, nisi
boni et mali , non naturar adoersus NATURA, sed naturar adversum vitium (l),jam
mor- tuum sed adhue sepcliendum, id est omnino sanandum (a) ? LXX.VI. Ecco qua
Agostino con laolo concorde , e discorde tuttavia non da Cristo, ma da
Cristiano, il (piale sempre cogli anatemi e colle scomuniche in pugno, vuole
sterminarmi per avere io detto che n il fomite di che parla s. Tommaso e
il Coni ilio di Trento, soprastante io
noi anche dopo il battesimo, non si dee creder u che sia il poro istinto
animale vizialo : ma questo con aggiornavi la debolezza e In mala piega della volont, che s abbandona
agevolmente a consentirgli > (3). Ben mi duole di dover qui far notare un
nuovo avvicinamento fra gli eretici pe- lagiani, ed il nostro signor Eusebio.
Perocch quelli sostenevano quanto costui , che la concupiscenza non era che il
senso solo, il solo istinto dell animalit : o che l'ab- bia egli appreso da
essi, o che uno stesso spirito gli ammaestri e diriga entrambi. Onde, tacendomi
io, iascer che sant' Agostino, quasi aocor vivente Tra noi, dica ad Eusebio
quel medesimo, che un giorno disse a Giuliano: Quid loyueris ignorai. jAliud
est scnsus carnis , aliud concupisrcnlia carnis quac scntitur scnsu et in un
t/s et carnis (4). Il senso della carne noti
disordine; bens disordine quella
concupi- scenza che la mente stessa nssalisce, e la fa talor vacillare. Questa
produce de' desideri stolli e
nocevoli ; i quali non possono essere
clic nella voIodI, bonch indeliberatamente ; non avendoli mero istinto animale
de' de- sideri, ma solo delle fisiche propensioni. Che anzi sant' Agostino
osserva continuo , che noa nella carne,
come carne, che la trista lotta si tiene ; ma noi stessi siamo quelli che
combattiamo contro noi stessi , istigati da una parte dalla carne, dall'al- tra
dalla intelligenza sostenuti : sempre I
anima umana, sempre la volont die lot- ta , e in questa lotta appunto la
concupiscenza consiste. Molibus igilur siiti ani A, dice, quos habet secundttin
Spiritimi, advcrsalur aids molibus sui s , quo s habel sc- cuudum cameni, et
rurstts motibas jais quos habet sccundum carnati, adversatur aliis molibus
suis, quos habet secundum spintimi : et ideo dicilur: Caro concupisci i ailver-
sus spiritum, et Spirilus adeersus cameni (j). L anima stessa adunque seco combat-
te da due parti tirata quinci dalle coso carnali, e quindi dalle spirituali. Or
non vi pare , Eusebio mio, come ne pare anche a me, una goffa ignoranza, il
menare le ma- raviglie, e il gridare alla novit di dottrina, per aver io
scritto che il solo istinto (1) Pormi a
dir vero inconcepibile come v'abbia qualche scrittore, che pure s 1 ostina a
vo- lere che santAgostino non riconosca vizio nella natura, ma solo
spogliaim-nio di grazia, quando da per tulio il santo Dottore distinguo
accuralissimameolc tre cose , la grazia , la natura e il vizio, o corruzione di
questa 1 (2) S. Aug. contr. Jul. Pclag L. IU n. 32. (3) R. AfT. V, f. ni. Ro gi indicato di sopra con che malizia il
signor Eusebio, im- possessandosi di queste ultime mie parole, e ommeltendo
destramente la parola agevolmente che esprime ad evidenza la facilit di
consentire al male, c non io stesso consento : osa calccin'o- bamentc ovvero
IGNORANTEMENTE attribuirmi, che io comprendo nella concupiscenza anello ri con-
senso, cio f atto delia volont consenziente, c sotto le qual voce, egli dice ,
fallaecmente oom- c prende ( il Rosmini ) anche l t atto della volont elio si
addandola a consentire al perverso
appetito ( Ivi nota (j) ). (4)
Opcrit imnerf. cantra Jul. , L. IV. C. LXIX. (5; Contr. Jul. } L. VI, c. XIV.
Digitized by Google 113 animale ,
rimossa da lui ogni relazione colla volont, siccome sia nelle bestie
elio di volont sono prive, non pu
ricevere nome di peccato (i)' Sarebbero
pure innu- merevoli i passi de' Padri che io vi potrei addurre, se fosse prezzo
dell' opera, a d- mostrare che per concupiscenza , chiamata dall' Apostolo
anche peccalo , s intende la volont inferma, la quale si lascia facilmente
sedur dalla carne; s intende l ani- ma che dalla carne riceve conlinna molestia
c guerra ; e non la mera carne, n l mera animalit che, in s stessa considerata,
non cosa che all ordine morale appar-
tenga. Ma ancora un luogo almeno di sant Agostino concedetemi di riferirvi. Nel
li- bro della Continenza egli scrive filosoficamente al suo solito in
questo modo: Ca- ro enirn nihil nisi per animam concupiscit. Seti concupisccre
caro adversus Spiritimi dicitur, quando anima carnali concupisccnlia Spirititi
rcluctatur. Totani hoc KOS suina s (2). E poro appresso: Igilur ipsc ego- ego
mente, ego carne: sed mente Si l- vio legi Dei, carne autem legi peccati.
Quomodo autem carne legi peccati? num quid eoncupiscentiac consentendo carnali
? sthsit: Scd UOTUS DESIDERIOHVJU IL- UC H abendo ( jiios habcrc rtnkbal, et
tanica habcbal (3). Conciossiach noi in quan- to siamo di volont forniti non
siamo sempre e dei tutto attivi ; ina bea anco passivi; e la volont nostra non
opera solo liberamente, ma bea anco talora con semplice mo- to spontaneo: come
accade appunto in qne desideri di cui parla sant* Agostino, clic insorgono in
noi pfr (spontaneit, bench per libert ad essi noi ei opponiamo. Laonde nega
espressamente san Agostino* che il combattimento sia un effetto natura- le e
inevitabile dell'accoppiamento delle due contrarie sostanze la materia e lo spirilo;
perocch, quantunque a diverse leggi soggette nc! iuro operare, niente
vieterebbe pe- r, che fossero state bene insieme compaginate e connesse, come
Iddio fati avrebbe nella soa infinita sapienza e potenza creando !' uomo in
istato di sana ed intera na- tura: nel quale stato lo spirito sarebhesi potuto
servir della carne a pieno suo grado II* eseguimento della naturai legge, e al
mantenimento ed aumento della naturale felicit. Dice adunque cosi il Dottore
della Grazia : Qtiod ergo caro concupisca ad- versus Spiritala, quia non
habitat in carne nostra ho num, quia lei in membri s no- Slris rcpugnal legi
mentis , non est dvarum NAturarvm ex CONTRARUS factA PRiKCiptis coMuiXTio,setl
vnius adversus scipsam , propter peccati meritata fac- ta divisto {4). Ed io
confirmavo la stessa verit, che non 1' istinto solo animale costi- tuisce la
concupiscenza, ma la relazione di esso alla volont, coll autorit manifestis-
sima di s. Giovanni che nomina t la volont della carne (5) a fare intendere che trattasi della volont
nostra dalla carne lusingata, e non della mera carne ; ma il no- stro signor
Eusebio, trovando 1' osso duro a suoi denti, postosi in snssiego, se la pass
con queste sole due gravi parole: Abbiam
lasciato il passo di s. Giovanni, che pa- ci re dall autore non bene spiegato, perch nos fa al presente
proposito ( 6). Ipsc dixit. Passiamo or ad un altra non meno bella (7),
LXXVIf. Dopo aver egli recate le parole di s. Tommaso da me pur citate, Re-
mane tamen peccatum originale actu, quantum ad forniteli*, qui est inordinalio
par- lium inferiorum animae et ipsius corporis, sccundutn quod homo generai, et
non se- ti) R. AfT. V, f. * 1 . (2) C. Vili. (3) Ivi Ved. ancora *, Aue. contr.
Jutian- Pelaa. L. VI, n. iG e asce. (4) De Contine alia, e. Vili. (3) Jo. I,
.3. (6) Le mie parete, commesse dal sig, Eusebio all' Atfermnzione V. son
queste: E indi vie - ( ne anco la
giustezza dellespressione di S. Giovanni die nomina Ja volont delta carne ; la
i quale non ad intendersi puramente dell
istinto carnale, ma si delia volont cedevole a quei- l' islioto ; come la volont dell'uoiao, pur
nominala dall* Evangelista, deesi interpretare della vo- * lont umana cedevole
alle illusioni di felicit e di grandezza umana in esclusione ed io oppo- I
lizionc delta giustizia 1 . Trattato della Coscienza, face. 33). (7) R. Aff. V,
f. *3, (cc). Rosmini Voi. XII. 410 Digitized by Google 114 cundum mcntcm, un
queste parole argomentando da quel loico maro tiglioso eh' egl i , mmum pruder
ipsum qui peceatum non habuerit infantilis aelalis ex~ orlo. (Conte. Jui., L.
V, c. XV). LAngelico del pari: Jn quo
quidem statu (hominis re- parati ) potesl homo absiinere ab omni peccato
mortati. Aon autem palesi homo abslinere
ab omni peccato veniali piiuptkii cOBBi:er!ONi.il iNpcniosis ippsrircs
skissualitatis, cujus motus sin - gutos quidem ratio reprimere potest (et ex
hoc habent ratwnem peccati et volontari! ) non nu - lem omnes: quia dum uni
resistere nttilur. Jbrtassis ahus insurgit : et eliam , quia ratio non semper
potest esse pervigil ad hujusmodt motus vitandos eie. ( S. 1. II, CIX, vili
). V. il Pallavicino, Istoria del
Concilio di Trento , Lib. VII, c. IX. (2) S. 1. II, LXX.tV, iti. ty Google 115
10 de' molli die uddur potrei ne redimo uno, il quale mi prester pi servigi,
laria 11 santo della malizia contenuta nell'originale (leccalo cosi : Malilia
contrada nihil aliud est quam destitutio foliintatiS ab originali justitia , et
inde incarni omnem phonitatem ad mula ctigenduiti(i). Nelle quali parolesi
comprendati due cose : i. la malizia della volont che perduta l'originale
giustizia entr nello stato d ingiusizia, e 2 ." la inclinazione die prese
la volont al male, incarni omnem pr- nilalem ad mala eliijendum. Ora nella
prima di queste due cose metto s. Tommaso la forma del peccato originale, in
cui per rimali nini' qui di passaggio ci clic pi sopra fu da noi ragionato,
entra benissimo la volont di dii nasce, secondo I' Ange- lico. Nella seconda
poi, cio nella sdrucciolevolezza della volont al male, mette la materia di quel
peccalo. Ed ora sapete voi come chiama s- I umiliasi) questa sdruc-
ciolevolezza della volont? concupiscenza appunto, con vostra pace. Ecco le
Parole che immediatamente a quello prime susseguono: Et sic, seeun lam
praemissa. ma- lilia se habel in peccalo originali ut / ormale , conce Pise
UNTI A autem ut mate- riale ( 2 ). Volete pi chiaro? Non si pu; ma egualmente
chiaro per quest' altro testo, Peccalwn
originale ex ea parte, qua inclinai in peccata adunila prAecipue peiit/net ad
polii NT at usi , ut dictum est \ sed ex ea parte ; qua traliicitur in proietti
pertinet propinque ad poleniias praedictas , ad folvnt atesi autesi remote (3).
Il guasto della volont c entra sempre, sia clic si consideri I" inclina-
zione al peccare, sia che si consideri (in anco la traduzione del peccalo clic
si la per generazione, centra, o prossimamente, o riumtamenle almeno. N rucn
chiaro s. Tommaso parla a chi lo legge in quell'altro luogo ove dice che in
malis, inferior pars animae priucipalior invenilur quae uiinuuilat et traiiit rationem Propter hoc peccatum originale inagis dicilur
esse concupisceutia quatti ignorati- tia (4), cio il peccalo originale si dice
essere pi tosto concupiscenza, che igno- ranza, perch la concupisceuzu non il mero isliuto animale in s considerato,
ma quello consideralo in relazione alla
parte supcriore dell uomo , quae obnubilai et tra/iil rationem. LXXIX. Ma qui
il signor Eusebio propone una difficolt che ha piti apparenza di vero deUullre
tulle precedenti, e confesso die se io avessi preveduto la eavillazio- ne elio
egli seppe trovare sopra alcune parole mie, ini sarei spiegalo diversamente.
Dopo aver io detto che la coucup.iscenza
l'istinto animale, aggiuntavi la debolezza e la mala piega delia volont,
cosi mi continuai : i Altramente l'Apostolo non avrebbe potuto dire con
propriet , che iuabilava a in lui il peccato; perocch il solo istiuto animale,
rimossa da lui ogni relazione colla
volont, siccome sta nelle bestie, che di volont sono prive, non pu riceva- re nome di peccato; sebbene egli sia guasto e
morboso, e gli si dia acconciamente a il nome di male o di disordine ; tuttavia
non gli si dar quello di peccato o d im- c moralit , che involge sempre una
relazione colla potenza intellettiva di volere. E a indi viene anche in
giustezza dell' espressione di san Giovanni, che nomina la vo- lont della carne ; la quale non ad intendersi puramente dell' istiuto
carnale, ma s della volont cedevole a
quell istinto ; come la volont dell uomo, pur nominata (i). Or qui il sig. Eusebio prontamente mi
rimbecca di aver detto il contrario appunto ap- punto del Concilio di Trento,
il quale dichiara Ecclesiam cat/iolicam numqnam in - tel/exse ( concup'scenlinm
) pccatum appellari , quod pere et proprie pec- cate ti sit (?) ; di me poi
cotichiudpndo : E non lo atterriscono
gli anatemi dal Concilio quivi medesimo
fulminati (3j? mostrando cos ignorare,
che gli anatemi non possono atterrir coloro, che non hanno intenzione alcuna d'
incontrarli. Rispondo adunque primieramente richiamandolo alla regola di logica
e di equit dal romano diritto posta all'interprctazion delle leggi, Aon
oportere ( scriptum vel d cium ) calumniari , nerjue verbo ejus captare ,
sedQUA mente quid diceretor animadverlere ( 4 ) : la qual regola, se egli mestier che si osservi , nell' interpretare
le leggi, scritte con tale perspicuit con qual sapenno i romani legislatori;
troppo pi egli uopo e dovere, che agli
scritti privati si applichi, le cui parole non hanno uf- ficio n forza di
pubblica legge. Trattiam prima della questione delle cose, e poi di quella
delle parole. Pretende dunque il signor Eusebio che quando il Concilio di
Trento, parlando della concupiscenza di cui parla s. Paolo, dichiara: la Chiesa
cattolica numquam intcllejcisic pcccatum appellali quod vere et proprie
pccratnm sit , parlasse di quel peccalo di cui parlavo io dicendo che
l'Apostolo disse con propriet che inabitava in lui il [leccalo? Egli ben facile di vederlo se sin rosi ; perocch il
Concilio di Trento ha parlato chiaro. Di qual peccato intese parlare il
Concilio ? Lo ha espressamente defi- nito questo peccato a fine ai togliere
tulli gli equivoci dicendo : quod siors est ani- mar (5). Ed avrebbegli il
signor Eusebio fronte da sostenere, che io col dire che 1 Apostolo ha parlato
con propriet quando afferm che inabitava in lui il peccato, intendessi per
peccato quello che morte dell'anima, di
maniera che credessi >ho l' anima dell' apostolo Paolo fosse morta della
morte del peccato ? Se non ha egli fron- te di sostener tutto questo,
vergognisi adunque di venir intimando si male a proposi- to gli anatemi del 'I
ridentino ; i quali non si possono incorrere se non da chi preten- desse la
concupiscenza essere un vero e proprio peccato di quelli che all anime dan- no
morte. LXXX. Che se anche a questo arrivasse, a confonderlo potrei io addurre
via meglio di cento luoghi del solo Trattato delta coscienza, dov'io dichiaro
espressamen- te il contrario : potrei dirgli, continuale un (ratto la lettura l
appunto dove 1 avete lasciala, perocch
immediatamente dopo le parole da voi censorale, seguita la spiega- zione di
esse da voi taciuta, lun o laltro, o da bel minchione, o da tristo; scegliete.
Conciossiach le parole che seguitano a quelle da voi addotte son proprio
queste: La- onde l'Apostolo, favellando di s dopo
giustificato, e dicendo che ) Un volont inclinata, non una volont che consente nel peccato, come
mimputa quell ira bugiarda ond Eusebio prende In sue ispirazioni. (7) Tratl .
delta Coscienza, f. 39, 4*1' In questa
stessa faccia si leg"- ancora elio i mo- ti della concupiscenza non sono
im/.nlahiti perch non liberi ; sempre posio clic non vi si ag- giunga il
consenso. E nella faccia seguente cosi di nuovo sia Berillo : , laltro nominava ( la volont della carne a ;
eziandiochc in que- ste loro espressioni si riconosca avervi del traslalo.
LXXXII. Ma nell altro senso della parola propriet pn egli dirsi che s. Pao- lo
parlasse con propriet quand egli chiam la concupiscenza peccato in lui inabi-
tante ? Rispondo di si, e lo dimostra il vario uso delle parole ne* vari tempi.
Perocch avviene che quelle parole che da prima significavano propriamente una
cosa, in un secondo tempo vengano applicate a significarne un allrn per
traslalo, e in un ferzo tempo perdendo affatto o quasi affatto 1 antico
significato, rimangono nell'uso come proprie di questa seconda cosa, che prima
signiiicavano per traslato. E cosi la pa- rola peccalo era in origine propria
usata nel senso di qualsivoglia difello anche nascente nella materia inanimata,
come poniamo nn bozzacchione , che sarebbe un peccato del susino. Ma pi tardi
fa ristretto il significato ai mali morali , ed ancora pi, a que soli mali
morali che guastano la volont personale dell uomo, c che per- ci sono morte
dell anima, talor anche a soli peccali attuali commessi dalla persona di libero
arbitrio fornita. . E 2 uasi in ogni faccia delle seguenti si ripeto lo stesso
sentimento, citandovi anco lo precise parete eli Apostolo che ni hit
damnationis ut in iis ywae sunt in Chritta Jesu, come alla face. 87. (1) Scss.
V , Dece, de pece, or ir/. (2) Trutt. della Coscienza , face. 45, (3) S. Aug.
Hctroot., Li. I. igitized by Google 118 In lulli questi sensi la parola peccato
fu adoperala con propriet ne vari (em- pi, come si potrebbe dimostrar
facilmente facendo la storia di essa parola. Riprendia- mo tutti e quattro gli
accennati significali. I Sant Agostino, che dieue del peccato varie definizioni
( il nostro Eusebio non mostra di super che la sua ) secondo i quattro
significati che abbiamo distinti, ha fra le altre questa ancora : Peccatum est
trasgressi a legis (t). Qui il peccato \ i
definito secondo il primo ed originale significalo: Quae de finii io,
dice il Bellarmi- no, generalissima est, et conventi in peccata omnia non
snluin morum sed etiam naturae et artis ( 2 ). Onesto significalo della parola
peccalo, che fu proprio in ori- gine, quasi intieramente pass, restringendosi
essa ad esprimere de' mancamenti o di- fetti morali ; e a manca menti e difetti
morali si riferiscono appunto gli altri tre signi- ficati. 2 . * Il secondo
significalo, e il primo de morali , si
qnello in cui 1 adopera 6. Paolo a significare il fomite della
concupiscenza sussistente anco ne rigenerati ; il peccalo in questo senso
non morte dell'anima, ma tuttavia un male appartenente allordine
morale; e questo significato proprio
considerato in relazione al prece- dente, nel quale la parola peccalo significa
ambe un difetto delle natura e dellarte. Ed
appunto iu questo senso che io dissi clic s. Paole chiama la
concupiscenza pec- calo con propriet, consistendo la propriet del parlare
dellApostolo in questo, che egli usa quella parola non gi a significare nn
mancamento 0 vizio di qualche cosa inanimala, o di qualche essere privo
dintelligenza ; ma bens di un essere intelligente e morale quale si l'uomo, e un mancamento che appartiene
allordine morale. Il signor Eusebio mi negher qui forse che la concupiscenza
sia un male spettante al- lordine morale? Quando mel niegtii riuscendogli nuova
tal cosa, io gliel prover chiaramente: ma mi lasci ora procedere. 3. Il terzo significato, e il secondo de
morali, quello che si definisce e carat-
terizza ultimamente per t morte dellanima , quod est mors animar , e questo ab-
braccia il [leccato originale e l attuale. Vero , che secondo 1 uso presente
della pa- rola peccato, ella riesce pi propria adoperata in questo terzo
significato, che non aia ne' due precedenti ; c perci il Concilio di Trento
giustamente dice che la concu- piscenza ne rinati non si chiama peccato quod
proprie et vere peccatum sii , appun- to perche, secondo 1 uso, chiamasi or
peccato propriauieule quello che morte
alel- I' anima. 4." Il quarto significalo, e il terzo de' morali, quello della definizione che por- la Eusebio
di santAgostino, come fosse Tunica di questo santo Padre, non esse pec- catimi
misi prarutn libere volunlatis assensum. cum inclinamur ad ea quae justi- tia
velai et linde liberum est abstinere, la quale saulAgoslino stesso dichiara nel
primo libro delle Ritrattazioni non abbracciare il peccato d origine, ma esser
sola nien- te vera applicata a quel peccalo che
sol peccalo, e non ancora pena del peccato come si pur l originale, propterea vera est quia id
definitimi est quod tantum modo peccatum est, non quod est etiam poena peccali.
Questa definizione non espri- me adunque che il peccato attuale in ispccie, non
il peccato in genere come quella del Concilio di Trento, e il pretendere che
non vi sia che questa specie di peccati, che cosa egli altro se non un negare il peccato
originale? E tuttavia l'uso dimostra che anche in quest'ultimo significato si
adopera la voce peccalo con propriet altret- tanto, se non pi ancora che nel
precedente (3). fi) De contenni Evangclitl. , L. 11, c. IV. (a) De tlalu
peccati, L. 1, c. I. (3) Nell definizioni! del peccalo di sant' Agostino, clic
dice Factum rei tticlum vel eoncu- pitum cantra legati actcrnam Dei ( Lib. Il
canlr. Fatiti., c. XXVII ), qualelie teologo diman- da perch il sauto Uotlonr
non facesse intervenire la vuluut. A cui ltosia risponde _ c uni ititi
Digitized by Google 119 Nella propriet dello parole ai possono duflqtie
distinguere diversi gradi, c in diversi significati possono le parole stesse
propriamente adoperarsi. Ora non vha nessun dubbio che, presa ne' due ultimi
significati, riesca pi propria la parola pec- cato che ne precedenti ; ma non v
ha dubbio ancora, che nel secondo significato, col quale s' indica pare un vero
male morale, sia adoperata con propriet relativa se non assoluta; cio a dire in
paragone col primo significato; sicch il dire con s. Pao- lo alla concupiscenza
peccalo, pi proprio che il dirlo al
nascer gnerclo, o zoppo, o rattratto della persona. Ed ecco in qual senso io
dicevo aver l'Apostolo parlato con propriet, e lutto il contesto del mio dire
chiarissimo lo dimostra. Volevo io dire: c non doversi credere che s. Paolo
avesse chiamato peccato un dirotto o guasto materiale del corpo,* il che
Sarebbe stato impropriet, ma egli os la parola peccalo a significare la
concupiscen- za, perch quest un male che
appartiene allo spirito, alla volont, allordine in una parola delle cose morali
. E tuttavia se il signor Eusebio si fosse accontentato di dirmi: ( Fratei mio,
il vostro sentimento chiarissimo ;
tuttavia potrebbe parere a chicchessia di trovare nelle vostre espressioni una
colale opposizione a quelle del Tri- dentino : # Vi ringrazio, io gli avrei
riposto, ella stata nna mia inavvertenza
non averlo preveduto, ed emender la frase o la dichiarer pi ampiamente in un
altra edizione del mio libro . Or, quantunque egli non mi abbia parlato n
ragionevol- mente n amicamente, tuttavia le sopraddette parole io ben voglio
avergli dette, e gliele-dico ora, e gliele confermo. LXXXIIi. Per altro ben
veggo eh egli, in vece dandar pago dell accettar che io fo in questo la sua
osservazione, egli mi guarda tuttavia bieco, per aver io afier- mato la
concupiscenza esser pure un male morale , bench non un peccato nel senso del
Tridentino. Perocch, secondo lui, non
che una naturale tendenza , nna naturale condizione deil'umana natura ,
(fi cui luomo provveduto tanto per- fellamente, quanto sarebbe se fosse stato
creato nello stato di pura natnra, n pi
n mono (i); di che avviene, come
abbiamo osservato pi sopra, che, essendo Iddio l'autore della natura e di tutte
le tendenze insite in essa, anche la concupiscen- za sia I opera di Dio stesso,
e per buona: Vidil cuncta quae fecerat, et erant cal- de bona. A spegnere tant
ardore d Eusebio tutto in favore della concupiscenza, ver- siain ancor
dcll'acque di scienza attinie dal gran padre snnt'Agostino ; e mostriamo come
il santo Dottore ( nella cui bocca pu realmente dirsi che parli in questo punto
la Chiesa ) concepisca la concupiscenza per un male nell ordine morale. Hoc
ergo concupiscentia carote, egli dice, nunguam concupiscitur bominis uflnm
bonum, si VOl.UNTAS CARNI 3 ( 2 ) 071 CSt itomillis bonittl , ac per hoc MALA
EST CONCUPI- SCENTI A, itisi ab tllicila voluptate fraenetur (3). Male si dice
qui espressamente es- sanctum Augusti num abstinuisse in defini tione a
mentione voi uni arii , ut comprehent/eret quo- que pecratum materiale , quod
nullum exigit voluntarium ( De perenti in genere, Disserl. I, c. I). Non piace
per a me una tale risposta, Perocch, non potendosi operare contro la legge
eterna se non colla volont, parali che questa vi sia gi compresa. (1) R. A(T.,
f. 34. Non mi posso tenere di rivolger
di nuovo al nostro Eusebio le pa- role di saalAgostino a Giuliano: Ecce adhuc
diris c concupisccntiaiu naturalcm , ecce adhuc quantwn potes , susceptam tuam
, ne possit quae sii inlelligt\ contegis ambigua veste verborum . Isto autern nomine ulens, et appellane eam t
concupisccntiam naturai em, inter rjus opera c locare , conaris , qui ut dics.
et rerum ri/, mundum fcct et corpora :
cum dicat eam Johannes a Patre non esse. Deus quidbm mundum fecit et cofipoua
prohsus omnia: sed ut con* PUS CORRUPTIDILE AOGRAVET ANIMAM, ET CARO CONCUPISCA
r ADVERSU* SPIIUTUM, NON EST PRAECEDENS natura hominis iflSTirOTl , sed
consequen* POEMA damnati. ( Opcr. Iinperf. corilra Ju!., L. IV, c. LXVII). Si
possono desiderar parole pi chiare di queste a significare che la concupiscenza
non appartiene allordine naturale delluomo, chella non una condizione della pura natura, ma una
corruzione di essa? (2) Osservi qui nuovamente il sig. Eusebio come nella
concupiscenza entri la relazione col- la volont. (3) S. Aug. contr. Jul.. L.
IV, c. XVI. Digitized by Google 120 sere la concupiscenza , a cui per vuoisi
far resistenza, itisi ab illcita voluptatc fraenetur. E mostra sani Agostino
come ella sola la concupiscenza sia e sar mala fin che nell' nomo si conserver
e non si torr via colla distruzione del corpo. Sunt ergo in nobis , dice in un
altro luogo lo stesso Padre, desiderio mala , quibus non consentiendo non
vivimus male : sunt in nobis concupiscentiae peccatomi n, (juihut non obediendo
non perficimus malum, sed eas n arendo, nondvm per- eictmcs no xu m ( i ). E
quest' appunto la dottrina dell' apostolo Paolo e la ragion vera per la quale
egli diede alla concupiscenza la denominazion di peccato, con quel- la propriet
che di sopra dichiarai, e non con quella che il Signor Eusebio ni' attri-
buisce, in quanto cio trattasi di un mal morale: dottrina che seguila a
spiegare egre- giamente santAgosliuo cos: L'irunqite ostcndit Apostolo, nec
bonum lue perfici, ubi inalimi concupiscitur; nec malum lite per /lei. quando
tali concupiscentiae non obedilur. llud quippe oslendil ubi ait: l'elle adjaccl
mi/ti , perficere autem bo- num, non. Hoc vero ubi ait: Spirita ambulale , et
desiderio carnis ne perfeeeri- lis. Aeque enim ibi dici!, Aon sibi adjacere
faeere bonum : sed non perficere-. nc- que /tic dici t: Concupiscenlias carnis
ne habuerilis : sed ne perfecerilis ( 2 ). Laon- de conchiude: Fiunt itaque in
nobis concupiscentiae malae, quando id quod non licei , libel: sed non
perficiuntur, cimi, legi Dei mente serviente , libidine s continen- tur. F-l
bonum fit, quod id quod male libet, vincente bona delectationc , non fit: sed
boni perfeclio non implelttr, quandi)/, legi peccati carne serviente , libido
il- He, et quameis continealur, lumen movetur. Aon enim opus esse t ut
continere- tur, itisi moverelur ( 3 ). LXXXIV. E pure, replicher qui il signor
Enscbio, questa concupiscenza non pregiudica a battezzali. Distinguete, signor mio; non pregiudica, se
vi si oppon- gono; e se no, ella pregiudica. Sentile la condizione dalla bocca
dello stesso Concilio di Trento: A ocere non consentientibus, sed viriliter per
Coristi Jesu grati am repvgnan ti bvs, non valet (4). Si dee dnnque non
consentirle, ma ripu- gnare; dunque
moralmente cattiva. Perocch al
peccato che non si dee acconsentire, ni
peccato che si dee ripugnare. Questa pur
maniera di parlar comune. Ed or non v accorgete voi, che qui havvi pure qualche
propriet di parlare chiamando peccato la concupiscenza, bench ella da s sola
non sia peccato, quod vere et proprie pec- calttm sii, consistente nella morte
dell anima ? Piacciavi adunque distinguere cos: Ne battezzati la concupiscenza
si pu con- siderare r. da s sola; c come tale ella un male dellordine morale, all'uomo seb- bene
battezzato inerente, la quale perci chiamasi peccato dallApustolo, quia e.c
peccato est et ad peccatimi inclinai ; 2 . o in relazione coll' uso del libero
arbitrio dell uomo; c in (al caso se questo, aiutalo dalla grazia, la vince,
trae da quel male il bene del merito e la corona della riportata vittoria ,
avvenendo allora in lui clic qui legitime certaverit coronabitur, e che virtus
in infirmilQle perficitur ; se poi cede, acconsentendo alla concupiscenza
stessa ed alle sue opere, egli pecca , perch cede al (leccato, e il suo peccato
s imputa a colpa di lui, che nc tu vera causa. E tuttavia dice santAgostino,
elio anche in quelli che vincono la concupiscenza un male, perch impedisce loro la perfezione
del bene. Convien dnnque ricor- rere
anche qui alle due forme di bene e di mole morale di sopra da noi distinte,
lima che aderisce a noi senza I' opera della nostra libert, l altra che nasce
dall opera della libert nostra, e questa seconda il merito ed il demerito. La concupiscenza
impedisce che sia perfetta in noi quella prima forma di santit che ci santiiica
col .(1) De continenlia, C. Viti. (2) Iti. (3) Ii. (4) Srsi. V. Decr. ite pece.
orig. Digitized by Google 121 solo aderire alle anime nostre ; ma ne rigenerati
ella non impedisce il inerito, anzi presta ad esso bella occasione , n
impedisce gli eliciti del merito, i tpiali sono an- niento di grazia, e
affinamento di virt e- sempiterna mercede. Ond' clic ipieslii ( il merito ) va
vincendo ogni d pi ne giusti il male di quella ( la concupiscenza ) e
indebolendone le forze fino che, deposta la carne corruttibile che n il principio, sia tolto ogni impedimento alla
perfezione del bene; e ricuperata una carne incorrut- tibile nella
risurrezione, che anche rigenerazione
delta acconciamente da Cristo, in tutto luomo trionfi Cristo, lutto
l'uomo sia rinnovellato ; riportato il fruito compilo della sua redenzione:
F.rit quandoque eliam perfectio boni , per continuarmi sempre con santAgostino,
quando erit consumplin mah: illud erit summum, hoc crii uul- lum. Quod si in
isla morlalitate spcrandutn pulamu s, fa/timur (i). Fallimur , di- ce il.
santo, perch qui dobbiam pugnare con quel vizio che ci rimane anche dopo il
battesimo, bench ogni reato di esso sia tolto, et cujtis mali realu jam eliam
sotti- tus per indti/genliam, ne (itene existimel esse quod fedi , ad/iuc cusi
svo vitio pugnai per continenliam ( 2 ). Ma quel vizio poi tolto del tutto nella vita avvenire, e iu
questa stessa va miouendosi, perocch Atnil
ut sint ella vitia in illa quae futura est pace regnantibus:
quandoquidem in isto bello quolidte minuunlur in proficienlibus , non peccata
solum, sed ipsae quoque concupiscentiae , cimi qui- bus non consenliendo
conjligitur, et qtiibus consentendo peccatur (3). E per in quella pace beata,
in cui regnando i giusti si trovano, sar pienissimamente retta la lor volont appunto
perch le cesser anche l' inclinazione che per natura e per ne- cessit,
ripugnando e dolendosi il libero arbitrio, verso il male ella tiene quaggi :
quibus duobus ma/is gene ribus omnino pereunlibus, quorum est unum praeceden-
tis iniquilalis, aherum consequenlis infelicilatis , erit uomikis siete olla
pra- vitati:, volo nt as recta ( 4 ). LXXXV. Laonde che la volont resti al male
inclinala anche ne' battezzali non c ano
ereticale svarione s (5), come lo chiama il sig. Eusebio Cristiano, ed pi to- sto un ereticale svarione raffermare
il contrario. Perocch non solo sant'Agostino dico che la concupiscenza inclina
al male anche la volont de* battezzali, bench, combat- tuta loro non noccia, ma
lo stesso Concilio 'di Trento lha espressamente definito col appunto dove dice
che ne' rinati rimane il fomite che ad peccatvm incuti at: alla qual decisione
risponde a pieno il senso di quelle mie parole che Eusebio condanna siccome
eretiche, e che riferisce alterate al suo solito (6), le quali restituite alla
loro in- tegrit, sono queste : Rimane (
ne giustificati ) la volont naturale inclinala al male ( concupiscenza ) ; ma ella non oggimai pi cagione alluomo di dannazione 1 ;
u queste altre: In tale stato esister il
peccato, ma oggimai senza dannazione, cio (ec- co la spiegazione che esclude Gn
I' ombra di quel peccato, quod est rnors animae ) cio esister una inclinazione al male della
vulunta naturale, ma questo non danne- c r pi luomo . Ma il signor Eusebio s
attacca a quelfocciMAi, e cosi argomenta: Se ne battezzati oggimai la
concupiscenza non pi cagione all uomo di
dannazio- ne ; dunque ella cagione ne
non battezzati. Ma la concupiscenza non
cosa libera nell'uomo, ma necessaria. Dunque voi incorrete nella
proposizioue condannata m (t) De ContinenUa. C. Viti, (4) ivi. (5) R. Aff. XI, f. 45. Leggasi la noia ( u u ) in relazione alle
parole del lesto che co- minciano. ( Si porga mente ad un altro non meno
ereticale svarione ecc. i. Nella questione seguente risponder pi ampiamente
alle maligne c false imputazioni contenute nell Alfe bina- zione XI. (6) Si
confrontino queste parole anali sono riferite da Eusebio face. 43. del suo
Librilo , c quali sono nel mio Trattato della Coscienza f* 58 c jt, e leggasi
sopra tutto il couleslo. Rosmini Vol. XII.
ili Digitized by Google 122 Michele Bajo: Homo peccai elnm damnabiliter
in co r/tiod necessario facit (i). Non
magnifica questa argomentazione (>.) ? Peccato che egli non abbia
ioteso la forza di qoell in renatis nel decreto del Concilio di Trento, che
risponde a capei- 10 al mio oggimai. Itane cnncupiscenlam , dice il
Concilio Sanila Synodtts de- clorai ,
F.cclesiam calholicam nani/ nani intcllcxisse peccatum appellar i, r/uod ve-,
re et proprie in rf.natis peccalum sii. Ne rinati, dice il Concilio di Trento,
og- gimai la concupiscenza non si chiama pi peccalo, quel (leccalo che veramente e propriamente tale, cio che d la
morte e la dannazione allanima. Povero siero Con- cilio di Trento, che siete
venuto alle mani di Etisrbio mio, il quale colla sua logica are-finissima vi
convince di essere gi incorso in uria proposizione dannala in Bajo I Esse non
sono baje da vero; perocch, avendo voi detto che la concupiscenza non quel peccalo vero che d morte all'anima ne'
rinati-, dunque ne non rinati, secondo voi, la concupiscenza quel peccato vero che uccide 1 anima. Ma la
concupiscenza non gi nell'uomo libera.
Dunque voi aficrmnte ci appunto che Baio afferma, cio che Homo peccai etiam
damnabiliter in eo quod necessario facit. Scioglietevi o sa- crosanto Concilio,
da lai legami, in cui il terribilissimo Eusebio meco vi siringe, se voi potete
(3)1 (1) Si noti ebo lerrore in questa proposizione sta tutto nella parola
damnabililer , o per questo fu giustamente condannala. (2) Il sentimento da me
espresso, che la concupiscenza e i
disordini da lei necessaria- C mente e non liberamente derivanti sieno effetti
cd atti dell* originai peccalo, e in questo, co- c me in loro causa, si possoa
ridurre , mi valsero dal sig. Eusebio due censure fra lor con- trarie. Qui vuol
applicarmi la sentenza condannata di Bojo, Homo peccai etign i damnabiliter m
eo quad necessario facit , e vuole che io mandi tutti all inferno per queste
opere inevitabili della concupiscenza. Alcune faccie prima del suo libello mi
dava la taccia opposta, intraveder do in quel mio sentimento l'errore chio
volessi salvar tutti, anche quelli che commettevano peccati attuali e liberi,
col pretesto del peccato d* origine. Non si cbiarna questo avere le luci acute
! 11 trovare i due errori opposti nel sentimento medesimo d* un autore I E
odasi con quanta pene- trazione rinvenga errori si contrari. Alla face. 19 dico
cosi: Quando il sig. Rosmini fa con- c
sisterc l essenza del peccalo originale anche in molti disordini morali che nascono
in questa c vita t ( grazie sig. Eusebio, de* bei regali che continuamente mi
fate ! dove avete trovalo mai eh* io faccia consistere l 'essenza del peccato
originale in quei disordini eh io anzi chiamo effetti ed atti di esso? perch
andarvi pascendo nelle maligne tenebre del vostro cuore di tali bugiarda
Bciempiaggini ? ma andiam pure avanti ) c Quando il sig. Rosmini fa consistere
l* essenza del (2), rendo oscuro il mio
dire avvolgendolo quasi in frasche 1, e con un certo mio contorto fraseg- giare inganno
altrui Gno a farmi creder ragionatore 1 ( 3 ). ' Et quid plora, fratres t Hoc
est peccatum naturar, fu od est Jumut acuti, quod feltri cor- pori, quod
dulctssimis fonhbut amara alttdo ( Serro. Ili }. reggasi di nuota come tutti
que- sti effetti del peccato dorgine si descrivono, quasi fossero il peccalo
stesso originale operante. Ma, per non esser infinito, bastera.nmi addurre
ancora la testimonianza di s. Bernardo, il quoto dice che I originai
peccato un veleno che ai diffonde per
tulle le eli della vita : W et atiler nihilo minuM in vniversam dilatatur
uetalem , ab ca ecilicet die , qua tua qucwque conciali, usque ad Cam , qua
communi s eum recipit maler. Alioquin linde grave jugum super omnes et tota
Jiiiot Adam, idquc a die exitue de ventre mairi* eorwn , usque in diem
aepuUurae in matrem omnium 1 In tordibus generamur , in tenebri canfovemur , in
doloribu parturimur leccatum ex uno in conderouationem : gralia autem ex mullis
delictis in juslificalionein. Et grave guider omnino delictum itlud originate,
quod non *oiurn personam infecit, ted et na- turai ( Feria IV hebdom. penosa de
Passione Dom. ). (1) Relract., L. Il, XII, - (2) R. Aff. Ili, t 15, (o). (3)
Ivi. Per dimostrare meglio quanto io
confonda le idee, e quanto egli ben le distin- gua, dice : c Talora confonder (
Rosmini ) I appetito animalesco dell uomo coll appetito in- , quasich la
coscienza non fatta possa dirsi coscienza, quando anzi, in contraddizion meco
stesso, io pur riprendo l' espres- sione di c coscienza dubbia > siccome
manchevole di propriet. La punta del vostro ingegno , signor Eusebio, dee esser
certo acutissima, perch voi, mirando, non vedete solo le cose mini- me, ma anco
quelle che sono del lutto invisibili, non esistendo. Enel vero, dove ho io mai
di- stinto la coscienza in quelle due specie che voi sognate, cio nella
coscienza fatta , c nella co- scienza non fatta f Quello che io distiosi furon
gli stati delf animo t cosi dicendo : i Qui si ( scorgoao adunque due stati
dell* animo nostro relativamente apa coscienza, il primo quello ( nel quale
lanimo ha la coscienza fatta , e il secondo quello nel quale I* animo non ha
ancora una coscienza fatta i ( Trattato
della Coscienza , f. 76 ). Non sono qui distinte due specie di coscienza, come,
travedendo , voi supponete , ma due stati delf animo, I* un dequali ha, e
l'altro non ha la coscienza. Quindi c che la Sezione prima fu da me intitolata
c Regole del. a c Coseieoza gi fatta s ; ma la Sezione seconda non ha gi per
titolo: c Regole della Co - c scienza non fatta j, ohe sarebbe un assurdo; ma
il suo titolo questo: c Regole. che dea
c seguir l'uomo elio non s* fatta ancora la coscienza > Vedetelo alla f. 153
del Trattata della Coscienza. Vide adunque il nostro Eusebio, colla punta del
suo ingegno mirando, quello che non vi ;
e cosi per provare con efficacia la mia confusione d' idee, mi prest la sua
pro- prio ! Quanto poi al nominare che
fo io stesso talora la coscienza dubbia, niuno sconcio no pu venire
dall'istante che io ho gi spiegato io che senso prendono i teologi quest'
espressione e concessi la usino per una cotal forma spedila di favellare ( f .
154 ). (1) Le parole in carattere rotondo sono proprie parole dell' eretico
Giuliano, il quale po- trebbe accusar di plagio II signor Eusebio. (2) Conir .
Jul. Pelng L. II, n. 11. Rosmini Voi. XII. 4t 2 130 fesa ritiene una mala piega, una trista
abitudine ; e recai a provarlo uno dei
molli bei passi che ha sant Agostino sulla gran forza della consuetudine (i).
Ma egli in queste parole vede un gravissimo errore fuor dal cannocchiale dello
sragionamelo che vi fa sopra : il quale si
questo : c Si noli, dice, che quest au- * toril di Agostino dal Kosmini
si arreca per dimostrare il falso assunto, che se- ti condo la dottrina
cattolica pu esser nelt uomo e vi uno
stato difettoso della t volont , che in s ha la nozione di peccalo c non quella
di colpa i . Premessa que- sta avvertenza, cosi egli argomenta : o Or affinch
questo passo provi alcun che al proposito, dovrebbe confermare, e che chi per
consuetudine inveterata non resiste alla passione ed ha mutalo il vizio, quasi dissi, in natura ; non abbia a stimarsi
reo di niuna colpa in quegli atti pes-
simi che eseguisce (?.). E qui
una lanlaferala di cotnunal teologia per volermi convincere che chi pecca per
consuetudine reo in causa, perch egli
divenne schia- vo della consuetudine per sua colpa. Ma da vero eh io con sapevo
trovarsi al roon- do un tanto gocciolone, il quale mi rinfacciasse eh' io non
riconosco la colpa in cau- sa di quella consuetudine, eh io stesso incomincio
dal descriver cosi: Talora la vo- Ionia soggiace alla necessit del male per
caciosi: di una colpa precedente
!!! Ma come duoque volete voi
dimostrare collesempio dei peccali che si fan- no per necessit della consuetudine,
che secondo la dottrina cattolica pu esser nel- I' uomo c vi uno stalo difettoso della volont, che in s ha
la nozione di peccato e non quella di colpa ?
Posto che voi credete, bench a torlo (3), che io questo dimostrar
volessi; leggete meglio la proposizione che, secondo voi, intendo io dimo-
strare. Non ci vedete dentro quella parolina in s?0 siete di nuovo tant'
accecato dalla sconcia passione, che non possiate por leggere quel che sta
scritto ? Che cosa in se, se non un
relativo w causa (4)? Col dire dunque che il peccalo del consue- tudinario,
quand necessitato dalla consuetudine, ha
in s la nozione di peccato, o non quella di colpa, si viene a dire che in causa
poi egli ha altres la nozione di colpa. Ma leggetelo egualmente, se non pi aperto,
alla faccia 86-87 del Trattato della Coscienza, e poi venite dicendo abulcns
tardiusculis cordibus hominum , ch'io vengo a scusar da colpa in causa que
peccati che procedon da mala abitudine. Vui troverete, e dovreste aver pure
trovato (5) in quelle faccie scritto cosi : 1 Rispondo, i che la volont di sua
natura non necessitata a voler il male,
se non da qualche u avrebbero avuto altri peccali, s'egli non fosse venuto, e
fra questi l'originale; ma perche non avrebbero avuto quel peccato che tutti
gli ab- braccia, tutti gli altri aggrava, e li rende tanto piu colpevoli,
quanto pi liberi e ad occhi aperti da lor voluti. IIoc est pcceatwn de quo
itidem dicit: Si non venissem pcrcalum non habcrcnt. tiumquitl cnim alia
innumcrabilia peccata non habebant? Sed adventu cjns hoc unum peccatala
accessit non credcntious , quo caetcra tcncren- tur. hi crcdcnlibus antan quia
hoc unum defiliti factum est ut cuncta dimiltcrcntur credentibus. Acque ob aliati aposlolus
Paulus. Omncs, inquit, pcccavcrunt et egent gloria Dei, ut qui creditlcrunt in
eum non confundantur (3). Resta
a vedere, dico sant Agostino, se quelli che furono uvanti Cristo, c non udirono
il suo sermone, po- tevano avere scusa de lor peccati, avendo soggiunto Cristo:
A'unc aulem excusatio- nem non Jiabcnl de peccato suo. Risponde il Santo: Scusa
si, ma scampo no: scusa potevano avere i gentili del non aver saputo, del non
aver avuto formolala la legge della salute e del ben fare; ma scampo non
potevano avere, perch il peccato origi naie e gli altri attuali senza la fede
in Cristo e la volont di osservare i suoi mandali non si rimettono- He fiat
inquircre , utrum hi qui prius qitam Christus venirci in Eccle- siali i ad
gente s , et priusqutun Evangclium cjus audii crii, vitae hujus fine piace enti
sunt seti firacvcniiuilur, possimi habcrc Itane excusalionem ? Possunt piane,
sed non ideo possunt rjf 'ugcre datnnalioncm. Quicumque cnim sinc lege
pcccavcrunt, sinc lc- g c peribunt: et quicumque in lege pecca veruni, per
legem justjjicabunlur. (4) La scusa (1) Io E, ire. Jo. semi. LX. (2) Ivi. (3;
Ivi. S. Tommaso riconosco talmente il
debito che hanno gli uomini di approfittarsi della salute del Salvatore per
mondarsi dell* originai peccalo , ebe dichiara lino impossibile che il porcaio'
originale si alia negli adulti con soli peccati ventili ; perocch, egli dice, c
gi un porcaio mortole il noo ordinar s slesso al debito line toslocb l* uom
tocchi gli anni di lla di- screzione . ntlenendo cosi per la grazia la
remissione del peccalo d origine ( Vedi la Somma 1. Il, LXXXlX, vi ). (4) In
Jo. Traci. LXXXlX. Non venga qui il
signor Eusebio a straziare sanlAgoslino, c a dirgli i non crediamo si possa
addurre n un testo n un esempio solo di persona adulta, elio senza aver commesso grave colpa attuale
, pel solo originale peccalo sia perita Ira' re- c probi > ( R. AfT. Vili,
f. 32 ) ; ovvero a morderlo perch mandi in dannazione, it qui prius quarti
Christus venir et in Ecelesiam ad gente* ,
vita e hujus Jiae pra eventi sunt seu prat vmiuntnr , c quasi olle manchi allatto ogni
aiuto attuale di grazia di Dio ai non battezzali : , come afferma il signor
Euse- bio ( 2 ). Quando poi alla legge Jbrmolata , a troppo giusta ragione
scoss ella i'indigna- zion d' Eusebio, il quale ad ogni cosa clic non intenda,
s irrita, come d' un offesa che gli sia fatta. Ma checch possa avere scritto
sant Agostino c gli altri padri, Eusebio continua senz atterrirsi
dicendoci; Eccone la legittima
iriterpretazioue, secondo i Padri c il contesto 1 (3); e mette fuori la sua.
(Non voglio esamioare se l' interpretazione d' Eu- sebio sia tanto contraria a
quella che io abbracciai, com egli si crede per ignoranza, o fa le viste di
credere per malizia; diro bens che un affermare cosi reciso, da far credere che
una sola interpretaziune vi sin di quel passo, condannando d'un tratto solo
tutti i padri, e saeri interpreti che altramente lo spiegano, non da uomo assennato e delle Scritture
intendente ; ma da teslicciuola (parlo dun uomo che non si conosce, e per non
in danno d'alcuno, e a vantaggio solo del vero ) quanto piccola e ineru- dita,
dura altrettanto. XCI. Ni. (4) II. AIT.
XIII, f. 49. (5) Ivi. Il signor Eusebio
, che mostr di supero si ben ricamare il suo libello teolo- gico di sottccismi
e di barbarismi non poobi , crede clic ricadere noa abbia altro significalo
Della lingua nostra, che quel di cader di nuovo ; quando anzi ha pur quello di
cadere templi- cernente , e 1 esprime con pi di forza. Laonde muno trover che
il aiscorso eh* egli afierma essersi da me messo io bocca al Signor nostro, sia
quale egli lo si compose. Conciossiacli lo parole mie non sono altre che questo
da fui mozzate, che intere io riporter,
acciocch giu- dichi il buon senso d chicchessia, se contengono quel eh* egli
lice : Digitized by Google 134 capo ; ma non essendo lor tolte, ansi aggravate,
danno loro pi forte in sul capo : ci che esprime la maniera ricadere in capo >, se pur sapete italiano
un po pi che latino (i). i avuto il peccalo originale e le sue ), srd et sancii/cnlio, et renoi'atio
interioris uomi- ni s per volunlariam suseeptionem gratiae et donorum , un de
homo e.v injuslo fil just us, et ex inimico amicus, ut sii haeres secun /uni
spem ditte aelernae (3) ; o di questa giustificazione e rinnovazione unica
formalis causa est juslitia Dei, non qua ipse justus est, sed qua tios justos
facil ; quia vide licei ab eo donali, reno- vamur spiri tu mentis nostrae. et
non modo repulamur , sed vere gusti no- minamur et sninus, justitiam in nobis
recipientes , unusquisque suam, secundum mensuram, quam Spirilus sanctus
parlitur singulis pr ut tuli et secundum pr- priam eujusque dispositionem et
cooperationem (4). E di questa rinnovazione deli uomo interiore di cui parla il
Tridentino, che si fa spiritu mentis nostrae, io ragionai quel tanto che mi
bisognava nel Trattalo delia Coscienza ; c di quel che ne dissi, uno sdegno si
sconvenevole ne prose Euse- bio, che gli dett I ultima parte del suo libello,
dove in contumelie contro di me. ed in errori suoi propri vince s stesso. I
quali errori dovendo io dimostrare, giover che prima brevemente esponga la
dottrina intorno alla rinnovazione dell' uomo interio- re che si fa nel santo
battesimo, qual Tu da me esposta nel Trattalo della Coscienza. C1I. Avendo
definito il Concilio di Trento che il peccalo originale con cui na- sciamo, est
unieuique proprium (5), egli chiaro che
quantunque sia un peccalo (1) Obesset ista carni i concupiscenlia eliam
tantummndo quod inesset , aiti peccnlorum rtmissio sic prodesset, ut quae inest
et nato et renato , noto quidem et inesse et obesee . renaio aulem massa quidem
, sed non osisss possi! ( De peccato o riviri, conira leia e. et Coelel., c.
XXXVIII). (2) S. III. Sappi., XCIII, ni, ad 3. (3; VI., De iushf., c. VII. (i)
Scss. VI, c. VII. (S) Non sar inutile ribadir qui uni verit s importante, elle
net sistema d' Fesebio detta itOSMINI Vol XII. 411 .Digitized by Google 146
della natura umana perch con qnesla insieme si propapa, tnllavia la persona
slessa che Io riceve ne resta affetta. E per insegna s. Tommaso colla solila
sua sapienza, che se nel peccato attuale di Adamo la persona fu quella che infett
la natura, nel- 1 originale la natura che si propaga ne' posteri, quella che infetta la persona: Et ideo
dicilur tjttod tu prore. un originali i percoli, persona ( Adam ) inferii natu-
rami sed pottmodwn in al/is natura vitiata tnfecit persona ( i ), dum sci/icet
genito imputatur ad culpam naturac nitium propter vo /unta lem (liberato) primi
parenti s ( 2 ). La dultrina adunque dell originai peccato non pn chiarirsi, se
non si cerca di ben determinare i due concetti di natura e di persona ; e
questi due concetti io svol- si a lungo nell Antropologia , a cui nel Trattalo
della Coscienza feci allusione, supponendoli noti, e rimandando col a vederne
la spiegazione que lettori che uaves- ser bisogno. Sgraziatamente il nostro
Eusebio uon credette d averne quel gran biso- gno che pur ne avea ; e quindi
nulla, nulla affatto pot raccapezzare iti quant io dissi in su tale argomento
nel Trattato della Coscienza : n se ne tacque perci, anzi ne parl, appunto per
questo, con maggior sicurezza e indiscrezione. CUI. Avevo io dunque mostrato,
che il principio attivo che trovasi in nn esse- re intelligente quandegli tale che non ne abbia alcun altro di
superiore, di guisa che esso si possa chiamar Supremo, costituisce la base
della persona: onde questa fu cos da me definita : La persona
un soggetto intellettivo in quanto contiene un principio' attivo supremo (3). Gli altri principi e potenze adunque
dell'uomo, che non sono supreme, appartengono per s alla natura umana ; alla
persona poi non 'spettano se non in quanto a questa, che il principio attivo supremo, stieno effetti-
vamente subordinate e da esso sieno mosse e governate. Ui qui discende, che ci
che veramente peccato ( guod mors est
animae ) non pu risedere che nella persona ; ond io nelle diverse mie opere
ragionando di tali cose partii sempre dalla seguente definizione del peccato,
in senso vero e proprio: Il peccato una declinazione della volnta personale dalla
legge eterna ; decli- nazione che pu
essere attuale o abituale. Per volont personale poi io intesi lo stesso natura
sana riman perduta, con alcuni argomenti che deduce a confermarla il celebre
Estio dalla Scrittura, dal Concilio di Trento, e da* santi Padri. 1. argomento : Scripturae enim ipsis nascenti
bus peccatum , iniquitatem , immundiiiam trbuunt velai inuaercntcm ob quam
iidem ipsi merita cu/pentur et a fat'ie Dei projieiantur. 2. argomento : Cam ergo inler Catholicos contici
, hit qui in Chnsto regenerant ur , t/i- ternam inhaerere jusiitiam singulti
propriam , quemadmodum Sess. VI , can. VII , et can. X et XI, Concilii Tnd. de
finii uni est constare elioni debel iis qui nascuntur ex Adam propriam kt
interna* iNJi'STiri am incs$e. Qio argumenlo ulilur Augustinus Lib. I. De
I*eccatorum me- ritisi cap. IX et X, docens ex eo quoti Chhstus dal JUehbus
occullissimam sui Spiritus gra - ti am , quarti latenter infurili et porvu/is ,
etiam Adam occulta tabe carnalis concupisce n tiae, tabificasse in se omnes de
sua stirpe venientes . 3. argomento :
Posterius ( argumenlum ) ex ejusdem Sgn. Trid. Sess. V, can. V, ubi dicilur in
renahs Deum nihil odsse. Ex quo evidenler colligitur nondum renatis inesse
ali quid quod oderit Deus. Atque haec
Condili senlentia evertit J'undamentum eorum, qui parvulo negant peccatimi esse
inter num. Jjunt enim nihil inesse parvulo , ni si quod in co Deus rondi- dii .
quod verum esse non palesi , si in parvulo juxia Palrum sentenliam alu/uid
oderit Deus , cum Scriplura teste ( Sap . XI) Deus nihil oderit corurn quae
ferii. Et sane idem sui erroris fundamentum slamerai olim Pelagtus et
dtscipulus ejus Coelestius , ut potei ex Augustmo. Lib. De Peccato originali ,
cap. VI et XIII. Suo hoc errore, quemadmodum ibidem Acgu- STIISUS DOCET PLANE
EVERTIT UR FIDES CATDOLICA DE PECCATO ORIGINALI (lo l. SeDt., DislinCt. XXX, VUI ), (1) In Ep. ad Rocn. V. (2) Vorrei io
ben sapere dal signor Eusebio, io che modo possa essere, se la natura sana come egli pretende, che ella infetti la
persona. Col suo sistema della natura sana c solo priva di grazia, egli costretto ad ogni istante non solo a rinunziare
alla dottrina di s. Tommaso, ma anco alle dottrine della Chiesa, come di
continuo apparisce. (3) Tutto il IV libro dell* Antropologia svolgo questa
definizione, tacendosi ivi ampiamente conoscere la differenza che passa fra la
natura c la persona umana. Digitized by Google 147 principio nllivo supremo,
che da 8. Tommaso viea pure chiamalo prmum princi - ptum molimim homins (i), e
a cui solo egli attribuisce il peccato. CIV. Essendo adunque il principio
attivo supremo dell uomo quello in cui solo tiene sua sede tanto il peccato e l
ingiustizia, quanto la santit c la giustizia ; gua- sto e perduto il principio
supremo, guasto c perduto luomo, salvalo
il principio supremo, salvato 1 uomo. E
in altre parole : sanala la persona , e sanato I' uomo -, eziandio che rimanga
non interamente sanata la natura dell uomo : qualsivoglia inord: nazione nella
natura umana non pregiudica all uomo, purch essa non giunga a corrompere la sua
persona. Movendo da questo preliminare, io mi occupai nel Trattato della Coscienza
a dimostrare, inerentemente al linguaggio della Scrittura e della ecclesiastica
tradizio- ne, che nel santo battesimo viene tolto via de! lutto e annullato il
peccalo originale appunto perch vien purificato e santificalo 1' uomo nella sua
parte suprema, cio nella sua stessa personalit, niente progiudicaudo poi che
rimanga in lui dell' inordi- nazioue ancora nelle parli inferiori, le qoali non
souo piu personali, losloch son di- vise dal principio attivo supremo che le
riprova, ma costituiscono solo uua parte di sua natura. Ora a intender chiaro
come io condussi quella dimostrazione, le dottrine intor- no la volont e la
libert da me esposte nell Antropologia aprono la via \ delle quali non posso
che dar qui un brevissimo cenno, ma sufficiente, io spero, al mio intento. CV.
In che maniera si pu determinare, qual atto, o in genere quale attivit sia
personale nell uomo? Dal vedere se essa c la suprema, ovvero se sia mossa dall
attivit suprema, alla quale le altre attivit che son nelt'uomo soggiacciono ( 2
). Secondo questo principio pu dirsi in primo luogo, che in tutti quelli che
hanno (1) S. 1. Il, LXXXl, 1. E nella I.
II, LXXIV, iv, dimostra clic peccatum mortale non potrai esse in seneuaiilate ,
sed so/um in rottone, perch ordinare aliquid in finem non est sen- sualitatis ,
sed aotum rationia. Jnordt natio antem a fine non est m>i ejus cujus est
ordinare in finem. E nellarticolo vii prova anche coUautorit di sanl'Agosiino
[De Trini t. XII, XII) che pec- catum est in ncTio.NE superiori ne'la quale sta
fio anco il peccato della dilettazione morosa ( art. vi). (2) Jntrof oi., L.
IV, c. IX, a. Il, $ 3. Distinguasi i
attivit personale in due parli; l. il movimento dell'attivit suprema dell'
uomo, 2. il movimento delle altre potenze o attivit dell' uomo mosse dalla
suprema. Quella la parte formale
deUattivit personale, questa u 1 la
parte materiale. Se le potenze o attivit inferiori si muovono nell' uomo senza
che la suprema le muova, o che accoosenla al loro moto; tali movimenti non sono
personali , ma semplicemente naturali . Giustamente adunque nel guasto delle
potenze inferiori riposero gli scolastici la parte materiate dell'originale
peccato, e posero la parte formale nella mente avversa a Dio; la qual
mente appunto il principio attivo
supremo, il principio personale, primum principiala motivum ho minia. Se si
domanda adunque se ne' movimenti delle parti inferiori delluomo consista il
peccato, dee distinguersi con s. Tommaso cos : Se questi movimenti nascono come
da loro prima causa dal principio supremo
son perso- nali, e per peccaminosi. Se poi nascono a dispetto de!
principio Supremo che non li vuole, ma non li pu impedire, non sono peccati,
perch non personali ; sono semplicemente un disordine della natura che av-
viene in no i# (natura) aine nobis (persona). Pu adunque la ribellione della
concupiscenza esser peccato avanti il battesimo, e pu ella stessa, ebo manet
actu, non essere pi peccato dopo il battesimo ; e ci perch avanti U batte- simo
ella era unita col priocipio supremo dell uomo verso di essa abitualmente
piegato e quasi consenziente; e dopo il battesimo disgiunta da quel principio supremo, clic da
Dio tiralo, verso Dio gi si elev ed eresse. Notisi bene, ebe la materia , se unita colla forma , costituisce una cosa; ma
se dalla forma divisa, non pi parte di quella cosa elio colla forma
costituiva; ma lui r altro. Cosi un
corpo tino a tanto ella unito all'
anima parte di un uomo; ma uu ca- davere
che n diviso non pi parte di un uomo; luti altro,
semplice materia bruta. Come dunque I' Attivit delle parti inferiori
nell* uomo cessi di formar parte del peccalo originale dopo il battesimo,
separando! dalla loro forma (la parte superiore c personale), ci che noi appunto stiamo esponendo.
Digitized by Google 148 l'uso della libert , latlo di questa personale : in quelli poi che non lhanno,
l'at- tualit personale appartiene alla semplice volont (i). La libert poi fu da
me fatta consistere nel potere che ha luomo sulla propria volont , cio nel
poter muover questa ad una volizione conforme alla legge eterna, o ad una
volizione contraria; prendendo io una tal definizione da s. Paolo, che egre-
giamente descrive la libert in quel luogo, ove dice : potestatem autem iiabens
SUAE VOLUN TATtS ( 2 ). La volont all' incontro non che lappetito razionale, cio la facolt di
appetire il bene conosciuto. Parlai a lungo de limiti della libert , mostrando
ch'ella condizionata nel suo operare
allo stato della volont , che il mobile
ch'ella muove; ma che or pi or me- no resiste al libero arbitrio, setondo che
essa volont impressionala variamente dai
vari beni che Tuoni conosce e che fanno in lei attualmente, ovvero anco
abitualmen- te impressione. Quindi che,
come osserva finamente s. Tommaso, gli abiti , sieno naturali o sieno
acquisiti, sono contrari alla natura del libero arbitrio, poich se libertini
arbi- trium indiJJ erenler te habet ad bene eliqendum tei male , gli abili all
incontro in- clinano T uomo ad operare in un modo pi tosto che nell altro, e
cosi tolgono l e- quilibrio (3); e il medesimo dicasi delle passioni. AH
incontro non punto contra- rio alla
natura della volont eh ella sia investila dagli abiti o dalle passioni ; onde
insegna il medesimo s. Tommaso, che concupiscenlia matjis facit ad hoc . L. IH,
sez. Il, 0 , IX. (3) S. I. LXXXIII, 11 . (4) S. I. Il, VI, vu. Digitized by
Google 149 Qualora lnhiio e la passione della volont giunga a un cerio grado
d'intensio- ne e di fona, il libero arbitrio cessa dal suo esercizio, come
avvini ne celesti com- prensori, pcroccli luomo in tal caso non pu pi scegliere
Tra le due volizioni con- trarie: lo stesso avviene se manchino gli oggetti in
fra cui scegliere. Ora quando la volont opera semplicemente a seconda de suoi
oggetti (del Ite- ne conosciuto), senza che intervenga libera scelta fra gli
atti suoi, ditesi chella ope- ra in un modo spontaneo. Sella poi mossa dal libero arbitrio, dircsi chella
opera in un modo libero. Premessi questi principi generali, scorgesi la verit
delie seguenti proposizioni: 1. Ogni
qualvolta pu operare il libero arbitrio nelluomo, e dentro la sfera in cui egli
pu operare, 1 atto suo l'atto personale
quello in cui ha sede il peccalo, o 1' alto retto contrario, la colpa e la lode
eco. Quindi il libero consenso un atto
per sonale, appartenente cio al principio attivo supremo dell' nomo (i). 2
. gni qualvolta non pu operare il libero
arbitrio, ma la sola volont, lalto o lattualit prevalente e suprema della
volont fra le spontanee la personale.
CVI. Applichiamo tutto ci alla giustificazione dell uomo che avviene nel santo
battesimo, paragonando gli stati morali delluomo avanti di essere battezzato, e
dopo di essere battezzalo. Avanti battezzato, il principio personale
delluomo avverso da Dio e converso alle
creature, e perci in lui il peccato: la
sua persona dunque peccatrice. Dnpo
battezzalo, il principio personale delluomo
rivolto a Dio e non alle creature, e per- ci non havvi pi in Ini il
peccato bench soprastia il fomite della concupiscenza ; o ci perch questo
fomite si rimane al di sotto del principio supremo, non fa pi f ef- fetto di
curvare verso il sensibile corporeo lo stesso principio supremo che quanto dire la persona umana, ma inclina
oggiinai ad esso le sole potenze inferiori alla su- prema ; laonde il guasto
rimane nella natura , ma non pi nella persona : cosi luo- mo salvalo, poich l'uomo la persona. Or come avviene che il principio
attivo supremo ( la persona ) avanti il battesi- mo sia conversa
abbandonatamente al sensibile corporeo, e perci avversa da Dio? E come poi
avviene che mediante il battesimo il principio supremo ( la persona ) a Dio si
converta ? Rispondiamo a tutte due qneste interrogazioni, e innanzi, alla
prima. Convien premettere, che luomo, fossanco quanto alla natura sano e
perfetto, non pu per innalzarsi colle sue forze alla percezione o cognizione
soprannaturale di Dio ; ma bens pu egli staccarsi da quella, se Iddio
graziosamente comunicandosi a lui, gliel abbia conferita. E cosi fece I uomo
primo peccando ; il quale rimase rolla sola natura sua, guasta ed offesa onch
essa dalla disordinala concupiscenza ( 2 ). Si- mili a lui nacquero i figliuoli
: la volont de quali non sostenuta dalla grazia, pende verso il bene sensibile
; e ci necessariamente c abbandonatamente ; perocch essen- do la volont la
potenza di appetire il bene, ella non pu astenersi dal tendere a un bene die
sperimenta, se non in rispetto ad un altro bene che le sia presentato, col- li)
Cosi >. Tommaso lo vien provando : In ormi judioio ultimo icntentia perline!
al stttt- md* jcdu- ATOR iuM. linde coni
regula teifis divinae sii superine, eonset/utnt eri, ut ultima sententia per
yuam judicium Jnaiiter terminalur y pertineat ad hationem scrzaioazH, i/uae
intendi t 1 aliontbus atterrili. Cum autem de pluriltus occurmt judieandum ,
finale judicium est de eo tjitad ultimo nerumi. In actibus autem humanis ultimo
occvrrit ipse aclus praeambulum au- leti est ipso delectatw yuae induci t ad
actum. Et ideo ad rationem superiorem proprie per- line! constino in actum. (S.
I. Il, LXXlV, vii). (2) (Iunior anco non si sapesse render ragione di questo
guasto della natura umana , non si dovrebbe perci rifiutarlo, dacch tutta ta
tradizione ecclesia slica ce t'attesta coslaotemcoto. 1 -a tradizione di un tal
guasto ai conserv fin anco presso gli Ebrei, per tacer daltri popoli,- ne libri
do* quali ai parla della concupiscenza corno di un pcconto c di un guasto della
natura, venuto al- luouio in conseguenza del peccato del primo padre. Digitized
by Google 150 1 amor del quale e*sa possa vincere la lusinga del precedente
(t): Ma nell'ordine della natura tulli i beni che si possano prescolare all
uomo c di cui egli possa avere spe- ranza son naturali : la cognizione negativa
ch'egli ha di Dio non pu essere che inef- ficace. Che se egli si formi di Dio
un concetto positivo mediante un adunnmento'im- macinano di beni umani ; l'
oggetto della sua tendenza sono ancor questi beni, ben- ch accumulati coir
immaginazione e in un solo bene ridotti. Loggetto generale adunque della volont
dell uomo in islato naturale senza la grazia, (' oggetto dico che veramente prevale, sempre il bene naturale e finito : la volont
non tirala ctlcaceinenle che da questo.
Il libero arbitrio pu hensi usare di tali beni multe volte senza peccare ; ma
non pu tuttavia uscir di essi nella sua scelta ; non potr che vin- cere e
temperare I' ainor di uno coll' amore di un altro : n varr giammai a sacrifi-
care lutti i beni finiti, i soli eh' egli sperimenta, in ossequio alla legge
murale, se ci fosse necessario : quindi dee assai volle cadere uelle forti
tentazioni anche contro la legge semplicemente naturale : non potr poi senza
grazia, riferire lutto a Dio effet- tivamente come ad ultimo suo fine, perocch
egli non ha forza naturale di sollevarsi alla percezione ed alla congiunzione
con quell'infinito bene, e di prenderne sperienza: in somma il libero suo
arbitrio pu scegliere fra le volizioni possibili, ma quella voli- zione che
mette Iddio per fine e per bene assoluto gli
impossibile in tale stato: tutta la volont dell uomo adunque, auchc la
suprema che la personale, inclina per
na- tura inevitabilmente ed esclusivamente alle cose finite e sensibili.
Concedo che la di- viua Provvidenza avrebbe potuto allontanare da lui le gravi
tentazioni alle forze sue superiori, il che avrebbessa anche fatto, se Iddio
stesso avesse crealo l uomo senza peccalo nell'ordine della natura. Ma ora l'
uora peccatore si mise egli stesso colla sua colpa nella condizione in cui
trovasi : in questa condizione la carne
insuperbita, la mente svigorita : lo slancio del cuore umano tende all'
infinit del bene, a cui era or- dinato a principio (3 ) : egli cerca dunque,
senza la grazia, il bene infinito, nel fini- (1) Vrggavi ci che abbiam detto
della tomaia mobilit della volont, nell 'Autropol. L. Ili, ez. II, cap. Vili.
(2) Presupposto lo ttaceamenlo della volont umana da Dio ( privazion della
grazia), e il bisogno d un latinit di bene rimastole aperto dall' esser ella
slata a un tal bene Tolta in ori- gine, presupposta ancora l'attivit cresciuta
e resa insubordinata dalla parte del senso carnate, egli facil cosa il concepire come P animai
sentimento ( la carne ) dovesse dare uoa piega a tutto i uomo, a s traendolo e
di conseguente traendo ancora a s il suo principio supremo. ."Sun sar
tuttavia inutile il porre qui sotto gli occhi de* lettori ia maniera, nella
quale V Kstio conce- pisce una tale azione del corpo sull anima, onde questa
riceve quel rivolgimento atta creatura, ebe ba ragion di peccalo. Reco le
parole di quel grande teologu. Quae rea ut melma inlellgnlur, sciendum est,
mtiluam esse eamque naturale m traaza&ua-j, td est passionata et
ajfiectionum communi cali onera inter corpus et animam , tamquom tn idem
composilum naturale concurrentes parles subslantiales. Undc fieri ridemus , ut
corpore male office! ) anima doleal , et vicissim ex animi /illaidiate corpus recreelur.
Cum igrtur anima a Dea ncque justa fiat, neque injusta, ncque nmnino ante suam
cum corpore conjunctwnem esci- stai : corpus aulem ante animae infusionem ex
carne peccati semtnatum , fiondarli qutdem peccatum babeat . sed tamen occultam
quamdam ad peccatum dispositonem,fit ut anima, quae in corpore nascilur velai
Jlos in loco fioetido , stmul ex corpore cantrahat vitium qaoddam ba - biluale.
al /ue cufpabile. S eul enim si tnfunderetur anima carpari vulnerala , rei
posilo in i/ne , ptax in eo carpare dolerti; ila dum infiundilur corpori ad
peccatum disposilo, max in co habt- luahter quadammodo peccai. Kgli conferma
rollc autorit questa suo modo di concepire il visie- niento dellanima umana :
dicendo cosi : flunc explicandi modem- indicai A uijualttlus , Ub. V contra
Jutian-, c. III. et lib. Il De pecrattirum mentis , c. X\IV, XXV et XXVI, ubi
eham inler caetera dici!, Chrislum ideo non hahuisse carnem peccati, quia quod
de maire accepil, aut etiscipiendum muntimi , aut susclpiendo in u nataci! Fundamentum bujus cidelur hobtri ex Scnplura
, quae semen hunusnum vocili s fioedum bhmorem s ILcv. XXVj, et menstrua mu-
lieris habentur pr somma immundilia, cum semen tritici , ani abarum rerum
nusquan i iia- munJum cocetur - Sic. Job. XVI. Qiiis potest tacere mundum de
immundu coueepluni semine ? t ad eam immundtliom respicerc lidelur alias
ejusdrm libri locus e. XXV, s Aumquid palesi t apparer mundus natus de muliere
? I pr quo L.XX reddukrunt. i Remo uiundus a sorde, 151 lo, ci che ingiustizia : quell' abituale inclinazione
della volont personale all' in- giustizia
il peccalo. Yeggiamo ora come il principio personale a Dio si rivolga
pel battesimale la- vacro. lo partir dalla verit insegnala dal sacrosanto Gore
lio di Trento, che la gin- Blificaziune si fa per l'infusione della grazia e
della carit (l), avente virt di can- giare il cuore dell uomo ; e chella non
consiste gi in una semplice remissione del de- bito del peccato, ci che non
basterebbe a sanar luomo mal inclinato nella sua vo- lont personale. Ora questa
grazia infusa una comnnicazion di Dio.
Luomo per- cepisce intimamente un nuovo bene diverso da lutti i beni naturali,
Iddio. Da quel momento lappetito razionale acquista un oggetto nuovo: un bene
nuovo, un alleilo nuovo, la carit: bene ed affetto che giunge poi talora a
farsi sentire di tanta vee- menza, che l'anima, disperando di poterlo altrui
comunicare, forzala di dir seco stessa:
socrrlttm meum rnihi , secretiti n tnetim mi hi ( 2 ). L'n bene nuovo poi, un
nuo- vo affetto, produce una vo'onl nuova. Vero
che la cime ed il sangue non cessa- no di stare tuttavia innanzi all'
uomo e di solleticarlo: sono essi pure ancor de beni per lui. Quindi due
oggetti presenti allappetito razionale immensamente diversi, il bene reale
(inilo, e il bene reale infinito: quindi medesima mente due volont, la na-
turale e la soprannaturale. Ma quale di esse prevale? quale n la suprema? e quin- di la personale? Fino a
tanto che l'uomo non ha ancora luso del libero arbitrio, prevale indu-
bitatamente la volont soprannaturale: perocch ella creata nell uomo da Dio stesso, e di lei dice
il Salmo: Cor mundum crea in me Deus, et spirilum recium in nova in risceribus
meis (3); creala da Dio colla
comunicazione di s, perocch s crea lina volont nell'uomo, come dicevamo, col
comunicarsi a lui un bene reale del tutto nuovo. Quando poi luomo giustificato
acquista luso del suo libero arbitrio, nllor questo ritrovasi iu posizione
grandemente diversa^da quel chera prima: perocch egli ha due volont di cui pu
disporre; egli pu scegliere fra le volizioni della volont sopranna- turale e lo
volizioni della naturale. Se quelle antepone, la volont soprannaturale vince;
se poi Sceglie le volizioni di quella volont che tende come ad ultimo suo fine
al ben finito, le volizioni cio della volont naturale in opposizione alla
soprannaturale, allora pecca, e peccando perdo di nuovo la grazia ; pori pi per
il germe della grazia, la fede (4)i e il carattere indelebile (5): di che gii
rimane la volont soprannaturale in potenza, benoh I' abbia in atto perduta; e
pu colla penitenza e colluso de sacra- menti ricuperarla. C VII. Ges Cristo
adunque ristora l'uomo col creare in lui un principio nuovo di operare, una
volont nuova, un cuor nuovo, secondo la promessa fatta per Gze- i nec infuni
quidem 1 ,' e Ir J lem nolandum quod Lev. XV rnn trnhilur immundita ex flava
semini et mr 'istru, non ex Jluru sanguini aut pituita e, neqne atiorum
humorum, imo ncque ex fluxu e 1 crementorum foelidissimorum seu dtsenteria ,
re/ flato minati (tu 11. Seul. Di- alincl. XXXI, I ). (1) Si qui dixerit , komines juslificari
rei sola imputalione gustili le Chris/i, vel sola pec- catorum remissione,
exclusa gratta et charitate ry.tr in cohuma (cio non ne emiri di carne, ma
nella volont) rosex pia spinti!* sauctox niprc.vDATCH alque iu.it vtmtnr.nr:
nul etiam grati im. qua justiKcamur , esse tantum favorem Dei-, anathema sii
(Sess. VI, cad. XI). (2) !.. XXIV, 16. (3) Ps. L. (i) Si qui dixeh't, amissa
per peceatum grada , simul et fidtm semptr amitti; ani fdem, quae remane! , non
esse irrum fldem , ticet non sii viva y aut rum, qui flen s sine rii untate
/tatui, non esse christianum-, anathema sii (C. Trid., sc}. VI De justtf., ean.
XXVItl ). (5) Si qui s dixeril in trib s sacramenti , baptismo seilicet,
confirmalione et ordine, non imprimi cvBAcreiiEM la animi hoc est signum
guoddam spirituale et indelebile, vuoi za I r I- bam ao.v posse hit anathema
sii. (C. Trid. Ib. De Sacram. IX). Digitizgd by Google 152 chielln: li 7
ejfuii'am tv per vos aquam mundam , et mundabimini ab omnibus in- (juinamentis
restris . Et dabo vobis cor nofom , et
spiri tv te roviu ponam in medio t estri (i). E poich questo nuovo principio che Cristo pone nell'
uomo su- periore a tulli gli nitri per
nobilt ed eziandio per eilicacia iio che resta nell'uomo, perci egli
costituisce In persona delluomo, e quindi si dice che nella riparazione falla
dell'uomo da Cristo si salva prima la persona, e poi a suo tempo, cio nell ul-
tima risurrezione, anche \n natura-, \\ contrario di quanto avviene nella
corruzione ereditaria, In quale comincia nella natura e termina nella persona.
Peccalum oriyi- na/e, dice lAngelico, hoc modo processi!, quod primo (in Adamo)
persona infe- rii naturam ; pnstmodum nero ( ne' posteri ) natura infecit
persona#. Christu t vero converso ordine prius reparat idquod perso nae est ;
et postmodum simili in omnibus ( nella risurrezione) reparabil io quod naturae
est ( 2 ). Colla riparazione adunque di Cristo si muta nell' uomo la base della
persona, il principio personale ; questo principio personale non pi quella volont che pendo verso le cose
lerrene ; poich ella nn pi I apice dell
anima, la potenza sopra- stante alle altre ; ma sopra di essa ne da Dio suscitata un altra pi eccellente che
bn per oggetto Iddio slesso, e di natura sua pi polente della prima ; mobile,
col quale il libero arbitrio pu meritare la vita eterna, vincere le tentazioni,
adempire i precetti del Salvatore, secondo il canone del Tridentino : Si qttis
dixerit Dei prae- cepta uomini etiam justificato et sub gratia constituto, esse
od obser- vandum impossibiliti ; anathema sii (3). CVI1I. Venendo adunque coll
infusion della grazia malato il principio persona- le, colla maggior primriel s
esprime l'operazione che nasce nell'uomo pel battesimo co'le parole che usa il
Tridentino chiamandola renovatio i nteri ori s notti ni s (4)- L 'uomo in
quanto significa persona veramente si rinnova. Quindi le espressioni mi- rai)
Imenlo proprie di rigenerazione, rinqscimento, applicale al battesimo ed al suo
effetto, secondo le parole di Cristo a Nicodcmo: Amen, amen dico libi: nisi
quis renatus fuerit denuo, non pntcst ridere regnum Dei (5), e la spiegazione
data da Crisi stesso: Quoti natimi est ex carne , carg est , et quod nalttin
est ex spirilu, spiritile est (C). Cio luomo, la persona umana che naturalmente
nasce, carne, per- ch la carne attrae a
s la volont personale che la slessa
persona ; ma la persona umana che soprannaturalmente nasce espirilo, perch lo
Spirilo santo clic viene in- fuso trae a s la volont, e questa in quanl' tirata
e attuala dallo Spirilo santo, di- venta uniiltivil personale, diventa la base
della persona; cessando cosi di esser per- sonale la volont in quant e tirata a
se dalla carne, fn a tanto che dalla volont so- prannaturale contrastata (7). Laonde s. Paolo colla stessa
propriet parlaodo.distin- gue le persone peccatrici e le sante, col dire che
quelle prime sono nella carne, c queste seconde nello spinto : Qui autem in
carne svnT , Deo piacere non pos- sunti ros autem in carne non eslis, sed in
spirito (8). E queste o somiglianti maniere sono costantissime nelle divine Scritture,
.come altres nelie bocche di lutti i fedeli, delti essi stessi
acconcissimamcnle figliuoli di Dio, perch
creala la loro (1) C. XXXVI, 23, 2G. (2) S. Ili, LXIX, m, od 3. (li) S.
VI De jtulif., cali. XVtll. (4) Iti, c. Vii. (5) Jo IH, 3. (6j Ivi, 6. (7) Si
pu ugualmente dire che vi tono due volont nell uomo rigenerato o una volont
sola attuala da diverti oggetti, secondo clic si considera la volont come una
mera potenza non ancora eccitala a nulla (nel qual senso una polenta sola); ovvero la si considera in
quel le diverse attualit nella quali ella si mette, qualora esercitino su di
lei unazioue costante delle cose reali, quali sono la propria carne, c lo
Spirito tanto . (8) Ron. Vili, 8. 9. Digitized by Google 153 nuova personalit
dallo spirilo che in essi agisce, rjuicumquc enim spirita Ueiagim- tur , ri
situi Ftur Ver (i). E cosi finalmenle si spiega, che cosasia luomo vecchio, e
l'uomo nuovo di s Paolo; e come quello sia morto al peccalo, e quindi il
peccalo non gli si possa pi imputare: di che il detto di santAgostino, che nel
battezzato con- cupiscentia transit m.ATU, et manct ACTtr, e quell altro che
spiega il primo, di- mini coneupiscenliam carni in bahtismo, non iti non sit ,
sed ut rtt peccatisi nox iMPi'TETcn (2) ; non s' imputa pi la concupiscenza nll
nonio rinato, perch nel rinato non guasta pi la sua persona, ma solo la sua
natura", e quella persona che prima guastava gi non pi, perch eli era allora l'attivit nell'uomo
suprema, ed ora unattivit subordinata,
di diritto ed anco di fatto, se l'uom non pecca, al- la volont nuova, che forma
I nomo nuovo, l ucmo spirituale he pcrcipil rn t-nne stilli Spirili is
(3). C1X. Tale la dottrina da me esposta nel Trattato della
Coscienza morale. Sentiamo ora le vituperosissime accuse ed imputazioni, che
Eusebio credette bene di darmi per cagione di essa, le quali si trovano nel suo
libello sotto le A [formazioni X, XI e XIV. Prima accusa : che io nego alTalto
la necessit delle buone opere (4) per conse- guire leterna snlutp, come fece
Lutero. Or quali sono i documenti chegli porta per convincermi duna tanta
eresia? Son due passi del Trattalo della Coscienza: ecoo il primo: E seguitando noi colle dottrine rivelate, il
battesimo dei Salvatore quello che tolse questa dannazione del peccalo
d'origine, questa colai colpa dplla natura,
se cosi si vuol chiamare, introducendo nell'uomo un altro principio
attivo, soprnn- naturale, superiore alla
volont naturule, e per sede della moralit, anzi, essendo egli santo, sede della santit-e della
salvezza delluomo, la qual tutta dipende dal
principio supremo (5). Abbiamo veduto che In base delluomo come persona
imputabile si semprp laltissima delle
sue attivit, la quale perci dicesi, rispetto a tulle l'altre potenze e principi
nltivi, il principio attivo supremo, o come lo chiama s. Tommaso, primum
principimi moticum nomini s, ovvero, come il dice sant' Agostino, pars animile
melior et superior (fi). In questo principio sta la moralit dell uomo : dipende
da e.-so 1' esser 1 uomo buono o cattivo. Dicesi principio attico , perch il principio di tutte le azioni dell oomo
(7). Ora il principio attivo supremo nell uomo che trovasi in grazia di Dio
, diverso , come dicevo , dal principio
attivo supremo nell oomo (I) Ivi, 14. (i) De nuptiie et coneup., I, . I, c.
XXV. (3) 1. Cur. Il, 14. (4) Il sigoor Eusebio nello suo accuse vacilla sempre
fra la certezza c l* incertezza. Prima dice ebe i miei errori sono
manifestissimi ( f. 4 ) : ora poi si contenta di lasciarli in dubbio. In un
luogo parla fraoco coti : t Cbe il signor - Rosnfini escluda olfatto te opere libere del- I uomo ; appare ancora da altri suoi, delti s
( K. Aff. X , f. 39 , nota ). Questo favellare mostra certezza. Ma nella
conclusione indaccliisce dicendo cbe il signor Rosmini . IV. c. IV. art. ti, 2. Ho su mi Voi. XII. 4i3 Digitized by Google
154 che non trovasi in grazia di Dio : quello
in principio di operare soprannnfural* mente che vien suscitato e crealo
nell' uomo dall infusimi della grazia,
una volont soprannaturale ; questo all' incontro non che non volont naturale ( fino che si con* siviera
senza grazia ) , cio tendente ad oggetti naturali. I.i\ volont
soprannaturale il principio delle opere
soprannaturali , e la salvezza dell uomo
dipende tutta da questo principio > ,
perch luomo non pu salvarsi se non vive di una vita sopran- naturale, e non fa
le azioni di questa vita. La volont naturale all'incontro il prin- cipio delle opere naturali, sieno
elle naturalmente oneste, o sieno peccati, opere ten- denti sempre a godere de'
beni naturali : con questo solo principio non pu I uomo far opere meritorie di
vita eterna. Ora , per dimostrare che io nego la necessit delle opere buone,
che cosa fa il signor Euseuio ? Ecco qua il suo arzigogolo : t Rosmini dice che
la salvezza dell uomo lotta dipende dal principio supremo nell'uomo introdotto
per Io battesimo del Salvatore. Ma il principio supremo Dio. Dunque Rosmini fa dipendere tutta la
salvezza dell* uomo da Dio : dunque esclude la necessit delle buone opere .
Quindi, dato di piglio alla definizione del Tridentino, che Proponendo est vita
aeterna et tamquam gratin filiis Dei per diri slum Jesum tnisrricordiler
promista ; et lunu/uam merces ex ipsius Dei promissione Louis ipsorum operibtis
et merilis fideliter reddenda , tosto cosi ih' investe : Come sar dunque vero ci che il Rosmini sol
dice, che la salvezza del- ti l uomo tutta dipende da Dio (i)? Peccato chei non
abbia potuto comunicare i snoi lumi ai
padri Tridentini! Avrebliero certo allora essi pure mutato il decreto, e v
definito con lui, che la salvezza dell uomo dipende tolta dalla grazia di Dio {
2 ): avrebbero applaudito a Lutero ....
; e via via una scorreria di questo trotto ! lo intanto ho I' onore di dirgli,
eli egli che crede di capir lutto, non ha capito affatto nulla ; non ha egli
inteso punto n poco che cosa sia quel principio supremo da cui dipende tutta la
salvezza dell' uomo; perocch se l'avesse inteso, avrebbe sa- puto che quel
principio, se nel fiambioo un abito che
lo santifica, nell'adulto an- che il
principio delle buone opere, giacch le buone opere meritorie di vita eterna
sono quelle che 1' uomo fa in istato di grazia; e che il dire che la salute
dipende dal principio delle buone opere, non
punto n poco un escludere le buone opere. Nem- pe lejimus , io replicher
lo stesso sentimento colle parole di sant Agostino, justi- y icari in Cu ri sto
qui credunt in et:m, propler oceultam communicationcm et inspirai ionem grati a
e spiritalis, qua quisqu haeret Domino unus spirilut e$t,QUAiris eoi et
iuitentvr sancti ejvs (3); nelle quali ultime parole potr il signor Eusebio, se
ben le intende, trovare le buone opere. Per sopraggiunta osserver, che,
quantunque io non abbia detto che la
sal- vezza tutta dipenda da Dio ,o tutta
dipenda dalla grazia di Dio > ; non sono tutta- via queste proposizioni tali
che debbano far tant orrore, o trovarsi in esse l'esclusione delle buone opere.
Per me, piaccmi sempre di dire al Signore con s. Filippo Neri, (1) Egli mette
in mio bocca questo parole di tutto sua intensione , #i noti bene : esso questo buono fede, o fede caldo ? Veramente non bo io mai detto, che tutto lo
salvezza di pendo do Dio ; ma bo detto che tutto dipende dal principio supremo
, il quale noh Dio ; ma S attivit
soprannaturale dell' uomo creala per in esso da Dio coll* miusione della sua
grazia. Se dunque sotto la sua maschera sta un uomo onesto, il vedremo dalla
ritrattazione che far anche di questo suo errore. (2) Anche qui egli mente. E
dove ha egli mai trovato da me scritto che c la salvezza del- ? io lo stido a dirlo, o a disdirsi,
com* di dovere. Io dissi che tutta la
salvezza dell* uomo dipende dal principio supremo ; ma questo principio
non la grazia ; ma bens Odetto che la grazia produce nell* uomo, la
quale informando l'anima vi produce c f attivit di operare soprannaturalmente e
di meritare la vita eterna > c questa
il principio attivo supremo di quelli che sono in grazia, ed operano
secondo la grazia. (3) De pcccatorum meritis et remisi L. 1, c. X. Digitized by
CjOO^Ii i Sono disperalo di me, o Signore, ma eonfdo in voi ; e mi
dolcissima cosa al- tres, lesclamare col Salmista, In manibus tuia
sortes mene , gradendo assai pi che la mia sorte sia nelle mani di Dio che
nelle mie proprie; pienamente persuaso che cos stia in luogo di troppo maggior
sicurezza; n credo perci dinegare la necessit delle buone opere attribuendole a
Dio, come al loro primo principio, di cui perci sono doni, cuffia tanta est
erga omnes homines bom'tas , per usare le parole del sacrosanto Con- cilio di
Trento, ut eorum velil esse merita, quae sunt ipsius dona (i). Alla fine non so
che cosa si possa trovar d'assurdo nel dire che una catena che sta sospesa alla
sof- fitta, penda tutta dal primo suo anello; n credo io che con ci si neghino
gli altri anelli della catena. Ora nella santificazion nostra il primo anello la misericordia di Dio, qui prior dlexil nos,
e che o/iertur in nobis sine nobis ( 2 ). E non
la carit infusaci da Dio il tesoro, onde le stesse opere buone caviamo?
Or, Charitas, come Insegna s. Tomma- so, non palesi neque natura/iter nobis
inesse, neqtic per vires naturales est acquisi- ta; scd per infSionem Spiritvs
s.INCTi, qui est amor Patria et Filii: cujtts participatio in nobis est ipsa
charitas causata (3), come fu deciso replicatamele anche dal Concilio di Trento
(4). Riassumendo, il signor Eusebio 1 , invent di pianta due frasi {la salvezza
del- r uomo tutta dipende da Dio ; la salvezza dell'uomo dipende tutta dalla
grazia di Dio ) e afferm falsamente quello esser mie; primo fruito dell'albero:
2 . sulle due frasi da lui inventate e attribuite a me, mi. tacci di professare
leresia di Lutero, che insegn le buone opere non essere necessarie alla salute;
secondo frutto dell albero : 3. sventuramente al suo scopo di denigrarmi, le
due frasi inventale furono da lui prese in fallo, giacche non contengono
veramente I eresia dell esclusione delle buo- ne opere, purch sanamente vengano
intese e spiegate ; terzo frullo dell albero : 4-" finalmente,
contenessero pur anco quell'eresia, e foss anco vero che sfuggile fos- sero
dalla penna d' uno scrittore, qual uomo onesto od equo oser tosto paragonare nn
tale scrittore a Lutero, se il detto scrittore parla d'nn capo all altro de'
suoi scrit- ti della necessit delle buone opere, e non iscrive se non per
eccitare gli nomini a farne il pi che mai sia possibile? e qual galantuomo sar colui,
che invece d'attri- buir quelle frasi ad una inavvertenza o distrazione del
detto scrittore, le vada anzi rubacchiando di mezzo ad una collezione di opere
voluminose per fondare su due pa- role una formale pubblica accusa d'eresia, 0
d un'eresia s assurda, non professata pi oggimai n pure da protestanti, come
si quella della non necessit delle opere
buone? Se il signor Eusebio si far
conoscere col pentimento sul labbro, saranno tutti questi abbagli incolpevoli
del suo zelo; se ni far, ciascun sapr dire: Ex Jructibus eontm coqnoscetis eoa.
CX. Ma il sig. Eusebio mette in campo un altro argomento per provare che io, al
par di Lutero, nego la necessit delle buone opere. Odasi attentamente com egli
parla, eh io riferir intere le sue parole :
Che il sig. Rosmini, nel dire: Che la salvezza delluomo tutta dipende
dal principio supremo introdotto nell'
uomo stesso da Dio ; escluda affatto le opere s libere dell uomo ; appare
ancora da altri suoi detti. Leggi a carte qo l dove affer- ma, Che s. Paolo apporta il testo de salmi (
3 1 ) , sembra voler significare che lerrore e la stoltezza de Giudei
consistesse solamente nel credere dessere giustificati por la mate- rialit de
riti Mosaici, e non fosse uguale stoltezza il credere di essere giustificato
per le opere naturalmente oneste e virtuose, secondo la stessa purle morale
della legge di, IMos. Il vero si , che luomo non pu giustificarsi colle sue
opere; ma che la giu- slilicazione un
dono gratuito di Dio. Dopo essere giustifcto poi, egli pu e deve meritarsi
colle sue buone opere ( se per ha l' uso del suo libero arbitrio ) la vita
etcc- na. Or ella cosa ben fatta
l'iusinuare gli errori accennati intorno alltllcacio delle (1) Scss . VI, De
justif. c. VI. (2) Scss. VI De juetif, c. Vili. (3) llom. Ili, 9, 20. 28. ( 4 ) 11 . AIT . X , f . 39
, nota . (5j Scjj. VI De justif., can. I,
Digitized by Google 158 opere libere delluomo per la sna gius! ideazione, solfo
prcteslo e collaria di difen- dere la necessit che ha l'uomo gi giusliGcalo e
avente l'uso del suo libero arbitrio, di operare il bene per salvarsi (ij? Ecco a che si riduce la scienza teologica di
Eusebio Cristiano. CXII. Seconda accusa : che c sembra che io neghi con Calvino
e Lutero, che i peccati non siano rimessi, ma solo nascosti o non imputati . La
ragione per la quale mi d il signor Eusebio una cosi grave accusa, appar
manifestamente essere il non aver egli inteso la maniera da me tenuta nello
spiegare come la concupiscenza in virt del santo battesimo transit reatu et
manet actu, cio a dire continua nell uomo ad agire, cessando per da esser
peccato. Questa maniera il lettore gi In conosce : io dimostravo, che il
peccato non esi- sto se non infetta il principio personale, perch il peccato
non che t un male, un guasto, una
obliquit della persona ; e qualsivoglia
difetto, se fuori della persona, bench
alla persona aderente, come quello di cui parla lApostolo, matum adjacel inib ,
pprde In ragion di peccato. Or prima che Iddio infonda nell uomo la grazia, il
principio personale si la voloht
naturale che ha per oggetto il ben finito della na- tura; ma dopo l'iufusinn
della grazia, sarge nell uomo un altro principio personale pi elevato, e questo
si la volont soprannaturale, la potenza
di amare Iddio sopran- naturalmente e di operare in modo conforme a questo
amre. Quando questo nuovo principio personale
nato nell'uomo, la volont naturale ha cessato d' esser personale, o
dessere per conseguenza soggetto e sede del peccato; la concupiscenza dunque
che in essa rimane non pi peccato, perch
una volont superiore oggimai la domina, e la sgrida e riprova. A faccia 38 e 3g
del Trattato della Coscienza io ho spiegato come nella volont naturale che
soprasta dopo il battesimo, intenda io compresa la concu- piscenza, che il
Concilio di Trento in fatti dichiara soprastare nell' uomo anche dopo iinfusion
della grazia, ai agonem. Ora ognuno che intenda una tale dottrina, dee
convenire, che da essa risulta cliiarissimamente, col saulo battesimo tolti
tolum id quod verarn et propriam peccati rationem habel , giacch viene fin
tolto quel prin- cipio personale dove solo ii peccato risiede ; che propriamente la morte dell nomo vecchio di
san Paolo. E di vero, qual altro sistema spiega meglio la propriet del parlar
dellApostolo, l dove dice. Qui enim mortut svtus peccato, rjuomodo adirne
ticemus in ilio ? In fatti se il principio in cui sta la persona nostra e
mutato, pu ben dirsi in un senso che la persona vecchia morta, e noi gi siamo persone nuove. E questa
distruzione della persona dei peccato, che l'Apostolo segnila a de- scrivere,
si opera nel battesimo : An ignoratisi quia quicumque bapiizati su mai in
Christo Jesv, in morte ipsius bapiizati sumus ? eonsepulli enitn sumus in i'io
per baptismum in mortem. La maniera dunque per la quale I Apostolo spiega in
che modo sia distrutto il peccato pel battesimo, bench rimanga la
concupiscenza, ap- punto quella eh' io
esposi nel Trattalo della Coscienza ; o pi tosto quella maniera che io esposi,
e quella dellApostolo, come ivi ho detto. Imperciocch la ragione che d
lApostolo dell'esser cessalo in noi il peccato, si questa : perch morto in noi l'uomo peccatore: cio quel
principio d'operare che prima era in noi personale, non avendovene alcun altro
a lui superiore che douiiuare il potesse, onde I arbitrio nostro (1) I passi
ebe arreca il signor Eusebio di s. Pietro c d s. Paolo parlano delle opere buone
e meritorie dell' uomo giustificato , e non di opere operanti la giusti
Ideazione in chi an- cora non l'ha ricevuta. 11 primo dice : .Macia satagite ,
ut per bona opera ccrtam ve* ir am t aca- ti onetn et eleclioncm faciali* (II.
Pielr. I. IO ) : il secondo ; Jtai/ue fruire * mei diletti, sta- bile! e*tote
et immobile *, abundante * in opere Domini semper, sciente* tjuod lahor vester
non est inani * in Domino ( I. Cor. XV , 55 ). Chi non sente che i santi
Apostoli incoraggiano coti queste parole i fedeli giustificali a conservare ed
accrescere la grazia ricevuta ? magi s satagi- te stabile* estote : e in fatti I' nomo pu bea
perder la grazia se lha, operando ii male, et via s sua* mala s facete : ma non
pu dare la grazia a s stesso se non 1' ha ; pu solo aspet- tarla da Dio, usando
i mozzi da lui a ci opinati, e sopra tutto la preghiera. Digitized by Googl 159
dovna pi o meno abbandonarvi, per non avere alcun mobile da muovere, che laiu-
tasse contro di lui; ma or quel principio medesimo bench esista, non pi perso- nale, non pi luomo (onde quelluomo morto), perch vi ha un altro principio
superiore, in cui la persona gi risede, rimanendosi laltro solo nn elemento
della natura : Hoc scicnles , seguita lApostolo, qua veliti /ionio noster simul
cruci ftxtts est, til deslriiatur corpus peccali, et ultra non serviamus
peccalo : Quia t.niu uortuus est, ju s tifi catu s est A peccato. Le quali ultime
parole ben si con- siderino: perch l'uomo
giustificalo? perch quell uomo a cui aderiva il peccato, dice lApostolo,
non esiste pi, morto ; Qui enim morluus
est, juslifcatus est a peccalo ; e in vece di queU'uomo, ve nha un altro
vivente a cui aderisce la giustizia di Cristo. Ita et t-os existimale, vos
morluos quidam esse peccato, vicentes autem ideo, in C/iristo Jesc Domino
nostro (i). Quello, adunque che prima nelluomo co- stituiva il peccalo (la
concupiscenza) rimane tuttavia; ma nou
pi peccato, perch non regna come regnava prima, quando slava nella pi
alta e suprema parte dell'uo- mo, goveruatrice di tutte le altre parli. Oade
esorta s. Paolo i Romani a far s, che non lascino che pi oggimai regni n pure
in avvenire, il che avverrebbe se perdesser la grazia : Non ergo regxet
peccatimi in cestro mortali corpore ( 2 ). CX1II. Da questa profonda dottrina
dell Apostolo risulta che pel battesimo vipn tolto via dall' uomo tutto ci che
ha vera ragion di peccato ; e che pu assegnarsi una buona cattolica ragione del
perch nelle Scritture talora venga sigoiGcato 1* effetto della giustificazione
dicendosi che i peccali sono coperti, ovvero che non sono im- putati. Sono
coperti, perch alla mala volont naturale ( la concupiscenza ) che pri- ma
perdeva luomo, viene a soprastare una volont nuova che tende alle cose divine,
la quale forma la persona nniana e regna sull'altra, che sussiste ancorn ma non
nuo- ce, o, come dice sani Agostino, inest sed non obesi. Non sono pi imputati,
perch vernilo meno il principio
personale a cui si potevano imputare , giacch non si pu imputare il peccato che
alla persona ( al principio attivo supremo ), nella qual sola pu esister ci che
ha vera ragion di peccato: e la persona
gi sana e santa, anzi tutta nuova per la spirituale generazione, colla
quale la Chiesa, feconda sposa di Cri- sto, partorisce alla vita eterna de'
figliuoli al suo sposo (3). Conviene osservare, he (1) Ed per questo stesso che it Concilio di Trento
spiega la giustiGcasiona non gi me- diante una semplice remission de peccati ,
ma mediante l infusion della gratin e la delusione della carit che fa lo
Spirilo santo ne nostri cuori, ponendovi insieme con un nuovo sentimen- to, un
nuovo potere ; giacch 1 atticit nasce tasto dalla passivit del sentimento, come
ho al- trove spiegato. (2) Itom. VI, 2-12. (3) In questa maniera sintende la
ragione, perch i Padri adoperino pure di simigliane nu- mero ad indicare la
rigenerazione battesimale : Liberarti, dice sant Agostino, quo modo . ni quia
ejut ( legit peccati ) atavo* , peccatorum omnium remistione distoleil. ut
quamvie adirne mancai . et de die in diem magie magieque minuatur , i peccati*
tameh non imputstc*. Rimane dunque la legge del peccato , ma ne rinati questa
legge cessa d esser peccalo perch non pi s'imputa, n si puh imputare ;
quantunque in quelli che nascono e che non anco rina- scono ella sia peccato ,
e a peccato , s imputi, t/aec ttaque remistio peccatorum quandiu non fil in
prole , eie ibi est lex iota peccati , ut etiam in peccitim ixpcrEtna , ut est
. ut etiam recitus ejut cum ilta eil , qui teneat aeterni scppucii usmroatM : e
tosto appresso dice che it peccalo originale remittitur , tegitur, non
imputatur {Ve nuptiis et concupite . L. I, c. XXXI, XXXII ). Laonde egli necessario trovare un sistema nel quale si
vegea chiaro come tutte queste espressioni, rimetterei it peccalo , coprirti il
peccato, non imputarti it peccato, vengano a significare egualmente cessare del
tutto il peccato ( tolti tolum id quod vera m et propriam ralionem habet
peccati ) ; e questo sistema quello dell
nomo vecchio c doti uomo nuovo di s. Paolo ; nel qual sistema I uomo vecchio,
dove sta il peccato, cessa, perch sopravviene luo- mo nuovo , una nuova volont
personale , che ea opre quella volont naturale che prima costi- tuiva la
persona perch era suprema e dominante, ed ora non rimane pi che un elemento
della natura ; quiadi nou pu pi estere imputalo il suo disordine, giacch it suo
disordine non gua- sta pi la persona , ma si rimane come aa semplice difetto c
guasto della natura , che tenta bens e sollecita la persona nuova , ma non pu
vincerla s' ella non cede , ed anzi
vinto da 1G0 Ji quelle lue Irosi, riferir si pu acconciamente la prima a
ci che ha nozion di pece calo , giacch il peccalo coperto con ima volont
nuova peccalo distrutto, e la se- conda
si riferisce meglio alla nozione di colpa, come quella che esclude l'imputazio-
ne. Spiegando in tal modo queluoghi della divina Scrittura in un senso
cattolico, io volli rendere impossibile agli eretici l'abusarne, inerendo nello
stesso tempo alla let- tera dell espressione. Ma non avendo niente inteso di tutto
ci il nostro Eusebio, e tuttavia al suo solito decidendo , qualilicando e
anatematizzando; mi mette insieme con Calvino e con Lutero per avere io scritto
il seguente brano, che esprime la sopra esposta dottrina, il quale egli reca
smozzato al suo solito, ed io restituisco qui intero: e E pi che altri
considera questordine della giustificazione delluomo, pi tro- ll vpr acconcia
la maniera scritturale di dire, che Iddio cuopre certi peccali, e non gli imp
ita. In fatti col battesimo non si distrugge la mala volont naturale, ma le se n aggiunge una soprannaturale, che cuopre,
per cosi dire, la naturale, e impedisce t che quella perda f Uomo. Onde il
Salmista: Beali quelli, le iniquit
dequali fu- i ron rimesse, e i peccati de quali furou coperti ; dove si fa la ditlerenza fra le ini- a quit
che si rimettono, e i peccali elle si cuoprono, e sembra che per quelle si vo-
ti glia intendere le colpe attuali e libere ( 1 ), e per questi i peccati non
liberi fu) ili quelli che appartengono
al popolo di Dio, e che per non ne ricevono pi donno a alcuno. Dice
ancora: Bealo ! uomo, a cui il Signore
non imput il suo peccato j ; a ove pare accennarsi a peccati non soggetti ad
imputazione. E cosi intende, se non
erro, questo passe l'Apostolo recandolo egli a provare che I uomo non si
giustifica n presso Dio eoli opere, essendo ognuno pieo di peccato, senza far
eccezione a bambi- ni ; ma per lalto
della divina misericordia, che ci rinnorella in virt dei meriti del Bedentore
(3). Ora questo passo soprabnsl all'acume d Eusebio per trovarmi infetto
deresia, cosi al modo suo solito discorrendola : Gl interpreti; commentando il citato passo di
s. Paolo e de Salmi, affermano che le
parole: Tecla sani peccata. Cui non imputavi t Dominus peccatimi; si- ti
gallicano assolutamente, che sono tolti e cancellati adatto i peccati. Ma il sig. Rosmini nel particolare suo
commento sembra che segua il parlare di
Calvino e di Lutero, il primo de quali diceva, che i peccati nell'anima del
giu sto rimangono, ma nascosti : il
secondo, che non sono pi imputati a delitto. Iti- ti leggi la presente sua
affermazione; nota le parole: Coi battesimo non si distrugge la mala volont naturale, ma le se ne aggiunge
un altra soprannaturale che cuo- pre,
ecc: e quelle altre con che nomina 1
peccati non soggetti ad imputazione ; e
non potrai dubitare della verit del presente mio dello . Onde immediatamente
m'applica l anatema del Tridentino contro quegli eretici che dicevano rimanere
au- chc dopo il battesimo di que peccati, che son morte dell' anima ( quod
recato et pr- priam peccati ralionem na/tel ). Fece, come vedesi, mala
impressione nella mente d'Eusebio ludire che
col battesimo non si distrugge la mala volont naturale >, bench si
soggiunga che t le se n aggiunge una soprannaturale che : impedisce ) Quale il peccato originale ne' discendenti , e le
mate conseguenze necessarie di que- sto peccato , i moti inevitabili della
concupiscenza. Il contento , come abbiamo detto di sopra, sempre un alto personale : ma i moti
spontanei non sono personali quando la persona gli odia e cnmbstle. Onde sani
Agostino, spiegando lApostolo: Tacere ergo te dixt et operari , non affretti
contenliendi et implendi ( che sarebbe azion personale ) , tea ipso molti
concupiteendi ( che azione meramente
naturale ). ( Contra duas (pisi. Pelagica. L. 1, c. X ). ( 3 ) Trattato delta
Cotcicnza, t. 48 . Digitized by Google . 1G1 La ragione nondimeno perch mal
suonino ad Eusebio quelle mie parole ben
chia- ra: abbiamo veduto In collera che gli prese per ver in detto che l'uomo
nasce colla volont guasta e al male inclinala:
dunque conseguente, chegli sirriti altres per- ch io dico, che una
volont inclinata al n alci iinane anche dopo il battesimo, ben- ch q altro
grado c daltra specie. Egli ammette che rimanga la concupiscenza, la quale agli
occhi suoi non pi che una tendenza
naturale, e per intrinsecamente non punto cattiva, non est vitium. sed natura,
come insegna Pelagio (i); or come dun- que si dir, vien egli argomentando, che
non solo avanti, ma (in anco dopo il bat- tesimo sussista nell'uomo la mala
volont naturale? Di pi, per Eusebio, la concu- piscenza, come appunto mostrava
ili creder Pelagio, non elite sensus
carni, et non etiam mentis, come credeva santAgostino; non che la carne, in naturai tendenza di questa;
come adunque c'entra qui, ragiona egli, la mala volont? Centra la mala volont, mio caro Eusebio,
perch in vece di star con voi e con Pelagio, io mi sto con s. Tommaso, il quale
insegna che dicitur etiam ipsa infirmila animar in- firmila carni s, in Quantum
ex conditionc carni s passione s animae insorgimi in tiobis (a) ; e con sant
Agostino, il quale riconosce che la concupiscenza produce an- che ne' rinati
desiderio mala etturpia, i quali appartengono alla volont naturale e guasta; ma
non nuocono; perch l'uomo (la volont superiore creata da D o colla grazia) gi
glinfrcna c li rigetta,- e per que desideri necessari e spontanei non ven- gono
dalla persona umana, alla qual dispiacciono; onde pot dire 8. Paolo, Jam non
EGO ( pronome indicante la persona e non la natura ) operor il/ud, sed r/uod habitat
in me peccatum (3). E sant' Agostino medesimo: Qui ergo dicit, Jam non ego operor illud , sed r/uod habitat
in me pcccatum : si tantummodo
concupisciti re- turn dicit ; non, si cordis conscnsione decermi, aut etiam
corporis ministerio per- fidi (4); perocch il consenso, come abbiamo
detto, atto del libero arbitrio, la cui
operazione sempre personale. Ala non
sempre personale loperazione della
volon- t, la quale talor si muove spontaneamente e per necessit di natura, come
neprimi desideri ed appetiti; i quali sono per dal lbero arbitrio delluomo
cristiano colla volont soprannaturale riprovati ; onde la persona in essi passiva c non attiva, ed anzi attiva
contro di essi. Egli dunque chiaro che
nelluomo giustificato rimane quella radice di mala volont che al male lo
inclina; bench linclinazione non sia una caduta, prevalendo la volont santa e
personale. Tutti i Padri hanno riconosciu- to il combattimento delle due volont
nell'uomo rigenerato e santo: le quali due vo- lont non si confondano per con
quelle due che combattono nell uomo che non
an- cora a Dio convertito, ma che travaglia seco stesso c si dispone
alla conversione. Pe- rocch luomo giusto non
diviso, ma lutto nella volont
saula e soprannaturale a cui pienamente acconsente; l dove l'uomo non
convertito per anco, c tuttavia lottante colle passioni sue, non ancor tutto nella volont buona, ma parte
nell'una e parte nel- laltra miserabilmente diviso c squarcialo, secondo l'
acuta osservazione di sant Ago- stino : ha etiam cum aeternitas deleeta superiti
, et temporali, s boni voluplas relentat inferiti, eadem anima est non tota voi
untate illud aut hoc volens, et ideo dcer pitur gravi molestia dum illud
reniate prue poni t, hoc familiaritale non po- mi (5). Ma se non divisa la persona dell uomo santo, per divisa in lui la natu- ra, (ino clip
rigeneralo anche il corpo a suo tempo, la volont santa, assoggettando- si
pienamente anche la volonl naturale e la carne, potr perfezionare quel bone,
che (1) V. sant 1 Agostino, Dt peccato arig. cantra Pelagium et Coeletti., c.
XKXUI-XXXVlI, C in innumerevoli nitri luoghi, doto confuta questo orrore di
Pelagio e di Muschio. (2) S. I. II. LXXVII, hi, ad 2. (3) Rom. VII. (4) ^
nuptiis et conaup,, L. I, c. XXVIII. (5) Confate . L. Vili, c. X. Hosmim Voi.
XII. 116 Digitized by Google 162 ora non pu se non, virilmente combattendo,
incominciare. E da tallo questo potr intendere il sig. Eusebio altres che cosa
sono que' peccati non imputabili, che nei rinaii si possono anco chiamare
peccati materiali, e che al peccato originale si ridu- cono coll Aquinale, il
quale vi riduce anche il mancamento delle virt (i). CXIV. A confirmare In sopra
esposta dottrinn del modo onde Iddio opera la giustificazione dell'uomo
collinfiision della grazia, per la quale la concupiscenza transit realu etmanet
adii , perch ella non guasta pi la persona dell'uomo, tutta nuora, e pura, e
dominante ; io adducevo degli altri luoghi di s. Paolo, che mi meritarono dal
signor Eusebio nuove condanne. Recher qui tutto il passo del Trat- talo della
Coscienza, fatto segno al furente suo sdegno non quella parte sola che a lui
piacque di metter soli occhio a' lettori suoi, e il passo questo :
San Paolo spiega questa siugular dottrina del peccato, che inabita nell
uomo senza che conduca dietro a s la
dannazione dell'uomo, in questa maniera. La
legge domina nell'uomo fino a tanto che luomo vive; ma se luomo morto, non
gli pu essere pi applicata la legge. Cosi una donna legata al marito tino che vive ; ma morto il marito, ella e sciolta Or
medesimamente la legge del peccalo era
legata alluomo vecchio fino che questi vivea; ma morto l'uomo vecchio, la s
legge del peccato non gli pu essere pi applicala; epper l'uomo nuovo libero
dal peccalo. , bisogna aver prima inteso che cosa dice il signor Antonio
Rosmini; cd appunto qaeslo che voi non
avete inteso: andate avanti, e vel mostrer. n Ecco, secondo i sacri
Interpreti ( i sacri Interpreti sono
sempre tratti in cam- po dal signor Eusebio, i quali per assai pi gli stanno in
bocca che in testa, come si ville e vedr),
il senso legittimo del passo da lui recalo di questo Capii. V' II dell Epistola ai Romani. Come morto il marito, la moglie dalla maritai
legge prosciolta, passa liberamente ad
altre nozze; cosi cessali i riti mosaici, noi dal loro c dominio prosciolti ci
congiungemmo al Vangelo di Ges Cristo: allineile sotto il t dominio suo
rendiamo a Dio frutto degno; n diamo pi in luce opere morte, prole e malnata di
vizi che nascevano in noi sotto la tirannia della legge. Pertanto, per la
. S. Giovanni Crisostomo mostra che per
uomo vecchio sintende I mi- gwty apnunlo perch P iniquit dimora nel principio
personale come in tuo suhbiclto. Ecco lo sue parole: Compiantati forti sumus
similitudini mortis e/ut, ut destrucrctur corpus pecchi ; non hoc corpus sic
appellali*, sed universum muli nani. Sic ut trina vettrem hominem dicit
urjversam ma- lli t escludendo i due uomini, e gli parla (3); e cos pure le proposizioni 23 e 24 del
Sinodo di Pistoja. Ora il Rosmini dice
evidentemente, che prima che luomo sia rigeneralo per la grazia santificante, altro non ha che la
volont naturale, dominante, personale,
guasta, che perde (cio manda in dannazione) tutto luomo . Ora se questa
volont perde tutto 1 uomo, dunque ella non pu che peccare in tutti gli atti che
fa; Dunque il signor Rosmini colla sua
volont naturale, dominante, guasta, che
perde senz'altro l'uomo non rigenerato, pare si alluntani dalle
decisioni di fede, e a si affratelli cogl impugnatori medesimi della fede (4). Dunque la volont naturale non guasta, ma 1 uomo colle sue virt, quantun-
que non esente dal peccato originale, pu piacere a Dio e salvarsi. Non ella stringente questa maniera
d'argomentare? Eli no, Eusebio mio, non
istringe nulla affatto, se non de granelli. Distinguete il guasto intrinseco
della voloDt, dalle azioni della medesima. Il guasto intrinseco della volont
naturale, la sua avversione da Dio, ed obbli- qnit, in cui s. Tommaso,
Bellarmino, Solo e Gaetano, che sono gli autori di cui avete pur mostralo di
saper i nomi a mente, tanto siete erudito! ripongono lessenza dell originale
peccato, e quella appunto che perde, cio manda in dannazione tutto loomo;
giacch questa dannazione l'effetto
necessario dell'originale peccato, il che
di fede, vogliate 0 do, come vi ho gi mostrato. Le azioni poi della
volont naturale c guasta, non sono gi quelle che mandano in perdizione 1 uomo
non rigeneralo; ma ben accrescono la sua perdizione qualora siano peccaminose;
e se sodo oneste, pur dalla perdizione noi salvano, senza i meriti e fa grazia
del Redentore. Or voi avete citato il concilio di Trento, prendendone per solo
quelle due pa- role, nelle quali egli dichiara il libero arbitrio non essere
affatto estinto per l origi- nale peccato, c tutto il resto di quelle
definizioni della Chiesa prudente come solete essere, sopprimendo. Ma chi ha
mai detto, bell'Ensebio mio, che il libero arbitrio pel ( 1 ) Ivi, f. 34. (2)
Recheremo quanto prima il lesto intero del sacre Concilio, in vece della poche
parole raffazzonate a modo suo e riportale da Eusebio. (3) Prop. 27 Baji.
Litemm arbitrium fine gratin Dei adjutorie, non niei ad peccandum valet. Prop. 35. Orane quoti agii peccalor , ve!
tenue peccati, peccalum est. Prop. 37.
Cum Pelagio tenlit qui ioni aliquid naturali 1 , hoc est quod ex naturai eolie
viribus ortum duci i, agnoecit. Prop. 48
di granello : Quid aliud eeee postumue n tei tenebrar, nieiaber- rotio, et niei
peccatum line fidei lumini sine Chrieto, tl eine charitale f (4) R. Atf XIV, f.
52, 53. Digitized by Google 172 peccalo orig : na!c sia nell uomo estinto ? Io
certo noi dissi mai : perch dunque vel mettete voi nella testa, e de' vostri
sogni fabbrili fate a me colpa ? To dissi bene, essere il libero arbitrio per
cagion del peccato dorigine indebo- lito e al male inclinalo; ma non confessate
pur qui voi stesso, sehbon fra denti, che questo quanto decide appunto il Tridentino Coucilio,
viri bus licet atlenuaturn et inclinatum ? perch dunque prendervela meco, se
meno a voi, e pi al Tridentino acconsento? Dissi ancora, che la volont delluomo
che nasce guasta; ma significa forse
qnesto, eh ella sia estinta? Anzi se fosse estinta, non polrebb' ella essere
per avven- tura n guasta, n sana. Che se il Concilio di Trento dichiara 1
arbitrio debilitato e al male inclinato, vnol egli forse, cosi dicendo, che noi
intendiamo tutto i opposto di quel che dice, cio che la volont umana sia anzi
pienamente sana, come pur voi vorreste 3 e qual sinistro spirito vi conduce a
recarne in prova quelle stesse parole del Tridentino? Ma da quelle, voi dite, c
chiaramente apparisce, che la volont naturale del- luomo ( come Iip si ponga (r) inclinata al
male ) non fu mai per s stessa alluomo
cagione di perdersi (a). Da vero,
che voi sapete trovare delle cose assai recon- dite. se nel solo aver detto il
Tridentino che il libero arbitrio non fu pel peccato estinto, voi chiaramente
vedete essersi con ci definito, che dunque
la volont na- t turale dell uomo, non gli fu mai per s stessa cagion di
perdersi > I Per me con- fesso, che non ci veggo nulla di questo; e duro ben
amo fatica ad intendere in che senso vogliale ci asserire, essendo tutti i
sensi che dare vogliate aU'affermazion vostra as- surdi egualmente. Se
considero quel ch segue nel vostro libello egli pare che vo- gliate intendere,
che la volont non sia necessitata a
peccare ; e in tal caso vi richiamo, signor Eusebio mio, alla mente, che
questa unaltra questione, e che la
perdizione veniente all'uomo dal peccato d'origine di cui si tratta, non gi la per- dizione veniente dalle male
operazioni che far possa la volont, la quale se anco non operasse nulla n in
ben u in mole, perderebbe tuttavia luomo egualmente; ma la perdizion che procede dal vizio inerente
alla volont stessa, pel quale la natura no- stra nasce avversa da Dio,
peccatrice, serva al peccalo e al demonio, in ira a Dio, e ad eterna
condannazion sottoposta. Non pu la volont naturale delluomo mutarsi da questo
sialo, e colle proprie forze risanarsi, e cosi impedire che il peccato che in lei perda I uomo; e per si dice che il
peccalo regna, come dice s. Paolo, ovvero, che
il medesimo, la volont guasta, in cui sta il peccato, dominante, perch dalla grazia ancora non
vinta. Possibile che non abbiale saputo intendere tulle queste cose die sono s
chiaramente espresse in quel capitolo del sacro Concilio di Trento, da cui voi
strappate si poche parole menandone un vanto inolile, e che pur dice cos : oportere ut unusguisgue agnoscat etfateatur, ! Non intende egli, che se c la volont non si
muove se non da quella forza che con lei stessa cospira , dunque niuna forza pu
movere la volont se ella stessa non cede ; e che net poter resistere al
movente, e non associarsi ad esso, sta appunto la radice delia libert. E
non questa daltra parie la dottrina
dell* Aquinatc l dove mostra che importat nomen voluntarii , quod motus et
actus sit a propria inclinatone ( S. i. Il, VI, 1 )? E dove pare insegna, che
quod fiumana mena ail mota tantum e i nullo modo sit principtum hujus motus
, est conira ralionem voluntarii , cvjus
oporlet principium in ipso esse : onde egli
uopo, secondo s. Tommaso, che nellinfusione della carit Iddio stesso
muova la volont in modo, che con lei cospiri : Non potest dici , quod sic
moveat Spirti us sanctus voiunlatem ad aclum diligendi , si cut movetur
instrumentum : quod etsi Jit prin- cipiti tn actus. non tamen est in ipso agere
, vel non agere ; sic enim tollerelur ratio voluntarii (li. 11. XXIII, 11 )?
Che pi? Se il luogo da lui censurato come infetto di giansenismo termina con
queste precise parole : c la volont cresce la forza delluno 0 . dellaltro de
due allettamenti per lintrinseca sua
pbopria encrgia i; parole che del tutto abbattono il gianseniano sistema delle
due dilettazioni prevalenti sulla umana volont? Vero c che la forza dalla
libert priva della gra- zia divina
limitala nel resistere alle tentazioni, e di questi limili fu da me
parlato alle face. 31-34 del Trattato della Coscienza: ma che perci? Pretende
forse Eusebio Cristiano, che il libero arbitrio delluomo sia per natura sua s
possente da vincorele tentazioni lutici Sei creda egli : ma non creda perci,
che collo spauracchio della taccia di giansenismo che ci minaccio, possa
giammai ottenere che il crediam noi. (3) R. Atf. XIV, f. 5a, 53. Digitized by
Vj( 175 rale? o volete voi forse che non si perda nessuno, tenero come siele? Altramente
do-- vrele pur confessare, che tanto della salute, come della perdizione
dell'uomo, la ca- giou vera dee esser sempre la volont. .Ma via, voi volete dire, che potendo la vo-
lont astenersi dal male e seguire il bene, ella pu non esser cagione all uomo
di perdizione colle opere sue. Se alla
volont la grazia di Dio congiungete, daccordo; se della volont sola intendete,
io mi sto colla Chiesa c non con Pelagio. E da vero che ella pure misera la prova che voi ne date; perocch
dite : t Vedi su tal pro- li posilo il Commento del Gaetano, dove dopo una
rigorosa serie di evidenti ragioni ( conchiude : che l uomo colle sole naturali
sue forze, anche nello stato di natura
guasta, ancorch si trovi in attuale peccalo mortale, pu fare in
particolare qual- che alto moralmente
boono secondo tutte le circostanze, per modo che in esso non ve commetta nessun
peccalo o diletto (i). Da vero che il
testo conchiude assai! siete veramente terribile colle vostre citazioni! Qual testo
pi calzante a provare che la volont naturale dell'uomo non fu mai per s
stessa all'uomo cagione di perdersi j! L'uomo che ha la volont sua in attuale
peccato mortale pu far qualche atto moral- mente buono. Dunque la volont
naturale non Tu mai per se stessa all uomo cagione di perdersi! Eusebio mio, eh
ci vuol altro per non perdersi che il poter fare qualche allo moralmente buono
secondo tutte le circostanze! e farlo in attuale mortai peccato! no, no, questo
non basta, perch la naturai voloot non ci perda; giacch bonum ex integra, causa
malum ex quolibet defeclu; e come dice s. Ciacopo, Quicumgue aulem totam legem
sercaverit, offendal autem in uno fadus est omnium reus ( 2 ). Sicch vi giovi
sentire per conchiusicne il vostro Cardinal Gaetano che cos dice : Homo in
stala nalurae corruptae polesi per sua naturai ia, guantum est ex su fj-
cientia opcrativae virtuiis , o per ari aljuod opus moraliter bonum , licet non
ros- si t savi! vnifersvsi moraliter bonus i face re \ e ne d la ragione; i/uia
na- turae integrae proprium est unifersitatem operum bonarn moraliter peragere
posse, ac per hoc differ a co&rupta (3). Laonde la volont in quanto
contiene in s il vizio originale perde 1' uomo; e la stessa volont se nun sanata e sostenuta dalia grazia divina, non
polendo, come s. Tommaso insegna, a lungo astenersi dal Cadere in peccato
mortale, perde ancora laomo considerata nelle sue azioni; bench . non sia perci
necessitata a peccar sempre: che a produrre la perdizione di tutto l'uo- mo
non necessario peccar sempre in tutti
gli atti; ma anzi per salvarsi
necessario non avere in s peccato nessuno, e o non peccar mai, od
ottenere depeccati la remis- sione da Dio e la giustificazione (4). CX VII I .
Ma la pi stupenda di tolte le cantonate prese da Eusebio in fra il baio di sue
passioni, pur quella in cui egli urt in
occasione eh io scrissi che, surta
nell'uomo una volont soprannaturale (per
l'infusione della grazia nel santo battesimo), c oggimai questa che governa e che tiene sotto
di s la stessa volont t naturale, questa
lunica volont personale nell' uomo : ed essendo questa buona, ella salva luomo (5). Egli
pur chiaro a lutti quelli che non hanno perduta la (1) R. Aff. XIV, f.
53, noi 0 . (2) Jac. II. io. . (3) In S. I. It, CIX, 11 . (4) Io Ita scritta
net Trattato della Coscienza (face. 31): c Ncquali istanti di tranquillit, (
luomo pu seguire l esigente delle sue idee pel buono istinto razionale, che a
lata della con- ( cupisccnza non ispenln mai, ai conserva anche nclluom
decaduto, come quello clic trae la sua ?
Risponda se pu ; e so non pu, contessi al- meno la sua distrazione nel leggere
non meno che nello scrivere. (3) Trattalo delia Coscienza , f, 47 R. AIT. XIV, f. 54. Digitized by Google 176
testa, che quando altri dice nna volont, dice nna potenza o un attivit dell'
uomo, e quando dice toprannahirale , dire una potenza o sia un'attivit non data
alluomo dalla natura sua ma suscitata in esso dalloperazion della grazia : la
grazia adun- que la cagione di questa
potenza; e la potenza di cui si parla I
effetto della gra- zia. In una parola questa volont soprannaturale il potere che 1 uomo acquista colfinfusion della grazia di
operare il bene soprannaturale , potere che risulta dal- l'unione dellanima con
Dio per la carit, la quale attingil Deum, come si esprimono i santi (i). Or
questa volont personale; perch questa
volont soprannaturale di- venta la pi elevata di tutte le potenze umane, l'
altissima potenza, come I' ho chia- mata nel Trattato della Cote ienza, il
principio attivo supremo dell uomo; |ie roc- chi 1 io ho dimostralo che In
persona l'uomo in quanto si considera
operante con un principio che domina (almeno durante l'azione) tutti gli altri
principi di operare o potenze che sono nell' uomo. Ilo dimostralo ancora che
dall essere muralmente sano o moralmente guasto il principio supremo (la
persona), dipende Tesser l'uomo stesso buono o cattivo, onde dissi che il
principio supremo sede della moralit.
Laonde se questo principio supremo
viziato, egli sede della iniquit
e malvagit dell'uo- mo ; se poi
retto sede della bont. Ora nell
uomo non ancora rinato alla grazia la sua volon l naturale viziala, e per dicesi veramente che iu
lui il peccato generalione transfusum.
Ma nell'uomo rinato la volont naturale non
pi il prin- cipio supremo; ma diventa principia supremo il potere che
acquista l'uomo di opera- re il bene soprannaturale ( excellkntior i'Oluntas,
secondo s. Bernardo), potere che nasce oclTnnione delt'uomo con Dio: dum
ronjungit animato Deo, justificando ipsam, come dice s. Tommaso (2). Questa
volont soprannaturale domina nell' uo- mo, lino che il libero arbitrio non le
poae ostacolo, come avvien nel bambino; ella regna e governa, e perci attiva e suprema, lilla sede della moralit ; perch, come dicevamo, il
principio supremo sempre sede della
moralit buona o cattiva; ma essendo saula, come santo il potere di elevarsi a Dio, di amarlo e di
operare il bene soprannaturale conforme a un (ale amore, ella sede della santit , e dovendo luomo venire
rigenerato anche nel corpo in virt di quella santit che risiede nella parte sua
superiore, ella anche principio della
salvezza dell'uomo. Del che non aveudo nulla adatto inteso il signor Eusebio, Or qui io sono tra- m scordato, egli esclama,
n mi sembrerebbe possibile trovarsi tin uomo che in tanto poco pussa abbracciare errori 0 maggiori di
numero o peggiori di qualit ( 3 ). Se la
maraviglia Ggliuola, come si suol dire,
dell' ignoranza, di che genitori poi gara prole il trasecolamento del nostro Eusebio?
Per dirlo in breve, avendo egli letto nel mio libro che, entrata nell'essenza dellanima la grazia, e
aggiuntavi la coope- razione del
semplice nostro volere, la salute umana
smurata 1 ( 4 ), egli tosto confu- se la grazia coll' istinto 0 volont
soprannaturale che quella produce ; e andando an- cora un grado pi oltre nella confusimi
della mente, (issatosi alle parole principio supremo, le intese come esprimenti
Dio stesso; perocch Iddio, egli argoment da suo pari, il principio supremo di tolte le cose. Avendo
oltracci trovato, che io chiamo questo principio supremo dell' uomo, e attico e
santo e soprannaturale e sede delta santit e della salvezza dell'uomo, non ne
volle di piu : cosi soggiunge: 1 Or
questa ereticale proposizione ti parreb- . Il valore di questa aiTermazione
generale si deo desumere dal valore degli errori particolari da lui notati, i
quali riuscirono tutti ad essere altrettante illusioni della sua mente, ovvero
fumo di sue passioni. Non contento poi di prendcrlasi meco, se la prende nella
stessa nota col cardinale Gerdill Oa vero che qui il luogo di applicare il proverbio latino .
Sue Minervam, o la traduzione italiana: c I paperi meuauo a bere le oche > !
Parlando dellopinione tenuta dal Gerdil intorno alla forza obbli- gante della
legge naturale, dice, mentendo al suo solito:
! Egli i pregalo di (i), il che l' unica verit che nel libello suo si
contenga. Ora per si parr se voi, qualunque siate, che sotto la maschera del
Goto nome in Geriste cotanto in me, siale un uomo di buona fede, illuso da uno
zelo maggior del- la vostra scienza; ovvero se siale quel tristo maligno e vile
che il vostro stile ed il vo- stro prot edere darebbe a temere. Perocch, se
siete il primo, converrete assai volen- tieri d avere errato, e sentirete il
sacro dovere di richiamare il mal detto ; l dove se siete per rostro male il
secondo, non vi zittirete pi, ovvero continuerete tuttavia ad insidiar nelle
tenebre, siccome sta scritto, paraverunl sagiltas suas in pbaretra ut sagittent
in obscuro. Vero che io nel difender me
stesso ho dovuto mostrare gli errori vostri ; ma ove veramente di buona fede
abbiate errato, e la verit cattolica vi stia sul cuore, il dispiacere d esser
convinto d errore sar in voi superato dal troppo piacer maggiore di poter
dismettere 1 errore stesso in faccia del vero. Che se poi fo- ste
sciaguratamente un di coloro che in tenebri i ambulanl, e che oderunt lueem -,
di nuovo il predico, vi tacerete, o tesserete lacci notturni. Ma pur sappiatevi
in quao- to a ci che n io, che in alto pongo la mia speranza, ho alcuna cagion
di temervi ; n a voi ho inteso rispondere con questo scritto, che solo dettato in servigio demiei fratelli, i
fedeli, a pi de' quali venia posto lo scandalo. C bene spero d' avercelo gi
rimosso, e fattili accorti del pericolo d inciamparvi ; per forma che gi non
pio mi sia uopo altra volta occuparmi a diradare quel buio , che con tanta
scaltrezza di men- zogne e di perGdie private e pubbliche voi di diffondere
tuttavia vi allentaste. Ma che coughielture, che ipotesi vo io facendo? E non
potrebb essere tuli altro est super noi lumen vultus fui : per questo
Iddio il fonte della legge naturale; non
perla ne* cessila assoluta clic voi trovate della sanzione. La sanzione d*
altra parte non manca mai, n pu mancare alla le^ge naturale, essendovi almeno
implicitamente contenuta. D'altra parte, non cre- diate che basti la sanzione a
render possente la volont nostra fino ad adempire tutta la legge:- no, non
basta. Che cosa si richiede di pi, Eusebio mio?
La grazia. Voi poi, che vi mostrate in parole tanto nemico del
tiaianisioo, or perch parteggiate a fa- vor d'opinioni che a quel dannato
sistema favoriscono? egli forse questo
il segno dell* acutez- za vostra nello scorgere le conseguenze lontane? E di vero, il dire, che la legge naturale non
obbliga senza una sanzione posta ad essa da Dio, egli assai prossimo al pretendere, che la legge
naturale non obblighi senza una rivelazion positiva, che manifesti ed accerti
gli uomini di una sanzione divina. Or chi ammette che non ci possa essere
obbligazione morale senza po- sitiva rivelazione, ammette ancora che senza
rivelazione non possa esserci n bene n male mo- rale; quindi ammette che P uman
genere privo di rivelazione rimarrebbe senza il suo scopo, che pure la virt e la felicit conscguente: quindi
a lui sarebbe necessario un ordine sopran- naturale affn di raggiungere il
naturale suo scopo: dove entreremmo di piano nel balani smo o a questo molto
vicini. Che se la sanzione divina, che voi supponete necessaria acciocch la
leg- ge naturale abbia virt di obbligare, non viene alluom rivelata; Puomo non
pu trovarla se non con questo ragionamento: c Essa cosa obbligatoria losservar la legge
naturale. Ma la giusti- zia vuo^e, che si punisca chi manca olle proprie
obbligazioni. Ora Iddio il giusto
Signore del mondo. Dunque Iddio punir deve quelli che, violando la legge
naturate, mancano alle proprie obbligazioni i. Chi non vede che questo modo di
ragionare suppone dinanzi , che la legge naturale per s sola induca
obbligazione? La sanzione adunque trovata per via di naturale ragionamento sup-
pone prima esistente P obbligazione della legge e non la produce, E nel vero,
so la logge na- turale per s stessa non obbligasse come vuole Eusebio ; in tal
caso colla mia sola ragion na- turale io non potrei pi argomentare resistenza
di una sanzione divina; perch, non essendovi obbligazione, non vi sarebbe
necessit di sanzione. L* esistenza di quella sanzione adunque ooq si pu
rinvenire polla ragion naturale nel sistema d Eusebio, che suppone la legge
naturale da s sola non essere obbligatoria: egli dee dunque ricorrere ad una
sanzione soprannaturalmente rivelata; od eccoci, come dicevo, nel Baianismo,
sistema che dichiara Puomo non poter essere da Dio creato colla sola natura
perfetta ed intera senza lordine soprannaturale. Che cosa dunque si d*e dire,
quando il signor Eusebio alierma che con lui dee sentire c chi se la vuol
tenere co* Padri, coll* Angelico dottore, col senso pi proprio delle sante
Scrii- t ture e colla ragione i? Che cosa si dee dire? ch'egli ha sempre
mentito () Face. 4. Digitized by Google 181 il vero? non polrebb' essere che
locculto nostro assalitore fosse un bello spirito di questo secolo, il quale
avesse voluto pigliarsi gabbo di noi e del pubblico, e de teo- logi, e de
religiosi, e de sacerdoti, e della religione medesima? Egli pare anzi aver- -
vi di ci non piccola verisimiglianza. Perocch chi considera bene tutto il tenor
del libercolo vituperoso, verrebbe voglia di suppor veramente, che chi lo
scrisse abbia preso il nome di religioso (Eusebio) per far la satira de
religiosi, e quel di Cristia- no per far la satira de' cristiani, ed abbia
ancora assunto il tuon di teologo che con- troverte con modi cosi fecciosi e
ridicoli, con tanta ignoranza, impostura e fiele, per far la satira de teologi
; quasich cotesti non sapessero mai disputare in fra loro con assennatezza,
senza mancare allurbanit, ed offendere la carit. E di vero, che il finto
Eusebio sia qualche irreligioso secolare di buon umore, al qual sia sabato il
grillo di voler ridersi allaltrui spalle, il farebbe credere anche sol questo,
eh egli ben mostra non aver il Confiteor in sua vita mai recitato, dove ii
peccavi precede al rnca culpa , mentre egli taccia di grosso errore il
distinguere dalla colpa il peccato. Ol- tre di che, non par ella una beffa
chiarissima quel sottomettere chegli fa le sue ri- flessioni al giudizio delia
Sede apostolica, quando indirettamente pur la trafigge per gli benefizi a me
falli, che sor. si cieco ed eretico laute volle quant egli dice (i); e poi le
disubbidisce fino col frontespizio del suo libello, operando contro i decreti
e- pressi di Clemente Vili, che viet agli autori di occultare il lor nome, o di
stampa- re alla macchia, senz alcuna approvazione di ecclesiastica autorit (2)?
Di pi, dopo avermi egli calunnialo e vituperato con totc falsit e con tanto
livore, fa poi sulla fi- ne lelogio alla bont del suo proprio cuore, 1
abbondando secondo s. Paolo, nella ere colui, che oggid che tutto il secolo
corre al razionalismo, negando od al- terando i misteri del Cristianesimo,
oggid che labate De la Mennais prende a impu- gnare il dogma dell' originale
peccato ; colla maschera e col tuono di leologastro Tassi ad assalire uno
scrittore cattolico, accusandolo non dell' Dna o dellaltra, ma di quasi tutte
le moderne eresie ad un tempo medesimo, e in fine paternamente l'esorta a non
imitare il De la Mennais nella ribellione alla Chiesa: e ci a qaale scopo, a
quale proposito? Veggasi (pi la belTa : solo al One, al proposito di sostenere
una dottrina di razionalismo: togliendo a decidere coIIa ragione umana ci che
alla giustizia di- vina convenga: togliendo a risuscitare le obbiezioni che
faceva un tempo Pelagio pr V opera
nostra ; egli fard ci che noi volevam fare, e crcdam d* aver fatto ; ma per
non essere noi infallbili: forse non l*
abbiam fallo, o c* ingann la persuasione che avevamo di buo- c na fede.
Imperocch noi non vogliamo finalmente n tentiamo di fare altro, o con questo
scrit- c (o o cogli altri, se non di mantenere fermissimamente i principi
costanti della Chiesa, mae- etra agli uomini
tutti, che ascoltar la vogliano, non meno di morale che di sana credenza; t e
di dedur da essi con logica dirittura ogni nostro dottrina; dal che
dipartendoci, inavveduta- . Cosi trovasi scritto alla face. 75 del Trattato
detta Coscienza: n questo per, lo sapevamo, polea legare le lingue mendaci, e
impedir che di- cessero che noi ci siamo
attenuti a* soli nostri raziocini senza curare T autorit . Quello che ci sembra
pi strano si pi tosto di essere accusati
ad un tempo di due peccati opposti ed in- conciliabili fra di loro, come fa
Eusebio, il quale d una parte ci attribuisce
; qua- sich questa certa verit non sia un principio dalla Chiesa
cattolica professato, o noi possiamo essere del tutto certi che sia verit
quella che dalla Chiesa non sia professata, massime poi se la dottrina a lei
contraria venga dimostrato contenersi ne* principi antichi al deposito della
fede nostra appartenenti. Se io dimostro che tal dottrina in questo sacro
deposito si contiene, in vano voi torrcsto a mostrarla contraria ad una pretesa
verit ; che anzi questa tessa verit supposta dovrebbe aversi per una mera
illusione, fin a tanto che la dottrina a lei contraria ha il saldo appoggio per
s dell* autorit della universal tradizione delta Chiesa cattolica. Ma per
tornare al- la prima accusa del negar noi 1* errore al tutto invincibile quando
trattasi di deduzioni che noi stessi facciamo da* principi della naturai legge,
diciamo eh* egli nula affatto ha capito detta que- stione ; e basti a provarlo
I* aneddoto eh* egli adduce del P. Riccati, che calcolando diceva: Qual- .
Povera (estrema! Quanto sarebbe meglio che non ragionaste di quello che punto
non vi sapete f Io vi mander a vedere il Trattalo delle cause occasionali degli
errori da me esteso nel voi. Ili del N. Saggio (Se*. VI, P. IV, c. Ili), e a
leggere particolarmente la face. iSff, dove spiego appunto gli errori che
prendono i matematici oc 1 loro calcoli per isbagli di lingua o di penna,
cora' quello da voi addotto. (i) Ivi f.
62. 183 contro l'originale peccato: togliendo a riprendere e mordere chi nella
natura umana riconosce colla cattolica Chiesa un infezione morale, per
propagazione trasmessa: e in una parola scavando i fondamenti al dogma del
peccato d'origine, e distruggendolo fino nel suo concetto, col sostituirvi una
mera finzione, conservatone il solo nome. Deh voglia il cielo che quest' ultima
ipotesi sul mascherato autor del libercolo sia pur la vera! Stare' io
contentissimo dessere stato cos gabbato: che lonore del sacerdo- zio e della
religione sarebbe in salvo. Pure il solo esser possibile questa a me di- letta
supposizione, dee bastare a far si, che non si possa dare il biasimo d'un tale
scritto ne ad un religioso, n ad un sacerdote : ma che anzi si debba il
contrario pre- sumere. Che se pur tuttavia egli fosse un uomo di Chiesa,
prevenuto da caldo zelo, ma pure in buona fede; a lui sar facile levar tino il
dubbio dal pubblico, che il li- bello sia frutto di maligne passioni allignale
in cuore di persona a Dio sacra. Final- mente se pur queste passioni ree ne
fossero pur troppo le vere autrici, del dolore che un tanto male Rapporterebbe,
avremmo qaeslo estremo conforto, che non permette Iddio i mali per altro se non
per cavarne maggiori beni. Noi certo, nello scrivere questa qualsiasi
giuslificazion nostra, una cosa sola sperammo, d una cosa sola fa- cemmo a Dio
voti, cio : Ut cum respondendi necessitate , sine studio contentionis, pr ver
itale aertalur , inslruantur indoeli, atqueita in Ecclesia^ convertatub
OTIUTATESI , Quoti EST INIUICUS IN PERNICIEil il ACU NAT US (i). (i) De pece.
orig. Digitized by Google Una ristampa del libello si foce a Lucca, Tipografia
di Luigi Guidoni i8|l, in fine alla quale
dello, che le piccole mutazioni fatte in essa tono tutte fecondo la
mente espressa dell Autore. In questa edizione sono ommesse quelle parole, colle
quali Eusebio Cristiano attribuiva a tutti i cattolici il suo sistema
sull'essenza dell' ori- ginale peccato : principio di ritrattazione de' suoi
inganni, che speriamo dover essere buon preludio delia ritrattazione completa
de medesimi. Nell' avviso al lettore si d per ragione di quella ristampa il
dover mettere in ' guardia contro gli abbagli che , in fatto di materie
importantissime come sono le morali, ha preso il cel. abate Rosmini ; i quali
errori per, nel sommario di essi dicosi non pi che ha presi , ma solamente che
sembra aver presi. Al qual sommario giover che io soggiunga delle brevi' note,
le quali nel precedente opuscolo hanno la loro piena dimostrazione. Ecco
adunque il sommario delle proposizioni che mi si attribuiscono, e le loro
risposte. i Porsi da s. Tommaso nelle
cose morali il concetto di peccato senza il s concetto di colpa . Proposizione
Falsamente esposta. - Io non dissi c
porsi da e. Tommaso nelle at}9&9 a sa ILIJJSTSf.f B l^opo la mia
Esposizione delia Dottrina cattolica intorno al peccalo originale , rimase
dimostralo, a giudizio di valentissimi Teologi, clic la distinzione clic fece
8. Tommaso fra il concetto di peccalo e quello di colpa, antica nella Chiesa, ne- cessaria alla sacra
Teologia, logica, uscente dalla natura delle cose. Tuttavia poco fa comparve
alla luce un opuscolo novello volto a impugnarla, e fin a pretendere ch'ella
nell Aquinale non si ritrovi (i)l Coglier io volootieri questoccasione per
avvalorare di nuove autorit quella distinzione preziosa, cosi maggiormente
illustran- dola. Ma prima dir due parole della condizione del toccalo opuscolo
e del suo scopo; persuaso che la notizia de fatti che narrer, sia utilmente
conservata ai posteri; e che ella contenga altres un documento utilissimo agli
ecclesiastici, massime giovani, i quali sommamente rileva che sieno per tempo
ammaestrati del modo di trattare degnamente delle teologiche cose, cio con
tranquilla maturit, con iscienza vera, scevra da ogni presunzione ed
ostinazione, con lealt e con carit, c in una parola con dimostramento di tutte
le virt: atteso lalto e nobile ufGcio che
quello di teologo nella cattolica Chiesa. La bellezza e la santit del
quale uliicio meglio apparisce e ri- salta al confronto delia schifezza e della
empiet di chi lo tradisce e vilipende; e per il vedere questa schifezza per
evitarla pu grandemente giovare. L autore, a cui d noia la lucida distinzione
delle idee di peccato e di colpa, tace il suo nome, stamp lo scritto suo alla
marchia, il diffuse per Italia soppiatla- raeute, d ira e di costumi procede
pressoch uguale ad Cuscino, di cui si dichiara il campione, ,se pur non desso; perocch le facce coperte, a dir vero,
non si possono ralfrontare. E poi del tutto nuova la tattica che usano cotesti
esseri invisibili (crediamli (I) Emme critico-leolajico rii alcune dottrine del
chiat istmo Antonio Itoemini-Serlnili prete roner etano, articolo I. Kos unti
Voi. XII. 450 Digitized by Google 194 pure 8|;irilelli, anzi che umano
creature) per infestarci. Al lihercol di Eusebio fallo girandolar per le case
da mani indignile, senza bisogno alcuno d' npprovnzioo di censura o
ecclesiastica o secolare, io risposi dimostrandolo pien derrori e calao-
ninlore. Lobbrobrio di calunniatori convinti, quegli occulti sei portarono in
tutta pace; ed in luogo di provare a purgarsene, consigiiaronsi di dar mano ad
altr' arme offen- sive, 'coni' essi le credono; ma giudichi il lettore discreto
se sieno tali. L'uua di que- ste un
manifestino cieco contenente nulla pi che minacce; volteggi un po' per aria,
cal poscia in (erra come foglia inaridita. Un'altra un artieolello posto in cir- colazione contro
i teologi piemontesi, che nel Propagator Religioso castigarono il finto
Eusebio; n sar inutile dare qui p : cciol saggio al lettore dell"
efficacia con cui combatte (i). A bel principio lautore pone un mollo di sant
Agosliuo, che caratte- rizza a maraviglia gl invisibili nostri infestatori,
perocch dice : Suiti cnim quidam qui justissimc damnalas impielatcs adhuc
libcrius defendendas pulant : et sunt qui OCCULT fUS PENETRANE DOMOS, et QUOD
IN APERTO JAU CLAMARE METVVNT in secreto seminare non QuiEscuNT ( 2 ). Credono
adunque che il rinfacciare altrui falsamente le proprie vergogne, basti per
essi a nettarsene interamente. Ora la medesima tattica sugger loro di dare a
noi, la cui faccia pur nota al pubblico
non da jeri n da jer I altro, lappellazione di facce sconosciute, s stessi in
pari tempo vantando di esser de cani che lalranci contro (3)1 Deh non sembra,
che noi vogliamo oltraggiarli pur col riferire i loro oltraggi ? anzi- fino i
loro slessi vanti ? E da vero, che son sagaci ! Non sono obbligati veramente a
sapere, che il cane, oltre essere il simbolo della fedelt, fu anc ira sempre
tenuto pel simbolo del calunniatore. Non leb- bero le stesse legislazioni per
tale, ingiungendo fin anco a calunniatori In pena di abbajare e di latrar come
cani (4) ? Ma non pi ; egli sar panilo essere anche assai questo poco :
passiamo alla lerz arma offensiva ohe snudano, e vegliamo se sia mi- glior
delle prime ; ella appunto 1' accennato
libercolo, che al Iratlalellu presente porge occasione. Lanonimo aulore prende
a mollo, colla solila loro prudenza il leslo di 8. Tom- maso : Ex verbis
invrdinatc prolalis incurritur haercsis (5), il quale dee essere come la
maggiore, certamente innegabile, del sillogismo, che intende piantare per
batte- ria. Aspelterebbesi ora, che la minore, colla quale stringerci fualla
resa, dovesse essere il dimostrare ampiamente, che noi adoperammo veramente ne
nostri scritti un linguaggio s nuovo e disordinato, da doverci condur diffilalo
nel baratro dell errore. Ma nulla di questo, per avventura. Tutto il delitto,
di cui collintero suo opuscolo Tool convincerci, si di aver noi messo in campo quell' aulica
distinzione fru colpa peccato, che per
nostra grave sciagura, da lui e dagli altri suoi compagni era del (1) Sulla
difesa del chiariti, abate Antonio liotmini-Serhat . inferita nel Propagatore
Religioso Piemontese. Osservazioni di C. B. P. Articolo I. Acvertenzt allo Scrittore del- la difsa. Firenze, Tipografi* e Calcografi* all'
insega* di Clio, i84i. (2) Epiit. CXClV, n. . (3) i Ci assumiamo unicamente 1
ufficio di guardia fedele che al comparire di raccx tco- ( usciere, od al
lospetlo dell' appressarsi il lupo alla greggia, col Lira**! ne d indizio c al gregge ed al mandriano. N ben fi saprebbe
dire di qcal razza cani fieno quelli, i quali allora . Si prelende che Cario V
re di Francia aves- se introdotto questo castigo nella sua corte ( Saint-Fois,
Ocuvres, t. 4, psg. i4 5 ). (5) S. Ili, q. XVI, Vili. Digitized by Google 195
lutto ignorata. Ed avendo io citati due luoghi di 8. Tommaso, dove il santo
Dottora quella distinzione espone, il valentuomo, sembrandogli ci assai poco,
mi dichiara corto in suppellettile (i); s poi dimostrando s ricco, da poterne
fare ampio scia- lacquo. Se non che, affine di poter meglio esagerale quella
mia povert di teologica erudizione, egli finge di non aver pur veduto il mio
libro sul peccato dorigine con- tro Eusebio, dove con altre autorit
dell'Angelico ho io bene quella dislinzion con- firmala; rara prudenza anche
questa di dissimulare, quasi non fosse, quello a cui non si pu fare risposta.
Vero , che nella discussione presente non trattasi di sapere se l altrui
suppellettile sia corta o lunga; n anco importa, che T armi da me usale sian
poche, purch sian buone. N io scriverei certamente una linea, che Dio me ne
guardi a dimostrare una cosa s inutile a sapersi siccome questa, se io in
suppellettile sia corto, o pur ben provvisto. Che anzi in quella vece, siccome
fanno i poveri che vivon d'accatto, non poco rallegrami di poter sopperire alla
brevit della mia suppellettile, prevalendomi della sua, chea dir vero gli troppo lunga ed affatto superflua. Vo- glio
dire, per uscir di metafora, che traendo egli in mezzo vari luoghi di s. Tomma-
so ed altre buone autorit, intendendole e interpretandole come opposte alla
dislinzion de' concetti di peccato e di colpa; io all'opposto non far quasi
altro in questo mio trattatelln, che confirmare, ' e di pi luce illustrare, con
quelle medesime sue autorit, la distinzione da lui vanamente impugnata. Perocch
veramente tutti que' luoghi, che egli adduce, sono attissimi a coufirmarla e a
maggiormente illustrarla. Di che appa- rir che tale l'efficacia, tale I' avvedimento di questo novello occulto
assalitore, quale quella di tutti gli altri precedenti. I quali, qualora si
fanno proteggitori della confusione delle idee, anzich della distinzione ;
operano bens in modo conforme al- le loro tenebre, ma qoh alia luce della
cattolica verit. Laonde noi vedremo ancora, che da' ragionamenti del nostro
innominato deriva finalmente una conclusione con- traria del tutto a quella che
egli si pensa, cio che sol confondendo, a cui egli si sfor- za colle mani e
co'piedi, quei due concetti di peccalo e di colpa, si detrae grandemen- te alla
cattolica fede; sicch egli potr a s stesso adattare il molto che prese, e che
perci sta bene in fronte al suo libro, che cio Ex verbis inordinale prolatis
incur- rilur haeresis. E questo fio 'I
sugge! chogni uomo sganni > . I! che sar certo un bene dovuto agli anonimi
nostri. Perciocch, chi mai avreb- be potuto immaginare, senza tali
contradditori, che quella distinzione de due concetti che in tutte le lingue si
trova, alla chiarezza s necessaria, da me avanti dieci anni usata ( 2 ),
pacificamente in lutto questo tempo invalsa, par bella e buona in Italia e
fuori avuta, potesse esigere a difendersi tali parole, potesse meritare a
illustrarsi tanta erudizione ? Laonde il frutto della scrittura del nostro
sconosciuto sar d'avere al mon- do somministrato delle novelle prove e
chiarissime della dottrina da lui combattala. (1) 1 E qui di nuovo tei vedi in
campo non forte di altre armi che quelle , delle quali a feuso
nell'Antropologia , perch li aenliresli tentato a crederlo anzi corto in
suppellettile . che ( ben provvisto 1 . Esame, ec. f. 15. Quasich l'unica mia
arma fosse l autorit di Tom- maso, e non avessi io citato anche in questo
stesso argomento molti luoghi della divina Scrit- tura e di sant'Agostino , e
tutto il mio ragionamento non fosse poi avvalorato e perpetuamente condotto
dalla ragione teologica. (2) I Princpi della Sterna Morale furono stampati a
Milano nel 1831. Digitized by Google 19G I. Ln prima cosa che si vuol per noi
fare si di esporre chiaramente qual sia
la dir slinzionc ile concetti di peccato e di colpa che da noi si ammette
coll'angelico Dotto- re e si difende. E per si vuole medesimamente separare io
prima tutto ci che di fai- so lanonimo vien dicendo su di questa distinzione e
che a noi, senza punto esitare, at- tribuisce. Conciossiach noi non intendiamo
gi di difendere quelle dottrine, che ci so- no da chicchessia apposte, ma solo
quelle che nell opcre nostre chiaramente espresse si contengono c noi veramente
professiamo. L anonimo adunque in prima asserisce del tutto falsamente clic noi
ammettiamo non solo nna distinzione di concetti, ma ben anco una disgiunzione
reale fra il pec- cato e la colpa, di maniera che vi sieno de peccati che ne
pure in causa sietio colpe (i). Ma noi lo invitiamo ad esaminare. meglio tutto
ci che scrivemmo su questa ma- teria, e ad indicare un luogo solo, nel quale,
per avventura, allenimmo che si dia realmente un vero peccato, che non si possa
chiamare anco una colpa. Scrivemmo nel Trattato della Coscienza che l'originale
infezione peccato e colpa ( 2 ):
scrivemmo pure che il peccato degli abituati
peccato e colpa (3): or qua- le
mai quell'alto 0 stato, nel quale noi riconosciamo realizzala la nozione
di pecca- to, e non quella di colpa? (4) Prego davvero il mio signor anonimo ad
indicarla al pubblico, com* egli n ha debito. La nostra distinzione non
riguarda mai la cosa, ma solo il concetto', dicemmo mai sempre, che al medesimo
alto, ovvero al medesimo stalo appartengono lutti e due i concetti, quello di
peccato, e quello di colpa; ma che tuttavia questi sono concetti distinti. Vi
sarebbe adunque pericolo, che il nostro anonimo ci gridasse cosi spietata-
mente la croce addosso, unicamente, perch egli non rapisce bene che cosa voglia
di- re distinzione di concetti , e che voglia dire distinzione di cose reali ?
II. Unaltra cosa falsa, che il critico sconosciuto ci attribuisce, oalraen
suppone, si ; che noi neghiamo, che nel comune modo di parlare si osi peccato e
colpa indiffe- rentemente. Ma le nostre parole sono chiare chiare alla faccia
43 del Trattalo della Coscienza, dove, dopo aver distinte tre specie di.
peccali, e dello, cheil peccatodi ter- za specie con dannazione e imputazione personale ; e soggiunto che a questo
peccato appartiene in senso stretto il nome di colpa ; aggiungemmo ancora - e nel (J) Nel n. 12
del no Esame, ed in altri lunghi. Net
citato opuscolo di C. B. P. mi si attribuisce parimenti questa dottrina non
mia. Vcd. face. 4 ( m m ). Questi autori
fanno eco ni finto Eusebio , che io bo riconvenuto d impostura inturno a ci
colla tnia itisposta n. LXXXIX. (2) Trainata della Coscienza, L. I, cap. V,
art. II, 1, il qual paragrafo comincia
co- si ; i II peccalo, dal quale la rivelala dottrina c* insegna che nascano
affetti tutti gli uomini, va reno reco
sto, e ivi vena colpa s. (3) Trattalo i tetta Coscienza, L. I, c. V, a.
II, 3, dove spiegando l'origine
dell'abito vizioso, dico: c Talora ella ( la volont ) soggiace alla necessit
det male per caoione n cita Polpa PBKCEDtUTE s , il che quanto dire ebe i peccali degli abituati sono
sempre colpe almeno in causa. (4) V. anche ci clic dico sui peccali de' dennati
nel Troll, della Cose. L. I, c. V, a. Il, $ 2. cio , che se i dannati potessero
commettere nuori peccati , ci che non possano perch giunti all' estremo del
male, Digitized by Google . 197 comune modo di PARLARE la parola peccalo si
prende a significare per lo pi que st' ultima specie, e pi tosto il peccato
attuale, che labituale (i). E qui
cominceremo ad usare della ricca suppellettile dautorit, che il critico a-
nnnimo ci fornisce. S. Tommaso nelle Questioni disputate insegna chiaramente la
distinzione dei concetti di peccato c di colpa, allo stesso modo come la
insegna ne luoghi da noi ci- tali della Somma ; ma in Gne avverte alla stessa
guisa appunto, come ho fati' io, che, a malgrado di tale distinzione di
concetto, le parole peccalo e colpa nel comune mo- do di parlare, si usano
indifferentemente. Et sic palei, dice, quod peccatisi est in plus quasi culpa :
s oda ora quello, che aggiunge : licet secundvm coti mu- ti em usua loql'Endi
apvo tueoloqos pr codem sumantur peccatimi et culpa (a), Non sembrano elle
queste parole essere state da me fedelmente tradotte? E ben si os- servi, che
conchiudendo l'Angelico la suo distinzione fra peccato e colpa, dicendo li- cei
sccundum comunem usuai loquendi apud thcologos pr codem sumantur pecca- luta et
culpa, vien chiaramente ad affermare, che colla distinzione esposta de'duo
concetti di [leccato e di colpa, egli proponea qualche cosa di contrario
all'uso comu- ne di parlare presso i teologi ; n credette tuttavia inutile il
proporla ; non essendo inai inutile l'accurata distinzione de' concetti ;
bench, sella sottile, si trascuri nel-
l'uso comune ogni qual volta ella non sa necessaria alla chiarezza del
ragionamento; il che sovente. III. Le
quali sole doe avvertenze, nel tempo stesso che convincono lo sconosciuto cri-
tico di manifestissima falsit, qualora si tengano ben presenti, ci arrecano
anche que- sto vantaggio, clic oggimai non potrebbe pi far gabbo a' lettori
quell argomento specioso col quale lanonimo intende impaurirli, largomento dico
tratto dall uso del parlare pi usuale nella Chiesa (3); perocch quell'argomento
cade del tutto a (erra da s, mirato al lume di quelle due avvertenze, bench
tanto minaccevole nelle parole di chi il millanta. E di vero, esso consiste in
non pochi passi di Concili ecumenici, in non poche proposizioni condannate, in
alcuni luoghi del Catechismo Romano; nequali egli sem- bra, che venga osata
indifferentemente la parola colpa e la parola peccalo ; il quale uso
indifferente non prova altro, se non che nel modo comune di favellare, come noi
stessi abbiamo notato (4), e come not il santo dottore d Aquino, le parole
peccalo e colpa si pigliano luna per l'altra. N egli gi vero (perocch cos incalza l'Anonimo), che
qualora si ammetta, che i concetti di peccalo e di colpa sicno distinti, ne
avvenga, che quel parlar della Chiesa riesca tutto confuso ed equivoco..
Conciossiach non essendovi alcuna disgiun- gane reale fra il peccato e la colpa,
ma solo una distinzione di concetto (5) ; e la Chiesa parlando in tutti i passi
arrecati di peccati reali, e non gi di concetti; ella non pu essere intesa in
altro significato, che in quell uno che suonano le sue parole. A sproposito
adunque, a lutto sproposito, bench in aria di trionfo, l'anonima cos argomenta
(G) : (1) Perch Io sconosciuto critico dissimula anche qai, che tali cose tutte
si trovano dichia- rate nella mia Rispositi ad Eusebio 1 (2) Ve Malo, Q. II, a.
II. (3) Al n. 19. o tegnenti dell Esame Critico. (4) Num. H. (5) N. t. (6) N.
20 del suo Esame critico-teologico. Digitized by Google 194 Nou si pu meglio conoscere il pensare della
Chiesa, che osservando la sua c ragion di operare (t) o per mezzo degli
ecumenici concili, o col condannare pro-
( ecco la ragion ola che, va indovinando I anonimo, possa avere
indotto Padri Tridentini a dare alta
macchia originalo costantemente il nome di peccato e non quello di colpa ) t
che il TridCotino nelluso del vocabolo colpa s ( ma qui si trattava dell usa
del vocabolo peccato, slamo dunque fuori di casa secondo it solito ) . Ma
questa conghieltura affatto vana l.
perch si trattava spiegare perch i Padri Tridentini ebbianu sempre usato la
parola peccalo parlando dell originale, c non la parola colpa; c quella
congliietlura spiegherebbe per- ch in certi luoghi abbiano usato la parola
colpa ; 2. perch quella conghieltura tende a spie- gare perch talvolta uso il
Tridentino lo parola colpa ; e qui trattasi di spiegare perch non talvolta, ma
tempre abbia il Tridentino usalo la parola peccalo, parlando dell originale ;
3. per- ch finalmente anche loriginai peccalo ha la sua pena, e il suo realum
poenue , onde quella ragione dovr condurre pi tosto il Tridentino a nominar
colpa l originale peccalo ogni qual volta parlava della pena dovuta a questo,
come poniamo l nel canone 2 ^lovc egli dica: Si quia Atlo* pracvaricotionem
albi aoli, et non ejua propogmi asserii nocuisse, et acceptam a Ileo
aancliiatcm, el justitiam, guam perdidil, sibi soli, et non nohia cliam perdiditsc,
aul inguvia- lum illum per inobedienliae peccatimi , modem, et posaci corporia
tantum in omne genita bu- ina nu vi trans fundiste . non uutem et kccatc, quod
mora eat animae, anathema sii. (1) II. Disi. XXXV. q. I, or. u, ad n. (2) Vedi
i luoghi di s. Tommaso da me recati nella mia liispostd ad Eusebio, n. X. (3)
V. la citala mia Risposta , n. XXXVII. (i) Se se. V. Dccretum de peccato
originati, nel princ.p.o. 201 vela itone di quel morbo colla sua libera causa.
Il morbo, I infezione, il disordinc f dove sla la nozion Hi peccato, secondo
lAngelico, si contrae quoti gcncralione con
traxerunl ), si trasfonde propagatone non imilatione Iransftisum ): e
Considerato eoa e una macchia, una lepra, si lava e si monda ( ut in cas
rcgencralionc rnunde- tur); ma non si direbbe certamente con propriet che si
contraesse, che si trasfon- desse, che si lavasse o mondasse una relazione. La
relazione ( la colpa) sorge, co- mincia ad essere da s stessa, losloch si
comunica, si trasfonde, si coulrac I uno de' suoi termini, cio l infezione del
primo padre; nel quale poi (isso,
immutabile, incomunicabile, perch del tutto personale, l'altro termine di essa
relazione che la libera sua volont. Con
propriet dunque, secondo il preciso concetto di colpa , non si direbbe che si
trae da Adamo la colpa ma bens che si trae il peccato, come dice il Concilio di
Trento, nihil ex Adam trahere orijinalis peccati : trneudosi poi il pec- cato
originale, incontinente accade che vi sia. anco la relazione della colpa ; come
traendosi lesistenza dal genitore, insieme col riceversi di questa, surge c
nasce e vi la relazione di Jiglialit,
poich In relazione non si pone mai immediatamente, ma solo mediatamente, cio
ponendosi i termini ai (piali ella sappoggia. Che piu? se il Tridentino stesso
dichiara espressamente di qnai peccato egli parli, definendolo con somma
propriet, quoti mors est animaci (i). Egli
troppo chiaro che la morte del- lanima d un uomo non consiste gi nella
relazione col padre sito ; ma che la morte dell anima non che uno stato dell anima stessa, e che
perci tutta nell' anima che
sgraziatamente morta ; non la morte, per dirlo di nuovo, una relazione
che chi muore abbia colla libera volont di Adamo suo padre. Con propriet dunque
il Tridentino chiama peccato e non colpa quell' infezione originale di cui
favella ; non gi perch non sin anche colpa , o che anche con questo nome
chiamar non si pos- sa: ma perch egli la considera principalmente sotto il
concetto di peccato, e quasi tutte le cose che intorno ad essa definisce, riguardano
la stia essenza di peccato. Finalmente , chi ha I occhio sano, potr benissimo
riconoscere accennalo dal Tridentino il doppio concetto di peccalo e di culpa ,
che ha la macchia originale in quel canone : Si t/uis per Jesi/ Christi Domini
nostri gratiam , qttac in baptismale confcrtur , reatVM orioikalis peccati
REMiTTl-ncgat: aut cliam asserii non TOI.LT totani id Ql' OD FERAM ET PROPRI AM
PECCATI RATIOKEM II All ET / sed il - lud dcil tantum radi, aut non imputari ;
analhema sit (?) ; nel (piale chiaramente insegna, che la grazia battesimale fa
due cosa e non una sola, l'ima espressa col re- rutti che si riferisce al
concetto di colpa (3); 1 altra espressa col toi.li, che si ri- ferisce al
concetto di peccato. Chiama il Tridentino la colpa reattivi peccati , che viene
a dire culpa peccati cio la colpabilit del peccato, la qual vien condonata o
rimessa ; e chiama il peccalo semplicemente peccatum ( juod veram et propriam
peccati rationem habet ), il quale dee venir lotto via, come si toglie via una piaga,
una macchia, un bubbone o carboni elio o simile (4). (t) Sess. V, Can. 2. (2)
Sess. V, Can. 5. (3) Il mio anonimo mi somministra dogli altri passi del
Tridentino, nei quali si fa corrispon- dere la remissione alla colpa . Eccoli:
Sonda Synodus declorai : Jalsum nomino esse
col* pam a Domino nunjuam nuurn quin universa eliam poena eondonelur
(Sess. XIV, c. Vili). Si quis post
acceptam justjieationis gratiam cutlibet peccatori por intenti ita culpa
asixir- ti, et reatino aeternae poenae deieri dixerit eie. (Sess. VI, con.
XXX), Si quis dia eri t totani pantani
simut cuoi culpa mimittx semper a Deo analhema
sit (Sess. XIV, con. XII ). Egli cbiaro,
elle maggior propriet di parlare vi ha nel dire rimettersi la colpa, elle non
sia nel dire rimetterei il peccato, bench soglia usarsi giustamente anche
quest' ultimo modo, inten- dendosi allora per peccalo il realo ossia la colpa
del peccato. All incontro vi ba tutta la pro- priet nelle frasi peccata in
conjeesione recenseri ( Sess. XIV , cap. V ) ; peccata taceri ( Sess. XIV, cap.
Viti); peccalorum gravitatem (Sess. XIV, cao. V ), e simili, nelle quali ti
esprime I allo peccaminoso e la relazione di lui colla volont libera si
sottintende e si suppone. (4) Laonde, parlandosi delle pene soddisfattone o
medicinali, pi propriamente si user la pa- liosuiM Voi. XU. * 451 Digitized by
Google Le stesse osservazioni si potrebbero fare volendo rendere^ ragione,
perch san Paolo, esponendo nella lettera ai Romani la dottrina intorno P
originale infezione, osi sempre, se ben mi sovvengo, la parola peccalo (
ap-apria) e non mai la parola colpa ( airia): era pi proprio quel primo
vocabolo nel suo discorso ihe mirava lut- to precisamente a illlustrarta sotto
il cornetto di peccalo, d iniezione, di morte, di cosa in una parola aderente
ai singoli individui, ne quali passa quella infezione in uno colla natura
umana. E ad imilazion dellApostolo appunto, de' cui testimoni si valse, tenne
la stessa propriet il Tridentino. Couchiudiamo adunque: lungi che la
distinzione de'concetli di peccalo e di colpa renda incerte ed oscure le
decisioni del Tridentino, ausi ella del
lutto necessaria per intendere la sapientissima propriet del suo parlare : ella
da quel celeberrimo Cunei- lio supposta,
ammessa, fedelmente mantenuta ed insegnala (i). VI. Dopo queste autorit si
calzanti al mio uopo, lanonimo cita un luogo del sinodo di Basilea, ed una
congerie di proposizioni condannate, e lilialmente degli estratti del
Catechismo Romano, e a qual solo fine? Unicamente a insegnarci con si peregrina
teologica erudizione, che le parole peccalo e colpa ai usano promiscuamente I E
pure egli avea promesso di dimostrarci, che il distinguere' fra il concetto di
peccalo e D uello di colpa gran male,
perch porta seco niente meno clic questo effetto, di ren- ere le decisioni
della Chiesa oscure , equivoihc , inutili: ora perch noi fa dunque ? Egli vi ha
dormito sopra: non se n pi sovvenuto.
Tnllaviii di quello sprecamento di lesti non mi lagno, potend io per essi
allun- gare la corta mia suppellettile, e aggiungere una nuova autorit a
conferma della di- stinzione fra il concetto di peccato e quello di colpa ;
autorit non piccola veramente, perocch trattasi niente meno che di quella del
Catechismo Romano. Ecco il g'jello, che, sema scrupolo, mi avviso, potergli levar
di mano, come non suo: Haptismi proprus rjjictus eit , leggesi nel Catechismo
del sacro Concilio di Trento , pecca 1 ORO Al omnium , sice originis vilio,
sire nostra colpa contrada tini, reinissio ('2). Ogni discreto lettore ha gi
inteso che cosa traggasi da questo Ialino. Quivi chiaramente si dice, che
vhanno de'peccati, che sono peccali e che tuttavia non sono da noi contralti
nostra culpa- Come volete mai che io rinvenga un lesto pi bello, pi chiaro di questo, che voi stesso mi
somministrate, gentil mio teologo scono- sciuto? Certo; chi non sente la
distinzione fra il concetto di peccato e quello di colpa in un discorso s
netto, come quello del Catechismo Romano, dove ci si dice, che vi sooo d e
peccati che noi abbiamo per vizio dorig ne, e non per nostra colpa , e che ve
ne sono degli altri, che noi abbiamo per nostra culpa ; meglio egli , che non
istudii pi innanzi di teologia: c vada pi tosto una scuola addietro ad
aggiustarsi prima, se pu, la testa. Tanto i peccati che sono con nostra culpa, quanto
quelli che sono senza uostra colpa, sono egualmente peccati nostri ; ma di
quelli che sono senza nostra col- pa, nostro
il peccalo, e non nostra la colpa ( se non a quel modo che della mano rota peccalo, che non sia quella
di colpa; come l dove it Tridentino dice; Pro cu! dubio enim magno ter e a
rrcciro revocarti , et yuan fraeno guadati coeredi I hoc sahs/acloriae poetar {
Sess. XIV, c. Vili ) , nel qual luogo ogouo sente che sarebbe itolo unti
proprio il due a culpa revocarti. (1) E dii mai non sente la distinzione fra il
concello ili peccalo e il conci Ito di colpa lo quelle parole del Trtdctuino,
Tanniti ( meni ) laceri lumen, citta
ccuom postimi ( Sess. XIV. c. V ). (2) Parte II, n. XL1T. Digitized by Google
203 la colpa di'Tneisore ). Dunque ri ha distinzione, secondo la Chiesa
cattolica, Tra il concetto di peccato e quello di colpa. L anonimo tuttavia
corre allo schermo ; e confessando che in quel lesto pare restringersi il significalo della voce
colpa > (r), soggiunge per francamente cosi : Ma pare, senza che per veramente si
restringa ; e pprch? adiamo attentamente
il suo argomento : perch nllrove
nettamente scritto : Primorum parentum
nostro rum peccato factum est, ut . . .
; e qui fuor di dubbio vale la parola peccato quello che sopra fu detto colpa ( 2 ). Il quale argomento potrebbe ricevere
questa forma : in un luogo il Catechismo distingue la rolpa dal peccato - , ma
io nn altro luogo usa peccalo in luogo di colpa : dunque n pure nel primo luogo
non distingue questi due concetti! non
bella e calzante questa mauiera dargomentare? Almeno non duvea vedere
lanonimo nostro, che il dirsi pel
peccalo de nostri primi parenti avvenne che ecc. , una frase assai propria anche supposta la
distinzione del peccato e della colpa? Conriossiach, dicendosi peccato, si dice
azione reale peccaminosa che il
subbietto della colpa, quando la colpa
una relazione di quellazione col principio li- bero; e per questa non
importava ponto di menzionarsi, venendo intesa da s, do- po essersi menzionato
il suo subbietto ( il peccato ). Sicch quel secondo luogo del Catechismo recato
dall'anonimo non dimostra mancar n pur esso della distinzione fra il concetto
di peccato e quello di colpa ; come dal dirsi, che da un fatto com- messo contro la legge
avvenne la rovina di quella famiglia >; non si potrebbe inferire che chi
parla in tal modo intese di distruggere la distinzione che passa fra il
concetto d nn fatto semplicemente contro
La legge > ; e di un fatto contra la
legge com- messo con libera volont. VII.
Ma dove 1 anorvmo si tiene pi ricco, e pi sfoggia e pompeggia, si in quella moltitudine di testi che arreca di
s. Tommaso, autore eh io ben dimostro, egli dice, di non aver letto {3). Ed io
non ricuso, come gi dissi, d' aver i tqsti di s. Tomma- so, com ebbi gli altri,
per limosina da lui stesso, solamente che, prima di lotto, egli necessario, che io metta bene allo scoperto
il capo e la radice di tutta questa con- troversia. Perocch sarebbe un
ingannarsi a partito, il credere che di altro non si pia- tisse fra noi, che di
sapere se vi abbia distinzione fra il concetto di peccalo e quello di colpa,
come letimologia delle parole in tutte le lingue dimostra; ma la que- stione ha
piu alto ed importante scopo ; e per dirlo chiaro chiaro, e fuori di lotte
quelle sottigliezze vanissime di parole, le quali non giungono in tempo al d
d'oggi per simulare la verit o per dissimulare l errore, trattasi deli
esistenza del peccato (1) N. 25. (2) l'i. (3) N. 16. In altro luogo, quasi a conclusione e trionfo
detta sfoggiata sua erudizione, pone questo argomento, chegli crede cornuto, c
Chiunque apro gli occhi un non niente, facil- c mente ragioner cos: o egli ( il
Kosmini ) ha inteso la dottrina di s. Tommaso, o no. Se arve in sulle scene il
primo col Gnlo nome d Eusebio Cristiano, vanno cosi daccordo, che si cre-
derebbero non due, ma uno stesso? perocch anche Eusebio Cristiano diceva non
elio vi sia veramente e semplicemente neUuomo il peccato originale, ma che il nascer chetiun he nasce uyrcciQUE proprio
u (3t. Il Catechismo poi dello stesso sacro Concilio insegna, che il peccato
originale non fu contralto per colpa nostra propria, ma pel vizio d'origine :
taplmi pr- prius ejjeetus est peccatorum omnium si f orici nis Fino , sifb
xostra evi * pa coy tracia si st t , remissio ( 4 ) (1) Lo definizione che io
soglio usare del peccato in genere, m *rtp dallanima, ti questa t una declinazione ( attuale o
abituale ) della volont personale dalla legge eterna. Vedi la ima Disposta al
jlnlo Eusebio, Quest. V. Quella declinazione
oggetto dell odio di Dio ; onde Id- dio non pu comunicarsi all anima
come vita soprannaturale di lei, per questo impedimento che in lei ritrova
sicch I anima io uno stato di
opposizione a Dio, che la rende morta* (2) Lo stesso Suarez ( Ioni. IV De
vitiis atque peccati s, Disp. IX, sect. II) sostiene la tesi che il peccato
originale est vere et proprie peccatum, e dee che ci vlefur de ri db, ex bis ,
qua e in prima sedi (ine dieta sunti nam
si improprie exponantur , solum conc/udetur in no- bis esse poena /recati, cum
tamen Tridentinum supra tolli dorsi per Baptismum id quod pro- prie et vere
peccatum est. Conjirmatur , quia nihil est mors animae , nec conslituit hominem
inimicum Deo , et odio dignum , nisi vercm peccatvm, e conferma la stessa tesi
cidi autorit di sant* Agostino, De peccatorum mentis, II, XXXIV, e eontra
Ju/ianum , III saepc. Appresso poi, dopo riferita la sentenza di quei teologi ,
che sostengono non potersi , salva la fede, dila- niar P originale, peccatum
aequivoce: aliis vero videlur hoc esse con tri fidem quia si ho* est vmvocc
peccatum , MQiE stMPLictTF.R erit tal*,* soggiunge ancora: existimo rationsm
peccati huhuuahs univoca reperir * in originali et personali, (3) Se*. V,
can.,2. (4) Pane II, XLIV. Digitized by Google 207 Secondo il Coocilio di
Trento adunque il peccato originale
nostro proprio ; secondo il Catechismo Romano la colpa originale
non nostra propria. i nostri teologi
sostengono che colpa e peccalo significano perfettamente il me- . desimo.
Dunque, ^ Secondo il Concilio di Trento
l'originale peccalo ossia colpa nostra
propria, cio di ciascun che nasce ; Secondo il Catechismo del Concilio di
Trento loriginale non colpa ossia pec-
cato nostro proprio, cio di ciascun che nasce. 11 Concilio dt Trento adunque e
il suo Catechismo, al parer de nostri teologi, so- no fra loro in apertissima
contraddizione. Mi duole veramente che tal sia per essi , ma non sar mai tale
la cosa per DO ; che noi continuando a distinguere con s. Tommaso fra colpa e
peccato, nessuna contraddizione concederemo che passi fra quelle due venerabili
autorit ; ma diremo francamente col Concilio, che nostro proprio il peccato, e diremo pure francamen- te col
suo Catechismo, che quel peccato non ci venne per colpa nostra, ma per vizio
d'origine, senza timore di contraddirci, sicch quel peccato nostro proprio colpa della vulonl libera di chi lo commise a
noi solo imputata, come s'imputa l' omicidio alla mano non per prius, ma per postcrius,
se vogliamo servirci d' unespressione opportunamente usala a questo proposito
dall'Aquiuate (i). IX. E pure il nostro anonimo pretende che l'Aquinate sia
dalla sua! Pretende che qudla mente chiarissima confonda, com'egli confonde, le
nozioni di peccalo e di col- pa; e che quindi sia contrario all'un de' due, o
al Concilio di Trento, o al suo Ca- techismo. Non egli degno che noi reggiamo come questo
occulto teologo conduca una s mirabile dimostrazione? Vegliando insto. Da prima
egli arreca quelle parole dell'Angelico, che originale ( pcccatum) est volar,
tarium volitatale alterius : unde deficit ex parte illa , Ex qua peccate U
babet ratio, y bi culpae ( 2 ); nelle quali parole lAngelico si dimostra
pienamen- te d'accordo col Catechismo del sacro Coocilio di Trento, che dice il
peccalo d'ori- gine contratto originis vio, e non nostra culpa, onde avviene
appunto che quel peccato de/cial ex parte illa, ex qua peccalum habet rationem
culpae. Fin qui a ma- raviglia. Ma resta a sapere se la macchia che da noi si
contrae per colpa non nostra ma altrui, sia altres, giusta l' Angelico, peccato
altrui e non nostro proprio ; nel qual cago veramente lAngelico darebbe torto
al sacro Concilio di Trento. Il nostro ano- nimo sostiene appunto che . Ma il libero volere disordinato era nel solo
Adamo, e in nessun altro de'suoi discendenti prima dellet della discrezione .
Dunque nel solo Adamo vi si il peccato
che la colpa ; e in nessuno de'suoi di- scendenti ( prima dell'et della
discrezione ) vi n il peccalo n la
colpa : quoti trai dcmonttramlum (i). \
questo sistema il nostro anonimo vuol far servire la dottrina di s. Tommaso!
Santissimo mio dottore, sarete voi contento d' un tanto interprete? X. Prima
per che noi esponiamo il sotlil magisterio dtina s sicura teologica inter-
pretazione dellAquinate, convicn che facciamo unosservazione. Voi prendete, o
signor anonimo, a dimostrare che i quanto ad un atto manca in ragion di colpa, altrettanto mancagli in
ragion di peccato ( 2 ) . Ma non egli
vero che cosi promettendo di fare, venite a confessar voi stesso che la ragione
di col- pa, distinta dalla ragion di
peccalo? Sia pure, per poco, supposto vero, che
quan- to ad un alto manca in ragion di colpa, altrettanto gli manchi in
ragion di pecca- lo . G clic perci? Non potrebbero essere tuttavia due nozioni,
due concetti distinti quelli di colpa e di peccalo? Vedete voi, mio caro, che
quand'anco vi riuscisse per- fettamente di provare quel vostro paradosso, non
avreste per ancora provato, che identico sia il concetto di peccato e quello di
colpa; ma solo che questi due concetti sono ricevuti negli alti umani daccordo,
e van sempre appaiati, e crescono e calano colla stessa legge? vedete adunque,
fin a qual segno voi venite confondendo ogni co- sa ; e quant avete bisogno di
dare un po' pi di tempo alle vostre idee, acciocch elle sassestino e si distinguano
nel vostro capo; senza ricorrer s tosto alla penna, la qua- le non pu altro
esprimere e dimostrare che la vostra passione e la vostra confusione? E come
mai osate voi di mettere in bocca a s. Tommaso d Aquino il discorso insen- sato
che gli mettete, l dove dite: Quasi
dicesse (s. Tommaso), Egli vero che alla marchia dorigine compete (3) la ragione
di colpa ; ma altres vero, che an- che la ragione di peccato non le compete se
non in un senso imminulo , c come di-
cono quaaamtenus (4)- Se la
parola colpa e la parola peccato suonano perfettamente il medesimo, se- condo
voi, voi dunque fate parlare lAngelico in questo modo. 1 Egli vero che alla (1) La distruzione del dogma
del peccato originale, coperta sodo fra! teologiche, ecco dove finisce, come
dicevo, se io nulla veggo, la maniera di ragionare denostri teologi collrgsli.
fon- lare, che si presenta colle iniziati C. B. P., prendendo ad esporre il
sentimento del 6nto Ensebiu, di coi si (a campione, dice elle conforme al Concilio di Trento ; t. XXXV, q.
I, a. 11, ad 11, ' ( 5 ) II. Dui. XXXV, q. 1 , a. ut, 0. () II. Disi XXXV. q.
I, a. ni, 0. Digitized by Google 211 no la cosa stessa. Il sao discorso, in una
parola, riuscirebbe a onesta intollerabile sconciatura : peccalum originale
sicut raiionem peccali habet ex hoc quod colunta- riun est non quidem volunlale
propria, sed volunlale alterine ; ila elioni raiionem peccati I, label ex hoc
quod per aclum altcrius inductum est , c la stessa tautologia ne uscirebbe, se
in vece ai ripetere la voce peccato, avesse ripetutane! testo la voce col- pa,
pretesa sua sinoniraa. L' anonimo adunque, vacillandogli la memoria, perdette
di vista anche qni la primitiva questione. Tratlavnsi di sapere se il concetto
di colpa e quel di peccato sieno o no distinti; ed egli in quella vece s
affatic a provare che la macchia
dorigine tanto peccato ( quanto colpa . Ma per provare questo suo nuovo
assunto, egli mi regal dei testi bellissimi di s. Tommaso, nequali il santo
Dottore annunzia, nel modo il pi chiaro ed irrepugnabile, la distinzione sua
prediletta Tra i due concetti di colpa e di peccato! Grazie della
suppellettile, di cui egli mi fornisce tutto al bisogno si larga- mente !
XIII. Che so pur vogliamo, uscendo anche
noi un poco di via, accompagnarci all A- nonirno nel suo traviamento, e.,
lasciando da parlo la questione se colpa e peccato sia il medesimo quant al
concetto, entrare a vedere se i testi addotti dell Angelico, provino veramente
che la macchia d origine tanto peccato quanto colpa ; n
meglio e pi pienamente le si adatta la ragione di peccato che quella di
colpa % (i); da prima egli non guari
difficile a scorgere, che, dove il Santo dice, Peccatimi originale sicut
raiionem culpac habet ex hoc, quod coluntarium est non quidem co- luntatc
propria , sed colluttate altcrius-, ita ctiam raiionem peccati habet ex hoc
quod per actu M altcrius inductum est; egli intende dire che il peccalo
originale ha ragio- ne di peccalo, in quel senso che compete al peccato d
essere un allo, ex hoc quod per actvm alti: Ri US inductum est. Lo considera
dunque in quant attuale , di at- tuai commissione, c in quanto dall attuale
come da stia causa dipende; cnon in qnan- l meramente abituale , come si sta
nc' posteri, In cui essenza e di essere la morte dell' anima' di questi, sotto
il quale espello lo consideriamo noi. E che tale sia la mento del santo,
scorgesi dalle premesse le qnali riguardano solo il peccalo attuale. Perocch
quivi egli parte dal principio, che peccalum non di- citur imicoce de omnibus
generibus pcccatorum sed per prius dk peccato actu ali uortAlt (2). Secondo il
qual princpio, il peccalo abituale cheriman sullanima do- ( 1 ) N. 14. {%) II.
Disi. XXXV, q. I, a. 11 , ad ir. Ecco pi
ampiamente spiegato come l 'attualit con- venuo al peccalo seco mio s. Tommaso:
Mattini per se loquendo privatio ijuaedam est a/icufue boni bonum autem in
perfezione et actu consistili linde oportet secundum distinctionem per - (tei
tont n, distinctionem molar um esse. Est Mnicm duplex actus tei perfectio ,
salteri actus primus et aclui steundus, /ictus primus est ipsa prima forma ,
actus secundus est operatio : et ideo ex privatione ulriusque perfectionis
diversae mali dijfetenliae consurgunt. Si enim pri- velur ali gua forma vel
perfectio alicnius rei naturali s, dicctur esse malum naturac ; si autem
pnvetur perfectio operationis , dicetur esse peccatum : quia ut in 11, Phtjs.
(tcrt. S2) di citur y peccalum est in ie, quac nata suni finem consegui , cum
non consequuntur. Quatti fai autem res per suam operalionem Jinem suum nata est
consegui : unde oportet quod peccalum in ope- rai ione consistati secundum guod
non est dtrccta ut finis exigil ; sccundum quod grammatteus non reele scribi t,
nec parai recte mediate potionem (II. Disi. XXXV, q. I, a. 1 , o). Malum
communius est (quam peccatum) : in quocumque enim sivc in tuffetto, sire in
actu sii privatio format aut ordiate , aut ms ruura e dtbilae mali raiionem
habet. Sed pecca - tuoi dici tur aliguie actus debito ordine aut forma eive.
meneura carene : unde potei! dici , guod tibia curva sii mala tibia ; non tamen
potest dici, quod sii peccatum ; nisi fotte eo modo lo - quindi, quo peccatum
dicitur ejfeclue peccati ; sed ipsa claudicano peccatum dicilur (Qua est.
Uiaipni. de Male, q. II, a. 11, 0),
Vedesi come tulio questo discorso sia volto a deliuro il pec* Digitized
by Google 212 po commesso Fattuale mortale,
peccato per posterius, e induetum est per actum peccati praecedentis. Ma
la questione nostra non consiste nel paragonare il peccato abituale , all
'attuale, e nel sapere se quello sia stato indotto da questo; di che non i'ha
dubbio (i). N pure trattasi di sapere se l 'abituale possa dirsi peccato in
quel senso n pi n meno deW attuale. La questione sta solo in sapere, se l
abituale in s stesso vero peccato, o no;
se un mal presente che infetta I anima,
se la morte dell anima; ovvero se
non altro che una relazione al peccato
attuale precedente, senza che sia nulla in s, nulla di per s male. Il luogo adunque
di s. Tommaso volto unicamente a paragonare il peccato abituale (e l'originale
per conseguente) collat- tuale, addotto
dall'Anonimo del tutto indarno a provare che la macchia originale non peccato se non sccundum quid, come non colpa se non del pari secundum quid: il che
quando vero fosse, potrebbesi simpliciler negare e il peccato e la colpa
originale ne posteri, cio dire un'eresia. XIV. Panni per di udir qui l'Anonimo
replicare cosi, in altre parole argomentando:
Fatta astrazione dalla libera volont del primo uomo prevaricatore e contaminatore
di tutta l umana stirpe, non pi
concepibile il peccato originale. Quello che la men- te concepir in tale
ipotesi immaginaria , dovr essere altra cosa diversa dal peccalo originale,
essendo questo il fallo del primo nomo, in quo omnes peccaverunt, trasfu- so in
tutti i suoi posteri. Concepire il peccato originale senza relazione al primo
uo- mo che lo commise, un concepire ci
che non il peccato originale, un voler con- cepire una cosa senza
concepirne i costitutivi . Ottimamente, e chi potrebbe negarlo? Ma io vi
rispondo: Voi parlate, fratclmio d'astrazioni; ed egli pare tuttavia, che non
siate troppo bene informato della natura dell' astrazione. Perocch se
conosceste a sufficienza I' iudole di questa operazione della mente, che
astrazione si chiama, voi sapreste pure che ella si adopera in due maniere
diverse; nell' una delle quali si fa appunto l'ipotesi, che non ci sia la cosa
da cui si astrae, e allora si considera, quali conseguenze avverrebbero dalla
rimozio- ne ipotetica di quella cosa; nell altra maniera poi, non si fa mica l'ipotesi
che non ci s j a la cosa da cui si astrae, anzi la si lascia essere tutta
intera ma solamente non la si considera punto, e si considerano l'altrecose,
che si rimangono per con essa unite. Cosi a ragion d'esempio, quando in
Fisiologia parlasi del sistema vascolare, si astrae dal sistema nervoso; ma non
crediate mica perci che si faccia l'ipotesi che il si- stema nervoso non
esista, nel qual caso non poirebbe esistere n manco il sistema va- scolare di
cui si parla. Veniamo a noi. Se si usasse il primo modo d'astrazione rispetto
a) peccato di Adamo, cio se si facesse l'ipotesi immaginaria, come voi
falsamente credete, che quel peccato non fosse stalo, in tal caso certo si
distruggerebbe il peccato anche ne' posteri, e di pi, s' incorrerebbe nella sentenza
condannata in Baio, P.cccalum originis acre ha- calo attuale: l'abituate poi
& la conseguensa e la continuazione dell' attuale in quanto Dina atto cessa
interamente nell'anima per modo die a questa non resti qualche nuova maniera, o
grado di attualit, come io bo, in altre opere, dimostralo. (i) Sotto questo
aspetto pot dire anche s. Cipriano, ebe al bambino, mediante il battesimo
remilluntur non Morata ted slicka peccata ( Ep. L V 1 1 1 ) . li peccalo del
bambino non suo pro- prio, ma altrui, se
si considera l attualit del peccalo,
ossia la causa e l autore di esso peccato.
nel vero, il santo Martire area gi poco innanzi espresso chiaramente il
suo pensiero, dicendo che recene nalut nikil Picca vit, il che quanto dire: non ebbe commesso ncssnn
(leccalo attuale. Se dunque si parla di peccalo attuale, il bambino non ba
peccalo proprio, ma se si parla di pec- cato abituale, il bambino ba nell anima
sua un peccalo suo proprio, come dice il Concilio di Trento. Digitized by Google 213 bct
rationcm peccati sine ulla catione ac rcspcctu ad voluntatcm a qua originer im-
buii ( i ). Ma usandosi all incontro da noi 1 astrazione dal peccato di Adamo nel secondo
modo solamente, cio, non gi facendosi l' ipotesi immaginaria, come voi dite,
che Adamo non abbia peccato, ma solo astraendo dallatto dAdamo per considerare
il peccato che sta ne posteri, senza per questo divider da quello; non solo non
ne av- vien l assurdo che voi temete, cio, che i si voglia concepire una cosa
senza conce- pirne costitutivi ; ma si fa una distinzione del tutto logica e
necessaria, e fattasi sempre da santa Chiesa e da' teologi tutti- G non dite
voi stesso che il, fallo del primo uomo fu trasfuso ne' posteri? Se fu trasfuso
ne* posteri, dunque egli o ne posteri,
dunque ne posteri gi trasfuso si pu considerare come egli'ci sta, astrazion
fatta dal- la sua origiue. E non dice il sacrosanto Concilio che origine unum
est? e eco qua che lo considera nella sua origine, astrazion fatta da' posteri,
e che propagationc non imitalionc transfusum omnibus , mesi unicuique proprium (2),
ecco qua che lo consi- dera ne posteri; astrazion fatta dalla sua origine,
\olele vederne la differenza? Oliai il
peccato originale considerato nella sua origine? Un solo di numero, dice il
Con- cilio, origine unum, un peccato attuale, un peccato di commissione. Ma
qoal egli ne posteri? transfusum
omnibus, unicuique proprium : non pi uno adunque numeri- camente, ma molli
quanti sono gli uomini, perocch proprio
di ciascheduno, non un peccalo solo
comune a tulli. Ecco come sia necessario astrarre dalla sua origine, nella
quale uno, per considerarlo ne' posteri,
nequali cessa di essere numericamen- te uno e diventa tanti, quanti sono gli
uomini, perch est proprium unicuique. XV. A convincervi poi esser cosa comune
appresso i teologi il distinguere il peccato originale, come si sta ora ne posteri,
dal peccato originale come gi fu in Adamo, c ad accertarvi che si pu parlar di
quello, fatta astrazioue da questo, voi non avete filtro a fare, che aprire i
libri de teologi stessi. Ma dandomi voi occasione di parlare di una tale
necessarissima distinzione, io me ne varr qui per dimostrarvi, come i ra-
gionamenti che ci fanno intorno i pi solenni maestri in divinit suppongono
sempre la distinzione del concetto di peccato da quella di colpa, il che far io
piu brevemen- te che per me si possa. Primieramente piacemi di porre sott'
occhio al lettore nn brano dello Suarez clic dice : Licci peceatum non Juissct
remissum Adac, poluissct Jihis renditi
quia pec- catimi originale, quoti fi lius Adae contralti t est nuaiero
disttnctvm a peccato qvod PF.nsONAE adae iNttAESTT, et ideo talli potcst, pel
impedir sinc ilio (3). Dalla quale sentenza impariamo 1.* che il peccalo clic
sta in ciascheduno che nasce,
numericamente distinto dal peccato personale di Adamo; 2. che essendo
numerica- mente distinto, si pu parlar benissimo di esso, considerandolo in s
medesimo, senza bisogno di far entrare nel discorso punto n poco la relazione
eoi primo uomo che lo commise, giacch il non farcela entrare non un distruggerla, u un negarla. Ora egli chiaro, che la colpa del peccato originale
dee ripetersi dalla prevaricazione personale di Adamo, che fu un peccato
mortale, quoti est piena et consumatala culpa ( come dice sant Alfonso del
peccalo mortale dopo un altro teologo ( 4 ) ). Dunque p- Icmlosi astrarre dalla
prevaricazione personale di Adamo lino ad imaginare, clic, non essendo quella
rimessa, pure si rimettesse c togliesse il peccalo de posteri ; ovvero, (1) IV.
XLVI1 delle condannate da s. Pio. V.
Vedi la mia Risposta al finto Eusebio, a. X, (2) Sosa. V, can. 3. (3)
Mysleria cline C/tristi, in quacst. XXVII, a. 1 , (4) Tiicol. M. 1. V, Traci,
de peccai, e. 1, dub. 1, n. 5, Digitized by Google 214 per lo contrario, che
essendo quella rimessa, pure il peccato de posteri rimanesse privo di
remissione, coni anco avviene; egli
chiaro che ad ognuno lecito di
consi- derare questo peccato ne' soli posteri, e che, cosi astrattamente
considerandolo, egli non pu avere ragioDe di colpa, ma di peccato bens. Ancor
meglio si vede che la cosa sta appunto cos, quando sascolta 1 Angelico favellante
in questo modo: Si ergo con wlcretur iste defectds hoc modo per origi- nem in
islum hominem dcrivatus secondi il liuto QVOD iste homo est quaedau PERSONA
SINGULARIS, sic hujusmodi DEFF.CTVS non potest habcrc rationkm Culpa e , ad
cujus rationem requiritur quod sii volontaria (i). Voi vedete qui 8. Tommaso
i.* considerare il diletto originale esclusivamente, come si sta ne' po- steri,
sccundwn illud quod iste homo est quaedam persona singularis ; dunque pu farsi
benissimo per virt dastrazione, e senza sconcio veruno : 2 . chiamare il pec-
cato cosi consideralo dcfectus, e voi certamente non vorrete negare, se siete
ragio- nevole che questo sia un difetto morale , e per un peccato non attuale,
ma abituale ; 3. e tuttavia negare il santo a questo difetto morale , a questo
peccato abituale, cosi diviso dalla prevaricazione adamitica, la ragione di
colpa, non potest habcrc ratio- nem culpac. Che se voi replicaste, che tuttavia
questo difetto morale ereditato dal bambin che nasce, non essendo colpa, non dovrebbe
avere nessuna pena, ma che tutta la pena viene al bambino per la sola libera
prevaricazione di Adamo, poich questa gola
vera colpa ; io vi accordo che niente ha il concetto di vera colpa se
Con la prevaricazione personale e libera di Adamo, vi accordo che quella fu la
prima origine di tutti i mali ereditati dalla sua stirpe; ma non vi accordo,
che quella sola colpa di Adamo bastasse a rovesciare in soi posteri le pene,
se, oltre quella colpa, non vi fosse altres in questi un peccato , che, bench
non sia colpa in s stesso, per colpa in
causa; e che sia que- sta la mente del Dottor angelico, voi lo vedrete assai
chiaro, se considererete le seguen- ti parole, che sono sue: nima hujus pueri,
quod sine baplismo deccdit, non pnnilur carenila visionis dicinac propter
peccate i adae, sf.cundch quod fui t perso- nale peccAtum ejus (e in quanto fu
a lui personale, in lauto fu altresi colpa ): sul punilnr pr infect/one
ortginalis culpAE, quinti incurrit ex unione ad corpus, quod a primo parente
Iraducitur sccundum scminalem rationem. E odasene la ragione : lnjuslum cium
essel, ut dcrivarctur rcalus pocnac nisi et derivare tur infe- etio culpac.
linde Apuslolns, l ioni . V. pracmillit derivationem culpac dcrirationi pocnac
dicens: i Per unum hominem pcecatnm in /lune mundum intrarit et per pec- catum mors ( 2 ), Se dunque la (iena, che
viene sopra al figliuolo di Adamo in conse- guenza del peccato del padre suo
non gli data pel peccato personale di
questo, ma per linfezione dell' originai colpa che egli ha in s; dunque questa
infezione si pu ben considerare senza bisogno di riferirla al peccato personale
e colpevol d Adamo, bastando a questo riferirla sol quando si tratta di
spiegarne l'origine, la derivazione dal primo stipite, o anco la ragione onde
si d acconciamente a quella iufezion deri- vata il concetto c il nome di colpn.
E nel vero, chi egli mai il suhbictto di
quel peccato, pel quale il figliuolo di Adamo perisce ? forse Adamo? Non Adamo
certamente, ma il suo stesso figliuolo. Adamo
il subbieUo del proprio peccato, e il suo figliuolo pure il subbietto del pec- (1) De Sfato, Q.
IV, a. 1 . (2; Ve Sialo, er la quale viene posto in essere il peccato nell*
individuo, nel tempo stesso che vie- ne posta in essere in lui 1 umana natura (
2 ) ; laonde 8. Tommaso alce che In carne produce il peccato pi tosto nell'
alto in cui si unisce all' anima, che dopo eh' ella e gi unita. Peccalum
originale, cosi egli, per se loijuendo est pcccalum nalurac, non personae, nisi
rottone naturae infeclac. Aclus autem generattonis proprie de- li) Vedi s.
Tom., S. XXIX, 1 , ad 4. Secundvtn Phiotophum in V blttaph. ( lev. 5) Bo- ne
naturae pnmuin impositmm est ait tignijicandum generatianem viveri t tu m ,
guae dicitur a- t trita*. Et quia hujusmodi generano est a principio intrinseco
, extcnsum est hoc nomea ad signtficandum principitela intrmsecum cvjuscumque
molus. Et sic d'Jfinilur natura in II Pht- sicorum (lei. 3 ). (2) Caro non est
sujftciens causa peccali actualis, sed peccati abituati s est suffiriens cau-
ta: sicut et traducilo carmi est sujftciens causa, maleriiililer tamen ,
humanae naturae (S. Tlii.in. 3 . Ile Nato , IV, i, ad 3 ). E nella risposi a ad
15, diceche la carne la causa
istrumenlate et peccalo originale nei poalcri. Rosami Voi. XII.
453 Digitized by Google S18 servii nalurac, quia ordinatnr ad
gencrationcm spccici. Scd carncm jam
esse ani- irui e unitimi pertinet ad costitulionern pcrsonac. Et ideo caro
MAcrs cacsat ori- ginale peccatesi pr ut consideralur ry via generationis, quam
pr ut est jam unita (i). Se dunque per peccato della natura s inlende un
peccalo che si comunica per via di generazione, non pu dirsi che prima che la
generazione sia compila e per l individuo dell umana specie formato, possa
esser formalo il suo peccalo : no certa- mente: il peccalo di chi nasce non
esiste prima che chi nasce sia posto come indivi- duo dell umana specie; ma sol
toslo che l'individuo formalo: prima non
esiste che In causa prossima di quel peccalo nell atlivil. o nell allo
generativo ; e la causa di quel peccalo non
peccalo. Laonde, il peccalo finalmente non esiste mai altrove che negl
individui dell'umana specie, bench questi dalla natura, cio dalla genera-
zione, lo ricevano come da causa della loro esistenza. Pu dedursi chiaramente
da lutto ci, che il peccato originale d' un nomo se- paralo di nnmero dal peccato originale
dini altro uomo, quanto un individuo se-
parato dall' altro individuo. Laonde che mai vieta, chesi parli di tal peccalo
astra- zione fatta dal peccato di un allr' uomo qualsiasi, foss egli Adamo
medesimo? E qui s' osservi l obbiezione che si fa I Angelico. Come pu esser
peccato, dice quello che si riceve da un altro? Nihil t/uod conlrahitur per
originem ex alio , habet rationem peccati: scd sotum rationem pocnae. A cui
egli risponde con queste pari - le: Defectus per originem contraclus habet
gnidem ralioncm existentis ab alio, si re/cratur ad personam : yoy avtem si
rejeratur ad nat urani, sic enim est (scasi A PRiyciPio intrinseco ( 2 ). Il
che viene" a dire: il peccato originale
da noi ri- cevuto dal di fuori, se si guarda la nostra persona clic noi
commise, e sotto questo aspetto habet ralioncm cxistcntis ab alio : ma non cosi
se si guarda la nostra natura, la quale lo produsse comunicandola alla persona;
perocch la natura umana in noi
Stessi, un principio a noi intrinseco; e
per l'agente che mette in essere questo pec- calo, se ben si considera, pure in noi ; e cosi habet rationem non
cxistcntis ab alio , e ancora habet rationem peccati; conciossiach questa
ragion di peccato non pu av- verarsi, se si tratta di cosa solo da altri
ricevuta, giacch Nihil qitod conlrahitur per originem ex alio, habet rationem
peccati. Ad essere adunque l'originai vizio nn pec- cato, comegli , conviensi
che, oltre lessere ricevuto da altri, sia ancora prossima- mente prodotto e formato
da un principio a noi intrinseco; acciocch cosi ed egli pos- sa esser peccato,
e possa esser nostro proprio peccato; il qual principio intrinseco la carne Dostra, la natura nostra, che infidi
personam nostrani (.f). XVI. Tutte (jueste verit si trovano ne' p : antichi testimoni della tradizione, da quali
le raccolse l'Angelico; e tutte queste verit dimostrano chiaramente quanto sia
falso, he il peccato originale ne posteri non abbia rationem existentis per se,
co- me il nostro Anonimo pretenderebbe. Quello che vero solamente si , che la colpa di questo
peccato si riferisce al peccato attuale del primo padre che lo commise. Ma
questo ugualmente il carattere comune di
tulli i peccati abituali ciu di tutti quei peccali, che rimangono nell'anima d
una persona qual effetto di un suo peccalo at- tuale. E chi non sa, che cogli
abili non si merita n si demerita, come dicono i teo- logi. Habilibus homo non
mcrctur ncc demeretur? Laonde tutta la colpa d' un pecca- to abituale, che 1'
uomo non pu da s scancellare, ma la sola grazia divina ( dalla (1) De Malo, q.
IV, a. i, ad 7 . (2) De Malo, q. IV, a. 1 ad 5. (Jj h homint qui nascilur ex
Adam natura corriipit personam ( De Malo, q. IV, iv, ad 5). Digitized by Google
219 quale qui si prescinde per considerare la cosa io s stessa), di natura u nn peccato che oou ha la culpa in
s, ma nella causa. Il peccato riraaso inerente all anima di Adamo stesso dopo
la sua prevaricazione, era un mero peccato , e la colpa di questo peccalo si
riferiva tutta alla sua attuale prevaricai one Sicch il negare la distinzio- ne
fra peccalo e colpa . quanto un negare
la distinzione fra il peccato attuale (do- ve solo sta la colpa ) e il peccalo
abituale ; distinzione ammessa da tutti i teologi, e eh' io reputo cosa di
fede. Ecco come sia necessaria la propriet del parlare, e la di- stinzione
delle idee nelle pi sottili materie della sacra Teologia, siccome questa che noi abbiamo alle mani ; e come a
loro danno cozzano contro di essa i nostri Anonimi. E donde mai procede la
ragione, per la quale non lutti gli scrittori cattolici ri- conoscono per
sufficiente la maniera colla quale s. Tommaso prova, che tutti quelli che
nascono sono Tatti partecipi della colpa adamitica; collesempio cio della mano
che si dice partecipe della colpa dellomicida, o del collegio che viene involto
nella reit c nella punizione del suo capo colpevole? lo I ho gi osservato
(i): solo per- ch s. Tommaso non intese
con tali paragoni di spiegare il peccato, ma intese di spiegar solo la colpa di
questo peccalo, comegli stesso dichiara. Laonde, quando egli vuole spiegare il
peccalo e non la colpa , non ricorre pi a quelle similitudini, ma s bene all'
infezione della carne, alla quale congiungendosi, I anima si corrom- pe, come
si guasta un liquore infuso in un vaso corrotto ; modo costantemente usato
dalla Chiesa per ispiegare la trasfusion del peccalo. E che la cosa stia cosi,
oltre le ragioni da me gi addotte nella mia Esposizio- ne della dottrina del
peccalo originale, si pu confrmare anche da altri assurdi che ne verrebbero,
sostenendo il contrario. A persuadercene, soda come s. Tommaso espone quesuoi
paragoni, nelle questioni De Malo ( 2 ), e risponde a capello a quan- to espose
poi nella Somma: Si ergo considerelur iste defectuS hoc modo per ori- ginali in
islum hominem derivatus ( ecco gi spiegala la derivazione del peccato),
secondimi illud quod iste homo est quaedam persona sinqularis ; sic hujusmodi
de- fcctus non potcst haberc ralionein cvlpae ( ecco ci che rimane a spiegarsi
), ad cu- jus rationem requiritur quod sii minuteria. Scd si considerelur iste
homo gcneralus sicut quoddain membruta lolius hwuanae nalurac a primo parente
propaqatac, ac si onuics homincs esscnt unus homo, sic habel rationem cvlpae
proplcr voluntarium ejvs principium , che fu il peccato attuale, c non I'
abitualb di Adamo, odasi: quod est ACTVALE peccatvu PRtMt parentis. E savverta
bene, che il peccato attuale di Adamo il
peccato della persona, e non il peccato della natura, giacch il peccato che
dicesi della natura solo I' abituale ; c
cos dicesi, perch rest infsso in tolti gl' individui di questa natura cime
elicilo e quasi conlinuaz n di quel primo. Ora vengono le similitudini : Sicut
si dicamus quod utolus manus ad homicidium per * pctrandum, sccundum quod manus
per se consideratile, non Label rationem CUL- PAB: quia manus de necessitate
anovetur ab alio', si aulem considerelur ut est pars lolius homiuis qui
vomitiate agii, sic Label rationem cvlpae: quia sic est co- luntarius. Sicut
ergo homicidium non (licilur culpa manus, seti culpa tolitis homi- nis ; ita
hujusmodi defectvs ( che costituisce il peccato originale) non dicilur es- se
peccatimi personale, scd pa catimi lolius nalurac : ncc ad personam pertinet
mi- si im Quantum natura in pici t personam. E come 1 uomo a commettere nn
peccato pu usare diverse potenze, et lumen est unum soluto percatum proplcr
unita- tem principi i, scu voluntatis, a quo peccali ratio ( la ragion d un
peccato colpevole): ad omnes aetus partitila dcrivatur: ita et rationc
principii in tota natura humana con- sideratile quasi unum peccatum originale
proplcr quod Jpostolus dicit Rom.E (1) /imposta al finto Eusebio, XI. fi) y.
IV. a. t. Digitized by Google :>0 In
quo omnes pccrauerunt. Quoti secundum Auguslinum (i) palesi intclligi: in quo,
scilicet primo iomine, rei in quo peccalo primi homtnis : ut peccatimi primi
ho- minis sii quasi communi: piccai vm omnium ( 2 ). Or come nidi il Dottore
dice qui che il peccato originale est quasi unum peccalum , cio il peccato stesso del princi- pio dell' umana
stirpe resosi quasi comune peccalum omnium ? S. Tommaso dice che un sol peccato comune a tutti gli nomini : il
Concilio di Trento dire all' opposto che
un peccalo non comune, ma proprio di ciascun uomo che nasce. Vorremo noi
met- tere in contraddizione s. Tommaso col Concilio di Trento, che mostr si
gran reve- renza al Dottore angelico? Cosi avverrebbe inevitabilmente, qualora
si ricusasse di rico- noscere che il peccato originale ha due aspetti, sotto i
quali esso si pu considerare, P aspetto di puro peccato e l' aspetto di colpa.
Ora egli certo, che nel peccato ori-
ginale non intervenne che una sola colpa, la colpa di Adamo, la colpa propria
del peccato attuale e personale commesso dal primo padre colla sua volont. La
colpa adunque unica ; ma questa colpa
unica viene partecipata da latti i membri dell' u* ninna natura, e loro
imputata come alle mani s imputa la colpa dell'omicida; onde sotto questo
aspetto quell unica colpa diviene colpa comune di tulli, e tolti la parte-
cipano cosi in comune, eh - ella per non diventa numero plures , venendo cos
appli- cata a tutti sol dal di fuori; quando all' incontro il Concilio dice,
che il peccalo den- tro in ciascheduno,
ed a ciascheduno proprio, inest ,
unicuiqce proprivm (3). Si consideri dunque il peccalo originale non pi sotto 1
aspetto di colpa, nel qual caso conviene riferirlo all unica colpa del peccato
da Adamo liberamente com- messo, e non pu esser che comune; ma lo si consideri
gotto 1 altro sno aspetto di puro peccato, o sia di difetto morale; lo si
consideri non nella soa relazione all uni- co peccato attuale, ma nella sua
qualit e natura di peccato abituale, come
ne po- steri ; e incontanente si vedr che questo difetto non unico, n comune a tutti, n esterno ; ma molteplice quanto sono molteplici gli uomini,
ed a ciascuno interno, ed a ciascuno
proprio, e conviene solo nella medesima specie, come lo stesso s. Tom- maso
insegna in tanti luoghi. Ecco Tonica maniera di conciliare s. Tommaso col Con-
cilio di Trento ; anzi pure con s medesimo. Nel che giover osservare di pi, che
Tessere una cosa comune viene dall es- ser ella ideale. Ma se ella una realit, e come tale la si considera,
ripugna che sia conumc ; conciossiach, niente di ci che reale
comune ; ma sempre proprio. Cos,
a ragion d' esempio, questa carne e queste ossa reali, che sono di un uomo, non
possono appartenere, ossia esser comuni ad altri uomini. All' incontro, se io
non Considero queste carni e queste ossa reali, ma considero le carni e le ossa
astrat- tamente prese, ossia idealmente ; allora posso dire benissimo, che il
concetto di carni e di ossa comune a
molte carni 6 a molle ossa reali ; perocch, con quel solo con- cetto tutte
queste carni e queste ossa io egualmente conosco. Dicasi il medesimo del
peccato originale, e si vedr tosto eh egli pu esser comune sotto T aspetto di
colpa imputala, ma non mai sotto I aspetto
la nozion di peccato. E in Vero, un guasto reale nella superiore volool
d un uomo ( questa la nozione di peccalo
), non pu esser comune, ma solo proprio ; perocch il guasto della volont d'nn
uomo non pu appartenere mai al guasto della volont di altri uomini ; allo
stesso modo come la volont reale d nn nomo non , e non pu essere una volont
comune agli altri uo- mini. Del pari.il peccalo attuale di Adamo, essendo una
reale prevaricazione, appar- tiene a lui solo. Ma la colpa, essendo una
relazione, come la definisce s. Tommaso, e le relazioni essendo lopera deila
mente, niente vieta che di un solo peccalo si pos- sano incolpare molle
persone. (1) Contro /tua P ilotai l'elagtunorum, L, IV, c. iv. (ti) De Sialo,
q. IV, a, 1. (5) Culi. *. Digitized by Google 221 Oltracci, se io applico la
colpabilit di quel peccato attuale agli altri uomini, che cosa io fo, so non
considerare gli uomini idealmente come formanti una sola na- tura, sottoponendo
poi a quella colpabilit questa natura? Ora chi non sa, chi non vede che la
natura umana in quani comune a tutti gli
uomini, ideale e non rea- le? Chi non
vede che la natura reale d' un uomo non
la natura reale d un altro uomo ; e che I esser reale involge 1 esser
proprio , ed esclude perci appunto l esser connine? La natura comune adunque a
tulli gli uomini un concetto della
mente; quell' unico concetto con cui io conosco le molte nature reali degli
uomini. A fine adunque che io possa dire che la colpa di Adamo comune a tutti gli uomini, io debbo prima
fare colta mia mente 1' astrazione della natura umana; e in ordine a questo
concetto posso dire che quella colpa colmine
in quanto che qnesto concetto h comune ; ma non altramente. Allincontro, senza
bisogno di astrazioni di sorta, posso io ben dire che il peccato originale proprio di ciascheduno che nasce al mondo.
Duuque il concetto di peccato si vuole grandemente distinguere da quello di
colpa. XVII. Arroge , che se non si
distinguessero queste due nozioni di peccato e di colpa, rimarrebbe al tutto
iresplicabile, in che modo all uomo si comunicasse il peccalo , bench la colpa
sia gi rimessa ad Adamo. La colpa che dee esser li- bera non fu se non nell' attuale
e personale peccato di Adamo, e alla relazione con quell attuale e personale
pecrato ricorre sempre s. Tommaso, quando vuota insegnare come al peccalo
originale del bambino si possa applicare il nome di colpa, ia l attuai peccato,
!' unica colpa d' Adamo, fu gi rimessa alla persona d' Adamo in virt de meriti
di Cristo, che avtaloraron la fede e In penitenza fatta da quel capo dell'
umana stirpe. Ora , quando mai si odi , che , venen- do rimessa ad un omicida
la colpa dell'omicidio, tuttavia s'imputi ancora qaella colpa alla mano che lo
commise ? o se un collegio venne considerato qual reo per colpa del suo capo,
chi mai ud, che, venendo assoluto il capo che commise la colpa, rimanesser
tuttavia condannate lo altre persone componenti il collegio, che altra col- pa
non ebbero, se non quella di essere collegialmente unite alla persona del reo?
Laonde le similitudini di s. Tommaso non possoo valere, se si pretende di
spiegare con esse , come si propaghi e il peccalo e la colpa quasi fossero una
rosa sola ; ma valgono bens a spiegare come mentalmente ed estrinsecamente
s'applichi la colpa di Adamo al peccato ereditato da suoi discendenti. Il che
se avesse considerato linsigne teologo Francesco Suarez, se avesse considerato
che tale appunto era 1 intenzione e la mente di s. Tommaso nellusare quelle
similitudini, non avrebbe, mi pare, fatta quella censura che fece alle dette
similitudini dell Angelico; censura, che
certo G iustissima, qualor si supponga che sintendesse per quelle di
spiegare la derivazion ella colpa e del peccato insieme come d'una cosa soia,
il che non pretese, come di- cevamo, di fare il Santo; ma che non tiene, se si
pone che la propagazion del pec- cato venga in altro modo spiegata, e sol si
voglia con quelle mostrare sotto quale rispetto il peccato si possa anche colpa
denominare. E tuttavia le parole dello Suarez meritano di esser qui riferite e
alla considerazione de' lettori raccomandate, tornando utilissime a confirmare
il nostro ragionamento. Perocch cosi scrive il pio dottor di ('franata :
Deficit vero sit/iilitudo, quia - in
ilio exemplo peccalum membri et ea- pitis unum Omni no est : Aie autem ( cio
nel fatto del pecoato originale ) in sin- ai'Lis membris pecoata sunt singula
et di ST/NCTA ; et peccatimi solum est unum propaga t/one et origine : Aie
etiamfit , ut peccalum membri tantum di- catnr peccalum denominatione
extrinseca : al vero peccalum originale, li- cei non sino ordine ad exlrinsecam
coluntalem sii peccalum, in se tamen in- TftiNSECE est pec'Atuu quia non est
per modum actus sed per modum habitus Digitized by Google 222 et in suhjeclo
opto (i). Nella quali parole chiaramente s'insegna, i. che non busta die il
peccalo originale si dica peccalo per una denominazione estrinseca , riferen-
dolo alla colpa liliale di Adamo, il che
appunto ci che forma la sua nozione di eoljia, illustrata colle
similitudini dallAngelico: 2 . che di pi, il peccato originale in ciascun che
nasce dee essere anche in se inirinsece peccatmn, il che ci appunto che forma la nozione di peccalo :
3. che non basta che il peccato si consideri come imo, ori '/ine et
propagatone, in quanto una sola colpa intervenne, che fu il peccato uilualc del
primo padre, come una sola colpa interviene nell omicida o nel capo del
collegio di san Tommaso : 4- che oltre a ci il peccalo originale si dee
considerare co- me molteplice, ossia, die
il medesimo, si dee considerare sotto la ragion di peccato, essendo in
singu/is mcm'tris peccata singola et distincta D\ che, come si potr riGu- tare
q icllo che noi diciamo, cio che si pu e che si dee parlare del peccato
originale come si sta ne posteri, nella sua ragion di percalo,astrazion folla
dalla colpa adamitica, bench a qtista s'attenga licei non site ordine ad
extrinsecam volunlatem ? Tanto pi che allor solo pu rispondersi alla di file dl
sposta di sopra, come noi possiamo con- trarre il peccato, quando ad Adamo gi la colpa rimessa. Colle similitudini di s.
Tom- maso non si pu rispondere a tal questione; perocch egli troppo chiaro che la mano dell'omicida rimane
sciolta da ogni reato, se l'omicida fu sciolto; e il collegio non pi risponsale della colpa del capo, se al.
capo fu la culpa rimessa. Se dunque si con- sidera il peccato originale
solamente sotto l aspetto di colpa, e si pretende che nul- I' altro vi sia da
considerare in esso fuor che la colpa, ella
cosa pi chiara del soie che, essendo una la colpa del capo, e questa
interamente oggimai rimessa, ella non pu rimanere pi ne' posteri, ed essendo
essa, come contendesi, il medesimo che il peccalo, dunque n anco pu rimanere pi
alcun peccato ne posteri. Laonde coeren- temente al loro principio quelli che
non veggono nel peccato originale se nou la col- pa, cio una relazione
estrinseca col peccato attuale di Adamo, fluiscono a distrug- gere veramente
l'originale peccato; perch non pu esistere pi questa relazione di colpa, se la
colpa a cui si riporla pi non esiste, gi
tolta, gi del tutto rimessa, an-
nullata. li quest e la ragione patente e non altra, perch il Gaio Luselno
Cristiano, dopo avere stabilito e opporsi alla giustizia c bont di Dio che
mandi l'uomo alla dannazione senza attuivi, suo demerito ( 2 ): dopo aver pronuncialo audacemente
questa be- stemmia, questa eresia patentissima, non o-i poi piu asserire che si
dia nell' uomo che nasce un vero peccato , contentandosi sol di dire che il nascer noi privi nell ani- ma della grazia santiGcante, mirasi come unii
colpa. Ma in realt , come nel f corpo,
cosi nell'anima, ora nasciamo e siimi tali quali nasceremmo e saremmo se fossimo stali da Dio creati nello stato di
pura natura > (3). Quest' pure la
ragio- ne, perch V Anonimo, che ad Eusebio si fece campione, e a cui noi
rispondiamo , dopo aver detto con s. Tommaso che il peccato originale deficit
or illa parte ex gita peccalum Italici ralionem cvlpae, sostiene-, tutto del
suo, che al peccalo ori- ginale vien meno egualmente anche la ragion di peccato
; sicch, confesso non una vera colpa,
cosi n pure esso sia un vero e proprio peccato; ma solo un peccato sccundum
guid, in un senso immillato e guadamtenus , in onta ai decreti del sacro
Concilio di Trento, e con certo manifesto pregiudiz o della cattolica tede,
qualora si continuasse a promulgare in Italia impunemente tuli dottrine. E pure
tali dottrine so- no indectinnhili qualora si tolga via la distinzione de' due
concetti di peccalo e di col- pa; e di due come sono, se ne faccia un solo, il
quale non pu riuscir che confuso ; e ne concetti confusi nascondono sempre il
capo gli errori contro alla cattolica fede ; la quale, verit essendo, sol nella
chiarezza e dsliuziou delle idee dimostra bella s stessa, e vi trova evidenza e
trionfo. (1) Dr pere. oriq. Soci. Il, XXIV. (2) Aff., Vili, f. '34 . (3) Ivi
alla noia fon). Digitized by Google 223 Laonde, se io non temo di distinguere
quanto posso cosa da cosa e concetto da concetto nello materie teologiche, come
nellaltro, e solo perch io credo alla ferit della dottrina che m' insegna la
Chiesa ; la qnal dottrina, cos fin endo, non pu venir die onorata, dilucidata,
difesa; n ella ha bisogno punto di equivoci di parole, o di ambiguit di
concetti, o di sottigliezze vane : dove tutti gli errori e tutte le eresie
presero cominciatnenlo. E di vero, a quel modo che, confasi i due concetti
distinti di peccalo e di colpa, nasce da s lrroce naturalissimo, che il peccalo
tf origine non sin nulla di reale e di vero, ma solo nnn frase vana, anzi
falsa; cos, mantenuta quella distinzione antichissima, mantenuto il dogma di quel peccato, su cui la
re- denzione del mondo ed il cristianesimo tulio intero si appoggia. Perocch
sol me- diante quella distinzione si risponde acconciamente alla dillicoll
indicata di sopra come essendo rimessa
la colpa, cio il peccato attuale del primo padre, possa tutta- via un peccato
trasfondersi di padre in figlio . Dilliniscasi il peccalo un difetto morale, un difetto della volont
suprema dell' uomo, la quale non ha pi vigore d'at- tenersi in ogni occorrenza
all'ordine della giustizia, a! quale essa
per sua natura ordinala . Non pi sar difficile intendere come questo
difetto si- propaghi, qualor si consideri che la volont suprema dell uom che
nasce, olir essere spoglia dei vigore soprannaturale die venir le potrebbe
dalla grazia santificante, attirata
altres dalla lusinga della carne si fortemente, che verso di essa piega e
abbandonasi. Or gi con questa inclinazione verso il senso carnale. Ir volont
personale dell'uomo vedesi de- clinante dalla naturai sua rettitudine, non pi cos disposta all' ordine della giusti-
zia, che lutto ci che a quell ordin s apponga, ella sia acconcia di giudicare,
di vin- cere, e, secondo ragione, ordinare. Ecco a qual modo la carne, la
generazion se- minale, e propriamente la mozione che d il generatore al
generato (i), possa ren- dere cosi obliqua la volont suprema, e cagionare un
vero peccato abituale nell in- dividuo che cosi formasi. Ch dal principio
supremo lutto l'uomo dipende, e per tutto luomo rimane moralmente infetto. E
come Iddio, santit essenziale, non pu amare una volont torta dalla rettitudine
della giustizia ; cosi chi nasce in tal guisa avverso a lui, che la stessa giustizia, gii dee essere in
opposizione ed in ira. Al male morale poi tien dietro il mal fisico, come
appendice sua inseparabile : indi la dannazione temporale ed eterna. Questa
maniera onde spiegasi la propagazion del peccato, indipendente dalla presente sussistenza della
colpa del primo padre -, e ba- sta che questa colpa, causa rimota di esso
peccato, sia stata una volta ; come basta che la madre sia siala, quando gener
il figliuolo, acciocch questo sussista ; e as- surdo sarebbe d pretendere, che
il figliuolo, dopo che nato, non possa
pi sussi- stere da s stesso, e generare anchegli degli altri figliuoli, senza
che rimanga in vita sua madre, a cui conserva per una relazione d originai
dipendenza. Clic se cercasi, come poi il pe calo nel figliuolo che nasce possa
avere ragion di colpa, ri- sponde al modo stesso di s. Tommaso, cio per via d
una relazione ideale c mentale, ossia di una esterna imputazione del peccalo
attuale a tutta la natm-a umana ; e. mi sia conceduto desprimere il pensiero
stesso in altre parole : il letlot- teologo favori- sca ascoltarmi con
attenzione. Che cosa che s imputa a
colpa della volonl libera del peccalore ?
Ni- fi) Sicut atitem moventnr parie uniti homin per impcrium mluntatis : ila moretur
fi- liti i a palre per vira generaben/s. linde Phitosophu m i/icit in II ,
Phyeicoi Il in, qu li pater net canea jfilii tu morene. El in libro de
generatone Animaltnm ( c. XTIII ) dirttnr g, od iu e' mine est t/uuedam motto
ab anima patrie , pii movet materia in ad formam concepii . Sic ergo huja -
smodi molto quae etl per originem a primo parente. derivQtur in omnee gai
seminnher ab so proceduti! : unde omnee qui semtnaUter ab eo procedimi ,
conlrahunt nb ett originale pecca - tu m (De malo, |[. tV, a. vi ). E appresso
: Principalior causa est ex vii tute tat anima - qua principaliter operatur in
semine, ut dir t Phitoeophus ( I. Do General, animai. , e. n. ) Ivi ad 16. Vedi
anco 1 ari. vii ad 5. Qui s. Tommaso
spiega la comunicazione del peccato , spiegando poi quella della colpa colto
indicale similitudini. Digitized by Google 224 pondo ; il mcc.ato. - Che cosa
il peccato? * Il peccalo una
declinazione della volont personale dall' ordine della giustizia , di che
deduco, che dunque imputa a colpa della
volont libera del peccatore ogni declinazione della volont personale dallordine
dello giustizia di cui egli sia autore .
Ora di quali declinazioni di volont si rese autore Aliamo! 1 i. Della declinazione attuale della propria
volont quando commise il peccato, togliendo questa volont da Dio e piegandola
alla creatu- ra : 2 . della declinazione abituale della sua propria volont, che
rimase inclinata in lui anche cessato I atto del peccato, quasi una
continuazione di quello: 3. della de- clinazione dall ordine di giustizia delle
Volont personali di tutti i suoi discendenti, perch, comunicando loro la natura
umana per via di generazione, la sua carne gi disordinala comunicava il
disordine alla carne de generati, e questa carne traeva a s la loro volont
personale, non lasciandola pi pienamente libera a seguire in ogni cosa il
dettame della giustizia : non gi che la carne di Adamo, n la carne del bam-
bino da lui concepito, fossero subbietto di peccato, o peccato fosse I atto
della gene- razione ; ma la carne del generante e poi del generato era
slroineoto fisico, pel quale 1 anima venia indotta a quel difetto morale che
rendevala Don pi eretta alla verit ed alla giustizia, secondo che richiede la
sua essenziale natura, ma gi cedevole, propendente, e quasi consenziente alla
carne animale. Adamo dunque fu quello
che storse, nel modo dello, dalla rettitudine della giustizia si la tolout
propria che quella dei posteri ; e quindi egli si rese colpevole autore s del
peccato proprio che di quelle de' posteri. Il peccalo adunque che viene
imputato ad Adamo, altro e in lui stesso, al- tro ne posteri. Or come nasce la remissioue del peccato e
della colpa ? La colpa non si pu
rimettere se prima non tolto il peccalo
, perocch il peccalo odioso alla santit
di Dio, e non pu essere da Dio considerata e dichiarata per sua amica una
volont declinante dall'ordine della giustizia. E dunque necessario che la
volont su- prema dell' uomo sia prima rettificala colla grazia, e quindi
rimesso il reato della col- pa. Or come
avvenne la giusliGcnzione di. Adamo, che crediam santo ? Dee es- sere avvenuta non altramente, che nel
modo detto ; cio, per I' infusione della grazia in Ini dee essersi rettificata
la sua volont declinata d.iHordinp della giustizia, e cosi restituita
all'amicizia di Dio, cos rimessale iuiieranienle la colpa. Ma rimaneva tuttavia dopo di ci il peccato ne
posteri suoi di cui egli era stato pare 1 autore. Verissimo, e per si dice autor colpevole di
questo peccato ; ma questo peccalo per non pu pi nuocere alla sua persona
giustificata, bench rimanga ancora non tolto e in molti de* posteri non si
tolga giammai ; per la ragione che un tal peccalo non ha sua sede nella sna
propria persona, ma nella persona di altri individui distinti da lui in un modo
incomunicabile. Quindi che in solo
questo singolare peccato avviene che il peccato de posteri, di cui Adamo fu il
libero autore, non cancellato e distrutto, ad Adamo si possa bens riportare
come a ano libero autore, ma a lui oggimai pi non nuoccia, perch la volont
torta dal bene solo ne posteri e non in
lui ; e la vo- lont torta d'un uomo, non impedisce che un altro uomo sia
giustificato davanti a Dio, bench si chiami autore dell' altrui torta volont, e
cos in qualche modo sincol- pi. Acciocch poi questa colpa applicar si possa e
imputare a posteri stessi, convie- ne, come dicevo, considerarli formanti un
solo uomo con lui ; il che non che una
maniera di concepire. Di che riiuan fermo, che in virt della distinzione dei
concetti di peccato e di colpa, si dimostra il dogma cattolico; il qdale questo, che quantun- que il peccato originale
ne posteri deficiat ex parte tua, ex qua peccalum /label rationem culpae -,
tuttavia sii proprie et cere peccalum, come il sacrosanto Concilio Tridentino,
divinamente assistilo, s esprime. Non credasi adunque, per dirlo ancora, che
questa nostra sia per avventura nna question di parole. Se si trattasse solo di
disputare sui significati delle parole, non isli- merei prezzo dell" opera
lentrare in tale conflitto. Osservisi, che io ho posto per tito- lo del
presente libretto: Le nozioni di peccato
e di colpa illustrate >. Intendo dunque^ k 225 trattare delle dee nozioni,
dedae concetti, e non delle due parole. Parche queste due nozioni, questi due
concetti rimangano ben distinti, poco m'importerebbe, a dir ve- ro, che si
segnassero con questi o con que vocaboli. La Chiesa li distinse sempre, e
quandi anco 1 uso delle due parole peccalo e colpa, talor corresse promiscuo,
non mai promiscuamente si surrogarono I una all' altra le due nozioni, od una
sola, di esse due si compose. Questo fecero ben gli eretici, non mai la Chiesa.
Alcuni di questi eretici ridussero tutto alla colpa disconoscendo il peccatole
questi furono i pelagiani. Alcuni altri, per lo contrario, disconobbero la
natura della colpa , e posero esclusiva attenzione al peccato; e questi furono
i Giansenisti. I>a Chiesa, sem- pre nel mezzo degli estremi errori
tenendosi, a' Pelagiani contrappose la nozione del peccato da essi ignorata; a
Giansenisti contrappose la nozione della colpa, di cui di- menticavano la
natura: mantenendo ella cosi separate le due nozioni, n mai lascian- do che o T
una o 1 altra si sopprimesse. E quanto a' Giansenisti non si riduce ella qoesta
eresia a pretendere, che si pu meritare c demeritare anche operando con vo-
lont necessitata? Ora che c questo, se non un disconoscere la natura della
colpa, a cui sola appartiene il demerito, la quale tale, che dee procedere da libera volont? Si
confondono adunque in tale eresia le nozioni di peccato e di colpa ; questa a
quello riducendo e sacrificando. All incontro da che mai provenne la lunga lolla,
e cos ostinata, chebbe a so- stenere la Chiesa co Pelagiani? Non da altro
finalmente, che dal confondere che fa- cevano quegli eretici la nozione di
peccato con quella di colpa ; quando Ia Chiesa la distingueva. Dicevano essi ;
i il peccato non si contrae se non per libera volon-- t (i): era Incolpa che cos definivano.
Rispondeva loro la Chiesa: ; giacch cosi
suonerebbe il lesto dell' Angelico, se peccato e colpa fos- sero del tutto la
cosa stessa. Secondo s. Tommaso adunque, negli atti malvagi della volont, sfera
delle co- se morali, due cose si debbon distinguere: i. Tona, che ha concetto
di peccalo ; e questa consiste nel deviare dal line, defectus volunlatis ab eo
ad quod ordinata est ; 2 . laltra, che ha concetto di colpa ; e questa consiste
nella libert colla quale de- vi dal fine, noti essere ipsa voluntas causa sui
defectus. Queste due cose sono fra di lor distintissime, n sar mai che la
confusione di mente che alcuni Anonimi mo- strano, giunga a confonderle anche
nelle menti altra!. Altra questione poi,
del tutto diversa dall' accennala: se quelle due cose pos- sano nel fallo
disgiungersi, sicch dove vi sia peccalo, possa non esservi colpa. Dalla
dottrina da me esposta nel Trattato della Coscienza, chiaramente risalta 1. *
Che quelle due cose non si possono nel fatto disgiunger per modo, che un
peccato potesse esservi seoza che avesse avuto lorigine da una colpa ; di guisa
che egli, almeno in causa, non si potesse dir colpa. Non polendo essere Iddio
autor del peccato, e non potendo la volont retta e giusta dell' uomo esser
necessitala al male da cosa alcuna, egli
evidente che il peccato non pu avere altra causa ed origine primitiva se
non nella libera vlonl dell' uomo stesso: 2 .
Che quelle due cose, purch vi siano entrambi, e l una causa dellaltra.
(i) I. Dist. XLVIII, q. I, a. Ili, o.
Vegga il lettore so lAnonimo pretenda giustamente di poter provare con
questo testo che ( nel definire l'Angelico quali atti morali sicnn peccato, (
arraasu quo* ioli Assise x diesi esco ito, che traggono origine del loro
difetto dalla volont ( in quaoto in
soste* bau*: pone deficere et non deficere . Niente affatto afferma di ci 9.
Tommaso net testo citato; e pure al n. 1 1 , 1 Anonimo proferisce francamente
quelle parole cilando in prora il o. 10, dove non c altro testo dell Angelico;
e sopra uuaffermazione si fal- sa , argomento poi a tutto sicurt. 0* altra
parte , se i Angelico avesse detto, clic non si d peccato se la volont non m mosti* balia, in un senso cos generale come
gliel fa dire l'A- nonimo, avrebbe con ci negato che il peccato originato fosse
peccato, perch in questo la volont non m
Nosrat balia; e a distruggere questo peccato tende sempre veramente la dottrina
dei nostri sconosciuti avversari. Digitized by Google 230 possono per essere 1'
una in an individuo dell'nmana specie, e l'altra corrisponden- te alla prima in
un altro individuo della specie stessa, come accade nel peccato dori- gine il
qual trovasi come proprio in ciascun che nasce, e gli fa perdere il fine, poi-
ch egli morte dell anima intellettiva e
morale delluomo, sicch luomo non per- venti ad Muti , ad quod ordinatus est (
tessera del peccato ); ma tuttavia la libera volon- t che lo commise ( tessera
della colpa ) non in ciascun uomo che
uasce, ma nel capo dellumana stirpe, in quo omnes peccavcrvnl (i). Ma replicher
I Anonimo : s. Tommaso non distingue, egli dice, che ne* peccati volontari vi
ha la ragione di colpa, in voluntariis ( peccalis) ipsa voluntas est causa sui
defeelus, quia in nobis est posse dcficcre et non dcficere. Rispondo, esser
mani- festissimo che lAngelico parla qui de peccati attuali che liberamente si
commettono, in quibus idem est, comho detto anchio le tante volte ( 2 ) malum,
pcccatum et cul- pa} e per l'argomento non fa al proposito. XXI. Che se s.
Tommaso dicesse veramente ci che gli fa dir lAnonimo , cio se 8. Tommaso non
riconoscesse peccato se non tragga l'origine dalla volont in quanto m nostra balia (3), ne avverrebbe che 1
Angelico non nominasse la macchia origi- nale in noi trasfusa col titolo di peccato
se non simulatamente, senzafl'ermarlo tal veramente; ed questo il segno a cui mira l Anonimo di
continuo. Al qual fine, ecco come egli fa parlar s. Tommaso : queste sono le
precise pa- role che lAnonimo gli mette in bocca: sascoltin bene: dove nou
uso di libero arbitrio, non colpa; ma ne bambini non v uso di libero arbitrio, dunque non v peccalo 1 (4). Se s. Tommaso avesse parlato
cos, certamente egli non sarebbe il mio maestro, perch m atterrei in quella vece
alla mia maestra la santa Chiesa, che mi dice, che ne' bambini v, pur peccato.
Se s. Tommaso avesse detto quelle parole che lAnonimo gli fa dire, egli avrebbe
apertamente negato il dogma del peccato originale; n a salvarlo sarebbe poi pip
valuto il lasciare meramente la denominazio- ne falsa ed illusoria di peccalo,
sottrattone e distruttone il vero concetto. Quest 1 ap- punto la tendenza di alcuni moderni
teologi: tenere le parole cattoliche, spiegandole poi in un senso
anti-r.altolico ; e anti cattolico il
senso che si d alle parole cattoliche : peccalo originale da nostri Anonimi; il
qual senso, in coi le spiegano, riducendo a nulla il peccato dorigine, riduce a
nulla la causa della redenzione del genere umano, e scava il fondamento di
tutta la cristiana religione. No adunque: s. Tommaso non ha mai scritte le
parole che lAnonimo capziosamente (5) afferma avere egli scritte; c in vece
delle parole che lAnonimo gli attribuisce, queste sono quelle dallAngelico
scritte veramente : Baptismus et alia sacramenta Ecclcsiae sunt quaedam remedia
contro peccatimi frustra igitur
exhibercntar ( ai bambini ), nisiin cis essct aliquod peccalum. Non est autem
in c peccato i actvale , quia careni usu liber arbitriti (1) F/Anonimo m'
attribuisce che a formare la ragione di colpa io esiga t l onore atto di
propria libera volont , Ma dove ha egli trovato questo no 1 mei scritti? Egli
noo che i*r- ror suo proprio, che a me
imputa calunniosamente, o almeno oscilanler. lo sarei infinito, se volessi
notare tutte le false sue imputazioni ; uia crederci oggimai (fi gittaro il
tempo e 1* inchiostro se Io facessi. (2) Vedi il Trattalo della Coscienza ,
face- 35, 36. (3) N. ... (4) (5) Dico capiio. amentp, perch in quello modt>
mette in boera di a. Tommaso f accennate parole, c Ma s. Tommaso discorre per
t'appunto cosi: conciosMachc a provare che i bambini c sono immuni da peccato
attuale ; sciite ; dove non uso di
libero arbitrio, non colpa; ma ( ne*
bambini oon v uso di libero arbitrio, dunque non v peccato JX. u. Digitized by Google 231 sine quo nulus
(ictus homini in cviPASt imputatile. Oportet igitur dicere i/r ttt esse
peccatosi per originer traduclum (i). Dalle quali parole si raccoglie: i .* Che
nei bambini vi ha on vero peccato, perch Baptismus et alia sacramen- ta
Ecclesiae sunl quaedam remedia contea peccatimi
frustra igitur exhibercntur, misi in tis (ne' bambini) esset aliquod
peccatosi ; t. Che se non vi fosse un vero peccato ne'bambini, il battesimo e
gli nitri sa- cramenti della Chiesa sarebbero inutili; di modo che chi nega il
peccato ne'bambini, o ne distrugge lo verit, lasciandovi una finzione, nn mero
nome, vien anco a di- struggere e negare l efficacia dei battesimo e de'
sacramenti della Chiesa, perch fru- stra exhibercntur (i sacramenti) nisi in
cis ( ne'bambini ) esset aliquod peccatosi ; 3.
Che questo vero peccato che nei
bambini non un peccato attuale, perch Il
peccato attuale un peccato che s imputa
a colpa, e il peccato de'bainbini non
una colpa lor propria, perch in essi manca il libero arbitrio. Non est
autem in eis peccatosi actuale, e perch ? Quia careni usu liberi ar bitrii,
sine quo nullit actus homini in cvlpasi impulatur ; 4. Che dunque vi hanno due specie di peccali:
peccati che non s'impntano a colpa a colai che gli ha in s ( nel caso nostro, a
bambini), perch chi li ha in s non ha l uso del libero arbitrio ; e peccati che
$ imputano a colpa a colui che li ha in s, perch costui ne fu il libero autore,
come avviene de peccati attuali; 5. u Che il peccato che non s'imputa a colpa
di Ini che lo ha in s, pu essere, ed
trasfuso per via di gemmazione, e nnn per atto di libero arbitrio in s
prodotto: Oportet igitur dicere in eis (ne'bambini) esse peccatosi per originem
tra- duchi m. Altro dunque il peccato
che s imputa a colpa, altro quello che a
colpa non t'imputa: vi ha dunque differenza, secondo lAngelico, fra il concetto
di colpa n quello di peccato; e se ne bambini non v ha la colpa quia carcnt usu
liberi arbitrii, v'ha per il peccato vero, verissimo, bench questo peccato,
dcficiat ex parte illa, ex qua pcccatum habet rationem culpae. Che se avessero
altrettanto il peccato, quan- to nanno la colpa, Jrustra baptizarentur ; e per
non so come i Teologi Anonimi che questo sostengono, possano evitare l'anatema
del Concilio di Trento, che dice : Si quii
dicl in remissionem quidem pcccatorum cos ( parvulos ) baptizari, sed nihil
ex Adam trahere originalis peccali quod regenerationis, lavacro ncccsse sit
expiari ad vilam aeternam consequcndam ; linde sit consequcns , ut in eis forma
kaptismalis in remissionem peccatorum, non pera sed falsa intelligator,
anathema sii (2). xxu. N conclude meglio cosa picena di buon per lui, 1
argomento che sembra al- 1 Anonimo nostro tanto decisivo, sicch ne mena vanto e
trionfo ( perch i nostri Teo- logi Anonimi sono sempre millantatori, e parlano
dall'alto in basso), che s. Tommaso in alcuni luoghi usi promiscuamente le voci
di colpa e di peccalo ; perocch una colpa
certamente anco un peccato; conciossiach la colpa, come abbiam detto,
pre- suppone dinanzi a s, nell' ordine de concetti-, il peccato. Cosi del pari
ogni peccato presuppone dinanzi a s, nell ordine delle realit, una colpa da cui
sia provenuto. Laonde tutto ci che
colpa, peccato, e tatto ci che peccalo
colpa, 0 in s stesso 0 nella sda causa, come ho tanto volte spiegato (3)
. Per esempio, chiarissi- (1) Contra Gen., IV, L. 5. (2) Sc. V, c. 4- (3)
Quesio risponde anche agli altri luoghi recati dall* Anonimo al n. 11 , nei
quali dal chiama- re che fa i. Tommaso colpa l originate peccato, pretende di
mostrarlo a me contrario : quasich io Digitized by Google 232 mo quel passo di 8. Tommaso che adduce P Anonimo
: Nullus enim a regno Dei cxcluditur nisi proptcr aljuam culpam si igur pucri nondum baplizali ad re- gnum
Dei pervenire non possunt, oportet diccrc, esse in eie aliauod pcceatum
(i); vha punto bisogno per intendere
questo passo, che si confondano io un solo i concetti di colpa e di peccato-,
perocch, restando distintissimi, trovasi e chiaro e vero: Dice in prima cne niuno * esclude dal regno di Dio se non
per qualche col- pa, A' ut lue enim a regno Dei excluditur nisi propler aliquam
culpam ; ma non dice mica, che niuno s escluda dal regno di Dio se non per
colpa sda propria ; il che sarebbe uneresia degna sol d'nn Eusebio (a). Dice in
secondo luogo, e come con- seguente, che dunque, venendo i bambini che muoiono
senza il battesimo esclusi dal regno dei cieli, debbono avere ih s qualche
peccato. Si igilur pueri nondum bapti- sali ad regmim Dei pervenire non
possunt, oporlet dicere esse in is ali/uod peccatvu. Si noti bene quell in eis
; significa che il peccato, dee essere in essi, proprio io essi ; n dice mica
altrettanto della colpa ; non dice mica a che debba essere in essi quella
colpa, per la quale sono esclusi dal regno de cieli. Anzi, secondo la dottrina
di s. Toimnaso, la colpa (il peccato in quant'
colpevole) non pu essere in essi, quia careni usti liberi arbiirii sine
quo nullus actus Uomini in cclpam im- pulatur (3). Dunque la differenza,
secondo la mente dell Angelico, immensa
fra colpa e peccato. Ma perch dalla
necessit d una colpa onde i bambini vengano esclusi dal regno de' cieli, induce
lAngelico che vi debba essere in essi un peccato ? Perch se in essi non vi fosse un peccato, non
vi sarebbe in essi nulla che po- tesse venire inputato a colpa -, mancherebbe
la materia dell imputazione e verrebbe fuori l'assurdo sistema dei Unto Eusebio
Cristiano, che i bambini venissero involti nella punizione indilla al capo dell
umana stirpe per l imputazione di un disordine, di un peccato, che essi non
hanno n punto n poco in s medesimi (4). XXIII. Finalmente lAnonimo pretende che
a sno favore deponga un alfro luogo di s. Tommaso; il qual non gli giova meglio
degli altri. Il santo Dottore si fa questa difficolt : V idetur, quod nullus
defeclus in nos per originem veniens rationem culpae habere possit. Ex hoc enim
aliquid curabile vituperabile est, si malum sii, quod est in potestate ejus qui
de hoc cvlpatvb (5). Tutto il dubbio che qui propone a s stesso lAngelico sta
nel sapere, se il defectus in nos per originem ve- niens sia una colpa, se
possa essere una colpa rationem culpae habere possit Non mette in questione, se sia un difetto,
che anzi il nomina defeclus per originem ve- niens ; n pure mette in dubbio se
sia un peccalo; ma domanda, in che modo que- sto difetto, questo peccalo possa
essere il sabbietto di una colpa ; quando il concetto di colpa consiste
nellessere io potest di quello che s'incolpa levitarla, ed ali'incon- Ir quel
peccato viene comunicato per origine. Il santo Dottore si risponde che quel noo
abbia gi spiegato nel Trattato della Coscienza, come il peccalo d'origine sia
peccato e colpa ad un tempo, e come possa coll* uno e coll* altro nome
chiamarsi. Vedi il Trattalo della Coscienza , f. 36 e segg. fi) Contra Genica,
IV, L, n. 5. (2) Questa eresia forma li
ssi ma in quelle parole del finto Eusebio Cristiano. a all incontro si ri-
ferisce al libero arbitrio d'Adamo. che lo commise. Adunque non lo stesso per certo il concetto di peccato e
quello di colpa. E cosi speriamo d avere illustrate le nozioni di peccato e di
colpa. La fatica non Tu tutta nostra; lAnonimo ci forni molta erudizione ; noi
non facemmo che ado- perarla. N avremo perduto il oostro tempo, se quanto
abbiamo detto Gn qui intorno alla distinzione delle due accennate nozioni,
contribuir a mantenere inviolato il dog- ma del peccato d'origine, causa della
morte.dcl Salvatore, e fondamento di tutta la Cristiana Religione (a). (1)
Nota, che quello che qui chioma difetto in principio del periodo, chiamollo
peccalo { pec- catimi originale ). (2) L' Anonimo pretende che i due luoghi che
io ho recati altrove per dimostrare come aan Tommaso distingua fra il concetto
di peccalo e quello di colpa , non provino questo distin- zione. Quanto al
primo, nell'ordine in cui egli li porta, che
quel della S . I, II, q. I AX VII, Vili , fa osservare , che io I' ilo
recalo solo a provare , che a costituire la colpa fa bisogno la libert ( atrio
Dziaagnins ), e che falso perci, che io
labbia recalo a mostrare la distinzione de' due concetti. Quanto all altro poi si chiaro, che non credo necessario farci
sopra altre parole. HoSUIN! U1. XII. 4.V> Digitized by Google Digitized by
Google SULLA DEFINIZIONE DELLA LEGGE MORALE RISPOSTA AL R. P. GIUSEPPE LUIGI
DMOWSKI DELLA COMPAGNIA DI GES. Digitized by Google Fu itampato in Arezao dalla
Tipografia Bello tu', i84 . Digitized by
Google SULLA DEFINIZIONE IDMM DMM! -
(Quantunque mi rincresca di dover venire a discussione col ft. P.
Dmoswaki della C. di G., tuttavia, vedendo che le censure sue tendono a
spargere de' dubbi sulla sanit della mia dottrina, come altri fecero
contemporaneamente, non posso in alcun modo lasciar di purgarmene. Conciossiach
io men vo debitore non solo ai dotti, i quali, avendo sott occhio i miei
scritti, tolti volti alla difesa della nostra santssima religione e a
promoverne le intemerate dottrine, non hanno bisogno di piu ; ma an- cora agl
indotti, i quali le cose mie non conoscono che per odila, e pero ricevereb-
bero forse scandalo se, tacendo io, mi lasciassi continuamente diffamare Gn
colle pub- bliche stampe. Affine per di mostrare al padre Dmowski, che questo
solo Gne mi muove a rispondergli, io non entrer nell esame del suo libro, n
user rappresaglia di sorte, ci che troppo facile mi sarebbe ; ma dir solamente
quello che mi torna necessario indispensabilmente a difendermi. Fors anco ( Dio
lo voglia ! ) da questo mio piccolo scritto avverr un bene non piccolo, oltre
quello della mia propria giu- stiGcazione presso gl indotti, e sar che, non
venendo mosso il padre Dmowski da mal animo contro di me, egli intender
facilmente la mia ragione ; e questa ragione per intero me la far, a buon
esempio ed ammaestramento di altri, i quali si ande- ranuo poscia pi cauG in
apporre a chicchessia, non solo a me, di tali bruite colpe. Incominciamo. La
parola Legge prendesi in diversi signiGcati, e principalmente ne due che da s.
Paolo sono accennati in quelle parole : Gentes quae legem non habent , ipsi
sibi sunt lex (i), dove, quando l'Apostolo dice legem non habent , intende per
legge la positiva di Mos, e quando soggiunge ipsi sibi sunt lex, d il nome ai
legge alla naturale. La legge positiva va sempre vestita di un' esterna
espressione, sia che ven- ga intimata in parole, o promulgata in iscritto.
Tuttavia la parola e la scrittura non sono propriamente la legge, ma sol dei
segni che comunicano alle umane menti la legge. La legge dunque, svestita di
lutti i segni che la comunicano eia promulgano, riman Gnalmente una concezione
che ha sede nella mente, sia del legislatore che la d, sia del suddito che la
riceve : un idea, una nozione che esprime o in generale l ordine intrinseco
dell' essere, il qnale esige per s rispetto ( 2 ), o in ispecie la vo- lont del
superiore, che pure esige il nostro rispetto. Laonde, volendo io ne Principi
della Scienza morale (3) deGnire la legge (1) Rom. n, 14. (2) Ved. la
Dissertazione dtl senso morale dell Eminentiss. Cax. Gerdil. (3) Cap. I, art. 1
. Digitized by Google 238 formale, svestila da ogni altro elemento accessorio,
dissi che essa finalmente si ridu- ceva ad
una nozione della mente, coll' uso della qnale si fa giudizio della
moralit delle azioni umane i ( cio
distinguesi quali azioni sieno morali e quali immorali ) . (2) Nella nota a
pag. 35 , dell' opera intitolata : Institutiones philosophiae, alidore eie.
Voi. Il, continene institutiones Ethicae teu philotophiae moralie: Edilio
romana ab auctore emendata et pleriegue notionibus aucla. Romae, lapis Joanrus Baptietae Marini et
sodi, MDCCOXLI. 239 in vari luoghi delle mie opere, secondoch richieder il
ragionamento? Le varie definizioni della
legge da me usate, pigliandole da' pi insigni morali dottori, son note a quanti
lessero le cose mie. Quanto poi a
quella, che il padre Dmowski vuol fare apparire inaudita, io mi contenter di
qui osservare semplicemente che Tutti gli autori pi celebri, hanno sempre
-riconosciuto che l'essenza della legge morale, la sua forma, la sua virt
obbligatoria, per la qual solo ella la
legge, non pu essere o manifestarsi che nella mente, di guisa che ella si
riduce ultimamente sempre ad una concezione, o nozione, o idea, o ragione,
ecc-, onde che proceda, o ci venga coma- Dicala
chiamata regola delle azioni dal comune de' moralisti ; ma regola non
sono le parole materiali, o lo scritto che la significa ; regola il significato di, quelle parole, o di quello
scritto ; e per una concezione, una nozione, un pensiero. E chiamata ra- gione,
ratio agcndorum ; ma la ragione, come ho gi dimostrato nel libro c Prin- cipi,
non che un'idea semplice o complessa; e
pu considerarsi nella mente del le- gislatore, sotto il quale aspetto la legge
si definisce rccta ratio impcrandi atque pro- hibendi, secondo Cicerone (i), il
quale, per distinguerla dalla veste delle parole, soggiunge : quam qui ignorai
, est injuslus, sioe est illa scripla uspiam,
sive nuspiam. Ma fino a tanto che la detta concezione sta nella mente del
legislatore, non Ita per anco propriamente il concetto dijcgge, perch
sconosciuta uon pu obbliga- re ; ella diventa tale, solo nella mente di chi dee
secondo quella operare, giudi- cando con essa della moralit ovvero immoralit
delle azioni, nel quale stalo si defi- nisce recla agendorum ratio. Il che
insegna Cicerone dicendo: Eadem ratio cum EST IN UOMINIS MENTE CONFI RMATA ET
CONCEPTA, lex est ( 2 ). E perch la logge sta per la sua essenza stessa nella
mente, e la mente, se ne diletta, s. Paolo chiama la stessa legge di Dio lex
mentis (3); e gli antichi constanlemebte chiamano essa legge morale ragione , o
mente, o con altra somigliante parola la esprimono. Laonde Cicerone : Est cnim
ratio, mensqoe sapienti ad jubendum et deterren- dum (4) : per questo che Platone crede di poter derivare la parola
uopo? legge, da uoos' mente (5) : per questo san Tommaso, nella questione, in
cui tratta dell' essenza della legge, sostiene, che ella est aliqcid rationis (
6 ); dice ancora, che una partecipazione
della legge eterna nella creatura razionale ( 7 ) la chiama espressa- mente una
concezione della mente, come noi appunto la chiamiamo: Naturali con- ceptio et
' homini) indila, qua dirigitur a l operandum eonvenienter, lex natu- rali seu
jus naturale dicilur ( 8 ) ; chiama la legge eterna concetto della mente divina
: Aeternus divinae legis conceptus babel ralionem legis aeternae (9) ; la
paragona all tDEA, da cui non la fa differire che per una relazione: Sicut
ratio di- vinae sapienliae in quantum per eam euncta sunt creata, ralionem
babel arti s vel exemplaris vel ideai:, ita ratio divinae sapienliae moventi s
omnia ad deli- (1) De Legib. I, XV. (2) De Legib. II. Affinch la definizione potesse convenire
tanto alla legge considerala nella mente del legislatore, quanto atta legge
considerata nella mente del suddito , io la definii a una notione delia mente
s, ma senza porre netta definizione di qual mento inteDdeTo. Quan- do poi venni
a parlare delle condizioni necessarie affinch 1' uomo possa far uso della legge
a dirigere la sua vita, misi per prima condiziono, che ). Ma sarei infinito, se
10 volessi accumulare somiglianti autorit, a provar eo$a che da tutti i
principali cattolici, come dicevo, nella
sostanza insegnata; ed doloroso, mi sia
permesso 11 dirlo, vederci ridotti conlinnamenle alla necessit di difenderci da
persone, che senza alcun riguardo, appongono la taccia di novit ad ogni cosa
vecchia, che essi non sappiano. Passiamo alle altre censure del padre Dmowski.
Dopo aver egli recale le sole prime parole della mia delinizione, la legge mo- rale non che una nozione della
mente 1, si ferma; e vi contrappone tosto queste due osservazioni: 1 .* Ast
notio mentis est per se quid subjcclivum, non ineolvit igitur dimanationem
legis a legislatore; 2.* quac de praeccpto et constilo dici potcst, quia et de
quavis alia re cujus concepturn intellcclualein habemus. Ora, io quanto a
questa seconda osservazione, egli
verissimo che il dire nna nozione senza specificare di che nozione si
parli, pu riferirsi ngualmente al precetto e al coosiglio e a qualsiasi altra
cosa di cui possa aversi un intellettuale concetto. Ma come colui che, censurar
volendo la definizione dell'uom di Aristotele
luomo nn animale ragionevole ,
malamente procederebbe, se, fermandosi alla prima parola, animale , cominciasse
a dire, che questa parola si pu riferire anche ni cani, ai caval- li, ai muli e
a tutti gli altri bruti, e per mal sapplica all'uomo perch la definizione dell'
nomo non arrestasi a quella parola, ma v' aggiunge la differenza di ragionevole
) cosi del pari non bene fa il padre Dmowski a rivolgere In sua censura sulla
prima sola parola della deGnizione proposta della legge, staccandola da quel
che segue, e dichia- randola di soverchio generica ad esprimere la legge.
Perocch unendo il genere di nozione alia differenza che viene appresso,
cio coli uso della quale si fa giudizio
della moralit delle azioni, e secondo la quale perci si deve operare , avrebbe
fa- cilmente potuto conoscere, che la nozione in cui noi riponiamo l'essenza
della legge morale, non la nozione di
qualsiasi cosa, di cui si abbia nn concetto intellettuale, n tampoco la nozione
che insegna a conoscere meramente le cose di consiglio, ma quella c secondo la
quale si deve operare 1, e per quella che fa distinguere le azio- ni oneste
dalle turpi ( 6 ). Vero , che la parola moralit si pu prendere nella lingua
nostra in due sensi, cio o per onest, il cui contrario sarebbe immoralit, o per
qua- lit morale dell'azione in generale. Ma, o nel primo, o nel secondo
significato si preti da quella parola, la definizione tutta insieme non
dimostra meno, che s'intende parlare (1) S. t. Il, XCIll, 1 . (2) De Legtb. I,
III, 9. (3) P. Ili, Q. XXVI, mrmbr. 1 . (4l Rom. II. (5) De Legibus tt, I, 9 .
(6) Vorrebbe il padre Dmomki eba la definizione della legge non ai potette
applicare al pre- cetto che ti fa a persone particolari. Ma la parola legge
ammette una ma-pore 0 minore etten- tiono di significato. Noi dovevamo all*
uopo nostro definir la leggo in un senso Iato, prendendo- la io generale Come c
un principio di obbligazione , come c una regola morale delle azioni 1 ; noi
qual senio apparitene alia legge anco il parlicoltr precetto. Digitized by
Googl 241 di quella nozione che fa discernere il lecito doli illecito, e non il
lecito dal con- sigliato. Perocch se prendesi la parola moralit pel contrario d
'immoralit, veggiain chiaramente che parlasi di una nozione coll'uso della
quale si di-cerne quali azioni siano morali, e quali immorali, cio illecite; e
quindi rimarr escluso il consiglio. Se poi prendesi moralit per condizione o
qualit morale delle azioni, allora dee con- siderarsi che la definizione viene
ad assegnare successivamente due differenze, che ristringono il genere delle
nozioni, e per dice i. che la legge appartiene al genere delle nozioni, 2. 0
che appartiene a quella fra le specie contenute nel genere delle no- zioni,
colla quale si pu giudicare della condizione o qualit morale delle azioni : non
basta ancora: 3. che appartiene ad una specie ancor pi ristretta fra quelle, col-
le quali si fa giudizio della moralit delle azioni, cio a quelle nozioni
secondo le quali si deve operare; e colle quali per discernonsi le azioni
lecite dalle illecite ; non le buone dalle migliori. Il Padre dice: perch vi
mettete voi quel perci, quasich dal- l'essere la nozione, di cui si parla, alta
a (arci giudicare della qualit morale di unazione, ne dovesse venire qual
conseguenza, che noi dovessimo operare secondo quella, mentre la nozione
potrebbe indicarci I' azione essere di consiglio, oon essere obbligatoria ( 1 )
? Rispondo, che nella classe di quelle nozioni. Colle quali si giudica di ogni
qualit morale di unazione, vhanno anco quelle, colle quali si giudici! della
qualit che rende le azioni lecite d illecite: e perci si deve operare secondo
ci che detta quella classe di nozioni l venendo cos assegnata lultima
differenza, la quale fa che una nozione abbia il vero concetto di legge. Che se
nondimeno il perci si volesse ommeltere, confessiamo che niente la definizione
ne scapiterebbe. Veniamo ora all'accusa pi riguardevole. Il P. L). mi dice che
notio mentis est per se quid subjectivum. Nel sistema di lui il concedo.,
perocch egli fa scaturire le idee dal soggetto stesso, e pone il concetto del
nostro Io della nostra attualit come all
animo es- senziale. Ma perch non prendere un po' pi di cognizione del sistema
nostro, prima di parlarne? Avrebbe allora conosciuto, che nozione ed idea per
noi il medesimo nella sostanza, non
differendo che per una diversa relazione ; avrebbe inteso, che per idea noi intendiamo
un oggetto intuito dalla mente nella sua possibilit : sicch si sarebbe accorto,
che il dire essere la nozione per noi cosa soggettiva torna falso ed assurdo;
giacch loggetto ( possibile) che informa la mente, c dalla mente indipen-
dente, e ad essa superiore, come tante volle nelle opere nostre diciamo, c come
ab- biati) provato collautorit dei Padri della Chiesa ( 2 ). Avrebbe conosciuto
di pi, che noi riduciamo tutti gli oggetti ideali allente in universale, net
quale la mente li vede; e che quest ente in universale lo ripetiamo poi da Dio
stesso ; essendo esso per noi quel lume che Iddio comunica alle anime in pur
creandole intelligenti. Sicch il lume del- la ragione per noi uoa impressione, se cos vogliamo esprimerci,
del volto di Dio; e gli sarebbe stato allor facile il ritrovare in questo
stesso lume il vestigio del supre- mo legislatore. Ma dubbiamo noi forse
ripetere continuamente coleste cose, che abbia- mo tanto estesamente esposte, e
coll'autorit dellecclesiastica tradizione ampiamente confermate? 0 non avremmo
noi forse il diritto di rispondere: * Fratello leggete, c meditate meglio ? (3) Unaltra difficolt: soda bene- Nonne,
dice il padre Dmowski, notio, opc cu- jus de /lumariarum actionum moralilate
judicamus, sumilur frequenter ex reina - (1) Onde il padre Dmowski fa le
maraviglie di questa illazione: Mira vero prorsus est ah auclorr. farla de
darti o : c e secondo la quale perci si deve operare! 1 cr. (2) Vedi fra gli
altri luoghi il c. XLII del L. Ili del Iiinnov/tmcnlo ccc. (3) Veggasi fra gli
altri luoghi il cap. VI della Storia comparativa dei sistemi morali ; c la
Filosofia del Diritto , voi. I, Se*. Il, vi? ; Sei. Ili, i, u, m. Rosmini Voi.
XII. 450 Digitized by Google 242 tura, ex fine, ex adjunctts eie. , r/nac per
se rationem legis certissime non con- tinenti Confonde qui il noslro aulore Y
ordine delie idee, ni quale appartiene la legge, coll ordine delle azioni
reali, ni quale appartiene la moralit posta in essere. Tanto nell'ordine delle
idee, e nella legge, quanto nellordine delle cose reali e delle azioni vi la natura, il fine, le circostanze ecc.
dellazione. Cosi la legge mi comanda di non fare ci che di natura sua male, di operare con fine retto,
di osservare se l'a- zione possa essere malvagia per cagione di qualche sua
circostanza, ecc. Tutte que- ste cose entrano dunque nella legge ; sono tulle
idee che compongono la nozione complessa dell azione lecita e dell' azione
illecita, colla quale noi possiamo e dob- biamo giudicare le azioni reali, e
discernere in fra esse quelle che noi possiamo porre lecitamente, da quelle che
non possiamo. A formare questo giudizio che cosa si ri- chiede? Richiedasi
manifestamente clic noi paragoniamo la natura dell'azione che ci si presenta a
fare, colla natura detrazione caratterizzala per lecita dalla legge morale: e
medesimamente che paragoniamo il fine con cui operiamo, col fine pre- scritto
dalla legge; le circostanze colle circostanze volute dalla legge ecc. Non pu
dunqne dirsi di queste cose con tanta franchezza, i/uae per se rationem legis
certis- sime non conlinent, perocch se, materialmente prese, non sono leggi, ma
indizi a cui applicare la legge ; idealmente prese per sono veri elementi della
legge, la qua- le con essi determina il lecito, e dall'illecito lo distingue. L
obbiezione del padre Dmowski nasce adunque dal non aver egli haslevol mente
analizzata la legge n di- stinto bene l'ordine delle azioni reali, a cui
sapplica In legge per giudicarle buone o ree, dall ideale di esse, che il modello loro, la legge stessa, secondo la
quale s giudicano. Egli prosegue: Eamdem insujjicientiam ostendunt, ut
inspicieuli facile pat- bit, Iret conditiones buie legis de/initiuni adjectae.
Mi permetta qui il P , che lo interrompa, per notare nelle sue parole nna ine-
sattezza di esposizione. Egli fa credere, die io abbia aggiunto alla
definizione della legge tre condizioni ; ma io non ho fatto questo. Le mie
parole stampate sono le se- guenti:
Acciocch poi si possa far oso di questa nozione, e recar giudizio delle
azioni ornane conviene che v'abbiano tre condizioni, e ci sono le seguenti ecc.
, dove si vede che le tre condizioni non furono da me apposte alla definizione
della legge, come dice il P. D., ma che furono indicale come necessarie,
acciocch si pos- sa Jar uso di essa. Questa osservazione importante. Per essas' intende quanto male a
proposito il Padre, dopo aver recate quelle Ire condizioni, siccome da me
apposte alla definizione della legge, prosegua poi ad investire questa povera
defin'zion mia con delle inter- rogazioni gravissime a dir vero, e clic
meritano 1 attenzione del lettore. Noi le rife- riremo, soggiungendo a
ciascheduna la sua risposta. Praeterea, dice, cero la prima, nonne volunlas
divina, vel cujuseis legitimi superioris, debito modo et sujficienler subditis
manifestata, cera ni legis conlinet rationem ? Cerlmenle, o Padre, e chi n' ha
mai dubitato? e chi ebbe la temerit di avo- carlo in dubbio? La volont di Dio,
o quella di qualsiasi altro legittimo soperiorc, non entra ella forse in quella
nozione complessa, colla quale sola la mente nostra pu giudicare, se un'azione
ci sia lecita oppur proibita? Perocch come possiamo noi giu- dicare che un
azione sia lecita, se non avendo nella mente nostra tutti gli elementi, daqunli
risulta la licitczza di quellazione? e questa licitezza risultante da lutti i
suoi elementi e anche dalla volont dei legittimi superiori, che cosa ella altro se non una nozione, colla quale la
menle delluomo conosce e distingue quellazione esser lecita, e non lecita per
opponilo la sua contraria? La nozione adunque della licitezza di un aziouc
abbraccia in s di necessit (ulto ci che costituisce lazione lecita, perocch
Digitized by Google 243 ella non altro
che la stessa qualit morale di essa azione lecita concepita dalla men- te; e
perci ella, quella nozione, non meno abbraccia la legge positiva, clic la natu-
rale; risultando, come dicevamo, la licitezza d' un azione da quella e da
questa. G perci appunto io m'attenni all accennata definizione, perch dovessi
definir la legge in un modo generalissimo, che in s abbracciasse ogni principio
d obbligazione, tan- to razionale che positivo (t); acciocch ella potesse
servire di buon cominciamento alla trattazione. Conciossiach le scienze, se io
nulla veggo, si debbono incominciare ad esporre abbracciando da principio
largomento in tutta la sua estensione o gene- ralit, affine di poter poi venire
in appresso dividendolo e suddividendolo ordinata- mente. Il padre Dmowski non
osserv oltracci, che la legge che io definisco si la
legge morale , e non la legge
semplicemente . Io ho aggiunto questo epi- teto di morale per avvisare appunto
il lettore di ci che la definizione mia doveva abbracciare, e di ci chella
doveva escludere. Ella doveva abbracciare tuttoci che moralmente obbligasse I
uomo, e doveva escludere tutte le forme esterne e ma- teriali della legge, la
legalit, la veste di essa. Talora si d il nome di legge anche Ile sue forme
esterne ; perci, affine di evitare gli equivoci, ho dichiarato che In mia
definizione riguardava la legge morale
> in tutta la sua estensione ; ma non di pi. A orine retale ad eoe, continua
ad interrogare il Padre , qui per se ra- tionem investigare non va/ent , et
praesertirn in r/uaestionibus mere probabili- bus, doctorum judicium et
auctoritas pr regala morali! ali* stimi pot si ? et la- meri i/uis unr/uam
dicere audebil haec et bornia similia alimi non esse r/uam no- tionem mentis ?
Qui il Padre mostra di credere, clic laver io detto che la legge morale sia una
nozione della mente, colla quale luomo distingne ci che lecito e ci che illeci- to, sia il medesimo, che laver io
insegnato, che gli uomini non possano conoscere il lecito e distinguerlo dall
illecito senza investigare la ragione delle cose, il che cer- to non pu fare il
pi degli uomini. Ma ogni savio e discreto lettore vedr, che s'egli vero che niun uomo pu distinguere il lecito
dall illecito se non ha una nozio- ne della licitezza ed illicitezza delle
azioni, non poi vera n necessaria conse-
guenza, che a fare tal distinzione si esiga di pi, che gli uomini investighino la
ra- gione delle cose, n tale scempiaggine fu da me detta ; bastando anzi, che
essi sieno diretti dalla legittima autoril. E questa tuttavia non varrebbe loro
niente, se prima essi non avessero in mente la nozione del lecito e dell'
illecito in gene- rale, e poi non credessero che ci che la legittima autorit
loro proibisce ille- cito, e ci che la
legittima autorit loro permette lecito.
Nel caso adunque della legge positiva, la nozione complessa , colla quale gli
uomini giudicano della lici- tezza delle azioni, risulta dall autorit del
legislatore e della legge da quello pro- cedente, e non da alcuna
investigazione razionale , che fuori di proposito il P. D. introduce. Quanto
poi all autorit de dottori nelle questioni meramente probabili, essi non hanno
virt di far leggi, perch non sono legislatori ; ma la loro autorit giova assai
n venire in cognizione di ci che la legge proibisce o non proibisce ; e perci
qnel- l autorit de' dottori non
propriamente la regola delle azioni, quale la legge; ma ella un mezzo utile, come dicevamo, a conoscere l
efficacia della legge, cio se e quando la legge obblighi, o non obblighi. L'
autoril dunque de dottri dee riguar- darsi in molti casi come un aiuto dato
all'uomo, acciocch questi si possa formare pi facilmente quella nozione della
licitezza d un' azione, colla quale poi egli giudica se (1) Eli Unto pi strana questa osservazione del P. D.
, elio io parto detta legge posi- tiva proveniente dai legislatori o oa'
superiori nelle note stesse cho illustrano la data detiuizio- nc, c io millanta
altri luoghi delle tuie opere. Ved. il capitolo 1 do' Principi. Digitized by
Google essa "li sia pcriu'-si oppure violata : e in quella nozione appunto
consiste i essen- za della legge morale. Finalmente il I. D., dopo aver dimandato: Chi oser dire, che la volont dei legittimi
superiori o l'autorit dedottori non sia altro che una nozione della men- te
(i)? soggiunge: Aul ad hoc ut tallo tini, debere , necessario in mente recipi ,
et ad judieia circa actiones applicarti quasich la volont de legittimi
superiori, e 1' autorit de dottori possano servirci di regola delle azioni
anche se non la riceviamo nella mente nostra!! Fin qui si sempre credulo, che la volont de' superiori e
l'au- torit de dottori non potesse mai servir di regola agli uomini, se quella
e questa non giunga alla loro cognizione; ma ora il P. D. trova questa mia
dottrina erronea, e ne prende scandalo (z)! Mena pure le maraviglie dellaltra
condizione da me posta, ace : oech si possa far uso della legge, cio, che la
legge venga dal soggetto applicata alle azioni ; qua- sich un uomo qualsiasi o
dotto o ignorante non abbia bisogno di applicare la legge alle sue azioni, se
egli vuol conoscere qoali gii sieno lecite o permesse e quali no; e cosi vivere
secondo quello che gli prescrivon le leggi. Si direbbe che il padre Dmo- wski
dispensasse gli uomini dall avere la coscienza, giacch la coscienza non che un giudizio che I uomo fa delle sue
azioni particolari applicando ad esse la legge che egli conosce ! Io non vedo
necessario d entrare a rispondere a tali obbiezioni, bastan- domi di esporle
alla luce del pubblico. Pi tosto qui in fine aggiunger sembrarmi, che le
osservazioni del padre Dmo- wski, consideratone il fondo e lo spirito, riescano
a proporre questa difficolt: c co- me sia possibile che in una nozione o
ragione della mente si manifesti una forza ob- bligante I' nomo . Se
questa veramente In difficolt principale
del padre Uniowski, che non ni assicuro affermarlo, non sar difficile a
vincerla, purch si chiarisca pri- ma bene in che consista la forza obbliga ole.
La forza obbligante una necessit che I*
uomo conosce avervi di operare in un dato modo per non diventare un essere
malvagio. L' uomo poi diventa un essere mal- vagio, quando la sua volont ricusa
di aderire all' essere secondo l'ordine dellessere stesso ; cio preferendo P
essere minore in confronto col maggiore. Aderire all essere colla volont, vuol
dire riconoscere 1 essere por quello che
n pi n meno, amarlo come late, operare in conformit di questo amore. Per
esempio, se io disubbidisco a Dio per attenermi al piacere de sensi; io
preferisco l'essere materiale e animalesco a Dio, preferisco il minore al
maggiore. Entro dunque in lotta coll essere, sono av- verso al suo ordine, da
parie mia tento di distruggerne lordine, anzi, io veramente lento di
distruggere lessere stesso, perch lessere, senza il suo ordine intrinseco, non
pu stare. Ora l essere e il bene si
convertono (3). Tentar dunque di distruggere l ordine dell' essere tentare di distruggere il beue ; e cosi
facendo io sono autore del male ; dunque sono malvagio. Se non voglio adonque
esser malvagio, io dedito operare in conformit dellordine dellessere. Questa
necessita 1 obbligazione morale.
Chiarita cos la forza obbligante, la necessit morale ; egli agcvol cosa inten- dere come questa si
manifesta nelle nozioni o cognizioni della mente. Perocch, se io (1) Noi non
abbiamo mai dello ebe la volont de* superiori o l'autorit de dottori non sia
atiro clic una nozione della mente , come vuol dare a credere il P. D. ; ma
diciamo belisi , clic l* uomo si serve della volont dei superiori e dell*
autorit de* dottori per procacciarsi la nozione , oolla quale poi egli conosce
e giudica se i' azione di egli sla per fare gli sia lecita , ovvero illecita.
(2) lo osservai gi di sopra, aver io dello, elio la legge dee essere ricevuta
do noi nella mente , t acciocch si possa far uso di essa > ; c non acciocch
sia legge o regola dello ozio* ni, come felsnmcnlc m ottribuiace il P. U. (3)
S. Tom., S. I, V. tu. Digitized by Google *45 non conosco lordine dell'essere,
e se non conosco che, ove io me gli opponga, di- vcnlo malvagio, non, potrei
mai sentirmi obbligato a non oppormivi, ad operare in conformit di esso. E
dunque in virt di tali cognizioni o nozioni, che io mi accorgo di essere
necessitato ad operare in un modo pi tosto che nell altro, se non voglio ren-
dermi reo o sia malvagio. Ecco come l 'obbligazione, fa sentir la sua forza
sempre nella mente, e come perci senza intelligenza non si d morale. La quale
fu veramente In sentenza di tutti i grandi uomini dell antichit gentile o
cristiana; e pi s' intende, pi che si meditano i loro delti. A me baster qui
recare la testimonianza di Cicerone per l antichit gentile, e quella di s.
Tommaso per l'an- tichit cristiana: i due raccoglitori della profana e della
sacra sapienza. Cicerone dice, che gli uomini dottissimi ebbero definita la
legge cos: Lex est ratio stimma , insita in natura , quae jvbet ea quaefacienda
sunt prohibet- qve contraria (i). Colle parole ratio stimma insita in natura ,
dimostra che la legge risiede nella mente dove sta la ragione ; e colle parole
jubet e probi bet, dimostra che ivi ella manifesta una forza autorevole ed
obbligante. E ancora , rife- rendo sempre il parere de sapientissimi, afferma,
che la legge est ratio , uensqcb sapientis ad jv re jvovm t et ad de terrenduu
idonea (2); colle quali parole di- chiara idonea a comandare e a vietare,
che quanto dire ad obbligare, la ragione
e la mente del sapiente, non per altro, se non perch questa mente e quella che
vede e addita qual sia 1 ordine delle
cose, e limmalvagire che fa I* uomo a quello oppo- nendosi. finalmente
diee.flncora, F.a ( lex ) est enim naturae ris: ea a e ss ma- ttoque prudests :
ett juris alque injuriae regala ( 3 ); colle quali parole di nuo- vo esprime la
forza obbligante, 0 sin la necessit morale, che sta nella mente e ra- gion del
prudente , e che si manifesta in quella norma 0 regola, con cui le cose giu-
ste dalle ingiuste distingnonsi. Tale era adunque il sentire dell* antichit
gentile da Cicerone a noi testificalo: in ona medesima nozione della mente
scorgevano quesavi ad un tempo e In regola di giudicare, e la forza di
obbligare. Ora tale altres il sentire
dell' antichit cristiana, n pu esser altro, testimo- nio I Angelico. A tagliar
breve, io rimando prima il lettore a quella questione dove il santo ricer- ca
se i imperare sia un atto della ragione, e risponde senza esitare : Imperare
atUem est r/uidem essentia/iter aclus rationis ; e ne d questa ragione :
Imperane enim or- d nat rum qui imperai ad aliguid agendum , intimando et
denuntiando (4). Ecco qua che il comando nasce dal conoscere 1 ordink, che si
vuole eseguito. Laonde nota 1 Aquinale, che i bruti possono bens muovere le
loro membra, ma non far degli atti imperati (5j; l dove gli uomini j 'aduni
impetum ad opus per ordinationeh ratio- nis (G). N solo, secondo la dottrina
dellAngelico, la ragione pu imperare alle potenze inferiori, ma alla volont,
potenza morale, perch ella quella che
conosce dove stia il bene. Manifestino est autem , dice, quod ratio potest
ordinare de aclu volun- talis ; sicut enim potest jv Die are quod bonusi sit
ali quid velie, ila potest ordinare imperando quod homo veli l ( 7 ). Dove
apparisce il perch Della ragione si manifesti questa forza di comandare ;
non per altro, se non perch qnivi fatto nolo all' uomo I ordine e il disordine,
e per qgal cosa sia bene volere, quale sia ma- fi) De legib. I, v. (2) Ivi II,
IV. (3) Ivi. (4) S. I. .11, XXII, 1. (5) Ivi, ari. 11. Imponibile est quod in
brutti animalibut , in qvibus non ut ano *it Qiqun modo imperi um. (6) Ivi ,
aii 3. {7J Ivi, ari. V. Digitized by Google 246 le. Laonde, dalla virt che ha
la ragione di conosoore l'ordine e il bene e il male dedace il santo l'origine
della legge. Perocch egli cosi argomenta ancora: Ad le- gem perline t
praecipere et prohibere. Sed imperare est ralionis ut stipra habitum est. Ergo ex
est aliquid ralionis, ed ancora ; Lex guaedam regala est et mensura
actuum. Negala auleta et mensttra
htimanorum acltium est ratio , quae est prin- cipiarti primum aduniti
humanorum. Inunoquoque autem genere id
quoti est pria- cipium est mensura et regala Ulius generis. linde relinquitur quod lex sit ali- qcid pertInens ad
rationem (i). Ed aggiunge, che le proposizioni generali
del- la ragione morale, hanno appunto natura di legge: Est invenire aliquid in
catione pradica quod ita se habeal ad operationes, stetti se habet propositio
in rationc speculatil a ad conc/usiones. Et hujttsmodi propositiones
vnipersales ratio- nis praticar ordinatae ad acliones habent rationem legis
(2). E adunque nella ragione che si manifesta la legge secondo s. Tommaso, a
seguo tale, che n pure i comandi di un superiore qualsiasi potrebbero obbligare
la creatura ragionevo- le, se precedentemente a questi comandi, la sua ragione
morale (chiamata pratica da s. Tommaso ) non gl' intimasse questa proposizione
generale, o sia legge : I coman- di del superiore si debbono eseguire. I quali
comandi per cesserebbero dall' es- ser precetti o leggi obbliganti se fossero
opposti allordine di ragione, perch, E 0- luntas de iis quae imperantur ad hoc
quod legis rationem habeal, oportet, quod sit a li qua rat ione regc lata ; et
noe modo iiitclligitur , quod roluntas prin- cipi habet vigorem legis: alioquin
roluntas principi magi esse t iniquitas quam lex ( 3 ). Nella ragione adunque
si manifesla la legge morale, secondo s. Tommaso. Ora egli chiaro, che ivi stesso dee manifestarsi
immediatameute e contemporaneamente la forza dell obbligazione ; perocch la
legge non sarebbe legge se veramente non obbligasse. Laonde s. Tommaso deduce
la parola legge da legare : Dicittir enim lex a legando quia orligat ad agendo
st (4-). N s induca da questo, clic la ragione delluomo sia quella che fa le
leggi o produca l' obbligazione : mai no. Come ho in tanti luoghi spiegato, la
ragione del- 1' uomo solo, per cosi
dire, il luogo dove si manifesta la legge e la sua forza obbli- gante ; nulla
pi. La legge e la sua forza nasce primieramente dall ordine degli es- seri, e
propriamente dalla loro dignit : conosciuta questa dignit, e quindi sentitane
1* esigenza morale, si presentano ben presto anche le leggi positive ; perocch
si de- duce la conseguenza, che dunque l'uomo dee uniformare la sua volont a quella
di Dio, e a quella di altri legittimi e non ingiusti legislatori. Laonde la
legge, anche la naturale, nell uomo, per
parlar coll Angelico sicut in regalato, e non sicut in regulanle ( 5 ). Finir
osservando che il considerar la legge come una concezione della mente, eleva il
pensiero a Dio. Perocch egli chiaro, che
Iddio la suprema mente, e per ivi dee
trovarsi il fonte delle leggi. Per questo appunto i filosofi gentili poterono
chia- mare la legge naturale ratio sa si si a insila iti natura (6), che quanto dire, una parlecipaz'one della ragione
divina ; e Cicerone pot scrivere quelle belle parole liane igitur video
sapientissisiorcm fvisse sententi am, legem neqce nominisi ingenue excogitatam,
nec sciatti (7) uliquod esse populorutn, sed jkterncm (1) S. I. Il, XC, 1 . (2)
Ivi, ad a. (31 Ivi, ad 3. (4) Ivi, in c. (8) S. I. II, XC, ni, ad 1 . (6) De
Legib. Il, iv. (7) Quanto c acconcia questa parola scitvm a dimostrare colla
sua etimologia, clic gli .in - tichisnoii italiani Riputavano le ragione coma
il (un In dcl'e leggi t Digitized by Google 247 qui odasi , quod universum
mundum regeret, mperandi prohibendique sapientia. Ila principem leoem illam et
uhimam, uentem esse dieebant, omnia rationk cogentis aut vetanlis dei : ex qua
illa lex, quam Dii fiumano generi dederunt, ree le e si laudata (i). A cui
consuona il perpetuo insegnamento cristiano, mirabilmente espresso da sant
Agostino, che scrisse : fila /ex, guae svuma patio nominatur , cui semper
oblemperandum est et per quam mali miserata, boni bcalam vitam merentur , per
quam denique illa quam lempora/em vocandam diximus recte ferlur, reclegue
mutalur, polest ne cuiquam intelligenti non incomuutabius jctebkaqve vi- dee i
(2) ? (1) De Leghus , II, i*. (2) De L. Arbitrio , I, ti. Digitized by Google
Digitized by Google SULLA TEORIA BELL ESSEBE IBEALE RISPOSTA && m ip mm
mmm DELLA C. DI G- Digitized by Google Digitized by Google SULLA TEORIA massaia
I. il elle osservazioni critiche che il rer. padre Dmowsl della C. di G. fece
alla definizione da me data della legge (i), egli si riferisce all altre
osservazioni critiche da lui fatte sulla dottrina da me proposta intorno
l'origine delle idee ( 2 ). Per quelli adunque che credessero connesse queste
due cose, come le crede connesse il padre Dmovreki, par necessario che, dopo
aver io dimostrate insussistenti le osservazioni op- postemi sulla definizione
della legge, dimostri insussistenti anche le osservazioni sue riguardanti la
dottrina dell'origine delle idee. II. E la prima cosa che dir sar piccola, ma
pure importante a dimostrare, che il padre Dinowski non si dato la cura sufficiente di bene intendere i
miei sentimen- ti, e di esporli con fedelt, come necessario a colui che vuol combatterli.
Questo appar sce chiaramente dal nesso appunto che egli ritrova, e che non
esiste menoma- mente fra la definizione da me data della legge, e il sistema
dell un : ca idea innata dallessere (3). E che non esista un tal nesso, vedesi
considerando, che quunJ'anco fosse falso il sistema da me proposto intorno
all'origine delle idee, e lidea dell'essere non fosse innata, e non fosse la
prima da cui tutte l' altre si dedncono; la definizione per da me data della
legge rimarrebbesi egualmente vera ; giacch io qualsivoglia sistema sarebbe
vero, che la legge non un quid materiale
o reale, ma si un quid (1) Nette ine hutilutiouei philoiophiai ole., Roman. ly
pia J. B, Marini et sodi, 1S40. Voi. II conlinens Insttutiones E h'eae, nella
noU apporla al n. 57, p. 85. (2) Ivi Voi. I. Psicologia, c. Ili, art. n p. 367.
(3l Ecco le parole dove il padre Dmowiki accenna a questo npwo : IJaec tane
quae dici- nus cl. auctori minus forte probit videbimtur , eo quod non satis
congruanl cum illius in* genioso ey sternale unius ingenita e ideae entis tn
genere ; veruni nos qui jam alias (Voi. I, Psicologie cap. III, art. ii, prop. i, o. 60 in
noia 3 ), intheavimus quid sii de hoc systematc seniisnduin tic. Nella citala nota delie sue Jnstilutiones Ethicae al
a. 57. Digitized by Google 252 ,.
ideale, un'idea, una nozione, una concezione, come la chiama a. Tommaso, in
viriti della quale noi conosciamo quello che dobbiamo fare e quello che
dobbiamo intrala- sciare, e in virt della quale perci ci sentiamo legati ed
obbligati ad operare in un dato modo. Io ho dimostrato nello scritto
precedente, che questo il sentimento di
tutti gli autori principali sacri e profani, qualunque sia il loro sistema
intorno all'ori- gine delle idee, e quandanche non ne seguano alcuno; e che
perci con quella defi- nizione le varie sentenze e dottrine de morali Dottori
vengono dilucidate e conci- liate. III. Ma donde pu esser avvennto al padre
Dmowski di pensare, che la proposta deGnizione della legge si attenga al
sistema dellunica idea innata dell essere? Egli sembra che la cagione che il
mosse a cosi credere sia stata questa, che quando io di- cevo la legge
essere nna nozione della mente, colluso
della quale noi giudichiamo quali sieno le azioni morali, e quali le immorali ;
egli abbia supposto, che per quella nozione io intendessi lidea dellessere in
universale. Ma questo sarebbe un puro abba- glio preso dal Padre nell
interpretazione delle mie parole: egli non avrebbe osservato che io volevo
definire la legge in genere, come dice il titolo dellarticolo in cui si d
quella definizione (1), e non la prima di tulle le leggi. Nallarlicolo che
segue, io cerco quale sia la prima legge, e dimostro che ella il lume della ragione, o sia lidea delles-
sere. Ma questa questione della prima legge
al tutto diversa da quella che toglie a stabilire la definizione della
legge in generale , e che tratto antecedentemente. Infatti, egli pur necessario, che prima si sappia che cosa
sia la legge in genere, acciocch poi b possa investigare qual sia la prima di
tutte le leggi che risplendono all animo umano. Se il R. P. avesse solamente
letto con attenzione la nota aggiunta alla defi- nizione della legge, avrebbe
trovato pienamente chiarito che cosa io intendevo per quella noz : one che
esercita sempre in noi I ufficio di legge; avrebbe inteso , che io non
intendevo per essa una nozione particolare, per esempio quella dell'etere,* ma
delle nozioni varie secondo la variet delle obbligazioni ora pi universali ,
ora me- no ; e quindi egli non mi avrebbe mai opposto, che la mia definizione
della legge escludesse la volont di Dio, o di altro legittimo superiore, e il
giudicio e P autorit de Dottori. Queste cose rimarrebbero bens escluse dall
avere ragion di legge, se io avessi detto che l idea dell essere quella sola che costituisce la legge in
generale ; ma io non ho mai fatto entrare lidea dellessere nella definizione
della legge in gene- rale ; e, supponendo questo erroneamente, il padre Dmowski
mi attribuisce cosa da me non mai pensala, non che detta. Ora vorr egli
l'equit, che a mio carico si met- tano le male conseguenze di nna dottrina che
mi viene a torto attribuita, specialmente avendo io parlato si chiaro, che bastava
leggere con un po di attenzione c meditazio- ne per intendere ? lo non aspetto
questo dalla religiosa onest del padre Dmowski, e non dubito che egli converr
lealmente ed onoratamente del suo abbaglio. IV. Ora poi, essendo dimostrato che
la mia definizione della legge in generale forma una questione interamente
distinta da quella dell' origine delle idee, e non punto connessa con essa come per mala
intelligenza suppose il padre Dmowski, non sarebbe p nrcessaro a difendere la sanit della mia
dottrina morale, che io rispon- dessi alle obbiezioni che egli fa al mio
sistema ideologico in quella nota posta al n. fio della sua Psicologia alla
quale egli si riferisce l dove impugna In mia delin : zion della legge.
Tuttavia il far brevemente, quasi a maggior compimento di questa discus- sione,
e a conferma di quel che dissi sub'importanza, che chi scrive contro la
dottrina di un autore, prima ben la conosca, il che si suole da tanti oggid
trasandare. La nota, nella quale il padre Dmowski parla del mio sistema intorno
allorigine delle idee, scritta oon
urbanit, e non contiene di que tratti sconvenevoli, con un (i) Principi Mia
Scienza Morale, cap. I, art. i, avente per titola quote parole : i Delta legge
in generale i. Digita ed by C 253 de'qnali finisce l altra nota contro la mia
definizione della legge in genero, tendente a far credere, che il mio sistema
filosofico riuscisse a nientemeno che a sovvertire le oorauni sentenze e
dottrine de' morali Dottori, a' quali io professo e sempre professai la dovuta
riverenza; sicch di qnella sola prima nota io non intendo lagnarmi, ma
piuttosto me ne tengo onoralo. Ben vero,
che io avrei desiderato che ella fosse pi esplicita, e che non avesse il R. P.
taciuto quelle altre cose ben molte, che dice d aver nella mente, mettendone
fuori sol poche (t ) ; conte pure, che egli avesse con maggior franchezza
combattuto il nostro sistema filosofico, postoch credeva di aver delle tuono
ragioni da farlo, pia- cendo a noi assaissimo la lealt e sincerit de' nostri
avversari ( 2 ). Tanto pi, che quantunque egli faccia la dichiarazione di non
aver voluto colle sue osservazioni con- fatare il nostro sistema, ma solo
cautelarne la giovent, acciocch troppo facilmente non f abbracciasse ; tuttavia
in altro luogo si mostra persuaso d' averne parlato tanto a pieno, che gi con
qnel sol che ne disse, rimanesse stabilito il giudizio da farsene, indicavimus
quid sii de hoc s;/ sternale sentiendum (3). V. Ma via, vediamo se gli
argomenti, co' quali il Padre stabilisce quid sii de hoc sy eternate sentiendum
sieno chiari, perentori, e applicabili realmente al sistema che egli prende di
fatto a confutare. Per cominciare dall ultimo, sul quale sembra basarsi 1
avviso di andar cauta- mente, che egli d alla giovent ; l argomento consiste
neW affermare, che noi Jorse prendiamo la parola ente in diversi significati,
la qual cosa, dice, dee trarre in so- spetto il sistema stesso. In suspicione m
merito quis vocare palesi Ulani disputatio - nem, in qua non eadem ubique eidem
vocabulo suhjicilur notio ; id furie accidit in casti nostro, poterilque deteqi
in multipliciusu cttque accomodatone hujus notionis entis ut possibilis tantum
ad concepiti sdicersos, eliam objeclive, reales, determinati- dos. Laonde pi
conchiude tutta la nota dicendo di aver voluto avvertili i giovani, ne
syslcmaticae cogilandi rationi de facili subscribant, prius quam id,in quo
cardo quae- Stionis vertilur, nedum dilitcide exposilum , sed et firmissimc ac
inconcusse probalum invenerit (4). Ora quest' argomento non ha altra forza in
un libro stampato, se non l'autorit dell'autore del libro; poich tutto si
appoggia sopra una nuda affermazio- ne. N certo si dubita, che 1' affermazione
del padre Dmowski non meriti rispetto ; ma pare che la questione nostra non
debba essere tagliata coll'autorit, ma trattato colla ragione. D' altra parte
niente detrae alla stima dovuta al pdre Dmowski, chi si re- stringe a credere
alla veracit soggettiva della sua affermazione, senza stimarsi per (1) Vetmus
et noi in riorti siimi viri opinlonem latentissime descenthre , quoti tamen ne
faciamus cu m alia tene multa, tum haec paura noe prope invitai cohibent. Mota
al o. 60 della Psicologia. (2) Il padre Dmowski , dopo avere sposte le ragioni
che non gli permettono di adciiro al nostro sistema, dichiara di non aver avuto
per intenzione di confutarlo Ceterurn haec innuisse sufficiel : non enim animo
refellendi tam ingeniosum el erudilum cl. Hostnmi iguana notulam aostram
sutjicimus, sed dumlaxal, eie. Nola citata. (3) Mola al n. 57 dell'Etica. (i)
Nota al n. 60 della Psicologia.
Savissimo 1 avvertimento di non
dover aderire ad nna opinione, se non ci si vede ben chiaro, priusquam id in
qua cardo quaestionis verli- tur dilucidi exposilum sii. Per altro, se i
giovanetti non dovessero abbracciare mai nluna opi- nione se non la trovassero
essi stessi provata fcrmissiinamente ed inconcussamente ( firmissimum et
inconcusse probalum invenerini ) , difficilmente potrebbero formarsi opinione
alcuna. Non so e il padre Dmowski sia persuaso, che tutto ci che egli propone
nelle sue Istituzioni filosofiche ella scolaresca siccorao cerio , vi sia
firmissime ac inconcusse probalum : felice lui se lo ere. de ! Ad ogni modo
egli sembra pericoloso per la giovent il parlarle in quello modo : ( Voi non
dovete sottoscrivere a niun sistema prima che voi stessi non abbiate ritrovato
, che il car- dine della questione sia dimostrato con argomenti fermissimi ed
inconcussi >. Anche nella scuola di filosofia non dee valer solo la ragione
del giovanetto, ma qualche cosa dee valere anche lau- torit del maestro :
altrimenti* noi non guarentiremmo i giovanetti dal mal del secoto, che il creder tutto a s stessi, e nulla
all'altrui autorit. Digitlzed by Google 854 obbligalo a credere (perch si
(raderebbe sempre di credere e non di ragionare) alla verit oggettiva della
medesima. Voglio dire: Cbe sia paroto al padre Dmowski, he la parola ente da me
si adoperi nello stesso ragionamento in diversi significati, questo indubitabile, poich egli lo alfcrma, e
sarebbe ingiurioso il non credergli; ma cbe cfTettivamente poi io adoperi cosi
quella parola, di questo senza fare torto al Padre, si pu dimandare in prova
qualche esempio tratto dalle mie opere: perocch egli potrebbe essersi senza
colpa ingannato, parendogli di trovare mutazione di signi- ficato al vocabolo
ente , l dove ella non v . Tacque adunque il pi importante nel- l argomento,
tacque ci in quo cardo quacstionis vertitur ; perch tacque un esem- pio almeno
se non pi, da cui apparisse, che in un medesimo ragionamento (i), io muti alla
parola ente il significato. VI. Ma segli non adduce niun luogo particolare
delle mie opere, in coi si vegga che io mulo alla parola ente il significalo;
tocca per in generale, che io uso ed ac- comodo questa nozione di ente
possdiile ad conceptus diversos eliam objeclivc rcales determinando!. Ora, egli vero? vergiamolo. In primo luogo
osservo, che io non Ammetto n riconosco punto n poco i con- ceptus objective
rcales di cui egli parla; che anzi ne nego espressamente l'esistenza. Questo
solo basta, pare a me, a dimostrare, che io non posso adoperare la nozione
dellente possibile a determinare dei concetti oggettivamente reali, che io non
am- metto e che del lutto escludo dalla filosofia. Ed un s fatto abbaglio nun
prova egli manifestamente, che il padre Dmowski non si dato basterol cura d' intendere la dottrina
da me esposta? che mi attribuisce quello cbe non mi appartiene, e contro quest
opera sua poscia impugna le armi ? Di vero, non riconosco io, per dirlo di
nuovo, concetti reali ; anzi, per me tutti i concetti sono meramente ideali,
sono idee In qual maniera pensa I uomo
Agli oggetti reali? mi obbielter il Padre.
In qual mauicra? Vedetelo ai luoghi delle mie opere, dove io lho si
lungamente espo- sto. Ve ne accenner un solo per vostra comodit, quel che si
trova alla Sez. V del nuovo Saggio, p. I, c. I. , art. n e iti; dove
chiaramente io dimostro, che l idea, ossia ( che qui riesce al medesimo ) il
concetto della cosa non mai altro che la
cosa possibile, non la cosa reale ; e che l'uomo non pensa alla cosa reale se
non mediante il giudizio, operazione totalmente diversa dalla intuizione delle
idee e dei concetti ; ci pensa mediante I affermazione , la quale si suol
riferire al sentimento che essen-
zialmente reale. Il reale adunque percepito
nel sentimento, ed affermalo dal giu-
dizio ; ma egli non si trova gi ne concetti ( o idee ), anzi si sta sempre del
tutto fuori di essi: tale la stia
singoiar natura. E si noti bene, che questo
un vero cardinale della dottrina da me esposta ; e che senza averlo a
pieno inteso (egli non suol riuscire troppo facile, come l'espeiienzn mi
dimostra ), niuno pu affidarsi d avere inteso qnantio esposi intorno a un s
difficile argomento qual lorigine delle
idee ; e per non pu parlarne con sicurezza. Dopo di ci, io lascio giudicare al
lettore, se si debba credere al padre Dmowski quando afferma che io adopero l
idea dell' ente possibile a determinare diversi concetti obbiettivamente reali.
VII. Che poi si dovrebbe dire di questo strano pensiero d attribuirmi, che io
uso ed accomodo l idea dell ente possibile a determinare diversi concetti ?
Ciascuno che abbia letto un po il N. Saggio , sa troppo bene, che io non
adopero mai e poi mai l idea dell essere a determinare nessun concetto n reale
( che non ne ammet- to*), n ideale: sa, che per me l'idea dell ente ella stessa perfettamente indelcr- (lj II
dire semplicemente che io oso dello parola ente in vari significati , non
pruderebbe ancora che io sragionassi. INIon (sragiona colui clic di alle parole
significagitnt diverse in di- versi ragionamenti; la logica proibisce solo di
mutare alle parole il sigmltcalo nel ragionamento steso. Era dunque necessario,
che il padre Dmowski accennaste qualche ragionami (ito da me fatto, durame il
quale la perula ente si prendesse io pi sigoifi aziooi per indursene una falsa
conseguenza. Digitized by Googje 255 raioala, e perci non pu determinar nulla ;
sa, che ella stessa ha bisogno di cerere le determinazioni, e molto mi occupai
a indicare il modo, come l' idea dell ente pos- sibile venga determinata,
mediante i sentimenti, cio mediante i rapporti che essa acquista coi
sentimenti. L abbaglio adunque del Padre qui
niente meno, che laver preso il pastino peri 'attivo-, l'avermi
attribuito, che io uso dellente possibile a de- terminare i concetti ; quando
all' opposto io dico, che l' idea dell' ente possibile essa quella che dee venir determinata, e che
viene veramente determinala alloccasione delle sensazioni e dei giudizi
conseguenti. Vili. Or dall 1 ultimo degli argomenti che usa il padre Dmowski
contro il siste- ma ideologico da me pruposlo, passiamo al primo : esponiamolo
e poi esaminiamolo. La maggiore del sillogismo che egli fa si , che ubi datur
vcl palesi dori me- dium, ab exclusione unius oppositorum non sequilur per se
vcrilas aUerius (i), pro- posizione verissima e che pienamente ammetto con lui.
La miuore si , che io argomento dall erroneit della dottrina de' sensisti alla
verit delle idee innate, supponendo cosi falsamente, che non ci sia mezzo fra
il di- chiararsi pe sensisti, e il dichiararsi per quelli che ammettono le idee
innate. Modus quem cl. vir in sua disputatone nunquam non sequilur ( parla di
me ), manifeste oslcrulit, illuni instar axiomatis Imbuisse , in enarrando
idcarum origine ncccssarium omnino esse ani scnsistis nomai adjtingcrc, aul iis
suffragali, qui pr ideis ingeni- tis pugnali I ( 2 ). Sia adunque a vedere, se
egli vero questo fatto che i! padre
Dmowski aflei- ina, tener io per assioma, che non si dia mezzo alcuno fra il
sensismo e le idee innate. Prima di lutto, il padre Dmowski sembra poco
persuaso egli stesso di una tale sua allermazione, giacch egli si congratula
meco poco stante, dellaver io confutato validamente non meno il sensismo che le
idee innate, il che non avrei potuto far certamente, se vero fosse, che P uno o
1' altro sistema, al mio modo di vedere, si do- vesse abbracciare. Ecro le sue
parole, Gratulamur itaque cl, Rosmini quod cl scn- sistas et inqcnitarum
idcarum asserlores confuiaoerit opportunissime (3). Se dunque io ho confutato
non meno i sensisti che i fautori delle idee innate, par cosa chiara, che fra
gli ani e gli altri riconosco qualche, cosa di mezzo, n ammetto quale assio-
ma, che si debba necessariamente aut scnsistis nomea ad j ungere, aul iis
suffragati qui pr ideis ingcnitis pugnarli. Ala non mi piace giovarmi di un
tale argomento, che egli non sembri, che io voglia, prendere 1 avversario alle
parole; il che lontanissimo dalla mia
maniera di lare, e per confesso, che nella contraddizione accennata del padre
Dmowski, non vi ha che qualche inesattezza di espressione, e I ho accennata
solamente a far conoscere come non vi pu esser sufficiente chiarezza d idee,
dove non vi ha precisione di lin- guaggio. Raccoglier in quella vece dalla sua
bocca un'altra confessione. L dove egli dice, aver io confutalo non solo Locke,
Cundillac, Reid, Stewart, ma ben hoco Pla- tone, Aristotele, Lcibnizio c Kant,
in altero voltiminc dal operaia attclor, ut Pialo- nis, Aristotelis , Lcibnitii
cl Kanlii, doctrinas fiindilus subrual (4). Ora, o convien dire che i sistemi
di Platone, di Aristotele, di Leibnizo e di Kant appartengano al- I un de' due
opposti fissati dal padre Dmowski, il sistema sen-islico cio, e quello delle
idee innate, ovvero concedere che io rifiutai non solo de' sistemi sensistici,
non solo de sistemi d' idee innate, ma ben nuche de sistami medii fra quelli e
questi. Per esempio Kant non cava certo lutto dalle sensazioni, e per non si pu
chiamare un puro sensista, n ammette le idee innate, ma ammette solo delle
forme innate, e per- ii) Nota al n. GO della Psicologia. (2) Ivi. (S) Ivi. (4;
>- Digitized by Google 256 ci non si dep riporre tra i fautori delle idee
innate. Se dunque io confuto, come il padre Dmowski derma, anche de' sistemi
rnedii fra quelli de puri sensisti, e quelli delle idee innate, fori' convenire esser falsa l'affermazione, che io
abbia tenuto per un assuma non avervi niente di mezzo fra i due estremi del
puro sensismo e delle idee innate (l). IX. Ma lasciando le confessioni del
padre Dmowski, io ragiono cosi : Voi affermate un fatto, che io non riconosca
cio alcun mezzo tra il sensismo e le idee innate, e che il sistema da me
proposto si fondi perci su questo argomen- to : il sensismo erroneo, dunque vero il sistema dell' idea innata dell' ente
possi- bile. Ma un fatto di tal natura
facile a verificarsi : il Nuovo Saggio
nelle mani di tulli, basta aprirlo e leggere ; leggendo, ciascuno vi
trover non un solo, ma mol- ti argomenti e diretti e indiretti addursi a
provare la verit del sistema dell' idea in- nata dell essere ; c pure fra
questi molti non vi trover certamente quello che voi ad- ditale, quasi
argomento unico, o principale. Che anzi vi trover tutto il contrario : vi
trover che, lungi dal ridursi i sistemi possibili a due soli opposti difendendo
luno mediante 1 esclusione dell altro, da me si distinguono cinque generi di
sistemi ri- guardanti 1 origine delle idee. Quello che vero adunque si che fra gli argomen- ti che da me si
adoperano a provare la verit dell idea innata dell ente, ve nha uno che procede
per via d' esclusione-, ma questa esclusione non si limila ad escludere il
sensismo, ma viene escludendo lun dopo laltro quattro generi di sistemi,
rimanendo cosi solo possibile il quinto, che
il sistema vero. E prima io ho escluso il sensismo che cava Videa dalle
sensazioni ; di poi ho escluso il Lockismo, che cava lidea dal- le sensazioni
unitamente alla riflessione , ossia intuito dellanima , in terzo luogo ho
escluso il sistema che pone comunicarsi da Dio lidea allatto della percezione ;
final- mente ho escluso quello che vuole che lidea sia prodotta e formata da
noi stessi, per una forza speciale dell anima. Io ho quindi dimostrato che
questa enumerazione completa, e che non
lascia luogo a nessun sistema medio tra gli enumerati. Se il let- tore gradisce
di aver qui sottocchio le parole da me usate a mostrare come la predetta
enumerazione abbracci tutti i casi possibili ; ecco quali sono : Questa dimostrazione per esclusione ( cosi si
legge nel N. Saggio ) irrepu- gnabile, dove sia dimostrato che l
enumerazione de casi possibili completa,
a Ora, che sin completa, vedesi in questo modo : L' idea dell ente in universale esiste .-
questo il fatto da spiegare : c Se
esiste, ella o ha incominciato a esistere con noi ( innata ), o fu prodotta di poi : fra questi due termini non c'
mezzo. Se fu prodotta di poi, ella non
pu esser prodotta che o da noi stessi , o da
qualche cosa diversa da noi stessi : ne pur qui c mezzo.
Escluso il primo ; se fu prodotta da qualche cagione diversa da noi, questa cagione non pu essere che o qualche cosa
sensibile ( lazione decorpi ), o qualche s rosa d insensibile ( unessere
intelligente fuori di noi, Iddio ecc. ) N pur qui ci ha mezzo.
Ora questi due casi furono pure esclusi. v Dunque lenumerazione de casi
fu completa, perch ridotta a tale alternativa,
che ricusa sempre come assurdo un termine medio. n Dunque lidea
dellente innata: ci che si dovr
dimostrare >. Questo linguaggio dimostra evidentemente, che io non souo
partito, come dice (1) Chi asseriste che quasi lutti i filosoli rho non
ammettono le idee innate peccano di sensismo, affermerebbe il vero: e I*
affermar questo non sarebbe tuttavia un affermarli sensisti. Per altro dts-i
quasi lutti ; poich il sistema, poniamo, di quelli che sostenessero lidee
esserci comunicate da Dio all occasione delle percezioni sensibili, afTallo lontano da* sensisti. e ugual- mente
lontano dai fautori delle idee innate. Ora anche un Iole sistema fu da me
espressamente con- futato nel JV. Saggio , ccc. Sci. V, p. I, c. Ili, ori. it.
Digitized by C 257 il padre Dmowski, dal preleso assioma, clic non li diano die
due opposte rie da per- correre, il sensismo e le idee innate; perocch, chi dir
mai che tulli i quattro generi di sistemi da me confutati appartengano o a
quello de' sensisti o a quello delle idee innate? Laonde provato chiaramente che il padre Dmowski
prese abbaglio quando af- ferm che il mio modo costante di ragionare dimostra
aver io tenuto per assioma in enarrando idearum ori,] ine neeessarium omnino
esse atti scnsislis nomea adjttn- gere, aut iis si ffragari , gui pr ideis
ingenilis pugnant. X. Tuttavia veggiamo ancora qual sia il nuovo sistema che
propone il padre Dmowski, come alieno ugualmente da quello dei sensisti e da
quello delle idee inna- te, e come sfuggilo, secondo lui, alla nostra
attenzione, che si ferm, a suo dire, so- lamente sui due sistemi opposti
de'sensisli e delle idee innate, quasi non ve ne avesser altri possibili. Le
parole, colle quali egli accenna e riassume questo suo sistema, sono le
seguenti: qui cnim ex praesupposila sui ego , sire suac ar t Militati s, directa
sane, to- rnea intellcctuali cogmlione, quae certe ncque est ingenita ncque a
sensibus ullatenus depcndct , juncla cum aliis ajf'cctionibus nostris, velici
originari idearum unirersalium rcpelere a necessario quodam nostrae ralionalis
intuita quartindatn rclatinnum e. g. iilentitalis , permanentiac ,
Jteccssitalis, actnahtotis , e/e., qui intuitus, ut pot immedia- tus , indiani
inclndit ratiocinationcm, ant cxpliritum judicium et abslrartionem: is certe et
a sensistarum, et ab ingcnitarum idearum s/ stanate, /orci alienar ( i ). Or
egli nuovo questo sistema ? fu egli forse da noi trapassato e non
soltopnsto ad esame ? non si pu egli ridurre ad alcuno di qne' quattro generi,
che abbiamo esaminato ed esclusi ? Kcco'-ci che giova primieramente vedere. Il
sistema del padre Dmowski suppone pnm eramenle, che I' anima conosca im-
mediatamente s stessa, perch anima ejusque jiroprietatei sant ipsi immediatae
applicatele et eortim similitudinem in se conlinenl ( 2 ). Ma questa
supposizione ( ella non che una supposizione,
unipotesi ] noi labbiamo diligentemente esaminata e dimostrata impossibile (3).
E qui osserveremo ili passaggio, 0 Su di questo argomento decrrlorio, comegli
lo chiama, pi cose a v re io ad os- servare. In primo, vi si dice che il
concetto del nostro Io essenziale
allanima nostra. Ora se questo concetto
essenziale all'anima nostra, egli
dunque innato perch in- nato non yuoI dir altro se non indivisibilmente
unito coll'anima, ed indivisibilmente
unito allanima ci che all'anima
essenziale. Non si vede adunque, come il padre Dmowski possa, senza
radere in aperta contraddizione, dire che la diretta intellellual cognizione
del nostro Io, ncque est ingenita , ncque a scnsibus ullatcnus tic pendei-, n
si vede come in tal caso il sistema del nostru autore non ricada ne'sisleiui di
quelli che ammettono le idee innate. XVI. E vie pi forte apparisce la
difficolt, se si considera in che modo il padre Dmowski pretenda di spiegare
come sin essenziale allanima il concetto di s stessa. Egli dice, che l'anima ha
questo concetto, perch contiene la similitudine dis e dello sue propriet. Anima
ejusqnc proprictatcs sani ipsi immediate applicalae, et conun simiitudinem in
se continoti (i). Certo che qui vien voglia di domandare al Padre, chi gli
abbia dello che l'anima contiene la similitudine di s c delle sue propriet. Ma
lasciando di osservare, che simiglianli allertnazioni gratuite non hanno nessun
peso in filosofa, dimando in quella vece, che rosa sia la similitudine dell
anima e delle suo propriet, contornila nell', mima, ovvero
neH'inlelletlo(?.).Se per similitudine dell anima e delle sue propriet, intende
l'idea dellanima e di esse propriet, egli
chiaro che mette delle idee innate. Se poi distingue tra la similitudine
dell'anima e delle sue pro- priet, e l'idea dell'anima e di esse propriet, in
tal caso gli resta a dire che cosa sia questa similitudine, e in che differisca
dall'idea ; e proba!) Imente tutto si ridurr ad aver sostituita la parola
similitudine alla parola idea, e ad aver supposte innate delle similitudini
piuttosto che delle idee. Ad ogni modo, se
essenziale all'anima il concetto di s stessa, essa contiene questo
concetto ; il quale o sar la stessa similitu- dine, nel qual caso lanima avr un
concetto innato che si chiama anche similitudine^ o sar rosa diversa dalla
similitudine, nel qual caso lanima avr due cose innate invece di una, cio avr
innato tanto il concetto, quanto la simditudine. Che se il padre Dmowski
pretender che l'idea deH'anima sia tuttavia diversa dal concetto e dalla
similitudine sua, in tal caso, moltiplicandogli enti senza necessit, di una
cosa sola ne avr fatte tre, o piuttosto avr dati tre significali diversi a tre
parole, che nel fondo significano la cosa stessa. Ora, poich egli parla anco
duna diretta intellettuale coqnizione dell/o, che presuppone, gli rimane ancora
a dire, se per questa intenda egli una quarta cosa, o se limmedesimi olle tre
prime. Il padre Dmowski adunque ap- partiene ad ogni modo alla classe di
quelilosofi clic ammettono qualche cosa dinnato; n gli vale il negarlo , poich
espressamente dichiara che l'anima contiene la propria similitudine ed a
lei essenziale il proprio concetto. X
VII. Ma io credo che il padre Dmowski si troverebbe ancor pi impacciato, se
qualche indiscreto lo pressasse a dire: come inai nell'anima possa essere la
similitu- dine dellanima, lo intendo (lenissimo che fra due o pi cose vabbia
similitudine, ma in. una cosa stessa come pu avervi similitudine? Vuole forse
dire, che una cosa fi- utile a s stessa?
In tal caso pi propriamente direhbesi che uua cosa identica a s 6lessu. Or poi, niuna cosa priva dell identit con s stessa. All'
incontro il padre Dmowski dice che lanima sola c non gli oggetti sensibili
possono esibire la similitu- dine ( O'jecta sensiita ut alia non possunt
exhiltere simi/itudinem). Dunque la similitudine del padre Dmowski non l'identit degli oggetti, ma altra cosa; e che
cosa ella dunque? (1) AI a. 62 delta
Psicologia. (2) La maniera di esprimersi del padre Dmowiki i alquanto equivoca,
polendosi dubitare, so voglia dire clic la timililudiuu dellanima c delle sue
propriet sia contenuta nellanima slessa u eli iolellelto. Ma il senso riesca al
medesimo , giacch lo stesso intelletto
poi nellanima, 261 XVIII. Per andar alle brevi, io bo esaminala a lungo
la natura della similitudine in pi luoghi, ed a quelli rimetto il savia
lettore. Quivi trover dimostrato, che la si- militudine di nessun oggetto pu
essere conosciuta senza un idea universale, sema un'idea che sia comune a pi
oggetti (t); vi trover pure dimostrato perch le idee si dicono similitudini
delle coso (a) ; ed perch in esse si
conoscono pi cose simili, giacch cose simili non viene a dir altro, se non cose
che colla stessa idea si conosco- no. Non si pu dunque assumere la similitudine
per ispiegare le idee; ma si deb- bono prendere le idee per ispiegare la
similitudine: la similitudine n si conosce n esiste, se prima non esiston le
idee. Desidererei bene, che il rev. padre Dmowski si prendesse la briga di
meditare tutte queste dottrine, e ne caverebbe certamente egli da so
l'indeclinabile conseguenza che se lanima conoscesse se stessa per avere in se
la propria similitudine, ella avreb- be con ci stesso unidea universale,
giacche con quella stessa idea colla quale cono- scerebbe s stessa,
conoscerebbe altres tutte le anime possibili simili a s; e in tanto solo l'idea
deil anima si pu dire similitudine dell' anima, in quanto ella un mezzo da conoscere non solamente un'anima,
ma ogni anima, e pr la somiglianza delle anime. Si dee profondamente
riflettere, mi si permetta d ancor riplcrlo, che la simi- litudine di due o pi
cose in fra loro, non qualche cosa che
passi direttamente fra loro, rna un
egual rapporto che hanno con quell' unica idea per la quale vengono conosciute
(3). XIX. Ma diamo per un poco che 1' anima abbia essenzialmente, come vuole il
padre Dmowski, il concetto di s stessa. Sar egli giusta perci lillazione, ohe
que- sto concetto debba anleeerlere quemeumque alium, e perci anche l idea, la
noti- zia dell'essere ? lo prego il padre Dmowski a considerare quanto sia
sbagliata questa illazione ; perocch se fosse essenziale all' anima il concetto
di s non potrebbe egli darsi, ohe le fosse essenziale del pari qualche Altro
concetto ? Nel qual caso il concetto di s non precederebbe gli altri, ma n'
avrebbe seco di quelli che sarebbero con esso c coll anima. stessa coevi.
Ricordo adunque al padre Dmowski, che Ubi polest dori medium, ab exc/tisionc
unius oppositornm non sequitur per se veritas al- terine- Fra essere il
concetto dell anima ad essa essenziale, ed esser anteriore a tutti gli ullri
concetti, vha di mezzo il poter essere quel concetto coevo a degli altri.
Dunque 1' argomento scade anche supposto all anima essenziale il concetto di s
me- desima. XX. Che se noi vogliamo riguardare non 1 ordine di tempo, ma 1
ordine logi- co che le idee hanno in fra loro, ce ne verr tosto ima conseguenza
ancor pi strin- gente. Perocch apparir manifestissimo, che qualora l'anima
avesse come essenziale il concetto di s stessa, aver dovrebbe necessariamente
congenita anche l'idea dell'es- sere, come quella che precede, quanto all
ordine logico, il concetto dell'anima, E nel vero se 1 anima conosce s stessa
mediante il suo concetto, dunque sa di essere. So sa di essere , dunque
afferma, ossia giudica internamente di essere. Se giudica di essere , dunque sa
che cosa sia essere. Sapere che cosa sia essere, perfettamente lo stesso che avere lidea
dell'essere. Dunque, se l'anima ha il concetto di s stessa, pri- ma ancora ha l
idea dell' essere. Dunque l idea dell' essere, nell ordine logico, pre- cede il
concetto dell' anima ; sia questo concetto essenziale all'anima o no, sia inna-
to o no, riman sempre vero che il concetto che pu aver 1 anima di s 9tessa,
dipen- de dall idea dell' essere, n pu ella vedere s stessa, se non si vede
come tutte Fai- tre cose nell' idea dell' essere. (1) Auoro Soffio, Srss. Ili ,
c. IV , ri. xx. (2) ivi. Se. VI, p. HI, e. I, a. mi, 2. (3) Vedasi l'ultima nula polla all art. i,
c. Ili, Sax. Ili del A. Soffio, oc. Digitized by Google 262 Qualora adunque ai
volesse anche presupporre ima diretta intellettuale cognizio- ne del nostro Io,
in qualsiasi maniera ella si presupponesse, o essenziale all' anima o no,
innata o no, ella non ci dispenserebbe punto dal dover ricorrere all idea del-
l essere per dare una sufleiente spiegazione dell'origine dell idee, giacch
ella stes- sa dovrebbe presupporre l' idea dell essere per ispiegare s stessa.
Non vale adunque I' argomento, che il padre Drnowski cerca cavare dalla
supposizione, che sia essen- ziale all anima il proprio concetto. Vediamo se
valga meglio P altro che immediata- mente soggiunge. XXI. Ad haec, egli dice,
nonne plures non facile dabunt eam notioncm ingc- ni tam esse, quac ex
suppostiti aliis, opportuna mentis operatane, facile colligi po- trei (i) ? Certamente
; e se egli fosse vero che l idea dell ente si potesse dedurre da altre idee
precedenti, non dipendenti da essa, ninno mai 1 ammetterebbe innata. Al- I
opposto, la ragione principale colla quale io dimostrai eh ella dee essere
innata si riduce appunto a questa : che tutte I altre idee e tutti i giudizi
lei presuppongono, sicch ella quell idea
appunto, che De si pu formare da nessun giudizio, n si pu dedurre o raccogliere
da nessuna idea precedente (a) ; e la ragion non sembra, a dir vero,
grandemente difficile a raggiungersi. Perocch, se io con un giudizio affermo o
nego qualche cosa, certo affermo o nego un entit, il che non potrei fare se non
sapessi che cosa sia entit ; e del pari qualsivoglia idea mi mostra un entit,
dun- qne ella inchiude l idea di ente : l ente ideale, in una parola, il primissimo ele- mento di qualsivoglia
cognizione, al quale si pu aggiungere, ma non togliere ; pe- rocch, togliendo
dalla mente quell elemento, supponendo che ella ignori che cosa sia essere, la
sua cognizione annullata e spenta la
mente stessa. Le quali cose aven- do io dichiarate in molti luoghi
distesamente, non so comesi possa opporvi una sem- plice affermazione, e dire
che P idea dell essere ex supposilis aliis, opportuna mentis opcratiunc, facile
colligi potest. Certo io credo, che, rivolgendo il padre Drnowski questarma
contro di Kant, non potr mai abbattere, come egli spera, lerroneo si- stema
della filosofia critica ; perocch rimarr sempre a suo carico il provare, che vi
abbiano delle idee, le quali non presuppongono dinanzi a s quella dell' essere,
e che quella dell essere si pu da esse derivare e raccogliere ; il che quanto dire, rimar- r a suo carico di fare I*
impossibile. XXII. E qui ci sia permesso notare ancora la maniera assai comoda,
colla qua- le il padre Drnowski spera di trovare 1 origine delle idee. Egli
mostra di credere, che non sia punto necessario fermarsi a mostrare come
nascano le idee prime e che queste basti supporle ; ma sia necessario solo
dimostrare, come si formano le nozioni universali, per le quali egli intende
quelle dell' identit, delia permanenza, della ne- cessit, ecc. Infatti P altre
idee le d per presupposte, e le toglie a spiegare quelle sue nozioni
universali. Presuppone il concetto dellanima, ed ex praesupposita sui ego sire
siine acluaitatis dircela sane , tamen intellcctuaU cognizione jancta cu in aliis ajfectionibus noslris (3),
ripete l origine delle idee universali dall' intuito della nostra razionalit.
Dimanda altrove certe idee precedenti a questo intuito. Sujjiciunt ( retate ad
mere intclligibilia ) aliyuac idcac praecedentcs, quac non debenl esse ne-
cessario scnsibilcs, tanquam occasio onde mens aliquota conccptum
intclligibilcm ef- formet (4). Ma queste idee precedenti che non dice quali
sieno, ma dice solo non es- ser necessario che sieno idee sensibili ( quasich
vi fossero delle idee sensibili , corno volevano i sensisli, che prendevano per
idee le sensazioni), e quella cognizione del- l Io presupposta, non sono certo
dati Glosotci, n postulati che si possano ragione- S Nella nota citala at n. 60
della Psicologia. Vedi H N. Saggio , ecc. Set. V , p. 1 , c. II. (3) Nella nota
citala at n. 60 della Psicologia. (4) N. 62 della Psicologia. jgie 263 volmeote
dimandare o accordare ; perocch, quando trattasi di spiegare |* origine delie
idee egli necessario occuparsi innanzi
tutto delle idee primissime e non delle posteriori ; che tutto il nodo della
questione sta in quelle, e non in queste. Si dee dunque cercare primieramente quali
sieno le idee prime secondo lordine naturale e logico che hanno le idee fra di
loro, ed questa ricerca da me fatta che
diede pr risultamento, che l' idea primissima
quella dell essere, spiegata la quale,
sciolto il nodo della questione. Convien finalmente guardarsi dal
confondere l idea colla percezione inteHelliva, la quale ha annesso il giudizio
sulla sussistenza della cosa, mentre l idea sola non che la cosa nella sna possibilit, e per ogni
idea univer- sale, ogni idea aliena dalla sensazione, che cosa reale ; n si danno idee sen- sibili,
come il padre Dinowski suppone ; n solo godono dell* universalit le nozioni
astratte di cui egli parla, ma ogn idea, e qnindi non si pu spiegare lorigine
di nessuna idea se non si spiega l' origine dell universale, il che non si pu
fare n ri- correndo allanima che
particolare, n ricorrendo ai corpi che sono pure particola- ri. Le quali
tutte cose da me esposte lungamente se fossero state considerate dal pa- dre
Dmowski, credo io, che egli avrebbe modificato la sua maniera di posare su
questi argomenti. XXIII. Mi fa ancora questa argomentazione: c II Rosmini si
propone di partire dallosservazione interna delie modificazioni dellanima. Ma n
la coscienza riflessa, n la memoria dice punto quando sin venuta in noi lidea
dell'essere. Quandonam lalis i/uaedamidea mentem nastrarti subeat , nec
conscienlia rejlexa, nec memoria remiti- rial .
Io rispondo: verissimo; n la coscienza, n la memoria dice quando lidea
dellessere sia venuta in noi ; n ptea dirlo, perch ella ci fu sempre ; e il non
poter assegnarsi lepca del cominciare di quell' idea, prova piuttosto, che ella
sia stata con noi congenita, o almeno mirabilmente saccorda con questa
sentenza. Per altro, se io mi propongo di partire dall osservazione de fatti
interni, non vuol mica dire, che io mi fermi e limiti a questa osservazione,
quasich io mi faccia una legge di non dedur niente col ragionamento dall'
osservazione. Losservazione interna, c la coscienza mi dice, che io ho e che
tutti gli nomini hanno lidea dellessere: ecco il fatto. L os- servazione sui
giudizi e sulle idee mi conduce a conoscere che lidea dellessere prece- de
tulli i giudizi e tutte le idee : ecco un altro fatto. Da questi due fatti io
muovo il ragionamento, e dico: Dunque l idea dellessere la condizione di tutte le idee e di tutti i
giudizi ; dunque ella non pu esser formata da nessunidea precedente n da nes-
sun giudizio ; il che quanto dire, da
nessuna operazione intellettiva, riducendosi tutte le operazioni intellettive
allintuizione delle idee e alla formazione de giudizi ; molto meno pu esser
formata da qualche operazione dellanima sensitiva. Dunque ella non formata dallanima n intellettiva n sensitiva;
dunque ella un lume dato allanima da
Dio, il lume della ragione. Perch poi
oppormi, che la coscienza non depone lesistenza di quest idea nella prima et,
quandio ho sciolto gi si ampiamente e tan- te volte una obbiezion si volgare?
Mi sar egli vietato di formar nuovamente il desi- derio, che quelli che
vogliono onorarmi dentrar meco io discussione, vogliano prima leggere quello
che io ho scritto, se questo dee pur formare materia alle loro osserva- zioni (
i )? XXIV. Finalmente trova, che il sistema dell' unica idea innata iisdem
intrnse- cis et haud exignis snbjacct incommodis , rjuae nondum a r/uopiam
satis remota fu o runt (2). Ma quali sono questi incomodi? Sembra che egli
intenda per essi, quelli che annovera al numero 60 della sua Psicologia-, i
quali giover che noi qui brevemente trascorriamo. r. li sistema delle idee
innate, die egli, distingue l idea dalla percezione ; il 0) Vi'i fra gli altri
luoghi it Rinnovamento ecc. L. I , c. Iti e seg. , e c. LVT (2; Nella citata
nota al n. CO della Psicologia. Digitized by Google 2G4 ehe pare falso e
superfluo : Idquc falsum esse vidctur, cum in pluribus pcrrcptioni- bu* imago ctiam
intellectualis rei (l ) ab ac tu percipicndi vel intelligendi Jormalilcr non
secemalur ; et supcrjluum , cum perccptio licei simplex, et una, possit
spcctari sub duplici respcclu, scilicct Telate ad mentem madificatam, et est
perccptio , et Te- late ad objectum quod repracscntat, et est idea. Ma
{affermare semplicemente, come fa il padre Dmowski, che sia falso e super- fluo
il distinguere I idea dalla percezione, non prova che questa distinzione non
sia verissima e necessaria ; conciossiach delle mere asserzioni non sono
argomenti in filo- sofia ; e mere asserzioni sono il dire, clic in molle
percezioni l'immagine intellettuale non si distingue dall atto del percepire ed
intendere, e che la stessa percezione, lalto del percepire relativamente alla
mente sia percezione, relativamente all'oggetto che rap- presenta. sin idea.
Scorgasi piuttosto in tali sicure affermazioni, che il padre Dmowski non ha
afferrala bene la natura delle idee. Lidea
propriamente l'oggetto della mente consideralo in s, e perci come possibile.
La mente intuisce questo oggetto ( 2 ). Chi mai potr confondere I oggetto colf
atto della mente che lo intuisce? Il padre Dmo- wski dice che l'atto stesso
della mente rappresenta loggetto; ma se l'atto rappresenta l'oggetto, l'oggetto
non vie pi, ma vi solo latto della mente
che lo rappresenta, non loggetto. Che se collespressione c latto rappresenta
loggetto >, intende dire, che lalto sia loggetlo stesso; in tal caso vi loggetto, ma non vc pi latto, per- ch atto ed
oggetto non-possono essere la medesima cosa. Che so poi con questa espres-
sione s lalto rappresenta loggetto , egli intende significare, che lalto della
mente non ha gi loggetto, ma solamente una rappresentazione delf oggetto ; in
tal caso, oltre tutti gli altri assurdi ehe ne verrebbero, farei di pi
osservare, che altro ci non sarebbe che sostituire un oggetto ad nn altro, cio
la rappresentazione delti oggetto, sarebbe V oggetto della mente, e sarebbe
tuttavia distinto dall' atto della mente. Final- mente, quando egli dice 1 latto
della mente rappresenta l'oggetto , non distingue egli stesso manifestamente
Ira il rappresentante ed il rappresentato? Non egli forse di- verso il passivo
dall'attivo? La stessa espressione che egli adopera, lalto della mente ( rappresenta loggetto ,
non distrugge la sua affermazione in conlrario? Non sa- rebb'egli stato
desiderabile, che il padre Dmowski, invece di negare gratuitamente la
distinzione fra l 'oggetto della mente ( nella sua possibilit o idealit) e l 'atto
della mente, avesse risposto qualche parola ai tanti argomeuti da me recati per
islabilire quella distinzione? Ne ripeter qui un solo, per non essere infinito;
ma tale che pare a me irrepugnabile. Loggetto della mente il vero ; e per prendere in esempio un vero
particolare, pigliamo questo , che c due e due fanno quattro . Or tutti gli
uomini intuiscono questo vero , sieno del nostro emisfero 0 degli antipodi. L
oggetto che tutti vedono colla inente
identico ; eppure ciascuno, per veder- lo, dee far un atto particolare
della sua mente, e se noi fa, noi vede. Laonde, se f oggetto uno e identico, e gli atti mentali che l
hanno per loro termine sono tanti quante sono le menti che lo intuiscono ;
egli dunque manifesto che 1' oggetto si
distingue dagli atti delle menti, e che questi non sono la cosa stessa con
esso. Di pi : il vero, ogni vero, tolte le relazioni delle cose vere, questo
vero particolare due e due fanno quattro eterno ; perch Tu sempre vero da tutta i
eternit, che due e due fanno quattro, come furono sempre vere quelle relazioni
d'identit, di necessit, ecc. , clic il padre Dmowski chiama nozioni universali.
Prima ( 1 ) Che cosa i quest immagine intellettuale della cosa? A me pare daver
bastcvol mente dimostrato , elle l intendimento non lia immagini , ma solo
oggetti o ideali , o anche reali. f2) Dico intuisce , perch I* atto della mente
col quale ella conosce P oggetto possibile , e perci n* Ita lidea, io lo chiamo
intuizione, c distinguo P intuizione dalla percezione , in quan* loch la
percezione I* atto con cui P uomo sente
P oggetto reale , e lo conosce mediante P af- fermazione , il giudzio. Il padre
Dmosrski suppone che la percezione abbia per suo oggetto le idee , e per la
confonde colla intuizione ; ma io non rogito far questione di parole. Era per
necessario alla chiarezza! che il lettore fosse di ci avvertilo. 2G5 che gli
uomini fossero, lutti i veri erano veri, e sarebbero steli veri eziandio clic
non fossero steli creali gli uomini; perocch (ali oggetti delle menti ornane
non di- pendono dalle menli umane n da nissuna mente contingente, o dagli atti
di queste menti contingenti. Ed perci,
che se questa verit dne e due fanno
quattro > , non intuita dalle bestie
o dagli esseri inanimati, ella non cessa per qnesto dall' essere nel modo suo
proprio. Ora quell intuizione, quell' atto coi qnale la mente di ciascun uomo
vide la prima volta che due e dne fanno quattro, cominciato nel tempo, del tutto contingente ed accidentale. Se
dunque gli oggetti ideali della mente ( le idee, le verit ) sono di natura loro
eterni, e se gli alh della mente nostra sono contingenti e temporali, dunque si
dee distinguere loggetto della mente dallatto della mente, lidea dall'
intuizione (percepito, secondo la maniera di parlare del padre Dmowski ), come
si dee distinguere l'eterno e il necessario dal temporale e contingente (i).
XXV. Quanto poi maggiormente si renderebbe manifesta questa verit, se io
volessi, discutendola pi profondamente, recarla Gno a cavarne quel risultato
impor- tante e fecondo che altrove feci, il qual dimostra Y oggettivit stessa
delle cose tolte risedere nelle idee, e da esse sole le altre cose parteciparla
? sicch l'atto stesso della mente non pu rendersi oggetto alla mente, se dall'
idea non vien prima mutuando I' oggettivit ( 2 ) ? XXVI, ala passiamo al
secondo incomodo che trova il padre Dmowski nel si- stema delle idee innate ;
ed , 2. 0 Quod non sii philosophicum, rcs naturales explicando , recurrcrc ad
forma s quasdam in mente latenlcs, quac, quid sint, prorsus non inielligitur
(3). Se non che, chi beo considera, qnesto argomento non riguarda punto n poco
l origine delle idee ; n esso dimostra che debbano essere piuttosto acquisite
che in- nate; egli riguarda unicamente la questione della natura delle idee; n
prova puolo altro, se non che le idee non sono Formai quasdam in mente
latcntes, quac, quid sint, prorsus non intelligilur. E veramente, che le idee
sieno innate o che sieno ac- quisite, ci non mute la loro natura. Questa natura
si pu intendere onon intendere; elle sono ugualmente quello che sono. Che io
sappia che cosa sia Tenie perch Iddio me n ha comunicata la notizia col crearmi
, ovvero che io sappia che cosa sia T ente perch io me nho acquistate la
notizia da me stesso ; ci non rende la notizia dell'ente diversa; ella egualmente quello che ; nellun easo e
nellaltro la notizia dell'ente e nulla
pi. Clic cosa la notizia dellente? E T
idea dellente, lente stesso pre- sente
alla mente nostra. T ente intelligibile da noi conosciuto: ecco il tutto: qui
non ci sono forme latenti, come s immagina il padre Dmowski. Che T ente
intelligibile sia stato sempre presente a noi fino dall' istante in cui cominci
lesistenza nostra, ov- vero che egli ci sia reso presente in un tempo
posteriore; qnesto non mote, per dirlo di nuovo, la sua natura, n ci obbliga a
definire in nn altro modo T idea Dir il pa- dre Dmowski, che se l'idea
dellelite fu a noi date insieme coll'esisleoza, ella si rimase in noi latente
per qualche tempo. Si, rispondo; a quella guisa che rimangono pure in noi
latenti latte quelle idee e cognizioni, alle quali attualmente non riflettiamo.
Vale adunque ona tale difficolt anche per le idee acquisite; e se non difficolt per queste, non dee essere
difficolt neppure per le idee innate .Ora vorreste voi, mio rev. Padre, che luomo
avesse sempre coscienza di tutto ci che passa 0 avviene in lui? Rammentatevi,
che il sostener questo riuscirebbe non solo contrario .alla filosofia, ma ben
anco alta cristiana teologia ; la quale insegna che la grazia di Dio opera nel
bam- (1 ) Vedi il liimotamento ece. L. Ili, c. XXXIX e seg, (*) Vedi il jY.
Saggio, eco. Sez. VI, p. Ili, c. II. da
osservarvi, leggendo questo capitolo, che l
idea dell' Io involge P idea dell anima , e la percezione dell Io involge
lo per- cezione dellanima, ma non viceversa. (3) Nel citalo n. 60 della
Psicologia. Rosmini Voi. XII. 459 oogle 459 266 bino che viene battezzalo,
quantunque egli non n' nbbia coscienza. E giacch siamo venati a toccare le
relazioni che hanno le dottrine filosofiche eoi dogmi del cristiane- simo,
permettetemi, rcv. Padre, che vi chiami ancora a riflettere se le difficolt che
voi fate alle idee ionate non potessero per avveotora pregiudicare alle
dottrine ricevute dalla Chiesa intorno alla cognizione angelica; pensateci, e
voi stesso, nella vostra saviezza, giudicate. XXVII. Ma passiamo al terzo ed
ultimo incomodo, che il padre Dmowski ritro- va in ammettere le idee innate. 3.
Argumenla quibus harum idearum existenlia suadelur, dice, nil valcnt statim oc
admittatur in animo nostro vis ejformandi aliquas notione universale!, ali- ter
qunm per abslraclionem a sensibus. E non temete voi, che taluno vi faccia
osservare, che Y ammettere semplicemente nell'animo nostro una forza di
formarsi alcune nozioni universali non basta in filoso- fia; perch, oltre
ammetterla di buona volont, bisogna provare che ella esista di fat- to; bisogna
provare almeno che ella sia possibile, e che noa tragga dietro a s delle
conseguenze assurde? In fatti, lesistenza di una tal forza, come cosa di fatto,
deve esser provata sic- come si provano i fatti, cio mediante losservazione ;
ci che il padre Dmowski lascia interamente a desiderare. XXVIII. Ma pazienza!
qualora almeno la forza di formarsi alcune nozioni uni- versali, che il padre
Dmowski dona generosamente all'animo umano, non fosse assur- da, e non traesse
dopo di s delle assurde e perniciosissime conseguenze. In vero, ella cosa assurda laccordare allanimo umano il
potere, o sia la forza di formarsi le nozioni universali del vero, del giusto,
dellonesto, ecc., della identit, della necessit, ecc.; perocch le nozioni del
vero, del giusto, dellonesto, ecc. . non sono altro che il giusto, il vero e
lonesto, in quanto intuito dall'anima
(i). Ora il vero, il giusto e lonesto, sono cose eterne e necessarie, le quali
possono essere bene tatuile dall'anima, ma non formate , se non si vuol cadere
nellassurdo, che l'anima contingente formi ci che neccessario, eterno, immutabile. Lo stesso
dicasi delle re- lazioni d'identit, di necessit, ecc. Questi sono altrettanti
veri eterni, i quali possono essere intuiti; formati no, n dalluomo, n da
chicchessia. Lessere ideale di qupsti veri, che
quanto dire le loro idee, appunto perch
eterno, ha sede nella mente di- vina; e luomo sol ne partecipa, ma nonio
forma. Non fa dunque bisogno di dare una forza allanima di formare tali
oggetti; anzi non si pu attribuirgliela senza erro- re; ma conviene solo darle
Y intuizione di tali oggetti; i quali stanno cosi mirabil- mente lun dentro
laltro, che tutti infine si trovano e si riscontrano nel solo essere ideale , o
idea dellessere. Parmi che questi errori del padre Dmowski gli sieno acca- duti
per noa avere ben meditata la natura dell idea, n aver conosciuto, che ella
non altro se non loggetto stesso che
lanima intuisce, il qual oggetto intuito
nella sua possibilit, e non nella sua realit, comunicandosi questa ed operando
nel sentimento, e non nel puro intelletto. XXIX. Le conseguenze poi del sistema
che d allanima umana una forza di_/r- marsi delle nozioni universali, sono
perniciosissime, come dicevo; perocch, se tali nozioni ed idee fossero
formazioni d un essere contingente, sarebbero contingenti an- chesse, non
sarebbero pi verit, ma solo apparirebbero tali allanima per una ilio. (i)
Quanto sapientemente Don osserva sant Agostino , che di tali cose , e
universalmente di tutte lo verit, di cui si compongono le varie discipline, noi
non abbiamo gi nella inente le rappresentazioni ; masi proprio le cose stesse,
nec eorum imagines , sed aas ipsas gero ! Que- sto i pur quello, a cui oon
pongcn monte i moderni filosofi , onda poi si van persuadendo di potere
spiegare ogni cosa per via d immagini e di rappresentatiooi. Chi vuol sentire come sant Agostino osservi
in s quel vero, che io qui aocetino, legga fra gli altri luoghi il L. X, Delle
sue Confessioni , c. X , c segg. Digitized by 267 siooe invincibile e
trascendente. Egli chiaro che ogni
agente opera secondo le pro- prie leggi e Torme; e per l'anima sarebbe quella
che darebbe le sue leggi e le sue forme alle nozioni, alle idee, alle verit,
oggetto del suo intelletto; come voleva Kant. Quando dunque l'uomo ragiona, non
avrebbe altro punto d'appoggio che s medesi- mo ; le conclusioni de suoi
ragionamenti non varrebbero pi di quel che vale egli stes- so; comincerebbe e
finirebbe la loro verit cogli arri della sua mente; in una parola, non si
potrebbe pi difendersi dallo scetticismo, Funestissimo e capitalissimo errore
di questo secolo, il quale si dee svellere dalle menti della giovent, e non
seminarvelo ; n lo scetticismo si svelle, se non con buone ragioni ; giacch le
ragioni che non fan- no fona, appagano la giovent per un poco, vinta allautorit
ed al rispetto del pro- prio maestro : ma poi si dissipano da se stesse, o sono
dissipate dalla riflessione pi matura; restandosi cos la giovent nostra siccome
una piazza aperta e disarmata fra tanti nemici che laccerchiano e lassaliscono.
XXX. Le quali riflessioni tutte noi vogliamo sottomettere alla saviezza de'
letto- ri, che sapranno sicuramente apprezzarle. E fortunali saremmo se
venissero accolte con benevolenza dal reverendo padre Dmowski principalmente ,
intendendo egli da quali giuste e necessarie ragioni noi fummo indotti a
scriverle da lui provocati ! For- tunatissimi poi se fossero da lui approvate!
giacch, desiderando noi entrambi il bene della giovent e il progresso della
verit e della piet, cos ci troveremmo uniti nei mezzi di procacciare tali cose,
come ci troviamo uniti nel fine. Per me non ricuser di dargli maggiori
dichiarazioni di quanto bo fin qui osservato, se egli lo bramer, e di esporre
anco delle osservazioni pi estese sulle sue Istituzioni di filosofia, colla
stessa libert rispettosa con cui bo scritto le presenti, se, coltivando egli la
presente discus- sione, rendesse utile o necessario da parte mia un nuovo
lavoro. FINE DEL VOL. XII. DELLE OPERE E IV. DELLA FILOSOFIA DELLA MORALE. Gl 50 Digitized by Google
Digitized by Google ZHDZSS BlILTO131 , X, 2 . . . . > 6 Lcit. XV . . 1 151
Rom. Il, 12 . . . 1 70 , XIV, 23 . . 1 153 I>eut. XXXII . 96 . ,
13 . . . . , 1341. Cor. II, 14 . . . > 15 Job. VII . . . 125 -, 14 . . . . ,237 , IH, 3. . . . 1 139 1 XIV-. . . 150 -,
15 . . . . , 240 , VII, 37 . . . . 1 148 1 XXV . . 150
111 . . . . . . , 70 , XV, 21, 22 . .
88 Pi. XXX. . . 155 -, 9 24 . . .
, 157 , , 58 . . * > 158 j L. . . .
pag. 151, 166 , -, 23, 24 . . , 88 Gal. Il,
21 . . . . 89 . CXL.III 2 . 156 . V. ... . . , 88 , III, 22 , . . . I 63
Pro*. XX, 24 . , , 143 , 9, 10 . . . , 88 , V, 17 . . . * 92 Kccle. IX, 1 . , 109 , 12 . . , . , 24 1 ... . . > 125 Sap. Vili. 15 . , , 1 82 -, 13, 14 . . . , 69 Epbei. Il, 1-9 . . . )
166 XM, 10 , Il . 60 ,16 . . pag. 88 , 91 -, 3 . . . 1 67 Eccli.
XXXVII, 20 . 110 Rom. V, VI, VII . .
.214 , , IO . . . . 169 Isai. XXIV, 16 , , 151 1 VI, 2-12 . pag.
138,139 , IV, 22-24 . . . I 170 LX1V, 6
. ,
65 , 4 . . . . , 142 Philip. Il,
13 . . 1 166 Eiccli. XXXVI, 25, 26. 166 -,
4 6 . . . . , 168 Colon. Il, 11 . . .
142 Mallb. VII, 20 . 134 VII, 1-4
. . , 163 I. Tim. I, 9 . . 1(4
XII, 30 . 77 , -, 5, 8, 9 . . . ,111
Hebr. li, 16 . . . . 100 XIII, 25 6 -,
8 . . . . , 139 , XI . . . . pag. 64, 65
XIV, 31 7 , , 8 , 11, 13 17. , 111 Joc. I, 14 . . 126 1 XVIII, 15 1, . -, 15, 16 . . ,125 II, 10 . .. 175 Lue. X . . . 79 , , 17 pag. 138, 139, 161 II. Pctr. I, 10
. 158 Jo. I, 13 . . 113 , -, 18, 22, 25 . , 169
-, 21 . . 166 , 29 . . , 88 ,-,20
. . . . , 93 I. Jo. I. 8 . . 156 II, 25
. . 108
-, 23 . . . . , 239 , , 10 . .
156 III, 3, 6 . pag 134, 142, 152 , -, 25 . . . . , 169 , II, 16 . pag . 59, 84
92 vi, 44 : . 1 165 , Vili . . . . . ,
126 , IH, 9 . . 142 , 84 . . a 142 > , 5 . . . , 125 Apoc. XX, 15 . 91 Digitized by Coogle
Digitized by Google TEOLOGI una qidqq &o mwmm MOSSE CONTRO IL TRATTATO
DELLA COSCIENZA I. Lorenzo Gastaldi, canonico, teologo collegiata dell'
universit di Torino. Articolo inserito
nel Propagatore Religioso di Torino, anno VI, voi. XI, face. 353 e segg. Lettera in risposta alle avvertenze delsignor
C. B. P. Milano i 843, tipografia Boniardi-Pogliani. In difesa della Dottrina di Antonio Rosmini -
Serbati . Torino i843, tipografia Pagani e Cotnp. IL Amico Cattolico, Giornale
che si pubblica in Milano da nna societ di Teolo- gi lombardi. Articolo nel voi. 1, f, 450 e segg. Altro articolo nel voi. Il, f. 3 1 8 e segg.
III. Paolo Bertolozzi, canonico della metropolitana di Lncca. Lettera sulla Risposta al finto Eusebio
Cristiano del chiarissimo signor D. Antonio Rosmi- ni-Serbati proposito
generale dell istituto della Carit. Lucca l84i, tipografia di Giuseppe
Giusti Peccalo originale e Moralit, commentario. Lucca 1842 , dalla reale tipografia Baroni.
IV. Giovanni Fasto zzi, dottore in sacra teologia. Due articoli del professore Federico Del
Rosso, estratti dal Giornale Toscano di scienze morali, storiche e filosofiche
con due lettere del sacerdote Giovanni Fantozzi sol Trattato della Coscienza
Morale del signor abate Antonio Rosmini. V. Giovanni Battista Pagani,
missionario apostolico. Doclrina peccati
origi- na lis destructiva in fido Eusebio contenta. Mediolani, ex typographia
Ro- niardi-Pog/iani, uncccxuu . VI. J. P. Beaud, teologo dell' universit di
Torino. Quelques mots sur une lettre du
R. P. Rozaven, concernant la doctrine de M. f abb Rosmini. An- necy, i843. Digitized by
Google Digitized by Google r- 3 ; l N Q i Q E UECI 1 !U Tom CITATI IN QUESTO
VOIIHE Agostino or! oli o6;t>s7%77 TX, a sii xi' xr., xixxS'j, i. 92 . 93 . 94 . a:; , g^ipn; 104. 1
OS, 106, IffTTKISntF, 113, 1 14, 117, 118, 1 19, an nrr, 123, 124, 123; 125,
127, 128, 129, 130, 131, 132, 1337 TRT 135, 137, 139, U0,141, U> 143. 144, 1457 144, 147 , 152 , 1537 154, T5S, 1597 100,
161 , 164, reircf., 107, 173, 1X2. i83,nr 205,206,215 225, 247, 258, zar A fi
redo (X), L25 Alasi, us: Ambrosio (S.), 77, 1 64. Amico Cattolico, 1 82 .
Anselmo (S.), 107, 125, 127,216. Aristotele, 2557 Avito (S,), 125. Rsio, 18.
22, 30, 31,33,37. 41, 75, KL 0,1, 90, 93, 96,122, 146. 152. 154. 155. 156, 157,
|Pel agio . 53, 64, 67, 69, 78, gl , 159; 160. 165, 168, 170. 17l,| 85, 86,
161, 166, 167, 121 175. 199, 200, 201, 202, 204, Petavio , gl 205, 206, 207,
212, 213, 220, Pier Grisologo (S.), 1 27 . Pietro da Bergamo, 214. Pighio, 38,
39, 45, 102, Platone, 239, 2517 Poli, 52. Propagatore Religioso, 185, 199, 194.
Prospero dAc. (S.), 94.105, 125, " SA l- 1 1 123, 171, 212. Raronio
(Card.), 454. Basilio, 109, 126, Ileda,44. Bellarmino (Card.), 88,39, 43.85,
98, 99, 100 101, 102,1037105; TTS.T3T7157r B, Belli S9, Bernardo fS.),
125,128,169,176 Berti, X9, Bertolozzi, K 189. Bolgeni, 577 125. _C C. B. P 194,
206, 203. Calvino, SI, 73, Calecli. Eccl. Polon. 81_, (Catechismo Romano, 74,
125,202, 207, 210 Canarino, 38, 39, 102. Celestino P. [SA 100. Cicerone, 239,
245,246, Cipriano (S,), 212. Clemente Vili (P.), 181. Clero (Nicol Lo), 51,
Concilio Besil. , 202. Concilio Cartaginese, 125. Concilio dOraogc, 40, 105, 165.
Concilio Fiorentino, 75, 76, 198 Concilio Milevileno, 143. Concilio Trid.,
22,23 24, 26, 2L 59, 69, 64, 65, 7a 74:75781. 83; 84, 87790, 927957 9571 12
TTG, 1177118, 1207121. 122. 136, J3Srr427143; 144, 144; ftosiun Voi. Xir 224.
231 Coodillac, 255. D Damasceno (S. Giovanni), 99, Dante, 10. Didimo
Alessandrino, 124. Ilig 1 16 . Dmovrski (p.), 237- 267. E Eplsc. esules in
Sard.. 125. Esame critico, 193,233. Enio, 85, 125, 138, 139, 142. Eugenio IV
(!.), 198. Eusebio Cristiano, 186, 202, 206, 222,232. F Fcndlon, 2. Filippo
Neri (S.), 154.' Fulgenzio (3.1. 73. 105, 125. G Gaetano (Card.), 33, 45, 06 ,
98 104 . 125 , 227, Gelasio P. (S.), 125. Gerdil (CardX84, 178, 237. Cianscno,
2a, 28, 31. Giovanni Cri. (SA 1 25, 163, 164, 167, 162. Giovanni Vili (P.), 23. Gioviniano, 27,
Girolamo (S.). 99, 125, 120,127. , 143 Giuliano di Eclana, 56, 58, 77, 82, 129,
135. Gregorio M. (SJ, 73, 125, 126, Gregorio Nisseno, 127. Guadagoioi, 125. Q
llypognosl. 125. Innocenzo UI (P.), GL 63, 82,140, 1 .: j fi; 1 #0 \ 10 17 ' Isidoro lliipal. (S.), 12j. K Kant, 255,
262, 2fiZ. L Lcibnizio, 255. Leone (S.), 125. Leone XII (P.), 181. migliori (S.
Alfonso), 213. latrano Nicol, Locke, 2.) 5, 258, 259. Lombardo Pietro, SO.
Lutero, 155. M Monna!* (Do la), 182. Molino*, 177. P Paflaziciflo (Card.), 114,
141, Prudenzio (S.), V Quei nello, 27, 171,186. R Reid, 255. Riccali (p.), 182.
Rituale Romano, 62, Rosmini. IO. 13, 14, liL 1S , 2lj 2^28,30,31,19, 56,63,71,
UT, III, 112, 1T3. 1167117. 129, 130, 134, 146, I47.T5T, 158, 159, fCT, 162; 74,
05, 176 ,179, isrrntg; iqg, 2qs, 219; 230, 232, 238, 241,254, 256. 257;
25872617 2527 263, 265. S Sinodo Pistoiese, 75, 76, 173. Siricio (SA 73. Solo,
44, 98, 104. Stewart, 255. Suarez, 206, 21A 221, 240. T Tertulliano, 33, 7L
Tommaso S.), 1 5, 16, 17, 18, 22, ^ 25 , 25729 , 31733734 , 55, 4L, 42, 46, 47,
TADO.K], 52, 54, 55, 567 607 637 6L 6>C 72, 78, 79,110, 92,~95, 96, 677 99,
101, 10S7T06, 108, 111, 112, fili; ITA 115,123, 126, 1277 1317 132, 134, 136,
137, 139, 140, 141, 143, 145, 146, 147, 14.8, 149, 152,453, 155, 161, 162, 173.
|7j, 175, 176, 18S7 1947 197, 200, 2o47 2057 206, 207, 2os; 209; 2107 211. 212,
214,215, 2167 217, 219, 220, 2237 22$; 225, 2267 227, 228, 2297235,^317 232,
239, 2447 Tournely, 22, u Urbano IV (P.), GL V Viva Domenico, 186. Z Zositno
(P.), 78. 460 Digilized by Google Digitized by Googl Risposta dellabate Rosmini
al addetto Canonico . > RISPOSTA AL FINTO EUSEBIO CRISTIANO. I. Occasioni:
dell'opera . : I Qursrions Paia. Dell'uso fallo dagli ecclesiastici scrittori,
e specialmente da s. Torte- maso, delle parole peccato e colpa i II. La roce
peccalo si adopera spesso dagli rcriltori per indicare nna colpa ; ma talora
anco per indicare un peccalo semplice > III. Si prora la distimione fra la
nazione di peccato e quella di colpa colf autorit di sant' Agostino I IV. La
dcGnizionc del peccato in genere dee esser (alo che abbracci anche il pec- cata
originale: la colpa non il genere
dc'peccati, ma una apecio . . > V. Si debbono distinguere negli scrittori i
luoghi dot essi parlano di colpa, che
una specie di peccalo, da luoghi do essi parlano di peccalo in genere, e
non coafunder quelli con questi 1 VI. Si prova la distinzione della nozione di
peccalo semplice da quella di colpa ool- 1 oulorit di s. Tommaso I VII.
Continuazione . * i I
Vili. La proposizione XLVI di Bajo parla della spedo dello Colpe, e a torto ti
pre- tende ch'ella parli di peccati semplici a Qikstiohb Seconda. Se si possa
dare neW uomo uno sialo di peccato non imputabile a colpa di lui stesso a IX.
Si prora collesempio del peccalo originale in cui l'uomo nasoe, che i vero
peccalo, ma non imputabile se Don riferito al capo dell umana stirpe, ebe li-
beramente il commise. * X. Il peccato un
difetto reale inerente al soggetto; la colpa
una relazione col libero autore del peccato, a cui simputa ......... a
XI. Che il peccalo originale non sia colpa in se stesso, ma solo in relazione
col pri- ma padre che liberamente 11 commise, si prora coir nulorit di S.
Tommaso s XII. Secondo la dollrina del Cristianesimo, ri hanno due formo di
moralit, Puua non libera, e laltra Ubera > XIII. Dall ammettere una forma di
moralit non libera, non viene punto la conse- guenza, che luomo non possa
perdere la grazia santificante, e che non siano necessarie all uomo le buone
opere. . a XIV. Dall' ammettere che la grazia di natura sua opera per necessit,
non viene che il libero arbitrio dell* uomo non le possa resistere .......
face. XV. Talora fa grazia precede luso del libero arbtrio ed in tal coso opera
la sanliti- cuziunc delluomo, senza clic il libero arbitrio delluomo vi si
possa opporre. > XVI. Talora luomo non si pu opporre oli aziono santificante
di De perla potenza con cui opera in esso, il cho accade ne celesti Comprensori
> XVII. Distinzione fra la giustizia naturale c la soprannaturale. Fra la giustizia e la sua iuiputazouu : cos
pure fra T ingiustizia c l'imputazione di essa . s I 5 9 13 ivi Ivi 14 15 ir 17
18 21 ivi 22 23 23 2l> 82 30 31 32 Digitized by Google 27C XVIII. XIX. XX.
Questione XXI. XXII. XXIII. XXIV. XXV. XXVI. XX VII. xxvm. XXIX. XXX. XXXI.
XXXII. XXXIII. XXXIV. XXXV. XXXVI. XXXVII. XXXVIII. XXXIX. s L imputazione colpa suppone ianauii ili s un disordine
morale ; o per il ne- gare* ne bambini il disordino morale consistcote in una
stortura di loro vo- lont o avversione a Dio,
un negare insieme la colpa originale. . face. Nota (I). Il pretendere
che la semplice mancanza della grazia santiiicanle possa essere imputala a
peccato, via che conduce al llajnnUmo .
. > Ne' dannati vi il peccato, bench
non possano pi demeritare o peccare in mo- do che li renda colpevoli. >
Continuazione Tazza. Se eia cero di che pretende Eusebio, che la natura e la
volont uma- na dai peccato originale non eia rimana infetta n guaita, ma solo
privata de' don! soprannaturali . s Gli avversari alterano intorno a ci la
nostra dottrina, e pretendono che tutti i cattolici seguano quella ch'essi
professano. I Nota (3). Il pretendere , come fanno gli avversari , che la
grazia sentili- canto sia necessaria a costituire T integrit delta natura, via che con- duce ai Uajanismo t Il diro che
il peccato originale de' bambini non sia altro che il peccato origi- nale ad
essi imputato , lenza riconoscere in essi un difetto morale che possa esser
oggetto d imputazione, dottrina
dichiarata eretica dal Uellartuino. s La mera nudili do' doni soprannaturali
noa pu esser oggetto nel bambino d'im- putazione . 1 Caniiauazione . . .1 il pretendere, cha la nudit de doni
soprannaturali, chesi trova nc'bambini, sia oggetto d imputazione, non
solo un assurdo, ma distrugge il dogma
del pec- cata originale s Continuazione > Quelli che pretendono che il
peccato originale ne bambini si riduca alla sola nudili de dooi soprannaturali
, non osano dire che sia un vero peccato ; ma (ogliono diro che quella nudit
stimai costi peccavo , colla qual frase dimo- strano di sentir essi stessi, che
il loro sistema racchiude U distruzione di un tal dogma > 11 pretendere che
la mera privazione de* dooi gratuiti ne* bambini sia peccalo, un (are Dio stesso autore del peccato s Il
decreto che fece Dia di dare a tutta l'umana stirpe in Adamo da dooi so-
prannaturali, non pu litro ebe la mera privazione di tali doni che in s non e
peccato, diventi peccalo s Chi dice, che la nudit de* doni soprannaturali nel
bambino, bench in s ste- so non sia peccato, Minasi come peccato, e questo i
tutto il suo peccalo ori- ginale ; dee dire altres, che la remissione del
peccalo che si fa nel santo bat- tesimo non
rimessione in s stessa, ma Minasi per remissione, e quindi ebo i bambini
non vana upricnuTCn in semissiokem psccarunctt . . .
Domenico Solo noa mette l essenza del peccalo originale nella mera nudit
dei doni soprannaturali , che considera sub corno un elfnllo del peccato , ma
la metto Viene allo slesso la sentenza
del Cardinal Gaetano, ripooendo egli il peccato de bambini hi un abito
corrotto, o in un positivo languore della loro natura morale ; > S. Tommaso
del pari non pano lessenza del peccato originate in una pura pri- vazione de
doni gratuiti , ma io una positiva infcziono , che torce dai retto ordine la
volont, e sconcerta l'armonia fra essa e lo potenze inferiori contro a quanto
esige la morale natura dell'uomo s Continuazione * > La privazione dell'
originale giustizia in cui ripone s. Tommaso l originai pec- cato de bambini
non la mera privazione de* doni
soprannaturali, ma di pi le privazione dilla AZrvtTCoiNE osLLA VOLONT la
quale peccatrice non porcini nuda , ma perche torta Si conferma, che il peccato d' origino
ncbambini eensisle nello stortura di lo- ro volont, coll autorit d un reccnto
teologo t Secondo s. Tommaso linfezione originale de' bambini in qaant
peccato un abito; e in quant colpa noa
un abito, ma una relazione . . . . > Il mal abito ossia la mele
disposizione in cui ripone . Tommaso l'essenza dcl- I originale infezione, considerata
non come colpa, ma come peccalo, non
solamente opposta alla giustizia soprannaturale, ma alla naturale
altres. > Che la ragione regga l' inferiore appetite, all uomo naturale, secuudu s. Tuiu- 33 ivi
ivi 34 37 ivi ivi SU ivi 40 41 ivi ivi l 43 ivi 43 4S 4J 50 51 ivi sa Digitized
by Googlj: XL. XLI. XLU. X 1.111. XL1V. XLV. XLVI. xi.vil. XI.VIII. XUX. L. LL
Ul. I.lll. L1V. LV. LV1. LVII. I.VI1I. LIX. LX. 877 mata, cd un guaito contro natura ohe la ragione il
trovi impotente a go- vernarlo . , 7 face. Il dira elle la concupiscenza , tale
quel al prroonle nell uom decaduto, po-
trebbe rinvenirsi in un uomo crealo do Dio, elio non avene peccato, A un giu-
liticarla e un lodarla come opera di Dio llcso Il pretendere ebe tutte le
membra delluomo non panino mai ad operare sen- za il consenso libero della
ragione, un negare ci ebe insegna P
Apostolo, e aonl Agostioo sulla lotta Ira la carne e lo spirito, e il bisogno
della grafia per vincerla > Tendeniq al aAziomuiiio ed al pilaq iswismo de*
tempi moderni. Pelagio negava, che la
concupiscente, qual 1 al presente, avene
alcun vizio in s con- tro la natura ragionevole dell uomo, e solca ebe si
trovasse nell uomo quale fu creato da Dio. Sant Agostino contro di lui
dimostrava cita cosi non fu, ai Fo- ra v a ss s sa , , . = . . . . . . . . , i
, , , . i Se il peccalo originalo
consistine nella mera nuditi de doni soprannaturali, la trasfusione di esso si
spiegherebbe lenza bisogno di ricorrere alla libidine abituale , giacche i
naturale elle I 1 uomo privo de* detti doni comunichi generai do la natura
umana sema que' doni ebo non ha. Ma tutta la tradizione insegna, che H peccato
originalo trapassa di padre in tiglio, per la /l bidme abituai, non perch l uomo sia privo de' doni gratuiti.
Dunque nella mera prisqiiono di questi nop pu consister il detto peccalo.
*,> Pelagio accordava elio la natura Tosse priva dell'ordine soprannaturale,
ma negava clic avesse un viiio morale in s stessa, e per questo fu condannalo.
... I Se la natura umana non avesse vizio, ma solo privazione de doni gratuiti,
non sarebbe da Dio lasciala in balia del demonio. Questo vizio morale come no mal fisico. Questo mal fisico domanda
un medico, Como la schiavit del demonio domanda un Redentore. Negare il mal fisico e la schiavit conso- .
guente, un detrarre alla Redenzione di
Gzs Cristo. , , , . .. t E un errore il
dire, elle gli antichi giusti piacessero a Dio colle loro virt, aso- la la
grasia medicinale del Salvatore ; come puro
un rendere Dio crudele il dire, chegli permeile al demonio doccupare II
bambino non regeoerato, sen- za ebe vabbia nella natura di quello alcun vizio
> I predetti errori non possono evitare la condanna della Cltieza , bench zi
co - prono d 1 artificiose parole I
sostenitori de detti errori sono costretti a fendersi avvocati non pur della
con - cupisccnsa, ma ancor del diavolo fc di fede, elio il solo peccato
originalo trae seco la dannazione, la perdizione, la morte eterna; bench varie
sieno le maniere di spiegare la dannazione dei bambini morti tenia battesimo,
fra le quali nulla ha deciso finora la Chicsas Gli empi, che negarono il dogma
del peccalo originale, pretesero sempre di dl- moslrarlo assurda col
ragionamento della corta loro intelligenza. . . . i Continuatone s La Chiesa
defin, che fra il regno di Dio o la dannazione eterna non zi d uno flato medio
privo di colpa e di pena, corno favoleggiano i Potagioni , senza per riprovare
lo diverso opinioni dei teologi cattolici ( che assegnano pi o men di pena ai
bambini morti senza battesimo ContiauaziuDC
t La mora nudili della grazia santificaato nun una macchia-, a il peccato ori- ginale una vera macchia La mera nudit della grazia
santificante non una Cerila della natura
, e il peccalo originale una ferita, e
Irne seco molle ferite della stessa natura > II peccalo originala diminuisca
Vinci inazione della tleua natura umano alla virt i Iddio potrebbe creare un
uomo collo tendenza a collo limitazioni della natura; ma non potrebbe crearlo ,
secondo sant Agostino , col vizio morale di cui
presentemente infetta per origine la Datura > So non vi fosse altro
mancamento nella natura umana che quello della grasia, non si potrebbe spiegare
corno * uomo che ha ricevuto la grazia generasse dei figliuoli in peccato. Se l'uomo avesse la natura perfetta, e sol
priva di grasia. Cristo lo trasporte- rebbe ex buno ad meliut. Ma II dir
questo, secondo sant Agostino, e l'ere- sia di Pelagio , consistendo la verit
cattolica in confessare che Cristo colla redenzione na trasportalo luomo ex
malo ad bonum Temerit di coloro, che
pronunciano opporsi alla giustizia e alla bont infinita di Dio il mandar luouio
alla dannazione scuz' AxitisL, suo demerito . , i Sii 55 ili 52 59 61 51 fili
52 69 7.! 2A 75 76 78 ' 79 ivi 80 Sii 84 85 Digitized by Google 378 LXI. Colora
che negano la natura rinata, esaltano troppo le forre del libero arbitrio. e
detraggono alla grazia del Saltatore face. Sii LTI1. ss Lxm. Quelli che negano
il vizio originale della natura umana, abusano della prono- tiziooe LV fra le
condannate di Baio : Deus non potuistet ab initio talem LXIV. creare bomtnem
qualis nunc nasciiur. Come vada intesa tale condanna. sa La parola conrv ntscenza ha due sensi: nel
1 ." cosa naturale; nel 2. con- tro
natura.- Nel primo uomo V appetito inferiore soggiaceva pienamente alla volont
superiore in virt della grazia. Ma da ci non viene che io un uomo creato da Dio
senza la grazia dovesse trovarsi il vizio della concupiscenza. Dire il
contrario mettersi sulta via del
Satanismo as LXV. 11 Cardinal Bellarmino non dice che Iddio potrebbe creare un
nomo qual nasce pre- scDtpmente, se non coll'aggiunta escluso da lui ci che
costituisce il peccato > fiS Rota (a). Se nell'uomo, qual al presente, non ci rosse vizio morale, ma
loto imputazione esterna della colpa adamitica, l T e Hello della grazia del
battesimo non sarebbo che Ut remissione della colpa ; all incontro jdl fede che il battesimo produce nell'uomo
anche iVlicUo di sanare coH'infi^ sioo della grazia il vizio morale quanto alla
parie superiore della Datare y LXVI.
vero che il Bellarmino inscena la rettitudine d Adamo esser dipooduta
dalla grafia ; ma ci non toglie che ri potcss* essere in un altro uomo creato
da Dio una rettitudine naturale senta la grazia 100 LXYI1. Lo stesso Bellarmino
nega che il peccato originale consista nella mera pfiva- zio ne della grazia,
ina il ripone nella perversione e stortura della volont che ini mette
impedimento alla grazia > LXVIII. Continuazione u LUX. Il peccato del bambino non pu
consistere che in un guasto della sua volont. > 104 L* fcstio insegna la
stessa dottrina, aggiungendo che si dee ricorrere anche alla 105 volont di
Adorno per potergli attribuire la qualit di colpa . . . t LXXt. La sola volont la potenza morale, che posso perci esser
subbictto di pecca- to 1 1 non averne
noi coscienza un* obbiezione pelagiana
coniatala da sant'A* lflfi LXXII. Continuazione 1 Ufi l.XXItl. Continuazione WS QorsTwa* Quarta. Delle consequenze del
peccato (f origine Ili LXXIV. LXXV.
LXXVI. Due cose sono a considerarsi nel vizio originale: Io sua essenza, o gli
effetti perniciosi che porta all* anima I Il vizio originale produce efTelti cd
atti viziosi, che provano la sua esistenza nell* uomo, come i mali frutti ci
provuno il mal albero i La concupiscenza non si prende pel solo disordine della
parte inferiore, ma ao- ivi ivi clic della parte supcriore dell 1 uomo >
112. LXXVI! LU LXXVIII. Continuazione.
La concupiscenza chiamata anche vizio della volont . . Ili LXXIX. Perch s. Paolo dia il nome di
peccato al fumilo della concupiscenza, ebo ri- 115 mane dopo il battesimo LXXX. Continuazione 1 Ufi LXXXI.
Continuazione .... * > 117 LXXXII. Continuazione m Lxxxtu. Il fomite della concupiscenza,
bench non sia peccato dopo il battesimo, pure
113 LXXXIV. un difetto morale, ampio fonte de' peccati veniali fclla non pregiudica a olii vi si oppone, ma
s a chi le cede. Accresce il me- rito di
chi la vince col coni battimento, ma impedisco all' uomo lo stato di coni- 120
pinta morale perfezione > 1.XXXV. Il Trideotino non alieno dal riporre il peccato originalo io
quel vizio della 121 LXXXVl. concupisnenza che trovasi nell' uomo innanzi al
battesimo Come si possa dire, che il
vizio della concupiscenza che si trova nell' uomo in- 123 nanzi al baliosi mo,
sia il peccato originale > LXXXVII. In che senso la concupiscenza vada
figliando de peccati necessari . , . s 121 I.WXV1II. Doppia servit dell uomo :
l una Veniente dal peccato originale , 1 altra dalTa 128 LXXXIX. xc. Si
continua a parlare della servit della prava consuetudine, che aggrava quel- la
del vizio originale 9 Chi ricusa di venir sanalo da Cristo del vizio originale,
aggrava la sua condanna ivi LSI Rota (4) Altro
la questiono se il solo peccato originale meriti dannazione, 132 XCI. ed
altro se Ciisio vi obbia rimediato a vantaggio di tutti 1 tiugolt uomini v
Continuazione 133 Digiti 279 Ounviow
Qpmri. In qual maniera si spieghi il celebre dello di sant' Agostino, eh* col
hnttemimO P1CCATPM OaiOmz TBAUZlV UTC, T MIMI ACTO . . fCC. 13S Riconoscere il ilio della
concupiscenza, non un lasciar 1' uomo
solto la ne- cessili del peccalo , come dicea I eretico Giuliano vescoro d
Eclaoa, quando si aggiunge, elio Cristo A quello ce il libera da tale necessit
... i ivi Quattro opinioni sull'essenza del peccalo originale professale da
teologi cattoli- ci, le quali si possono conciliare insieme. In elio senso il peccato origina- rle si
possa riporre nella privazione della grazia santificante . , . . > In che
senso si possa riporro nella perdila dell' originale giustizia . . . XCII. xeni. xctv. VI 136 xcv. Io che senso
consista in una stortura dotta volont, che, come insegna a. ToST roaso,
impedisce a Dio il comunicare all uomo la sua grazia . . 1 157 XCVI. In che senso consista nella
concupiscenza IVI XCVII. Come riporlo nella concupiscenza al modo detto, torni
a un medesimo che ripor- 13 lo nell avversione a Dio . . , i xcvin. il peccalo originale non consiste
nel fomite, ma in un vizio anteriore, di coi non abbiamo coscienza. Differenze fra il vizio della concupiscenza
che ba ra 140 gion di peccato, e il fomite, ebe sol rimane dopo il ballcsimo .
. . i XCIX. Si seguitano ad esporre tali differenze . . i - ; . . . \ T 142 C.
Continuazione . > ivi ll 145 ai. Il vizio originalo proprio d ognuno che nasce, e guasta la persona
. 9 ivi cml Che cosa eia la persona I4b civ: II battesimo sana la persona,
dalla quale dipende la salute di tutta la natura umanas 147 cv. Quando il
difetto od il pregio d un uomo sia personale o morale . . 9 ivi CVh Coll infusione della grazia del
battesimo viene congiunta a Dio la volont su- prema e la persona dell' uomo,
nella quale perci tolto interamente il
pec- cato Luomo 6 salvo prima dell'uso del libero arbitrio, ma quando i egli
149 n acquista V uso, pu peccare e perder di nuovo la grazia . . 9 cvu. Colla rigenerazione del boltesimo
sorge no uomo nuovo, mutandosi la base del- rvm la persona 151 152 CIX. Difesa
di questa- dottrina dalle frivole od assurde accuso che le vennero date. ex Essa non escludo la necessit delle buone
opere 153 CXI. Continuazione 157 CXII. Ella poae la remissione e 1*
annullamento del peccato, e non ebe questo riman- ga solamente coperto ; 158
CXIII. Continuazione 159 CXIV. Continuazione 162 cxv; ISell uomo ballettalo vi
hanno due volont, supcriore 1 una e r altra inferiore: CXVI sana quella, e
ancora inlerma questa 165 Continuazione . Jf>8 CXV1I. CXVI. Lesposta
dottrina niente detrae al libero arbitrio, e alle opere dell uomo natu-
ralmente buone Sbagli enormi presi dagli
avversari . - . , > 170 175 Conclusione 178 AvverUmenlo sulla ristampa
lucchese del libercolo di Eusebio Cristiano .... 184 Moline d' un arlioolo del
Provocatore Heligioso 183 LE MOZIONI DI PECCATO E DI COLPA Dedicatoria 189
Occasione di scrivere questa' operetta 194 * I ra il peccato e la colpa v' ha
una distinzione c non una disgiunzione reale. 1 155 1T7 HI. IV. V* VI. VII. Nel
comun modo di parlare si usa la parola peccalo per colpa, bench la no- zione di
quella differisca dalla nozione di questa ivi L uso proprio delle due parole
peccalo c colpa diligentemente conservato non rende confuso ed equivoco il
parlar della Chiesa 197 La quale non usa la parola peccato per colpa, se non
quando il contesto chiari- sce sufficientemente il discorso 198 La distinzione
della parola peccato da colpa si prora coll' uso accuratissimo che ne fa il
Tridentino 199 Anche il Catechismo Romano distingue il concetto di peccato da
quello di col- pa, c conserva la propriet de vocaboli dove bisogna v 202 S.
Tommaso distingue le stesse nozioni, o usa spesso i due vocaboli con tutta
propriet. Si conferma la distinzione,
accennando l etimo logia delle paro- Digitized by Google 280 le. Quelli ch la negano, mirano a distruggere il
peccalo il' origina. Er - rore contro U
fede di quelli che dicono, il peccalo originale non e ezer p cc- Hlo, M noe
MteuMdum fuU, e anadamieiuu . I . . I ; ; ; Geo. 203 Vili, Quelli che
confondono le nosioni di peccato e di colpa, mettono in coolraddizio^ ne il
Concilio di Trento e il lochiamo Romano > 206 IX. E argomentano, che nel Mio
Adamo vi peccalo, perch in Ini Mia
vi colpa; la quale, noe essendoci ne'
poster, neppur vi peccalo. ... .1 207 X.
Attribuendo ingiustamente tal dottrina allAngelico . > 208 XT Coatia usatone
. , i i . , . . . . . . . . . i . . > 209 XII. Seguitasi a difendere a. Tommaso,
dimostrando corno da per tutto egli suppone la distinsione del peccato dalla
colpa 210 XIII. E vero che s. Tommaso toglie la ragion di colpa alla macchia
originale dei bambini, e anche la ragione di peccato attuale, ma non quella di
peccato abituale >211 XIV. Si pu considerare il viiio originale dei bambini,
astraendo dalla prevaricazio- ne dAdamo, ma non distruggendo la relazione
ch'egli ha con essa . . > 213 XV. II peccato di ciascun bambino numericamente distinto da quello d Adamo, o
sussiste da s; bench non riceva la unione di colpa che dalla relazione con
quello. Pot esser rimessa la colpa di
Adamo, c noo rimesso il peccato di molti posteri; come viceversa polca non
essere rimessa la colpa d' Adamo, e tuttavia esser rimesM il peccato da posteri
: sicch il peccato di questi ha una entit separate dalla colpa di quello. Le penalit che tengono dietro al pec- cato
de' panieri, hanno questo per esusa prossima, e la colpa d* Adamo per causa
rimota. Altri argomenti che provano
potersi eoosidcrare il peccato de* bambini nell entit sua, astraendo dalla
relazione con Adamo, onde gli viene la nozione di colpa i ivi XVI.
Continuazione Il peccalo proprio di
ciascuno, la colpa comune di lutti. Il peccato appartiene all* ordine della
realit, la colpa un essere di ra- gione
.>218 XVII. Solo distinguendosi il peccalo dalla colpa si pu spiegare
acconciamente Como passi il peccato per generazione, anche dopo rimessa al
primo padre la col - pa in quanto era sua peraooale. La distinzione fra peccato e colpa di con - cetti, non di parole. Le eresie di lelogio e di Gianseaio nacquero
dalla- ver distrutto tale disUnzioon . ... . i 221 XVIII. Secondo s. TommaM vi
sono tre specie di peccati, che egli chiama naturar irrlit noris. Ma il peccatimi moni riceve poi le due
noiioni di peccato tempiiee e di colpa ; il che si oonferma coll autorit del
tiaelaao , , 223 XIX. Il peccalo morali, u) quaor peccato
semplice, secondo 5, Tommaso, non esige l'uso dembero arbitrio . . > 228 XX.
Il peccato, secondo . TommaM, un difetto
della volont, e U colpa consiste nel - l' onere la volont libera causa di esso
............ 229 XXI. FalMmente imputa a
i. TommaM non dottrina, cho distruggo il peccalo ori- g note i ... t 230 XXII.
Continuazione ....... 231 XX H 1 . Co gli n unzi O ne i 23 2~ SULLA DEFINIZ
IONE DELI, A L E G GE MORALE. * >237
SULLA TEORIA DELLESSERE IDEALE.
> 232 Indice dei luo g hi della Mera Scrittura citati in gu i s a
Tolumc . , > 2j>9 Teologi
che~banno risposto alio difficolt mosse contro il Tratt alo della Ciuciarla . .
. >271 Indice degli Autori citati in quatto volante . , > 273 ERRATA
P*fi- 18 lin. 1 incolpabile 37 > 1 Avendo 37 >39 ma ci 39 > 20 XXII.
121 > ult. Coicienza f. 58 o 72 128 > 44 a certe 33 CORRIGE. enlpabile
XXI. Avendo e ci XXIII. Cotrnia f. 38 e 47 a cute V5 efcM Digitized by Google. iRFRtAirtrANUCCI Digitized by Google Digitized by
Coogle EDITE E INEDITE DELU ABATE 3lttt0nia Eoj^mini-Serbati VOLUME V. MILANO
TIPOOKAFIA E LIBRERIA BONi A HD I -IOC 1. 1 A N I C.nnirada dc* Nobili^ N* 3903
4i!WTV Digitized by Google IDEOLOGIA E LOGICA VOLUME IV. Digitized by Google
Digitized by Coogle uib miiBBDTiiiitiaso IN ITALIA PHOPOSTO DAL C. T. MAMIANI
DELLA ROVERE ED ES AM I NATO D A AINTONIO ROSMINI-SERBATI PRETB ROVEIIETAHO
SECONDA EDJZIONE MILANO TIPOGRAFIA E LIBRERiA BONIARbI POGl.IANJ Contrada dt
Nobili, A. 399-> M DGCC.RL. Digitized by Google La prima cdizione fu falta
coi nosin' llpi Iaono iSSy. Digitized by Google L"* E D I T O R E AT. LETTORE Esawita la prima edizione di quest' opera ,
per soddisfare alle dinumde del PiJsblico , ponuuno mono alia seeonda col
permcsso deW Atitore. Avendolo in lal circostama interpeliato se gli pia- cesse
di agffungervi alcun che. in proposito alle Leltere(') p^- piicate non ha guari
dal sig. C, Mamioni , ci ritpose non essere do neeessario; perche nulla di luiovo in esse si contiene e
perche tutte le diffxcolth, ch' ivi si espongono sono state gid da me discusse c
dissipate nelP opera stessa . (*) (*) Sei lellere del Mamiani alf abate Rosmini
inlorno at libro iiililolaln: II RinnovatncDio tic. Parigi , Librtrin Eurofica
tit Baudry, i838. Digitized by Google THN ITAAIKHN *IA0S0 e di qualunque arle
si ascoadono in certe noiioni
inlellettuali , di cui fa bisogno in- ti dagare la natura n roaiomt . C. MJMUin
, P. I, c. XVI, I.* afor. CAPITOLO I. G comiocerA osservando , come il C.
Mamiaai distingua la qiiestione delP on^ie delle idee, da quella della certezia
delle nostre cognizioni, e segreghi interamente Puna dallaltra. Che queste
sieno question! fra loro diverse, niuno, io eredo, il vorrii contraddire^ ma
non penso, ehe molti si acconceranno con lui, in riputare la questione della
certezza al tutto indi- pendente da quella deU'origine, di maniera ehe si possa
avere nna dimostrazione fermissima delle cognizioni senza bisogno di penetrare
i principj onde a noi derivarono : conciossiache fin a qui opinarono il
contrario i maggiori filosofi (i). > A questi risultamenti final! siam
pervenuti, egli dice, ren- (i) Ecco come il Hamiani parla di quests opinione
comune de fdosoG di tutti i secoli, i quali hanno sempre considerate come
questiooi somma- ineote afBni quelle deUorigine e della certezza delle
cognizioni, e percio lianno risguardato anebe quella prims come capilale in
iilosofia, e strada alia soluzione della seconds ; Errano perlanto i filosoH, i quali savvisano
i per un loro giudizio assoluto ed anticipato, non poler rilevare la forma It
certs ed essenziale dell'iiitelletto, quaudo la generazione prima delle
sue idee c delle sue facolta rimanga
congetturale . (P. I, c. XVI, 7. afor.). a Digitized by Coogle 8 tt dendo noi
la questione della realita (i) dello scibile iodi> u pendente alTatto
dairaltra dellorigine delle idee (3). E
u allrove: i fenomeni proprii dellaUo conoscitivo, comechi u rimanessero oscuri
ed inesplicabili, non impedirebbero tut- u tavia di cercare con buon successo
la prova fondamenlale u di tutto lo scibile
(3). E pero il nostro autore chiama la questione intorno allorigine
delle idee a tenebrosa ed arca- na n (4), quando allincontro considera quella
intorno alia certez7.a del sapere umano si come atta ad essere pienamente
risoluta, e a risolverla mira una gran parte del suo libro. Dice ancora di piu
sulle diflicolta, che involge la questione circa I'origine delle idee: egli
avvisa, che, a malgrado che i filosoll di tutti i tempi abbiano trattala la
questione deH'ori- gine, tuttavia ninno Pabbia potuta risolvere, e che
perci6 la X scienza del pensiero quale 6
posseduta oggidi dai filosoG non u giunge a scuoprire la generazione prima
dell'atto di cono- u scere r (5). Di che egli reca questa ragionr, che quella X serie di operaziuni mental! che si
va immaginando per dar u nascimento alia conoscenza, sembra di gik contenere
alcuna X porzione dellatto conoscitivo
(6). (1) Pcrcli^ X delU realilii delln scibile x, e non piii loslo x
della verity dullo scibile x? Quella maniera di dire nnn i esalla. La mia
cognitioiic, quaotunque falsa, reale.
Non si cerca dalla filosofia se lo scibile sia reale ID si stesso, cbi di
questo uiuno dubila , ni meno gli scettici, ina se sia varo relativameDle alle
cose, doe alio a farcele coDuscere. Questa osserva- zioQC i di grave momeoto,
piu cbella non paja, e necessaria di farsi ad ogni pagina, per poco, del libro
del Mainiaiii. (3) P. II, c. XX, 111. (3) P. II, c. IV, V. X Vedesi pure da do
una conferma nuova del grande vantaggio die X si raccoglie a sceverare la
questione della realitli dello scibile da quella X tenebrosa e arcana delle sue
sorgenti primitive; percbe quando pure di X alcune uoiversali idee resti
occulta roriglne, non per tal fatto dee rima- X nere occulta di furza la loro
reality, e il modo di bene avverarla (P,
If, c. X, VII ). (5) P. II, c. IV, V. Anche plii sotto, doe nel c. XI, iv ,
alTerina il iiiedcslmo, cio^, cbe x fiuo al di d'oggi lo sguardo acuto del
tilosofi uon sa X riiitracciare con sicurezza gli atti primltivi, nd le forme
primitive X delle nostre coguizioni x. (G) Ivi. Digitized by Coogle CAPITOLO
II. 9 MaraTigliomi intanto qui, che il signor Mamiani usi di qne- sta ragione
cost in generale. Perocchi ella vale assai coutro i varj sistemi immaginati
da'sensisli, ma che vigore ha ella con* tro altri sistemi? che vigore ha contro
quello da me proposto? I sensisti soli, non ponendo nello spirito umano nessnna
natural luce, di necessitii danno nascimento alia conoscenza tntta mediante ana
serie di mentali operazioni. Ora qual i la obbjezione che io ho fatta loro? Non
ho io mostrato che in quelle loro mentali operazioni appnnto, ondessi vogliono
dare origine al nostro conoscere, s'acchiude necessariamente Iatto conoscitivo?
non ho io mostrato, che la prima operazione compita della mente i un giudizio;
che questo suppone sempre unidea precedente, e perci6 che con degli atti
mentali, senza pin, i impossibile spiegar P origine delle idee? Ondio dedu*
cevo, che innanzi al primo atto della mente nostra, cioi al primo giudizio, dee
stare nna idea non acqnisita^ ella dee stare in noi si come un fatto primo, nn
dono di natura, un elemento costitutivo della nostra intelligenza (i). II G.
Mamiani adunque non poteva alTermare cosl general* mente, come egli fa, che la
generazione dell atto conoscitivo non si conosce per la ragione che porzion di
quell atto sem* bra gi4 contenuta nella serie di operazioni, ondesso si vuol
derivare^ ma dovea, pare a me, limitarsi a dire, che i sensisti, e tuttl quelli
che non ammettono nello spirito qualche cosa di precedente agli atti
transeunti, non hanno modo di splegare la generazione delle idee: che all
incontro tanto paurosa difE* colt^ niente incomoda la dottrina di coloro, i
quali ammet* tono nellanima intellettiva un intuizione immanente e conna*
turale dell essere. Ni dopo di ci6 , egli era obbligato ad abbracciare il
nostro sistema: potea riEutarlo per altre ragioni, eziandiochi avesse
riconosciuto schiettamente, che nel sistema nostro sulla genesi delle idee non
cade quella petizione di principio, che egli rinfaccia troppo largamente a
tutti i sistemi in generale. (i> V. JViioiv) Sagi^io ecc. Scz. II. Rusmimi,
Il Ritmovamento. a Digitized by Google o CAPITOLO III. Ma trattando delle
difficoUa, in cat ci avvolge la questione deU'origine delle idee, egli precede
piu innanzi. Non gli basta aver detlo, che fin ora ella non fa potata risolvere
(afTerma- zioae cbe vale quanto la ragione di cni 6 corredata, la quale non
avendo forza cbe contro i sensisti, da motivo di tradurre queirafTermazione in
queet'altra: nou fu potuta risolvere da' sensisti)^ diebiara di piu, la
qaestione delPorigine esser di natura sua congbiettarale, e per(\ non potersi
mai condurre al positivo ed al certo del suo scloglimento. Ed ella ^ sempre una
grave asserzlone quell a, cbe fa nn uomo a tutti gli altri, quando dice loro:
Sappiate, cbe nelle vostre ricercbe voi vi dovete fermar qui, e cbe I'ingegno
di tutti voi non pu6 passar questa linea cbe io tiro, \isque hue yenies (i).
Goofesso, che il dir questo in alcune cose i pos- sibile: lua cbi lo dice,
reputo io dovere aver in mano una ferma e invincibile dimostrazione colla quale
provi assurdo a pensar pure il contrario di quello cbe dice. E cresce il
bisogno di questa circospezione allora, cbe il parere comune dei dotti, (i) 11
C. Mamiaoi diebiara francamente impossibili a risolversi delle altre questioot.
Al c. XIV della P. 11 afferroa insolubile la questione t in che *t guisa la
unit& e la muUlplicitii, la identity e la diflerenza possono insieme **
coogiuDgersi h. de* lavori de* Blosofl
sopra questa materia dice riso* lutamente cosi: h Tutti i sistemi apparsi Hno
al dl d*oggi col propostto 94 temerario di spiegare in alcuna maoiera siccome V
assoluta unitli si stione intorno
allorigine delsapere: questione che caratterizza e determina, chi a fondo
medita in sul nesso delle dottrine, tutte le Glosofie. Io qui spenderei troppe
parole, ove volessi anche sol breve- mente delineare i sistemi principal! de
illosoll di nostra nazio- ne, e mostrare si come Ianima che tulti gl informa, e
li fa essero quello che sono, i la sentenza da lor seguita intorno allorigine delle
cognizioni ; e come il variare di opinione in- tomo a questo punto, produce il
variare dellintero sistema^ il che avvenir dee per lo natural collegamento
delle dottrine , quando anco il iilosofo non si fosse egli medesimo accorto,
che la tempera e il carattere di sua filosoGa gli nasca da que- sto.
Nulladimeno io non voglio trapassarmi al tutto sopra di ci6: roa toccher6 un
motto di quattro di que filosoG nostri che il Mamiani toglie a' suoi duci , e
saranno s. Tommaso , il Patrizio, il Bruno e il Campanella , i quali io li
prendo cosi come vengono, senza scelta; il medesimo che di questi, potrei fare
agevolmente degli altri citati dal nostro autore, aventi ciascuno una opinione
sullorigine delle cognizioni, la qual dirige o apertamente o copertamcnte tutto
quantd il loro filosofare. Chi dira che s. Tommaso abbia stimato non potersi
aver notizia certa della formazionc delle ideef chi dira chegli Digitized by
Coogle i5 non insegni 'come quelle nascono in no! , o pnre ci6 faccia per via
di conghiettura anzich^ di scienza? II confessalo stesso Mamiani dicendo si stimi avere s. Tommaso parlato u troppo in
conciso della formazione dei general! e lasciar
Inogo a interpretazioni diverse: imperocch^ qnasi tutla la u seconda decisione
della prima parte della sua Somma (i) A u occupata da quella materia, senza
dire ch'egli vi toma so- u pra le mille volte nel corso delP opera. Laonde
totto quello u cbe ne sentiva fu scritto e spiegato da lui nettamente e con u
difTuso discorso (a). II che ^ an dire
assai piu che noi non vogliamo. Perciocch^ a noi sembra, che di qualche inter*
pretazione abbisogni 1' Angelico. E il Mamiani medesimo non 6 coerente a quella
sna franca affermazione. Volendo dire che s. Tommaso i da me dissen- ziente,
alquanto dubitosamente egli si esprime cost: noi ne- u ghiamo che le opinion!
di s. Tommaso militino apertamente in
favore del nostro filo^ofo n (3): parole, dalle quali po> trebbe inferirsi,
che la dottrina di s. Tommaso, se non aper- tamente milita a favor mio , pure
pu6 a mio favore essere in qualche modo interpretata. Egli stesso il confessa
aperto di poi: u al primo aspetto parecchi luoghi di s. Tommaso sem- brano in verita consuonare piit che molto con
lui (4). Non istaranno adunque que
luoghi contro di me se non in- terpretandoli , e per6 d interpretazione essi
sono bisognevoli. Dice anche questo lo stesso Mamiani : u fa bisogno notare il
u collegamento di quelle idee con le altre afGni , e interpre- u tare s.
Tommaso con li suoi test! medesimi (5).
E piu snlto, a sottrarre Iappoggio de test! di $. Tommaso alia mia filosofia,
dice tuttavia: debbono adunque i test!
che pajono u concordare con tal dottrina essere intesi non sempre alia (i) La I
Parle della Somma di s. Tommaso non ha prima e seconda de- cisione; qui dee
esserci corso qualche errore. (a) P. II, c. XI, VI. Il C. Mamiani parla del
sisteraa di s. Tommaso in* torno r origine delle idee in piii luoghi ,
lodandolo a cielo, e fra gli allri , P. II, c. XX, IV, dove egli pare che ne
IAquinale ne il sun lodatore il C. Mamiani rilencssero puiilo per iinpossihile
la soluzione della questione suir origine, anzi per hella e risolnta. (3) P.
II, c. XI, VI. (4) Ivi. ^5) Ivi. Digitized by Coogle i6 lettera, ma secondo lo
spirito loro e a norma delle mas* u sirae direttnei di tutto il sistema
filosoGco al quale appar* tengono (i). Restadunque, che il dottore d Aquino
abbia parlato chiaro della formazione delle idee, sebbene d inter* pretazione
abbisogni, e di conciliazione seco medesimo^ e che non si possa dirlo a me
contrario manifestamente, ma solo mediante 1' interpretazione che ne fa il C.
Mamiani, la qnale non TOgliamo a questo luogo esaminare se possa passar per
bnona, potendo essere che ci venga 1 acconcio di farlo in qual* che altro luogo
(a). Qui vogliam fermo solo questo , che il grande Aquinate non tiput6
insolubile e di pura conghiettura I'origine delie umane cognizioui. Il G.
Mamiani pretende che s. Tommaso niente ammetta d'innato nella mcnte umana, e
tutto faccia venire da sensi , o inimediatamente , o per induzione. lo sarei
tentato di di* mandargli, se s. Tommaso insegni essere acquisita, per senso 0
per induzione, anche quella luce colla quale opera Iintel* letto agente : ma
nol vo fare , ch6 qui non b il sno luogo. Sia pure, che tutto tragga 1 Aquinate
da sensi. Gome dunqne pu6 scrivere tosto dopo il Mamiani , che u lasci^ s.
Tommaso le origini loro (deprimi
principj) in quella incertezza in u cui giacciono tuttavia (3)? Se egli derived da sensi anco 1 primi
principj , come Iasci6 nell'incertezza 1 origine di questi 7 Se poi s. Tommaso
credette bens\ aver trovate c accennate le fonti dell umana cognizione , ma in
ci6 credere err6 , perchi veramente non ispiego nulla, e lasci6 le cose nella
prima in- certezza ^ in tal caso, come pu Nella scuola peripatetica , dice
commentando que versi , si Glosofa
altrimenti circa 1 origine dclle prime nostre notizie ; e cita a provarlo il c.
IV del L. Ill di Aristotele De Anima. lo bo dichiarata la mia opinione altrove,
sul luogo dell' Alighieri (iV. Saggio ecc., Sez. V, c. XXV, art. II). Ivl ho
detto, la dottrina aristotelica essere stata intesa in var j modi , perchi
oscura e non precisa ; ed uno di questi modi esser quello di Dante. Ma quale i
questo? Non si pub desumerlo se non da tutto iotero il brano, e non dalle pocbe
parole recise cbe reca innanzi il M. S'oda dunque e si consideri bene, a vedere
se IAlighieri sulTragbi all as* serzione del nostro autore: N Ogni forma
sustaozial, che setta da materia, ed b con lei unita, M SpeciRca virtudc ha io
sb colletta; La qual sanza operar non b
sentila, Nb si diraostra mai che per
elfetto, Come per verde fronda in pianta
vita: Perb, lit ondc venga lo 'ntelletto
' t Delle prime notizie, uomo non sape,
E de* primi appctibili 1 affetto,
Che sono In voi, si come studio in ape 1 Di far lo mele : e quests prima
voglia Merlo di lode, o di biasmo non
cape a. (Purg. xviu.) Rosmihi, Il JUnnovamento. 3 Digitized by Google iS Ma non
solo IAquinate moslrasi sempre persoaso di asse- gnare alle cognizioni umane
ana certa origine; ma ben anco parte da questa origine come da fcrmo principio,
e vien de- Qui due cose manifestameute dice il filosofo poeta. La prima, cbe la
virlii propria deirauimat come di ogai altra forma sustaoziale cho ha
sussistenxa propria c scitn, cio^ separata da materia (sebbco trovisi auco
unita a roa* teria), i occulta ed incognita fioo a tanto cbe non opera e non si
diroo> Sira fuori oesuoi alti ed efletli. Cosl, a ragioo desempio, non si
saprebbe inai dire se la piaula avesse in sd quella virtu cbe cbiamasi vita^
quando non si vedesse il viver suo al di fuori nelle frondi verdi e rigogliose.
Me* desimamente Tanima ba in colletta , o sia accolta unn virtu, cbe le da
uotizia de* primi principj; ma questa virtii ionata non apparisce, e non si sa
ci6 cbella sia in noi, se non allora che noi facciamo uso di essa, me* diantc gli
atti di nostra mente. La seconda cosa ^ consegueole alia prima. Egli si
contioua ragionando cosh qnando adunque la meule nostra fa gU atti suoi
d*intendere, di giudicare ecc., ella trova gia d*aver belli e prouli alia mano
i primi principj; onde le sono venuli questi? L*uomo non lo aa, dice: non pud
sapere il quando, e come gli sono veouti.
perch^? percbe non sono a lui venuti code cbe sia, non sono in lui
acquisiti; ciod li ha sempre avuti con s^; sebbcne occulti si siessero, prima
cb*essi ap* parissero ne' loro effetli: la quale occulta esistcnza de* primi
principj in noi non dee recarci maraviglia, perocch^ ogni forsa e virtCi nello
inierioro delle cose si asconde, fino a tanto che operaodo non ci si dii a conoscere
negli alti suoi. Non si puo dunque atlegare nelPuomo una origine fattizia de
primi principj: questo i il seuso delle parole
onde vegna lo n* telletto delle prime ootitie, uoroo non sape m. Ma che
perci6? Se Dante dice irreperibite la foriiiatione delle prime ooltzie
nelluomo, nega per questo assolutamente, cbe non si possa assegnare ad esse
qualsiasi origine? Certo no; in una parola, rinlelletto delle prime notizie
Dante lo pone innato, e per6, dopo aver detto che non si dee cercare la
spiegazione di esse nelle operazioni della mente, come quelle cbe suppongono
quelle no* tizie prime e le adoperano quasi istrumenli, aOerma senza
dubitaztone al* cuna, che quello intelletto delle notizie prime i oell'uomo^
come d nellape lo studio di far lo roiele, cioi come sono gristiuti, i quali
sono innati, ed elcmeoti costitutivi della natura aniroale. Cost quell
intelletto i congenito a noi, e posto in noi da natura. Dante adunque esclude
Topinione di quclli cbe voglioQo spiegare i primi principj pel mezzo de sensi e
deirinduzione, affermando che quest! non sanno Irovar mai nulla; ma poscia egli
assegoa in altro raodo 1 origine di tali notizie, facendole divenire da natura.
Or di quello che ^ dalo da natura, non cade cercar 1 origine; non avendone
altra che quella della natura medesima: Iautore della natura, i anche di tutto
cid che i nella natura, e pero delle notizie prime. Ciascuno vede quanto il
pensiero di Dante si loutani da quello del C. Mamiani, e come il passo di Dante
nou sia dal Mamiaoi Iroppo bene a suo vanUggio recato. Digitized by Google 9 dacenima
parte di sna dottrina. Dalla ma* niera onde s'originano le cognizioni umane, s.
Tommaso de- termina qaale sia I'operare proprio del nostro intendimento, e da
questo modo dell'operar nostro razionale cgli deGuisce spe> ciGcamente la
nostra natura. DeGnita e speciGcata la natura nmana , egli trae quinci nna
serie immensa di conseguenzc) colle quali costruisce tutto IcdiGcio della
teoria dell'uonio. Or chi non sa, cbe la scienza dell uomo i per poco tutta la
Glo soGa? Se adunque la GlosoGa di s. Tommaso si fonda qnasi per intero nella
solnzione del problema dellorigine dell idee, il dichiarar questa incerta, i un
fare alia GlosoGa del grande italiano di cui parliaino, qnello stesso serrigio
che si farebbe ad nna grandissima mole levandole di sotto la pietra angolare
che la sostiene e connctte. Di pin: dopo avere determinate nel modo detto la
natnra nmana, san Tommaso trae quindi la speciGca diGerenza fra Iuomo e
Iangelo; e sapre la via ad nna deGnizione della na torn angelica, sulla quale
deGnizione costruisce nna mirabile teoria degli angeli ; ed ella gli i poi
scorta nobilissima , nel- Iordine de suoi concetti, alia sublime dottrina
intorno alles- sere divino. Tutta adunque rovina la teologia, considerata nella
sua parte razionale, dietro alia rovina del trattato del- Inomo, il qual
gi-avita e posa snl gran pnnto dellorigine delle umane cognizioni. E qui basti
aver detto questo poco dell Angelico. Altrove poi riserbomi a dimostrare, come
al suo acutissimo ingegno non sia sfnggito Iintimo nesso che stringe insieme le
due question! dellorigine e della dimostrazione dello scibile^ trovando egli il
fermo della certezza non altrove che nellori* gine stessa delle cognizioni
intellettive. CAPITOLO VI. Circa Francesco Patrizio sari pii breve.
ImperciocchA a di- mostrare segli faceva caso si o no della queslione
dcllorigine delle cognizioni, e segli credesse inutile lo scioglimento di
quella alia GlosoGa, bastami dire questa parola , ch egli era platonico. Or chi
non sa, che il platonismo non i che una Digitized by Google ap teoria
suHorigine del eapere? chi non sa che daiiorigine della idee i platonici
dediusero e la certezza delle cogaizioni nostre, e tuttoci6 che insegnano non
pure nella filosofia teoretica,ben anco nella pratica? Uopera principale poi
del Patrizio tratta della luce, e sulla teoria della luce egli costruisce la
sua filo- soGa. Favella non meno della luce materiale, come quella per la quale
veggono gli occhi del corpo, che della intelligibile , onde sono illuminati gli
occhi dell anima. Secondo questo Glo- sofo italiano, il primo oggetto delle
nmane ricerche dee es- sere la luce, come quella che i il mezzo universale del
cono> scere. Di questa poi si dee cercare innanzi tralto 1 origine, da cui
dedume il prezzo ed il valore. Tale ricerca reca lui a questa sentenza,
che ogni luce viene dalla sorgente di
ogoi luce, Iddio . Trovata in tal modo 1
origine delle cogni- zioni tutte, le giustiGca, le deduce^ e dopo averle dedotte,
ri(& il viaggio in direzione opposta, e ritorna dalle conseguenze al
priocipio , ciod alia prima luce, a Dio. Ecco la dottrina di questo antico
italiano: ciascuno la paragon! a quella che il C. M. intende rinnovellare (i).
CAPITOLO VII. Il terzo italiano che abbiam nominato , i Giordano Bruno. Chi
Iavrik letto, e meditate le tante cose qua e col4 sparte nelle sue opere,
trovera sempre alia Gue, che il punto onde partono le speculazioni tutte di si
strano intelletto, non 6 al- tro che la sentenza sua intorno allorigine delle
idee. La chiave de pensieri suoi si trova nel libro intitolato De/ie ombre dcUe
idee. Egli stesso par che cousideri questo lavoro come la cosa capitale di sua
GlosoGa (a). Il Bruno non am* (i) Lopera del Patrizio mostra nella stessa
intitolazione il suo inlendi* mcnto, giaccbi il suo libro ha queslo
froutlspizio. Nova de universis phi- losophia, in qua ArisioleUca methodo non
per motum sed per lucent et tu~ mina ad primam causam ascendilur. Ferraria
iSgi. (s) Nella dcdiciitoria ad Enrico III re di Francia scrive cosl: Quis
igno- rat, sacratissima Majeslat , principalia dona principalihus ,
principaliora majoribus, el maximis principalissima deberi f Nullus ergo
ambigat cur opus istud inter maxima
numerandum in le respexerit. Digitized
by Google ai mette vere idee se non nell'esaere divino. L'univcrao i Pef- fetto
e I'espresaione imperfetta delle divine idee. Dali univerao poi not caviamo le
cognizioni nostre, le quali non sono idee, ma pure ombre d idee. II fondo di
queato penaiero i degli scolaatici, da quali veramente il nolano filoaofo
traaae la mag- gior parte di aue coae, lavorandole poi, e vestendole a auo ge-
nio, e deducendone certe ardite conaegnenze (i). Sulla mede- aima dottrina
circa Iorigine delle idee, egli toma aovente in altri anoi acrilti, come a
ragion deaempio in quello cbe ha lo atrano titolo di Cabala del Cavallo
Pegaseo, dove eapone la aea- tenza medeaima, ma in altre parole: u A la verity,
dice, nulla u coaa h pill proaaima e cognata che la scienza, la quale si u deve
distinguere, comi distinta in si, in due maniere: cioi a in auperiore et inferiore.
La prima i sopra la creata verita, u et i Iisteasa veritii increata, et i causa
del tutto^ atteso che per eaaa le cose
vere son vere , e tutto quel ch i , i vera- u mente quel tanto chi. La seconda
i veriti inferiore, la quale a ni fa le cose vere, ni i le cose vere, ma pende,
i prodotta, a forxnata et informata dalle cose vere, et apprende quelle a non
in veriti, ma in specie e similitudine^ perchi nella a mente nostra, dovi la
scienza delloro, non si trova Ioro a in veriti, ma solamente in specie e similitudine
>. Di che conchiude: a Sicchi i una sorte di veriti, la quale i causa a
delle cose e si trova sopra tutte le cose: unaltra sorte che a si trova nelle
cose et i delle cose: et unaltra terza et uU (i) Anche s. Tommaso disliague Ire
veriU, una neUinlellcUo divino, una nelle cose, e una neirintellello umano; ma
convien rISettere che aan Tommaso avverle assai spesso, che quando si dice che
vha una verilh nelle cose, o sia che le cose son vere, non si dee mica
intendere la pro- posizione alio slesso modo come quando si dice che v'ha una
verilh ne* griolellelli, ma in tuu'altro. AU'opposlo il Bruno ommise quesla
avver* lenza; e suppose, che nelle cose fosse una verity, a quellislesso modo
come ella d neirinlellelto: quindi riniclletto dalo da lui alluniverso. Jte$
ergo naturalis, dice s. Tommaso, iiUer duos inUlleclas conslitula secundum
adtequalionem ad utrumque vera dtcUun secundum enim adaquationem ad intellectum
divinum dtctlur vera, in quantum implet hoc ad quod est ordinata per
inlelleclum divinumi secundum autem adaquationem ad intel- leclum humanum
dicitur res vera in quantum nato est de se formare ve- ram astimationem. De
veril. I, ii. Digitized by Google tima,
la quale ^ dopo le cose e dalle cose
(i). La prima di queste verita forma la scienza divina, le idee: la
seconda forma Iespressione imperfetta di quelle idee, le cose dell' uni- verso:
la terza forma la cognizione umana, le ombre delleidee. II Bruno seguitandosi a
quest! principj pone pure tre intel* letli, cioi il divino, quello dell universe,
e 1 intelletto uniano: il secondo, secondo lui, riceve dal primo, il terzo dal
se- condo (i). Or avendo cosl fissata la teoria dellorigine delle idee, in-
nalza sopra di essa la mole della sua Glosoda. La prima parte di tale filosofia
pu6 dirsi la dottrina intorno al metodo; e il libro dell ombre delle idee
mostra fino nel frontispizio Iinten- zione dellautore, la quale non fu
solamente quella di dare nnarte mnemonica, ma si un trattato del metodo
inquisitivo , inventive, giudicativo, ordinativo, applicativo de principj, e
memorativo, chi in queste sei parti egli distingue il me- lodo (3). La seconda
parte della nolana filosofia i ontologica e co* smologica, e, non meno della
prima, ella si alliene alia pre- cedente teoria dellorigiiie delle umane cognizioni,
e discendo da quella come un facile corollario. Avendo il Bruno fermata la
relazione dell intelletto divino colluniversale, e dell univer- sale
coglintelletti particolari, e avendo medesimamente trovato il nesso fra le tre
veriU che illustrano questi intelletli, cioi la verity divina, quella delle
cose, e quella propria degl intelletti nostri, egli trasse da ci6 la
conseguenza della congiunzione e armonia di tutte le cose in fra loro, e
procedendo innanzi su questa via, pervenne allassoluta unitii, dedusse 1
infinite del * (i) Dialogo I. (z) La seolenza scoUslica di cui Giordano anche
qui abusa, i quella cbe s. Tommaso cosl espone: f'erum intelltctus nostri est
secundum quod con- formatur suo principio, scilicet rebus a quibus cognitionem
accipit : verilus etiam rerum est secundum quod conformantur suo principio >
scilicet intel- leclui divino. S. I , XVI, v, ad z. nifcno, e la cognizione deglintelletti
particolari, ondededusse il sistema dellassoluta unitii, riprodotto a tempi
nostri in Ger- mania (i), gli diedero ancora iidacia di ridurre Iideale e il
reale, Iente di ragione e il sussistente, in ana sola e medesima categoria, e
quindi di trovare ana scienza superiore a tutte le altre^ la qual trattasse dell'essere
in tntta la sua universalita, ricondotto cos'i all'anitik semplidssima (a): e
qaesta scienza egli voile dar fondamruto alia topica ideata da Raimondo Lnllo
col titolo di Arte ma^na, al cui perfezionamento il Brano no- stro tanto
assiduamente intese. Anche nella Glosofia danque di qaesto italiano la
qaestione dell'origine delle idee non si vede o esclasa o riputata impos-
sibile; ma ella sola forma il cardine vero, in cui si volge tatta quanta la
nolana dottrina. E potrei entrare particolarmente a mostrare quanto nella mente
del Bruno stieno connesse inti- mamente lu due questioni dellorigine e della
dimostrazione dello scibile^ ma io vo' anche qui astenermene, primo, pcrchd da
ci& che bo detto appare assai cbiaro, secondo, perchS mi verra forse
altrove in taglio il ragionarne. CAPITOLO Vill. Mi rimane Gnalmente quarto il
Campanella. Veggiamo se alnieno la iilosofia di queslo pensatore calabrese
convenga nel- Iopinione del C. Mamiani. Nel sistema del Campanella, non meno
che negli altri sopra (i) Da Schelliog. (3) Nel libro De compendiosa archilecUira,
et complemenlo curtis LuUii , Parisiis i583, dice: Conveniens nimirUm est atque
possibile , ut eum in modum quo metaphysica universum ens , quod in substantiam
dividitur el accidens, sibi pro/>onil objeclam, qucedam unica genei
tdiorq'ie ( ars ) ens rationis cunt ente reali, quo tandem muHiludo,
cojuscumque Sit generis, ad simpUcem reduei posse unitatem , complectalur. 4
accennati, i1 filosofare prende cominciamento dall'esanie delie facolt^ onde
Iuomo conosce, il cbe k quanto dire, dalla que- stione dell'origine delle idee.
La sentenza del Gampanella in- torno a
questa questione h il principio, onde dipende tutta la qualiti di sna filosofia
^ avverandosi anche qui ciA che in tntta la storia delle Hlosoflche
investigazioni egualmente si manife- sta, che dal modo di risolvere quella
questione ricerono colore e forma e vita per cost dire i sistemi. II Gampanella
deriva dal senso ogni cognizione. Ecco il panto di partenza. Qnale il cammino
chegli percorre? La prima e immediata conseguenza si h quella che risguarda la
certezza dello scibile. Secondo costui, i ne' sensi che si dee cercare la
certezza, appunto perchi ne' sensi e pe sensi sori- gina e si forma la
cognizione. Essendo la memoria, Iimmagi* nazione, Iintelligenza, tntte le
facolU nmane altrettanti modi di sentire; ed ogni cognizione generate avendo
sempre il suo fondamento e Porigine sua ne particolari pereepiti co sensi;
s^guita di giusta ragione, che a dar prova e dimostrazione dei lavori di tntte
Ialtre facoltii non ci abbia altra via da quella di riscontrare ogni cosa al
testimonio de sensi, i quali hanno Ioggetto presente, cui realmente
percepiscono , e per6 non si ingannano (i). lo non voglie qui approvare o
disapprovare si- migliante dottrina. Dico per6, che in essa si vede manifesto ,
come Iitaliano filo.sofo sentisse un intimo nesso passare tra le due question!
dellorigine e della dimostrazione del sapere nmano, che il G. Mamiani
immensamente disgiunge, e dichiara ' indipendenti in quell opera nella quale ci
si presenta come rin- novatore dellantica filosofia italica, e nella quale
adduce i Inoghi di molti filosofi nostri, ma di niuno pin spesso che di Tommaso
Gampanella. Nd sta qui tutta Iinfluenza che la questione dellorigine eser- cita
nella filosofia di quest uomo famoso. Ella vi si fa duce di tutte le dottrine
si varie chegli svolge in tanti suoi libri: ella (i) Duca sensu philosophandum
esse exislimamus. Ejus enim eognitio omnis certissima esl, i/uia /it objeclo
presente. Sif^num est, quod alia cogni- ttoncs ditbia; ad sensum recuiTuiil pro
cerlitudme. Camp., De reram natara. Digitized by Google a5 fissa i1 metodo
dinvestigarle: ella determina Iordine in cui debbouo procedere ne loro
svilnppamenti. Appunto perche dal sens! viene il principio del sapere e dell'
accertarsi, quella filo- soCa da mano prima di tuUo alle cose fisicbe o
natural!, che cadono sotto i sens!. 11 trattato dello spazio, die diviene nelle
mani del Campanella una prima e immobile sostauza rccettiva di tulti i corpi ,
le investigazioni del modo onde si forma e compone I'uDiverto materiale, i
principj elementari diesso, sono le ricerche cbe si alTacciano da prima al
nostro investiga* tore. II senso, onde muove il suo (ilosofare , viene quindi
co- miinicato da lui con varia proporzione a tutte le cose, a bruti anche quel
genere di sentire piii perfetto che intendere si ap> pella. Dopo di cii\,
egli si solleva a considerare Iente stesso nella sua intima natura, dove trova
quelle tre qualita dette in suo parlare
Pure il iVIamiaiii non persevera in questa sua miova opi- nione. Se
neIuogbi allegati e in parccchi altri egli pare si lontano dal pensare denostri
bnoni autichi ; loro si avvicina poi in un eguale o forse maggior numero di
luoglii del suo li- bro, e lirato soavemente dalla ineluUabile forza del vcro,
si aeconipagna di nuovo con essi, conscntendo loro in ammellere P intimo nesso
delle due qnestioni , e la molto utile se non anco necessaria loro comiinione.
lo potrei provarlo assai chiaro con nna sola sentenza, colla quale egli
alTerma, die il principio della certczza e il principio della scienza si
possono ridurre ad un solo principio. Peroc> chi se da un solo fonle dee
scaturire la cognizione e la cer> tezza, quanto dunquc non sono intinie fra
loro, e per cost dire famigliari queste due question! ? e se si puo trovare uno
me- desimo essere il principio di amenduc, pcrchi dunque la so- luzione
dell'una sara certa, e delPaltra solameiite congliiettu- rale? die cosa fa mai
detto di piii efficace a dimostrare die o la soluzione della ccrtezza implica
quella dellorigine , o la soluzione dellorigine implica quella della certezza ,
c che in ogni modo sono queslioni sorclle , o piultosto geinclle? Ma udiamo Ic
solenni parole del nostro autore. u Per qualunque miracolo del senno umano,
niai non po- Ira farsi sparirc il primo
ed essunzial postulate di liii, cioi il
falto della coscienza . Egli qui non parla congbiettural- mente, ma con pieiia
sicurta di dire il vero: contiiiua,
PerA a questo sol fatto
potrebbero metterc capo insieme e il prin-
cipio d'ogni scienza e il principio dogni certezza, vale a dire u che I
fenomeni costanti e semplici compresi in qualunque u atto d' intuizione ,
potrebbero addivenire un giorno il solo
principio sperimentale richiesto alia dedilzione intcra delPu- mana sapienza
(i). Qui si mettono alia condizione stessa il principio della certezza e
quello della scienza^ e se la sco- perta del primo A solo congbietturale, non
sara pienanieiitc as- sicurata la certezza umana^ se poi ella A inessa fuori di
ogni (1) P. II, c. XIX, n. Digitized by Google =7 (lubbio, anclie il
princij>io o sia I' origine della scicDza sara ugualmeate bene assicurata.
Ancbe altrove dice il C. Mamiani, che alia perfutta teorica del sapere umano
sta in cima u un sol dato sperimentale , e
deulro di queslo dato si confondono insieme perfetlamente u il principio
d'ogni certezza e il principio d'ogni sapienza n (i). Che vogllamo noi di piii?
Se i due principj si confondono in uno, e |ier poco s'identificano, forzi die
sieno di egual na- tura, e che 1 origine dclle cugniziooi sia manifesta di pari
alia loro fermissima certezza. II C. Mamiani adunque qui ci torna iialiano,
raccostandosi alle avile nostre Iradizioni filosofielie da lui da prima
abbandonate. CAPITOLO XI. E nun e per6 da oinmeltere di osservarsi una cosa.
Ndic parole surriferite nun si contiene gi.a una dubbiosa opi- nione del C. M.,
ma una sua feruia sentenza^ la quale sen- tenza che Pintuizione imraediata o
niediala della spirito sia il solo fonte delle cognizioni nostre, come i
medesimamente della loro certezza. Ora questo vale quanto affermare che le
cognizioni umane sono tutte acquisite collatto dintuizione, e negare al nostro
spirito ogni notizia congenita. E chi non vede come questo gia sia prendere un
partito nelle fazioni de filo- soii , e decidersi per uno de' sistemi che
corrono nelle scuole intorno all origine delle idee., escludendo insieme
necessaria- inente tulti gli altri possiblli ? A chi restasse qualche plcciolo
dubblo della niente del C. M., jiotrei dir uiolle cose, ma per csser breve
basti, che se cost non fosse, egli non lodercbbe seuza condizione alcuna il
Telesio per aver promesso di u riconoscere per fonti uniche d ogni u sapere il
senso, le cose dal scnso noliGcate, o identiche a u quelle perfeltamente n (a),
cilando ciu fra i canoni di ot> limo raetodo dal Telesio divolgatl. Non
avrebbe egli n pure dato altissima lode agli Italiani per questo, che a tenerli
stretU ad Aristotele poterono assai sopra di essi due cose , 1 una (i) P. II, e. XX, II. (a) P. I, c. IV,
VI. Digitized by Coogle a8 u di riporre egli la prima fonte dogni itapere nel
fatto speri* u mentale, Taltra di pronunciare che gli universal! tuUi qnanti H
si formano per induzione (i). Finalmenle
tutto il libro dimoslra, che il sense e I' induzione, o per dirlo in un modo
piu generate, gli atti intuitivi dello spirilo umano sono pel C. Mamiani la
sola indubitala originc di tutto il sapere umano. d ella sia pure; noi non
vogtiamo qui contendere con lui, ma osservare come egli contende con se medesimo.
Se volea prendere un partito nella questioiie dell'origine delle idee, O
piiitostose non poteva a meno di prenderto, avendo egli toUo a ragionare di
nietodo e di certezza^ perch^, dico io, scegliere quel sistema appunto, del
quale egli medesimo riconobbe in- genuamenle il difetto e I'intrinseca
assurdit.i? e tanto la ri* conobbe, che non riflelteudo esservi degli altri
sistemi, e avendo quello solo sott'occhio, quasi niun altro state fosse trovato
dai iilosoii, disse che fin ora non si era mai potuta sciorre la que- stione
dell'origine delle idee, ni scuoprire la generazione prima dellalto di
conoscere (a)? E questo difetto, qnesta assurdit^ intrinseca, che c, e chegli
vide essere ne' sistemi che fanno acquisite e formate da noi slessi tulte e
interaniente le cogni- zioni nostre, sta appunto qui, che u quella serie di
operazioni mental! che si va immaginando
per dar nasciraento alia co- u noscenza, sembra di gia contenere alcana
porzione dell'atto u conoscilivo . Ora
vorra egli sostenere, gli atti intuitivi dello (i) P. I, YII , VI. Il C. Mamiani
in queslo , e in altri luogbi del suo liliro, giudica della nalura e dello
splrito dellllallarta filosoila aasai diver- samcnle da qiiello, die allri
scriltori ne gludicarono. Lopliiione che mani- fesla un altro scritlore recente
intomo allindole del rilosofare della nostra nazione, ricsce dirittamente
coniraria a quella del Mamiani. Questi i il prof. Baldassar Poli, di cui souo
le parole seguenti : i singolare la co-
tendenza si Pilagorismo o al Platonismo ci ha sempre preservati, anebe u
nella fnga del materialisino, dalla sfrenata licetiza delle sue dnttrine,
come dalle sozzure della sua morale (Poll, uota al Mauuale iUlla Sloria della
JiloioJia di Teuiiemann, Qj ). (a) Vedi
addielro , Cap. II. Digitized by Coogle 9 spirito non suppoire innanzi di si
niuna porzione dell atlo conoscilivo? Se niuna ne suppongono, perclii
dichiarare in- soluto e insolubile quel problenia ? Se ne suppongono alcuna,
percbi non riconoscere una manifesta pelizione di principio in volere che le
idee tutte si gencrassero dagli atti inluitivi dello spirito? Ma finalmente
questo proporre le intuizioni per sole origiiii di tulto intero il sapere, non
i altro cbe il sistema an- tico de sensisti, i quali dasensi e dall'induzione
ogni idea e ogni notizia si promisero di ricavare: e pure il difetto di tale
sistema non solo dal nostro autore i confussato, ma egli pare ogginiai per
niolle considerazioni de savj fatto quasi a tutti evidente. CAPITOLO XII.
Conviene per6 confessare, che se in alcuni luoghi il Ma- roiani abbraccia il
sistema della forraazione delle idee mediante delle intuizioni dello spirito, e
lo di per indubitato, escludendo ogni idea ed ogni principio innaturato con noi
e non fatti- zio^ in altri per6 ritoma alia sua prima sentenza) che Iori- gine
delle idee sia inesplicabile, e cbe il sistema, che vuole esser tutte le idee
una produzione delle operazioni dello spi- rito, sia viziato di paralogismo,
supponendo quello stesso che prende a spiegare. Uno di questi luoghi del nostro
autore parmi quello dove riassumendo la sua teoria (ilosoiica dice cosi: Si i conclnso
da tutto ci6, lo scibile umano guardato dalla sua entita u subbiettiva,
cio6 a dire in quanto risulta da infiniti atti di u cognizione, appoggiare ad
una certezza immediata e indu- u bitabile, e la dimostrazione de varii aspetti
nei quali tras- u formasi, doniandare il sol postulate dellattoconoscitivon
(i). Or dopo aver egli cbiesto qni asuoi lettori, che gli vo- gliano acGordare come
un semplice postulate Iatto conosci- tivo, il che i quanto dire, che il disobblighino
dal carico troppo grave di mettersi dentro- ne misteri onde Iatto del co-
noscere tutto savvolge e si profonda^ e dopo essersi impe- gnato di comporre
una dimostrazione dello scibile coll ajuto () P. II, c. XX, II. Digitized by
Coogle 3o solo di quel poslulato, c aver tenlato di darla^ egli conchiude
apjdaudendosi di aver u resa la queslioae della realita ( verila ) u dellu
sciblle indipendeatc affatto dallaltra delloriginc delle u idee (i): il che fa vedere che con chiedere il
poslulato dell'atto conoscitivo, egli mirava appuulo ad climiaare, per cosi
dire, uiia questione riputala da lui insolubile, quale i que- sta dell'origine.
Tultaviasi polrebbe mettere in dubbio, se ci abbia di moUa coiivenicnza in
queslo, che un (ilosofu, il quale s'accioge a dare la dimoslrazione della
cerlezza del conoscere, dimandi per poslulato di suo discorso Talto
conoscitivo. Polrebbe chie- dersi u .se si da una cognizione die mai non abbia
per og- gello il vero, che sia sempre ed essenzialmente falsa 5 c per6 sc, dimaiidando per bello c dato
I'alto del cono.scere, non si dimandi per bella c data anclic la ccrtczza.
Potrcbbesi dire di cono.scere, quaudo niun raggio di verita lucesse mai alia
inente? Nun vi ba forse conlraddizionc ne' termini, a voter porre un alto conoscitivo
die nienlc di vero conoscc? E se ogiii alto conoscitivo stippone di nalura sua
qualche verita co- nosciuta, dato adunque qaesl'atln, ella e data per
conseguenza all'uonio alineno una parte della verita: perciu il dimandare per
concesso I'aHo conoscitivo qua! postulate, sembra altret* tanto, quanto
dimandare non poca parte di quella verila die si Iralla di dimoslrare^ il cbe i
un paralogisnio, una mauifesta pelizione di priiicipio. Consideriamo la cosa da
un allro lato, e di niiovo una peti> ziou di principio ci si aflaccia nel
poslulato ricbicslo dal C. M- Adavvertirla basta considerare, che il C. .M.
pone la verita nella realita ed eulita della conosceiiza. Ua ciu oaluralmeule
con- seguita, che tulto egli dimauda, qiiaiido pur dimauda I'atto del conoscere,
a cui una realita c una entila non puo maocare si- ruramente, perocchi
allramente non sarebbe. Ma noi esamine* remo allrove quanto si diluughi dal
vero il couccllo della ve- rila e della cerlezza die si fa il C. M., c la sua
maniera di espri- mersi che produce un si fatlo equivoco, al quale il C. M. non
volse I'animo. (1) F. II, .\X, 111. Digitized by Coogli CAPITOLO XIII. 3i Qui
bisogna rvcarc unaltra rillcssione sopra il postulate del signor Matniani. Con
un tal postulate, egli viene a d'lrci cosl:
io vi fabbri- chero una perfella teoria della certezza del sapere umaiio
, purchei voi mi dispensiate dallentrarn ne mister! (lellallo conoscitivo, e me
lo concedialc tale pera aua, dobbiamo
aoltometlerci ancbe a questo penoso iocarico. Lin- coereoza consegueiite a tuUi quelli cbu non banno una
buona causa allc manif sieno pure oltrcmodo ingcgiiosi c valcoti. Cresce poi
I'incoerenza a dismisura per I'oscurita delle idee e per un linguaggio
iinproprio. In falti come sarebbe possibile ad un autore il prcndere
costantemente queata pa* rola di , senza addarsi inai dello sbaglio, senza dar
mai segni di couoscere che una cosa i la realita, unaltra la Terita e certezza,
e che la prima non puA costiluire la seconds, od esserne prova 7 Per6 ancbe nel
libro del Mamiani Irovo on luugo, che mi fa vedere come lampeggiasse a'suoi
occhi la distinzione di queste due cose da lui perpetuameote confuse, cioi la
realiti dello scibile, e la prova della sua certezza. Nel c. IV della P. II, n.
v, egli propone tre queslioni a risolvere circa i fatti costituenti Iatto del
conoscere, e queste sono: t.la loro realita, i. la loro origine, 3. e quello
che import: la rea- lita e I'origine rispetio alia prova dello scibile; dove la
realili e dislinta dalla prova e perci6 dalla certezza dello scibde. Ma
egli oltremodo sin- golarc a vedere come
nella stessa pagina e nelle seguenti di nuovo le due cose si confundono,
prendendosi la realita dello scibile a sinonimo della prova e della certezza dello
scibile! Digitized by Google 35 postttlato della nia teoria della certezza
Iatto conoscitivo, egli dioiaDd6 con ci6 Icntita e realiU di qoest'atto, e per6
Ientitii e reality della cognizione, e per& la TeriU e certezza della co-
gnizione medesima, conchindendo come un geometra, il che era da dimostrare . CAPITOLO XV.
Intendendo io dunque come ho hiteso la domanda del po stulalo dell'atto
conoscitivo fatta dal signor Mamiani, I'ho in* tesa coerentemente a tutta la
serie desnoi pensieri^ ni po- tevo intenderla altramente anco per altra
cagione. Non riduce egli tutto il principio della certezza all'intnizione
immediata dello spirito? non aflerma egli questa intuizione im- mediata al
tntto incapace di prova, e di prova non bisogne- vole? e non i Tintuizione
quanto a dire Iatto conoscitivo, o come altrove la cfaiama, il falto della
coscienza (i)? nol chiama questo il
falto eminente e primo della intelligenza gnar-
data nelle condizioni pure attuali n (a)? Non i questo ci& che
dimanda per postulate? Veramente in altro luogo dice che questo fatto si pu6 anche cercare e scuoprire
> (3): ma in tal caso perch^ di- mandarlo per postulate? sarebbe ci6 un
tacito avviso del suo buon sense, che la dimanda di quel postulate era alquanto
indiscreta? Ma lasciando passare queste brevi e sfuggevoli confessioni^ il suo
costante dimando si i quello, che gli sia date I'atto conoscitivo qual
postulate. Onde per6 crede, cbe I'atto co* noscitivo sia cosi sicuro da non
dovere 0 potere aver bisogno di dimostrazione alcuna? Prove di ci6 non arreca,
ma le sue parole a quest' uopo stanno tutte qui: Nessuno, pensiamo (i) P. II,
XIX, II. I>r parole del C. Mamiani Turono recale piii sopra. Or i egli il
medesimo pel C. Mamiani I'allo conoscitivo, e il falto della coscienza? Potrei
raoslrare, cbe egli steaso in diversi luoghi del libro li prende per cose
diverse, e cbe diverse verainenle sono: ma basli averne uulato qui no renno.
(a) P. I, XVI, 7. afor. (3) Ivi. Digitized by Google 36 Boi, yonk credere che ia meotr afiermando la
sauistenza d'alcona cosa, crei qaella
medesima sossislenza, ma ogouao > iavece retteri certo che qualunqae
realitii degli oggetti pen- sabili i
indipendcnte afiatto dallafrermare o dal negare di nostra mente
(i). Egli discende qui, come ognun vede, dalla questione generate della
certezza dello scibile, alia que> stione particolare intomo la certezza
dellesUtenza decorpi, che reca come an exempligratia , acciocch^ si coochiuda
da qnesto caso particolare agli altri tutti. Or bene, accompagnia* moci pure
con lui, e seguitiamone i passi. Primieramente giova riflettere, che quando il
filosofo cerca o propone una dimostrazione dellesistenza decorpi, egli non la
propone al volgo, il quale non ne abbisogna. II volgo i certo, e non dubita
panto dell'esistenza reale de corpi , te- nendo per fermissimo, che la sussistenaa
delle cose esteriori sia indipendente afiatto dallafiermare e negare di nostra
mente. Alla dimanda adunque del C. Mamiani
Chi mettera in dobbio ci6 7 la risposta i pronta, e non pu6 esser altra
che questa: Nian uomo del volgo . Ma
che? sara meno necessaria per ci& ana dimostrazione della verity delle
nostre percezioni o giadiz] sallesistenza de' corpi 7 lo lascio che il nostro
autore risponda si, o no, a suo piacimento. Segli mi dice di no; e bene, gli
replico io, perchi dunque fabbricare una teoria della certezza? perche limarsi
il cervello a provare contro glidealisti I'esistenza attuale decorpi? Se mi
risponde di si, perchi adunque dimandarmi chi la mette in dubbio? perchi
giudicare, che non ci sia bisogno di provare che la mente afiermando i corpi
non li crei? Fatto sta, che degli uomini dotli e sommamente ingegnosi vi ebbero
al mondo, i quali giunsero a mosttar di credere, che i corpi fossero produzioni
dello spirito nostro, la cui virtu creatrice opponeva quelle sue creature a sk
stessa, e cosi dalle proprie viscere traeva mirabilmente il proprio oggelto.
Non i dubbio, che il C. Mamiani sa tutte queste nose; non i dub- bio, chegli
conosce la storia dellidealismo comune e delli- dealismo trascendentale, e che
avra letto il celebre libro della (I) P. II, c. IV, V. Digitized by Coogle 37
Dotttina della Scienta. Perchi dunque pronunciare con tanta semplicita ,
cbe oessuno vorra credere che la mente
afier- u mando la sussistenza d'alcnna cosa, crei quella medesima u
snssistenza , e che ognuno invece reaterli certo che qua- u
lunque realitii degli oggetti pensiibili i indipendente affatto dall'aflerinare o dal negare di nostra
mente ? perchi assi> curare a questa
strana afiermazione, siccome a ferreo anello, tutta la teoria della certezza?
Per me non so comprendere in modo alcuno, come nn autore, che produce in un
libro una faticosa dimostrazione dell'esistenza reale de'corpi, e che crede
questa dimostrazione cosi difficile, che non molti altri e forse nessuno prima
di lui 1 abbia potuta trovare , possa poi basare tutta la sua dottrina intomo
la certezza del sapere, sopra que* sto singolar dato , che niuno mette in dubbio che le menti afiermando
alcuna cosa, la vengano creando a si stesse . Ma sia, che niuno ne dubiti, o
nabbia mai dubitato. E che perci6? Si potri bene indurne per conseguenza, che
una teoria della certezza delle cognizioni i inutile, almeno per quella parte
che risguarda la reale esistenza de corpi^ ma restera per6 sem- pre vero, che
ove si voglia comporre una tale teoria u in forma rigorosa di scienza e dedotta per una serie
di teoremi purissimi, cioi somiglianti
alia geometria n ( i ), non convenga cominciare dal persuaders!, che niuno dara alio splrito la virtu di creare i
corpi (a), e che Iintuizione immediata non bisogna di dimo- strazionix (3):
perocebi anzi la questione sta tutta qui, a ve* dere cioi, se rintuizlone del
nostro spirito c'inganni, se il no- stro vedere sia il vedere del sognatore, se
un genio maligiio, secondoche diceva Cartesio, sia quegli che ci illuda continua-
mente^ e relativamente a corpi, se questi sieno cose reali, o creazioni e
sviluppamenti di un nostro interno principio, e se rafiermarli per diversi da
noi, non sia forse nidla!pih, che un dare sussistenza a delle chimere. Egli
p>ar adunque, che il C. Mamiani non cogliesse bene il nodo della questione
della certezza dello scibile, e che mollo meglio di lui il cogliesse Cartesio ,
sebbene_ dal Conte hcenziato tra quelli che non vi s'apposero. (i) P. U, c. XX,
II. (a) P. II, c. IV, V. (3) P. U, c. XX, i. Digitized by Google 38 Ms toniiamo
a noi, conchiudendo: il modo onde fa da me inteso il postulato chiesto dal C.
Mamiani, i tutto in coe- renza di sue dottrine, e quel postulato cosi inteso
avvolge e perde entro un vizioso circolo i ragionamenti si largamente esposti
dal nostro aatore. CAPITOLO XVI. E pare, che a quando a quando egli medesimo se
n'ar- vegga. Chi, avendo letto il libro del C. Mamiani, neghera, ch'egli si
scorga quasi da per tutto agitato, e quasi raalcontento dl si,dopo aver
dimandato quel postulato dell'atto
conosciti- vo ? Egli sente, e teme la da
noi sopra toccata obbjezioae : se i mister! dellalto conoscilivo non si
conoscono, non po> trebbero essi racebiudere in si quaicbe cosa di
pregiudicevole alia dimostrazione della certezza della coscienza? come potr6
dire, che quest'alto conoscitivo sia un certissimo testimonio del vero, quando
non so che sia, e onde venga? E toglie anche a rispondere a questa diflicoltii,
che git s'aflaccia quasi vorrei dire piii all'animo che alia mente, mas>
sime in due luoghi del suo libro. L'uno i dove ragiona del modo col quale si
compie la conoscenza (c): Paltro i dove tiene discorso degli universal! (3).
Merita bene la pena, che noi veggiamo accuratamente , come si adopera e si
dibatte a cavarsi d'impaccio. La via per la quale egli tenta a tutta forza di
salvarsi, parmi alquanto ardua e singolare. Egli si accinge di tutta la sotti-
gliezza a provare, che I'atto conoscitivo non i assolutamente ne- cessario
all'intendere ed al sapere, cVegli non i altro che un istrumento di piu
sopraggiunto allaltre facolti intellettive, e che percii si puu dare uno
scibile che abbia una entitli e realta al tutto diversa da quella tanto arcana
e misteriosa del ter- ribile atto eonoscitivo. La cosa i cos'i nuova , che se altrove
reco le parole del Mamiani per dare evidenza maggiore alle mic osservazioni,
una necessita assolutaqui mi stringe a farlo, giac- (1) P. It. c. IV, V. (a) P.
II, X, VII. Digitized by Coogle c1i6 il lettore potrebbe credere cbe io volessi
per aTventura ce- liare. Elle dunqne son queste: a I fenomeni proprii
dell'atto conoscitWo, comechi
rimanessero oscuri ed inesplicabili ,
non impedirebbero tuttavia di cercare con boon suecesso la prova fondamentale di tutto Io scibile,
conclossiacbi I'atto u di conoscere, dee venire considerato siccome un
islrumento di u pin aggiunto alle altre facolta intellettive, per cui d
data aH'uomo la possibility di sentire,
dintendere, e di sa- peren (i). Egli va
ancora piii avanti 14 dove parla degli universal!, giaccb4 egli tenta di
escludere il giudizio conosci* tivo anche dalla formazione di quest!, non cbe
dalla formazione di altre parti dello scibile umano. Ora cbe I'uomo senza Iatto
di conoscere possa sentire, que* sto gli sara agevolmente conceduto. Nessun
bisogno vi ba al mondo di un atto intellettivo, perchi sia messa in movimento
la faculty della sensazione animale. Ma cbe Iuomo possa in- tendere, e sapere
alcuna cosa, senza cbe gli bisogni a ciy Iatto coDOscitivo, questo a dir vero i
forte a credere, e assai strano a pronunziare. O convien dire cbe il G. Mamiani
metta una grande distanza dallintendere e sapere, al conoscere, il ebe egli non
mostra oveccbessia; 0 se egli i vero , come alTerma il sentimento comune e il
valore delle parole, cbe sapere, intendere e conoscere, sono presso a poco tre
sinonimi, sicchi Inno di que tre concetti involge Ialtro^ s egli i vero cbe
niuno intende o sa qualcfae cosa, senza cbe qualcbe cosa pure conosca^ la
proposizione del G. Mamiani ci riesce intrinseca* mente contradditoria , e tale,
cbe si frange in sh stessa. Ma supponiamo pure , cbe il nostro autore metta
quale im* niensa differenza si voglia fra Iintendere e sapere duna parte, e il
conoscere dall'altra^ io dimander6 (inalmente, questo inten* dere e questo
sapere i un modo di conoscere si o no? Se 6 un modo di conoscere, come potr4
essere il conoscere senza Iatto del conoscere? Se non h un modo di conoscere,
cbe cosa adnnque i un sapere, e un intendere, nel quale non sac* chiuda niuna
guisa di cognizione? Tolta via ogni conosccnza difBcilmente si potra immaginare
un intendere ed un sapere, (I) P. II, IV, V. Digitized by Google 4 che non sia
altro che nn mero sentire fislco. Clie se pure, nel- Iopinione del nostro
autore, fra il conoscere e il (entire vi poteue essere nna cosa di mezzo, che
non fosse nk intendere ni sentire^ in tal caso sarebbe convenoto all'antor
nostro lungamente spiegarsi sopra di ci6, e dicbiarare questo singo- lare
anello di mezzo fra la conoscenza e la sensazione^ e ad ogni modo io penso,
cb'egli rimarrebbe sempre cosa pin ar> cana e pin tenebrosa, cbe non sia
quell atto conoscitivo, che si cerca di eliminare dallo sctbile appunto perchi
si sperimenta tanto arduo a spiegarsi. Tntto ci6 pertanto parmi che faccia
assai cbiaro conoscere, a che vane ipotesi, o pin tosto dir6, a che strani
paradossi altri si abbandoni di necessiti, quando, entrato in un sistema
erroneo, vien pressato da tutte parti dalla forza del vero, che ondecchessia lo
impaurisce co' suoi raggi salutari, e mirabiU mente lo punge. CAPITOLO XVII.
Certo il modo onde 1 autor nostro ('introduce a parlare dellatto di conoscere,
egli parrebbe escludere, anzi che porre nna distinzione fra il conoscere , e
I'intendere e sapere. Egli ne parla in quel Capo che tratta de' fenomeni
general! e co- stanti dellatto dintuizione: u giacch^ dice, Iintuizione cbe u
presta materia alio scibile umano ha sempre la forma ge- u nerale di
conoscenza (i). Ora se I'intuizione i
quella che presta materia alio scibile : dunque non vi ba scibile senza
intnizione. Questo non ci puu essere cbe accordato assai volentieri dal C. M.,
riducendo egli veramente tutto lo scibile come a primo principio, all' in*
tuizione. Distingue Iintuizione immediate, dallintuizione me- diate : quesla
nasce da quella: da queste due nasce tutto il sapere. Ora .se I'intuizione ba
sempre la forma generate di conoscenza^ dunque non vi ha scibile senza
conoscenza, per- cb non vi ha intuizione cbe non abbia la forma di cono-
scenza: dunque fra il sapere e il conoscere il G. Mamiani stesso non pone
diflerenza: dunque il dire, come fa egli , che (.) P. II, IV, V. Digitized by
Coogle 4 si put) sentire, inlendere e lapere senza 1alto di conoscere, il quale
non k cLe un istrumento di piu aggiunto alle altre facolla intellcttive, e un
dire secondo lo stesso nostro Conte, che si pu6 conoscere senza 1 atto di
conoscere. Se ci6 possa passare, io lo rimetto di buon grado al giudizio de
nostri discreti lettorl. CAPITOLO XVllI. Ma a via maggiormente persuaderci ,
che anco secondo le forme di parlare che usa il G. Mamiani, ci riduciamo sempre
a quesla singolare e inintelligibile sentenza,
che un cono- scere vi abbia pel quale non faccia uopo I'atto di
conoscere , udiamo le dottrine del G. Mamiani intorno all intuizione , esposte
colie sue proprie parole : La prima vien
delta da noi intuizione immediala, la
seconda intuizione mediata. La li prima che k fondamento e misura dellaltra si
deiinisce da noi: rauo di nostra menu,
il quale conosce le- proprie idee u e le attinenze loro reciproche. Diciamo
conosce le proprie idea tt con che vuolsi esprimere una notizia pura mentale,
ristretta u nei soli fenomeni del senso intimo, fuor di spazio e fuori di u
ricordanza, e che non deriva da conoscenza anteriore (i). Fra le tante osscrrazioni che mi corrono
alia menle su que- Bte parole del nostro autorc, molte non fanno per I'assunto
particolare di questo Capitolo , e pcr6 le trapasso. Una sola dird, perchi se
non fa al particolare intento al quale il passo fu addotlo, fa perA al nostro
ragionamento generate sul ncsso delle due question! dellorigine e della
dimostrazione dello scibile umano : ed ella k quesla. Il C. Mamiani colloca il
principio ed il fonte della certezza nellintuizione immediata, onde deriva
tutto il sapere umano. Ora se antecedentemente allintuizione immediata del C. Ma-
miani potesse avervi qualche lume, o notizia di qualsiasi na- tura, quesla non
sarebbe compresa nella dimostrazione della certezza del sapere da lui lavorata.
Quindi assai coerentemente al nome di lei, egli ci assicura che u la intuizione
immediata non deriva da conoscenza
anteriore . (.) P II, c. in, 1. 11 Biniwamenlo. 6 Digitized by Coogle E s!a
pure : tna che cosa contengono queste poche parole, e non an sistema Intero
intorno all'origine delle idee? Se Iin- tuizione immediata i la prima cosa che
cade nello spirito uma- no, e s'ella i, come altrore la definisce, la vista intellet- u tuale delloggetto
pensato e gnardato nella sua entit&
u fenomenica (i)^ chi non vede, che il
primo fonte delle cognizioni d nel C. Mamiani quest'atto transeunte dellintui-
zione, esclusa necessariamente qualsivoglia notizia data a no! per natura? Di
piii chi non vede, che su questo sistema in- torno allorigine delle idee, che
non i poi altro che il sistema de' sensisti, i appoggiato, siccome in unico
fondamento, tutto il suo sistema intorno alia dimostrazione della certezza? pe-
rocch6 se non fosse vero che la
intuizione immediata non deriva da
conoscenza anteriore , come egli
afferma, non aggiungcndone per6 dimostrazione alcana ; e se fosse vero il
contrario, cio, che antecedentcmente alPintuizioDe degli og- getti esterni
giacesse in noi qualche naturale notizia^ il prin- cipio della certezza del C.
Mamiani non sarebbe pin princi- pio , e converrebbe cominciare dal collocare la
prima certezza on passo addietro, cioi innanzi allintuizione fattizia degli og-
getti esteriori. Checchd sia di ci6 , eg)i d evidente , che il C. Mamiani,
lungi dallaver resa la questione della dimostra- zione dello scibile
indipendente da qaella dell origine delle idee^ senza avvedersene, egli snppone
anzi qaella dellorigine pienamente e sicaramente decisa^ e su questa
supposizione, che non si cara di munire di prove, fonda e fabbrica quanto egli
dice della certezza del sapere. Noi ritorneremo ancora sopra di cid, e
dimoslreremo questa incoerenza del Mamiani con degli altri suoi passi
ngualmente evident!: ma qui dobbiamo ri venire al proposito, dal quale ci siamo
trasviati per desiderio di non ommettere questa osser- vazione. CAPITOLO XIX.
11 Mamiani dice, che 1 intuizione 4 Iatto della mente col quale ella conosce le
proprie idee: Iintuizione adunque non 6 (l) P. II, C. I, IV. Digitized by
Google 43 inai senza conoacenza; qoesta gli i essenziale, questa ^ sua
figliuola che non disgiunge da sd stessa. Dunque se ogni in* tendere e ogni
sapere duna parte viene dall'intuizione, dal* I'altra ogni intuizione involge
il conoscere ; manifesta cosa e , cfae sapere, intendere e conoscere , stanno
insieme come cose ugnali, o mollo simili ancfae pel G. Mamianq e per6 egli toma
inconcepibile, come egli ammetta, che si possa usare delle fa- colt^
d'inlendere e di sapere senza alcun bisogno di quel cat* tivello di atto di
conoscere. E pure egli trova bisogno di an- dare ancora piii innanzi, perchi il
suo sistema possa stare in piede ^ e per6 s' accinge sotlilizzando a
dimostrare, che senza atto di conoscere, lo spirito pu6 e attendere , e
avvertire, e paragonare, e asirarre, e riflettere, e giudicare, e formare degli
universal! (i)!! CAPITOLO XX. In vero egli era bisogno che il C. Mamiani
assuroesse il ca* rico di provare tutte queste grand! cose, accioccbi potesse
te- nere in piede la sua teoria della certezza ; la quale esige per prima
condizione, che dinanzi all' intuizione fattizia dello spi* rito, non vi abbia
idea o notizia di sorte alcuna, e cbe da quella si derivi tutto il sapere
umano. 11 nostro autore, o piu tosto la coscienza di lui lo sent!: e se non
confess6 apertamente questo grande bisogno del suo si* sterna, cercu almeno di
riparare cautamente quanto meglio seppe il luogo debole, onde temeva la breccia.
Per veder ci6 via meglio , non sara inutile udire in qual modo egli faccia a s^
stesso Iobbjezione di cui parlo. Comincia da prima a disporre il lettore in
modo che quella non gli debba fare un gran colpo, con queste parole : u Noi
siamo venuti esponendo la teoria degli universal! e u dei general! nel modo che
la si pu6 costruire e praticare
attualmente, cioi con I'intervenzione assidua dell'atto cono* scitivo, quale fu definite da noi nel IV
Gapitolo di questa u seconda parte : e comechi allora venisse notato, la
interven* zione del gindicio conoscitivo non alterare per niente la (1) P. II,
c. IV e X. Digitized by Google 44 u realita delle conoscenze, pare ci accade di
agglungere qa! alcua'altra riflessiooe
intorno il proposito (i). Qui ci rimanda a1 Gapitolo IV della seconda parte ; e
do- Tremmo credere di trorarci la ditnostrazione della imporlantis- sima
proposizione, cbe la intervenzione del
giudicio conosci- u tivo non altera per niente la realita delle conoscenze . Ma
recandoci noi a qnel Gapitolo, rimarremmo di questo nostro credere molto
ingannati. Veramente nsando egli anche qui se- condo il sno solito la
frase della realita della coiioscenza ,
in vece che della verita e certezza ,
potrebbesi dire, cbe a provar quella priina, cioS la realita della conoscenza , non ci abbia di
argoinenti bisogno, bastando cbe ella sia, per esser realmente \ ni il giudizio
conoscitivo pu5 impedire la sua rea- lita, anebe producendola egli stesso,
tuttoebi quel giudizio fosse ingannoso ncl suo operare ^ imperocebi il
produrla, i un farla reale, senza un bisogno al moudo cbe sia fornita d'altra
cer- tezza e verity. Ma perocebi qui non posso permettere al Conte Mamiani, cbe
col mutare la parola certezza in quella di realiUl, si tragga troppo
agevolmente d'impaccio^ io, uno de' suoi lettori, sperando di parlare col pieno
consenso di tutti gli altri, gli cbieder6 cbe egli mi provi, come I'atto
conoscitivo, entrando a formare le conoscenze, non ne alteri punto la ve- ritA
e la certezza^ e senza di questo non gli accorderA punto cb'egli sia pervenuto
a porre insieme, come pretende, una vera dimostrazione dello scibile. Non ci
basta adunque cb'egli abbia a notato nel
Capi- tolo IV, cbe il giudizio conoscitivo non altera la realita della
conoscenza; vogliamo, sperando di non essere indiscreti, cbe egli ci u provi n,
cbe quel giudizio non altera la u verita a certezza della conoscenza , il cbe
egli ba sfortuuatamente di- menticato di fare in tutto il suo libro. Veramente
tuttc le parole , cbe in quel Capo si riferiscono a far credere, cbe I'atto
conoscitivo anebe entrando a pro- durre le conoscenze non ne alteri la verita,
si riducono a que- ste sempl-ci gratuite afiermazioni ; u Nessuno credera cbe
la mente afifermando la snssistenza
d'alcuna cosa, crei quella me- (i) P. II, c. X, VII. Digitized by Google denma sussistenza n; Nessuno manterra senza paura di as- u surdo,
che i segni delle idee e delle cose esteriori producano u o cangino )a realta
di esse idee o di esse cose ^ u L
appella- u zione generica dei predicati non ci ascoode le condizioni in- u
dividnali con cui quelli si trovano nniti dentro ciascun sin- golare
(i); le quali affermazioni destitute di ogni prova valgono, in bocca di
un 6losofo che vuol edificare una dinio- strazione dello scibile, quanto queste
altre uNiuno dubita della propria cognizione, e per6 ella non c'inganna, e.
d..n. La maniera per6 colla qnale il C. Mamiani conchiude quelle sue ignude
affermazioni, mostra quello che dicevo, cio^ che la sua coscienza nol lascia
interamente tranquillo sulla loro picna autorita neiraoimo de lettori. Perocch^
egli corona il discorso con queste parole, le quali non moslrano avere alcuna
coerenza colle precedent!: Discende dal
fin qui detto, che i fenomeni proprii dellatto u conoscitivo, comechi
rimanessero oscuri ed inesplicabili, non
impedirebbero tuttavia di cercare con buoii successo la prova u
fondamentale di tutto lo scibile (s'oda
qui bene la ragione che adduce per la prima volta, non avendo toccato punto di
ci6 precedenlemente ), conciossiache 1 atto di conoscere , dee u venire
considerate siccome nn istrumento di pih agglunto alle u altre facolta
intellettive, per cui i data alluomo la possibi- lita di sentire, d'intendere e di sapere . La
ragione adunque che in queste ultime parole adduce in prova che Iatto
conoscitivo non altera e nuoce alia prova fon- damenlale di tutto lo scibile,
si che quest' atto non ^ ne- cessario alia formazlone dello scibile, che non i
se non im istrumento di piu agglunto alle altre facolta
intellettive, per H cui e data all'uomo la possibilita di sentire, d'intendere,
e M di sapere . Ma qucsto non i quello che u discende dal fin qui detto
perocch^ prima si voleva anzi sostenere tntt'altro, cioe, che quand'anco
quest'atto conoscitivo entrasse veramente alia formaziooe dello scibile, egli
per6 colla sua intervenzione non altererebbe la veritii, o sia la dimostrazione
dello scibile stesso. Mon avendo adunque provato il G. Mamiani, ma solo asse*
(.) P. II, IV, v. Digitized by Google 46 rito, che Tatto couoscitivo eziandiochi
oscuro e mUlerioto en- trando a forniare lo scibile, non ne possa alterare la
verlta^ egli si rifuggi alia sola tavola di salvamento che gli rimaneva, cio a
mantenere che Iatto conoscitivo non fa lampoco bisa* gno all'uso di moUe
facolla intelleltive^ colle quali seuza quel- Iatto si pu6 sentire, intendere,
rifleltere, giudicare, sapere . Non i dunque interamente sincero il nostro
antore quando egli dice quelle parole:
comechi allora venisse notato, la in- u tervenzione del giudicio
conoscitivo non alterare per niente la u realita delle conoscenze, pure ci
accade di aggiungerc qui al> sponde
alia certa realila de' fatti. Discepolo. Come Iavetc provato ? C. Mamiani. Ho
provato che gli universal! rispondono sem* pre alia realita de fatti, perch6
essi si riferiscono squisitamente a particolari concreti. Discepolo. E percb^
si riferiscono scmpre cosi squisitamente a particolari concreti? C. Mamitmi.
Perch^ quest! particolari sono i termini para- gonati, dal quul paragone col
giudizio conoscitivo si sono for- mat! gli universal!. Discepolo. Dob come i
questo? Udendo io, che gli univer* sail sono formal!, secondo voi, dal giudizio
de' particolari pa- ragonati fra loro, io vi facevo appunto osservare, che una
tale formazione supponeva degli altri universal! precedent! daltra formazione,
de quali non si potea sapere se avessero quella che voi chiamate verity
oggettiva, perocchi non potevano esser venuti dal paragone de particolari^ e
voi mi rispondete che questo dubbio non pud nasrere, perchd si riferiscono di
neces* sita a particolari, perchd da quest! sono derivati? Ognuno giudichi di
questo circolare ragionamento che non dimanda certo da noi chiosc o comment!; e
decida se ha ra- gione il maestro che insegna , o il discepolo che si trova im-
pacciaio nell intendere la dottriua di lui. Rossimi, Il Rinnovmnculo. 7
Digitized by Google 5o CAPITOLO XXIII. II Mamiani stesso non credo rimanesse
contcnto della so- luzione della sua obbjezione. E il deduco da un u adunque ,
col qnale egli lega un altro pen'odo a quello che bo citato dl sopra
conteneiite la soluzione dell obbjezione fattasi. Nel periodo primo avea
risposto, come abbiamo veduto, al- Iobbjezione , dicendo che era gia stato da
lui notalo, come la idea universale ri.sponda alia certa realita de fatti, o
sia de particolari concreti , di cui in formandola si giudica come di ogni vera
e singola realita. II periodo soggiunto a questa so* luzione e legato colla
particella u adunque il scguente: Adunque le idee universali , che non
lasciassero sciioprire di s, n altre
idee universalizzate da cui si uriginino, n^ u i riferimenti loro esatti a
qualunque concreto, siccome a TERMINI DI
FARAcoNE, non lascierebboDO credere ui tampoco u alia loro certa rappresentanza
di qualche fatto, e rimarreb- bono,
allocchio del buon giudicio, un puro essere di ra- u gione n (i). Or
primieramente non si vedecome stia bene in capo a que- sto periodo la
particella congiuntiva u adunque , la
quale vuol indicare di solito una conseguenza di ciu che si i alTer- mato. Ma
tanto h lungi che ci6 che sta in questo ultimo pe- riodo sia una conseguenza di
ci6 che fu detto nel primo, che anzi i il contrario appuiito di ci6 che in
detto in quello. Nel primo si diceva che
nel dellnire la idea universale Ai notato chella risponde alia certa
realita de' fatti , cioi de particolari paragonati, e che dunque non pud cadere
mai caso, che la idea universale non si riferisca squisitamente a' partico-
lari, perchi cid entra nella stessa sua deflnizione, e perchd ogni idea
universale ha origine dal giudizio istituito su parti- culari paragonati. Nel
secondo periodo si suppone che vi possano essere delle idee universali, le
quali non lascino scuoprire di si nd altre idee universalizzate da cui si
origlnino, nd i riferimenti loro a qualunque siasi concreto siccome a termine
di paragonc: e (0 P. II, c. X, VII. Digitized by Google 5i si dice , che tali
idee non indurrebbero per6 in errore, perchi non lascerebbero credere alia loro
certa rappresentanza. Or chi non vede che questa i nna ragione nuova , e tutto
diversa, se non aoco in parte contraria alia prima ? danque che ba da fare
quell' u adunqne ? che vuole egli, se
non mettere un puntello alia prima ragione sentita essere alquanto vacillante ?
peroccbi se fosse stato certo e ben provato che
ogni universale per la stessa
definizione e per la sua ori* gine non controversa si riferisse a de
particolari concreti, non si sarebbe gia posto la possibilita del contrario, e
risposto al caso di questa possibilita. Conchiudasi: di due mezzo ragioni si
cerc6 di formame iina sola, appiccandole insieme con quel glutine dell u
adunque . Ma il lettore avveduto potrebbe per avventura tentare con qualche
urto Iordigno cost debolinente incollato insieme, e rimanergli a pezzi in
mano. CAPITOLO XXIV. E si consider! di
nnovo questa seconda mezza risposta. Si dice in essa, che se delle idee
universali non lasciassero uscuo- u prire i riferimenti loro esatti a qualunque
concreto siccome a termini di paragone,
uon lascierebbono credere ni tarn- poco
alia loro certa rappresentanza di qualche fatto, e ri- u marrebbono allocchio
del buon giudicio un puro essere di u ragione , Che cosa si volea provare? La
realita delle idee universali, o sia la loro verila. Ora questa i collocata dal
C. Mamiani nella u rispondenza e proporzione squisita coi termini della re- u
lazione (i). Perci6 il torre a provare,
come fa il nostro autore in questo Capitolo che abbiamo alle mani, la veriU o
realita delle idee universali , i il medesimo che il torre a pro* vare che queste
sempre si riferiscono a de particolari con- crcti: Adunque , dice lo stesso G. Mamiani, occorre alia u nostra iilosofia
dimostrare che le idee tutte
universali rispondouo bene alia realita
oggettiva (a) sono sue pa- (i) P. II, X,
m. (a) Ivi. Digitized by Coogle $2 role, dove non parla di alcune, ma di tutte
le idee universali, nessuna esclusa. Adunque, dico io, se vi avessero delle
idee universali, le quali non lasciassero scuoprire i nferimenti loro esatti ai
con- creti, e fossero un puro essere di ragione; in tal caso queste idee non
avrebbero la verita oggettiva die il Conte Mamiani assunse di trovare entro a
tnlte iiidifferentemente tali idee uni- versali. Ci6 posto, e dopo aver preso
tale impegno, conveniva egli al Conte Mamiani, che, venendogli posto in dubbio
se tutte le idee universali si formassero dal paragone dei particolari e a
questi si riferissero, conveniva, dico, cbe rispondesse, che u tali idee, se ve ne sono, non lascerebbero credere
alia loro certa rappresentanza di
qualche fatto, e rimarrebbono un puro es-
sere di ragione? Sia pure tutto ciu; nia rimarrebbe sera- pre vero, che
non tutte le idee universali sarebbero nate dai particolari, e che non tutte a
questi si riferirebhero, e che non tutte avrebbero la realita o verita
obbjettiva, e che per^ il Conte Mamiani non avrebbe soddisfatto al suo assunto,
il quale era di provare che le idee
tutte universali rispondono bene w alia realita oggettiva n, assunto dichiarato
da lui necessario, acciocch^ possa tenersi in piede la sua filosofia. CAPITOLO
XXV. In quesCultima contraddizione con stesso il N. A. non sarebbe caduto, se
avesse avuto un giusto concetto della ve- rita delle idee, e non Iavesse posta
u nel riferimento di que- ste a' particolari concretin: se egli avesse conosciuto
quanto dissi di sopra, che il falso non cade mai nelle idee , ma nci giudizj
coi quali si applicano le idee, i quali giudizj sono nna operazione della mente
al tutto diversa da quella delle idee. Con questo esatto concetto della nature
del vero r del falso^ avrebbe potuto assai agevolmente conoscere, che tutte le
idee universali sono ugualmente e sempre puri esseri di ragione, ne si sarebbe
dicervellato a provare il contrario^ avrebbe cono- sciuto che a puri esseri di
ragione cio6 alle idee tutte compete il service di regola e di misura della verita
delle cose, e che Digitized by Coogle 53 esse stesse perci6 non possono esser
mai false ^ sebbene possano malamente venir connesse insiume, e malamcnte
venire alle cose applicate, nella quale conncssione e torta applicazione, opera
del giudizio, cade appunto il falso e Ierrore. CAPITOLO XXVI. Non i, e non puu
essere tnio intendimento il descrivere tutta la lotta intiraa, perpetua, che il
G. Mamiani fa necessa* rianiente con tk stesso \ perch^ non i mio intendimento
di es- sere infinito. Anzi desidero esser breve ^ e peru delle molte os-
servazioni a ciii mi da materia questo capitolo X del N. A., 10 non addiirr6
chealcune delle principal! risguardanti il prin- cipale proposito nostro, che i
la relazione che hanno insieme le due questioui dell'origine e della
dimostrazione dello scibile. Certo egli parrit cosa singolare, dopo che abbiamo
veduto 11 C. M. provare la verita obbjettiva, o, come egli la chiama, la
reality degli universali dalla loro origine, c\oi dal confronto de' particolari
concreti; e dopo aver egli preteso di sciorre le obbjezioni contro si fatta
realitii partendo di nuovo con vi- zioso circolo dalla medesima origine^ egli i
singolare, dissi , I'lidire il N. A. a vantarsi di aver al tutto eliminata la
que- .stione dell'origine, e provata la verita degli universal! senza entrar
punto nel gineprajo di questa quistione: u Vedesi da H ci6, ecco le sue parole,
una conferma nuova del grande van-
taggio che si racroglie a sceverare la quistione della realita u dello
scibile da quella tenebrosa c arcana delle sue sorgenti u primitive^ perche
quando pure di alcune uiiiver.sali idee re- u sti occulta I'origine, non per
tal fatto dee rinianere occulta u di forza la loro reality e il modo di bene
avverarla (i). Tuttavia io vorrei essere
iodulgente sopra questa intrinseca incoerenza, quando il C. Mamiani, trascinato
dalla serie dei ragionamenti, fosse entrato nel campo della questione circa la
forraazione degli universali, senza accorgersene^ come talora suole accadere a
due amici, che passeggiando e in piacevoli ragionamenti intrattenendosi,
trascorrono i conGni che seran posti, senza avvcdersene. (I) P. ir, X, VII.
Digitized by Google 54 Quello che io non posso capire n& perdonare, si i
come ii N. A. tanlo insista sulla separazione di quelle due question!, e
sull'indipendenza di quella della dimostrazione dullo scibile, da quella
dell'origine^ quando poco innanzi, non solo per trattare della prima avea preso
le mosse dal trattare della se- conda^ ma, quello che i il piu strano, prima di
farlo , egli medesimo aveva confessato ingenuamente, che ciu gli era ne-
cessnrio per le esigenze della sua fllosofia!! Le sue parole non sono equivoche
, perocch^ sono queste : Occorre alia
nostra u filosofia dimostrare che simili
idee ( universal! ) acqui- u stano la universita e immutabillta loro non da
forme ioge> u nite e da giudicii a priori istintivi, ma per I'azione
semplice e naturale delle facolta
ordinarie di nostra menten (i). Dun- que alia iilosofia del C. Mamiani, che
versa tutta sulla prova dello scibile, occorre la questione dell'origine
dell'idee : dun- que non puii fare egli medesimo a meno di questa : dunque non
i vero, secondo lui stesso, ci6 che tanto ripete, che la prova dello scibile
possa stare senza conoscersi Iorigine o derivazionc delle cognizioni. CAPITOLO
XXVII. Nelle parole or ora allegate del G. Mamiani si racchiudono due promesse.
La prima di u dimostrare che le idee universal! X non acquistano la
universalita e immutability loro ( il che i u quanto dire, non haniio Iorigine)
da forme ingenile e da X giudicii a priori istintivi n ; questa ^ la parte
cenfutativa, che intende a ribattere gli altrui sistemi intorno allorigine
degli universal! : la seconda promessa
di dimostrare che gli universal! si formano x per Iazione semplice e
naturale delle X facolta ordinarie di nostra mente ^ questa h la parte con- (Irmativa, nella
quale Iautor nostro propone il suo sistema circa Iorigine degli universali, e
il propone per fabbricarvi poi sopra la sua teoria della loro cerlezza. Non
sara mica inutile, che noi sguardiamo un poco attenta- mente alia manicra colla
quale combatte i suoi avversarj, cioi (i) P. II, X, III. Digitized by Coogle 55
i filosofi. r)ie ripulando itnposslliile i1 trarre gli iiniversali dai sens! e
dallinduzione, ammettono qtialche eivtnento di natural cognizione precedente
all'esercizio delle facolla. Largomenlo contro di essi i il seguente: Coloro cheesclu* tt dono afTatlo I'esperienza
induttiva dalle cagioni efficienti u dellc idee auiversali tnancano al severe uso della sillo- u gistica',
in quanto che il principio invocato da loro della u conformita deU'efletto con
la natura della cagione importa u per sh non Iesclusione dell'esperienza
induttiva, ma solo u I'interponimento d'un'altra forza efficace, diversa
dalPespe- rienza: ni deGnisce o pu6
deGiiire s'ella dee consistere in forme
e giudicii trascendentali, o piii semplic.emente in qual- u che speciale
esercizio delle facolta nostre ordinarie
(i), Primieramente quali sono i Glosofl che escludono aGatto
I'esperienza induttiva dalle cagioni efficienti delle idee univer* sali^ lo
stento a vederli nel mondo della GlosoGa. Sarebhero forse tali GlosoG, almeno
al d'l d'oggi, una produziooe della fantasia del G. Mamiani? Avrebbesi egli
create un avversario chimerico per darsi I'ineffabile diletto di combatterlo. c
di vincerlo? Intanto per^ che il C. M. mi prepara una risposta, e scar*
tahellando le pagine della storia GlosoGca numcra quanti e quali possono essere
gli avversarj da lui presi di mira, per mu gli dichiaro almeno questo, che ni
io ( sebbene egli mi attri* buisca un non so quale platonismo ), n^ molti altri
meco in* sieme, non escludiamo affatto I'esperienza dalle cagioni elG* cienti
delle idee {i inutile aggiungere unwersali^ essendo per me le idee tutte
universali): ma diuiamo, che quella non ba* sta a formarle. Dunque il suo
argomento non vale, almeno contro di noi^ e per6 non complete, n^ alto a munire il suo sistema,
siccome pare ch'egli preteiida, contro le obbjezioni di tutti i GlosoG , che
non la senton con lui. CAPITOLO XXVIII. Di piu, egli attribuisce a' suoi
avversarj un altro errore, del quale, per essere a dir vero grosso anzi che no,
non gli vor* (1) P. II, X, m. Digitized by Google 5fi ranno saper baon grado.
Tulti qaelli, die ammcttono qualche notizia, o lume dato airuomo da natura,
vengono a qucsto partito unicamente percbi credono, cbe nessuno esercizio delle
facolta umane, senza un primo Iiime, una prima nollzia, possa produrre le idee.
Ora egli attribuisce loro nelle parole surrife- rite, chessi abbiano veduto
Timpotenza dell'esperienza indut- tiva Delia formazione delle idee universal!,
ma cbe non abbiano poi cercato se mediante qualche esercizio delle facolta
nostre ordinarie gli universal! si fossero potuli comporre. Egli sara bene per
avventura diflicile I'assegnare un esercizio delle facolta, vulto a produrre
gli universal!, cbe non sia la stessa esperienza induttiva^ la quale egli
distingue, quasi fosse nna cosa al tulto diversa. Ma lasciando cio, noi, ed
ognuno cbe si conosca un poco de filosobci sistenii pu6 assicurare il G. M.,
cbe quefilo* so6 chegli combatte, faanno almeno credulo di poter dichia- rare
insufGciente ogni esercizio delle facolta ordinarie, supposte ciecbe d'ogni
lume, alia formazione degli universal!^ e peru, cbe tutta la questione con essi
non si Gnisce gia con affermare semplicemente, cbe il principio di causalitil
lascia in dubbio se alia formazione delle idee basti I'esercizio delle facolta
ordi- narie e ciecbe delPuomo, ovveramente si esiga i'esercizio d'una facolta
illuminata da una prima notizia. Di nuovo : non pare, cbe il N. A. cogliesse lo
stato della questione, nella quale egli i entrato con tanta sicurezza. E chi
non ooglie ed intende bene lo stato di una questione, pu6 egli trattarla? qual
giudizio dee farsi anticipatamente della soluzione ch'egli ne dara ? CAPITOLO
XXIX. Ma veniamo piu alle strette. Il C. M. rinfaccia a' GlosoG cbe non sono
del suo sentimento, e cbe ammettono qualche verita elementare anteriore ad ogni
idea fattizia, cbe mancano al se- ven) uso della siUogistica, in quanto cbe,
dicegli, il principio della causalitii non deGnisce ni pu6 deGnire se quella
forza efGcace a produrre gli universal! consista in forme e giudicii u trascendentali, o piu
semplicemente in qualche speciale eser- M cizio delle facolta nostre ordinarie
n . Digitized by Coogle ^7 Non mi fermo a esaminare quanto propriamente sia qui
adoperata quella parola u trascendentale
\ ma mi contento di ragionar cosi: Poslo vero, die il principio di causa
non deflnisce nA pu6 deCnire se quella forza, che i atta a produrre gli
universal! , sia o qualche prima notizia innala, o Iuso di qualche potenza
senza quella notizia; converr^ tale questione lasciarla insoluta, o converra, a
scioglierla, ricorrere a qualche principio diverso dal principio di causa. Non
credo che niuno trovi che ridire su quesla alternativa. Or bene: il C. M., ogni
qual volta confuta gli avversarj che ammettono qualche principio innato,
rinfaccia loro la temerity di decidere una questione insolubile, e tutto al piu
di natura conghiettuiale. Non cost quando egli stesso, dopo essersi spacciato
in tal modo, o aver creduto dessersi spacciato degli avversarj, entra
neU'arringo, e propone e propugna la sua sentcnza, che tutti gli uiiiversali
traggono origine non da alcun principio innato, ma si bene dal semplice uso
delle ordinarie facolta, prive di ogni intrmscca e prima visione; questione
che, come egli dice, occorre alia sua
Glosofia Manco male per6 se stesse qui solo la cosa; e se a sciorre qnesta
questione dell'origine, di cui ha tanlo bisogno, egli non facesse uso del u
principio di causa , da lui dichiarato inetto a deciderla, ma di qualche altro
principio nuovo, a tutti inco- gnito per avventura, e da lui escogitato. Nulla
di ci6. La sua dimostrazione, efGcace o no ch'ella sia, k tutta qui: egli tenta
di provare, che col solo uso delle ordinarie potenze si possono forroare gli
universal!; il che i quanto dire, che Icsercizie di quelle potenze 4 causa
sufficiente a produr quelPeffetto, e che per6 non conviene ad altra causa
ricorrere: il che i I'appli- cazione appunto del principio di causa. Quando
adunque confuta gli avversarj che non riconoscono Pesercizio delle facolta
umane prive di lume per causa suffi- ciente alia produzione delle idee, egli
strepita tassandoli di mancare di logica, perchS il principio di causa non ha
virtu di mostrare se basti o no Tuso delle facolta alia produzione delle idee,
e ingiunge loro con severo sopracciglio di doveraste- nersi dal decidere quella
questione; quando pol egli preude a Rosmimi, Il Ritmovanicnlo. 8 Digitized by
Coogle 58 stabilire il suo sistema, come se gli avversarj suoi fosser tnorli, e
non potessero riconvenirlo dellingiusliiia che loro usa , prende con tuUa
sicurta a dimoslrare, che Iuso delle facolta ordinarie 4 cagionc sufiiciente a
formare gli universal!. Ha egli adunque il C. M. due misure, Iuna per s4,
Ialtra per gli av- versarj, due logiche, o come egli dice, due sillogistiche ,
due metodi, due verila, e due falsila? CAPITOLO XXX. Ma giova che noi
riloruiamo un po'addietro. Abbiamo giA veduto, che il C. M. senti, e fece a se
stesso Iobbjeaione che lutti gli
universal! non possono esser format! dal giudizio conoscitivo, perchi queslo
giudizio suppone innanzi di $4 degli allri universal! : abbiamo veduto altresi, che' non rispose a
questa obbjezione se non con delle gratuite afTermazioni , le quali peccavano
di petizione di principio. Quindi gli fu necessario di tentare altra via, cio4
quella di dimoslrare che Patio di conoscere non 4 di tulla necessitA alia
formazione delle idee universal!, e chegli
dee venire consi* a derato siccome un islrumento di piu aggiunto allc
altre fa- u colta intellellive, per cui 4 data alPuomo la possibilitA di a
scntire, dintendere, e di saperen. 11 diinostrar queslo non 4 al C. M. cosa,
per cosi dire, di sopra erogazione, ma streltamente obbligatoria, sebbene egli
voglia farla apparire come una sopraggiunla alPaltre ragioni sue: noi le
abbiamo esaminate queste ragioni, ed abbiamo tro- vato che ragioni per
avvenlura non sono. Resla adunque che noi cerchiamo il ncrbo del suo
ragionamenlo in quesl'ullima cosa, che ci promelte di dimoslrare: saremo noi
cosl fortunati da Irovarcelo? veggiamolo. Primieramtnte dandosi un uso delle
facolta d'intendere e di sapere, di allendere, di avvertire, di aslrarre, di
riflellerc, di giudicare indipendentemente
da qualunque idea aslratta ed universale, ed in ispecie dal giudizio
conoscitivo , come credo il C. M., io dimando sc con quesl'uso, qualuuque egli
sia, si olliene, 0 no, la formazione delle idee universal!. Se il C. M.
risponde di no, io replico esser dunque inutile quesl'uso Digitized by Googl
siogotare di tali facolta alia soluzione della queslione proposta, che era u
come si potevano fare gli universal!, senza qualche universale precedente n ,
Se il G. M. rispoiide di si, siccome fa, giacchi ^ questo appunlo cbe toglie
lungaraeute a dirno* strare, ciui che lulti gli atti die coucorrono
necessariamente alia formazione dellc idee universal! si possono da noi fare
senza il giudizio conoscitivu (i), volendo da ci6 inferire, che gli universall
si possono formare senza bisogno di questoj io ragioDO in questo mode: II
Mamiani gia prima avea lungamcnte spiegata la formazione degli universal!
coll'intcrvento assiduo del giudizio conoscilivo (a). Dunque nel sistema del
Mamiani, il nostro spirilo alia for* mazione degli universal! arriva per due
process! diversi, cio6 I.* per Iuso delle facolta inlelletlive, senza
intervento di giudi- zio conoscilivo, a.* per mezzo dello stesso giudizio
conoscilivo, il quale non i che u un istrumento di pin aggiunto alle altre u
facolta intellettive . Or chi non vede qui una cosa assai strana? In prime
luogo, sebbenc la natura sia sempre ricca, qui lut- tavia potrebbesi piii tosto
chiamar prodiga, se avendo ella gia dalo alio spiritoun mezzo di formare gli
universal!, glicnc desse poi un altro, che rimarrebbe veramente superfluo. Ne
cause superflue, secondo il buon metodo, si debbono ammettere nella natura.
Questo supporre dunque, come fa il nostro autore, che Io spirito umano abbia
due vie da formarsi gli universal! che sarebbero due facolta tendenti al
medesimo , riuscirebbe in un errorc simile a quello di chi dicesse, che per
vedere, oltre gli occhi, la natura ci dee aver falto un altro organo vi- sivo,
e che gli occhi non sono che un soprappiu dato dalla natura a giunta delle
altre facolta visive. (i) P. II, X, VII. tu) " Noi sismo venuti eaponendo
la leoria drgli universall e dei geue- " rail nel roodo che la si pu6
costruire e praticare allualmenle, cioi coa " Iintervenziooe assidua
dellallo conaseitlvo . P. II, X# rii. Go CAPITOLO XXXI. la secondo luogo, due
mezzl ad uno stes50 fine, due stru- menti conceduti alio spirito nostro ambedue
per la formazione degli stessi universali, due serie di operazioni interne
essen- zialmcnte diverse producenti uno stesso risultamento, sono elle
possibili, od involgono piii tosto inlrinseca contraddizione? lo per me tengo
questo per cosa al tutlo ripugnante : e a * dimostrarlo, troncando la via ad
ogni replica, cost discorro : Che sono gli universali? quali sono i loro
essenziali e pro- prj caratteri? Acciocch^ nello stabiiire questi non si possa
ca- villarc, cercbiamoli nel libro appunto del C. Mamiani. Fra' caratteri
essenziali dcll'idea universale, oltre la necessita e Iimmutabilila, v'ha
qucllo da cui dcriva il suo nome cio& la universalila: u quelle idee
dimostrano, dice il C. M. , avere una
compreusionc (i) senza limite, onde vogliono essere de- u nominate non soltanto
generali, ma universali e infinite (a).
Poco innanzi egli reca in csempio I'idea astratta della sfericit^. Ella u 6
universale, dice. Impcrocche la ragione medesima, u per cui cssa idea convieue
a ciascuno di quegli oggetti onde u fu ricavata (3), la fa convenire con tulti
gli altri reali e u possibili , cbe fra le condiziuni varie del loro essere
inclu- u dono la sfericita. perclii il
numero di questi non i li- (i) Volea dire
eslcnsioiie Ogniin sa die ndia
lingua filosofica fu gc- ncralmcnle convcuuto, die sutio la parola di compreosione delle idee sindicasse il numero delle note comprese
iidlidca, e snito la parola di
estciisionc m il numero degli oggelli possibili a cui I'idea si slende:
di maoiera die i una enmune osscrvazioiie die si trova in tulle filosolie qudia
die la coinprensione e Ieslensione delle
idee slanno in ragione inversa fra loro , e die percid le idee di piii
comprensione liaiioo uiia minor estensione, doe seslendono a minori classi di
oggelli, e viceversa. Sarebbe desiderabile die il C. Mamiani avesse piii
famigliare il linguaggio de* file, sofi: perocdid mollo iiuuce al Irovamenlo e
aU'inseguameulo del vero Iim- proprietd del parlare. (i) P. II, X, 111. (3)
Siippniie anrhe qui per indubilato il sis'ema de' sensisli inlorno al- Iorigine
delle idee, e su di esso innalza i suoi ragiooamenli. Sicche se dtll'origiiie
delle idee non si potesse avere una corla scnieuza, come il no- stro auiore
prcleiide, ella sarebbe spacciala della sua lilosoiia 1 ella rimar- rebbe
mortalmeole ammalata del malore cronico die si cbiama scellicismo. Digitized by
Coogle 1 6 K mitato, ma trascende la creazione tnedesima e spazia iiel rimmcDsit^ del possibilc, coal I'idea
astralla della sfericila i vera idea
universale e di comprensione (estensione) in*
6nita, cioi a dire ch' ella i un tlpo e un esempio, nel u quale vediamo
rappresentata una forma di estensione pro-
pria a smisurato nnmero di soggetti ( i ) . Dunque, secondo il N. A., cio che forma II
proprio, il costitutivo deir idea universale, si i lo stendersi a tiitli gli
og- getti possibili da lei rappresentati , i quali sono infiniti. In questo
coDvengono necessariamente tutte le idee universali, e aenza di questo
carattere non sarebbevi universale. E per6 tornerebbe cosa assurda il partire
le idee universali in due class!, le une che si stendessero quanto il
possibile, cio al- I'indnito , le altre che non abbracciassero se non un certo
numero di oggetti finito. Queste ultime non sarebbero piii uni- versalis e ove
si desse loro questa appellazione, si abuserebbe con cio delle parole, si
mentirebbe filosoficamente, perocchd la menzogna de illosofl i appunto quella
per la quale essi travestono un oggetto alia foggia dun altro, e il fanno pas-
sare nel discorso sotto un finto nome e non suo. Si ritenga bene tutto cio ,
perocchi queste osservazioni ci debbono qua e cola cader piu volte in acconcio.
Per ora basta a noi di conchiudere, che formare un univer- sale, secondo la
trovata deCnizione, i quanto formare u un tipo o un esempio s come dice il
Mamiani, ove i rappresen- tato un infinito numero di oggetti, cio tutli i
possibili. Or bene: se cost i, il processo della formazione di tali Idee, dico
io, non pu6 esser che uno. Perocchi lasciando quello che in tale processo pu6
caderci di accidentale , noi ci dobbiamo finalmente sempre ridurre a questo, di
pervenire colle opera- zioni dello spirito nostro a formarci una
rappreseiitazione o un pensiero, che si stenda a tutta Iinfinita del possibile.
Ora o questa operazioiie colla quale la veduta del nostro spirito si stende alP
iftimensita del possibile contiene essenzialmente il giudizio conoscitivo, owero
non lo contieue. Se lo contiene, 0) P. II, X, JT. Digitized by Coogic 63 rebbe
fliiila del suo sisteraa. Veggiarao come conduce la sua dimostrazlone. Egli
comincia a porre per fondamento di tutto 11 suo di* scorso, che alia furmazione
dellu idee universal! concorrono continuamenle u tre sorte di atli: la
concessione dei termini u particolari paragonabili: il paragone di quelli e
Iastrazione u dell'identico : il giudicio della possibilltil d'una ripetizione
u infinita di esso identico (i). Fin
(jui egli. Jo non fo la critica di queslo passo , ebu troppe cose avrei a dirci
sopra^ perciochi non voglio iuterrompere il fllo del ragionamento cbe
instiluisce il N. A. Si fa egli dunque a provare, che la prima e la seconda
sorte degli atti, cos'i da lui distinli, lo spirito puA farli sciiza lin>
tervenzione del giudi/.io conoscitivo e di nessuna precedente idea universale.
Se la sua prova sia eiUcace, noi il vfcdrem bene, ma qui tiriamo ancora
innanzi. Viene alia lerza sorte di atti nccessarj a formare le idee universiili,
cbe u il giudicio della possibilita
d'una ripeti- zione infinita di esso
identico . Egli dee qui pure mostrare, accioccb^ sia provalo il suo assunto,
che auchc questo giudizio si pud fare scnza giudizio, si pud fare senza idea
universale, senza la stessa idea del possibile!!! Udiamo con quali parole egli
compie una tanto ardua iinpresa: u Quanto all' ultimo alto, il quale considera
I'identitd rile- u vata nel paragone, eome capace di essere ripetuta in
infinito u numero di soggetli, noi diciamo cbe colui il quale racco* e gliesse
qualche concetto d'identita senza possedere la idea del possibile c dell' impossibile, non
verrebbe certo a con- cepire la
moltiplicazione infinita di quella medesimezza. Non pertanto egli saprebbe figurarsela riprodolta
un numero in- a definito di volte.
Adunque escluso eziandio il concetto u della possibilita, il numero dei
soggetti nei quali vien tro- vato 1'
identico si fa di per se, e a poco a poco Indefi* nito
(a). Di qui egli vuole cbe si conchiuda, cbe dunque le idee uni- (i) P.
II, X, VII. (i) Ivi. Digitized by Google fi4 versali si possono fare senza
giudizio e senza it concetto del possibile! Se a1 mio discrete lettore coslasse
troppo i1 prestarmi fede , vada a vederlo nel libro del C. M. , che non i
sotto- chiave, ma alle stampe (i). Quanto a noi, sebbene potremmo mostrare che
senza il concetto del possibile non si puo raccogliere dallo spirito alcun
concetto d'identita, anzi ni pur forniarsi un concetto al mondo, e parimente
cbe sarebbe impossibile il figurarsi riprodolla la medesimezza delle cose il
piii piccol numero di volte ; tutta- via soprabbasta all uopo nostro di
attenerci alia confessione del Mamiani. Gonfessa egli, che senza Iidea del
possibile non si pu6 ri- petere Iidentita rllcvata dal paragone, in un infinite
numero di soggetti. Gonfessa, che I'idea universale dee essere infinita , cioi
dee stendursi a tutti gli oggetti possibili, i quali appunto per esser
possibili, sono infiniti, non avendoci nel possibile limite alcuno. Dunque,
conebiudo, secondo il G, M. slesso, senza Iidea del possibile non si formano
gli universal! : il che i appunto il contrario di ciu che dovevasi dimostrare.
Non vale il dire che Iidentico si fa di
per s& a poco a poco indefinito n. Sebbene sia falso anche qnesto, tuttavia
supponendol vero, io dico che Iindefinilo, ^ perdi sempre finito, (i) Vngliam
noi vedere confldenza clie tnerita la doltrina di un aulore, a qualclic segno
esirinseco, per cosi dire? Osserviamo se egli cammioa franco, o se teoicnna nel
suo slile, cio^ sc iiilrainetle ad ogni sua affcrnia- zioiic qualclie
parlicrila, o avverbiu, o aggcUivo die rcud.i dubbiosa, o piii veraineole
distrugga ralfcrinazioiie neirallo ebe la fa. Poniam caso ; si vuol saperc sc
alia formaziuiie degli iinivcrsali faccia bisogoo si o uo il giu- dizio
coQoscilivo' nel ebe sla lultoil nodo della questione. Come annuuzia il nostro
aulore si fallo assunlo? Con questc parole:
Verremo spoocudo Tolmente
conoscere, cbe di nulla forza i la ragione chegli adduce a provare dover riuscire
indifferente alia verita dello scibile, che I'idea dellessere sia innata o pure
fattizia. Egli dice, che quandanche quella sia innata, tuttavia rimangli ferma
la certa realita delle umane conoscenze, perchi essa idea dell'essere non ha nulla che fare col sussistere delle
cOse, u il quale i conosciuto bensi per mezzo di quella, ma non affermato e posto da quella ( i ). Or questa ragione sarebbe di qualche
momento se tutta la Terita o piuttosto veracita delle idee consistesse nellaver
que- te un corrispondente negli oggetti real! e sussistenti: alliu* contro esse
non hanno necessaria corrispondenza se non con de possibili. Piu tosto dovea
considerare il N. A., chc se Iidea dclles- sere non afTerma per sk sola nessun
oggetto sussistente, clla 6 per6 quella col mezzo della quale si conoscono
tutti, comegli stesso dice, quella che II misura tutti, e assegna a tutti la
loro quantita di essere, e per6 il loro valore. Ora se questidea i il mezzo di
conoscere le cose reali; non i egli necessario a chi vuol dare la
ditnostrazione della conoscenza, il dimostrare che questo mezzo non fallace? se ella i la misura delle cose, non
fa uopo provare che questa misura i giusta e non ingannevole? Non vale mica il
dire sempliccmente , che I'intuizione & di tutta certezza^ perocchi questo
bisogna non aflfermarlo, ma provarlo. E per provarlo, conviene mostrare assurdo
il contra- rio. Ora il C. M. a provare certa I'intuizione mediata della realiti
esteriore, trova un conllitto fra un fatto ed un razio- cinio, e per conciliare
insieme questo fatto e questo razlocinio, che sembrano contraddirsi, egli
conchiude chc fa bisogno in- trudurre II terzo fatto della realita esteriore,
che spieghi la conlraddizione apparente de' due primi fatti, pcrocchi, dice (I)
P. II, c. .XI. . Digitized by Google 7^ egli,
la contraddiuone del falli i setnpre apparente (i). Tutto ci^ sarebbe
vero ed efficace, quando fosse stato provato prima la veraciUi ed autoritii del
raziocioio: ma qaesta ap punto i quella che si vuol provare: dunque ci
avvolgiamo anche qui nel circolo. In qnal oianiera nscirne, se non si mette
prima ad esame il mezzo col quale conosciamo, e ragioniamo, cite e u I'idea
dell'esame n , e vedulol certissimo ed inialli* bile, ne caviamo di ci6 la
certezza e infallibilita della cono> sccnza, e del raziocinio medesimo?
Qualunqiie sia la realita esterna, allorchi noi la percepiamo, not aflermiamo a
noi stessi che i, noi le applicbiamo il pre- dicate dell'essere. Qaesta i
Iintuizione delle cose esterne sns- sistenti. Quesla intuizione adunque non i
un fatto semplice^ ella ha bisogno per operarsi, cbe sia in noi precedentemente
I'idea dell'essere, che i quella che s'applica alia cosa sentita, quando I'uom
dice internamente : qnesto cbe sento, .
Non si concede adunque al (llosofo, che proinette la dimo- strazione dello
scibile, di lasciare senza esame queslo elemento del sapere: lice a lui
cominciare dallinluizione come primo fonte del sapere, senza disaminare il
mezzo dintuire, che precede I'intuizione medesima. CAPITOLO XLI. Che se il
Mamiani avesse riputato veramente inutile pel suo sistema il soltoporre ad
esame quelle idee che sono supposte preesistenli in tutli gli atti intellettivi
che nello stato pre- sente noi facciamo^ non si sarebbe poi cost lungamente
trat- tenuto a provare in piii luoghi, che u I'atto di coiioscere dee u venire
considerate siccome no istrumento di plu aggiunto alle altre facoUa intellettive (a), e che
I'esercizio pin u semplice, piii immediate e piu elementare delle
facoltit di (i) P. II, c. V, III. Cbi glie Iiia delto che la conlraddiiione de
fatli i scinprc appareate? Convien rifletlrre die qui si tralla di provare la
verilk dello scibile; e pero non convieae ammettere de' priacipj a bizzelTe
come iDfallibili ; perocebi in tal caso si suppone prima ci6 che si vuol
provare. (a) P. II, IV, V. Digitized by Google 7^ u attendere, riflettere e
giudicare sembra indipendente da u questa coufusiuiie allignano i paralogismi
dogui njaniera. K niolto da usservarsi, chc aiiclic nello slesso capitolo dove
avea distiuto il giudizio dallalto di cognizioiic come una parte di questo,
riepi- logando poi lo fa presso a poco utia cosa con questo ; peroechA
dice tutte M quelle (facolt^) die
assistooo iminedialamente allallo di cogniziooe sou cuuteiiule ed epilogate nella facolta di
giudicare (P. II, c. IV, vit). Chi pu6
spiegare tauta inccrlezza ue' vocabuli, e uelle frasi ? chi Sara ob. bligato di
seguitare col pensiero tali frequenti variaziooi ? {1) P. II, XX, 11. (3) P. II,
c. IV, VI. Digitized by Google 79 Ollioiamenle. Ma i egli queato tulto lo scibile? questo non i ae
non quello scibile che Iuomo si forma coll'atto cono- scitivo tal quale
preseoteniente noi I'usiamo. Mi risponda duu- que il N. Autore I'una di queste
due cose: o non vi ha un altro scibile per noi, fuor di quello che vien formato
da que* sto stromento dell'atto e del gludizio conoscitivo; ovvero vi ha un
altro scibile, che Iuomo forma a si stesso, senza Iinter- venzione di quel
giudizio conoscitivo: qui non ci ha mezzo. Cosl adunque ragiono: se il N. A. mi
dice che tutto lo sci- bile umano provieue dall'atto e giudizio conoscitivo^ e
bene, gli dico io, dunque Iuomo usa sempre di questatto di cono- scere, dunque
non vebbe mai un tempo nelluomo nel quale egli potesse fame senza, dunque il
giudizio conoscitivo non i gia un istrumento di piu aggiuuto allaltre facolta
intellettive, ma i lo slrumento unico, necessario, universale, col qu;ile ope-
rano le facolta intellettive, o almeno la prima di esse da cui tutte I'altre
dipendono^ dunque i falso, come voi sostenete che senza il giudizio conoscitivo
si possono formare dclle idee; dunque non tutti gli universali sono fattizj, ma
ve nha almeno uno donato a noi per larghezza di natura, quello che iudi-
spensabilmente i necessario acciocchi si possa fare lo stesso primu giudizio
conoscitivo, pel quale voi stesso conoscete la necessita di un precedente
universale (i). Se poi il N. A. mi dice, che vha uno scibile formato da noi
senza I'atto conoscitivo, colluso piii elementare delle facolta intellettive,
come veramente talor dice e sosliene; in tal caso io gli rispondo, che dunque
lo scibile, di cui egli ha preso a di- mostrare la verity, non i tutto lo
scibile umano, ma solamente nna speciality di esso ( comegli suol parlare ), e
perer sno fonte Iuso delle facolta intellettive senz'alto cono- scitiro, e
qaali a quello che da questo atto fu generalo. CAPITOLO XLIII. Un solo elTugio
potrebbe rimanere aperlo al N. A. Egli probabilmeute ci verra dicendo, che nel
sapere pro- dottosi dallatto conoscitivo ci ha, nel presente stato deiruomo,
rifuso e rimescolato anche il sapere primitivo prodotto dal- I'uso delle
facolta intellettive prive dell'istrumento dell'atto del conoscere, che il
secondo sapere i ideiitico col primo, 6 il prima sotto altra forma piii
corapleta e piii piena. A turare questo bucolino abbiamo piu materia che non
bisogna alle mani. Primo, se egli ci afferma che il sapere presente, prodotto
dallatto conoscitivo i identico sostanzialmente col primo sapere formatoci
senza I'atto del conoscere^ noi gll faremo osservare die egli i obbligato a
dimostrarci quests relazione d'identila^ il cbe egli non fa. Se poi vuol farlo
, gli i forza di entrare a discutere qual sia la natura e la qualita de' due
saperi, ed egli s'h dichiarato, che a parlar del primo non vuole entrare, e cbe
parlarne non si pu6 per alcuna certa scienza, ma solo per conghiettura : eviteremo, dic'egli , qualunque disamina
e qualunque ricerca coiigctturale
suU'origine e formazione pri- M mitiva dei nostri peosieri n (i). Cbe s' egli
anco non sen- tisse scrupolo del violare quests promessa, e noi Passolviamo
dalla sua parola^ ma il suo discorso per6 sulla natura dello scibile primitivo
non potrebbe essere tutt'al piii che conghiet- turale, t per6 I'identita de'
due scibili non rimarrebbesi dimo- strata mai, ma solo conghietturata. Secondo,
io ho dimostrato giii prima, esser cosa assurda e impossibile chc nello spirito
inlellettivo v'abbiano due facolta volte alio stesso oggetto, o due process! di
operazioui condu- (i) P. II , c. Ill , VI. Digitized by Google 8i cent! allii profliir.ione Ji
uno idcnliro iaprrc. Percio se egli i
vero, che il giuilixio conoscilivo produca lo scibile delluoino adulto, ma
quello non bisogni pnnto alio scibile deU'uomo infante nel quale le facolta
intellettive operano senza Iistrn- mnto dellatto conoscilivo^ dee seguitare di
conseguente, che i due scibili, prodnzioni di due processi diversi, e di due
fa- co1t4 e istrumenti diversi, sieno pure diversi fra loro. Quan- danco per6
fossero identici e di forma diversa, I'ufficio di chi toglie a dimostrare il
sapere umano dovrebbe esser quello di dimostrarlo vero soUo enlrambe le forme,
acciocch^ niuno potesse dubitare, che nella forma si collocasse qualche altera-
zione della verita del sapere^ e il C. M. mostra di avere avnto sottocchio
questo vero, quando si consiglici di dare una di- mostrazione dello scibile
presente deUuomo sotto tutte quelle selle forme, nelle quali , a suo parere, si
manifesta. Terzo, I'autor nostro stesso viene a concederci la difTerenza dei
due scibili, o almeno non la csclude in mode da non lasciarne dubbio. Perocchi
egli oppone a sd stesso, che lo sci- bile presente ne suppone un precedente,
che gli universal! che nol formiamo ora col giudizio conoscilivo suppongono
degli universali precedent! al giudizio e de quali il giudizio abbiso- gna per
operarsi. E che risponde a ci6? Due cose. La pnma, che qnandanco preesistano
degli altri universali, a qnelli che noi formiamo col giudizio conoscilivo,
quegli universali preesi- stenti non tolgono perii la realita dello scibile.
Lallra, che non necessario die quegli universali primi sieno innati, pe- rocchd
possono in qualche modo esser formati colluso delle facolt^ intellettive senza
giudizio conoscilivo. Questo 4 cono- scere almeno come possibile, die vi
abbiano due specie di universali, gli uni formati senza giudizio, gli altri dal
giudi- zio collajuto di quelli^ i un riconoscere come possibjic che il primo
nostro sapere formato ndleta infantile sia la base del saper nostro presenter
che percio non sia identico con questo, ma da questo diverse, perocchi 4 come
il primo scalino della scala per la quale ascende Iintendimento deiruonio,
mcnlre il presente sapere ni il secondo. Cio posln, chi non vede che la verita
del saper nostro presente dipende dalla veritA del sa- pere primilivo ed
originale? chi non vede, die sc vi hanno Rosmini, // Binnovrimerito. i | 82
quesli due saperi eosi dislinti, anzi iumensameate divisi dal C. M., cgli i
uopo che si dimostrino entrambi, e non un solo? Ma il N. A. dice, che il primo
sapere, posto che vi sia,'noD nuoce alia reality e certezza del secondo. IVoi
ahhiamo vednto come egli Iahhia provato, cioi ahbiamo yeduto che non Tha
provato. Ma se non possiamo dire che I'abbia provato, possiamo perd dire che a
lui incumhe il debito di provarlo, perchi riesca valida la dimostrazione dello
scibile. Or o lo provi , o non lo provi^ egli da ugualmente in mano a' suoi
avversarj unarma tagliente contro di Ini. Se lo prova, egli dee necessariamente
venire a parlare del sapere delluomo qual fu (Ino daprimi suoi atti^ e in tal
caso gli faranno sovvenire quelle sue promesse di astenersi dal par* lare dclle
primitive e originarie notizie della mente, gli ram* menteranno, che egli
stesso ha dichiarato, che tutta la sna dimostrazione i volta a quello scibile
solo che scaturisce dal- Iatto conoscitivo, com egli da noi presentemente si
possiede, e che la prima maniera di scibile i stata da lui abbandonata. Se non
lo prova, la sua dimostrazione manca di base^ pe* rocch^ egli non ha provato
che le facolt^ intellettive che pro* ducono lo scibile senza Iatto conoscitivo
ahbiano una vera e non fallace autoriti di affermare o negare alcuna cosa, e
che lo scibile da loro prodotto sia base certa e ferma di quello che dee poscia
esser formato dal giudizio conoscitivo. CAPITOLO XLIV. Ma io ho ancora troppe
cose da sottoporre allaltroi rifles* sione, n6 so da qual meglio incominciare.
Dice il Mamiani, che la dottrina proposta nel Nuovo Saggio sidPorigine delle
Idee non pu6 turbare la sua dimostrazione dello scibile; perocchd quandanco sia
vero che Iidea dellessere preceda ogni cognizione faltizia, tuttavia quest
idea non ha nulla che fare col sussistere delle cose, il
quale i conosciuto bensl per mezzo di
quella, ma non affermato e posto da
quella (i); e la dimostrazione
data da lui, non i volta (I) P. II, c. XI, I. Digitized by Google 83
allinconlro, se non a dimostrare la rlspondenza del reale sus* sistente colle
idee, nella quale rispondenza sta la realiti o sia veritk dello ecibile. In
prima osserro, che se valesse questa ragione a disobbli- garci dal sottopporre
Iidea delPessere alia pin attenta conside- rasione per vedere sVlla forse
cinganni, questa medesima ra- gione varrebbe per poterci , anzi doverci
astenere dal favellare di tntte le idee, senza eccezione alcana, I'esatne delle
quali non potrebbe oggimai piu entrare in un trattato suirumana certezza. E in
vero, si mette per certo, cbe Iidea dellessere non al- tera la verita dello
scibile, perch^ con essa non si afierma o pone alcuna realiti, ma solo si
conosce. Or che cosa fanno di pih tulte I'altre idee di qual si voglia natura
elle sieno? qiial i il loro uflicio, se non quello di farci conoscere le cose
sus- sistenti 7 Pongono elle forse le cose sussistenti 7 Quando le po- nessero,
esse le creerebbero, le produrrebbero di si. In tal caso, lungi che tali idee
fossero teslimonj accooci della veritii delle cose, sarebbero incessant!
fingitrici a noi di sogni e dillusioni. Ma n pare Vaffermare le cose
sussistenti, non che il porle, i znenomamente ufBcio delle idee. 11 N. A.
confonde continua- mente I'idea col giudizio, due cose disparatissime^ il
giudizio af- ferma il sussistente, ma Iidea non ia che ajutarci a percepirlo.
L'idea non i che la concezione della cosa possibile^ la cosa poi concepita
viene affermata sussistente dalloperazione del giudi- zio in occasione
principalmente delle sensazioni prodotte in noi dallazione della cosa su di
noi. O conriene adunque, nel ragionare che si fa intorno alia certezza,
ommettere del tutto la disamina delle idee, che sono i primi mezzi della
conoscenza^ o se di esse si tien discorso, forzi cominciare dalla disamina
dellidea dellessere, idea-ma- dre, mezzo universalissimo alia formazione di
ognaltra idea o concepimento. CAPITOLO XLV. / Ma egli i manifesto il modo, ondc
conviene deliberare qiie- slo partito. Delle idee parlar bisogna senza alcun
dtibbio, a Digitized by Google 84 chi vuol (llmostrare lo scibile, imperocche
essendo quelle i mezzi del conoscere, egli
nopo diniostrarle mezzi sicuri, legittiaii, e non possibili a conteuere
inganno (i). Ni solo si dee fare tatto ciu delPuniversalissima idea oude si
coDOsce tutto^ ma ben anco delle meno uoiversali, quali SODO le generiche e le
speci&che, onde si conosce ana parte delle cose. Ora il N. A. parmi, che
anco qui venga oltremodo zoppi- cando. Perocch^ in snl primo muovere del suo
ragionare, da una pienissima fedc alle idee generiche, e ad esse si affida come
a sicura guida, senza aveme prima parlato, e mostratele esser guida
fedele. vaglia il vero, si consideri con
quali parole egli proponga a ai stesso (Ino a principio il problems della dimostrazione
dello scibile: egli dice cosi: Provare
le notizie umane i rimuovere ogni
dubbiezza e legittima dall'afTermazione cheincludono: eciib non in quanto ai singoli oggetti di conosoenza, i quali
sono infiniti ;ma in quanto alia forma loro coraune. Imperocchi facciam e caso che la forma
generale di ricordanza sia dimostrata certa
ed irrepngnabile, uliora la verita di tutte quanta le ricor- danze divicne possibile, e la falsita di
alcune i da recarsi a cagioni fortuite
ed estrinseche (a). Ora che cosa i
questa u forma comune di cui si parla?
(i) II C. M. riconosce in certi luoghi, che non vi ha maoiera dt certi- hcare
il sapere umauo, se dod raettendo ad esame i mezzi di coooscere, che fiaalmeale
souo i fuati> le origiui del sapere. lliassumeodo le sue dot* triac, egli
stesso dice di averoe costruito ** le basi sopra la critica dei no* M stri
mezzi canoscitivi * (P. II, c. XX, tv) mostrazione. Ora questo i ben supporre
di troppo: egli h on farsi nessun caso dello scetticismo critico: e pure questo
si pu6 dire I'unico sistema scettico, di che sia necessaria la confutazione ne'
no* stri tempi. Tirisi la conseguenza circa al metodo seguito dall'autor no-
stro nella sua dimostrazione dello scibile : ella i questa : La via contraria a
quella presa da lui d Tunica da battersi: le prime che debbonsi dimostrare
veraci sono le idee, essendo esse i mezzi di conoscere i sussistenti: quando e
couverso egli le vien prima supponendo : fra le idee poi la prima che esiga
dimostrazione 6 la piu elementare di tutte, Tidea delTessere, ed egli se ne
lava le mani (i). (i) Non si pu6 mettere in dobbio, cbe il C. M. non riconosca
le idee ancbe generali per mezzi di conoscerc. Anzi egli dice, mero stragrande di siogoiari, ma unimmagine
per cost esprimerci del- o I'esseoza siessa delle cose e una sorla di
ricostrnzione mentale di quella ( P. II,
c. XIV, vi). Egli dice adunque di piii clie uoi non vogliamo. Digitized by
Google 87 CAPITOLO XLVI. Ma sebbene in pi& Iiiogbi il N. A. dia alle idee
nna pie* nissima fede, e quinci muova la dimostrazione dello scibile^ tuttavia
in altri luoghi torna ad esse: e toglie a diinostrarne la realiUi, cioi la
corrispondenza loro agli oggetti; percfai, di cegli, il reale caduto sotto la facolU nostra
conoscitrice, w prende nome di veritA
(i). Dimoslra dunqne le idee, in quanto, secondo Ini, inchiu- dono
unaffermazione del reale (a)^ ma non in quanto ser vono di principi diretti
della mente, cioA in quanto sono fon- damento alle classificazioni delle cose,
ecc. Questa distinzione A I'unico spediente cbe mi si dia innanzi a conciliare
in qual- che modo una tale contraddizione dellautor nostro, il quale comincia
dal supporre le idee veraci, e poi a provarne la rea- litA loro lungamente
favella. Se non cbe, di vero egli parmi non ben provveduto nella scelta del suo
soggetto, qnando da una parte difende le idee rispetto ad un ufGcio cbe esse
non faanno, e dall'altra lascia tenza difesa il loro uiBcio vero, proprio e
naturale. LufGcio cbe le idee non banno, e loro attribuisce erroneamente il C.
M., A quello di rappresentare e afTermare i sussistenti; e in provare il
legittimo adempimento di questo supposto loro uflicio egli s'acuisce e si
travaglia : Iufficio cbe banno A quello di dirigere lo spirito nostro nella
percezione e nel ragiona* mento, del quale esse stabiliscono i princip)^ e di
questo egli non parla, ma incomincia a dirittura dal snpporlo. CAPITOLO XLVIL
In cbe modo poi il N. A. difende IufScio cbe le idee non banno, e cbe egli
cbiama la loro realitA? Non mai altramente, cbe dedncendo questa realitA
pretesa delle idee, dalla questione tanlo bestemmiata della loro origine. NA
solo fa ci6; ma egli insegna cbe non si pu6 fare al- tramente. Dopo essersi
proposlo la questione della realitA delle (O.P. II, c. U. (2) In. Digitized by
Google 83 idee in questa maniera In cbe
gnisa mai piiossi aflTerniare
delToggelto quel medesimo die della sua idea (i)? ri- sponde u Noi affermiamo ed
asseveriamo die questo si oltiene u o coi fatli del senso intimo, o non
altrimenti . E perch^ ciii? sattenda bene alia ragione che ce ne da: imperocch^ u in quelti soli & il
principio della cogni/.ione (a); il che
e quanto dire, perch^ in quelli solo
I'origine delle idee. Ma poich^ il Mamiani ha si sovente protestato di
volere al lutto recidere dal suo ragionamento la questione arcana delle origin!
delle idee, il mio lettore, cbe non avesse sottocchio il libro di lui ,
potrebbe lenersi alquanto sostenuto a credere alle mie parole, sebbene
docnmentate sempre fin qui di fe* deli estratti deUopera che esaminiamo. Peru
ad acquistarmi piena fede, non mi sara inutile ribadire il chiodo di do che
osservo, con una sopraggiunta dallre citazioni , che mostrino quanto poco abbia
il Mamiani altcnuta la sua solenne pro* messa di separare interamcntc le due
question!. CAPITOLO XLVIir. In prima vedemmo aver cgli diviso questo sapere in
certe dassi o generi, o come egli le chiama, u forme gencriche di verita (3)^ e aver poi tolta ciascuna in mano, e
datole prova. Ora secondo qual principio, o norma, divise egli queste sue varie
forme del sapere? Principalmente secondo la loro varia origine. Non a me; ma si
creda alle parole di lui, che rias- snme questa sua classiGcazioue delle varie
forme di sapere cosi dicendo: u Guardando poi alia cognizione in s6 stessa e
alle sue forme u e ALLE SUE ORIGIN!, ella DEE uRoeEDERE o dalla intoizione
im- mediata, ovvero dalla mediata: per
giudicio semplice o per giudizio
dedotto; dal proprio esperimento ovvero dal detto altrui n (4). (i) DelToggetto non si puu mni
atTerniarc quel inedcsirno, die della sua idea; percliA Ioggetto di uua idea,
elidea sono cose disparalissimc e inco- coiniiiiicaliili. Qiiaudu adunqiie
sa(Termasse delloggetlo quel medesimo che drllidca, uou saremmo noi gia
pervenuli alia verila, ma si heue precipilali nell errorc. (o) P. II, c. II,
II. (5) P. II, e. XVII, 1. (4) P. Il, c. XVII, i. Digitized by Google E secomlo
qiicstordine si lolgono a provare ncl libro del Mamiani le varie class! dclle
cogni/.ioni noslre. La questione adunqne dellorigine delle idee tanto A lungi che
sia eliminata nellopera dd Rinnovcuncnlo della Jilosofia italiana, cbe anz!,
seguitando i pass! de buoni autori della nazione nostra (i), essa dA il
fondamento a tnlta la trattazione. Di pift: pel C. M. lo scibile non A vero, sc
non in grazia della sua origine, cioA in grazia e in virtu di quella origine
che cgli ad csso altribuisce. Questa origine A I'energia della mente, la quale
crea lo scibile, e in quanto lo crea, esso sci- bile A vero. in quanto poi non
lo crea, egli riman qui limitato nella sua veritA. u Quello cbe limita
la creazione del vero dalla parte u dellintelletto si A Iesterna
impulsione ( Iimpressione de- u gli oggelti corporei ), e a tal conGiie appunto
vien meno la a nostra certezza, stantecbA se noi produciamo sillogizzando 1 le
prove deiresterno, giA non dicbiariamo in nulla con ci6 u nA la sua natura nA
quella dcgli atti suoi^ e perA dell'nno u e dell'altro siamo cost incerti come
ignoranti. All'oppoflo, u si (inga Ioggetto delPIntuizioue essere nelle nostre
idee sol- u tanto e nei gruppi e mile separazioni diverse cbe vi an- u diamo
determinando. Cerlo A allora cbe 1' intelligenza con u tutte le forze della
propria spontaneitA rimane creatrice sola u del vero^ siccome incontra agli
Algebristi e ai Geometri, i H quali variando, compiendo e ordinando proprii concetti ge* nerano i loro teoremi, la cui certezza
distendesi tanto, quanto u la materia pensata, cIoA a dire cbe in tali
invenzioni la cer- tezza e la scienza
vanno d'un solo passo (a). La certezza
adunque A tanta, quanta A la veritA creata dalla mente ^ dalla qnal creazione
della mente nasce ad un corpo gemella la scienza e la verita. Di cbe
concbiude Non fa meraviglia pertanto u
se tutto Iumano senno procaccia di giungere alia condi- zione della geomctria e dellalgebra , cioA
aspira a mutarsi in bella e grande
creazione di nostra mente, e questo A il (i) II C. M, cooft'ssa loslo dopo, che
nel diviilere il sapere in classi sreondo I'orlgine sua, si'guilu un passo del
platonico Francesco Palrixio , PelU qiieflioni jteripateliche T. I , Lil).
xiii. (u) P. II, c. XVII, 111. BosMifli, Il Rinnoyamcnlo. la 9 . . I fine superiore di lulto lo scibile (i). Loda pertanto il ' Vico noitlro, di cui
pensa innovare la dottrina, il cui intenlo dice essere stato di proferire a un tempo medesimo il cri- terio della certezza e il criterio della
scienza (a). | Noi faremo nltrove i
commenti che merilano questi concetti; e qui noteremo solo, die il N. A.
attigne cosi ogni certezza dello acibile immediatamente allorigino di esso; e
per6, che la que* atione dell'origine a niun filosofo pu6 esser pih cara e piii
ae- ceasaria, che al N. A., il quale a solo suo. danno altre volte la
diapregia. E veramente se incontrasse esser vero un altro sistenaa dell'origine
delle idee, diverso da quelio sul quale il Mamiani ragiona; se vero fosse, che
la mente non crea la verlta, come egli afferma , ma questa altronde
derivandosi, alia mente fosse aolamente comamcata e quasi consegnata in
deposito; in tal caso i ragionamenti tutti dell' A. N. s'anderebbero , come suol
dirsi, a spasso. Dunque egli i indispensabile a lui, che le idee tutte sieno
faltizie , ed opere, o com' egli pih elHcacemente dice, creature della mente: e
che ogn'altra filosolia iutorno al> Iarigiue delle idee si contenti di
ammutolire. CAPITOLO XLIX. Quelio che sdibiamo detto della prova del sapere in
uni* versale , cioi che il C. Mamiani la deduce dalla formazione di esso (3);
pu6 ngualmente dirsi di altre minor! parti dello sci* bile, di cui egli toglie
a dar prova specialc. Tre esempj ci po* tranno bastare. In prima veggasi come
egli prova I'idea di sostanza. Ne parla in due luoghi, cio6 al Gap. V e VII
della P. II del suo libro, e in tutti e due i luoghi non fa che dedurla, non fa
che mostrare come I'iutelletto debba col suo pensiero legilti* xnamente venire
ad essa: il che non i altro che rintracciare quale ne sia I'origine legittima.
Veggasi in secondo luogo come va provando I'idea di causa i (I) P. II. c. XVII,
III. (a) Ivi. (3) Nol vogliaino ogni general forma di conosceiua
eslrorre dal* Ilutuizione immediala m
(P. II. c. YU. vij. Digitized by Gmyle 9 nel Cap. XIII. Egli comincia
Jairattriboire la incerlezza u e la
discrepanza delle dotlrine intorno la causality
(') ^* var) pareri de' filosoS intorno la sua origmCf alcuni volendola
sperimentale, altri formata per una deduzione di gindizj. A1 fine dunque di tor
via tante diflerenze, e stabilize una certa dottrina sulla sostanza, egli entra
a mostrame la genuina for* mazione*, il cbe fa originandola mediante certi
giudizj di pa* ragone, cbe rimangono poscia inosservati: u In qaesto
nostro principio, ogni cosa ha la sua
cagione, il predicato non sembra entrare
nella concezione del subbielto; e ci6 perchi
il predicato 'risulta da
gitidicii di paragone, e per6 m t ORiGins si cojigiunse al subbielto
sinteticamente (a). Indi la prova della
sua realitii. Un terzo esecnpio pu6 essere Vassoluto , il qual pure egli vien
provando per una deduzione della sua idea^ e cosi fa it N. A. di tutti i veri
da lui certificati: ma i documenti 6n qui allegati giii sembrano essere anche
troppi al bisogno. CAPITOLO L. Cfaiaro i dunque, cbe il G. M. non prescinde
dalla qnc* stione intorno alPorigine delle idee*, ma prova tutto il sapere
umano mediante I'origine di esso. Come dice egli dunque francamente Noi non ci mischie* remo punto alia controversia sull'esistenza
delle nozioni in- genite e dei giudicii
a priori sintetici (3)? Non veggo che
rispondere in favor suo,- se non, essersi alia sua mente rappresenlati due
sistemi intorno all'origine delle idee^ I'uno cbe ammette qualche prima luce di
verity risplen* der nellanima per natura, I'altro cbe dii all'anima il potere (
sebbene cieca a principio ) di produrre a si stessa , e for* marsi tutti i veri
colle sensazioni, e altre sue operazioni. Ora il C. M. prescinde dal primo di
questi due sistemi, rilegan* dolo nel regno delle eongbielture; ma non
prescinde mica dal secondo, anzi questo secondo il fa perno a dovervi inganghe*
rare il suo sistema, che tutto si rivolge su di qnello^ e questo (1) P. Il, c.
XIII, I. (a) Ivi. (3) P. II, c. Ill, VI. Digitized by Google 9 egli par die
voglia dichiarare, ove aiTerura di non voler me> scolarsi nella conlroversia
delle origini. Ma onde repula egli necessario di rigettare il primo di que- st!
due sistemi? u La ricerca intorno le origini dell'intelli- genza i di natura congelturale e nun
posiliva (i): per& ove su queste
origini fosse basata la prova della conoscenu, ella pure non rluscendo cbe
conghietturale, non sarebbe prova,^ II N. A. vago di maggiormente giustiCcarsi
sopra cio, e ren- dere questo suo argomenlo via piu forte, dice ancor piu, so-
stenendo cbe quelle origini sono al tutto inescogitabili; sebbene * veramente
Iessere ad un tempo congbietturali e inescogitabili non s'accordi iusieme,come
osservammo: u Non ^nostro intento, u cost egli, ni nostro bisogno di svolgere e
riandare in nulla a i procedimenti natural! del senno umano nella formazione K
originaria di quelle verila cbe compongono il senso comune. u Arcane e
inescogitabili sono le genesi tulte della natura (2). Sarebbe stato dunque un cattivo metodo il
nostro, vuole egli dire, se noi avessimo dimostrato lo scibile parlendo da
delle origini cbe non si possono conoscere. A maraviglia. Ma per la medesima
ragione, ni anco quelle origini sulle qnali il C. M. fabbrica il suo sistema
possono essere fermissima base al medesimo, se non sia provata pri- mieramente
la loro cerlissima verila. dilBcilmente
elle po- tranno aversi per eerie, quando non sieno dimostrate false e
impossibili le altre origini delle umane cognizioni^ perocebi la verity non h
mai doppia^ e se la scienza in noi ba unorigine, non polrebbe essa aveme
un'altra. E giacebi il C. M. non re- puta cosa assurda, cbe I'umano saperesi
formi coll'uso di qual- cbe nozione ingenita, ma solo dice non potersi ci6 ben
sapere^ supponiamo cbe la cosa sia. In tal caso non sarebbe piu vera la
deduzipne delle idee abbracciala dal Mamiani, ni solido riu* scirebbe quanto vi
edifica sopra. Non dee adunque bastare al Mamiani di venir esibendo alcuni probabili, da cui
sia u rimossa qualunqueassolula impossibililan (3)^peroccb^ quello cbe si
fabbrica sul probabile, non e piii cbe probabile, e quello Ae si fabbrica sul
possibile non i piii cbe possibile : or il prin- 0)P. I,c. XVI, e.oafor. (a) P.
II, e. IX, iii. (3) P. II, c. XI, iv. Diyii.'::ri by Google J)3 cipio della
cerlezza non s' erige nk sul probabile, ni sul pos> sibile. vale il dire,
chc Iallra strada k congetlurale, c imprati- cabile. Questo, se vero fosse,
proverebbe, cbe I'uonio non pu6 giungere alia certezza. II volere evitare una
ricerca ueressaria alio scopo del ragionamento cbe si fa, perch^ ella t arcana,
non appartiene al buon melodo: egli i un voler marciare a dlspetto e a ritroso
della ualura: un voler violentare la verita: an fab- bricarsi innanzi un idolo
del vero, anzichi trovare lo slesso vero: uno acegliere le opinion! secondo
-Iutile cbe se ne spera, non secondo il loro valore intrinseco, il quale 6
iodipendente da noi, e da' comodi nostri: perocebi il valore delle opinion! 6
il grado di loro verity j e questa non i lecito immaginarccia, ma dobbiamo
umilmente impararla leggendola tale quale sta scrilta nel gran libro della
natura (i). (i) II C. M, dice . La terza poi :
ogni prova circa la realita dello scibile, percbi sia rationale e produca scienza, non po6
appoggiarsi alia con- vinzione istintiva
dei giudicii a priori sintetici n (t). Ognnno vede, cbe messo in un dialoghetto
il modo di ra- gionare del N. Autore, riuscirebbe pure alquanto cnrioso e pia-
cevole. C. M. Voglio dimostrarvi la veritii dello scibile. J). In cbe modo il
farete voi? C. M. In prima conviene cbe mi spacci di quella molesta qiiestione
delle origini dello scibile stesso; io la dicbiaro con* gbietturale, e se mi
permettete, anco di piii, al tutto inesco- gitabile. D. A vostro bel piacere:
ma se non si pu6 saper nulla del modo onde le cognizioni sieno apparite nelle
menti nostre, rimarra incerto ugualmente cb'elle ci sieno piovute di cielo
colla rngiada , o che ei siano spunlate in sul cervello come i funghi 'sii per
gli greppi. C. M. No, no. Io non posso ammettere i giudizj a priori: queste
origini intendo sbandeggiarle interamente dalla mia dottrina. D. perche.non li ammeltete voi? per che lor
colpa li sbandeggiate? C. M. u Percbi se i giudicii a priori sintetici
esistono, essi non convincono la
ragione, ma la violentano . Dunque non
ci sarebbe piu la verita dello scibile. ^ (l) P. 11, C. lit, VI. Digitized by
Google D. Beoe sta^ ma c'i biaogno che quesla veriUi dello tcibile ci sia,
anche se ella non c'i? prima dimoslrate che ci sia, e . poi ditemi qnello che
volele della sua utiliU e deaaoi/pregi. C. M. Non la dimostro io? D. Scusatemi,
se mi vi oppongo. Egli pare a me, cke>.voi non sentiate il hisogno di
dimostrare la verita dello acihile: pcroccbi voi I'ammettele senza dimostrazione
alcuna. E non cominciate voi dallesciudere i gindtzj a priori per Tunica ra>
gione, che quelli torrehber via la verita dello scihile? Dunque questa verita
prima di tutto Iammettete, e con questo prirao dalo chella ci sia, e che non si
possa levare dal mondo, voi andate avanti, cacciando in prima i giudizj a
priori, o piii to* sto condaonandoli come rei di stato alia pena capitate.
Maiii- feslamente adunque voi non dubitale di ammetter da prima aiccome bella e
dimostrata la veriU dello scihile, se vi spac* date cost in favor suo d'ogni
cosa che vi da molestia, od im> pedimento al vostro cammino. A che dunque
dimostrare quello che avete posto per induhitato nel primo cominciamento del
vostro discorso? CAPITOLO Lir. il Mamiani pud replicare, che quelli che si
credono giu- dizj a priori forse non sono altro che failure noslre istinlive
rimasteci dall'infanzia, defatti della quale elk non vuol par- lare: perocchd
i.Noi provammo essere assurdo Iassegnare al sapereumano due origin!
esseniialmente diverse (i). a.* Coll aver egli delto, che i giudizj a priori,
se veramenle esistessero, gli sconcerterebbero la sua dimostrazione delsapere,
egli s d messo da sh in obbligazione di mostrare, che quelli non sono, nd
posson essere^ abhaltendoli iu ginsla e leale tenzone, non pugnalandoli , quasi
direi, nelle tenebre. 3. Dove poi gli accordassimo esser possibile, che nell
in- fanzia il sapere umano proceda per operazioni essenzialmciile diverse da
quelle cbe 1 uomo usa in allra eta ^ lultavia non (I) Cap. XXXI. 9^ gli reslcrebbe al suo inlento qiiesta mera
ipotesi, queslo Jbrse ; ma gli converrebbe provare, volendo trar profiUo dalla
nostra concessione, che la maniera onde Iadalto si forma lo scibile, 6 diversa
sostaniialinente da quella onde lo si forma il fan- cialletto. E qiiesto cgli
nol pu6 provare: perocchi egli vnole, che le origini del sapere nel bambino
sieno inescogitabili, o tutt'al pill congetturali : dunque i impossibile di
saper mai, o di provare con certezza, che sieno essenzialmente diverse dalle
ori- gini del sapere nell' adulto. Possono esser diverse, die' egli; dunque
possono essere le medcsime, dico io. Ed ecco come la sua maniera stessa di
parlare non eccede il conghietturale, o piii tosto il possibile: u Qui
ripeliamo, che le analisi e i
ragionamenti prodotti da noi a prova u d una porzione dello scibile umano
possono diflerenziare a assaissimo da quelle analisi e da quei sillogismi, onde
si i tratti la prinia volta a credere il
roondo esteriore ed il u mondo passato; conciossiachi non ^ nostro intento, ni
no- u slro bisogno di svolgere c riandare in nulla i procedimenti u natural!
del senno umano nella furmazione originaria di
quelle verila, che compongono il senso comune (i). Cid chc parmi singolare in questo passo
si k il trovare, chegli da al fanciullo delle analisi e de sillogismi co quali
sia venuto al conoscimento del mondo esteriore, e tuttavia mette in dubbio cbe
le fiinzioni della sua mente sieno della specie medesima a quelle della nostra.
Or quelle analisi, e sillogismi, avranno si o no i costitutivi delle analisi e
de'sil- logismi. Se no, non erano analisi, nd sillogismi^ se si non dif-
ferivano essenzialmente da quelli delluomo adulto. I costitu- tivi essenziali
non debbono esser sempre i medesimi? I sillo- gismi del bambino, se sono sillogismi,
non doveano essere della stessa forma e nalura di quei d' Aristotele ? Tutto al
pih pos- sono ditferire nella cagione cbe li muove, nascendo al bam- bino
istintivi i sillogismi o i giudizj, quando quelli dell'adulto o pin tosto
alcuni di quelli dell'adulto son liberi o sia mossi ad nn decreto dell arbilrio
: ma ci6 per nulla altera o muta la loro nalura, e la loro forma csscnziale.
(l) P. l\, C. I\, III. Digitized by Google CAPITOLO LlII. 97 PerciA quango dice
il C. M.: a noi non pare veruimile u
ch'ella (la nature) ci meni alia conowenia dei primi veri u per una serie
fatale (i) di giudicii istintivi, nA taropoco
si osa da noi negarlo risolutamente', questo lolo ne pare u certo, che
ella ha volnto fornire alia mente adulta e con
templatrice una sicura facoltA di riconoicere e giudicare i u fondamenti
delle comuni credence (a)^ queste parole
non possono avere aicnn altro significato se non questo: quantonqne i primi
giudizj fossero istintivi, e non mossi dalla nostra lU bera volonia, come sono
i presently tuttavia debbono' avere avuto la stessa forma e natura de'
presently e perdu collesame de present!, col trovare la presente forma del
giudizio e del raziocinio certa e infallibile per sA stessa, viene ad esser
prO- vata pienamente anche la veritii de' giudizj e de' sillogismi in fantili^
perocchA quest! non differiscono, nA possono differire nelle essenziali loro
note da quelli che di presente usiamo. Quanto poi all'essere istintivi i primi
giudiaj de bambini, ansichA ci6 debba parere inverisimile, come dice il N. A.,
anzi non possono in modo aleuno esser altro cbe isUntivi^ giaccbi non acquista
I uomo la libertA dell arbitrio , cbe buon tempo appresso queprimi giudizj,
mercA I'ajnto del faveilare, il che crediamo aver noi altrove pienamente provato
(3). (i) Per iatuire i primi priecipj, non fa bisogno di una aerie di giu- ditj
cip], senza i quali oA pur parlerebbe. Ci6 A cooseguente altresi al
nostro sistema , che riconosce ionaturata coll uomo quellidea che A ella stessa
i primi priucipj: peroccbA i primi principj nun sono cbe la grande e miste*
riosa idea dellescere, considersta nelle variesue applicazioni, come si mostra
chiaramenle oel N. &>ggio sal f Origin* delle Idee , Sex. V, c. w. Egli
non A vero duoque, che Iuomo ahbia bisogno duna serie di giudixj per intuire i
primi principj: ma A il JiXosoJo cbe n'ha bisogno per riOettervi sopra> e
colla riflessiooe trovarli, e, se mi A lecito di usare questo vocabolo, /br>
mularii. (a) P. II, c. IX, iii. (3) IV. Saggio suit Origiae deUe Idee, Sez. V,
c. IV, art. ly. Jt Jlinnoyiunaito, i3 9 Ma a cui piacesse andare a caccia delle
conlraddiziuni dt-I N. A., il che uoi non facciaino se non quel tanlo che ci
bi- sogna alia trattazione nostra, potra ritornare alia faccia del suo libro
(i), dove il trovera impegoatosi a provare ap- punto, che il Irapasso della nostra attenzione da un
oggetto u ad an altro, e da un tutto a una parte, owero dalle parti al tutto correspettivo, possa accadere per
solo concatenamento u d'impulsi istintivi, senza interposizione alcana didee
astratte u ed universal! ^ e questo egli
illumina appanto collesempio del fancinlletto che sugge il latte della nntrice.
CAPITOLO LIV. Ma gi4 osservammo, che se i giudizj e i sillogismi primi
dell'uoDio, sebbene mossi da virtu d'istinto, anziebi da un fine
predeterniinato dalla volontit, non fosscro della forma e natura medesima de
present!^ in nessuna maniera il Mamiani avrebbe dato dimostrazlone di quel
sapere primo delluomo, che i il germe e la radice, se non anco la zavorra, per
cosl esprimermi , del saper nostro presente. Perocchd ' o le forme del sapere
priniitivo si contengono nelle forme provate dal C. M.^ o alia sua
dimostrazione sfugge qualche forma di sa> pere, quale e quella del sapere
primitivo ed eleraentare. E pure egli non vuole che gli sfugga bricciolo del
saper nostro, che non sia sommesso alia sua dimostrazione, dicendo egli: Perchi Iatto conoscitivo, ossia I'istrumento
quotidiano X ed universale di tutto il sapere veste un modo costante e X
proprio, di cui ci convienc csplorare la realiti e Iuso, ac* X cade di dovere
illustrare il gludicio conoscitivo (a).
Qui I'atto conoscitivo & chiamato x I'istrumento quotidiano X ed universale
di tutto il sapere ; il che non pu6
voler dir altro, se non che non si di sapere senza I'atto conosci- tivo, e che
peri) anche il sapere infantile dee farsi coll'atto conoscitivo. Ne puo dirsi,
che quest'atto conoscitivo varii nei suoi costitutivi essenziali quando si usa
dal bambino^ peroc- chi non senza ragione nota il Nostro Autore, ch'egli veste
un (1) P. n, c. IV. (3) P. II, c. XX, II. Digitized by Google 99 tnodo costante
e proprio il quale non po6 Variate, percli^ esser variabile ed csser costante
sono cose contradditorie. Se egli dunque trascura di parlare dello scibilc
primitivo, e parla solo del presenter giova credere che il Mamiani ritenga
quello esser contenuto in questo, e lo scibile umano non va* riarc
essenzialmente secondo il variare I'uomo d'eta^ e per6 av> visi, che
dimostrato lo scibile I nella> condisione in che ora Tabbiam presente
allanimo, sia'anco dimostrato in quella condizione in che I'avremo nellultima
nostra veccbiezza , o in che I'avemmo nella nostra prima infansia; perocchi
altramente converrebbe dimandare per quale eta della vita umana abbia scritto
il N. A. la sua dimostrazione- dello scibile; cosh che tornerebbe un rero
imbroglio a deGnire. Per me ad ogni modo sto con Cartesio, il qual dicea, che
una proposizione vera, sa- rebbe vera ugualraente non che veduta da bambini o
da vec- chi, ma quaudo anche noi la trovassimo o la formassimo so> CAPITOLO
LV. II contrario sarebbe cost strano, come a dubilare se Ioo chio del bambino
non vegga alio stesso modo delPoccbio del'* I'adulto, o se I'orecchio udendo i
snoni, Iodorato Gutando i sapori, facciano nella prima eta unoperazione
totalmente di* versa da quella che fanno in noi presentementc. Fondare simi*
glianti dobitazioni, come fa il G. M., sul non aver noi remU niscenza di ci6
che ci i avvenuto nellinfanzia, ^ cosa, a mio awiso, assai frivola: perocche
anco senza ricordarcene, pos* siamo per6 sapere, che le potenze essenziali
airuomo sono sempre le stesse, ed hanno nn loro operare proprio e immuta* bile:
percio possiamo pure sapere, che quello che ci ha di es* senzialc nclle
operazioni di esse potenze, non potea nel primo tempo esser diverse da quello
che ora trovianio essere, e da quello che sperimentiamo tuttodi in noi: percio
assai bene e con tutta sicurezza noi argomentiamo a quello che fu jeri, o
I'auno scorso, o venti anni prima, sebbene or noi I'abbiamo dimenticalo^ perocclii
la mano ha latto sempre da mano, il piedu da piede, e I'intellcKo da
intelletto. too qui il G. M. (teMO ci
ragion. u Errano, dicagli, i filosoH, qaali taTviaano per ua tiene, cite ri pu6 a rilevare la forma certa
ed esaenziale del* u rintelletto . Or
queata, se i cerU ed eisenaiale, non man* clierii mai, dove vi abbia
intelletto^ e per6 anche ne primi tnomenli delluomo ella sar^ la medesima (i).
Non ci sarebbe qni altro scappatojo, che il toccato, cioi neirinfante non es-
serci intellettn^ e qnesta potenaa, che i il fondamento della specie nmana,
venir formandosi di poi nelluomo; il che sa> rebbe quanto dire, I'uomo non
nascer nomo, ma divenirlo. Ma non oso io, ancora lo ripeto, altribnire un tanto
scerpellone, come credo dover esser qnesto presso ogni savio, al G. M. Riman
dnnqne, che anche le prime cognizioni, i primi gin> dizj, i primi sillogismi
che noi facciamo, sieno della steasa na* tura de' presenti: e che perA collo
studio de'presenti nostri pensieri, e della loro forma immntabile, si possa
pervenlre a conoscere la forma essenziale de primi. E anche questo dice
espressamente il G. M. Dopo aver egli afiermato, che Iorigine e la generazione
de nostri pensieri e possa dire cbe ci6 solo sembra, quaodo non veggo modo a
creder possi* bile cbe Iiolelletlo si generi in noi prima della nostra vita. Di
poi non suona queslo passo in modo da far credere, cbe Iinlellello slesso non
ci sia gib dalo dalla nalura, ma generatosi in noi dopo il cominciameolo di
nostra vita? (i) Alla P. II, c. IV, V, siniroduce il C. M. a parlare dell atio
cono- scilivo : e percbi gli bisogna far cio? percbi 1* inluisione cbe presla ma> M leria alio
scibile umano ha sempre la forma generale di coooscenza Dunque , dico io , da
per lutio ove sarb inluisione , quesla avrb sempre forma di conoscensa , e V
inlerverrb sempre Iatio conoseiliTO. Dunque b uoa manifesta iocnerenxa del
nostro aulore, quells di retiringere, dopo un tale esordio, il suo ragionameoto
sopra Ialto di cnnoscere con quests clau* sola ; oparlando dello slalo preseote
del nostro intelletto m. Egli dosea par- lare di cio cbe i essenziale allallo
di conoscere, e pero coslaiile in esso, io qoalsivoglia stato deH'inlelletlo.
Altrimenti il suo ragionare non coocbiude cosa alcuna di fermo. Digitized by
Google 103 per iegge deir esscr suo
congettarale (i); soggiunge pef6 uoa
op|)Osta sentenza, ch'egli chiama an aforismo, la quale dice cosi: X La storia
deirinlelletto nella sua porzione congetturale u dee sforzarsi per ciascuna
materia di convertire in tesi Ie- u nunrialo di questo problema Trovare un legame si fatto u tra il presenle
stato dell intelletto e il suo primitivo igaoto, u clie, discoperto Inn termlne
della relazione, Ialtro discuo- X pra medesimo necessariaraente n . spiega questo suo aforismo nel modo seguente:
La dove non giunge I'osserva- u zione, giungono i principj logici, i quali per
la natura loro u uuiversalissima abbracciaou il noto e I'ignoto insieme. Gon X
questi, e non altrimenti, potra il filosofo introdurre alcua X grado positivo
di scienza nella storia congetturale del pen- X siero " {3). Dalle quali
cose apparisce, tutlo il contesto del ragionamento del C. M. potersi esporre
dialogizzando a questo modo: C. M. lo voglio trattare la questione della
certezza dello scibile, senza toccar punto quella delle origin! delle idee. D.
Perehfc? C. AI. Perchi la questione dell'origine delle idee i x per Icggc
ddl'essere suo congetturale n . D. Oode polete dir ci6? C. M, La ragione i
qnesta, che x la nostra rcminiscenza X non pu P. I, c, XVI, a.* for.. ! v io4 u
fenomenica dell inlelletto, che oiuna idea e niun principio ri- u mane
saperiore a queUi, e che ninn senM>, niun giudicio, ninna eaperienza i bastevolea generarli (i); il che ^ quanto dire, convien mostrarc
che tutte le altro cognizioni hanoo origine da quelle prime: ma quelle prime
non hanno origine da altre cognizioni ad eue precedenti. Si fa dunque di qui
ma- nifesto, che la quettione dellorigine delle idee e delle cognizioni qnella sola che rende possibile a trattarsi
Ialtra della cer- tezza dello scibile. Ciascuno gih savvede, che Iargomento or
da me recato a provarlo, non h solo mio, ma di un autore a cni il C. M. non
pii& negar piena credenza; perciocchi esso d tolto dal libro del
Rinnovam-nto della filosofia antica italiana, P. I, C. XVI, a.* afor.* Adunque,
secondo I'antore di quest opera, I." Le cognizioni umane discendono le une
dalle altre come conseguenze da principle ma re nha per6 alcona, cui u
niun senso, niun giudicio, niuna esperienza
h bastevole a ge- nerare . a. A
dimostrare quest ultima, basteri far conoscere che clla non ha origine in
niunaltra cognisione antecedente; men- tre a dimostrare quelle prime, converra
far conoscere la loro derivazione da quella prima, a cui come a veritii
indimostra- bile ed evidente quelle si debbono rivocare e raggnagliare: perci6
le one e le altre solamente nel discorso della loro ori* gine trovano certa
prova e ferma diuiostrazione. () Ivi. Se
Ti soDo de' principj non geoerati, ni possibili a geoerarsi da niun senso, da
niun giudizio, da niuna sperienza, oode saranno questiT Non sari la nalura
stessa quella ebe ce li aari dali seuza topera uoMra? Cosl il uoslro autore,
quandu gli bisogua, non si fa coacienza dinlrodurra de priucipi iunali, cbe
allrove ezclude; e ne introduce per avventura p'U cbe iioi lion gli
diinaudiaroo; perocchi iioi non ainmeltiaino principj iniiat>> ma solo un
scmplice priucipio de principj , come i nolo. Digitized by Google LIBRO SECONDO
DELL ORIGINE DELLE COGNIZIONI UMANE. . .
I r; f "1 -'m! : '! ih H Ci
bisogn'a provare con la itorla feaonieDica
deHintelletlo, cbe niuoa idea e aiun prin- M cipio rimane auperiore a
quelli ( i primi principj), e cbe moH
aiiiao, kick cicoicio, V NiDRA LarEaiEKza a aasriyoLz a ciMaaaLiii. ^ MjmijIIU.
P. I, c. XVI, 2. afor. ) ciso, di evidente. II che per vero i un getto infinito
di tanti pronti ingegni, di cui T Italia i fecondissima madre^ i qnali, dove
tarebbero idonei di giungere ad un saper solido ed utile a'buoni progreMi delle
scienze, utile all umanitii^ preferiscono in quella vece, male iilituiti, e
imbaldanziti dal vigore cbe pur sentono nella immaginazione e nell intelletto,
di avveo- tarsi a cogliere, anzi che frutti, le prime frasche che rimirano
verdeggiare, compiacendosi tosto in medesimi quasi avesser gia un certo scggio
tra piu grandi uomini , per solo aver messi, vogliam dire, alcuni articoli in
qualcfae giomale, di- speusatevi delle palme, versatevi delle idee immature,
vaghe, false, e de seutimenti giovanili, talor generosi, ma tali, di coi essi
stessi non hanno n^ calcolato il valor reale, ai quello, pel quale si possono
spendere. II qual difetto gravissimo procede finalmente da una cotal negligenza
e mollezza intelletluale, per la quale chi scrive dor* roicchia, e non vigila
sull esattezza e snila precisione logics di ci6 che dice^ ma senza curarsi gran
fatto nd che le parole sien proprie, ni che i concetti che con quelle esprime
siea chiari , nclti e costanti , n^ che i ragionamenti sieno filati s
coDsegoenti^ saccontenta di metter fuori quanto per avven- tura gli viene in bocca,
purchi sia cosa che mostri e prometta assai, che abbracci in qualche modo 1
universale, sia gigan* tesca nel concetto o nella frase, e talora mostruosa.
Che $e a costui fosse fatta, e facesse a si stesso una cotal obbligazione
morale di pensare e di scrivere logicamente, nou iscriverebbe egli pill quello
che non sa, e ogni cosa direbbe con aggiusta* tezza almeno apparente, almeno
intenziooale, e sarebbe una verita, o un prudente e assennalo lentalivo di
trovare una ^ verita. Venuto in tal condizione , lo scrittore ha un fine, an
fine nobile, snblime, una importante missioned ma nella con- dizion eontraria
egli scrive, e non sa il perchi^ empie di grandi fogli, e di grandi volumi , ma
non ha per6 detto a si stesso che si voglia col versamento di tanto inchiostro;
i una pieti il vedere, che egli non iscrive che per iscrivere, e perchi gl>
altri dicano che egli ha scritto. Digitized by Coogle 107 E per6 son io talora
venuto in desiderio, che come si fanno de'giornali (mezzo tanto efBcace, dal
quale non s' i cavato ancora tutto il bene che si potrebbe) che tassano gli
errori di lingua^ cosl se ne facesser di quelli, i quali intendessero solo a
casligare negli scrittori gli errori di logica: giornali che riuscirebbero
forse aiquanto minuziosi, e stucchevoli al palato gnasto di molti, ma che
varrebbero tullavia assai meglio di tanti altri, i quali taglian s\ largo, e
promettono mart e monti^ conciossiachi per me io antepongo uoa minuzia sola di
vero, a an monte immenso di falso, di vano, d'ambiguo, di alterato e di
contraflatto. E spero io bene, che an tal giornale, se si scrivesse da qnalche
valente e discreto uomo, vorrebbe raddirizzare le gambe torte a molti che
scrivono', e sarebbe per avventnra una scnola di logica pubblica, solenne,
nazionale. Or quali incrementi non potrebbero aspettarsi le scienze , che
immenso profitto non dovrebbero averne gPinte* ressi delle famiglie e quelli
della nazione, ore aggiustassimo anco solo on po meglio le nostre teste? 11
perchi i da con> fessare, arerci certe cotali minuzie, se cost si voglion
chiamare, le quali arrecano dopo di s6 delle conseguenze tutf altro che
minuziose. Volesse Iddio che gristitutori della nostra gioventu posse* dessero
tanto di senno da poter insegnare a' loro alunni questo solo, di essere
coerehti ne' loro ragionamenti ! Chi potrebhe dire quanti mali non
s'eviterehbero pur da questo, che gli uomini s' allevassero in modo da dover
sentire il bisogno di porre una ferma coerenza ne' proprj pensieri? chi
prevedere i beni , che procederebbero da si minimo principio? L'apprendere
a'gio* vanetti questo solo, varrebbe loro assai meglio d' infinite co* gnizioni
positive che lor si dessero, le qnali a che pro si dannq a quelli, che non han
I'arte d'usarle? Or venendo a noi, io debbo confessare, che in traendo a luce
non poche incoerenze del G. M., ebbi in animo, oltre che di mostrare la falsita
della sua dottrina, di dare altresl an co* tale esempio agl' italic! scrittori
di quella cerla pigrizia e las* sezza di intelletto, che fa lo scrittore
indulgente scco stesso, e peril vacillante ne passi suoi, contrario a si nelle
sue alTer* mazioni ; il qual peccalo non i per avventura piii del Ma* 1 oS
miani, che daltri molti^ anzi polrei agevolmente fare delle osservazioni
somigllanti a quelle cbe feci esaminando il Jiin- novammlo della filosojia
antica italiana, aopra altri ed altri libri , che fra di noi escono in pubblico
alia giornata , e cbe sodono ben anco altamente lodare: e dico fra noi, non ro-
lendo io affermare, che qoesto Tizio *ia minore presso le altre naztoni, che
nella nostra*, toa cbe ci dee piii importare a noi altri italiani, che di
correggere noi stessi? Badisi dunque a conoscere se le cose da me notSte sieno
vere o false, se sieno di grande o di picciol momento nello loro conseguenze; e
non si cerchi in esse quello cbe non ci puo essere, qnello che non ci ho voluto
io medesimo porre, am- piczza e fervor di parole, calde immagini, e celere volo
di nn pensiero spaziante per immensi campi , e non posaotesi mai dovecchessia.
Io saru assai contento, e creder6 daver tutto conspgulto, se i pochi letlori
miei diranno a s stessi, che quello che hanno letto non i fiorito cd ameno, ma
i vero. L indole del presente libro tuttavia vorra essere un pomeno arida di
quella del precedente. Questo si propone di entrare in una questione piii
grande, di esaminare le dottrine del Maraiani intorno aU'origine delle idee:
perocchi abbiam gia veduto, che sebbene il N. A. minacciasse di astenersi da
qne- sla question capitale, tuttavia egli poi vi si mise dentro assai, tiratovi
dalla^ neccessila dell argomento che trattar volera, la certezza del sapere
umano, argomento che non patisce di an- dar diviso da quello dell'origine dello
stesso sapere. Ed anzi d principalmente in ci6 che risguarda Iorlgine dell
idee, che il C. M. piglia a confutare il Nuovo Saggio. Nel che non credo
inutile Iosservare, come egli non abbia posto attenzione a tutto il trattalo
intorno la certezza, che sta nella Sczione VI del N. Saggio medesimo, e che i 1
argomento proprio e definito del libro del Jitnnwamento ^ e come in quella vece
abbia preferito discender meco a tcnzone in un argomento da lui detto arcano ed
oscuro, nell argomento delle origin!, che egli pronuncii fino inescogitabili.
Noi dobbiam dunque scguitare i suoi passi^ e peru esamiaeremo i suoi pensien
sul- 1 origine, innanzi di teoer dieLro ft qtielli che versftno iatorno Ig
certezza del sapere. Digitized by Ciu ogle CAPITOLO I. in^ OnnlNF. SSCONDO IL
QUALE PROOCDE QUBSTO LIBRO. QDALI COSE II. C. MAMIANI Cl ACCORDI IHTORMO ALl'
ORIGINE DFXLE IDEB. E nellesame a cui poniam mano , noi seguiUremo questor-
dine: da prima cercherenio che cosa il N. A. atnmeUa per certo intomo all'
origine delle idee, e in che a'accosti al modo del pensar nostro: di poi
riferiremo che cosa egli riprbvi net Dostro sisteina, e in che da noi si
scompagni. Or egli primierameote con espressissime parole ci concede, che colui, il quale raccogliesse qualche concetto
didentitA c senia possedere la idea del possibile e dell' impossibile, non u
verrebbe certo a concepire la moltiplicazione infinita di qnella medesimeaza (). Queste parole da noi anche pin sopra
allegate, sono di gravissima rilevanza. Imperocchi con esse il Mamiani ) viene,
senza dubitazione alcana , a stabilire che i necessario che preceda Iidea del
possibile alia fonnazione degli universali, e che qnesti in alcana maniera
formar non si possano da uno spirito, il qnale non avesse gia prima una tale
idea. E veramante il N. A., come vedemmo (a), riconosce ed arnmette fra i
costitutivi esseuziali dell' idea universale la sna infiniUl, cio^ Iapplicarsi
ella a tutti i possibili singolari, i quali sono sempre infiniti, ed i per
questo appunto, secondo lui, che le idee meritano il titolo di universali, di
maniera che senza questa infinita estensione, universali in niun modo elle non
potrebbero nominarsi (3). . . .. I ~ SliLl. (i) P. II, c. X, VII. (a) Lib. I,
c. XXVII. '' (3) ** Quelle idee dimostrano avere una comprensioae (estensione
)sefixa > iiiescogilabili , e che la
notizia di quest! fatti essenziali (cioe
di ci(b che v' ha nellidea d' immulabile) u non pu6 emei> gere da un' espericnza illimitata e
perpetua, e la cagione prtnia ed eificiente di quell! resta sepolta
all' occbio nostro intellettuale (i). Ma che? a no! pare d! averlo qn! p!u
vicino chegli non creda. Imperocchi quando no! abbiam detto , Iidea dell'enle
possiblle non esser di nostra formazione , e per6 dataci dalla madre natura;
non abbiarao mica voluto splegare in che guisa e con quale artiGcIo essa natura
ce Iabbia inserita^ ma piii tosto abbiamo solo considerate come identiche
queste due pro* posizioni ; non essere 1' idea del possibile di nostra
formazione, e; Iesserci quella data per natura. CAPITOLO 111. ALTHS CONSEGOeNZA
: LA NOSTRA DOTTRINA NON Pu6 ESSERB DAL MAMIANl RIFIUTATA SENZA CONTRADDIRE A
SB STESSO. Ma io voglio far rilevare ancor piii , di quanta importanza sia la
concessione che mi fa il C. M. , convenendo raeco in questo, che non si possono
in modo alcuno da noi formar le idee veramente universal! senza che prima noi
possediamo Iidea del possibile : questa concessione contiene tutto intero il
mio sistema. E di vero, chi medita quale sia la natura delle idee, trova che
non v ha unidea sola, la quale non sia universale : cio6 non sestenda a tutti i
possibili in lei rappresentati e determi- nati; io ho dimostrato questo vero
nel Nuovo Gi6 che pu6 far parere il contrario, si k solo il non consU derarsi
Iidea nella sua purita, ma mescolata con degli ele- ment! a lei eterogenei.
Nella prima formazione delle nostre idee, principalmente di cose corporee, che
sono quelle a cui diamo quasi unesclusiva attenzione, I idea i sempre applicata
ad un essere reale: ella e, come dissi nel Nuovo Stiggio, una perce- (i) P. U,
c. X, VI. Digitized by Coogle 1 i3 zionp, e non un' idea pura (i). Gunvieiie
alteutamentc fissaro la diflerenza che separa la percezione dallidea. Quella i
com- posta di pill operazioDi \ quando questa i sempiicissima. Si attcnda a
quello che fa il mio spirito aliorchi purcepiscc in ragion desempio nn giglio.
In me nascono due cose: io ricevo Delia mente la forma del giglio , e di piii
io acquisto la per- suasione che sussiste un giglio reale corrispondente a
quella forma da me ricevuta. Queste due cose , sebbene contempora- nee, sono
diversissime di natura^ e la prima pu6 sussistere senza la seconda. E
veramente, poniamo che trascorra buoii tempo dopo la vista da me avuta del
giglio; io posso al tulto dimenlicarmi di quel giglio particolare da me veduto,
posso fin anco perdere la memoria di essere ana fiata entrato nel giar- dino
del mio amico, dove vidi e percepii quel candido Gore; e tattavia mi puu
rimanere intatta nella mente la forma , la rappresentazione ideale di lui ,
rappresentanza che io non so pin riferire a niuno de' fiori individnali da me
vednti, e ritengo pure nell'intendimento si come una mera possibilila di Gore.
Per tal guisa il tempo ha prodotto nel mio spirito la scum' posizione della
percezione nelle due sue parti; Puna 4 perita, cioi la persuasione che quel
fiore individuate e reale di quella fatta natura e in quel dato giardino
sussistesse; Paltra si i conservata, cio si i conservata quella parte che in si
rac- chiude tiitto ciii che vale a notificare alia mia mente, e rap- presentare
il fiore, non a darle la coscienza della effettiva siis> sislenza di lui. Or
questa parte che soprasta, i evidentemente cosa distinta dalla prima che i
perita; e percid ella si vuol segnare con nome diverso dalla prima, c non usare
un vocabolo eguale per tutte e due : il che non farebbe , e non fece che
produrre in- finite eqnivocazioni ed errori nelle filosoGc. II Dome che fu
posto dalP uso del parlare devolghi, non meno che delle scuole, a quella parte
die rappresenta alia mente la cosa, senza indurre in essa alcuna
|>ei'suasione di sua reale sussistenza. fu quello d'idua {iSea), e di Grecia
([uesto vocabolo fu comunicato a tutte le nazioni; da'Latini fu anco (i) Scz.
V, c. IV, art. V. RosMiNi, Il Riniioyaiiii nil}. i5 Digitized by Google "4
traslatalo nelle voci species , forma , exemplar (i): voci tuUc, che Dulla
aflatto esprimono della sussistenza reale d una cosa, ma tolo indicaDO la
rappreaentazione ideale, o notizia di una cosa nella sua essenza, cio^ nella
sua possibilita. Che ae poi ai cerca di che condizione sia I'altra parte della
percezione, cioi la persuasione che
surge uel nostro spirito della reale e individuate sussistenza delloggetto
percepito egli Sara facile a conoscere, che la nature di essa quella di un interno assenso, o sia di un
internu giiidizio che noi fac* ciamo sulla suasisteuza dell oggelto
rappresentatoci nella mente (coir idea). C veramente il pcrsuaderci che uii
oggelto sussiste, che cosa i allro se non una parola interna che noi diciamo a
noi stessi, un giudizio che suona cosi:
la tal cosa (a me uota per Iidea o rappresentazione ricevutaue)
sussiste ? II giudizio adunque sulla
sussistenza reale di una cosa individua, non si pu^ menomamenle confondere coll
idea della cosa: quesla idea da Iinlera notizia della cosa, ma non pone ancora
la sua reale sussistenza : viene il giudizio, ed afferma a noi, che quella cosa
che conosciamo realmente sussiste : questo non agglunge un niinimo che alia
cognizione della cosa, ma solo ci fa sapere che ella sussiste in si: tale
operazione ha bensi bisogno deU Iidea, ma Iidea non ha alcun bisogno, per
esistere, di tale operazione del giudizio. Quello che rende quanto facile a
inteiidersi, tanto difCcile a ritener bene nella mente una si fatta separazione
dulla idea pura dal giudizio sulla sussistenza della cosa individua, si e il
farsi da noi queste due operazioni contemporaneameate, e per cosi dire
indivisamente, e per6 il parerci assai facilmente una operazione sola, e non
due. Ma convien rillellere che nell uomo non opera necessariamente una facolla
dopo Ialtra, e Iuna in separate dallallra^ ma che essendo 1 uomo stesso il vero
operatore, egli pu6 mettere, e melte bene spesso in movimento pit! facolla
insieme, e fa ad un tempo con un solo dccreto, con uno stesso impulse piu
operazioni. Si spetta dunque allasa^ gacila del filosofo il partire quegli atti
che in nalura sono si* multanei , Iesaminarli a parte ciascuno da s, stabilire
a cia- (i) Vrdi Cic. De Vnivtrs. II, Top. vii. Digitized by Coogle I 1 5 scano
la propria natura e le proprie leggl; e non allribuire ad uno ci6 cfae ad un
altro appartieoe. i Or venendo a noi, dico che quando si abbla per tal modo
sceverata 1' idea dal giudizio, e considernta quella prima nella sua pnrila,
cioi senza Iaggiunta di questo^ apparira manife* slissimo, che ella i per siia
propria esseoza universale , impe- roccbi non racchiude in alcuna persuasione
di un individuo come realmente sussistente, ma solo la rappresentazione di un
iadividno come possibile a sussistere^ e perci6 apparira, che I'idea pura si
distende tanto in la, quanto la possibility stessa, il che vool dire, che
abbraccia I'inflnito. i|co. . In quarto luogo egli snppone, che io ammctta
delle idee singolari, le quali diventino nniversali sol col pigliarsi a tipi o
rappresentaxioni di altri oggetti. Ma , egli non s'accorge, ben- cb6 in tanti
luoghi io Io ripeta, che le idee singolari per me non sono che idee impure,
cioft idee miste con un giudizio, la natura del quale i affatto aliena da
quella delle idee*, e die tali idee singolari o impure, che piu propriamente si
chiamano perrezioni , considerate nella loro origine, si fanno uuiversali con
solamente spogliarle di ci*. Ora egli A al tulto impossihile che dt*i mondi o
crcati o creahili si confurmino a lui
con M pcrfcttissima idcntlla Pcrciocche sc il tipo e astralto, c didec aslralle
composto, egli non potra gla rnpprcseninre se non dclle notc ascouder sotlcrra,
s*egli poiesse t quelU terrihile parola d'
iufinito, * che gli si presenta da per luUo, quasi umbra sempre
rnitiacccvolc, e iuesorabile coutro il suo sislcma ? Digitized by Google ella u
ha relatione necessarla con quante esistenze real! od ipotetiche si conformano a lei . Ma s ella i cosi , onde 6 il mio errore,
die non sia anche il suo? perchA mi pn6 egli condannare delPaver io delto ( se
pur delto Iavessi) che una idea ^ universale quando si risguarda come esempio
dinfiniti og- getli? non pare egli simile talora il nostro Conte a quel prin*
cipe che segnando le sentenze senza leggerle pose il suo nome alia propria
condanna? CAPITOLO V. r.ONTINUAZIONE. Ma io non ho finite ie mie osservazioni
sni breve passo , onde il G. M. espone la luia opiniotie snlla natura degli
uni- versali. lo debbo dirgli aucora molte cose^ e il lettore mi per* doni la
lunghezza, perocchi potra vedere egli stesso, che sono entralo nel gineprajo.
Adunque dico, che non io fo universale unidea, per qne- sto soltanto, chella
sia guardata da noi come esempio d in(I- iiiti oggetti^ ma egli bensi fa cio,
senza che io me gli faccia compagno in tale opinione ; il perchi la sentenza da
Ini pro* nunciata colpisce lui solo, e me lascia andar libero. La opinione di
lui non i veramente altra , che quella di Condillac, da me confutata nel primo
volume del Nuovo Sag- gio (i). Il Condillac, e non io, si i quegli che sostiene
conver- tirsi r idea particolare in una universale, col risguardarsi che si fa
quella prima per modello di cio che le assomiglia (a). Io dimostrai , che 1
idea non si rende universale per qnc* St uso che noi facciamo di lei^ ella i
universale per si, appunto perchi i nn modello per si; e col riportare a lei
(i) Sez. Ill, c. II. (a) 'er oggetto che il possibile, il quale i solo 1
universale, rinfinito: e*la i poi, per la cagionc slessa, tipo e base comune ad
inli- nili iudividui. Ma procediamo: dico in quinto luugo, che io non intendo
in che modo sia caduto in mente al N. A. di farmi dire nel passo surriferito,
col quale pretende sporre il niio sistenia, che io fo universale un' idea
singolare con questo ch' ella sia guardata come esempio x d' altre idee
iu(initu . (i) Si Vffjga lx
roiiliiiuaiione (11 (Jiieslo passo nel N. Sei. Ill, c. II, art. Xr Digitized by
Google lai Cliipolrcbhc capireun s'lslrano concetto? un'idca universale e un
esempio daltre inGnite idee? lo vogllo accordare, die vi possa essere Iidea
deiridca, cio nnidea riflessa ^ qocste idee riflesse formano una classe
parlicolare, e non hanno a fare colle idee in generate , e col discorso della
loro universalitli, L'oggetto dell' idea non ^ unidea, ma 6 una parte dell idea
stessa (oggctlo possibile): che se fosse unidea, s'andrebbe al* IinGnito:
perocch^ anclie questa idea sarebbe esempio dinG- oite idee, e ciasenna di
queste inGuite , sarebbe pure esempio d'altre inGnite, e cost va discorrendo.
Gosa piii nuova di que> sta non potca il C. M. inventare, e io consento che
il pub- blico giudichi mcrce preziosa cli'egli mi regala ^ ella i sposta agli
ocelli di tutti, acciocch^ ne faccian la stima. In sesto luogo Gnalmente, egli
me ne incarica unaltra non meno bella. Dice che una idea singolare io la rendo
univer- sale con questo, chella sia guardata come esempio di altre idee inGnite identichea lei pure in ciascun accidente
individualen. Troppe cose danno a considerare si curiose parole. Da prima
sarebbe a chiedersi, che cosa egli inlcnda per u accidenti delle idee n. Io so
bene che accidente & un ter- mine relative a quel di sostanza, e che per6 si
parla di acci- denti da per tutto ove si trova una sostanza. Ma chi ha mai
sentito dire, che nelle idee si distinguano accidente e sostanza? Se altri Iha
detto; non io. chi ha mai udito che vi
siano accidenti individuali r , altrovc
che in individui sussistenti c reali, e per6 non mai e poi mai nelle idee?
Poscia ho ben letto nel libro del Riwiovamento delta fdoso- fia anltca Ualiana,
che I'idea universale o tlpo ha
relazione u con quaute esisteiize reali o ipotetiche si conformano a lui u con
perfettissima identita (i)^ ma il C. M.
certo non (i) P. II, c. X, V Se fosse mio ufficio prindpale di raccorre le
coolrad- dizioni del N. A., qui ne iiolerei uoa manifests. Egli insegna,
che 1' idea universale cd aslraU,i ha
relazione con qiisnie esistcuze real! o
ipotetiche si conformano a lei coo perfettissima identita . Se ci avessu
questa perfettissima idcn|ita (cioi sirailitudioe) fra le idee uuiversali ed
astratte, e le cose da esse rapprescotate, ne verrehhe che le cose sarch- bero
perfcitamente conosciuto coo sole quelle idee. Ma il M. all'incontro insegna,
die le idee univcrsali non ci danno che una cogoizionc impeifelta Rosmini, Il
Rinnovamento, i6 Digitized by Google laa avri mai lelto nel Nmvo Soggib nulla
di questa perfet-i tifsima identity degli oggelti delle idee colle idee
astratte e comuni. Egli ci avra solo trovato, che fra le cose e le idee v'ha
una perfetta somiglianza (e non per6 mai perfetta iden* titi (i)) in an sol
caso, cioi rispetto ad una sola classe didee, a quelle sulle quali non i stata
ancora esercitata la operazione dellastrarre propriamente detto, ma che fur
solo prodotte me diante 1 universalizzazione che le rende universal!, ma non
ancora astratte. lo non mi credo giii qui obbligato di trascri- vere il N.
Saggio, perciocchi egli i alio stampe, ni col tra- scriverlo di nuovo otterrei
che fosse meglio lelto. Quella classe adunque assai limitata d idee , dove s'
avvera che gli oggetti sussistenti hanno una perfetta somiglianza con esse, son
quelle sole che io ho chiamate a specifiche
, e nb pur tutte queste, ma solo quelle speciGche che ho denominate specifiche imperfelte e specifiche
complete , e che ho ac* cnratamente
descritte nella Sez. V, Cap. IX, Art. VII, a cui il G. M., e i nostri comuni
lettori potranno, bramandolo, volger Iocchio. CAPITOLO VI. ESSME DEOLl
AaUOMEHTI CUB II. C. MAMIAMI USA COHTRO DI HOI. Ma egli i tempo che, dope aver
veduto con che esattezza il M. espone la nostra opinione sulla natnra degli
universal!, veggiamo altresi di che polso la combatte. Il passo in cui sta la
nostra confutazione, A il seguente: Or
non 6 tale certo il concetto che gli uomini tutti e quanti si fanno delle idee
universal!, imperocche nessuno mai e parzisle delle cose, perocchd da esse non
nocolgono che il simile, o come egli dice, IideDtico, e rigellaoo il variabile
del.le cose (P, II, c. X). Non d ella quesla cootraddizioae? (i) lu assaisaimi
luoghi il N. A. abusa della parola w ideotilA Se una idea avesse per idenliche
altrc iofiuile ideej quesic infinile idee non sa- rebbero che quella idea sola
ed unica: per esser allre da quella, debbouo di oecessilA avere qualcfae
differenza cbe da cssa le divide , c in lal caso cesscrebbero dall'esscre
ideiuicbe. Digitized by Google I a3 Iia
pensato che I'idea pecnllare d'an libro o dona meda* glia, perchi vengODO I'uno o Ialtra ripetnti
dai torch!! e dal conio migliaja di
volte, e per immaginasione nostra
mnitiplicati in inGnito, sia I' idea universale di quegli in* Gniti libri e medaglie. Ma ognnno intende che
Tidea uni* versale rappresenti di sua
natura il comnue di certe cose e u ommetta Tindividuale e perci6 include
forzatamente alcuna u astrazione (i).
Primieramente non tengo vero, cbe tutti quanti gK uomini siensi rotto il
cervello colla teoria delle idee universal!: la piii parte per mio avviso non
ci ha mai pensato, e non se n'^ formato alcun concetto. Parmi adunque che in
questo luogo, e in moll' altri, il N. A. appelli al senso comune degli uomini
in argomenti, neqoali il senso comnne non s'i mai intromesso nd gindice, n
parte. TuUavia foss' anco vero, che tutti quanti gli uomini in corpo abbiano
speculato sugli universal!, e nna sentenza formatasi intorno ad essi^ sta egli
bene ad on Glo* sofo di rapire a sh solo tanta autoriti, come i quella del ge*
nere nmano, e non fame parte a nessuno? sta egli bene, dico, di rapirla a si
con nn solo motto gratnito, non guadagnan* dolasi con ginste e ragionevoli
prove? Se vuole che Iuman genere stia per lui, metta fuori il suo mandate, cioi
rechi degli argomenti, co'quali provi che la sua opinione i nna con qnella dell
nman genere, o come dice egli ancor piu , de* gli uomini tutti quanti. Il fare
altramente, i un compromettere le convenienze della GlosoGa; perocchi queste
sono andate, quando nn Glosofo si procaccia quella poco riverente risposta:
quod gratis asseritur , gratis negator. TuUavia non vorremmo dargli il torto
quando egli aGerma che u nessuno mai ha pensato che 1 idea peculiare d un
libro sia Iidea universale di qnemolti
libri che vengono stampati cogli stessi
tipi . Se questa fosse la nostra opinione, non sarebbe esattaroente vero quanto
egli afferma, cioi che nessuno abbia mai pensato una simigliante caslroneria^
ma a render picnamente vero il suo detto, giova appunto questo, che ni (i) P.
II, c. X, IV. Digitized by Google pur noi I abbiamo mai pensato. E (|ucslo ci
scmbra a dir vero cosa mirabilc, I esser poluto il C. M. abbattersi in una sca-
tenza che nessuno abbia mai pensato! Di vero, chi mai avrebbe potuto pcnsare
chc a 1 idea pe- cnliare dnn libro o
d'una medaglia sia I'idea universale di u infiniti libri e medaglie, perch^
vengono 1 nno e 1 altra ri- u petuti dal conio o dai torchi migliaja di volte ?
Se quest! torchi e quest! conj che stampano migliaja di libri e di medaglie,
fossero quell! che rendono le idee universal!, ne verrebbe per conseguenza, che
non vi avrebbcro altrc idee universal!, chc quelle de' libri, dclle medaglie e
daltre opere somiglianti, le quali con torchi, o conj, o forme, o madri , o
punzoni, o altrettali ordigni si potessero moltiplicare, e che I'altre cose non
fatte a stampa sarebbero prive dell universale. Se poi una talc ripetizione
materiale di un oggetto influissc almeno a rendere Iidea pin universale^ ancora
ne verrebbe, che alle cose che si possono materialmente replicare, meglio
convenissero le idee universal!, che non a tutte Ialtre, mas> sime
spiritual!, le quali non hanno stamp!. Quanto a me, non credo bisogno di
scolparmi da una tale dottrina. Piit chiaro di ci6 che ho scritto nel TV.
Saggio , non so dirlo ora. Ivi ho assai di frequente dimostrato, che la mate-
riality dell oggetto non ha cbe fare coll idea, c che la ripe- lizione di quell
oggetto non conferisce menomamente a far st, che 1 idea si renda universale pin
o meno. Le cose real! con- tingenti non hanno che una relazione contingente
collidea, e non necessaria, pcrci6 non influente nella natura di quella, che y
necessaria. Ho detto di piii, tanto esser lungl, che le cose material!, o in
generale i sussistenti, conferiscano col loro numero grande o piccolo a rendere
piii o meno universale Iidea^ che anzi 1 universality d cos'i propria diquesta,
che cssa non y propriety o quality di veruno degli oggetti sussistenti; e ne ho
dedotto per corollario , che non i che apparente la uni- versality che noi
crediamo avervi in un ritratto, o in un sug- gello, o in una medaglia, o in un
libro: ella i una univer- sality aggiunta da noi, senza che noi ci accorgiamo,
a quel ritratto o a quel suggello, il qual vien preso allora non giy nella sua
entita materiale c realc, ma nella sua entity Ideale: Digitized by Google 1 15
in una parola, il ritratto o ii suggcllo non i univenale in qnanto esistc
materialmente , ma in quanto i concepito dalla niente , nella qual sola si
trova la relazione di somiglianza degli oggetl! a que tipi- Eicco un solo de'
molti luoghi del iV. Saggioj che potrei qui riferire: u Vero 6 che sembra a
primo aspetto che oltre le idee, v'
abbia qualche altra cosa che dir si possa in questo senso u universale: un
ritratto sembra universale perchd i rappre- u sentativo di tulte quelle persone
ch egli somiglia. Ma questo d un
inganno: il ritratto non ha questa proprieta dellu- K niversalita , se non in
quanto le idee gliela agginngono. E r
idea del ritratto quella che del ritratto e delle persone u che al ritratto
somigliano fa una cosa sola, cioi paragona, u e trova una simiglianza: questa
simigllanza non esiste gia u nel ritratto, ma in quell' una idea colla quale fu
pensato u il ritratto, e le cose a questo simili. L'unita adunque di quella idea i ci6 che costituisce la
similitudine che possono u avere le cose fra loro, come nel caso nostro il
ritratto colle u persone (i). Giova
credere che il G. M. nella lettnra del N. Saggio non sia giunto fino a questo
luogo. Ma non i mono aliena dal pensar mio 1 altra parte della ragione, che
egli arreca, perch^ una idea si faccia universale, cio6 perclii il suo
oggetto venga moltiplicato per
immaginazione in infinito , il che pure
dice non pensato mai da uomo di questo mondo. Trapasso, come legger fallo, che
qui non c' entra T immagi- nazione, ma la mente. Pill tosto noto esser falso,
che nessuno abbia mai pensato quella sentenza; imperdiocch^ uu autore almeno io
conosco, il quale pcns6 formarsi le idee universali appunto mediante il
ripetere che fa la mente i loro oggetti in inGnilo, e questo i 1 autore del
Rinnommento della fdosofia andca italiana. Egli traendo le idee universali dal
paragone de concreti , ne cava , che il moltiplicarsi de concreti, e delle
immaginazioni loro, influisca non poco nclluniversalizzazione delle idee. Luomo
che da concreti cav6 Iidea, saprebbe
Ggurarsi, egli dice. (i) Sez. V, c. XXV, art. i, nota. Vedi aiiclii; Scz. Ill, o. IV, art. xx.
Digitized by Google ia6 I riprodotta (I'identiti) un namero indcfinito di rolle
, e U il nnmero dei soggetti nei quali vien trovato Iidentico si fa di per sA, e a poco a poco indefinito (i): in nna parola, come abbiam detto di
sppra, il G. M. s'adagia a iidanxa neU Topinione del Condillac, che noi abbiamo
combaltuta, echo i tatt'allro che inaudita. Se r universalitii delle idee, noi
abbiamo riflettato, dipen- desse dagli atti di nostra immaginazione o di nostra
mente, qurlla non sarebbe mai vera universalita 5 perocch^ il nnmero degli atti
delle nostre potenze, per replicarli che noi fao- ciamo, riman sempre finito^ e
1' universality delle idee i in- finita, secondo la confessione del C. M.
medesimo. Dunque h vera la contraria opinione da noi esposta ncl N. Saggio, che
r universality delle idee propria
quality di queste, e non di- pendente dagli atti del nostro spirito: h una
attitudine, che quelle hanno di essere adoperate da noi si come luce a vedere
Iuniverso* possibile, attitudine che riman loro inerente, sia che noi
Iadopriamo o no, 0 ne facciamo molto o poco nso. CAPITOLO VII. COtniHCAZIOHK.
Ben oi spiace, che nella confutazione di che ci onora il C. M. , noi non
ahbiamo la buona venture di trovare una sola linea di vero: vorremmo subito
riconoscerlo, rendergli ginsti- zia, proclamare il beneficio che da lui
riceveremmo collinse- gnarci qualclie cosa , o comecchessia confessando ch' egli
dice il vero. Ma noi abbiamo in quella vece il rincrescevole dovere di negargli
tutto, di non passargli una linea sola del periodo riferito, senza o pnrgarci
dalle false sue imputazioni , o im- putare a lui gravi sbagli. Continuandoci
adunque nell'esame delle sue parole, ci restano queste a discutere: m Ma ognuno
intende che Iidea universale rappreseiiti di
sua nature il comune di certe cose e ommetta Iindividuale e perci6 include forzatamente alcuaa
astrazione . (>) P. It, c. X, VII.
Digitized by Google 7 Fermandoci in principio di questo periodo alia paroU ognuno intende , debbo losto conlraddire^
perocchi almeno io non la intendo cosl, e per6 non ognuno intende cid ch' egli
vuole . E come potr4 egli provare cfae io sar6 solo al mondo che la intendo
cost? potrei ben io provargli il contrario, im gassi cbe I' idea universale
non incliiuda furzatamenle alcuna u
astrazione n. Parrebbemi ch' cgli fosse in obbligo di sapere, confutando il N.
Saggi'o, cbe in questo libro si distinguono due maniere di astrazioni, le quali
hanno operazione diversa. L^operazione della prima coosiste nel levar via dal
pensiero dell'uomo u la rea* lita e
sussistenza della cosa ^ e questa piii
propriamente dee cbiamarsi, a parer nostro,
universalizzazione , peroccb^ e
quella appunto cbe forma gli universal!. Loperazione della se- conda si rivolge
sulle idee, gia universal!, gia formate dalla ope- razion prima. e astrae da
esse qualcbe qualita o essenziale o ac- cidentale. Ora si legge ancora io quel
libro, cbe sebbene a tuttc edue queste funzioni possa competere in qualcbe modo
il nome di astrazione, tuttavia questo nome ^ da lasciarsi in proprio , a fine
di cbiarezza maggiore, a questa seconda (i). Dopo di tutto ciu, egli &
manifesto, cbe se il C. M., a cui sembrami dover tutte queste cose tornare
novissime , non avendone egli fatto cenno nessuno, intende dire dover esser
necessaria la prima astrazione percbi s abbiano gli universal!; egli dice
ap> pouto quello cbe noi diciamo, e pero la siia sentenza rispetto a noi ^
proferita indarno. Se poi intende cbe faccia bisogno la seconda astrazione a
costituire gli universal!, egli s inganna e si contraddice. S inganna, pcrcli^
veJemmo cbe ogni nota di un individuo , tosto cbe non sia piii nella sua
realita ma nella nostra raeute, i comune e possibile a replicarsi infiuita*
mente. Si contraddice , peroccb!^ egli stesso ammettc die 1 u- niversale non
sia cbe il comune, e abbia bisogno, a furmarsi nella mente, dell idea del
possibile. (i) Vtdi il A' Sngiin .Scz. V, r. IV, all i, J 3. UoSMiNI, Il
JliiwOf'iWIflltC 17 Digitized by Google CAPITOLO VIII. 1 3o DISSIPATE I.B
OBBIEZIOKI DEL C. MAMIAKI, SI COMINCIA leSAME DELLA SDA DOTTHIMA, DASDO ON
SAGGIO DEGLI ERRORI E DELLE CONTRAD- DIZIONI Dl QDELLA. Le quail cosc ho dovuto
dire per la difesa del vero. Ma ora io sooo astretto di fare anco la parte di
assalitore; imperocch^ senza qiiesto, ni la difesa fatta sarebbe intera. E cid
cfae mi da lena di mettermi in cotali viluppi si h la spe- ranza , che fra via
mi venga il destro di aggiunger qualche grado di luce maggiore a de veri
importanti. Piglierd ad esarainare primieramente il Capitolo X della II Parte
del Rinnovamento , il quale ha per titolo: Delle idee universali , e pot delle
generali. Dove prinia di tutto, noto apparire, quello che ho gid detto, il
Mamiani non aver conosciuto quel vero importantissimo, recato a piena luce nel
Nuovo Saggio, che non avvi una sola idea para, la qual non sia universale. Egli
all incontro seguita nel pregiudizio condillachiano, che le idee altre sieno
vera- mcnte singolari, altre universali. Quelle prime facilmente le con>
fonde colle seiizazioni^ queste seconde (ciod le universali) le confonde colle
aslratte. In si fatto modo gli sfuggono dal- Iattenzion della mente quelle idee
universali che hanno luogo tra le senzazioni e le idee aslratte, e nelle quali
convien pur cercare e meditare il concetto delluniversalila delle idee. II qual
primo errorc d della massima imporlanza , e serpeggia menando guasto in tutta 1
opera del N. A. Or egli sintroduce a parlar degli universali, considerandoli
siccome una congiunziune delle cose simili in fra loro. PerciA egli dice, u noi
entreremo a considerare la relazione che passa u tra le cose coiifornii e le
non conformi, la quale puu de- u nomiuarsi relazione d'analogia (i) e di
differenza . E u in u cotesta relazione, soggiunge, mettono capo e riscuotono
ogni loro Icgittimila le idee tutte
generali cd universali (2). (1) Qiiesta
purola di m aiialogia m d posla qui conlro la propriela lilu- ivliia, (2) P.
II, c. X, 11. Digitized by Google i3r E noi conveniamo in affermare, che le
idee universali sono come un vincolo che lega le cose simili iosieme, purchi
s'in- tenda per6 che questo legamento si fa nella sola mente. Ma ci^ in cui
discordiamo dal Mamiani, si 6 in far cnnsi* stere la' legittimita, o realita
com'egli la chiama, delle idee universali, nella relazione di qneste colie cose
concrete e sussi- stenti, termini della relazione o del paragone onde quelle
idee ebbero in noi Iorigine (i). Avendo io gia detto e mostrato pin sopra, che
Iidea non ha relazione necessaria con nessun essere snssistente, e che le
sussistenze non sono che accidental! , e I'esser queste molte, o poche, o
nulle, il durar loro liingo o breve, non reca la minima alterazione allidea
pura della cosa, la quale i immutabile e necessaria , non dovrei ripetere que-
sta osservazione^ ma io stimo di toccarla per aggiungervene un'altra, la qual
metta in chiaro in quanti aggiramenti si perda un autore qualsiasi , quando
smarrisce il cammino del vero. Il C. M. dichiara inutile alia dimostrazione
dello scibile I'origine delle idee: io mantengo, questa origine essere in
istretta connessione con quella dimostrazione. Or bene, chi crederebbe che dopo
tali noslre diverse sen* tenze, tuttavia nel fatto il C. M. fosse costretto di
far uso del- I'origine delle idee assai piii che io non faccia ? La cosa i
raanifesta , considerando le nostre due dottrine intorno gli universali. Il
Mamiani vuole che noi foriniamo gli universali parago- nando le cose simili, ed
estraendo da quelle ci che hanno di somiglianza, o comegli dice, didentita.
Spiegata in tal modo la generazione degli universali, egli non sa partirsi dal
con- siderarli appunto in quesl'atto della loro generazione; egli non sa
separare le operazioni e le occasion! in che quelle idee si formarono in noi, e
fissare la sua attenzione nella natura delle idee gia formate. Egli dice: le
idee universali son nate nello spirito da de' concreti , da delle cose
sussistenti paragonate (i) Percio il
volgo h (non so a che Cire entrl qui il volgo)
e i filo- soft concordsno credere
che la reallii ohbjctliva delle uoziooi del si-
mile o del dissimile coosiste nella rispoiidenza e propnrzione squisila
che M quelle oozioni manteiigono coi Icnniui della relazione (P. I, c. X, in). Digitized by Google I 3a
insieme (i); danque le idee debbono avere una perpelua rela* zione con queste
cose paragonate , e in qnesta loro relazione consiste la verita o realita loro.
Egli fa come eolui, che, dopo essere stato da una femmina partorito un bambino,
dicesse, questo bambino non potersi considerare in disparte da sua ma- dre, o
nelPesseozae realita del bambino entrare perpetuamente la sna relazione reale
colla donna che I'ha generate. Gonsidera adunque le idee uiiiversali sempre
nell'atto dell origine, e nelle circostanze della loro formazione. lo
allopposto non attribuisco tanto all origine delle idee, lo distinguo i due
tempi, quello in cui Iidea si produce in me , c quello in cui ella e gia
prodotta. La esamino nel primo tempo, e la trovo circondata da delle
circostanze cbe erano ne* cessarie alia sua prodiizione, una delle qiiali
circostanze, trat- tandosi didee positive di cose corporee, fu la presenza di
eerie sussistenze cbe hanno ferito i miei sensi. Ma poi la esamino nel suo
secondo tempo, cio quando ella e gia in me formata^ e m'accorgo, cbe per
continuare a sussistere nel mio spirito, ella non lia piii bisogno di molte di
quelle circostanze di rhe ebbe bisogno nella sua prima generazione , per
esempio , ella non ba bisogno della presenza e dellazione sni miei sensi di
quegli esseri sussistenti, n pure ha bisogno della memoria di loro sussistenza,
o della persuasione che sieno una volta sussi> stiti, bastando che nella
mente niia si conservi la forma rap- presentativa, o come la chiamarono i maggiori
filosofi, Iessenza della cosa. Quindi io raccolgo, che quelle circostanze che
hanno accompagnato la generazione della mia idea , non formano parte della sua
natura, ma sono ad essa estranee^ raccolgo, che quando io percepisco da prima
I'idea, ella i mista con drgli element! slranieri a lei; i quasi come la statua
fusa, che appeua uscita del oivo ha dinlorno de rilievi ed escrescenze di
metallo, dalle quali ella si dee rimondare e limare: esamino poi quali sieno
coteste superfluita, c trovo principalmente es* sere appunto la conoessione
cogli oggetti reali, coll occasion dequali ella nella mente mia se formata, e
che possono tut- (t) Non roiisidcra il M. die i sussislenli come tali non si
paragouauo insiciiir, e die ogin paragoce nasce fra oggciti del nostro spirito.
Digitized by Google 1 33 tavia perire senza cite anch'ella perisca, si come la
forma si puu rompere durando la statua cavatane. lo vo molto piii in- nanzi
continaandomi su qiiesta via: perciocch^ argomento, che se 1 idea, per durarmi
nello spirito, non ha alcun bisogno de- gli oggetli snssistenti che la
produssero, dunqne ella ha un modo desistere siio proprio, i qnalche cosa
d'indipendente af- fatto per natura da' sussistenti ^ dunqne questi sussistenti
non hannole veramente dato nulla di dunque essi non sono stati vera causa della
formazione dell'idea in me, ma solo oc- casione, per la quale il mio spirito e
venulo alia visione di quell idea. E in vero i sussistenti non poteano dare
quello che non aveano: essi hauno contingenza , singolarita, limitazione,
varieta, incostanza ^ 1 idea all i neon tro nella sua natura mostra
manifestissime le contrarie doti^ necessita, universality, inllnita, unita,
immutability. Ma io sono hn soggetto pure contingente, singolare, limitato ,
vario, incostante. Dunque, io conchiudo, Iesistenza dellidea in me non i
Iesistenza allidea essenziale^ e nn puro accidente, rispetto allidea, ch ella
sia da me ve- duta: ella senza di me,
senza iiessun uomo, senza tutti gli uomini^ ella e qualche cosa di eterno. Io
non procedo innanzi, perocchy non voglio dire di piu del bisognevole: ma dalle
cose per6 dette fin qui cavo le seguenti conelusioni: Lanalisi del C. M. non
savanza tanto che basti a conoscere la vera natura delle idee. Egli non ha alle
mani , che le idee ancora rozze e impulite, quasi statue uscite appena di cavo,
da cui non ha raschiato il soperchio , che sebbene congiunto nella prima
formazione con esse, non appartiene per6 ad esse: voglio dire, egli non ha
separato le idee dagli oggetti acciden- tali, che danno occasione a noi di
acquistarle. Quindi a torto egli credelle cercare e trovare nella relazione
delle idee con questi oggetti la loro reality e verita^ nk vide quanto si levi
la natura della idea al di sopra da quella de contingenti, e come questi non
possono in modo alcuno esser causa del- 1' idea. Concludiamo: il C. M. sta
attaccato allorigine delle idee in tutte le sue deduzioni sulla loro verity^ io
allincontro divido assai queste due cose. Pure egli non fa niuna stima della
questione dell origine, e la dichiara insolubile e iuutile alia dimostra- 34 xione del certo^ io allincontro riconosco
almeno aver essa un iatimo nesso colla questioae della certezza, sebben non
quale e quanto mostra di tenere nel fatto il G. M. Chi non .vede il grande
imbarazzo di ana cattiva causa? CAPITOLO IX. IL C. M. DOPO AVEZ HBCATA
l'iNDIPEHDEHZA DELLE IDEE DALLE COSE SDSSISTEHTI, LA COHFESSA, SENZA CAVARICE
PEr6 CIOVAMEHTO. Ma 1 indipendenza degli universali dai particolari
su.ssistenli onde trassero I'origine, non
ella cosa piana e manifesta? i egli a credersi che sia sfuggita
interamente alia mente del N. A.? No: gli balen6 veramente questo raggio di
luce; ed egli stesso confessa il vero che noi difendiamo, senza per6 renderlosi
utile, traendone le couseguenze, che gli avrebbero poluto dirizzare molti
pensieri. Ecco il passo, dove egli fa la confessione di che parliamo: u Le idee
universali avvenga che sieno astratte da piii ter- u mini di paragone
individuali e concreti e che perci6 la na-
tura loro si adatti puntualmente alle condizioni di essi ter- mini, tuttavolta i da osservare ch' elle si
manlengono cntro il pensiero, come
staccate dai fatti, onde presero originc:
e mentre quelli mutano, o posson mulare, le idee universali restano identiche a si medesime (I). Qui le idee sono stac- cate dai fatti c
dai concreti, souo considerate nella loro pro- pria natura. Chi poteva dirlo
meglio ? Le idee si affermano immulabili, le cose da cui sono dedotte mutabili:
cose e idee di contraria natura : queste adunque non effetto di quelle, ma
concomitant! a quelle, e da quelle solo a noi occasionate. Ma che perci6?
Udiamo le singolari parole che il N. A. soggiunge immediatamente a quelle sopra
riferite: u Per6 ei bisognerebbe per nostro utile che le idee uni- u versali
continuassero sempre a rappresentare il comune di tutti i soggetti dai quali sono desunte,
perchi levata tale rap- (1) P. If, c. X, VI. Digitized by Google i3S u
presentanza, e levata insieme ogni applicazione loro prossima ai casi concreti n. Ora che ^ mai quella
frase: u bisognerebbe per nostro utile B che le idee, ecc. ? Cercbiamo noi qaello cbe bisognerebbe che
fosse per nostro utile, o quello che i in natnra? ovvero ci arroghiamo di
sapere come dovrebbe essere la natura delle cose, percbi ella fosse a noi
utile? vogliamo noi dettar legge alia natnra? o presumiamo di sapere immaginare
quaicbe cosa di mcglio di quello che i nel fatto? lasciamo a qualche pazzo
prepotente il voler dare a Domeneddio de' consigli migliori di quelli che egli
ha creduto di seguitare nella creazione dellu- niverso. Da vero, cbe qnesto
cercare quello che bisognerebbe die fossero le idee universal!, anziche quello
che sono, e una pia- cevole ricercalSe non che, quando per dar gusto a noi die
fossero diversamente da quel che sono, non sarebbero piu le idee, ma quaicbe
altra rarita di nostra invenzione. Vedesi qui ben chiaro dove ci conduca
I'amore di sistema. II C. M. si pose in capo I'idea sistemalica, che la
veracit?i e Iutilita delle idee universal! consista nel loro rapporto ai
termini concreti del paragone onde si originarono: saccorge per6 che questo
rapporto gli svanisce in mano: conchiude col dire, che b sa- w rebbe pero utile
e necessario che le idee continuassero a man- B tenere un tale rapporto . Non k
egli assai nuovo questo ragionamento ? Seguitiamo ad udire quaicbe altro
periodo di quei che sc- guono nel suo libro:
E nel vero questo si cerca di conse- guire, u serbando il piii che e
possibile una relazione costante B e uniforme fra le idee universal! e gli
oggetti da cui presero B nascimento come da termini di paragone . Questa
relazione delle idee cogli oggetti da cui presero nascimento, che ha in vedula
il N. A., non i dunque cosa bella e fatta dalla natura, ma ^ una cosa che si
cerca di conseguire, e la costanza e uni* formita della quale soggiace a moltc
gradazioni, perocchi ella si cerca di conseguire il piit che e possibile.
Pertaiito questo del C. M. sembra anzi un consiglio che appartenga all arte di
pen- sare, che un fatto appartenente allidcologia. La natura delle idee non ccnlra
per nulla ^ queste si sottraggono da tenersi Digitized by Google 1 36 legate
cogli oggelti sussislenti, onde da principio si origina* rono^ perocchi
conviene cercarc di consegiiire questa
rela- zione il piii che ^ possibile : il
che val quanta dire, die in- teramente non i possibile a conseguirla. Ed ecco
I'eseinpio della sua teoria: u Gosi vnoUi cbe I'ldee asiratte di albero, di
minerale, d'uo- u mo, di bellezza, di sensibilila, e infinite consimili, non
isticno dentro di noi quali esseri
semplici di ragione, ma quali rap- u presentanze continue d'un rerto numero di
singolar! con- creti, e qual funte di
notizie vere ed esatte sulle realita dclle a rose . V^uolsi? qnal k la
significazione di questa parola ? un de*
siderio? k un comando? k una vulunla? una velleita? insomma die cosa Intanto
peru quivi raanifestamcnte si confessa, che le idee possono stare nella nostra
mente come esseri semplici di ra- gione^ e cbe il rimaner die rappresentanze
continue d'un certo numero di particolari concreti, non i piii die un buon de*
siderio, o una buona volonta, almeno nell' intenzione, del C. M.^ una cosa che
si dee cercare, secondo lui, di ottenere, se non in tutto, almanco il piii che
sia possibile: e questo buon desiderio nasce al C. M. dalla premura ch'egli ha
che tali idee sieno font! di notizie vere ed esatte sulla realita delle cose,
iifficio die non presterebbero , a siio parere, se un tal legame co' real! non
si teilesse fermo e continiio nel pensiero. Quanto a roe, con buuna pace del N.
A., intendo di di- spensarmi da cotanta fatica die vorrebbe addossare il C. M.
alia niia povera memoria, di tener ben ferma e continua la rela* zione delle
mic idee univcrsali cogli oggetti (la cut die presero nascimento: e me ne
dispenso per settantasette ragioni. La prima, e che mi varra per tulte, si die
gli oggetti reali, onde le mie idee universal! presero nascimento, non me li
ri- cordo piu, saprei piii ritrovarli |ier quanto indietro mi rifa* cessi. Lui
felice, se li ha registrati nella memoria! Caso die cosi sia, sara un uomo
meraviglioso, il quale non potra piii scrivere, quello cbe spetla al primo
sviluppo intelletlualc suc- cesso a noi ncll'infanzia non potersi sapere:
conciossiadie egli al lulln sc nc ricorderdibu: giacdie la furma/.iuiie degli
univer- Digilized by Google i37 sail si perde appuato in quelle lenebre della
prima ela, e gli oggetli onde li traemmo furono certamente da noi percepiti
assai per tempo. Fiualmente, quandanco io potessi conoscere e rammentarc i
reali oggetti onde principiarono nel mio spirito gli universali di mia
formazione, ancora non vorrei mantenerli nella mia mentej perciocchi io non
saprei da vero che farnej essi mi sa* rebbero un ingombro, un fardello alio
spirito, il quale k gi4 troppo carico di notizie positive ed inutili, e vorrcbbe
piu to* sto alleggerirsene di non poche, Vcramente egli i oltremodo strano il
credere cbe la vera* cila degli universali dipenda dal tener viva la relazione
cogli oggetti onde nacquero! II pensiero del G. M. sarebbe vero, so le idee si
dovesser accomodare agli oggetti, com'egli suppone ( i ). Ma questo un massiccio errore, provenuto sempre dal
consi* derare I'idea nella sua origine accidentale, come notavo in* nanzi, e
dal considerarla perciu come un vero elTetto degli og* getti sussistenti, come
nna cotale impressione, una cOpia di questi. In tal caso i vero, cbe gli
oggetti sarebbero gli esem* plari, le idee, le copie. Gli assurdi da noi
toccali, cbe nascono da tal sistema, confermano che il sistema i falso.
All'opposto, e I'osservazione non pregiudicata delle cose, e la consentaneity
della dottrina dimostra tulto il contrario. Le idee sono veramente gli
eseroplari, o tipi (come talora le chiama il M. stesso^ le cose poi sono quelle
che si debbono riscontrare a quetipi, e secondo quelli classiiicarle. Le
riscontro io fe* (i) Da questo errore ne nascono al M. molt! altri: tale, a
cagion de- sempio, i la distinzione cbegli fa Ira i composli arbitrarj didee
uiilvcr. sail, e i composli non arbitrarj (P. If, c. X, v) Mon vi sono altri
coinpo- sli arbitrarj didee, se non quelli cbe si fanno con idee ripugnanti :
pe- roccb tali unioni non possono esislere. Tulle le altre idee, o semplici o
complesse, cbe non inebiudono conlraddizione, sono necessaric; i loro og- gelli
son quelli cbe possono sussistere o nun sussisleret il cbe i puramentc
accidentale. fc paritnenle accidentale, cbio m'abbia nella menie Iuna o Iallra
delle inolle idee semplici o complesse; ed i arbiirario cbio rivolga Iattuale
altcnzione ad una o ad unaltra delle idee cbe io mbo. Ecco ci6 solo cbe vba
darbitrario nclle idee: a parlare diretlamcnte questo ele- mcnlo arbiirario non
b nelle idee, ma egli 4 in me, cbe mi risolvo arbilra. riaincnie di conlemplare
piu loslo le une che le altre, piu lotto assorlite in un modo ebe in un altro.
Hosmim, Jl RinnovanicfUo, i8 Digitized by Google l38 delmente? le classiGco
bene? cio6 1e soltomeUo a quella idea alia quale apparlengono? In tal caso
ne'miei gludizj $i trova la verita, in caso contrario sono falsi. Ecco in cbe
con- sista il vero ed il falso; non uesognati riferimentl delle idee agli
oggetti reali da cui presero nascimento. Pigliamo an esempio. Veggo io un
animale da me non mai veduto, la gi- raffa. Jo dico: cgli i un cavallo^ e dico
il falso. In che sta la falsita? forse nell'idea universale del cavallo? no, la
poverina t innocente quandanco stia nella mia niente, siccome un es- sere
semplice di ragione. La falsita i tulta nel mio giudizio: io ho preso un'idea
per unallra: io ho rapportato quell es> sere sussistente da me percepilo co
sensi , ad una idea a cui non saffaceva, ho rapportato la giraffa all idea del
cavallo: non avrei punto errato se, osservando mcglio, avessi rilevato che
quell animale che percepivo non saccomodava all idea del cavallo, e che per6 io
dovea formarmi in quell occasione uni- dea nuova, e non riferire il percepito
ad una delle idee gia da me possedule. Lerrore fu mio, e non delle mie idee.
CAPITOLO X. CONTIMCAZIONE. Ma il nostro autore si accosta a noi ancor piu,
staccandosi da si stesso. Perocchi dimentico, come pare, daver messa la veriUi
delle idee universal! ne loro riferimenti agli oggetti sussistenti, egli
descrive alcuna volta la formazione di quelle per modo, che ben si vede non
solo la loro naturale indipendenza dasussi- stenli, ma ben anche non poter esse
rimanere con quest! con* giunte senza perdere la loro universality. Udiamo da
lui il processo delle operazioni necessarie a formare Iidea univer- sale di
sfericita: La forma rotonda, vista e
raffrontata in piu corpi, genera u primieramente la nozione astratta d' una
quality identica dei medesimi , Qucsto i
il primo passo, segucudo il G. M.
Disparsi quest! dall occhio di nostra mcnte, rimanvi la K nozione piii
astratta e generalissima di cio che i sferico . Qucsto i il secondo passo.
Digilized by Google i3i) E a qucsto secondo passo che il N. A. dice essere gl
spariti i corpi dall'occliio della mentc. Anzi questa dispari- zione dc'
concrcti i cid die costituiscc appunto questa sc> conda opcrazionc colla
quale si forma 1 astralto o sia 1 uni* vcrsale. Confessa adunque con ci6 il
Mamiani, che I'idca astralta e universale tant' i lungi che abbia bisogno di
star Icgata a de' concreli sussislenti , che anzi ha bisogno di sciogliersi al
tulto da cssi per acquistarc l'universalit4: vogliamo noi di piii? u
Proscguendosi a distinguere e cessando di pensare a qua- il lunque materia
possibile, producesi la nozione pura, geo- u metrica della sfericita . Terzo
passo. Qui si esige alia pro- duzionc di questa nozione, che si cessi di pensare a qua* lunque materia
possibile : tanto i uopo che 1 universale astratto sia libero e sciolto, per
sentimento del Mamiani, da' sus- sistenti! u In fine messo da banda il soggetlo
pensante, che Tap* u prende c la possiede, la nozione della sfericita non appar*
1 tiene piii ad nna che ad altra intelligenza, non nasce, non u s'estingue, non
si riproduce, c cosi dismettc ogni maniera
di accidenti individuali . Quarto ed ultimo passo. Chi potrebbe dir
meglio di ci6 che 6 toccato in quest' ul- timo luogo, dove il C. M. stesso si
leva a considerare la idea indipendente dall' intellctto in cui ella per puro
accidente si ritrova ? non doveva egli vedere, che una cosa, la qual si puu
considerare da si per modo, che non ha bisogno di pensarsi sussistente in
altro, ha una realita propria, una natura pro- pria, e che perd I'idea non
esiste giii nella nostra mente come 1' accidente aderisce ad una sostanza, ma
in una maniera tutta ua, che non ha esempio nolle altre cose della natura (t)?
*i) Clic it N. A. non siasi iccorlo di qucsia natura lor propria delle qual si
scorge appunto qtiando, separandoLa dall' altre cose, clle si no siissister per
8^, apparisce dallinsegnar chegli fa, le idee univer- egli cliiama di medesimezza, non poter essere
present! al nostro innanzi dell' atto del paragone, onde sorgono : E quando il con* rio pare afTermarsI >,
soggiuoge, dipende ci6dal bisogno di
aslrarre tali idee dal fatto della loro geoerazioiic c dagli accidenti che le
ac- compagnano n (P. II, c. XI, in) Egli dovea cercare la ragione di questo
bisogna, che confessa; e ravrebbe trovala nella natura delle idee stesse
CAPITOLO XI. i.,o ESAME IIe'qUATTRO GRADI DI ASTRAZIONE PeqUALI It MAMIANI
VUOLE CUE PAiSINO Sl'CCESSIVAMEMTE LE IDEE. per questo posso convenire con
tullo ci&, che dice il N. A. enumerando i passi che snol fare la mente
quando si ocenpa nelP astrarre. Con qaelli io ho voluto solamente pro* vare ch'
egli stesso animelte, i gli universal!
non aver bisogno di conservare una continua relazione nella mente nostra cogli
oggetti, onde furono da prima in noi mossi ^ quando anzi per I'opposto lo
scioglicrsi che fanno da questi legami h ci& che li rende universali^ a. Ic
idee, checchi clle sieno, esser qnal- che cosa di reale in s6 stesse
indipendentemente dal nostro spi- rito, o altneno come tali a noi
rappresentarsi. Dopo di ciA, ecco le osservazioni che io debbo fare sull.i
serie di operazioni che descrive il C. M. come necessarie alia formazione degli
universal!. Riassumendole, elle son quattro: I - Osservare il simile negli
oggetti e separarlo dal dissi* mile, p. e.
la forma rotonda vista e raffrontata in pin corpi u genera la nozione
astratta della sfericitii . a. Isolare il simile dai concreti particolari, p.
e. disparsi u i corpi rotondi dalF
occhio della mente, rimanvi la nozione
piii astratta e generalissima di ci6 che & sferico . 3. * Isolare il
simile dai concreti possibili', p. e.
cessaric a formare gli universali-astratti. Gli universal! sono le idee
lulte; ma gli universali-astratti sono le idee astralte. Alla mentc del G. M.
balenA quell'uni- vcrsale die ^ proprio delle idee tulle, c allora nc descrissc
la gencrazione mediante I'idea del possibile: balen?> poscia alia sna mente
quell' universale cbe si trova negli aslralti, e che 6 quello che piii
comunemenle ed esclusivamenlc si osserva, c allora descrisse la gencrazione
degli universal! col processo di quelle qualtro astrazioni. Ecco una qualcbe
conciliazione: egli descrivea la gencrazione di due universal! divers! : il suo
errore fu solo nel non accorgersi, che due era no le specie di univer- sal!, e
il parlare che fa come se si Irattasse di nn solo uni- versale: sotto questo
aspelto egli potea avvedersi della contrad- dizione in cui s'abbatteva^ c se di
essa si fosse avvisato, sa- rebbesi trovato incontanente suHa dirilta via del
vero. Mon mi rimaiie quanto alia formazione degli universal! me- diante la
ginnta del possibile, che a nolare una impropriela di parlare. Il N. A. vuole,
che la mentc si stenda veramcnlc agl'infinili rasi possibili: ciA non regge,
non potendosi fare in atto^ ma bastn cbe si faccia (per cosl dire) in polenza.
Ella ^ Digitized by Google 1 43 Tavvertenza sicssa da me fatta piii sopra
contro il Coadillac, die Punivcrsalili di un' idea non consiste ncl conosccria
noi per modello dinfiniti oggetti, raa neilaltitudine ck'dl'lia di prestarsi a
tale urCcio. CAPITOLO XII. ESAME De' QUATTnO CDADI, CHE IL C. M. POME mell
astraziomb delle idee. Ma non posso tralasciare di soltoporre ad esame quei
quatlro gradi di astrazione, pc' quali il C. M. vuol pnre die la mente nostra
quasi per altreltanti gradini giunga all astrazione com* pleta. Egli dice da
prima, die coll'osservare il simile c svincolarlo dal dissimile formasi una
nozione astratta, per es. quella dl sfericita. Poi dice (questo i il secondo
passo) die col separare il simile daconcreti particolari, la nozione di
sfericita diviene piu astratta e generalissima. Ma io gli addimando, con sua
pace, i egli possibile, die la nozione astratta di sfericita di- venga piii
astratta della nozione astratta di sfericiU? Assai bene 10 comprendo come vi
possano avere pik gradi di astrazione, come vi possano avere delle noziuni piu
o meno astratte^ p. e. la nozione di 6gnra & piu astratta della nozione di
sfericita, perocdii questa i una specie di iigiira^ e la nozione di figura
costituisce il genere di tutte le speciali figure tonde, quadre, trilatere,
ecc. Ma ci6 che non comprendo si 6, come una no* zione astratta possa divenire
piii astratta di si stessa. O con- vien dunque dire, che con quella prima
operazione di sceverare 11 simile dal dissimile non si ottenga ancora veramente
rastrallo che si denomina sfericita*, o che, se si ottiene, egli non ha pill
bisogno d altre operazioni , perocchi non pu6 acquistare maggiore astrattezza
di quella che gli 6 propria cd ha gia ricevuta. CAPITOLO XIII. COMTINUAZIOME.
Che dunque hassi a dire delle tre operazioni che annovera il C. M. dupo la
prima, c che repula allc a produne uelle idee Digitized by Google 1 44
un'aslratlezza scmpre maggiore? sono esse Lnulill? non esistono Delia natnra?
Cerchiamo nella natura appunlo la risposU, con una diligente osservazlone dl
quanta avviene nel nostro spirito. Questa osscrvasionc ci mostra primieramente,
clie la seconda dclle operazioni annoverate dal C. M. & anzi la prima di
tutte a farsi. La prima cosa che ci snggeriscc di fare la natura del nostro
inteudimento quando noi percepiamo degli oggetti co' sensi, si quella di considerarne la forma ricevuta nel
nostro spirito separatamente dagli oggetti concreti e sussistenti. Questa
operazione non i sempre volontaria in noi, ma, il pin, spoa> tanea: non
siamo noi die la facciamo^ ella si fa in noi na> turaimente, E di vero,
solamente dopo di aver separate la forma degli oggetti (idea ) dalla loro
realita e sussistenza, 6 possibile quella che il Mamiani pone come prima
operazione, di sceve' rare da pin oggetti il simile: questa prima operazione
suppone la seconda gia formata, ed 6 una conseguenza di quella. Consider!, chi
ne avesse duhbio, che il simile non si estrae dagli oggetti senza paragonarli
fra loro ^ e consider! bene, che gli oggetti, in quanto sono concreti e
sussistenti, non si possono in modo alcuuo paragonare^ chd paragone non si fa
se non fra le idee di quegli oggetti, e si compie non fuorl di noi, ma solo
dentro il nostro spirito. lo ho dimostrato lungamente nel Nuovo &tggio, che
degli csseri concreti in quanto sono con* creti non si possono in modo alcuno
paragonare, ma che 6 necessario, perchi sia possibile un paragone, che almeno
nno di quelli che dee servir di modello nel paragone, sia spoglio da ogni
concrezione: altramente 1' opera mentale del paragone i impossihlle (i).
Gonverrebbe rispondere allc prove ivi da me addotte, prima di procedere
innanzi. Come che sia, la ragione che impcdisce a'.trui di veder questo vero,
si 6 il prendere assai agevolmente I'oggetto quale i da noi percepito, per
Ioggetto quale sussiste in s. Convien badare, che con tutti i uostri volgari
discorsi noi crediamo scmpre di ragionare dclle cose come stanno fuori di noi^
ma veramente non ragioniamo delle cose estcnie se non in quel modo che sono da
noi conosciute: c Ic cosc in quanto sono conosciute, in quanto sono presenti
(i) Sci. HI, c IV, art. Digitized by Google 1 45 al nostro spirilo, hanno
subilo da noi stessi una ragguardevole modiGcazione colPalto del perceplrle:
sicchi I'opera nostra noi talora la crediamo natura degli oggetti. Qnesto
inganno sue- cede comuneniente net paragone: crediamo di paragonare le cose
real! in sb stesse, e verameiite paragoniamo le cose reali iiella loro
esistenza mentale. A disingannarci di cio, fa uopo sottilmente considerare, die
paragone non si da, se le cose non si compenetrano, per cosi dire, se elle non
si applicano perfet- tamenle a un comuiie esempio. Ora due cose materiali in
nes- suna inauiera compenetrar si possono^ ni possono csserc ap- plicate perfettainenle
ad uno slesso esempio materiale. u 11 geometra vuol vedere se due Iriangoli
sono ugtiali, egli I* s'inimagina di soprapporli I'uno allaltro, c di osservare
se u quelli si combaciano perfeltamente. Similmente, il falegname u soprappone
una tavola all' altra quando gli b uopo vedere
se due tavole sono della stessa grandezza. Ma I' operazione u del
falegname ben altra da quella del
geometra. Cio che La uuuuue asli'alU
nasce iiel nostro spirito pura e sent- plice, come delto i, median to I'
astrazione del simile dagli og> getti conosciuti. Quando lo spirito nostro
s'afGssa in quesla nozione, egli non pcnsa gi^ punto ni poco a si stesso, eiu
chc gl'interviene universalmentc per tutti gti oggetti, ne' qnali intende colla
sua attenzione. Questa k propria natara e indole dell'atto intellettivo , che
non conviene gi4 iminaginarsi a ca- priccio, ma contemplarlo e rilerarlo com' i
nel fatto. Nella no- zione astratta adnnque, p. e. di sfericita, il soggetto
che la con- templa non e'entra per nnlla^ esso i al tutto estranco a quella
nozione, e fuori di essa^ e per6 egli i cosa assurda il dire, che da qaella
nozione si pud astrarre il soggetto percipieute e cost rendcrla via piii
astratta, quasichd il soggetto percipiento si mescolasse nolle idee da lui
contemplate, e costituisse una parte di tali idee. Ma come aduiique pud
csssersi presentato alia mente del N. A. un simigliante pensiero? Non i cosa
difficile a ritrovare. Convien sapere, che sebbene Ioggetto della mente nostra
sia afTalto diverso ed anzi contra- rio al soggetto che lo contempla, tuttavia
il filosofo, mediante una riflessione che fa su di si soggetto >ntemplante
Ioggetto, trova un nesso fra queste due cose^ egli allora trascorre assai
facilmente a credere , che 1 idea od oggetto contemplato sia una modificazione,
o una parte, o nn effelto del soggetto stesso contemplante. Questa maniera di
vederc i arbitraria e matc- riale: e un argomento di analogla proscritto da un
buon me- todo di filosofare. Dopo adunque, che il filosofo stabili arbi- trariamentc
cotal connessione fra il soggetto contemplante e Ioggetto della contemplazione;
egli i costretto di immaginare una operazione, colla quale sciolga questa
connessione da lui supposta, e lasci di nuovo in liberta la porera idea o
nozione astratta inviluppata da fallace riflessione e quasi captiva. La quarla
operazione adunque del G. M. non 6 punto ne> ccssaria alia formazione degli
astratti^ non i necessaria, Gao che questa nozione rimane libera come Iha fatta
la natura; ma ella i necessaria per liberare quest idea quand i stata presa
nella rete o nella ragnatella filosofica. Que filosofii, i qnali sono pervenuti
ad annettere alle idee astratte il falso Digitized by Google i5i coucello e al
luUo immaginario di produzioni o emanazioni o modi del soggello, adopcrino pure
una lale operazione, ma entro i limili dello spuciale c fallizio bisogno di
loro menli. CAPITOLO XVI, LA DISTINZIONE IJELLE IDEB GENERALI DALLE DHIVERSALI
INTRODOTTA DAL MAMIANI NON RIPARA AL DIFETTO DELLA SUA DOTTRIHA. Rilornando ora
noi cola, donde siamo parlili, ponemmo nicnle al doppio peiwiero Ira cui
ondeggia cumbatluto il N. A, D'una parle egli avea fermo, che la Terit&
delle idee con. Gli universali adun- qiie ci facevano una trista iignra. Ma che
guadagnavano poi quesle nuovc idee generali e non universali? Nulla ^ di nuovo,
nulla. Perocch6 se una volu io ho pre- sente Mlo spirilo unidea aslratta, e se
ho conlemporanea- (i) Quc filosofi che sembrano aver distinlo il generate dM
uiuversale^ roine il Palrizio, iulesero quests dislinzione in lull* altro mode
da quello ebe la iiileiide il Mamiaut. Aucliio disliaguo il gencrale dull
universale; perocebS per me il gene- rale (da genui) i una specie dell*
universale i ina queslo non ha che fare colla disliuzioDC del N. A. Digitized
by Google I 5a tnenle presenli quegli oggelti reali da cul I' ho tralta, e se
unaltra volta ho presente la stessa idea aenza attnalmenle rammentare que'
particolari oggetti^ 1' idea non ha sostenulo veramente cangiamento di sorta,
ed ha la stessa veracity, la stessa autoritii si ncllun caso che nell'altro. Di
vero, Paver io per accidente present! degli oggetti reali, o i primi da cni Pho
cavata, od altri a lei rispondenti, i una vista del mio intendimento al tutto
diversa da qaella delP idea. Come adan> que nna persona rimane la medesiraa.
tanlo allora che si trova sola, come allora che si trova accompagnata da un
amico o da un fratello^ cost quelPidea rimane quella che i, sia ella associata
o no con altri atti contemporanei dello spirito. Ma rechiamo le parole stesse
del N. A. u Quantanque la essenza ideale di molti esseri di ragione si mantenga sempre, pel fatto,
rappresentatrice fedelc della cgli avea
srmpre nel sun libro fatto intervenire il giudizio co> noscitivo: ma cbe?
I'accorgersi clie queslo giudizio suppone an universale precedentc ( i ) , il
trattiene improvvisamente nel suo corso, e lo stringe a fare ogni sforzo di
cacciar via questo giu* dizio
conoscitivo che sconcia tutto il suo
sistema sulla for- mazione di si fatte idee. Postosi a tanta impresa, dopo averci
molto travaglialo, viene' a questa conchiusione , che senza questo giudizio si
possono formare tali idee, che se non rappresentano inCniti oggetti, cioe tutti
i possibili, ne rappresentano per& di concreti e di snssistenti un numero
che nel rondo cbc la si pun coslrulre e
pralicare atlualroentc, cioi con I'in- i lervenzione assidua dell' alto
conoscitivo, pure ci accade di
aggiungerc qui alcuiialtra ridessione
iuloroo al proposilo. E di vero, pu6 taluno t osservare che essendo gli
universali ed i generali lormali con 1' opera del giudicio conoscitivo, suppongono gia
Ieslslenza e I'uso di altri uoiver- H sail, onde non pu6 dubitarsi, se questi
ullimi siaoo mai stall prodolti da
particolari paragouali, e perci6 Si rispondano punlualroente ad alcuoM t
realiU w. P, n, c. X, vii. (a) a Verremo sponendo, dieegli, sin dove credlamo
che giunga I'azione a dirella e necessaria del giudicio conoscitivo sulla
formazione delle idee a universali (P.
II, e, X, vii)t parla degli universali, e non de ge* nerali. Digitized by
Google '^7 Tolendo spiegare senza giadizio conoscilivo la generazione di
quesli, come volendo spiegare quella degli universali: impcroc* che
ue'generali, come clie sia, 1 uoiversalita non d inleramente esclusa, ma anzi
in eui supposta. CAPITOLO XIX. THE ATTI HECESSARJ, SECONDO IL MAMIANI , A
FOEMARB CLI UNIVER- SAL!. SI BS.VMIHA IL PRIMO , CUE E LA CONCEZIORE De'
TERMINI PA- RAGO.NABILI. Or poniamo alia prova delPanalisi il suo discorso. Da
prima egli pone questa proposizione: u Diciamo
tre sorte di atli concorrcre in questa n (ciod nella formazione delle
idee universali) u continuamenle: la
concezione di termini particolari paragonabili.- il paragone u di quelli
e Iastrazione dell'identico : il giudiuio della possibi- lita dnna ripetizione infinita di esso
idenlicio (i). Poscia seguita: u Ora
quanto al primo , ciod alia concezione dei termini , noi nel terzo Gapitolo (a) di questa seconda
parte facemmo osservare, che attendere
ed avvertire semplicemente un par-
ticolare sensibile non dimanda per sd la forma compiuta ed u universale
dellatto conoscilivo , quale d praticato presente- mente
(3). Accioccbd queste parole avessero la convenevole chiarezza c
precisione IllosoGca, dovrebbe il C. M. avere spiegato assai bene, in che
differisca la forma compiuta e universale dell'atto conosci- tivo, dallaltra
che suppone essere non compiuta e non uni- versale: dovrebbe pure dichiararsi
un posu quella particella, per se, che intramette alia sua proposizione^
perocchd ella sup- porrebbe che per accidente almeno, se non per sd, la forma
com- piuta fosse necessaria. Ma di questo ho toccato altrove. Re- chiamoci piu
tosto al luogo dov'ei ci rimanda, cercando ivi le ragioni che adduce a provare
che Poperazione AeW'altendere e dellav'iwrtire un particolare sensibile non ha
bisogno della forma compiuta delPatto conoscilivo. (i) P. II, c. X, VII. (a)
Vo1i;a dire nel quarto. (3) Ivl. Digitized by Google 1 58 Convien prinia vederc
la coerenza fra la proposta e la di* mostrazione. La proposta era di rercare fin dove gianga I'a- zione diretta e necessaria (i) del giadizio
conoscitivo . La dimostrazione poi parla dell
atto conoscitivo , e afierma che non
si esige questo nella sna forma compiuta. Pare adnn- que che il giudizio e Iatto conoscitivo sia il medesimo. Ma recandoci noi al luogo a
cui ci rimette, troviamo tattal- tro : il giudizio conoscitivo non & che
una parte dellatto co* noscitivo, la prima parte di questo: odasi il
luogo: Tre fenomeni si distinguono
principalmente nel nostro atto di
conoscere. II primo i che noi afiermiamo Ioggetto cui s'indirizza Iattiviti del nostro animo, e
cosl formiamo u it giudizio conoscitivo per cui si afierma tale cosa di tale u
altra (:). CAPITOLO XX. CONTinVSZIONE;
fe FALSO CHE LA CONCEZtONE DB TEHMIHI FAEAGONAaiLI HOH ESICA CH CICDIZIO.
Intanto in questo luogo si dice almeno assai netto, che cosa sia il giudizio
conoscitivo: egli 6 un afierraare tale
cosa di tale altra . Riteniam bene questa definizione, perocch^ ella esprime
Ies- senza del giudizio conoscitivo , che non gli pu6 mancar mai. Quando anco
vi avesse quella forma non compiuta e misteriosa del giudizio, chegli vien
gittando improvvisamente fra mezzo alle sue parole, come il pomo della
discordia, senza dirci per6 in che essa cousista, anzi dichiarandola inesplicabile^
quando, dissi, quellessere meulale, sconosciuto alle logiche de nostri bnoni
padri, snssistesse veramente^ egli o non sarebbe giudi* zio, o sarebbe u un
afiermare tale cosa di tale altra ^
peroc* chi fra Iafiermare e il non affermare non ci ha mezzo di sorta alcuna.
(i) E qual i Iazione indircita del giudizio? Convieue spiegarsi, allri- menli
si cainmioa nel bujo. (3) p. II, c. rv, V. ' Digitized by Google Clie se noi
vogliamo raccogliere ancora piu chiaramente la mrnte del N. A. intorno allessenza
del giudizio, coDsideriamo elie dice in altri luoghi , e ne troveremo di molti
dove cgli fa consistere nettamentc il giudizio nelVe^ermare che ana cosa sia
(i). Premeasa questa chiara definizione del giudizio , vcggiamo cbe prova
arreca a dimostrare quanto promise, cio6 che a alia concezione de termini
particolari paragonabili non fa bisogno il giudizio conoscitivo . Dice, ecco la prova, che non fa bisogno
questo giudizio a concepire i termini particolari, percb^ esso non fa bisogno
ad atiendere e ad awertin , come lia gia dimostrato altrove. In ehe luogo?
Eccolo: reco tutte intere le sue parole: u Per quello che sappartiene alia
facolti di attendere, noi X diciamo che I'azione sua antecede di forza il
giudicio cono> u scitivo, imperocch^ innanzi di affermare che un oggetto
sus- siste, bisogna avvertirlo piu o
meno distintamente (a). Qui si parla,
egli b chiaro, di un attenzione che non ha ancor raggiunto il suo scopo^
perocch^ non & arrivata ancora u ad affermare che un oggetto sussista . Convien dire pari> nieiite, che
Iavvertire, di cui pure parla il G. M., sia un si- Donimo di quell' atto
incipiente d'attendere che ci descrive senza couclusione alcuna^ perocch6 egli
supponc, che con tutta I'avvertenza data all'oggetto, lo spirito nostro non sia
giunto |a-ru ad accorgersi ch'egli sussista^ conciossiachi Paccorgerci cbe uu
oggetto sussiste, b un affermare internamente la sua (i) P. II, c. II, ii; c. rV, VI. (a) Seguiuno queste litre pirole,
cbe tnlascio oel teslo perchi pen rsc- cliiuiiono prova alcuna, roa cbe pongo
ip nola, acciocclii forse non mi si faccia rlchlamo come di uiia inredclla a
tacerle: Lallo poi di avverlire e di alietidere serabra a noi laoto semplice
e ncl suo primo molo cosi in- dipendcntc da qualunquc nozione, oltre 1* oggetto
suo immedialo, che w aflertnare il cootrario e sotloporre quell atto alia
direzione di qualche > idea aiiteriore ci semhra di menie iiiibevula d
iiitempeslivo platoiiicisino. P. II, c IV, VI. Tutto il nerbo di questa
alTermaziope giacc, come ognuo vede, in uu Cl SEMRRA. Basta dunque opporgli un
aliro Cl SEMBRA, e la forza riman elisa e aonientata. E per sopra piu, le
ragiopi del nostro ci sembra ogoup puu vederle pel testo. i6o sussislenza,
e fino a tanto che non abblamo detto dentro di noi che sussiste, egli noo e
ancora da noi percepilo, o pieaa- uiente avvertito. Gi6 posto, io osaervo, che
ella h pare una grande impro* prieta di parlare il dire che noi avvertiamo un oggetlo , intendendo, che noi volgiamo a lui
IaUenzione nostra, con un movimento di attenzione che i ancora nel suo
cominciare , non bastevole a fare! accorli deH'oggetto: perocchi nel comun
parlare , avvertire un oggetto , i quanto accorgerci della sussi- atenza deU'oggetto
, e nellaccorgerci di sua sussistenza, ap> punto Yaffermiamo } nel che sta,
secondo il Mamiani, il giudi* zio conoscitivo. Ma lasciando Vawertire, che i al
tutto impropriamente nsato, e parlando AtAYaUendere; anchio credo, che si possa
mental- inente distinguere quel priuio volgersi dell' attenzione intellet- tiva
ad una sensazione, da queHelTetto ch'ella poscia conse* gue, il quale k la
percezione dell oggetto: quello i il prin- cipio dellattenzione, questo rYh il
fine: quel principio an- tecedente al
gindizio conoscitivo; ma questo fine riposa e si compie nel gindizio stesso
conoscitivo, netlaffermazione di un ente, la quale affermazione h appunto la
percezione di lui. Ora ci6 che si cercava non era mica se noi potevamo at-
tendere senza giudizio conoscitivo : questo si sarehbe potato in qualche modo
difenderc, restringendoci a parlare di un atten- zione iiicipiente, e non
ancora completa: volevasi ansi provare, che noi senza gindizio conoscitivo
possiamo concepii'o i termini particolari paragonabili. Parlavasi adunque di un
attenzione finita, di un attenzione , che doveva ottenere il suo ultimo ef-
fetto, la concezione de termini: lo spirito nostro adunque do- vea accorgersi,
in conseguenza duna si fatta attenzione, che gli oggetti sussistevano; dovea
dirlo a si stesso, che sussiste- vano : e il dire o I'affermare a si stesso la
sussistenza di quei termini, i un buono c be'lo giudizio conoscitivo, secondo
la definizione recataci dal nostro stesso egregio G. M. (t). Dun- (i) Quando al
N. A. i bisogao, dice il coatrario. E non i sua quesla senlenza, che cbi osicrva gliidlra >i? Osscrviire
soniplicctnculc e ancor ineno di avvertire un oggetto, che e IelTelto
ilcH'osservare; e pure in tin luogu vuolc, cUc Iavverlirc sia scuza giudizio; c
iu uu allro dice assoluta. Digitized by Google i6i que non si possono pur
concepire i termini parlicolari da pa> ragonarsi, senza un giudizio.
CAPITOLO XXI. comtimdazionb : l urroizioiiE dea. o. m. esice oh giooizio, E
DEU.E IDEE FRECEOENTl. Ma pria di passare ad esaminare il secondo de' tre alii,
che a sentenza del N. A. occorrono alia formazione degU univer* tali ( I ) ^ mi
si permetla di volgere qui nno sguardo all' Itletso primo fondamento di tutla
la doUrina del libro , che da ma> leria alle noslre otservazioni. Queslo
fondamento, in cui tulle le sentenze del N. A. ai erigono, h in quella ch'egli
chiama intuizione immediata , la quale
essendo il primo alto onde parle il Mamiani, do* vrebbe coincidere, almeno in
parte, colla concezione de' ler* mini paragonabili , dal C. M. dichiarata il
primo de Ire atti co quali perveniamo alle astrazioni. ella vcramente qaesta intuizione immediata,
onde prendon ie mosse i ragionari del N. A. , il primo principio del vero
uroano, e del cerlo? Se ne riprenda la defiaizione; Chiamiamo intuizione la vista iotelleltuale
delloggetio X pensalo, astraendolo da qualunque riferimenlo a sostanza X e
guardato nella sua enlila fenomenica
(a)^ ovvero: x Iatto X di nostra menle, il quale conosce le proprie idee
e le atti* X ncnze loro reciproche (3).
Or nella prima di queste due dcGiiizioni , egli pare cbe Iia- tuizione suppunga
d innanzi da se roggello pensatu, e delU astrazioni fatte su questo oggelto.
Nella seconda poi chiara- mcnte si pongono le idee belle e formate, c 1
intuizione non mcole, che m chi otierva gipdica . Quests ultima Koteusa i iiel
tuo libra al bum. V del c. VIII, P. II. (i) Vedi addieiro. Cap. XIX di queslo
bbro. (a) P. II, r. I, IV. (3) P. II, c. Ill, 1. Hosmini, Jl Rinnovamcnlo. a i
Digitized by Google i6i le forma, ma solo le conosce, e conosce pure le loro
atlinenze reciproche. II G. M. movendo ogni suo ragionare dall' intiiizione
immc* diata nou s' innalza adunque a cercare quali cose a questa precedauo ,
quali sieoo le condizioni che rendano possibile 1' in- tuizione medesiroa. Egli
ha ragioue, in tal senso, di dire chegl' trasalta la questione dell'origine
delle idee, perchi lo fa ve- ramente^ ma egli non avrebbe dovuto poi tornare
mai piu su questa questione, avendone gia perduto ogni diritto: perocchi la
questione dell'origine i al di li dalle sue ricercbe; comin* ciando il viaggio
dall'intuizione, non pu6 egli pin giungere per via retta sul territorio
dell'origine, quand'anche viaggiasse tutto il cielo filoso6co^ perocchi il piu
eminente punto da cui discende , 6 inolto al di sotto della regione in cui si
trova la discussione sull'origine delle nostre cognizioni. Tale questione si
dovrebbe porre cosi: I'intuizione sup*
pone ella nessun' idea precedente ? Egli all'incontro assume gi4 per
indubitabile, che tutto dall'intuizione cominci: 1' in* tuizione i veramente il
suo postulato. Ora avendo accordato a si stesso un tanto postulato, qual
maraviglia, che in esso trovi tutto ci6 che brama? Nell' intuizione egli trova
ula facolta di sentire distintamentc X non una sola idea, ma pih, non sempre
Puna dopo I'allra, u ma I'una insieme con I'altra ad un tempo^ la virtu di
astrarre, di comparare e di giudicare^
I'esercizio della nostra
spontaneita, ecc. (i): in somma egli ha
per bella e spiegata ogni operazione dcllo spirito : la sua spiegazione sta
tutta nel supporre, che gli sia dato per primo principio quel grande atto
dintuire, che, come generalissimo, tutti gli altri racchiude. In somma debbo
dire di lui , quello che ho gia detto di Locke : egli parte dal fatto , che 1'
nomo ha una potcnza di pensarc, senza attendere che tutta la questione Glosofica
consi- ste a determinare , se questa potenza sia possibile, senza qual- che
lume da essa posseduto, col quale ella operi (a). Che la (i) P. II, c. IV. (a)
V. il K Frammenlo di IcUera sulla Classificazlone de' sislemi filoso- lici ecc. negli OputcoU filoiofici, Milauo i8aS, vol.
II. Digitized by Google i63 filosofia danqne t!a ancora al tempo di Locke?
chella uon sia uscita ancora di qaella povera fanciulleeza? CAPITOLO XXU. LA
PERCBZtOSE E AHTKMORE ALL' UITUIZIOHE DEL C. M. ALLA VEBCEZIOSE k AtITBRIORB l'
IDEA DELl BASERE , (ECOHDO IL XAMIAHI. Laonde gli oggetti del pensiero sono gik
suppoati dal N. A. Egli non s'avrede , che innanzi di contemplare gli oggetti
for- mati in noi, v'ha un primo atto che li forma nel nostro *pi- rito , e che
questu i la percezione. Se egli avesse tolto ad esaminare questo atto del
percepire le cose, precedente a quello A'intuire le idee, si sarebbe av-
veduto, ch'esso k il gindizio, onde gli oggetti da prima si af- fermano per
oggetti, o, che i il medesimo, per enti (i)^ e che questo gindizio ha bisogno,
per farsi, di unidea precedente, cioi deir essere ideale o universale. E di
vero, i egli possibile paragonare due oggetti, senza saper prima chessi sono? e
il sapere che sono, non quanto un affermare a noi che sono? e I'affermare a noi
che sono, non ^ il gindizio conoscitivo, secondo la definiziope del N. A.? e il
gindizio conoscitivo, non esige, giusta lo stesso A. N., un universale
precedente? Non solo il N. A. insegna, che il gindizio conoscitivo ha bisogno
di un universale, ma ben anco accorda chegli ha bisogno del piu astratto di
tutti, che, a sua detta, i I'essere. E percbi questa astrazione, la massima di
tutte, non si pu6 fare, secondo lui, senza I'uso di segni, egli insegna di piu,
che al gindizio conoscitivo debbono preceder de segni. 11 possiamo noi (i) Fra
i lesti di vtrj lilosofi italiani, che il N. A. pone in testa di ogni capilolo,
a moslrare chegli s accorda colla filosofia antica italiana, vha pur questo del
Campanella La percezione delle cose i un
giudicio {Univert. Philos. P. II, lib.
VI, c. iz). Tale senlensa avrebbe poluto dar moko lume al C. M., se ci avesse
atteso, Egli la adduce in priocipio del c. V della II Parte della sua opera.
Digitized by Google 1 64 avcrc piu mansueto e benigno? Le sue parole ci danno
assai piu che non vogliamo , peroccbi elte dicono cosi : u Non si sa
comprcndere in qual guisa potremmo noi com- u porre ana mentale proposizione, e
dire per es. a noi stessi, u la tal cosa ovvero noi siaroo, senza di gi4
possedere I'uso u di certi segni , che faiinosi ajnto alle somme astrazioni : e
H per vero, Iastrazione dellessere, la quale intervime in cia- tt scuna
proposizione, i la massima di tutte I'altre
(i). Una proposizione mentale, e iin giudizio, i il medesimo. In ogni
proposizione mentale interriene la massima astrazione, quella dell'essere:
dnnque questa massima astrazione interviene in ogni giudizio. Ma il giudizio i,
secondo il G. M., il primo fenomeno dell'aHo conoscitivo. Dnnque 1' atto
conoscitivo lino nel suo principio, nel suo primo fenomeno, ha bisogno dcl-
I'idea astrattissima di tutte, dellessere. Che cosa possiamu noi dire di pih?
che cosa rogliam noi altro? CAPITOLO XXIII. AL FARAGONE De TERMINI E ANTERIORB
l IDEA DELlbSSESE. Continuiamo : il giudizio 6 alTermare a noi stessi che una
cosa i. Noi non possiarao paragonare due cose per trovare in esse le note
simili, se non abbiamo prima aflerroato a noi stessi che quelle due cose sono.
Dunque I'atto del paragonare le cose richiede anchesso precedeutemente il
giudizio, die si fa coU Iidea dellessere universale. Ma il paragonare le cose, e u astrarre da esse
Iidentico , i il secondo de' tre atti
anno* verati dal C. M. necessarj alia forinazione degli universali (a). Dunque
anche il secondo atto che fa la mente in furmando gli universali, suppone prima
di tulto nella mente formata I' idea dellessere. Gio tulto couscguenleiuente
alle premesse del N. A. (i) P. ir, c. IV, V. (a) P. II, C-. X, VII. Digitized
by Google CAPITOI.O XXIV. iG5 l'iDBA DBLleSSEHE HON E ON PRODOTTO DELl ASTHAZIOHB
, COME WOLE IL MAMIAHI. FALSA DOTTRIHA CUB MI ATTRIBDISCE. Ma non posso ancora
enlrare a parlar di proposito del se- condo atto dichiarato necessario dal
Mamiani alia formazione degli universal!, cloi del paragone delle idee, e
delPastrazione del simile ^ perocchi giova ck io mi fermi a considerare qnel-
I'assetire, che cgli fa nel passo citato, esser necessarj alia for* raazione
deU'astrattissiraa delle idee, de'segni come ajuto delle astrazioni (i). Anckio
ho detto che le astrazioni far non si possono dal nostro spirito, senza Iajuto
di vocabnli o di segni (a). Ma diibito forte, se il Mamiani abbia colto il
iiiio pensiero circa la natura delle astrazioni. Egli mi attribuisce il fare
dell idea dellcsscre Iultimo ter- mine dellastrazione (3). Qiiesto i vero, ma
in altro senso dal sno. Pretende egli , che collastrazlone si form! quella
idea, lo comincio dallo stabilire, che Iessere i intuito da noi natural- mente:
poi dico, che non riflettiamo di intuirlo se non solo assai tardi, cioi dopo
che ci siamo bene esercilati nellastrarre, e che siamo vennti , per cosl dire ,
allultima delle operazioni che possa fare la facolta astrattiva. Ora k a
sapersi, chc nessuna idea, secondo il nostro modo di vedere, si forma in noi
col* 1 astrazione : coll astrazione, che e una funzione della ri/les- sione ,
non si fa che separare Iidea gia esistente, dalle altre notizie e sensazioni ,
fra le quali i avvolta e coiifiisa nellanimo nostro, considerandola nella sua
primiliva purila e sinceriti. Ella i in noi: coll astrazione noi la troviamo in
noi, la co> nosciamo, flssiamo in essa gli sguardi del nostro intelletto:
insomma ella per Iastrazione diventa idonea di essere oggetto alle noslre
meditazioni GlosoGche, quando da prima si stava (i) Egli li chiama u astralli
*i quest! segtii : ma i srgni non sono aslralli. Qiirsla i iin' impropricii di
parlare. (o) N. Snfigio Set. V, c. IV, arl. iv- (3) P. Il, c, XI, 11. 'iQitized
by Google 1 66 pure nello spirito nostro, ma senza tirare a ni molto ni poco la
nostra osservazione. E quante cose passano o dimorano nel nostro spirito
inosserrate? t Quando io nel corso di quest opera , cosi si legge nel N. Saggio, u chiamo Iidea
dellessere in universale astrattissi* u ma, non intendo per6 che sia dalla operazione
dellastrarre prodotta, ma solo chella
sia per sua natura astratta e di>
visa da tulti gli esseri sussistenti
(i). Ora io dissi ancora, che i vocaboli sono necessarj a formsne le
astrazioni , ed anche qnella dell essere ; ma unicamente per questo, che senza
i vocaboli, la mente non sarebbe da prima mossa e tirata acontemplare il
simile, disunendolo dal dissimile. So , che il Mamiani dona alia mente un
movimento spontaneo a tali operazioni , ma questo movimento dee avere una
cagioue; altrimenti porrebbesi un fatto inesplicabile , un fatto senza ra* gion
sufHciente. Or bene: io ho creduto di dimostrare, che questa cagione, che muove
Ianimo e il Gssa nel simile, nun puA esser altro che il segno, il quale, posto
in certe circo- stanze, fa IufGcio di vicario della cosa. Ma ci verdt forse bi-
sogno di tornare sn di questa materia altra volta. CAPITOLO XXV. CONTinUAZIOME.
Intanlo avendoci conceduto il Mamiani, che in ogni propO' sizione mentale, in
ogni giudizio (a) dee intervenire la mas- sima delle astrazioni: cioi 1 essere
ideale^ ed avendo noi pro- vato, che i termini del paragone non si possono
percepire (i) Set. VII, c. VI. (3) Secondo il C. M, Iuna idea dall altra (P. II, c. IV, ii). Noi po! abblamo mosirato,
che non faoDO bisogno sempre due idee perchi ci sia giudicio, baslando che ci
abbiano due termiui , I uoo de quali pud essere uo senlimenlo : I'altro poi dee
essere un'idca. ^cdi Nuovo Saggio Sez. Ill, e. Ill, art. VIII, rultinia nola di
questo ariicolo). II M. adunque fa piu complicata che noi non fac- ciamo I
operazione del giudizio, e pei6 taato piCi bisogoosa di esser prcce- duta da
qualche idea universale. Digitized by Google 1 67 tenza un giudizio^
conzeguita, die nd primo atlo de'tre ri- cbiesti dal Mamiani alia formazione
degli universali, cioi nella coocezione degli oggcUi da paragonarsi , i esiga
1' idea dell'es- sere gi& formata. Egli non ha mica atteso, che percepire
gli oggelti parago- nabili, eqnivale a formare a noi gli oggetli^ perocch^ gli
og> getli non sono ancora al nostro spirito, fino a Unto ch^egli non li
abbia percepiti, e aOermati. Ora, se egli accorda, seoza cootroversia alcuna,
che noi non possiamo o dire a noi stessi la Ul cosa i, senza
Iastrazione delPessere che i la
massima di tulte Pal- m tre (1)', in obe
maniera poi si fa dnnqne Iastrazione del* Iessere? in che modo si acquisU
quest' idea astraltissima ? Egli toroa qui al paragone , ricorre di nuovo all'
osCruzKine dell'identico: parlando appunto della generazione di quesU terriblle
idea , dice essere aperto e notorio non
potere le idee di medesimezza, ovvero di
diilerenza, essere preseuti e formate
nel nostro spirito inuanzi dell'atto di paragone, onde sor- B gono n
(a)^ e censurandomi per aver io riiiuUto alia rifles- sione lorkiana il potere
di formare I'idea dell' essere, dice: B Quantnnque sia vero che la riflessione
lockiana non puo B agginngere ni scemare la materia prima dei nostri concepi- B
menti , pure non le si pu6 disdire la facoIU del mettere B in paragone piu
termini, e con quesU I'altra d'ingeuerare B le idee di attioenze, e di cogliere
1' identico per mezzo il B vario, cost come il vario per mezzo 1 identico (3). Si vede da questi luogbi, e da piu altri
del suo libro, ch'egli parte come da nn dato certo, cbe I'idea dellessere sia
un'idea di medesimezza , e che tutte le idee di medesimezza si formino dal
paragone. Dove ci6 fosse certo, e dove questo appunto non fosse ci6 cbe hassi a
provare, ogui cootroversia iotoroo alia genesi di questa idea sarebbe cessaU.
AH' incontro in provar questo punto sta il nodo , a questo si riduce tutto il
problema ^ di nuOvo non iatese adunque il Mamiani quale fosse il vero stato
della queslione iutorno I'o- rigine delle idee. (1) P. Il, c, IV, V. W P. II,
c. XI, HI. (3) Ivi IV. Digitized by Google i6 Trova egli nalnralissimo ed
cvideute, che Tidea dell'cssere, come tuUe TaUrc aslralle, si formi mediante il
[nragone de' termini. Ma cgli non s'accorge, che dovendo i termini esser prima
dallo spirito concepiti , acciocchi poi si possano para- gonare, deesi prima
spiegare come quest! termini si cencepi- scono. Or si dimostra , che questi
termini non possono conce- pirsi dallo spirito , se non a condizione di
afifermarli a sd stes- so^ e che IafTermarli a sd stesso, d un dire la tal eosa d
^ al che il C. M. stesso confessa esigersi Iideii dell' easeie. Egli
adunque cozza seco medesimo, e distrugge con una mano cid che fabbrica
collaltra. f Quando adunqne il Mamiani rifiuta I'argomento ch io trag- go, a
provare che Iidea dell'esserc non d fattura nostra, dal* 1 esser qnesta 1
ultima delle aslrazioni^ egli non m' intended perocchd intendendomi , egli
vedrubbe , che la mia prova d fon> data su quegli stessi principj che si
trovano sparsi qua e cold nel suo libro. ,, Togliendo io a nolomizzare per cosl
dire un idea concrc- tata, per esempio, come ho fatlo nel JV. Saggio, I' idea
di Mau- rizio mio amico, il ragionamenlo che io instituisco d questo; Tale idea
e complessa , ciod risultante di multe parli. Se ciu non fosse, io non la
polrei analizzare^ perocchd I'analisi non crra le parti in un concetto , ma ve
le trova. Analizziamo, ciod scumponiamo quella idea nelle sue parti. Da prima
.separiamo da lei la sussistenza : non d piii la notizia di nil amico reale, ma
di un amico merameute possibile, seb- bene di quella medesinia statura, di
quelle laltezze , di quel colore di prima, ccc.^ con ci6 Iidea si d appurata,
non d piii concretata e mista, ma sincera. Leviamo da quelle forme umane ogni
memoria di amicizia: rimane il tipo di un uo mo. Separiamo gli accident!, che
(iuiscono quest uomo: riman Iuomo iu ispe> cie astratta. Non pensiamo piii
alia sua iiitelligenza , ma solo allanimalita : resta nella mente Ianimaie, che
d un genere a cu! 1 uomo come specie apparteneva. Seguitiamo a scarnarc U
nostro pensiero dellanimale non fissandolo piii suU'aniqialita , ma sulla materia
bruta, che d parte dell'animalita^ pensiamo tnttavia un corpo possibile.
Restringendo ancora la vista del- r intendiiiienlo non veggo piii lu corporeila
, ma Ientita in Digitized by Google % genere. II mio pensiero pensa noiidlineno
ancora qualchu cosa, una cosa clie ha pcnsato sempre , un elementu che ha
trovato neir idea di Maurizio e in tutte Ialtre idee: dou i U(o ag> giunto
nulla all oggelto del mio pensiero^ ma quest oggetio s' & tnttasia
diminuito, e scarnato. Lidea di Maurizio era diin- que sommamente coniplessa^
io vedeva complessivamente tanle cose in quclla: la ho scomposta, lino a
restarmi presenle al- 1inlendimento un solo elemento semplicissimo di lei, e
questo i I'enle. Posso io levar quest ultimo eleraento dal pensiero? Levandolo,
non ho piii nulla. Che dunque conchiudo? Che per pensare a qualche cosa , il
mio spirito abbisogna di quel primo elemento col quale s'inizia il pensare:
questo cle- mento e quello che si trnva coll astrazione, quello che rimane
nella mente Iultimo dopo aver da lei tolti tutti gli altri, e Iente ideale i
appunto desso. Simiglianle conclusione i ella tanto aliena dal C. M.? No,
certo: perocchi equivale a quanto dice il Mamiani appnnto, che u la massima
astrazione che quella dcllessere
interviene in ogni posizione mentalen, e che quell idea dell'essere u porge u
Ielemento precipuo del giudicio conoscitivo , cioi il ver- u bo a (i): qnindi
non si da percezione di oggetti paragona* bili senza di lei. Lidea dellessere
non pu6 dunque formarsi col paragone, ma
qnella sola che precede e rende possibile ogni paragone. Or dopo di cio
dicasi, che cosa possa valere Ialtra afTer- mazione pure del N. A., eolla quale
pretende che quest idea dellessere .sia figlia della riflessione lockiana ,
perocchS nou u si pu6 disdire a questa la
facolta del mettere in paragone pin
termini . No certamente, non si pu6 disdirle ciu', ma si puA ben disdirle di
farlo senza Iidea dellessere^ si pni^ ben dire che la riflessione lockiana ^
posteriore a quest idea*, e che perA , sebbene possa con questa idea far
paragone delle cose gia percepite, non pu6 perA dare origine allidea stessa che
le A madre, o certo le A necessario istrumento di suo opera re. (OP. II, c. XI,
II. Rosmimi, Il Rinnovamenlo. CAPITOLO XXVI. 1 70 IL C. M. MON COMOSCE LA
MATURA DELl'iOEA DELl'eSSERE. Ma il N. A. si adombra assai di quella
proposiiione, che la u idea dell'essere
e comune a tutte le idee singolari, io guisa u ch elle 8000 scmplici maniere e
determinaziooi di lei ( i ). Teme egli
qoesta proposiziooe per gli assurdi che indi gli sembrano seatorire. Anche qui
pero il debbo io rivocare entro i limiti del giu- sto metodo filosoGco^ il
quale prescrive, che traltandosi di falti , non si cerchi come debbono essere ,
ma a dirittura si rilevi e certifichi come sooo,.se ne studi la natura e le
leggi. Hassi a sapere, se in ogni oggetto delle nostre idee noi veg- giamo si o
no Iessere? mano allosservasione , mano all'analisi) senza tanti raziocinj*,
osservando e scomponendo, noi vedremo agevolmente, che oggetto dell' idea ed
essere i un bl sinonimo. Ci6 non pertanto udiamo in che consistano i timori del
N. A. Questo, se non erriamo, e un vero
trasmotamentu del* 1' idea in sostanza ,
ed 6 un ragionare della prima nel modo u e nei termini che i lecito fare
soltanto della seconda (a). Da vero ,
che se ci6 fosse , saremmo rovesciati in un dannoso errore ! Ma di questa sua
deduzione egli non da prova. In quella vece si allarga a mostrare , che , posto
per vero che I'idea si cangi in una sostanza, noi siamo nell' assurdo. ai Le
idee sono tutte quante una pura modIGcazione del u nostro principio cogitativo,
e non avvi fra loro uua idea u parano
altrimenti ira loro , die lasciandosi distinguere : e (I) P. II, c. XI, II. (3)
Ivi. (3) P. II, c. XI, II. Digitized by Google '7' a in tal snpposto egli non
sarebbe loro sostegno comune: Nel
secondo caso, cioA che non potMse farsi distingaere dall'a]- u tre idee,
in qual modo verrebbe egli pensato, disllnto, e
conosciuto da noi (i)? Ma a che
tanto scialacquo dingegno? a provare die Tidea delPesitere non h una sostanza!
Per rispondere a ciu, basta nna sola parola : niuno ha mai sognato una
simiglievole ga gliofleria. La sostanza dee avere, acciocchi sia tale, quello
che io cbiamo realita o sussistenza^ ora I'idea (considerata nel suo oggetto)
non i che la possibility, o sia I' iniziamenlo del realu e del snssistente^ di
guisa che, nel Saggio , cssere ideale (idea) ed essere reale (cosa) sono sempre
opposti fra loro come principio e fine. Egli i impossible aduuque il confondere
I'idea colla sostanza. Ma che perciu ? se I'idea dell' essere non i sostanza,
sara per questo meno vero che ella si trovi in tulte I'altre idee? Per
iiegarlo, converrebbe poter dimostrare, cbe u se I'idea dell'essere e in tutte
I'altre idee, o piii tosto, se tutte I'al' tre idee sono nell'idea dell'essere,
ciu dee trar seco per con- seguenza inevitabile, che fra quella idea prima e le
altre passi quel nesso che i fra la sostanza e gli accident! : ne ciu si pu6 dimostrare, se non se dimostrando,
che tutti i nessi possibili non sono se non quel solo, di sostanza, e di acci-
dente. Ora, con buona licenza, io mi perraetto osservare, che il provare
questo, i pur un troppo malagevole assunto. Pe> rocchi non si potrebhe
venirne a capo , die in due soli modi: o col conoscere a pieno la natura di
tutti gli enti tanto real! come possibili , e loro relazioni , il che per
avventura non e dato allnomo; o col trovare una cotale argomeiitazione, la
quale ineliiltabilmente provasse , esser contradditorio che fra gli esseri
dell' universo v' abbia qnalche altra unione fuori di quella della sostanza e
dell'accidente; la qual via di diroo* strare, non vorra, io penso, esser meno
ardua dell'altra^ pe- rocchi a dimostrare che tutti gli altri modi possibili di
union! sieno intrinsccamente npngnanti, converrebbe conoscerli, e non (1) Ivi.
Digitizetfby Google 172 potcndo essi cader tutt! nella mente nniana, qaesta aon
po> tra Riostrarne 1 impossibilita. Ma ci6 cbe piu mi reca stupore, si i il
vedere , come il G. M. non tenta ni pare una simi- gliante dimostrazione, ma in
quella vece ci da per certa una proposizione di tanto peso, che il dicliiarare 1 idea delles- sere comune a
tutte I'altre idee, k a dirittura un tramutarla in sostanza , non iscorgendo per avventura egli altro
modo onde quell idea possa trovarsi nel seno per cosi dire dellaltre, o Ialtre
nel seno di lei, senza che una sia sostanza, e Ialtre accidenti. lo ho meco
stesso in piii luoghi notato , leggendo il libro del Rtnnovamonto , come
Iautore, parlando dogmaticamente , sentenzj, non avervi piu nella natura dellc
cose, che certi cotali nessi , qnali si presenlano al suo limitato vedere. A
ragion desenipio, in un luogo egli dice:
Ogni natura di u ncsso risolvesi in queste tre specie: o egli cade in mezzo alle somiglianze ed alle dissomiglianze, o
guarda il legame u della causalita, o in fine guarda la semplice inerenza delle
u qnalita nel soggetto, e delle parti nel tutto
(i). Ma come prova egli , che non possa csservi qualche altra specie di
nesso, oltre a queste tre? Egli Iafierma come cosa certa: di prove, n una
parola. E che cosa son dunque i pregiudizj, sc non certe proposizioni che
ammettiam senza prova , e che rice- viam nella mente o perchd le abbiamo udite
da altri, o per- ch^ le concepiarao gratuitamente da noi medesimi ? Intanto su
queste proposizioni , delle quali il filosofo non si cura di rendersi con to ,
egli ragiona, fabbrica: e se quelle proposi* zioni sono false ? povera la sna
fabbrica ! sarebbe un bel ca- stello in aria (a). Non e dunque buon metodo il
sottoporre la natura a no- stri pregiudizj, e restringerla alle nostre limitate
vedute. Assai sovente ella si burla della presunzione e temerita nostra; e ci
(i) P. I, c. XII, VII. (a) E Iroppo lungo
dimoslrarc quaolc conseguenze il M. prciciida csi- vare da un si faUo
pregiudizio, die nou v'aljbiano iidle cose, se nun que cerli generi di nesso.
Rirnetto i miei loUori a* luoghi seguenti delTopera del Mainiani; P. 1, c. XII,
vii; P. II, c. X, ii; c. XIII, vii;
XVII, i. Digitized by Google 173 ia talora lo scherzo di tirarci nell
incoerenza con noi stessi, a fine di punirci di tale temeritii: per es., dopo
avere il C. M. ammesso per certo , che in natura non si danno che tre nessi fra
le cose, i." di somiglianza , a. di sostanza, e 3. di causa ^ ecco come la
natura stessa gli si mostra da un altro fianco, facendo che questi nessi
diventin qnattro o cinque, aggiun- gendo n M. a tre primi 'quello delle parti
col tutto , e delle conseguenze co principj (i), senza per6 avvedersi di quanto
avea prescritto altrove, ciok che non potessero passare il nu- mero tre. Ma io
ho qni in serbo uii' allra coserella. 11 G. M. parlando della relazione che il
soggetto ha col predicalo ne varj giudizj della mente, non esita punto ad af-
fermare, che quella relaztone u si risolve in connesso d'acci- denle e sostanza (a)! Di questo vieue la incredibile con-
segnenza, che tutte le idee di soggetto ne' giudizj sieno so- staoze , e tutte
le idee di attrihnti sieno accidenti ! ! La cosa parrii nuova , ma ella i pur
tale (3). Dopo di ci6 , ^ dilEcile a spiegare come potesse nojare al G. M. il
fare dell' idea del- I'essere una sostanza, e delle alire idee, degli acc'denti
di quella. Ma io temo , che il lettore si lagni d' essere in tali filosofiche
inezie piii a Inugo trattenulo.' > ' : PerA pill breve mi spaccerA?. delle
altre parole del N. A. colle seguenti osservazioni. (i) Cut si dice Del libro
del Sinnovamenlo , P. II, c. X, ii. (a) P. II, c. X, II. (5) Ecco le parole del
C. M. h Non resteremo qiii Ji nolsre una quarts ('specie di relaziooe, la quale
TOTTOcak si aisoiva in corrzsso dsccidskts
z soSTMizt, pure si conviene disliiigoerla e particolariztarla , come
quella n che e rosMs costiiite dooiii rsHSisao, e sbbrsccia in $i lulte 1 altre sorle di relazioiii, qunlora si faniio
oggetio di coiioscenza >. E apparisce , che non si parla qui solo di quelle
idee di soggetto, che sono idee di soslausa, ma di lutle le idee di soggetto iu
generale; e acciocchi apparisca ciA via mrglio , odasi qiiello che
seguita: Colesla quaria specie
verra distinta e compress asssi
facilmeule, se metleremo in ricordo, cbe couo-
soere vool dir giudicare, ciod distinguere ed affermare alcuu attributo daicnn soggetto. Lsonde niuoa congiunzinne
didee o di fatti pu& eS" sere
cooosciota da noi, fiochi non riceve innauzi la congiunzione inlel- letluale
P. II, c. X, ii. Trattasi aduoque dun soggetto qualsiasi, che regga un
predicato. Digitized by Google 74 I.* Egli k falso, die le idee tntte quanle
nano una para niodiGcazione del nostro principio cogitativo. II principio cogU
tatiro i il soggclto. e I idea i Ioggelto: fra soggelto ed oggelto v ha
opposizione^ dnnque Iana non e non pu6 essere nna modlGcazione dell altro.
Gognizione non t ha, se non a coiidizione, che Ioggetto sia cosa di versa ed
opposta del soggetto. Bensl la sensazione ^ una modlGcazione del sog- getto
senziente^ e per qucsto appunto ella non 6 oggetto, ella non i cognizione, ella
i cieca. II N. A. adnnque attribui- sce alle idee le proprieta delle sensazloni
: e confondendo quelle con quesle , s aduna colla schiera de sensisti. a* Se
egli intende per a una idea cospicua ,
una idea che sia una sostanza , i vero che non vha nella mente una
idea-sostanza; come non vha uh pure nnidea-acddente^ pe- rocchi Iapplicare alle
idee qnesli vocaboli e relazioni di so- stanza e di accidente, d un mettere le
cose fuori di luogo: come chi dicesse che vha un suono che pesa dieci libbre,
ed un altro che ne pesa cento. Allincontro il negare che vi sia una idea
cospicua fra tutte Ialtre, che questa sia quella dell essere in universale; il
negare, che questa sia lu piu uni- versale di tutte, e che le altre in lei si
comprendano , non a quel modo che Iaccldente aderisce alia sostanza, ma in quel
raodo proprio e parlicolare onde una idea meno universale sta nella piii
universale (i), una specie nel genere, una con- seguenza nel principio; il
negare cl6, i negare i fatli piii ma- nifest! di natura , i sostituire ad essi
le proprie ipotesi, ed i proprj fallaci ragionamenti. 3. Lalternativa, che le
altre idee, se fossero conlenute in quella dell essere, o dovrebbero
distinguersi da quella o non distingnersi , e incompleta. Le altre idee si
distlnguono, e in- (i) Qiiesto i an vero,
cui ci sbbhUiamo per luUo, involonlariameole , senzs accorgerci. Quando.
a ragion desempio , il C. M. ci dice che m di-
mento precipuo del giudizio conoscitivo, cioi il 'verbo , e per6 essa
antecede qualsiveglia giudizio: 3. Lidea dell essere non pu6 formarsi ne pure
mediante alcuna afiermazione della mente, perocchi affermare, a detta del C.
M., u un sinonimo di giudicare. Riman dunque obbligato il G. M. a darci la
generazione del- Iidea dell essere, senza che in questa considerazione
intervenga alcuna proposizione mentale, alcun giudizio, alcuna q^ermozibne. Or
chi non vede, che il problems, legato a queste condi- zioni, i non poco
dilBcile? In un passo che di sopra abbiamo allcgato del N. A., egli mantiene,
che vha bisogno di segpi astratti, acciocchd la mente possa giungcre alle somme
astrazioni, e fra esse quella Digitized by Google 77 ilell esseru dice la massima
di tutte. Ora quest! segni , che egli cliiama impropriamenle astratti , sono
essi dati all uma- nitii dal Creature? o pure ce li formiamo no! stessi? Non
pare il Mamiani iuclinato alia prima sentcnza^ ma quando fosse, sarcbbe da
chiedergli, come, non avendo noi 1 idea delles- sere , potessimo con de segni
formarcela ^ ci6 che egli non isplega, ni noi crediamo che egli potesse
spiegarci : con- riossiache ancbe il segno' non pu6 giovarci se non a condi-
r.ioiie die il percepiamo, e noi possiamo percepire se non Iaf- fermiamo a iioi
stessi, e non Iaffermiamo a noi stessi sen/.a 1 idea dell essere, che a delta
del Mamiani i sempre la preei- pua parte del gludizio. Se pui si voglia che noi
stessi ci forpiiam qnesti segni, cre- sce smisurataiiiente la difCcoIli.
Imperocchi noi dobbiamo aver trovati e inventali anrhe quest! segni a quelle
condizioni stesse che fur poste all iiivenzione dell' idea dell essere, cio^
senza cbe la mente formi alcuna mentale proposizione , senza che clla formi
alcun giudizio, e che nulla affermi: giacch^ tali se- gni precedono Iidea
dellessere, volendo noi con essi ottenerla, e senz'essa i impossibile, a delta
del- Mamiani, ana proposizione mentale, nn giudizio, ana afTermazione. In che
modo dunque, ci dica 1 A. N. con saa hnona pace, ana mente sapra inven- tare
dei segni, e, secondo la sua frase, dei segni astratti, quando essa non sa
aiicora affermar nulla, giudicar nulla, pro- nnnciar nulla internamente? Per
inventar de segni, non i egli uopo almeno die li affermi ? Non e egli uopo che
percepisca )a relazione di quest! segni colle cose segnate? C pu6 perce- pirsi
una tale relazione senza che inlcrvenga m'nna proposizione mentale, die ponga
mentalmente una tale relazione? in pcrce- pendo non si giudica? E prima di
affermar tali segni, si dee trovarli, e prima di Irovarli si dee cercarli, e
prima di cercarli si dee averne concepito il proponimento, il fine, Iusn. Or
tiitte qtiesle cose, come le far& ella una mente che non sa giudicar nulla,
n alTerniar nulla, ne dir nulla a si stessa , iii mede- siiuamente percepir
nulla? Dove ce ne andiamo noi? Per qiiali av.volgiinenti ci perdiamo? Non ci
qui ua paralogismo solo, ci perduiii il G. M., ce n lianno millanta. Rosmim, //
Jtiimovaincnlo. Digitized by Coogle CAPITOLO XXVIII. CO.NTINUAZIO.NE. II
petiodo del N. A., che ha mosse quesU: noslre osserva* zioni, contiene ancoca
una piccola parola, che ce ne domanda dclle altre. Qaesta parola e Iepiteto
di massima , dato all' astrazione dell' essere. Se 1
idea dell essere si trova per astrazione^ se priroa di trovarla, ci convien
percorrere tutta la scale delle astrazioni, giacchd ella e 1' aslrazione
massima di tutte ^ se d' allra parte quest idea dell essere intervienc, come
dice il Mamiaoi, in ogui proposizione mentale, in ogni interiore nostra alTermazione^
convien dire per conseguenzay che passar si possa tutta la fila immense delle
astrazioni 6no all ultima, senza pronnneiare un giudizio al mondo dentro di
noi, senza fare una menoma alTer- inazione. Or ci6 gli riuscira troppo
difiicile a persuadere a uo> mini, che sabbiano un poco del famoso senso
comune, a cui il N. A. si frequentemente e solennemente appella. Che se lo
sviluppo della mente umana va per gradi, e se alia mente ^ commesso di formarsi
col proprio lavoro tutte le idee ^ egli si parrebbe assai manifesto , che I
opera dell astrarre non potrebbe correr di prime giuuta all ultimo suo atto,
tra- saltaudo gli intermedj tutti \ per6 sembrerebbe, che la mente cominciar
dovesse dalle astrazioni minori, e via via alle mag- giori progredire , venire
in ultimo alle somine, e che per giuugere alia massima di tutte non bastasse la
vita dun uomo, ma con- venisse che Iuman genere in corpo vi si soJIetfasse
assai tardi, dopo avervi travagliato piu e piii secoli. III vero, tale i la
marcia che il sistema di molti filosofi sen- sisti prescrive necessariamente
alia mente umana ; peroeche essi sono sempre solleciti di prescrivere
rigorosameiile quello che essa dee fare, assai poco curandosi di cercare
i{uello che vera- mente fa. Il N. A. dice pure, che la virlii ustrattiva
procede nolle sejM- razioni sue per varj gradi, chegli descrive (), e che noi
abbiarao (i) P, II, r. X, IV. Digitized by Google eaininati di sopra. Eil egli
i certo, clie se dal prime gradino dell'astrazione dee pervenire fino in capo
alia scala, ci vorra il suo tempo. Come chc sia, le nitime astrazioni , 1
nltima di tutu dee esser formaU, giiuU il Maroiani , prima che la fa> colti
di giudicare cominci a muorersi, prima che una tola propotizione , ana sola
afTermazioae eirahbia fatto ancora , prima ch'ella abbia aeqaitUto alcana
conoscenza; perocch^ due parti ateaziali
costitaiscono la conoscenza , sccondo il
Mamiani: I'atto del giudicare e dell' alTermare, e Ioggetto giadicato e afTerraato (i). Si soleva credere in antico. die la coltura
intellettuale degli nomini e delle nation! si misurasse specialmente dal
progresso della facolta di astrarre. Ma ora qui il N. A. ci assicura, che
questa facolta giunge al massimo suo svilappo prima che I aomo abbia pure
acquistato la minima co- noscenza, prima che sia uscito da uno state
intellettuale che tarebbe non solo assai inferiore a qaello di qualunque tribk
di selvaggi, ma molto prossimo a queilo degli orang-ouUng. . . .
. CAPITOLO XXIX. CONTINUAZIOrrB : CINQCE ERRORI del MAMUm IKTORNO LE OPEHAZIONI
DEL PARAGONARE E DELlaSTRARRE. E pure il C. M. s'i obbligato a dimostrar tutto
questo! Consideriamo i snoi sforzi : considcriamo come si dibatte per venire a
capo di persuaderci, che I'aslrarre non esige alcun glu- dizio conoscitivo.
Prima di astrarre convien paragonare. Or egli fa passare per una sola maniera
d'atti il paragonare u I' astrarre, dicendo che qnelli insieme presi sono la
seconda sorle di attL necessarj alia formazione degli universali. Quanto al
paragonare, noi abbiamo gia detto abbasUnza a far manifesto, se egli sia
possibile senza Iidea dell'esscrc^ e abbiamo veduto, che non solo egli non e
possibile, ma senza quell idea non i n^ pure possibile la concezlone de termini
che dee precedere il paragone. Veniamo all' astrarre ^ ma prima udiamo il N. A.
(i) P n, c. II, II. Digitized by Google 1 8o u Riguardo alP alto di comparare e
dl astrarre notammo uoi , che Iranslatare la propria attenzione da on
terraine u a un altro e da una qualila ad un'altra i nperazione che u non
donianda di necessila la previdenza d'un qualche scopo u determinato , e con
i:ii!) la universal nozione dellaHinenza u del mezzo al fine. Ma in tal modo di
traslazione consiste X appunto il paragonare i singoli termini , e il porre
mente a u qnello che in loro i comune, in disparte da ci6 che in loro u i
Individuale i> (i). , Qui il Mamiani fa consistere tutta la operazione del
parago- nare e deir astrarre unicamente nc' trapassi dell'attenzione da iin
nggelto allaliro; e crede di provare, che non ci abbia bi- sogno di alciina
idea universale, perchd quell' attenzione si tra- sferisca dun oggettu
allaltro, movendosi ella per via dimpulsi islintivi, senza bisogno delle idee
universali di mezzo e di fine. Ma basta egli qiiesto a provare, che si puo
paragonare ed astrarre senza idee universali ? lo non posso accordare nessuna
delle aifermazioni che contiene il brano che ho trascritto dal suo libro, ma
sono costrctto di parer forse poco cortese ne- gandogliele tutte. Nego adunque,
I .* Che paragonare ed astrarre sia una sola sorte di alii : a.* Che quando
bene avess egli provalo, che a Irasporlare 1 alleiizione da un oggello all
allro non si richiedesse 1 idea universale di fine e di mezzo, avesse provalo
percic^, che quel trapasso far si polesse senza alcunaltra idea universale:
3. Che in quel Irapasso. consisla la
operazione del compa- rarc i lermini : 4.
Che molto nieno in quel semplice tra.sferimento di al- tenzione si
compia quella dellaslrarre , assai diyersa, come dicemmo, da quella di
comparare : 5. * Che basti un impulso fisico a -dirigere Ialtenzioqe ucl modo
che 6 necessario, perch^ lo spicilo venga allc compara- zioni ed aslrazioni
maggiori. Diamo prove di ciascuua di ,queste noslre negazioni. I . (i) P. II,
c. X, VII. Digitized by Google CAPITOLO XXX. I 8 I COHTI.'tOAZIOME. i. u
Parngonare ed astrarre non e una sorte sola di atli n. Confondere due manlere
di atti cosi distinti, e un errore simile a quello che ho notato piu sopra ,
dove il M. confon- deva V attenzione col giudizio. E questo raescolamento di
piii potenze in una, sarebbe stalo in qualche modo perdonablle mezzo sccolo
addictro, quando era invaUa I'ambizione di glurare nelle parole di Condillac.
Queslo autore, lodevole per aver commendato T uso delP ana- lisi, Iapplico ben
poco discemere le varie potenze dello
spi- rito. Ma or, dopo taiilo che detto su qiiesto difetto cnn- dilacchiano
(i), dopo che ({uul sistema i caduto, non si dovea aspcttare dal M.
ringiovanito lo ste.sso errore. Ma che il paragonet non sia IWtrazib/ie, sara
facile a vederlo, considerando, che ulTicio dell'astrazione e quello di
raccorre il simile dentro agir oggetti conccpiti, e questo simile tultavia non
si puA talora discernere, ne anco per moltl e inolti para- gon!. Quante volte
avviene. che nies.se due cose a confrooto, allri non virne a capo di
conchiu'dere se elle sicno della mede- slma specie, o non sleno? Questo
dimostra, che talora il paragone che noi facclamo di due o piii cose, non
giunge ad oUenere qnello efletto che col paragone si cerca ^ il paragone non ^
dunque che il mezzo, a cui i poi fine I'a.strazione che coglie la somiglianza :
ora mezzo e fine sono cose lungamente diverse; tanto piu quando il fine non
seguita a quello di nece.ssita, ma quello talora riman senza questo. E pure 1'
esser giunli a scer- nere la somiglianza di due o piu cose , non ^ ancora avere
Paslrazione compiuta; compiendosi questa medlante un limi- tare e restringere 1
attenzione nostra alle qualita in cui gli oggetti paragonati si assomigllano,
senza ispanderla agll oggetti in cui quelle qualita .si ravvisano. Raccogliendo
pertanto quello cfac abbiamo detto innanzi (i) Vcdi siilla conriisione
sistemalics dellc potenze die fa il Condillac, il N. Saggio Sez. lU, c. II,
art. v c segg. Digitized by Google i8'i sulla differenza che corre tra I
aUetulcre e il pamgonara , c qaello che notammo qai snlla diflerenza fra il
paragonare e Vastrarref possiam conchindere, che vha nello spirito nostro una
sene (iU atti, che sebbene aflSni e spcsso succedentisl , tnt- tavia son di
diversa natura , ni dal filosofo si posson confon- dere. Conviene adunque
distinguersi accnratamente i. Talten- dere intellettiro, a." il pereepire,
3. Inniversaliszare, 4-" il paragonare, 5. il trovare le somiglianze, e 6.
lastran. ^ a. a Qnando il C. M. avesse pur provato, che a traspor- lare
Taltenzione da un oggetto allaltro non si richiedesie r universal nozione delP
attinenza del mezzo col noli avrebbe peri provato, che cio si facesse senza
idee nniversali . La ragione di ci6 i chiara. Acciocch^ I'argomento del C. M.
fosse efScace , egli dovrebbe aver provato priraa, che Ianica idea universale
che puA renders! necessaria in que trasferi- menti di attonzione , sia qoella
delP atlinenza del mezzo eol fine. Ma ci6 non provi egli. Dunque non provo nh
pure, che que trasporti di attenzione far si possano senz'altra idea uni-
versale, come a ragion de-sempio quella' dell essere. 1' 3.* a 11 comparare i
termini non consisle nel trasferire la nostra attenzione dalluno allaltro
frequentemente, come vuole il N. A. Quando il C. M. parla di nn frequeiite
traiporto di nostra attenzione da nn termine ad un altro , egli da grandisahio peso a una
circostanza che ^ mcramente accidentale. E di vero, che il paragone di due
oggetti da me si faccia com piii oc- chiatc, ovvero con una sola; cii non
costitnisce la natura del paragone. Vorra dire , che Se un occhiata sola non mi
basta a conchindere qual sia la differenza e la similitffdine di pi4 oggetti
chio miro a fine di raffrontarli, dovr& ripetere i raiei sguardi, o tenerli
piii lungameote affisati in essi; ma questo accidente, che mostra il grado di
mia attenzione, c di mio accorgimento in istringere piu o men tosto il
paragone, non fa conoscere punto ni poco la natura del paragone medesirao. Ma,
ci6 che 4 pih, il paragone non consiste e non pu6 con- sistere u in tal modo di
traslazione dellatlenzionc nostra da un
termine allaltro. Se io trasferissi Iattenzionc mia dun termine allaltro ben
mille e mille volte , tutto sarebbe in- by Googlt i83 darno pel paragone^ non
solo non potrel conchiuderlo, ma ne anco iucominciarlo. A fine chio possa
venire ad un confronto degli oggetli, ricbiedesi appunto il contrario di questo
frequente trasferimenlo di altenzione da uno allaltro termine : io debbo tener
anzi ferma fermissima Iattenzione sui due o piu oggelti cbe voglio paragonare:
debbo non solo attendere ad essi si- multaneamente, ma dentro al mio spirito
immedesiraarli^ cd d mediante questa spirituale immedesimazione , cbe io posso
trovare loro differente e lor somiglianze (i). Siccbd, sottomessa ad accurata
analisi Iopcrazione stessa del paragonc, si divide in tre parti, cbe sono i
fissare Iattenzione simullaneamente ne' varj oggetli cbe voglio paragonare ,
a.*' imniedesimarli o applicarli Tuno aH'allro nel mio spirito, 3."
concbiudere qnale diffcrenza o somiglianza sia la loro. L'essenza del paragone
sta tutta nella seconda di queste tre operazioni. Una taleana- lisi d troppo
necessaria, a chi non vuul commettbre gravi errori. quello in cui cadde qui il C. M., proveune manilestaiuente
dallaver egli confuso quegli alti estemi , cbe noi facciamo quando vogliam
confrontare piii oggetti sensibili, cogli alti intemi die a quelli in noi corrispondono. Abbiamo noi due quadri presso
cbe uguali , e non sappiamo quale sia la copia, quale sia Ioriginale. Egli d
verissimo , cbe noi li guardianio e riguardiamo: ora miriamo I'uno fissamente,
ora Iallro, ora sotlo un angolo di luce, or sotto un altro, voltandoli a tutte
le parti. Questo i quello cbe avviene veramenle quanto agli atli nostri eslerni.
Ma il paragone, non i qul^ egli si consuma tutto dentro di noi. Quegli alti
nostri esteriori non fanno cbe farci raccorrc la materia del paragone, cbe poi
lo spirito opera in sd slesso; peroccbd lo spirito non pud paragonare con
esattezza^ se priraa non ba raccollo diligenlissimainente la forma di quegli
oggetli. L'osservazione esteriorc ilerata , alternata, prolungata, e quella
adunque cbe imprime nello spirito disliulamente gli oggetli, i quali vi
rimangono simultanei: e allora lo spirito li paragona. 4. Laslrarre non consisle nel trasferire
frequentemeotc la nostra attenzionc da un termine all' altro del paragone . (1)
Vedi*fi N. Saygio Set, 111, c, IV, art. u. Digitized by Google I H4 Discenile
da cM die lio detto. II Irasfurire Iattenzioiie nostra da un termiiie allallro,
non entra di sua natura nel discorso del paragonare e AAYastrarrc, quaiido non
s' intenda di descrivere con ci6 non il paragone, ma quegli atti eslerni che lo
precedono e lo preparano. L'aslrazione succede al paragone. L'osservazione
esterna , che si compie ifiedianle gli atti esterni che abhiamo toccato, non d
ancora il paragone, ma ne dispone e rende possibile la forma- zionc. Dunque
laslrazione d opera dello spirito , assai riniota dallosservozione cstcrmi, a
cui sola apparliene quel trasferimento di atteozione che descrive il M., e che
coni'onde col para- gone e coW astrazione medesima. E non sara per6 inutile,
che noi udiamo le parole onde il N. A. descrive la virtii della* strarre in uii
altro luogo , dove abhiamo delle coiil'essioiii pre* ziosc, tutle al nostro uopo.
Ecco il passo. u La mente nostra hafacolla'di cuncepire il simile, ovvero u il
dissimile, il che vienc elTeltuato dalla
virtii nobilissima u deHastrarrc, secondo alto di nostra mente, del quale ci u
viene ora il tener discorso . Ecco i I discorso che ne liene: A chiunque si pone a rifletlere siil perenne
fenomenu del- u Ievidenza intuiliva appanra questu di chiaro, che Ialto del u
giudicio, il quale vi e incluso, coinpiesi pel dimorarc e per u I'alternarsi
dell'altenzione sui termini di esso giudicio (i). Or qui coovieii pure osservare, che altro
d il diniorare del- IaUenzione sui termini del giudizio,. altro il venire a
slrin* gere lo stesso giudizio. Pulrebbesi dimorare lunghissimamente sui
termini del giudizio, e giudicar lullavia nulla ^ come in certi giudizj
imbrogliati addivieue, ne' quali Iuomo non si risolve a niuna parte. Non questo
peru cerco io di notare nelle parole del N. A. In quelle mi accorda egli , che
Vintuire, e mcdesimamcnle Yastrarre si fa col giudicare^ e il giudicare poi d
per lui stesso un affermare: ma affcrmare non si puo senza avere almeuo I'idea
dell'essere, che d il vcrbo, com'cgli dice, che lega il (i) P. II, c. X, IV.
Qui nola anclic il dell' attrnzione sui
termini di esso giudizio; e queslo va lieiic, sc iuteiide uu dimorarc su luue
due i Icriniui siiaullaiieaiueule; ina I'allcruarsi che ci aggiuiige/e inutile.
Digitized by Google i85 giudizio: dunque non ho bisogno die di lui stesso per
confu- tare le lue doUrine. 5. u Non basta nn ioipulso fistco a guidarc
I'altenzione alle astrazioni maggiori, come b qaella dell'essere, che il N. A.
dice la massima di tulte I'altre . Crede
il M. di provare il contrario coll'esempio di un fan- ciullo lattante. La nuova iiumagine, dice, che entra per gli u
occhi di questo, isvegliando la sua altenzione, la lerr^ volta a quclla parte, donde mnovono le impreszioni
piiivive; e po- ll niamo chc tal parte sia il volto. La nutrice fa un cenno c u
sorride : I attenzione allora del fanciulletto sara cliiamata u di preferenza
agli occhi gcintillanti , o alia bocca attegginta u al riso, e forse alluno ed
atlaltro in piii tempi, aecondo che il
variare dei minnti accident! fara avvertire ad una u parte pintlnsto che ad
nnaltra. Intanto quest! divers! tre-
pass! dcir attenzione rendono piii distinta e viva tutta la u forma del
volto, la qnale non ha mai cessato di farsi pre- 1 sente al pensicro, sebbene
in raodo confuso c languido (i). Or
questo csempio prova tutto al piu , che le impression! degli oggetti esterni
mnovono I' attenzione del bambino, e che il mutare di quest! fa cangiare
direziono anche all attenzione di lui. Gi6 niun filosofo metter^ in dnbbio^ ma
la questione deU'aslrarre non si risolve per cosi poco. Quando anco potesse
provarsi , che il bambino con quel tramutarc di attenzione perviene a formarsi
qualchc astralto^ il che pur non si prova; questo astratto si limiterebbe ad
es- serc di cose sensibili. Or non si tratta di astralti sciisibili, nel
discorso del C. Mamiani; trattasi di provare, chc Tuomo possa foimiarsi
istintivamente quella astrazione, chc il Mamiani me- desimo dichiara per la
massima di tutte, per la piii spiriluale, per la piii insensibile per cosi
dire, in una parola Iastrazione dell idea dellessere. Che il bambino astragga
il colorc dalla forma della nutrice, pass! per ora, sebbene il N. A. ni pur
questo ci prova; ma tuttaltro i quando, si tralla dell idea dellessere: quell
idea non i colorc, quella non ha furiiia cor- porea, non b nulla di concreto,
nulla di ciii che ciitra per gli (0 P. II, c. IV, VI. * Rosmini , //
Riwiovamcnto. > i Digitized by Google i8rt occhi, o per gli orecchi, o pel
UUo del liauibino, quBiiJo vede, ode, o palpa la nutrice. Rioian duiique ancora
Iroppu a provare all' A. N. , prima cbe dall'aslrazione di cose sensi- bill,
cb'egli suppoue farsi dal fanciullo^ possa inferire logica- inente, die I uoroo
pervenga istinlivamenle all' aslrallissima dclle idee fra le ioseosibili. In
secondo luogo , s'inganna egli a parlito, credeodo cbe i (ilosoH iniegnino cbe
I'aslrarre noa sia piii vhe u il dare at- u tenzione ad alcuna cosa in disparte
e divisaraente dall'al- u tre n () Se cii^ fosse, egli avrcbbe alnieno ragione
di con- cedere al bambino Tastraziooe delle cose sensibili. Non pure il bambino
ragionevole, ma il cagnolino potrebbe aslrarre al- tresi, ed ogoi besliuola
lattante: peroccb^ le beslie ancora banno una cotale attenzione sensiliva, cbe
non si dee confon- dere coll' attenzione inlelleltiva, propria degli esseri
ragione- voli (a)i ed applicano quell' attenzione or ad un oggelto, or ad un
allro , quale piii vivamente ferisce loro i sensi. Ma i veri filosoii non
jiosero giammai Iastrarre nel dare attenzione ad alcuna cosa concreta in
disparte da un'altra: anzi fecero opposti ira loro il concreto e Iastrallo^ e
misero per condi- zione essetiziale all' astralto, il non tenere in sS niuna
concre- zione. Per6 I'astrarre non fu preso per allro dai savj, se non |>ei'
una cotal vista inlellelluale della cosa nella sua esislenza possibile, o delle
note di quesla cosa [lossibile, le qnali note considerando noi Puna dipartita
dall'altra, ad una maggiore astrazione ci rilevianio (i). (i) P. II, c. IV. VI.
(a) Vedi A. Saggio Set. Ill, c. II, art v. (5) Come Taulur uoslro sualura la
facolti deiraatraaiune, cangiandola in quella di poler dare atleuzioue ad una
cosa in disparic da uualtra; ciu cbe puu avvenire anclic enlro la sfera de'
sensi corporei , giacche ralleti. zione sensiliva si applica ad una cosa in
disparle d'tinallra, o piii tosto non si puo mai applicare se nou ad una cosa
siugotarnieule presa; cosi egli snatura pure la facollii del giudixio, quandu
preteude die in quesla vperaziuDC per soggello si debba inlenderc una lolalila
di fenomeni , e per predicato una pane di cssi; siocliA ii nel predicate, ni
uel soggello avreinmo alcuua idea universale (P. 11, c. IV, vii). lu vorrei
peru die si ipiegasse piii chiaro. Vorrei cbe mi dicesse, sc il suo giudizio
suoiia cost: A 6 parte di B >;
perocebd in tal caso, aliiiriio il verbo E dee conleneie Digitized by Google .8;
Ora chp il M. slasi formato (lell'aalraiTe un concetto si talsn, collocamio
quest' atto eminentcmcntc intellettiro cntro la sfcra detle operaxioni
sensitive, apparisce pur Iroppo cia frc' quenti sentenze del suo lihro, e
segnatamente da quel luogo ovc , dopo aver inlrodotto alcuno che distingue i
colori dai snoni, soggiunge : u Quando ci6 non risultasse immediatamente X
dalla doppia facolt^ di unire le separate impressioni e di- stingtiere le unite, niun'altra idea
universale e niun giiidi- cio
conoscitivo saprebbe porre il sentimento della medesi- u niezza e della variela
la dove non sussislesse. Perocclife af-
fermare che il simile sia in una oosa, ovvero il dissimile, u i
giudicare del sentimento ehe dell' uno o dell' altro gia u esiste > (i).
Vedesi anche qui addurre I' esempio di cose sensibili: e vo- ler da quelle
conehiudere alle insensibili. Di poi, in queste stesse cose sensibili, egli
confonde la materia dell' astrarre, somministrata da' sensi, colla forma, in
die con- siste propriamente la virtu dell' astrarre. Or niuno ha mai nc>
gato, che la materia delle astrazioni risguardanti oggetti sensibili non ci
venga dal sentimento: ci6 che il sentimento non puo darci si e I'atto stesso
dell'astrarrc, che si esercita su di quella materia. Niuno ha mai negato, chc
la sensazinne de' color! non sia in si stessa diversa da quella de' stioni. Chi
ben le considera converri facilmente, che sono di piii indipendenti Iuna dall
altra, e che prese come mere sensazioni non consi- derate coll' intelletto
ancora, esse non hanno la minima rela- zione insieme, siccliA I'nna non sa
nulla dell' altra ^ le due sen- sazioni adunque col solo esisterc loro proprio
non si paragonano. Potrebbe anche avervi on soggetto comune delle due sensa-
zioni, il quale non fosse capace di fare questo paragone; certo non i assurdo a
pensarlo^ anzi egli 6 fuori di dubbio, che un'idcs universale, anzi , secondo
lui stesse, la inassiina delle astrazioni. Oltrecchi quella forma di giudizio
conlerrebbe la relazionc fra il lutto e h parte ; e questa relazionc t idea
universale ella stessa , come la parols
parte . i voce comiine ed universale. Con qiicslc riflessioni cade tnllo
ci6 ch'cgli fabbrica ncl liiogo accenualo. () P. II, c. X, vit. Di' I.^lc 1 88
tultc Ic scnsazioni die noi slessi abbiamo , sebben notnini, non le paragoniamo
fra loro^ ed ella sarebbe, a dir vero, troppa fatica a paragonarlc tutte, ed
inutile: eppure abbiamo anco Iintelletto. Dunque Pesistere le sensazioni
separate iu- dipendenti, Pesistere in un medusimo soggetto, Pesistere fin auco
in un soggetto iiitcllettivo. tutto ci6 non ^ ancora Pessere paragonate. Che
faceiam noiP ne paragoniamo alcune, racco- gliamo le diflerenze maggiori ,
quelle die pin c'interessano, quelle che piii ci abbisognano : e P allrc stanno
in noi stac- cate, senza die iioi pur badiamo alle loro relazioni, le quali
rimangono a noi scouosciute fino a die non ci iacciamo atten- zione. lu
m'aslengo qui di parlare del sensorio comune. Solo diru , die di qtieslo
sensorio altri si forma una assai torta opinione. Sarebbe uu assurdo
Pimmaginare, di'egli fosse simile al senso del vedere, o delPudire, o ad altro
organo simigliante. Egli non puo cssere un organo , non un senso distiuto; ma
dee essere un riferimento simultaneo ddle sensazioni de'cinque sensi al
inedesimo essere percipiente. Ma questo riferimento non i ncccssario^ pu6
farsi, e non iarsi^ pu6 avvertirsi e non avvertirsi^ io dico ancora di piii:
Pessere percipiente, sebbene uno e seniplice, puo riferire a s6 tutte le varic
sensazioni, senza che per questo sia assulutamente necessario che insieme le
paragon!. II paragone adunque degli oggetti e V a.clratione del simile non i
una conseguenza necessaria nd di un sensorio co- niune ai di un intellelto. Se
non e uiia conseguenza necessa- ria , egli riman dunque a moslrarsi in che modo
avvenga ^ ni egli d sufiGcientc, a spiegare quesla operazione, P aver delto
sem- plicementc che v'ha un sensorio, o che v'ha un intellelto. Sebbene, sono
troppi al mio assunto quest! miei ragionari , quando io ho a mio favore
Paulorila dello stesso G. M., che, ovc mi bisogna, sempre presto di accordarmi geuerosameiite
quanto desidero, e andie qui lo trovo verso me assai liberale. Egli in cei'to
luugo del suo libro si fa questa obbjezioue contro la verita dello scibile: Quella unita, di cui i fornito essenzialmente qualunque atto cogitativo, non
sussistendo u fuori di noi, debbe di necessita introdurre nelle percezioni u
alcuna cosa di subbiettivo . Ora come si rispoude egli? Odasi altentamente:
.eramente certu vedute in- u tellcltuali e certo frutto della- facolt^ cbe abbiamo
di con- u ccntrare in un sentimento indiviso Ic impressioni dislinte che u ci
vengono di fuori (i). I>a identita
adunque e la varietd, non sono parti concrete dei corpi: sono dunqnc un
elemento cogitativo: col solo sen- timciito adunque non si puiS astrarre ni pur
da' sensibili la medesimezza, e cost formarsi I'astratto, ma conviene aggiun-
gervi certc vedute intellettuali , mediante le quali solo, le im- pression!
distintc si concentrano In un sentimento indiviso : il che per(j ancora non
basta, perocchi in questo sentimento in- diviso si debbono e raflrontare, e
trasceglieme la parte comunc dalla parte propria. Sc dunque ni il paragonc, ni
I'astrazione si fa senza un elemento cogitativo o intellettivo, che non si
trova ne'eou- creti, i quali solo cadono sotto i sensi^ la conseguen/.a 6
chiara: Icseinpio del fanciullo nulla prova, a far credere ch'egli fac- cia
verauiente delle intellettuali astrazioni. 1 movimenti che fa il bamhino verso
la nutrice che scherza con lui, non li veggiamo noi fare eziandio dai cagnolini
verso la madre ? e chi dira per6, che i cagnolini, i quali saltellando giuocano
colla cagna, facciano con ci6 altrettante astrazioni in- tellettuali ? Non
bastava dunque al C. M. mostrare il fan- ciullo che volge gli sguardi suoi e
I'attento aspetto ora agli ocelli, ora al riso della balia^ queste esterue
dimostrazloui non provano abbastanza qucllo che avvicne nclla mentc del
fanciulletto : dovea ineglio il N. A. mettersi dentro, mediante certi
indubitali segni d'intelligenza, nell' intelletto fanciullcsco , e mostrarci il
lavorio intellettuale che in quello vicne operan- (i) P- lb c. X, m. Digiiized
by Google 1 90 dosi: aUrlmenti noD ci avr4 provato mal, che il fanciullo
fac> cla delle astrazioni. E tutUvia il fanciullo pu6 farle queste astrazioni
, e per mio avviso ne fa di molte. Solamente, che nel siztema del N. A. que-
ste astrazioni rimangonsi inesplicabili e portentose, quando ncl mio
facilissimamente si spiegano. Quandanco adunque P A. N. avesse egregiameote
provato, che il bambino mosso dall'istinto sensitivo venisse facendo delle
astrazioni (e non i punto nuovo che Iintelletto tolga occasione ad operare da'
movimenti che nascono all'uomo nel senso), reslerebbe sempre intatta la que-
stione : in che modo qneste astrazioni si formano nel bambino? hanno esse
bisogno di alcun'altra idea universale? qual i la natnra dtlPastrazione ?
inchiudono esse ungiudizio? quali sono i passi, o sia le parti costituenti
I'atto dell astrarre ? Queste sono le question! che toccano il fondo della
materia, e che non si scontrano ne pure sul cammino della filosoGa del G. M.
Certo le parti costituenti Iatto dellastrarre sono tutte nel- Iastrarre*, il
porsi quell atto dal bambino, o dalluomo adulln, ^ il medesimo : perocchi
Iastrazione non muta natura, secondo Ieta del soggetlo in cui clla si fa. Or
queste parti, trattan- dosi di astratti di cose sensibili, sono almeno queste
sette, ol- tre IaUenzibne che concorre in ciascuna: i." sensazioni o per-
cezioni sensibili, a." riferimento di esse allunita del soggetto, 3.*
riferimento di esse allunita delloggetto mediante lo spazio identico, e insieme
4 formazione delloggetto intelletlivo , universaiizzazione, 5.* paragone, (i.
trovamenlo del simile, e 7. astrazione. Egli i poi evidente, che almeno queste
ullime esigono on giudizio , e quinci stesso un universale preesistente o nell
a- dnlto, o anche nel bambino , se pure si vnole che anch egli astragga^
perocch^ la natura dell operazioue , per dirlo di nuovo, e una e sempre la
stessa. Digitized by Google CAPITOLO XXXI. 9
po' di filosoda. Ella comincia appena a snodare la lingua, ma iie sa
abbastanza per istruirmi^ anzi sc ne sapesse di piii, non varrebbe ad
introdurmi ncse- grcti della sua tenera e misteriosa et^. Ci6 cbe io osservo in
essa si A il modo appunto del favel- lare, certo vestigio di sua intelligenza,
e lucido specchio della sua mente. 11 lingiiaggio di lei scmplicissimo non 6
ancora com- posto cbe di due parti dellorazione, norae e verbo, non tc- nendo
noi conto di qualche snono inarticolato cbe ci fa sentire. Ora quesli nomi e
questi verbi sono essi tulti di cose parti- colari? contengono essi ddle
astrazioni ? e se delle astrazioni, queste astrazioni sono elle per avventura
delle minori, come dovrebbero esscru ovclla le tragga da soli particolari, o
delle maggiori, come convien cbe sia se nellanima della nostra fan- ciulletta
gia splende Iessere univcrsalissimo ? Esse sono come le predice il nostro
sistcma , non fatto a caso, ma ricopiato dalla natura. Nel sistema nostro due
primi elenienti si pongono di tutle le opcrazioni dellanima intellet- tiva, il
particolarc e 1 univcrsalissimo, la se.nsazione percipientc il primo, Icsse/ie
iilcale costituente il secondo. Se dunque un tal sistcma A vero, ne fanciulli
si debbono di prima giunta ma- nifestarc questi due dementi : le prime loro
notizie debbono risultare dal particolarissimo e dall universalissimo insieme
con- giunti , dal particolarc sensibile, e dalla massima astrazione : dec
mancare 1 audio di mezzo fra questi due estremi, le astra- zioni medie: le qnali
debbono poi esser 1 opera dcllo sviluppo successivo^ e in questo sviluppo
debbono formarsi prima le astrazioni cbe per la loro ampiezza si accostino alia
massima, colla partccipazion della quale elle si formano, c poscia le al- tre,
discendendo di niano in niano fino a quelle cbe sou piii Digitized by Google
9'^ prossime all' inflividuale e al concreto. Tutto qucsto i die io itnparo
appunto da quusta nostra bambolina , i cui accenti come care g!oje raccolgo.
Recher6 qiialche esempio de' nomi e de verb! ch' ella usa. e del modo in
ch'ella li usa. In quanto ai nomi, eccone sei, che sono a lei piii famigliarl:
mao, told, patatc, madonna, zio, prete. Che cosa 6 mao nel suo linguaggio? Ella
chiama mao tutti gli animali piccoli, di qiialunque specie si sieno, e qualunque
differenze eglino s'abbiano. II cagnuolino per lei h mao; mao it sorcio, mao il
coniglio , e cosi via. Or donde ha ella preso questo vocabolo? ognuno s'accorge
che i il nome onomato- paico (i) del gatto^ ecco qua il particolare (2). Ma
ella non pn6 riserbare qucsto nome al solo gatto^ ella ha un bisogno nella sua
nalura di universalizzare : il primo passo adunque ch'ella fa, la conduce
dirittamente ad un' astrazione mollo larga, qual k quella di tutti gli animali,
senza badare ad altre special! differenze, che nella grandezza s'accostino a
quella del gatto, tipo per lei originale di tutti gli altri, ma tipo gia molto
universalizzato , cio^ spogliato di tutte le particolarita non solo degl'
individui reali, ma della specie stessa del gatto. (1) t oomi facili e cari a
bambini sono gli onomalopaici. E perch^? la ragione i, che risvegliano meglio,
e replicano in cssi la sensazione ri- cevula Delia perceziooe de concreti. Cio
dimosira, come I uuo degli elc- fiieoti delle loro prime iuterue operaziooi i
il particolare^ ed atiche il realc aensibile. (j) Questo particolare ha diverse
graduiioni : i. le perceziooi che ten* gono seen altualmcole il reale
sensdiile, a. la raemoria immaglnaria di varie perceziuui , 3. le immagiui
delle furine seiisibili divise dalla persua* sioiie Sulla sussislenza de* reali
seuslbili. Questc iiniiiagiui negli esseri in- telligeuli sono d foMdameuto di
quelle che io ho chlamate essenze sptci/iche impafelle (Vedi N, Suggio Scz. V,
c. IX, art. vi e v). Ho poi dimo- strato , che fino alia foi mazione di queste
essenze specifiche im/xr/eUe puo procedure Io spirito dell uomo senza 1 nso de
vocaboli , ma per fare un passo pin innanzi, e giuugere alia foriiiaziouc delle
essenze specifiche aslratte ovvero de generi, fa meslieri assolutamcnte Iuso de
segni. Cio dee cssere assai aticntamenie considerato (Vedi If. Saggio Set. V,
c. IV, art. iv, 36 e ^). La nostra bainbiua 6 arrivata gia allidea astralta del
gatto, che e ir/ea specifica aslratla, e da questa conic da puoto llsso si
sinueia al ge- nere degli animali piccoli; senza puuto toccarc i gradi
intermedii. fios.Mi.Ni, // JUnnovammlv . 2 5 Digitized by Google 94 La seconda
parola della nostra bambina i told. QuesU voce, nella lingua propria della sua
eta, appartiene al cavallo, del quale esprime il niovimenlo^ ma quella piccola
mente non pu& stare in qiieste angustie, e per anzicliA la iosegnino a
lanciulli. NA altri chc glinranli potrebbero vcraincnte trovare, o inse- gnarc
la lingua iufanlile. Digitized by Google 97 indetcrmlnato^ e tuttavia cgli non
saccorge della somma ini- portanza di un tal fatlo. lo voglio addurre qui le
sue parole: E un dello bene assai
vulgalo quello che afTerma, in na- B tura ogni cosa riraanere dissimile. Or
come dunque crediamo B noi di scuoprire fra gli esseri infinite rassomiglianze
? Non 6 B questo un perpeluo inganno che generiamo a noi stessi ( i )? . Tale in fatto i la cosa. Luomo a
prima giunta snppone sempre fra diversi oggetti assai pii somiglianze, chessi
non abbiano veramente. Se queste somiglianze non sono reali (e certo non
v'hanno due oggetti interamente simili), dunque elle non sono nelle cose
seiisibili , dunque non sono ni pure nelle sensazioni che in noi producono. Noi
abbiamo dimostralo che la reale acutezza de' nostri sensi & incredibile, e
quello che non ce li fa conoscer di tanto acume , si ^ il poco at u rcre fra
quelli molte piii somiglianze die non comporta
Iessere loro: avvegna ci6 per la fretta dell' osservare , onde il simile si fa senlirc e non il dissimile,
il quale, come os- u servo Campanella, rimanc.piu occuUo : ovvero succeda per u
un bisogno e per un desiduriu die abbiaino di trovarc do- u vunque
freqiieutissime analogie, sunza le quali non avremmo, capacila alcuna di scienza n (i\ Il N. A.
riconosce il fallo. Le due ragioni poi, ch'egli reca a darne spiegazione, sono
al tutto per noi. La prima k la fretta dell'osservare. Or questo osservare dee
cssere una operazione interaiuente diversa dalle sensazioni, le quali operano
necessa- riamente, e con nioviuiento istantaneo: sono poi incredibil- inente
acute e feddi a rapprescntare le differenze anche ini- iiime delle cose. Lo
spirito nostro tuttavia trasanda queste differenze^ ha una Icndenza, cbe il
porta ad osservare di pre- ferenza le somiglianze, o a supporne, lasciando
neglette di OS'* scrvazione le dissomiglianze. Onde questa teiidenza dello
spirito? Egli pare, risponde il C. M., cbe abbia un bisogno ed un desiderio n di trovarc
ovunquc frequcntissimc analogic, per le quali sole i capace di scienza.
Appuiito : onde adunque questo bisogno, questo desiderio di analogia? Ecco cio
cbe traltasi di spiegare. Egli non solo non potrebbe avere un desiderio ed un
r.ippre.scoliite. Ma uo tale errore troppo volgare dec rioalincntc sbandirsi
dulla ntosotia. (i) Quaiilo la menlc si applica a siiniglianzc plit eslcse,
lanto piii la forma delle cose siniili i indelerininala ; p. es. I.n
simililudinc dell' umanila .nbiiraccia piii eiili di quella dcl''nani(&
dimostriito chc U similitudioc delle
cose ha il suo fonda- mento in una forma
loro coonine, la quale non k, e non puo essere se non una forma meramente
inlellelluMie >. lo non posso Irascrivere conli- nuameole ci6, che una volla
a luogo ho Irallato; raa rimetlo il Icltorc a quanto si trova nel N. Saggio,
massime ne luoghi seguenli, Sez. Ill, c. II, art. H, Delia nola alia face, m ; c. IV,
art. xz; c Sez. VI, c. VII, art. VIII, g a. Digitized by Coogle 20 I CAPITOLO
XXXIII. COHTINUAZIOME. Ma facclamoci alle
obLjezioni die, come toccaramo, potreb- bero volgersi coiilro lu nostre
coosiderazioni. Quella die uo luogo di Tommaso Campanella pu6 risve- gliare
agevolmeote nell'animo, parmi di tutte la maggiorej e peru nn faremo diligente
esame. Ricouosco il Campanella, e confessa il fatto, che Iuomo voUo per nalura
assai piu a notare le simllitudini ddle cose, cbe non Ic loro dissimilitudiui.
Ma egU crede di poter rendere di uo (al fatto coiivenevole spiegazione col solo
gioco desensi. Udiamo il Glosofu calabrese;
11 senso percepisce meglio il u generale die II siiigolarc, perch^
quello si ripete iiifiaitamentc u piu spesso e a si medesimo uguale, e lermiua
per farsi sen* u tire siccome uno n (i). L' ossrn(o indi- U vise le impression!
dislinte cbe ci vengono di fuor! ? (i).
Qiii non sascondc nulla del vero^ qui si confessa, die la identity e la
variety, Iugnalc e il disugnale non sono punlo nA poco nelle cose, ma sono
dementi venienti dall inlellello. Ora vogliamo noi vedere come in altra parte
s' adombra di qnesta veritA da lui m espressamente confessata ? Udiamolo quando
soppone a qne filosoG, che la pensano appuiito cosi comegli prima ha pensato.
Egli dice di essi: u Secondo i u dogmi di parecebi fllosoG, le idee universal!
e aslrattissime, u cio4 separate da ogni materia e modo, e perfioo dal
con- cetto che se ne possiede, qual
sorta mai di realitit conser- u vaiio in s6 roedcsime? non la obbiettiva,
perclii fuor del u pensiero il simile, in quanto simile, non esiste, e le idee
uni- u versali rappresentano il simile^ non la rcalita subbieltiva , conciossiach^ si astrae talvolta pure da
questa, come quando si pensa al colore
in universale, e non si pensa all essere suo
di concetto. Il colore adunque contemplate nella suprema u astrazione
(a) diverrebbe, giusta cotali filosofi, un essere ne- gativo, siccorae nulla ^ cosa che ^ troppo
coiilraria al senso comune (3). Quest! poveri GlosoG non riceveranno di
troppo buon animo la sentenza del C. M.^ cercheranno probabilmente un tribunate
d'appello. Diranno innanzi a questo tribunate, che la conclu- sione del Mamiaui
intorno alle loro astrazioni viene frettolosa, precipitosa, contro il buon
metodo e le leggi di un esatto di- mostrare. Largomento del Mamiani suppone
vera una propo- sizione che sta senza prove, e che contro tali GlosoG , chc la
uegano, va dimostrata: cioi, che fra 1
oggetto reale e il sog- gettoche lo percepisce non possa essere cosa alcuna di
mezzo , o sia che tutto cio che i diverse dallo spirito umano, soggetto percipienle,
e dalloggetto reale e concrete da lui percepito. (i) P. II, c. X, III. {i) Coil
qiieila supreinn asirszione pare che alliidn allulllnio de quatlro gr.idi da
Ini introdolli Dellaslrarrr, e da me pin sopra esaminali. (3) P. U, c. XtV, VI.
Digitized by Google ai.6 s!a un pnro essere nej;alivo, il nulla (i). Mantengono
il con- Irario i filosofi ohe il Mainiani a^Milisce , dicemlo cbe fra il detto
soggelto ed il delto oggetto v' lia un Rssere importantis- simo e remolissimo
dal nulla, e che questo 4 Vestere ideale; e credono assai ardito il pronunciare
rhe questo essere ideale sia un bcl nulla, uuicnmeute per questo, ch'egli non
si pu6 ridurre sotto ad una delle due categoric arbitrarie del sog- getto umano
e deiroggetto suo rcale e concreto^ e cii cbe 6 a dir vero singolare, questi
cotall Glo'soG pretendono di avere a s4 favorevole il senso comune, per lo
nieno con tanto di persuasione , quanta il Mamiani mostra averne ,
dicliiarandolo tntto in favor suo. Sicch4 questo bencdetto senso comune gio-
vcra poco ad entrambi invocarlo , quando o Iuno o T altro non dimostri che sia
pure per s4. Or via dunipie, se questi GlosoG hanno torto a considerare Iidea
astratta del .simile, o dellidentico, per cosa tutta inlel- leltiva , e ftior
delle cose concrete , cbe pronnncia di essa il N. A.? Udiamo come si continua
al riGnlo dato a quc GlosoG: Ma se
invece diremo quello cbe 4 di fatto. rapprescntare cio4 la idea del colore certa forma d' identity
vera e re,ale, czian* u dio fuor del pensiere, cbi pensa il colore, astraendo
anche u dalla sua idea, pensa una vera e certa reality obbiettiva , u vale a
dire il continuo nno , indiviso e indeterminato , il u qnale soltosta ai colori
finili determinati e divisibili (a).
Questo passo, perchi abbia un senso, dee dire il contrario (0 II C. M. in mulle
parti del suo lihro eonfonde le idee col soggelto chc le possiede. Quando egli
volessc fare una tale identiricazinne, dovrehbe prnvarla cnniro i migliori
filoson che la negan.^, e non atnmellerla per certa senza dintoslrazione. Non 4
questo nno slrascinarsi per le vie de sen- iisli, i qnali sotto ad ogni
proposizione loro , suppongnno per ceric inolle cose negate scmprc dagli
avversarj ? Cerlo il huon nieiodo viela quel ra. gionare coolinuamenie sopra de
pregiudizj gravissimi, che in rilnsofia non si hanno che per monele false. Ecco
nn altro de* liioghi dove il Mamiani, eonfondendo le idee col soggelto,
snsiiene rhe non v' ha scicnza se non di due cose, cio4 dell' oggello e del
soggelto : Lo scihile umano ha due
ler- niera di dire, uhe sembri
aggiustare lo sconcerto delle dottrine: Ire sole voci conipongono questa
niaravigliosa fraser eccola: in (fuaicfie modo.
Quelle uiiila ( cosi il C. M.),
le quali si X forniano entro la nostra mente |>er la coiitemplazione del u
simile, abbiamo veduto essere una riproduzione vera e certa X delle unita
origiiiarie di subbietli e di azioni , e perciA darsi X in qualdie modo 1'
universale in natura (i). Fa un elfetto
mirabile questo in qualcltc modo, peroccliS sti'iuge in stesso le due contrarie
sentenzer si alia, o certo vuole affarsi ai due contrarj partiti. A quelli che
faniio dell'uni- versalo (preso dal Mamiaui per sinonimo di astratto) una parte
coDcrcta delle cose real!, dice: io sono con voi. A quelli che Della natura non
trovanu altro die partieolari, c I' universale non veggono possibile, die nella
niente, dice pure: io non son lontano da voi, perocdie 1' universale non I'ho
io messo nella natura assolutaniente, roa in qu^ldie-modo. , ^ ^ E pure non ini
roaravigllerei, se questo in qunlvhe modo, che vuol liccarsi in tutte e due le
parti, venisse daH'una e dal- Ialtra assai male accolto. Ma certo e finalmente,
che tulti que'Glosod, i quali nella natura Gsica e reale non possono concepire
, die il comune , r idenlico, Tuniversale esisla in nissun modo, dirauno al C.
M. cbe. si spieghi meglio, e che nun li tenga cost travagliosamente in .ponte,
ma dica senza piu, sc I' universale t una parte si o no delle cose concrete r
perocchd li'a il si e il no non pu6 stare cosa alcuna di mezzo r n una maniera
avverbiale ha virtii din- trodurre nelP uiiiverso una terza natura, che non sia
n^ il si, n il no. Condudiaoio colle parole del N. A.: egli ci avea proiuesso
una dimostrazione dello scibile umano, egli avea posta la vera- cita delle idee
nel loro riferiraento alle cose concrete, egli ci avea detto che la sua
dottrina spiega x molto lucidamenle in lb: -- .'1 (I) P. II, c. XK. I.
Digitized by Google aog che consista la
certa realiU d'alcnni esserl di ragione
(i), egU s era afTaticato nello spinoso cammino che noi abbiamo
descritto pur ora; fioalmeote egll stesso conchiude, Gonce- u diamo assai volentieri cbe qnesta materia della
rispon* u denza reale fra Iidentico del pensiere e Iidentico delle cose u i
piena di problem! oscuri e compllcatissimi, i quali soli a u volerli discutere
conveoerolmente domanderebbono ua intero
volume 7) (a). CoDverr^ dunque aspettare, ecco il risultamento finale,
cbe questo volume sia pubblicato, prima di poter dire che il G. M. abbia
fornita ana piena dimostrazione dello scibile umano. GAPITOLO XXXVI.
CONTINDAZIOHE : LE IMPRESSIOKI DISTIETTB If05 SI POSSONO CONCEN- TBARB IH DM
SENSORIO ORCANICO , Uk SOLO IS CalDEa AD ESSE PREESISTEHTE. Ma una parola
proferita dall'A. N. ci ricbiama indietro an passo. Egli confess^, cbe Iidenlico
e Iagnale degli oggetti non i qualche loro parte concreta, ma uun pnro elemento
cogitalivon, o come ancbe disse, dali
insieme, o all' operazione dell' uoo o dell' altro, eziandio* ch presi
siugolarniente. Cbe I'iotelleUo noa fia il medesimo del sentimenlo, eb- bene i
sensisti facessero I'eztremo di loro possa a farlo cre- dere, non si pu6
concedere^ e mi rimetto intorno a cid a quello cbe i delto nel JV. Saggto, dove
si dimostra, dal seu- timento spartirsi inbullamente 1 intellelto, il quale ba
una forma o idea delle cose, distinta dal principio intelligente ; quando il
sentimeiito i privo di forma distinta dal principio senziente cbe viene
modificato^ distlnzione la quale slara Gno a lanto cbe con delle buone ragioni
non la si confuli. Cbe pol il sentimenlo seiiza 1' Intellelto o coll'
intellelto in- sieme compia I'adunamento delle percezioni esterne e distinte
fra loro nell' uniU, questo giover^ cbe per nui si dimostri im- possibile^ e
impossibile sar4 dimostralo ove appaja ebiaro, cbe il solo intellelto unisce e
identiGca'le sensazioni colla sua forma , e cbe questa operazione non potrebbe
esser mai fatta in modo veruno dal sentimenlo. Poniam dunque mano a dar
cblarezza ad un vero s\ rilevante. CAPITOLO XXXVIl. CONTlIfOAZIOaE. Cbe le
sensazioni esterne sieno fra loro distinte, i evidenle , e 1' A. N. ce le
ammette per tali. Riman solo a vedersi , se vi avesse forse dentro di noi, e
per cosl dire nel centro del- I'uomo, un senso o sensorlo comune disliiito dall
intellelto, il quale raccogliesse e uniGcasse in si medesimo le esteriori
sensazioni. E a levarcl un tal dubblo, noi dobbiani prima at- tentamente
conslderare e rilevare la natura del fatto cbe si ' tratta con questo sensorio
di spiegare. 11 fatto adunque h questo. Le cose singole percepile coi sensi noi
le confrontiamo insieme, e peiA le uniGcbiamo. Ora questa uniGcazione si fa,
senza cbe quelle singole percezioni perdano la loro distinzione e individualc
esistenza in noi. Cbe Digitized by Google ai I se quelle venissero le une nelle
altre confondendosi e rimesco* laniiosi, noi non avremmo altro risultamento ,
rhe una perce- Kione vasta, confasa e moltiplice, composta di tatte le perce-
zioni singolari, o forsanco de'loro frammenti e rottami, per cotl dire; ni i
compirebbe in noi per tal modo alcun para- gone fra esse, ni si rileverebbe
pnnto la loro ngnaglianza, e la loro difYerenza. Se poi al tutto si
nnificassero perdendo la loro distinr.ione, ne verrebbe cbe il simile, o
Iidentico nnifi' cato, sarebbe nna semplice nozione, nd il vedremmo mai in pill
cose ripetuto, e quasi da piu cose partecipato; e in tal caso pure il paragone
delle cose nou sarebbe possibile; ma noi avremmo , qual risnltamento di tale
interno lavoro, i. I'identico da si e non nelle cose, a. le cose diminnite dell
identico, e fornite del solo vario, ed auzi , a pib vera- mente parlare, le
cose non si potrebbero piu da noi aver pre- sent!, peroccb^ sottratto
Iidentico, le cose stesse non sono pib. Un esempio senza piu ci persnaderii,
cbe la cosa avviene cosl come 1 bo descritta. Sia I identico o il simile delle
cose, cbe vogliamo astrarre, Iessere loro coraune a tulte. II nostro stesso
autore dice, cbe tutte le cose faanno
una medesimezza u necessaria riguardo allesistere , e chiama Iidea delles-
sere, come vedemmo , idea di - medesimezza. Se dunqae Iessere delle cose (nel
cbe sono tutte identicbe) si unificasse in noi per modo, cbe in esse
singolarmente prese, egli perdesse la di- stiozione cbe ba nelle cose, ne
avverrebbe cbe in noi non ri- marrebbe se non una semplice nozione dellessere,
e le cose moltiplici non sarebbero piu, peroccbi da loro sarebbe stato levato
Iessere, come quello cbe i a tutte comune. Il fatto adunque avviene cosl come
fu da noi descritto. Or acciocchi questo fatto dell unificazione delle cose in
noi, riceva una convenevole spiegazione, e mediante qnesta nnifi- cazione si
spiegbi pure il fatto del paragone fra loro, e il tro- vamento in esse dell
identico e del vario, si debbono addurre cotali cagioni, le quali mostrino i.
come le sensazioni o per- cezioni singolari si unifichino, a. e come insieme
mantengano la loro sussistenza distinta e siogolare. Posto cost in cbiara luce
quello di cbe si vuol dare con- venevole spiegazione, hassi a vedere se immaginando un sen- Digitized by Google ai
H lorio interno nelluomo, o senso comune, it qaale non di(Te-> risca dal
(entire proprio della tIU animale, si possa rendere ragione soddisfacente dl
qnella mirabile operazione cbe fa il nostro spirito astraendo Tidentico dalle
cose . E in primo laogo egli i evidente, cbe se qnelle percezioni sensibili cbe
in noi si uniscono, come dice il Mamiani , in an sentimento indiviso, fossero
le stesse percezioni materialmente prese, verrebbero a rifondersi insieme,
perdendo la loro di* stinzione e singolare esistenza : peroccbi piii cose nel
loro es- se re materlale non possono ad un tempo venir ridotte ad nniti, e
rimanere dlstinte^ giaccbi Iuno e i moUi sono fra .loro contrarj^ e il
moUiplice non pu6 esser uno senza distmggersi, e viceversa, quando sia identico
di numero. il principio di contraddizione cbe ci scorge a qnesto vero, e perd
egli i al tutto irrefragabile. Convien danqne dire, cbe qaelle percezioni cbe
nello spi- rito si unificano cd immedesimano, come esige il paragone, e massime
I'estrazione dell' identico (i), non sieno le stesse di numero e materialmente
prese, con qaelle cbe si ricevono co- gli organ! esteriori del corpo. E
veramente non si pod nd pare intendere come la sensazione del color rosso
ricevnta cogli occhi, materialmente presa , si possa unificare colla sensazione
del soono aUunire ricernta per gli orecchi, o dellodore di cannella ricevata
nelle narici ; peroccbi tatte qaeste sensazioni sono semplici, e non soggelte a
modificazione alcana senza mntare di essenza^ di poi non hanno la minima
similitadine (i) G qui convien dars! molla lode al C. M. per ciA che dice nella
P. If, c. IV, I., dove combatte valoroMmente quella srnlenza dcsensisti, i
quali negano la polenta al pensiero di concepire piCi idee simultaneamente, af-
fermando essi esaere quetia una
illusione comnne ed assai tcuaabile,slanle > chc la rapidii^ dei mol!
nervosi i tale da far parere simullaoei i niiuiini del tempo cbe si succedono Qualora adunqiie n (egli conchiudc), "
cooforme la aententa dc* lisiologisli, le idee non sieno inai simultanee, noi ci iacciarao a chieder loro , se al sopravveoire di B, persevera o no alcuna memoria di A. Nel primo suppotto
esislono due percezioni si- u miillanec novella Iuoa, I'altia riprodotia ovvero
conliouala. Nel secondo N supposlo abbiamo nolalo quello die di necesslli ne
avvcrrebbe : cioi cbe non si polrebbe mai dare alcun confronlo fra loro,
giaccbi non vi sarebbe innanxi alia mebte in ogni minimo tempo piii di ununica
idea. Digitized by Coogk a 1 3 reale fra loro , e finalmente sono cosi annesse
alle papille ner- vee ottiche , acuatiche e naaaii , che non si potrebbcro
tras- portare tntte in uno, senza strappare il naso e metterlo negli occbi, e
strappare gli occhi e metterli negli orecchi, e cost degli allri organi. lo
diacendo a qneate osserrazioni materiali, peroccbi indirizzano il pensiero alia
realitii della cosa, ed a queata il tengono legato: il qnale, senza venire a
queati par- ticolari, v'ha pericolo grandissimo che, quasi direi volatile
com'egli i, d scappi, senza che noi ce ne accorgiamo, a qual- cbe esse re
astratto o ideale, rifnggendo dalle sensazioni ma> teriali, e credendo
pnrsempre, contro il vero, di trattenersi tnttavia in qneate. Conciouiachi an
tale inganno ci vien fatto continnamente ancbe dalle parole, le qoali non
aempre e solo indicano la aensazione nel sno esaere materiale, ma la sensa-
zione come 6 percepita dal nostro spirito intellettivo. E vera- mente, ae io
dico , il verde di qneato prato mi i grato, parlo della aensazione attuale e
reale. Ma ae io dico, mi piace meno qnesto verde, del colore azzurro^ io
paragono la aensazione attuale e reale del verde che mi feriace le papille, con
an co- lore che non ho presente, e che solo intellettivamente conce- piaco :
sicchi Iazzurro ed il verde nel mio diacorso aono presi in diversi significati.
Goncladendo adunque, dico esser mani- featisaimo che le sensazioni reali e
attuali non poasono nel loro easere proprio e materiale venir recate a quella
nnit^, in che noi dentro il nostro spirito raccogliamo le diverse sensazioni
eateriori , e nella qnale ne formiamo il paragone. Ritenato adunque per vero
indobitato, che le sensazioni esteme, come materialmente esiatono in noi , non
si poasono in alcun modo traaportare I'ana nelFaltra, uniGcare, parago- nare,
ni per conseguente trovare in esse il comune , I'ideutico: ed eaaendo certo pel
fatto, che noi pure le uniGchiamo, le paragoniamo, e troviamo ci6 che han di
comnne^ convien dire che noi formiamo quesla loro uniGcazione non in loro
atesae, ma in qualche loro forma o rappreseutazione, nellintimo, e per coal
dire , nel centro del nostro spirito. Besta dunque che noi esaminiamo, come ci
aiamo propoato, ae qnesta nnione e immedesimazione delle sensazioni che si fa
in noi, avvenga in una forma che sia an sensorio materiale, e bisognevole di
organo corporeo, o pure in una forma del puro iutellelto. Digitized by Google a
1 4 Veramente ncl libro del C. M. vi hanno tali luoghi, i quali non ci
dovrebbero lasciar dubitare , essere sua sentenza , cbe qiiesto assembramenlo
delle sensnzioni non si faccia e non si possa fare per modo veruno in ncssun
organo materiale, ma nell intelletto. Noi tuttavla non vogliamo intralasciare
di di- scutere brcvemenle la qucstione , primo, perch^ non i nnica mira di
questo scritto I'esatne del libro del Rinnovaniento della Filosofia, ma quaicbe
cosa pin in li; secondo, percb^ se alcuni luoghi sono chiari in detto libro ,
allri a noi sembrano non poco oscuri ed ambigui. Ci gioveremo adunque de primi
a vantaggio del vero.* e li addurremo si, come testimonianze an- torevoli, e si
pel polso dellargomentazione cbe racchiudono. II G. M. aflerma bene sprsso, die
u il principio nostro spon* u taneo (i) non ressa mai di radunare le idee in un
cotal cen- u tro d intellezione perfctto ed indivisibile (>). Qui si parla
d'un centro d' intellezione. Se dunque per intellezione si dee intendere ci6
cbe la parola suona, IliutoriU del N. A. decide la questione, e quel x
sentimento indiviso di cni altrove ba
parlalo , viene a dire un sentimento non animale , ma intel- lettivo.
ProGtliamo ancora del robusto raziocinio del N. A. Ecco come egli prova la
necessity, cbe le percezioni nostro sieno concentrate in un indivisibile
pensiero : u Questa esperienza universale e perpetua (3) dellatto d'in- u
tuizione insegna di necessita, cbe le idee simultanee sono u un mullipio
raccolto nellunita assoluta del nostro pensiero, u a cagione cbe senza nnil4 di
pensiero assoluta non pu6 es> u sere multiplicity simultanea didee sentite.
Diciamo unit4 vera (i) Fa grand'uso il Mamiani di queslo , di cui perd ommclte
la dcGoiiione e Panalisi. Ove I'avesse posto ad una ditigenle disamina, egli
sarebbesi probabilmrnte sconiralo nel vero stalo della que- stione circa
rorigine delle idee, cbe gli d sfuggilo. Questa celebre que- stione consiste
tulta in dlmandare Sc il principio
sponlaneo, intellettivo, sia fornilo duna idea prlmitiva, e se, privo al lulto
di questa, egli si possa concepire m. (a) P. II , ,c. X , III. (3) La forza
deirargoinento non viene dall esperienza universale e per- pelua, ma si dal
principio di cognizlone, e di conlraddizione , il quale induce nccessilli.
Digitized by Google ai5 e assoluta, o
come suole chiamarsi uaila metaGsica, escia* u dente ogni parte fuori di parte,
ogni modo e forma di di- u \isIone reale. E per fermo , se I'unita del peoslero
dod c u assoluta, ciascuna delle idee siroultanee occupa isolatamente una porzione di lui: ove dunque risieder^ la
conce/.ione in- tegrale e simiiltanea di
tutte? e se questa non i, donde u tragge mai il pensiero la facolta di sentire
e di giudicare K ad UD tempo solo piu Idee? Oivisione adunque di pensiero u e
totalita assoluta di pensiero sono repugnant!
(i). Qui non si parla ebe di pensiero, qui si parla d'idee e non di
sensazioni. Semb'rerebbe adunque, cbe 1 uniGcazione delle nostre percezioni il
C. M. la vedesse possibile solo ncl pen- sieru, e per6 solo iielle sensazioni
cangiale in idee, o per dir meglio, nun nelle sensazioni, ma nelle loro idee.
Tuttavia quando io considero que' luoghi del C. M. dove mi dice, cbe nelle
stesse cose real! avvi T universale e Piden- tico, e cbe per esempio sotlo al
colore scarlatto di questo panno ci sta proprio, quasi appialtato, il colore
astralto, uno ed indi- viso^ mi fa tornare il sospetto cbe la mente di lui da
due venti contrarj sospinta, non abbia trovato ancora pienissima stability e
pace in una ferma e ben cbiara senteuza. Conciossiachi se il comune, Pidentico,
Puniversale esige concentrazione e uniG- cazione di piu cose, forz ^ il dire
cbe se questo identico ri- trovasi negli oggetti maleriali, gli oggetti material!
abbiano virtu di compenetrarsi, non so come, e d' immedesimarsi ; e se gli
oggetti possono fare tntto ci6 , niuna maraviglia , cbe possano
simigliantemente rientrare Puna nelPallra, e identiG- carsi le sensazioni
esterne , o almeno cbe questo addentrarsi Puna nelPallra segua in un certo
organo materiale denomi- nato sensorio comune. E perocebi bo mostrato, quanto
agli oggetti e alle sensazioni esterne, PinGnita assurdit^ e grossezza di un
tale pensiero , non sar4 inutile, a compimenlo del di- scorso, cbe io appliebi
tutto ci6 cbe bo detto, anebe al pre- supposto sensorio comune organico. Si
consider! dunque , cbe le sensazioni animal! sono, come tali, inerenli alP
organo, e cbe senz organo aver non si pos- (.) P. It, IV, .. Digitized by
Google a 1 6 soDO^ perocchi daltro non procedono, che da nna imprea* sione,
modificazione, e movimento delPorgano itesso, o certo a qnesto movimento si
accompagnano. Ora qnesto sensorio co- munc animate avra per suo organo, poniamo
it cervello, o la midolla spinale, o I'una e Paltra, o qualsivoglia altra
parte. Gi6 posto, si consideri, che quelle stesse diflicolti clie si rin-
vengono a uniQcare le sensazioni esterne considerate nel loro essere reale, si
debbono di evidente necessity rinvenire qnando si tratta di uni&care le
sensazioni di questo interno sensorio; imperciocchi il meccanismo i il
medesimo; trattasi sempre, an- cbe in questo sensorio comune, di parti 1' una
fuori dellattra, e di movimenti locali. Una fibra cbe avesse nn movimento, a
ragion desempio, potrebbe ella contemporaneamente aveme un altro contrario ? No
certo; perocchd ella non pud muoversi contemporaneamente in due modi opposti
(i).' Ora ad nn solo movimento della fibra non pud rispondere cbe un sentimento
solo ed identico. Se dunque questo sensorio interiore non ha che una fibra
sola, essa non potrd avere che un movimento alia volta, e per conseguente mai
due movimenti contempo- ranei;qnindi non vi sard un tempicciuolo, nd pure
indefini- tamente pfccolo, in cui le due sensazioni corrispondenti sieno
unificate, mentre anzi non si trovano nd pure contemporanee. Se poi il sensorio
d composto di due o piu fibre, ciascuna pud avere un movimento contcmporaneo
al. movimento delle altre; ma qnesti movimenti essendo in fibre distinte, non
possono altro che eccitare sensazioni distinte di luogo, e perd queste non
possono giammai unificarsi, qnando anzi non possono nd pur trovarsi ncl
medesimo luogo. Ogni qualvolta adunque si cerca di immaginare un centra
organico, un sensorio comune animate, a cui si comunichino e riferiscano le
sensazioni esterne ; non si vince la difficolta in modo alcuno ; ma non si a
che (i) Niun uomo di buon sense opperrd qui il fenomeno del mote com- posto,
del quale si fa uso in matemalica; perocchd egli d troppo facile di accorgersi,
che il moto composto d semplicissimo in sd stesso come ogni altro moto, e cbe
si dice composto non per quello che d in sd, ma rela> livamentc alia
duplicitli o moltiplicitii delle forte che lo producono. Per altro ogni moto in
lines retta pud esser prodotto ugualmente da una o da piCi forte. Digitized by
Google ai7 trasportarla di an laogo in altro luogo^ dalle parti esteme del
corpe umano, alle interne: qnella impouibiliti medesima, che si ravvisa
tentando di uuificare e paragonare le modificazioni degli organi esteriori e
visibili, si trova ugualmente in Tolere unificare le modificazioni e sensazioni
degli organi interiori e invisibili, perocclii ugualmente material!^ e sieno
essi pure la- vorati quanto il pin si voglia dilicatamente e finamente dalla
natura. Di piu, consideriamo che cosa avrcrrebbe dell'identico delle cose, se
le sensazioni esterne si riferissero ad un organo intemo coniune a tutte.
L'identico i cid, in cui'sono tutte uguali^ questa parte dunque dovrebbe esser
sentita sempre collo stesso identico movimento di fibra : noi dunque non
potremmo mai conoscere, che ella si trova in piii cose^ perocchd non awer-
rebbe piii in noi che un solo numerico sentimento. Ni dicasi, che i movimenti
successivi si conservano nella memorial peroc* che ricorrendo noi alia memoria,
ci verremmo trasportando in un altro centre o sensorio , nominate memoria ^ del
quale con- verrebbe dire tutto cid che si disse del primo^ e intorno al quale
si potrebbe ugualmente dimostrare, che esso non pud essere in modo alcuno organico
, ma pnramente spiritnale. Riandiamo adunque il filo del nostro ragionamento :
Abbiamo dimostrato, che le sensazioni organiche non pos- sono essere ni
unificate^ nh paragonate in sd stesse ciod nel loro essere materiale, nd da
esse estratto I'iJentico; e che per- cid d necessario che 1' unificazione loro
nasca in qualche altra cosa che tenga le loro veci, in qualche loro forma o
rappre- sentazione^ Abbiamo dimostrato, che questa loro forma o rappresen*
tazione , nella quale debbono venire uruficate , paragonate , astratte, non pud
essere un sentimento animale intemo, un sensorio organico^ perocchd sebbene
quest' organo intemo ri- cevesse tutte le sensazioni esterne per comunicazione
di movi* menti, tuttavia ivi non si potrebbero unificare, paragonare od astrarre
, megllo che non si faccia negli organi esteriori : Ma il fatto d certo, che le
sensazioni esteme o percezloni organiche da noi si astraggono, e perd si
paragonano insie- me, e perd si unificano: RosMiai, Il Binnovtunettlo. >8
Digitized by Google ii8 Dunque non poteudo ciu opcrarsi in alcuna
modificazioao, movimento, imprcssione di qaai si voglia organo matcrialc^
ronviun dire cliulle si paragonano e uniGcano e astraggono in una forma che e
veramente immaleriale, c che fcdclmentc Ic rappreseula. Quesle forme
immaleriali delle percezioni sensibili e loro cagiuni prossime, sono quelle a
cui (dovendusi pure ehianiare eon qualchc nome) fu imposto il nonie A' idee.
Ogiii idea rappresenta non una sensazione sola, ma tultc le sensazioiii di rui
il lipo. Noi sianio enti ad un tempo sensitivi , eiue foriiili di sensazioiii,
c inlelletlivi, cioe fornili d' idee. Sc noil avessiiiio elie T idea , tulle le
sensazioni elie in quell idea .sono rappreseiilate porderebbero la loro
dislinzioue^ se non avessinio elie sole le seusazioni, (|uesle sensazioiii
rimarrebbero perpeluamente dislinle fra loro, ma seinpre prive deirunila, I'.io
ebe forma la condizioue de' bruli. Ma avendo noi dalluna parte le sensazioni,
dallallra le itlce, pussiamo avere in noi senza eoiitraddizioue alcuna e il
moltipUce e I'li/io* il molti* pliee i conservato In noi nelle sensazioni, e I
uno i dato a noi nelle idee. Noi inlendiamo per I uiiicila del nostro intinio
.senso, die molte sensazioni, o in si o solo in qualclie parte, eorrupondono ad
una sola e medesima idea: qucsla dunque le lega, le raceuglic, le riflelte
lulte; ma quelle pero non si eonfondono insieme , non perdouo punto ni poco la
loro di- stiiizione naturale, peroeebi esse stesse non si unifleauo od im-
medesimano punto. Se per es. vi hanno cento corpi rossi, la luia idea del color
rosso li uiiizza tutti, |ierocclie lulti li ra[i- presenta: nella unicila
adunque di questa idea ritrovasi Iiden- lita di que' corpi sotto Iaspetto del
color rosso^ rocnlre iii essi malerialmcnte presi, o nelle sensazioni che in me
cagio- naiio non si Irova nessuiia identila, ina bcusi una assoluta
dislinzione, e in ciascuno una csislenza incomuuicabile allallro. Se i cento
corpi sono pinti a varj colori, io li conosco con \arie idee: in un modo li
conosco coll' idea del colore in ge- ncre^ in un allro colic idee de colori
particolari, verde, lur- idiiuo, giallo, purpurco, ecc. Coll idea del colore in
gencre, io li conosco tutti, ma piii impcrfeltamenle : colie idee de colori
verde , sono astrarre senza paragonarle insieme, n^ si possono para- goiiare
senza unificarle; Abbiamo veduto , cbe n^ cose, ni sensazioni si pos.sono uni-
ficare in si stesse, ma solamcnte nelle loro idee; cioi die la loro
onificazione consiste nellunita delle idee che a loro ri- spondono : v Quale i
di questo vero la conseguenza ? La conseguenza ineluttabile si i, che avanti
Iastrazione, avanti la comparn- zione, avanti la unificazione delle cose c
delle sensazioni, le idee debbono gii esistere; perocclii solo nelle idee e per
le idee si da unificazione, comparazione , astrazione: quindi le idee non.
possono snsseguire od esserc il frutto di queste operazioni. In nessnna maniera
si pu& eludere, o declinare una si ter- ribile conseguenza. Si puu solo
dimandare dopo di cii, se sia assolatameiitc aao necessaria, aranti quelle
opcrazioni deUaalrarre Iidentico, del paragonare e dellunificare, Iesistenza di
tutte le idee, o solo di alcune , e se di alcune , di qaante e di quali. Tale i
il problema, che io mi sono proposto nel N. Sa^io sulPorigine delle idee. Ivi
ho dimostrato, che I'anificazione, il paragone e Iastra- zione i possibile
tosto che preesista una sola idea : e che que* sta idea necessaria a tutte
quelle operazioni dello spirito, h V idea delP essere. Chi ammettesse di
preesistente qualche cosa di pin di qne- sta idea , ammetterebbe del superfluo.
Gonciossiachi in quella idea consiste ci6 che hanno d identico tutte le cose :
trovato cid che hanno d'identico tutte le cose, 6 facile, rinvenire 1 iden-
tico gcnerico e spcciale, venendo formate queste generalitii e speciality dai
sentimenti che limitano 1 identico universale, e non essendo Iidentido generico
o specials che modi dello stesso identico universale. Chi ammettesse qualche
cosa di meno di quell idea, non ammetterebbe abbastanza. Perocchi se
preesistesse solamente unidea costituente un identico generico o speciale, e
non uni- versale; questa idea non darebbe al nostro spirito la potenza di
unificare e paragonare tutte le cose, ma solo quelle rispon- denti a quella
idea; n^ potrebbe perci6 lo spirito nostro estrarre 1 identico che da quel
genere o specie di cose, che viene da quell idea determinate. Ma oltraccid,
questa supposizione del porsi nella mente nostra meno dell idea dell essere ,
pu6 du- bitarsi se non sia forse da si assurda, e impossibile. Concios- siachd
qualsivoglia idea parzjale suppone finalmente la prima universale, e non h
altro che la prima stessa coll aggiunta di qualche niodo , o . di qualche
determinazione; e sarebbe pure strana cosa a immaginarsi una mente, che potendo
concepir 1 essere anco con quella determinazione, nol potesse poi con- cepir
separate. Per tutte le quali cose io credo, che avendosi dimostrato prima in
generale, come lo spirito nop possa avere la potenza di unificare, paragonare,
e astrarre le sensazioni, c cose sen- sibili , senza delle idee precedenti;
Avendosi poi esaminato qual sia la relazione delle idee fra Digitized by Google
aa I loro, e veduto il loro muluo incatenainento, vedoto come Tuna si form! ed
ingeneri dall'allra; Arendo trovato di piu, mediante queste ricerche, avervi
ana idea sola che sta sopra tutte, e che non puo esser for- mats da
vernn'altra^ Avendo altresi considerato, che quest' idea i di tntte la pih
semplice, la piu tenue, e che ella i involta, i ripetnta in tntte Ialtre,
sicchi essa i relemento primo e necessario del pensiero ; finalmente, che ella sola, sebbene $i poca
cosa ella paja, hasta per6 a dare alio spirito la possibilita di nnificare, di
paragonare , di astrarre tutte le sensazioni , e tutte le cose sen- sibili ,
senza eccezione aicnna : lo credo , dico , avendori tutto ci6 rilevato,' e
irrepngnabil- mente fermato, che debba ammettersi si come dimostrato a
pienissimo , che quests idea dell essere precede nella mente umana ogni
uniBcazione, ogni comparasione, ogni astrazione^ e ch ella per6 non pu6
cominciare per nessun astruione, per nessnn paragons, e per nessuna
uniBcazione, atti che senza lei nd si posson fare, n pensare. CAPITOLO XXXVIll.
CLI SFORZI DBL MAMIANI A SFIEGARE LA GENERAZIOME DELliDEA DELleSSERB nVLLA
OTTEnCOHO. E qui sarii agevole portare nn retto giudizio intomo al mo- do, onde
il C. M. espone 1 origins dell idea dell essere, e par- ticolarmente rilevare,
se egli mantiene in esponendola quelle gravi condizioni chegli stesso si 6
posto (i). PerocchA noi ab- biamo veduto , volere il N. A. dedurre tntte le
idee astratte dal paragons (a), e Iidea dell essere non esser per Ini altro (i)
Vedi il cap. XVII. (a) Cotesto ritrarsi che fa Iatlenzione da piii cose
present! nellanimo per raccorsi tutta e
ditnorare sopra un soggcllo parziale costiluiscc la M Tirth dell' astrarre I
nel cui ufficio I'ideotico vienc conlemplato come sciollo dal rario, e per cooscguente il vario
come non frammisto allideo- ties "
(P. II, c. X, tv). Digitized by Google X'll cbc Iidea astraltissima di tutte
(i), un'idea. come egU la de* nomina, di
medesimeaza ; perocch^ egli dice che u
tutte le cose hanno una medesimezza nccessaria fra loro riguardo all
esislere (a). L idea dell essere si
forma adunqnc col paragone , e col- 1 astrazione , separando dalle cose la medesimezza che hanno tntte fra loro in
quanto allesistere . Or dopo tutto ci6 che abbiamo premesso, niente di piu fa-
cile che il deCnlre, i. se egli deduca in tal guisa Iidea del- 1 essere secondo
la promessa fatta, senza proposizioni mental!, senza affermazioni, e senza
giudizio, quando e proposizioni e affermazioni e gindiz} sacchiudono gik nella
unificazione , nel paragone, e ncllastrazione^ . 3. se esentandole dalle troppo
dure condizioni poste a sh stesso, egli tuttavia riesca a deduire senza
paralogismo Iidca dell essere, quando egli ad ogni modo ha bisogno, in dedurla,
di unilicare, paragonare, astrarre, e tntte qneste operazioni suppongono gi4
formata, come vedem- mo , 1 idea dell essere stessa , istrumento necessario
alle me- desime. CAPITOLO XXXIX. CONTINDAZIONE : ATVILUFFI IN CCI SI FEEDE IL
MAMUNI. Ma in queste dottrine il Mamiani non i costante ; noi dob- hiamo
tornare al combattimento de suoi concetti. Richiamiamocelo alia mente: in un
loogo essendogli renuto nellanimo di cercare che fosse Iidentico delle cose,
che co- stituisce gli astratti, gli parve chiarissimo, quello dover essere un
elemento cogitativo, e non alcana parte reale e concrcta delle cose stesse. E a
confessarlo allora nol ritenne il dubbio , che le idee astratte potessero
perci6 esser mendaci^ conciossia- ch u chi ha mai creduto e pensato , che la
identity e la u varieU, Iuguale c il dbuguale, il molto ed il poco sieno (i) P.
II, c. IV. . (5) P. II, c. XX, I. Digitized by Google V aa3 , u parli concrete
dei corpi (i)? peri^ non possono
ingannare IICSSODO. Sotto Tinfluenza poi d'un allro pensiero gliene parve di-
versamente. II comprese limor fortissimo, non forse la realilit oggettiva, o
verita delle idee astralle, se ne andasse in fumo, quando I identico che quelle
in si raccolgono non fosse una parte realmente esistente oelle cose concrete.
Vinto allora dalla gravezza del pericolo , cerc6 di ripararlo colla contraria
sen- tenza, insegnando, die sotto al colore particolare e determinato di nn corpo
sta il color comune indeterminato , e pronuncian- do, die u dii dice o pensa
questo giudicio : la vostra mauo i
Lianca, percepisce efTettivameDte due cose, cioii il modo u spcriale della
Liandiezza inerenle in quella singola mano , u e il modo comune della
biancLezza die risiede cost in quells
MS.NO , come in qualunque allro corpo, il quale sia bianco^ a e ciA
risponde a capello al reale di tutU gli esseri
(a) : sicchi in quella medesima mano vi hanno effettivamcnte due
bianchezzc, la comune, e la propria (3). Or con entrambi queste due sentenze
contrarie, quasi con due pugnali, egli ci assalisce. Ma troppo i dilHcile a
maneggiar due pugnali senza ferire si stesso^ e parmi, che qui il N. A. si
tagli per mezzo , a segno , che noi non abbiamo piu un Mamiani solo per
avversario, ma due. L'uno di essi vuol ribattere questa mia proposizione :
Iuomo non pu6 pensare a nulla senza T idea dell essere. Ma prima Ialtro ne da
la prova , dicendo: X Moi troviamo 1 essere in tutle le cose ; or truvare 1
es> X sere vale rispetto a noi concepirlo: e perch^ le cose tutte X quanto
son pensate e conosciute da noi per mezzo dei nostri (i) P. II, c. X , III, (z)
P, II, c. IV, V. (3) II cliiamarli come b due
modi della biaiichezza m , non gli giova die a complicare maggiormente
la dilGcolla. Pcroccbi sc cgli parla de modi della blauc'bezza, la bianchezza
asiralla iiilorno a cui versa la qiicstione Ih.^ lasciata da parte. E poi quale
slrauczza il dire, cbe la bianchezza speciale (comegli la chiama) della mano,
sia un modo della biaiicliezza , e cosi pure la blaiicbezza comune? Vi
sarebliero duoquo Ire blancliezze , c non due; e cube siesse manicre impropric
di parlare si polrebbe moltiplicarc I nuracru dtlle bianchezzc all'iufiuito.
Digitized by Google aa4 u concetti, trovare I' easere in tatte le cose, vnol
dire allal- , u timo trovare in ogni concetto di cosa il concetto dell'es* u
sere (i). 11 primo Mamiani perA mi
oppone : u Non A nelle cose nnesistenza astratta, indeterminata , e u distinta
dai modi particolari e individuali^ ilchesolo rispon- u derebbe a un concetto
distinto astratto e indeterminato
dellessere; siamo noi bensi che usiamo talvolta considerare le cose, astrazione fatta da ogni loro
indiridualiU, e solo in (juauto elle
esistono , cioA in quanto noi le consideriamo
con quell astrazione n . A cui io rispondo : noi dnnque consideriamo le
cose, astra- zione fatta da ogni loro individualit4 (piu esatto sarebbe il dire
sussistenza, o concrezione ) , e solo in quanto elle esistono. Una tale
astrazione non A ella Iidea dellcssere in universale? cbi ba mai preteso, che
quest idea sia qualche cosaltro? chi ha preteso, che nelle cose stesse vi abbia
un'esistenza astratta, indeterminata, e distinta dai modi particolari e
individuali ? chi poteva sognare una simile dottrina? a chi non. e noto, che
tutlo ci6 che A astratto e indeterminato non puu esistere nelle cose, ma solo
nell intelletto? non 4 queslo che noi diciamo sempre? Di poi , r Rutore di una
tale dottrina da noi riprovata e dal Mamiani confutala, non A che un altro
Mamiani : noi abbiam vedulo, trovarsi replicatamente nel libro del Riruiwamento
que- slo inconcepibile assurdo, che v abbia necorpi, sotto il colore
determinate, il colore comune e indeterminate^ e che una mano abbia due
bianchezze, la sua propria, e la comune, che A quanto dire indeterminata!! Che
mi giova? il primo Mamiani non cessa di accusarmi seriamenle, che nelle mie
dottrine intorno allessere in univer- sale u si fa non conveniente passaggio
dallidea allessere, e u dal concetto delle realita, alle medesime realita (3): qua- sichA sia io quegli che pretende
che nelle cose reali vi sia Iidea, e che Iidea sia un elemenlo della realita
delle cose^ () P. II, c. XI, II. (1) P. II , c, XI, II. Digitized by GoogI aa5
quasichi io confonda insieme la idealiti e la realiti delles- sere, e non
mostii anai) che quella e il mezzo onde noi co- Dosciamo questa, i la
conoscibiliti di questa. lo lo prego di addurre qualche passo del JV. Saggio,
in cui pur da lontano si pouga questa straua confusione fra Iidea e la cosa,
fra Iideale e il reale ^ come io bo potato addurre de' luoghi che racchiudono
tanta stravaganza del libro del Rirf nopamento; e mi do bello e vinto. Ma per
quel Mamiani, che suppone on colore indetermiuato e comune sottostare al co-
lore reale e proprio decorpi, quale strana cosa potrebbes- sere anche il dire,
che un essere comune e iudetermiuato sot- tostia all essere proprio delle cose?
CAPITOLO XL. CONTINVAZIOME. Per altro Iimbarazzo, in cui qui il N. A.
travagliosamente s'iuvolge, parri uuo spettacolo siogolare a chi il verra
atten- tamente considerando. Egli ha gii ammesso in tanti luoghi del soo libro,
ed an- che in quello ultimamente allegato, Iastrazione dell essere; ha
riconoscittto che questa astrazioue i unidea di medesimezza, che le cose in
quanto allesistere sono uguali, che dunque questa idea dovrebbe dedursi dal
paragone delle cose, come ha iatto di tulte Ialtre idee astratte. Ma se egli la
estrae dalle cose, egli pare allora, che nelle cose stesse stia Iidentico, con-
tro p ci6 che ultimamente, per opporsi alia mia dottrina, egli ha detto, cioi
che Iessere astratto e iudeterminato non sia piu nelle cose, sebben vi fosse un
po prima. Se poi egli am- mette che questo identico nelle cose punto non ci
sia, come estrarsi dalle cose? E oltracciA in tal caso Iidea dellessere
indeterminato, come tutte I'altre astrazioni, non avrebbe piu qnella veracitii
chegli cbiama realiU obbjettiva , e che consiste nel rappresentare
fedelissimamente le cose. Quanta la- boras in chaiybdi . . . ? Ma questo avviluppo
sara piu bello, voglio dire piu esem- plare, a udirlo descritto da lui stesso.
BuaMiifi, Il Rinnovamento. ag Digitized by Google aa6 Nelle uUime parole di
sopra riferite aveva egU detto, che K noi usiamo talvolta considerare le cose,
astrazione fatla da ogai loro
individualitci, e solo in quanto elle esistono Questo era un dare spiegazione
della generazione dell' idea del- Iessere, facendola nascere dal considerare le
cose solto il ri- spetto dell'esistenza a tulte comutie, fatta astrazione da
ogni altra loro quality ^ era un dire manifesto, che Iidea delles- sere nasce
dall' astrazione, mediante la quale noi consideriamo nelle cose ci6 che hanno
tutte, niuna eccettuata, di identico, il quale i I'essere. Pure, per le ragioni
toccate, egli non potea riinanersi col- I'animo quieto sopra una tale
generazione dell idea dellessere: dice adunque: Polrebbe opporsi: tale astrazione non fora
possibile, u tuttaTolla che nelle cose e in conspgncnza nei loro con- cetti non si trovasse un fondamento
dellaslrazione, cioS al- u cun che, proprio a venire diversificato e distinto:
in ogni concetto adunque Iidea
dellessere giace, in alcuna ma niera,
distinta dalle altre idee individuali . Quesia istanza non tocca noi, roa ben
tocc^ sul vivo il C. M., ciO(^ quel G. M. che dice le idee rispondere
interamente alle cose, e 1 identico che ^ nelle idee esser veramente anche
nelle cose reali. Perocch6 trovandosi 1* identico nelle idee astratte separato,
come suona la parola, da tutte le altre note, con- viene che questa separazione
reale sia pur nelle cose, se vuol mantenersi la sentenza dellassointa e
perfetta rispondenza delle idee alle cose. Quanto a me, io ammetto che nelle
idee possa esser di- stinto quello che nelle coiie i unito, senza che la
veracita di quelle ne patisca, io anzi fo esser proprio delle idee il potere di
divideru e di comporre le cose^ e (inalmente io ammetto una iiicredibile
distanza e diversita fra le idee e le cose, fra I'essere ideale e Iessere
realc, riconoscendo in quello il prin- cipio e la conoscibilila di questo, e in
questo il fine e la mate- ria di quella conoscibilita. Nulla dunque per me di
nuovo, o di strano, che per la virtu astrattiva dello spirito nostro si possa
osservarc nelle cose il solo esserediviso da suoi modi, senza die siavi un
bisogno al mondo, die quell esserc stia nelle cose Digitized by Google
realmente dall'nltre qualila distinlo, e partilo: e qocstessere cos\ coDgiuato
allallre qualita i tuttayia per me un foodameolo acconcissimo dell' astrazione.
Risponda adunque alia sna istanza qael Mamiani , a cui tocca rispondere,
quegli, che vuole un si esalto riferiniento delle idee alle cose; e nella sua
risposta mostri Inlto rintrigOi in cui egli da s^ stesso si pose. Eccolo
ubbidiente al nostro desiderio: u Due condizioni, dice, costanti si possono
avvisare in ogiii u concetto egualmente cbe nelle cose tutte pensabili. L'una i
a la loro entiU pccnliare, I'altra le loro attinenze. Adunque u I'idea
dell'essere o giace in ogni concetto come lor parte u integrale, ovvero sorge
dal paragone di questi. La prima u ipotesi rende falsi tiitti i nostri
concetti, imperocchi la dove u dentro le cose I'essere non giace distinto dalle
peculiar! de- u terminazioni: entro i nostri concetti I'idea dell'essere siede*
a rebbe distinta dall'altre idee individuali . Da questa parte adunque il G. M.
non trora una uscita. OsserveriS lo bene, i. cbe Ialternativa proposta non i
fatta secondo le regole logiche, perocch^ secondo qneste, i dne membri dell
alterna* tiva debbono corrispondersi ed csser della stessa natnra: p. e. si
direbbe, questa palla i o rossa, o gialla; ma non si di- rebbe questa palla 6 o
rossa o dargento. Cosl nel caso no- stro conveniva dirsi: I'idea dellessere o giace in ogni con- cetto
come parte integrale, o in altro modo, per es. come parte potenziale o
virtuale ; ma il dire, o si giace come
parte in- tegrale, o sorge dal paragone, i cosl inesatto come il dire, il mio
calzare o i parte integrale del mio vestito, o pure I'ba fatto il calzolajo: a.
quanto al modo ondc unidea pu6 giacere in nn'altra, io non far6 cbe ripetere
ci6 cbe un G. M. mi somministra. Que- sti adunque minsegna, cbe si da benissimo
in natura Iin- serzione di unidea in
unaltra idea , anzi cbe ci6 avviene ogni volta cbe si fa un giudizio (t): come
questi pure minse- (i) GIti si (llsse
che ogni conoscenza include un giudicio, o con altra Iessere, sciolta da tutti i modi, esi$ta*sl o
no nello spirito nmano, e che se esiste, e di questa che si tratta, o di cui si
vuole spiegare I origine, rimanendo poi un'altra questione qnella di sapere se
una tale idea sia vcrace, o menzognera: direbbe, che I'esistenza di una tale
idea distinta da ognaltra i inne- gabile; e che gi^ si ammise come cosa fuori
di controversia , che u Iidea dell'essere risiede nellintelletto distinta dallal-
X tre idee e a cui possiamo pensare separataroente da tutte (a). CAPITOLO XLI. COHTIMDAZIONE. Ma via ,
escluso il paragone de' simili , veggiamo qual sia il nuovo processo dello
spirito, seeondo il quale, giusta il nuovo (i) II C. M. dice anche quesle
parole: Se I'essere dee venire guardalo
r come idenlico a tulti modi e a tutte
le dlflerenze di cose e didee, in qual
maniera acuopriremo per via di confronto la siia somigliania tia uua > cosa
ad uualtra, e da unidea ad unaltra? (P.
It, c XI, ii); e con queste parole mostra la difficollli che si scontra a
dedurre Iidea del Ies- sere dal paragone. Tali parole lo coiifesso di non
inlendere. Qual inaravi- glia , che si possa scuoprire la simiglianta dell
essere , se egli 6 identico alle cose tutte, c modi e dIHereoze? aozi non si
troverebbe si estesa somi- glianza se identica non fosse. Vorrebbe dir forse,
che pnnendo Iidentitii dell'es-sere tanto larga, si struggcrebbero le
diifcrenze delle cose? ma pos- siamo noi fare, che la sua idenlilii sia pl&
larga o plu stretta di quella cbe i? Di poi le diSerenze e i modi dellessere
non sono Iessere, ma sue limilaxioni; e per6 s intende assai chiaro come le
diffcrenze ed i modi coesistano insieme collidentith, nascendo esse da un
principio diverse, da un principio di limitazione. M P. II, c. XI, II. a3o G.
M., vienti in not generandosi I'ldea dell'essere. Altenzione a tntte Ic parole:
II Diciamo che il paragone fra i conlrarii, da' quali si ori- u gina Iidea
dell'essere, qucllo che I'animo nostro
ripete B infinite volte fra gli stati suoi positivi e gli stati suoi ne- B
gativi, quando cio^ viene afletto da alcuna cosa, e qaando B pin non nc viene
affctto. Tal confronto lo muove a sentire, B chc mentre gli stati positivi sono
diversi Iuno dall'altro, B invece li negativi sono similissimi sempre e in
tntto, doi B che una sola forma di sentimento si ripete per ciascuno di B loro.
Ma d'altra parte li positivi quantunque diversi hanno B questo di comune, che
si oppongono egualmente futti a B quel scnso di privazione che abbiam
descritto. Lintelligenza B nostra considerando in disparte tal forma di
opposizione B viene a creare (i) I'idea astratt/t dellessere. Avvegnachi B
tntte le cose sono simili in ci6, ch'elle differiscono tntte egnalmente dalla privazione. Qnesta simiglianza,
come B vede, non ^ elemento integrale di
lor natnra, e non si di- u stingue per si dalle varieti loro individue, ma
sorge in fondo B del nostro animo per efietlo del paragone fra li suoi stati B
contrarii n (a). Ora a quante e quali osservazioni possa dar luogo qnesto
passo, i difficile a dire: io mi contenter6 di alcune. I.' 11 raffrontare gli
stati positivi, e gli stati negativi del- r animo nostro, potrii bene darci un
astratto, che ci dica eqae- gli stati positivi esser tutti egualmente remoli
da' negativi ^ ma questa idea
astrattissima degli stati positivi dell animo no- stro, non i^ mica I'idea
dellessere. L idea dellessere non esprime lo stato dellanima nh concreto, ni
astratto; Ianimo i uB es- sere particolare; i suoi stati non sono che modi di
un essere parlicolare. Ora da modi di un essere non si pu6 dedurre le- sere
stesso, ni da un essere solo si pu6 trovare I essere in uni- versale. a. Gli
stati negativi dell animo non sono gia il niente. II (i) CresreT non i dunque
Iidea dellessere dedottia, ma creala dalla mcnte ? {i) P. II, c. XI, II.
Digitized by Google a3 I G. M.stesso suppone che sieno sentiti, che sieno un
seatimento, dicendo una sola forma di
sentimento si ripete per cia- scuno di
loro . Paragooando adunqoe gli stati positivi del- Ianimo co'negativi, non si
paragona mica il qualche cosa col niente, ma un sentimento con un altro
sentimento, un qual- che cosa con un altro qualche cosa^ e il qualche cosa nou
i rimoto da on altro qualche cosa, come Iessere dal niente. Dun- que ammesso
anche per vero che Iidea dell'esserc consistesse nellosservar tioi che tutte le cose sono simili u in ci6, chelle
differiscono tutte egualmente dalla privazione
, non si potrebbe per6 cavar mai quest idea dal confronto fra gli stati
dellanimo positivi, e i negativi. 3. Ggli ^ poi falso che gli stati positivi
dcllaniino u sieno diversi Iuno dall
altro: e invece li negativi sieno siniilissimi M sempre e in tutton. Pcrocchi
fra gli stati positivi. delPanimo, e cosi pure fra i negativi si possono
osservare molte somi- glianze. 4- Ma poniaroo, che non si tratti nel passo del
C. M. de- gli stati dellanimo; che non sieno questi che si mettano a pa-
ragone; ma che trattisi in qnella vece, delle cose che allanimo stanno
presenti, o che dallauimo son rimosse: trattisi adun- que di paragonare
I'enl/td di qucste cose col nui/a opposto- Pimarra a diniandarsi, i egli il
nulla che fa conoscere Iente, o Iente che fa conoscere il nulla? Presso i
nostri buoni an- tichi sempre dicevasi che il nulla era nulla^ e che paragone
non si pu6 fare se non fra due cose, che per6 il paragone fra il qualche cosa e
il nulla propriamente non i che una cotale illusione della mente. Dicevasi, che
Iintendimento nostro, non potendo concepire cosa alcuna se non mediante la
forma di cnte, egli vestiva di questa forma anco il signiGcato della pa- rola
nuJla, e a questa parola aggiungeva un cotal essere men- tale che non esisteva
fuori della niente (i). Deflnivasi questo essere mentale denominato nul/a cosi:
u la negazione delles- (i) Aon ens aiilem , dire s. Tommiso, non habtt ex se ut
sit verum , scd sotummodn ex intelleclu apprehendente ipsum. S. I, XVI, vii, ad
4. E nllrovei Non eiis non liaOel in se unde cognoscalur : scd cognoscUur in
qiianlum inlcllcclus fucil illud cognoscibite. Unde lcrum Jiindatur in enlc,
Ivi, art III, ad a. Digitized by Coogle a3a sere ^ sicche il nulla senza Iessere non polevasi
concepire, ina solo coucepivasi mediantc Iessere. Se quesle doUrine sou vere,
coiivien dire, che prima di paragonare le cose col nulla, quell essere nientale
(il nulla) debba esser formato^ e non for- mandosi esso se non mediante I idea
dell essere a cui si riferi- sce, convien dire, che 1 idea dell essere sia
formala in noi molto prima che quella del nulla. Egli & adunque assurdo
Iimma* ginare, che I idea dell' essere nasca dopo quella del nulla, come
sarebbe se fosse vero, che essa nascesse nel nostro spirito col confronto che
noi facciamo fra le cose, e la loro negazione. 5. ' Di poi , se le cose messe a
riscontro col nulla, si tro- vano tutte convenire in questo, che differiscano
da lui^ non si puu mica conchindere, che u questa simiglianza non ^ M elemento integrale di lornaturan.
Perocchi il dilTerire dal nulla i necessariamente un elemento positivo; come il
dilTurire dall essere i necessariamente un elemento negativo. Non in-
ganniamoci collabiiso delle parole, colle quali talora si fa comparire per
negativo quello che A positivo, e viceversa. Con- sideriamo un po, che cosa
voglia dire differire dall essere. Chi differisce interamente dall essere, A
nulla. Che cosa vuol dire allopposto differire dal nulla? Chi differisce dal
nulla ha Iessere. Dunque ci6, in cui le cose tutte differiscono dal nulla e
dalla privazione, A Icssere, dunqiie A un che positivo, dun> que A
certamente u un elemento integrale di lor natura >. 6. Di piii: dal n.* 5. conseguila, che se le
cose, perchA differiscono tutte egualmente dal nulla, convengQno tutte in aver
1 essere^ dunque quest' essere A il simile, Iidentico delle cose. Dunque a che
ci bisogna paragonarle col nulla per rin- venirlo, e non piii tosto fra di
loro, come si fa nella forma- zioiie di tutte le altre idee comuni? O anzi,
credesi forse che nel paragonarle tutte al nulla, non sacchiuda il paragone di
loro fra sA? Quella tutlal pin non sarebbe se non una via in- diretta e piii
lunga che si farebbe per venire al detto para- gone^ perciocchA a fare quel
paragone si userebbe il mezzo di questargomentazione tacita; Le cose uguali ad una terza sono uguali fra
di loro: viceversa, le cose che ugualmente differiscono da una terza, sono
uguali in questa differenza. Ma tutte le cose ugualmente differiscono dal
nulla. Dunque sono uguali in que- Digitized by GoogI a33 Kto difTerimento. Ma
il differire ugualmenle ilal nulla, i con- vrnire tutte nell'esfiere. Dunque
tuUe hanno di uguale o sia identiro Icssere . Chi non vede la slorlura e 1
inutile Inn- ghezza di qnesto cammino? II paragone dclle cose col nulla, 0
rolla loro privazione, pu6 tutt'al piii far meglio risaltare al- I'ocrhio della
mente la loro comune qualila dell'esscre^ ma qnesta, per esser trovala, non ha
bisogno alcuno di quell' im- maginario paragone. 7. " Tutt! gli argoraenti
da me recati nei numeri 4- 5. e 6.*, possono anro applicarsi agli stati
positiv! e negalivi dell'animo, sal cui paragone vicne il C. M. fabbricando
I'astraziooe dell'es- sere. Perocchd egnalmente si pu6 dire , che il positivo
non & conoscibile pel negativo, ma viceversa, che il negativo suppone
precedente I idea del positivo, e che la remozionc del negativo 1 un elcmento
positivo e non negativo. Se non che gli stati dell'animo hanno oltracciu a loro
carico le riflessioni da noi poste nei numeri i., a." e 3.* 8. * Pare
pero, che il C. M. stesso senta I'assurdita di para- gonare il qualche cosa col
nulla: perocchi egregiamente egli dice,
lo stato fenomenico di nostra mente progredire per H due serie
correspettive di fatti, mutabili gli uni, immutabili gli altri
(1), e mostra assai bene accorgersi, se non min* ganno, come i fatti
variabili abbiano bisogno di coesistere agPinvariabili per essere percepiti. )
Or cbe 4? in questultime parole torna alia dottrina altrove da lui professata,
cbe Iidentico e il simile non sicno dentro le cose in modo distinto. E tuttavia
in modo distinto sono nel nostro intelletto. Se dunque questo ^ vero, e qucsto
non toglie la verita de nostri concetti e de nostri giudizi, a qual pro
intavolare prima tante difbcolla nellestrazione dellessere dal paragone de
simili? a qual pro sostenere si fermamente, cbe ove nei nostri concetti Iessere
(questo elemeiito comunissimo o identico alle cose tutte) fosse distinto, i
concetti nostri e i nostri giudizj sarebbero tultl falsi ? Come conciliare
questi due autorl, cbe appariscotio nel li- ^ bro del Rinnovamento , fra di
loro ? Osservero ancora nelle cilate parole, I." Che non i il sentimento
del paragone, cbe noi appli- cbiamo ai termini del paragone quando diciamo due cose sono simili ^ ma si applichiamo a quelle cose il
predicalo di somigliante , la qual somiglianza non un sentimento, ma unidea astratta, cose iuflnitamente
distant! I'una dall altra. 11 sentimento subbjettivo del paragone, non e, e non
pu6 es- ser altro cbe il sentire o Iesser consapevoli di fare il paragone, e
nulla piii: allincontro quando io dico, questi due corpi (1) P. II. C. \l, II.
Digitized by Google 5 3/> sono sferici, io applico acl essi I'astratto lella
sfericila, cho i nna bella e buona idea. II '
''Si ''1 'ib" . i>i
(.T'iiiui II 'll >i ' I'll OIJb ' i'l oiiytjxjti ii/. oiufii Digitized by
Google LIBRO TBRZO DELLA CERTEZZA DELLE COGNIZIOM UHANE. pervenuli uoa volta a disituguerc e M dcGuire
con sicurczia la forioa Sm> plice ed
esscnzialc del vcro, niuna u cosa polrebbe impedire di ricono* M 2icerla per
tntto ove sia presente MdMlASlt P. II, c. XVII, II. Ma egli k tempo che noi
veniamO' a qoello che forma lar> gomeoto proprio e deliberato del libro del
Rumovamento della fdosofia daliana, cioi alia dimostrazione del sapere.
Perocchi deilorigine del sapere noi vedemmo, cbe il C- M. non parl6
deliberatamente, ma da necessila iodotto e tirato, disvolendolo egli,
accorgendosene, dopo riiiatata la ricerca dellorigine siccome inutile all uopo
suo, conghietturale, impossibile. Chi da vero non sempre chi scrive dice ci6
che vuole^ talora cii che vorrebbe il meno^ e la lingua deU'nomo, e la penna,
ub- bidisce alia secretissima e naturalissima forza della coerenca della
verita. Noi vedemmo il nesso fra la questione dellor^iie e quella della
certezza; vedemmo che il certo non pu6 avere il suo fon* damento cbe aeW
evidente, e che I'evidente si dee cercare e si pu6 attigner solo alia sorgente
prima della cognizione e della stessa intelligenza (i): ci innalzammo passo
passo in cerca di questa fonte perenne e pura^ seguilandone indietro i
rigagnoli che da quella scaturendo discendono^ la trovammo^ nabbiamo
contempiato, a cosi dire, il zampillo limpidissimo, Videa nella (i) Lib. I.
Digitized by Google sua pure/.7.a, Y intuizioiK deiCesserc, spontanea,
anten'ore ad ogni esercizio di facolt^, immanente in no!, luce sincera che
procede dal volto dl Diu (i). Ora no! dobbiamo cominciare a meltere a profitto
cotesta nobile origine del conoscimento da noi rin- venuta , applicando il
principio evidente del conoscere, la co- giiizione essentiale, alia
dimostrazione delle cognizioni tutte ac- cidental! e derivate^ richiamando in
pari tempo ad esame, cnl- Iajuto di qnella tessera prima ed originaria , le
dottrine onde il C. M. tolse a garantire al genere umano la certa c assolnta
verita di cii!) cbe egli conosce. Niuno ^ die non s'acrorga, come la teoria
della certezza an- tecede, in ragione di ordine logico, ogni altra dottrina
riflessa e filosofica^ e come la ricerca stessa deH'origine delle cognizioni
non acquista eflettivo e pieno valore $e non a quel punto, die, essendo ella
giunta a disroprirc IVssenza del conoscere giacente nell'intnizione dellessere,
trova nella luce di questa prima ve- rita e la certezza propriaj e quella di
tutte Paltre scienze a si inferior!. SIcche Yideologia e la logica hanno
insieme un punto di contatto, in quanto cbe la prima rinviene il primo veto ,
origine o piu tosto sede del sapere, e la seconda nsa del primo vero come di
regola e di misura a dare una ferma dimostra- zione del sapere raedesimo,
inducendo da esso in noi una per- suasione immobile, riflessa e libera. Indi,
dii non vede I'im- portanza della qnestione che noi trattiamo? e come non
alluna o allaltra scienza, ma giova a tutte colui che pone I'ingegno e Iopera a
cacciare dagli animi lo scetllcismo, il quale invidia all' umana famiglia tutto
ci6 die la nobilita e la sublima, il conoscimento^ coin! die s' impegna a
pronunciare il principio della certezza con parole si proprie, si scevre di
ambignila, ve stite di una forma cost adeguata , che tutti quelli i quali vi
dirizzino gli sgnardi, non possano non vederue il fulgore, e con- fussarsene
dall'acutissima luce vinli e. trionfati? E per6 lodevola intenzione fu quella
del C M., cbe col suo libro intete a comporre una cotal difesa e dimostrazione
del sapere , al cui vigore nessuno possa sottrarsi, ae non colui che la ignora.
Poichi (i) Lib. II. Digitized by Google i4 non si pu6 certo assicarare agli
studj Glosofici un progresso verace, ordinato e diretto, se non per opera di
qae' filosoG, i quali sieno perveiiuli concordi almeno ad aOermare il prin-
cipio della certezza. Che da vero, altra cosa i quel progresso conlinuo che
j>rocede indipendente daU'uomo, anclie a dispetto dell'uomo, e che non
partiene all'ordine dellc scienze, ma ad un allro piu sublime, imnienso, alle
cui leggi, a coi ^creti i profano lo sgnardo morlale, e cui tutto accelera ,
I'umana ignoraiiza, Ierrore, il delitto^ altro i quel progresso scientifico,
quello svolgimento della verila , che 6 a noi uomini dalla provvidcnza commesso
si come un nobilissimo ulBcio , e un co- tal sacro e dilettoso dovere, perciu
dipendente in parte dalle libere nostre fatiche, e di cui non deesi abbandonar
il corso , volea dire, al caso, come terra senza mano di agricoltore, che colie
delicate piante della vite e del (ico , produce la lambru* sea e lo spino forte
e soperchiante, ma si bene da'buoni sa- pient! accortamente guidare e
indirizzare. Ed egli dovrebbe esser pur tempo, che qnelli i quali s'applicano
agli studj presso di noi, deponendo una cotal maniera di pensare iudi- vidnalc
e a se stessi ristrelta, c volentieri accoslandosi agli stud], alle
meditazioni, alia lingua altrui, intendessero me- diante discussion! serie, di
buona fede, e senza taota lussuria e tanl'ombra di pampini , con quella
letteraria socievolezza di cui fra noi manca ancora I'esempio, a porre in
chiari termini le quistioni, a facilitarne, ottene{ne, perfezionarue lo
sciogli- mento, a ridurle a quelle forme si adeguate, e si natural!, che
diventano poi da si stesse comuni, solenni e immutabili. In tal modo I Italia,
questa maestra de' popoli, ritoruerebbe a cingersi ella stessa le tempie di
lauri : perocch^ in vece di avere deletterati minuti, divisi, sparpagliati, che
giornalmente rendon pubbliche dtlle opere non pubbliche per la lor indole e
quality, ma privatissime, cioS rappresentauti uua' maniera di pensare esclusivo,
casalingo, iguaro di ci6 che si dice e che si fa fiiori della porta di casa:
avremmo per cost dire la na- zione stessa che pubblicamcnte e solennemente
insegnerebbe negli scritti de' suoi letterati: cioi vedrebbesi in ciascun libro
accentrati e riflessi i lumi di molti, esposte con somma fedelta e chiarezza le
opinion! de' connazionali , esaminate con saga- Rosmihi, Il Ritmovivnenlo. i
cila, un darsi carico di lutto ciA ctie merila attcnzione e che fu da qualclie
patrio scrittore proposto, una slima scambievole, im ragioDamento sempre
accurate e rigoroso, almeno quanto air intenz!one^ e queslo spirlto di
ragionevolezza e di sapienza, incredibile cosa
quanto ami di accompagnarsi ^on uua Iran* quilla pacatezza di favellare
veramente ragionevole e umano, con una benevolenza conciliatrice, con un amore
fraterno, con una franca e piena manifeslazione e propugnazione di cio che si
crede, che si sente nelP intimo dellanimo, verita. Laoude vorre' io poter
togliere il nome di progresso a co- testo romoreggiare , a cotesto andirivieni
di opinioni mal de- terminate, incalzantisi le une contro le altre, abortite e
non partorite^ ni la varieta immensa di libri iilosodci, che ci tra- passano
giornalmente sotto gli occhi , e dopo aver recitato in pubblico , per cosi dire
, la loro parte, rientrano tutto vana- gloriosi di se nelle quinte, ci pu6
essere un segno sicuro da dovernc argomentare i proGtti grandi della vera
seienza, e I'ac- cresciuta o diffusa a molti cognizione della verita. Peroech^
egli i pur vano, e da lasciarsi agli eeonomisti politic! i piii mate- rial!, il
cercarsi quanti libri ogni mese si sono pubblicati in una nazione, per
indursene la ricchezza scientiflca guadagnata: convien cercare piii veramente
quanti di quest! libri sieno ac- conci a renderc oscuro quello che priraa di
essi era chiaro, quanti a rendere controverso quello che prima djessi era vero
e certo, quanti a falsare il linguaggio, a renderlo indetermi- nato,
fluttuante, a confondere la lingua semplice, propria, fls- sata, quanti a
cacciare in dimeulicanza degli scritti piii sani e pill profondi, quanti a dar
corpo a delle ombre, quanti a pa- scere e sollevare P immaginazione giovanile a
danno dell inten- dimento, il quale sempie a boon ora di pregiudizj che gli
impediscono il volo, quanti a fare i sensali eloquent! di men- zogne, piante
diurne, notturne, mensili , annual!, di generi, di specie, e di varieta
innumerevoli. Ora se questo si chiama camminare , non 6 per6 un camminare
avanti , non 6 un an- dare diritto alio scopo: in somma non 6 un progresso in
vero senso, in quel senso in cui gli uomini, fatti per la verita, do- vrebbero
e potrebbero progredire : e Dio volesse che comincias- simo, noi Italiani
particolarmentc, a non lasciarci piii illuderc Digitized by Google a,^3 come
faociulli al ilolce suont) di questa parola progresso ; e cbe invcce della
parula, volessimo la cosa^ invece di lasciarci andarc in cstasi alle prime
apparenze, ci facessimo ad assicu- rarci bene bene della qualita della merce
acquUlala o impor- tata, e poi ci rallegrassimo in ragione del suo prezzo, e
non delle grida de \enditori. Quando fossimo pervenuti a mettere per entro a'
noslri giudiz) tanto di maturita, ci accorgeremmo, cbe il progresso vero talora
consiste nel tornare indietro j si, a tornare indietro^ nessuno sia cost
scbizzinoso da riprendermi per questa parola j peroccb^ veramente quelli cbe
abbandonano la verita, convien pure cbe tornino a lei, $e vogliono andare
innanzi^ conciossiacbi il progresso dell'errore non i finalmente cbe il
progresso del gambero, il quale cammina dalla parte della coda. E questo
documento egli pare cbe ci volesse dare il Mamiani col suo libro , non
invitando Tltalia ad una nuova ClosoGa, ma ricbiamandola alia sapienza de'suoi
antichi mae- stri, sapienza cbe, sviati all illusione di un falso progresso,
noi meno apprezziamo per certo , cbe non dovremmo. questapparenle paradosso,
cbe per andare innanzi con- venga alcuiia volta tornarsi indietro , i cosa
nuova , fu veduto sempre da quelli , i cui sguardi rompono la corteccia delle cose^
ma quest! sono i pocbi , e il secolu i cacciato dalle grida di qaelli cbe sono
i molti , e cbe 'voglion parere piii molti , cbe non sono. Gia fino dal
seicento, epoca delle innovazioni Glosoficbe occasionate in parte dal
protestantismo del cinque- cento, Leibnizio, con quella sua potenza
maravigliosa di mente, veniva di mano in mauo scotendo da se i pregiudizj fra i
quali ianciullo era cresciuto, e confessava negli ultimi suoi anni , cbe la
prosunzion de modern! trapassava il segno, e cbe a torto aveano essi
abbandonate le sentenze dellantichitL
Anche u noi , die egli in un luogo,
abbiamo atteso , c non leg-
germente, agli studj delle matematiche, delle meccanicbe , e degli sperimenli natural! , c da principio
confessiarao cbe abbiamo inchinato
I'animo a quelle sentenze (de modern!)
cbe accennammo n. (Gosl avviene di solito alia gioventii, la qnal
sapprende a ci6 cbe trova il piii nubvo, e se per . isventura il nuovo i
erroneo , non sempre poi nell eta matura Ic basta la poten2b mentale, o la volonta
di por giii , come Digitized by Google 244 fece Lcibnizio, le prevenzion'i
delleta non matiira). Final* mentc colla perseveranza del meditare ci
siamo trovati co* u stretti di ripararci ancora ai dogmi dell'antica iilnsoGa.
E u se licesse a noi espor qui tulta la serie delle meditazioni, u forse che si
conoscerebbe da quclli cbe non sono ancora oc-
cupati da' pregiudizj della loro immaginazione, non esser cosi u confusi
e inetti quegli antichi p'ensieri^ come volgarmente si persuadon coloro, a cui i donimi ricevnti
daniio noja, e u cbe tolgono a vilipendere Plalone, Aristolele, il divo Tom* u
maso, cd altri sommi uomini , trattandoli come se fossero u de fanciulli (i). Certamente noi altri Italian!, anterior!
a tant' altri popoli civil! , ricevemmo un ampio retaggio di sapere da maggiori
nostri , ed cgli sarebbe empieta o disperderla odiando, o non cnrarlo
ignorando. per questo ci si proibisce di aggiungere il frutto delle fatiche
nostre allavito patrimonio^ ch anzi cia* scuno
tenuto d imitare i maggiori neHassiduo investigare della verita, e net
dilatarne a molti il conoscimento j acciocchi e i coetanei ed i poster!
ricevano qiialcbe cosa anche del no- stro , e noi non ci acquistiamo da essi la
riputazione per av* Ventura di uomini da poco, iu quella che vogliamo evitare
la taccia di temerarj e di leggier!. Sicchi non sia n6 meccanica ni servile
IafTezione nostra e lo studio posto negli ahticbi maestri^ ma togliamo da essi
per cost dire lo spirito e il Gore della dottrioa: cbe nd tutto i vero quanto si
trova detto da essi, ni tutto i cbiaro, n^ hanno detto tutto, nd hanno pro*
vato tutto ci6 che hanno detto, n^ hanno sviluppato nelle interminabili sue
conscguenze tutto ci6 che hanno provato. Non* ( I ) lllud lanten ohiUr
attigisse suffeeerit , nos quoqne non perfanclorie sludiis mathemalicis
mechanicisque, el naluraf experimcnlis operam detUsse, el initio in illas ipsas
sentenlias quas paulo ante diximus , inclinasse fa- tendum est: tandem
progressu meditanli, ad vcleris philosophiae dogmata nos recipere fuisse
coactos. Quorum meditationum seriem si exponere lice- ret, foriasse
agnoscerelur ab his qni nondum imaginatiOHis suae praejudicii* occupati sunt,
non usque adeo confusas el ineptas esse eas cogitaliones . ac itlis vulgo
persuasum est qui receptorum dogmatum Jaslidio tenentur, et Pla- toni,
Aristoteli, divo Thomae, aliisque summit viris lanijuam pueris insut- tant.
System, Theoiog. Digitized by Google a45 dimeno tullo si dee raccoglierc, tutto
studiare con aniore, di quanto essi ci lasciarono, tutto sottoporre ad
impaniale esa- me, niente aramettere che non sia da noi convenientemente
accertato, niente rifiutare che a sufRcienza non sia riconosciuto per falso.
Dove mi si lasci liberamente notare tin pericolo, da cui si vuol guardare
cautissimamente la nostra gioventn bramosa di applicarsi alio studio della
filosoda. Commendevole 6 T ammi> razione de' grand! uomini , ove sia in noi
suscitata da quel verace sapere che I'uom grande ci comunic6 qual tesoro pre-
zioso , ai v' ha disposizione migliore di questa negli animi gio- vanili ad
apprendere le lezioni della sapienza^ ella i bella questa ammirazione, ella i
sacra come la virtii della ricono- sccnza, com6 il- gaudjo della verita. Ma
egli vha un altro alTetto, che prende pure il nome di ammirazione, ed d dMn*
dole affatto diversa da quella : questa falsa ammirazione noi denunziamo si
come alia gioventii italica, che tanto sente, che tanto promette, funeslissima.
Ella ^ cieca questa ammirazione, non surta alia vista di un saper vero , ma
eccitata tnmultuo- samente negli animi da strepito volgare, da una celebritii
cac e li costringono a raggirarsi dintorno ad un carcere, dove stanno a ferri
duri, impedili di spiegar Iali per gli campi ce- lesti dell immensa verita.
L'entusiasmo adunqne non sia che per la verita; allora egli utile anche alia
iilosotia. Non c impedisce allora di notare degli error! in quegli uomini che
piii riveriamo, come pure di riconoscere e di ricevere con gratitudine delle
verita dalla bocca di quelli, le dottrine de quali nel loro complesso noi
consi- dcriamo si come erronee e funeste. Tali massime diressero sempre quegli
studj filosofici cbc a noi ricrearon la vita: e pervcnimmo a formarci delle
opinioni feme: e con questecre* a46 (lemmo
gno di falsita di tutte ugualmente le loro opinioni, o che im. rebbesi
trovato sempre senza compiuta dimostrazione: Iunian genere stesso avrebbe
creduto, e non sapulo. Linvenzione dt nn tal criterio costitnirebbe la maggior
epoca non pare negli annali delle scienze, ma in qnelli dell'umanit^. Perchi
dunque proporsi di rinnovare la filosoda de' nostri buoni padri , se ninno di
essi ha conoscitilo il criterio del vero, argomento som- mario del libro del C.
M.? CAPITOLO IV. COKTINDAZIONE. La senlenza adunque, colla quale il Mamiani
condanna gli altmi sistemi inlorno al criterio del vero, ricade sopra di lui
medesimo. Ma consideriamo piu attentamente la grave accusa che il C. M.
instituisce contro a' filosofl presi tulti in corpo. '' Egli li condanna perchi
sono andati in cerca di qualche in* dizio evidente della verita, piuttosto che
della veriti stessa. Or io ho gia notato, che, gcneralmenle parlando, qaesta i
una falsa imputazione; quando anzi i maggiori filosofl hanno collocato il
criterio del vero in un prinio vero evidente, segno e prova di ogni altro vero^
secondo il qual concetto anche Dante dice di quanta ci i quaggiii rivelato, che
in cielo, a Non dimostrato, ma fia per si noto,
A guisa del ver primo che 1 uom crede n ( i ). Gli scolastici poi
facevano appunto una distinzione simile a qnella toccata dal C. M. fra Yindizio
del vero ed il vero ; e per6 davano non uno, ma due critcrj,' il primo chiamato
prirt' (0 P.r.l- 1. II. Digitized by Google I cipiurti cognoscetuli , Taltro
principiuiii essetuli , ovvero ancora priucipium secundum (juod, e principium per
quod, bello e buono Iuno e Iallro. Ma lasciando queste notizie positive, la
censura del Matniaai merita da nui un'altra Osservazione. Se il Mamiani biasima
quel criterio, il quale sia un puro seguale a fare! discernere la verila, e non
la verila stessa^ nou si dovrebbe aspettare sicn camente chcgli, porgendoci il
suo criterio, ci ponesse iunauzi qualche primo vero splendidissimo,
evidentissimo ? Cost ci sa> remmo dovuti altendere^ e pure noi troviamo
tutlo il contra- rio: il criterio cb'egli trae fuori, dopo aver fatto degli
altri crU terj campagna rasa, non un
vero primitive che racebiuda in tutti gli altri veri , e nella sua evidenza
luca la certezza di tulli^ ma esso e nna pura nota caratteristica, un puro segoale,
pel quale noi possiamo discernere dove slia il vero. La cosa non parra forse
credibile; e pure se ne pu6 agevolmcnte per- auadere ciascuno, il quale
consider!, come il N. A. collochi il suo criterio nell' i;ituizibne^ e nell
evidenza di cui questa va for- nita. Lintuizione non k alcnn vero particolare,
ma k pura- mente il mezzo onde si conoscono tutti i veri ^ 1' evidenza che
Iaccompagua, anchessa non 6 un vero, ma k una nota carat* terislica e
distintiva di tutti i veri: ella i come V idea chiara di Cartesio, n piii ne
meno; e per6 s'egli b difettoso quel criterio, il quale non consista in una
primissima verity, ma sia solamente un cotal segnale di tutte le veriU, non
potra mai esser lasciato passare il criterio del G. M., ma rimarra giudi* cato
di sua bocca. , Sono adunque senza
legame i due seguenti period!, che I'uno in sequela dellaltro stanno nel libro
del G. M. II primo bi L'abbaglio di molti logic! consiste nel
fare inchiesta diligente d' un seguale del vero piultosto che di esso vero . 11 secondo che immedialamente
seguita, DIscende da ci6, che il nostro criterio solo e perpetuo
sar&, 1 evidenza dintuizione (i). (i) P. U, c, XVII, in Digitized by
Gno^le a5a Nienle affalto: disccnde dal priino pcriodo anzi tutlo il con-
trario: dUcciide, die il solo e pcrpetuo crltorio del C. M., Ycvidenza tT
inluitione , non pu6 essere in modo alcnno il cri- terio die si cerca del vero.
CAPITOLO V. CONTIHDAZIONE BEL CKITEMO DEL VE0 PHOPOSTO OAL C. M. Id mezzo a
tante cose, die io sono costretto di negare al- Tegregio C. M., una per6 gliene
accordo, ed 6 appunto quella sentenza, che il supremo ed universale crilerio
del vero non debba consistere in un solo indizio di lui, ma si in una prima
verity. Sgraziatamente questa proposizione, che sola io trovo di dovergli
concedere di tutto ci6 ch'egli dice, si i quella che contiene la senteuza
capitale del suo sisteinal Che poi quella sna proposizione sia vera , non d
difficile a dimoslrarsi. - Perocchi se mi vien dato un indizio della verity,
coU'ajuto del quale io possa conoscerla e trovarla, mi si di per fermo una CQsa
eccellente', ma conviene perti che mi si provi, che i un vero indizio, die d
idoneo a farmi riconoscere la veriti, ovecdii ella si trovi. Conciossiachi se
ci6 non mi si prova, at* tri potrebbe itnpornii qualsiasi menzogna, dicendomi;
eccovi qua r indizio, o la certa nota del vero. Se dunque proponen- domisi un
segnale, a cui io discema il vero, i oopo die vi s'aggiunga la prova che mel
faccia conoscere per aulenlico, un perchi egli sia tale^ manifesla cosa ,
chegli non i pifi il su- premo criterio del vero^ stando sopra di lui unaltra
ragione, dalla quale egli riceve la sua virtu di provare, e a cui nun la da. E
veramente quella ragione, la quale mi prova che un dato contrassegno i valido a
dimostrarmi il vero dove che sia, non pu6 essermi dimostrata vera da quel
contrassegno stesso, il quale ha bisogno di essa per acquistare valore e
autorita. Non i dunque ni pure un criterio universale; giacchi quella veritA
almeno, ond'egli ritrae la sua forza, eccede la sua sfera, e non pu6 esser da lui
indicata per vera. Laonde ad un tale cri- terio mancano i caralteri tutti al
criterio richiesti, i quali sono Digitized by Google aS3 i. chc sia evutenU; ,
e da tulti ammesso senza Lisogno di di* nosIrazioDe, 3. che sia supremo, ciod
che non vabbia nn per- chi dinanzi a lui, tna contenga il sno percbi, per cosi
dire, ne'proprj visccri, 3. cbe sia universale, e che sapplichi per
ronsegiiente al discernimento di tutte I'altre Teril4 conoscibili airnomo,
senza eccezione alcana. E quesli difetti si ravvisano veramente nel criterio
del N. A., cbe, come diceramo, h V evidenza eP intwzione. PerocchA qaesta
primieranienle non A una prima determinata veritA, ma A il mezzo onde si
percepiscono le veritA, A nna nota o carattere, a risconlro del quale noi
ravvisiamo la veritA la, dove ella sta. Ora appunto perciA A conrenato al N. A.
di provarci quel suo criterio; e la prova cbegli ne diede si fu, perchA
nelPinlai- zione u avviene la conversione del vero con Iente (1). Di questa stessa proposizione poi si puA
cercare il perchS, e, come vedrerao, questo pcrchA esiste Terameole. Ma
fermandoci a qaella proposizione, cbe ci A data per prora dellintaizione; egli
A manifesto, cbe s' ella ci dimostra la veracitA e validitA dellintuizione,
ella sta innanzi allintuizione medesima: prima dee esscr vero il principio, poi
la conseguenza; qaesta trae virtii da qaello, da qnello partecipa la veritA.
Egli A dunqne indubitato, cbe il G. M. non ci pu6 dare Iintuizione per cri>
terio evidente del vero, ma dee provarcelo nA pin nA meno con nn bel
sillogismo, che A il seguente; LA dove il vero si converte collente, cA
evidenza di veritA. Ma nellintuizione il vero si converte coll'ente. Dunque
nellinlaizione cA evidenza di veritA. Se il G. M. pretendesse di far di meno di
qnesto sillogismo, e velerci imporre I'intuizione come criterio del vero
destitato di prova; ognuno sarebbe in diritto di rifiutargli fede. Ma egli nol
fa , ed n.sa in tutto il sno libro , del sillogismo cbe abbiamo indicate,
sebbene non tratto fuori in forma, come noi abbiam fatto, per renders via pin
netto e semplice il suo pensiero. Da tntte le qgali cose apparisce, i.* cbe se
noi dobbiamo ricevere I'intnizione qual criterio del vero, ad ammettere ci6
siamo tratli da nn raziocinio necessario: dunqne non A nn cri- (i) P. II, c.
Ill, VI. Digitized by Google 254 turio evidente, raa hisognevole di
dimoslrazione^ i. che ta maggiore del sillogisino precedendo la conseguenxa,
non di* pende da ques.ta: danque non i un crilerlo supremo ^ 3. che Iintuizione
essendo provaU dalla proposizione, che u quando il vero si converte coll'ente
non puu cader dubbio od erroree, questa proposizione viceversa non puo esser
provata dall'intui* zione: dunque non 6 un criterio universale. q Non k dunqae
qiiello del C. M. il criterio cercato da' 61o* sofi, perchi questo dee essere
evidente^ supremo ed universale^ e quello del N. A. h dimostralo, subordinato,
parziale. CAPITOLO VI. CONTIKUIZIOMB. Ella non h dunque un'equa sentenza quella
che il N. A. profcrisce contro Cartesio, accusalo da lui perchS nel suo ce*
lebre principio, cogilo , ergo sum, abbia rinchiuso un sillo* gismo, e ci6
prima di aver dimostrata 1 eiHcacia del sillogi- smo(i ). L'enlimema di
Cartesio acchiude un sillogismo si bene, come I'entimema del G. M. Se non che
Cartesio parti da un particolare, cioe da s^ stesso', il C. M. parti da una
proposi* zione universale ed astratta^ perocche
veramente una propo* sizione universale ed astratta il dire I'intuizione
il criterio del vero perchi in essa il vero si converte coll'ente .
Tntti i termini di questa proposizione sono universali: i. I'intuizione i
universale, pcrche non si restringe a nessun atto particolare d'intuizione, nil
all' intuizione di alcun nomo particolare, come fa Cartesio che parte dallego,
ma s'esteude a qualsivoglia atto intuitive di qualsivoglia uomo anche
possibile^ a. Iente e il vero sono idee astrattissime di tutte^ 3. la
conversione pure i Vera idea complessa rd universale : che i dunque a
raccogliersi da ci6? Che se il principio di Cartesio supponeva genuina la forza
del sillogkmo prima d'averne dato dimoslrazione^ il principio del C. M., ollre
la forza del sillogismo, suppone la veracita c (I) P. II, C. Ill, V. Digitized
by Google a55 rautoril^ Jcllo idee asirallc, le quali esigono molli sillogismi
a formarsi , e molli altri a provarsi, massime quando si Iralti delle uUime e
supreme aslraiioni nel sistcma desensisti. Ni credo lutlavia di dovcr cbiudere
questo capilolo, senza dare un escmpio ove apparisca, come a noi soglia
arvenire, quando a qualche nostro sistema non vero poniani troppo il cuore, che
intanto che ci facciamo ocnlalissiml a notare gli al- trui mancamenli, cadiamo
in quegli stessi, e ci sfuggono iiios- scrvati. A me sembrano siugolarmente
idonee a metier ci6 in vista, alcune parole del C. M., nelle quali egli fa due
cose ad un tempo, cIo i. diebiara die non munisce il suo sistema di alcnna
prova o ragione, e appunlo munisce il suo si* sterna di quella prova o ragione,
oude esso trae ogni suo vi- gore. Le parole sono appunlo le seguenti, cbe il
lettore vorra attentamente considcrare: u Alia intuizione immedlata non facciam
seguitare (i) ni prove ni
raziociiiii : ccco la prima parley soda
ora la scconda: u perche icniamo coi nostri antiebi, cb'clla nel porre si stessa pone la sua inlrinseca realila,
avvemerdo in lei la conversione del vero
con Ienle, e rimmedesimazione del
conoscente e del cognito (a).
Quivi medcsimo adunqne, dove prova Iantorita dell' intui- zione percb^ nel porre si stessa pone la sua inlrinseca
rea* a lita , e questo perebi u avvicne in
lei la conversione del vero con Ienle ,
egli diebiara di nou voler provare I in- ti tuizione immediata con veruno
ragionamento! :ii; li CAPITOLO VII.
stesso vero. Quel pri* mo pensiero fu teoria nella mente del C. M.,
questo secondo fu pratica. Ma due pensieri opposti non possono dividersi
I'impero di una mente umana, senza metterci grande discordia e confusione, e
senza che nelle parole delluomo non apparisctt quella per* pelua mischla che
hanno in fra loro le sue idee.. Se noi vogliamo levare un saggio di quesla
cotal mischia, mettiamo a confronto ci6 che il C. M. dice in certi luoghi del
criterio della certezza, con ci6 che dice in certi altri^ e vedremo in raolti
prevalere il primo dedue pensieri, e deltare al Ma- miani i ragionamenti^ e in
molt'allri prevalere 11 secondo, e il suo ragionare da questo interamentc
derivarsi. E primieramente udiamo La dcGnizione che il G. M. ci dH della veriUi
e della certezza. u II reale, dice, caduto sotlo la facolta nostra
conoscitrice, prende nome di verita,
e'questa, esaminata e trovata evi*
dente, prende nome di certezza
(i). Questa deGnizione della verita e della certezza, volendola noi
esaminare in tutta la sua estensione, e non solamente al Gne di mostrare il
contrasto intimo che giaee ne' pensieri del N. A., ci potrebbe dar motivo di
lungo ragionameuto. Perocchd ecco tosto sopra di essa tre osservazioni impor*
tanti: 1.' La verita per esistere ha bisogno, secondo una tale de* Gnizione, di
esser conosciuta dalPnomo^ perocch6 ella consiste nel reale caduto soUo la
nostra JacoltH conoscitrice. Questo as* sunto contiene ne'suoi visceri la
distruzione della verita, e unu scetticismo recato all'estremo grado. Q. Se il
realo col solo cadere sotlo la nostra facolta cono* (.) P. II.c.II, ..
Digitized by Google aSy scltrice costiluisce la verita , k inntile quclla
gianta cheordina di esamioare la verita, e trovarla evidente, perch6 si cangi
in certezza. Che cosa si pu6 bramare di pin della verita? Se dun- que basta che
il reale cada soUo la nostra facolta di conoscere per essere verita, egli A
anche certezza per ci6 stesso che A es- senzialmente verity. 3. Se una vcritA
per cangiarsi in certezza ha bisogno di essere esaminata e trovata evidente, ne
verrebbe questa strana consegiienza, che I'intuizione immediata interna del N.
A. non polrebbe giammai produrre aleuna certezza per sA, ma ella avrebbe sempre
bisogno di prova, cioA di essere esaminata, circostanza richiesta dal N. A.
allcssenza stessa della certezza. Ma lo scopo del nostro discorso non ricliiede
se non che ci fermiamo un poco a considerare qnella parola, reale, che in*
trodoce il Mamiani nella deCnizione del vero e del certo. Secondo noi, la
parola u reale sta bene in opposizione
coll'altra ideale : ella risponde a
questa, come cosa {res) risponde ad idea. 11 G. M. per6 non mostrasi costante
nell'nso di questa pa* rola, che gli cade di frequente dalla penna, e di cui
non ab* biamo trovato nel suo libro unaccnrata definizione. In qual* che luogo
egli la intende appunto come noi. A ragion d^e* sempio la dove favella degli
universali e degli astralti, die soiio mentali produzioni (i), e toglie a
dimostrarne la verita, egli di tutta possa s'ingegna a persuaderci , che quelli
rispondono alle cose sensibili^ nella quale rispondenza colloca egli la ve*
riUi loro^ e perd assume, che le idee
tdttb universali ri* tpondono bene alia u realilA oggeltiva (a). Da questo luogo conviene inferire, che
la realitA A tutta posta nelle cose esteriori e sussistenti, e perd, che ogni
verita delle conoscenze a queste si riferisce. E veramente, se la rea- lila
degli universali consiste nel riferimento loro alle cose esteroe, molto piu in
tali rcalitd esterne dee consistere la verita di (i) P. II, c. X, m. (a) Nel c.
V , I , della P. II, della realita oggetliva dice cost ; Ci6 die H csisle fuori di noi nello spazio A
addomandato dai Glosofi realita esteroa, ), o & universale (idea). 1
priocipj stessi, gli as- siomi, le dignita , e in fine tutte le proposizioni
univer* sali, non sono che unidea la qual si considera nell' am* pia sua applicazione,
come ho dimostrato altrove (i). Se dun* que la realitii degli universali h in
un riferirsi agli oggetti esterui, molto piu (volendo egli esser coerentc) dee
far consi- stere in cl6 la realitii delle percczioni singolari; e per& non
dee avervi altra realita per lui, che questa, ni altra verit.^ (per la
definizione), fuori di quella che consiste nella cogni* zione di tali realita
esteriori. Ma d' altra parte, egli h impossibile di non vedere, che non sempre
la verita consiste nella reality oggettiva intesa in que* sto significato. Cost
la verita di una proposizione consiste ma* nifestamente nella giustezza del
nesso che lega insieme i suoi termini, eziandiochi ella sia del tutto astratta
dalle cose reali e sussistenti; p. e. la verit.i che il tutto h maggiore delle sue parti , k vera quand'anche niun tutto e niuna parte
esistesse, e cosi si dica dell'altre (a). Parimente le idee universali ed
astratte, come ho indicato di sopra, non lianno alcun rap* porto necessario
colie estcrne^ e credere il cnntrario, h un er* rore in cui cadono non pochi
filosofi, i quali non distinguono la loro generazione dalla loro natura (3).
Veggono, che quasi tutte noi le formiamo mediante operazioni del nostro spirito
so* pra gli oggetti esterni percepiti co'sensi; e peru le tengon con quest!
legate indivisamente ; non avvedendosi, che gli accident! della loro
generazione non costituiscono punto la lor natura ^ guardando nella quale
vedesi manifesto, non aver esse niun nesso necessario, se non con oggetti
possibili e non reali. 11 qual vero lampeggia anche agli ocebi di quelle menti
che di (0 V. il N. Saggio, Sei. V. c. V. (3) Ecco COD quanta cbiarezza il
Mamiani confessa chc v hanno de pria- cipj scevri da ogni relazione ncccssaria
alle cose reali : > Ei sono. dice , M pur taoto semplicin (i sommi
universali), che appuDio per ci6 lengono
M la cima dell'aslrazione, e nulla producono , fiuchi stanao isolali dai foUi M
particolari (P. I, c. XVI, 3. afor.).
(3)jVed. addietro. Lib. II, c. VIII., Digitized by Google vei]sl il G. M.
confessa in pin luoghi, avervi degli esseri puramente men- tal!, i qnali non
faanno bisogno di rappresentare nulla di ester- no (i): e talora veggendo un
tal vero, e volendo pur mantenerft la dcfinizione da lui data della eertezza e
della veritA, vien ti- rato ad ampliare il signiflcato di quella parola reale , in- cbe rgli ba collocata la veritii,
e a supporre cfae v'abbia nn reale tutto ideale! Tale i U, dovegli parla del
caso, in cni I'oggetto sia tutto presente al pensiero, cioi sia cosa soltanto pensata.
In tal supposto egli dice, doversi
affermare cbe esista, e simile
afTermazione non ricevera pnnto di dobbio, essen- docbi la realiti sua e la concezione nostra
fanno nna cosa u sola . Questa reality i dunque qui nna concezione, u una pura
e semplice idea , com egli tosto dopo la chiama, o, come potrebbesi dire piii
esattamente, un oggetto ideale. In questo luogo adunquc la parola a
lealitd i usata per sinonimo d'idealitd,
il cbe i non poco strano^ e pure nel periodo pre- cc'dente egli avea fatto II
contrapposto di ciA cfae i reale, a ciA cfae ^ soltanto paisato cio ideale (a).
Talora dunque il G. M. pone la \>eritii nel compimento del reale, talora
egli distrae il signiflcato di questa parola a slgni- iicare ogni oggetto anche
ideale e niente afTatto reale. Egli viene con ci6 ad ammcttere senz accorgersi
due serie o catego- ric di verita, c\oi le verila cfae risguardano gli oggetti
este- rlori e reali, e le veritii cfae risguardano gli oggetti puramente
idcali, Che dovea divenirc da questa inrostanza didee e di parole 1 Cfae dopo
aver egli messo per unico criterio del vero I'lViCui- zione, moslrasse poi di
non accontentarsi punlo di esso, e sen- tisse un bisogno di ricorrere a qualche
allro ajuto straniero dall intuizione. E veramente, Iintulzione, come dicemmo,
non (i) P. II, c. X. (a) Consideriamo
pertanlo quello che avvenga entro noi della cono- > scenza, quando I'oggcUo
sia tutto presente al pensiero e quando no, vale a dire quando I'oggetto sia cosa soltanto
pensata, ovveao sia cosa seals Fooa
DELLA MERTE M (Parte II, c. II, II). Qui il
reale i Iopposto^di cosa pensata . aGo i una verity, tna
solamente un segno della verila: un tal cri- terio non dice se non: il vero & quello chc s'intuisce .Dal>
V inluirsi si deduce che ^ vero. La certezza in tal modo vienc ad essere non
allro, che una pieuissima fedo che si prcsta alia facoU^ A' intuire. Ma questa
facoU^ non polrebbe clla esser iallace? 11 G. M. risponde di no. E perchA? La
ragione che adduce si if che u il vero nellintuizione si converte coirente (i): rabbiam veduta. Ma chi ci dice che il vero nellintuizione si converta coU 1
ente ? Lintuizionc medesima, o una
riflessione, unanalisi che noi facciamo dell'atto d'intuire, di rifleltere, di
analizzare. Oltimamente. Dunque tutto si riduce a prestare una fede assolula
alle nostre facoltci dintuire, di riflettere, di analiz- zare: ma chi ci dice,
che questa fede non cinganna? La risposta i, che i impossibile che noi non
prestiamo fede allintuizione. Per quanto si cerchi, si trova sempre che il Ma-
miani riassume I'nltima ragione dell autorita dell' intuizione in queste
parole; u nessuno, pensiamo noi, vorra credere che la u mente affermando la
sussistenza dalcuna cosa,crei quella (i) Mi si pcrmcita di ossrrvare, che il
signiflralo chc il C. M. dii a que- st* frase scolaslica, che il vero si convene coll cute e al luUo
diverso da quello che Ic alirihui la Scuola. II C. M. la prende per un crilcrio
di certezza, e vuole chc si avveri solo ncll' iutuizioue immediate. In un luogo
(P. II, c- XVII) dice di piii, chc questa couversione del vero collcute i opera
della nostra inentc, chc crea d vero stesso. Ma u convertirsi il vero collente
, secondo la Scuola, non vuol dir altro, se non che il vero e V essere sonb una
cosa stessa guardata da due rispetti diversli cioe, chc quella stessa cosa che
verso di si considerata dicesi ente, considerate in re- lazion colla mente
dicesi vero (Ved, .S. Tom. S. I, XVI in). Quel detto scolaslico adutique i tutt
altro da quello che crede il C. M., e Iuso chc ne fa i al tutto shagliato.
Laondc convertirsi il vero coircnlc m
riesce a cit) che noi continuaniente iiiseguiamo, cioi che 1 essere ha un modo
intellct- tivo, e in questo suo modo i la luce conoscitiva; il perch6 lo stesso
ange- lico Dottorc dice, verum i/uod est in inUlleciu,converlilur cum ente j ul
ma- ni/eslativum cum manij'eslato {S. I, XVI, in, ad i), cio che si potrchbe
an- che esprimere cosi: 1 essere idealc
(il vero) i maaifesUlivo dell'essers reale
(la cosa). Digitized by Google afi I II medcsima sussistcnza , ma ognuno
ia vece restera carlo, che qualunque
reality degli oggctti pcnsabili i indipendente af- u falto dairaffarmare o dal
negare di nostra mente (>) Elcco tutto
cI6 che si pu6 dire in favore deirintuizione: T oorao non pu6 a ineno di
prestarle fede (2). Ma Iesser nccessitati ad un at(o di fede, i egli ragione e
verity? non potrebbe darsi una necessita ingiusta? una ferrea legge di natura?
una forse utile, ma pero sempre cieca fa- talita ? Fioo cbe non si va piii
avanti col ragionamento, quest! dubbj rimangono: e quesli dubbj son quelli
dello scetticismo (1) P. II, c. IV, V. (2) Nella P. II, c. II, toglie a cercare
qual sia la prima cerlezza, e prova clie e quclla m d' iiiluiziouu immediala ,
o sia, come diccgli, qiiella cho sotliene co lalli del seoso inllrao. Ora
qucsia prova egli la cooducc per via descliisionc. Dice, die cinqnc sole sono
le rout! ondc pnssiam trarre dimostrazione del vero, oltre a quella del senso
intimo, clic 6 la slessa deU Iinluizionc. Ora egli toglie a inostrare, che le
cinque prime fonti sappon* goDo sempre quaicbe verita precedenie, da esse non
dimostrata. Da ci6 coQcliiude, che non possiaino aver ricorso sc non al senso
iiilimo, a dover noi trarre la dimostrazione di quelle verita, a provar le
quali non giungono le allrc cinque font! di dimostrazione: desse per quella semplice forma niera propria, oude rintelligenza vede le
cosc, sarebbe di vederle tulle sotio raspelio di enli , e non solto TaspcUo
ddle differcoze c qualila inferior!. Ma non voglio io pero attriiiuire a Boezio
tale dottrina. Bastami Tavere accennato, cbe questo graud^uomo fece oggetto
deirinlelligenza la semplice forma. Chicchessia puo vedere, riflettendovi, cbe
la semplice forma onde lo spirito nostro tutte cose coocepisce, e Vessere: e
questo rimarrebbe vero eziandiochd Boesio non ci avesse peosalo. 11 luogo ^ ncl
V i?e Cons. Philos. Prosa IF. Digitized by Google 7' leropre fioo a principio
de* suoi ragiooari il principio di con- traddizione? E non avvedersi cfae
quc.stu principio i universa- lissinio, e che perciii appunto vale, cd e
richiesto in ogni ra> gionamcnto, egli e impossibile. Che fara dunqiie?
Riparera a questo iiiconveniente col suono di alcune parole, le quali melteiido
un po' di confusione nella mente de' nieno accorti, coprano bellaniente la
piaga invece di sanarla. Le parole sono quelle, unde il C. M. assicura, die il
prin- cipio di conlraddizione u ha base in qualunque fatto. E per a vero ,
seguita a dire, u ogni fatto in lo conticne in
maniera implicita , benchi sempre determinata (i). Chi non sente rambiguita, c I'oscurita di
queste parole? Converrebbe ch'egli ci dicesse, che cosa egli intende cun quella
frase nietaforica u aver base in un fatto , e con quelle altre in maniera implicita, benchi determinata n.
In qual modo un fatto cootiene un principio? Se egli in- trude un fatto esterno
c reale, non pu6 certamente un prin- cipio esser parte sua integrale, un
principio , che e cosa al tutto mentale. 11 principio sta nella mente, e
I'entila di an lal fatto i tutta fuori della mente. Il fatto realc pu^ bensi
essere dalla mente concepito^ ma queslo non vuol dir altro , come abbiamo
veduto, se non, essere stato quel fatto siibordinato per operazione interna del
nostro spirito ad una forma uni- versale (a). Anche in tal caso il fatto come
tale non contiene niente di universale^ ma 1' universale a Ini si aggiunge dal
nostro spirito. Niun fatto adunque pu6 contenere il principio di
contraddizione, i. perchi un fatto i cosa reale, e il prin- cipio di
contraddizione h tutto cosa mentale o ideale; a. per- chi un fatto i sempre
particolare, e un principio 6 sempre universale, e il particolare, rome meno
esteso , non pu6 con- tenere Iuniversale come piii esteso, a tpiella guisa
appunto che il piccolo sta nel grande, e non il grande nel piccolo: il
principio poi di contraddizione i Iuniversalissimo di tutti i principj, ed ha
bisogno dell'universalissima delle idee (3). Egli (i) Parte II j cap. XX, i.
(a) Vedi addielro, Lib. II, c. XXXVII. (3) II V. A , P.rle II, cap. X.X, I,
dice the il principio di toulraddi- Siuue M i DI SUA NATUSA uijivcrsalissiiiiu
n. Digitize. ' ' , 'Jioogk =73 Lo sviluppo i celere : il principio diventa
sabllo universale: ma per quanta fretta gli dia il N. A. , cacciandol ratto
dallo stato di particolare a quello di universale, potrii egli aggiuii- gere
tanta fretta altresl alle menti de' lettori sicchi trasandino non osservando
che quel principio i stato, sebben breve tempo, particolare? e se essi
osservano ci6, la cosa i fatta^ il marcio i scoperto^ I'assurdo di aver supposto
un principio particolare, come a dire un principio non principio, i trovato, e
non si pnu nasconderne la vergogna. CAPITOLO X. CONTMOAZIOBE. Aggiungerd nna
riflessione, che provi via piu cbiaro come il criterio del C. M. non sia gid un
solo, ma veramente due, ridotti ad una unita nominale. I, . > Egli distingue
doe specie di veritd. Le prime sono le feno- neniche, o sia quelle che
appariscono immediatamente al senso intimo; le seconde quelle, cbe dalle prime
sinferiscono per necessita di ragionamento.
Alle due specie adunque di ve-
ritd n , egli dice, abbiamo
imposta un' appellasione me* desima, e
le cbiamiamo veritd e certezze d intuizione. Perd la prima vien detta da noi intuizione
immediate, la seconda intuizione
mediata (i). Or secondo questa maniera
abusive di parlare, tutte le ve- rity sarebbero verita d' intuizione, e solo si
distinguerebbero due specie d intuizione, immediate o mediata. La parola thtui-
zione adunque significberebbe I'atto di qnalsiasi potenza intel- lettiva, il
quale abbia ad oggetto il vero^ e se 1' intuizione d Iinfallibil criterio,
verrebbe la strana conseguenza, che ogni atto delle nostre facolta inlellettive
essendo intuizione, sarebbe dichiarato infallibile. )> Questa osservazionc
vale, per tutti quei luoghi del libro del Rinnovamento , dove si dd per
criterio Iintnizione in generale. (i) Parle II, cap. Ill, i. Rosmihi , Il
Rinnovamento. 35 Digitized by Google Qaegl! allri luoghi poI, dove si pretende
di rlctiiaoiar tuUu le cognizioni alia sola intuizionc immediata, mi somministrano
la riflessionc seguente, cbe i qaella a cni propriamente iatendc questo
capitolo. Liutuizione niediata si puo clla cliiamare propriamente io- tuizione?
Qnesto i quello die io credo di dovere assoluta- mente negare. La intuizione
immediata 6 definita dal N. A. u Iatto di u nostra mente, il quale conosce le
proprie idee e le atti* nenze loro
rrciprocfae b ^ e vien delta anche u uua noli- u zia pura mentale, ristretta
uci soli fenomeni del seuso in> ^ timo
(i). Della mediata poi egli da questallra deCnizione: Latto
di nostra mente, il quale per la certezza assoluta dellintui- zione immediata, proh>a in modo
altrettanto assoluto Iesi- stenza
dell'estrinseclie realiU (2). Or qual
& questo modo assoluto, onde dalP entity fenomenica, che colla intuizione
im> mediate A scorta, si trapassa a conoscere le realila esterne e
ossislenti? 11 principio di conlraddizione, dice il Mamianii lit& meb^ica (3) di negare il fenomeuo.
Sola sorgenle adun- que d'ogni nostra
dialetlica i stato il principio della con-
traddizione (4). Cbi non vede
adunqne manifestamente, cbe tutte le veriti cbegli attribnisce all intuizione
mediata, non sono veramenle inlnite dallo spirilo, ma solo argomentale da
quelle altre che intnisce Io spirito? Or la parola intuizione non pu6 signifi^
care, propriamente parlando, che un apprensione immediate^ e per6 il dire che v
ba una intuizione mediata , i un far nso di qnelle frasi vaghe, impaoprie e
contradditorie, che sogliono confondere e sovvertire tntto il regno della
Blosofia. "..it"' Le rerita che il C. M. chiama 6? intuizione
mediata, sono dunque le veritA dargomentazione, e non d intuizione: e 1^
tuizione non fa, relativamente ad esse, che prestare il panto (i) Pirte II,
cap. Ill, I, (a) P. II, c. Ill, iv. (3) Egli voica dir logica. (4) Parle II,
cap. XX, t ' * Digiiizcc by GllOgIc Tcrmn, tu cui s.ippoggia la leva, per cost
dire, del raziocioio. Dunque conviene per questu secondc verita prestar fede al
ra> ziorlnio, ond'elle si deducono^ dunque conviene aver ricevuti per
antentici ed efficaci i primi principj, de' quali fa uso il raiiocinio, e fra
quest!, in capo agli altri sta il principio di coiitraddizione; dunque conviene
presupporre gia formate le idee universali dalle quali nascono i principj, e
printa di tutte quclla dcllessere, onde precede il principio di contraddizione^
dunque il criterio del C. M. suppone molto piii , come dice* vamo, die non
faccia il criterio di Cartesio. Di qiii i pcrlanto manifesto, cite il G. M.,
senza avveder- sene, adopera non uti solo principio del vero, ma due, cioi I.*
I'intuizionc e a.* il raziociiiio: I'intuizione per la cono- scenza della parte
ideale, il raziociiiio per la conoscenza della parte reale. L' iiiluizione i un
indizio del vero: il principio di contraddizione, a cui s'appoggia il
raziocioio, i un vero egli slesso nianifestativo di altri veri. bolero in Gne,
che quanto all' improprieta manifesta di quclla denominazione d' inluizione
niediata , vienc in qualehe modo riconosciuta dalla coscienza stessa del G. M.,
il quale in piii luoglii del suo libro da il nome dintuizione alia sola im-
mediata^ mostrando con ciu assai cbiaro di sentire come ad cssa sola couvenga
csclusivameute questo nome (i). (i)
Cbiiminmo Intuitione , dice in un luogo,
la vista iulellelluale 1 deirnggetlo penaato, asiraendolo da qualunque
rirerimeDto a soslaoia e M guardaio nella sua enlil^ fenomcoica m (Parle It,
cap. t, iv)> Vedesi qui tome all intuiiione generalmeiite presa egli applica
uaa delinizioae, che non si conviene se non a qurlla che altrove ha preleso di
speciheare colla denominazione dimmediala. Sallenda a quest altro luogo; Da queste w condizioni e atiribuli
dellevidenza intuitiva pu6 e dec scaturire ogiii al- tra evideoza, la quale dagli occhi della
ragione sia trovata legitlima m ( Parte II, cap. V, i ). L* tviJima intuitiva
di cui qui ai parla i quella del- Iinluizione immediata ; ognaltra evidenza non
i dunque ioluilivai non piii adunqne dirai evidenza d' inlDiiione. Poco
appreaao riduceil problema, chegli ebiama della realili obbjeltiva, a doversi
Irar fuori uoa prova di ragionameoto o di fallo della reality estema m dalla
condizione geoerale e continua dell'
iotniziooe m (Ivi, it). Mauirealamenle ai vede, cbe ivi usa la parola
intuiiiont solo a indicare la immediata, e che fa conaistere la r il'
indipendunte da quc' (uoi oggelli, questo nuovo personaggio filosoGco messo in
iscena dal N. A., sarebbe il scrvitore che fa la sua gran Ggiira da padronr, di
rui ineso indosso le ve- stimenta. Puroccb^ I'atlo dello spirito, diviso dalle
idee, da' giudizj e da raziocinj , i veraoienle un bel nulla: e unito con
quest!, i loro dipendente, ed acquista da essi ogni cosa. Ore ci6 fosse, la
strada di trovare il zero indicata dal C. M. sarebbe I'usala scmpre Gn qui^
cioi quella delle idee, de giudizj, e de raziocinj; soltordinando i giudizj gli
uni agli altri ; dislinguendo quelli cbe sono rispellivamente ronsegnenze, da
quelli che sono rispetlivaroente principj; risalendo niano mano per quesla
scala conliuua di proposizioni , Gno che si perviene ad una, che e principio e
non conseguenza (i), e pero a quell idea che sa- dopera in questo principio
primissimo, la quale, piii seutplice e pLit ampia di tulte le allre, non
abbisogna di nessuna, non i contenuta in altra, quando lutte abbisognano di
lei, tntle sono in lei contenute. Perocchi cosl si suol pervenire alia vera
sorgente pnrissitna di tutte le altre veriti. In tal caso il prin* cipio del G
M. cesserebbe dallessere Iintuizione o mediata o immcdiata, ma sarebbe il
raziocinio, e piii propriaonente an- Cora, il priroo elemento di ogni
raziocinio, la prinia idea. Vediamo adunque di meditare un po piii addenlro
questa intuizione immediata del N. A. Gia Gno dalla sua deGnizione noi
trovammo, chella sup- pone le idee non solo, ma ben anco le loro atlinenze; e
die ella i intuizione didee, intuizione dattinenze didee (a). Dun- que elle un
atto della mente, un atto di conoscere, nn alto che va a Gnire nelle idee e
nelle attinenze loro reciprochc. Che sono le attinenze reciproche delle idee?
come si legano esse? (i) Coil s. Tommaso ripooe la certezza delle cognizion!
nosire tulla nella cerlezza He primi principj di cui esse sono consegueoze, la
dove dice : CtKTlTVDO TOTJ OKITUR KX CSRTITUD/HB PRIMCIPIORUH. De ihtpstro. Non
ripooeva dunque queslo grande ilaliano il crilerio del cerlo nc'par- licolari,
ma negli universali , i quali soli, a sun detlo , costiluiscono la tciema. (a)
Ripetiamo le parole del N. A. L Intuizione immediata 6 > Iatto di nostra mente, il quale conoscc le proprie
idee e le attinenze loro reci- prochc .
P. II, c. Ill, I. Digitized by Google coil gludizj e raziocinj: ]e attincnze
dull' idee costiluUcono do* giudizj, c si trovano specialmunlu coirajutu du'
raziocinj, i quali ci tnostrano le idee, Puna dunlro I'altra, e queste e quelle
si* mill o dissimili da colesl'allre. Loggetto adunque dell'intui- ziooe del G.
M. non sono se non idee, gludizj e ragionamenli. Aon metle a ci direttameote e
esclusivameule sopru le idee, prova per Pin*
luizione immediata la certezza del proprio essere fenomeoico, non I'oggelto estriiiseco, del quale afferiua
o giudica, o credo ( i ). Si potrebbc andar piii avantii
Polrebbesi raffrontare con quc* slo un altro pensiero del N. A-, il quale
confessa, che noi non ragioniamo di cosa alcuna , se non in quanto la cono*
sciamo. Ora una cosa in quanto i conosciuta, i un oggetto mentale. Ounque
potrebbesi conchiudcre, che oggetto delPin* tuizione immediata sieno
ugiialroente tutte le nostre cono* scenze, e non solo alcune, perchi tutte si
fondano nolle idee. II passo a cui voglio accennare h il segiiente: Coloro i quali B voglioDO far capo all
Ontologia , come a scienza universe* B lissima , indipendente e assoluta,
assentono pur nondimeno B chclia parla e ragiona di tutti gli esseri , in quantu
li pu6 B conosccre; e questo a cagione che le esistenze non cono* B sciute
contano per noi come nulla. E dunque P Ontologia B un complesso di conoscenze,
cio6 a dire, di fatti intelluttuali^ B e a chi voglia sapere la forma, la
validita e Porigine di essi B fatti , conviene cercare innanzi la natura e le
operazioni B delP intelletto (a). Tulto
adunque si riduce a fatti intel* lettuali ; e i fatti intellettuali non sono
essi Ioggetto dell id* tuizione immediata? (i) Parte II, c. Ill, vi. (a) Parle
I, c. XVI, i.' afor. Digitized by Google 7) ScfiuiliAmo: in un attro liiogo del
suo libro il N. A. distin- gue il mondo scicnliliro, die i quanto dire il mondo
idealu fd astralto, comp qiiello de niatematiri, ed il mondo rcalc : e dice che
solo del primo e falta tutla la srienza nostra, non potendo noi aver del
secondo die la cerlezza dell esistenza e nulla piii^ e cio perchi il primo di
quest! due mondi ce lo forroiamo noi stessi nello spirito nostro : e qiiindi
essendo no- stra creatura, il possiamo anche perfettamente conosecre. Peru
qiidio di che abbiamo intera scienza, sono gli oggetti astrattq circa i real!
all'incontro la scienza nostra ^ assai limitata. u Si prenda csempio, egli dice
, dalla percezione d'un corpo u esterno. Quivi la nostra mente partccipa alia
creazionc del u fatto in piu guise. Ella riceve (i) con un moto di reazio- tt
nc (a) Patto esteriore, e tal lo riceve quale domandasi dalle u sue facoUa.
Convergendo (3) poi sopra qiiello la forza at- u tentiva (4), Iastraltiva o la
sintetica, avverte la propria af- u fezione (5), la distingue, la giudica, e
nell' unila sintetica u la riassume (G). In tutto ciA la mente i opcratrice del
vero: u ella si mantien tale, eziandio qiialora dimostra a stessa u la presenza
necessaria dellessere esterno: quello adunque
u Hoe appuDlo vien meno la nostra certeiza , stantech^ se noi u
producianio sillogizzando le prove delPesterno, gia non di* tt chiariatno in
nulla con ciu ne la sua natura ni quella de* u gli alti suoi^ e per6 dell'uno c
dell'altro siamo cosi incerti u come ignorant! . Liotuizione imraediata non pu6
adunque nulla, quanto alle realita esternc. A che si riducono pertanto i mezzi
della scieuza nmana? Quanto alle realita esterne, al sillogismo, ed altri atti
in* tellcttivi: pcrocchi sillogizzando, dice il N. A-, si producono le prove
delPesterno. Quanto alPinterno poi, alle astrazioni : udiamo come se- guita PA.
N.: AlPopposto, si 6nga Poggetto
delPinluizione essere nelle u nostre idee soltanto , e nei gruppi e nelle
separazioni diverse u che vi andiamo determinando. Certo ^ allora che
Pintelli* genza , con tutte le forze
della propria spoutaneita rimane u creatrice sola del vero^ siccome incontra
agli Algebristi ed ai Geometri. Non fa meraviglia pertanto se tutto Pumano It
senno procaccia di giungere alia condizione della geometria e delPalgebra , cini aspira a mutarsi in
bella e grande crea* u zione di nostra mente
()- . Ecco pertanto come tutto il saper nostro si riduca a de ra-
gionamenli astratti come quelli de Geometri, e ad una noti* zia delle realita
esteme che raziocinando otteniamo. Tutto dnnque i iloalmente idee, giudizj,
raziocinj , che si provano gli uui cogli altri, secondo le leggi logiche
conosciute. Ora quando i iilosofi precedent! al nostro parlarono d'idee, di
giudizj e di raziocinj, intesero forse parlare didee, di giu dizj e di
raziocinj che non fossero intoiti dal nostro spirito ? a chi cadrebbe ci6 nella
mente? Quello adunque che il G. M. aggiunge, non 6 che la deno- minazione
d'intuizione data impropriamente all atto dello spi- rito che li concepisce.
Nel fondo adunque, il N. A. si adagia di forza con quelli che furono avanti di
lui , e pcr6 la fatica (i).P. II, e. XVII, III. Digitized by Google a8i di essi
in cercando il criterio del vero, non potea da lui a buon dirillo dichiararsi
vana e infruttifera (i). CAPITOLO XII. CONTIHUAZIONE. Potrei confinnare tntto
ci6 con altri pass! delN.A., segna* tamente con quelli, ne' quali contra Reid
difende che la ve- rila i razionale e non istintiva. A ragion deaempio egli
dice in un luogo: u noi abbiamo creduto partire al tutto Iistinto dalla ragione, e questa stimato abbiamo
capace di pravare Tali parole, messe a
confronto colie prime, proverebbero, che Delia intuizione mediata non pu6
avervi il convincimento della ragione. Pcroccb^ se qnesto si ha 1^ dove il
cognito ed il co* noscente divcntano una medesima reality, e se nella mediata
ci6 non avviene punto, che anzi si distinguono sostaneialmentef o per divisione
di tempo; dunque in vano cercasi in qnesta il convincimento della ragione, Egli
h vero che il Mamiani soggiunge ; u il passaggio u dall'una all'altra fii
ritrovato nella impossibiliU metafisica
di negate il fenomeno n (a), la quale impossibilillk metafisica appare
pel principio di contraddizione. Ma tutto cid non fa mica avvenire che il
conoscente sia una cosa medesima col co,> gnito, ci6 che convertirebbe
Iintuizione mediata nella imme*- diata , e per6 non procura giammai quella
condizione che il Mamiani dichiara necesMria al convincimento della ragione,
Piuttosto 6 dnnque da dirsi che il Mamiani aggiunga all in* tnizione immediata,
scorgendone 1 insufilcienza , on altro cri- terio, come toccavamo, cioi il
principio di contraddizione, e che si serva di due criterj in vece die di un
solo (3). 3. Gi4 fu per noi accennato, che il N. A, non intese in che senso
gl'Italiani antichi , o piuttosto gli scolastici tutti di- cessero , che Pente
si converte col vero: maniera per la quale intendevano che il vero si pu6
prender per Vente, e Ienfe si puA prender pel vero, essendo in sostanza la cosa
stessa. Non volevano essi adunque dare con ci6 alcun criterio della cer*
^tezza, quasiche qnesta ci fosse solo lit dove Iente e il vero si convertono,
sicchi quando il vero collente non si converte, non vi fosse certezza.
Allopposto essi con quella sentenza vol* lero solamente esprimere la metafisica
natura del vero^ e perA (i) P. II, c. XX, I. (a) I,i. _ (3) Cap. X. Digitized
by Google i84 non ammisero giammai il caso, !a cai vi aves$e rl vero senut
eonvertirsi collente, ma insegnarono che il vero era sein- pre converlibile
colPente, perocchi non era egli allro r.he Iente medeaiino conosciuto (i). La
conversione adunque del- r ente col vero non si fa nella sola iutuizione
immediata, Bia sempre , ovecchi siavi il vero^ e non cosliluisce alcun
criterio. 4. Non veggo poi ragione
alcuna, perchi il N. A. creda nna cosa medesima il dire cbe Iente si converte
col vero, e il dire cbe il conoscitore ed il cognito cortpongono una sola rea-
litd: perocchi egli usa a dir vero ora Puna ora Paltra di que> stc doe
maniere a comprovare la veraciti delP intuizione im> mediate. A doverle
inlerpretare siccome aventi tutte due an medesimo signiiicato , converrebbe
prender Pente per siiionimo del conoscitore, e il vero per sinonimo del
cognito. Ma se noi stessi, soggetti conoscitivi, siaino quell'ente in cui il vero
si con* verte (otlrechi ci allontaneremmo vie piii le mille miglia dal modo in
che inlendevano questa frase gPltaliani antichi }, ne verrebbe, che il vero si
convertirebbe in noi, o pure si con* vertirebbe con noi , sicchi noi e il vero
saremmo sinonimi: cosa impossibile a concedersi, impossibile a concepirsi.
Oltre a che il vero in tal caso non avrebbe alcuna sua propria entita di* versa
dalPentita nostra, e quindi sarebbe nulla; e come po* trebbe il nulla
eonvertirsi in noi o con noi ? 5.
Finalmente non mi parrebbe di passare i limiti della di* tcrezione,
cbiedendo io al G. M. di spiegarmi, come o perch6 debbasi aver la certezza solo
allora che il conoscente ed il co- gnito sono divenuti una medesima cosa. E se
non vuol dir* melo, mi dies alrneno come sia possibile che vi abbia certezza di
scienza , o anclie solaniente scienza , quando il conoscente ed il cognito
fanno nna medesima cosa ; perocchi io davvero non ci veggo, ni intendo pure la
possibilitii di questa sua aflermazione. Secondo il veder mio , egli i al tulto
necessario, acciocchi possa darsi una cognizione qualsivoglia, che il co-
noscente ed il cognito non iacciano una medesima cosa, ma (i) eonvertirsi due
cose, vuol dire, secondo il frsssrio della scuola , po- tersi sostiluire P una
allallra, polersi dire dell uoa ci6 appunlo die si dice dell allra. Digitized
by Google a33 cLe rimangano anzi fra loro perfellamente distinti e Inconfuti,
sebbene congiunti insleme slreltamcnlo. Che se egli avvenir po- tcsse una vcra
immedcsimazione dul conoscente e del cognito, come pare dimandare IA. N., io
non avrei piii ni conoscente, cognito , ne conoscenza : luUo al piu avrei per
risuUato un sentimento vago, confuso, cieco^ come sono sempre i senti- ment!.
Perocche la gran linea di separazione fra il sentimento appunto e la conoscenza
si i questa , che uel primo non vha distinzione fra seuziente e sentito ^ la
dove nella seconda il conoscente dee essere distinto dal cognito, il qnale
appunto da ci6 prende nome di oggetto, come un che distinto, con- trapposlo ohjectnj
al soggetto. Chi vorra persuaders! di questo vero, bastcra che fissi bene gli
occhi dell'attenzione ncl sentimento e nella conoscenza, e che li osservi senza
pregiudi- zio alcuno, come essi stanno in propria uatura. 6. Se il N. A. avesse
considcrato i pass! de' nostri buoni antichi Italian! ch'cgli medcsimo ci reca
innanzi, avrebbe leg- germente veduto, essere stata lor mente, che nella
sensazionc non si distingua oggetto da soggetto, raa nella conoscenza bensi.
Ecco un passo di s. Tommaso, da lui stesso riferito: Ci6 che i sensibile, i il senso medesimo in
atto . Qui si vede I'oggetto immedesimato col soggetto, di guisa che questo due
parole di oggetto e di soggetto noi Ic applichiamo impro- priamentc al senso ,
per la solita tendenza che abbiamo di applicare a questo quelle frasi , che in
proprieta convengono alia intelligenza. Ecco un altro passo del medesimo
autore: CiA u che ^ inteso , bisogna che sia nell' intelligente n. Non dice
mica qui s. Tommaso, come ha detto del senso, che ci6 che i inteso 6
Iintendimento medcsimo in atto (i); questo nol dice, n6 il potrebbe dire,
alineno uello stesso significato^ ch6 sarebbe contrario a ci6 che egli pure
insegna intorno la specie iiitel- lettiva, distinta sempre secondo lui dal
principio intelligente; ma dice, che ci6 che i inteso bisogna che sia
nellinlelligente; maniera di parlare che mostra ad un tempo e la congiunzione
fra Iinteso e I'intendente, c la loro pienissima distinzione. Si- (i) E
qnandanco Io dicesse, non si potrebbe pigliarc un lal dcUo alia Icltera;
dislinguendo cuslanlcmcnle s. Tommaso la specie della cosa ebe informa 1
inlellctio, dallo stesso iolelletto. Digitized by Googlc a86 miglianlemente
conviene intendersi il detlo di Tommato Cam' panella u Tutto ci6 che per fatto
inlriiiseco percepiamo, cos'i lo percepiamo, che esso in noi, e noi siamo in
esso . Pc* rocchi questa cotale inabitazionc, per cosi esprimermi, dellog-
getlo conosciuto nel nostro spirito, non pin^ giammai giungere fino a
confondere esso oggetto con noi, o noi con esso. Con* veniva adunque chc il N.
A. entrasse a spiegarci distesiimentu questa ragione misteriosa cbegli adduce
della certezza dell'in* tuizione ^ e dopo ancora averci chiariti sul modo onde
la cosa conosciuta e il soggelto conoscente
dimorano sotto u una sola essenza n (i), farci vedere come questa cotale
im* niedesimazione possa e debba essere prova cliiarissima di cer- tezza. Di
vero, non trevando il C. M. questa immedesimazione del conoscente e del cognito
in tutte le conoscenze nostre, ma solo in quelle che appartengono all'
intuizione immediata, for- z'^ dire che egli intenda per cssa tutt'altro da
quello che in- tende s. Tommaso, ove afTerma che il cognito dee essere nel conoscente; perocchi questo s'avvcra in tutte
ugualmente le cognizioni. Egli par dunque che il Mamiani ponga la sua cer-
tezza dintuizione immediata nell'esser questa un intimo e im- mediato
sentimento; il che 6 consentaneo col chiamarla che fa una tt certezza a cui non
bisognano dimostrazioni (u), c molto piu
con qiiella sua sentenza che dice u lo scibile umano ha il principio suo nel fatton, e uegli i
perchi i, non perch6 debba essere (3).
Ma in tal caso (inalmente, I'appagamento che noi troviamo nell' intuizione
immediata non sarebb'egli istintivo? non cesserebbe ^'esser razionale? giacchi
in quel- Iintuizione domiiierebbe un sentimento senza prova, un sen- timento
dove il vero sarebbe il fatto del sentimento medesimo, e 1 oggetto divciiuto
una cosa col soggetto. (i) P. II, c. XX,
I. (a) Ivi. (3) P. II, c. XI.X, IV. Digitized by Googlc CAPITOLO XIII. 387
rARACONE DEL MAMIAMl CON CARTESIO. La tcoria pero del N. A. vien CBDgiando
colore, al cangiar deirangolo di luce soUo a cui si ragguarda. Sguardiamola
duuque utt poco d'altro lato: paragoniarao nuovameute I'in- tuizione del C. M.
col Cogito ^ ergo sum, di Gartesio. E prima diamo di piglio alia censura, che
IA. N. fa all'entimema car- tesiano. AfTernia egli, che dicendo lo penso, duiiqne esisto , Gartesio introdusse nell in/uizione
immeiliata quattro elemenli a lei stranieri, cio6 i. il sillogismo, 3 la proposizione gene* rale non dimostrata:
ci6 che pensa, esiste^ 3. V lo sostanziale, mentre nell'/o penso non si trova
che il fenomenico^ e 4- I'uso della memoria necessaria allalto del sillogismo,
scnza averne prima dimostrata la vrridiciti. All'opposto egli ^ assai contento
d'avere collocata la certezza in una intuizione immediata, pura da quest!
quaitro element! eterogenei. il ella ben fondata questa sua contentezza? ^ egli
vero, che I'intuizione sua sia scevera al tutto da quedifetti? Noi I'ab* biamo
veduto in parte: abbiamo veduto di qual sillogismo usi il G. M. a provare la
sua intuizione, e ci6 che h il piu, come
quel sillogismo stia ne'visceri dell intuizione stessa, la quale da lui
prende efGcacia. PerciA se il sillogismo ha sempre seco una proposizione
universale, e se, come crede il G. M., ha bisogno di memoria,* noi devremo dire
che almeno tre degli element! inchiusi nell intuizione cartesiana sinchindono
del pari nella mamianiana, cioA a dire, Iuso del sillogU smo, una proposizione
generale non dimostrata, e Iuso della memoria (1), 11 quarto peccato di cui IA.
N. aggrava Gartesio, si h che nellentimema u lo penso, dunque sono > , quell
/o si prende (1) Rispetto al visio allribuilo aU'ealimena di Gartesio, di
conlenereuna propofizioue universale, il C. M. dice: > quesla veritt non
potea poi con> iie, sicch^ io non sia pin \era* nicntc un sulo Io, ma due:
conciosiach6 ad allra connlusione non adducono le parole del N. A. La nozione dellin^ die trovasi ripelula nei
due niembri dellenlimema (lo pcnso , m dunqtie esisto), e la qoale, secondo
Cartesio, etprime il nostro H essere sostanziale, riene confusa erroneainente
con la nozione X pura immediata del nostro me fcnomenico (o dM'anuno n. a In tale apontaneiUi, che si
modifica e si differentia a cia- a scuna sua operazione, consiste pertanto il
soggetlo nolo e a senlito dei nostri pensieri. Gonciossiachi noi chiamiamo sog-
a getto qualunqne identico che persevera in mezzo il variabi- u le, e tale il principio altivo dellanimo (i). Il nostro ME fenomenico adunque h iin
soggetto compito , secondo questa descrizione del N. A. Ma io non sono piii un
soggetto solo^ io, oltre essere il soggetto 6n qui descritto , di cui son
consapevole, sono un secondo soggetto, di cui non sono pnnto consapevole. Se
non che, procedendo innanzi, nasce il dubbio, come quel soggetto fenomenico non
sia egli stesso sostanza , trovandosi che il G. M. definisce la sostanza a un
soggetto che si modi- fica n (z). Di piu, il dubbio cresce, ove ci abbattiamo
ad un luogo, nel quale il G. M., volendo dimostrare che solto al mb feno-
menico v'ha un altro me sostanziale, toglie a far vedere, che sotto il
variabile sta un invariabile. Perocchi se anco nel sos- gello fenomenico v'ha P
identico, I'invariabile (che altramenle non sarebbe soggetto)^ come questa
cotale identiU e iuvaria- bilita potra costituire un argomento da conchindere
che esista un soggetto sostanziale? Ma udiamo il testo: a Egli e uu principio
apodittico questo, dice, che la durata e
la successione, quantunque possano rincontrarsi nel sog- u getto mcdesinio,
conservano tuttavia , guardate ciascuna da u sk e per s^, un essere proprio e
dislinto: dacch6 Puna ha a per essenza il continuo, e il discontinue Paltra. Oa
ci6 viene a manifesto n (non so a dir vero quanto!), che si nel prin- a cipio nostro pensante, e
si nclle cose esteriori , risiede un a essere necessariamente immune da
variazione, e identico pe- a rennemente a si stesso, sosiegno di tutti i modi, o vo- a gliam dire
di tutte le mutazioni (3). Sulle quali
parole non possiamo ommettcre di rillettere; ti) P. II, c. IV, III. (a) P. II,
c. V, VIII. (3) P. II, c. VII, vii. Digitized by Google 9> i. Clie nco il
loggelto fenomenlco fii supposto identico, e sostegno di tutte le variazioni ^
peroccbi fu dcUo esserc il principio attivo dell' animo, chu riceve le
variazioni, rlmanendo identico a stesso^ a.* Che se dalla durata e dalla
successione si dovcsse in- durre Iesislenza di due soggelti, in tal caso non
sarehbe pin vero die la durata e la succcssionc fossero nel medesimo sog' getto
, ina la durata starebhc nel soggetto sdstauziale, e la suc- cessione nel
fenoinenico^ 3, Che il inodo di argomentare del C. M. suppone, die sia sentila
da noi non solo la succcssionc, nia anclie la durata, parlendo il suo ragionare
da questo principio, che u la forma u costautc della nostra spontaneita
fenomcnica i di mettcre H srtnprc il variabile a lato all identico n (i), e die
u la du- ll rata del nostro me scorre con perfetta coiitinuila fenome- u iiica
h (a): che per6 non i giusto Iindurre da questa durata uu secondo soggetlo
diverso da qiiello chiamato feno- tnenico^ se pur tale i il feuoracnico come si
descrive, che abbia in sd e I' identico e il vario, e il durare e il succedere,
o piii veramente d a dirsi, che non v ha die uii soggetto solo, il quale ad nn
tempo d fenomenico c sostanziale; 4- Che il C. M. non aggiusta le suo paHlle,
ma non fa che aggiungere una nnova conlraddizlunr, qiiando in un altro luogo ,
sovvenendosi d' aver posta unideutitii andic nell'/> fenomenico, dice che u
1 identico fenomenico, il quale seii- u tiamo giacere in fondo a tutti i modi
della nostra sponta- u neita, non puii dirsi immune aOfatto da caogiamento (II). Questa pezza non fa veramente, cfac lo
squarcio maggiore^ perocchd rimanere identico, e cangiare, sono opposti: c
tanto piu , sopraggiubgendo, che e ogni volta die Iazione estrinseca V sopra di
noi seslrflgue e muore del tuito, cessa pure il seii- a timento del principio
nostro cogitativo (4) delta vita (i); e
sc cl6 csser potcste , n' avremtno ^l' assurdo , che, risuscitandosi poscia in
noi un nuovo sentimcnlo, non potremino in verun modo ripigliare e riassumere la
nostra pri> ma identitli. Ma io debbo ricbiamar qui i nostri giudici, i
comiini no- stri lettori, a considerare le conseguenze che ne avverrebbero, sc
noi ammettessimo , die oltre il noi che sentiamo, fosse in noi un altro noi che
non sentiamo, come vnole I'A. N. Questo soggetto incognito, al tutlo aderente a
me, e che si dice ME, senza chio sappia ch'egli sia Io , potrebhe fanni per
avventura de bruttissimi scherzi^ parlo di scherzi siniili a quelli che furon
gia falli al Grasso legnajuolo, al quale fa fatio credere, cora'i noto , di
csser divenuto un altro, ovvero peg* gio , se si traltasse di scherzi simili a
quelli che faceva Giove ad Alcraena neW Anftlrione di Plauto! Ma fuor di celia;
ecco le conseguenze di una tale dottrina: I." Se quel la dottrina i vera ,
sono al tutto vane le cose che il Mamiani dice in confutazione dclle forme
kantiane (a); perocchi queste forme posson venire da un fonte incognito, cio6
da quel nostro soggetto sostanziale che sta sotto il nostro soggetto
fenomenico, e che non sappiamo che cosa sia. a. Intieramente cade la
dimostrazione che il N. A. reca del mondo esterno^ perocchi quella dimostrazione
ha luogo solo nel caso , che unico sia il nostro soggetto, e che questo
soggetto sia tutto da noi sentito, ni vi abbia una parte sostan* ziale in esso
del tutlo incognita ^ perocchi se vi avesse , da questa parte al tutto
incognita , cioS dal soggetto sostanziale che sta sotto al fenomenico ,
potrebhe uscire il mondo estemo che appare nel soggetto fenomenico (3). 3.* Non
si puA piii negare ia possibilita del sistema di Fichte, il qnale dice, che
siamo noi che produciamo il mondo esterno, senxa chc ne riteniamo la coscienza^
pcroccbi di^ciA che fa il nostro soggetto sostanziale , come viene immaginato
dal G. M., noi non possiamo aver coscienza, non rimanen- docidi questo soggetto
alcun seutimentc, n6 alcuna cognizione. (i) Ved. il N. Saggio, Scz. V, c. XI. W
Per ei. cio che dice P. II, c. YU. (3) P. II, c. V. Digitized by Google 4-
Cadono luUe le prove della semplicila dellanima ani- mcsse dal G. Maniian!, ed
ha ragioue Kant quando lascia in dubbio quella qoestione; perocdi^ luUe le
prove di easa sem- plicit^ e spiritnalita sono tralle dal soggelto nostro in
quanto il senliamo, e peru dal soggetto fenomeolco; iii vale il dire cb tt an
soggetto non pu6 senza dividers! sostanzialiaente raccbiu* ch^, se nel soggetto feuomenico il Maiiiiani
ammette il sem> plice ncll' identico , e il composto iiel vario, uolto pill
diffi* cilmeote si proveta che nel soggetto non fenoinenico at tutto a noi
occulto ripugni simigliante composizione (a). 5.* Ne pare potri il Si. A.
coafutare i Scbellingiani (3), i Panteisti o gli Stoici, cbe identificavano
I'anima colla divina soslaiiza : pcrcioccb^ di questo occulto e non senlito
soggetto se ne pu6 fare cio cbe altri voglia, pur ua tratto cbe sia con* ,
eedoto ed ammesso. Concludiamo: egli i on assurdo, un sogno qaeslo doppio soggetto
m-lluomo, questo Jo fenomeuico, e questo Jo so* slanziale. Non v'ba cbe un solo
Jo in ciascuu uomo^ questo 10 esprime tutto intern il soggelto umauo: questo Jo
k ua sen- tinienlo-sostanza cbe parte i essenziale, e parte accidentale. U
sentimento essenziale maiitiene una cuslanza^ nia la sua es- senza non ista
nella imnvutabilita : anebegli pu5 esser tnu> tato: solo v'ba un principio
di attivita in Uii al tutto immu' labile^ perocebi io non pongo Iesseiiza della
sostanza nella inimutabilita, ma in una attivita die si puu coiicepir da se
sola (4). 11 difficile ad intendere bene questa duttrina, consiste I.* nell
esser Iuomo avvezzo a porre la sua atteozione so- laraente alle sensazioni
acoidentali e variabili^ di che gli nasce 11 pregiudizio , che non vi possano
esserc sostanze essenziaU mente senzienti-sentite, o senzieutisi.; (i) Vedi P.
ir. e. IV, . (i) E va pure a terra ciu che dice deirordine causate. P. II, c.
VH. (3) Sclielliug riliula espressameule la taccia dalagli di panli'isla :
per'i> noi non possiamo, ni ialendlamu con (jueslo di allribuirgli ci6 die
egli stesso apcrlameiUe disdice
ripreude. (4) Set V, c. VI c VU. Digitized by Googli ig4 3.*
nell'avvertirsi diflficilissimatnente in no! il sentlineiito fan- damenlale
dell esser nostro vivente, percliA senlpre eqnabilc, e non soggelto, dellordine
della natura, a mulazioni. Mr su tulto ci6 rimetto i niiei letlori a qucllo che
ho della ml N. Sn^gio (i), e piii ancora alle atleiitc loro osserrazloni e
profonde medilazioni sopra di si medesiml, senza le qiiali la lellura stessa di
quel nostro libro non pu6 reiare utilila; CAPITOLO XIV. C05TIND*ZI01|ej
Seguitiamo dicendo cio che ci rimane del riscontro fra it priiicipio
cartesiano lo penso , e I'intuizione del
Mamiani. Vogliam noi cercare, se pone pin d'indimoslrato c devi- deote r uno, o
Iallro di quest! due scriltori; perocchi egli e manifesto, che quella GlosoGa i
da preferirsi, la quale pin di' niustra, e, impossibile essendo il dimostrar
lutlo, pill ristriuge quel pi'imo vero evidenle, che dee esscre il punlo fermo
ove posttio e gravitino lutte le diuiostrazioni. A lal uopo, esaminiamo quel
passo dove il C. M. espone il suo concetto circa Iintuizione immediala : u Se
Ioggelto del conoscere, dice, sia una pura e semplico a idea , poniamo quella
del triangolo (a), h impossibile alia u nostra mente negare, ovvero dubitare
della realita di essa ^ (i) Sez. V, c. Xt. (a) Loggelto del conosccre non i,
propriamenle parlaiiHo, I'iilca ilel triangolo, ma il triangolo slesso iriealc.
Or qtieslo 6 un crroic freiptcoK! del N. A. e di inolii aliri, di confondere
Iiiien col Iriango/o idtate og- gelto deir inluizione die costiluisce Tidea.
Non negO^ die talora si possa pigliare Tuna cosa per Iallra, come ho dello
ancora, quaiidu la maiicanz.i d'esaticzza scrnpolosa non iiifluisce ndlo
scingllmento della qtieslioiie di ciii si Iralla; ino all'opposto, dove la
queslione slessa riceva oscurila, cotifiisione e falsa suluziuiie per inaocanza
di accuralezza nd ravellare, qiiesl.-i acciira- tezza dee esser coiiServata scnipolosainenle.
Gonvien diinque osservare die srhheiic per la pnrola idea s'inlenda ora ris//o
del Aoslro spirito clre veda nil oggcllo, ora VoggeUo ideate, ora Tuna e
I'allra cosa iosieine presei iicI luogo del N. A. pero i necessario, a voler
ritrovare una seiitenza aCcii- raia, picnderla per l'ogge//o ideate; c pero
conveiiiva uomiiiar qiicsio , d diehiararc in die seusu voleasi presa la parola
idea. Digilized by Google K vogliam dire deH'oggelto della conoicenza (i),
attesoclii u ( ecco la ragione ) I idea i in noi, e noi siamo nnificali
con u soLUTA DELLA cosciENZB. La qiial
cosa pii6 venir fatta in un u solo ed unico inodo, e questo i provando die la
eoncezione u nostra immediata delPoggelto estrinseco attesta con la pro* a-
pria sua enlitk, eziandio rcntita delPoggelto, st veramenle tt cbe se Poggello
non fosse, n6 tampoco sarebbe la conce-
zione mediata. Ora ecco le osservazioni die io prcsenlo al giudizio de'
sarj, sopra la doltrina del G. M. esposta ne due brani riportati. t." Gia
ho osservato, che se fosse vero, che la realita del*' Poggetto pcnsalo, p. c.
il triangolo ideale, fosse la 'nostra pro* pria realita, come dice il N. A., ne
verrcbbe Passurdo che noi saremmo de triangoli; il che niuno dira: o pure die
il trian* golo si Iransustanziasse in noi, e diventasse uomo, o anima^ il cbe
pure niuno dira ; o iliialmentc che cessando il triangolo (1) Qiieslo a
voglisni dire > provii rlie il C. M. sicsso saccorsc della inrsallezZA di
aver usalo idea del Iriaegolo in luogo di > triangolo ideale . (3) p. n,
c. If, 11. (3) P, II. c. II, III. 29 possibile (6)^ ma queste varie dizioni chi
pu6 conciliarle in- sieme? Perocebi lo studio complelo dell' inlelletto o i
neccs- sario alio stabilimenlo della certezza, o non e nccessario : non (i) Usa
spesso questa frsse Iaulor iiotiro. Ved. P. Il, c. II, ii. (a) Usa UN. A. la
parola h immeUcsiinazioae a questo
proposilu Uilla P. II, c. Ill, VI. (5) P. I, c. -X.VI, a." afor. (0 P. I,
c. XVI, 4." afor. (5) Ivi, I.* afor. (6) Ivi, 8.* afor. Digitized by
Google 297 av\i Diodo di (ranslgere. E tegll i necestario, tullal piu si po !
Ma se prima di Irovare il modo di slahilire la verita c la ccriezza, conviene
che possediamo la sloria dellintelletlo, come n' accerleremb di quests ? e se
quests non i certa, o non 6 per noi accerlata, come dipendera da essa il
criterio della verita? ovvero tulta quella sloria sar^ ella ammessa nella
dimoslra- zione dello scibilr, come un prccedcnte evidcnte per s^ ? Qursto modo
di ragionare del N. A. trac I'origioe da quellu che noi abbiamo toccato
innanzi, cioi dal considerare per uua a conclusionc scienliGca perfettamcnle n
quella che consiste nel dimostrare
patcntemenle I'impossibilila d'una spirgazionu u razionale dei sommi
principj n (a). Ora i la sola storia del- I'intellelto che pu6 giungerc a
provare, che i sommi principj non si gcnerano da niun scnso, da niuna spcrienza
, da niun giudicio, come ha dello allrove il M., c die perci(^ la loro
spiegazione razionale i impossibile. Se la diinoslrazione adun- que de' sommi
principj finisce lulla qui, cioe in far vederc lVt- possibilihi lUlla loro
spiegmione (3)^ egli c manifesto che con- vien prima di lullo dar mano alia
sloria dell' intcllello, c che () P. I. c. XVI, i4for. (3) Lo Kesso C. M. dice
allrove, cbc le idee slrallissime noa si S(de- X gano con allre idee, nia solo
con la istoria Tcra e precise dalla loro gtv
uerazione (P. II, r. XII, iii).
Quindi la necessity della storia dell' in- Iclletto, c specialinente ozLta
czvtaszioxa dzllz inza. RosMi.Ni, Jl Rinnovamenlo. 38 ag8 qaesta sola pu&
meltere un boon fondamento alia scienza del vero, benchi non li veg^ poi come
quella storia possa avers! senza di questa scienza. Ad ogni modo, persegnitando
logicamente le tracce de'pen* sieri del N. A., vedesi chiaro che, se no! gli
domandassimo, per* chi mai , venuti a sorarai principj , e provato che di
quest! non si pu6 dare spiegazione, noi dovremmo acquetarci e pren* derl! per
veri senza piu^ egli ci risponderebbc,
percbi un vero dee pure esistere, n se nol troviamo ne' prim! principj,
oggelto dell'intnizione, noi nol possiamo allrove rin venire, di- pcndendo
tulte Ialtre conoscenze da quei principj . Cost fa appunto il Mamiani ; prima
ancora di entrare nella dimostrazioiie dcllo scibile, egli ci d4 I aforismo
seguente: u Una veritii piimitiva assolata risiede nell'entita del nostro u
pcnsiero (i): sul quale suo aforismo
cos\ ragiona: u Ghiedere la scienza universale del vero, dichiararla pos* sibile, ovvero impossibile, dubbia o certa,
reale o apparente, u i totto uno rispetto a questo, cioi che in qualunque di
tali casi sempre si suppone la
conoscenza d' un vero assoluto dal quale
si vuol partire ; diffatto in qualunque di essi casi af* fermasi alcun che in modo certo e assoluto.
Avvi dunque un reale ed un vero, su cui
non mettiamo dubbio. Cotesto reale e
cotesto vero si incontrano nellentita del senso in* timo, ove I'atto del conoscere e Toggetto su
cui si dirige a la conoscenza cqmpongono una sola e identica realiUi, della u
quale niuno scettico sa dubitare (a). II
ragionamento adunque si riduce a questo ; Un vero dee esserci, e c'i
sicurainente. Tutte le conoscenze nascono dai primi principj, e quest! non
nascono da altri. Dunque convien cercare quel vero nei primi principj. Ma se
quest! non nascono da altri, essi sono percepiti intuitivamente. Lintuizione
adun* que d il criterio del vero. Ognuno s'avvcde quanti precedent! dimandi il
criterio del G. M. ^ ognuno dica se il sorite che inchiude sia piii semplice, e
meno esiga dell'entimema di Renato Gartesio. (i) P. I, c. XVI, i6." .for.
(a) Ivi. Digitized by Google CAPITOLO XV. 99 COHTINUAZIOHE. Ma di nuovo
s'abbiano sott'occhio i due pass! allegati. In quelli si afTernia, essere
impossibile alia mente il dubi- tare della realila di un triangolo
pensato, attesochi la sua realila i la realila noslra propria , e il
conoscente i il co* gnito slesso n. Or
ci6 i quanto dire : come non possiarao dubitare della realila nostra propria^
cost non possiamo dubitare del triangolo, perchi la sua realita i la nostra , e
il triangolo siamo noi Stessi. Clie cosa suppone questo ragionanienlo 1
Levidenza della nostra propria reality, Ieridenza di noi stessi. La nostra
realiUk dunque, la nostra entity, la nostra esi- stenza i supposta dal N. A.
senza diuiostrazione, ed percettibile.
Mi si dica, se tutto ci6 sia conforme al senso co- mnne. Mi si dica, se v'abbia
nomo al mondo che ricordi pur un breve momento di sua vita , in cui siasi egU
tenato per una cotale apparenza, ocfae valga a segnare 1 istante nel quale gli
riusc'i di fare il grande ritrovamento, che a sd stesso, ap- parenza come c,
sta per6 attaccato un altro sd stesso, non ap- parenza, ma proprio sostanza. Mi
perdoni il C. M., se io dico apertamenle, avervi qui an errore al tutto
materiale. Troppo spesso awieue alia maggior parte de filosod, di ragionare
dello spirito, secondo I'analogia di ci6 che essi notarono avvenire ne' corpi.
Applicaao le idee loro assai ristrette, tratte dalla sostanza corporea, ad ogni
ar- gomento, ad ogni oggetto, bene o male a proposito. Sperimen- tano essi, che
de corpi noi non sentiamo che le superGeie. Il solido o sia I'interiore del
corpo noi lo immaginiamo, lo ar- gomentiamo, ma noi possiamo mai ni toccare, ni
vedere, anzi non d visiblle nd tattile. Veniam dunque nelia credunza , che
sotto agli aecidenti corporei, ciod sotto quelle qualitd che ope- rano ne sensi
nostri, stia come appiattato un qualche cosa di resistente, di duro: questo lo
immaginiamo di dietro, o di sotto le qualitd sensibili, e gli diamo il nome di
subsUins, volendo indicare quel non so che occulto che si sta sotto. Senza esa-
minare quanta veracita ella sabbia una simile immaginazione, certo d che noi la
facciamo, che 1 hanno fatta i padri nostri, che hanno essi inventato il
vocabolo di sostanza {vxo-triaiTic)', e che noi abbiamo ereditato questo vocabolo
collidea annessa di un sostrato, e sostegno degli aecidenti. Or, dopo di ci6 ,
il primo moviraento del nostro spirito, quando ragloniamo di esseri
immaterial!, d pur qnello d immaginarceli parimenle do- tatl a) di aecidenti
sensibili, c di una sostanza inscusibile, sostegno di tali accident!. Digitized
by Google 3o I Cos'i nel DOtlro (pirito naice, gofTamente a dir vero, il pre-
giudizio, clie ogoi toslania debba essere occuUa e insensibile ; c per6, che
tulto quello cfae i sente, non sia gia sostanza , nia puro accidenle.
Applichiamo tal pregiadizio alio spirito nostro, e ne avrenio per risultamcnto
la dottrina del doppio so/gctto del C. M. Peroccbu uoi argomeatereiuo con tulta
sicurezza in questo bel modo : lo sento me stesso: Ma qnello che sento non pu6
essere sostanza , peroccbu la sostanza non pu6 esser sentita , ma ella &
qualche cosa di 0C'o ma- nifesto, che non 6 1 accidenle che pensa, che parla,
che opera; ma d il soggetto sostanziale che fa tulle queste cose; e perd
ueircnliiiiema di Garlcsiu u Io penso, dunque sono >, la cou- seguenza d
diriltissimaineule tirata. Pud dubitarsi ch' ella non abbia i suifragi di ogni
cUsse di personc. Volcle consultare il volgo? udile rargomento di Car- tesio in
bocca di uu servo, dellidiota Sosia, il quale seco stesso argumenta : Sed quom
cogilo, equidem cc/te sum idem, qui sem~ Digitized by Google 3oa per Jtu (i).
Volete consultare i sapienti? udile lo stesso argo- jiiento in bocca dl s.
Agostino, 11 quale in uii suo libro inlro- * duce Alipio a parlare con Evodio
cosl: Prius ctbs te quaet'Oy lit tic rtiaiiifestissimis capiarnus exortltwny
utrum tu ipse sis^ an tu forte metuis nc hac interro^ptiotie faUarisy cum
utiifue si non csses^ falli otnnino non posies (a)? Egli non ^ dunque nuovo il
mudu di argomeiilare di Cart*io^ iiia quel modo fa usalo e lenuto buono molli
secoli prinia di lui da tutti, ciod dai doll! e dagrindotli (3;. Che anro s.
Agostino aresse colto un grosso marrone, quaiido egli credelte di poler
argomentare alia pro- pria esistenKa dagliaLli del proprio pensiero? die nel
secoloXtX gli si debba insegnare la logics, insegnargli cbc dagli atti del suo
penslero avrebbe dovuto argomentare ad uuesistenza sua apparisccntc^
funomenica, non punto soslanaiale (4)? (f) ^tWjinftrione di PlaiUo, dove
Mercurio prende la figura del servo Sosi;i, e vuol dargli ad iniendere d*
essere egli Sosia , questi isguardando d'ugiii lalo Mercurio tuUo simile a s^
istupidilo^ e quasi ^cr uscire del Scniio scco inedesiinu ragioiia: Cfrte
edcjtol, qttom ilium cottiemplo, et formam cognosco mettm, Qttrmndnwditfn saepe
in specitlo inxpexi, nimium similis est meij Jitfiem hnhet petasum ac vestitumj
iam consimiH* si nUjue ego: Sura, pes,
sUtiuta, tonsus, ocuti, nasum vcl labra, JfJaluc, mculitm, barba, collumf lotas
.... t/uid verbis opu st? Tergum si ckalncosiim, mkil hoc simtli esl similius.
Sat quom cogitOf equidem eetHe sum idem, qui semper fui. Act. I, Sc. I, V. 291.
(ai Lili, II, Oe lib. arbilr. C. III. * (5) Giacch6 ne* nosiri tempi si k
ripufato necessario ricorrere a) senso coinuritt degf) uoiniui per emendare le
doUriue de iilosufi, non credo chc sia qui a sproposito il riferire un luogo,
il quale mi seinbra assai seusalo, di un aiitore die seriveva uu po* prima
della tneU del passato secolo : questi b Bouliier. Ecco coinc egli per otiima
prova del vero if coiiseoso dei dotti e degrindoUi tiella incdesima seuteuza: *
L*aecord des sages avec Ic peuple, c*estd^dire, de ceiix qui examinent avec
ceux qui n'examinenl point, 6t cthii des sages cnlre eux dans une mcnie
opinion, sont deux si- gnes varucteristiques de v^rik,sous lesquels ile\t
pixsqu impossible que Ver- rear se cache. Voulez^vous distinguer
exactemenl le vrai du faux dans un pfcjuge vulgaire*l vous trouverez
ordinahemenl que^ dans cequ'it adevrai, les sages s'nccordent avec le peuple,
et que, dtins ce quit a de faux. Us sac- cordent Ions conlre lui. Essai
pbilosophique sur Tame des bcles^ Turn. II
, Pari. II, chap. v. ^4) bav^eiiiit rhe Targonicuto oude comiucia Curlc^o lo
sna filosofia. Digitized by GoogI 3o3 Ma almeno avesse fatto an simigliante
argomento il C. M., quando anco tulto questo argomento I'avesse rinserrato nel
raondo, come egli lo chiama fenoraenico. Se non voleva pro> vare, come fa
Gartesio , T esistenza nostra sostanziale, avrcbbe potato provare I'esistenza
apparente , posto che egli s'era messo nellanimo, che esser ci dovesse
unesistenza apparente, ante* riore, e per noi segno della sostanziale. Avrebbe
potuto comin- ciare il sao ragionamento dicendo : io penso, o io sento ecc., dunqne esisto
fenomenalracnte ; e quindi procedcre
innanzi. Ma quante cose in quella vece non lascia egli indimostrate ! quante
non ce le d& come evident!, e non bisognevoli di di- mostrazione! quante
non ne racchiude sotto questa parola
cer- tezza assolnta della coscienza
! Egli ammette per certo asso* lutamente ed evidentemeiite, ed a cui
niuna prqva abbisogni, I.* I'esistenza del me, sia pur fenomenico, se cosi gli
pare, a.* Iesistenza degli atti tutti del me, i quali si comprendono Delia
coscienza, 3." gli oggetti tutti puramunte ideali, perocch^ quest! , dice
cgll, hanno una mcdcsima reality con noi, e pcr6 ideulificati con noi hanno
pure la stessa certezza del noi. Or in quest! og* getti ideali molte e molte
scienze si comprendono, lutte le astratte, e particolarmente le raatematichc.
Vorra dirci egli S> trova in libri itallani moUo prima che quel grand'uoino
nascesse , mi aembra veramente uoa piccola vanilii nazlonale. TuUavla
esaminnndo noi il bbro del C. M. , che si propone il lodevole fine di eccilare
gl Il.iliani a fare pin slima cbe non fanoo delle proprie ricchezzc fiiosoriche
, recherd qui il principio d'un libro alquanto raro del secolo XVI, scritlo da
uo uomo di Siena molt'anni prima che uascesse Carlesio. 11 libro di cui p.irlo
i il Cattcliismo del Iroppo nolo Bernardino Ochino, slampalo in Basilea Ianno
i56i, il quale comincia con questo dialogo : M Ministro. Se ben Iessere nostro
6 inlinitamenle lonlano dall esser 'di M Dio, non pu6 dirsi che Iuomo non sia:
ansi i cosa si chiara, che piii I nota non pu6 dimoslrarsi: ct roostra dessere
in lulto privo di giudicio f chi non credeessere; perA ti prego, lllumiuslo
inio, cbe tu mi dica, > scgli li par essere o no . Minislro, impossibilc che a chi non i, gli
paja d'esscre; pcr6, put chei ti par
essere , bisogna dire cbe tu sia N Jlluminalo. Cosi i vero m. 3o4 adnnque che
tuUc qneste cose, per appftttenere alia intaizlone iimnediata, non abbisognano
di ditnostrazioae alcana? vorri cacciare dalle matematirbe mteramente il
raziocinio? saranno essi conlenli i matematici, del N. A.? Vcro chegli non ti-
rer^ mai queste conscgoenze troppo manifestamcnle assurde^ fna vero 6 allresi,
che tutte stanno ne^ visceri delta sua intui* rione immediata^ e se egU non se
ne dichiara padre, ella, par- torendolo in faccia al mondo, non pu6
nasconder&i d'csseroe tnadre (i). (() Da tutio cio si vedc chc rintuiilonc
m del N. A. non h che una foote di vcriia innumcrevoli, )e quali non cessano di
csserc iocatcoate fra ioro per gli nessi logic! di giudi^j c di razlociiij.
Dunqoe anchc per entro III tnondo deir intuizioTic mainiauiana e in queslo
immenso, anzi iniiiiito novero di verita ch* ella alibracciat non tutic sono prime;
ma alcune sono dcdolle da allrc. Per esempio chi dir^ che il leorrma
dciripotenusa sia una verity prima^ e non dcdoita? e lutlavia ella appartiene
all iotuizioac im mediala secoodo il Mamianij perocch6 clla h una
verita puramenfe ideale, ella non 6 che m atlinenze didcc n, e tnUo Ic
attinenze d* idee cn* trano Delia definizione della iutuizione tnimediala chc
ct da il N. A. Ora , te tutte le verita dellinliiiziooe iromediata non sono
prime; duoque non tulle possnoo dies! eiidenti, e non bisogoeyoli di
dimustrazione , come af I'erma il C. M. dcll'inluizione immediate. Con qtiesla
sna intuizionc non d adunque fatto ancor oiente per la dimosirazione dello
scihilet c pel trova* meuio del crileiio supremo del vcrOi pcrocchc rimane a
classiBcarsi queslo verita dintuiziooe, sotiordinaodo le une alle allrc,
dislingueodo t principj dalle coiisegiienze, e irivesligando sc fra tutte Ic
vcriiii ve nahhia una pri- me, sella sia evidenie, sc abbin in tutte T autorila
nccessaria per accer- tare luUu >1 sapere. Ecco quanto il N. A. sta lontano
dalL'aver bcnc alTer- rato di che si iralta, qiiandu si cerca il principio
della certezza. St vedc parimente quanto impropriamente cgti dica chc tutte le
verilli ideali seno d immcdiaiii intuizionc: tnluile immcdialameotc, non st posson
dire se non le veritli prime, o piu tosto la verity prima; le allre sono
dedotte. Fra i vaij modi poi, onde il N. A. ci lescrive T intuizione imnicdiala
, V* ha pur qucllo col quale ce la fa un giudizio: caraticre dcllinluizione t ahhiamo vedulo
esscre la coscionr.a dun giudicio * [V, II, c. XIX, i). Ora la conveoicota de
termini di un giudizio si pu6 beoe inluire: ma propriamente parlando, una talc
intuiiione non ^ immediata, pcrchc sup* pone prima di riotuiziooc de termini
stessi. L'intuizione poi de* ter- mini non 6 pur essa sempre immediata,
peroccli^ i termini possono essere un risulUmento di molle ddfictli, e aocho
falbci operazioni dello spirito. Digitized by Google CAPITOLO XVI. 3o5
COMTINUAZIOHE. Veniamo all' intuizionc mcdicUa, e al nesso ch'eirha colU
immediaUi, La pietra dl paragone del vero nella intuizione immediata, secondo
il N. A., i la realiti nostra propria, di cui, egli dice, non possiaino
dubitare. L'altre cose, che nelP intuizione immediata s'accolgouo, sono
evidentemente certe, perchi la loro realita i identificata colla realita nostra
propria*, Dunque sono certe della nostra propria certezza, come sono reali
della nostra propria realitA. Fra gli oggetti puraroeiite ideali v i il
principio di contrad* dizionr, che secondo il C. M. A come il ponte di
comunica* zione fra noi e Ic realita esteriori, fra la intuizione immediata e
la niediata. Dunque anehe il principio di contraddizione riceve la sua realita
dalla realita nostra , la sua certezza dalla certezza nostra. Dunque non i vero
ci6 che il N. A. dice in molti Inoghi, che il principio di contraddizione sia
il primo e supremo di tutli i principio egli non k piu che un principio
subordinato , e dimostrato per mezzo della sua iinmedesimazione con noi ^
dunque noi siamo piii certi di noi che del principio di con* traddizione, certi
di noi prima che questo principio sia a noi stessi applicato, o se noi non
siamo tali, se noi per avventnra non abbiamo un'intrin.seca , necessaria ed
evidente certezza, forz'A che anco il detto principio partecipi de' nostri
difetti, delle no.stre limitazioni, della nostra contingenza. Di piu, noi siamo
certi di noi solo fenomenalmente; perocchA il NOI sostanziale, secondo il N.
A., non si sente, ma si argo- menta col principio di contraddizione (i). La certezza
feno- (i) II C. M. dice cspressamcnle cosl; > lecito sembra di pronunziare,
X die qualunque alio dloliiiziune i pure un modo parlicolare e dclermi- X oalo
nel subbietto peiisunte. o dir si vogtia del me feoomeuico ( P. If, Rosmini, Il Rinnovamento. 89 3or>
mfiiiite non ^ che rertet/.a deirapparenza. Dunqiie anche la rertezza di
crmtraddizione non avra in sd di certo pin cbe Iapparenza: il rhe viene a dire:
certo die a noi appare cerlo; ma non sappiamo poi segli anche sia vcramente,
real- ineiitu, sostanzialmente cerlo. Dunque andie 1e ronscguenze che si cavano
dallapplicazione di tal principio, non ecccJuno la certezza apparenle: e appli-
cato, perescmpio, al trovamento del noi sostanziale, il risultato sara: u i
certo the a no! par cerlo, che noi siarao sostaaze applicalo al trovamenlo
della realiU esterua , il risultamento Kara pure : e cerlo che a iioi pah cerlo, che Ic cose
esleroe sieiio rcali; e cosi si dica di
tulle Ialtre induzioiii. Non si iiscira mai dal fenonieoale, se I'/o primo a
noi cognilo i pn> ramente fenomenale ^ non si giungera mai alia certezza
a|>odil- tica; e noi sareino condannati in vita a vedere la lanterna magica.
CAPITOLO XVII. t'lO NON > NOTO PER si STF.SSO. MA PEL MEZSO COMVNB PELLA
COGNIZIONE. Ma n sia I'/o che primo conoscianio, sostanziale, o sia fe-
ncmenale, resta a vedersi s'egli i cognilo per s6 stesso, s'egli L la
cognizione propria, o se la cognizione delP/o i qnalche i;osa di diverso
dall'/o. Net primo caso I' Jo avrebhe la cogui-, z.ione di sd seco coiigiunta per
natura lino dal primo siio esi- stere: nel secoiido non Iavrehbe
necessariamente, ma la si polrcbbe anco venire acqnislando in un certo punto
della vita. Se avvi la cognizione ddl'/o, ma non 1' lo cognizione di si a si stesso, in tal
caso resla a cercarsi che cosa e questa cognizione distiiila dall'/o cbe si
conosce per essa , o per me* glio dire , che cosa e questo mezzo onde I Jo si
rende noto a se stesso. c. IV, IV ). Nun solu sdunque il prusiero i
un'spparenzs, nm In slesso sulibieKu pinunte null e sotsuza, e puramenle us us
fanomlhico! e Tin* luizioue , queslu nioilu pariiruliire c deteriiiiii.i(o ill
un me feuoinenico, i ( sccuiidu il .M tiniiiui) lulU la buse tluirunmia
ceilezza! t Digitized by Google icij II dtrr, a ragione desempio, cbe vha una
certezza fcnnis- sima didia propria esislenza, non risolve la question*!,
quando anco qiiesta certezza ci accompagnassc senipre, e fosse eon iiui fino
dal primo istante del nostro esistere. qnand' anco ella non fosse soggetta alia
minima titiibazione o dubbiezza da parte dcllanimo nostro. Molti singannano in
questo , ciou tutti qnelli rtie nella certezza di noi stessi mettono la
certezza pri* ma, e fra qiiesli il C. M. che, come abbiamo vednto, ridnce alia
certezza della nostra esistenz.a anrhe quella del principio di conlraddizione.
Qnaiidanco la certezza di noi fosse al tutto immobile, come dicevo, non sarebbe
per qiieslo necessariamente vero che ella fosse la prima, e che nella certezz.a
dell'/o si dovesse riporre il ciitcrio supremo dtlla verila; perocche il
crilerio supremo della verita non coiisiste in ogni particolar certezza che sia
indubi* labile, ma solo nella primissinia, in qnella che non nasce da un
principio anteriore, che non ha ricevula e mutuala altronde la sua solidita, ma
si bene la tieiK in proprio. Siaino adun condo me, cbe bisogna ben guardarsi
dall alTrontare cdo degli 3o8 ingegnosi e complicati ragioBameiili : anzi
coDvicne presentarsi ad essa con una scmplicissima osscrvaziooe : trattasi -
sibile^ perocchi ciascuna di que>te idee non couoscerrbbe 170 iolero, ma
solo un elemento dell'/o : perci6 quelle due idee non polrebbero giammai farci
conoscere IVo come egli sla iiella sua interezza e perfella unita. Di piii,
I'idea dell/o sarebbe ella stessa parte dell'/o si, o no. Se no, richiederebbesi
adun- qne, a ronoscer I/o, un'idea slraniera alia sua propria es- senza. Se si,
or questa sarebbe iina terza parte dell'/o, che ri- chiederebbe una terza idea.
E istituendo un simigliante ragio* namento snpra questa terza idea, che fu
istituito sopra la se- conda , ne verrebbe la neressita d' una quarta, poi d
noa quinta (i)^ e 1' ultima conclosione sarebbe lo strano assurdo. (i) II
Rotnagnosi ci coiifessa , esser cusa iinpusailiile a coiicrpire, die ijiiiima
cono5C steMii, quando si sup|>ongA che ridcti sua non sia piii die un suo
atto h Se ogni idea esisienie, dice egli, ^ in s'esna im alia w di qiKSla
forza, come voletc voi che in ogu alto diverso rapprrsenM tn M r>rmH unira
essenzinie ddla stessa forza? Egli sarebln* In sle^so che to- ** lere die ogni
voce di un cembalo id ogni frase musicMle rappresentasse M la mano del
suonatore h. Da questa riHessloiie avrehlie dovuio il Roma* gnosi ronchiiidere,
che adunqiie la conoscenza che ooi ahhtamo delTanima non e non pii6 cssere un
inern alto, o un mcro modo dellanima stessa. Allopposin egli ne deduce la
conseguenza, che noi non ronnsriamo, e non pn.ssiaino conoscere I'anima nostra
m Assurda ^ duoque, dice, la pretesa * di conoscere le cose in ik medesime,
come sarebbe assurdo prelenderc che un
muro loccalo dallaria rappresentasse sntto forme Hniie ratmostera lerrcsirc h [f^edute fond suit*afie Log ,
lib. I, cap. V, i3) Ma questa coricliislone non ^ diriila Bisogtiava
coricliiiidcTc , pereb^ la concliisione fosse conforme aPo premesse, cbe noi
non abbiamo ne.ssuna rognltione di noi; e che non esist zw>tr dem icit an,
abrr ist nocU cin von ihm unUrschit* iientrr, iiamit sogleich utfiiUiger
tnluiUi Sck fungegen isl dit ein/ache Ge* WissUeil seiner selb^) : seiua
accorgersi dell*asurdo die indi procederebl>e. Tuilsivia soggiuiise, che V
lo e aiiclie uu cuncreio, o anzi Vio i il concre* lissnho: la coacieoza di se
qu.d mondo moliiplice airinfiiiilo (convien sem* pre avverlire die siamo in nn
ststema d'idealismo) : m Acciocch^ Via possa M e> VIo solo ^ cost i impossibile
che nell'/o solo (isolalo dalla co- gm'zione) si rinvenga il priacipio della
certezza ^ perocchi egli solo non k nd pur conosciuto: e cosl parimeote d
impossibile il collocare ne sentimenti accolti nella coscienza, ciod aella
natura sentimentale, il crilerio: d impossibile, in una parola, collorarlo
nella coscienza presa nel senso di un atto di sentire, perchd ella slessa ha
bisogno di un mezzo che la illumini e la faccia conoscere (i). Se la cognizione
d diversa dall/o cognito^ se Il^^sa delCIo, non d I'/o; se a conoscere I/o, e a
conoscere tutti i sentimenti che racchiude, ci ha duopo di un mtzto di
conoscere; rimane a cercare qual sia questo mezzo : rimane a vedere se il mezzo
stesso che ci fa conoscere VIo, ci faccia conoscere altresi I'al* tre cose. E
invero molte sono le singolari cugnizioni : per (i) Net W. Saggio sulforigine
detle idee ho adoperato anchio la parola coicienza pel complesso de senlimenti
di un soggelto, accomodaodomi alia maniera di parlarc di alcuui filosoli. In
una nuova edizione di quelPopera inleodo di emeudare una tale inesaltezza, cbe
bo cercato di eritare Dclie opere posteriori, come ue Principii della scienza
morale. Id quesla, io uso coslaoleineolo la parola coscienia, Del suo vero e
proprio signilicato etimolo- gico, rhe d quello di co-scienza, o sia scienza
con noi, scienza riferila a noi. In questo preciso signilicalo apparisce, che
se Ioggetto delle cogni- zioni d un sentimento (p. c. I Io), la coscienza d io
noi falta tosto che d falta la coscienza di esso ; perocchd tostochd noi
conosciamo un sentimento nostro, noi siamo di lui coiissperoli. Allincontro
nella cognizione delle cose a noi esteriori nun d cost. La cognizione di queste
non d un esser con- sapevoli, perocchd gli oggetti di tali cognizioni non sono
noi, nd parte di noi. Si csige adunque in tal genere di cognizioni, oltre la
cognizione di- rtUa, anche la cognizione rijlessa, acciocchd noi n'abbiaino
coscienza: la co- gnizione riflessa ci rende cousaperoli della cognizione
diretta. La coscienza morale fiijalmente appartiene alia riflcssione di piCt
alto grado. Ved. i Pria- cipj della scienza morale, c. VI, art. VII. fiosMicti,
It Jtiniiovamento. 4 Digitized by Google 3,4 eteiopio, come diceva di sopra,
c'e la cognieione del cielo, la cognizione della terra, la cognizione del mare,
ecc. Se queste soiio latte cognizioni , convengoDO adunque tutle oell'esser
tali. In che differiscono ? oella diveraita degli oggetti a cui ai rifu- risce
la cognizione. V'ha dunque nelle singolari cognizioni una cosa in cui couvengono
tntte, ed i quellentita per la quale sono cognizioni; ve uha una in cai si
dUtioguono, e sono gli oggetti diversi. Ora anche la cognizione di me e una
cognizione singolare. In che si distiugue e singolarizza dallaltre? nel-
I'avere persuo oggello me, anzichi altra cosa. In die si acco- muna collaltre?
nelPessere cognizione. II cielo, la terra, il mare, ogni altro oggetto, sono
cogniti per la loro propria es> senza, per la loro propria entita? no certo^
e se fosse, la cogni- zione non sarebbe piu una ; non potrebbe esser chiamata
con una sola parola, doi colla parola cognizione, ma dovrebbe rhiamarsi cielo,
mare, terra ecc., co' diversi nomi degli oggetti, nomi indicant! essenze
diverse, incomunicabili^ non si tralte- rebbe in una parola di cognizione, roa
di t>arie sostame: la essenza dunque che si designa col nome di cognizione
sarebbe annullata. Se dunque tutti- gli oggetti parlicolari del cono- scere,
fra quali h pure VIo, non sono essi stessi per essenza co- gniti, perchd non
sono essenzialmente cognizione; convien dire che v'abbia un mezzo comwie di
conoscerli, nell'niiita del qual mezzo consista Iessenza unica della
cognizione. Ma s'ella k cos'i, come indubitatamente ripeto, che con- viene
cercare qual sia questo mezzo universale unde si conO' scono le cose e in cui 1
essenza formale della cognizione con- siste, e nella evldente autorila di
questo rinvenire la verita e la certezza. Veramente se la cognizione del mio
esistere A certa ; non pu6 questa certezza consislere che nell essenza di
questa cognizione, cioA nel mezzo infallibile pel quale mi conosco. Ma dovendo
questo mezzo essere uno per tutte le co- gnizioni, egli ne verr4 die la
evidente forza di lui, trovata e conosciuta che sia, diverra il fondamento
della certezza uni- versale: si vedra allora, che quella stessa certezza che
noi ab- hiamo dell* lo, i anche quella che giace in tutte Iallre cogni- zioni;
e die la probabilita delle cognizioni non ha origine se non dal non potcrsi
sempre le cose con quel mezzo infallibile Digitized by GoogU 3i5 sicuramente da
noi accoppi'are^ e dal non poter esser da qncllo , inimediatamente illuniinale,
o sia rese cognite. Qui adunqtie, in questo gran mezzo del coiioscere 6 da
cercare il solo criterio del \ero e del cerlo. Ni mancarono uomini perspicaci,
i qaali or vedessero, or travedessero questo zero. Allegheru un filosofo
francese molto pregevole, del secolo XVII, il quale sent! assai bene come IJb
non ci i noto per s^ ed ba bisogno di un mezzo die eel renda noto, sebben sia
difficile a distinguerlo questo mezzo dall/o^ per chi non ha aenrae di vedere
filosofico; egli si avvide pare che questo mezzo dovea esser quello stesso pel
qnale si cono* scono tulte Ialtre cose, di guisa che gli da acconciamente il
nome di verita': questi i il celebrc oratoriano Tomassini. K L'anima ( VIo ),
dice, non pu6 conoscersi senza conoscere
in pari tempo e colla stessa proporzione la tbrita eterna e immntabile di cni ella i ana para capacitli
(i). Conciossiachd t l'anima ragionevole, la ragione e I'intelligenza (a), non
6 che ttna facoltii avida e capace di
rerita. Cost ella non pu6 co- u noscere si stessa, senza riconoscere la verita,
che i il tno u oggetto e il fine di tutti i snoi desiderj ; a quella
stessa gnisa che non pu6 conoscersi la
natura delloccbio corporeo, u senza avere qualche cognizione della luce (3). (i) Aiichio ho gia mostralo, che l'anima
i informala dalla verita, cioi dall'ente possiblle, e che inedianle (al forma
esiste come ragionevole. La sua essenza adunque per asirazione si pu6 drfinire
ana capaciti di vedere fente , sehbene come raera capacili non abbia mai
esislilo, appunto perehi senza Irnle ella non k plu quella che k. (3) Aoche qui
non ho allro da osservare, sc non che V intelligenza, non pu^ conceplrsi priva
del lame della verita'. ma unila a qoeslu luine esisle; ed astratia menlalmenie
da questo lume, giacche non puo astrarsi real- mente, rimane una pura facolU, o
capacili. (3) L. Tomassini
nella sua opera La Mithode d'dltidirr el d'enteigner clireliennement el
soUdemenl la pliilosophie , etc. Paris
i685, lib. I, c. I. In questo hel tratto il Tomassini vince per nostro avviso
in acutezza il Malebranche. Giambattista Vico fa un rccellcute osservaziooe
sulla dut- Irina del P. Malebrancbe: m Qualora, dice, voglla ( Maicbranchio)
essere nella sua dottrioa coerenie,
dovrchlie insegnare, la mente iimana acqui- M stare da Dio, non che del corpo
di cut essa d mente, Iidea di se stessa . (DeWantichissima sapiema tot., c.
VI). CoDvieoe pero confessare, che una simile obbjeziooc fu fatia auche da 3i6
CAPITOLO XVIII. BSrOSIZIOA'E DE VAIIJ SISTEMI IKTORKO LA CERTE7.ZA do a
coDOSCere la verita, non pu6 essere per ik evidmite, ap> panto perchi non k
una verity prima determinata. Sinlende assai bene, come vi possa avere una
prima verit4 evidente, pe> rocchi Tevidenia non che la luce giuiluumamente irresistibile di
quella rerita; ma quello che i indizio di verita, e non la verita stessa, lia
bisogno della luce di quetta a renders! chiaro e giustamente autorevole allintelletto.
Dee adunque dirsi, col nostro G. M. appunto, che tutti que' filosoG, i quali
hanno proposto un criterio del vero in uu in- dizio di lui, non sono pervenuti
a trovare il criterio supremo; e quando ce I'hanno voluto dare per tale, hanno
erralo. II criterio supremo dee essere immediatamente verita, prima ve- rita,
Vessema deUa veritA. CAPITOLO XX. COHTiaOAZIOHB. Tuttavia anche i criterj posti
in un certo indizio di veriUi, e non la veritA stessa essenziale, bench4
dipendenti e iuferiori a queata, hanno un ordine in fra loro, ciod sono piii o
meno ele- vati, piu o meno vicini al criterio supremo. Perci6 tentiamo di
annoverarli, di classificarli, di paragonarli insieme brevemente. poiche fra quest! viene a cadere il cri-
terio del C. M., potremo quinci conoscere qual posto egli vi tenga, e $e in
qnesto genere di criterj inferior! occupi un luogo prossimo al criterio
supremo, o da questo lontano, Glindizj suggeriti da filosofi a distinguere il
vero, furon posti o dentro di noi, in qualche interior fatto dipendente da noi
soli; o in qualche al segno tutto a noi esteriore; o, cam- minando per una via
di mezzo, parte in noi stessi, e parte in cose fuori di noi. Cosi questo primo
genere si divise in Ire grand! class! di sistemi intorno al principio della
certezza. Digitized by Google r CAPITOLO XXI. 3'9 coirriiiDAZioifE. Le dae
prime per& di queite tre grand! cUm! si saddivisero. Perocchi quanto alia
prima, furono immaginati divers! criter) di certezza, secondochd diversi
filosofi si fecero an diverse con- cetto dell'uoDio, di maniera che le diverse
ideology, psicologie e antropologie produssero, come era necessario^ diversi
criterj di certezza. I principali di qnesti sistemi circa il criterio di
certezza si possono ridurre a quest! cinque; I." Quelli che doducono il
criterio dagli atb' dellanima, a.* Quelli che lo deducono dalle facoltd,
3. Quelli che lo deducono dagl'istiViti,
4. Quelli che lo deducono dalle forme
innate, 5. Quelli che lo ripongouo
semplicemente neW evidenta, senza determinare a qnali operazioni o condizioni
dellanima Ievidenza appartenga. Egli k chiaro, che Cartesio, il quale dice
CogitQ, ergo sum, parte dagli atti dellanima, e per6 appartiene alia prima
di roeoti corporei con un linguaggio,
che in proprietk non conveniva che al> Ioccbio. La parola greca e^rar'ia,
che Cicerone traduce per visum, ba egualmenle una relazione alia luce corporca,
pcrocchi vienc da pai'ra , in lucem edo. I (3) Quid de tactu, dice Cicerone, et
eo quidem, quern philosophi tale- riorem vacant, out doloris aul voluptatis ?
in quo Cjrrenaici solo pulanl veri esse judicium, quia senliatur (in LucuU.
VII). Diogene Laerzio in Ari- stippo dice, cbe queslo filosolo ammetteva due
soli movimenti dell'aoiino, il dolore ed il piacere: ivo vturram, Ttrfv an* (3)
Le anticipazioni di Epicuro non sono le mere immagini sensibili conservale in
noi, ma sono le idee, o se si vuole, le idee astralle, relative perd a cose
sensibili. Nel seguente passo di Cicerone si distingue chia- ramente 1 . la
sensazione , 3. la immagine o seosazione interna, 3.* le idee, cbe veogon
formate dalle similitudini delle immagini : ora la simitUu- dine, come bo
roosirato, ba uopo di una specie intellettiva. Itaque alia Digitized by GoogU
3a I IIT. Vebbero qnelli che non risguardarono i *ensi estcriori come
rinfallibile testimonio del vero, ma vollcr tale il setitimento inleriore
delluomo. Uno fra modern!, che innalzd a cielo il sen- tlmento, e parve cbe in
lui solo riponesse ogni rivelazione di veritii, fu Rousseau. A questo sembrano
accostarsi tulti quelli, che sotto tanti nouii divers! immaginarono una cotale
ispira~ zione naturakj per la quale Iuomo i rapito, secondo essi, quasi
allimmediata visione di alcune verit4. Lungo sarebbe il venir descrivendo il
vario aspetto in cui fu presentata ne tempi no* stri questa sentenza, e narrare
i varj nomi di cui fu vestita una SI misteriosa facolta che si vuol dare
alluomo alia quale forse non i lontano Viscinto rationale, a cui accenna il N.
A. in pin luogbl del suo libro , e a cui commette , come egli pare , il
manifestare alluomo le verity soprasensuali. Ma non esscndo pubblico il suo
lavoro circa questa parte di (ilosofia, crediamo intempestivo il favellame. IV.
Altri posero il criterio nella ragione, come, fra gli antichi Italian!,
Parmeuide^ e fra modern!, noiDiner6 un filosofo non ispregevolc, Cesare degli
Orazj (i). V. Alcuni fra discepoU di Platone, come Speusippo e Seno* crate,
parve non si contentassero delle sole potenze intellct- tive, e collocassero il
criterio parte in queste, e parte nel senso corporeo, secondochi le cose da
giudicarsi fossero inteliigibili, o sensibili. La sentenza di Aristotele non b
cbiara , a tale , chc parnii assai difficile il conciliarlo seco. Pu6 essere
chc il guastamento fatto de suoi libri generi in parte questa oscuriti e
dlsugua- glianza da s^ medesinio. Ma piit probabilmeute io IattribuiscO allusar
chegli fa un parlare troppo metaforico, c non proprio, del quale vicnc
attribuendo a sens! quello che si spelta alle facolt^ intellettive, come il
^udicare: manicra equivoca passata viia sic arripit (mens), ut his statim utatur
(seniazioni) : atiqua sic recon- diti e quibus memoria oritur (imiiiaglui).
Caeltra aulem similUudinibus constiluit; ex quibus effleiuntur notitiae rcrum;
quas Graeci turn iVroias turn -p,X>i4i/c vocanl (iiozioiii, idee). /
Liiaill. X. (i) Questo Professure, die iiisegii.iva in Roma neirnrcliigiim.isio
della Sapirnza, slampo De uniicrsali mclitodo philosophamti pjficioque
pluljso/dii liber singularis. Uoinao >778. Koshim.i , Il Ritmovamento. 4 '
Digitized by Google Baa poi nella Scuola, dove rese necessarie di molte soUili
distin- zioni, per e iautili, a impedire le quali noa valse il dicfaiarare qua
e cola, come fa s. Tommaso, che il giudicare de sens! non h un vero giudicare,
applicandosi ad essi questo vocabolo ia tuttaltro siguificato da quello cbe s attribuisce
all iutendi- mento (i)> Nulla di meno io non credo cbe possa dirsi , come
alcuni fanno, Aristotele porre due criterj , Iuno nel senso e I'allro
nellintendimento. Certo cgli si direbbe, cbe Aristotele mettesse un solo
criterio nellanimo, dove sono accolte tutte le facolta conoscitive^ siccb^ il
suo gran principio stesse tutto ia quelle parole, cbe u I'animo ^ iu una cotal
maniera tutte le cose i xr^v ** ovra
eras Trdvra (2). Secondo questo modo dintendere Aristotele, egli pare cbe
I'animo sia per lui un cotal essece tutto singolare, e diverso da ognaltra
cosa, il quale abbia virtii di couformarsi in mille di- verse guise, e prendere
ogui forma: queste forme, o modi del- (1) S. Tommaso nella Somma (I, X.VI, 11)
dimanda, se la verity sia solo neUintelletlo, o anche nel senso. E risponde che
> La veritii k unequa- sione fra la
cosa e Iinlellello. Ora questequazione si compie solo nel* riiilellelto; duoque
clla noa i cbe tieH'inlellelto, e propriamente nella > seconda sua
operaiione, che i il giudizio. Si puo pero dire che sia anco m nel senso, iu
quanto che la cosa sentila dallinlelletlo i giudicata vera ; ma questo non viene a dire se non che la
veritii si trova nel senso solo m materialmenie, ossia che nel senso si liova
la materia della veriU, non la verith
slessa : la verity stessa ( formalmeule ) si trova dunque solo nel m giudizio
deirintellcllo m. Udiamo le chlarissime parole del s Doltorn ; Conjormitalem
istam (inlellectas et rei) cognoscere, esl cognoscere verilalem. hanc autem
nullo modo stnsus cognosciL Licet enim visas haheat simiti- tudinem vlsibilis,
non tainen cognoscit comparalionem, quae esl inter rem visam, et id quod ipse
apprehendit de ea. Intellectus aulem,
quando judical rem ila se habere sicut est forma, quam de re
apprehendit, tunc primo cognoscit el died verum
Di che conchiude: f'eritas est in intel- lectu componente et dividenle
(id est judicante), non autem in sensa. Da questo luogo deH'Aogclico si vede
chiarissimameote, che cgli attribuisce il giudicare al solo intelletto, del
quale dice esscr la seconds operaziunc, e il nega a dirittura al senso. Lo
stesso egli insegna nella Q. I de (''eritate, art. It. Perci6 lutti que Inoghi
dove attribuisce al senso il giudizio, vaono intesi non in senso proprio, ma
traslato; e cosi solo si concilia il s. Oottore aeco medesimo. (2) Lib. Ill de
Anim., c. IX. Digitized by Google 3a3 Ianima, sono poi gli oggetti conosciuti,
die in tal tnoilo stanno nell'animo, e anzi sono Panimo stesso immateriaie : il
qual conrello attribuito ad Aristotele, viene cosl sposto da un uomo
dottissimo: Siccome il molle e il duro,
il freddo e il caldo, e 1allre corporee
quality non sono che \arie tempere che u prende una slessa materia ; similmente
ancbe le varie nozioni della mente ,
quando contempla e medita , non sono che H modi e forme diverse della mente
conoscitrice > (i). Per tal gnisa Aristotele sarebbe venuto a dire per la
mente o intelli- genza , quello stesso die Protagora diceva pel senso , che
I'nomo era la misura di tntte le cose
(a). (i1 Rodolfo Cudworlh nell* sua grand'opera De aelerna ft immutabiU
re moralis seu jusli el hnnesli natura, L. IV, cap. I, g IV. Ut mnlle ac du-
rum, Jrigidum el calidtim. celeraeque qualitales corpnreae nil sunt, quam
varine unius matcriae temperaliones : ila mentis etiam varine notiones, quum
conlemplatur et medilatur, diversi Ionium sunt mentis quae cognoscit modi et
formae. vavruv ^ftipdrof /ui'rpov. Platone, Del Tcetelo. tJno demeizi di dar
luce alle qiieslioni, si i quello di nolare accurala- menle i diversi gradi pe
quali si avanz6 Iumana nienie nclla loro (ratta- xione. Ne daro qui un
escinpio. Tutia Iantichili senli quanto era difficile a spiegare il modo, onde
un essere solo e semplice, come b lo spirilo, polesse percepire e comprendere
lanie svariale cose, massimc le corporee, che sono fuori di lui. Sembrava, che
le cose non si polessero inlendere se non porlandole nello stesso no- stro
spirito, o Irasformando lo spirito nelle cose. Furono adunque Inven- lati
diversi sistemi ; ed ecco quale raanifesta gradaxione tengano fra loro i tre,
di Einpedocle, di Protagora e di Aristotele, gradaxione, dico, dal gros- Solano
e volgare, al piii pensaio e filosolico. I. Empedocle (stando al modo onde In
intese Aristotele) spiegA il fallo mediante la supposixionc, che I'anima fosse
una cord^osixione di lutti gli dementi dcMuniverso, chegli ridusse a qiiattro ;
e che per qucsto clla po- tesse intender le cose, perchA ella avea in sA la
natura di tutte; sicchA colla terra (di cui A composla Ianima, si percepisca la
terra, collacqua Iacqua, e cosl deHaltre cose. Aristotele, uel lib. I de Anima,
reca quest! vcrsi del filosofo d'Agrigeuto: t- Terram nam terrd, Ijrmplid
cognoscimus aquam, jEt/iera aethere sane, ignis dignoscitur ignet a cui
aggiungeva pel discernimento del bene e del male due istinti : Sic et amore
amor, ac Iristi discordia lite. II pensiero d'EiiipedocIc non era nuovo. I suoi
precessori erano partiti Digitized by Google 3a4 Nel qual concetto conviene
forse riporre il preciso punto, in cui Aristotele si divide da Plalone. Questi
distinse assai bene YoggcUO intelligibile dall'antmo intelligente; Aristotele
allincon- dal roedesimo principio, che Ianima dovcssc conslare di tutti gli
elementi ddle cose chc ella ronosceva; solamente variavano neH'assegoare il
numero di quest! elemeoli. Perci6 Aristotele dice, die - quelli cbe ammetlevano
w pill elementi, facevano Ianiiiia da piii dementi risultare, e quelli che ua
> solo, di qiirsto pure volean fatta I'anima . L. I lie An. II. Protagora
fccc un passo piu avanti. Egli abbaudouu unidca cost materialc. I quattro
dementi di Empedode erano enli matcriali, e non prescDlavano il senso. Il
fitosofo abderitano pose mente al sentire, e ridusse tutte le cose ad
allretlanle modibcazioni del sentire. Luomo non era , sc> rondo Ini, che un
senllmeuto, il quale si modincava, e cost convertlvasi in tutte le cose: quindi
Iuoino era il criterio anche del vero e del false, se- condo Protagora. III.
Aristotele (ail iiiteiiderlo secondo ci6 che alcuni suoi pass! danno a credere)
fecc il terzo passo in quests progressione didee. Egli, come i due primi,
ritenne , chc Ianima per coiiosccrc ha bisogno d'essere tutto cl6 rhe conosce.
Sent! pero Iassurditli d'immaginar Ianima come una mistura materialc, alia
giiisa di Empedode; trov6 anche (also il ridurre ogni eosa al sentimeoto, come
Protagora, accorgendosi che 4 molto diverse il cnno~ scere dal sentire. Chc fa?
Conebiude, che Iaoimo intellettivo dee esscre qualdic cosa di diverse da
quattro dementi; che non puo esscre ni pure un senllmeuto vario-forme; egli
dunque A una essenza propria, una quinta esscnia, la qu.ile ha virl6 di
divenire tutte le cose c dintcnderle. Arista- tries, cosi Tullio, curn quatuor nota ilia genera principiorum
esset corn- plexus, e quibus omnia orirentur, quintam quandam naluram censel
esse, e qua sit mens. Cogilare enim, et proridcre, el discere, et docere, et
invenire aliquid, et tarn multa alia, meminisse, amare, odisse, cupere, timere,
angi, laetaris haec et similia eorum in horum quatuor generum nullo inesse
putat. Quinlum genus adhibet, vacant nomine: el sic ipsum animum, imXixi'u
appellal novo nomine, quasi quandam continuatam motionem et perennem ( Tusc. I,
z). Or quests quinta iiatura era quella die avea vlrlb, secondo Aristotele, di
divenire tutte le cose. Ma quc.sto k ben dilTicile ad intendere, come uua
natura singolare si faccia tutto! Vediamo anche il grande Ari- stotele usare
qui uno de piccoli riinedj de filosoli impacciali: il rlmedio i Della parolelta
cbe siguifica, in un cotal modo. Ora II dire che quests quiuta natura, che 4
Ianiino, diventi in un cotal modo I'altra la pongano, conviene dar loro
compagnia: se poi niente diebiarano, forz'i lasciarli da parte, come cose cbe
non possono fra Ialtre classificarsi. E per6 bo volulo accennar cotesti GlosoG
della evidenza, cbe restando da si, e dagli altri divisi, possono assai
convene- volmente formare un drappello speciale. Se non cbe forse alia loro
sebiera si debboiio aggiiinger di molti, i quali, dopo avere posto il criterio
nella cvulenza, credettero di aver deGnito ab- bastanza dove questa evidenza si
trovi , aOermando risieder essa nella coscienza. Non s'accorsero rotestoro, cbe
la coscienza abbraccia tutte le facolta umane, tutti gli atli di queste
f.icolta, anzi non solo le azioni, ma ben anco le passioni tutte^ sicebi col
noniinare la coscicuza, non banno ancora indicato dove peculiarmente I'evidenza
si trovi ^ perocebi la coscienza umana i a guisa del mare, cbe larghissimo si
distende e inGnlte isole e continent! circonda^ ni altri avrebbe fatto
conoscere in cbe parte di mondo si trovi una citta , od una terra , col dire
(i) Crilerium, sensu quo nunc de eo agimus acceptam, omnes, si sen- tentias
intimius perscrutemur, in evidenlia esse positum consensere. Dissensio est de
criteria > per quod >*, de principio nempe et fonte, a quo evidentiam
derivarunt (Tentaminum MeUiphysicorum Libri 111, 'feoUinen 1, cp. Vll i 5;z ).
Digitized by Google 3i8 . . solamente chella si giace nel mare. II che abbiamo
gia prima notato avTenire del criterio del C. M. (i). CAPITOLOIXXIII.
COIfTIZrVAZIOEIB. La seconda dclle trc grand! classi di sistemi tnlorno al cri-
terio della certezza da noi accennate, i di quclli, che I'indizio del vero e
del certo non posero nellanima nostra individaa, ma fuori di lei. Qnesli,
ribassata la ragione di ciascnno, danno tutto allau- toritii; e si partono in
quell! che danno tutto allantoriti di- vina, e in quelli che danno tutto
allautorita del genere umano. I primi nuovamente dissenton fra loro. Perocchi
ve nhanno che attribuiscono ogni criterio allanto- riti divina conosciuta per
la rivelazione afSdata alia tradizione di unacbiesa^ e quest! ancora variano
secondochft qnesta chiesa la trovano qua o co\k, e dichiarano questa o quella
societi per tale chiesa. Daniele Huet, a ragione desempio, disconobbe ogni
principio di certezza , che non fosse posto nella divina rivelazione in quanto
i conGdata alia Chiesa cattolica. Altri poi riposero il solo principio di
certezza nella divina rivelazione depositata nelle sacre scritture. Altri
ancora convennero con quest! nellammettere il princi- pio della certezza
nellautoritii divina, ma la vollero conosciuta per immediata interiore
ispirazioue^ i quali si possono dire ullra-mistici , o fanatic!. Ove bisognasse
accennare alcnno di colestoro fra gl italiani , pronuncerei il nomc di
Bernardino Ochino (a). (i) Cap. XV. (a) Ecco il pancgirico die Odiiiio fa alia
ragione umana : M La ragione adunque naluralc, non sanata per la fede, i
frcnclica ot stolla. Si che puoi
pensare, come possi csserc giiida el regola dclle cose M soprannaturali, et
come la sua erronea filosofia possi essere fondamento M della teologia, cl
scala pcr salire ad cssa. Se la ragione umana non fusse N freiietica, ben die
liabbi jioco luinc dclle cose creale, pure se ne servi- rehbe, nun solo in dcrarsi alia cogiiiliuiie
di Dio. ma iiiollo pin in co- Digitized by Google 3*9 Quanto poi a quell! die
danno tutto allautorita del geaeru umano, potrclibersi suddividere in piii
fazioni, delle qaali due tono le principal!. ' ' L'una dichiara infallibile il
genere umano, perocche le sue facolla conoscitire colletliramcnle pre*e non
possono errare. ' Lallra dichiara infallibilu il genere umano, perchi deposi-
tario e lestimonio viridico delle primitive verity da Dio conie* gnate agli
nomini. risca manifesto, come sensazioni
cd idee nascano pel Roma- gnosi ad un corpo, o pih tosto sostanzialiucnte nou
sieiio cbe la cosa stessa. rocebi diceodo
desensi , si coinpreudc gia ia potema semieote iu(br> matrice degli
organi del seal! re. () Lasciando da
canto I'improprio e Ierroneo di ipiesta mauiera fb parlare, cki non ne avvisa
k> nebbioaa oscuriiaV die cosa i corto; perocebd niuno pensa a suoi alti, ma
solameule pensa agli oggetli de' suoi alti : allihcoulro oellio penso di
Cartesio, d il lilosofo cbe pone il pensiero, e nienie s iolrcmetle seoza sua
buona liceoza, uicnie s iulro- luette se non cid che si vuol porre
espressamenle allesame. Noo pud cs- sere adunqne uu boon priocipio della
lilosofia I Io serto di Romagnosi. I filosoli ledeschi sono qneUi soli, chio
sappia, cbe abbiaoo seotilo la forza di quesla osserrazione ; ed d percio, die
ne loro libri veggonsi fare tanli sforzi per iaolare il pensare, e rioTcnire
quel sempbee pensare che essi chiamoHO pensare come pensare, Cooviene cbe diamo
il raerito a Digitized by Google 334 Egli i f (lunqiie a pofre tiitta la fuozioDi
silo ( I ) e in altri suoi scrilli. Egli non si allai^a pcro a parlare
dcllo sUlo normale dc' sensi, e della potcnza eslerna, come sarebbe paruto
dover egli fare nel suo sistcma, nia tutto si occupa a parlare dello slalo
normale della potenza iolcrna o sia della menle (a). II Romagnosi colloca nella
menle una coUl virlii, cbc i si> mile assai alia s'ls medicati'ix cbe
Ippocrate mellc nel corpo umano. u Un potere occnllo, dice, esisle (3), il
quale per s^ agisce e sempre, sia nelle pcrcezioni per bene ravvisarle ed
impri* merle nella memoria, sia per
asscntire, dissenlire o dubi- lare nei pcnsieri, e non gli abbandoua raai
quando ci oc- (i) Che cosa c la mcnte sann ? Milauo 1827. ('i) Se fosse vero
clic luUo il saper iioslro ^ uo prodoKo medio di que- st! due priucipj
cospiraiiti a produrre uno stesso rffclto, a noi sarehhe iti)|M)asibile il
dislinguerc quest! due priucipj slessi,
dovremmo coofou- dcrli insieines e preuderli per uiia com soU. Cid apparirk
mauifesto a clii ridella, die tulto il uostro couoscere d il prodollo di una
coocausa: questo prudodo adunque della coucausa tiou ^ la slessa coucniisa; si
dec dunque conosccre que-sta per una induiionc ( die pur dee csserc prodotla
daila atessa concansa, pcrocchd anche riudusiooe i un alio di conoscere )
dcrciu ncl uostro sapere non potrddie niai cadcre it coucetto deilc due potenzo
die il produstero. Il sisletna aduuque del Uoniagiiosi sa- rebbe seippre
ipotelico e impoaaibile a provarsi, cio^ egli ^ ule^ cbe eraztone del solo
spirito7 In quealo secoudo caso aodie lo spirito opera da s6 solo, ud lullo il
saper nostro ^ ona produiione della coinpoleuza. Cbese poi un prodotio di
qucsia coinpoleoza e il concetto, die incite in campo il Horiiagnosi, di queslo
polere occullo; egli e ben singulaie il modo onde opera questa loiiipoteuza,
giacdi^ produce uii dfello che dislrugge se siessa, produce hi coguiztoiie di
uua causa diversa al tutto da s scetlibili di version!? Se cangiaiido i termini
si cangia la vi* brazione, come dovrebbe cssere, allora s' intrndc in che modo
quelle vibrazioni or sicno il vero assoluto, or non sieno; ma in tal caso i
falso cbe quelle vibrazioni non cangino. Se poi ri- mangon ferme le vibrazioni,
anclie mulandosi i loro termini ; allora egli par cbe debbano restar sempre
qiiello che sono nna volta, e se sono il vero assoluto, debbano esser sempre il
vero assoluto. Non ci veggo mezzo. Ma di nuovo, tiriamo innanzi
nell'esposizione de pensieri del N. A.^ sperando cbe il lettore non pretenderii
da noi che gli rendiamo chiaro Ioscuro: e g accontenteri se noi, collesporre
qua e col4 i nostri dubbj , veniamo confessando, che il bujo ci par 6tto da non
poterci in molti luoghi penetrare sgiiardo, n pur di nottola. Di quel potcre
occulto egli favella in un altro luogo, de.* scrivendol cost; Di lui dir si puu
ci6 che scrisse Virgilio, spi- 1 rittu intus alit , totanujue infusa per artits
mens agitat molem. u Questo verbo non h la sensualila , ma risponde alle sue impression!. Non k I' immagina/.ione, ma ne
fa seiitire le convenienze e le
sconvenienze : non i la cogiiizione, ma ne K accompagna la formazione. Non i
dunque rintellelto ma la u podcsta chc ne autcntica i prodolli n . K Egli non
crea, non produce nulla, ma fa le funzioni di
supremo ceissore che approva e disapprove, accoglie e ri- gelta, ed anche col suo silen/.io pone in
guardia a non pro- u nunziare verun giudizio dcGnitivo. A lui spetta
esclusiva- mciile di accordare la
prerogativa del saperc e di inveslirne
le cognizioni nostre. In breve, 1 autshticita scieutiGca 6 il solo uIGcio competente di questo potcre (). Ma se v' ha in noi questo potere iutimo,
questo giudice, censore supremo del sapere, che cosa potra egli giudicare, che
cosa pronuncier^ del saper nostro? secondo qual regola lo di- chiarerik
autentico o non autenlico? Se il sapere umano non i che un prodolto necessario
di due principj concomitant!, quel censore supremo non potri dire mai altro, se
non; questo saperc i prodolto dalla sua (i) f'edule/ondamtiUali siilfarie
logica, lib. II, cap. VI, n. i6, 17. Digitized by Google causa mcnire ella si
trorik In Islato normalc; quesl'altro i pro* (lotto (lalla siia causa mentre
ella fu In Istalo morboso. Ma lo stato normalc c lo stalo morboso della
concatisa non si |>uo conoscere sc non dal prodollo stesso, cloi dalla
qualila del sapere prodoUo. Qual(> Sara dunijue questa qualitli , o Indizio
della sanita della causa? Kel Romagnosi Irovo accennati due Indirq, a ml
conosccre se II sapere prodollo i generato dalla sua causa in istalo nor- malr,
o no. II primo: Come la saiiil^ si sente per un colal diletlo clio rcca, cosi
parimentc si sente II sapere se i autenlico col senso rationale. Di qiii si
vede perclii II Romagnosi dia norac di senso a queslo supremo gindice del
sapere: Esso dunque, u dice, non i un
giudi/io inlellellivo, ma un senlimciilo pari u a (piello del piacere e del
dolore. Voicndo dunqnc Irovarc e una denominazionc piii propria, io lo
chiumcrei poUrc di darsi pace
mcntalc ( v). II secondoc Come le
polenze operano sempre plu spesso in islato di s.inita, die non sia in isl alo
morboso, cos'i ( al- meno secondo V aiudogia della sanita fisica ) si
giudicliera au- tenlico il sapere, quando Sara confornie a qnollo ebe liene la
maggioranr.a degli uomini: u Se Iordine menlale del tal uomo corrispondc a qoclln col quale la natura
conforma i u concetti della gran massa degli allri uomini, allura si ve- rilica lo stato della ragionevolcz/.a. Sc poi
I'ordine mentalc (i) VcdulefonJamentaK suUarie logka, lib, II, c. Vfll, i3. Poco
soil# dirc: Qiieslo senllmeaio e propriamcnle piii esteiico cbe razionale . (
Pirelli dunque cbiamarlo senso razionalc? c non dirlo a dirillura cslelico?
forsc perclii cumparlsca in parole rationale, quello ehe in fallo i i>rn:io-
nale ? ) Ma sotlo qualunque forma , egli
rassomiglia ad una vibrazione * psieulogica inevilabile ed irresislibile .
Siamo qui colie vibraziooi I 11 vero h una vibrazione, il polere cbe distingue
il rero k uualira ribrazionc! Ma no; egli dice cbe solo rassomiglia ad uiia
vibrazione. Sc rassomiglia ad una vibrazione, e non i una vibrazione, ebe eosa
sarb dunque? una quasi- vibrazionc? cbe linguaggio i codeslo? ba egli nulla di
filosofico? No cerlo ; quando il lingnaggio filosofico non si dclinisca: degli
enigmi, che non ab Digitized by Google CAPITOLO XXV. 34 CONTINUAZIONE. A quests
medesima classe di iilosofi, che feccro dipendere e risultare il vero, e il suo
criterio, dalla/.ione associala di rol e della natnra, si possono ridurre quasi
tutli quegli anti- chissinii sistemi, i quali fccero del mondo nn animale , e
gli diedero nuanima. Anassagora, e alcnui venienti dalla scuola italica,
riGutali i seusi, ainmiscro la nsente a criterio del vero, ma volcano essi che
questa fosse purgala, acciocchi, diceano, potesse convenirsi ed unirsi colla
mente comune. Per simigliante modo Eraclito volea che la menu comune fosse il
criterio della mente ptirti- colare,]ai quale, dove si nnisse a quella, era
retta, doveda quella si dividesse, fallace. Di che dednceva la fallacia dc
sogni^ per* ciocchi affermava, che ncl sonno viene separandosi la mente
singotare dalla comune, e in questa cotale secrezione della mente singolare
dalla universale poneva lo stato di chi asson- na. Di qni pure credea di
spiegare il senno niaggiore de' vec- chi, dando all auima Delia vecchiaja una
relazione maggiore colla ragione comune e dunna: xotvdf xai ^eiO( X6yo( (i).
CAPITOLO XXVI. COSTtNOAZIOaB. Tutti i sistemi accennati fin qni non pongono il
criterio della ccrtezza in una prima veritd, ma in qualche indizio della tvrilA.
Inalo, io il manderei a leggere il Leviatan dell Ilubbes, c. XXXI, e il Dt
Cive, c. XV. Nelle diverse opere del Romagnosi si vedono manifestissime traccie
drilo sludio che egli pose in qoesto aolore, pel qiule seienlia el eognitio
nihU aliud aint, quoin aninit ab agenlibus extemis per corporis humani paries
organicas excitalut tumullus. Lascio a rni piace il fare un diligente coafronlo
fra quest! due aulori. to osserver6 solo, che anclie un allro italiano, Ugo
Foscolo, derivodall Hobbes il soo aislema sulla sperama (Vcd. Saggio sulla
sperama, negli Opuscoli filosqftci, Vol. It ). In que tempi si studiava quasi
direi di furto da certi giovanetti il sofista di Mal- mesbury, le cui opere non
eraoo comuoi in Italia, e lor pareva di fare un grande acquisto di scienza,
giuogendo a fursrgli a man salva qualcbe con- cetto strano, seoza bisogno di
cilarnc il fonte. (i) Vcd. Arisl. De Anima, I, a, 3. Digitized by Google 343 Ci
convleno ora annoverar gU altri, die cercarono non un Sndizio dd vero, ma la
verila slessa,. V cssema delta verita. Quest! sono qudli che posero il criterlo
del rero nelle idee. Mon sar& diflGcile Iavvedersi, die qui cadono i
maggiori nomi. Volciido per6 noi dassificare anche questo genere di GlosoG,
come abbiani fatlo del primo, troviamo nna dilBcolU vie mag* giore. Pcrocchd le
differenze loro procedono dalla direrM ideo~ logia che suppongono, come i
precedent! variavano quasi tem- pre dalla diversa psicologia che i loro autori
avevano abbrac- ciato. Conierrebbe adunque sporre in prima i varj sistemi de*
GlosoG di cui parliamo intomo le idee, e venir quindi accen* naudo i critcrj
che in esse ponevano. Ma questo ci condurrebbe oltremodo a lungo. D' altro lalo
le diifercnze di tali sistemi nascono principal* mente da due cagioni: i. dall*
ammettere pih o meno idee come primitive, in cui risieda il criterio della
certezza^ a.^dal- r attribuire a quelle idee, che tolgono a fondamento della
cer* tezza, plu o meno interior! qualila e virtu. Or alcuni furon piu parchi
nel numero delle idee dichiarate funti di certezza^ ma in vece eccedettero in
attribuire a quelle piii di enlila , che veramente non abbiano. 11 perchi non
si pu6 a& pure class!* Gcare quest! sistemi secondo il maggior grado o
minore di semplicita e di complessita che dauno al criterion perocchi alcuni
sono piii semplici di altri sotto un aspelto, e sono piii coroplessi sotto un
altro. Tuttavia possiamo sempre ailermare, generalmente parlando, che I'errore
di quelli che meltono il criterio nelle idee, ^ o di eccesso, o di difcllo,
ovvero delluno e delPaltfo insie- nie sotto aspetti diversi. lo mi limiter6 a
dare qualche esempio dell'uno e dell' altro sbaglio, pigliandolo si dall'
antichiti ^ che dalla storia della recente GlosoGa. Fra quelli che peccarono di
eccesso, per I'antichita nomi- iier& Platone^ pel tempo moderno, Sthelling.
^ Fra quelli che peccarono di difetlo, secondo certe mie con- ghietture, penso
di poter nominare, fra gli anlichi, Pittagora^ per I'escmpio poi moderno,
Hegel. Tutti quest! per6 sotto un certo panto di vista peccano di eccesso. by
Google 344 CAPITOLO XXVII. CO.NTI.'fVAKIO.ffi. ilo gi.i osservalo, die le due
gratiJi scuole in che si parla la (ilosuda antica, la jonica, e 1 ilalica,
lianno per base 1' ana la specuiazionc individuate, I'allra la iraJizione del genere
uma- no (i). Queste sono come due fiuinanr, che Del loro corso coiifondono qna
c cola le loro acque ^ le qnali per6 anclie mescolate ritengono lungamcnte il
loro colore, e il loro ta> pore originate. Quest' acque si veggono unirsi c
mescolarsi piii in abbondania al tempo di Plalone; ma non si per^, chc non si
vegga questo grand' uomo maggiormente avere attiiito alia scuola ilalica e
Iradizionalr, come Aristolele alia jonica e speculativa. Gi4 ho nolato il
progresso die, stando alia testimonianza dello stagirita, si ravvisa da
Empedode, a Protagora, ad Ari- stolele, circa la dollrina dell origine e della
certezza delta cognizioni. II principio fondamenlale di quesla scuola si che 1'
anima stessa conosce le cose per uu colal modificarsi che fa e conformarsi dia
stessa alia guisa degli oggelti che dee co- noscere, sicdi6 dIa divenia ogni
cosa in virlii della cogni- zione, ra oyra irCu; :iar7a. Quest! filosofl non
erano adunque giunti a ben distinguere le idee dagli alii dell' anima, e dall'
anima stessa-, ma le con- sideravano ancora come semplici termini dell' atlo,
della stessa natura dell alto, modi in somma dell' anima. Nella scuola italica
si ando certamentc pin innanzi; si giunse a intendere, che 1' anima e le idee
avevano propriela non solo diverse, ma contraries e perd, chc polcvano queste
seconde essere bensi unite all' anima, agire ndl anima, divenire ter* mine dc'
suoi allis ma non mai confondersi coll' anima s non potevano mai essere puri
modi o accident! dell' anima. Que- sta distinzione fra la natura delle idee e
la natura dell ani- ma, h il principio fondamenlale della scuola ilalica, da
cui , come dissi, discende massimanicnte Platoiic. () Veil, il Nuovo suggio,
Sez. IV, e. 1, art. XXIV. Digitized by Google 345 Le idee, in quanto sono
nostre, sono unite allanima nostra^ sono termini de nioi atti. L aver tuttavia
conoscioto cfae non possono essere pari modi dellanima, che son di diversa na-
ture, che sono an termine distinto dall' anima essenzialmente come i distinto
un oggctto che tocco con una mano d;illa mano; questo era an gran passo; e
questo passo si trova dato gia dalla filosoGa nostra nazionalc Gno dalle sue
piii vetuste inemorie. Tuttavia, dopo che si era fermato questo vero Inminoso
in- contravasi tosto una terribile difGcolta. La dilBcolUt consisteva nella
dimanda, che cosa sarebbe avvenuto separandosi le idee dalla niente umana-
perocch^ essendo queste due cose di di- versa natura, questa scparazione nou
dovea dichiararsi impossibile a concepire. La difGcolta di rispondere non
istava dalla parte dell'anima umana. Perocchi si avrebbe potuto dire, che
I'anima intellettiva , separandosi da essa le idee , periva , come 1' ani- ma
scnsitiva perisce separandosi da essa la sua materia: ni ci6 involgeva alcun
assnrdo, conciossiaeb^ la reistenza della no- str anima intellettiva non i
necessaria. Con tale risposta si veniva a dire solamente, che le idee
congiungendosi ad un principio sensitive, erano quelle che il rendevano
iutellettivo, cio^ Ianima intellettiva con tale congiunzione creavasi. Nulla di
assnrdo in ci6, nulla di difGcile a intendersi. Ma il nodo forte stava dalla
parte delle idee stesse. Queste non si potevano annientare, perocch^ la loro
propria natura , quale si manifesta dalla sola osservazione, le mostrava
fornite di una certa immntabilita, necessiUi, etemita. Oltrach^, se fossero
anche queste perite, non sarebbe state al tutto vero ch'elle avevano uuessenza
separata, e de caratteri opposti a quelli dellanima. Che cosa potean dunque
rispondere i Glo- soG a tanta difGcolta T lo so bene, che cosa potcano
rispondere questi GlosoG: ma la risposta nun fu trovata, e quella difGcolta fii
uuo scoglio a ctii s infransero e si sommersero. Que vetusti GlosoG, e dopo di
essi Platone, che diede il proprio nume al sistema, veggendo da una parte, che
le idee erano distinte dalle spirito uiuano che le percepiva, ne potcano
menomamente da lui dipeudere ^ dallaltra, che quelle idee Rusmimi, It
Rinnovamento. 44 346 (ole, isolate , a quella goisa clie splendono nella mente
, aon potevano stare, aggiunser loro colla ioimaglnazione la sa$sistea-> la,
e ne fecero altreltanti enli per si, ci(i che equivale a dire, altrellantc
divinili (i)- II dislingur.rc le idee della meete utnana che le intuisce, i nn
semplice nsultaiuento dell'osservazione. Ma il separate le idee dalla mente, e
dare a ciascuna una propria sussistenza, i il punto dove Platoiie abbanjona il
buon metodo dell' osser- vazione, e comiacia a fabbricare un' ipolesi. Platone
adunque divinizzu le idee; e lo spirito, sccondo lui, conteoipla in questi Dei,
che ad esso si congiungono e si cot municano, Ieterna, verita. 11 suo peccato
d' cccesso in tale crilerio del vero fu dop- pio; perocchi egli non s' accorse
i che tutte le idee rien- trano e s' accolgooo in una idea sola, lume della
mente (a); a. che questa idea, questo lume uon manifesta aU'uomo, a cni si
comunica, una reale sussistenza in si, ma tenuissimar mente a lui mostra quella
entita, che noi chiamiamo ideede o iniziale. In tal modo 1' errore di questa
scuola i dirittamente Poppor sto di quello che abbiamo prima accennato. Prima
vedemmo, che si convertivano le idee nell' anima, confondendole con questa,
rendendole modi di questa. Or la scuola platonica con* verte in anima le idee
(3). Tutta la filosofia aulica ruppe ad (i) Egli i vero che ne' Plntonici si
parla di un Verbo divino; ma queslo Verbo lo descrivono piulloslo^come un
coniplesso di tulle le idee, un Dio pomposlo di molti Dei, cbe come un* idea
prima,, un Dio al lullo semplice. (o) Furoiio cbiaraali Dpi inlelligibili,
rniro,' Sisi. Erano qneili diversi da- glj Dei intelleltuali e opposti agli Dei
sensibili aiV^'aTS/. Per allro queslo rrrore non i di Plaloue i egli k
tradiiiouale, e la sua origine si perde nell aulicbila. Procio lo atiribuisce a
Paniieuidc. Parleudo dal priiicipio, cbe ogni idea sia un Dio, egli argotneiila
non polersi dare I'ldea del male, come quella cbe non polrclibc essere un Dio,
nmms cnim iticii, ui ait Parrnemties, Deus est, tviiwtf arat a t'Sta
^ioi>'ai( a i$fea^ai eeptaiii. lo perd VO so- spetlando, o che questi luoghi
di Arislolele sieno stati inlerpolali pel gua- slo a cui soggiacquero i suoi
tibri, o che egli li scrivesse per tempo , quando non avea per anco hen fermi i
peiisieri ; se pur , come dissi, li ebbe al lullo fermi giammai. Digitized by
Google 348 II partirc dall' atto delP Jo pensante , che contemporanea- mente
pone se slesso, e pone il mondo, come faceva Fichte , non un cominciare la filosofia da un'idea
semplice, ma da una moltiplicita d' idee. Gia net primo passo di questa
filosoBa le idee di uno, di piu, di differenza, di opposizione sono cora-
prese, e di esse non si rende ragione: non si sa qnale sia pri- ma, e qual
dopo: quell' atto cost ampio dell' lo ponente non b dunque provato : quando non
b provata la generazione e la cracit4 delle idee, che ad aOermarlo sono
necessarie. Convien dunque cominciare la Closofia da un pcnsiero primo,
semplicissimo, il qual non abbia bisogno di nulla, dove non si trovino
diiTerenze, dove perci6 non si possa distinguere n^ oggetto'ni soggetto, n
reale n ideale, ni cssere nk sapere , nk spirito n6 corpo, ni finite ne
infinite, ma tutte queste cose stieno in lui unificate: di maniera che egli per
si sia r indifferenza di ogni difTerenza, sia I identity assoluta del reale e
dell' ideale, sia ad un tempo essere e sapere, uno e piu, in una parola sia
tutt'-uno. Schelling chiam6 questo primo concetto, da cui prctese cbe partir
dovesse la filosofia , 1' idea delT assoluto, Questo assolulo cos'i conccpito
era evidente per se stesso , non avendo nulla dinanzi da si , e per6 era quello
da cui la filosofia dovea muoverc per esistere, e a cui dovea essere condotta
per dimostrarsi. Or una tale idea in cosi fatto sistema faceva t'ufllcio del
grande criterio di ogni verita. La critica fatta a Fichte, secondo noi, era
giusta; ma non era ben lavorata da Schelling 1' idea dell'assoluto, molto meno
I'idea di quell' assoluto che dovea dar principio c fine alia filosofia.
Sebbene non tolga io qui a fare I' esame di questi sistemi cbe espongo,
tuttavia non posso cessare dall' agginngere alcnne riflessioni anche al sistema
di Schelling, per non dover poi tornarmi altra volta sopra di esso, o lasciare
iogombrato di dubitazioni I'animo de' lettori. Rifletto adunqne, che 1.*
Schelling fu costretto di ammetterc una facoU4, ebe percepisca immediatamente
1' assoluto in istretto senso: or cbt Digitized by Google 349 conobbe mai
Icsistenia di questa faeolta? vha egli qiii evi- denza ? o non piu tosto ,
quando pare si potesse provarne 1 esistenza , non dimanderebbe una assai
astrusa dimostrazione? a. Scbelling allorquando dissc che il suo assoluto non
dovea esserc n4 oggetto nd soggetto , ni alcana diffcrcnza avere in fa tratto
in errore dalla natura limitata del lin- gnaggio. II linguaggio i pur sempre un
fonte infinito d'errori^ 1 nomo i coslrelto di fame uso, perchd i uno de mezzi
piu potenti dello stesso mentale ragionamento , e se non k som- mamente
vigilante in quest uso, cade in errore. E veramente, il lingnaggio moltiplica
gli esseri, d^ corpo ed esistenza a quello cbe non ne ba. 11 nnlla. per esempio,
si conccpisce per un quaicbe cosa; mediante questa parola > nulla n onde il
chia> miamo; sebbene esso sia nulla, o, se si vuole,.la riniozione
dellessere. 11 finilo e IinGnito ci vengono prcsentati alia mente come due cose
appartenenti quasi direi ad una stcssa categoria , Iuna limitante
scambievolmcnte Ialtra. DicesI , a ragion d esempio, che il finito non i 1
infinito, e questo non i quello ^ pare adunqne cbe ad entrarabi manchi quaicbe
cosa. Intanto non 6 vero cbe all infinito manchi quaicbe cosa, appunto percbi
se gli mancasse, non sarcbbe piii infinito^ come non e vero cbe allesscre
manchi quaicbe cosa mancan- dogli il nulla, che anzi non gli manca, appunto
perch& non ha il nulla. Il persuaders! adunque, che a trovare I assoluto
sia necessario sollevarsi sopra tutti quest! opposli, a fine di far SI cbe
quest! opposti sieno in lui uuificati , h un pensiero al tutto falso ed
erronro. 3.* Scbelling credette di partire dal sentimento , in luogo di partire
dal pensiero, come Fichte^ perocchi 1 assoluto di Scbelling i finalmenle un lo
di sentimento. Ma egli non t awide , cbe questo era un andare indietro. Non
savvide del- Ialta ragione che v avea di dover cominciare piii tosto dal
pensiero che dal sentimento , la quale era, cbe non si pu6 partire dal sentimento
senza usare del pensiero, e per6 che il suo punto di partenza , sebbene
sembrasse semplice a primo aspetto, era per6 veramente meno semplice di quello
di Fichte. veramente
1a.ssoluto-scntimento di Scbelling dovea final- mentc chiamarlo, come egli pur
fa, un idea deWassolulo, e cosi a Digitized by^Google 35o confessare, che ci
scappavft dentro il pensiero ( Iidea ) non av ghiettura con qnalche buon
fondamento. Pitlagora niosse la filosoGa dalla dottrina de' numcri, e pro*
priamente dalla dottrina intorno I'u/iitd. Ora, onde avvcnne cbe il niosofo di
Samo desse alia filosofia un tal principio? Secondo me, nacque da questo : Egli
vide, cbe conveniva cominciare da un dato seraplice ^ perciocchi tutto ci6 cbe
non i seinplice, presuppone il sem* plice, e ne esige il concetto. La nostra
mente adunque, secondo I'ordine logieo delle idee, dee partire dal sempUce c
venire al composto. Doveasi adunque cercare qual fosse il piii sem- pliee di
tutli i concetti della mente umana^ perocch^, Iro* vato questo semplicissimo
concetto, di necessita egli era il pri* mo, da cui partisse la mente in tutte
le sue operazioni , ni egli avea bisogno di alcun altro concetto, quando tutto
ci6 die i composto ha bisogno all'incontro de' concetti elemeiitari. Si pose
adunque Pittagora a cerc.nre il semplicissimo dei concetti colla virtu
dellastrarre ^ separ& dalle rose tutte le loro qualita, separ6 la loro
stessa sussistenza , ogni determi- nata energia^ e dopo di cii^, qual concetto
gli rimasc? un con- cetto vuoto di ogni contenuto, quello dei nunieri. Fra i
nu- meri stessi poi, il primo, il precedeute a tutti gli altri i V imo. Per6 da
questo inizi6 la sua filosoGa, come da ci& cbe, logi- camente considerato,
era anieriore nella nostra mente, secondo lui, a tutte le possibili coguizioni.
Lunita i un concetto, sul quale la facolta di astrarre non pu6 esercitar piu
veruiia operazione: perci6 egli sembra immu- tabile, ossia non suscettibile di
modificazione alcuna. Questa immutabilita dell'uno, questa indivisibilita,
scmplicita, e per- petua uguaglianza con s^ medesioio, dava all' uno gli
attributi del fcrOj che sono appunto di essere immutabile, indivisibile, c
perpetuo. Quindi tutte le cose eran vere quando avesscro in si luedesime 1
unitA , come quella che era i' essenza stessa del vero. Ora io diceva , che
questo sistema intorno al crilerio del vero i sbagliato per difetto. Voglio
dire, cbe I'uuita sola non pu6 essere il criterio del vero, Ella i un'idca
sovercliiamente lambiccata, e affinata 35a dall astraiione, di guisa cbe ne luoi
viscer! non contiene pi{i cosa alcuna, niuna entity, niana attiviti
produltrice', ella non & se non una modalith dclT essere ; ma 1 essere
stesso se n 6 fuggito, e per5 manca in quell aslratto cii che pu6 formare
Iesemplare degli csseri tulli, vale a dire manca V essere essen- ziale. Per6
ella non 6 die una vuola creatura della menle nmana. e non esprime niente di
attuale, ni anco inizialmenle(i). (i) ParmI ili polerc aggtuogere un* altra
conghiellura suHessere venuli gli aiitichissimi liiosod al concello delTuoUa
scevra da ogni conlenulo, c sulTavcr volulo da questa dar la mo^sa alia
dlosolia. Osservasi riuscirc di sonim.i difficolli nlle menti de* primi
filosofi it pensare a delle nature puramentc spiriluali: tuMo si vesliva di
corpo dalla loro imniaginaiione : ed egli pare, che per Piliagora siesso non si
dessero anime separate. Daliro IhIo quesli fitosofi assai cliiaramenie vedevano
che gli oggclli immediati del pensiero, le idee, erano al tulto scevre di
corpo. Rimossero duiique il corpo j ma rimosso questo, il primo atto della loro
niente fu di coDcepire de* meri oumeri privi di ogni emith spirituale, che
venne peseta aggiuiita loro con una seconda operatione della menle. Id fuiido
quesla conghiellura sopra alcuni passi degli antiebi scritton. Eccone upo.
Slobeo ci conservo alcuoc cose di Mercurio volgarmenle dctlo Trismegislo. In u
luogo (Serm. XI ), Tazio domanda a Mercurio, che cosa sia secondo lui la petma
ybeita', titV Vfttntv oX*tfifap*Questa 6 veramente la quest ione del
criierio,perocch^ la priuia veril^ ^ quclla da cui UiUc 1 alirepren- dono
Iesser vere. Or ecco come risponde Mercurio:
Quell* iino, e solo, che M Dou coitsla di iiiuleria, non ^conteiiulo da
corpo, seuia colore, seiiza figura, non soggelio a mulazione o alterazione
veruna, sempre esistenle ENA xai MONON
to* /uJ I^c/'Xirc, roV fi>t #V rJr aXftt'fisTtxow, rep ftariTTWt T9P
drftvrert rep oXXo/oc/V/ifrorf rsr aV opra In questo pa sso pare che si renda
ragioiie deirunifa; pare che si raoslri come que hlosofi, tostuch^ aslracvano
dai corpi, non si poleano ferniarc colla menle loro, se non giunli alPunila
astralla. lo so, chc si puo render ragione dc numeri di PJllagora sosliluiu
alle idee, anche mediante la scieuza esolerica, o arcana. Ma mi sembra quesla
vitt uii po graluita j e per me sono piu verisiniili le due ragioia addolle ;
lie credo daltra purtc, che la logica npparlcnessc alia setenza arcana. fJi
piti si osservi, che il sallo della niente di Piltagora nel Iroppo aslral- lo,
non e cosa stngolare, ma comune: e iina legge della uniaiia loeute non aijcura
furhlicalH uelT apprciisione degh enli spintuali. lu eseinpio d uu simile
errore rccheiu alcuni hlosuli ledeschi, e fia di essi I Hegel. Quesli hI
fbrmnle della cognizione, al puro pensiero ( noi direino all essere idenle )
danno il nonie di nulla ( Hegel, Lo^ik ). E perch6? non per allro, se non
j>erch^, levata Hall essere ogni deleriiiiuazioDe, sembra loro che non rcsli
allro the il nulla , quuudu veraineuie rcsla aucora uu lume preeUro della
Digitized by Google 353 Di pUi, VimitA astratta non si pu6 in alcuna manicra
con- cepire prima dell ewe/tf, da cui ella fu astratta; e per6 i filo- sofi,
die partirono dallunit^, come dal primo sapere della mente, furon tratti in
errore al vedere, ch cssa h pin scm- plice, astrattamenle presa, dellessCTe. Di
qni concbiusero, che sia antcriore a questo nella mente. Ma Iargomento non
tiene^ perocch6 ella non i cosa che stia separata dallessere, e pcr6 non i cosa
che possa vcramente vantare una semplicila mag- giore di qncllo, se non per una
cotale illusione della mente stessa, che si persuade di concepire Iunita
distinta dallessere, ma vcramente non la concepisce se non aggiungendolc senza
avvcdersi Iessere stesso , cioi concepcudu Icssere dellunita, e Iunila dell
essere. Quindi che i lllosoG di questa scuola, non potendo fer* marsi nell
unita , o nei numeri astratli dall essere , il che renderebbe la loro filosoha
al tutto infeconda , sostituiscono poi all unitd V essere stesso, senza
giustiflearne il passaggio ( i ), e riuntrano cost nel sistema che noi
riputiamo pel s(do vero. Di fatti, 1 essere a cui essi passano (sebben
gratuitamente ) 6 appunto quello in cui noi facciamo consistere il principio
della' ineDte. Sono poi costrrtlia distingucrc queilo nul/a da ua
aUronu//eVir7v, iffaxc, xal ouoiop iaor^ xaC fsortfsiv fV rm sfro/) rdara
cvxo^aprdr $\ Tf{ d KaXaJra^, xat fitfian didxw, du nrfdyuan, rie Xdyev, eiv\1
nostro sisicma, c che, come apparlsce da tali document!, non si pno dire gi^ di
fresca data, u6 d'allra uazioiie, mu e atUichissimo, e tialianQ. Digitized by
Google 3$5 unitd, da cui hanno dato principio, csi bea presto trapas sano a
convertire gli esseri ideali in sussistenze esterne, c pre- cipitano con ci6
sciaguratamente in quella idolalria delle idee, a cui abbiamo vcduto essere
stall addetti i Platonici, eredi di tale errorc (i). (i) 11 dolliisimo card.
Giac. Sigismondo Gerdil lenla di fare Tapologia di Pittagora, a cm non vorrcbhe
chc fosse apposto 1 errorc d* aver con- vcrlile Ic idee in alircMante drilJi,
impulnndo tale errore al solo Plalone^ e anro a qneslo dubhiosamenle. t
AfTrrmando PiUngora *, cosi egli,* seoza cbe se ne possa asseguare it quandu.
Ora Vico prctcadc, che le essenze dcllc cose fossero cbiamate presso i lalini
DU immortales, benebS egli ccr- cbi di scusarne i filosofi ed altrihuirc
I'errore at solo volgo ( DclV antichis^ sima sapienza , ecc. , c. IV ). Questo
prova appuulo cid cbe noi diciatno deiranlicbita deiropioiouc ebe Ic idee
fussero ahrctlaiitc data. 1.^ So benc> cbe Gio. Lorenzo Mosbemio s*afTa(ica
di purgare dalle dottrioe idoUtricbe non solo Pittagora, ma ancora Plalonc, e
Boo gli scrit* tori platonici. Ma cou quale argoracnlo il fa egli 7 non da
biiou crilico: iulto si riduce a dire, ebe
non h a credero che quegli uomini fossero coslgolE da non vedere
Terrooeita ditsli dotlrine, e che per6 convieu dare tm altrosigoiGcalo allc
loro parole m. Non parrai die una tal ragione possa bastarc: se valesse quel
suo arbitrario principio a inlendere gli auturi ia roodo al tuUo diverse c
contrario allc parole cbe usano costantemeute, noi potreromo Care de* grandi e
dcbc lunar) su tutti gli scrittori, ed assolvere la Blosofia de* pagaui da
tulle quantc le stravaganze da essa insegnale e profesaate. Non ba meditato
abbaslanza il Mosbemio in quell incredibile roa verissima inclinazionc ebe
aggravava gli uomini innanzi al cristiancsimo verso Iidolalria o la
divinizzazione di tuUc le cose. Questa i un gran fatto cbe appartienc alia
storia della umaniti ( V. Frammenti di una storia del- VEmpietd. Milano,
i854)> 5 " basta a purgare dulierrorc di cui parliamo la scuola di
Pitta- gora, lo scoutrarsi ncgli autori dt essa iu alcuoe idee giuste e
bellissime circa la diviniU. Lerrore non k ebe uua corruzionc della
verity. nella scuuU iulica cI6 massimamente
si avvcrdi peroeeb^ clla e dindoie principal- Digitized by Googic 35y hng, come
Platoue fa dt Pittagora; ma dipartendosi egU dal suo maestro, fece il viaggio
nootrario, secondo che a roe ne pare, da quello che fece Platone partendosi dal
suo. Piltagora cominci6 dai numeri, da troppo poco, e Platone cominciiS dalle
idee-sostanze, da troppo. Schelling per Iopposto cominci& la filosoGa dal
troppo, cominciando dal suo assoluto ; ed Hegel venne diminuendo il soverchio
del suo maestro, riducendosi al troppo poco, al suo essere-milla. Prima che io
esponga il sistema di Hegel, debbo fare una osservazione sul caraltere gcnerale
della scuola tedesca. Questa osservazione Iho io gia toccata alia sfuggita,
par- lando di Schelling. I GIosoG alemanni banno una grande polenza di mente, e
hanno un bisogno di sollevarsi sopra le cose sensibili, e mu* tabili: essr
tentano, con isforzi erculei, di giungere ad un punto fermo,. ad un
incondizionato, in cui la GlosoGa trovi ad un tempo e il principio, e la vita,
e la sicura quiete. Ma perchi non poterono per6 mai giungervi P Parmi di vedere
nelP intimo seno della GlosoGa alcmauna la cagione di ci6. Questa GlosoGa
ereditd dal lockismo piii che non si prede comunemente, o che non dimoslri la
lingua so* menl tradizlonale , come bbiamo osservato. Ora qual raeraviglia ,
che framrDCzzo agli errori rimangano altreal i frammeDti di uoa aotica
irerilii? Taoto pii^jche 6 al lutto conforme airumaDa debolena il cootraddirai}
e la contraddizione 6 ringrediente di tultc le umane (ilosofie. Cbc pol Pitta*
gora abbia collocate le idee Id uoa mente divina, cio non basla a nettarlo
dalla taccia di avere divioizzate le idee. Peroccbi egli i noto, che in quelU
scuola si ammetteva una ragione prima di luttele ragioni che era an ailro dio
(^N/rtfor ma questo dio poi Teniva dcscriiio come uoa congerie di det minori, i
quali come sue parti il formavano; concetto a dir veroj mostruosu. Altri poi
spiegarono in altro roodo la senlenza Piltagorica, cto^ cbe il dio primogenito
creasse o emanasse egli da si gli altri dei iolelligibili (le idee
divioizzate). Cosl Plotino: il qual dio
generato M gener6seco insieoks tulU gli enli,tuUa la bcliczza delle idee, tulli
gli dei m intelligibiii; nANTAr AE 0EOTr NOHTOTS. Converrchbe aduuqoc prima
dissipare dalla mcmoria di Piuagora tuUe qucste nebbie^ cbe la reudono, a dir
vcro, uon poco olTuscata, senza che si rimaoga lul- Uvia dall'esscr grande il
suo merito nella parte puramcDle iiiosoficaj e logica. f , , Digitized by wOOgle 358 leone da essa
adoperata. lo I ho gia altrove osservato. Ma il legato fatlo dal lockismo alia
6Iosofia alemaniia , il legato dU venuto un fedecommesso in quella filosofia si
i ( niuno si stu pisca dl ci6 che dico, o lo rigetti priina di avere ben inteso
il mio pensiero), si e u non uscire niai quella blosofia in- feramente dal
soggetlo, e di ammettere per cosa certa, c non bisngnevolc di prova , cbe il
sapere sia una produzinne o mo- dificazione del soggetlo pensante n. Questo
cbiamerollo io il pri'gindizio della filosofla alemanna, la quale ove giunga ad
avvedersi di questo ospite entratole iii casa illegiltimamente e di furto, sari
quel di Icpoea, die preudera un nuovo cam- niino ampio, luminoso, salutare.
Nella critida cbe Wilelmo Krug fa a Giorgio Hegel, dopo aver delto cbe questi
manlienc, cbe Icwcre sia ptiro concetto, e die il puro concetto sia il vero
essere, agglunge', cbe pcr6 Gn qui non ha mai dimostrala questa uiiita dell
essere c del concetto, u o sia (come propriamentc dovrebbe dire, essendo il concetto una produzione dcllo spirito
pensante) delles* sere c del
pensare (i). Ecco come asi ammette da
Krug fuori dogni controversia, che il
concetto sia una produzione dello spirito pensante . Tutto Iidealismo
trascendeutale 6 fondato su questa gratuita supposizione. Ho gia osservato, che
Scliclling parti da un pensare senza oggetti, che i piii vera* mente un
sentire, i un soggetlo, un soggetlo che si oggettioa, comcgli dice; indi trasse
il suo assoluto. Or dunqne il vero riman sempre 1 atto di un soggetlo in
qualsivoglia modo altri cerchi di mantellare o anebe di negare espressamente
questo peccato. Hegel medesimo dichiara , che 1 essere da cui egli parte h il
pensare (a) ; ora il pensare indica sempre un atta , ( 1 ) Vedi Iopers
/illgemeines liandwocrterbuch der philosnphischen JVis- scnschaPcn, allarticolo
litgel. (2) llegel dichiara che si dec
preodere la paroia pensare in senso aS-
solulo come inlinilo, separato dal liiuitc della coscienza; in una
parola pensare, pensare come lale >
(fl'isscnschafl der Logik. Einhitung). Ma io ben iulendo come si possa
couccpirc uii pensare scuza averne coscienza; perocchi ad aver cuscicoza del
mio atto, io cerlo ho bisogoo di uua ri- flessione diversa dallalto slesso. Non
posso peril intcndcrc n coiieepire ni pure per qualsivoglisi astrazione un pensare
che non sia ua atto. Digitized by Google 35g e non un qggelto: nn alto
poi apparliene sempre ad on sog- getto, quandanco si trattasse del prime cnle
ove Ialto e il soggetto sooo immedesimati. 1 iilosofi tedeschi hanno una ma-
niera di dire, chc a noi manca, per indicare quella opera- zione snpposta dello
spirito, colla quale egli produce un pro- prjo mpdo , che h poi il suo oggetto;
e se noi dovessimo Ira- durla verbalmente, dovremmo inventare una parola nuova,
la qual sarebbe oggetliv>arsi ^ cbe altramente direbbesi u Poperare die fa
I/o in modo da produrre di se un og- gello
(obicctiviren dcs Ich , obiectiviren Thun des Ich ). Que- ste maiiicre
usate anebe da Hegel e originate dal crilicismo , indiiudono 1' errore di cui
parlo , perocchu suppongono che gli oggetti del pensare sieno pruduzioni
dcll'/o^ c cbe Iin- tuizionc degli oggetti si debba ascrivere tutta
all'attivita del- I/o stesso. Esse adunque souo false in si stesse^ e la
filosoila in Germania non si rimettera sul buon cammino, se ella non si sveste
di queste maniere di dire e di pensare, che la legano e la incatenano al
soggetto con de' ceppi ferrei , infrangibili. lo sottometto agli uomini dolti
della nazione germanica questa osservazione , cbe credo importante, sul
carattcre della niosoGa tedesca, a^ciocebe ne giudiebino. Gli stranieri non
possono proporre die congliietture^ i iiazionali banno diritto di dccidere se
rettamente fu intesa la mente de dutti del proprio pacse. Tuttavia sponendo il
criterio del vero, io ho collocato Schelling fra quelli cbe il posero nelloggetto,
e non nel sog* getto^ e ci6 ra'6 paruto di potcr fare, poichii a malgra^o di
trorarsi egli inceppato dalle tradizioni del criticisino enlrate ne' visceri
della nazione tedcsca, egli peru fecc degli sforzi straordiuarj per
liberarsene, e se non giunse a farlo intera* pcrocclie il pensare i
csseiuialinente uii attivila ; e unaltivila non si pu6 coiicepire senza mia
relazioue col soggetto o priucipio dell atlivitii, cioi Iallo non si puo
concepire senza Iagente. Pero il partirc
dal pensare per quanto sstrattamente
esso si prrnda,^ sempre partire da un atio di un soggetto, 6 partirc da cosa,
che iuvolge csseuzialmente una relazioue ad uualira cosa, ad un soggetto
ageote. ludi e che la filosolia germaoica non si pot mai liberare, come dicevo,
per qiunti sforzi clla faccssc, dalla li- niitazioue della iogfclUvUA.
Digitized by Google 36o mente, il che era pressochft impossiblle ad nn uoiBo,
giuase perA a contraddirsi , il che in tali circostanze i merito. Dico che 6
merito per lui il contraddirsi , perocchd i nn arrirare almeno in parte alia
rerita. Egli parti dalliriea deWassoluto } quest era partire dalloggetto^ egli
trovi quest idea conside- rando il p'ensare spoglio da suoi oggetti , quest era
partire dal soggetto: la contraddizione adunque 6 manifesta; ma io mi attenni
alia prlma parte della contraddizione, tAYoggetdvitA dell idea dell assoluto ,
e lasciai andare il rimanente, perocchA la prima i la pih onorevole al sno
autorc. E a maggior ragione io credo di
collocare IHegel fra quelli che posero il criterio del vero nelloggetto (nelle
idee), seb- bene la soggettiwitd non cessi daccompagnar sempre le sue parole e
i suoi pensieri, per quantunque dichiarazione in con- trario egli ci faccia.
Bicco adunque comio concepisco la sna dottrina. Fichte avea tratto tutto dal
soggetto, dall/o^ senza nascon- dere questa derivazione soggettiva della sua
filosofiaj di cui avea avuto il germe in Kant. Schelling fece nn passo verso V
oggeUo , dicendo, che con- veniva, volendo porre solidamente il prinospio della
filosoda, sollevarsi tanto sopra Ioggetto come sopra il soggetto, venire col
pensiero ad ua' idea (questa parola tradisce Iautore) dove le differenze del
soggetto e dell oggelto fos.sero disparite , rag- guagliate in uua perfelta
identita. Tale fu la crilica fatta a Fichte, nella quale si vede, che Schelling
cerca pure di sfiiggire il soggetto, sebbene ugualmente pens! di doversi
alloolauare da ogni oggetlo. Ma con tutta la buona volonta di lasciar da parte
le differenze di soggetto e di oggetto, egli ora s'abbatte alluno, ed ora
sabbatte ncllaltro, non avvedendosene. Partendo egli dal pensare privo di
oggetti (i), o piu vera- (i) Era necessario, pare a me, che quesli Hlosoll si
facessero la dimanda zioni cbe fece
Jacobi alia sintesi pura di Kant. Quegli la di- cbiarava impossibile a
concepirai , peroccbe diceva ; u Lo spazio
sia uno, il tempo sia uno, la coscienza sia di uno. Indicate u ora come
unodi quest! tre uni inse stesso si moltiplicbi
(3). Mancava dnnque nella ragione pura di Kant il principio del ragionqmento,
cbe suppone una pluralita, una moltiplicazione, delle differenze, c per6 non si
potevano dare giudizj sintelici a priori. Conveniva adunque cercare un'idea
prima, la quale non fosse cosl sterile, ma feconda, e nello stesso tempo
semplice: (1) Ved. la Scierna Logica, L. I. (2) Oder indent da$ keinc Styn ah
die Einheit zu betrachten is! , in die das tVissen, auf seiner hdchsten Spitze
der Einigung mil dent Objekle, su- sammengefaUen , so ist das AFissen in diese
Einheit verschwiinden , and hat keinen Unlersc/iied von ihr und somil keine
Bsstunmung fur sie iibrig ge- lasstn. {Wistenschaft der Logik, Erstes Buck).
(3) Yi'd. Hegel, uclla sua Scienza della Logica, Lib. I, c- I. Digitized by
Google 363 qtiolliJea (lovca contenere in fi il gertne di lutlo lo svilappo
scicnti6co; ma quel gertne non dovea moslrare diflerenza al- cuna, alcuna
moUiplicita. II pensiero di Hegel in traccia duna tale idea si ferm6, credeodo
di trovarla, in quell'istante, in cui comincia Ioggetto a formarsi nella mente:
egli vide, o gli parvo vedere in quel punlo semplicissimo unificato Ioggetto e
il soggftto , il pensare e V essere ; vide oUracci6 il cominciamento dellessere
stesso, peroccliA queslo essere e in quel primo atto che la mente lo
concepisce. Ma losto che Iha concepito, quel primo momento i cessalo, e trovasi
oggimai distiuzione delloggetto e del sog> gello, trovasi dclcrminazioni,
limiti, differenze: cose tutte, che in quel primissimo tempo ed atto non sono
distinte. Considcrando adunque Ipssere nellatto del diventare (wer- den)i (e
Iesser diventa nel concepirsi , giacchi siamo sempre in un sistema d idealismo)
, egli trova delle proposizioni assai paradossali , come quella che V essere
sadegua al nienle, e il niente all essere; e tulli due si trovano uniti in
quell atto onde r essere comincia o cossa. Non sara inutile recarc qualche
luogo di questo pensalorc. H II cominciamento, dice in un luogo, non ^ il puro
nulla^ u ma un nulla, da cui dee uscir qualche cosa: Iessere adunque e gia contenuto nel cominciamento (nellatto del
suo comin- k ciare). II cominciamento adunque contiene in si tutti e due^ u
Iessere e il nulla: esso i Iunita dell'essere e del nulla, ov- vero i un non-essere che ^ al tempo stesso
essere, e un essere It che i al tempo stesso non-essere (i). ' 11 cominciamento adunque dellessere,
secondo questautore, j si trova neUatlo del pensare 1 essere, ma non in tutto
que- statto, che involgerebbe in si il soggettivo e Ioggettivo, ma solo in
qucHestrema punta di tale alto, nella quale egli sim- (i) Scirnia della Logka,
L. I. Hegel preiiHe anaaUare per rlinuovcre Ioggetlo dIU mente (convien sempre
riflcllere die sinnio iieUide-lismo), e quiodt cbtama nulUj o annullalo V
ideate ^ il pensiero a cui i slato sot- tralto Ioggetlo. Ci6 che si aoDulla, die' egli , non diveiila
nulla (Ivi) : vuol dire die nel concello
di ci6 die i slato auuullalo s'indiiude U rela- zione con cio che prima era, e
peri non 6 un puro nulla, senza relaziouc. Digitized by Google 3f>4 medcsima
coll' of;{;eUo, e nasce ad on tempo IoggcUo, Iessere, e il soggetto, il sapere.
In qnel primo comlnciamento di alto avviene, che il puro sapere sia il puro
essere, e il puro essere. $ia il puro sapere: h un s u sere e il niente n (a).
Questa proposizione non solo i gratuita , ma i falsa. Pare che 1 Hegel tema,
che dalla sua contraria provenga un pan- teismo, o piu toslo uno spinozismo^
peroccke (eosi parmi che egli seco ragioni ) se noi lasciamo solo Iessere,
senza piii, egli non pu6 produrre un diverso da si^ rimarra dunque una sola ()
Scienza deUa L. I, S. I, c. i. Dagegeu ist aber gtzeigt vvor* den, dass Sej'n
und NichU in der That dasselbe sind, oder urn in jener Sprache zu sprtchen,
dass es gar nicAis giebt. das nichl tin MtUelzustand zwischcn Sej-n und Nichts
ist. (3) Scienta della Logica, L. I, Sez. t, c. i, 0. Digitized by Google 365
miiUnza , con ccrtc tnodilicazioni ( i ). Ma il ragionamento non tienc. L'Hcge]
non si solleva abbastanza sopra il tempo: per qnanti sforzl egli faccia colla
sua roente, ragiona sempre rinra agevolmente conosciuto, cbe il mutare delle
cose contin- gent!, il loro crearsi, il loro modiOcarsi k tutto accolto ed im-
mobile nella divina eterniti: quivi i tutto fatto quello cbe si fa ^ quivi non
si fa mai nulla di nuovo, e il iiuovo non i cbe una relazione cbe si trova nel
tempo , la quale nella eternitii d pur essa eterna. PeriS non i punto
necessario Iimmaginare, cbe si mescoli il niente colla divina essenza, e che
anche in questa si trovi il diventare, che ella stessa sia questo diventare, e
che nel solo diventare v'abbia Iassoluto: quando anzi Id- dionon si
pu6confondere colie creature, appunto perchi quello, aparlare colle altrui
frasi, non h mescolato col nulla, col quale sono essenzialmente mescolato le
creature. - da molti altri lati. Egl',
accennando i sistemi che hanno qual- che cognazione col suo, parla del
Buddaismo, nel quale, dice, il nulla i
manifestameutc il vuoto, Iassoluto : parla della seutenza di Eraolito, che a
Iessere t quanto il niente ^ che tutto scorre, niente tutto si fa
continuamente : parla de proverb]
oriental!, che u tutto ci^ che i, ha nel suo na- scere il germe del suo morire , e che u la
morte e la vita (i) L filosofica
considerazione cbe allenna, essere non essere altro cbe essere , e niente non essere altro cbe
niente, merila il nome di si- b I, Sez. I, c. \, C, 3. Il pensiero dcll* Hegel,
che ii conceUo del uiente, che si forma dalia distrutione o dal cominctare di
UD qualche cosa, noo sia il coocello del niente solo ed assoluto, si trova
poato in somma luce in un libro di un eccellcote lilosofo italiano, voglio dire
nel Iratlato De Piihdo geomctrico di Giuseppe Torelli. Sembrerebbe poterai
inferire da alcuni luoghi dell*llegelj che al iiloaofo tcdcKO fosse state nolo
U filosofo Veronese. Digitized by Google 3f>7 assoluta vcrila, ma solo una
vevita condizionata, relaliva, ri> stretta denlro i limit! prescritti dai
principj supposti per con- cessione, e nulla piu. Erra dunqne P Hegel
manifestamente , qiiando vnole applioare a tutto un concetto, che non pu6 ap-
partenere se non alle cose soggette alle leggi fenomenali del tempo K dello
spazio, ed alle supposizioni concepite dal ma- tematico come possibili, cioi a
dire, come non contradditorie a quelle leggi e a quelle condizioni
prestabilite. 3. Di poi, Vessere dellHegel, considerate nell'atto del ditvn-
tare, non prima, ne dopo, non somministra veramente un con- cello diverso da
quello della materia prima degli antichi, una cosa al tutto in potenza. Or
qiiesto 6 nn'estenuazione troppo grande dellassoluto di Scbelling, questo ^ un
principio che pecca per difetto, un principio dal quale non si potra mai de-
durre ni le allre idee, ne le cose. Invano egli ci dira che nel concetto stesso
c'i il niovimento, che c^, com'egli la chiama, YinquieCudine (i): una cosa che
nou ^ ancor fatta, che i pari a nulla (s), ha bisogno di un altro principio che
la renda qualche (l) QuesU parula x dinquieludine viene adopcrala spesso Hall'IIegcl per
esprlmere quel couato di venire a sossislenza, che involge il concetto deli'etsere
considerato nellatto del diventare. (3) In un Ipogo dice, die i facile u far
capire che Iesserc il quale si i X poslo ai cominciamenlo della scienza 6
niente, perocdi^ si potrebbe X aslrarre da tutto, e quando si ba asiratto da
tutto, rcsta il nieutc h {Sciema della Logica, Lib. I, Sez. I). Mb io dico, cbe
vi hanno due specie di astralti. Noi formiamo certi astralti in modo, che
restano nella nostra niente soli seiiza relazione apparriite coo altro: certi
altri non sono pro- prianieote asiratti, ma sono piii tosto cose che
consideriamo astrattamente, cioi sono astralti tali, che non ci restano mai
nella meote isolali, ma in- Volgooo seco una manifesla relazione coo altro, a
cui non badiamo cost rspresssmeule. Ora io capisco beoissimo, cbe posso
aslrarre nel primo modo da lutli gli oggetti delermioali del peosiero, e
concepire un pensiero che non abbia per suo oggetio se non I'essere al tutto
indeterminato, il die non i gia nienlcj ma lo nrgo allincootro, cbe si possa
aslrarre aodie da questo essere nel primo modo. Se io mi sforzo di concepire
Ialto dd pensare privo aflallo di ogni oggclto o sia delerminalo o sia
indeterminato, in tal caso questo mio concetto i solamenie un asiratto del
secondo genere, cioi di quelli astralti cbe conservano uninlima relazione coo
alira cosa , benebi essa non si faccia enirare nel calcolo. Percii poiri
beoissimo con> cepire Vaelratto pensare, ma sottinleodeodo sempre peri
chegli abbia un qualche oggelto, sebbenc questo oggetio io Io traKori, e nou
parli che del- Digitized by Google 3S8 cosa, come la materia prima, che polea
csser falla ogni cosa, area bisogno d'un altro priacipio che la faceste ogni
cosa: noa possiamo adunque in tal concetto evitare no dualismo, cioi un sistema
di due principj. 3. Lunificaziooe dell'csscre e del sapere , in cui Hegel fa I
consistere I'assolulo vero, non lia mai luogo. Perocche, secondo il filosofo
tedeaco, Punita si fa talmente perfetta, che vien di- strutta ogni diflerenza
tra essere e sapere, i quali vengono perfettissimamente idenlificati (i). Ora
nello stesso concetto di DiO) quale il pu6 dare una metafisica cristiana (che k
anche la pin sublime insieme e la piu razionale, cio piii coerente di tutte ),
sebbene il sapere essenziale e I'essere divino siano per- fettamente unificati,
ni ci abbia veruna differenza, tnttavia la conoscibiUtd dell'essere divino, o
sia il f'erbo,beachi indislinlo dalla divina essenza, i peru realmente dislinto
dal siio fontale principio, che si potrebbe dire in qualche modo la rcalita del
divino essere considerate in relazioue colla conoscibilila, e non in sk stessa,
cio^ non in quanto quella realita apparticne al- I'essenza. Era necessario che
il filosofo alemanno si fosse sol- levato fioo a queste altezze, volendo egli
dar fondo alia scienza della Logica nell'aspetto in cui la prese: altezze a dir
vero, in cui Iumano filosofo pu6 sperare di pronunciare piii tosto sentenze che
non si contraddiscano, di quello che seutenze cbc pienamentc s'intendano. 4
concetto sia concetto ed essere iuseparabili e iuseparati {Scienza della Logica, Lib. I, Sez. I, c. i).
Digitized by Google 369 coiratto della menle cuanescente par egli, i no
concetto, che sembra setnplicc a prima giunla, perocchi si i ridotto il suo
contennto al tninimo pouibile prossimo al nulla. Ma questa maniera di stimare
la sua semplicitii , i piii tosto matematioa cbe Dictafisica: i nua stima
simile a quella che si fa delle grandezxe estese e de numeri, e non una stima
di quelle die si fanno de' concetti e principj logic! ^ quali si dicono semplici, non quando il loro
contenuto i seniplice o nullo, ma quando non involgono altre concezioni in ti,
ni esigono pih atti dello spirito, e sopra tutto, quando non suppongono allri
concetti ed altri principj dinanzi da s^. Or I'etsere di Hegel suppone per
certo un cotal sistema d'idealismo , e molte altre propo- sizioni preliminari,
come quella che ho accennato, che le idee sieno produzioni del pensare; le
quali sono ricevute in Ger- mania senza esame , ed influiscono secretamente nel
sottile lavoro di quelle Filosofie. ' 5.* Finalmente non si potra mai collocare
il t>ero nellessene concepito da Hegel, perocchi non pu6 service per misura
del vero allro che Vessere ideate, a cui si raffronta e commisura Yessere
reale. Ma ni Iuno n^ Ialtro di questi sono in alto nell'essere deHHegel; ma
solo in potenza^ sicchi dallessere reale v'ha troppo, sebbene vabbia un
in6nitamente poco, e dell'ideale troppo poco appunto perche vha un ioGnitamente
poco. Lunita di Hegel rimane adunque infeconda, appunto come quella di
Pittagora, per eccesso di astrazione: sebbene quella di Pittagora era un
celibe, dir6 cost, del mondo ideale; quella di Hegel un celibe cbe vive in sul confine de due
mondi, dellideale e del reale. i Ma qui basti : queste poche osservanoni io non
intendo tanto rivolgerle ai miei connazionali , quanto di sottoporle, come
dicevo , alia meditazione e al giudizio de profondi filo- sod della Germania.
CAPITOLO XXXI. I.SPOSIZIONE DEL VERO CHITERIO DELLS. CERTEZZS. Tali furono i
pensamenti dei filosofi inlorno al criterio del vero^ parte de quali volsero il
loro studio a cercar puramente Rosmihi, Il JUnnovamento. 4? ,Digiiizfid by
Google 3 JO im indizio ossia nna tessera della verita, parte si approfondn-
rono nella rieerca dell'essenza sUssa della verita. Manca a cotn- pire tale
sposizione aneora un slstema, quello ehe io proposi nella Sezione VI del a
Nuovo Saggio sullorigine delle Idee n, sostenendo io, come a me parve, ufGcio
d'interprete di un'an- tichissinia nostra e sommamente venerablle tradlzione.
II roio criterio un di quelli, che
inlendono a Gssarc qual sia I'essenta della veritA; e per6 esso appartiene al
secondo de due grandi generi di criterj accennati ; appartiene a quel ge- nera
che pone ii supremo criterio nelle idee. Fra tiilti i sistemi poi di questo
secondo gencre, quello che io proposi si trova oc- cupare un posto di
mezzo^sicchd gli altri, ragguagliati a questo, si direbber peccare or di
eccesso, ora, come vedemmo, di difetto. Conviene attentamente riflettere , che
quando si parla di cogni'zioni, vere o false che siano, noi siamo sempre nel
mondo ideate, o certo mentale*, e per6, che se si da un criterio del vero,
questo non puA cerrarsi, e non pu6 trovarsi sc non in quelle cose che passano
nella mente. Conviene attentamente riflettere che il mondo reale^ il mondo
delle sussistenze finite, non i cognito per si stesso^ di maniera che non i
assurdo pensare che il mondo, quanto alia sua real sussistenza, rimanga anche
se niuno lo conoscesse (i). II mondo reale ha bisogno dunqne di nna mente per
essere conoscioto; e per6 i nella mente, ch'egll riceve luce, intelligibilita.
La cognizione adunque i una cosa al tutto mentale; appartiene allordine delle
idee in cni si risolvono tulli i giudizj e i raziocinj: in queste sole adunque
pu6 esser la veritA , Iessenza della verity, poich in queste risiede la
cognizione. Conviene ben riflettere aneora , che il sentimento stesso ap-
partiene al mondo reale, o per dir meglio lo costituisce (a): (i) Dice questo
quanto al primo concetto clie noi ci formiamo del mondo csteriure. Cio non
toglie ebe, esaminando noi a fundo un tal concetto colla rifttssione,
perveniamo ad una opposta conclusione, cioi a rilevare, die le cose materiali
brute non potrrbbero essere senza die vi fossero ddle cose sensitivCi e
generalmente nicnle potrelilie sussisterc dove non vi avesse ddle cose
intelletlive (Ved. Principj della Scienza morale, Cap. IF, Art. I). (u) La
materia nou si perccpisce da noi se non nd sentimeutoj del quale ella i un
cotal limite, e un principio die k) modinca. Digitized by Google pcr6 non ^
cognito per s stesso, eome abbiam prima di* mostralo del mondo reale, ma
ancbesto viene cOnosciuto nella mcnte, e"per la meiile; clod mbdianle le
idee, che sono nella niente, qualunque cosa poi sicno quesle Idee. 'Volendo noi
dunque cercaro Vessenta della verita, la prima verita, cLc dee essere il
crilerio delle verila |>articolaii, che son tali perch^ di quella
parlccipano^ non dobbiaino, e non po$ siamo uscire dal mondo ideale. II cercar
dunque un principio che sia ideale e reale iasieme (sebbene qaesle due cote non
postano ctsere giaminai del luUo nulGcate) potra esserci utile per Vonlologia,
dove si cerca di dar ragione del cominciare delle cose^ ma non e menomamenle
opportiino per la logica,e specialmeute per la qiieslione del criterio della
certezza ^ e non farebbe se nun involgerci in ispeculazioui tanto piu complU
cate ed inestricabili, ([uaiito plii I'ingegno nostro fosse potente.
Conciossiauhi un lal principio introdurrebbe un elcmenlo ete* rogeneo, il
reale, che non ha a far cosa alcuna coll'essenza della veritti, e die non
farebbe altro uliGcio che quello di una sostaiiza crassa la quale si mescolasse
culla luce, e ci venisse con essa iusieme iiegli ocehi. u Convien dunque
risolvere una quesllone alia volta, e non avvilupperne 'molle insieme, per
troppa frelta di rispondere a tutte. da
cercar prima il criterio del vero nel mondo ideale^ di poi da moslrare come egli sia atto a fare!
conoscere con certezza tutte le cose real!. Conciossiachi la quistione del crU
terio e diversa da quella dcITapplicazione di queslo criterio alia oonosceuza del
mondo reale. questo ci pare non avers
bastevolmenle avverlilo il C. M. iNon alferrando egli bene la distinzione di
queste due question', s/volendo pur toddisfare a tutte due con una ola
risposla, . si tforz6 di stabilirefun nesso necessario fra le idee astratte e
le cose, del qnal nesso necessario abbiam gia dimostrata la falsita. 1 tedeschi
parimente mescolarono, per la stessa impazienza di risolvere tutti i gruppi in
uua volta, Vontolegia e la logica, il soggetlivO/C Ioggellivo. lo credo
allupposto iinportante assai al Qlosofo, che cerca il crilerio delU certezza,
badare bene a' limiti della questions^ ed inlendere, come ella apparliene
inficramentc, per dirlo di nuovo, al itaondo ideale , perocchijella apparliene
al mondo Digitized by Google 37* della conoscenza; e come la relazione della
conasccnsa coTle realitd si spetti interamente ad Qn'allra questione, cioi alia
queslione che versa iotorno al modo di applicare il criteria alia formazione e
verificazione delle notizie degli esseri reali. Premesse queste cose, dico cho
Voggelto pensalo come possi- hile, i ci6 che costituisce Videa. E peru se il
criterio del vero dee essere nelle idee, infallantemente avra la forma di
oggetto. In vano si dice datedeschi, che qoesta forma di oggelto i hmitata, che
esclude qualche cosa perch^ esclude il soggelto, e che conviene sollevarsi ad
un prineipio che non sia ni og- gello ni soggetto, ma il (alamo per cost dire
di enlrambi. lo confnteru di nuovo pih soUo qaesto errore con degli argomenti
direlli. VogKo inlanto solo fare osservar di nuovo quello che gii dissi, cioi
che il soggetto non 6 che un sentimento sostanzialej e che per6 egli k
incognito per si, come sono incognili per si tutti gli allri sentimenti. La sua
conoscibilitA dunque non i egli stesso, ma qualche cosa diversa da lui: per6 in
questa cosa da Ini diversa, in qnesta conoscibilili sua si dee cercare anehe la
cer- tezza che noi di lui aver possiamo. Il soggetto adunque viene eliminato
necessariamente dalla teoria della cognizione e della eertezza, come tutlc le
altre eose cbe si debbono conoscere, e che non sono in si stesse conoscilnli.
Noi dobbiamo partire dalle sole cose conoscibili per se, peroechi elle sole
sono quelle cbe ci fanno conoscere latte I'altre^ e queste cose conoscibili, o
piu tosto cognite per si, sono le idee; e le idee non sono che la cosa Bella
sua possibilila, oggetto dell'intuizione dello spirito. Egli i dunque in questi
oggelti , si come quelli cbe sono le cose per se intelligibili, come dicevo,
che hassi a cercare la nature della coguizione della verita, della eertezza, e
il criterio. PoBcndoci ora a studiare Iintioaa natura delle idee, e a
rafirontare le une colle altre (senza badare alia loro prove- iiienza)^ iioi ci
accorglamo tacilmeute, che ve nhanno di piit e di meno universali , di piit e
di meno determinate : noi ct accorgiamo, che le meno universali sono comprese
nelle piit universali, le piu determinate nelle meno determinate: noi ci
accorgiamo, che, a ragion d'esempio, nell'idea di animale si eomprendono tanto
idupi quanto i cavalli, tanto i pesci quanto gli uccelli, e in somma tutto ci6
ehe e eompre^ nelle idee Digitized by Google 3n3 (Idle specie e delle loro
varieta. Vhanno adunque ddle idee che dipendono da allre idee; le idee minori
dipendono dalle idee maggiori. Cosi io noo posso sapere die cosa sia ud lopo, 0
una trola , se insieme oon so die cosa sia ua animale: giac* cbi la sola vista
del lupo o della trota non i gi^ una cogni- ziont, ina nna smsaziotte, la quale
per si appartiene alle cose non conoscibili in si stesse, ma eonoscibili per
mezzo daltre. Airopposto non i niente impossibile, die io sappia che cosa sia
animale, rimaneodomi tutlavia occulte molte specie di ani- mali. La idea pin
universale adunque mi abbisogna di neces- sity, perchi io abbia la mono universale:
I'idea mono uni- versale adunque ha la sna conoscibiliU e la sua luce Bella
piit universale. Chi i pervenuto a fare queste riflessioni, e ne ha ben in-
teso il valore, egli i gia sulla strada che conduce allinven- aione del
criterio della certezza, che non i allro che la prima idea, qndla che i
conoscibile per si, e dalla quale ricevono tutte le allre la loro conoscibiliti
, non i altro che la pura lucr. P^on dee Irovar diflGcolty il filosofo ad
ammettere che Iidea universalissima i la conoscibiliti delle altre tutte,
pensando che quella differenza, che sta nelle idee minori, sembra non mica
potcrsi conoscere medianle le maggiori. Per es., egli non dee mica dire a si
stesso: collidea di animale in genere io
non posso conoscere la differenza che costituisce la specie dei lupi : dunque
Iidea minore ha una cosa in si, cni la maggiore non pud farmi conoscere n.
Questa diflicolta, facile a presentarsi, non dee trattenerlo, io dicevo, nel
suo cammino. Perocchi egli 1 vero verissimo, die nellidea speciale sta un
elemento di piii, che nellidea generica; ma cii non basta a produrre una dif-
ffcolta: coovien sapere se questa dilTereuza i conoscibile per si stessa, o se
i conoscibile solo per la luce che presta Iidea piii universale. Ora chi ben
considera, trova appunto, che la cosa sta in questo secondo modo; cioi, che
sebbene Iidea uni- versale, presa da si sola, non present! alio spirito la
differenza che si trova nella specie, tuttavia queslidea universale lia la
virlii di render conoscibile alio spirito umano quella differenza, tostochi
essa venga presenlata nella idea della specie. L' idea universale adunque i
quella die irraggia la idea genmea , o 3j4 speciale, e la sua difrerenza ^ come
la luce e qilella che fa te* (lere gli oggelti , sebbeae ella sola noa cootuuga
in si gli oggetli. Rimane duuque bon fermo, che la conoseibilita dell' idea
iuferiore e piii rislrella , si trova uella superiore e piii larga rie di
leoremi purissimi, cioe somigliatili alia gcometria, la quale non permetle allra cosh fuor die la
reale snssistenza dun primo fallo c il
principio di contraddizioiie (a). II Romagnosi paiimenle assume d'iosegnarci a
u coooscere con vcrila , c a provarc con
certeira (d). Rgli proinette ancora di
stabllire de dati irrecusablli, onde
procedere fer' u manicnte e risolutamente in mezzo alia lotta delle opinioni, u
e cbiamarle a roncordla^ onde giungrre finalraeule alia teo* K ria posiliva di
una inlelleltuale ginnaslioa, la quale sola * raccomandar puu le elucubrazioni
della filosoGa del pen'* Perchi poi vive
nel nostro animo un desiderio infinito del
bene, e i germi della religione e della virtu, quasi vestigie delle idee sempiterne dlddio, debbesi accanto
ai pronun- H ciali della ragione siluare gli istinti morali (3). Qui gl i- st'mti morali sono quclli die
ci rivelano IdJio e la virtu, e qnesti sono contrapposti ai pronunciati della
ragione; non sono dunque pronunciati della ragione, ma puri istinti. Mel libro
che noi abbiamo alle mani, egli non parla che de' pronunciati della ragione,
promettendoci di parlare degli istinti morali in un altro^ e per6 la
dimostrazione dello scibile data dal C. M. non pu6 valere per Ic cose morali e
divine. In questa ma- niera si ristringe dassai la verita e la certezza che il
M. A. toglie a propugnare, conlenendosi tutla nelle cose della mate- riale e
sensibil natura. Egli dice che n I'istinto prova I'in- telligenza , ni questa apporta a quello la
luce de' suoi in- a vincibili teoremi n (4). Egli i per6 vero, che soggiunge
che la ragione s'affretta a
dimostrare che , quantunque i veri da esso predicati truscendano i termini
dellumano ra- il gionamento, pur tuttavolta abbondano i segni pe' quali si pu6 giudicare che in essi non giace
inganno (5). Ma que- ste parole
difCcilmente si conciliano colie precedent!. Primie- ramente si appellano veri i
suggerimenti dellistinto^ ma il vero non k che oggetlo della ragione e
dell'intelligenza, la (i) P. II, c. XX, v. (q) Ivi. (3) Ivi. (4) Vcdi U Drdicaloria.
(5) Ivi. Digitized by Coogle 38i quale t appunlo intelligenza per questo, che
La per oggetlo il vero. Accomunando la parola
vero > a ci6 cbe mcUe in* nanzi I'istinto, questa parola perde il suo
genuine signiGcato, ed ella viene a signiilcar cosa che non i piu il vero. N6
pu6 appagare eziandio quvlla glunta, che u la ragione dimostra abbondare i
segni pe quali si pu6 ginditare cbe in quegl'istinti non giace inganno . Per
diniostrarlo user5 P autorita dello stesso C. M. II Reid ammetleva delle verlta
islintive, aggiun- geudo per6, che col ragionamento si potessero conflrmare.
Ora questo non garba al biion senso del N. A., il quale contro il Reid scrive
cos'i: II Reid con II suni seguaci,
ponendo In* nanzi li giudicll istinlivi
a prova dello scibile, lianno in* vece
alterrata essa prova dai fondamentl. Imperocchi lo scet* tico non nega punto le verita islintive,
siccome fenomeni del pensiero,
mostrandoli ed altestandoli il senso intimo ,
bensi nega doversi credere loro come a verita razionali n (i)- N4 il
Reid trova grazia appo il N. A. col concedere chegli fa poscia alia ragione il
discutere gli stessi principj istintivi^ pe* roccbejdice il Mamlani; Il Reid concede facolta di esaminare e discutere la legittimita dei principj
Istlntivi^ la qual cosa Importa o
I'ammettere che si possa quelll paragonare con
quairhe verita superlore assoluta, o che il ragionare con pe* u tizione
perpelua di principio sia buono e valido n (a). Questa sentenza pronunciata per
gli veri istintivi del Reid, non i pronunciata del pari per gli veri istintivi
del G. M.? chi ne liiuitera I'eflicacia, una volta che sia pronunciata? Se il
Mamiani ci dice adunque, che i veri toccanti le cose soprasensuali apparlengono
allistinto, noi risponderemogli che questo non basta a vincere gli scettici; i
quali, poiiiamo cbe ci accordassero I'esistenza di tali istinti, il che vuol
essere difG* die, ce li accorderanno solo come fenomeni o apparenze, non mai
come veri razionali^ e se egli clilama la ragione a discnterli e provarli,
accorda con ciu alia ragioue quello che prima le avea nrgato, e toglie la necessity
degl'istinti per la cognizion di que' veri. Aggiunger6 lo solamente, che ove
trattassesi dt una rivelazlone divina esteriore delle dette verity , s'intende*
(i) P. I, c. XVI, 17 * .for. (i) P. I, c. XVI, 17. for. * igiti^ed by Google
38a rebbe assai bene come se ne possa aver dcsegni indubitati, senza bisogno
d'intendcre pienamente le verity stesse rivelale; ma Irattandosi di una
rlvelazione inleriore e d'istinto, ove par si giungesse a provare I'esistenza
in noi di una facolta si mi- rabile, cio cbe pur solo dee esser difficile, non
si perverri per6 mai a niostrarla infallibile. Percioccbfe a poter provarsi cbe
un tale istinto non cilluda, o conrien dimostrare quell'istinto veniente da Dio
e da lui guidato^ il cbe non si pu(^ fare senza petizione di principio, poiclii
Iddio stesso non si vuole a noi nolo, cbe per quellistinto cbe ce lo rivela :
ovvero converrebbe mostrare Iinfallibilita siia dallesame delle credenze chegli
suscita in noi^ ma nt pur cii^ si pu6 fare, peroccb6 si snppone, cbe quelle
credenze sieno cotali, cbe travalicbinp tutte le forze della ragione, e quando
tali prove dar si potessero, quella ra Crete dottrine: il cbe ci pare al tutto
indegnissimo non pure di un savio, ma di qualunque onesto. G uno di questi poco
diene, che queste iillra-ssirazloni sun dicliisrate liille proHolti immnginnrj,
L itnproprioia di questa espressione sari nolala da quelli che Digitized by
Coogle 384 spinti alPuItimo legno
escogitabile. Tale i per esempio la K soslanza unica di Spinoza, lo spazio
immenso per tutli i versi a da Newton appellato sensorlo di Dio^ la durata
senza tempo, la perfezione somma
astratla, inGne I'assoluto. Tutti u
sterebbe a soddisfare alia decisione^ perocchi allora il poll* a tcismo e ogni
altra illusione dovrebbero assumersi come font! u di verity : dir6 solamente
cici die Leibnitz disse delPinfinitO
magnosi i vizj delleti in cui crebbe, e i vestigi di una scuola che, per
grazia di Dio, pute nauseosamente al nnovo secolo in cui viviamo? 3.* Dopo di
tutto ci6, viene quasi superfluo I'osservare, che il Romagnosi non solo limita
la conoscenza del vero alle cose sensibili, e nesclude le soprasensibili, ma
non concede ni pure, come fa il G. M., che a queste si possa giungere
coll'istinto , il quale, dice, se aver potesse autorita, convaliderebbe (In
anco Ic stravaganze del politeismo. Ma che i ci6, dcq>o che egli gla disse,
che I'eternita, la somma perfezione, Iassoluto, sono te- nebre ed ombre di
morte? N4 possiamo rispondere , che il Romaguosi nomina Iddio con rispetto in
molti luoghi delle sue opere^ peroccli^ non ci siam noi accorti di aver che
fare con una Glosofia beffarda? In un altro luogo dice il Romagnosi, che sulle
disposizioni della economia divina riguardante la natura umana u convien far
punlo n, soggiungcudo di poco buon umore u
che per- u cio? Vorreste forsc colle teuebrose vostre cosmologie gellar
Rosmi.vi, Il Rinnovamcnlo. 49 Digitized by Google I 386 ancora la filosofia nelle larve analogiche
niente piii valevoli delle cosmogonic
caldaiche, Indiane, cabalistlche? A che pro a trascinarci in un pelago oscuro,
inCnito, inutile alia men- u tale educazione
(i)? Ora qoesta maniera di parlare a dir vero, non poco equi* voca. Si
nominano, i vero, con dispregio le sole cosmogonie caldaiche, indiane e
cabalistiuhe ^ non si parla dell' ebraica ^ ma che intende egU per cosmogonie
caldaiche? io non voglio rilevarne il mistero (a). DIco bensi, che quella
maniera di par* (i) Fedule fondamtMali suit* arte logica. Lib. IF, n. VI, 54-
(q) Con dolorc io non posso occullare i miei duhbj sulle credeoze reli- giose
del P. Bomagnnsi. Quesli, che Unll luoglii equtvoci e nebbiosi delie sue operc
m'luducono involonlnriafneDle oeirauimo, sono pur Iroppo too- Armali, anzichi
dissipati, dai m Cemii sui liroili e aulla direzionc degli sludj alorici * premessi
al libro del Jauelli m sulla scienza delle cose umaiie . lu essi Romagnosi
loglie a oioslraro, esser cosa linpositibile ed assurda I'am- roellere, che il
mare ahhia coperic le piii alte mnniagne; il che equivalc a negare il diluvio.
puo rispoudersi, che si dichiara impoisibile ftlosofi- cainenle ragiooando, e
non piu; perocch^ non si discorre solaroeuie se sia potuto essere secondo ie
ieggi naturali, ma del fatlo, se sia stato si o no; e si chiama n un
popolaresco errore Di poi si passa alia quesliotie deU rorigtne delle umane
popolazioni, e si decide cost: u Per poco che si pens! u alia qnestione
dcirorigine della specie umana, si viene alia conclusione, esscr quest.! una questiooe insulubile da
qiialsiasi lilosoila, al pari della M queslione suH'origine degli allri animali
e de* vegclabili m. Or qui h da osservarsi, che se si favellasse dl una
filosofia lulla specuUtiva, la proposi* zione sarebbe passabile; ina si Iratla
anzi d'uria niosolia che fa uso di lutri i monument! di qualunque genere rimastici
dalla piu rimota autichila, fra* quail esistono anche i libri di Mosc, che
ovaoco non fossero ispirali, vor- rebbero tutUvia essere aulorevolissimi
teitimonj, cred'io, delle prime me* rooric. E pure dellallre memorie sloriche
si fa menziouc; di qucsle no; scrivendo in qtiella vece il Romagnosi cosi: h
Circoscriui gli studj storici (si noli beoe che si parla di studj storici, e
non puramenle tilosolici) alle u Dolizie
positive deirumaoo iucivilimento, il primo argomento cbe si pre- r seaia si d
Porigirie posiliva di lui, doq tratla da leggende cabalistiche, M ma da prove
positive si naturali cbe tradizionali *#. Ora chi ^ mai al tempo Dosiro, die
venga traeodo colali notizie storiche dalle leggende ca- balisiiche? Non k
duuque sicuramente un giudtzio temerario il peosare, cbe coo quelle strane
parole di h leggende cabalistiche w abbia voluio per dtsavveulura iolendere
qualcbe aisra cota, cui non saf&dava a uomiuare sclnetlo ed aperto stccomc
fanno i galuntuuiuiui. Cbe sia dunque qiiest'altra cosa, Iuomo spassionato il
vede seuza cb'io gliel dica. Quesla nota vuol essere in servigio della buoua
gioveDlilt ilaliana, e di chi dee guidarla nel cammino delle scicuze. Digitized
by Google lare esclude lulte le cosmogonie, e non le sole nominate. Se ad una
sola egli facesse grazia, se avesse voluto scrbare Iebraica, ealmeno come
documeiito storico non potea prelerirla, I'arrebbe assa! probabllmente
nominata. Ma egli vuole, che sull'economia divioa riguardanle il genere umano
si taccia del lotto. Or questo assoluto, queslo profondo silcnzio sopra ci6 die
forma e formera sempre I'interesse massimo deH'ornanita, e di rui si par- lera
sempre, checcbe si faccia n si dica, non solo ^ iinpossibile, non solo non
istii con clii professa la religione di Gesit Gristo, ma non k degno n6 pure di
un filosofo: e chi proibisce at suoi simili il ricercare onde prorennero, e a
quale deslinazione vanno, il meno che dir si possa di costui si ^ che egli pro-
Tessa una filosofia assai povera, e al tulto insnfficiente ai bi- sogni deirumanili,
una illosofla a ctii egli medesimo da ben poco valore, quando non la crede alta
a travalicare di un passo il breve cirrolo della materia segnato alia vita
presenle. E pero non fa maraviglia se dica in un luogo, che il li- u mile dellimpenetrabile riguarda le
cause prime (l), dopo aver delto
che I'impeuetrabile 6 assoluto, perchi
nun si pu5 Irascendere da veruna polenza
umana (a). E tiitlavia fa maraviglia la
maniera onde esclude la filosoGa dell'economia divina sulla vita fulura,
perocchi dice che u essa non abbiso- gna delle arguzie della GlosoGa per
assicurare il suo trionfu n (3). Anche coloro i quali sono persuasissimi di
quesla senlenza, converranno meco, che ella non pu6 esser sincera in bocca del
Romagnosi; chella pare anzi contenere un dispregio affettalo della GlosoGa,
alia quale in taiili luoghi lo stesso Romagnosi conimette I'umano
perfezionamento. Piii tosto il dividere si fat- tamenle la GlosoGa dalla
religione, e il non volere che quella si mescoli punto ni poco delle cause
prime, e degli eterni de- stini dell'uomo, potrebbe iodurre altri a credere,
die si voglia eon cio stabilire una GlosoGa al tulto materiale, e, mi si per*
metia il vorabolo per ribullante cb'egli possa parere, atea. (i) Che cosa e la
menu sanaf Rsgiooe del Discorso. (a) Ivi. b 388 CAPITOLO XXXIV. COHTinviZIOHE.
11 principio adanqne della veriUi e del sapere poslo daMaa autori che pur ora
abbiamo esamioati, non ei mena mollo a lungo^ quando egli non giunge a
sollevarsi di sopra alle cose nalurali e Gnite. La GIosoGa in cotali sistemi
rlene ad avere abdicata da si slessa ogni sua dignity perduto il suo migliore,
fatta inutile all'uomO) il quale interrogandola intomo al mas* simo desiderio
del cuore, al massimo suo bisogno, la rinviene fredda, muta come una statua. Ed
una GIosoGa che comincia unicamente da'sensi, e non riconosce verun'altra
materia di sapere che quella somministrata da' sensi , sia pur lavorata dalla
riGessione o dallastrazione quanto si voglia, dee Gnalmente venire alia
conclusione, che tutto ci6 che si conosce i ristretto nel mondo sensibile, e a
tutto il di plh ella dari nome di Nescibile (i). Ma dopo essersi dato questo
squarcio grande nelle verita conoscibili all'uomo, possiamo almeno sperare che
quella parte di verili che ci rimane sia ben accertata, sia in una parola
verita ? Di nuovo, che cosa ci dicono de' loro sistemi logic! il Ma- miani e il
Romagnosi su questo punto^ Certo essi hanno tolto a farci trovar la certezza
almeno entro il territorio da loro circoscritto delle cose nmane. Pure cid che
si vuole da noi indagare si di qual certezza parlino, che cosa intendano essi
di prometterci quando ci promettono la certezta (a). (t) A Fireoze ne! 1834 ^
usato un libro con quesio lilolo: Del
?fescU bile, Libio uno di Girolamo Alberj >*. Egb ^ pregevole per una cotal
lo* gica, la qual inteudeudo a mostrarc, secondo i seosisli, che luUo il sapere
umaoo si rinserra entro la slera degli
oggelti seosibilt , dimostra in pari tempo chiarissimameiiic quanto una
Hlosofia sensista imniiserisca Iu- mana cognizioiie. lo poi dimostrai, cbe al
tutto ranoieutai nel N. Sag^io Sez. IV, c. Ill, art. v e Vi> (3) Nel luogo
citato del N. 9ogg(0 ( Sez. IV, cap. 111, art. v e vt ) bo dimosirato, che non
rcsta pm nessuoa certezza, pur risguardante le cose sensihili, quando si parla
dal principio * ogni cogniziunc uascc da* seusi n. Digitized by Google 389
Abbiamo gi4 di sopra veduto, che valor I'abbla questa pa> rola certezza
pel C. M. Veramente non so, se il C. M. dia un'espressa deCnizione di
questa parola nel suo libro^ pure da varj luogbi si pu6 rac- corre il concetto
vero cb'egli se ne fa, ed questo, chegli
metle la certezza i." or nella necessity di persuaders! di una qualcbe
opinione per evitare i mali del pirronismo, a.' ora nel fatto, che ninno dubita
di certe opiuioni. i. Ecco come egli prova la certezza del senso intimo. u
Se v'ha al mondo una prova sicnra della
legittimit^ dello scibile umano, questa
senza meno riposa nella riduzione di tutte le u certezze (i) alia certezza
immediata del senso intimo: e u quando ci6 non possa succedere, diciamo
nessun'altra specie If di dimostrazione poter valere (a). Questo argomento non riceve forza se non
dalla condizio- nale , se v' ha al mondo
una prova sicnra dello scibile . Pu6
dnnque renders! cosi: u Una prova dello scibile aver ci dee, altramente noi
caderemmo nel pirronismo. Ma questa non pu6 essere che quella del senso intimo.
Dunque il senso intimo i il fonte della certezza . Ma , di nuovo, che varrebbe on tale
argomento a' pirronisti, i qnali dicono di non aver paura di cadere nel
pirronismo? Odasi ancora come il Mamiani si faccia incontro ad una delle piit
forti obbjezioni che si soglion fare dagli scettici, e indi deducasi che valore
tenga, nella sna maniera di concepire la parola certezza. L'obbjezione e la
risposta vien fatta dal Mamiani stesso in queste parole: Quando si voglia instare u ed aggiungere che
qualunque facolti e operazione dellanimo,
appartenendo a un essere limitato di sua natura e condi- H zionale, non
pui^ produrre cosa, in cui splende il carattere o dell immutability, della
necessity e dell universality, noi re- (i) Fino cbe una opinioue nou i
riscontrata al senso intimo, non pu6 esser cerla, secondo il N. A., peroccli^
da lal lisconlro solamcnte nasce la sua prova. Per6 i inesallo il dire, che
convieue ridurre Ialtre certezze alia certezza immediata del senso intimo ,
perocchd non vi puo essere cbe una certezza sola ; e se gi^ quelle sono
certeue, a che fine ridurle ad unal- tra certezza? (a) P. I, c. XVt, 17. afor.
DigilizfKl by Google 3go u plicbiamo alPUtanza torcendola tuUa contro gli
autori saoi: concios$iach6 pure le forme
ingenite della mente e i saoi u giudicii a priori e tutta la macchiua della
ragion pura i u accidente ed operazione d'un essere limitato, mntabile e u
condizionale*, quindi o conviene asserire cbe noa siamo noi u quell! , i quail
pensiaroo la ragion pura, ovvero cbe la sua u immutabilita e necessity i
apparente e non reale (i). Questa
risposta inerita tutta Paltenzione^ peroccbe in essa, il Mamiani da una parte e
i pirronisti d'unaltra vengono alle man!, striiggendosi e annientandosi
scambievolmeote, ma dopo la battaglia veggonsi i pirronisti preudere il
pacifico possesso del carapo abbandonato. Veramente r obbjezione era forte:
ella provava cbe niuna , e ne pur tutte insieme le facolta delluomo bastano, da
si sole, a produr cosa cbe sia immutabile, necessaria, universale, reqnisiti
indispensabili alia verita (a). E di vero , onde si potri mai dimostrare cbe il
cootlngente possa produrre il necessario , e cbe nna causa particolare possa
produrre un efietto universale? Niente suggerisce il G. M., cbe vada
dlrettamente contro questo argomento. Cbe risponde adunque cgli? risponde, cbe
se quelPargomento i efQcace con- tro il suo sislema, ugualmente i efGcace
contro il sistema di quelli, cbe colie forme ingenite difendono Pumana cer-
tezza. E bene, cbe se ne concbiudera? La conclusione i facile a vedersi : i
facile immaginare cbe cosa i pirronisti soggiungeranno. Diraiiiio sssai
lietamente: ben sta : qncllargomento alterra entrambi i vostri sistemi; non
rimane cbe il nostro solo: conveiiite dunqne, amici cari, con noi; fatevi
coraggio , dile francamente cbe non vha sa- pere alcnno immutabile, necessario,
universale per Iuomo; cbe non vha verita per un essere cosi frivolo, fortnito e
passaggero. (0 P. I, c. XVI, 3.* .for. (o) Come mai il C. M. dice, che i
purisli o razionalisti non dimostr.no Iimpossibililli in che suno le facolla
um.ne di produrre il necessario e ruiiiversale, qtiando egli slessn reca tosio
dopo un loro argomento, onde ci6 pruvaiio iiivitlanieiite , a tale, cb'egli non
trova da far loro alcuna di- rilta rispusia? Vedi questa inavvcrtenza del
nostro aulore P. II, c. XVf, 3.* afor., I'd ill pill altri luoghi del suo
libro. Digitized by Google Sgi So bene, che il C. M. vaol venire ad on'altra
concluslone: to cbe la concluslone del G. M. si e, cbe appunto perclid con
quell' argomento s' atterrerebbe ognl sapere certo dell'aomo, perci& esso
non deesl ammeltere, ma riGulare: conclosslachi non si dee rlnunziare punto n
poco alia certezza, allesl 1 gra- vlssimi danni del plrronismp. Oltimamente: ma
non diranno i pirronisll, pbe questa roaniera di ragionare moslra bensi
unavversloae coulro dl loro, ma non presenta alcana razlo* Dale e glusta
confutazione ? Per manlenere all'uomo la certezza delle sue cognizioni , io ml
son creduto obbligato nel N. Saggio dl dimostrare due cose: i. cbe vba una
verila immutabile in s& stessa^ 2. die uua parte di questa verita, la parte
piii necessaria, i corauni- cata all'uomo per natura, ciui i legata all'umana
natura per un nesso cbe non dipende dalla volonta umana, ni va sog- getto alle
forze di questa, ma dipende solo dal creatore (1). Ho giudicato esser
manifesto, cbe se Tuna o Ialtra di queste due cose non iosse, non si potrebbe
giammai garantire all'uomo vera certezza : conciossiacbi*, se non cl avesse una
veritA, man- cberebbe I'oggetto, per cost dire, della certezza; e se una parte
di essa verita, la piii essenziale almeno, non fosse con* giunta colt' umana
natura con necessario e infrangibil legame, ma tutta al volere o al potere
dell' uomo fosse commessa e ebbandonata, no! non saremmo mai certi a pleno di
possedere qnella verita , attesocbi limitata e fallace ^ la nostra natura, il
nostro volere ed il nostro potere. Nulla di tutto cl6 egli pare cbe repnti
necessario il C. M., se in vece d'attendere a quaicbe sua affermazione isolata
, tguardiamo nellintimo e al tutto de' suoi ragionamenti. quanto al concetto
cbegli s'i formato della veritA, noi r investigberemo di proposito in altro capitolo
: qui vogliam toccare quaicbe cosa circa il nesso fra la verita, e Iuomo co*
noscitore di lei, e vedere t'egli trova cosa cbe valga ad assi- curar bene, e
fermare un si fatto nesso. E se noi guardiamo ad nna frase onde cblude i suoi
di* scorsi, pare di si, dicendo egli lo
scibile uinano appoggiare (1) Set. VI, c. XIV. Digitized by Google ad nna certezza immediata e indabitabile (i). Ma qaesta concbinsione viene ella
diritta dalle premesse? veggiamolo. Le premesse sono : Sebbene Iuomo possa aspirare a una sdenza
dell'assoluto, assurdo i dire che vi pu6
giungere con una scienza assoluta .
Questa parola di scienza assoluta pu6 ricevere a dir vero var) signiGcati,
perocch^ pu6 intendersi per iscienza assoluta qnella che ^ pieua , orvero
quella che k al tutto certa, o Iuno e Ialtro. Ma ci^ che segue toglie
I'ambiguo, dichiarando me* glio qual concetto il G. M. siasi formato della
scienza umana. E perfermo, i caratteri
proprii e costitutivi dell'nmana
cognizione sono 1 individuality e la contingenza: e prima V individuality , perchy d'ogni vero astratto
o concreto, par- ticolare od universale,
I'aiiello ultimo e stabile vien legato u a un modo del nostro essere proprio e
individuo. Poi di- ciamo la cognizione
umana essere contingente. Diffatto ella > muta, e il non contingente d
immutabile ; ella conosce le cose per
I'intermedio dei fenomeni, e quest! son termini re* lativi: pud pensarsi distrutta senz' ombra di
ripuguanza, e il non contingente ha
sussistenza necessaria (a). Le quali
parole in parte son vere, ma non in tutto e perd nel tutto son' false. Perocchd
conveniva dire veramente, che la cognizione nmana risulta da due element!^
I'uno indivi* duale, contingeute, mutabile, e questo k (salva Ieccezione che
dird appressu) I'atto onde Iuomo vede il vero^ Ialtro universale, necessario,
immutabile, e questo k il vero stesso veduto. Conveniva in secondo luogo
distinguere fra vero e vero , e mostrare , che una parte di vero vedesi da noi
con un atto al tutto accidentale ^ ma un' altra parte vedesi da noi con un atto
che non d gia accidentale rispetto alia nostra natnra , ma k anzi nella stessa
natura nostra inserito, e tanto fermo quanto la natura stessa, sicchd non si
pud abolire quest' atto senza abolir la natura^ e dopo di quest atto primo e
fermis* simo succedono ancora degli altri atti , che sebbene avventizj ,
tuttavia sono protetti da errore, perchd provenienti da opera- ^l) 1>. II,
c. XX, II. (a) P. II, c. XIX, HI. Digitized by Google SgS zion natnrale e
infallibile (i). All'inconlro non fa il Mamiani alcuna distinzione fra quella
parte di vero che troviamo noi, e quella che ci da la natura: anzi egli esclude
espretsamente questa distinzione, soggiungendo : Quando pure ci avvisas- simo di discuoprire I'ente per si o nel
subbietto pensante, o nell'obbietto
pensato , o in essa facolta di conoscere, nien* u tedimeno la conoscenza che ne
prendiamo permane sempre u individua e accidentale, imperocchi ella i nostra e
non daltri, ella si muta nel tempo ed
ella i un puro feuomeuo. Ni gi^ suffraga
andar figurando per eutro la cognizioae > medesima alcun che d^ immobile e
dassolute, avvegnach6 u I'atto, onde prenderemo notizia di quell assoluto (
posto u che sia) manterrassi sempre individuo e accidentale n (a). Nelle quali
parole non pur si da per cosa dubbia che un as- soluto cada nel nostro
pensiero, ma ben anco si afferma, che se ci cade, il pensiero ri mane
accidentale ^ ni si ammette nes- sun vincolo fisso e naturale fra noi e questo
assoluto, ne si parla di alcun immobile nodo che lega noi con qualche prima
verita. Finalmente i da attender bene, che ogni cognizione nostra, senza
eccezione alcuna, vien dichiarata u un puro fenomeno , e dicesi che le cose si conoscouo per I' intermedio dei fe- nomepi ^ il che, prima, ha qualche cosa di
ripugnante^ pe- rocchi se ogni nostra cognizione i un puro fenomeno, e se non
si perviene alia cognizione delle cose se non per 1' inter- medio db fenomeni,
verrebbe di conseguente che i fcnumeni ci condurrebbero a fenomeni e nulla'
piii. Di poi , chiusi ne (i) I senslsli banao generalmeDte queslo errore che
note nellc indicate parole del G. M. In Deslutt-Tracy e senza veto. Non i pero
nel Rbmagnosi ; che anzi molto senlilamente egli rdiattc il Tracy in qiieste
parole: w Non i vero che sii lutli i
iiosiri giudizj cader possa Ierrore , come di.sse De- stutt-Tracy, ma ci6 avviene solaraeute nei
coinplessivi. Se ciu non fosse, non
sarebhe possibile crilerio alcuiio escogitabiie, percbe il criterio me- desimo , cunsislenie nei seinplici giudiz) di
iininediala, infailibilc ed as- soluta percezione, sarebbe consideralo fallace
w ( f'edu/e foudnmentali suU'nrte logica, L. I, c. V, a), E tullavia per quesle
belle e line parole non si inigliora la causa del nomsguosi, tuitu riduceudosi
prusso lui ail///i> poistbthta dt dubttare. Per aliro, quanto al M., egli
pure ammette per iii- duliiiabile I'lntuizioue immediate; ma non puo proYarla
per tale, se tullu e contiugeute.e accidentale il sapere umano. (il P. n, XIX,
III. Rosmim, Jl Rinnovamenlo . 5o . Digitized by Google 394 fenomeni , non
troveremmo pin uscila da pervenire alia verace GOgnizione dellc cose. In
ultimo, o convien dire che i feno- meni gieno cogniti per se stessi, o per
altro. Se per altro, i fenomeni dunque banno bisogno di altro, cbe non sia
feno- meno , per essere conosciuti. Se cogniti per se stessi , essi in tal caso
sarebbero anco per si stessi^ cioi nel loro concetto non s' involgerebbe una
relazione alia sostanza , e per^ questa non si conoscerebbe giammai. Cbe se
egli i vero cbe la parola fenomeno ba un significato relativo, esso non
sintendera mai se non mediante la conoscenza del termine a cui ba relazioue. Or
consideri ogni sano intelletio, se i fondamenti cbe da il G. M. alia certezza,
siano sufBcienti a sostencrla : consideri IMntimo valore, cbe pu6 prendere la
parola certezza, secondo il tenore de suoi ragionari. La certezza sua, che i
mai altro, se non una cotale neces- sity di assentire a qualche opinione,
acciocchi non c'intrav- venga per disavventura di errare per entro agP immensi
travia- menti degli scctticii* A trovar cotale certezza i volto il libro del G.
M.^ ad essa, e non pin oltre, giunge dunque I'efllcacia ed il valore del suo
criterio. 3. Altre volte per6 egli confonde la certezza col fatto del non
dnbitarsi dagli nomini d' una seotenza. Nessuno vorri credere, vien egli
ragionando, che la mente crei quella cosa che ellaafferma sussistente (i):
dunque i certo che la cosa i reale. Non si dubita, che conoscere e misu- u rare la successione delle
esistenze non i creare tal sncces- u sione
(a): dunque tal successione i reale. Niuno scettico sa dubitare
dellidentica realita dell'atto del conoscere dell'og- getto su cui si dirige la
conoscenza: dunque v'ha qui certezza. All'opposto si potrebbe osservare, cbe la
questione della cer- tezza non ista punto a sapere, se v'ha una notizia intorno
alia I, c. VII, IV. Digitized by Google
3y5 Laonde la certczza, trcondo qnella nozione die si puu rac> corre dnl
libro del C. M., non 6 ccrtetza rationale; e una persuasione ferma , una
credenza utile, e necessaria anco, se si vuole, agli uomini^ una grave paura di
cadere nel pirronismo^ na nulla piu. A provar solo questo si stende dunque il
suo principio della certezr.a , ed esercita questa sua possa sempre dentro a
quella limitata periferia nella quale il vedemmo da lui niedesimo circoscritto.
Udiamo ora ci6 che promelte di si e del sistema suo I'altro de' due, che
abbiamo tolto ad esamU nare, il Rouiagnosi. Conviene che, come abbiam fatto del
Mamiani , cost cer* cbiamo di rilevare qiial sia il concetto che s' i formato
della certezta il Romagnosi^ da questo concetto argomentando noiclie cosa egli
inlenda darci, dandoci il suo criterio della certezza. Cerlo se col vocabolo di
certezza il Romagnosi intendesse cosa che certezza non fosse: il promesso
criterio della certezza sarebbe tale, che non ci condiirrebbe gia al trovamento
della certezza, ma di quello stato dell'animo, o comecchessia di quella qualita
del conoscere, che all'autore piacque di denominare arbitrariamente certezza, e
nulla piu. Ora questo appunto, come al Mamiani, cosl parmi essere intravvenuto
al Romagnosi. Perocchi la certezza del Romagnosi si trova tutta colincala i. or
nella immutability di un giudi* zio, a.* or neWacquetamento tiellanimo; le
quali due cose sono assai lontane dal costituire la nalura della certezza, che
i tutta cosa lucida e razionale. E in fatti il Romagnosi dice, die u la
cognizione vera con- u siste in un si o iu un no immutabile , o, come soggiunge
appresso, u un si o un no specolativamente (igurato come im> mulabile (i). Ora questa i bensi la dednizione di una
ferma persuasione, non per6 della certezza (a). Conviene attentamente (i)
fTfiiute Jhndamenlali ecc., Lib. HI, c. I, 4'
rocchi a quell'assenso non ci condurrebbe un lame di ragione, ma un
indeclinabile istinto. Non basta dunqne, che il si ed il no che noi
pronunciamo, sia immutabile*, noi dobbiamo altresi sapere infallantemente,
ch'egli si conforma a pieno alia veritd. Poco appresso II Romagnosi deGnisce la
certezza cosi: quello u sUto di adesione
o di assenso che I'anima prova nellaf- a fcrmare o negarc senza dubbio una cosa
qualunque ^ o anco, piu sotto : uuo stato unico ed indivisibile
dellanima umana () Ecco la certezza del nostro Glosofo: un
qualche cosa di soggettivo, di relativo al soggetto, e nulla piu. Ma neU
I'accettazlone universale, la parola certezza non indica soltanto nno stato
dell'animo, che esclude il dubbio^ perocchi ove aver vi potesse un animo
aderente ad una scntenza, senza provare alcuna sorte di dubitazione, direbbesi
di lui, ch'esso ha una ferma persuasione; ma che ha certezza, non ancora:
acciocchi v^abbia una certezza, la persuasione dellanimo dee essere ro-
gionevole, e conforms al vero; la persuasione sola, per immo- bile chella possa
essere, non la costituisce. Le vedove dell'ludia, che si bruciano sul rogo de
loro mariti , persuase di [are unazione virtuosa e santa, hanno, fuor di
dubbio, una per- suasione talmentc ferma, die vince Iaiuor della vita: lo stato
del loro animo i unico, indivisibile, privo di qualsivoglia dub- bio) e pure non
si dira mai cou proprietii di linguaggio, chesse posseggano la certezza,
perocche la persuasione loro non 6 ra~ zionale ne I'cra, ina cieca ed
erronea. aflliich^ niuno mi dica, che il
Romagnosi, sebbene non e.sprima nella sua deGiiizione della certezza questa
razionalita e Tecita della persuasione, tuttavia la soltintende) dichiareru,
esser io ben cerlo, che interrogatone il Romagnosi, cosi ap- (>) f'eiiulr
Jnnddmentali ecc , Lib, III, c. I, 4. Digitized by Google 397 punto
risponderebbe ^ ma dopo una tale soa rispotta, di duovo gli replicherei,
chledendogli, che intenda cgli per razionalit^ e per veritd della persuasione:
conclossiacb(^ non sono io inelinalo a fidarmi troppo di belle parole, ma bramo
cercare roai sem- pre qual senso vl afCggano certi ragionatori non siiiceri, ni
leali. E qui appunto a me sarebbe assai facile il dimostrarc, che la
razionalita e i-erila del Romagnosi , non i n raziona- liti, verita: ma il vo'
riscrbare pel seguente capitolo. Mi spaccer6 piii tosto dell'obbjezione
brevcmente, raccogliendo quelle parole cbe escono dalla bocca del Romagnosi
piii spon- tauee, e che mostrano le nndita della sua dottrioa, seuza che egli
se u' accorga. 11 Romagnosi parla di un poter radicate della ragione, del quale
sia frutto la certezza umana. Conviene aver sott'occhio com egli descriva
questo potere^ conciossiachd dalla cognizione del padre, si polra rilevare
anche la natura della Cglia- 11 poter
radicale e naturale, dice, i sempre uno, come la u personalitd dell insetto i
sempre la stessa (i). Ora volendo in
qualche modo qualiHcare il poter radicale della ragione umana, in che esso si risolre? n (Udiamo
altcntamente in che si risolva qnesto padre della umana certezza) u In una
realita K indeflnita, universale ed ineilabile, in breve in ifri non so che u
che va compagno a tulle le funzioni nostre mentali per u imprimerc (a) su di
esse un carattere di approvazione, o di () Non bo tnai saputo ebe I' insello
sia una persona ! qtiesin un esallo parlarc niosoiico^ rattrilmire airinsetlo
la personahia? Il Roinagnosi prn cedendo ael suo stile con Rirellazione , e
qusi sulle suste, fa credere agll uomioi, chc poro s'addentrano neile cose e
che giudic;no dalle forme sppareoti, chegti sia esalto, c lino scrupoioso
nell'iiso delle parole. Wienie piu false. Egli coniraila quasi per tutto il
legiuimo usn ddie parole, e stippone iofinile cose seuza provarle. A ragion
d'esempio, quesla perso* nalitli data airiusello h uiia di quelle parole
gettate a caso , che per6 con* tieoe sola un sisicroa iulero: e cosi ftirlivameiite
caccia deiilro un sisletna senza prova, facendol passitrc per iudubilato. Di
qiiesli salii imrneiisi si risconlrauo ad ogni faccia delie opere del proC
Komagnosi ; e ad un biso* goo, ne sazier6 d*esempj quanli il bramassero. (a) 11
polere radicale della ragione * imprime sulle fiinziom* nostre men- tali un
carattere di approvazione ecc. *; e questa una frase iilosofica euitta? Questo
potere radicale ^ forse un suggello , un puuzoue,UQ torebio? que* ste funzioni
mentali che ricevono 1* impressioiie , sono una pasia , un'ar* Digitized by
Google 3$8 riprovazione, o di nulliti.
Egli non agisce fuorehi provo* cato; ma
quando agisce si spiega necessariamente, ed opera con irrefragabile possanza " (i). Ecco
qaa il fonte della certezza di Romagnosi ! Un curioso potere la produce, il
quale opera, provocato che sia, necessa- riamente, irrefragabilmente; ma opera
veramente egli secondo ragione ? Basta dire che questo potere non si conosce, e
cbe non si pu6 dir altro di lui se non ch' egli i un non so
cbe, simile alia peisonalila dellinsetto . Con tale defini- zione di
questo potere, io non sapru mai se potr6 afHdarmi a lui, credere al suo
prodotto; non sapr6 se reffetto suo sara la certezza^ peroccbi quel potere i
tencbre, e le tenebre non producono la luce. Di piii^ diilBcilmente io posso
credere die quel potere sia nulla di razionale, nel senso vero di questa parola
, e non nel falso attribuitogli dal Romagnosi. Peroccbi dal dirmi, che il
potere della ragione i simile alia personality dun insetto, io non veggo cosa,
che mi rassiciiri intorno alia certezza chegli mi dee prodorre. Che se proseguo
a leggere innanzi nel libro del Romagnosi, trovo chegli seguita a de- scrivermi
Ioperazione di questo arcano potere, non gia come qualche cosa di veramente
intelleltivo, ma piuttosto alia fog- gia dun istinto animale, seguitando il
Romagnosi cost: Quando tu saprai dirmi
die cosa intrinsecamente sia la vita,
allora pure dir mi potrai che cosa intrinsecamente sia u questo potere. Forse
fra amendue esiste una comunione ed u un nesso segreto che fin' ora non fu
rivelato (a). Con dei semplici Jbrse, si
pu6 trarsi molto innanzi nell indagine di gills, UDi piastri melillica, a cbe
cost sllro? Queslo csrattere di appro. vazione i una Bgura, un imroagine ?
Quesle funzioni menial i sono prima senza il potere della ragione, e poi
ricevon esse uiiimpressione, una mo* dilicazione da queslo polere? il caratlere
di approvazione, che ricevono le funzioni menlali, i uua loro qualilii che si fa
loro inerente, pih loslo che un giudizio separate pronuncialo inlorno ad esse?
In somma la frase i plena di metafore improprie s le quali melafore possono
solo (enere a bada di quell) cbe credono di conoscere qualche cosa anche dove
non vi nulla a conoscere: veramente qui non abhiamo che tenebre. (i)
f'tdutefondamenlalisulVarte logica. Lib, II, c. VIII, it. (a) Ivi. Dt-:- ' by
Google 5Q9 uasssoluU certezza ? Per altro qaeste parole assai chiaro di-
mostrano, che il Romagnosi non afferr6 Iessenziale distinzione fra il conoscere
e il vivere animale; e per6 non vide I'opposi- lione die il primo tiene al
secondo per si falta gnisa, che la natura delluno esclude la natnra dell'
altro. Sospetl6 dunque che il conoscere sia qualche cosa di simile ad una
funzioiie animale^ il che solo basta a mostrare che la sua certezza- non i
concepita da lui come dotata di vera razionalita, e per6 non i punto ni poco
certezza (i). (i) Quanta atleozioue io credo doversi porre a non atiribuire
agli scrit- tori opinioui men retie, le quali non appariscaoo chiaro nelle loro
scrit- ture, allretlaolo eslimo non doversi dissimulare o velare quello , che
v' ha derroneo e di peroicioso per eolro alle opere loro falle di pubblica
ra> gioue; il che darebbe io ooi roostra o di vile adulaziooe, o di
puaillaoi- milh, o di piccolo amore pel pubblico bene. Diro dunque di nuovo,
se- condo il mio costume assai fraocameole quello che io peiiso della doltrina
del Romagnosi; penso chessa peoda , e non poco, al inaterialismo. lu- tanto qui
si vede, che fra il polere raziooale, e la vita animale, egli non trova una
essenxiale diSerenza , anzi vien sospettando fra loro una comu- uione, un nesso
secreto. Queslo gill i molto; perciocchi i un disconoscere Dell' iotelligenza
quell elemeolo immulabile e verameote eleroo che la co- sliluiscei quaudo nella
vita animale nulla v*1ia che non sia dislrultibile. Ma che concetto s'i poi
egli formalo della vita animale? quiodi cooosce- remo il concetto che s i
formalo anche dell iotelligenza, che con quella aospella aver secrets
comuoione. II nostro autore dh manifesto segno di credere, che la vita animale
sia un risullaraeoto di alomi e di gazi lu un luogo egli vuol mostrare, che
lulte le idee sono derivate. Ora fa Iobhje- tione a si stesso, che le idee
hanoo de caraiteri opposti a quelli delle sensazioni, p. e. la semplicita. Ma
egli risponde, che non si puo da que- slo dedurre , qpelle idee non essere un
prodollo di pih forxe anche estese , perocchi m no effcito di nozione
semplicissima pud derivare da cause com-
poslissime t (yedute fondamentali ecc. Lib. 11, c. V, i3); e reca in
eseiupio la vita che risulta dagli alomi e da gaz , seblieoe coo essi ella non
mostri alcuna rassomigliauza: Vorresic forse, dice egli, darmi la vostra iropotenza a conciliare le cause delle cose
esperimeolali per pronunziare sulie
origini? Allora io coiniucerei col dirvi non esisleie vita alcuna, t perchi
cogli alomi e coi gaz oon posso vedere come uasca la vita (Ivi, 1 4). In un altro luogo espriine lu
stesso pensiero, diceodo cooiro quelli che dallaoalisi delle idee vogliooo iodurne
che non veogoii lutle da seusi: n Mei compost! raziooali di uuita coinplessa,
fanno scomposiziooi i dialelliche , come
se si tratlasse di scoprire semplici rapporli di quad- tita. Ms i nolo che come solto allazlone
della chimica la vita sparisce e la
forsa vilale oon si coghe giammai, cosi solto la chimica dialetlica Digitized
by Google 4oo Nfa i1 Romagnosi stesso ci si apre anche piii chiaro. Notate ID
prlcna, che il potere radicale della ragione, che egli cbiatna auco senso
rationale y opera, secondo il Romagnosi, or colla t si dissipa la foria
razionale, e la gcoeraziooe meutale non tl raggiuoge M giainmai m {Della
suprema Economia ecc. P. U, J xxii). Queste pa* role non avrebberu oessun seoso
e valore, dove non si suppooesse per cerlo, che la vita 6 un prodoUo di
elcmeoti chimici; ragionaudo Tautor noslro cost: t come gU dementi chimici e
lemperati insierue a cerla foggU producnno la vita , nia scomponendoli qucsta
si perde, cosl scomponendo il pensicro umano ci restano tali element! ^coi
quali non vcggiaroo il modo di ricostruirlo m. Largomento i antilogico, come
ognun vede; e a dire solo alcuni de* molti peccati che gli pesano adosso, i.'
In esso si suppone per ccrto, cbc la vita animale sia un risulumento di dementi
materiali ; or questo ^ nieno die uiiipotesi, ^ msno che una alTermazione
gratuita, i uu errore. La parili dunquc non vale, non prova nulU > non
esiste in alura. i\!* Ndia scomposizione chimica U vita ci sfugge , e ci
restano in mano delle particdic materiali morte. Non 6 gia cosl tiella
scomposizione dialeltica. Anzi in questa ci restano in mano degli element! vivi
, e tanto vivi , che son quest! appunto , quesie nozioni e idee che involgono
una coDtraddizione in (erminis, a volerle dichiarar sensaziooi. L* argomeoto
avrebbe qualche forza , se dopo aver noi analizzati e scomposli i pensieri ,
non ci restasse che sensazioni e ci svanisse lutto cio che ^ razionale; aU lorn
si potrebhe dire in qualche modo: ecco qua gli dementi del cono* scerei e vero,
che il razionale ^ svanito, ma cio sari avvenuto, perocch^ egli dee csscre un
risultamcnto di quest! dementi fra di s6 congiunti, noi Doi non sappiamo in che
modo. Air opposio, facciasi ci^ che si vuole, la parte razionale non si perde
inai ; sta sempre Ik innanzi agli occhi de* sensisti Terma come uiio scoglio:
taglia, assoltiglia, lambicca j la parte ra* ziouale non si fa che piu belta ,
piu pura dal senso, pin inesplicahilc. Il fallo adunque riescc per appunto at
contrario di ci6 che alferma il Roma* gnosi , e prova dirittamente coiilro di lui:
convien rifleltere, che Ic ultime, Je pi6 demeutari idee non hanno nulla di
comuiie colla sensazione : ove fossero solo dilTerenti da questa, si poircbbe
rampinarsi; ma che nature iutriiisecamenle contrarie sieno prodolte da altre
nature intrinsecamente conlrarie, ci6 cozra non solo col principio di causalita
, ma ben anco con quello di contraddizioue. Molti allri errori potrei
osservare, ma md vieta la brevita di una nota. Ruccogiiero piu tosio
Targomeuto, c dir6 : i. il Kumagnosi .sospella una comunita fra la vita
animale, c il principio razio* Dtile deiruomo; 2. la viu animale e considerata
dal Koinagnosi come un accop* piaiuento di particelle al tulto materiali.
Dunque la sua dotlrina preci- pila verso it malerialismo. Reebero ahrove dell* altre prove della me-
ilcsima iucrescevole couclusionc, e luUo cio iu avviso alU buona giovenli'l
italiana. Digitized by Google forma tli giudizio (i), or senza qusta forma (z),
ma sempra quel putere che opera. Ora
questo potere i quello, come ab- biamo veduto, che produce la certezza. Udiamo
dunque come ci viene descritta questa certezza, questo stato deU'aDiuio privo
di tutte dubitazioni. u Esso non ^ un
giudizio intellet- u tivo , Ilia un scntiinento pari a quello del piacere e del
do- lore. Volendo dunque trovare una
denominazione piii propria, u io lo chiamerei potere di darsi pace mentale. Gli
anliclii u sceltici ponevano il riposo deWanima come I' ultimo terminc u della
ragioue. Questo modo di qualiGcare questo putere die u suppllsce all'istinto
(3) e forma on dato ontologico (4). paruii u di iuUnita importanza ed
estensiooe nella dottrina delluoiua > iiiteriore (5). Queste parole sono preziose, perchd
squarciano il velo , e fanno vedere 1 intima dottrina del Romagiiosi. In che
consists la sua certezza? In una pace, in un riposo delPaniina. Gli an- ticbi
che ammettevano questo riposo dellanima come Ililtinio terminc della raglone,
si diiamavano sceltici, e di buona fede negavano che certezza cl fosse per
Iuomo. II Romagnosi fees una bella invenzione, a line di potere d'una parte
tenere la dottrina degli antlehi scettici, dallaltra negare dessere scet>
tico egli stesso, anzi sostenere che v'ha per Iuomo una cer- tezza verissima.
Quale inveuzione? Molto ingegnosa! dlmporre il nomc di certezza al riposo o quiete
dellaulmo degli antiebi scettici. Concludiamo : il signlficato che il Romagnosi
attribul alia (i) M CnIU denominazione di giudizio non $i esprime I'indole
pruprii , * ma solamente uii efletio ronsegnenie del potere della rngioDe *
f^eduie Jondamentali ecc. L* II, c. VIU, i3* (a) M Ma so osrure e indi-tinile
idee pu6 forse cadere un iiilelletlivo giu- t dizio? Eppure sopra silTalte cose
il senso razintialc !>i manifeSta. s$o M dunque non h uit giudizio
iutellettivo) ma un sentimciito pari a quello M del piacere c del dolore *.
Kedute fondamentali ecc. L. II, c-YIII, iS. i3) II Romagnosi esclude Iisliutoj;
ma che cosa ^ il suo |>otere radicale della ragiune se dou un islinlu? Egli
dunque abolisce uu uomc, e ne veiila un allro: ecco il tullo della sua filosoila.
(4) E Tacile di accorgersi che ontologia dee esser quell, i del KoiuagouMi
un'onlologia del tullo feiiomeuale! (5) Fcdulc foudttmeniali ecc. L. II, C-
VIII, >3. Rosmim. Il R nrioyamento. 5i parola certexxa, non i >1 concetto
della certezza; decida ora I'uomo di boon senno, che valore possa avere il
criterlo della certezza del Rotnagnosi (i). CAPITOLO XXXV. CO^TIMJAZIO.NE. Non
basta: ci resta a trovare qual sia Iintimo concetto cbe il Mamiani e il
Roniagnosi si fanno della Verita. Poichi non dovendo essere la certezza che una
indubitata cognizione della Terita, noi potremo anche da questa via giungere a
misurare il valor vero del criterio del Mamiani e del Romagnosi^ giacchi il
valore di quel criterio i pari al valore della veriU, che esso intende a fare!
conoscere con certezza. Or che valore avrebbe poi quel criterio, se la verila
die intende a farci conoscere, non fosse per avventura verita, ma qualche
cosaltro vestito del nome di verita? Quello non sarebbe piu criterio di verita,
ma qualcos'altro vestito del nome di criterio: la cosa mani* festa. Accingiamoci dunque alia ricerca
del fatto. 11 Mamiani mette in capo alia II Parte del suo libro, come sentenza
che riassume la sua doltrina, questo motto tolto dal Vico : *. f^edute
/biidnmeninli err. L. II, c. VIII, i3. (al II C. M. linn dice tutlo il pensiero
del Vico, ma solo iina parte. E clii, leggeodi) il Mamiani e non il (ilosofo
n.-ipolilatio di ciii si f.i diserpolo, trovasse die la dotlrina del maestro A
per appnnto Iopposto di quella dello scolare? Veggiainolo brevemente. (i. B.
Vico, nel Idiro lieiranti- chissima
sapienza drgli llaliani Iratia dai latini parlari M,comiiicia a dire die presso i latini rero e /atto si adnperano
promiscuainente . Qni, come i cbiaru, non espone egli la ana opinionr, ma si
quella drgli antirhi latini. Or Iapprova egli qnesla opinioue? anzi 1a rifiuta
espressamente. E percb^? per un motivo assai grave, pcrdii a suo gindizio ella
e diritlamente con- Iraria alia cristiana ri-ligione, prorrdendo essa da un
crrorc del pagane- iino. Indt trae ragione di einriidarla, il die d quanto'
dire tnimularla in HU altra troppo diversa. Hiferiro le sue slesse parole, die
liramo da raici Digitized by Google /,oi Di vrrn, liUlo ciu tliVgll neralo:
quindi con eleganza vcracemrnte divina le sngre carle cbia* u marono Verbo la
sapienza di Dio, che in contiene le idee di lulle le H cose, e in conseguenza
di (uUe le idee gti element! ; esseodo in esso lui w una cosa sola il vero e la
comprensionn di tiilti gli dementi die queslo t universo compoiigono, e polendo
egli innumerevoli mondi , solo die il w volesse, creare; onde cooosceiido egli
di ogni possiiiile idea gli elemenli M lulli Delia sua onnipotenza compresi,
viene in lui a generarsi un Verbo rcale perfellissimo , il quale essetido dalU
elcroiia coacepito dal Padre, M dairelernilk pur nnebe dee dirsi die da esso
lui sia sialo generato > (Cap. I), 11 Vico qui distingue diinque il vero
creato dalli/icrenfo, e solo del primo egli dice, die il crilerio i il farlo,
Ma che i il vero creaioT il vero in $t slesso e uno solo ed elerno
essenzialmerite. Quando adunque si dice creato il vero, non si vuol dir altro
con quesia parola se non il vero ia quanto e conosciuto dalle creature,
conosciulo da esse con quelle forme e lirnilazioni oodVssc possono conoscerc il
vero* Gonvien duiique iniendere ID sano modo Tespressione di G* B. Vico,
convien iniendere qnel suo Jarsi fiatla mente it vet'o, per sinonmio di
conosccrlo, e di dodtirre le con- seguenze da' priucipj , coila qua! deduzioue
iu colal gnisa ello lo si for* ma , cioe gli da quelle forme e spezzaturc, die
sono proprie ddlo spirito umano e a bn necessaric perche possa iiileudere con
picna persnasiooe c snddisfazloiie. Per altro egli e al luUo cosa lontaoissiina
dalla ineole del profondo Vico il far Tuoino verameDle aulore e creaiore del
vero: concios* siacb^ ooii isfuggiva cerlo alia sua iiobile mente, die il vero,
ove fosse dal* Iuomo creato, iiou sarehlte piii vero. Per6 in cento passi delle
sue opero egli deduce il vero creaio dal vero increalo, cio^ da Dio; ed ^ a
questo foute, cb'egti attigne la necessity, ruoiversalitli, e Iallre qiialila
divine delU verila; cou die egli appuolo diinoslra di dod opinare, die il vero
creato sia qualche cosa di diverso dal vero iucreato nell'essenza, ma solo
nello forme, nella liinilaziooe, c uclU relazinne culla cre.ilura, riinanemio
nel suo fondo identico coll increato. Pero il Vico iiisegoa che n la mente
uraana H vieue ad essere come uno specebio della inenlc di Dio m (Kisposia di
G. B. Vico all'An. X, T. Vlli del Glornale delelterati dTtalia); egli iu* segoa
cbe non vha che uua ragione sola^ e quella deliuomo non e cbe uua
pafiecipazione di queUunica ragiooe, e quesla opioione egli pretende essere
aolichissima nellllaiia nostra, e comune, sicch^ oegli siessi parlari latini so
DC ravvisi mauifesla U traccis, i quail dicevano Tuomo uo ammale paria* 11 va
solo riceviiore e racrogli- tore. Ora posto cio, niuna diflicolla siucontra a
Irovare net vero la immii- tabilila, la uecessila, Tautorila e ronnipotenia di
cui splendc fornilo: cosc rbc non polrh mai dare Tuomo a stesso, ma solo
riceverne rimmacolala luce. d accioccb^ ancor piu chiaramrnie apparisca la
moute del Vico, e non at ripeta contimtameule chc i piu cari nosiri Olosofi
stnscian per lerra, c cbe il grello seosismo sia la cara crcdila che abbiarn
fatlo da* padri no- airi, mi si conceda di addurre un altro luogo del filosofo
siesso, i cui aensi malamenle si perverluno, e poi si decida se il fontc, da
cui egli fa prove* Hire all aniina deiruomo i( vero, sia o Tuomo o qualclie
altra rreata cosa, e non piu losto il principio supremo, infioito e sempiierno
di tulle cose. Dice adunque egli, ribalicndo gli scellici, cosi : u Qursla
comprensione di cause ohe raccoglie in
sh tulle Ir forme o guise otide suno prodolti gli t M elTelli, de quali dicono
gli stoici di vedere i simulucri, ed igooran cosa r essi sieno; quesla
comprensione di cause nppunto i la prima veriia, per* ** cioeeb^ le compreode
lutic sino aHultime; e poichd* tulle le compmide *. Egli inteodeva cine, che nelle
smsaztoni non ist^ la veriia, ma nelle pure idee. 2. II C. M. proponendo rmliiizionc erealrice per
criterio della scienza, non avvcrie in qual senso limitato inlendasi dal Vico
il vocabolo scienta: per questa non inicnde che cio di cui si conosce la
cagione, non* negaiido egli pero , che dellaltre cose sabbta cerlczzaj il
criterio nduiique rimane parziale, e non ^ punto n6 poco uiiiversale. Io coocedc:^, dice tl Vico, H parUndo del
criterio carlesiano, quel metodo csser buooo a rinventre M i ccrii segoi ed
iodubitati del mio essere, nia non esser boono a ritrovarne u le cagloni (Lett. II in dif* del L> dciranlichiss.
sap. ecc. ): per queste ^ solo, die propone il suo del formare il vero, o sia
del dedurlo dai prin- cipj, e ronosccrio dsgti clemrnti, cunchiudendo sempre
con derivarne dal prime vero lulta la forzn. ** Questo criterio ^ in me
assicurato dalla scienza di Dio, che E FONTE E REGOLA. D OGNI VERO (ivi). Ma egli h anco troppo per una nota. ^
(i) LNntuizione ha le sue facolt^; non ^ donque Tintuizione una cosa sempbee,
tna un complesso di facoldit (a) P. II, XVII, III- cezione de'rorpi, e dire die
u in tiitto cii!> la mente e nperalrlce del vero ( i ), ma che per6 la creazione die in tal
percezione iioi facciamo del vero ha un limite, quando all'inconlro nelle
scienze matematiche il vero i del tutto creazione nostra. u Qudlo che limita, dice, nel nostro esempio (cioi nella percezione de' corpi) la creazione del vero dalla parte
dellin- telletto si I'csterna impulslone, e a tal condne appunto
vien nieno la nostra certezza. Allopposto, si Cnga Ioggelto dd- 1
riiituizlone essere nelle nostre idee soltanto, e nei gruppi e M nelle
separazioni diverse die vi andiamo determinando. Certo u i allora, die
Iintelligenza con tutte le forze della propria u spontaneita rimane creatbice
sola del vero^ siccome incontra u agli Algebristi e ai Geometri, i quali
variando, compiendo e u ordinando i proprii concetti generano i loro teoremi,
la cui certezza distendesi tanto, quanto
la materia pensata, cioi a u dire che in tali invenzioni la certezza e la
scienza vanno u dun solo passo (3). Di
che condiiude u non far maraviglia sc
tutto Iumano u senno procaccia di glungere alia condizione della geometria u e
dell'algebra , ciod aspira a mutarsi (3) in bella e grande u CREAZIONE DI
NOSTRA MENTE n (4): e u criterio della scienza u essere I'intuizionc
creatrice (5). Da questa duttrina
vengono induttabilmente deeonseguenti, che io tengo per fermissimo il G. M. non
aver preveduti, e t quali ripugnerebbero indubilatamente al suo sentimento. I.
Se la verila non fosse altro che una nostra creazione, noi stessi avremmo un
pregio maggiore della verita. 3. Perci6 la verita non mcriterebbe piii quella
somma ed assoluta riverenza ed ubbidienza , che il mondo crede ed ha sempre
creduto; ma non mcriterebbe se non una stima relative, e minore di quelja che
si dee a noi uomini autori di lei : ella dovrebbe service a noi, non piii noi a
lei. 3. Ogni qualvolta a noi gioverii farlo, potremo adunque (i) P. II, XVir,
III. .(a)Ivi. (5) Se aspira a mutarsi, csisteva duiique prima che divenlasse
creatura ^ nosira. (4) p. II, XVII, III. (5) Ivi. Digitized by Coogle 47
tranquillamente sacriflcare, in noKtro vantagglo, questa nostra creatura, la
verita-, perciocch^ nella collisione i da preferirsi >1 creatore alia
creatura. 4. Ma chc? La verita rimarra ella n4 pure un poco rispetta- bile? vi
sar^ di qui avanti qualche oggetto che meriti un mo* rale rispelto?
I'obbligazlone morale esisteri ella piii?
Se la verita 4 creata da noi, egli 4 al tutto impossibile che esista
alcuna obbligazione morale (se non forse apparente e immagi* naria): 4
impossibile che esista un qualche essere che vanti davere un glusto diritto al
nostro rispetto morale. Imperoccli4 4 egli possibile che la verita comandi a
noi? che la creatura imponga Icggi al creatore? 4 possibile che alia iiglia
ubbidisca il padre? quaiido ci4 nc apparisse, non potrebbe essere tutt'al piu
cheunillusione vanissima. Yeramente tutte le obbligazioni morali non sono che
verita, come le geometriche. Se le propo- sizioni di Euclide sono una semplice
produzione di Euclide, se i precetti de' moralisti sono mere produzioni di
questi uomini che hanno tolto a creare de precetti: egli 4 piii chiarodel sole,
cbe le proposizioni di Euclide non hanno n4 aver possono nes* suna intrinseca
ed assoluta necessita, come parimente i precetti morali non hanno n4 aver
possono nessuna intrinseca e asso- lula verita. N4 pure il consentimento di
tutti gli uomini po> trebbe aggitingere a tali produzioni umane un granello
di verity intrinseca, o di quella autorita che non hanno in origine. Tutto al
piu, come alcuno ha detto, potrebbesi tornare a dire, che questa 4 una ferrea,
inesplicabile, ineflabile legge di natura, la quale costringe spietatamente gli
uomini a sottomettersi alte produzioni 'del proprio cervello, a crearsi degli
enli ideali a cui ubbidire, a costituirsi coirimmaginazione deglidoli cui
adorare^ ma raai e poi mai si potra conciliare insieme queste due pro-
posizioni, I che la verita .sia un prodotlo dell'uomo, a.* e che ella possa
imporrc leggi non pnramente fisiche, ma'veramente morali ed obbligatorie
all'uomo. 5. * Distrutia la virlii Gno dalla sua radice, distrutta Gnp la
possibilila di una obbligazione morale qualunque, alio stesso modo riman
distrutta la scienza^ perocch4 tutto rimane appa- renza e inganno d'una natura
esseiizialmente maligna, perchu oicDzogncra. Conciossiach4 la scieiiza chiamasi
scienza solo per * 4o8 questo, che ella
reputasi vera d una verity immutabile e al tutto indlpeodeate dagli uomiDi. Che
perA, se provar si potesse che ella non fossaltro, $e non una prodazione della
stessa natura umana^ quella non sarebbe piu scienza, ma apparenza di scienza,
colla quale la natura umana farebbe un infando ludibrio di si medesima.
ti.'Luomo non sarebbe adunque nobililato piu nA dalla pratica della virtu, che
non esisterebbc, oi dalla luce del vero, che sarehbe spenla. Onde trarrebbe la
sua nobilla? Darebbe tors'' egli una qualche nobilta a quelle cose che portano
i nomi di virtu e di verita? a queste obbrobriose illusioni, a queste
gigantesche e mostruose sue figliuole? Quale? se egli medesimo i caduto, col
cadere della virlii e della verita, nellignominia e nella derisione della
natura? se non si distinguerehbe dalle bestie, se non per essere atto egli solo
di ricevere dispregio e abborrimento? y." La illosoila , nel sistema di
cui favelliamo, verrebbe ad essere di tutte le invenzioni la, pin criidele ' e
disumana die aver vi potesse^ perocche mirerebbe a ronipere quel sogno con*
tinuo, in cui runianita giacerebbe assopita ed igiiara della reila e della
infelicita intrinseca di sua natura. Quando poi una volta, per la forza
usatagli dalla iilosoGa, Iuom si destasse, e vedesse la virtii e la verita
esser divenule un prestigio, che gli rimarrebbe, .se non Iodio di una natura
snaturata, e un desiderio solo di distruggersi . di seppellirsi, e se fosse
possi* bilg, di annichilarsi? Tali conseguenze procedono indeclinabilmente
dalla sentenza, di fuori cosi bcnigna, die u i| vero A una nostra creaziouen. Puo
esser che seinbri ad alcuno, che io prenda la cosa troppo alia lellera. Bene
sta: io il primo assento , che il Ma- miaui e alienissimo dalla tristezza di
tali conseguenze: io pure rinvengo nel libro del Maniiani de luoghi che
contraddicono aperlamente alia dottrina , die il vero sia una creazione no-
stra: nA daltro lato ho alciiri desiderio d'intendere la sua dottrina a rigore
di leltera. Dico solo, che inlesa cosi come suona (salva la sua mente occulta,
che io non veggo), qiiella strana dottrina i gravida di terribili sequele :
dico che se in- tesa alia lettera i falsa , duiii|uc 6 vero il contrario di
quel che suona : die dunque e vciu Digitized by Google t. fhe i\ vfro non i nna
errazione o pro(?ii7.ionn TKistra; 3. ck' esso noil ^ il niedesinio che il
fatto crealo o pro- dbtlo da noi; 3. eke il eriterio della scienza non i, e non
pub essere 1 intuitione. crealrice; 4- che il vero i qiialche cma di maggiore
deU'uonio, e dalluomo iodipendenle^ 5. che il vero e un principio. nnenlila, di
cui pub ben partecipare e godere la timana natura, come gli occhi noslri
pnrtecipano e godono della lure, nia nello stesso tempo egli 6 una cosa
infinitamentb piu subtime della natura umana, im- inutabile, eterna.
necessaria, dolata in somma di doti intera- Biente opposte a quelle dellumauo
essere mutabile, conlin* gente, da tutte parti limitato; e ehe solo
dallaltezr.a e dignita del vero, a cui si enngiunge, attigne I' umana natura
tulti i tiloli di sua grandezza. Fra la prima e la seconda serie di conseguehie
non vha mezzo cb'io vegga^ o e \era la prima e falsa la seconda; o b vera la
seconda e falsa la prima : gli uomini onesti e inge- gnosi considerino bene
I'alternativa; non si conrun'dano net torbido di alcune nozioni oscur^, ma
lealmenle e fraDcamento scelgano fra Tuna e I'altra: e anche il C. M. 6
invitato a sce-> gliere, con maggior cognizionc dt causa, fra cotesta genie
onorata. E che cosa Fichte disse piu di cib die b scritto nel libro. del C. M.?
Se noi produoiamo le verita, esse sono neeessa- riamente una emanazione del
Noi: ed egli ,e assai meno porten- toso il dire, che noi mandiamo fuori
Iliniversp niatcriale, die non il dire, cbe noi mandiamo fuori le verita
matematicbe o i'altre tutte: perocchb 1' universo materiale hualmeiite ha del-
Ianalogia col noi, attesa la sua liraitasioiie, contingenza e niii- tabilila; e
eerto creare il tinito, il coiitingente, il mutabile si pub; ma creare
Pinfinilo, il necessario, rirtiuiulabile uonsi puo metaBsicamenle, ciob involge
assurda il peusarlo. E a Fichte piu s'avvicina il G. M. con quella sentenza die
a sinonimi Ienlita, o la realita, e la verita, il vero ed il'Xatto. Che se
vuolsi investlgare onde s'origiiii un tanlo paradosso, Iroverassl
manifestaroepte pruceder e'ssa da due difdcolla, olfer- Eosmihu Jl
EiiuiovamciUo. Sa 4 e in scpamto Jal
noslro spirilo, rJ6 clie convcrrebbc chc fosse, ove lo spirilo nostro non la
creasse egli stesso? Gravi sono qiiestc rlifTicolta: cosi gravi, che appena vi
stato naufragio nella filosolia, che non sia proceduto da tali punte. ^Ta con
buona pace del nostro C. M., h egli qncsta la via del boon metodo di filosofare
da lui stesso tracciata? ncgher6 io una cosa perch^ la mia ignoranza mi vieta
diotenderne la nature, o di concepire il modtf come possa essere? Canonc
prlncipale del buon metodo ^ quello di partire dal- Iosservazione. E questa
osservazione, che io veggo con dispia- cerc trasaiidata e obliata da quelli che
piu ne vantano Puso: io crederei di essere in caso di fi|r toccare con mano,
che di tutti i {Ilasofi, quelli che piii trascurano 1 osservazione sono i
sensisli..Cotesli si persuadono alia leggicra, che P osservazione consista
essenzialmente nel limitare la filosoGa ai sensi^ aIPop> posto questa loro
regola al tulto arbitraria 6 ellp stessa un sU sterna in aria, che offende, e
che annien(a P osservazione. Chi osserva da vero, raccoglie tutti i fenomcni ,
e non ne esclude veruno, o sieno quelli csterni, o sieno intern! nello spirito
no- stro (i)^ il limitarsi ad una classe prediletta non i osserv'are, ma
incalcnare Posservare col proprio pregiudizio. Affrontiamo adunque la questione
toccata sulla nature della verita colla semplice osservazione; che forma
prendera allora quella que- stione? la seguente: u La verity da noi conoscinta
i ella fatta da noi, o aempli- cemente da noi percepita? o sia :
siamo noi sionsapevoli , qnando vcniamo al possesso di una verity, per
esempib cbe il quadrato dell' ipotennsa h tiguale a qnadrati dc' due cateli, di
produrre noi stessi quella verita o semplicemente di pcrcepire nna verita die
gia esisteva prima cbe noi la percepissimo?
Tdle i la questione; ella i una questione tutta di fatto. Per risolverla
non convien dunque cominciare dicendo,
ma se questa veritii esisteva prima che io la percepissi^ come esisteva
(i) Mi pare bsm! itrano il veder fatta da alcuoi oppusizioDC a questa
importaute verita svolla assai jEhiarapieDte nel disoorao del signor JourtVoy,
che fu preraesso alia edizione italiaoa de* Priooipj di niosoila morale detio
Stewart (Lodi, dalla tipografia Orcesi uel i85i ). Digitized by Google 4 1 1 .
rlla? come si puo concepif? ciiella alibia iincisten7ji in stessa n ? un
liuguaggio di tal maniera e qtiellu della igiiuranza^ la quale perla in
fretta, intrqmette il suu raglooanenlo
male a proposito, obliaudu I'osservazione die si dovea fare. Torno dunque a
dire: osserviamo semplicemenle: e se Ios- servazione mi dice, die io sono
coosapevule di aver acquistata una verita noova, ma non di averle dato io
esistenza col mio cnncepirla; afTermiamo fraocamente anche questo, e nol te>
niamo na.scosto, per iiiia cotal vana e fanciutlesca paura, che ct venga
ditnandato, come questa verita esistera senza di nui, e senza I'aUo dello
spirito nostro. Porocchi, alia peggio, quaodo Cl venisse fatta questa
intern^azione, noi risponderemmo che nol sappianio; e gonfiandoci deiitro
qoalche piccola prosun> clone di dover saper tutto^ ci verra anco mi po di
color ver- miglio sill viso: nia floalmente quel bel colore aodera sinun- tando
inpocodora, e finiraqoi tutto ii male che incontreremo, Dica dunque in buona grazia
il mio caro lettore, Quaiido egli col
suo intendimento giunge ad apprendere una verita niatematica, ^ per avventura
consapevole d'csser egli colui che da Iessere a quclla verita, o pure la
coscienea gli dice, chegli non fa che intuire una cosa vecchia, vecchia troppo
piu di lui? Qui si tratta di un aflare di falto, di una deposizione della
coscienza. Quando Aristotele, che sccondo Iinterpretazione di molti c sensista
marcio, diceva che u Iiotendere e un cotal pa- tire egli non intendeva gia di
provarlo con un raziocinio, ina intendeva di annunziare una verita
semplicissima di pure osservazione (i). E chi mai, non ischifando
Iosservazione, ni prendendosi cura e timore delle consegoenze, chi mai potfebbe
venire a dire, di esser egli quegli che fa esistere, che i quanto dire che da
la verita a questa proposizione: i tre angoli d'un triangolo sono uguali a due
retti!* chi non sente an'zi intiraa- meiite come questo i uu vero al tutto
indipendente da lui , (1.) De anima L. VII, t. zii e xxviii. S. Tommaao (5. I,
XIV, ii, a), e tuna la scuola seguita questa senieuza. E pure sola quesla
aealcoza a sullicieiile a dimoslrare, cbe le idee nS aooo purainenie alii Hello
spirilo, c suuo pure seusazioui, ne seasazioui luaoipolate d' -'' atti dello
spirilo. / Google c rli''cgli non fa cba voilcrlo^ slata la medcsiuia anche senza di me: uicnle
ell' ha soffcrlo col co- noscerla io^ non i divciiula per queslo nuova ni
vecchia, non ^ divenuta piu n men vera, non ha acquislalo piii o meno di
aulorila: sono io, io solo, quegli che soffersi modificazione, io che mi
permulai diguaro in sapiente, io che dal nun posse- der prima quel bene della
verila, veiini poi a possederlu^ senza che il dello bene cominciasse ad essere
colla mia cognizionej o non fosse senza di me. Ma e come dunque una verila pu6
esislere in s slessa? Ecco la terribile queslione: ccco il guado che impaurisce
ed arrelra i fllosofi noslri, e fa loro .rinnegare per insino I'evi- denza
dellosservazione piii irrefragnbile, di quella osservazione che per allro essi
ammellono per sola legillinia funle della niosoGa. Ma di nuovo, c se vi
rispondessi ehe io non lo so, come vi dissi da prima,. sarebbe egli queslo un
gran male? per quesla mia ignoranza il fallo sara disfatto? Posservazione
cessera d'esserela maeslra de filosofanti? che buon melodo di filosofare
sarebbe egli mai colcslo? melodo che distruggerebbe la GIbsoGa, tulle le
sciense: i fenomeni della nalura io dovrei negarli lulli, niuno ecceltualo,
perchb non ho tanlo senno da esplicarli! Dobbiamo descriver ora la verila del
Bomagnosi , dbpo de- scritla quella del Mamiani. Gia precedenlemenle ne ho
toccato^ e fu veduto, che I9 ve- rila del Romaguosi i una manifaltura ualurale
(1)^ il che so* Egli dichiara ancor
meglio il suo pensiero toslo dopo, ove toglie a luostrare, che la verita de
nostri giudizj non si pu6 mai desumcre dalla loro confurmita collo stato reale
delle cose^ ma solo colla posizione ipotetica del nostro inUlletto. Qnt apre
pin ingenuamente il sQo sistema dIdealismo. u Se col pensiero io salgo flno al
cielo, dice, o scendo fino agli abissi,
io non esco mai fnori di me stesso (3), e veggo 1 sempre le cose in me-stesso
(4)- Luniverso danque che sup- (i) Mon si tralta che di un eSsere senzienleV
(a) yedule Jondamentali ecc. L. I, c. V, 4- (5) Vba uii libro rranccse, che
comiacia appunlo cost : Soil que nous nous e'leoions, pour porter
melaphoriquemenl, jusques dans les deux, soil que nous descendions duns les
abysmes; nous nc sortnns point de nous^memes ; el ce uesl iamais que noire
propre pensee que nous appercerons. Ognubo sa che questo libro \' Essai sur Vorigine des cohnoissances
humaines di Condillac. (4) Lurc/Ve di sc stesso applicalo alio spirllo noslro i
una pura meta- fora tolla dalle idee della spazio. Or cbi *000 sa quapto sieuu
pericblose If inetafore, quaudo si usaoo non a chfarire iiti pensiero prirna
esposlo in parole proprie , nia auzi a proporre una ddBcolla? Vha tull.a la
ragione di dire al fdosofo cbe ci parla con parole traslale: > o ragiunalore,
espo- netemi i voslri pensieri fuor di melafora, e allora saro in caso di
pesare la gravezza della voslra diOlcollA; fino cbe la involgele in un
linguaggio iiguralo, ella non si puu giuslameole estiniare . Ora nel caso
nostro, per uscire di melafora, coiiviene considerare, cbe Io spirilo percipienle
e un essere semplice e al lutio immune dallo spazio, die pero relalivamenie
alio spirilo uou v'ba iie foori n denlro. Con Inie cousiderazione la diflicollA
cessa per si slessa. Nascendo il fatio del conoscimeulo fuori inlieramenie
dello spazio, dec di ucccssila succedere cbe vabbiaiio dcUc furze, degli 4
16 pongo esistere ahro non i ni ester
puu, quanto a me, ftior* a chi un fenomeno ideale prodolln dentro di me
dallazione determinata dai rapporti
reali che passano fra il mio essere
pensante e qnesto csteriore universo. In ultima analisi per* tanto tntia hi questione si riduce fra
Iidealismo isolato, in* ( l)- Veramente
tutti quelli i qnati non ammettono che vabbia un essere^ ideale dislinto dallo
spirito nostro che ci faecia co- Boscer le cose, non ammettono la venits', che
i questo stesso essere; e debbono in fine trovarsi tulli insieme rovesciati
nello scettscismo. Imperciocchele iognizioni nostre delle cose non possono per
essi esser altro che modificazioni dell'animo, e nulla piii. Solo discordano
fra loro quando vengono a definire qual sia la na- tura di queste modificazioni
, e quale la loro origine. Alcuni le dichiaramv mere sensazioni; e qnesti sono
piii coerenti degli altri. Ma questi stessi, che col nome di sensisti si
possono uni* versalmente appellare, vengono poi qnestionando in sulla causa di
queste sensazioni; afferraandole altri eccitate da solo une ttimolo esterno, a
quali pu6 darsi il nome dt pttri, od orgamci^ altri pretendendo che nasrano
dlina virtu interna dellanima, i quali chiaino psichici; altri finalmente
facendo quelle modi- ficazioni esser un prodolto medio di due cause accordate
in* tieme , cioi di uno stimolo esterno e di nna reazione interna delPanimo, a
rui s'appropria il nome di organo-psichici. oggelli che agiscona nello
S|>irila, c clic questi possano essere narlecipati- dallo spirilo (cioe
cnnosciuti ) seiiza cbe sieuo separali dallo spirilo; I'una cosa pud iuvolgcr
Tallrn , a differenza dccorpi, fli cui I'uiio d essenzial- mcnle fuori
deiraltro. Il rrigionamenlo del N. A. riceve adimque luia colat furza
appareiilo solo Hall*errnre di applicare
alto spirilo le idee dello materia , e dal pre^udizio die Ddii vi sia cosa la
quale non uliliidisra alto leggi slesse a cui ubbidiscono i ciirpi. Qiiesla d
una di quelle opinioua graluite die preoccupano la menle'elescn.ris8 nn riraltato di qnesta reciproca azione la
quale costituisce una legge reale, ma 6
metafisicamente impossibile che io possa u conoscere questo stato reale a guisa
di originale di una co- pia. Pretendere
di conoscere le cose in si stesse i un as-
surdo logico, perci6 stesso che la cognizione mia i un'azione ' mia,
fatta dentro di me, e un mio modo di essere, e non una u trasfusione
sostanziale di un ente e precisamente dellentiUi u delloggetto nella intelligenza
mia n (i). In queste ultime parole si contiene Ierrore^ diiUnendovisi la
eognizione seroplicemente come un nostro modo di essere, una nostra azione, e
disconosccndo cbe 1 ente ideale 6 qualche cosa di distinto da noi, e in noi, se
cos'i si vuol dire, appunto trasfuso, il quale ente ideale (luce in cui si
conoscono le cose) i h.tvritd delle cose, Vesserita della rerita. ' Che se
taluno, abbandonando Posservazione del fatto, ponga sua fede in un vano
ragionamento speculative, gli parra questo certamente assai duro ad ammettersi,
siccome cosa alienissima dalla comune maniera materiale di concepire. Tnttavia
ad ogni intendente persona parri, io credo, di lunga mano pib duro, ed anzi al
tutto impossibile il pretendere, che la veriti cbe noi veggiamo sia
semplicemente una modificazione dell'anima nostra ni pih ne meno, qnantunque
Panima non saccotga mai- di mirare in si stessa una propria modificazione
quando cuntempla la veriti di dna cosa (a). (i) ytdule fondamenlali ecc. L>
I, c. V, 7, 8. , (2) Non sata iimlile chc io qui riferisca il giudizio di
Pietro Bayle solla disliniioiic dellidra e della perceztone falla dal
Malebranchc, o piu tosto da lui resa illusire, coiiciossiaclni priraa di lui si
amtnise scnza contrasto. Secondo il
scntimeuto del P. Malebranche, la percezione dunidca 6 M diflereole dall'idea
stessa; la percezione k una tnodalita dellaniina no- stra, ma non Iidca. Ecco tiii cbe pochi
intendono. Ma e non vha mag. .. gior ragione di riruilarlo; perocchi qucgli che
6 alto di andare un poa .. fondo oelle cose, vcde facilmenlc, chc chi alTcrma
vcdcr noi'i corpi io u s6 stcssi, ed esser la vera cagione dell idea che noi n
abbiamo, pronun- M cia de termini, che sono tanto incomprensibili quanto
dicendo un cir- M colo quadrato (i?e la
Hi!publi(jac dcs IjCttreSf Mai i685, art. 3). Nella sostanza io sono daccordo
col P. Malebranche in quests parte; solo non eonvengo Con lui nelluso cb'egli
fa della parola percezione; lo dislinguo I'atlo cou cui vrggo, dallidea veduta
; aminetto che Iidea 0 Iesjcre ideate Digitized by Google 4g Che se la dotlrina
del Roniagnosi si restringesse solo a dire, il sentimento dellunlvcrso
esteriore, materia della cognizione nostra, non essere che un effetto di due
cause , 1* una diversa da noi, Ialtra noi stessi^ saremmo i primi a convenire
nella sua sciiteuza^ e abbianio gia parlato a lungo della limitazione che
riceve la cogoizione nostra dal modo oude noi riceviamo la materia di questa
cogoiziune (i). Ma il Romagnosi non re- slriuge al solo seotimeuto questa
teoria^ la stende a tutto^ egli vi acchiude anche la parte Ibrmale della
cognizione', il princi- pio stesso di contraddizione diviene nelle sue mani una
sem* plice modiCcazione o vibrazione dellanima nostra^ perd tutto k soggettivo,
dun valor relative a noi: chi non intende avervi qui la distruzioDc di ogni
verita, un idealismo trascendeutale? Che sc noi cercheremo per chc via un
filosofo pervenga in tali assurdi^ sempre troveremo, lo sragionamento
originarsi, a dirlo di nuovo, da qualphe prevenzione. La prevenzione domi-
uantc nella mente del Romagnosi i appunto la pretesa impos- sibilita di avervi
un enU ideate distinto e congiunto collo spi> rito, col quale noi veggiamo
le cose, percib Tammettersi seiiza dimostrazioue, senza esame alcuno, che la
conoscenza non possa esscr altro che una senipKce modiCcazione dellanima. Non
si trova la minima prova di si fondamentale proposizione in tutte I'opere del
Romagnosi: per tutto ell'^ supposta come e indipendentc dairapima nostra ,
allnpposlo dico die Valto deU anima t dipciidculu dallidea, e senza di qaesla
non csisle. Pcr6 Vatto in quanto si distingue dnll'idea non d die una pura
astrazionc, cio^ esisle solo Iallo chc terniina udliilea : qudio non si puu
divider da questa realmehte senza distruggerlo , ma si pu6 dividerlo da quusla
mcnialniente, cioi intcndorc diegli e una parte di un tutto, diversa dallaltra
parte (Iidca) die eiitra a formar queslo tutto. Oltraccio io diiamo
propriamente inUtiiione qud- Ialto onde Io spirito nostro vede Iessere ideate
(Iidea), e pcrcezione quello onde insieme sente cd afTernia Iessere rcalc e
sussislente (1a cosa). Multe volte trovo necessario conservare questa proprieta
di lingua rigorosamente. Koto in Hne Ibe it Genovesi medesimo ammise e difese
valorosamente la dislinzione del Malebraiidic fra I'idra e Ialto dello spirito
die la intuisce (Element. Metaphys- P. Il, prop. zxu( , zxx); e da questo
filosofo italiaiio il Romagnosi, che ne fa tania stima, lino a pubhlicariie c
comnicntarne la Logica pe' giovanetti, avrebbe potuto impararc un vero cost
importante. () K. Snggio Sez. VI, c. XI. 4o iodubitata, eridente. AH.incontro
ci6 A appunto quello che gll negano gll avversarj. VuoUi vedere con che plena
fiducia egli tolga a provare che no! non conosciamo le cose in si stesse? Una
funzione d> risullato , dice , fra due agenti potri essa forse diventare forma sostanziale di uno di
qaegli agenti ? II senso poi di un mio
movimento pn6 forse rappresentare la mia
6gura (i)? Certo no, rispondu io,* e
appunto per que- sto voi dovreste vedere, eisere al tutto impossibile che la
co* goizione umana sia il risultato di due agenti, consista nel senso d'un
semplice vostro movimento. Un semplice vostro movU mento non potri mai farvi
conoscere ni la vostra figiira , ni alcuna forma sostanziale, ni darvi la minima
idea di sostanza o di figure. Ora, dato anche che voi non conosceste ni la vo-
stra figura, ni niuna forma sostanziale, come asserite^ tuttaVia voi ragionate
e di figura e di forma, e per6 ne avele almeno le idee genericbe. Ma
primieramente, i egli possibile cbe ab- biate le idee genericbe di forma e di
figura, se prima non avete percepite le forme o figure particolari onde
coll'astrazione (se- condo il vostro stesso sistema) traete le idee genericbe?
An- cora, i egli possibile che il senso d'un vostro movimento sia I'idea della
forma e della figura in genere o in ispecie? C' i per lo meno tanta assurdita a
pensare che un movimento vo- stro sentito sia Iidea della figura e della forma
in genere, quanta voi stesso ne trovate a pensare che un vostro movimento sentito
sia Iidea della vostra vera e real figura particolare, o di una particolar
forma sostanziale qualsiasi, vera o falsa. E potreste voi conoscere che fra
movimento e forma non ci ha similitndine alcuna, e che per6 quello non pu6
rappresentar questa, se voi non conosceste veramente e la forma e il mo-
vimento? Ma il Romagnosi non vedendo la possibilita di alcnn altro partito,
tiene per indubitato, e nd pur bisognevole di prova, che ogni idea nostra sia
appunto il senso d'un semplice nostro movimento, una semplice nostra
modificazione^ e di qui muove tutto il discorso, come da punto fermo, a suo
credere, n^pos- (i) y^dult fondamtnlaU tec. L. I, c. V, 9. Digitized by Google
4ii sibile a poni in controversia. Egli toglie fin' anco a provare, che colla
visione diretta delle e azione e, reazione ^ nn vero barbarismo in metafisica;
ma mi si permetia di usare qui Iallrui lioguaggio, che piii Sollo porro alia
prova della critics. (a) yedute fondamentali ece. L. I, c. V. io. Digitized by
Google gnito (i), autore di queati atti,
c che noi connoliamo coi It varj segnali intrioseci di quetU atti (a). Qaesto i quanto an dire: non ono
possibili che due si- xtemi, ridealjsmo famulativo, e Iidealismo isolato.
Nelluno come nellaltro la cOgnizioue i sempre un mero atto del ina pensante^
Iidea duu che incognito. Dunque , se c'^ il vero neir idealismo isolato, egli
c'i ugualmente nell'idealismo famu- lativo. Vi par egli questo un bcl
ragionaic? E che ritirata tro- vera il Romagnosi, quando gli sara risposto che
il vero non c'i n6 nelfuno ni neUaltro idealismo? cbc? si planter?: forte col dire, che non si
pu6 uscire dal circolo dell'uno o dell'allro de' due sistemi? 11 pirronista
glielo accordera volontieri, e con- chiudera:
si, e appunto perci6 non si da vero alcudo: ib accetto di tutto buon
grado la vostra conccssione . Ma il vero difensore della verita gli (lira per
opposto: vi nego la maggiore del
sillogismo, perocchi accordandovela io, il pirro- nista IavrebBe vinta su di
voi e su di me ugualmente . 11 Romagnosi si stupirebbe forse. di tal negazlone^
ma finalmente dovrebbe capire, che egli si era dimenticato di prpvare quello
che innanzi tutto dovea provare, il perno della disputa, cioi, che il conoscere
sia e non possa esscr allro che un mero atto a modo dello spirito senza un
oggetto ideale distinto per na- tura dallo spirito stesso. Tirato a tutla forza
sul vero terreno della lotta, egli dovrebbe sostenere, a mal suo grado, di
veder posto al tormento logico quel pregiudizio sul quale egli edi- ficava con
tanto di sicurezza la mole del suo sistema. Rechiamo un altro passo del nostro
filosofo, dove il con- cetto, che egli si fa del vero, viene ricapitolato
: Lerrore sta nella difformita fra i giudizj che si fanno e
si postono fare. (i) Come ceotra qu! Pidea dun che incognito? Io areggo
Ixuiissimo come un alto dello spi'rllu risullanle da rapporti dcllc due cause
die Io producooo sia un cbe incognito; nia il dire che sia Iidea duu che inco- gnito questo ^ un Salto
mortale; Ildea vi A intromessa nel ragionainenlo come un personaggio improvviso
die apparisce sulla scena a porlcdiiuse: eon tali appariziuni improvise e senza
nesso la Luuiia logics de uostri lilosoli fa pur de giochi maravigtiosi ! (a)
f'edule /uiidiuneiilali ccc. I.. I, c.'V, i5. Digitized by Coogle 4a3 Tanto la veriUi, qaanto la falsitii sono un
s\ ed an no (i). u Quelli del vero sono immutabili quanto le essenze real! di u
fatto,e le azioni di qaeHe essenze. Distinguasi la contingenza u di queste
azioni, dalla nalara loro (a). Quelli del falso sono a mutabili perchi possono
essere cangiati mediante un irrefra- u gabile ragguaglio colla normale suddetta
(3). II colpo che u deriva da una data forza safEciente o insufGciente (4),
bene o male diretta (5), i un risultato
di (Isica necessity. 11 bene u e il mal giudicare sono risultati di una stessa
necessity {6). u Gorreggere un errore i sinonimo di riandare lo stesso oggetto
u e concepire un giudizio normale invece di un giudizio non nor- male, e di emettere an si nel normale, ed un
no nel non u normale che prima portava il si. Ecco la ritraltazione (y), Nelle quali parole apparisce manifesto,
I Che il vero ed il falso sono risultati
di (Isica necessitli , perchi eifetti dell'azione di due forze , ^sterna ed
interna ^ 3." Che esso cosa, che
viene prodotta di mano in mano come-una merce materiale^ 3. Che esso non ha
alcuna necessity in si stesso se non ipotetica , cioi tale quale e la nalura
delle cause che lo pro- dncono, le quali (I'universo e noi) sono non solo nelle
loro azioni, ma ben anco nella loro natura contingenti, quando non si voglia
arametlere la natura eterna ecc.-, e che percii, diremo noi , il vero non &
vero , quod erat demonstrandum. (I) II ,'f Da qaeste doltrine debbono seguire
tutte quelle consegnenze morali da noi sopra indicate, favellando del criterio
del C. M.: proviene da esse la impossibilita di una morale obbligazione ,
appunto percbi la verila, in cui ba propria scde I'obbligazione morale, i
ridotta ad avere un pregio merainente relativo, e non panto assoluto. Quindi il
vero non vale piu per si, ma pe van- taggi che ci apporta , ecco 1utilita'
messa nel luogo della ve- rita e della ciustizia: questa (cioi il nome di
questa) diviene una servigiale di quella : ecco il piacere che caccia dal mondo
il DOVERE, per regnarvi egli solo. 11 Romagnosi non si traltiene dal cavare
egli stesso alcune di queste terribili conseguenze. La sua morale Glosoflca non
mostra quasi mai alcun altro fondamento , se non qnello del* utilita , e diri
anco dell' utilita materiale. Egli dice espressa- mente che u il pregio della
verita consiste bssbhzialmbnte ed u umcamente Bella efGcacia di cogliere la
realita efiettiva delle cose, onde
ottenere i beni. e scbivace i mali n (i). Quindi in- segna pure, che Iignorare
lo stato reale delle cose non i male per noi, appuQto perchi lullo il bene,
tutto il valore delle' scienze sta sempre unicamente nel poter operare
sullanatura (a). Ma per quantunque operi io sulla natura , diverr6 io mai buono
o cattivo? sta cbiuso ogni cosa ne' fiski beni? non in* teode il Romagnosi ,
cbe i fisici beni sceverati dai morali ( n^l senso vero e non contrafiatto
della parola) sono la materia del* I'umana infelicita? il tormento di un essere
creato per I'illi* mitato, per ci6 che i puro e celeste? (i)
f'edutefondamenlati ecc. L. I, c. IV, lo, ii. (a) Qunad'aiicbe giungere si polesse a cooosoere
le cose in at stesse, e poleste
accertarvi cbe > vostri concetti sono rassomiglianti alio stato > reale
delle cose, cbe cosa avreste voi guadagnato per IVltimo valosz N delle scienze?
Nulla aflaito fioo a che non vi foste assiciirato che per M mezzo di queste
somiglianze voi operar putete sulla natura ed essa sulla erilay possono
ugualniealo applicarsi a tutti i sistemi che finiscono col riporre nelianima
umana o nella compotenza delPaniraa colla natura il criteriu; perocebe tutti
vengono diffinendo la scleoza e la verity u;i modo deWanimo nostro y cio^ di un
essere acctdentale e senza consistenza, senza dignita propria e senza autorita
(i). Per evitarc un si fatto tracollo mortale, per sAlvare in qua!- cbe modo la
natura divina della verita, mantenendo nelloslcsso tempo, chessa sia un modo
delPanima uraana, non si vede (i) QuelU chc poscro il criterio neirauloriU, non
^ bisogoo di ribatterli a parte; poicb^ dovendo csser sempre raoima nostra
quella cbe riceve le dottrine, che ci venissero comuoicale dalLaulorita di
cbicclicssi^ cssi deU boijo pure dichiararsij diceudoci cblaro, sc le doltriue
dL*ll*auima ncevutc aieuo uii setnplicc modo delPauimu, nel qual caso
partengono a* prccedenti, u pure sc quesle dotlnne hauno unu cnlllii ideale
loro propria, iiel qual caso appartengouo ad aicuno de* sistemi che I'ormauo la
scconda parte della nostra Tavola siootlica dc criterj della certezza. lo
dovrei bensi por rnaoo ue* sistemi Iracciali in questa sccooda parte della
Tavola iudicata: e muslrar priina in che e perche io mi diparla dal
Slakbraiichc; e poi come coloro che haiino cousideralo il primo vero quale
nettauima nostra iioi il possiamo cuirosservazione tilevare, pecdiioo or di
eccesso or di difetto; e come il sisteiua vero si debba allogare tra Pittagorii
c PialoDc; non polcndosi indicare un primo vero, chc esseudo iniuore di qiiello
ch*io pongo, fur possa Tuflicio di crilcrio uuiversule, o chc esscudo maggiure,
non sia .voverchio a quest uQjzro. t Wa Icnlrare a moslrar cio, mi
divaglicrchhe troppo dalla conversazione cbe ho preso a fare col C. M.; nella
quale dahra parte coiitiouaiidami , Verro forse a capo di metier via meglio in
chiaio il imo peusiuu; giacche tiilla U dinicoha, a mio parcre, sia nirl beuc
iutcnderlo; v, dove beue sta iuUsu, |>enso the non possa tsstre ptuposto iu
coiHrovcrsia. RosMim, Il llinnovwnmto . 54 Digitized by Google 1^6 ... clie un
rimedio^ ma questo rimedlo assai
peggiore dello stesso male a cui si vuol riparare. II rimedio di cui parliamo,
sintendcr^ subito, ove si prcnda il sislema che abbiamo esaminato, da un altro
manico, per cosi dire, giaccbi ogui cosa ba pure i suoi due manichi. Gli autori
esamiuati danno al ve^o le qualita dell' uomo; si potrebbe fare il rontrario:
dare all' uomo le qualita del vero: ecco Iallro manico di cui parlavo. Dico che
si potrebbe sentir con essi quanto al principio, cbe il vero non sia altro che
un modo dell'esscre umano, e tuttavia mantenerlo nel possesso delle sue divine
qualita, cioi della im- mutabilita, etemita, necessita, universalita ecc. Ma in
chftmodo? Con un po di coraggio. Basta osar di dire, che I'uomo stesso ha
veramente tulle quelle sublimissime doli, e che la conliu* genza, la mutabilita
ecc. non & che I'uomo fenomenico ed esteriore, non i il vero uomo, non quel
mirabile lo, soggetto occulto, che i cos'i comodo a potergli far fare tante
belle cose, scnza che egli venga giammai fuori del suo nascondiglio a darci una
mentita. Veramente, fra nostri italiani non v'ebbe per anco alcuno , a mia
saputa , a cui bastasse di tanto il co* raggio^ ma la cosa non va cosi altrove^
nop va cosi, per esem* pio, de filosoli tedeschi^ troppi de quali banno
veramente un coraggio gigantesco pari all'ingegno. Di qui i, che sebbene ne'
lor sistemi , come ho gi^ osservato , giaccia sempre in fondo un elemento
soggettivo, tuttavia essi manleiigono al vero, me* glio de' filosoli di
ognaltra nazione, Ic sue qualita sublimis- sime, divine; immaginando un
soggetto che si oggettiva, e chc riesce a vincere o sia ad assalirc di nuovo in
si il proprio oggelto : per il che tendono essi incessanlemente a divinizzare
il pensiero , e finiscono assai spesso in qualche sistema di pan- teismo.
CAPITOLO XXXVII. GIAVI CONSEGUEHZB DBL SISTEXA OEL C. M. Ora io non vorrei che
per altri si credesse aver io in qual- che parte appiccicata al Mamiani una
opinione non sua. E scb* henc niente abbia io dello, che nol provassi con
luoghi tratti Digitized by Google 1^7 fnnri ilal sno libro, tuttnvia a
dllfigunre ogni dabhio mi spic* gliero meglio. Non >olli io gia dire, che il
C. M. nell'anitno suo negasse alia veritct quelle preclare doli, che tutto
Iaman genere le concede, e aempre le concesse, di essere clou una, universale,
indnita, iinmutabile, eterna ecc. Dissi solamente, che queste doti innegabili
della vcrita, della quale Iuomo partecipa, noa si possoDO niantenere a lei nel
suo sistema , ma rimangono senr.a spiegazione, sono rese impossibili. 1 pass!
del libro del Mamiani die ho addotti mostrano quaVito egli cedesse a questa
consegnenza necessaria della sua dottrina. Ma que pass! non impediscono che non
ve nabbiano degli allri, dove il Mamiani confessa ingenuamenle, che la verita i
fornita di tutte quelle eccellenti prerogative^ ingegnandosi (In anco di
spiegarle, e di conciliarlc coi principj della sua Glosofia. Ora I'udire dal
Mamiani, die la verita i per cssenza immu- labile, necessaria, cogli altri
pregi toccati, 6 a noi cosa assai lietaj si perch^ ci troviamo qui conscozienti
con tin pregiato uoroo, e si perch^ quclla concessione ci da diritto di doman-
dargli qualche spiegazione di doti si eccelse, o almeno di chie- dergli che non
voglia rendcrcele impossibili col rimanente di sua dottrina. E non ripugnano
esse quelle altissime proprieti del Vero coo tutta I'intima c sostanzial parte
della filosofla del Mamiani? Da prima, se, come egli vuolc, le CQgtiizioni
nostre vengono tutte dalle cose esterne, e dalluso delle nostre potenze che
vanno elaborando, per cosi dire, le impression! di quelle, senza die in dette
potenze preesista alcun lume naturale, alcuna prima iotuizione^ egli si par
manifesto, che le nostre idee non potendo esser che analoghe allc cose onde
origiqariamente pro- cedono, non avranno nulla d'imm^tabile e di necessario, se
anche queste non I'abbiano. II C. M. sente la verita di questa principio, che
pone, non potervi aver piii nell effetto che nella causa , e perci6 dice cosi
: Questo satire dello scibile dal u
transitorio al durevolc, dal vario all' imqiutabilc^ dal limitato air universale, e dal contingente al
nccessario mai non avrebbe luogo qualora
il neccssario, I'etcmo , I'inGnito e I'immuta- Digitized by Google u bile non
dimornsse vcramente per rar770 lullc le trasfurnia- u zioni della materia e
dello spirito ^ ( i ): parole molto os u chc porzione d'idcntita, die persists
e non cangia, e la quale, u si vedra a suo luogo procedere dalla natura eterna
e imniu- cla esse, die I* slessa realila eslrrna fusse qualche cosz
apparleneete a nni, alia nosira mrule, come vuolc Iidcalisla pure, ialeadeadosi
allora perfcl- tarnenle eome lutla Tazionc nosira dentro di noi si compia. In
un sistema sensislico-ideale quelle parole nun ammettono alira interprelazione.
(i) lo bo inostralo die il simile dclle cose non e die una rdazionc die esse
liaiiiio colla inente nosira, e quindi oicnl^ die sia in esse di reale. Vedi
add. L. II, c. XXXllI XX.\.V1I. (a) Se la menle riprodnee le.uniU originarie
delle cose, in tal case qiiesie uiiilii die iianiio bisogno di esser riprodolle
non si trovano nelle siiigole sriisazioni. Se non si Irovano nelle singole
sensazioni , sono una fallura della menle; se sono una fatlura della menle,
come si puo sapere die die coirispondano alle unita che sono nelle cose? (3) Ho
gia nolato cbe I > in qualche modo
svda la'lilubanza del- I'aulorc. (4) P. II, c. X.X, t. (5) II C. M. dove
avesse Tolulo, cd era desiderabile, manlcner sempre uoa slessa furma di
parlare, qui avrebbe dovulo dire nd
soggello so- stanziale , in luogo di dire
nd fondo d'ogni soggello n. Perocche egli ammelle pur sempre due
soggelli roaritali insieme, I'uno fenomtnico e I'allro tostanziale, i quali, a
dir vero, mi serobrano tuUo simili a que moslri die iiascono giunti per le
reni. 1 Digitized by Google 43o u labile cli cerli |iie, allro die damineltere
che gli esseri ttmporali sieno elerni! Niuna maraviglia, giac* die alihiamo
veduto , che, giusta il Mamiaiii, in tulle le sostauze avvi la perpeluila,
senza rsclusione delle soslanze lemporali. (a) Largoinento i queslo : > Lo
spazio non e un fenomeno. DuAque egli i un soggelto. Ma i soggelli sono
immutabili, elerni ecc. Dunque ecc. Ci
queslo passo si polrebbe aud'ar Uio sa dove. lo osservo solo, i. che in foudo a
queslargomentazionc giace una di quelle prevenzioni , soggelti. Tali ana- logic formano spesso il
melodo pralico di Hlosofare della scuola, che s'at- tribuisce il nome di
tperimenlalt I o.** Che cosa e un fenomeno? quello che spparisce. Ora lo spazio
non apparisce egli? dunque ^ un fenomeno, sc- condo lo slesso Mamiaui. Par
renderlo un soggelto, doyrebhe il Mamiani moslrare che solto lo spazio
apparenle vi ha un altro spazio reale e non apparenie: cosl avrebbe egli
Irovalo il soggelto sostaoziale della spazio, sc- guilando i suoL propri
principj. (3) Or ora disse che lo spazio non i un fenomeno accompagnato da al-
cuii movimenlo. Or qui egli riceve in si u iutti i modi dell esledsione e tulti
i fenomeni del movimento . Come si conciliaoo quesle due proposi- zioni vicioe?
O questi fenomeni del movimcolo aflellano lo spazio, o no. Se lo affellano,
egli non 6 pih vero, che non sia u accompagnSto da alcun nioto M, come avea
dello. Se nienie lo affellano, essi non appartengono alio spazio, ne puo dirsi
die lo spazio li riceva in se. Onde iMcime ? con- u Adnnque come vero subbicUo,
lo spazio dura contlnuo, cioe cc ETEnifo e senza possibile mutazione n (i).
Dove ce n'andiamo no'i? se lo spazio ^ eteroo percbd i uti foggelto, 5e i
soggetti sono elerni cd imtnulabili, egli dee av- venire che ogoi ente abbia
Tassolulo in stesso^ peroccbi qua! cosa ci resta piii a cercare dopo esser noi
pervenuti al Fimmulabile ed aireleroo? 11 C. M. vede, ed accetta di tullo cuore
ancbe questa inde clinabile conscguen^.a^ coraggio dunque! udiamo ancbe questa
sua teoria delPassoluto : u Da viene manifesto, die si nel principio nostro
pen* sante, e st ndle cose esterlori (a),
risiede un essere uecessa* a riamente immune di variazione, e identico
perennemente a u s6 stesso; il che porta e solleva al line il nostro intelletlo
ile, come la dove dice ogni sasianza dee
risidlare di modi miitahdi, e dun
subbielto uoo, iudivisibilc, immutabile e perpeluo (P. II, c. XIV, II). 2." Ma in altri
luogbi il soggello e In sostanza diyengono una cova sol.i e lull e due
mulalult, come la dove ficeve |h.t buoiia qiiella derinizioiie la sostanza e im soggetto die si
luodilica {P. II, c. V, yiii). 3 In allri pure egli da dei modi espressameote
al socgetlo, siccbe cnimj piii supra la
soslauza fu falla risultare da dei modi luutabili e da on faccia con^ere, la realila della
sostausa (P- II, c. IV, IV )i sicclii
qiii vba un soggeUo cbe npn i piu soslnnza, r. nou ba ue pure bisogno della
sbstanza jier essere conosciuto. 6. Queslo soggeUo fenomemtU perb, die ba la sua entita nella per- petua Iiiedcsimeiza
, e la spon^ncita, cbe oecessariamente si inodilica, coinegli stesso dice (P.
II, c. IV, in), di maniera cbe qualunque
atto o dluluizioiie e pure uo modo particolarc e deterrainalo del subbielto w
peusaute, o dir si voglia del me ieuomenico
(Ivi). .y, Percib questo soggetto fenometuco che lia I entita sua ndla per- petua niedesimezza
, non b cosi immutabile come il soggetto sostanzinU z di guisa die, in quanto
alle cose cslerne, dice cbq a error grave sareblie u di repulare quelle
idenlila I'eiioineiiiclte (nelle quail
ripose il soggetto feiion^oico), le
quali vediaino sussrsiere per mezzo iiillnili modi variabili. come la coslaiite c immediala manilestazioDe
dei soggelti conliuui, Iden- o lici ed assoluti . E quanto al principio
pensante dice pure , u L3den- U lico feoomeoico (cioe il soggetio Ccooraenico)
il quale seiiliamo giacero iu foodo a
lutli i modi dtlU uosira spontaneila, non pub dirsi iiuroutie afTatlo da cangiametilo (F. ,II,c. Vil, vii)* . ^ 8. Ahrove|)oi
ainmelte cbe In parola sublwelto sia
estesa ft icare tziaadio cerla lolalilii
di rciionjeiii , congiuiili per lolulita di spazi(> d tf tempo, di *ulidiia,
di colore, di mulUj e daUi'i accidciili
Rusuihi. Jl ItiiuiovimiaUo, Digitized by Google Ora si dice esistere dj U dal fenomeno un
reale assoIuto| c. IV, VII ). Sicctii il
sublilello lermina con essere un
complesso di Kccldeiili. Dove Jo s/mzio si fii un accidcnte , sebbene altrove
il faccia un sopgeUo xostanziaU (V. II, c. VII, ix). 9. Ma non solo il aoggello
fenomenale 4 roodificabilc , ma hen anco quello clie sta sotlo alie apparenze,
cioe il soslaiiziale; scriveiido in un luogo:
Cbi ben si ricorda il deleriniiialo da noi sullohhielliva coiidizioiie
.. delle idee, vedri che a un late soggeiio modificabile risponde Ibrzala- ..
menie un soggeiio MODIFICABILE esiriiiseco, II quale ed esisle per s^i, e
SOTTOSTA' ALLE APPAHENZE SF.NSIBILI { P.
II. o. V , 'viii). 10 Sparila adimque I immulabilil^ del soggeiio lanlo
Ibnomenale cbo soslantiale, converri ancora ricercarla, se essa iii alcuii luogo
si : ilrova . nella pavera soslanza prirnn sqiiarciala fra modi variabili e
soggeiio inva- rialiile. Di fallo il Manq^ui dice, che si nel principio nostro penSanIe, e -si nelle
cose esieriori, risiede un essere iiecessariamenle immune di va- .. riaiioue, e
ideulico pereniiemenic a se slesso: il die porla e solleva al -fine il iiosiro
iDlelleilo alia vera nozione della sosltmza > ( P II c. VII, .VII). '
II." Se non che qucsia snstanza di miovo si fa sinonimo di soggrt/o, che
diviene ancliegli iinmulabile , soggiungeudosi alle snrnferilc parole quesle
allre: .. ciui al suhbiello uuo, coulinuo cd immulabile, assolulo c uou re-
lalivo M ( Ivi ). 12 Ma chet non solo la soslanza ^ rilornata immulabile; lya
in uri allro luogo anche 1 siioi modi aeqnislano iPiin Irallo rimmulahilili: -
I modi .. proprii delle soslanze sono un alio perpeluo ed imniulahile di es.se.
Dalo .i (fvi). Dairaltraj cnme si iiomina Mi so* pra uua sostanza passiva, cosl
qui pariipente si trac in cainpo un soggelto passive ( Ivi ). i5. Qurslo
niosircrcblie, die le azioni non apparienessero mi ai sng. grill, ne alle soslonze;
cioi the ne le Snsianze, tie i soggelll Tossero qiiellt che agissrro. fegli e
pero facile a veclrre, che se non operano ni i sog- geiii ni le soslanze, non
riman pin iin principio che possa operalc. PerA ii C. piegasi docilmcnle ad un
riiiovo pensiero. La sosianza riceveta i movimenti, le azioni diverranno
orf^tini della prinin eOiiienza, Ci6e del soggelio, c queslo pero non opet era
se non niediatamcnie, per polere slarsl feimo p noM isuoversi: Se^o
da cic die o^ii azione esterna a cut *1 surcede tina mutazioDC, e vera e
cvrla dlieieiiza , ossia i vrro organn
dellrt priina efTicienza , peroerhe sc 1azione non pjnelrasse in
mmierii arcana nclla Intimila della
sosianza passiva , qnesla non 'p6lrelihe c.m* M gihre, Marile chVIla non pud
essere d principio drl cangiaideuto : rim*
pnlso poi immediato non pm> venirle ddia prima efiicicoza.
iniprrocfhi t* questa essrndo immntahile nnn agisre con iniilazioncM (P. Il.-r.
XIV, 'll). Qiiesia mnniera di ragionare e pure ollrcmudo smgnlare. Dicesi che
il -sog- gello, la pnma eBicienza non pud dare I'iiopuiso iintnediiilo alia
suslun^a passiva. Or^mc, questa prima eflicieiiza opereia inediaUinienlc ; che,
cos'd questo mezzo? razioue, organo della prima dtlclepza , dd soggello. Ma
I'azionc e elU mnto o qulcle? Se r*zlrme e qniete, noli la milla. Se e ^oio,
lorna la dinicoll^, come il soggelto immuiahile prorlura immedialameiiie
Laziotie. Vorremmo uoi suppoire un aliro mezzo fra Tazioue e il Soggelio? di
nuuvo, questo mezzo o Sara fpossu ilal soggelto, o no. Sc flo, egU nou rierve
alrun impnlso nd attivila; se s1 , il soggelto adunqiie gli coiminicii
immedialamenle il molo. Ognuno mtemie, che con un simile ragionarncnlo SI
iroverehhe una serle di rnezxi inhnili fra il soggelto op^Fanle c la so- sianza
che riceve Vazione, scuta the quesrazione giungesse pciNj ituii ^ pe* iieliare
uelia sostauz.a. Percid lasciato da parle ^lesto operate mediato della pritna
sosianza, ci vengono innaiizl i soggelli non pitl inerli , ma opcranli di tutta
Irtiaj *4 Ii cangiamento d delcrmiiialo dairatlivita del proptio suhlnellO ( P. il, c. XlV, ii). ij? Medcsirnamente le
sostanze diventanO alliVe, (enendo in sd fn ca- gione de* cangiamenli ; u II
cangiameiilo dec venire delermcu|.vauo dicliiaruli iiiulabiti, la lilulhbilit^
pui alle Digitized by Google u rartgiamciito
(i): v poco piii soUo clicr ancora, die *.sotfo w i fcuomeni o mulabili
o identicl esistono 1e vcre soslanze , in
cni risJede Iassoluto di toltc le cose
(a). Di pi^l ancora, lo spazio medesimo sara un assoIuto(3), per- ch^ i
uii soggetto sostanziale, e lo spazio poi cos'i immaglnato come una sostanza,
infinita) immutabile, elerna, necessaria, sostaDze cbe pnma immutabili si
dlchiaravnno: efTflUiare: da che manca
in H loro it principio nltivo, concedendo 'll quale ei divengono tosto vere e M
rcali sostanze ** (Ivb iii) 19.^ Ora siccottie Ic sosianze e i soggelti allivif
operando cangiano, cosl anchc i soggelti passivi non sono immimi da
canginmento: : peiu e curnessa m.ileria
lirnilalo e leippo* raneo in quaulo ^ realc : in qinmlo poi e ideale, ba solo
iininfinita idede o possibile come lullc Tallre cose. Qiieslo k ci6 chc io ho
dirnoslrato nel IS. Sagf*io Sez. V, c. XVI.
'La filosofia che io^egnasse essere lo spazio qualcbe cosa di realc, e
lullavia essere elerno per sii.i natiira, cio^ neces- Siirio, non polrebbc inai
venire acectlnla dalle niizioni crisliane, imperoc* cbe io qualsiasi modo
s*intemla , ..sarebtur senqire direttanieutc opposia ai dogmi delta loro
religloue. Per chi duncpi^ sciivc il C. M. se non iscrivc per qm lla parte di
mondo die professa il rrisliariesirno ? Digitized by Google _ . 4^7
inrliiiKlrra neressarlamcnic nna forra. Non si ritira il C. M. TtiUo ci
afferma; non csila pnnio a provare con si fatto ra- gionamento, che tulU) k
pieno, e die non si da vnoto in Datura : * a 11 primo (concetto certo) i
qtiello cbe nega la possibility u lie! vuoto assolulo. E dl rero, se la forza
di resistenza i un u rcale subbietto (i), ella 6 continiia e Inddinita, e
percIiS in u'qnalunqne parte (fello'spazio sta apparcccbiata ad agire. Cbi u
fingesse il contrario e Immaginasse la forza di resistenza In- u^errotlamente
distribnita , convertirebbe il continuo e 1 in- u definilo nel discontlnno e
finite (a). E poco Innanzi: El u non sembra possibile a conceplre (3) cbe
la forza niotrlce u esterna cadendo sopra un perfetto continuo quale 6 lo
spa> zio agisca in una parte piu die
in unallra n (4)- ,Egli pol in alcun luo^ distingue due forze, cblamando I'nna
u estensiva n, l^^ltra u di resistenza . Lascia pcri^ in dubbio sc I' una sla
forse uh modo dcllaltra (5)^ ma ad ogni modo ciitimbl Ic vuole Infinite, e il
loro nesso pure necessarlo e perpetuo: u Tali due force (dice) trovandosi unite
e contem- perate Iuna con Ialtra,
s'inferlsce dalla cognizione cbe pren-
ri- sponde, che I'opirtione che la materia sia inerte nasce unica*
^menle dallcsser essa immulabile, secondo la natura de sog* gelll: e dal non
potcr qnindi essere cagione immedigta di moto. u Quanto al credersi
dall'universale che simigliante suhbietto e sia inerte, *cioi che il raovimento
non sia un modo essen- ziale di sua
natura, a noi sembra agevoie arguire cif> dal* (I) P. It, c. Vt, vii. M se
vi sono clifferenie di alll, qiicsia fon agtsce dilTrrcnlemenlc in punli divetsi.
Come aclunque dicesi rtie soUosla egua- lissinia a tulli gli essuri? onde nasce
la incguaglianza della sua allivila ue* uoi aiii? da un principio inleriore a
lei,4i'rslcriorc 7 la P. II, c. VI, VIII. Digitized by Google in(!la propria
del moto , la quale consta di mutazioae: e u quindi non puii ricevere it
principio suo inimediato (i) dal- u Iessere, i1 quale non cangia. Ma perchi da un lato i II corp! si tnucnoDO e
a^umono diverse figure, che sono modi u dcIl'estcnsioD resistente, dallaUro
nulla puu succedere in a una sostanza contro la sua natura essenzialc, se ne
trae la u conseguenza che nel subbietto comune dei corpi risiede una perpetua facolt^ di muoversi e di figuracsi
(a), ricevuti (3) K avanti gli impulsi correspetlivi (4). ^|'e si creda cbe questa facolt& di
muoversi sia meramenlc passiva. II C. M. da alia materia, a questo mirabile suo
sog* getto, e dee dare per I'esigenza .dcl'suo sistema, anebe la forza molrice,
sebbene questo Ialfcrmi soTo come probabile (5).- Di tal secondo iiiiiscro (delle opinioni
molto probabilt) a i quella, per cni il Vico diebiara, Isi forta motrice, o
come egli fappella,.^! conato essere
uguale per tutto c pre%ente in ciascun
minimo dello spazio e non difrerire da si me- u desima per variazione quabinque
di moto. Questa opinions u del Vlco si
trae dietro Ialtra, la quale pone cbe ogni por> ziuncula di materia possieda del suo il
principio motivo gia ricevuto da tutto
il subbietto (G), e cbe in conseguenza -* ' (0 Come>Co 'nolato di spprs, se
il soggelto sen puo essere principio immeditlo di moto, ni pure pu& essere
medialo. Perocebd o questo mezzo di cui si vale a produrre il moto, egli stesso
si muove, o nou si muove. Se si muove, torna la diflicolla; il soggelto sarebbe
imiiiedialo principio di molo. Se -non si muove, n^ pur egli per la slessa ragioue
polrli essere prin- cipio iminedialo di mglo; iiia avrk bisogno d' aliro mezzo;
il die ci reebe- rebbe ad una aerie di raezzi ioiinita, ne verremiiio mai ad
avere I'eUetto del molo. . (a) Ma non toroa qui la diOScolla cbe si vuole
scliifare? se il soggelto ba facolt^ di muoversi c di figurarsi, uoii ^ egli
duiique variabile? (3) Da chi verranno quest' impulsi? Si avverla che il
soggelto di lull! i coipi e uoico: se non vettgon da quest*, non possono venire
da corpi cbe non sooo cbe suoi modi, lutrodurrli il C. M. uoo spirilo molore
univer- sale.^ di ci6 noo ci ba vestigiu ne) liliro del N. A.,,o tarebbe cqntru
a' suoi priiicipj. Noo veggo uu' uscita da taut'angustia. U) P. II, C. Xtv,
IV. (5) Mu se questo e solo probabile,
anebe tullo il suo sistema uou puii raggiuugece la cerlezza, ma sefMa
probabiliia. ' , t6) L uaico ed eleriio subbietto adunque, la materia, e sempru
il graude eg* ut. Digitized by Google 44o
vano e supporre la comnnicazione (i) del moto da corpo a corpo (a). E
qui egii i prezzo dell' opera il notare pero una nolar bile difTereoza fra il
sistema del C. c quello del Vico die egli allega, e della cui grande autorila
par volersi (iaucheg* giare. Perocclii bramando uoi di esporre qui tuUa la tela
del sistema del N. A., cio la terie dclle conscguenze, a cui venne
iiideelinabilnieiite coudolto dall'avur>mes90 quel primo prin* cipio, a doe
di spiegare rimmulabilila e Iinliaita delle idee, cioe che ancbe nella nalura
esistono cose imuiutabili ed infi' nite^ egli 6 troppo necessario cbe noi ajutiamo
il leltorc a bene intcnderlo, segnandu qua e cola quelle diversita, che da
sisteiui al suo alEui aelHapparenza il dipartono, e uiassime da quel di Vico,
col quale sarebbe agevol^co$a il confonderlo e niescolarlo. . Stabili adunque il Mamiani, essere la ma(eria
un soggelto unico, universale, immutabile, necessario, inllnito. Ora egli pare
che dia il. nome a queslo soggetto anche di
prim* ef- u flcienzan, e attesa 1' immutabilila sua, dice non poter
.essere il principio prossimo del movimento.
Ogni azione esterna (cosi egli) a cui snccede una mula- u zione, ^ vera
e certa eldcienza, ossia 6 vgro organo della
prima eilGcienza (cio^del soggetto immutabile): -^rimpulso poi immediato non pu6 venirle ( alia sOstanza
passiva ) dalla prima efGcienza,
impcrocchi quesla essendo immutabile non
agisce con mutazione (3). Cbe fa
diinque questo soggetto immutabile, questa prima elTicienza? ella produce
quelli che il Vico cbiama i conati, o come disse il Mamiaui uel passo poco
sopra citato, uogni por- B ziuncula di materia possiede del suo il principio
motivo B ricevuto da tutto il aubbietto
n (4). Si attenda dunque la diflerenza fra i due sistcmi del Mamiani e del
Vico. 11 Mamiani distingue 'Ue cose, la materia soggetto, H prin- (i) Quiodi
debboQO pure csser vtioi ^Viniputsi estenori , cliu inlroducc ill qursia (eoHa
del Vico Doa lro[>j>u a pioposilo il C. Mr Vedi il Vito DcU iintichissimn
sapient^ etc. C. IV. ' (j) P. H. c. \lV, V. (!}) P. II, c; XIV, 11. (4j Ivi.
Digitized by Google 44i cipio motive comanicato ad ogni parttcella di
n&atena da'tutto il soggetto, e fioalmente A movimento. ^11 Vico distingue
pnyetre cosC) Iddio princlpio di ogaimoto, ]a materia nella quale Iddio pose U
oonato o principio tno* live, e finalmente >1 moviniento^ di guisa, che dice
u Dio mo tt tore di tutt6 le cose rlposa is sh stesso ^ la materia ^ ia
co- nato^ il corpo esteso d in moto n
(i). Ciascuno inlende qual diiferenza passi fra il sistema clelG. M., e quello
del Vico (a): procediamo innansi nella esposiaione del primo- (f) DeWantichissima
sapienta ece, C. IV. (3) 11 Vico parUndo della materia, la distingue in
metafisica c fisica. It Onttto rattribulsce alia materia metaBsica , alia
(isica il moto. Iddio pot i quegli che da il cooalo alia aateria melaBsica, a
cui talora dii il nome dt universe. Fin qui il Vico h rhiaro, e questo basta a
vedcre quanto lontano da lui si trovi il nostro C. M. Dopo di CIO, cenfesso che
In dotirina del Vico intorno alia materia SafiWca mi i oscura, e non giungo a
conciliare fra loro i diversi luoghi ia'J^ cui I'aculo napoletano ne ragiona.
Ve ne sone motli, in cui pare che per quesla materia metafisica egli intenda
qualche cosa di reale e di sussislente, come quando fa consisiere in essa la
sostanza de* corpi. In aliri allopposto quesla materia roelalisica' viene
descrilta siccoine uoa mera astrazione della roente: e qnesti iiltirm luoghi a
me sembrano piu chiari de primi, e quelti Hit; cooicngono vera* mente la metilc
del Vico. E per fermo, che pub avervi di pib chiaro delle parole ova dice"
m il mondo fisico consta di cose imperfette , e indefMiila M mente divisibtit,
dove il mondo mctaBsico consta dlou, osaia cose ou v time, ciob di virtb
indivisihili, che sono d'una indefinila rfllcacla m (Z>e/> Iantichiss.
sapiemza, c. IV). Qui si dice chiararnente, chc it suo mondo meiaBsico k
purameote il mundo delle idee: e perb la sua materia rueiafi> sica non
sembra dover essere che un essere ideate. In questo modu'd'io*^ lendere il
Vico, mi conlerma il vedere curne T uomo grande sia. in laiui. ahri luoghi piu
che plnlonico, e piu chc maiehranchiaoo, di guisa die eglt Dun cen:iura gia
questiillinio Blosofo per aver fatio troppo dipetulerc U nostra ineotc da Dio,
ma piu toslo poraverla egli Bttia dipendere dallenie supremo trnppo poco: *
Quanto a noi, dice, ienghiamo pt^ fermo che
Dio Ma Tautor prin^o di tulti i moli, si dai corpi, cbe degji snimi *-
(Ivi, csp. VI). E ancora egli preteode di confirmaro la. sua dotrrina. ioiorno
ai punti di Xenone colTautorita di Pillagora, di Timeo a di Pis. lone, cost
dicendo; m Ne antlre Pittagora ed.^ i suot segtinci, dni qtjali ci b M
perveouto il Timeo di Platonc, quando rtigionavano dello cose della na^ M lura,
si sognarono mai die laaatura coiislusse di mimeri;rna sliigegna* w rono cssi
di spiegare il mondo* ch* era fuuri di essi loro, pt*l mezzo di. qtui rnoodoCIIB KKMJA I.OKO MtNTE SEUANO
CWMPOSTO- itosMi.M, U Jiinnoyamrnto. 56 Digitized by Google Conviene ossarvare,
cbe il Mamiani tommetle tatte le cose mutabili alle le^gi della contiouiti,
dicendo Tntte le cose per- il tanto cbe
esistooo, qnalora matioo, o sieno capaci di mnta- n-mento debbbnorisultaredi
continuity edisuccessiooen ;eque- sto trova essenziale a tntti i subbietti,
soggiungendo cioi a dire cb'elle sono vere sostanze e veri subbietti
modificabili (i). (Iti, c. IV). La
materia adunque roetaflsica del Vico non
cbe la male- ria eomune intelligibile di a. Toromaso, la quale poi non i
cbe una pura ides aslralla (S. I, lxzxv, i, .ad 3}. Aoxi qui appuoto il santo
Dollore ri> fiula Plaloile, cbe voleva aiusislere veramtnle uoa tal materia,
nod conai- derando chella ai forma' da noi per iin modo apeciale di salraziooe:
El quia Plato non considervvit , dice I Angelico , quod dictum est dt duplici
modo abstractionis , omnia quae diximus abstrahi per inlellectum , posuit
ab$lracta esse secundum rtm. Di qui ai rede, cbe, quaodo il Vico dice cbe
quells materia i la aoatanu de corpi, non pud ragionevolmeole inteodere, ae non
cbe aia Videa della sostanza, ovvero cbe aia la soslanza rilerita a corpi, e
non preciaa da corpi; il cbe moatrrrebbe come il Vico tolae an* 'cbe qiiealo
placdo dall'Acquinale, il quale acrive appunto. Materia inlet- ligibilis dicitur substantia secundum
quod subjacet quanlilati ( lai). Uo
nuoTix, cooforto riceve queata nostra maoiera d'inlendcre il Vico dal vedere
cbe la aua materia da il soggello alia malematica; il percbd dice della
doltriiia di Zenone, col quale preleode convenire, coal: Erroneamente ai atima la gromctria depurare il suo soggetto dalla
materia, o, per parlar Code M scuole, aslraerlo da easa materia: perciocclid
gli Zeoonisli erano anii > Delia persuasioue cbe niuoahra scieiiaa tratlaase
la materia con maggior preci.iioiie ed
eaalteixa della geomelria; iuteiidendo perd di quells ma*' - teria cbe pura le
veniva somniinislrata DALLA MENTE, ciod della r virtu dellrslensione - {
DeWantichissima sapienza- ecc. , c. IV). Or cbi non vede cite i roatematici non
liaono per soggetto cbe una quaotitii pns- aibile, delle idee asiratte? E aiico
qurato conviene a capello con a. Tom* maso, il quale iuaegna cbe
species-mathematicae possum abstrahi per intel- leclum a materia sensibili, non
lamen a materia inielligibtli communis sed solum indtviduali ( S. XLVI, 1, ad
3), Fiualmente cid cbe piu mi per- suade, il Vico infendere per cosa idealc la
aua materia metafisica , si i it vederlo aempre religiose men I e aderente alia
cristiana teologia. Ora egli non BVrebbe biaaimato giammai Cartesio dell' aver
puato. la, materia creata a diviaibde , come sembra di fare nel C. IV dell
opera citata, quando in- leiidesse per materia quaicbe cosa di reale e di
ausaistente; perocebd ua errore ai grave contro il dogma de crialiani non
poteva il Vico proferirlo ne per ignoranza, ud ^er volonlit.' Egli d diinqu'e da dire, cbe in que luogbi,
dove pare cbe alia aua materia metaliaica aggiunga quaicbe rea* liU, egli
iutendii di quaicbe proprieta delle idee, o di qualc.be attiludine
dell'eleiiienlo niateriale, quale giace ue* corpi, eJ- d iudiviaibile da essi.
(I) P. II, c. XIV, 11. Digitized by Google 443 Coerenlemente a tale doUrina^
conviene che anche nel pen- siero siavi inchiusa la percezione dello zpazio,
soggetto univer- sale^ e cost alTerma :
Net senlimento (egli dice) il quale co-
stituisce Ioggetto perpetuo del pensiero i sempre una perce- zione dello spazio, della solidita e del
discontinno, e un moto correlalivo. in
alcuno det nostri organi: dai qnali fatti poi
riscuotono il lor principio im'mediato le nozioni general! della causal! la
(i). quindi esce il concetto del
tutto assoluto, venendo ogni cosa, come vedemmo, ridotta a quel soggetto unico,
inimuta- bile di tutte le cose mutabili : sicch6 dice, a Gotesta intima unione
dell impenetrabile e dell obbiettivo
visibile con Iesteso 6 un fatto primissimo cos'i vero e certo, quanto misterioso allumano giudicio. Per
simile fatto not u siamo introdolli dalla natura a conoscere fuori di not i
com- post! inseparabili, o vogliam dire
cbe alia notizia dellasso- u luta unita e del multiplp assoluto' aggiungesi la
notizia al tutto assoluto (a). , ' ' ' * In questo tutto assoluto per altro il C. M. riconosce an primo ente,
una prima cagione^ ma io confesso, che per quan- tunque atlenzione abbia
collocato nelle sue parole, non'neho potato tnai capire il chiaro concetto. E
dal principio di causa chegli deduce Iesistenza di questo essere. Ma
primieramente egli dichiara, che per le
cose eterne e immutabili giammai anon giunge Ioccasione di applicare il
principio (di causa) e conoscere s egli
sappone alia verita. Che qualora si pensi
un essere (dice) cui non fece mai bisogno di venire deter- minato o.prodotto, e un 'altro essere coetemo
con lui ed in- commutabile , qual cosa
ci fara credere uno IeflTetto del-
Ialtro? forse perchi Iuno esercita, sopra 1 altro una virtii determinatrice? ma se tal virtu nulla cangia
e nulla princi- pia, per niente le si
compete il nome di azione causale n (3). Or queste cose immutabili che si
pedsanocoetemealla causa prima, sono essi i soggetti dichiaraU. tutti' dal
nostro autore immutabili? o t la materia infinita, soggetto universale? o 6
anzi quella sua, una pura Supposizione? (j) P. II, e. XIV, II. (a) P. Il, c.
VI, VIII. (3) P. II, c, XUI, IV. Digitized by G.: >^Ie In seconJo luago, io non rinvengo in
nessuna parte del libro del G. M. cbiaramente espressa la crcaaione della
materia dal nulla; anzi, se ci6 cbe dice della materia si dee inteddere stret-
tamente, ammettendola create si contraddirebbe. Anco I'idca dominante di causa
nell opera del Mamiani ^ nna virtu cbe deUrmina gli esseri ne loro modi, e non
cbe li trae dal nnlla; e per6 cbiama la causa ulesistenza determinatrice n (i);
alia prime causa, al primo entc attribuisce di essere quel cbe deUrmina n (a). Di piu, egli dice
espressamente: sono per- tanto gli esseri tutti determinati da un
primo ente; per6 al modo della loro
determinazione non pu6 costituirsi legge vA- u rnnd, dedotta dal solo principio
di causalita (3). qui si considcri bene ci6 cbe il Mamiani vnol
dire. Egli sostiene, cbe il principio di causalita non contiene altro decreto
se non questo, cbe in una serie di termini, ciod di ca> gioni ed eUTetti il termine postcriore sia sempre diverso da
jiogai anteriore e in una certa guisa prestabilita . (4)y ^ questo, Mcondo lui
, sta il concetto, della ragione
determi- natrice , o della causa. Perci6
dice, cbe il principio di causa non basta a sapere se Iesistenza del termine
posteriore venga prodoHa o solo occasionata dal termine anteriore, o sia, se ()
P. It, c. XIII, III, Qui il C. M. dice beosi > cbe Iesislepza deter- >
ruioslricc m, cioi la causa non pure
anteccde di piene necessitii Iesi- > slenza nunra, mt eziandio Ip dclermioa
rispelto al modo e rispetio al r tempo . Ma aaeodo egli falti i soggetti
eterni, non si vede come questi apparleogaoo alle esisleiize nuove; aembra
anti, cbe nuove esistenae siena Del lioguaggio del C. M. unicaineute i modi
variabili de' soggetti , o del soggetIO universale. (a) P. II, c. XIII, III.
Qui egli viiol trarre Iidea della prima cagione dalla mente di nn idiotS) e a
lal fine Iioterroga sulla supposizione cbe Id. dio cangi un albero in fonte, e
questa in liore, e il liorc in animale, e ci6 per la sua polenza creatrice. Ma
quando anco la supposizione non avesse dell'assurdo, e non fosse grandemenle
anli-filosoQca , ella non servirebbe pero in alcun modo a chiarire Iidca di
creazione, o a darne alcuno esem- pio, perocebi il trasrotraara Iana cosa
nellaltra, non. i gii cavare dal nulla; ni chi solamentc avesse la virtu di
quelle trasrormazioni, si potrebbe chiamare creatore giammai. Non si puo
adunqpc dire acconciamenle cbe quell'ente cbe determine .sia la cagione prima, elEciente e necessaria
di tuile le cose (P, II, c. XIII, iv), perocche non isl4
Iesser cagione ef- Ceienle nel solo concetto di essere unesistenza
determinante. (3) P. II, c, XIU, VII. . ) Ivi. Digitized by Google ^45
I'antcriore che qnella seric determina
sieoa esistiinze valevoH ad agireluna sullaltraiDUinecamenten,sebbene
qaesta ipo* tesi si verifichi nelPordine mondiale dell'uniVerso (i). In terzo luogo, io peno inolto a
riavenire nel sistema del Mamiani Iesistenza di uD Dio che sia veramente
diverso dalla materia, gia dichiarata soggetlo immutabile, eterna, prima ef-
ficienza, assoloto, principio del moto ecc. Ed ecco onde proce- doDO i miei
dubbj. Da prima, se la materia ha quelle qnalita , ella noa puu a meno che
esser Dio, conciossiachi le quality che il Mamiani, se ben lo inlendo, le
attribnisce, costituistfouo un Dio. Di poi, se v' ha Dio, e se con lui coesiste
eterna qnella ma- teria soggetlo di tutte le cose^ questo ha diviso 1 imperio^
non i pill vero Dio: saremmo in una idolatria, in un sistema di due principj.
Appresso, se la materia i Iimmobile principio di ogni moto, ella i che fa ogni
cosa; non riman piii nulla che fare a Dio', il qual diventa la divinita oziosa
di Epicuro(a)^ tanto pi u, che dehnendosi il primo essere cagione determinatrice , in vece che
cagione vera, creante nel proprio signiGcato , basta il principio del moto a de(erminar le
cose, Senza bisognd daltrp. Ancora, Dio non si dimostra nel Hbro del G. M. che
CQme la causa priqia (3). La causa prima i la determinatrice degli esseri nelle
esistenze loro variabili (4)- 11 principio del moto li determina, e questo i la
materia. La materia dunque d la causa prima, la ragione determinatrice, Iddio.
Arrogi a questo, che fu detto dal Mamiani il principio di (i) P. ir, c. Xm,
VII. (a) Omnit tnim per se diy^ naittra necesse est Immorlali aevo summa cum
pace fruatur,- Ipsa suis pollens opibus,
nihil indiga riostri. , . . Lucr. I. (3) Ds queslo sale concetto prelende
dcdurlo (P. II, c. XIII). ben tutialtra cosa Iargomenlazioiis a pridri di
santAnselmo ( Ved. ancbe il c. XIX della P. II); ' (4) Ricapitolando . il
Mamiani quello che area detto oe capitoli prece- denli intoroo la prima
cagione, coal si esprinie:,i> Noi provanlmo nei ca- piloli XIII e XtV che v ba necessariamenie un
usere dstumimantz tutte le cose,
SOSTSONO e principio deUuoiverso m. In
si fatto ordine di csistehze domina pertanto nna ca gione prima assolufa, e una serie vasta e
innumerabile di u seconde cagioni (a). Tale
e nonaltra i 'P argomentazione ond'egli intende di pro* vare Pesistenza di Dio,
cioi della prima cagione, a quel modo ch' egli. la concepisce. Ma in una tale
argomentazione si pud egli dlstinguere, dopo le premesse dottrine, la prima
cagione dal soggetto delPesten* sione, la materia? (i) P. II, c. XIII, VIII.
(i) Ivi. Digitized by Google 447 Anzi quel ragionare m( trae a confoDilerlo
inevitabiloieDte con essa^ mi trae quindi, come meglio piace denominarlo, o in
un pmteumOf facendo Dio materia e soggetto di tulli i feno- meni, e alia
materia do il nome di Dio, o in un matc/'ui/iVmo, te a questo Dio do il nome di
materia, o-in un ateismo, se giungo ad intendere cbe quella materia, a cui io
do il nome di Dio, non merita punto n& poco un tal nome. Perocchi
queUargomfcntazionc.ai riduce tutta n dire, i.*che in ogni cosa v'ha un
soggetto immntabile e insensibile, e de modi sensibili e mutabili^ a. cbedunque
ci dee avere la ca- gione prima di queste mutazioni. Or dopo essere stato delto
altrove, cbe il soggetto immutabile, eterno, universale k Vesten- sione, e cbe
questa da ad ogni parlicella della materia il prin- cipio motivo o il conalo^
cbi non vede essere impossibile con quella argomentazione riuscire ad altro,
fuor cbe a questo soggetto materiale, a questo Dio-malerial Io per6 dichiaro
solennemcnte, cbe potrei male intendere le dottrine del G. M. in argomenti cosi
dilicati: cbe ])er& io non vo' qui pronunciare sul vero signiflcato da
darsi alle sue parole, e niolto meno sulla genuina intenzione delPanimo suo. Io
bo posto quella diligenza clie potevo, a raccogliere la serie de' suoi
ragionamcnti, col confronto de' pass! paralelll; ma non posso dire tffttavia,
cbe la mia diligenza abbia colto nel segno. Confesso solo ingenuamente, e senza
voglia d'olTendere I'uomo cbe stimo, cbe quanto d'una parte m'atterrisce
I'attribuirgli legravi opinioni (in qui accennate, altrettanto elle mi sembrano
consegucnze necessarie de' suoi principj, e' indeclioabilmente procedenti da
essi, e ci6 soprabbasta al. inio intendiniento , quand'anco al C. M. non
appartenessero veramente (i). (i) CoereDtemeiile a principj esposli il C.
H.jiicliisra a pieno immula- bill le Irggi mondane; m E per fcrmo (dice),
pongoiio qursle (le noslre ideduxioni)
cbc i subbielli tulli qiianli souo iiiinialabili e che i cangia- N nienli
debbono riuscire conrurmi iii piii ne ineno alia natura perpetua dei subbielli allivi e pastivi m. E
soggiunge: > Ilanno capo in quesia im*
mulabililli universale tulle le slice inaisiiiie direllrici delle
nalurali spe> M culsxioni, come a dire I'assioma cbe ogot elTelto dee
srguilarc' I* rndole della propria
cagioue, e cbe a identico ctTello risponde cagioue idcnlica Digitized by Google
Veramente, in qnel siitema, nel qiiale le idee non tono che puri modi
dell'anima, ed effetti del mondo esteriore che opera su di noi, lasciando in
noi uoa modificaiione conforme alia nostra natnra (i), e nel quale tuUavia si
riconosce nelle idee i loro caratteri sublimi e fulgenti, dl necessity, di
universa- lita, di'eterhit4 ecc.; nOn rimane alcana via a poter dare qual- che
spiegazione di q^uesli caratteri , se non quella di traspor- tare i caratteri
medesimi nella supposta cagione delle idee, cioi nel mondo materiale, e in noi concause
concorrenti a pro* durle. II perchi convien dire, che noi e il mondo in qualche
modo siamo necessarj, eterni, immutabili ecc. E poichi tutto ci6 che cade sotto
il nostro sentimento i muCabile e passag* gero, convien ricorrere a una sottil
distinzione fra il sensibile e I'insensibile, fra il fenomeuale e il
sostanziale, dicendo, che tutto passa e si muta ci6 che ne apparisce, ma che
per6 sotto a ci6 che ne apparisce si giacciono nascosli deglinvariabili ed
eterni soggetti, i quali formano siccome il nocciolo occnlto, solido e
midollare di tutta la grande macch>na appariscente. I quali soggetti poi
gioverit alleleganza del tistema di' farli rientrare in un soggelto solo,
immenso, dimostrandoli conve- nire tutti in una stessa- universale e identica
natura. Tali sono le conseguenze dirittissime , inevitabili, per chi non
rinunzia alia logica, che discendono da quel principio, cuioggidl molti
abbracciano in Italia si incautamente, cioi che
le idee sieno delle uiodiGcazioni o de' modi del nostro principio pensanteo,
e nulla in si roedesime. ' Or di nuoTO, vorr6 io attribuire al C. Mamiani cost
strane dottrine? polru io deliberarmi a crederle veramente opinioni > e ci6
in (ullo lo spazio e per lulto il tempo ecc.
(P. If, XIV, iv ). K fuori del tempo e dello spazio non v* ba dunque
aliro a cui applicare il priacipio di cagioue? Ala mi si conceda iiti'ahra
osservaiioue. Ondu df- dusso il C. Al. la immuubilila deilc leggi dell*
iioiverso? dali immulMliiliia de* aoggeUi.'Oode I'esiaieuza dc* soggeui ? dal
principio di causa. Qurslo principio oduqque e anteriore alia scoperla dell*
iininulabilila delle leggi mouditue. Come duuque (bee cbegli mcUe capo in
quesla immutability? (0- 11
caugiatiieiiiOj dicu il C. Al., e dctermioalg dali' aUivila del pro- M pno
subbicUo ccc. * (I*. 11, C. XlV, ii, Digitized by Google I 449 e sentenze del
religioso cantore di quella diva, a,cai an leg- giadro priego volgendo , dicea
: per fiorito tt Sentier di filosofica
dottrina u Trammi a gustar del cibo, onde si larga ^ tt Mensa imbandivi al too
dedaleo iagegno. m Fa tu pietosa almen che non m'asseli Un venefico nappo, al qual chi beve, Scorda la nobiltil di sua natura , Ti'a i brut! si rassegna, e delle cose Al governo ripon muti elemenli , Che forman gli astri e lo perchi non sanno.
Sebbene adunque io ritrovi le sopra esposte dottrine nel li- bro recente del
Rmnovamento ddla JUosofia, mi gnarder6 tat- tavia dallattribuirle ailautore
degl//tm sacri} e non penser6 pure che sieno sae; ma prima stimer6 d'avere io
stesso mala- mente intese le sue parole. Or poi mi fermer6 io qai a riGutare
tali dottrine? Bastami averle esposte: conciossiach^ di riGatarle direttamente
non ne veggo nn bisogno al moodo. L Europe, acciocchi abbracciasse una cotale
GlosoGa, dovrebbe prima rinnegare il Gristianesimo^ ed io stimo che I'Europa
non sia per avventura presta ad ab- bandonare la sua religione. Parimente non
pn& aver vigore cost fatta dottrina GlosoGca sulPanimo di que'milioni di
Cri- stiani, che si trovano nell altre parti del mondo. Per chi scri- veremmo
dunque una confutazione? o pih tosto da quai popoli potrebbe abbracciarsi ana
filosoGa non volnta da popoli Cri- stiani? Ella pugna egualmente colU pin parte
delle religiose credenze, per non dir con tntte. Pad easere, che si trovi una
qaalche analogia Ora la dottrina esposta, e le religion! dellIn- die. 11
Buddhismo, per esempio, in vece dellente supremo am- mette uno spazio luminoso
che in s^ contieae tutti i germi degli enti futuri, secondo il sig. Klaproth
(i): questo spazio. (i) Nell* Persia tllincoDlro pare che Zoroastro inettesae
per prime principio il Tempo; giacchi il sovraoo essere poteotissimo ed
infiaito T- nia da lui chiamalo Zemant-Akertne, il tempo assolulo. Rosmuii. Il
Rinnovammto. 7 Digituffed by Google principio di tulli i modi deUunirerso, lia
non piccola ilmlli- tudinc col soggello unico, neccssario, universale
descrittoci nc looglii addolli dal C. M.: e che perdu? Agli apologist! del
Crislianesimo, clie Tinnno coofulalo il Buddliismo, rimelto di buona voglia la
causa: scrivo per IEuropa, non per le Indie: amo di parlare a' Cristiaiii: amo
di esporre agli ocelli di que> sti una Hlosofia crisliana, conviolo, s\ come
sono intimamente, cbe basli esporre una cristiana filosoGa, bastl oltenere cbe
sia intesa, accioccbe gli uomini tulli la scnlano falta per si^ coo* vinto
ancora, clie non ve nlia ncssun'altra nh vera, n4 uniana, ni beneiica, ni
possibile. J CAPITOLO XXXVIII. COMTINUAZIOKE. 'Rimetlendoci adunque in via,
osservo, che tutli gli errort acc^nnali nel Capilolo precedente'nascono dal
concedersi alle sostanze ed a' soggelli una invariabilila assolula, in luogo di
vna invariabilila relativa. Nel IV. Saggio io- ho dimoslrato, che P
invariabilila ^ cosa che apparlicne a\\' essenta, ma non alia soslanza, e perdu
non entra necessariamenie nella deGnizione di questa. Ho, and falto vedere, che
la sosUnza consisle unicamente nell'altivila prima dellesistere, la quale
allivila non trac seco come necessario conseguente la dote di una immutabilila
perfetta (i). E col* Paver io posla la uozione della soslanza nella
ntliVilA.anzichd (i) Ho anco avvisnlo ncl iV. Snagio (Sez. V, c. VII, art. x)
nl pericolo cll oflere in qiieslo errors, freqoenie nc llbri de* filosofi, di
far consislere lii,nozioDe dslla soslanu ntW invariiibilila, cost diceudu: Tuluvia e bea m facUe airimmagMiazloae , cbe
sempre opera iulorno allc uoslrc idee , e
con esse direi quasi si Irastidla, di unite a quelle oozioui si semplici quaicbe suo ornainontuccio, die sa tulle
coiifoiidere^ Ic nozioni prime e m iiclle della soslanza c dcllaccidente,
mescolando con loro delle propriety I cbe SODO forse coaseguenli a quelle, ma
non sono quelle. E una di que- sle e \'
invariabiHla della soslanza, e la variabiliia dell' accideiile; die H vanno lulese
cun graodc sehuo cd arvcdiinenlo: c dcllc quali noi non 1 aUbiamo IsisogDoj cbe
auzi la ebiarezza c seinplicila dellc noziooi noslre animaleeec., non snppone egli de canglamenti
di soatanza anchc piu che io non faccia? quando parla di sostaoze passire, non
parta eglr di sostanze capaci di soflcrire in sA mutamcnto ? Ricorrera forse al
auo soggello immutabile, la materia, bfa sarebbe per avvenlura asaai malagevole
il deGiiire se la mate- (1) Qui dicCsi
caseoza m io luogo di m soslanza *#. To bo troTilo nt cescario di
disliugUere accuraUmeuie il sigaiGcatu di quesie due parolft* Vi'di il iV.
Sa^gio^ Sez. V, c. IX, art, 11, Or la cagioiu* cictroscurilu del Vico, se ben
si bada, s(a tulla nelTaver egli coofusa l*essenza coMa sostmiza , e mescolale
le loro dislinte quxhtii. EgU da altuoa promiscuameote quello cbe appartiene
airahra. La nozione di sosl'auza A puaU dqW atln'ild, quella deliesseoza ncW
iuUlligtluiitd. La sostanzc sono create, iesseiize possono dirsi rtenie
perocebe nuu sooo clie le cose nell'idea (le cose logiciunente possibili). non
nppartsce aicnna aUivlta delTessere mle, la qua! lutta A nelle sostaoze alic
quati in propria spoUaiio le parole vis e potestas deMalini. Airiiicoiilro pu6
bi-n essrre, cbe i laliui abbiano appWcalo la moniera da immortaUs a
slgnificiir le rssenze, conje quelle die dimostrayo in se de' caratleri al
tiiUo diviiii. Quindi il conato del Vico uou si puo gia dare al- Kessenie, alle
sostaoze hensi. Quests confusione di diverse nozioni vedesi per tutto neiropera
che citiaino del Vico, inassine al c. IV, ove Cra rnhra c^ise si dire: Quisdi si puo dubilarc, sc io quella. guisa
che v'La ua M molu ed uo cooalo per coi virtu una cosa si mova ( so* **
stanza), cosi si dia un esreso ed uoa virth per cui uiia cosa si dtsteodk w tqui
si passa allc esseiize): e siccooie il corpo ed il loolo cuin^iiociO alia lisica (chc Iralta di sostaoze) il proprio
soggelloy cosi il ruoato e la virlCi* M delCcsteosiooe foroiiuo la materia
propria della metafisica (die IralU di
esseuze). Tanto e lUciic che apeo uoiuiui graudi aiuibrogliiio nell'uso
congbiettnrando , che la vita animale sia qualche cota che ravesta e modilichi
lo itesso intimo essere della materia: almeno non vi avrebbe in ci6 nulla di
ripngnante , niente che inrolga logicamente assurdo. Potrei aggiuogere de'
gravi argo- menti a rendere probabile astai, per non dir vero , il mio so-
spetto; ma ripetOj cbe non amo qni di fare ni pore il saggio d'nn si forte
argomento. E d'altra parte il solo esser possi- bila la toccata conghiettnra,
basta a mettere nel maggiore in- trice qoello^ cbe rolesse pronire 1
inmmtabiliUi assoluta della materia corporea. Passer6 dnnque ad un'altra
ossenratione. Per ispiegare i su> blimi caratteri delle idee, cioi la
necessity, P immutability, Ie- temiU ecc., il C M. d spinto ad attribuire essi caratteri
alle cose stesse corporee , onde le idee si vogliono provennte. Ma se noi
fermiamo gU ocebi sopra un'altra pagina della dottrina del N, A., troriamo
agerolmente cbegliiion area bisogno di tanto. E reramente, cbe sono mai le idee
nelle sue mani? Non piu cbe modi del mb fenomenico (i). Ora qual i la
immutability che si trora nel mb fenomenico? immutability perfetta, nessuna.
VeramcDte nel concetto d'imrontability, propriamente parlando, non si danno
gradi, e per6 non i raaniera ginsta il dire nna immutability maggiore o minore,
perfetta o imperfetta. Perci6 diremo, a parlar diritto, cbe nel mb fenomenico
non rha im- mutability, secondo la dottrina del N. A. Perocchy egli d ben vero,
che in nn luogo distinguendo i modi del soggetto fenomenico dal soggetto stesso,
da a qnesto I'immotability (a); ma in nn altro spiega il suo pensiero di-
ebiarando, che Iidentico (3) fenomenico,
il quale sentiamo (i) P. II, c. IV, IT. (a) Ivi. ;3) Li iJenlico eon pu6 dirsi
imimine a&alto da caDgiamcDlo ! Lidentico tdunque non i piil.ideDtico. 'SIi
si permelta osservare di passaggio, cbe il C. M. fa grande abuso delle
parole idenlico - e idenlitt -, usandole a sigaifieare
conliouamculc non unuguaglianu di aumtiv, come le usaoo i fdosofi, ma
unuguaglianta di sptcit. Digitized by Google 453 giacere in fondo a tnlti i modi della nostra
spontaneity, non pn6 dirsi immune
affatto da cangiamento n (i). Se adunque i modi del me fenomenico si rimutano,
se il soggetto stesso non i immune da cangiamento; non v ha' dnnque cosa in tal
soggetto fenomenale, che immutabil sia, e tali per6 non pos* sono essere ni pur
le idee, modi di lui (a). 11 perchi non facea poi mestieri al Mamiaui 'di
erigere nn si arduo e ruinoso edi* fitio a spiegare Iimmutabilita delle sue
idee e della verity in esse racchiusa. Concludiamo: la coscienza del G. M.
pugna continnamente contro il suo intendimento. Qnesto si perde in raziocio), a
Tuol renders le idee mutabSi} intanto che qnella con un sem- plice lume di
osservazione sente che sono immutahiU. Per sod* disfare alPintelletto, le idee
sono dicbiarate puri modi del no- stro me fenomenico, e come tali variabili.
Per non ripugnare allinvitta forza dellintima coscienza ragiona come se elle
fos- Serb immntabili , e Cerca di spiegame I immntabilita col ren* , dere immntabili
le cose esteme, da cni le vuole a intta forza provenute^ pronnncia in fine,
che sotto i fenomeni o rnnta* bili o identic! (3) esistono le vere sostanze
, in cni risiede Iassolttto di tntte le
cose (4) per quests loro costitutioiie
astraltissima e semplicissima non r sopportano di avere piCi che un modo di
essere . Quindi le altre tulte haoDO piu modi di essere. Le idee uon comuoi
adunque sono modi del me fenomenico suscettibili di ricevere in it piu modi
I Conviroe dare in quesle stranezze
quando si va per un falso- oammino. (3) Se la nozione della soitanza si mette
nell imroutabilili , come fa il C. M., in tal caso col dire che de fenomeni ve
ne sono di i identic! tro il rapporto
stesso cdnoscibile. Io posso pensare senaombra di ripugnanza, che la mia
cognizione cessi e ritorni; ella k dunque cosa al tutto mutabile: ma avrei pure
an gran torto a pensare lo stesso del rapporto conoscibile, e commetterei un
grand errore confondendolo colla cognizione che io ho di luij perocchd quel
rapporto 6 al tutto necessario: io capisco imme* diatamente e intimamente,
chegli i, e fu sempre, e non pu6 pon essere, non pu6 peosarsi che non sia: e se
io dicO il con- trario, atterrito dalle difScolta che prevedo in confessare ana
proposizione si evidente, si attestata dalla coscienza, non fo che sragionarej
io mento a me stesso, io abbandono la semplice os- serrazione, Iintuizione
.manifesta del vero,per seguitarmi dietro a uno oscuro pregiudizio che mi sta
fitto nellanimo, a unan- tipatia irragionevole in me giacente, figlia della mia
ignoranza, la quale renderai inimico ed ingiusto ad una parte della verita. Or
dunque quel rapporto considerato in si stesso, in quanto 1 necessanamente
conoscibile , e non in quanto i accidental- mente da me dbnoscinto, i cii
appunto che costitnisce nnidea. II medesimo si dica di tutti gli altri veri,
che sono senza di me, e prima di me, semipre stati, e sempre saranno, nb po-
tranno mai non essere, e che solo a qnesta condizione sono conoscibili, solo a
qnesta condizione io li conosco. In quanto sono conoscibili si dicon veri, e
tnedesimamente si dicono idee. Alle idee adunqne, intese per gli esseri ideal!,
compete ana immutability vera, assoluta, tnttaltra da quella che compete
allunivcrso materiale e alio spirito mio, la cui esistenza b nn accidente; ed b
una si fatta immutabilita che si dee spiegare dal filosofo, e non negare^ ella
b dessa il gruppo della filosofia intera, che si dee sciogliere e non
violentemente strappare. Allincontro da pih luoghi del lihro del C. M. si
raccoglicj Digitized by Googli: 4^7 rlic gli sfugj'i (]i vcder chiaro la
naliira di ({uesta immatabilita delle idee, poiiendo egti I immutabilita di
quelle uninamente Delia loro semplicita; di che avviene, secondo lui, die non
pos u tarla senza distruggerla. DifTatto Tessere suo consistc in eerta rela/.ione didentita (a), che non patisce
grado ni inodo, o > (4)- E la stcssa specie d immutabilita relativa
attribuisee a com* posti d'idee universali, u per la ragione, dice, die Iessenza
B d'ogni composto astratto giacc tuttaquanta nella forma ideals (i) Non
necessariamenle, secondo li forza deUargomenlo che segue, ma SDzi
contin^entemente. (3) identitd pu6 avere relaziont? io capisco che si dieno due
cose' si* mill e, se si vuule, auclie ugusli; ma due cose idetitichc! con so
pensarle; e |>erci6 nc pure alcuca tcLsioae fra due o piu cosc idcnlichc:
aliueiio ucl sisiffna srnsislico. (5) NelTidea, come ho toccato pilma, non
cadono gli accidenti del sog* g^llo ove ella dimora. Quesli accidenti souo
forzali dnl N. A. ad eiiirare ueliidea, perrbd il suo sislema vttole cost. Ma T
osservazlone schiclla dice il coutrario. NelTidea dl uu albero, o di un cavalio
ecc. chc Io contetnplo, vi si possono forse trovare degii accidenti di me
soggetto pensante in cui dimora quest^dca? quale stranezza nob ^ colcsta? chc
cosa ha egli a fare I'aibcro possibile, o il cavalio possibilc da me
roolcmplalo, con me che lo contemplo? Anzi appuuto pcrche io contemplo que*
possibili oggeili,io debbo necessariameute esser aiieno da essi, posso
coctemplarli se nun a questa coudizionej che da essi'io stia separate!. Mon vha
die una sola idea, in cui eotri,il soggetto, c questst e I idea del soggetto;
non v'ha che unidea, dove entrino gli accidenti del soggetto, e questa i Tidea
degU ac* cidenli del soggetto. Ala in queste idee, uelle quali sole cade in
parte o in tuiio il soggetto, non si pub astrarre da questd; perocche forma
egli Tog* gelto di quelle idee^ costiluiKe Tidee stesse, e colfastrarlo da
quelle le si distruggerebbe. Convien duoque osservare con accuratezza come soil
faitc le idee, e non parUr di este a priori, come fanno I seuiisti, secondo Ic
esigenze un prediletlo sislema. (4) P. II, c. X. V- RosMini. Jl Binnoyamento 58 Digitized by Google 45h
' (a). In questi luoghi adunque si suppone chc
le idee univcrsali non si possano mutare, perchi non hanno piii die un modn di
essere, ma bcnsi die si possano distruggere. Clii nun vedi; die questo
nianifeslamente iin confondere Talto coutingenle dello spirito nostro
coU'oggetto necessario del racdesimo ? All'alto delta mente, che intuiscc a
ragion d'eseni- pio la ragione dell'animale (ratio animalis), pu6convenire
quella immutabiliU impropria di cui parla il C. M., ma alia cagione slessa
dell'animale cOnviene la vera e propria immutabilita da Ooi dcscrilta*,
perocchi qudlidea, o ragione dell'animale, non piiu giammai venir nieno, solo
puu non essere da noi intnila. Cosi avvien pure, die se chiudiamo gli occhi al
sole, il sole i spcnto per noi ^ ma ^ egli, per questo, trallo di delo, e in si
olteiiebrato? E quale matta nostra prosunzione sarebbe clla co- testa, se noi
pretendessimo di dare esistenza o di torla al sole, con solo quanto ci costa ad
aprirc, ed a serrar Ic palpebre? E ogni giumento in tal caso sarebbe creatore e
annidiilatore dell'astro del giurno^e men male se un giumento sel creda: ma in
un filosofo, in un uomo, non t comporlabile che lutta creda egli contenersi e
racchiudersi nel suo picciolo niondo sogget- tivo la luce razioiiale che, come
dice sanl'Agostino, e pure qual- che cosa di meglio che non sia quella che
splende anche alle pccorc^ e che quello che per lui non i, voglia didiiararlo
al tuttp non essere. L' animate fu dunque possibile, e conosci- bile da tutta
I'eternita, e sara sempre; e non pii6 non rsser tale, eziandio che io non
avessi mai iutuita questa possiLilila, eziandio cb'io non fossi, ni mai fossi
stato. . (i) Cbe cosa 6 laulirc ua composlo didee? non allro che rivolgere la
meiile ad un allro composlo. queslo un mulare, 6 uu dislruggrre quel primo? mai
no. La mulazionc i lulla in iiol , c non punlo iiel composlo delle idee; come H
loglier gli sguardi da uu cespo di (ior! per roiraruc iiu allro, non dislruggc
gia quel primo, ma solo TimpressioDC che noi da quel primo ricevevamu. (a; P. II,
c. X, y. Digitized by Google E nolle; parole cilale egli i agcvole a notarsi an
altro er- rui'f. II Miimiani fa consislere il proprio csseru dell' idea uni-
versale in certa relazione d'idenlita,
che non palisce grado u ne mudu, o vogliam dire cbe vien astratta da tulti i
modi u e da tntli i gradi della sua specie . Se cosi fosse, non vi
avrel>l>e gerarcliia fra le idee universali ; anzi non vi sarebbe di
universale ehc tin' idea sola, rastraltissima dell esscre; pe- rocclie
verainenle in ipiesla sola idea non entrano per nulla i modi ed i gradi;
giaceb^, come dice lo stesso Mamiani, u Ies- u sere non in se propriamente i
mulabile, ma nei soli suoi u modi n. Non sara dunrjue universale P idea del
cavallo? in qnesla idea si reeiJuno at
tutlo le differenze, o sia i modi di quesla cssenaa cavallo; cioi in essa non
si pensa ne alia razza araba, ne alia razza ingicse, ni ad altra generazione
speciale di cavalli. Ouimainente. Ma se
Pidea di cavallo i universale, non sara universale anebe Pidea di aninvale? a pure
Pidea di animale rigetta piit modi e pill diOerenie da s^, die non Pidea di
cavallo: perocch6 in questa, oUre a^costilutivi delP animale si pensa per6 il
modo speciale del eavallov Dun- que questa idea di cavallo ritiene in si un
modo, che da>qnclla di animale, i escluso, e tuttavia Eidea di cavallo- i
universale. Non i dunque vero, che Pidea universale debba, per esser tale,,
geltar via tutti i nw)di: ma or ne rigetta meno ed or piit (i);. e secondo ehe
piit ne rigetta, elP appartiene ad uua classe di universali piii
indeternaifiata, e ad una piit determinata riget- tandoiie meno. Vi sono uelic
cose (concepite), per usar la frase del Mamiani, varie relazioni diJentiti (a),
piii adipie o. (i) La raijione perrKe i moM dulte Wee non impecHscono cbe quesle
sieiio uiiiveisali s? e, perclie gli stessi modi suiio uuivers.ti; a
clifTereuza. lie' nwili UeHcsscre sussisicole, cliv souo parlicvlari come c
I'essare a. cut- (.i) Ho gia nolat prima, qiKin^o ta parota ichnlitA usala ml
sise* VfrHmenle, (m>S5o io furmare
unastratiune sngl^ oggelli, se non souo Ha me comisciuli? gli oggelti conosciuli sono appiinto le ider^
siU'iitv pt'Lu alia scusaiiuue c aiiucssc al giuHitio. Oja nclk- t(Uc Ifovuma*
Digitized by Google ,{fio piu strette^ e secondochi queste identlla hanno pii'i
di estcn> aione, rile si fanno fondamento a piii estese, rio a piii astratle
idee universal!. Negli aoimali, non ninUndo I'esempio addotio, iina retazione
d'identila pin nmpia i qtiella posta ne' cnstitutivi essential! dqll' animale',
piii strelte relation! d'identita sono quelle poste ne coslitutivi essential!
de'cavalli, debuoi, degli uccelli, de' pesci, ecc. Queste piii anguste, che ^
quanto dire, piii determinate relation! didentila costituiscono altrettante
idee universali, piii limitate e piii compite dell idea pure utii* versale che
contiene Iessenza dcllanimale in genere. Egli i dunqne manifesto, che I idea
universale non i de- scritta bene col dire sempliceinente ch ella viene
astratla da tutli i modi e da tutti i gradi, non cssendovi che I idea del-
Iessere che non ritenga alcun modo generico o speciale, e tutte Ialtre, per
astratte che sieno, ritenendoiie serapre alcuno. Conviene adnnque cercare
nitrove la propria natura delle idee universali, e non riporla in questa
illimitata astrationc che tocca il Nfamiani. Quale diinque la nozione propria
dell'iini- versaiita delle idee? noi la riponemmo u nellavere le idee Iat-
titudine di farci, una sola desse, conoscere un numero fossanco infinilo
dindividui n. E che in qiiesto e non in altro si debba porre la vera nozione
dell universalita delle idee, il Maniiaoi stesso il viene a dire, cioi gli h
filto dire dal biion senso, in qiiel luogo ove volendo dar ragiotie del perrlie
Iidea astratta di .sfericila sia universale, la rende cosi a Imperciocchi la
ra- ts gione niedesima, per ciii essa idea conviene a ciascuno di quegli oggciti, onde fu ricavata, la fa
convenire con tutti tc gli altri real! e possibili, che fra le condizioni varie
del loro essere includono la
sfericiti () nclie 1m TPr ideotila;
iroperoccii^ ciu cbe pin i(l getli possibili >n quanto a* reali, essi non
sooo essen4iati all'idea di sferi* cli^, perocch^ quand'unco non esistessc
ue^sun corpo sferico, Iidea di sfe* ricila sarebbe quella siessa. Egli e vero
die noi non ne avreinmo in tal caso ridea; ma cbe fa cio? Si distingua senipre
fra V ideti in se slessa , e V intiniione accideiilale che noi ue alibi, ha due
seiisi. Pe* rocchc lalora s'inlende per essa it iusiiitcnle^ 'il re^le; c
qiiesio e un uso iioproprio della parota, schbetie frequenie tid hhro che
eiinuinaino , e in allri: lalora siiileude per iudividuu un fmrtnolure, sla poi
egii reale, o Solo inimaginano, o possibile; e queslo e il suo vero e proprio
sigtiiliculo. Se duiique per individuo il Maiuiuni inlcucle il sussislcute, o
reate, egli non pu6 rimprocciarmi cbe io Tabbia i iteniito ueila forinazloue
dcU' uni- versale: quando anzi ho fallo consisicre U fuuzione
ddruniversalizzare iicl* VasOwre dali'iiidividuo la ^a sussisteuza (Ved. iV.
Saggio ecc. : Sez. V, c. IV, art. I, 2 j). In queslo .ciiso c verisinno, cbe
ogm idea universale include
fuiialaiiicnlc alcuiia aslruziuiic . Sc pui culla j.arola eu nolo, cbe
dice L'uoino peiisalu uelia leMliiji e
siugolare M Dtlla cusu cume uelT iiiltlicUu, ma oeUinlrllelto rapiircsenta
molli uo- M mini {Untv, Pltil P. \, Lib.
IL c. m). Quesie pwrole ilpolcvimo furc accorto, cbe Tuoino singoUre, e pero
individuule uelU mente, cioe ud suo stalo d*idf*a, pu6 esser rappresentativo di
niolti uornini, c*oc alio a fiiici cuposcere rnolti uoinini, e quiiidi
inedesiino k uu uuiversale: giaccbe ba quelU qutflita, cbe roniia Tesseiua,
come diceinino, delTuiuversalila. Mode* siiiidiiicuie Mvrcbbe polulo vcderc,
die la doUriiia mia non s'allonlana di truppo, conitgii vuol crcdcfe, da quella
serilerita dd Caiiqiandia lieoe iiilesa, die ciod iialaineule cbe Ciascuiio di
quo* gii iiidividgi si accoinuiii cuii qudl^idra, lu quale aUraiiiente, non
potrebbdi a hoi iUaxOate (cotnr d'cevano gli scoUslici) e farli conoscere. li)
lu qupsla propriela di non polcr avere piircbe uu modo di essere, vctleinmo
poro sopra avere il Alaimaiii eoliocato iesseuza delle idee uui* \eis*li.
Secoiido la coereiiza logica uuendo d passu die qui arreco a quel di supra, ue
segtiiteiebbe , cbe idee universali iiou louo alire die le sein- plicissimc, Ic
aslraUissiiiic, le co iiuiii a Itilli gli timnini. Or queslo vorra essere
ddficilmeiile concedulo da*^ filosofi.
Ma ue pure il C. M. il cre- dtra. Egli poco sopra disliiise u Tidcc e i
giudicii uuivetsali daJle idue ir Digitized by Google X e I'Uiiltnnn (lalU
forma stcssa co$tante e comune dell inten- X climrnlo e dci srnsi " ( i )
. Allopposto V imniittabililti, come
pure V wtiversaltti A godula indislintamenie da ogni idea^ perocchA Iidea A,
come tante voile diriamo, la poislhilila logica, o sia la conoscibilita degli
ml!. Sieno qiiesle idee o piii o meno aslralte, cloA facciano c6- fioscere gli
enli pin o meno astrattamentc^ esse sono ugualmente sempliel, ugualmente
incapaci di ricevere mntazione, ineapaci di essere annlrhllale. L'idea dell
essere, qaella dell' animale, qiiella dell uomo in generale, A cost immutabile,
come quella di un uomo possibile fornito di tutli gli accidenti, e privo solo
della sus.si.stcnza e realita. Ognnna di queste cose [>ossibili sono sempre
slate tali, nA mai poterono o potranno essere altra- mente, e per6 neppnra si
potra pensare il contrario. II filosofo adunque, se sa, dee rispondere a questa
interrogazione, u Per- chA non si pu6 da me pensare che un essere possibile
qual- sivoglia (il che A quanto dire un essere ideale, nnidca) non sia
possibile ? onde viene a me questa necessita singolare che limita (per cost
dire) la mia polcnza cogitative? onde questa inviolabile legge del mio
pensiero? eceo la questione dell u- niversalita, della necessita e dellimmutabilita
delle idee. X d.i giiidicii universali c comimi . Dunqtie riconobbe delle idee,
ebc seb- liene uiilversali, non sono comuai. Duoque, se il non polere aver
piuduti modo A la prnpriela delle idee universali-comuni, questa non dee essere
la proprielii detle universali liilte. Dunqiie egli slesso riprova ci6 che avea
lello innanzi, clie la qualila di aslrarrc da tulti i modi sia il coslilulivo
delle idee universali. (i) P. II, e. XII, IV. Qui il N. A. dl unalira ragiooc
lutta nuova, perciiA alcuoe idee sieno comuni a lutli gli uooiioi, cioA perebA
x risullano X dalla forma cos'anlc e comune dell intendimenlo e de sens! . Se
fosse vera questa ragione, le idee sarebbero al tullo soggettive, nA aver
polreb- bero alcuna rclazione cogli oggelli esleriori. Tullavia passi. Ma come
s'ac- corda quesla ragione coU'allra della roaggiore aslraziooe ? buna o Ialtia
di quesle due cause dee esser la yera ; o che 1 idea A comune a lulli gli
uomini perchA A aslrallissima nA puo avere alcun modo, o perchA,A un elletio
della forma comune delle facolta umane. Se A vera la prima ca- gione, vana A la
secondaj se A vera la seconda , vana A la prinia. Se A vans i Una e Iallra
separalamenic prrse, sono vaoe anche tull' e due in- sieme. Nel ff. ho dtslinlo ^sWeS-^enza, dichiaraodo
qucsia og- gelio di qiielb. Si potrelibe dire che 1* idea i resfeoio veduta.
Qucsia di- AlinzioDc trascuralu dagli aiiiichi pno esscre utile in un
argoineiito, dove ogiii minima iinpropriela di parlare pud essere principio di
m.ilc inlelli- gciizc c d' errori. Digitized by Google Questa i una veritji
italiana, rt^cnzialmcnte itallana: rlli fortn61a base della prima 6losofia
Indigena della patria nostra. Ognuno s'avvede, che io voglio ricbiamare la
scienza nazlonale a'suoi principj: che io rimonto fino alle glorie della Magna
Grecia. O Pittagora (r), o, come a me sembra ancor piii pro* babite, i savj
piii antichi di lui, da'i]iia1i egli apprese (a), vi- dero, che di cose
veramente immutabili non v aveano che le idee possibilita delle cosc), e che
tutto il rimanente era quaggiu mutabile e perituro. Per6 divisero tutti gli
enti in quelli ch'essi chiaCnavano in* telligibili (rd vor^TO.), e quest!
furono i possibili, o siano le es* senze, le idee, perocchi 'queste sole sono
intelliglblli per sA, aono Iinlelllgibilila delle cose^ e ip quelli che dissero
sensibili {aicr^rira), che sono le cose sussistcnti. Io ho gia dichiaralo in
pih luoghi, che io nomino intelletto la facolta de possibili, e senso qiiella
de'sussistenti. E di vero, solo da quest! loro termini edoggetti si possono
deli ire e distinguere acconciamenie
queste due general! facolti (3). Or a que primi enti, ciod agl intell gibili,
concessero Pimmutabilita, Ieternita ecc.^ a quest! second! poi diedero la mutabilita,
e la contiogenza (4). Evidente, e gravis* (i) A chi piace^se pigllare Pillagora
come il nome non dlm uomo, ma d'liiia sella (una persona morale) , a suo bel
piacere, le mie parole valgono Ugualmenie anche per lui; peroccli^ mirano alls
doUrioe, e non all' uomo che le lrov6. (a) Plularco nellopera della Creatioce dellanima descrilla nrl Timeo
> di Platone nonniia per maestro di
Pillagora, Zarala, di cui uun Irovo menzione negli scrillori che ho alia mano. Aliri
leggono Nszarala. Or Del luogo di
Plularco si alTernierebbe, che da queslo suo maestro (e io nol credo eglziano)
derivasse la scienza de numert. Ma se hassi a. prestar fede a mohi aliri luoghi
di anlichi scrillori, i quali aOermano che appren- desse quella dollrina de'
numeri daUGgiilo, couaerrebbe dire, che una si falls dollrina, che faceva
service i numeri come emblemi delle cose, avesse unorigine assai piii aulica, e
al tempo di Pillagora fosse gU propagaia presso diverse nazioni. Se poi vuolsi
prendere Pillagora come il uoine di una sella, Iargomenlo acquisla ancora plu
di forza. (3) Ved. la leilera da me scrilta a D. Pietro Orsi sopra un articolo
del Messaggier Tiroirse, inserlta nelle Prose slampale a Lugano, i834. (4)
T>meo, aniico filosofo di Locri cilia italiana, nell'opera Dsltanlma del
mondOt che gli viene allribuila, divide lullo cid che in Ire calego- lie. Idea,
Materia, ed Es^ere sensitivo. Ora nellufeo sola riconosce una perfella
immulahiliU. Ecco comegli parle. dell idea :
La prima di queste RosMiuij II Jitnnoyamcnte. 5g Digitized by Google 4
fi(> simo K fjiip^lo vcro: convipne apprendcrvisi, e fortcuienic t- tcnmisi
a dii vnol piinr filosofarc con cotanza, con dignila, con vcrlla, con utllita
dc siiui siniili. Me cosa alcuna potrebbu cssirnii cosi desiderabilc, quanto
quella di vcdere qursta ca- nola e veneranda nazione ilallana non piii
flulluantc e naufraga quasi net mare di Icggiere, erronec e non sue opiaiooi ,
nia iitinninio, I'ernia e sicura nel porto muiiitissimn de' suui padri. Alla
quale dolce speranza la sua fcde religiusa fammi erigere I'auimo audaccmenle^ conciossiaclie
I'anlica dotlrina ile' mag- gicri suoi, da cui apprese la stessa Grecia, e
singolarmenie albne al cattolicismo^ e penso, quel popolo dover essere in di-
ritlo raaggiore d'inscgnare allrui la flIosoGca rcrila, il quale i divinamente
isliluilo quasi naturale maestro agli allri della re- ligione. si creda, che
alia scuola di Glosofi di cui favelliamo, la qua! di tulte certo & la piii
illustre, sfuggisse quella distiniione fra Y itlea ( I'entc possi|)ile a cui
solo I'immutabilita couviene), c I'ntto contingcnte e accidcntale del nostro
intelletto che la intiiiscc. Peroccliii sc queste due cosc si trovano
perpetuamente confuse iiell'altre scuole, e qualche volla in Arirtotele^
all'in- contro egli h assai rado, die si confondano nella scuola di / trtr oosr
non i generftla, ^ immulaliile c pcrmaneole, seinpre In sU-^sa, *
inirlligiijilc (ttitrif) , modello Hi tutit gli esscrl geocraii soggeUi a can-
*f glumenlo. Klla si nomitja idea, c (ale si coiicepisce (xa/ ** K4' *X9 fjivg
fftiix aftv9TO0 Tt as/ oV/K>Tei>, xm' ti j n,ai' to( rciifTM ri ita/
\9Vc1 lx /uira/SoXa fVrf* t9i$ut9 c/f Tz/. Csp. I, 3. Avvcrliru qui di pas*
SHggio, chc io non posso convenin* ton G. T. Tenncnstmu* il quale rnelle fuor
di duldiio, che queslo prezioso libro, conservaioci da Procio come opera di
Timeo, c come tale risguardato. anclie da Sinnesio, sia un sem* plicc compendio
del Timeo di Platone. La tnia opioiooe^ di cui qui, allesa la hrevila di Una
oola^ non posso esporre )e prove, si e ch*esso non sia 1111 coinpendio del
Timeo di Platone, n^ sia pure Topera stessa di Tirneo, ma ]>cn5l un
coinpendio di questultima fatio iti tempo poslifi iore a Platone. Plularco
pure, conlro Colote, esponeodo U doitima di Parrmeuidc dice, che quesli prima
ancora di Socraie conohlie la oalura dtiWidea, o eiilc in* telligibile
(xxxroV), U quale solo alTerniu esscro
Senza principio, fermo sciuprc, e tntegro ; 9*rTo> J't irsfor iiJxc
> Eer/ yaf euXtutXif Ti xai drftutit aV dyivnriif, * ajTf; xti layt}* xar
fioviuov Ix rp" fira/. Digitized by Google Pil (agora c ili Plalone.
AU'opposlo vi lianiiu ili niolli Iimglii
cliiarissimi, dove trovansi separate coDa piu esalta descrizioiie.
ISellanlIro, ('ompendio di Tinieo Locrese-epir.etirlano si disliii- guc
chiarissimamente Yidea dalla seknza, e s! defiiiisce questa per la cognizi'one
di quulla (i^. Alciiioo distingue la fi+osoGa di Plalone dalloggelto di cui
ella Iratta, diceinlo cliu^l og- gelto di quella GlosoGa .sono gW ciiti intelligibili (le idee ^ TOr/Ta) e
die sono per se slessi (a)'. 11
medesiiiio afFerma Jam- bliro parlando di Piltagora (3). Egli e bensi vero die
Eradito, fc la siMScguente seuola di D- oiocrito, inlerpretando forse
allrameiite gli stessi placili dd- I'anlica sr'uola italica (4), ritenne la
distinziooe degti enli in (i) Tf/a ^i' $*rra , reir fitv **r Cap. I, (a)
ritfta-)tiy^09Ta 99nrd tW rti xet^' eprsr. Ciip [, (5) XvfsOra (parla delU
lilosofla pittagorica) rd* aTvuarxv xa NOffTnN> cdXiur Tf kai Iti Prolrepl.
ad Syuil>. xxt, (4) CiCinle piliagorica prelendt^va clie le UDilk di Piltagor
aliro nofi ftisscro die gli atomic Qiirsta i uua mauifesU corruiioiie del
sistema dtr* mtmeri; il quale noti avreldie piu alcuua coercuiza, ove si
spiegasse cosl materialmeDic. TuUavia
uonsarebhc impussibile, che Tautore o gU auton della scuola ilalio ammclie^sero
gii atomic uuu inai curne inlelligibiii 'per sv, 11^ a quel- tiiodo esclusivo
die ii pose poscia la scuola di Deinocrito. FUtode niedesimo nel Tetteto non
ricusa di ricoaoscer glj alomi, e di al^ Iribiiirir a PiUagora: e pure eerto
cl>e il liloso5> ateniese non iiHendeva il filosolb di Samo io uu inodu
maleriale e che a lui rtpulava V rnttUi^ibile quale solo irnnu(abile.
Aristolele pure dice espressamcole, ohe aucbe i Pi('> lagorici (cioe quelli
che ernno riconosciuti quai seguitalori ddfa scuola ilalmna ) ragtonavaiio
degli dementi, ma>in aliro modo da' Fisici, cei)^fli9i xxt* X^drrai rtS*
IUvUiphis. ijib !(', Cnp. Vll. Aliro h adunqius concedere, che iicUo divisiuue
die si fa de corpi convenga ridtirsi a de' pritni iiidivisibili, it cbe e una
verila 6sica; aliro ^ ii volere spiegare con quesli dementi materiali tutli t
geoeri di cose, e Io slesso pensiero. Qxiesto e il corrompimento del sisletna;
e simiglianti corrotnpinienli avirengono audie alle buouc dotlrme ogui qual
volta si feiidono esclusive e si porlanO' alTcccesso. 11 sisieina bsico degl'iudivisibili puo
duuque aver avuto it suo principio da Piltagora, e quesli, conic alcuri vuole,
averio appreso da* qud vecdiio fitosofo feniciu Masco ^ die Straboue
suli'autorria di Possido- iiio riftTisce per auloic primo del sistcina
alomistico, facendolo piu aiUjco della guerra irojana (Lib. XVf. Ycdi anthc
^eslo atW. MutHem.). Uu'aUra ussurvaiiuue siiuio qui d'ovcr Cue, la quale puu
fuisc aggioD- 4G8 . _ ininiotabili e mutabili, riponenJo poi Iimiitatabilit^
non tanto nelle idee quanto negli atomic e la mutabilita neloro diversi
Mggruppamenti. Ma che questa sia una corruzione delPantica doUrina, la coerenza
di tutte le vetuste testimonianze nol la- sciaiio dubitare. Ni per questo
ottenne I'autore del sisteoia atuniislico, cbc gli uomiai di buon senno
accordassero a'suoi atomi quella usurpala tmmulabiiila, la quale tutl' al piu
era Jbica, e non logica, cioi non' tale, cbe assurdo fosse a pensare il
contrario*. di cbe Plutarco, canzonando Epicuro per tale im- niutabilita data
a'principj materiali, dice: Epicuro,
piii savio m di Plalone, chiama enti ugualmente tutte le cose, come per u
esempio quel vacuo intrattabile, quel corpo solido che sem- u pre con la jua
durezza fa resistenza, i principj, le cose 'ma> 1 teriali^ assegnando' la
medesima essenza alle cose sempiterne m (alle idee, voT^ra) e alle caduche (): di che si vede quanto era lontano il
filosofo di Cheronea dal concedere ad Epicuro, cbe accomunasse alle cose
niondiali quella immutabilila che solo delle ideal! i propria dole ed
esclusiva. gere doo poca luce alia sioria (Idle * idee eterne . Aristotcle net
c. XFII dd Meta/isid, c. IV, dice, che Socrale preudcsse occasione a introdurre
111 dolirinn delle idee da Kradito, il qual diceva le cose sensibiti esser
flueoli c al luUo incosUuti, iie pero in esse potersi fondare alcuoa scieo^a.
Di p^ssaggio uolo, che queslu concetto di Eraclito, uel tempo sicsso che
teudeva a dicliiarare impossibile la scienza, ricuuosceva uetla scieoza ueccs-
Sana riminobililii, perchd nu&civa a dire:
Scieoza con ci puo essere, pe* rorch^ dla, se ci fosse, dovrebbe csser
cosa cosianie e iinmutabile. Ma tutlo e mutaliile e fugace. Duiiquc nun si da
scienza . Socrale con quesla occasione si pose a diniosirare, non esser vero
cbe v*aveano sole i cose seusibili e mutabili, ina che uUrtf qiicste ve
n'aveano ahre che non cade- Vano sotio i seusi: quesle cose iusensibili eSser
le tdee di ualura imniula- bile ed eierna: e in esse consister la scienza. Qui
la osservazione che io vuglioXaie si xioo doversi pnnto credere che in late
occasione comiu- ciasse al tnoudo la doUriua delle Idee. Arislolele e un
leslimouio sospelto, e pariiii strano che sia creduto si facitriKnle io questo
dal Pelavio. Le Iracce deirautichit^ dimosirano, per inio avviso, airevideoza,
che quaiido Eraclito tiro la doUriua antica di Pillagora ad un seiiso
maleriale, allora sorgesse Socrale a rimeilerla oeiraulica via^ e Plalone a
illustrarla colla sua polenta di rnenle e culla lua eloqueuza. (ij Contra Colole x\iapicDle nell'
anticbila, se le possibilila delle cose
(le idee), che chiamavano anche essenze (i), sicno qualche cosa in sA slesse o
non sieno ^ noi avremo quesla costante
risposta, che anzi ad esse solo compete il titolo di enti , siccome a quelle che
banno V immutabilita, e la cui esistenza per6 non si po6 non pensare. Le cose
sussistenti sensibili all'incontio, a cui sole il volgo pon inente, e crede
sole esistere, si puA meglio dire cbe non sieno enti; imperciocchi routano di
continuo, o pin veramente perchi non banno V essere per loro etsema di guisa,
cbe da noi si pu6 pensare, senza dilBcoltli alcuna, ch'elle non sieno. pre, e nello stesso modo perfette, ni si
mutano giammai, ni pure un rainimo
momento di tempo n (u), cio^ a dire le idee, o essenze delle cose, nelle qiiali
sole, come dicemmo nel capitolo precedente, quel savio ricoiiobbe 1' immutabi*
lita. Imperocchi i corpi, seguita lo
stesso Nicomaco, e le cose material!
sono in perpetuo ilusso e mutamento, sotto u ogni rispetto, e solo imitano la
natura della materia (3) (i) Ouria i frequente io Plalone e in Aristolele
stesso per idea. (a) Orra rfi oji'ftTS I'/rs/. to sora ad duTct xoi Jaatirtii'
o'li* rf/OTS- XwrTO It tf tirfip xal iitiiTm, tjb' inai i^irrcifutt, i/J* s*
(3) Era etrore comune presso gli antichi filosoii. che la materia fosse rierna.
Evvi tultavia ragione di credere, che nicuna volta per materia inlendessero la
materia ideale, V idea della materia > giacche deKriTono Digitized by Google
u : prdode fra i materialisti, e' gli
facea compor Ianima daquat- tro elementi, dovea pur osservare, che il filosofo
sieiliaoo veiiiva a conlraddire a si stesso, qiiando riconosee.va due mondi ,
Iuno sensibile (*drOf a'lir^rjoc), Iallro intelliviblle {xoffuoi; Vor^d)'.
tanto poi era lungi che quello anteponesse a q'uesto, che anzi dichiarava il
mondo ideate o intelligibile esscre an- teriore al mondo sensibile e materiale,
e tipo di questo (/{). sprsso la malrria rome spoglla dl liille le forme. Ora
in tale stato non si pub pensare come co.sa reale, ma come iina pnra
asiraztoiie. Perb a parer iiiiu (lehboiisi , fra gli auliclii, di.stingiier
quelii die ammeltooo elerna la fiialeiia prima, da qiielli die ammellono elerno
il mondo; a qiiesli .secoodi apparlieiie itn error manireaio; i primi possono
esser cosi lulesi, die non rscano rot loro si.ilenia dal mondo delle idee. (l)
T fitv jap aaiaarnia Jaarsa aai c/'Xixa iV J/ar>xii* poVll xni fjtral5>^
Jid xarrar #rTi, pupisauira Ta Ta; a*pj.af oiViev limits mrazre'eiwc ^aVir xat'
litintrx. In Anlll. (2l Eviara^uw tr t9i; oaair Cosl Jamlilico e Nicomaco
passim, Cosi p(ire Alessandro Afrodis.
cap. n de falo: raV dXx'in-,, Tar f'r T'r can pn,'fxiTiai. E il Iradullore e
cninnienialore dl Arislolele, Boer.10, In egiad senso, d\CKi Esl sapienlia,
rerum QOM SUNT comprehensto (b. I, j4rith. c. I). (3) Vcdi il Fedone. Fragm. edit. Peyron, p. a;; Siinplic. in
Arist phys , p. 7, De Csxlo, Digitized by Googli 47' Tulli gli argonicnli chc
u;a Aristolcle a confutarc le iJcu di Platone, lianno virlii ili provare quusto
solo , die le idee non esistoiio funri
yty9m7K9f4tw99 , TOO Vfer>^roc lo^iV w oVft ovro TO* T^iyua 4
eUT^nri( Xaufidvtf utPtt Ml/'ro Plot orarr Ta Tfaffjmri, [6) y $Htfwttzz* zad to* V/foroo ri dtni Digitized
by Cookie 1; per6 i quanto dire, Iidca
vcdula da noi o sla roggntlo del nostro spirito i la cosa stessa intelligibile
n. Altrove ancora, in luogo di dire ci6
che conosce , o in luogo dl dire u la
cognizione , o la cognizione specalativa, dice
la meutc ( t): siccb6 egli
apparisce manifesto, che Toggetto della
mente , la idea conteinplata (cognizione
teorctica) (2), c la niente, si prendono per sinonimi dal filosofo di Stagira^
c pero egli pars almen probabile, c^ la mente attiva di questo corrispouda ap*
punlo alia ragione {Xoyoc) del suo maestro (3). Che se altri vorra considerare
come Aristotelc stcsso descriva la mente attiva, eon animo disa[>passionato
e giusto, trovera forse abbastanza d j cangiare in certezza questo cite io do
per verosiniile. Concjossiaebd lo Stagirita paragona quesla raents attim alia
patilva, come il tume allocc/MO (4)i e lumi appuu( del peripato se non u
siinulaeri espresst, e secondarie (7) im- u roagini di'una mente primaria e
principate, che abbraccia u veraniente tnltc- le ragioui e tuCte le varicta
detle eose . Egli pare adunque, cbe al vero si opponcsscro quc'dotli mO^ derni,
i quali tolsero a concitiare Aristotelc eon Platone (1) O i T* irff7ffv (2)
OgDuoo sa. cbe Uot%lico vieoc da eonttmpUh (3) Quesla osservatieae vicoe
riuCorxata da uoaltra. Gli Mriltori plato* fiici chiamaao ancl/essi mente or Je
ideO' singolc, ora i) loro- coni|iles.so Ptolioo, Encad. (jib. c. viii
iiisi'gna es^rc.ssaiwculej che te idee siiw goiari, come pure H loro complesso)
si possouu cbivtinar nien/^ Kt 1 1>. il luogo : El eoV n roW/r {v rd to. ii
rr- * mvrn' ynrp't wc^c> a rsfpet'
'vt(iav , d /tara. ^8) Veggiisi Topera cb Giacit^ Carj>uta^ltj
proffssore alia fiosMim', 1/ Rinnovamento. Digitized by Coogic 474 . ni altra
via parimente io ravviso onde si possa conciliare Ari* sloteie COD si medesimo.
E in vero, conie potrebbe conciliarsi seco questo filosofo, quando egli
ammeltesse che le idee o essenze non fossero piu cbe modi di una mente
contingente come la nostra? Non in- segna cbiaramente, e in tanti luogbi, non
pure Iesistenza di quest! esseri intelligibili (che cos'i cbiama egli stesso le
essenzO delle cose), ma ben anco la loro immutabilila, la loro eternita, la
loro esistenza nccessaria, immune cipi da ogni contingenza? Nel libro III
dellEtica dice, che le verita geometriche son cose eterne (t). E le cbiama egli
stesso rostra, cose iotelligi* bili, idee. N6 si dica gia cbe Aristolele pone
la sua mente attiva, o in- telletto agente, acciocchd esso possa formare
qiieste verita. Ira- perocch^ dicendo ci6, precipiterebbe in una deforme
contraddi- zione con si medesimo: conciossiaebi tali verita, tali enti in-
telligibili non sarebbero piu etemi, non piii necrssarj, come egli pure li fa.
E accioccbi nbn rimanga alcun dubbio di ci& soda che icosa dica egli
stesso; u I'essenza della sfera non viene I ^ generata (i). In un altro luogo dice: u le forme delle
cose corporee ni si generano, ni si
corrompono (3). E anco: u la forma ne si
fa da cbeccbessia, ni si' genera r> (4). Ni hassi a credere, che per queste
forme intenda le sostanze esierne, imperocchi egli le pone, come vedemmo, nella
mente agente (to^o; el9ay)\ edi questo appunto fa colpa a Platone, cioi del-
I'aver poste tali essenze fuor dell'anima^ benchi veramente fa fermo jsensiero
del gran filosofo d'Atene, come io I'intendo, che sempre fosser nellanima (5).
Finalmente tali enti intelligi- dica dell Universilh di Parigi, nella quale
assume di paragonare e couci- liare insieme i due maggiori Hlosofl greci
(Parigi i5^3). Chi vorra leg- gerla vi trovera utiove prove di quanto io qui alTermo.
(l) Cap. V. srijt TiJr a'lViwr ooVif( /SvaXtu'ivaf > o/ev Ftfi* Tifj ^ixfjtirfow %ai TJif vXtufdf on
dffo/jrjf^foi, (a) Tr oett eux fj-/ ydrlTtf. Mclaph. L. VII, c. vui. (3) Avfv
yovgrtuf xai SXvf oi*au rd tiJo, Metaph. L. XIV, c. vm, (4l TO ffVor oddoff xoiit, ooJl*
yfrrxnit. Ivi. (5) Socrale dice espressamente nel
Parmenide, cht le notiiie o idee (roa/uotra) non possono aver altra aede che
negli animi: to> {iJut ! xa^or Tci;n> ooitus, xxt* odJxuov dtni Tforoxn i
dXXori x I'r 4^ prri Digitized by Google bill Aristotele li fncera nniyersali,
e 1' universale lo sottraeva in- teramente da'sensl, Quando aduntjue Aristotele
descrive la relazione che ha la sua mente atliva colla mente passiva mediante
il paragone del- Tarte che fa ogni cosa dalla materia, e quando egli insegna
come nasrano a noi tutte le nostre cognizioni mediante Pastra* zione
daTaiitasmi^ o vuul essere inteso in quel senso nel quale n6i pure diciamo
quelle stesse cose, ovvero d In tra si diviso e combattuto. Imperocch^ ancfae
noi diciamo, tutte le cognizioni universal! venirsi da noi formando
colPastrazione^ ma questo il diciamo noi, perch^ nella percezione stessa, dalla
quale si astrae, noi alTermiamo trovarsi P universale (il possibile), non
inHuc^va PUlone all esistenza di alcune di'ita in cul ciascuna idea avesSe sedc
ft dove noi le vedessimo, le quail deiili pcr6* andavaoo poi ad unifi- carsi
ill una sola che di luUe i(i istrano tnodo coDSlava. L'iodurre dalle id glone.
gli par dunque cbe Aristotele medesimo, non cbe tutta la scuola itajica, e
Iateniese gloriata figliuola di quella, si possa riporre tra que savj i quali
alTerraaruno 1 esistenza di alcuni esseri d' unindole loro propria, cbe
costUqiscono I intelliglbi- lita delle cose, e sono i cbiamati possibili,
essenze, notizie, idee, o con altro nome qnalsiasi^ cbe di piu egli volentieri
ammet- tesse Iantica distinzione fra gli enti e i non-enti, dando il nome di
cnli alle sole idee, e ad altre cose al tutto immutabili, e quello di non-enti
alle cose corporee, le quali continuamente si' mutano. E poichi bo cominciato
in qnesto capitolo a mostrare si come I piu alti e piit perspicaci intelletti
ammettessero cotesti esseri intelligibili di cui favelliamo, anzi ad cssi soli
stimassero convenire in proprio la denominazione di enti^ parmi bene di lion
cbinderlo senza rendere prima raglone di questa lor mente, coociosslacbi il non
saperla impedirebbe la retta intelligenza di i]n principio cost sublime e cosi
conleso. E veramente se noi sgdardiamo superficlalmente la raglone cbe, il piii
comnne, si arreca di quel decreto di tutla Ianlica filosofia, noi cl arre*
stiamo al caraltere della imolulabilita o mulabilita di que due Digitized by
Google generi tii coH^ leggendo spesfo per gU antichi Itbri, che eati non si
poRsono dir quelli che non si trovano in uno s,tato giam* mai, ma solo quelli
che immutabilmeote permangono. Di che noi potremmo, dedurre, che quando nellc
corporee Cose si po> tesse trovar parte perfettameate qoiela ed immutabile,
aache ad esse dovrebbe attribuirsi, secondo gli antichi, il nome dl enti. Cost
veramente la intese Epicuro, ma il vedemmo canzo natojdal filosofo di Cheronea^
cost pure egli pare che strave- desse Aristoteje, seva spiegato co'sensisti,
dovechiama il mondo u immobile essensa '
qnaK iuoghi per6 forse inteqder si debbono del mondo inlelligibile tipo del
reale, o delta deitA vera sede e fonte delle essenze. Ma io non voglio, come
ripeto, contendere a spada tratta per Aristotele', questione meramente di
fatto, e dove i docu- menti a risolverla son forse impu'ri e illegitlimi. Dico
adunque, che la' ragione per -la qUale gli autichi diedero I'esistenza in
propfio agli esseri intelligibilf, non fu la loro immutabilit4 ac- cidentaie,
la quale pu6 convenire anche a'corpi (sebbene.in fatto totti si muovano, niente
avendovi di quieto neiruniverso)^ ma bensi la loro immutabiiild essenziaU, cio4
logicamente ne- cessaria, di guisa, che non si pu6 pensare in modo aicnno che
non sieno, o che non sieno Sempre stati, o che sieno stall al- tramente da quel
che sono. Onde avviene, che Iesistere entri Della loro essenza, sicchi essema
ed esistenza sia il medesimo, rispetto ad essi. lodi nota.Plutarco, che
chiamando le cose cor* poree non^nti, non intendevano gli antichi, che esse al
tntto non fossero, ma bend che I' esistenza non era loro propria ed essenaiale,
ma^solo acoidentalmente partecipata. E del dare al* I'antica dottrina nnaltra
interpretazione, cosi riprende Goiote:
Ma Goiote, come qnegli che non ha cognizione alcnna di Blosefia, prende per una m'edesima cosa I
uooro non essere, e r uomo esser noD*ente; ancorchi Platone stimasse, che molto diflerenti fossero fra loro quel non
essere, e I non (i) Se, come dice Simplicio, IopinioDe di Aritlolele i quell*
che ii mondo reale sia fluilo dslla deiti, non potrebbesi giammsi cbiamar pro*
priameolc immobile essenxa: A^/eTOTi*AHc iu 7-iVirSsi/ d^tii rir xa'ejurri aXXd
*ot Tftrn tire 3tiu ( In Arisl. Phys, Lib- VlU/ Digitized by Google esser ente-, e che da quello (i toglieue
affatto iaua la m> 4f stanza, con questo si accennasse la diversity del
partecipante e del partecipato n (i). II
qual luogo di Plntarco parnai assai acconcio a dichiarare egregiamente P
inteiizion degli antichi. E perchi io penso poter conferire non poco al progresso
della filosoGa. il conoacere esattaoienle qual fosse la mente di que' noslri
antichissimi maestri, reputo, ove me ne venga occasione) intramettere qua ecola
di quelle cose che la possan chiarire. Sio chi aggiungier6 ancora qui alcune
altre parole di Plntarco me* desimo, che dichiarano meglio le precedent!. Ha la cosa par* utecipata, dic'egli, alia
partecipante quello stesso risguardo, che la causa alia materia, Pesemplare all
immagine, la fa* xcolta alPeffetto: nel qual modo principalmente sono diflie*
urenli fra si' quello che ha 1' essere di sua natura,,ed i sem* pre il medesimo, e quello che dipendendo da
altro non tien Hmai uno stesso tenore: esscndo chc quello ni mai i statO> u
non>ente, ni ha da essere, e per6 veramente ed ia effelto i eote: -laddove questo non ha pur fermo quello
essere che- ogli viene partecipato da altro^ ma per la 'sua debuleiza uspesso i
mutato, cadendo lubricamenle la materia dintorno valla forma, e ricevendo molte
alterazioni e mutazioni in im*> vmagine di sostanza; di modo che grandemente
i agitato e vcoramosso. Siccome dunque colui, che dice il simulacro di vPlatone
non esser Platone,- non niega il senso e Pessenza del vsimulaCro, ma mostra la
differenza che i fra quello che da vper si stesso ha Pessere, e quello che Pha
per rispetto di lui: vcosi non tolgono ni la natiira, ni iuso, ni il senso degli
uuomini coloro, i quali per. partecipazione d'una certa sos(anza> V comune
aOermano ciascun di noi essere stafo fatto separata* V mente immagine di
qiiella cosa, che port6 nel nostro nasci* V mento quella similitudine.
Perciocchi chi dice il ferro rovente V non esser fiioco, o la luna, o il sole;
ma , come dice Parmenide, uLtune, che con la luce altrui vagando V y^a la nolle
cP intorno a la gran terra; V non niega per questo o Puso del ferro, o la
natura della Inna: ma chi dice che non.
sia corpo, o illuminato, gia repugua al (i) CoDiro Coiote, XV. . Digitized by
Google 479 atenso, cotte qaegU che non latcia il corpo, ranlmale, la go neraaione, il aenso* Chi conoace poi che
qneate coae hanno ala loro eaaenza per partecipazione, ed intende quanto aiano
alontaoe da quelle che sempre aono e donano loro I'eaaere; anoD nirga le
senaiblli allramente, ma mostra, che coaa aia 'al'intelligibile (aoi^rdr): ni
toglie le passiooi, che ci avven- agonOj e ai cpmprendono col aenso, ma da ad
intendere ritro* a varai cose piit ferme di queste, e di piii costante iiatura,
per* uchi non nascono, n^ muojono, ni patiscono^ e piu aottilmenle aeaprimendo
cOn - parole tal diderenza, inseguano doversi al* .acnne cose chiamare enti, ed
alciine fiend (i). CAPITOLO XLII.
airozMi delljl fimsofia italica fatta da fadri della ciiibsa. Le piu grand!
menti adunque dellandchiU (a) videro assai chiaramente, oltre le cose maleriali
e sussistenti, che si percc- piseon co sens!, avervi delle cose puramente
intelligibili: vi- dero, i possibili non esser uu mero nulla, ma vere cose
apiri- tuali, essenze immntabili, eterne (3). (i) Nel L. roDiro Colole, XV. N6
rinlerprclazione che (ii Plutarco in queslo luogo dell antica dottrins i sua
parlicolare, ma di freqiTeole si sconlra negli scrillori aniichi. Niconiaco a
region d'escmpio dice: : Quesie cose prive di maleria sono m e Tallre sodo e si
dicono equivocamente per pcrtecipatione di quelle mi Toot o*{ }ir, to ooAo, ao/
o'e xJrd pniuri'at fxar-m Xoirir, Toe ipmn'pxt ovTue koAo:/|U; ee, to rf| Ti Xi^tToi
xsti iot:. /n Arith, Jamblico: Direva
(Piliagora) eiiii esser quelle cose che vanno prive di maleria ed elefiie e per ti operaoti, come
tulle le iocorporee. Le alire | vd diTXo wt atitx a^i ^aovo* ifao-rnttif awlf
ioti tJ arwparea ipuxjpmf da' Xoirer oorot xoto? ^ito^oo eoror eorm aoXoojUfOO.
lUt PU/l^ * (a) Cicerone cbiama quesli majores philosophi, |3) Solo meditando
questa roaiiicra di esseri , noi giuogiamo a formarci alcun coiicello di Dio,
dellanima, dcgli spirili. Per6 chi loghe dal numero degli enli le essenze delle
cose, si melle nellassoluta impossibilila di ayere un chiaro concetto di Dio e
degli spirili. Peru qual roaraviglia, dopo di CIO, se altri iicglii esistere
qucllo di cui non sa furmarsi la minima idea? Digitized by Google 4Ro Ni ilee
far niaravigKa, c>ie dopo aver trovata e fermata una cosi aublime veriUi,
Iabbiano poi circondata e miata d'errori. Conciossiachi in qual dottrina nmana
la verila i mai acevra di errori? CerlOj^ non operano ginatamente coloro cbe
ridutano ttttto no corpo di dottrina perchd qoalcbe errore vi si contiene. II
cbe accade a qoelli che claasificano le dioaolie co' nomi de' loro antori, e
poi, secoodo la panra cbe lor prende denoini reai odioai da alcuni declametori
, come fu fatto di qoello di Platone, da gente onorata le rigettano. Preaso
alcani i dive- nuto oggidi veramente pauroso queato nome di 'Platone, altnen
quanto in altri tempi era la befana: e par cbe quest'nomo, il qual davvero non
e de piu dozzinali, niuoa buona cbaa ab> bia mai insegnato, siccb^ per
iscartare una aentenza baati il dire, ella i platonica, elPi uacita dalla
scuola di PlalonelSe coleatoro conducesaero il mondo, davvero i bei progreasi
che in tanti secoli avrebbe fatti il genere umano! Ma io, cbe non ho poi tanti
riapetti umani, dico, che la dottrina di quelli cbe Ianticbita ebbe giudicati
sapientiaaimi , conviene eaaminarsi, prima di rigettara;: conviene jntendersi,
prima di schernirai con qnaicbe epiteto gcaerale: conviene an- cbe, se aiam da
tanto, ^ernere dentro ad esaa il vero dal falao, e migliorare quanto in esaa
rimane per avventura d imperfetto.' Cosi la penaarono i grandi scrittori della
Chiesa cattulica, fra i quali corre subito allanimo di tutti sant'Agostino.
SantAgoatino non condannA Platone inaudito^ il leaae, il nieditA, e tolae da
Ini qnaicbe cosa di buono. Ni per queato ai fece Platontco: tc Questi
filosofin, acriveva de aeguitatori di Platone, uvinsero gli altri in nobilta e
in autorita non per valtro se non perchi savvicioano piii degli altri alia
verita , oaebbene le stieno tuttavia un buon tratto da luogi ()> Ecco moderazione e saviezza onde
ciaacun uotno diaereto dee procedere. E peru io credo che qui toraera utile non
poco, se noi con* aideriamo le emendazioni successive cbe. veonero faoeudo alia
dottrina Closofica di Platone i maestri piu soicnni del Crislia- ( Fieri enim
potest, sicut Jam in hoc opere supra diximus , ul hoc idea possit, quia nalura
inleltigibitis est , et conneclitur HOS SOLUll IKTELLIGIBIUBUS, SfD BTtJU
ISIUUTJBILIIWS BEBUS. Rosxim, Il liiluiovammto. Ci Digitized by Google 48a Or
si pn6 ben Jire, cbe le idee prese in n falto significato tiano una dottrina
comune de'Padri della Chiesa (i). Ma i Padri feoero degli altri miglioramenti
alia dottrina delle idee. Ed ecco in breve i loro pensieri. ^ Queste idee,
essendo essert immutabili, eterni, necesaarj (a), (i) S. Giuslino, filosoro e
mtrlire del secondo secolo dell* Chies*, tro- vava una si falla conveoicnxa fra
le idee di Platouei sanamenle prese c le sacrc doltriue, chc ripu(a?a averle il
greco litosofo lolte dalle divine Ictlere (L, Centra Gent ). Quests stessa
opiniooe maoifcsla Clemente Alessandrino, fcrittore dello slcsso secolo ( VI);
e nel secolo IV Eusebio di Cesarea
{Preparaz. Evangel, lib. XI). Tullo Ci6 prova quanto intimo si riconosceva essere
il netso fra quelie idee c la crisliana s amenta. BoeiuOy dislinto filospfo c
icologo, due secoU appresso canlaTa il mondo intelligibiU o ideate con
de'nobili versi: tu cuncta supemo Ducts
ab exempla: pukhmm pulcherrimus ipse Mundum mente gcrens^ similiffue in imagine
/btynanit Perfec.tasque jubens perfccium absolvet'e partes. L. Ill dc Cons.
Phil. metr. ix. La Scuola non ha mai discordalo .suirmml.ssione delle idee
cterne; sebbene venga creduta^ da moderoi, seguace di uu sensismo chc ella
veramente non ha mai professato. no-
stra k routabile: m E sc fosse uguale allc menti nostre, dice, ella stessa ( la
** verili) sarebbe mutabile n. Onde conebiude; * Laondc non cs.sendo n6 inferiore, ne uguale, rimaue cli'clla sia
supefiore c piu ccccilcDtc n, Que* Digitized by Google 483 come Snlailivameate
si manifestano, sarebbcro altretlante deila, quandb esistessero isolate jn si
stessc; or questo iassurdo. Dan* qnc convien dire che la loro esistema sia
uella mente divina. E di vero 1' intuizioue nostra delle essenze deHe cose cl
dice bcns'i , che elle soo cterne, infinite ece., ma non 'ci dice mica ehe
abblano necessariamente un esistenza foori della divina mente. Cost corressero
la dottrina di molti Platonici, la pur*
garono dallinfamissimo peccato dell idolatria. uE queste ragioni, dice
santAgostino, dove credercmmo not uessere se non nella mente del Creatore?
Imperocebi egli nod isguardava in
quatche cosa posta tnori dt si, per operare se*
condo quAa^ il che sarebbe saerilego ad opinarsi. Che sfi u tutte queste
ragioni delle cose da crearsi e create nella mente u divina sono contenute, ni
cade nella divina mente cosa la qual non
sla elerna e immutabile, e principali idee le ckiama aPlatone^ elle non pur
sono idee, ma vercmeHie soiiof perchi Ksono etecne, e tali e incomointabili
rimangono, e ci6 che i, ein qualche modo si fa per loro partecipazione (i). Nel qpai luogo e in tanti altri simili
dello stesso Padre si vede, come egli non ammette gla due maniere di ragioni,
idee, od essenze delle cose, Iuna in Dio e Ialtra in noi^ il cbe sarebbe
assurdo, come piu sotto dimostreri; ma sV anzi, come ai tutto egli sia
persnaso, che le cose s abblano le loro semplici essenze, o in* telligibilila,
onde sono conosciute e a Dio,, ed a noi, ed- a tutti gli esseri che conoscono
(a). sto trgomenlo, che santAgostmo fa net lib. II Dt lih. Arbitrio, c. XI e
XH, ID piu altri luogbi, i iDelullabile.
Ora gli oppositori potraono bene spre- giarlo, si come fanoo, ma non mai
confularlo, credo io. E da questo aol puDio, del sapcre se la verila inluila
dalla mente h qualche cosa di divers* dalla mente,' e superiore alia mente,
pende tutta la gran questionc dello idee. (1) L. LXXXIII Quaest., Q. XLVf. (^)
In alcuni luogbi Plalone melle ancbegli Ic idee nella nacnts divina ; cost anco I'inlendOiio alcuni Platonici.
Eualrazio scbbene commentatore di Aristotele dice espresiamenta che pose le
idea uella cogoizione di Dm: juiv Tr^t Tw ta oufiattf ttitSf, Torlraiv dearrm,
iv tm rav infjucufytS btou oars; > trifd rrav aer^ auTSvf I'a rii CXf ;^fffdTToirrac
(In I Bthic. Aviat. fol. to). S. Girillo Aiessandrin*. Irova incerto Platone
sopra di oiA, a in oonlraddizionecon si stesso; mDi' m Iota Platone afferma,
cosl egli, esser (le idee) sostaozc separate e per si suisisleiUii lal aJtra Io delinisce DoziMi
di Dio. Ma anco i suoi diace Digitized by Google ^fo1ti allri migHorarienl!
ricevelte questa dollrlna nclle mani 3e Padri., Siipu6'dire, che ella ebiie
un_.progrcsso teologico^ impcrbcchi i suoi incremenli nelle mani degll
scriltori eccle- arastici' provenuero piii tosto dallo studio di Dio, che.da
quello dell'Uomo. Toslocbi ginnsero essi a.fermare.quesle.due verita , i.che le
idee.eranO'indubitatamente, ed erano immobili, etcrne, necessarie,i2.'cbe
eranodo Dio; questa dottrina rimaneva og- gimai connessa alla.teologia
crisliana indisgiiingibilmenle, e pero dovea ricevere :un lume,. uno sviluppo,
un progresso.da essa teologia o naturale o rivelata. La nozioue pertanlo di Dio
e de. fooi attributi metteva i^pensatori ia sulla via a ricercaro come queste
idee potessero Irovajsi in Dio , e cofte conciliarsi alia divina nalura^
rlccrche di somma rilevanza e per la teo- logia e per la filosofia stessa.
i . t I risultamenti .furono qucsli ; .
. . . . . * : I. Si vide, che il'complesso^di.queSte idee in Dio non por leva
esser cosa diversa dal Verbo divino (i). m poll pcrili di qnesla mBleria dicono
cliegli qoo Bvcsse in cio una femi* m seiilrnza sdoro di taiito' errore. . (i)
Mel.III secolo .Origcne, commentando il principio del Vangelo di saa. Giovannii
spiega la parola Xa'^a; per rsgiuiie, quale sta Delia ,meote dellar-, leilce,
accioccbe . si facciano le case tulle, secoodo la sapienza, e fecondo ale
figure del coniplesso, delle .iiilelligeiize cbe souo.iu essa., Imperoccbi a.
io sumo, cbe come .uua casa, o uua nave si edifica o si fabbrica secondo, >
le figure e lorme concepile nelle inenti di quelb che presiedono allopera, M
preiidendo la casa o la nave il suo principio ds esse figure e ragioliqcbe M
sun nell arteficc; cosi le cose tulle sieuu stale operate secondo le
ragioni, delle future cose gia prima,
roauifeslale.da Din uella sapienza. Condos-, r siacbe tulle le cose , egli fece
,nella sapienza. d da dire cbe avendo Dio creata (se mi e lecito coil parlare) la
sapienza, alia cura,di lei com-, w roise il dare agli enli e alia materia
sussisienza, c improola , e forme dalle
figure c specie ( io peiiso) cbe ella aveva in si stessa . (In Jo. c. i ). E
sebbene qiieslo passo alluda a de luoghi delle sacre Scritiure, lultavia,
rcpulo ueccssario uotarc, ,clie alciiiic inaiiicrc di dire non rcgguuo, a mux
Digitized by Google . a.* Clie esse nuu ^ ..cvano arere in Dio alcana
distinzione reale fra loro, perciocchi ^ci6 avrebbe posto una moltiplicita
neiressCr divino eontrario alia semplicita della'sua natara,- ma dovevano tutte
essere. accolte in iuaa .idea* sola indistinta dallo stesso Verbo, e cosi le
idccJn Dio veniyano ridotte a pcrfeN' lissinia nnita (i). - n . j 3.* E
perciocchi irVerbo non,i raiment* distinto dall'es- senza divina, per6
quesl'idea pure indivisa dal Vt'rbo non do* v.ea avere. alcana dislinzione
reale jdalla stess'a essenza .diyina, di'guisacbe la stessa divina essenza
fosse VinuUi^bile'stt'sso {^). parere , rolls catlolirs verili. ImperocchA non
si pUo dit-p die sia stall ijreala la sapiebza, ove ella. s inlenda pel Verbo
di Dio, n^ che in''cssi si Irovino specie od idee da lei slessa
reabrtenlc.distidle. > , 's - SanlAgoslino in modo simile^ cominento Ic site
parole di san Giovanni ove dice die * lullo ci6 die ^ siato fallo nd Verbo era
vita . n Tulfo cid, dice il vescovo dTppnna, h che IJdio voleva farendia
crealura, era gii nel Verbo, ne sarrbbc
nelle coSe, se nd Verbo non! fosse siato; come ri- speito a Je, nulla sarcblie oella fabbrica
.die tu.'fii, se^non fosse priraa > nd luo consiglio. Siccome dices! nd
Vangdo : Qudio cbe e sialo . fallo ill
piso era vila.' Dunqiie vi avca gia qiiello die i siato fallo, nia vi area nel Verbo, e 'liille le dpcre di Dio' eranO
ivi, e le opere ancora non eerano h {Tract, in Pj..lV, t in~Jo, I). I luoghi
de^li scrillori ecde- siastici cbe contengono la dollrina slessa sono comuni, e
polrei recaroc sgevolmenie di tutti i secoli della Cbiesa. . , (i)
Sanl'Ansdino, uno de' maggiori liimi d Ilal^, nel secolo XI annun- zlava
elcgantissfmanienie quesla vcrila , dicendo die Dio uno eodemque (Ptrbo) liicii
se ipsum el quiAumque Jitit yMoriol. c.' XXXII)'. . (aV S. Tommaso dAquino nlel
secolo X^II scrives, cbe * Dio, seconds n la sua essenza, i simiUtudine^di
lulle le'cose. Iiaonde Tides in Di ndn 9t ^ allra cosa^ se non T essenza di Dio
m S. ! XV, i, ad 3. ' lo prego il C. M.
di voiermi'dire in*qual modo egli crede di dover in* lerpreiare quesio passo
deM'Aquinate; acciocch^. si possa coociltare col slidee di PIa(OQ&?
s'JngaDDa assaiise lo'^crede. AocbeVAqui* Date le ammelle,. purch^ sceverate d'
erroci^ coo tutla la tradiziooe cristiasa. Jjegga, o .rammeoli . r^rticolo .ilL
della . citata Q.j XV tdella P. 'I;t il qual trover^p cbe comiocia appunto
coils dollrioa di PlatooCp diceodo': Cum ideae
A, Plaione ponerentur, principiatCOgnUionis rerum, et-
generationis^ipsurum, .ad utrumque.se^habet idea, pi;o .ui in menU.^divina
ponitur. adunque il .Dotlore.aogelico sitfajegusce dij Arislotele ? La . risposta A facile. Aristotele pu6 essere inlerprelato in
varj modip'eidec, ma aolo.cbe rigelliiilifarle sussisleiili Cuori
dciriatelleltOf di.ccj irpproltal opinionem'Pldldnis dt itUis'* a1 fondo )
idenliche alle idee della mente divina. Indi coachtai'* sero, per uoa
indeclinabile consegueaza, che le idee delluoino erano un' arcana
coimiDicazione delle idee dirine, o sia che ruomo vedeva le idee in Dio ()',
che Dio, rintclligibilitit di- vina, it Verbo divino era quello, cone dice la
Scrittura, che uillamina ogni uomo veniente (a) in questo moadon (3). Coslf i
teologi nella stessa fede cristiana rinvenneiA ana eccelsa filo (i) Quests
msniers di dire dee iotendersi in saoo modo, perocch^ press lU leUera, come Tba
usaU Hinlebranche, io non saprei approvarin. E se Doi consideriaroo
altentamente, e rafiVondamo insieme i luoghi de;' Padri, Boi la veggiamo in
varie guise lemperata* Coosideriarao questo passo di S. Agostioo, cio^ di quet
Padre che ha mo^lo illuslrala colale doUrinaf e per cosi dire falla sua,
sebbcoe 'veraroenie ella gli diacendesae da' Padri anterior!. Riprende a^
stesso in un luogo delle Riiriltaiioai (L. I, c. viti) dell'aver dello, che
Papparare che faooo gl'idioti, non d che un ricor* darsi le cognizioni
dirueolicate, it che era placito di Platone: m Questo Io m riprovo, dice.
Perocch^ i piu probabtle che gl imperil! rispoudaoo il m wero di alcune
disciphne, quando son bene inlerrogaii , per questo, cdie r ad essi ^ presenlev
quanto pud in essi capire, il luroc della ragidne eterna, dove veggono quest! imrouiahiti veri;
non perchd gii avesser co ene il saolo Dollure dica preseote airaoima
iotelligeole il luroe della verita eterna, clod il lume a ronoscere, sleno
create u interamente diverse dal lumc ttcruuf In i{iirstu modo, a mio parere,
si conciliano pienamehte i dl> versi luoghi del dotlore d' Aquino, che sembranu
di primu tratto cnntrarj fra loro (i). M'a di ciu piii a lungo allrove. II.
Ella i cosa indubitala, cbe il lume che Iddio comunica all'inlelletto umano,
non i tiillo il lume divino, o per dir uie* glio, bon e comunicala airuomo, pnu
essere comnnicata mai a creatiira, la divina essenza interamente, come quella
cbe k infiuita. Il lume adunque della divina idea, o proprianicnte del diviii
Verbo, in venendo alluomo comunicato, riceve una cutal liinilazionc delerminata
dalla volouta del creatore. L.t qual liiiiitazione non e controversa^ e qni
santAgoslino i in picnissiinu accordo eun s. Tommaso. Peru cbi viela il
clviamar questo lume crvaCo, tu quanto egli ba seco un modo, una legge, un
limilc cbe non tiene nelha essenza divina? Pud dunque dirsi increato nella soa
propria eutila, ina creato nel n>odo
(iirma particolare in cbe rispleiidc airuomo, o ad allre quali si vu-
gliatio create iulelfigenze. Egli & s. Tommaso che concilia sd stcsso in
questo mode coit sanl' Agostiuu. E iunp c Iallro adunque ot l fondo
ricoiioscuiio, cbe il lume divino, I'essenZa, Pidea divina puu considerar.si u
in si slessa, u come vieiie par- teci|iala airaiiiiua^ iii'sti slessa e sole,
partecipata c- luce. Eeco le parole di s. Tommaso: Cid che fa in noi le cose iiilellrgilxli a in
atlo per mudu di lume pai tecipato, i qualche cosa del- ranima(a), e si
molliplica secondo la moltitudine delie aiiiroe (i) S. Tommaso in assRiSsiini
luoglii distingue essetizialmeiile i fantasmi dalle itiec, di gnisa ctie gli
uni non baniio la minirua coinutiioiie di nntiKa colie altre, ne quell! sono
esseuziali a quesle. Ma ^erchi la uusira iiienle si rivulga a queste, perchi le
iniuisca, ell Ira bisogiio di essere eeeilala da* faniasini, i quali nmsugniio
cosi illustrali dalle idee; r.ioe quest! vengouo dali* /o alio idee riferili,
come uii cotal realizsanieuto o snslauziaaienlo (se cosl nc lice purlnre) di
esse. pa) S' inleiida bcue; queslo m i qualche eosa deirauinra *t non pu6 voler
dir altio, se nun, che e congiuiilo sustaiiziahneiite all'anima; perm'ch^ si
tralla di un lume eteruo dairaiiima partecipalo: ora il' lonie eterno pno beusi
unirsi iiitiniamciile coiraiiiina, ma non niai eoir'aiiniiu coiifonderfi, uri
qual (,'aso umtcTcldie la sue lialura iiuihutabile , e cesserehbe d'esser
luiite. me 'legli uomini. Ma eiu die le rende inlelligiliili, per niQdo u del
o. Laonde uAgoslino dice (a): La raglnne promelte dl dimn.strnre Iddio itotele) : Non mulutm atUem rrfert Jicere
quod ipsa ihulUgibilia pOrticipantw a Deo,yel quod lumen faciens intelligibilia
(i). Fill qiii la Scuola teolugica, la cui unanimila non mi fa dubitare di dire
die le doltrine esposte apparteogano all'es* scnza del Catlolicismo. Ora ngn.un
yede cbe io pervenni agli stessi risulUmenti, ma per ua'altra via. La Scuola
(eologica parti, come dissi, dalla nii'ditazinne di Dio: io partii
semplicemeute dalla niedilazioue delTuumu, e mi trovai iiondimeno pervenuto
alle coachiusioni medesime. \ Queslo Hnscire ad un medesimo terminc da due
opposte (trade, egli e, parmi, una conferma, una riprova della verita. Ma
oltracciii la doUrina, se non erro, ricevette per tal roodo una niiova
illustrazioue,' una magglnre evidenza, e fors'anco Io stes.w liiiguagglo trovA
maggior precisione, e piii sicuro e fermo anilamento il ragionamento. Io debbo
splegare cbe cosa voglia io dire con do: ecco in breve i principali puntl di
veduta, da quali io esapilnai la couoscenza umana. 1. Primieramente posi una
somma attenzione a distinguere in cssa il materiale dal formate. Sebbene tutti
facciano cenno di questa dislinzione, tuttavia sono profondameote persuaso, cbe
non vebbe un iilosofo ( parlo di quelli chio lessi) cbe ne ve- desse, non di
lancio, ma con un pensiero veramente perseve* ranle, la nalura, e die ne
aenlisse 1 importanza. lo notai cbe materia delle cognizioni non potevano
chiaraarsi se non I sussi* atenti individui di una specie, la sussistenxa sola
formava la materia della cognizione (3): vidi cbe la specie sola {idea) (3) (I)
S. f, LXXIX. , (3) Quesla sussisleiiza si
ptiu anche soUmeiile pensare coUajulodi quells ' die iu clitaino immaginoziotie
inUUettirn . sthUvue clla eon sia ; ciod si pu6 (Id iioi suppurre, si puo
amineller die sia. I.oggello proprio di qursi'allo e anebra materia, e Dou
forma della cognizione V ha dunque una materia susristerUe, e una maleria
afiermala mrulaliiieiile, a cui perd non compelc in alcuii iiioilo il liiolo di
maleria ideale. Materia ideate non e che I idea cieila maleria o della
sussisleiiza in geuere, e non iiiai la materia slessa par* licolarc airerinala
come reale. t3) Qui io prendo idea c specie come sinoiiuni, selilienc
propriamenlc pailandu la specie i Videa considrrala uella sua limitazione
soggeltiva. Digitized by Google frlli'llivo. e ^ esrlnica Jairinfi'IIclln : f
prr'i Ma sola la sni- sislrnxa. die ha quesla rsclusione, v. nulla piu. TuUe le
(|iiali(a Hdle cose o accidental! o sostanxiali hanno agiialmcnle les>
senr.a intelletliva , I'idea, e pcr& Inite appartengono alia cn>
gnizione ptira e formale. Quesin i qiiello che non fu ben sen* titn. per quanto
mi pare, ni afTermatn da nessunn. Conclnsi dunqu^ che- la sussistenza o
realitii delle rose, e solo la sussistenza o re^llla costitiilsre la materia; P
ideate al- I'incontro costituisce la forma della cognizione, cio# a dire la
parte altuale ed essenziale di essa medesima cognizione. II. Quinci andai
innanzi: dopo arer piirgata la cognizione dalla parte sua materiale
(sussistenza delle cose), e ridoUala alle pur* iilee (i possibili, le essenze);
io mi applicai a raflron- tare le varie idee fra loro, e trovai che le une'
rientravano nelle altre, le piii- determinate nelle menu determinate, e che
erano si fattamente contenute quelle in qiieste, che fra le une c le altre
correva ana perfetlissima equazione^ di maniera che meltendo da una parte un
idea qualsivoglia piii indelerminata, e dallaltra qticlla stessa idea
determinata in tutti i modi pos* sibili e pcri^ moltiplicata in un numerq
infinito d' idee, questo numero infinito didee si riconoscevano preesister
tutle nella priroa, ni valer per^ piu di essa, sebbene in essa non vi fosser
distinte. Non oecorre mica qui fermarsi,
dicendo: come cii^ fia possibile? non dee es.ser cos'i: io non ne vedo la
possi- hiliti: egli sembra che cid iiivolga una specie di assurdon. Quest! parlari sono indegtii di un (ilosofo.
Perocchi qui non si tratta, come tante volte dissi, di sapere il perche e il
come, ma traltasi solo di sapere il falto; non hassi adunque se non a
osservare, e se la cosa si trova essere, mediante 1o.s.serva- zione e
iiituizione immediata del falto, hassi a confessarlo^ .e s' egli par duro,
confondersi coraggiosamenle in esso, anco a costo di sentire tutta Piminensila
della propria igiioranza. Io dunque osservai, e vidi le idee menu general!
contenersi indistinte nelle piu general!. Di qui mi feci accorto, che distri-
hiiendo le idee piramidalmentc, prima l piii particolari e mol- tiplici , e
sopra quesle le menu particolari e ininori eziaiidin di numero , si doveva
necessariamenle .sal ire ad una idea prima, che formasse la punta della
piramide: e si doveva Irovare Digitized by Google chessa valeva per tiitte:
eisa dovea abbracciar nel siio srno e stringere tutte le atlre, dovea esser
(|ueUa a^ipaiito, die roediaiiUt distinv.ioni e drteriiiinazioni ia tulte
I'altre si iDoUiplicas.se. Cos'i giunsi a rntuire ridessivamente Iidea
dellV.wre possibile imle- terminato, e a scuoprire il fonle vero e puro di
lotto lo scibile. Ora se nfoi
rafTrontiamo qiiesta teoria filosofica a quella teo- logia gia piu sopra
esppsla, paniii die quella riceva da quesla gran luce. i. In primo luogo non
vha piii pericolo alcuoo di caJere nell idolatria plalonica, la quale era
inevitabile ove si fossero amniesse piii idee realmente distinle, cia.sriina
imniutabile, ne- ce.ssaria, eterna ecc.
All'incontro dalPitlMi' unica cbu iiel sno seno raccoglie tulle le idee,
o piutloslo die in tulle la idee si Irasfonde, perdii i la conoscibilita di
tutte le cose, egli n'i facile argomentare all'csistenta di un solo Iddio, a
questa i'la dimostraziooe della esislenza di Dio a priori, da me sposta nel
Nuovo Saggio stdC origitie dtllt Idee:... a." La moltiplicitii delle idee
non mette piii a pericolo la semplicita divina^ imperocchi ad iina sola tutte
si richiamann: k nn lume solo e seniplicissinio, che ogni cosa irraggia e
super* nalmeote manifesta. 3.* Questa idea unica e sopra eminente, vera e pura
luce, ^ I'ente stesso conoscibile. E I'essenza divina e appunlo riposta
nellessere, secondo le scritture e i teologi. Or avendo I'essere questa
propriety di essere conoscibile per si medesimo, per si luce, come lo cbiamano
le divine scritture^ vedesi che tutta la conoscibilita delle cose i nella
divina essenza. 4-* Finalmente distinguendosi appunlo nelP essere realmente due
forme o modi primoi^iali, che io chiamo la realita e I'i- dealiiA, I'essere
reale e Iessere ideale (i); niente vieta che Ies- sere.ideale, la conoscibilita
essenziale, in quanto si trova con- giunta e identica essenzialmente colla
realita assoluta, appellisi il F'erbo di Dio. 5. Ma se una sola i Iidea
fondamentale , e se tutte le altra (i) fu non parlo qui dell'essere morn/e^.
terra forma priniordiale detre.s> sere; per non gillare nel discorso qualcHe
cosa di iiiislerioso, che non po- lendo io fermarnii a dichiararlo, lurbercbbe
Ibrse la meale di quelli che Irggono, in'utilincnte. Digitized by Google sono
in essa benii ma indislintamenb:, onde i poi il priacipio della distiniione? Ho
toccato sopra di' questa gravissima que- atione 1 opinion mia in nna nota
apposta ad nb passo di Dio- nigio. Replicher6 il mio concetto. La volonta
divina creatrice vide ab eterno nella divina esaenza , e vedendo , cceu le cose
tntte nel tempo. Or veggendo, e creando cost le cose, distinse le cose mediante
il rapporto delle cose vedute alia essenza di- vina. Quindi le cose create
vedute da Dio nella divina essenza, costituiscono le determinazioni ideali
della divina essenza in quanto essa i Tessere intelligibile. E per6 anche in
noi mede- sitnamente Iessere ideale ritnane determinato dall azione- delle cose
sopra nol^ perocchi egli.divenla altro ed altro, secondo che ad altro ed altro
di reale si riferisce. III. In terzo luogo^' io misi ad esame q'ue$t'idea prima
e so- vrana, quest essere intelligibile, lume di ogni ragione: e pri-
mieramente scoprii in esso i piii manifesti divini caratteri del- IiniiDita,
dellcternita, della superiorita a tutte le cose,' del- lautorit4 suprema ecc.
Di che conchiusi dover esser cosa ap> partenente solo alia divinita. , IV.
Ma io maccorsi nello stesso tempo, che il nostro natu- ral modo dintuire
Iessere intelligibile era limitato ed angusto. Tolsi adunque ad invcstigare in
qual grado egli era manifesto all uomo' per natura. Qui notai, procedendo
scmpre colla semplice osservazione interiore, i." che nella mente egli i
diviso da ogni realita ed attivitii reale, non essendo che pnramente conoscibile^
a,che- gli perci& stesso non mostra in si alcnna determinazione, e che
perci^ egli i come un cotale iniziamento dell essere complelo; giacchi Iessere
non si compie, nella sua entita metafislca, se non mediante le due forme
insieme accoppiate della idealitii e della realita. I corollarj che da ci6
dedussi erano manifesti, ciod: I. Non si puo dire con csattezza che noi
veggiamo Dio (Ies- senza divina) nella vita presenter perocch^ Dio nod i solo
Ies- sere ideale, ma e indisgiungil^lmente reale-ideale (i). (i) Ovc noi
percepissirnb I'essere non solo in quanto e idiale, ma ancbe in quanto i rcale,
uoi entrercmmo in uno st.ito soprannaluralc, il quaf Sii- rebbe, secondo i
gradl. o di grazia, o di gloria. Rosmimi. Il Rinnovamenlo, G3 Digitized by
Google 498^ die noi veggiamo peru c uti' appartenenza di Dio, e completandosi
acquistcr^ la forma di Dio. Iddio ci'oe ci si mo- stra ^quaggiu solo in quanto
^ ente intelligibile pqramente (ve- BiTA^), e anche cI6 in un grado limitato.
S.'^Questa limitazione dellessere da noi vedulo, ^ al tuUo soggetllva-, cio^
nasce dalla parte nostra, e non dalla parte delTesscre stesso, cioe di Dio (i).
(i) Vebboro non poebi, come gia.bllrore accenoai^ che prima di me conobbero, V
essert far fuQicio a noi di lumc interiorc dcllc menti, ma, per quanto mi pare,
i piii )o confusero con Dio; n^ s*accorsero tamporo cbi* Tidca deirt'.sserc
conicneva in Ialtrc idee supreme di vcrjta, dl giiistizin, di l>rllezrn, di
unilh,.di ordinc ccc., Siccb6 bisciarono queste indipendenli da quolla idea
scmplicissima ebe tutte Ic rarebiude, od ^ ella stessa sotio diversi rispeUi
conslderata. Ecco come parla lih grand* uomo italiano, it Ficino: Le comuni notizie della l>onlti, della
vcril^, cbe gill prima pro* c Tammu Irovarsi In tutle le menti, per qucslo
nppunto cbe assiduamente *t runVontan fra loro le cose vere e le buone,
insegnano cssrre Iddio h. Ve dcsi qui come si mctlono insieme le nr.tizie della
bonta t della verila, senza unificarle nelPessere? Di poi proseguc a mostrarc
che quella bonta e ve* riia i Dio stesso che luce alle menti, cosi: w Se Dio i
la veritli stessa la m bonia, consegue
che risplenda alle menti degli uomini Iddio stesso ogni M qual volta noi
giudicliiamo le cose vcrc e buone secondo Dio faltosi norma w nostra m. Ora la
bonta c la giustizia in quanto sono norma dcnostri giu* difj, secondo noi, non
si possono dire Dio, ma solo apparicnenze di Dio. Poi viooc air idea
dell'cssere, c dice cost: *. Ottima osserva* zionc, ma cbe non si pu6 volgerC a
provare, die T essere che noi veggiamo, a quel modo che noi il veggiamo sia
Dio, bastando chVgli sla I'cssere ideale e comiioissimo, senza realila alcuna
%ggiuota.' La seconds, percbe in virtu \
Ma il Fictoa noo isviluppo questo grao priocipio, c dedussc qucllo ebe non si
potea da lui logicaioente dedurre, doe cbe fosse propriamente i>io, non
potendosi dedurre allro, sc uod chu uua apparteocuza di Dto. 11 passn dd
Ficiiio d uolissiino, e nc faono uso il Tomassini c il GerdH, adwreudo ai
sculimeuti chc cspriine qucll'insignc lilosofo loscaoa. 5oo cessita, e la
beltezza della eausa che noi agitiamo. E clii legge, voglia comportare
benignameate quest allangamento del nostro discorso. Perocchi se dinanzi ai
tribunali civlll si presentano delle scritlure piii Toluminose di questo stesso
trattato, a di- fesa di un po di roba materiale , avente un pregio villssimo in
paragone della sapienza^ perchi si disdegnera cio che noi troviam necessario di
scrirere in una causa, doredifendesl nulla meno, che tutte le ricchezze
intelletlive e niorali del genere umano? Le quai ricchezze pendono veramente
tulte da un punto solo, dal sapersi cioi, se vabbla o no una verita eterna, in-
dipendente nellesser suo dalluniverso materiale, e di pari dal* Iuomo, e da
ognaltra limitata per quantunque eccellente natura. Tutto sta dunque, tutto si
riduce in provare una cosa, che la veritA non i un modo di qualche ente
limitato; e se fosse, avrebbe perdnto ogni pregio^ tutto sta in provare ben
fermo, come dicevo, che vhanno degli esseri intelli^Ui, ai quali il nostro
spirito i unllo indivisamente, e pei quali solo puu co- .uoscere, e conosce
tutto ciu che coaosce. A provare una verita si alta, qualunque parole non
sarcb^ bero soverchie giammai^ perocchA ad essa tutte 1 altre verita
sattengouo; e per6, io mi consigllo di non dover dismettere quest' argomento ,
senza ribadire quanto ho detto fin qui , coa i\iiovi # ineluttabili argomenti.
E dico in prima, che se Iuomo placldamente considcra tutte le cose sussislenti
a Ini cognite, gli dee esser facilissimo a ve- dere pur questo, che in esse non
vha nulla di cI6 che si chiama conoscerua. E pure questa conoscenza i,
qualunque cosa ella sia, pei'occh^ egli veramente conosce. La conoscmia
adunque, e la sussistema delle cose, non hanno niente di simile o di co- mune
in fra di loro. Convien dunque dire, che la conoscenza sia una cotal forma, un
cotal modo di essere diverso c in op-oler diverso di essa attenzione, cbe i la
virtii che applica I in- tendimento agli oggetti. La ragione adunque della
varieta del- Iintuire mentalmente, che mostran di I'ar gli uomini, nun i negli
oggetti stessi, sempre uguali, senipre ugualraente visibili a chi in essi mira
^ ma anzi ella & tutta soggettiva , dipende tulta dallaltitudine c
attuazione del soggetto intuente: a quell* I. II, c. Xtl, iv. Digitized by 5o3
gnisa appiinto, die molt! lionilni accnlt! insieaie noQ veggono tiitti
ugualmente gli stessi oggelti natural! die stanno loro dintorno, perdii dii
sguarda da una parte e chi dallaltra, chi pill bada ad una cosa c chi piii ad
un'altra, senza die gli oggetti present! e uguali a tutti softeriscauo per
questo mo- dificazione o alterazione. Le varieta dunque dellintuire umano non
oiTendono punto Targomento proposto, perocchi ad essere efficace questo
argomento, basta che gli oggetti mental! sieno atli ad es'sere ugualmente
intuit! da tutti gli uomini ben di- sposti, eziandiochi^ non tutti, gli uomini
ci badino, li afGs> sino in ugual modo. Ci^ posto, io dico che ogni uomo di
buon senno, il quale consider! a ragion desempio le verita matematiche che
s'inse* gnano in Europa e ugualmente in America , e dimandi a s stesso se la
verita che due e due fanno quattro, o Laltra che il quadrato dell ipotenusa i
ugnale a quadrat! de due cateti, od altra qualsiasi, la qiial sintuisce dagli
American! y i si o no una veritii identica di numero con quclla che intuiscono
gli Europe!; non esitera un punto a rispondere a sS stesso, che ciascnna di
quelle verita e una, identica assolutamente, semplicissima ; e che non ci
potrebbe essere goffezza maggiore che il credere, fossero tante verita
diverse,, quant! sono i paesi in cui si contemplano, o quanti gli uomini
contemplanti. Que* sto k ci6 che suggerisce pur il primo pensiero; questo i
ci6, a mio credere, che tutti gli uomini tengono per indubitato, e per6 che h
un vero patente, indettato a tutti dal senso co* mune. Lo stesso si dica di un
idea qualsivoglia , per e.seni- pio , il cavallo intuito mentalmente, Iuomo,
ognaltra cosa, di cui si farebbe in Europa come in America una uguale de-
finizione. So bene, che a questa semplicissima risposta dell imparziale e non
prevenuto buon senso, a questo risultamento della 'pura osservazione interiore,
succede a intimar guerra il ragionamento. E quali sono Ig sue armi? il solito:
come puu es.ser la tal cosa? io non la intendo. Cost il ragionanteruo caccia V
osservazione ^ perchi egli dice: ula tal cosa non puu essere, dunque non in. L
osservazione dice: ula tal cosa' i, dunque en. 11 ragiona- mento dice: io non
intendo; ma ciu che non-iiitendo lo, non in. Digitized by Google 5o4
L'osscrvazione airiiicontro: xla tal cosa s'lntcnJa poi o non s'inlenda, ella
briga non si prende. Tultavia iacciamoci a seguilare, sc ci e possibile, le
sotli^ gliezze de* ragionamenti, die vorrebbero impugnare Ianiinn- ziata vMU di
osservazione. Primieramente io suppongo die il ragionamento ogginiai non osi
pin dire cbe il cavallo, o Tuomo possibile, o i rap- porti denumed, o degli
spazj, o altra vetila ideale sia iin mero uiente : perocch^ ci6 non credo
cadere a niuno in animo: quando il nienle non ha diflerenze, ma il cavallo
pensato si vede aver dilTereiize dalluoino pensato, e cos'i dicaii dell in*
finita variela degli enti ideali. Oltracche gli stessi nostri av> Tersarj,
come il MaOiiani e il Romagnosi, nun pensano ch .siano liiente quegli enti
intelligibili, ma li dicono ben modiji- cazioni dellanima nostra. Posto dunque,
die Iessenza conoscibile delluomo, del ca* vallo ecc. sia qualche cosa^ il
ragionamento, cbe va senza guida dosservazione, dirit al suo-solito, e colla
sua solita sicu- rezza: ciascuno si forma un idea diversa delluomo in geircre,
del cavallo ecc.; ma riescono nulladimeno queste idee uguali, perocchi sono
formate tutte da oggetti uguali collastraziODe, e secondo uguali Icggi
intellettive. Il ragionatore cbe cosi ci opponc, non ba inteso sicuraniente iintinia
forza dellar nostra proposizione. A rispondere con piii chiarezza e brevila, io
immaginero di ragionare col raio amico Maurizio, immaginazionc cbe sempre mi
alletta. Quel sutlile ingegno mori giovanissimo, eom^ iioto, e io mi ricreavo
so* vente con lui nel .giardiuo domcslico ragionando di materie filosofiche;
sebben egli, come meglio comportava Ieta sua, piii cbe coA me, tenevasi
volontierl con quelli di Condillac e di Bonnet; ma sempre il faceva con somma
modeslia, e il tro- vavo pieno di una ammirabile ragionevolezza. Sarebbe dun*
que assai verisiniile cbe fosse intervenuto fra noi il seguente dialogo.
Antonio. Ho inteso Iopposizione vostra, o Maurizio (quella gia detta innanzi).
.Ma permetteteroi cbio vi faccia un altra qucstiqne. Voi avete parlato di
oggetti uguali, di leggi uguali del pensarc, di uguali idee. E bene, ditemi
adunque se inten* Digitized by G---Ogle SoS 4cte parlAre di una ugmglianzn
perfelta, o imperfelta. prima di
ritpondermi pensatc'ci bene. Maurizio. Perfelta, altramenle non carcbbe
uguaglianza, ma similitudine, analogia, o comecchi aliro si vogiia cliiamare.
A. Gli nomini dnnque da' qnali sastrae Tidea dell' uooio in genere, saranno
tulti perfettarncnte uguali. M, egli basta cfae sieno ugnali in ciA che forma
la na tiira loro^ .easi hanno nna natura romone, e questa ai astrae da tulle le
varieta, formandosi cos'i Iidea gcnerica delPnomo. A. Bene sta; dunque gli
uomini, che si paragonano insieme a vedere ci6 che s'abbiano di comune, per
aslrarre quests co- mune e formare I'ente nientale dell'uomo generico, saranno
al meno uguali in quelle proprietii che, come voi dite, formano la natura
umana, e che sono quelle che si cstraggono. Af. Cost i. A. Badate per6 quello
che voi dite. Imperocchi io dimando, se ne'singoli individui v'abbia una parte
che sia veramente comwie,e veramente uguale d' una uguaglianza, come voi avela
g\k dctto, perfelta. M. E perchi no? qnal dubbio che la natura nmaiia non sia
in tulti gli uomini uguale , perfettarncnte uguale? A. Io ve Iaccordo
pienamente, quando c intendiamo. Se per natura umana voi intendete un ente
idaele^ .qon sassi* stente, intendete quell' idea, o e.ssenza mentale che si
chiaaas natura nmana^ e se voi, col dire che in tutti gli uomini i uguale la
natura umana, volete signifirare che in ciascuno havvi tal cosa, la quale,
benchi diversa in diversi individui, tultavia risponde sempre a capello all'
idea stessa, alia stessa estenza mentale colla quale noi la conosciamo^ io sono
interam^nte con voi, o a meglio dire, voi piu tosto con me. Ma se per opposto,
voi, mio caro, per natura umana intendeste quel||p cosa che realmente sussiste
in individui diversi, io non vi accorde- rei, che ella fosse uguale in tutti.
Imperocchi vi dimanderei: la natura umana che sta in un individuo, ha ella
quella me> desima snssistenza che ha in un aitro individuo? E se vogliamo
che questa natura umana sia formata di corpo e di spirito, vi domando: il corpo
di un uomo ( prescindendo interamente dalle accidental! differenze, e
intendendo Id soslanza corporea) Rosmini, Il Binnovamento. 64 Digitized by
Google fij'gll iJcnlieo a1 rorpo dngli aliri nomini? occupa cgli lo slnsso
liiogo? o ciascun corpo occupa nn luogo diverse)? c cosl lo spi- rito di un
uoiiio ( setnpre falla aslrar.iooe dalle dinerenr.c , e supponendolo eguale in
tulto it reslo agli altri spirit! ) sara egli identico alio spirito degli altri
uomini? ogni spirilo cioi non avri^egli una sussistenza propria e
incomunicabile? si pu6 dunque dire cbe la natura umana veramente e realmente
sus- sistente in un umano individuo, sia ugualc di pieno alia na- ture umana
sussistente realmente in altro individuo ? M. Ma . . . , io mintendevo die la
natura, la qiial si trova jo diyersi individui della specie umana, sia ugual
perfettamenle nell altre cose,' fuorclid nella propria c individual
sussistcnza. Kd cgli parmi cbe non ci debba esser bisogno di questa eccet-
tuazioDC, sott' intendendosi da sh. A. Niente in (ilosu(ia si sott'intende: e
lo sragionare, o mio Maurizio, die fanno i filosoG si sformatamente, nasCfe
appunlo da cbe sottintendono , il cbe i quanto dire da cio cbe sottraggono
allaperto esame, a cui tutto nelle discussion! dee essere sottomesso. E
vedetelo di presenle. Vol dite dunque^ die la nature umana i uguale in tutti
gli individui della no- stra specie perfettamente, fuorebi solo nella propria e
indi- vidual sussistenza di questa natura. M. Appunto^ tale u il mio concetto.
A. Bene sta^ or bramo, cbe I'acuto vostro ingegnomat- tenda. Quando mi diceste
die la natura umana & uguale in tutti gl individui della nostra specie, in
cbe niaiiicra vi eravate voi formate I'idca di questa natura ? A/. Col prendere
appunlo quello cbe in tutti gli uomini i uguale e comune, mediante il paragone
e Iastrazione, e col rigeltarc quello cbe ne' divers! individui i variabile.
A,^ pure questa separazione di ci^ cbe i uguale e comune, 'da ciu cbe k
disuguale, non T avevate fatta bene; perocebe io vi bo mostrato cbe anche in
quello cbe mi deste per uguale, cio^ nella natura umana, vi i il diverso.
Convicn dunque pro- cedere ad unaltra separazione. A/. Si; voi mavete falto
osservar giustamente , cbe nella stessa natura comune cbe si trova negl
individui, conviene aslrarre da^l imiiVn/na/c sussistenza di essa natura: lolto
questo, il reslo cbe rimane e comune. , Digitized by Google A. Ma qucllo >o
vi (lomamlo, o Maurizio, 4 appiiiilo die cosa riinanga. Voi avete priina Jivisi
gU accidenti dalla nalura uaiaaa: poi avete ancora dlvisa ed astralta da questa
natura umana la sua siissistenza. Or io dimando, dopo taote divisioni e
astrazioni, che cosa vl rimanga di uguale negl in- dividui: dimando che cosa
sia una natura umana priva della sussislenza: sara ella plii qualche cosa dj
realc? enlrera ella a furniar parte reale dcgli umani individui? ecco il
quesilo, a cui io vogliu che mi rispondiate j dopo ponderalolo quanto abbi-
sogna. AI, Da vero, che mi sen to strello. Io sono sospinto a pro- niinciare il
pin strano ed inaudito paradosso, cio4 che gli m- dnuliii umani rcali non
abbiano fra di loro niente di uguale, nieiile di veramente comune. Per quanto
io ci peusi , vi con- fessu, non so spacciarmi. Credevo fin qui, che la natura
umana fosse uguale in tutti gP individui^ or voi mi fate accorto, che se per
questa natura umana io intenda un che realc e sussi- stenle, ella non puo
cssere piii uguale in diversi individui j anzi in ogni individuo dee sussislere
separatamente, individuamente, incoinunicabilinente, senza la minima relazione
con altro indi- viduo. Se poi io tolgo alia natura umana la sussisteitza
stessa, veggo bene che non mi rimao p'u alle mani che una natura ideale, e peri
sono fuori dallordine delle cose sussistenti di cui io ragionavo. A)utafemi
dunque voi stesso, Iraendonsi di tanto impaccio. Quando si dice che la natura
umana 4 uguale in pin individui , si pronuncia una sentenza verissima. Cio che
vi si suole aggiunger di falso, 4 la interpretazione.. Si suol credere, che
quella proposizione voglia dire, che vi siano delle eose reali veramente
ugiutli per loro propria natura^ cio che 4 un assurdo. AlPincontro quella
proposizione va inlesa cosi, che itinciascun individuo. delP umana specie vha
un che, il quale corrisponde ad un idea unica della mente umana, che 4 appunto
quella natura uraaua cKe voi avete spogliata della reale sussistenza^ e che
pero vi s 4 cangiata in una mera idcan. E di qni po- tele altresi conchiudere,
che Videa della nalura umana 4 unica, sebbcne gl individui son molti; e che
apptfnto perch4 unica 4 quella idea onde multi individui si cpnoscono, avvieim
che le 5o co.se real! sieno ugaali, consistendo in questa agaalc relazione coir
idea la iiguaglianza de' vari individui. M. Cotesla conclusiooe, che vien pur
cosl facile, mi fa sln- pire. Ma sebbene gli oggetti sussistcnti non sieno
simili o ugaali, se non perche corrispondono alia ste.ssa ed nnica idea , non
parmi per questo ancora dimostrato che quell' idea sia unica e idenllca a
stessa in tutte le menti degli uomini. Ci6 che arete detto prova che gli
oggetti si ricono.scono per simili a cagione che corrisponde ad essi oggetti
simili an idea comune^ rna i)aesl idea comune ad ogoi classe ( specie o genere
) di og gelti, non i mica necessario che sia una anco rispetto alle menti che
veggono 1 uguaglianza degli oggetti^ bastando che ogoi mente possegga un'idea
uguale, sebbene non identica. Ed anzi comi mai possibile che i milioni di
uomini che sono di> risi da tempi e dagli spazj veggano tutti la stessa idea
name* ricamente nnica ? come si pu6 intendere che da Adamo in qua gli uomini
che si sono succeduti, nati e morti in tanti secoli, gli uomini nostri qui di
Rovereto, e quelli dlnnsbruck, di Vienna, di Roma, di Parigi, di Londra, di
Wasington, e dite dellallre citta e terre disgiuntissime , mirino Iidea stessa,
quando per insino il sole, che i locate in posizione si oppor- tuna da esser
reduto da molti, non pu6 per6 vedersi nello stesso memento da tutti gli
abitatori del globo, ma dee anzi fare il giro del cielo per dimostrarsi loro, e
privare gli uni della saa luce per rallegrame gli altri? lo debbo, Manrizio
mio, chiamarri allordine. Non ci siamo noi intesi tante volte circa il giusto
metodo di ragio- nare? non vi ricorda, avervi io insegnato trovarsi in filosoGa
due generi di questioni, e doversi in ogni disputazione conside- rare a quale
de due la disputa appartenga, per non incappar nellerrore di trattar Iuna cogli
argomenti che sono proprj deUallra? M. Ricordami: chi niente i piii frequenle
sal vostro labbro, ove si Iralti di metodo, quanto la rcgola di distinguersi la
qife- slioiie che dimanda use lacosa sian, dallallra use debba es> sere, e
come possa esseren. A. Dunque, mio caro, non dovete uscire a chiedermi ucome
pussa csscre che uu idea unica di numero sia veduta in tutti Digitized by
Google 5o gano come'iti tutti glindividui della specie nostra vi sia di comune
la natura umana, perche tutte quelle menti abbiano un'idea uguale dell' umana
natura, sebbene ciascuna mente abbia peru un' idea sua propria di questa natura
, e non I'una mente abbia Iidentica idea ed una- di nunicro con quella che
Ialtra mente intuisce. Or dico io, se queste idee son tultc uguali, saranno
perfettamente uguali? 31. Veggo, dove andate^ ma , debbo rispondervi di si. A.
Ma sc hanno una entita ed una sussistenza pfoprih in ciascuna mente, non
possono cssere ugnali anche in quesla loro entita e sussistenza, che e propria
e incomupicabilc. 31. Vero 4. A. Dunque, acci6cch^ quelle idee sieiio uguali
veramente, uupo h prcscinderc ed astrarre dalla loro propria e peculiar
sussistenza. ' ' 31. Indubitatamente. A. Oimijue non poSsono essctc uguali in
si stesse, sc hauno Digitized by tjOOgle 5 10 iina snssislenza propria e
singolare ia ogai menlc. C se si dec renderle uguali coll' aslraziooe ,
converra dispogliarle di quesU loro propria e individuata sussisteoza, e per
tal modo renderle idee pure, senza realita, e seoza individualila alcuna. Or
quando noi abbiam parlato della uguaglianza fra gli oggelti sussislenti, abbiam
veduto necessario di far ci6 di essi, e, fattp ci6 ci ri- mase I'idea pura
della natura uiuana. Vorremo noi ora ripe* tere lo slcsso gioco su questa idea:
vorremo ricorrere ad un'al- tra ideai* Abbiamo vedulo, cbe 1' uguaglianza degli
iudividui consisteva nel riferirsi lulti ugualmenle all idea della umana
natura. Se duuque or noi diamo una sussislenza propria al- Iidea stessa della
natura umana, facendola diversa in ogni mente-, cadiamo manifestamente in un'
illusione, ragionando dell' idea come degli oggetti^ noi suppuuiamo, cbe Iidea
non sia ancora appurata dalla sussistenza, come erasi creduto prima, c come s
era trovato necessario per ispiegare la cognizione cbe tutti gli uoinini s'hanno
ugualmente dell uguaglianza di natura fra gl' individui umani reali. Ma
oltracciu, via, raffrontiamo fra di loro le idee della natura umana, supposte
diverse in quanto alia loro eutita nelle diverse menti, ma in quanto al resto
uguali: noi, per conoscerle uguali, dovremo formare un'aU tra idea , cbe le
consideri astratte dalla propria lor sussistenza od eutita. Or Ioperazione, cbe
astrae dalla sussistenza propria di ciascuna di quelle idee, per vedere in esse
ci6 cbe i uguale, astrae medesimamente con ciu stesso dalla loro nuiltiplicita
supposta nelle diverse menti. Convien dunque,,a riconoscere uguali quelle idee,
considerare, cbe in esse vi sia 1 unita per- fetta di numero, non moltiplicata
secondo gl individui^ giacebi questa moltiplicazionc secondo gl individui,
appartiene a quclla parte delle idee cbe le rende disuguali e al tutto diverse
fra loro, e non a quella cbe le rende uguali. Lidea dunque, nella quale si vede
1 uguaglianza delle idee della natura umana nelle varie menti, suppone di
necessita un identUi numerica nel- Iidea della natura umana iutuita da tanti
uomini^ perocebi altramente non potrebbero in modo alcuno essere uguali. M.
Parmi .di^sentire, cbe Iargomento ba una forza inelut* tabile, Gerto,
contemplando io le idee della natura umana in diverse menti sussistenti , non
poUei ricouoscerle uguali, se Digitized by Google Si I non veilcssi in 'tnitc
la rna idrntica, iina di nnmero, la stessa iclifntica natara iimana vcduta ill
pari da nioltc menti. Con- ciossiach^ ben maccorgo, che la nalura nmana
contemplata cost in astratto i una cosa semplicissima , da cui i data ri Diossa
la sussistenza^ e dalla quale peru, in si stessa consi- deratai non si puo
astrarre allra sussistenza , percbi non nn presenta alcana. Parmi anzi di
riconoscere onde venga 1 in" ganno del credere il contrario: penso che
venga dal conside- rare unito colla natura nmana cootemplata da tutti gli
iiomini, I'atto con cui gli uomini la contemplano. Quest' alto i reale e
individuale, ma non la natura umana aslratta , in cui esso terminal le
intuizioni della stessa idea son raolte^ I'tV^ea in tuita i una sola. A. Oite
assai bene. Egli i certo che ciascun uomo intucnte la natura umana astralta, fa
un atto diverse, ed ha una fa- coll'i diverse da quella di an altro uomo: vi
sono dunque tanti intundimenti quanti sono gli uomini, e tanti atli qiianti i
pen* sieri che ciascuno fa dellumana natura: ma quest' u/nnius /m* turn i
sempre la stessa, identica di numero, veduta da tutti i contemplaiiti benchi
disseminati e disgiunti per lo spazio e pel tempo quanto si voglia lontano.
Dove voi veder potrete in che consiste I'errore di Averrois, e onde nacque.
Questo celebre filosofo arabo affermava esistere un intelletto universale e
comune a tutti gli uomini. L'errore consisteva nel dire della facoltit e dell
oUo, quello che si dee dire deirog-getto (t): que- sto, cioi I'essenze, le
idee, o (che ^ tutto il medesimo) la VEsiTs, i cosa nnica, identica per tutti
gli uomini, a tutti ma- nifesta, e patente piit del sole, il che vuol dire, i
cosa uni- versale: ma gli uomini che la veggono son molti, dunque molte le
facolta, molti gli atli di questa facolt^, sebben quella ri- manga unica. E non
sarebbe egli un goffo errore 1 aifermare (i) Lerrore di Averrois doves nascere,
a mio parere, necessariameiile dalla poca prrclsionc di Arislolele in parlare
dell'iDlellelto ageote. Ho gia acceiinalo, che lo Stagirila parla lalora di
qiieslo. iniclleito come fosse un complesso delle essenzc o delle idee (la
ragfone di Plalone): in questo ai- guificalo doveasi dtrc uno e universale 1
intelletto agentc. Ma Aristotcle in altri luoghi il rendc una facolta: qhcfto
diede luogo allerrore dcll'Arabo, c/ie il gran commento /to. Digitized by
Google S 1 1 rlic innlli snno i soli, perrlic mnlll snno gli occlii rlip lo
veg- gnno, e molli gli sgiinnli die a liii si rivolgono? ed egli si dec
ronsiderare, die quando gli uoinini nominaDO il sole, e di Ini favellano, non
parlano gia delle specie laminose o sen- sar.ioiii die fcriscoiio i loro occhi
^ ma propriameiile del corpo lumiooso, che distinguon da queste, e che
ripongono in cielo e non in se stessi. 11 sole stesso dunque, conteniplato
intellet- llvamentc c non sensibilniente, i identico per gli uomini tuUi, in
qnalunque terra o mare, eta o secolo ne ragionino. Tanlo lia dunit^, e d'
idenlita a s^ stesso ogni oggetto, quando non si parli dell' esser suo
sensibile, ma solo dellintellettuale! Se non che torniamo, o Maurizio, alle
idee della natura uniana, e supponianiole entita diverse nellc diverse menti
degli uomini^ c ( lasciando quel die i detto, che soprabbaslerebbe pure a rU
solvere la questione) consideriamo altra assurda conseguenza veniente dalla
supposizionc fatta della molliplicita di esse idee. A/. Ancora ne avete ? y/.
Si. io voglio che facciAroo delle idee uguali nelle varie menti, quello che
abhiamo fatto prima de' varj individui uguali sussistenti. Af. Volete dire
Iastrazione della loro propria entita^ avremn, ciu fattoj un' idea della
natura, coraune a tuttc Ic idee della natura umana che stanno nelle diverse menti.
Che diamin di costrutti mi fate voi fare? vorremo not imbarbarirci nella
favella ? Maurizio mio , noi or cerchiamo la verity ; e questa, tal riverenza
si mcrita,'che non i a pensare qui ad altro che ad essa , e ad cssa dee
ancillare la stessa lingua. Voi dicevate
dunque bene^ le idee nelle varie menti, supponendole diverse, non potrebbero
dirsi uguali se non in virtii d'un'. altra idea a cui tutte. si rilerissero , e
in cui tutte si conoscessero. Vi avrebbe dunque qui un' altra idea comune, la
quale dovreb- b'ella essere identica ed una di numero, e cost noi avreramo
tolta Iunita numerica allidea della natura umana, per darla poi allidea
dellidea della natura umana. Af. Cioi saremmo caduti, come si suol dire, dal
pajuolo in sulle bragie. E .gia veggo quello mi replichereste , ovio ponessi in
campo lo stesso quesito di prima sull identita numerica Digifized by Google 5i3
dell idea dell idea della natura amana nelle menli diverse. Voi eollo stesfo
ragionamento mi costringereste a dover ammettere uoa tena idea cosUtuente 1
ugoaglianza noa oumerica delPidea dellidea, e poi una quarta, poi aua quinta;
sicchi mi ridur* reste a concbiudere, cfae ge 1 idea della natura umana fosse
di versa di entitit in diverse tnenti, e uguale solo di specie, questa
uguaglianza non potrebbe risultare se non da nn nu* mero infinito didee. Ma il
numero infinito non si termina mai, dunqne non sha mai, per salire didea in
idea che si faccia. Dunque mai non si giugnerebbe a conoscere quella
uguaglianza^ anzi nk pure a costituirla^ conciossiacltd Pugna- glianza non
identica degPindividui risicde essenzialmente nel* Innita identica di una idea,
che giammai trovar non si po* trebbe, se le idee stesse nelle diverse menti
aver potessero di* versa entita e sussistenza propria. Id intendo lino al fondo
qne- sto argomento, e mi convince a pienissimo, che I.idea definite, come Toi
fatto avete, per Pente intelligibile od oggetto ideale del pensiero, non esser
altro che una di numero sempre per tutti gU uomini che la intuiscono: e me ne
chiamo ora pin certo che io non sia del grato olezzo che mandano questi vasi di
fiori, o del bel verde di questi alberelli che adombrano questa pescbiera sul
cui margo seggiamo. ll lettore intends da ti le rilevantissime conseguenze
della verita stabilita nelPesposto dialogo. Se Iidea intni'ta da tutti gli
uomini in diversi tempi e in diversi luoghi t essenzialmente una di numero,
convien con- chindere chella sia un ente di natura interamente diversa da
quella di tutti gli enti che sono nel tempo e che occupano spazio^ convien
dire, che questo ente ideale, che noi abbiamo scoperto al tutto diverso da
quelli a cui continuamente pen- siamo, si sottragga per intero a tutte le leggi
dello spazio e del tempo: conviene inferire, chesso non abbia ni pure la pill
lontana dipendenza dalla natura di esso spazio e di esso tempos giacchi ni i
pih lontani spazj, ni i piii lunghi tempi, c ni anco la indefinita moltiplicit4
. delle anime lo impedisce dalP esser tutto ngnalmente ptesente a tutti, senza
menoma> mente dividers!, senza distendersi, senza racchiudere ombra di
successione; convien dire allresi, che lo Spazio ed il tempo non Rosmijsi, Jl
Rirmovamenlo, 65 5 1 4 fieno condixioni necessarie aU'ontlU di tlitte cose, si
come sembra a sensisti , e si come sembra a quanti non hanno molto meditator
inganoo che nasce per ragiooe cbe gli oggetti a noi piu famlgliari, qaelli a
cui pensiamo naturalmente, contiona- inente, alio spazio e al tempo
appartengono; di che noi, per iin falso e troppo frettoloso ragionamento
dianalogia, giudi* chiamopoi, che allri eoti non possano esistcTc ,
universalizzando il nostro modo particolare di concepire, e argomentando da
quello che sappiam noi, limitati che siamo, a quello che i nell'ordine immenso
delle cose, e a quello cbe i nelle menli alle nostre maggiori , le quali
veggono anche ci6 che per altri i impossibile, o creduto impossibile di vedere.
E in questa K- mitatione del concepire e veder materiale, dal tempo e dallo
spazio ristretlo , dalla quale pochi uomiui escono ( sebbene Iroppi piu il
posson fare, educando a questo tibero volo I'u- mano intelletto), sta la
ragione della dimanda che pih innanzi Maurizio mi faceva : come pu6 esser ci6 ? come i fattibile che un
oggetto identico e solo, sia a tutti i tempi, e a tutti i luoghi presenten?
L'ignoranza, il poco esercizio della facolU intelleltiva cbe si fa fare a'
giovaiietti nelle pubbliche scuole di filosoBa : ecco la ragione di questa
dimanda; ecco la ra- gione, onde i fatti esposti incontrano tanta opposizione
negli uomint; e anehe dopo dimostratili ad evidenza, ana incredi- bile
ripugnanza, una rozza incredulita dura tuttavia : sono ve- rita di cui si evita
timorosi la famigliarita , si come i fancinlli fanno d uno straniero, di un
volto sconosciuto e agli occhi novissimo. Ma torniamo a1 proposifo. Se gli enti
intelligibili , le idee, sono nature immuni da spazio e da tempo; dunque esse
non possono essere ni enti materiali, ni sensationi, ni modificadoni dellanima,
perocchd in tutto ci6 avvi il determinato dal tempo o dallo spazio, avvi I
individuate, il sussistente: le idee non possono essere n^ sostanze, ni
accident! di sostanze (i), per- (i) V'ha sempre una credeoza o esprpssa o
sollinlesa ne ragionamenli de scnsisli, che Dell uaiverso, o per usare una
espressione di Danie, net t;ran mare delf essere non v'abbiano cbe sostanze e
accideotii siccbe tulla CIO die noil i soslanza sia per cohscgueiite accidentc,
e luUo cio die non e accidnilc sia per conscgurnlc soslanza. Ma ijuesla c una
supposizione nir by Googk' OlOCcbi
quesll nomi sodo prima tolli da c\6 chc noi osserviaoio nt:' corpi) poscia
estesi a significare distinzioai che cadono solo ia enti individuati ^ reali^
essi noa possoDO essre per conse- gueote pure iudeclinabili ^etti di azione e
reazione fra il corpo e Taninia, quando anche quest' aziooe e reazione fosseru
tnaniere e concetti idonet ad applicarst al comtnercio del corpo e
deiranima(i): perocch^ queste azioni e reazioni noti puLrcb- gmluilA i questo d
uno di que* prcgiudizj die impacciauo Ic filosofie, e l impediscono dal trovare
la verilik. Abbiaino gi^ uotalo ua tale errore iiel Mami:t)i. Che cosa sarli lo
spazio? Non uq accidente. Diioque uoa susiaiiza, Conchiudono costoro. Che cosa
saraiioo le idee? Uoo dice: xiou accideiih; e coiicbiude, duoque sostaoze. Un
aliro: doq souo sostanze^ dunque acci* deiili. (It P. Scarella, uomo di noo
ispregevole iogegno, chiama accidenii le idee. Vedi la sua Psycotog, P If, c.
V, arl. i ). Uii lerzo : uoQ soslatizc, uou accidtnti: dunque... uienle. Co.si
i\ argoroenta, cosi s*i argomentato, end a) argomeulera aucora un buon pezzo in
avvenire, se non si comiucia a dif* lidare di eerie proposizioni e preveoziooi
volgart, che non si repuUuo ue laancc bisognevoH del piii leggero esame. Non
luito quello che e, e aostanza o accideute: e quando fosse^ a provare una tale
proposizione converreitbt: sudar molto, Irallandosi di' coroprendere nel
ragionamento tulla la sfera ira- YneiiSa degit enti anche possibili. Ma che non
sia, hasta a \ederlo il lume che ci da una Sana teologia nalurale, la quale
ricusa di Irovare neli* Eule supremo alcuna dislinzione di sostauza e di
accidenle come pure ricusa di applicarli iu seoso proprio questi vocabnli. Solo
un tale esempio basta a provar falsa Tardita pruposizionc, die * c. XXlIl, art.
VII }. (^ucsio solo basta a cuuoscere, che e nn assurdo apertissiiiio il
considerare le idee come produziooe deiraziouc del corpo e della reazione
delfanima; giaccbe il corpo non agisce punto n^ poco su queila parte deU
I'anima, che e sede drlle idee. Laffermazione adunque, che le idee sieiio un
prodolto modio delle due cause aoima e corpo, appartiene a que'sistemi
immaginarj che, in vece di ragiooare, suppongouo. lo nun posso riiiveiiire tiel
Komagnosi queila potenza logica che gli si voile atinbuire; rinveiigu solo io
qucstuomn dotio, c che io stimo, de^nodi e delle forme logiclie^ iina logica
inleriziune; ma nulla, nulla piu. Oltraccio a quauto egti dice sub r azione
reciproca delTauima e del corpo snttosta una di quelle proposi- zioni supposte
verr gratuilaroento, chc dirigono sempre in st-grclu i ragio- 5 ii> hero
prodar tnai se non modificazioni d>^' due rrciproc! agent!, e percliu le
csscnze nascono, ni muojono, ne si producono o generano, qnanto al loro intimo
fondo, ni si corrompono. lo mi appello agli nomini che, rimossi i pregiudizj,
usano del pnro e sincero veder della mente. CAPITOLO XLV. COIfTINUAZIONE.
li'importanlissimo e fecondissimo vero dellunita numerica delle idee fu vcdiilo
sempre, e ponderalo dalle menti piii per* spicaci. Ud autore non sospetto i
Pavversario di Platone. Or bene, Aristolele riconosce pienamente quella grande
verila^ e ins^gna, parlando degli astratti malematici, che i ucosa assnrda
asse* gnar loro un liiogo, come lo si assegna a' solid! dando di ciA questa
ragione, che il luogo ^ proprio delle cose singo- lari, le quali appunto per
ci6 die son siogolari possono es* nnmenti dcscnsisli, i quali non sanno
diflidarsene, e qursla i quells die il C. M., a cui lal pregludizio 4 comune,
csprime cosl : sempre andare in- sieme Iagire ed il reagire, sempre la
reaiione essere proporzionala al-
Iazionc (P. II, c. XIV, iv). Una
tale proposiiione sembrs evidente iiej primo aspcilo, peroceh4 ne fcnomeni
corporei noi veggisrao, o suppo- niamo di vedcre sempre Iazione accompagnats da
una corrispondente rea* zione. Mb qiiando anco cio fosse, chi ci auloriiza dl
trasportare le leggi de* corpi allordine universale di tutti gli csseri ? non 4
queslo un sallo mor- lalo, conlro la logical E pure fa un tal sallo il
Komagnosi,lo fa il Mamiani, lo fanno i sensisli tutti. Con un lal pregludizio
in testa, riesce impossibile per esempio a concepire la poisibilila della
creazione, peroccb4 in essa vha aziooe senza reazione; riesce pure impossibile
a concepire la possibt. liia deHoperare nell essere supremo, alia cui aziooe
niente puo reagire. Quando io penso nel bujo della nolle a una diinostrazione
matcmatica, io fo un'azione; ma quale oggelto reagisce sopra di me, se non ve
nba nes> suno presenle, almeno di seosibili ? o se si auol dire cbe I' idea
agisce in me ; benissimo, si dica : ma non pi polr& mica dire che io
riceversa agisco auir idea, il che 4 perfeltameotc impossibile. II concetto
adunque di aiione e di reazione ( che non 4 a confondersi con qunllo di azione
e di passwne ) 4 maleriale, e il Irasportarlo agli csseri tutti 4 un peccato
roortale contro la logira. Digitized by Google 5i; Msere di.n luogo (i). E qnesto passo basterebbe solo a
dimoslrare quanto Aristo* tele si lontani dal pensarla co' senalsti de' nostri
tempi *, egli cbe riconosceva nelle idee una natura cosi distinta da qoella de
corpi e delle sensazioni : di guisa cbe quelle non avevano, secondo lui , pnr
bisogno alcnno di qneste per essere, essendo efTatto immuni da ogni spazio, e
da ogni posizione nello spazio o relazioni collo spazio ^ sicchi erano solo in
si stesse, e non in luogo alcuno (z). Un celebre commentatore di Arlstotele,
Temistio, alTermava la cosa medesima , e concfaiudeva cbe non era possibile la
scienza se non a condizione cbe le
nozioni cbe sono nelP a- u nimo del maestro fossero al tutto pari ed identiche
a quelle uche sono nellanimo del discepolon (3). Anzi da questa iden> tita
nnmeripa della verita inferiva la necessita di una mente unica e semplicissirna
cbe quella avesse in si non accidental- mente, siccome noi Tabbiamo, ma
essenzialmente , della qnal unica e
identica mente tutti partecipassero n (4). Cos'i ap* prendeasi chiaro da questi
grandi uomini , si come I'esistenza delle idee conducesse dirittamente e
necessariamente all'esi- stenza di un Dio. II quale argomento dell esistenza di
Dio a priori parmi an* tichissimo, e cosa tutta della scuola Italica^ e molti
testimoni potrei addurne, dovio lo veggo manifesto. A questa identity delle
idee, od enti intelligibili, penso io cbe principalmente si riferisca Iunita di
Pittagora (5)- glacchi s erano accorti que* (l) Arovtv Ji xi ToV ToVsx afia
tbi'c rrtffe^ { T6j'af rovov tb'x fxarTTBv iV/o;. iti tc. ra Jf MS- iv tocT.
Metaphys- Lib. XII, cap. T. (a) Mi verri, spero, bccasione di dlmostrare
altrove, come sia falsa I'opi- nione di quelli che credono cbe Arisiolele
rileoesse i fanlasmi per cssen- tiali al peosare, o cbe facesse le Idee di uoi
natura simile ad essi. (3) El jua va'crroV ax to ro'njua too xvi toiT
juaoaaVorroc. (4) E> ii I uoili per
signilicare r immulabiliti n; giacchb in
quanto una cosa non si muta, in tanlo ella i una a s4 stessa. Questa maniera di
parlare conviene arer preseute nella let> tura drgli aniirlii. Coii, a
ragion il'esempio, Arislotrle (lUetaph. I, Lect X), Si8 gli anlicLi, die una
perfelta unita rilrovar non si poteva te non nelle idee, e non nelle cose
uiateriali, non ne singolari eziandiochi spiriti fossero. A quesla identita
delle idee penso ancora che si riferisse Iuno di Parmenide, la cui mente espono
Simplicio in questo niodo : uRimane, che noi stabiliamo aver Parmenide chiamato
enle uno quelP intelligibile {votiTOf) che & cagione di tuUe cose (i), e
ond' I'iutelligenza e la sponcnHo la
dollriiia di Pbloiic dice, clicgli dava alia inaleria il grande ed il piccolo,
all* essenza poi (all* idea ) i* uno. Quest* w ouo vuol dire Pirn- mulabilila. La specie o
esseuza era cbiamata Punili, Questa unila quando era parlecipala dalla inaleria
diveolava numeri cioi piuralita (Ex illU (ma- gno et parvo, elciueoti della
inaleria) participalionc ipsius VIIIUS (del- I'uniia dell vftsenza) formas
numeros esse). quesla maoiera di chiamar
numeri Ic idee, in quanto si considerano partecipate dalle cose, e al tutlo
pillagorica, quango io veggo ; tnzi Aristotele slesso dice espressamenie, die i
numeri di PiUagora sono le idee, on #iJ (I, c.). Tutlavia, se dovessimo credere ad Aristotele,
senibrerebbe che PiUagora confondesse i Fmweri colic cose stessc reali. e che a
Platooc appartenesse Iaver separaii quelli da questc. Egli dice, cbe Iaver
distiole le idee (i numeri) dalle cose ^ dovulo alia diaiettica, della qual
arte erano ancora igoari gli anlecessori di Platone. Quesl'arte crebbe nelle
roani di Socrate: w Socratc dice Ari-
stotele, Irallava delle cose moral! , e non delta iiatura: tultavia
cerc6 in quelle cose stesse T
universale, e fu il primo cbe applico I'aniroo a dare * delle deiioizioni ;
todaodo Iuoiversale appunto perch^ per csso potevausi defioire le cose. Or con
quest* occasione egli vide che V universaie non
potea apparlenere alle cose sensibili, ma ad un altro genere di cose
(non seusibilt ) . Perocch^ d
iropossibile cbe v* abbia una comuoe ragione di * alcuna cosa sensibile, come
quelle che sempre si trasmulano E cosl tali enli egli appello icUe {Meiaph. I),
Questo luogo di Aristotele, clic bo tradotio liheraroente, dimostra per quali
passi Socrate sia perveiiuto a di* stinguere le idee dalle cose sensibili: egli
osservo, che quesle si trasroutano sempre, il che vuol dire nelKantico
liuguaggio, che nou haouo nulla di co* muue o U uguale, o d'uno in quanto sono
sussistenli, non hamio come dice il lesto *r una comuoe ragione *, e pero ooo
sono suscellibili duna cornune deGniziooe.
Or io credo bene ad Aristotele, die quesU veriia sia stala trovata da
Socrate, appileandosi alia Diaiettica, di cui avea bisogno per ddiriire le cose
inorali : credo, dico, che Socrate la trovasse, e provasse cientiGcamepte; ma
credo altresi, cbe gia Pillagora avesse Vedula la stessa venta, sebbene non
provatala dialelticainente, o gia quasi diinentica al tempo di Socrate. (i) t
nolo, che t Pitlagoriei, e Parmenide dicevano esser le idee cause delle cose:
drrisvi ts'c dXXef( oWj;. Mclapftys. Lib. I, cHp. VI. Digitized by Google menle
sle^sa (i), Jove tuUe co*e si contengonn e compren- (luno rompendiosamente ,
secondo noa cotale unila (a). CAPITOLO XLVI. COSFOTAZIONE nADICALE OI OGHI
SPECIE Dl NOMINAUSMO. Ma lasciando gli antichl, e continnandocl alle cose da me
ragionate, io non vo' trapassar qui una osservazione, la qnale io stimo poter
arrecare non poca cbiarezza al concetto delle idee, come enti ne qiiali risiede
quella entita singolarissima che chiamasi conoscibilild dclle cose, e che
produce la cogni- zione. Noi abbiamo raiTrontato gli oggetti esterni della
stessa spe- cie ( ad esempio abbiam preso gli uomini ); e trattane la na- tura
comune, abbiam veduto, come qnesta natura comune non i cosa reale, ma una pura
idea identica in tutte le menti che la contemplano. Or primieramente certo d ,
che non avremino noi potuto estrarre dai singolari individui della specie umana
Iidea della umana natura comune a tutti, se questa idea in essi non fosse
stata. Questo ci avverte, che il paragone che noi abbiam fatto di piu uomini,
ePestrazione della natura comune, non I'abbiamo operato noi sugli uomini stessi
materialmente presi, ciod nella loro propria sussistenza esterna, ma si bene
sugli uomini intellettivamente da noi concepiti. E di vero sa- rebb^egli troppo
assurdo a pensare, che noi potessimo parago- nare insieme degli individui
umani, senza averli noi intelletti* vamente concepiti : questo paragone si fa al
tutto nell' anima nostra, e non fuori di noi. Indi due conseguenze importanti.
La prima, cbe innanzi a questa anedisi (giacchd Ptistrazione d un'enalisi)
precedette una sintesi fatta dallo spirito nostro, senza accorgercene , nel
primo pcrcepire degli individui sussi- stenti, nella qual sintesi il nostro
spirito ha posto la parte (i) Ecco la dlstinzione fra le idee, e la
intelligenza o la mentr. Uo essere non i inlelligente per ii stesso, ma solo
per le idee ch* egli vede. |a) Atirtrai to' fOnrot varttn ditnv, stemi creduti fin qui disparalissimi fra di
loro, ma che, ove si penetrino al fondo, hanno veramente una natura comune. Chi
crederebbe, per esempio, nel primo aspetto, che le segria- tore e i monogrammi
di Romaguosi, gli alomi rappresentalM di Democrito, i rtomi sostitniti alle
idee dei nominali del me- dio evo, la simUitadine supposta ne concreti de'
sensisti, 1 nn- pressione scambiata colla sensazione de' materialisti , sienu
si- fitemi peccant! dello stesso vizio, e aventi una comune natura? E pure la
cosa 6 cosi, quando si considerano attentameute. E perchi si possa cogliere cio
che io voglio dire, mi bisogna prima ritoccare quella veritii che i il
fondamento dellesposto dialogo, ma che tuttavia pu6 non essere stata
considerata sotlo ogni rispetto. Questa verita si i, che ula similitudine non
si ritrova negli enti concreti come concreti e sussistenti, perocche come tali
sono perfettamente divisi 1 uno dallaltro e non hauno niente di comune, ma la
loro siniilitudine consiste in un rap- porto che banno tutti egualmente colla
idea che a noi li ma- nifestan o^ sia li fa intenderO. (0 Scz. c. II, 111, IV,
VI, art. VII. Digitized by Coogli pa: llKI "f Ml Ua it.1 xn :ia ib
noscibili, A, come ho detto tante volte, la loro intelligibility. Or di qui,.cioA
da questa mancanza di osservazione (i); (i) I sensisti sarrogano it titolo
di scuola Spcrirticntale i. tl vero A,
che non vha actia di filosofia, the meno esperimenli di quests ; ae pure cost
non si chiami iraicaiUeDle pertbA si sforzi di restribgere sislemstica* nMQle
le sue sperienze dentro slls sfera delle cose corporee. Ma ilmeuo UDo
sperimenlare, qiielll die diedero
IiuUlligIbilila , o rallitudinc di far coiioscere, a cose die non lianoo tale
alliludioc , a cose, iu una parola, diverse dalle iduc. I. 1'ra qnesli, di
sopra lio nominalo Democrito. Quest! tutto rsplicava cogli atomi cor[>orei.
Alcuni di quest! atom! , deno> iiiinati specie o idoli (hSoXa,), emauano da'
corpi, entraiio ]>cr gli organ!, e purtaiio nell' anima le sensaaion! c il
peasiero delle cose esterne. Qual fu l'!llus!one di Democrito? Vide, die un
corpicciuolo poteva essere figurato in inodo di essere rappresentativo delle
cose corporee. Egl! ere- delte adunque die fosse atto a produrre la cognizione^
perdii non aveva. riilettuto, die nessuna immagine o figura rappre- senta
diecdiessia per si, e nel suo essere mateiiale; e die i solo la concezione del
nostro spirito, I'idea, quella che pone I'uguaglianza fra la figura c il
figurato, e che rende in tal modo I'uno rappresentativo dellaltro. II. Ill un
sistema cosl gofib, nessuno forse a' tempi nostri incapperebbe. Pure I'errorc
di tutti i materialisli non i diverso csseuzialniente da questo. lo ho gia
dimostrato, che essi si ri- ducono a prendere V impresslone per la sensazione,
il movimmto della fibbra per lo stesso saitire (i). Questo abbaglio nasce nclle
loro menti dall'avere osservato, che un' impronta fatla nella cera di un
siglllo, rappresenta acconciaoiente la figura die nel sigillo stava scolpita.
Ma non hanno poi osservato, che qucir impronta niente rappresenta a chi non la
guarda, a chi non la pcrcepisce, a chi non la conlronta^ e che non pub far cio
un essere cbe non abbia senso e intendimento: che perb v' lia certo qualchc
cosa nell' essere percipiente , che costituisce il mezzo onde b resa
rappresentativa quella impronta, la quale non b tale per si sola. III. La
qualita dellerrore de' sensisu b la medesima- Quest! intendono, che a percepire
le cose fanno bisogno i sensij ma non cos! intendono il bisogno delle idee
aslralte. Snppongono sempre, che sopra le stesse cose esterne lo spirito nostro
eser^ (0 V. N. Suggio Scz. V, c. XXIV, srI. iii. I, Digitized by Google Si?
citi la funzione dellastrarre, meJiantc la quale egli si aflissa nella ^ola
parle comuae', e cost formi a slesso le noziuni uni- versal!. Tale errore, a
cui fu preso anclie il C. M., nasce dal noo aver essi abbastaoza considerato ,
cbe I'astrazioiie non si fa mai sulle cose esterne prese aiaterialinente , ma
sopra te cose esterne da noi intellettivamente perccpite^ perciS cgli i ben
vero, cbe notiamo il comune, tna in esserl ideali, o ccrlo appartenenti al
mondo roetafisico, e non in esseri materia)!: nasce, in una parola , sempre
perchi si credo ehe le cose esterne , in quanto sono sussistenti e concrete ,
possano ras- soiiiigtiarsi , possano scambievolmente rappresen tarsi, scnza ac-
corgersi chc ci5 i contro i) falto. IV. Altri sensisti s'aecorgono, cbe
Iastrazione non si ptio esercitare sulle cose esterne^ ma in vece pretendono
cbe si possa esercitare sulle sensazioni. Non vcggono quest! , chc le sensa-
zioni pure sono fisse all'organo dove si eccitano, cbe non si possono
trasportare, ni confrontare I' una collaltra, e chc la loro nguaglianza e
simiglianza non risiede per conscguente in esse, ma solo nell'idea identica a
cut piu di esse si riferiscono. Costoro adunque danno alia sensazione la
facolla rapprescn- tatrice, e non all'ideaj e non riflettono , cbc fra il
rappre- sentante e il rappresentato dee avervt qualclie similitudiiie o magoosi
non nomlna cbe Hi passaggio, Iralleneodosi in qudia vece oelle se> gnaliire
morle, non percepile per si. Lasda adunque da parle il nostro flip- sofo il
punlo cootroverso, dimenlica al lullo la maleria di cui si Iratla, die i la M
pereexioor, la cognixione ,e s'adagia contento neU'ipolesi (non puo inai esaer
piii di una mera ipolcsi) delle sue segnalure, chespirgano il pen* siero tanlo
come lo spirgano delle asir, de Irani, de punli Iracciati con in- cliioslro
sopra una maleria ioanimala. Pure coiirrssando il Romagnosi, nrl passo accennalo,
che, olire le segna- lurr, cl viiole la percelliviih a percepire e a couoscere;
sallenua in qual. the inodu il suo errore. Mh egli non i pol coerenie con si
slesso. Impe- rocrlii ill aliri luoglii egli suole die quesle segnature sieno
esse slesse le sensaxioni c le idre confuse da liii colle sensaiioni ( Delta
suprema econo- mia ecc, P. II, } XIXi. Or se qursle segnalure sono esse slesse
idee e noxioni, non dovreliliero aver piCi liisogiio di ricevere allronde la
luce e la percelli- vilk, cssendo certo le idee quelle die ci fanno percepire e
conoscere le cose. S' arroge a cio, che le idee e le noxioni non possouo in
niodo alcuiio es> ser segni o slinboli, e mollo meoo poi geroglifici e
inonogrammi, com egli cbisma le noxioni piu uniTersali. I segni, come
dicevaino, lianoo bisogno, per essere inlesi , di una menie che li coofronli
colla cosa segnata e a quesla li rapporti : e una menie non pii6 far ci6 se non
per mexzo d'idee uniche, ideulicbe, enmuni, come bo mostrato: aliro dunque sono
i segni, aliro le idee die fanno ioleiidcre i segni. Mollo piu i gerogldici, i
mouo- gramini, i segni stenografici, le cifre (delle quail esprcssioiii giovasi
il Ro- magnosi ad indicare le noxioni universal!), Iianno bisogno di una menie
che gli interpreli ; di una menie percib, cbe sappia iulendere al tempo slesso,
ed essi, e la cosa da essi nolala; di una raente quiudi medesimo , cbe a
conceplre la cosa aegnala non dipende punlo da essi geroglilici, die le ser-
vono solo a volgere Iatleoxione sua alia cosa segnala, non a concepirla; flual
> menie di una menie che ahbia iolelligenza: il fallo dunque dell
inlelligenza i supposlo dalle leorie del Romagnosi, e da lulie quelle die
voglionodare di lui spiegaxlone per via di segni; e supposlo quellu che
prelrndoiio di spiegare, Molero aurora le slraiiezze a cui conduce il sislema
della concausa di Romaguosi. Tullo dee venire, secondo lui, dallazione e dalla
reaxionc del corpo e dellaiiimo: lulie le nolixie sono prodoUi di'questi due
poleri coo- perauli. Ur dopo cbe hanoo prodolto col loro a gi re una nolizia,
queslo pro- dollu non polr^ subirc alire alterazioni? Ci6 inipedirebbe di
spiegare Iul- Icriore svihippamrulo del pensiero. Dunque ^ da dire, per
seguilare I'ana- lugia, die I anima reagisce di bcl uuuvo sul prodollo della sua
rcazione, e indi un aliro prodollo su cui pure reagisce ecc.: lulli qiiesli
prodolli aduuque divculauu (uuu si sa come) lauti aliri ageuli coutru Iauiiua,
c Digitizetfbv . 'oogle 5iCy mente niorli e ioulili IU spiegazlone del sapere,
come tuUi gli altri negni nominati fio qui. Romagnosi, il diicepolo di Hobbes,
coiigiuDge alle sue segnalure interne anche quesli segnt della parola : u
Simboli di siniboli, die'egli, segni ideali di cose, e segni di questi segni ideali , ecco tutto il
corredo del saper nostro ridotto al suo
ultimo uudo aspetto. La parola 4 il se- al gno esterno di questi ullimi segni o
simboli mentali dei se- lagni reali corrispondenti delle cose (i)! I Nominal!
dell eta di mezzo, gii vinti da s. Anselmo (2), da 8. Tommaso e dal suo maestro
Alberto Magno (3), risuscitarono con pill vigore medlante il sottile ingegiio
di Guglielmo Oeka- mo (4)> Ma Iillusione di questi 4 sempre la stessa die
abbiaiu preso fin qui a far palese^ cioe il persuaders! die iin segno possa
sostituirsi ad una idea: dando a quello Iintelligibilita propria di questa: n4
badando che il segno suppone I idea die il con- cepisca, che ue notifichi il
sigoificato, che Iapplichi alia cosa significata. Che questo segno poi sia
interno od esterno, ap- partenga ad un senso o ad un altro, sia un colore, od
un suo- no, un geroglifico o un nome; egli 4 tuttuno: un nomc non e meno privo
dintelligibiliUi che una cifra^ uon ha tneuo b>- sogno, oltre Iorecdiio,
duoa mente intelligeute (5). Ixuima coiilinua a reagire contro di rssi. Cost dee
spiegare il RomgnoM la produziune delle diverse cogiiiiioni uinanc incuo, o pin
elalioralel E clU questa prelesa spirgazioDe della genesi del sapere umauo
drgna di un me- diocre filosofo? Fiiialinciile osservo, clie qucIFappellar
monogrammi, elie fa il Roinaguosa l cugiiizioiii uiiiane, i lullo dal Vico (
DelF anlichiss. la/iiema eec. c. I); Ilia il Vico uon I'usa che in forma di
siinililudiiic per ispiegare Vimper/e- xwne drir umano sapere; e non a quella
guisa che fa il Romagnosi , che Tool coil essi trarne la spirgaziune del sapere
slesso. lo inuslrero pin sollo, qual
parte ahbiaiio i segiti nell umano sapere: essi ap^iarlengouo lulls alia
materia, e non alia forma della cognizionc. (1) f'edute Jbmiameiftali eec. L.
I, c. HI, scz. 1, 5. (z) Sjaut'Aiiselinu nel lib. de Incarnatione f'erbi, cap,
II. diehtara, che il HominaUsmo non si puo conciliare in alcun modo cul dogma
catlohco. (3) Non so se prima di questi due grand uomini fosse in imo iI
rbiaiiiar - iioinioali quelli che
sosliluivano agli universali vocaholi (
Ved. Alliertu M. In Isagog. Porphyrii PraeJ. Traci. I, e. I, e s. Toinm. S. I,
XIV, XV). (t) Logic. P. I, c. XIV e XV; e Quodlib. V, q. XII e XIII; e i/i /
Senlenf. Iiislincl. Il.quaesl. IV. SaulAgoatiuo culla sua solita acutczia
espriiue soar questa osseiva- Digitized by Googk ^^7 TnUavIa i ronfestarsl che i nnminali scoUntici
ragionavano ' pill acutamente di Slewact, o di allri nomioali de' tempi no>
stii (i). C per a^giungere maggior lume alia materia nostra, reclieru qui
alcuno degli argomenti, onde Ockamo e i seguaci di lui impugnarono le idee
general! e sostituirono loro i vo> raboli , e torr6 quest! argomenti dagli
eruditi Commentarj so* pra la Prefazione che fece PorGrio alia Dialettica di
Aristolele, pubhiicati da' Padri della Gompagnia di Gesii di Coimbra: io poi vi
fard le risposte (a). Primo argomento u
diflurirebbe da ii stessa in quanto si trova in un altro . Risposta al secondo
argomento. Da questo argomento apparisce di nuovo, come i nominali antichi
accordavano, che la stessa cosa identica non pu6 essere in piu individui
sussistenti, e per6 che il comune e 1 universale non pu6 trarsi meiiomameute
da' singolari concreti mediante I a* strazione, perocchi ivi non i, n^ pu6
essere. L errore loro nasceva pertanto dal non distinguersi abba- stanza nelle
scnple I'ente rrale dall'ente ideate. Infatti i reali- st! sostehevano
veramente che la stessa identica natura ne di- vers! individui solTerisse
passion! diverse; quod esto rerum com- niuaium assertores futeantur,
incredibile tamen esse videtur, dice- vano con buon senso i nominali. 'Gli
assnrdi indicali pertanto spariscono interamente Delia teo- ria da no! esposta
, in cui si distioguono accuratamente le due forme dell' essere, ideate e
rrale. Negli esseri reali , diciamo noi, materialniente presi(cio^nella loro
rcalita e sussistenza ) , non v.ha niente di comune; tutto i diviso e
appropriato. Ma a mcUi esseri reali corrisponde un essere ideate solo td unico
identicaniente. Or questo i quello cbe ci fa concepire i molti esseri reali net
nostro spirito. Concepiti i molti esseri real! colla stessa idea, noi li
giudichiamo simili od uguali fra loro; non ponendo noi con cid, che in essi
materialmente presi vi sia qualche cosa che costituisca la loro uguaglianza, o
somi- glianza; ma volendo solamente dire, cbe essi hanno tutti I'u- guale
rapporto coll' idea che ce li fa conoscere. NIente adunque di strano , cbe i
varj individui non sieno la stessa cosa fra loro, .o cbe subiscano diverse o
contrarie pas- sioni (t). , (i) Si coofronliDo le noslre rlsposle con quelle
cbe davano a nominali i professori dl Coimbra, e veggasi quanto noi siamo
ajulati coolro gli rr> rori, dal possesso che abbiamo del vero. ' Rosmim. //
Rinnovammio. (ij Digitized by Google Conchiuder6 questo capitolo dicendo quello
che dicono coa pill sublime volo i UologI, che il fonte di ogni simtiitudine
ri* siede solo nelTcnlc easenzialimrule intelligibile (i). CAPITOLO XLVII.
SOLA. CONFUTAZIONE POSSiBILE DELLO SCETTILISMO. Ma gia ugli ^ il tempo che noi
usiamo delle doUrine da noi espostti, ad abbattere )o scetlicismo denlro alle
ullinie sue trio- t-et'; e che mostrinnio, contro il Mamiaui, cbe quelle
dottrioey r solu quelle, possono dislruggere interameote un errore cosi
de^oUnte. E da prima osservo, che e scellica, secondo rne,^profonda-r metite
sceUica, come gia toccai (?.), qut lla sentenza che il C. M> Cl oppoiie (3);
Vcr uUi'u 4Ue'prore>uri irilravMiero U vcrlli, e poro rianr6 che noo Taf-
iVrnisaicro, come ai puu vrdere dw queslu parole delta loro risposta : Piato el
Socrates fro VT RBfRXSBVTAVTUR IN CONCBPTU ttOMINIS omnino conveniunl: et tamen
alitfuid habettt,per qttod dtfferanU Igilur aliqua natura rst in uiroque
RBSPONDBNS CONCBPTUi UouiNIS, taque diversa a different tits indiuiduantibus.
In quesle parole vieue toccata la relazioae della natura uiiiaua reale di
Socrale e di Platone, col concetto deU'uomo; ma tultavia 0(111 colsero il vero
i perchd riflelleroao hensl alle diSereoze accideolali fra iiucrale a Plalooei
ma noo poser raente alia differenza massimai cbe ^ quella della propria
individual sussisteota. Se a questa avessero riflettuto que'pro* fesMjri, SI
sarebbero accorlij cbe iu Socrate e in Plalone dod v*ha punto oiia reule
iiauira commie, ina solo uu ptiro rapporto coll* idea o concetto della natura
umaoa. (I) celebre nelte scuole
crisliane la seolensa colla quale saol*Ilario ca- ratien^;M le Ire pcrsuue
divioe; jEiernitas in Poire, SPSCIBS IN lUjGINB^ u*u> m munerCt che vieo
coimoeutHia da S. Agostino , De TriniU VI, X
Vcdi il A. Saggio ece. fiiez. VI, c VII, arl. viii tu) ^essunu tultavia
peusi che iu voglia dichiarare uno scetlico il C* M. gli ^ luU*aliro : egli
cutnbaUe per la verita e per la certezza , cooiro lo scetticismo. lo non parlo
duoque cbe del suo sisiema, e detle coosegueoze dfl suo sisiema ; e non mai
delle sue iutenzioDi. Vorrei cbe mi valease I'aver talla quesU dicluarazioue
uua voila per seoipre (3) Dico, Cl qppooe : sebbetie quivi aou parli
direUumente di me, mg di que'iiluaob lu geucialc, i quali aiuuieUooo le forme
iogeoilt delia meuto Digitized by Google r nQuando si voglia instare etl
aggiiingPTC rhe qnalnnqiic- fa- colta c
oprrarJone dellanimo, apparttnendo a un esserc 1i- iinitato cli sna natura e
con bio, non forse li> spirito, in vedere la veritli, portasse in lei
quaicbe alteraziune^ ci6 solo basterebbe a rendere dubbiosa la cosa vedula , e
priva di ogni certezza. C vi tocca a moslrare fin anco del tutlo impossibile,
che lo spirito rechi in essa qiiaU rhe alterazione^ il che vuol riiiscirvi diflicile
aai , a me pare. Che se pur volele lasciare a me il provare, vorrei
dediirre.una diniostrazione del mio assunto da questo grande principio, ohe u
gli atti son ricevuli secondo la forma del ricevente , e che u ad ogni azione risponde la reazione (i). Voi vedete, cho quesle sono di quelle
dignitll che u governanu I umana espe* rienza
(a). Or se Ioggello intuito dalla mente iioslra, aiiche esfstesse iti ii
stesso, noi nol vedremmo puiilo in i, nia in qnanto agi.sce in noi^ e se agisce
in noi, dovendo I' azione esser rirevula secondo la forma del ricevente, voi
vedete, che il no* slro spirito non vede chc la passione che soflerisce, la
quale i un eflelto dell azione esierna dell'oggelto e della legge veniente
dalla natura del soggetio stesso. yi. >faurizio mio, voi mi dite di molte
cose: io ho bisogno di prcuderiie ad esaminare una alia volta. Af. Qual sorrete
la priiiia. A. Vi osserver6 in primo liiogo, che mi toccate un taslo cl(c mi
siriile, qiiando anche voi mi parlale, con tanta sicurezza ^ di u dignita che
governano Iesperienza umana >. Sappiale, che ill queste udignita, che si
faniio guveriiatrici dellesperieiiza n, sta la rovina dell' esperieiiza
slessa.. (luelli Qie si dicoiui a la (i) Mamiaui, P. I, c. XI, V. II C. M.
Utlinisce la iraslooe coal: n la r.icolu
lii rirevere Iazione rslerna, e
pria natura u. P. II, c. XIV, iii. ^1) M:imi.iiii, P. I,'c. Xr, vi. Digitizjd by Gooi^k 53; ctiola iptriinenlalc
n, niente meno ncguono che I' espcrienza imiirroci^ii Lannu un mondb di
digtiila in testa, colie qnaii ac toli di lor dominio. E pur questi titoli, ae
li aressero, aver li dovrcbbero dalP esperienza stessa , a lei hiederli , e non
itnpor* glieli. In somnia i noslri aensisti prendono per dignitd, a gover- nar
1 esperienza a loro aenno, i pregindizj di cni hanno pieno il corpo. M. Pur non
\eggo che troviate da appuntare sillle dignrla indicate, che a gli atti aon
ricevnti aecondo la forma del rice' venie , e che ad ogni azione risponde la reazione . A.
Volete voi che valgano per tulte le cose, o snssisteoli o fiossibili? 0 M. Fuor di diibbio^ altramcnte niun prezzo
avrebbero. A. Considerate adunque quanto sieno ardite quelle dignita. Con esse
si viene a proferire, che in tutta la afera degli esseri , cbe pur ce 41' hanno
di tante nature e qualiti diverse, debba sempre avvenire cbe ogni azione
a'abbia la aua reazione, e cbe ogni atto aia roodi&cato dall indole di
quello che lo riceve. Ora unA di queate doe cose. O cbe volete tenere per guida
1* espe- rienza ^ e in questo caso, niuna esperienza estender si pud alle
uianiere tutte di esseri. Quanto poche sono quelle guise di es- seri che noi
conosciamo! Sappiam noi quante ce nabbiano, e ce ne possano avere a noi ignote
del tutto, o con leggi al totto diverse da quelle a cui ubbidiacono gli enti a
noi noti? Che ae abbaodonate 1' esperienza, e volete andare col raziocinio al-
di la di essa, cessatevi dal dichiararvi scuola sperimentale, a quel inodo cbe
il aolete preuder voi questo detto , o come dico io , sensista, e rassegnatevi
nelle file de' razionalisti. Ma ove auco, Iesperienza' lasciata da banda,
provar vogliate le dignita vostre col raziocinio a priori; mirate ben qui , che
dovete poter cou- dnrre 1 argomento a tale f cbe riaulti al tutto logicamente
as-' aurdo a pensare il contrario a quelle vostre dignita. M. Veggo che dall'
esperienza non si pud dimostrare una pro- posizione cosi vasta come quella che
u ad ogni azione risponde Digitized by Google 536 una reazione imperoccb^ ella
abbraccia tulli gli eueri ancbe possibili, ed io non bo fatto esperienza cbe su
di alcuoi pocbi parlicolari, appartenenti a pocbe delle specie delP immensa e
iodefioita catena delle possibili. Veggo dallro lato, cbe se ttii volgo al
raziocinio , e lascio 1' esperienza , io rinunzio al sen- sismoj il cbe mi vi
darebbe vinto. Non m' aspettava di vedermi cost presto fra Iuscio e il moro.
Tuttavia, quando voi mi la* sciate attenermi a quest' ultimo partito, senza
tosto redarguirmi della mia incoereaza, non sono al tutto disperato di
dimostranri a priori, cbe egli d cosa impossibile.il pensara im'azione, senza
concepire insieme una reazione. Gerto io non so concepire un caso refrattario a
questa legge, in tutti gli esseri cbio conosco. Ditemi , quando pensate vol
alia distanza del sole dalla terra , non fate voi un'azione? Al. Gerto s). A. E
dovi qui la reazione? N il sole per questo, ni la terra, oggetti Jell'azione
del vostro pensiero, reagiscono (i). Vbanno diinque delle azioni al tutto
spirituali, i cui oggetti non reagiscono. Al. Ma quella mia diguitii non vale
per gli pensftri, cbe sono azioni puramente ideali, e noxtreaU. lo non parlava
cbe di queste. Non i degno del vostro buono e fine senso, Manrizio mio, il
pormi qui una restrizione alia vostra dignity. Io vi avea pnr ricbiesto
innanzi, se intendevate cbe quella dignity abbracciasse tutte la maniere
possibili di cose^ e voi me I'avete affermato. Ni, s' ella non fosse
universale, si meriterebbe il nome di Ji~ gnitd. D' altra parte , I' azione del
pensiero ^ reale, e non me* ramente ideale: I'ideale non i cbe il termine del
pensiero. Ad ogni modo, la restrizione cbe ora voi ponete mostra cbiaro, cbe in
formandovi quella dignitii, non avcte riflettuto al caso del pensiero. Escluso
adunque il pensiero, e con esso lo spi- (i) Non coDviciic mica dirc.'chc
Itziooe del pensiero non lermina nel sole e Della terra reale, ma solamente
.nel sole e nella terra ideale. Questo i falso. Quando io parlo della distanza
dd sole dalla terra, non parlo delle inie idee, ma degli oggetti reali a cui io
rifcrisco le mie idee colla faoolta del giudizio. I.u idee non sono oggetti
reali, nia il giudiiio i qiiellu die Icriiiioa vcraineiite nella realita.
QueSla disliuziune di fallu si dee alteuU- mente avvcrlire. Digitized by Google
riln rlulle congerre (rnmenim pef cost dire dcUe nature, ehe *i rimnne? M. n
corpo. A. Siele dunque convinto e confesso , chc quella vostra pre- tcsa
di^nita I'avete cavata unicamente dal considemre ci6 che suole intervenire
nelloperare degli enti corporei, e nulla pin. Ma vi pare egli giusto, e secondo
buona logica, Iuniversalic- zare a tntti gli enti possibili ci(^, cfae si vede
intervenire sola- mente ne corpi? M. Piego la testa. A. Or per6 ditemi, di eke
parlavarao noi? non parlavamo del modo onde Ianima intoisce il vero? parlavamo
noi di corpi, o anzi di pensieri nella questione nostra? M. Vero 6, di
pensleri. A. Parvi egli adunque cosa equa Papplicare a sptegarc la natura de^
pensieri il principio cbe ad ogni azione
corisponde nna reazione , quando quel
principio non ha aican vaiore ep> plicato a quelle azioni cbe consistono net
pensare? Se il vostro iidagio, cbe cost dee esser cbiamato pin tosto cbe
dignkA, non volete cbe valcr possa trattandosi delle azioni del pensiero, per-
ebi citarlo in una questione cbe versa su tal genere di azioni? II citate
dnnque fnor di luogo: vi cade adunque sotto marcio il fondamento su cni volete
innalzare la torre della Glosofia. M. Voi sapete cbe son giovane, e di filosoGa
non mi press cbe qnalcbe abbocoonata. Veggo d esser corso, nel ricevere per
indubitato quel principio cbe ad ogni
azione risponde una reazione e dee avere le sue buone eccezionl. Cio nulladime-
n6, lasclando questo principio, vi vo' dire un pensiero, cbe m'avete eccitato
in testa collesempio cbe avete addotto deU r azione del pensiero cbe pensa la
distanza del sole dalla terra. Parml dovervi al tutto concedere, cbe ak il
sole, ak la terra, ni lo spazio cbe divide questi due astri, sofirano punto nk
poco dall' azione del pensiero cbe li prende per oggetti suoi. Conce- dovi
altresi, cbe Iuomo cbe ragiona del sole e della terra, ab> bia per oggetti
del suo ragionare quest! enti reali, e non le loro idee^ perocebe ognuno sa ben
discernere Iidea del sole, dal sole stesso. Tultavia io cosi ragiono: Di quel
sole e di quella terra voi vi avete pore qualcbe idea,Jbrniatavi
indubitatamenle, al* Rosmihi, Il Rumovamento. 68 Digitized by Google . 538 niKno in parte,
ilaH'aveT pertjcpiti qnesti aslri co sensi vistri^ altramriite non potresle
porlar di essi alcun giudir.io. A. Si^ e dove volete voi con ciu rinscire? M.
Voglio riuscir qua, a negarvi che voi possiale provarmi, die Iidea che vi avete
del sole, risponda a pieno alia natnra rrale del sole. Dico, parermi pin
verisimile, che altro sia il sole in si stesso, altro nella vostra idea: e che
qnesta diversita si debba ripetere dalle leggi della percezione, le quali
contraOanno in certa maniera la natura di quest! astri in presentandosi essa
all'animo vostro. A. Sottile, e qnello che i piit, giusta i la vostra osserva*
zione. M. Dunqne il nostro animo pereepisce le cose non quali sono, nia in modo
consentaneo alia propria natura: dunque la veriti, in percependosi, riceve
anch'essa le leggi del percipiente, c par* tecipa di sua natura. A. Qucsto si
dice correre, e a rompicollo, Maiirizin mio; e un fllosofo a correre,.... e ci
va della digniti GlosoGca. M. Mi sovviene la fretta di Dante, arte 11 solo
pensiero. Voi stesso avete delto, die 11 sole, esseudo un oggetto sensi- bile,
e non puramente iiitelligiliile, dee esser prima percepito co sensi^ clue
ch'egli dee agire sui nostri organ! sensitivi. Or se voi mi parlate di questl ,
io vi accordo pienanieiite la ve- rita della pro]iosiuone da voi posta,
che gli atli sono rice ni pure per
ispiegare ci6 che avviene ne' sensi, la proposizione che u all' azione risponde
una reazione . A. Mintenderete agevolmente. M'accordate voi che la sen- sazione
non h un seniplice movimento del corpo, ina iiensi una Gosa solo concomilante
al movimento delle fibre dellurgano sen- si tivo? AI. L'avete dimostrato
irrepugnabilmente nel N. Sa^io (i). A. Or bene^ quando uiia punta mi ferisce un
braccio, chc cosa fa ella ? AI. Ella non fa che agire colle leggi di un corpo
inanimalo, rioii di sospingere le particelle corporee in quel luogo ov ella
s'inligge. queste particelle corporee
prima re.sistooo, per I' i- nerzia, alia sua azione, e poi si rilirano sempre
resislendo, se- coiido le leggi general! a cui sono sommessi i movimeuti di
tutti i corpi: e qui appunto sla la reazione. (ii II C. M. pii'iide Tuna ]xr
I'allra. fj) SeZ. V , t. XXiV, all. II. 54o A. Avele risposto egregiamenle , o
Maurixio. Voi avete tro- vata 1 azione e la reazione consistenti in una spiota
e in una resisteiiza, in un corpo che vuol coinunicare il suo molo, e cora
trovata la sensatione? siete arrivato a produrla mediante questo ineocanismo?
M. lo gia vi ho confessato, che in questo meccanismo non puu riporsi la
lenaazione^ poich6 in questo meccanismo non c6 che moto locale, e la sensazione
i tuttaltro (i^ A. Dunque, dico io, nelle circostanze del fatto ondein noi
sorgono le sensazioni, si trova azione e reazione indipenden* temente al tutto dalla
sensazione. Se egli i adunque vero che nella sensazione v'abbia una vera azione
e una vera reazione, convien prima di tutto guardarsi dal credere, che questa
azione e questa reazione sia quella che interviene fra il corpo stimo- Innte e
I'organo stimolato, consistente in modificazioni al tutto materiali c di moto
locale. La sensazione allopposto insorge a lato, per cosi dire, di tal
movimento, contemporanea all'ef- (ettuarsi della operazione meccanica, ma senza
per6 che ella niostri di avere con essa la minima siniiglianza, la minima
analogia. Diru di piii (cosa che si trascura al tutto di osser* vare), la
sensazione non insorge, non si fa di nuovo, ma solo si modiiica, giacch^ non
vha che un sentimento continuo, fondamentale , che ci coslituisce come animali^
le modificazioni del quale sono poi le sensazioni Iransitorie (u). Fiualmente,
chi profoiidisce la cosa inteude a pieno, che la sensazione e il mo> vimento
son cose che si escludono insieme, perocefae I'una ap> partiene al soggelto,
e I'altro alloggetto (3). Convien dunque, (i) L*iUu5ioiie sta sempre qui, di
preudere il moto per la sensazioue, il concoidilaQie per la cosa coDcoiniiata ,
o sc si vuole, 1* attivo pel passivo, mpvdocle voleodo spicgre la seiisaziooc
dell* udilu^ ciissc che cUa oasceva r dtilU ballitura deU*aiui pella parte
dciroreLcliio^ La quale a guisa di w chiocciola h lorla in giro, stando sospesa
deulro e come uti sonaglio per* M cossn m. Qiiesla simililudine del sonaglio
percosso, appaga iiiulli a prnna Iralio. Ma dalo aUCO il sonaglio |>:rcoso,
non la ancora l>isogiio rorerrliio die ur petcepisca il suouo? 11 suuaglio
duuque uou ispiega iorccdiio^ Scuza il qnalc vsso uou suooa. \'i) Vrtl. iV
i5iggio ecc. Stz, V, c. XI, uri. \il L3, iV. Vt'ggiu tec. Vi C. \i, alt.
Digitized by Google 54, volendo cercare Iazione e la reasione nel fatto della
sensazio- ne , presciodere da ogni corpo oggellivameDte conteniplato, e
rinserrarsi nella zensazione sola , quale ella i nella soa interna semplicUsima
natura. Or qni cgli i certo, che noi trovianio nna passione: sentire i
indubitatamente patire. Ma chi ci ia patire? dov i questo agente? egli si
nasconde, egli si fare agli occhi nostri^ e avviluppato nelle tenebre, come
egli i, che cosa potremo noi pronunciare di Ini (i)? La sensazione ci te- stimonia
la sua esistenza, ma non la sna natnra. Noi non sap* piamo adunque se risenta
egli stesso qualche reazione dal suo operare sopra di noi. Ma sarebbc' cosa
troppo gratuita il sup* porlo; tanlo pih, che se noi reagissimo su di Ini, egli
par- rebbe che il dorremmo sapere. Diremo forse, che la reazione nostra alle
sensazioni si consnma dentro di noi, e non passa nell'agente esterlore da noi
diverse ? In primo luogo, o si parla di uoa reazione che si compie innanzi che
la sensazione in noi sia suscitata, o dopo gia suscitata la sensazione. Innanzi
susci- tata , noi non siamo consapevoli di alcana reazione, ni di alcana
azione^ per6 non possiamo aiTermarla. Dopo che la sensazione transitoria 6
suscitata, ella 6 inutile ogni reazione^ e contro chi reagiremmo? contro la
sensazione nostra, che giii abbiaroo ammessa?
Sara dunque nello stesso atto del forroarsi la sensazione. Ma traltandosi di sensazioni organiche , egli in nostro potere, dato il movimento
necessariamente conoomi- tante, Ievitarle? i in nostro potere Iimpedirle?
possiamo fare ad esse la pih piccola opposizionef Inlendo come mi pos* sano spiacere se son
dolorose , come posso lamentarmene, come posso evitarne Toccasione estema, come
posso non prestar loro attenzione e fino sopprinierne in me la coscienza; ma
fare re- sistenza alia sensazione stessa ( nello stato presente deiruomo), non
veggo io come. Luomo i sommesso alia legge del sentire^ ni vale difesa o
sebenno veruno contro di lei, quando gia son poste tntte le condizioni del
sentire. Non si pu6 adunque con- cepire nessdna specie di refutow;, dove non si
pu6 concepira nessuna specie di resistema; si puu solo immaginarla, cioi si (i)
i', cio die alililamo diianialo il corpo soggeUivaioCDtc coDsideralo. Vcd. N.
AViggio etc. S, V, c.'XI. Digitized by Google 54s pu6 sogaarla^ il che appunto
si fa da noslri filosofi sperimen- tali ragionando a priori^ cio4 dal preleso
principio aniversale che noQ si da aziooe seoza che vabbia altresi una
comspou'- dente reazione. 31. Da vero che io non mi aspettava di veder
prostralo ia terra si fattameote un principio, che io mi tenevo, a dirvi il
vero , come un articolo di fede GlosoGca. ' yi. Dite bene, un articolo di fede,
ma non una sentenza di- mostrala: e la fede quanto vale in GlusoGa? Anzi
acciocehi voi veggiate meglio, a qual segno sia slalo dalla iantasia de nostri.
GlosoG spehmentali rincarito il prezzo, come direhbe K.aut, di questo
principio di una reasione corrispondeute
all'azione io vu spiugere il ragionamento piu innanzi. Abbiam vedulo , che-il
principio non regge nellordine de pauieriy non regge in quello delle
saisaxioni; che direste voi , se io vi mosirassi , uiancarci sovente auche
parlando degli stessi vorpi? 31. Mi dareste una lezione, che me ne vorrei ricordare
ua pezzo. A. bene, considerate il
fenomeno della comuuicazione del molo. Sien due corpi, 1 uno in quiete, e P
altro in moto nella direzione del primo: questo spinge quello, gli partecipa
del sno moto, lo trae seco Delia stessa direzione. 11 corpo in quiete rea>
gisce certamente all urto del corpo in moto^ ma, dico io, la reasione sua i
ella pari allazione? No certamente^ perocch^ se fosse pari, non si moverebbe
roai, non cederebbe punto ni |K>co. Ma egli si lascia niuovere, cgli cede^
non reagisce adun- que abbastauza, per elidere e distruggere tutta la spinta
che si fa in lui. Impariamo da questo esempio una verila piu gene- rale, cioe:
a il concetto della passiyiti sarebbe distmtto, quandu non vi fossero che
azioni e reasioni corrispondenti n. Se Pa- zione e la reazione sono uguali, allora
non si hanuo che azioni che perfettamente si distruggono, senaa nessuna
passivita: se v ha il fatlo della passivita Delia uatura , dunque v ba un a-
zione a cui si cede, a cui non si eontrappooe ua'altra azione iiguale, che
annullerebbe quella prima sensa piit. Ma questo ci traviercbbe dal nostro
cammino: torniamo a not. M. Kiugraziovi assai di avcrmi chiarite queste idee,
sulle qualk voiici pure che pruccdcsle iuuauzi uu bel pezzo. .Ma per uoues*
Digitized by Google 543 sprvi indiscrcto, ml contonto cli tornare a bomba. Parlavarao della concezionc del sole.
M'avevate conceduto, che non puo dir^i rappresentarci ella la natura del sole
pienamente e fedeU menle, e (ultavia volete non dcrogar queslo all' infallibile
ve- rita delle idee. Perocche avete osservalo, che in formarci noi la
roncezione del sole enira il mioistero de sens! , pe qnali diceste valere il
principio che gli atti sono ricevuti '
secdndo la forma del ricevente . A. Ve Iaccordai, tebbene non sia esatto ni
pure il dir cio. lo vorrei piu losto che voi diceste, che u gli eOelti prodolti
in nn ente sono conformati alia natura di esso, in che sono prndotti >. Ma
non voglio indiigiare il discorso^ piu tosto rias- snniiaoiolo, per metterci
bene in via. lo vi traevo ad osservare, come il pensiero sia un'azione tuUa
spirituale^ per6 d'altra indole al tutto dalle rorporee. Indi di- cevo, cbe
Iazione del pensiero non pud alterare il suo oggetlo, o sia egli il sole reale,
o sia la cottcezione nostra del sole. Que- sla concezione perd concedevo io non
esserr al tutto intei-a e fe- dele, appuiito perchd non d lutta pensiero, ma in
parte si trae da sensi, cbe si modi6cano secondo loro proprie leggi. E certo d,
che nella concezioqe nostra pnsitiva del sole, esso cisirappre- senta allanima
a quel modo che cel danno gli occhi nostri. E niiin dubbio pud avervi, che la
sensazione degli occhi, come ogni altra sensazione corporea , tenga in gran
parte la sua na- tnra e qnalita dalla forma e natura dellorgano senziente,'e
massime dal sentimento fondamentale di cni ella d modiiica- aione. Non d dunque
la sola qnalitd e natura delloggetto. che produce in noi la sensazione^ ma si
bene la sensazione risulta da quattro cause associate insieme, non da due come
le fa il Romagnosi , e sono i .* I oggetto operante sull organo , a.* il modo
del suo operare , 3. la qualita , costruzione e materia dellorgano, 4 sto
vestigio del sole, che lo legge per cost dire, e formas! il concetto del sole),
non alter! punto ni poco nd il sole reale ni la sensazione del sole, ma la
lasc! cotale quale i sens! gliela somministraroDO. E qu! stesso , ncl fatto
descritto, trovas! la prova palmare d! ciu che dico. Af. Qual volete intendere
? No! stess! siamo quell! che d'una parte abbiamo la sen- sazione fisica del
sole, e dall' altra pensiamo a questa sensa- zione del sole. Abbiamo dunque
dentro d! no! tutto c!6 che si richiede a poter rilevare se il pcnsiero alter!
si o no colla sua azione la sensazione, o se la sensazione del sole rest! in
not la medesima quando la pensiamo, o quando non la pensiamo. Vedete adnnqne
qua Pesperienza fatta dentro di voi sulla ma- niera di operare del penslero:
Pesperienza vi fa certa testimq- nianza , che Pazione del pensiero, al tutto
diversa dalPaltre azioni reali, non altera panto gli oggetti su' quali si
adopera, ni incontra da%ssi reazione veruna^ perocchi io posso pensare quant'
io voglio la mia sensazione, e per questo non la can- gio, n& la modifico.
M. Non mi aspettavo una prova sperimentale in tali argo- menti. Io mi convinco da ci6 che avete detto, essere
il pensiero un cotal modo di operare, che non altera punto ni poco gli oggetti
suoi. Per altro, dalPistante che il pensiero dipende dal senso, e il senso voi
medesimo dite non ricevere in s6 se non nna cotale azione parziale delle cose,
la qual pro- duce in esso senso un effetto, che delle cose non i alcun ri-
tratto veramente, ma solo un cotal vestigio, o traccia tutta diversa dalle cose
stesse^ rimane che anco il pensiero che ab- bisogna di questa materia a
concepire, non possa mai dirci la veritJ.
Pill tosto dovrete farvi a distinguere nelle concezioni no- stre
intellettive due parti, la loro materia e la loro forma, qnello che pone il
senso, e qnello che pone il pcnsiero stesso. L'esempio della concezione del
sole materiale, che cadde ac- cidentalmente fra' nostri ragionamenti , ci devi6
alquanto dal- qnestc ci6 chc a quelle solo cOnvieoe. Immsginu iida sciiltura, e
dimenii- cossi di chi deve leggeria. Digitized by Coogle Iargomento propostoci.
C non vi ricorda che noi parlavamo della veriUi ? or le sensazioni non sono
quelle che costitoiscono la verita, ma i il pensiero , Iidea, qnello che la
costituiace. M. Ma come pensare aenza sensazioni, senza materia dl pensare?
onde le idee nascono, secondo il vostro steaso sistema, se non per occaaione
delle sensazioni, almeno la massima parte, e pigliando dalle sensazioni, per
cosi dire, la loro configura- zione? A. Manrizio mio, fra il saper tutto e il
saper qualche cosa fate voi differenza? M. Grandissima. A. Or credete voi , che
qnando si tratta di ribattere lo scet- ticismo , e di mantenere all' uomo il
possesso della verita , si voglia con questo prendere a dimostrare, che 1 uomo
sappia tutte le cose, e non nc ignori veruna? M. Lassnnto sarebbe ridicolo. A.
Che dunque vuol dire mantenere alluomo il possesso della verita? pensateci un
poco. M. A me pare, or che ci penso, che qnando anco dimo- strar si potesse, I'
uomo conoscere con certezza uua verita sola, lo scetticismo sarebbe confutato
appieno ; perocch^ sarebbe pro- vato, che I'uomo ha il lume col qual vedere e
accertarsi della veritii, sebbene questo lume noi potesse nsare che per una ve-
rity sola. Per6 inteudo benissimo la differenza che mi fate no- tare fra il
conoscere la veritii, e il conoscere Iuna o I'altra verity. A. .\vete c61to ci6
che io vi volevo dire. Che se poi si giunge non solo a provare che 1 uomo
possiede con certezza una o piu verity, ma altres'i che egli possiede tante
verita e di tal natara, quante e quali gli bisognano a porre i fondamenti
inconcussi della giustizia, della perfezioue, della felicita a cui i deatinato^
non solo rimarrebbe confutato lo scetticismo, ma ben anco im- pedita ogni rea
conseguenza che ai volesse dedurre dalla con- cednta ignoranza dell uomo. M.
Non i a contraddie. Riman per6, che mi mostriate, come alcnna verita almeno si
rimanga salva, dopo quello che mavete accordato circa la natura delle
sensazioni. A. Kipigliamo la concezione del sole, per non moltiplicare
Ros.Mini. It Rinnoveunmto, 69 gli esetnpi. Vi pare egli a voi , che questa
concezlone racchiuda uoa notizia sola, o piu? AI. Veggo che quando io
concepisco coirintelletto il sole, so, o almeno io credo di sapere due cose,
Tuna che il sole i, e Ialtra come o che cosa i. A. Ottimamente. Ora rifiettete
anche un poco : noi abbiamo detto , che il sole esercita da prima la soa azione
sni nostri scDsi, per esempio sui nostri occhi , mediante i suoi raggi; e che
IefTetto che produce nel nostro sentiuento, non i nna rap* presentazione fedele
e adeguata del sole , ma solamente nn ei> fetto, e come un vestigio di lui,
un cotal segno che lascia in noi del suo operare. Or qual principio v ha in noi
, che in- tende per cost dire questo segno, e dal segno argomenta alia cosa
segnata, dalleflfetto alia causa? M. Certo la virtu di pensare che i in noi. A.
Ma questa virth di pensare , che cosa viene argomentando dal segno che- il sole
ci ha lasciato, doi dalla sensazione che ha in noi mossa ? M. Primieramenle,
che il sole c in secondo luogo, che egli i quello che ha prodotta in lioi
quella sensazione o specie vi- siva (i). A. Non potevate risponder meglio. Di
queste due notizie fcr- miamoci alia prima. Dal segno adunque, cio^ dalla
sensazione il pensiero argomenta che il sole i I At. Indubitatamente. A. Vedete
voi qui, o Maurizio, che altro h il segno, la sen* sazione, e altro k la cosa
argomentata dal segno, cioi Iesi- stenza del sole ? At. Chiaramente lo veggo.
A. Vedete anco, che il segno, la sensazione riman fuori e al tntto separata
dalla notizia a cui si conchinde per suo mezzo, e non serve al pensiero se non
puramente come di un punto dappoggio, per cost dire, a spiccare il suo salto, e
raggiun* gere la verita dell esistenza del sole? t (i) Avveiias! che qui non si
tratia gia ilT provarc Icsislenza dccorpi rstcriorl, o il prinripio di
causalila; il quale si Suppone provato; ma non si yuole die sciorre Iobbiczioue
che nasce conlro al possesso della veril^ dalle iiifedeli rappresentazioni del
senso. , Digitized by Coogle 54? M. Anclif queslo. yl. E che perci6 stesso,
tutlo quello che vha d'infedele e di limitato, o, se volete che dica, di falso
nella seasazione del sole, non passa punto nella notizia della sua esistenza,
la quale i al tutto pura, ed uguale, tanto se la sensazione in noi fosse
riuscita d' un modo, come s'ella fosse riuscita d un altro ? M. Assai mi
contento che m'abbiate fatto distinguere la no- tizia deir esistenza del sole,
e la sua indipendenza dalla qualita e forma della sensazione. Vedete adunque
che qui abbiamo una notizia pura da ogni infedelUi del senso, la notizia che il
sole esista. Questa sola notizia mi dA vinta la causa, mostrandovi che la
soggetr tivitA , e la forma parUcolare del sentire non ha virtu d' in- fluire
in modo alcuno in certe notizie puramente intellettuali , quale A appunto
quella dell esistenza delle cose. Ma che vi par- rebbe se io vi dicessi, che
noi possiamo avcre ben anco molte notizie della natura o qualitA dclle cose
sensibili^ limitate si, ma non pero falsidcate dalla sensazione che ce le
somministra? M. Or questo vi vorrA esser difficile a dimostrarmi , dopo che voi
stesso avete detto che 1 impressione sentita dell azione esterna A tutt altro
dalle cose stesse che in parte la produs- sero, e anzi non tiene con esse
similitudine di sorta! y4. E pure non mi ritiro dal provarvi ci6 che ho detto.
Udi- temi attentamente. Se dalla specie visiva o apparanza del sole volessi io
argomentare, lui altro non essere se non un ammasso di carboni accesi, o come
diceva quel filosofo, una pietra info- cata , ragioncrei io punto bene? M. Anzi
peggio del cacciatore di vostro padre, Francesco Sal- vetti , che diceva il
mondo non poter esser rotondo, ma piano, perocchA altramente le lepri spiccando
salti capitombolerebber per terra. A. Ma perchA, Maurizio mio, dite voi che io
indurrei male quella definizione della natura del sole ? AT. PerocchA la specie
o apparenza visiva non dice punto que- sto necessariamente , ma ce 1
aggiungereste voi coll immagi- nazioue. A. E sc io dicessi come quell altro
filosofo , il sole essere grande come il Peloponneso? Digitized by Google 548
M. Diresle un allro sproposito. A. E se io mi atteocssi piu tosto alia sentenza
. Digitized by Google M. Sento tutta la forza r^>; che ove gli scettici giungessero a provare erronee e
fallaci tutte Iumane cognizioni n, essi, con questo medesimo aver co- nosciuto
I'errore, darebbero a divedere di possedere la reritii, senza la quale niuno
distingue e nota gli errori. AlPopposto, ove Iuomo fosse dannato ad un perpetno
errore, egli non giun- gerebbe niai ad accorgersenc^ ma viverebbesi
tranquillissimo , e sicurissimo come fosse nel seno della verita : sicchi P
esistenza dello scetticismo i una prova ineluttabile contro lo scetticismo. Or
venendo a noi, sar4 egli a stupirsi, che con questo lame della verita, che ci
val tanto da reuderci nccorti di quello che ha di limitato e di fallace la sensazione,
e che pero ci guarda dagli errori ne quali ella ci potrebbe indurre, noi
possiamo altresi giungere ad argomentare dalla sensazione qualche altra notizia
intorno alia natura e qualitii del sole, vera al tutto, come n'abbiamo
argomentato quella delP esistenza? M. Intendo benissimo il vostro ragionare.
Voi volete dire, che se noi dal seutimento del sole vogliamo dedurre ch' egli
sia un essere simile al nostro sentimento, erriamo, ma erriamo per impcrizia e
non per necessitai^ e prova ne date il poter noi appunto conoscere che erriamo.
Perocch4 un errore, tostochi si conosce, egli i altresi cansato. Se dunque,
venite a dir voi, P infedelta della sensazione ci i occasione di errore, questo
err rare nasce solo perchi vogliamo dedurre da essa cii^ che logi* camentc non
si puu dedume. E converse, ove da essa noi de- duciamo solo quello che
logicamente dedurre si puu, noi non 55o erriamo, n& 1 imperfezione del
segno oflendc le nostre indu-* zioni. Appunto. E peri , come 1 esistenza del
sole 4 dedotta dalla sensazione in modo, che viene al tutto eliminato dall'ar-
gomento ci6 che vha dimperfetto nella sensazione^ cosi pari- mente non i
impossibile dedurne altre notizie sulla natura c sulle qualita del sole, non
panto ofFese dalla forma soggelUva di essa sensazione. In somma, se nel
ragionameuto s introduce la sensazione del sole, facendola valere per ritratto
o simili* tndine fedele del sole^ cominciamo da an errore, e non pos que come
la soggettivita del sentire non altera puntu la dirit- tura del ragionare, il quale
i superiore al sentire, non riceve 1 imperfezione di questo, anzi la riconosce,
la giudica, la cessa da .si; e all errore non rimangano legati se non coloro, i
quali alia ragione sostituiscono i sensi, e credono a quest! eiecamente,
arbilrariamente , ni sanno prezzare il lame intellettivo che e in essi, e dove
solo i I alto seggio della divina verita. M. Ora parmi di entrare ad intendere,
come voi siete solito dire, che le idee non sono segni delle cose, ma sono le
cose stessc iiitellette, o, come anche vi esprimete, sono Iintcl- ligibilita delle cose . yt. Questo,
che toebate, i un vero di sommo momento. Avele vednto, come la specie visiva
del sole i an segno, dal quale noi possiamo cavare, mediante il lame della
ragione, delle cognt- zioni, fra le quali annoverammo 1' esistenza del sole, e
Iesscre egli nn agente estemo o cagigne (sebben parziale) delle nostre
sensazioni. Le qnali due notizie, che il sole sia un ente, e che questo ente
abbiasi unaltivita delerminata dallefTelto che pro- uiyilized by Google 55i
(luce in noi , sono appunto due idee. E queste idee nel loro esser proprio non
Lanno che fare colla sensazione del sole, e colla sua forma soggetUva, onde
sono slate non cavate o com- poste ma argomentate. Or tali idee non sono segni
, ma vere (XJgnizioni^ sebben assai limitate, perch^ appunto limitato h I'ef*
fetto in noi prodolto dall oggetto. E qui considerate, o Maoti- zio, ci&
che fanno i sensisti. Da prima, non analizzando essi bene, nh osservando
accuratamente, essi si avvisano, cbe la sen- sazione del sole sia la cognizione
che abbiamo del sole^ e la sbaglian si grosso, da prendere il segno per ci6 che
dal segno si deduce. Incappati in un primo errore, viene il tempo in cui,
riflettendo , s accorgono che la sensazione del sole non i una sua fedele
rappresentazione, ma piii tosto una semplice segna- tura di lui. Tosto
concludouo, lutte le nostre cognizioni
es- sere segnature, simboli, o ieroglifici delle cose s. La conclu- sione loro
h irettolosa^ ma per6 viene inevitabile, dopo aver posto r error primo. Qnesta
conclnsione fatta, li solleva a pren- dere subito un tuono solenne e
magistrale, riprendendo severi que filosofi temerarj, i quali danno di troppo
allumana ra- gione, non si tengono ne ginsti confini segnati dalla sensazione,
e osano parlare del (onoscere le essenze delle cose. Le riilessioni de sensisti
vanno innanzi , e direntano arci-prudenti : e in fine I'liomo non sa niente: e
tutto il suo sapere diviene apparentc, soggettivo, contingente, pratico: quest
i Iapice della sapienza scnsistica. M. Voi avete narrato una storia : quelli
sono i passi che danno i sensisti inevitabilmente verso lo scetticismo, dove
sarei anchio, se voi non maveste preso per gli capegli. Ma giacchi mi toc-
caste 1 essenze delle cose , credete voi dunque da vero che si possan
conoscere? yi. Manrizio mio, nel N. Saggio ne parlo a lungo^ c vorrei
rimettervici ( i ) ^ perocchi io vi confesso un difetto non leggieri che ho, ed
i, che il dir due volte una cosa, mappena, ni so dirla alio stesso modo. * M.
Ahhiatemi pazieoza^ e se non la sapgte dire alio stesso modo. Unto meglio^
ditemela ad un altro^ io son c^lu che (i) Scz. VI. Digitized by Google 552
vinlender6 piii coirudire da voi due parole, chc col leggermi quell' immenso
vostro volume. Poltroncello ! fuggi-fatica ! M. Eh non sono poi solo. Bella
scusa ! ma non perdiam tempo. Torniamo , se vi place, alia nostra immagine
visiva del sole. Poniamo di trarre da quella un concetto del sole, e trarlo a
sproposito quanto volete. Af. Per esempio, che il sole sia la lucerna del mondo , come dice 11 divino nostro poeta, la qual
consumi al giorno cento milionl di barill dell' olio del paradiso. Ell' 6 delle
vostre. Or separiamo due cose dentro a questo
vostro bel concetto del sole. Intendete voi , che altra cosa 6 pensare a questo
grande luceroone , altra cosa il dire che il sole sia desso? A/. L'intendo. Or
dove pare a voi che consista I'onorme sproposito? nel concetto di un si gran
lucernone, o nel credere che sia desso appnnto il sole? A/. Vcggo che
I'immaginarmi io una lucerna, grande o pic- cola ch'ella sia, purch6 non
contenga nulla di logicamente ri- pugnante, non i ancora cadere in errore
alcuno ; e che perd I'errore non consiste se non nell'applicazione che io fo al
sole, di questo concetto astratto della lucerna, pcnsando che il sole sia il
realizzamento , per cosi dire, della lucerna da me con- cepita. Per eccellenza!
Or considerate, che I'idea di una si sfor- mata lucerna ^ ciii che si chiama
essenza, non gi& I'essenza del sole (ch nel crederla tale starebbe I'errore),
ma una es- senza quale ella e, e nulla piu. Ecco adunque in che consista la
intuizione delle essenze: come voi vedete , non A altro che Iintuizione di una
cosa possibile, e per6 scevra di contraddi- zione^ chi se n'avesse in si, non
sarebbe piu tale. Al. Veggo ora assai chiaro, che chi dice non conoscersi le
essenze, non intende che cosa sieno le essenze. A. E io cosi credo: si
confonde, vedete, I'essenza colla so- stasiza e colla sussistcnza delle cose.
Ma io vi vo' fare osservare un' altra cosa importante. Non m' avcte detto voi ,
die nella Digitized by Google 55.^ SHsmplicu coiicc7.ione di lui.i loi^oviia
die fa la mente , ella non cade aurora in crrore alcuno? M. Vel dissi',
perocche ella non aflunua j*ia, collintuire men* talmente qudia lucerna, ch'ella
siissisU in realla, ma solo I'ap- prende fra le cose possibili e uuii
ripuguaiili. A. E tuUavia, dilemi, Maurizio, onde veiine alia mente \o- stra il
concetto di questo immenso luceruone di cui parlianiu? M, Dalla specie visiva
del sole. A. Vedetc dunque, che le stesse sensazioni possono darci Toe* casione
a pensare de concetti o sia dclle idee cbe non haniio errore alcuno ; perocebi
sebbene non rappreseotino fedelmenta le cose cbe ce le banno cagionate , pure
possono alia nostra mente somministrare una fi^ura o determinazione di cosa in
si stessa possiblle, e cbe peru i verita, 31. Sicchi io veggo di dover
conebiudere, cbe tutto ci& cbe trae la mente nostra , argomentando , dalle
sensazioni , o to* gliendo da esse certe limitacioni, d la verita^ purebi non
sia fatto ad arbitrio, nia logicamente, A. Ed i di queste notizie intellettive,
di queste idee od es* senze, che noi ragionavamo a principio; alia verita delle
quail, intendete voi ora, cbe il sentir nostro soggctlivo nun apporta verun
pregiudizio? 3f. Lintendo. A. E bene^ riassamereste voi pertanto tutto ciu che
abbiamo Hn qui ragionato? M. Due cose mi dimostraste: la prima, die il pensiero
non reca alterazione alcuna agli oggetti o real! o possibili da lui pensati; la
seconda, cbe gli oggetti reali percepili, sono in qiial* che modo alterati
dalle nostre sensazioni: ma gli oggeLli possi- bilij che chiamaste idee cd
essenze, non possono sostciicre dalle sensazioni veruna alterazione o guasto^
imperoeeb^ essi sono al tutto scevri a$sare a contemplar Iuna dopo Iallra, ma
non mai di alterarle^ nel qual caso non sarcbbero piii essenze, e per4 il
pensiero avrebbc distrutto il suo oggelto, non sarebbe piii egli stesso. Se
conside- rate poi la natura delle essenze o idee , voi le trovate immuta- bili,
e non possibili di ricevere in s4 mutameuto alcuno. Con- ciossiack4, tome dissi
ancora, se quesle essenze o idee potessero alterarsi, duiique si suppone chelle
possano aver due modi di essere, Iauo che le fa quali sono, Iallro che le fa
quuli appa- ristdno. 3/. Cerlo. A. E ntlluno e ueHaltro di quesli modi non vi
dee aver ripiiguaiiza. Al. Se vi avesse, non polrebbero essere. A. _Se non son
dunque ripugnanli quesli due modi, c'tulla- via son divcisi, gia uou sono piii
una esseuza sola, ma due. AI. Linleiido. A. E veranienle iiiiniaginiainoei tome
possibile qualunque cosa vogliamo^ e poi faccianioci un canglamento. Per
niinimo cb egli sia il cangianieiito, la eosa pensala 4 uualtra, ella
diffcrisce dalla piiina, come il due dillerisce dall uno^ di che Aristolele stesso,
Vedete, paragonava le essenze a uumeri (i), a Hue di siguifieaie vi) La
senleiiia i eclein'e ptesso gli Aristolelici c gh Sculaslici; irwj 41 il
peustLiu e quclio stesso Ji lUl.tgoiaj al quale riluma s.'ir, la loro infera
divorsltn. Si: dnnqile ogni esscnza i templice, ii fat- tiimrnte che non riman
piii dessn ove solTra la pii! leggiera mu- lar.ione; egli si pare manifesto,
che le essenze non possono aver due modi, e che per6 debbono esser tali
necessariamente, quali all'animo nostro appariscono. Pero voi vedete quanto a
torto e ad arbitrio sospettavate, come diceste, che le cognizioni nostrc sieno
apparrntemenfe immutablli e necessarie, ma realmente mu- tabdi e contingenli.
d/. La diinostrazione della veracita delle nosire idee parmi Tiflente. Ed or io
capisco, che il sospettare chelle sien altro tl.t qiiello che dimostrano, nasce
dal non aversene abbastanza risserrata e perscrutala la nalnra^ e per dirlo
aperto, nasce dal- r i^'noranza. Infatti non possono esser diverse da qiiello
che ap- parisrono, appnnto perchA, come avete dimostrato, non pos- ono
conrepirsi come fornite di due modi di essere; consislendo tiilla la loro
natura in non aver nulla in sA stesse, che involga contraddizione; sirchA o non
sono, se involgnno contraddizione, o sono, se non Iinvolgono; e verificata
qiiesta condizione, ogni variazione le fa esser altre, e non riraaner le prime
mutate; sic- ebA il pensiero puo andare dalPiina alPallra, ma alterarne nes
stina non mai. Non mi riniarrebbe die un ultimo dubbio, leg- giro per me, dope
qiiello che ho udito, per altri grave, ed A qucsto. Qttand io miro un oggetto
sussistente, io non percepi- sco gia 1 oggetto stesso; ma si bene la mia
propria scnsazione. Or ugualmcnte cgli pare dovere avvenire dell intuizione
delle essenze, Quali cose si vogliano sien quesle essenze, se voi non le volete
modi, o atti dell'anima; elle pcio non potranno cs- sere percepite in sA
stesse, ma nellelleUo che produrranno in noi. Or ponendo che sieno cose die
operano in noi; Ieirctto di una cosa non pu6 essere, come abbianio delto
parlando della scnsazione del sole, cbe segno della cosa die agisce, e non la
cosa stessa. Noi non sentiremo adunqiie le essenze; ma bensi il loroefTctto,
una nostra modiGcazione. Or eccoci nel primo stato, dieono alcuni, della questione:
tiilto cift che noi sentiamoj o co- nosciamo, non A (inalmcnte altro die
modifieazione nostra. , II principio da ciii nitiove qiiesta vostia
argomentazione I'Ctt Aiiiliilrle, can
liilla la siia amieziuiM' . Io ho gia denunziata questa furmola per iodegna
d'un (Ilosofu, indegna dun uomo, il quale dee cercarc non gia come sieno
possibili le cose, nia prinia di tutto se sono o se non soou: e secoudo me,
Iaccer- tarsi bene del fatto k il primo caiione della vera scuola sperU
nieiitale, che k appunto quclla che io predico quanto u' ho in (;(>la. M. Ma
dunque potra uii esscre truvarsi in un altro csscre? si dara questa
cuiuunicazioue singulare che supporrebbe il vo- stro sisteuia, mediaiitc la
quale uu cole nun pur inodiGchercbbe un altro cole, ma mostrerebbe , reuderebbe
iulelligibde ad un altro elite la propria natural Io vi rispondo, Teggiamulo,
osserviamo, cerchiamu come sta la cosa. M. Vedo bene, che questa k la via piu
sicura da venirne a capo. Iiiiperocchi, che sappiaui uoi, poveri morlall, quali
sieno le leggi degli esseri tutti? e di quaute maniere diverse ce n'ab- biano,
se nol rileviamo dalla percezione e dallo studio di quelle? d'altro lato,
ritengo aitaiueute iiiipresso quello che so- letc seoiprc dire, che uieute k iiupossibile di ciu che iioii
iuvolge cuutraddizione a. Queslo principio appunto vi premunira contro agli er-
I'uri^ inipedira che la vostra meole si reslringa e s'iiupiccolisca, e voglia
poi coniuiiicare la propria piccolezza e uiiuuzia alle cu.se. lii veramente
considerate beue uude avveiiga il pregiudizio di cui parliaiu.0, che una cosa
non possa essere nell'allra, ui cumuiiicare all'allra e far coiioseibile la
propria eulila. M. Oiide credete voi che provenga: yi. Maiiircstameute dallidea
di spazio e di corpo, dove una parte i essenzialnieute fuori dellaltra. M. ?iou
k dunque esatta quella opinione che vorrebbe clas- silicare tutte le uozioni
astratte, toccauli le scanibicvoli azioiii (li'gli esseri, soUo le due ruLiiehe
dello spa/iu e del tempo (i). t.) - Le tidliaUc c iiuiUi.rii^ dice il C.
>ccuduuu ddl Digitized by Google A. Ella h infrtta Jal pregindir.io di coi
parliamn, riot^ dal credere clic tulti gli enli siano soggelli alle leggi dello
spazio e del tempo. Questo principio ontologico distrugge ogni spe- rienza. M.
Veramente, se si tratta di trovare un'assolata contrad- dizione in terminis nel
conretto di un ente che si comunielii tiitto intero ad un altro, che in un
altro esista, o che gli riveli tutta la sua natura; questa io non ce la veggo.
Solo ho una cotale ripugnanza ad ammettere nna proposizione si strana, si
singolare, si contraria a ci6 che si suol comunemeiite credere. A. Tutto i
strano all'uomo quello che a lui vien nuovo ed inosservato: niente i strano
alPuomo di ci6 che gli si fa vec* chio e famigliare. M. Falemi vedere adunque,
fatemi osservare questo fatto che Toi dite avvenire nclla natura della
cognizione. A. Quando io aflermo a me stesso che fuori di me esiste il sole,
ditemi, questo che aflermo 4 egli iina mia modifica* zioue? avvertite bene; io
non domando se I'atlo che fo, o se il sole concepito da me, sia una mia
modiflcazione; supponiamo per un poco chegli sia tale. Io domando se la mia
ojfemuizione si riferisce alia modificazione mia , o ad un eute diverso da me.
E per ispiegarmi ancor meglin, poniarao che io sia ingan- nato, e che creda per
errore che il sole sia un ente da me diverso; io domando, questa mia falsa
credenza si riferisce ad un ente diverso da me, o a me stesso? M. La credenza
si riferisce ad un ente diverso da voi, seb* bene Pente non sarebbe, nel caso
supposto, che una modiflca- zione vostra. A. Bastami che maccordiale che la
credmza, sebben falsa, si riferisca fuori di me, e la cosa 4 spacdata. nomeno universalissimo della dipendenza
reciproca delle niiilaxionl , si uno e
piii iMamiani, P. II, r. XI, vi.
Roshi.ni, // Rinnovamento. 7* 56t ilea, come pore nn'anima quant' i
intelligente , non ha qaeite relazioni collo spazio, che appartengono solo alle
cose corpo- ree. Un'idea ^ in si stessa, e non in un luogo. Unidea si pu6 dire
nell'anima, quando i intui'ta dallanima^ ma non i gijt neir anima, come la
minestra i nella pignatta \ ma in tntt'al- tro modo, che non ha similitudine
nelle cose corporee^ in un modo, che si dee dal filosofo guardare in faccia,
per cosi dire, e cosi riconoscerlo ^ non di sbieco, cioi indurlo per analogia
de' corpi, per immaginativa , per arbitraria argomentazione a priori. M. E
parmi ora di travedere anco, come lo spirito, sebben seraplice, possa intendere
le cose vestite di spazio. A. Vi Sara facile^ conciossiachi I'idea
dell'estensione i sem- plice anchessa come tutte I'altre idee, e per6 anche lo
spazio vedesi dall' intelligenza in nn modo al tutto semplice, e fuori dello
spazio. M. Questo tocca da vicino quella terribile questione circa il ponte,
che si dimandava fra la nostra mente e le cose. A. Cosi era quelto un materiale
e al tutto falso modo di favellare messo innanzi da' sensisti^ ed esso
confondera la mente, e le impediva di vedere il vero. Fatto sta, che la stessa
esteriorita (se cosi si vuol chiamare il corpo, o lo spazio) non i cbe uno dc'
modi, onde quel genere di enti che si chiamano estesi sono diversi da noi: e
questa esteriorita ha la sua idea: e 1 idea della esterioriUt non i ni
esteriore , ni interiore : i pura, semplice, spiritoale, distinta dall anima,
come tutte le altre. Or chi potr4 negare alia mente la concezione delle cose
esteme, cioi degli estesi, come di tutte 1 altre cose diverse da noi , se ella
pu6 concepire e veramente concepisce tutte que- ste cose? Af. Verissimo.
Rendovi grazie^ io n'ho abbastanza per que- sta fiata, da meditarci un buon
tratto. Digitized by Google CAPITOLO XLVIII. 55.% come >l skmskmo abbia
bbmpre cohdotto i filosofi AU.0 SCETTICIJMO. Riassnmendo le cose ragionate nel
precedente Dialogo , noi veder possiamo 1 origine e la natora dello scetticismo
de sen- ualisti di tutti i tempi (i). Lo scetticismo diventa inevitabile,
tostochi si abbiano levate dall'uomo le idee, nelle qaali sta Iintelligibilita
delle ease, lasciate le sole sensazioni.
* volendo segnare i passi di ana meate
che rovina in tanto errore, vedremo agevolmente, che I 11 primo sbaglio di essa
avyiene per poco acume in osser- Bare, che quando parliamo noi di uoa cosa-
sentita , per esem- pio di nn anello, di un fiore, di un vaso, quella cosa e
di- venata oggetto di nostra attenzione per due atti nostri cootem- poranei, e
non per un solo, cioi per 1 atto del sentire
per 1* atto del concepire intelleltivo. Ai sensisti allincontro sfugge
sempre, per negligenza dosservare, queslo secondo atto, che rimane loro coperto,
per cosi dire, e occultato dal primo piu viyace ed eccitante 1' attenzione^ e
si persnadono che la nostra percezione della cosa esterna sia un fenomeno
semplice, il quale avvenga pel solo atto della sensazione , a cui attribuiscono
an- che Ieffetto intelleltivo, che da quello del sentire non discer- nono. ' 3.
Dopo questo primo sbaglio, ne viene an altro di conse- giicnlej quclio di
credere, chc noi non sappiamo nulla della cosa sentita, piii di cio che si
cuntieue nella sensazione. Si crcde ^ () Queseosisti i quali DOminaDO
Arislolele come cerlo loro patrociiia- lore, io li maoderei a leggcre
allFiUamente il L. IV de' JUeta/xsid, ehe
piii di loro probabilmeole noo hauuo mai lello. Ivi niolte cose
troveranuo, ido- nee a niodibcare il coocello cbe s ba volgarmenle di queslo
lilosofo; e fra Iallrt il Vedranno occupalo a cercar I origine dello
acellicismo di alcuoi filosofi cbe lo precedettero , e Irovarla lulls nrl loro
senstsmo. en toito ua suo successore, Teodoro pure di Cireuc, discepolo di suo
nipule (del se- condo Aristippo)} e quCsli dirde il Icrao passo^ dicltiarandu
apcrlo, le sen* SMtioiii non avere aicun valore oggrttivo. llitenendo adunque
ebe quelle fossero le sole nostro cognizioni, uego a questo si esse Toggoltiva
venta, c tol.'ic di mezzo ogni erneriu della cerlezza. Priina aucoia die
iiasccsse la sotta de' Cireuaici, si vede lo stesso pro* gressu iielle idee di
Protagora e di Teodoro. Aduiique Prolagora o Teodoro sono scettici coufossi}
Leucippo, Ari* atippo ed idiri sensisti sono scrllici non confessi, ma
coiiviiiti. liuUttua di Piulugurat alktmavi * tsset veiu a ctuscuuu cid clic a
lui Digitized by Google 565 3.^ Allrl consideraoo, che lo stesso sentire avendo
le sae leggi costanti, vi dee avere nelle sensazioDi di taito il complesso de*
gli uomuii qnalcbe cosa di comune, e questa uniformitA nel sentire dee
costituire uuo stato normale (espre$siooe toUa dai xnedici), e quindi una
colale verita relativa, a cui si dee ripor* tare il sentire de^ singolari
uomini, e trovatolsi discordante, di* chiararlo nou-normale, tnorboso (i).
3." Alcuni, dal vedere esser tolto airuomo il possesso della verila
assolala, si gittarono ia ana cotale misantropia, io aa odio della specie
umana, di si stessij dichiarando nulla avervi di buono, fuorcbi la morte (a). r
pare w; T$ pviwcfitftv ixaWf * Tusc. Q. L. I, c. cxxyi). Ma come potevaoo uc-
cider se slesse, persone che riponevano nella volutik ogni bene? Era line
protesla della natura umana contro ad un priocipio ignobile ch'ella sdegoava;
ella volea, quasi dire!, purificarsi dalla macchia contratta, immolando delle
viltime alia verity : si sacrificava, come Lucrezia, pel dolore di esser
violate. (i) Frequentemenie il Romagnosi mctle delle limitadoni arbitrarie at
'ifoltivamento degli sludj. m La virtu^ egli dice, ed il valore della
saptenze volula dalla natura consiste
luiie nell* opera proBcua. Quiodi ci6 cbe b
pill rimolo da questa posiztone, ioHuisce meno sulla vita attiva
richieste w dairordiue delle cose. Dunque ogni speculazione nostra dalla quale
non derivino cognizioni ulili, b
vanitli; e per6 la scieoza allora val nulla m (Che cosa e la mente sana? ecc.,
Ragione del Discorso). lo vorrei dimau* dare, se sia in potere di aicun uomo il
diQinire cbe vabbia una sola, fra le veril^ e noi conoscibili, che si possa
dire al lutto inutile. A credersi au* torizzati di pronunciare uua simigliante
senteriza, o coovien conoscere Tin* catenameoto di tutle le verHi quante esse
sooo, o convien essere un igno* ranle.> Per altro il. Romagnosi ^ coerente
al principio: lolta la verita as* 8olnta,resta la sola veritli pralica , che
non e verita: la contemplazione e inutile in questo sistemaj tuUo si riducc alU
viu attiva } che e appunlo il Digitized by Google 567 voleva che fratli di valore, cioi capaci ad operare
sulla reale onatura onde ottenere i beni e schivare i mali^ e cbe uil pre- gio della verita consiste esseoaialmente ed
unicamente nella suddetta efficacia. Questo modo la distingue dal valore del
ufalso, il quale riesce nullo o debole e sempre precario, per* ch non raccomandato
alia catena del fatto, e sempre con* Mtrariato dallonda della reality (i). In tale sistema, questa veritA di nome k
sottordinata allih- teresse; la moraliUi k impossibile: di essa pure si
mantiene il solo nome, che rimane una mensogna. Conciossiachi che cosa i la
virtu, altro che il rispetto alia verita? Se la virtu merita riverenza, questa
proposizione k una verita: or se la veriUi d un mezzo, donque auche questa
proposizione non ha che un pregio relative, e non dee usarsi che per semplice
mezzo al gran fine dell interesse. E questo interesse, checchi si dica, non i
coerente se non k al tutto privato : 1* interesse k essenzialmente privato:
conciossiachi come pu6 darsi beneficenza di vero nome, senza virtu? La
filosofia civile adunque di Romagnosi i ella stessa un regno diviso e desolato:
una civilt^ che ha il corpo attUlato voluttuosamente, e Ianima selvaggia.
sistcro* coDtrsrio dirillamenle quello
di colui che disse dell smaote eon- teinplalrice, che optimam partem elegit.
(i) ytdult fondamentali tec. L. I, c. IV, lo, ii. Anche quests cease* gueoza,
che disirugge il pregio vero della sspieoia,e sloglie gliuomiai dalle pill
sublimi e piu disinleressale meditazioni di lei , disceade irrepugoabil- menle
dal sistema sensistico. Arislotele la vide , e la deplor6 parlaado de seasisti
de tempi suoi, che non ammettevano altro che una verita mutahile, relativa e
pratica, quale pareva loro rinvenirla nesensi.
Una cosa gra* M vissiroa, dice lo Stagirita, seguita a questo sistema.
Coaciossiachi se quelli * soli possono pih ardeotemeote amare e cercare il
vero, che pih il veggou n possibile; in che modo coloro che lengono tali
opiaioai, e portauo una si fatta
sentenza della verili, non ingcriscono una rolal socordia e avvi- limenlo in coloro che pur si sforzano di
hlosofare ? conciossiachi cercare K la verita sarebbe in tal caso uno andare a
caccia di uccelli m. Digitized by Google CAPITOLO XT.IX. 5fi8 COMTISOiZIONE. E
dopo di ci6, rimane I' ultimo passo a fare a'sensisti per toccare il fondo del
pirronismo^ ma questo i il tempo medesi> mamente, in cui cssi debbono
necessariamunte dare in suj con-> ciossiach^ il fondo di questo pozzo non da
riposo a chi vi si accascia. QuestuUimo passo e di giungere a vedere, che per
essi, re- Rtringcndosi alle mere sensazioni, non vha ni pure una verita pratica
, relativa , variabite. Conciossiacb^ senza idee non pos- sono nA intendere, nA
valutare le voci, per cosi dire, delle sen- sazioni. Paflare, ad essi A
impossibile. Ogni parola A un giudi- zio fatto in consegnenza di sensazioni: il
che e quanto dire, A dellc idee, intuite in occasione delle sensazioni. Tolte
adun- que le idee, tolto A il linguaggio, tolto il ragionameuto, anche quello
che si faccia solo sulle sensazioni^ chA di vero la sen- sazione non ragiona
della sensazione. Il sensista, ove giungesse a veder questo, navrebbe tale una
scossa, che facilmente lo staccherebbc dal suo sistema^ impe- rocchA non piace
all'uomo rinunziare alia ragione e al linguag- gio: e niuno prctfessa il
sensismo, se non a condizione che lo si lasci ragionare e parlare, cioA a
condizione che lo si lasci smen- tlre col iatto, il sistema che difende colle
parole. CAPITOLO L. Lk SOLA SCUOLA ITALICA THOVU, E Flss6 LE TRE CONDUIOM DELLA
COMOSCENZA. Or tulto ci6 vedemmo essere stalo noto agli uomini piu per- spicaci
dell antichita : alia piii illustre delle scuole niosollehe , che comparisse
sopra la terra, 1itilica. Fu pronunciato, che nion sapere A possible se non a
condizione che esistano degli enti intelligibili, a cui appartengano questi due
caratterl, i. la semplicitA, che fu delta anche imilci, a. e la immutabilita,
che dissero anco eternita, o necessita. Digitized by Google Qucslc due
condi7.ionl nou si veriHcano niTr, i rravr' utntt aafiara A cui Piatone
moslrava Ic idee nou esser nulla, e cost gli striiigeva a dover confessare chc
ernno qual chc cosa d* immaieriate. Il grand* uomo si raticgrava assai di
ottener questo da essi; perocclie dicova, m eglt hasla chc ci concedano
csisicre qualchc cosa d* iocorporeo , per minlmo ch*cgli sia *: ,*/ jarp ti uat
afjtxftv t*^i\ovTtv er ^mt9 aTaftarev, In fatli dallesisteota di enti che non
abbiaoo estensione uc rapporlo Sicuuo coirestensiooe, dipcodotio lulCe le piu
sublimi verila che nobililano I'uinana specie: la moraliia^ ia gene* rosila, la
cootempUzioue del hello, ia rcligiooe peudo a questo solo puuto. la senjpliaia stessa dcllo spirilo e un
cotisoguculc di quclla dclic idee : la Semplicila di quesle ci prova
irrcfn'galiile della semplicita di qucllu: anzi forma, e cosiiluiscr la siesta
semplieija proptiu dellu spirito. Rosmim. Il Ilumoyanicnto. Ma tutto qnesto non
batta ancora, arnorchi sia possibile la cognizione nmaua ; non basta cbe s!
dieno cose di nna per- fetta scmplicit^ c immntabilita: egli i necessario chc
queste cose - sieno quelle, in cni risiede questa singolare esseoza della cono-
scibilita^ che i pur qualche cosa di diverso, come gii toccammo, da tutto il
resto delle cose cbe sono nelPuniverso, dal corpo e dallo spirito. Riassnmendo
adnnque le tre condizioni cbe rendono possi- bile il conoscere, elle sono i.*
cbe esista questa essenza della conoscibilit^, a.* che questa sia perfettamente
sempllce, 3.* e che sia perfettamente immutabile. Tali sono i tre caratteri
del- Videa; dove solo per ci6 appnnto risiede il principio del sapere. E que'
caratteri si trovano toccati dagli scrittori platonic!, quando determinano
Ioggetto della scienza, o della filosoBa.
Ella tratta, dicon essi, di quelle cose cbe non souo corpo- ree, ma
intelligibili , prive di materia ed eteme
(i). Colla parola intelligibili
(voffta) esprimono il primo carattere, che i quello di contenere P
tistnza intelligibile : colla parola
immateriali n (dii^a) indicano la loro semplicita: e con quella di eterne
^dtSia,) accennano la perfetta e necessaria im- mntabilita. L'
intelligibile i sinonimo del ven> preso come esem- plare o norma delle cose,
e cbe io cbiamo piii volentieri verita . Per6 al vero attribuivano gli stessi
caratteri che aXl'intelligdiile. In nn brano, conservatoci da Stobeo, di quell'
antico cbe rol- garmente si denomina Mercurio Trismegisto, al vero si attri-
buisce la semplicita e I'eternita con queste parole: Egli non tti tnrbato da materia, circondato
da corpo, i nudo, chiaro, uaugusto, non suscettiblle di alterazione e di
mutazioue {i)y e ancora: II vero i ci6 che ha da si solo il propriu
essere, e rimane per si, quale esso i
(3)^ e di nnovo: uE tu pensa, che
solo vero i ci& che i eterno (4)-
(i) Xifmcn tid tiJii awua'TM>, xat tnrmt , muXyt n xal a'lViV'* Jsmblic. in
Protrept. ad Symb. ai. (a) To fii e'ao dXmi OoXoi/junvo, juari crsro asuaroc
vfffySaXXojunavo yimnjt aVftVTOTy at/creV, a'mXXoiaTor. Stob. Serin. XI. (3)
To* o^XaS-i'r IffT/ to' 1*5 avToJ /tio'ooo Tor rurmvit I'x:'" alrrl, iiiv
lOTir. Slob. Serm. XI. * (4) Xo* di ro'ff oXo>ic Ti i/rai to /ue'ror
i?(V/or. Stob. Serm. XI. Digitized by Google ^7' E cbi ben attenJc non pito a
meno Ji conoscere la giustezza di questa sentenza cbe il t'ero sia V
intelligibiU stetson perocchi )a natura del veto ^ di cssere n1l intelletlo, e
cosl pure quetla dell' intelligibiU (i). Per& il torre U idee, cbe sono
questo in> telligibile esseoziaU, i nn torre il vero^ I'ammettere poi le
idee, i un ammettere il vero: e per6 h ua risccare dalla radice lo scelticismo.
Veduto poi, cbe quest' e^ienza conoscibile o idea i semplicis* sima, immutabile
, elerna^ egli e garantito al tatto il possesso del rero agll spirit! atti a
iatnirla, contro ogni opposizione, perocchi cessa ogni sospetto , cbe in tale
essenza possa inge> rirsi alcuna alterazione mediantel'intuizione dello
spirito stesso. CoDciossiaebi come potrebbe lo spirito iotuente mutare ci&
cbe i esseozialmenle immutabile? come cagionare alterazione in ci& cbe i
semplicissimo per essenza, identico a si stesso, etemo? come pu6 intnire solo
la forma apparente dell' idea, e non la reale, se essa idea non ha cbe una
ibrma sola? e se tutte que- ste cose cbe si dicono dell' idea, appariscono
appunto in quel- I'ente ideaU cbe il nostro spirito intuisce, di guisa cbe se
un'al- tra cosa vi fosse non veduta dallu spirito, non sarebbe piii quella di
cui si ragiona ? CAPITOLO LI. SI CONflMOA: SHTICS DISTlaZtOHE TKK LA SClElfZd E
l' OFOfmjfE. E poiebi il desiderio di promuorere fra.di noi lo -studio ne*
gletto de' pin solid! pensatori, e massime degl'italiei, mi ha condotto, come
in altri miei scritti filosoCci, cost nel presente, a congiungere
coll'esposizione demiei eoncetti I'interpretazione delle celeberrime blosofie,
di cui egli sembra , .per cost dire, aversi perdnta la cbiave ^ anche qui non
mi terr6 dall' indu giare un poco, cadendomi in acconcio, a chiarire una
distin* zionc comunissima a' primi maestri della Blosofia, i quali dili*
gentemente separavano la scienzti dalU opinione. Dico, che ml cade in acconcio^
perocche redemmo nel ca (i) Vedi il N. Suggio' cc- Sci. VI, c. II. Digitized by
Google 5yi pitolo precedente , che ovc sole s' avessero le sensazioni, non si
potrcbbe ragionare ne pure delle seosazioni, cio^ non si po- trebbe saper
cosalcuna, reso impo$si)>ile, o piu tosto tolto via il sapere stesso: e cos\
allopposto, conservate le idee, i salvo il sapere; il quale in ci6 cbe
pronuncia i immutabile e iieces- sario, e dicesi sciema; ma sempre egli
pronunciar non pud, altesa la natura de suoi oggetti, e la limitata
conginnzione che Iuomo ha con essi; e tale limitazione sua gli fa nascer quella
persuasionc, che gia opinione venne denoniinata. Or qoesto i ci6 che io voglio
un po' meglio chiarire, in ser- vigio dell'antica 6loso(ia, e delle dottrine
che propugniamo. (via dissi, che I'errore de' sensisti scettici ha il suo
fonda* raento nella persuasione, formalasi loro nell'animo, che se v'ha
cognizione per Iuomo, questa non possa esser altro che la rappresentazione
delle cose fattaci dalla sensazione .
Essi per un certo tempo prendono la sensazione, in vece che per un segno o
elTetto dellazione delle cose, per un loro rilratto; e quando poi saccorgono
cbe queslo preteso ritratto non ^ ri- tratto, allora diventano scettici. Or
benchi, senza I'uso del- 1 intelligenza, e pero senza le idee, essi non
potrebbero dire della sensazione ni ch ella k ritralto n ch' ella h segno; tut-
tavia,conceduta e amniessa Iintelligenza giudicante delle sensa- zioai mediante
le idee, egli h possibile Iuno e I'altro di quei due giudizj:cioi si puu
giudicare tanto che le .sensazioni sieno ritratti delle cose, come che elle
sieno meri segni di queste od effetti. Ma i da nolarsi , che I uomo i inclinato
per natura a fare il primo giudizio, scbbene in un modo pratico c provvisorio.
E inclinato, per ragione di esempio, a credere che i colori, i suoni, gli odori
ecc.., appartcngano in prop^io-ai corpi come qualila rcali, loro inerenti, e
non come eifetli in noi prodotti. (Quando nasce la filosofia, ella riliene
alquanlo di tempo o d inconvenient!. TutUvia quando la filosofla giunge a
scuoprire che le sen- sazioni nostre non sono rappresentazioni delle cose, non
pno ptr6 rantare subitamenle il linguaggio comune degli uomini Che fa dunque
ella? Pone delle dotlrioe: dk delle interpretazioni nnove al linguaggio comune;
sentenzia, che il principio della verita non sono le sensazioni coneiderate
come rappresentanti gli oggelti esteriori, ma che questo principio A al luUo
diverso e sni^ore dlle sensarfoni, e un principio che disceroe e pesa il valore
di esse sensazioni, le limita ad esser puri effelti pro- dotti da una lorza
estemi in noi, indicanli bensi, ma non rap- pMsentanti la loro cansa'. Ora npa
concezionedella sensazione che Ja fa conoscero
noi noB pei- qhello che mostra ma per ^eRo chf *, non per 5na
rappresentazione mapper nn segno, 0 on idea. La filosttfa^dice adunque che la
ddenia sta nelle idee (i). Ma lAiiiih li pu6 dtstwtggere la credenza volgarc,
die e sensaziohi rappresentino le cose? La filosofia, in .ece di vo- lerla
distruggere, lascia ad una tale credenza nn pratieo valiire e la chiama opiate.
|cco la distinzione fra M icienza e \'opi\ nione, secc^do ^ con^to pih comune
degli antichi. 1 Noi abbht^VdiAo^ qoesla distinzione essere il fbodamchlo
ciella scuola il^Iica- Volgiamo ofa udo ^ari^o alia scibla di Elea, second*
glo- m filoso^ 4^telia. Noi Iroveremo anche'in essa, abbraociat'a a medesAa
distidzione senza controversra, di guisa che le due scuole iUj^ne^i Tillagora e
di Senofane dividono per Ja va- rieta degU sVHuppamenti ,'non de principj. c
praiiei die suol fare la massa .le^-li i.o.niui, e si sono assohHi da errore.
Vedi Sez. VI, c. XIV, art. V. . , . .
() Allora uoi filosoUama. ., diee ....
aniico sposl.orc della fdosofia ila- ca,
quando vcramcule, e senza r opera dd si, si e ddic corporal, fuo. -
Zion. (cioA senza presUr fe.le alM loro rappre,e,aziqnl ) ,i, ia.no d. lla pura menie al compr.>nd..m ..io .Idl,. v.
i lt;,, die sla neflu zsstazz sl.'s,c " -n che sappiamo co.,silere la
sapienza OaTa,f H rJ c,Xarf . XaSa,; ,a. cy, a,/ aoSop,; vSar a nbr Jainbl. Ill
exposil. hymli. i5. , DigilUi doversl risolvere in quell uno, in cus tulle sono
con- .tenuU, e onde tulle proflubtono* (3)-, parole cbe pii senibraDO (,)
Ansssirosudro (Cic. 7?e />.) 1 slessa scuols piUag^ dVi Dio simbollcameute la figure rolonda. ^ .
/ (a) Xenuphanes f Axit; unam use omnia,
ne^dfWd us^utaBSU. el td esse deum, neque nttum usquam et sempitemam,
conpMataJfUra^ (Gic. in La- culL XXXf'll). Quando anco SenofaDC avesc
ditto Dio.Ja ngura roloo t, lion come
simbolo (coniune a que tempi, siccome io'creito), m come siu vcra qhalila, cio
non lorrcbbe U verilk delle cose dq me .ccennatc. Perec- chi non rero incontre,
cbe nelle idee de'filosofi si Uovmo degli clemeiiU pugnenli. Vorrebbe solo
dire, chc queslo filosofo, che ere giunlo sicor.- meule al priroo grado dell
astrarione, q.ielbdella m.ler. nqn era perrc nuto al'secondo. quello dello
spasio, o come gli anlicbi dicttanq, idella ma- tcria inalemalica. ' . . ^ . j;
(5) Nellc note a Scslo Empirico, Bypolyp. L. I, o3. Qoesla senlcoM Senofaiie di
fare Iddio cos. mjla inlelligibile c immune allaHo da oga. Iiialenaie elcmeuto,
come appuulo Sono le idee, manifcslameolc apparisrt dai versi dello seellico
Tniione conscrvalici da Scslo, i quail sono: ' ^ iusegoo tiu ouwc M Ndh airuomo
siinil, ma d* ogni parie O A si
conforinc, c in ogiii loco ugii^le, X liilelligibil lullo, c tulip rociilc . !
Etj{ ai dt>furtn &tJr sVXaeaT' iVr drdm> smarts * * aV nspa. Di. I
I-. Vjl'* contenere la vera mente sibile
e materialc; e quella disae essere il tuUo, perchi conliene il tutto ideate, e
aola pnl^ chiamarsi enle per si, come sola sta Hypotyp, L. I, aa5. , (4) OTi
TaV ri ynnfifw tart. 5 7*> ricrve nuovo rlncalzo dalU difesa falta da
Plutarco del disco- polo di Senofane, Parmenidt: (i). (t) C6 clip mi comluro a
cri* dlvistone fit ip cose di scicnzB e quelle di opinione^ si 6 la coerenza
de' suoi ppniipri, cioc r aver egli formalo un dio raztonale abitanie in tuUele
cose, e raverlo non perlanto distinlo da lulto ci6 die ^ sensibile,
tnulnl>ile, perituro. Vero ^ die Diogrne dicp, che Parmenidt* non srguiloj!
siio inai stro Senofatie (L. IX, ); ma queslo io credo doversi intendrre solo
ndio stabilirc gli demenli dell* imiverso, ridotti da Permenide a due, mpiitrc
qiiatlro no to> leva Senofane, e in altre rose simiglianli. Che se iioi
volessiino prestar fedc n Scsio, pgli parrt'bhc chc Senofane distruggesse la
scienzn, e lasciasse solo 1* opinione; e die Pnrmenide fneesse il conlrarlo,
guarentisse In scienza agli \ioiiiini, p togliesse di mezzo Vopinione ( Seslo,
Mnlhem. VII, no, in). Ma cio dimostrerebbe appunlo, che la distinzione fra la
scienza c V opinions era faiia. OUredich^ Plutarco purga Parmenide da quella
taccia ; e Senofane sembra die solo in fine di suv vita iiiciinasse alio
scetticisiiio , come rile* vasi da* versi di Timoue altegaii da Seslo: ni*
potca cerlo dubllarne, allot* qunndo ricotiobhe avervi qunlche cosa d*
irnrnutabile e di uriiversnle. ollraccio esponeiido in tal modo la setilenza di
Senofane, diebinra di farlo giusta il parere di alcuni che cost PinteudonOi Ad
ogrii modo, quando atico Senofune ndia sua vecchiaja avesse lolto a du* bitare
della certezza deil'umano sapere, ririiarnbbe tutlavia fpinia la distin- zione
dd senso come rappresenlazione, c dpi ragionaniento chc f.i uso dclle idee; 11^
egli gla avreblic prestata piu fede allc rapprpsentaziont scnStbili, die
sarehbe statQ un rimbanibire, dope avernc conosciu'.a la fdlUcia. Egli adun que
sarebbe solo venulu a diHidaro del ragionameiilo, osservando gll sbagli a cut
va soggetio; e pcr6 I'avrcbbc dichiarato hueno a irovarc la proba- bililh ddle
cose, in vecc die la certezza. In qiiesto sislema sarcblic slato seinpre la
ragione, e non il senso quelio che avrebhe dato alluomo lulto do die vi potesse
aver di megtio nd conosccre, cio^ la probabilila. Sono Ip sipsse parole di Seslo
die nii autorizzano a dir cio; le quali non possouo csserc piu chiare. Ecenh':
ir Sccondo la scnlenza di lui (di Senofatie), H cio die giudica sarebbbe la
ragiovb opinabilb (rai* iol^tTror Xe>9r\ cioe M quelln che abhraccia il
prohahile, e non quella che seguita ci6 che ^ fermo e Stirnabile : OjTf ^i'wlT^ai xarei Xajsr,
TooTfVTr, T9W I'lasrof , /u rof roo oo ( Seal. Eiiipir., j4di'ersus Logicos,
Vll, no). Riman dnnque sempre la raglone, e non U rapprescnlazionc sensiliile,
il principio del sapere, spcondo Senoninc. Di chc appariscc, che Parmenide non
si sarehlic scoslato dal suo maestro Senofane pouendo nelie idee tutio i*
uriiano sapi*ri&, ina solo ocll*H5seguaru il grndo di cerlerza a queslo
sapere; e rimo e Tallro avrebbero egudimente ricoiiosciuto quanto grande error
$ia il considerare le seostizioni conic rp- presentntive ddle cose. Parmenide, dice Sesto, cond-innu la ragtone
upi- M tiabile, cio^ quella che si fonda sopra percezioiii maucbevoli. Pose
poi, u die cio die giudica sia quella raglone la qual nasce dalla scienza^ die
^ Digitized by Coogle Q'jcsl' ultimo, aUro illustre italiano, fii pure
accusato, come vedemmo , ch' egli , ammettendo solo 1 idea , aunientasse tutte
le cose materiali. Ma Plutarco il difende validamente ^ perocche egli u non niega,
dice, le sensibili cose, ma mostra che cosa usia VinteUigibile () E dice, che u prima di tutti gll altri, e
al'istesso Socrate, vide nella nalura essere Vopinabilc e V intel~ uligibile
i> (a). Ma questa distincione fra 1 opioabile e I'inteU aligiblle, fra
Iopinione e la scienza, sebbene la facesse Parme- nide prima di Socrate, non
credo io che egli per questo fosse il primo a farla. Certo, lasciando
Pittagora, che sembra averla posla a fondamento di sua dottrina (3), il sno
maestro Seno* m quanto dire da quella che non pu6 errare, ne essere inganoala ,
riget* M lata ctiandio la fede a* sensi >*. Tlofus*i^nf t ioyiO too
#*;t5rr9{ d o'lriTrnfjtiriniv , TOP tl^ioivTttrop, t/Vi-^ir dvaa-rac
*.A/athem.\U,g2).Q\xindi t le cose iotelligibili, o idee^ dicevano non esser
comprese che dalla mente ( rojrra aVo too poo), le seusibili dal senso ( degli
antichi corrispondcre ad un getiere di cio che io chiamo persuasionc >*. La facolt^ della
persuasionc 6 per me quel potere che ha Tauima nostra di persuaderci una cosa
anchc senza fonda- mento ragionevolc: di che Torigine degli errori (Vedi iV.
Saggio Sez vr. cp. XV). Presso i Pittagorlci k celehre la dottrina del
quateroione attrihuito al* Ianima,! cui si riferisce il luogo citato di
Jamblico. Secondo Plutarco ( De PlacU. I, iii) ed altri anlichi, questo
qiuiernione non era allru se non la distinzione de* qualtro modi di percepire
che davano all' anima , e che chiaroavano co'nomi di mente, scienza, opinione c
senso {pojv, intt^xunp, ^o^ap, o'lV^rr). Nel passo di Jamblico, e in questo di
Plutarco, la pa- roia M mente n ha significati diversi; e lanle volte presso
gli antichi quest! diversi significali producono equivoco, e rendono difficile
assai rinleltigeuzaj RosMitti. Il Rinno\omenlo, j3 5- fane pOM alnieno la l>ase
di ^uella distinzione, teparando le cose immulabili e non generate, ma divine
(le idee), dalle mu- tabili, generate e periture, e alle prime sole coocedendu
di es- sere sede allintelligenza. Ma tornando a Parmeaidc, dice IHutarco ch'
egli metleva r intelligibile nella forma
dell uno e dell enle, chiamandolo ente, come a dire elerao ed imraortale, e uno
per la sinii- ugliansa di si medesimo, e perchi non ammette diflerenza ve- runa
, oiod per Iimmatabilita sua. Nella forma poi inordi- nata, e die trovasi in moto,
melte la Datura sensibile (i). Or ecco i due principj della scienxa e
deUopmibne.' la scienza c r inlelligibile^ Iopinione i il sensibile preso alia
volgare, cioi come rappresentazione delle cose. Quanto alia come Tuuo tietmmcri: ati extmplum umns
compoiita cst, quae sic iUoctiUter domitintur m corporCj, su'ut unum in
fiumeris> CiHudiano Mainerlo, De stntn animne, !> llj vit (2) Judictum
rationcm tt-se tUxU: sensusqut minus tsse exactos ei neos ad jnHicandum. jtU
tnim : Piec tiOi communis setisus [tersuadeal unqitans QuiCifunm ut Jnilaces
oculi, aul ut judicci auris, Jnl at rath dirimnt discrimina return, T| T|
d*df^ttp* Mir el >IK vXctVf/fcr xard a9X9T9$ dppa xaC aMuntt K/' x^txai it
Xiyp ^tXyiwHx Lib. IX, Si'gm. 22. Wa^piwiiw Tl ^I'wr rrrV 'r9Xc/cl^ir, 0{ i*
99% oVaVir^ ai'fyfixer) LU>. IXi, Segrn> 2St (4) VkA Arist. Pbys. I, n tv; III, is; Dc Coclo III,
i; De Sophist, etetith. XXVill.
>iiitpl. tn drist. 1. c. Cic.
dc Qanest. IXj 37. St>io llypol III,
05 j AtU. MuthcM- X, 46. Slob. E{.l. L Digitized by Google 58o Or poi,
dopo stabililo il priiicipio geoerale che le sensazioni non sono fedeli
rappresentazioni delle cose eslerne, qiiesta scuola si appUcu, come esigeva il
natural corso dello spirilo, ad esa- minare e rilevare ragguagliatamente quali
fossero tali infedelta o discrepanze fra le sensazioni considerate come
rappresentative dclle cose, e le cose slesse. Gia Parmenide e Melisso avevano
cominciata una si fatta invesligazione, e portatala flno a ne> gare che la
sensazione fosse testimonio fededegno del movimento de' corpi. Zicnone,
filosofo acutissimo, pure italiano, udilore ed amico di Parmenide, rec6 roolto
innanzi con incredibile sottigliezza quesla indagine; e con essa scredit6
aflatto tutto ci6 che si vo lesse dedurre dalla sensazione quale
rappresentazione delle esterne cose. Egli mostrCi, che queste cose esteriori,
ove fossero tali quali la sensazione ce le ritrae dinanzi, sarebbero piene di
assurdi e impossibili : e pare che ne conchiudesse, con on salto veramenle non
logico di argomentazione, un assoluto idealismo. Se egli vero ci6 che si aflerma , che Zenone di Elea
vc> nisse per tal modo ncll' idealismo, egli avrebbe guastata la (ilo- soGa
elealica , recandoiie alP eccesso il concetto fondamentale che era giusto.
Imperocch^ quand anco egli fosse ginnto a pro- vare, che niente di tutto ci6
che ci mostra la sensazione presa come rappresentativa i vero, ma anzi
ingannevole tutto, rima> neva sempre a prendersi la sensazione come un mero
segno ^ il che avrebbe date luogo ad argomentare Iesistenza di un es- sere
esteriore, sebbene tale di cui non ci sia oOerta la forma e la intima natura^ e
questo potea e dovea guardare la scuola di Veggia dall idealismo. Per altro ciu
che dissi ^ abhastanza a dichiarare la celebre e antichissima distinzione fra
la scienza e la opinione: distin* zione in cui convennero da prima le due piii
illnstri scuole G- losoGche Gorite presso di noi, la pittagorica e la eleatica:
dal- ritalia poi questa distinzione pass6 in Grccia, ed entr6, per quanto io
credo, nclla scuola jonica. Anassagora , jonio, fu quello a parer mio, che
approGttu dei lunii di Pittagora c dc suoi discepoli. Si disputa assai cercandu
che cosa fosse la inente aggiunta da questo Glosofo alle cose, quando aiichc Talcte
avea ricunosciuto la nccessila di una mentc. Digitized by Google 5H ( lo credo
probabllej cbe la inentc di Talete non fos.se che mi pnncipio attivo posto
Delia oatura dcllecose^ airinconlru Adh'>- sagora, approfiUando delle
receuti dottrine di Pittagora, pose Panimo suo a meditare non pure supra un
priiicipio ejjicicntey ma sopra una causa escntplarc^ cioe sopra un'idea del
iiioadu preesistenle a1 mondo slesso. Mediante questa considerazione egli pole
separare al tulto la inente ordioatrice, dalla materia, cio che non si potea
fare col concetto d'una causa solamenlc cfTettrice (i). Imperciocch^ non ^
altra via onde noi possiamo argomentare alia semplicita dello spirito, se non
partendo dalla semplicita delle idee intuite dallo spirito (a). (i) Che il roerito
di Anassiigora slia in aver sceveraia c divisa la mtnic dalla materia, cbe i
suoi anlecessori o confoudevauo con essa o a lei vole* vaoo per iiatura
coDgiunta, apparisce dalle tcstiinoniuuze degli aohehi. Ari- stulele dice, cbe egli pone la incote come principio roassimo
di tuttecose: M e sola easa di tuUe le cose esaere seiuplice, non miala, pura e
sincera m: nxV >S udXtTTet T9rrttP- /49fOP ^notf aopip rttp omtp aVXac/r
1^1x1/^ t,at afttyi rt xa' i* rf dorf afXf* ^iiwVaffr xa siciio atiesta
Plutarco m Ptride; e Tertulliaiio de Anima aggiunge, che non solo Anasaagora
fece la meiite pura da ogni mistura, raa tale che o^piireai pu6 niescoUre con
cosa alcuua (incommiscibdtm ) ', col quale altribulo ricu- uosciuto uella
menie, o ideaj egli venue a protuggere la verita e la cerlezza coolru gli
assahi di quegli acetiici, che oppoiigoDO Talterazione che pu6 produrre in easa
lo spirito che la concepiace; conciossiache provato cbe Ildea non si possa
mescolare con cosa alcuua, rimaa pura e uguale a s6 isedeaiina anche uello
spiriio. (a) lo debbo notar qui uel C. M. uoa petizioue di priocipo, che sola
ha- sterebbe a ineltcre in terra il suo siatema di blosona. Egli parla delf
uuiia assolula di pensiero ( P. IE, c. IV, 1), o delTuoilii assoluta del nostro
cs* sere inielleltivo (P. II, c. V, iii ) , o delT uuila deU^nimo (ivi), o del
principio apootaneo (ivi). Egli duoque parte dalium/d del so^^etto per
ispiegare luUi i fenomeoi iolellettivi : II principio nostro apootaneo uou ceaaa mai, dice, di radunarc le idee in no
cotal cenlro d intellezione per* M fetlo cd iodiviaibile M ( P. 11, c. X, lit
}. Da questa lacolt^ di unilicare Delia propria unila le percezioiii, come pure
da quella di dividerle, il C. M. deduce m due alti assai singolari: Tuno e di
percepire pm cose ad uu u tempo Tallro
di seutire isolalatneuie e iirinodo uno, iulcro e aasoluto, Tideiilico e il non ideolico, i qu.ili per
eulro le cose giacciono quasi seinpre
ineschiati, iudeiinili e inlerrolli m (ivi). Or di questo tdeniteo , che
rHiiimo uosiru percepisce iicile cose, il C. M. deduce tulte le idee uoi-
versali, Ma v* ha di piu. ^ Tuuita del soggetio percipieiile quella che pro-
duce interiormcnle il couccUo della sostauza, Inipcroccbe m le sosUuse, dice
Digitized by Google Ccrlo apparc mantfc^lo, die dal tempo di Anassagora la
setta jouia, cliianiata de'^jici da Anstolele, assunsc un altru carat- * il C.
M-, uoii si rappresenlano all aiiimo nostro, salvo che per )i loro M jtiii,
cioe a dire per modi e accidenli sirnlli, ovvero dlssimili, ciascuae M He*
quail in s^ medesimo coosiderato lia forma finila e discoatinua stso* chi scrittori risguardanti la storia della
sella jonica, non po> Ira a meno di riconoscere I' iuilueoza che sopra di
lei eserci- tarono le due scuole italiane di Piltagora e di Senofane, che nclla
sostanza insieme s'avvengono (a). Sesto Empirico, esponendo le opinion! degli
anticlii sul i^ri- terio della verita, dice, che u i primi I quali sembrano
arer uintrodotta la questione del criterio, sieno slati i ilsici venieuli u da
Talete i. (4) Qucsto i do cbe Teodoreto espressameotc alTerma: I filosori anle- I riori ad Anassagora, dice,
non avevano ripensato se non quelle cose che * cogli ocelli si veggono j#:
Ara^^afOC vor -rfj dinoS ytytnfiiimx
tAtfiptn wVi'r tifairt'ftt Tor ifufuxm nranimr, rfi!n( r lOvrar tpirrarai
xt'aftfi, xai' rtuTtr /{ va'J/r rff dra^i'af dyayiit rd De Grace, .dffict-
Stem, II. . (5) C(Ti a* |utr Axafyiyifaf xoimt Tar Aa^ar I'ov afiTv'fiaa
I'lrar. Adv, Muthem. VII, 91. 54 Kil cntrato in qup>:lo nnnvo ppncn; r i*
afira'figr Iwii* 9/ ifi' rii/Jj- yefitat'. Ter Xfljar fAr ^ereir, w xcivui ii'
r oxo rarr ri- fnifc'/iitir, xa^a'Tif I'Xs^i xai' ' iX5Xoac Adv. Malhem., lib.
VII, 91, 92. Queslo placito de Pillagorici che non iacevano la ragione idonca a
guidi- care del vero se non ajulata dalla disciplina e dallo sludio, accenna il
ca- ratlere Iradizionale della scuola di Pittagora , carallere da me gia notalo
nil N. Snggio, Sez. IV, c. I, art.
xxvi. Digitized by Google 5S il nimilf pno percepire it simite n (i). Ma un sV falto principio generals I'utlribuisce in
proprio aglitalici: sicchi da quest! ap> parisce esscre trapassato agti
jonii. E prima accenna a qua! modo glitatici to intendessero. Essi dicevano,
clie ta ragione (Xoyov) era naturalmente con- templatrice di tutte le cose, e
per6 dovea avere una cotal co- gnazione con tutte (a): (ilta, in cotal modo
conteneva tutte la cose in si, e voleano dire, che te conteneva nella loro
essenza ideate. Or perchi poi alia mente o idea davano, nel lor liit- guaggio,
Iappeltazione di numero, perclu afferniavana eha A1 numero somiglian tutte cose (it); i) qual numero, o idea, lumc della
mente nostra, appcHavano anebe
delleterna natiira Radice e
schiuso fonte (4). Or, che Anassagora
si aduoasse cogl'italici in queste sentenze, confermasi appunto dalP osservare
, com'egli applicava alia spie- gazione del conoscere nmano, il principio
generate che il si- mile si conosce dal
simile , alia stessa guisa che faeevano r Pittagorici. Conciossiaehi questi
inducevano, come vedenimn, che Ianima avea la sirailitudine (Iidea)- di tutte
le cose: n, che i il medcsimo, che avea tutte le cose in se, non raate-
I'ialmente prese e nella loro sussistenza, ma nella loro idea o pussibilila.
Ora non altrimenli la intendeva Aii.issagora , come chiaramente attesla
Aiistotcle. Peroechi tanto i hiogi , che dal (i) v*ro TOO i^uoo ts SfMtw, Sezt.
AHv. Math., lib. VII, 91, 9^. (1) el cum
(ratio ) lit univeraorum naturae contemphUrix 1 habere ijunn- d*tm cum ea
cognationemg cum sit naturd com/taralum ut simile comprehru^ ttalur a simili :
^tufirrnoe ti gyza rfc ruf SXus Tivd nuTwt t tvliVtp Cxo rou out*eo to euoiaf
saraXuiij3dsS9^st sri^yx#. Ado. Math., lib. VIh 9^^. (3) Vedl Srsto Adv.
ituth., VI, 9^. U >vi. Rossimi. Il RinnoyanKnlo. 7'{ Digitized by Google 586
bisogoO che avea la raenlu di esscr simile a tulte le cose per conoscerle
lutte, inducesse che la mente fosse matcriale, che anzi da ciu appunlo
I'argomentava seiuplicissima, il che
quaoto dire, non parlecipe della natura individaata c sussistcute delle
cose, ma pura e scevra da qoesU, e non aveote che la loro sitiiilitudine o idea
setnplicissima: Dice (Anassagora) (cost
Ari- ustotele), che tutte rose sono miste , ,eccettnato Iintelletto: u questo
solo poi essere nienle mescolato, e puro n (i). Or qoal ragione di ci6 adduce?
Fece I'intelletto unon misto , soggiuuge Aristotele, accioccb6 superi e vinca, che vuol dire
accioccLA u coDOsca n (3). Ponea dunque Anassagora nell'animo 1. la
aimililudine di tutte cose, cioi I'ente iutelligibile, I'idea^ 3. po- nea che
questa similitudine fosse semplicissima. Or tale i quanto iusegna I'italica
filosoGa. E or tocchiamo un poco de Gsici, Goriti dopo Anassagora. Egli sara
assai facile di accorgersi, che ove anco non abbiano abbracciato al tutto lo
stesso sistema , e sieno caduti exiandio nel materialismo, tuttavia veggonsi
imbevuti degli stessi prin- cipj generali. E quanto ad Empedocle (3), die noi
di sopra abbiam v- duto esser dichiarato materialista da Aristotele , qui ci
place osservare, come egli potrebhe essere inteso assai piii benigna- mente.
Certo, se noi ci atteniamo alia lettera, vedremo in al- cuni de' frammenti
rimastici di questo grande siciliano, il ma- terialismo apertissimo. Ma al
sistema suo letterale noi possiamo per avventura contrapporre quel sistema che
ci risulta dalla coe- renza de' suoi concetti, e che ci sembra perciA 1 intimo
e il (l) liVvi vclirra , mile non pu6
essere conosciuto die dal simile n, eonchiudeva, che Panima, la quale cOnosceva
tutto , doveva esser simile . a tutto, e avere in sh terra, acqua, aria, fuoco,
discordia e con> cordia. Qnesta maniera di parlare porge certo Pidea di un
groSso materialismo. Ma appunto perch^ egli sarebbe sformatamente grosso, e n6
pur degno di un bifolco, non conviene senza gravi cagioni attribuirlosi ad uom
dottissimo, sopra tntto fiorito dopo Anassagora, e dopo le alte speculazioni
italiane. D'altra parte egli scrive de versi , pe' quali si suole usare uno
stile meta {vjco tov ofioiov TO o^oiov). Or questo principio non esigeva gia di
com- porsi I'anima di tutti gli dementi materialmente presi-, ma solo esigeva
che nelPanima ci fossero le timilitudini di tutte le cose, o sia le idee. d. Se
Empedode avesse crednto che ci bisognasse la stessa matena per conoscere la
materia, egli dovea porre nellanima tuttb intero il mondo; perocchi ne sarebbe
seguito, secondo un tal modo di ragionare, che un poco di materia non avrebbe
potato bastare che a conoscerne un altro poco, e non piii. 4-* Trovo che
ndlanticbit5 stessa Empedode venne inteso piu ragionevolmente di quello che
faccia Aristotele. E vera- mente Sesto Empirico giunge a metterlo insieme con
Platone e con .tutta la scuola di Pittagora. Egli espone prima, come Platone, a
mostrar I'anima incorporea e al tutto semplice, iisasse quel modo di argomentare
che abbiam veduto adoperato da Auassagora, e che sta in riconoscer Ianima
semplice perchi intuente le idee, che sono essenzialmente semplici. Dopo di che
soggiunge: tale essendo I'opinione di
quelli che di molti u secoli ci hanno prcceduto, fu sembrato trovarsi ndia
opinione u stessa Empedode; e avendo egli posto, che le cose tutto con-
Digitized by Google 589 KStano Ji le! principj, pose allres\ tei essere i
criterj del vero, Kove icriise, Colla
terra ia terra, e veggiam 1' acqua u Coir acqiia , ed il divino aeru
apprendiamo Coiraere, e il foco col lucente foco, E la discordia ed il Concorde amore pcdocle con s slesso, e porlo in accordo
collo sviluppamento della iilosofla nel suo secolo, a cui il sappiamo esser
giunto. Perocchi ci t noto, die Empedocle pervcnne, con tutti i filo- ao6 jonii
dopo Anassagora, a dilTidarsi della rappresentaziona de sens!: e avea
conosciuto, die non ne' sensi, ma nella ra* gione sola si pu6 cercare il
criterio del vero; solamente, cheegli distingucva la ragione divina,
dalPiimana; e a questa non at- tribuiva se non il potere di trovare il vero
probabile, anzi che il certo, come vedemmo esser avvenulo di pensare a Senofane
in sua veccbiezza. Odasi ancfae qui Sesto; u Altri vi furonn, ttche disscro ,
giusta la sentenza di Empedocle, non doversi
giudicare la verita co' sensi, ma colla diritta ragione: la ra- il gione
poi esser parte divina, parte umana; delle quali la di- Kvina essere
inefTabile, atta a parlarsi P umana (2).
Per tutte le quali cose con ssnno scrisse to Scina, che, a itcreder d Empedocle, le sensazioni sono
reali. Ma le medesime (1) Tont/tnc ou9n^ vsr^a roti ttcixi xa/ ^ rat/rn rt
cc/Vmi* rwr ra iraxTa Tt/ytTraxt//^x ruvra/g ra xftriifta, Ttun fAfx ytSf
oVivVa/ifr# dtvrt 9*rdf ^TOfynx riixo( n xtixu Sexl. Empir. lao, (2) AWci
Jaflfp ei* Xi*}0pr(( xara toV EuTtcTax^t'a^ x^irm'^iox tiwi ti*c eXwT|ia(, pi/'
rag aCa^-itjug, a'k\a rex df^ex roo J# 9f^9u Xeyevg rex fjtx rfxx ^tTex
dvdf^ux' tx tf# dx^fd'wtxex ax row fAtx ^ttex, dxt^otarex iirati* rix
dx^fdvixox, d^otTrpw. jitU\ VII, I22, Digitized by Google Sgo non rappresentan mai le quality cIik ne corpi
appariscono; u niill'ahro essendo, che altrettanti modi del nostro sentire*
(i). E anrora : La scuola jonia avea
talmente confuso le sensa* Kzioni cogli oggetti, die scambiava quest! con
quelle, e tenea tile une, non altrimenti che immagini fedelissime degli altri.
K Non cosi pensarono i corpuscolisti (a). Quest! separarono, dir6 cosi, le
sensation!, dagi! oggett! che le cagionano e muo- Hvono, ed ehbero quelle corae
soli e semplici modi, qual! di fatto
sono, del nostro sentire. Costoro quind!
solean chia- mare cognizion! d!
apparenza e d! opinione, e non gia d! ve- nrit^ e d! realta, quelle che s!
traggon da* sens! (3). Or veniamo ad
altr! discendent! della scuola jonica (4). Tro* eremo il perpetno carattere
ritenuto da questa scuola dopo Anassagora, d! aver cioi rigettate le
rappresentazioni de' sens!, e teuuta la ragione come perrettrice della verity.
D! Eraclito, ccco c! crito fosse discepolo del vecchio Anassagora , dal quale
sem- Lra aver tolto, in parte o in tutto, la dottrina del criterio della verita
(4). x'ti XafijSavtrtr ri tff fitt rfo^it tvarriaw atWt'of, Soxl. Ernpir. yidv.
Logic, VII, i3i. Arislolele poi, ncl IV dilla Metnf. Lei, XII, airtTina, che
Cratilo ed ahri irguitatori d'Eraclilo st abbandotiarono alio scetticismo
perche non videro nieole d* immobile iiclla naliira: ed aveano per cerio, cbe
seoia qualclic cosa d' iroinohilc c di costanle tioii puo dar5i in modo alcuno
cogniiione. (1) Aa/iitafiTa( Lrt jui'i* dritfu' rd qttxdtJtra xai* rod- TMr
Xt)ti nard dXx^tt'rf , dXXd fjcvop aard cfs^ao* cf f tp* ru'i idrtf CrdfX^*'^
dri;xai>\ ttpat / xfreV jid^. Log., VII, 1 55. (2) Otmodo xai xtrd roCroo o
Xdyo^ xiVr/ r yrnrtnf yfdfxwx aXtr* Adv. VII, 1 59. (3) DicUaulem (DemocriUu) ad Ptrhum: m
Cognitioms duae sunt spe- M cics : altera genuina, altera tenebricosa. Et
tcnebncosae ijuidem sunt haec H omnia, visus, ouditus, ol/aclus, gustux,
tactus. Genuina autem, qune est f* ah ea sec/rta m; A|>li xard Xi^/r.
yvdfxxi d# ^dc iiV/x 4 jrayiV a d|, oasr/V ttat axort'ni ptw raV# avurapra,
dxom , cV|U, ysCatU 4**'*^K* * yfnat*x$ aTflxi'xft/u^lVn it raurni* Sell.
Einpir. Adc. Log, VII, 139. (4) Laerzio, IX, 34* Che pigliasse da Anassagora,
si dice in qneslo liiogo di Seslo; Dioiimus autem dicebat ex jtjus sententia
esse crtteria verttnUs tria. Ad eorum quidem quae non sunt cx'idenlia
comprehensionem, ea quae apparent, ut dirit Anaxagoras: quern propUria laudat
Democritus. Quncslio- ms autem, notionem. w De quolibet euini, o fili, unum est
principtiim, scire t id dc quo est quaestio HEligtndi autem etfugiendi
criterium,aJfectiones^ EAnuoi it Tf/a X9T* aoreV iXf>tr fsip rdp aVxXisx xa
raXx4l( * c^ipopixa, ^tip op |*t/* Toi/Vp ^xpexftrof sratpu'. a Tw tpp9saf Tiff'
Tjcrraf ydf d Ta* uda df^d if** Digitized by Google 5ga Per tiitte le quail
cosc raglonate fin qn! apparlsce manifestn, come le tre pill anticlie famiglie
della italiaua e greca fllosolia, alle quail $1 rlconducono 1 dettami di quaotl
In Grecla poscla filosorarooo, vennero concordemente a riconoseere, i.** che 1
seiisatlool come rappresentatlve delle cose esterne non merltano alcuna fede;
a. ch'esse percl6 non porgono alio splrlto nluna cognizlone, ma solo mettono In
lul un segno, dal quale pu6 I'uoino argomentare alcuue verita^ 3.* cLe ad
argomentare dalle seosazionl lall verl, essenzlalmente diversl dalle
sensazlonl, uopu die, oltre le sensazlonl, sla In nol una facolta la qual giu-
dichi delle sensazlonl modlante le idee, e per tal modo coslilul sea il sapere
umauo. Questa facolt^ fu chlamala ragione. CAPITOLO Lll. DlenlARAZIONE rlU
AMPIA DELLA TEORIA DELl'eSSERE, E DELLA PRODVZIOSE DI TDTTE LE IDEE DA ESSO. Ma
egll i tempo die io ml faccla Incontro a una dlflicolta, la qual dee esser nala
uelle sagacl mcnll dl culoro chebbero 11 tempo da legger queste cose. E spero
dl farlo con dilarezza Diaggiorc, ove lo tolga a raglonar dl essa con alcuno,
s'l come per lo passato ho fatto , quando una materia alquanto Involta e
scabrosa ebbl alle manl. lo sporru dunque ci6 che ho nelPa- nimo, nel seguente
Di ALOCO. 3f. Voi ml mostraste, che le idee sono essenzlalmente diverse dalle
sensazlonl , immuni da ogni sentimento soggettivo e cor- poreo, di natura loro
eterne ,impasslbili, di uiia seniplicissinia forma, la quale o e veduta dallo
splrlto o non 11 che cl ga- rantisce I'oggettiva e assoluta loro verita^ e die
fiualmentc in esse rlsiede P cssenza conoscibile, che tull altrove Ih vano si
cercherebbe. Cl bo pensalo^ e ini chiamo convlnto. Solo non Jlrmi vffi' crop
iVtiV i Ji' Jta/ set TJii. yil, I ^0. Digitized by Google 5y3 trovo U via di
conciKare tnllo ciu col voitro sisteou dell unico ente ideate. A. Che difEcolta
ci avete? M. Non ponete voi oa sola idea aderenle alio spirito umano per
iiatura, quella dellessere? A. Si. AI.
Taltre non sono tulte acquisite? A. Si. I M. Or come sono acquisite, se
sooo eternef A. Sono eterne, ma non per questo necessariamcnie vedate senipre
dallu spirito: lo spirito le- acquisla. pur aUora eke le intuisce. M. Ma voi
dite anooca, che lo spirito nostro le iorma, le produce quests idee. A. Yero
che io nso queste maoiere di dire^ ma dichiaio aoco come io le intenda. M.
Cioi? A. Lo spirito produce, o forma le idee cbe soao diverse dal Iidea
dellessere indeterminato, col determiuare Iidea deUes* sere^ cioi ool
restrifuerla entro certi confini^ col farle per cost dire il conlonto di cui
ella k priva, tale quale si vede da noi per natura. Sicchi voi vedete, cbe
tutte le idee non sono altro, cbe sempre Yessere ideate variamente determinato^
c queita i la ragione perebi voi mavrete udito dire le tante volte, eke vha
unidea sola. M. Piaoerebbemi da vero una dottrina obe semplificasse tutto il
sapere umano ad una sola idea^ ma foitc i a me Iintendere questo sermone.
Quella piaata i egli la stessa oosa.oon questa pietral Iaequa di quests
peschiera ba ella nalla di oomunc col sole ckc in essa riflette ? ' A. Manriiio
mio, ooi pai4avamo didee, non di oose.
Af. Ma se son diverse fra loro le cose, non saraqno diverse anebe le idee delle
medesime? A. Non i questo jin diriUo ragionare: ed opposlo al boon metodo, oonciossiachi i un
ragionare dielro de principj sup*' ppsti a pribrif non provati, che i quell errore a cui io fo,
oorne sapete, tanta gnerra. Che necessita trovale voi, cbe le idee sieno
altrettanto distinte quanto le cose ? e che 1 essere Rosminij II RinnovamtiUiO,
Digitized by Coogle ^94 itIcaJc abbia Ic stesse.leggi dellnMere reale? A poler
aflermar clu, il Luon nicludo pre.scrive di adissarc Tuccliio osservatore dvllo
spirilo iiell'essere ideals, s nelPessers reals, e coo oster- vare quests due
forme dellessere altealissimamente , rilevaros le loro speciali proprielii. Le
proprieta o qualila delle cose e dslle idee non convieiie iiiiraaginarle, ma
osservarle. AI. Ma io dico: O Tessere ideale mi moslra qiicllo che i nellessere
reals, o no. Se lo mi mostra, nell'sssere ideale deb> bono cadere le stesse
dislinzioni che nel reale^ se nol mi ino- etra, egli non i atto a farmi
conoscere Iessere reale, e torna felso ci6 cbe voi dite, neilessere ideale cousistere
la conotcibi* lila delle cose. w V ji. Maurizio dolce, serapre lo slesso errore
di metodo, sem* pre UDO sfuggire I'osservare. Voi ben potreste immaginarne dt
quesli appariscenli ragionari a priori on monte, accavallare gli uni sopra gli
altri , fame riuscire un viluppo iiigegnosissimo , Gnissimo, ammirando. E poi ?
il vero abilerebbe in un altro luogo^ e voi non n'avreste mai veduto la faccia.
Permettete cbe *el tuoni un'altra volta: Non k con de'raziocinj costruiti sopra
alcuni ,piincipj general!, i quali bene spesso vengooo snpposti piu general!
che non sono, che si trova il vero^ ma si con delle accurate osservazioni della
natura. M. Ma che volete voi osservare nel caso nostro? A. Come veramente
^vvenga il fatto della conoscensa. DU temi ! quando voi nella vostra mente
aveste concepilo il dise* gno di una case, o, che i il medesimo, la casa
ideale, non ba> sterebbe qnesta sola idea percbe voi potesle fabbricare
anebe lina eitta di case tutte uguali a quella vostra casa ideata? avreste toi
bisogno d altri disegni ? non basta an tipo solo a rappre- sentarle tutte nel
vostro spirito, trattandosi di case uguali? E pur le case reali son molte,
quando I idea resta una sola: non > bisogno adunqne che tutte le distinzioni
che vi sono nelle cose cadano altresl nelle idee, e viceversa. . M. Questo r
intendo io benissimo. Ma non veggo per6 , che quelPidea sola bastasse a farmi
conoscere tutte le molte case che avrei fabbricato secondo quel tipo. Io debbo
agginngere qnaU die cosa a quella mia idea, acciocchi io conosca che le cate
reali ad esempio, che compongono la citta di.cui mi parlale, sono Digitized by
Google 5f)5 dircinilla. Pcrocchi io pMrci anco arere i) Jisegao in testa (iella
casa, e non averne fabbricaU alouoa, ni pensare ad ab cuna di reali. A. Vero e
qnello che dite, Maurizio mto, che io non posso conoscere le cast Kali la loro moltiplicita, se io non aggiango
qoalche cosa alia casa ideate che ho nella mente. Ma sta qnt appiinto la
questione, a cercare che cosa sia questn qualche cosa die debbo aggiungere all
idea della casa. EHe la que* stione di falto cbe> si dee risolvere, e alia
quale io ri richiaatavo. M. Non pnii essere che qoalche ahra idee. A. II solito
pKcipizioL il solito non ped
essere! it so* lito ragionarc a priori,
in laogo di osservare; indovinare, in liiogo dinterrogare la natura. Oiteoai, quelle ease' non le abbiara snpposte
Moi tntie ogualit M. Uguali. A. Sono fatle adunqoe secondo nnidca sota,,o
^oitdu piu? M. Secondo on idea sola , secondo un solo disegno. A. Lesser molle
o poebe, reaK o possibili, moltqdica duti- que t disegni? M. No. A. Dooque tion
noltrplica le idee. M. Ma come si cenoscono elleno adunqoe nella loro realta e
mohipHcitiit A. Dovete eonebtndeK iotante voi stesso; non col mollt* plicare le idee, non col
molti|>KcaK i tipi; perocchi il tipo o I idea h no soht di tutte; dunque in
altro modo : questa d la prinrra
conchiilsione che dovete metlere a parte. M. Kfa v lia egli un altro modo di
oonoscfiK le cose faort che per le idee? A. Ripetovi, constthate la natnra, e
il saprete. Chi vi auto* rizza a dire che non vi possa essere? M. Verainente io
non so immagtnarnti, che nulla sr conosca senza che se nabbia I idea; peroeckd
che cosa to inlendo di cio, di cut mi Manca I'idea? A- Niente, niente al lulto
intendete di cid, di che vi maitca I'idea. Ma qnesto prova bensi, che vi
bisogna sempro iidea a rojy^sccre ; ma non prova mica , . che colia sola idea
cono* sciutc tntto. Nutate bene la distiiKiooe. E noit potrcbt> egli cs*
Digiti^nd by Cnoogle 5i)G sere, cbe la cognixione nostra delle cose comiociatsc
coll idee, m a ella poi si reodesse compila con quaicbe altra rosa diversa
dalle idee? in tal caso Iidea cinlerverrebbe sempre, uia non sola. AT. Come Ga
possibile? Restringetevi a eonsiderare Iidea di un oggetlo, pura da ogiii altra
aggiunU. Con tale idea voi vi avete, quasi direbbesi, la cusa in progetto: ma
la sola idea della cosa non dice cer- tamente cbe la cosa realmenle snssista.
AI. Se Iidea i di cosa sussistente, mi dice cbe snssisle^ se e di cosa
possibile, non me ne inostra cbe la possibiliUi. Noi entriamo nellun via uno.
lo vi dimandavo prima, se Iidea p il tipo d una casa sussistente sia diversa
dallidea o tipo ideate duna casa pqssibile. Qnando ho io coneepito neU Ianimo
il disegno duna casa, queslo disegno si cangia egli, perchi io fabbrichi la
casa o non la fabbrichi ? M. II concepilo disegno non si cangia^ ed or veggo,
cbe se per idea ^intendete il tipo o disegno ideale duna cosa, qnesto ^ al
tutto indipendente e diverse dalla cosa realmente esistante, e non contiene n
mostra cbe la cosa possibile. Ma tutto sta a vedere, se questa defloizione dell
idea sia la giusta. Maurizio mio, non vogliaiu contendere di parole fra di noi.
lo non cerco, come gli altri abbian deGnito Iidea: ni mi obbligo a piantenere
le loro deGnizioni : poichi da me non si po^ richiedere nulla piu se non cbe io
dichiari quello cbe intendo per idea,' mantenendo poscia costantemente il
valore deGnito della parola. Ora questo lo fo. E se voi trovate cbe io scambi
il siguiGoato della parola dnrante il ragionamedto, Gite- mene avvisato,
riprendetemi^ ma sc la uso nello stesso sigaiG* pato sempre, non dovete averci
cbe apporre. E avverlite, cbe io ben credo, il signiGcato cbe ip do alia parola
idea esser qaello appunto dell uso universale di totli i secoli^ ma il provarvi
ci&, sarebbe on nscire di GlosoGa, e uno entrant in Glologia, dove io non
voglio mettere il piede, lasciando piii toslo a voi raz> zolare ne classic!,
come sulete fare, avverando se is colga nel giusto e proprio valore data daJluso
a quella parola. Ma per ora, egli e piu corto cbe voi prendiabt a dirittura la
parola idea come parola da me imposta all esseiua cpnoscibUc della cosa ') c
cost prendcndola , voi vedrete cbe 1 idea non i Bai di f DiyiiiZ-i (jo di ima CQsq, a die mai li ridnce se non
a riceverc da essa una cotai aerie di movimenti, e di senaazioni neceuarie al
buono stato del corpo steaso^ M. Ad atlro no. A. Dunque la casa k finalnaente
an rieovero del corpo, dove pii5 esser difeso dalle sensazioni moleate, e
acquistarne di pia* revoli^ i an ordigno andi'esso materiaie di certa forma e
mode. E cbe e questa forma e modo di cotale ordigno? M. Rispondero come ho
imparato da voi a .rispondere. Que- tlo raodo, e' questa forma della casa, i
determinata dalle sen- tazioni che ella produce in noi. Conciossiachi noi la
diciamo grande, se produce proporzionatamente ailuso sao delle seasa- zioni
grand!, bianca se produce delle sensazioni bianche eec. A. Dunque in fine del
conto il concetto della casa tutto si riduce al concetto di u un ente che
produce in noi certe sen* sazioni vrggendola, e certe akre tocoandola,
nsaudola, 'e cbe t fatto appnnto acciocdiifr cl apporti queste cotali
aensazioni m. M. N6 un dubbio. A. Or bene, qui avete gia chiaro e manifesto,
come I'idea deHa casa si forma in voi supponendo cbe in voi preesistn non
I'idea della cata, ma solo I'idea dell' ente. Perocohi sapendo voi gi&
prima , die cosa sia an ente , al primo ricevere die fate delle' sensazioni
della casa, voi potete dire con voi medesimOi che I ente da voi conosciulo i desso quello il
qnale vi pro- duce quelle sensazioni, ed i ordinato a produrvi qudle altre , e
potete dare il oome di com a quell' ente. Che se voi poi ri* cevete un altro
complesso di sensazioni tutte diverse dalle prime, quivi vedete di nuovo I'
ente, ma I'enle che opera diversaroente dal primo operare, e a cui pero date un
altro nome, per esem* j>io quello di albero, o di ncfiui, o di ele. E
peroccbi 1' un complesso di sensazioni i interameate separate e iodependente da
un altro, e v' ha un'azione interameate di versa che le pro- duce, voi dite che
v'hanno due, tre, o piii enti diversi, che is quanto dire due, o tre, o piii
principj immediati di azione, secondochi le sensazioni sono diversamente
complesse e legate insieme. Che sc all opposlo , voi non -vedesle panto Iente
in si Digitized by Google per nulla di
voi , ne divehtando inal voi oggetto a voi stesso. 31. Parmi cbe la cosa vada
di piano. Acciocchi adunque v' abbia un principio in noi ragio* liante, il
quale dalle sensazioni della casa trapassi a .iiidurna la sussistenza, non e
necessario cbe anteriormeiite alle sensa xioni sia gia in noi Pidea della casa,
ma basta cbe in noi sia r idea dell'ente^ perciocch^ una casa da noi concepita
sussi> stente, non i altro cbe un enie cagione in noi di certe deter*
niinate modificazioni. Ricevendo adunque in noi qiieste, con* cludiamo cbe un
enle sussiste^ la dove se Iento comnne non vedessimo, questa conclusione ci
sarebbe impossibile. M. E or parmi oggimai d'intendcre, cbe cosa sia quella
cosa cbe si dee aggiungere all' idea per conoscere i suSsistenti.^ questa cosa
sono le sensazioni. ./f. Appuulo. Ma badate bene a non confondere insieme I due
ulTicj cbe ci fanno le sensazioni. A/. Quali? Qiiando riceviamo delle
sensazioni, noi diciamo tosto: qui ci ba
un ente . II dir questo, suppone indubitaUmente cbe precede in noi I'iotuizione
deU'eute, peroeeb^ nelle sen* sazioni, come abbiam vedulo, esso non e. Ma Iente
cbe stava in noi, non era cbe I' idea, e questa non ci dicea se quell' ente
sussistesse. Le sensazioni ci persnadono, cbe quell' ente cbe A a noi cogoito
in disegno, anebe sussista. Questo & il primo uf- ficio delle sensazioni,
Passiamo al secoodo. Noi non diciamo solo, al sopravvenirci delle
sensazioni, vi ba qui un ente ma diciamo
di piii, vi ba qui un ente cbe ba
prodotto in noi tali e- tali modiGcazioni . Ora il dir questo, i uu deter*
tninare, mediante descrizione di coofini, I'ente di cui si tratta: il grado
lirailato di sua attivita i: ci6 cbe lo determina ad es* sere piii un ente, cbe
un altro. Qui voi vedete cbe cosa io in* tenda per la produzione di una nuova
idea : non intendo sc Roshini. // liimwamcnLo, 76 Digitized by Google 6oi non
I'cnle, II vrrcljlo enin, I'riile spniprc prcscnlc al noslro f^pirilo, m:i
iinovninioilu (Jclcrniiii.ilu , rioo llmilato a quel ^railo (li allivila chi; e
segnato ondc un enle liniilalo ideale, che si suol cliiamare anche unIdea. AT.
Non poca luce mi viene da di'i che dicesle. Intanlo lo veggo bene, come le
sensazioni mi muovano a dir sussislenlc in un modo liniilalo quell enle ideale
die prima vedevo, e pero come esse m'ajiilino a percepire i sussistenli. Veggo
come io possa avere un'idea sola, e lullavia percepire ihnnmerevoli sus-
si.sleuli, ^urche li percepisca co sensl, o glimmagini colla fan- tasia; e come
il numero di quesli sia delerminalo dall'allo onde gli affermo, e queslallo
dalle sensazioni o immaginazioni a cui esso alio si rapporla: perciii come i
sussistenli non si conoscaiio medianle le idee sole, ma coll aggiunla alle idee
dunc^e//nci- zioiie , chc noi formiamo in coiisogiic-nza delle sensazioni die
piviviamo; e come perciti non sia necessario che ad ogni sussi- slerilc
risponda unidea, essi ndo bensi uopo die gli corrispoiida Digilized by Coogle
(Jo'.? un roinplcsso tli sensa/.ioni vere o !mma;;inaric, i (jnali varjcom-
plessi si liporlino ad uuulra slessa uguale perjiilti. Veggo au- rora, come
clascuno d! qucsti coniplessi o sisteini di sensar-ioni joesli ima colal misura
dell allivila dellessere; e pero come fill a lanlo che resta di essi in me
nierooria, io possa scrvir- nicMC a concepir Iesjere fornito di nna atlivita
limitala secondo (jiirlla misura, e queslO essere cosi limitato costituire
I'rdea spe- cialc, U!i cute possibile speclale, uii inudello delerntinato di un
elite. Ma dupo tiilto cio, cpiaiile difllculla aucural e senza il vo- stro
ajuto roe i>c dispero. A. Mi piaccra di udirle. d/. Da prima, quando io
aOermo IesisteBaa di ua corpo, I'ali'ermo io denlro di me, o fuori di roe.' A.
Ne dentro , n4 fuori. M. Oh bellaf dore adunque? A. k) affermo Iesistenia di
quel corpo in ik stessu. M. Ma il corpo non i egli uno esleso? non lia
lunglicar.a, largbez'za profoiidita? non
e akneao fuori del roio, come dogualtro corpo? A. Tutlo vero. M. Dunque se io
afFernio il corpo nello spazio , dev essere fuori di me, e debbo anckio essere
nello spazio. A. Conseguenaa graluita. Leffetto dellaaione del corpo so- pra di
voi sooo le sensazioni. A queste appartiene lo spazio { i ). Voi inducete
Iesislenza di un ente, dal sofferire die voi fate le sensazioni. Non uscite
dunque di voi. Ma pcroccbe alle sen- SHzioni appartiene il fenomeno dello
spa/.io, voi dile elic que- steiile produce un tal fcaomeiio che si ckiama
spazio, e di lui lo rivestite; cio6 vi serve lo spazio della seosazioue a
misuraie IaHivita di quell ente cite I'ha prodoUa, e il modo di queslal-
tivita. 11 coqsiderare il corpo come un cute, a vedere il quale lo spirilo non
ha bisognu di spazio, egli c piii vero, clu: il cou- siderarlo in relazione
colie sensazioni estese. 1 volgari slaiiuo ncl mundo delle scmadom, e perd non
possooo uscirc col pen- (0 Circa queslo argdiiiciilo io riiiu-lto i lellori al
ti. Stiggio , Scz. V , c. XVI, e c, XVII, ail.'xu, e c. XIX, dove ho provalo la
ivalila della isli'iiaioue. Digitized by Google r questo inodo: mi-. cbe I'idea
di cavallo, di uomo ecc., non sarebburo etcrne, come voica Plalooe, nella loro
entita speciale di cavallo, di uomo ec., Dia solo nella loro universalila di
enti. Ora in tal caso la teolo* gia andrcbbella contenta del vosiro sistema?
non dice s. Ago- slino, cbe singula
propriis creala sunt rationibus? e cbe hu- mana animn naturaliter
divinis, ex qmbus pendel, rationibus coruiexa (est)? cbe in somma elernc sono
le idee proprie di tulle Ic cose, e in Dio, e noi in Dio le veggiamo? ,
Mauriaio mio, ancbe s. Agostino avete scar^bellato? prima iu mi ccedea cbe ogni
vostra delizia fosse nel Vocabolario della Grusca: poscia venni a sapere cbe
macinavate ancke della Glosofiu^ finalroenle mi vi scuoprite ora uti vero
Infarinato di Teologia. 3f. Son tulle cose cbe apparai collo starvi sempre a'
panni, e collo scrivere le oose vostre. /I. Or bene, lo non vi nego mica, cbe
le idee peculiiwi della cote create, sieno in Dio dA Inlla I'eternita. Ma dico,
cbe le idee onde noi conosciarao le cose , quanto alle drterminazioni
particolari, non sono quelle slesse onde conosre Iddk), e solo nel loro fondo
comune custiluito daU'entc ideale,'etse sono identicbe a quelle cbe stanno in
Dio, con questa immensa diP ferenza perA, cbe Ienle idrale comuoica a noi la
sua luce in iin grado iufinitamenle minore a quello cbe ha in Dio, dove egli i
Dio stesso, Verbo di Dio. E tuttavia vi aggiungp , cbe le nostre idee sono
eterue, e sono in Dio. AJ. Mi sembran tulle contraddizioni. ji. Non panto.
Diterai, le cote corporee cbe adoperano iu noi, comunicano esse a noi.lulta la
loro altivila? M. No cerlo : per esempio , de corpi noi non sentiamo cbe la
superficies i nostri seasi non poSsono raai penetrare Iinle- riore de' corpi.
Oltracciu gli eflelti cbe producono in noi dipeii. dono dalla nostra propria
nalura in gran parle: 1' aria die ci fe. risce tutto allrove cbe nell'
oreccbio, non ci da tuono, ma si quella cbe eiitra pe fori degli oreccbi a
percuotere il sona* glio n cbe sta
denlro appeso , si come diccva Empedocles il cbe mostra essere il tuono un
eOetto in gran parte dipemlente dal- I'organo costruito in quella forma c non
in nitra, e dallanima di cui quell' organo vivc. Digitized by Google (5of) A.
Ouiinsnienlc. Sicche dove Iorgano del sen mini verita se non soggettiva. lo veggo
ora assai bene, cbe Iente, die e ciu cbe si concepisce ugualmente in ogni idea,
i immu- tabile, oggettivo , assoluto: nia il grado di attivila sussistenle,
sperimentalo nelle seusazioni, il qual noi adoperiamo come li- lieamento cbe ci
fissa un conGne dentro il quale eonsideriamo 1 elite, ai tutto un grado
soggettivo, cioS rdativo a noi, i quali non riceviamu dalle cose se non un
azione limitala . e anebe a quest azione diamo noi stessi un carattere e un
niodu veniente dalla natura nostra die palisce Iazione, auzich^ dal* Iagciite
cbe in noi la produce. A. Levatevi dunque a considerare la cosa in gcnerale.
Con* siderale cioi, die non e il solo uomo creatura inldligenle, nia VC
uliauuu, VC ne possono avere dcllaltre assai. Supponiamoue Digitized by Google
(!o7 di qiipstfi, moltp, le qnali ilovcsijcro formrr stra idea. Ora la
modificazioue nostra, per esempio la specie del sole, che audie ad occhi
cliiusi o a mezza notte mi si pre> senta, questa specie che detcriniua a me
Iattivitli di quest' ente che cliiamo Sole, non e ella (considerata come
meramente pos* sibile) eterna? la possibilita delle cose tutte non e ella
eterna? fli. Ma dove ponete voi quest' idea
dell'ente considerato come idoneo a produrre in voi quella modificazione
? in Dio, 0 fuori di Dio ? A. Prove to che una cosa k eterna, egli- i anco
provato die 1 in Dio, unica sede di tutte le cpse eterne. A/. Le nostre idee
dunque, sebben limitate, sono in Dio. A. Si, ill Dio sono tutte le idee ndstre,
e tutte le idee che avessero quelle centomila maniere d' intelligenze di cui a
voi place di far popolati gli astri innumerabili del firmamento: di maniera che
si pu6 dire con tutta verita, che Iddio conosce le cose hi tutti que' vatj
modi, uuJe sono couosciute da tutto Bosmi.m, Jl liiiinoyammlo. 77 Digitized by
Google 6 1 n manicre ili intelllgenr-R cliR sono o saranno ncllo smisurato
nnivcrso. > M. Ma come diceste adiinque poco innanzi, die non sono e non
possono esser tuttavia queste le idee onde Iddio conosce le cose? A. Tulle
queste idee, sebben vere, sono limilate e imper- feltc, e non manifestano gli
enti se non da un lalo solo, non ce li danno a conoscere se non in una loro
efficienza parziale, e relativa alle intelligenze finite nelle quali esercitano
la loro azione. Ora delle cognizioni cost limitate, sono bene sufficienti al
fine delle creature, e proporzionate alia finila loro natural ma sole esse non
potrebbero mai cosUtuire la perfeltissima e pienissiiiaa cognizione di tuUe le
cose, che dee essere in Dio. Iddio adunque ha bensi le idee nostre, ma come
nostre, non come sue. Mi spiego. Iddio conosce tutto: dunque conosce an- che le
nostre idee , e i nostri modi di conoscere e perd ha 1' idea delle nostre idee;
e lo stesso dite delle idee che aver dovrebbero i vostri abitatori della luna e
dell altre sfere. In questo sense le nostre Idee sono eterne, e si trovano in
Dio an- che nella parte loro soggeltiva. E tuttavia noi non le veggiamo gia
peKhi sieno in Dio; ma sono in Dio, perch^ egli ha vo- luto che fosscro in noi,
e che in noi si generassero a quel modo che in noi si generano. Egli a questo
fine appuiito ha formata la natura nostra. Imperocchi onde vicne che noi
veggiamo cost le CQSe come le veggiamo? onde viene che gli enti sussistenti
facciano in noi quella impressione che ci fanno, e non unaU tra? CertOj
dallaver Iddio costrnlta in nn modo e non in un altro la natura umana; e per
costruirla, egli dovea avere in si stesso la idea della natura umana, e di
tutto cI6 che vha in essa, e peru anche di tuUe le impression! sensibili chella
potea ricevere, e di tutte le idee special! che mediante queste impression!
ella potea formare a si stessa. E notate, che le idiee nostre, anche
considerate nella parte lor soggeltiva, sono ferme e non- soggette a variazione
nel loro fondo , perocchi sono de- terminate dalla stessa natura umana , la
quale ha nn essenza immntabile (i). (t)
I .^ensisll'clie uon vogliono esK*ro scpUici prendono questa siabilda Digitized
by Google t> 1 1 M. QuhIi son dunqtic queile idc delerminale, cbe appar-
ti-ugoiio alia Dicnle divina in proprio, e al lullo diverse dalle iiostre e da
quelle che tntte le creature s'lianao oe' confini di loro nature? A. Come on
ente operaute in noi^ non comunica a noi se non un grddo di sua attivita e
dellesser sno, e anehe questo in un tnodo relativo al modo delPesscr nostro, e
pero noi non pos- siamo di quell' ente prendere allra cognizione se non al
totto partiale, cioi ristretta a quel suo cQetto che sperimentiamo ; cosi Iddio
non conosce gilt gli enti in una loro attivita limitata. e rclativa colla quale
operino in lui, ma nell'intima loro sostanza. E questo i quello che vide anco
il Vico, coo acutezza al suo sulito, ma alqOanto indistintameute, quando
scrisse, se vi sov- viene, che u il saperc sia posto nell' accozzare insienie
gli ele- xnienti delle cose^ sicchi il pensare sia proprio della roente 4imana
, e Dio solo abbia I'inteUigenza (a) ^ posciach^ egli Icgge lutti gli elementi si estemi che iotemi
delle cose, per- chd li contiene e li dispone; laddove la mente untana cb' 6 u
limitata, e percb^ tutte le cose cbe non sono dessa sono iiiori adi essa, non
pu6 cbe raccoglierne gli elementi esterni, e per- uci6 non pu6 raccoglierli
tutti^ onde ch'essa pu6 bensz pen* asare, ma non mai intendere le cose^ per il
che non i della ra- a gione perfettamente posseditrice, ma solamente
partecipe ( J). Al. percbe dite voi, chc il Vico non vedesse
quest! veri con distinzione? ilflla nalurik- umans per fondamcnlo tlella
rerlezxa.: ma noi al>i>iaii* veduio, lilt quc'Slo fondameulu uoa liasla,
uc puo cosliluirt: giaiiiiiKii il lirmo dtUa cvrtezza die si ricerca.
(i)]Allribuislle, e .in quanto i conoscibile, rhiamasi Verbo divino. II Verbo
divino adunque corris'ponde in Dio, a quello che in noi diciamo Idea deHcbte
indeterminato. Ora in questo Verbo, in queslente realissimo ed esscnzialmente
conoscibile, Iddio coiioSce tutte le cose. Gome noi c'onosciamo tutto nellcnte
ideaie e net setiti- mcnto reale, cost Iddio conosce tutto in si stesso ente
reale- ideale: come noi conosciamu luttu in una idea, oosi Iddio co- nosce
tutto non in una mera idea, ma in un iinico' Verbo. Jif. Questo non mi spiega
peru ancora come Dio conosca la distinzion delle cose, non mi spiega b: idee in
Dio delle cose finite : tutl' al piii mi spiega la cognizione cbe- ha Dio di si
stesso. A. Tutti gli cnti possibili sono
virtualmente compresi in Dio. PerucclM^ gli cnti finiti, non sono che Iente
ideaie realizzato in un modo (inito e limitato; Dio all'incontro i Iente ideaie
realizzato pienissimamente. NrlTente adunque realizzato pienis- simamente, e
facile pensare che virtualmente si comprendann le realizzazioni imperfette e
limitate. Cbsi, a ragion desempio, (l). O Ob Wi fVrir aXX' xat SXep t* taurv ro
ibvat xai L)iu iiuu c in tfutilche modo
vnUr, ma w sthi^tiict nicMlc t iiirHiilduieiitc c tutto lcs$ere in sd
ahbracciatu t unlui* m paio m Dc Di\>: l^om. c V. Dfgiti7ossono fare die
forsc dellc coiighicUure ; ms quests A materia die appartiene all'o/it o/pgio.
6 1 (> niAginare (Idle linee e (uperficle che lo rinserrino e figurioo, non
ve le pone. A. Fate, che voi , o dednire e procUirre gli enti. Secondo la quuji
volonla, egli superiore ad M ogni sostanza predesiino e produsse tutti gli enti
> (cop. V) Si dee ronsidcrarc in qurslo eccellcnte luogo, come qiiegli
sicssi alti della volonlii divina, ebe producono gli enti, sianoqiielli ebe li
definiscono, cio6 chc ne fanno il disCgrto ( xai vtttrixd), di guisa cbe
producono ad (m tcm]M c Ic Cose, c Ic idee delle cose; ma qucsie ucll'
elcrnita, quelle ntl tempo; sieeb^ come dairctcniila tutta in Dio v*e Tailo
crcatorc , cost pure la sclenza delle cose cbe sussisteranno nrl tempo per
quell* alto di libera volonUi. Equi si avvedr^ facilmcnte il Icitore, quanto
noi ci dis- pajamo da Dienisio Petavio, uumo del resto a noi altamente
vcneralo; non scmbrandoci chc il grauduotno abbiif collo uellavera inielligeoza
deirAreo* pagila, e di chi aliro sieno i libri subtimi a quello attribuiii.
Pnteva it Pc- ^tavio osscrvarc, cbe gli esemplmri delle cose, di cui si favclla
ucl luogo ci- tato, non risguardano cbe le cose realrf^ente da Dio create, e
non le mens possibili ; peroeeb^ in queJ passo si dice, che questi esemplari si
chiamano dalla Xrologia, cio^ dalle Sacrc letlero, volizioni , alii della volonU di- vina, die
non si possono riferire che a cosc che Dio vuol creare; e si dice rfeora, che
quelli ** dcliniscono e producono gli euti *, cui i) Petavio stesso traduce
quae dejiniemionim ac Jaciendoram vim habeni enimm. Non ba dunqiid* ragione
egli a credere', die tali esemplari Dionigio H pouga per natura nella divina-
sostanza; mn. essi anzi diconsi manircstamente prodotlt dalTatto della divina
volonta, o piu tosto. sono qucsfatlo Messo considerato in rdazione coll'
iutdlclto; ib quale atlo elernameute iu Dio si trova, elut- lavia 1/berament'e.
Ci teniain dunque volenticri coi due interpret! di Dio- nigio, s. Massimo e
Giorgio Paebimera, cbe ci sembrano a lorto dal Petavio censid'uli, ' *
Digitized by Google 6i9 Initc Ic cose pci suo Verbo: omnia per ipsum /acta
swil: XiixiTj et facta sunt. M. Abcora. A. Ora questo t spiegato da' solenn!
maestri, come sarebbe il nostro grande italiano Anselmo, si fattamente, die
inten* dano essere nu atto indistinto quello col quale Dio ha gene- ralo'^il
Verbo, e col quale fu prodotto il mondo: wto eodem- que (verbo) dicit se.ipswn
el quaecumque fecit (i). E di qui ri- traete nna nuoya'-confernia della
dottrina che vi ho esposta. Imperocchi, che ^ il Verbo, se non la conoscibiliiA
di Dio (a), in virtii della quale Iddio aOerma si stesso ^ E che i la crea-
zlone, se non^ come dicono i teologi, un atto volontarip del- I'intellelto
divino, onde vede sussistenti le cose che vuol ren- dere sussistenti? Iddio non conosce tutte le creature, de rla
Dio couosciuto corne da larsi cio^, ir> so* parulo dallesserc inHoilo.
Uunque Origeoe vuol dire: m perche Iddio do- erriu di formare^un cnie, per
questo lo conobbe o sia; m Iddio produce gli enti co un atto d* inlelletio col
quale li conosi^e ; e se non volcsse pro* durli, non farebbe oe pur qiieiraito
intellettivo e creatore, che ne cusli* tuisce prima la loro iolelligibilila, e
poi ancora la loro sussistenta m. Sicche tullo i) passo iotero di Origeoe cost
V iriterprelo: m Dn ente r>on verra gta a sussisldre perch^ Iddio conosce
die egli verra a sussistere, quasi die r4 cooosceie cbe tgU veria a susaisteie
non dipeuda da Die; ma ani e d* 6io adunquc col quale TJJIo conosce le creature
come sussi^enti, con quell alto medesimo egli le crea^ eil egli cono.sce le
crea> ture con quellatto identiro, onde alTerma e rende si stesso co>
noscibile, o sia genera il Verbo. Sicchi con un atto solo Iddio cagiona e la
conoscibilita di si stesso, e la conoscibilita di tutte le creature; solamente
cbe, quanto al primo.efletlo della cono> scibilita di se stesso, Iddio
Iopera anche necessariamente e na> turalmente^ quanto al secondo,
liberamente: quanto al primo, la\to divino i tutto interno e si chiaraa u
generazione quanto al secondo, questo elTetlo esce da Dio e si chiama
ucrcazionen. Tutto adunque i coerente in questo sistema^ e voi vedete come per
esso si dissipi la terribile dilficolta cbe vi avea toccato, circa il numero
inCnito de'possibiIi. M. Certo, quella difllcolta i svanita; perocchi sebbene
gli enti cbe Iddio ha fermato di creare sieno di nuitiero tanti cbe vincono
forse la mente di tutte le creature intelligcnti, tuttavia riman quel numero
finito, e per6 Unito riman pure il numero dclle idee particolari e determinate.
Ma la diflieolta mi rinasce sotto allro aspetto. Imperocchi conseguenza delle
cose dclte si i, cbe Iddio non conosce 'tutti i possibili. A. 1 meri possibili
li conoMe tutti, ma virtualmente, come stanno unitamente accolti nella pienezza
dellesser divino. Se* paratamente peri gli uni dagli altri non li pui
conoscere, per la ragione semplicissima , cbe separati non sono. E volete cbe
sia conoscibile quello cbe non M. Come dite, cbe i meri {^ssibili non sono al
tutto? non sono essi^ pensabili? duuque sono quaicbe cosa. A. Maurizio, la
materia i degna della vostra sottigliezza. Fate voi drilerenza fra una cosa
pensabile e una cpsa pensata? d/. SI certo ^ te la cosa i puramente pensabile,
ella'non h ancora pensata. A. Cgregiamente: peri il pensabile non e^ste come
pensalo ancora. M. No. dire, che Iddio lo conosce appunlo perchi ha decrelato
che qurlt'ente Veiiga a aussistere: e aveiidolo cost reso fuluru, I' ha rcso a
scconoscibilcM. In lal iiiodu inlr^, Origene e s. 'Agoslioo dicouo lo Measo,
i|saudu frasi al tutto coQtrarie. Digitized by Google 6 f A. Qui avete la chiave da iciorre la
diflScoUa vostra. Ier- clii un ente sia meramente penscAile, ma noa peru ancora
pen- sato, ha egli bisogno che sia preiioito, determinato, distioto dagli
allri. enti? o basta che coIPatto del pensiero si possa pre* iinire,
determinare, distinguere? M. Questo secoiido. ' A. E cosi snno i possibili in
Dio. Ore egli lo roglia , li ' di> stiogue e li crea : ore non voglia, non
li distingue; e tiittavia vede tutta la profondiU di si stesso, mare di tulto
I'essert;. L'atlo adunqne, onde Iddio distingue gli enti, i simile, o anzi i il
medesimo di quello della creacione; egli produce collatto stesso la loro
conoscibiliti (I'idea' distinta) e la loro sussistenza. E di vero, vol vedete
Iente in universale. Immaginate che tutte le intelligenze che sono nell'
univeirso redessero bensl quest'eote, c molte cose in esso, ma non lo redessero
determinato allatto che lo restringe all'essenia delluccelld. L'essenza
delldccello rsisterebb ella? Virtnalmente si; perocchi ogni intelligonza'po-
trebbe discemerla (aggiungeiidosi le condizioni opportune a quo st'atto)
nell'ente in universale: ma ella tuttavia non sussisterebbe distintamente,
poichi niupa mente avrebbe contemplato . I es- s^ ristretto alia forma dell'
uccello. Applicate ci6 a' Dio, che vede non solo Iessere ideale, ma Iessere
r);ale ,ad esso pienis- simaniente adeguato. Non gli raanca niuna co'ndizione,
altroche quella dell'atto del Itbero volere, al fine ch'egli possa conside- rar
I'essere ristretto alia forma delluccello, o ad altra forma qualunque, e cost
disegnare, per cosi dire, o sia determina're quella idea o quella essenza. M.
Ma questa esistepza virtuale ed nnita de' meri possibili, mi i pur forte cosa a
concepire. E parmi, se cosi fos^ che dire si potrebbe, non esserci tanto i
possibili da tutta I'etemita, quanto la possibilitit de' possibili? A. lo
accetto volentieri questo modo di dire, e parmi an> che conforme a quello
delle sacre carte; le qjiali non mettono, a quanto raipmento, nel novero degli
enti i meri possibili, ma piu tosto re li escludono; come si pu6 vedere .in
Daniele, ove Susanna prega Iddio con quelle parole: u Dio etemo, che K conoscL tutte le cose prime che sieno
fatle ( i ). Qui voi ve> (i) Dsn.
Xlll. fia* dete ctie si parla d! quelle sole cose che devono esser falle, e
nulladiiueno esse si chiamano tutte ,
quasichi non ve o'ab- biano allre fuor di quelle cbe saranno falte. Ed il
medesimo concetto ricevono le parole dell'Apostolo, che dice, Dio chia* u mare tanto le cose che non sono, come
quelle che sono (i)^ dove il vocabolo chiamare indica manifestamente parlare
IA- postolo di cose che Iddio chiama fuori del nulla, o sia che fa passare dal
a non essere allessere . Per alt^o, ad intendere ill qualche modo tale
possibilita de possibili nelP essere divino, o sia tale esistenza virtualce
indistlnta di essi meri possibili, non poco ajuta, parmi, la simjlitudinc toccata
di sopra, tratta dal concetto dello spazio. Pare egli a voi, che le infinite
fi- gure nelle quali lo spazio immensamente equabile pu& essere diseguato e
limitato, sieno nello spazio virtualmente o real- niente ? M. Realmente non ci
sono se non quelle che si formano in esso, o Vi siromaginano; ma tutte I'allre
non sono nello spa- zio che virtualmente : conciossiachi supponsi niuna cosa
averci che limiti lo spazio, ni corporea ni immaginaria^ c senza lir miti non
pu6 e^iwre limitato. Dnnque chi avesse il concetto dello spazio, avrebbe vir-
tualmcnte il concetto di. tutte le figure possibili di numero ve- ramente
infinito; ma quando egli volesse ridurre allatto que- sfe figure virtuali,
dovrebbe lavorare colla sua immaginativa a far correr punti, linee e superficie
per tutte le parti, e crearsi de' solidi di mille forme, od altre figure, le'
quali figure altuaii non potrebbcro per6 mai adeguare il numero infinito delle
virtuali. . M. Cosi i. A. E in simigliante modo pu& Iddio nell esser divino
ve- dere in separato ci6 che gli piace , quando vuol creare dei inondi, senza
per6 che queste attuali separazioni e distinzioni si possauo in infinito
protrarre^ il che i por qnelld che io tengo volesse significare I'Apostolo,
quando a descrivere la creazione hs6 quelle parole, (it ex invisibUibus
visibilia Jiertsnt (a); nelle r quali couvien riflettere, che non dice gia che
Dio (ece . le cose ! (i) Hum. IV. (-i) Hcbr. XI. Digitized by Google
visibili a noi, al che sarebbe baslato il farle snssistere, ina dice seniplicemente
che le fece visibili , cioi atte ad
esscre ve- dute, quando prima erano u invisibili perchi indistinte: Iddio adunque, secondo
I'ApostoIo, creu insieme la conoscihilita delle -cose, e le cose slesse. Ma
volete uo'altra prova di questa dottrlna ? M. Avidamente Iascojto. ji. La
caveremo dairintima natnra del divino conoscere. Noa abbiaroo noi veduto che
Iddio conosce lutte le cose in^si stcsso? ilf. ammesso da tutti. A. Dun'que
conosce le cose come sono in esso Ini, e non altramente. M. Se Poggelto di
tutto il suo sapere is la propria sostanza, egli nonpu6 cbnoscer le cose se non
come stanno nella so- sUnza sua. A. E bene^ or prescindiamo daU'atto crealore,
onde le cose veugODO a sussistere distinte fra loro, e consideriamole coto elle
stanno per natnra nellesser divino. Non insegnano i mae- stri delle divine
cose, che Tesaer divino h pianissimo,' ma ib- sieme unitissimo, di guisa che
non riceve in sb differenza o distinzione reale alcuna, eccetto quella delle
persone?. M. Mel dice.il Catechismo. . A. E per6, che le pose tutth. non sono
nell'essere divino punto distinte, ma unite insieme, ffvyetjis^pof, come dice.
Dio> nigio (i), e formano tutte un solo e semplicissimo essere, et ea omnia
turns est, come si esprime sant'Agostino (a)? E questo modo di essere della
cose tutte finite in Dio, da teologi 'b chia- mato e eminente , e lo spjegano
con varie similitudini , si come quella del numero che si trova nelluniU, e del
centra a cui avvengono tutti i raggi del cjrcolo^.le quali similitudini, sebbene
inadegnate, tutthvia dimbstrano Iintenzione di quesli. maestri es%er quella di
fare apparire Iesser divino senza parti ni separazioni, ma perfettissimamente
seniplice, quantnnqne perA cosi pieiio egli sja, che non gli manca alcuna
perfezLone o parte di essere (3). ' . ' . (t) Be
Div. Kom. c. V. (a) Z)' Civil. D. c.
XXX. 13) Non sark inulile aver solloccbio eon qua! oobili ed eflicaci modi
Iaulore del libro deDiVini Nomi moslri I' unila di luKe Ic parli dell esscre
Digitized by Google 6-4 M. fc ancora il Catcrliismo. A. Ora io ar^oiuento: se
Iessere divino A perfettamento seni|)lice e iiidiviso, e se queslo k cio che
Iddio cooosce; dun- que ancbe la cognizione dlvina non ammette distinzione per
nadira ( eccettuale sempre le persone), e peri conosce egli i uieri possibili
senza distinzione fra loro^ appunto percbi qublli non bannoin In! alciina
distinzione, linoatanto cbe allenergia libera del divino volere non piace
distinguerli. M. Ma se con quesU energia libera Iddio distingue le cose e le
rende conoscibili, o sia, come dice s. Paolo, vUibili; dun- que, Iprno a dir
io, Iesser divino sofferira modificazione, pe- roccbi .prima non avea in sA le
cose distinte, e poi le ba di- stinte? \
1 A. Io non ho mica det>a, cbe Iddio creando le cose e le loro conoscibilita
^lingua nellessere suo quello che ci era prima indistinto. - ' A/.-Come dunque
Dio comincia a conoscere le cose distinU:? A. Ye Iaccehnai; le conosce,
neiPatto onde Ic distingue e le crea: creandolp (o creando dei segni di esse)
le distingue: ma questa distinzione A tutta nelle cose create, e non entra in Dio. , M. Ma le idee distinte di q'lieste cose,
cbe voi dite crearsi da Dio coll'atto stesso onde crea le cose, dove sonof in
Dio, o fuori di Dio? A. flA in Dio, nA fuori.
. A/.,Dunque non sono. A. Falso. A/. Questo A nn parlare enimnaatico'.
A. Uditemi attentamente, caro Maurizio, e ogni enimma svanira. Io ho distinlo
nelle idee il loro fotitloj e quasi direb- m Dio inediaole Ursimiliuidine
acceniista. Da quella
(sopracccedenle wuli) td III quella sono
e Icsser per sA, e i priiicipj jlelle cose, e lulie le cose che sooo e ib qualsivoglia modo elle
soooi ma iio in forma pri- . miliva e
congiunta, ed una ( W ruTn ai' aai* " f *'* "''''i ogni nuinrro preesisle uniualo
(iVanJo'c )', e unila ha in sA ogni immero in modo iminco (utrr^ifs); e ogni
niimero o copulalo III ,1,10. e iiellunili (a,/ ,',f e pill lungi che dallsinila procede.-aiiclie
piu si divide e mol- iiplua . Oe Div.
Norn. c. V, ? 6. Digitized by Google 6a5 bcsi la loro sostanza, dalla loro
dclcrminazione e circoscrizione, appunto come nelle diverse figure disegnale
nello spazio , si puu distinguere lo spazio o estensione a tutte le figure
comuDe, dai limiti i quali racchiudono lo spazio e il figurano. Ora il fondo delle
idee- tutte ho detto esser I'ciite ideale, e questo e in Dio, c in Dio i Dio
stesso, sebbene a noi non oi apparisca naturalmente come divina sostanza. Ma le
determinazioni poi dell'ente non sono die modi diversi di vedere quest'entej
come appunto che cosa' sono le figure pensate da me nello spazio? non altro cbe
modi miei limitati. di vedere lo spazio. lo re- stringo il pensiero entro certi
confiui, pcnsando lo spazio^ questo raffrenamento del mio pensiero i quello che
mi fa innanzi tutte le figure dello spazio. Ma lo spazio riceve egli vcramente
in.s& queste figure? sofferisce qualche modificazione quando viene cosi
limitato? A/. Niiina verameqtc. So che me Iavete fatto osservare altra volta. E
un errore il credere che i corpi limitino Iestensione. Lesteusione, come
estensione, riman sempre quella, uniforme, impassibile, semplicissinya, o sia
piena o sia vuota. I corpi Aon limitano che il nostro pensiero nella
considerazione della esten- sione, trattenendolo piu tosto entro Iestensione
che sta fra quattro mura, che lasciandulo anJare per Iestensione infinita. Per
altro, o sia pieno lo spazio o sia vuoto, Iestensione dura la stessa^ e peru lo
spazio pure dura il medesimo, giacche spazio ed estensione voi li fate
sinonimi. A. Convien dunque distinguervi il conoscibilt, dallqCto onde si
conosoe. Il conoscibile per sil
illimitato, infinito, Iente^ ma Iatto onde si conosce, pu6 fermarsi a
considerar'leAte in modo parziale c circoscritto, senza peru che Iente
soiferisca aicnna altct'azione, e questo h cio che si dice far di lui unIdea
determinata. M. Questa osservazione mi da gran lume a intenderc I'im- misnsa
differenza che passa fra Ijdea dellente, e Ialire idee che non sono altro che
circoscrizioni di quella. Ma come si puu fare questa circoscrizioue? A
circoscrivere lo spazio. convien cir- condarlo di superficie o reali o
iiiiinaginarie^ ma di che mai circonderfi io Iesscrc? A. Quanto a soi,
ralihiaui pur dclto, souu le co.se create Rosmi.vi, Il JiiiinonwiaUo. 79 (
linea, per eosi dire, agli oeebi del vostro intendimento', neU Vessere intm'to
sempre da voi , la forma o specie parlicolare della eosa (i) che vha loccalo.
In somma la idea particolare non 6 se non la relazione che passa fra I'esserc
parlicolare e I'cssere universale. Immaginatevi una muraglia, o comecchessia
tina superficie ampissima cola eretta, di bianchezza tutta uni- forme. In essa
non si scorgono lineament! di figure, perocclni il color suo ^ di nna perfclta
ugualita. Tuttavia se di contro ad essa si poncssero delle statue, o de vasi,
od altri oggetti, non na'sccrebbc con questo solo una cotal relazione di tulte
quelle figure con quella muraglia, sicch^ ciascun punto di quelle statue ed
altre forme rilroverebbe un punto corrispondente nella muraglia, e ciascuna
linea una linea, e cosi pure ad ogni pic- colo spazio piano delle statue
risponder dovrebbe un altro tale spazio, e ogni figiira tiitta insieme
determinerebbe mediante questa relazione altra simile figura sulla contrapposta
superficie? M. Chiaro A. A. E pcrci6 chi fosse presente, e avesse occhi e virtu
din- tendere, potrebbe riportare mentalmente i contorni di quelle statue sulla
muraglia,. o colla sua immaginazione disegnarle anche dove non sono ? M.
Sicuramente. A. Ma quell'uomo il quale non avesse mai vedute statue, nA Vasi,
nA altre figure, non potrebbe purtare quelle col pen- siero sulla muraglia. (i)
Ld parola italiaoa cosa, deriva dalla lalina causa. Nientepin rilosufico del
dcnoniinarc cause gli oggelli a nui cognili: impcrciorclie non ei soiio
rogiiitt se non in (|uhiUo sono cause, in ejuanto operano sii di noi. Digitized
by Coogle ()27 M. Non potrcbbe. A. Ecco adiinquu il pcrchi ci bisogna il
senlimunto, 0 Ia- zioiie che spcnmentiamo degli enli limiUti, acciocch^ noi
pos- sinino riportare questaUivita , o grado d'enlila sperimentata, ncllente
universale e uniforme concepito gia mentalmente, e cosi fissare in lui quegli
enti particolari, limitando entro tali confini il nostro guardamento di tutto
Iessere. M. Singolar cosa! ma questo modo per6 di limitar Iessere noil pub
attribuirsi a Dio. A. Convien sempre ricorrere allioeffabile sua virtii
crcatrice. Non limita Iddio questa sua virtii? M. Si; perocrhb egli crear
potrebbc troppi piii mondi cli'egli non crca. A. E bene, egli puu dunque
limitar I'atto suo a certi og- gelli. E a far quest'atto limitante e creaiite,
tanto siiperioru al nostro modo di concepire, egli non ha bisogno dallro die
del suo volere. Col suo volere crea le cose finite, e volendolc creare le
conosce, e conoscendole le crea. Queste create cose, udia loro propria
sussistenza sono il termine della sua azione ; e questo termine di sua azione
lia un, rapporto col suo essero simigliantemente appunto a -quelle statue di
cui abbrain par- la to, lequali lianno un rapporto colla bianca muraglia
dicontru alia quale die stanno. Riportando adunque Iddio le cose create
collatto suo, quali termini di suo atto, al proprio suo cssere, avviene che
questessere le renda conoscibili, senza sofferir esso ill si punto ni poco
modificazione o limitazione; perocchb non s'aggiuiige che una relazione
esteriore, ndla quale la mutazionc sta (ulla dalla parte delle cose create che
coiuinciano, e non punto dalla parte ddlesser divino. Sicchb si pub dire in un
seiiso quello che dice Origene , che u Iddio conosce le cose future pcrche sono
future n, ciob perchb egli le ba rese, future creandolc ab etcruo, e
conoscendole. Al. Mi riman tuttavia dilBcile a spiegare come 1' atto del creare
iiou sia cicco in questo caso, quando da esso dipende il coiioscere le cose
future, 6 non precede questo a quello. A. No, non e cieco. Prima vi fo
osservare, che Iatto del creare - non pub dirsi cicco, sebbene il conoscere
fosse a que- st'atlo cousrgueute; c che Dio, come vi dissi, conoscendo, crea,
6a8 e ereando conosce^ perocclii vcramcnle & un atlo solo. AItra* znente
converrebbe dirsi cleco ancbc queiratto onde genera tl proprio Verbo. Ma oltraccii^
, come volete cbe sia cieco nn atto cbe si fa nel giorno cbiarissimo della luce
divina? non sono gia nel divino essere tulte le cose, sebbene prive di li-
miti? pert) alloperazione del limitarle fa luce lo stesso csser divino
illimitato. Chi Iddio non potrebbe fare niuna cosa stolta, daccbi a farla, a
crearla, mira, e la trova per cosi dire el proprio essere. E anco ponendo la
roano in un cassone pieno di monete d'oro, senza badare dove la si metta, non
se ne po- trrbbe cavare cbe delloro. 3T. Ob questo sperimento non I'ho fatt'io
mai in vita mia^ tuttavia vel credo sulla vostra fede.-In vece di quello per6^
na feci ben io un altro, d[ starmene gran tratto di sera cola sul balcone della
mia stanza, sguardando la luna piena splendente in questo giardino, e
chiraerizzando meco con le piii ouove e strane fantasie di questo mondo, ed
eran tutte per me de meri possibili. Or sapea io allora piii die Dio, il quale
non vede i mcri possibili cbe vidio allora cosl bene distinli? Ni saranno stati
manco possibili tutti, Maurizio mio, i, gbiribizzi vostri, e per6 voi avrete
veduto anco degl'impossi- bili assai , cbe non vede Iddio. Ma lasciamo andar le
ciance. Non vi dicea gia, cbe 'Iddio ha non pure le idee sue, ma le idee
nostre? Non i pensiero 'di creatura, cbe Dio non vegga di.stinto com'^ nella
creatura^ perocebi i ancb'egli un elemento delle creature sue^ ni le
conoscerebbe per intero, quando tutto cio cbe ad esse apparliene, non
vedess'egli collo stesso atto etemo onde le crea e le conserva, cooperando come
causa prima a tutte' loro operazioni. AT. Tuttavia troppo'cA ancora a fare,
volendo metlere in salvo la sapienza di Dio da questa vostra dottrina. Non i
egli proprio del sapiente lo scegliere il migliore prima d'operare? j. Si. Af.
E per iscegliere, .basta egli conoscere una co.sa sola, o conviene averne
present! molte, o piii tosto tulte le pos- srbili? ' A. Lascella fra le cose
possibili sta bene agli umani prudeuti. M. E ri.spetto a Dio non sara egli il
medesimo? Digitized by Google 6ig A. No', il sistema depossibili leibnizlani ,
e dcIPoltimismo, d ana pocsia Blosofica. M. O meglio, ana filosoGa
anti-poet!ca, come dircbbe Niccol6. A. Meglio ancora, k un'invenzione
filosofica n^ poetica. Perocchi il falso non da buona filosofia, ni tampoco
buona poesja. E veramente non ha bisogno Iddio di paragonare le cose possibili,
per ritrovare fra tutte qnella chc egli vuol far siissistere; non h il meglio
che egli cerca, il quale h relativo, nia i il perfMo, il quale k assoluto, Dei
perfecta sunt opera, dice la Scrittara^ e il perfetto egli lo trora
immediatamente al lame di s^stesso in si stesso, anzi in si non pui vedere die
il perfetto, si per la perfezione dellessere contemplato, si per la perfezione
dell'atto contemplante. Non capite voi, che Iatto di conoscere sarebbe manco,
qnando egli dovesse prima veder ci6 che i impcrfetto, per trapassare poscia a
vedere ci6 che i perfetto? Immediatamente adunque, checchi veda e voglia Id-
dio, vede e vuole il perfetto ^ pcrocchi il vede e vnole con atto
perfettissimo, il quale non' puu veder altro che il perfe,tto per volerlo, e
non pu6 volere e vedere il difuttoso. Si come Ioc- chio nostro aprendosi non
pu6 vedere altra cosa che la luce, perchi la luce i Toggetto sno,. cosl la
intelligente volonti di Dio non pu6 vedere che ci6 che i pienamente bene'nel
genere suo^ irapercioccbi i Ioggetto di lei. Quindi' le cose create, dice la
Scrittura, le vide essere buone, c molto buone; Vidit cuncta quae fecerat, et
erant valde bona (i). Il quaf luogo del Genesi, considerate voi quanto risponda
a capello a cii che io dicea? Vide Iddio: e che cosa vide? quello che avea
fatto. Ecco Tatto della creazione esser quello che gli fa le cose visibili e
s(dute: ed erano mol to buone n, ecco
come il suo creare e vedere ba per oggetto essenzialmente il buono, il molto
buono, cioi il- perfetto. M, Mi aggrada quasi pin il dubitare, che il sapere,
ragio? nando con voi^ tanto mi contentate solvendo. Per6 vuglio con- tinuarrai
a dubiUre quasi per impresa. Ditemi adunque, non vi sono molte potenze create
fisiche, intellettive, morali? - A. Or dunque? (i) Gen. I. Digitized by Google
fi3o M. E Dio, rlie Ic lia faUe, e clie assegnu a tulle la loro pru|>ria
virlii , non duvea conoscerc tutli gli alii posslbili, a ciii elirno si possono
slenders, per dare a ciascuna quel grado e quella allivita che le ba dato, e
non piu ? A. Qual dubbio? M. Uunque Iddio conosce i meri possibili; perocche,
quelle potenze non fanno mica tutli gli alii, a cui sono idonee. A. La
quetlione non isla qui^ peroccbi ognuno vaccorda /cbe in qualebe modo li
conosca. Tutto sta a vedere in qual modu. Ora io dico, che Iddio conosce come
distinti tulli gli alti che fanno le potenze create, perchi questi come
distinti sussistono; e all'opposto conosce gli allri che le potenze non fanno
come stanno nelle loro potenze, cio^ in potenza sola> inente, percb^ tale k
la loro esistenza, ed altra non ne lianuo. M. Notate peri6, che di questi atti
meramente possibili ve lie sono di determinati e di necessarj, come quelli di
tutte le cause che operano con necessity, poste in ceric circostanze. Allri poi
ve ne sono di probabili ad avveqire pin o mcno. Non conosrera Iddio tutte
queste relazioni che risullano dalla na- tura delle cose? A. Tutte, ma nel
inodo che ho detto, ciok come elle soqo appunto. Sc quelle hanno una esistenza
attuale, le conosce in ipieslo loro modo di Csscre; sc non sono che iinplicile
nelle potenze o ne termini delle relazioni, implicitamente le cono- sec^ sc
stanno nelle nienli degli uomini, fosscro anche ghiribiz- zosi qiiantaltri mai,
ivi ancora egli le conosce perfeltamente, nia come stanno in quelle menti: Et
non est ulla creatura in- fisihilis in conspcctu ejus: omnia autem luula el
aperla sunt oculis cjus (i). M. Come 4 coerente la Scrittura! Anche in qiicsto
luogo ch'e mi citatc, osservo che si pu6 fare la slessa rillessione che voi mi
facevate iiiiianzi su quel di Daniels, cio4 che si parla sempi'e
dellonniscienza di Dio in modo, come se non vi fos- sero altre cose a
conoscere, die le create: iu>n csl ulla creatura invisibilis, cii^ suppoiie
che non vi abbia luogp ad altra scieiiza iuorchd a quella delle creature. (i)
lUbr. IV. Digitized by Coogle 63 1 A. Eh! sc io volcssl Irallarvi la cosa colla
Scritliira, troppo vavrci io a dire: ma Iora i larda ogginiai, c nol ci siaiuo
qua trallemili aiiche di soverchio. M. No, egli nun k poi tanto che no! sliatn
qai. Io non vi lascio andarc, se non me ne date almeno un cenno ^ c queslo
Sara, come diceva il nostro povero Padre Antonio Cesari, il coutenlino che qui
Sulla fine voi mi darete. A. Tutlo i contentino per voi; die non vi
stanchercste mai di filosofare. Via, per fare il piacer vostro, vi addurru solo
quel bellissinio luogo del libro de' Proverb], dove si va facendo Icncomio
della divina sapienza, e la ci si mostra tutta affac- cendata, per cost dire,
in assisterc a Dio accintesi alia gran- d'opera della creazione e
dellordinazione delle ci^ate cose, u Iddio mi possedette nel cominciamento
delle sue vie ( pacla u la stessa Sapienza) dal principio, innanzi che facesse
cosa ve- uruna. Dalleternitii io sono stata ordinata, e innanzi al sc- ucolo,
prima che fosse fatta la terra. Non eranO ancora g)i u abissi, ed io gi^ ero
concepita. Con lui mi stavo, compo-
unendo tutte le cose: e mi dilettavo per gli singoli giorai u (avvenire),
scherzando nel suo cospetto in ogni tempo, schei^ Hzando nel giro della terra:
e mie delizie facevo I'essermi oo
figliuoli degli uomini (i).
Troppo lungo commentario bi> sognerebbe a illustrare qnesto luogo sublime.
Ma non vedete voi di primo sguardo in esso Iintimn nesso fra la creazione e la
scienza dMna? non sentite voi, come de' meri po.ssibili non si fa menzione
alcuna , ma bensi di una sapienza che dovea esser tipo del mondo futuro, di una
sapienza creata ed ordinata ab eterno appunto all'nopo delle create cose, precedente
a queste percbd fatta ab eterno, perch^ fatta col I'at to della creazione, che
in Dio i eterno, e di una sapienza tultavia causa delle cose (a)' Questa
sapienza applica si a tutti i tempi e a tutti gli esseri futuri, ne' quali e
fra' qiiali ella conversa e si com- piace da tutta Ieternita, se ne compiace
come se fosser pre- (i) Prov. VIII. (*) Ilia forma rerum, cosl s^nl* Ansi'lmo,
(fuae in ejui ralio*tc res crean^ das praeceddbai, quid aJiud est, quam ret urn
qunedam in ipsa rntione. In- rtilio? veiuli cum faber facturus aliquod .>uae
aiiis opus, prius tUud ifUra sc died mentis conceptionc. Monol. c. IX.
Digitized by Google 63a sculi, anzr cssendoJe vcramcnte present!^
impcrocclid Ietcr- u nila, come dice Tertulliaoo,
i quella che dirige I'aniforme uandare del tempo n (i). M. Udii quel passo
allre volte, e mi fu spiegato come se vi si parlasse del Verbo divino. j4. E
non male. Perocchi gia abbiam veduto, die collo stesso atto Iddio e genero ab
eterno il Figliuolo e cre6 le cose, dando cost luogo a quella relazione delle
cose, termini del suo atto, eol Verbo, in die ponemmo la natura delle idee
determinate. Or qui si convieue por mente all'altcz^a e alia coereD7.a dello
esprimersi che fanno le divine scritture, alia quale altezza e coerenza non
giunse Platone, nh ci6 che v'ebbe inai di mrglio nell'antica GlosoGa. San
Paolo, come gia toccammo, chiama il Verbo
iramagine di Dio invisibile, primogenito di ogni crea* X tura (a). Non vedete in qtieste parole considerato
il Verbo i per quello che i rispetto a Dio suo padre, u per quello che i
rispetto alle cose create? Rispetto a Dio suo padre, dice che i u immagine di
Dio invisibile n, che i come dire , la slessa conoscibilita di Dio^ rispetto
poi alle cose create, dice che i X primogenito di ogni creatura , appunto
perchi Iddio dise* gn6 in lui, e disegnanda iu lui, cre6 per lui le creature
tutte^ sicchi il Verbo si fece andie esemplare e prototipo delle crea- ture,
che in lui si specchiano, senza che accada per6 a lui alcuna alterazioue. E
questo e il .commentario, per cosi dire, che fa s. Paolo stesso all'espressione
ondegli avea caratterizzato il Verbo qual x primogenito di Ogni creatura
giacche tosto sog- giunge: x Poichi in lui furono fondate tutte le cose
ne'cieli xed in terra, visibili e invisibili, o sieno i troni, o le domina-
xzioni, o le podesta. Tutte le cose in lui e per |ui sono fatte. X Ed egli innanzi a tutti, e tutte cose in esso hanno
consi- x'stenza n (3). E dice che tutte le cose furono fondate in lui, come in
lui virtualmente esistessero^ e sono fatte in Ipi, come in esemplare dove Iddio
le vide, e vedendole, ve le disegnu (i) Divinitnti competit, quaecumque
decreverit, ul pcrfcctn repulare, quia non fit apud ilium dtffi'i'cntiu
temporis, apud qucm uni/ormem statum lcrn~ ports dtngit nrler/ulas ipsa. Lib.
III. roiilr. Msrrioii. ^i) Coluss 1. ' (3) Ivi. Digitized by Google 633 pfr
cost (lire, quasi sulla miiraglla bianca Ic statue Jiconlro; e per lai, come
per Iatto della volonta intellettiva (o Verbo), onde furono create in
veggendole ( i ). E) questi due rispetti sono asiai ben accennati altresi in
quelle due parole, di u unigenito e di u
primogenito jchc da la Scrittura al Verbo divino. Im- perorcbe rlspello a Dio
egli'i unigenito, ina come tipo delle create cose egU i primogenito (i). Niuno
degli antiebi sapienti vide per lume naturale queste due cose, che in modo
ammi- rando ci dimostra la Scrittura insieme congiunte. Platone ben a'accorie,
che il mondo non potea e^ere senza un eterno esem- plare^ aa il Verbo della
rivelata sapienza h ben piii del motido intelligibile di Platonej o de'
Platonici. I filosofi si fissarono in questo concetto, e non seppero satire
piii su^ indi porsero oc- casione all'cresia di Ario. Qual maraviglia, che non
ricono* sceiido uel Verbo se non il mondo arcbetipo e inlelfigibile, il
facessero minore di Dio padre? gli Ariani furono degli uomini prosontuosi, che
vollero anzi ragionare co' filosofi, che impa- rare da Cristo (3). Ma or via,
basti cosi stasera: siete anepra, conlenlo? (i) Suole la divliia Scrlllurn quasi
sempre parlare del Verbs sotio il doppio rispello, ondegli e dall una parte la
eonoscibilitd di Dio, dallallra conoscibitild e insieme causa dellir cose; p.
es. s.' Paolo agli Kbrei dice, rispello a Dio, cbe Cristo c: e insieme rispetto
alle creature, che i > pllttatore di lutte le u rose colla parola della sua
potenza ^c, I). E uell antico Testainemo
la Sapienza divina ebiamasi rispetto a Dio
catidore di luce etema , e
specchio senza macebia della, divina mae.sta m, e insieme rispetto alle
creature, imniagine. della bonta di Ini
m. Ved. Sap. VII. (3) Tertulliauu dice, appunto : Pi imogenibts ut ante omnia
genilus; et uni- gaulus ul solus ex Deo genitus. Conte. Praxeam. c. VII. E
altrove dice cbiamarsi primogenilum conriilionit per. qneslo, cbe per ipsitin
omnia fatta sunt L. V, coiitr. Mareion. c. XIX. ' ' (3) Lribnizio fece
un*bss(^r^ azionc che ha qtialche somi^iiann con quclla che lioi feicciarno
qtii suirorigine dcU* ariancsimo. m Sembra, (?osi egli, che u alcuni |>adri,
sopratiiitio t plulonizzanli, aiibluno concepilo due niiazioai H (b'l. Messia,
prirna che uasccsse dalla Vergin'c Maria^ quelta che lo fece M Figtiuolo
unigenito, in quanto h eterno nella. divinita, e quclU che lo u rende
primogenito delle ci'talure, per cui hi vestito di nna nalura creata f U piir
aobilu di tuUe, che rentlevaio stromculo della diviuila nelia pro* M duzioiie e
direzinnr dr-Ili' isjire nature. Gli
Ariarjt tennero Solo questa X srronda filtazionr dimeoticarofio 'i prima, c parve
ebe alcuoi dei padr> Rosmini. Il RinnoyamentOn 8o Digitized by Coogle 6M M.
Cnnlento M7.io no; pnro mr nlio presn nnn bnnn* salolla, (! vn ne. ringrazio.
CAPITOLO LlII. COHTinUAZIOI il Figliuolo per rapporlo a qucsia primogenitara
tra le creature; di cui parlu s. Paolo,
Coloss. c. I, v- i5. Ma per qiiesio oon gli negavaiin ciq die gia avea in quanto Figliuolo anico e
coiisostanziale al Padre > ( Spi- rito di Leibnizio, t. ii, p. 49)- ' (i).Si
osservi, die questa dollrina suppane che ogni oggetto, olire Tat- liviti onde a
noi si rivqla, abliia altresl qualdie altra nitivitli a noi Vicculla, colla ,
quale possa rivelarsi sd alire iutelligenze da noi diverse. Cio peru non e che
uoa mera suppesiziont die noi ahhiam fatto: i)6 possedjamo iina df- mostrazione
die la cosa sia cosi: pero uun vogJiamo chc ella si preiida per iina ferma
no.stra seiitenza; ma per un iiiero postiilnlo del nostro ragiona- ini'iilo.
Digitized by Google 6i5 I Lc iJf .IcIU treale inbuUistJnze non ris|K>ndoiio
a lulla I'cii- lila ilugli cull sussifUnli, lua bulo aJ una parle, e i>ciciu
uicglio SI diicbbcio specie, die idee (i): ne verrebbe allrcsi la coiisc-
guen/a, secoiido quesU maiiiera di favellare, ebe hoi avremmo uUfA idcu e molle
specie* F,e idee deliuoiiio udo inanifestaao degli coti sussisleiUi die qlidia
allivila coUa quale agiscono in lui esserc essendalnieiile seudeiile, e
liaUa.idod de coi pi , queiraUivita che gli inani- iestauu in eagtouaiidogli le
.sensaiiopi aiiiiuali. Di uui uiolto acconce si diuwstraiio le parole, del
Vico, il qiial disse: II vero di*ino e
come uoimiiiaginc solida ddle ucose, ed uiienigic in. lilievo^ il veio umatio
egli 6 come uii u mouograiniiia od iiiimagiue piaiia, a guisa dttiia pillura :
e ill quella guisa die Dio, menlre
conosce il vero, ue oi dioa gli demeiiU e lo genera : cost Iuoino, coooscendo
.1 vero, lo iicompout: e%iaD(liio -c lo forma j* . iMa se il pensiero di Vico ba un gran
Ibndo d verila, iiidi- cando cbe il >"odo del conoscerc umauo ba una
cotale apalogia col diviuo, iu quanto che, come Iddio conosce b: cose raffion-
tandole al suo Verbo e in lui veggendole, cosi ruomo pure le conosce
raffronlando il sc/Utmento da lor produtto a|l nfea dt-/- rcssu^i tutlawa molto
meglio e'piii distinlameute del V ico Iu dislinla daPlatonici la parte /orma/e
del sapere, quest esscie ideale a cui si raffronta il wntiinehto, che d queUa
cbe pi u laciloienle si sottrae allosserva/.ione, come 1k> di sopra toccalo,
Plotino, a ragien desempio, duna parte vede cb.aramenle .che il sense non perrepisce tulU I'attivita
e leuHU ddl e.ilo ' corporeo: Qudlo else
si conosce col sense, dice, d la specie u della cosa, e la eota siessa ih>u
d compresa dal senso (d). (0 A me
mssercUl.. nssai -li ris.rlre il Dome d idee
quelle . oClie anzl Delia ijuislione della lerza della seconda par* te (i), ci fa espre^samente sapere eke
I'inlelletto perviene a oconoacere la nuda qniddila dellc cote,
accveraiido'c^uella da. tutle le
condizioni aiateriali n (a). Bisposta. i. L'inlelletlo induce gli universal!
dalla cuiisiderazione de singular!. -- Queslo puo essere ugualmeDle dcllo nel
niio sisieina; tant veru, che io sless6 io iiisegnu. buuque lion la iX)iilro di
me. Aceiuccke quel detlu ave.sse furza eoiitro di me, converrekbe diiiiustrare
che esso deblia inlendersi per luodo, t.** che ira gli u/iUvrsali induUi dai singular!
si contenga anche I'intuizioiie dell'ente, die s. Tommaso stesso chiauia liime
dell' inUlleltu , eul mezzo dd qual lume egli fa oascere qiiella induzione da'
parlicularl a' general!^ 2. che i singolari da' qual! I'inlellellu iiuJuce gli
universal! sieno fuori deU'intelletlu, cioi o die denu i singolari esteroi
malerialmeole presi , o pure le sensaziuiii. Perocchi se fossero dc' singolari
gia percepiti dall' inlelleltu , iiuii v! avrebbe piu conlroversia alcuna sul
poteri^i da essi as^rarrcgli universal!; cuueipssiachi essere
'nell'iiilellelto, e aver eoogiuiito una Duruia iiitelletliva o universale, i
uiia eosa me- desihia. Ma certo non puo I'ioCellello die aslrarre da' de' sin-
gular! ch'egli abbia in si, altramenle ne seguirebbe I'assurdu, die l'int;:lletlo
uscirebbe di se, ed enli-erebbe negli uggelli eslcrni, u'vvel'o die'eiilrerebbe
iielle sensaziuiii, il die i un allro assurdo non iiiai detto da s. Tommaso.'
lu I'ho gia d.imuslralo, die quest! sono degli assurdi; con- vicn dunque
rispoudere qualdicni il iN. cilH u hi srciiiida Dei isipur di'Ihi pi imn piirle
della siia SuiiitiiH >1: Ni pur qik'nis Decisiaac csisle; |M'iUaelM; i.i
priiiui pfle null e suddivuMi in allic Ui'eisiiiiii lie III ullre p.uli. j; 1..
II, .VI, Vi. s/
Digitized by Google sfl i!i:i singnlari. F.
Uono, rinlcllflto prrcepisce diinqiin primn qiictli singular! .sui qiiali
csercila tale opvrazione^ pcroccli^ non |Milrt-lili(! oporar**, se non sopra
iin oggetto Uc egli ha perce- pilo. Che cusa sono adunque i sitigolari
percepll!- dalliiitelletto, ui quali non ^ seguit.a aiicora I'astrazione? De'
corpi esterni? no^perocchi questi nun enlrano in oc4 malerialmente. Oe' fan-
Ia5tni? in tal cam avcte cdnverlito Vintelhuo nella fantasOi; iinperocchi ^ la
fanta5ia die percepisce i fantaami, eonfiifione, die non fece mai s. Toinmaso.
Ddiboao dunque ease re de' singolari intelletlwi, Lo slesso dile dell'allra
sentenza allegata L'iiitellelto u
perviene a conoseeru la nuda quiddita delle cose, sceverando uipitlla da tulle le
.condizioni maleriali . Tuttu ciu sj.a net niio sistema. Acciocchi una tale
proposiziune ripAgni col mio sistema, coiiviene interpretarla in un inodo
as^urdu, come s'i delto della prima'. Convien diiapstrare cio6 , die I'oggctto
sul- ifuale I'in^lletto fa la fnnzione di sceverare le condizioni ma teriali ^
non sia inlelletlivo, nia sia o corpo eslerno^ o sensa-. ziune, 'o mero
fantasma. Ora ne il corpo nella siia materialita, iii la sensazione, ne il
fantasma I'oggetto dell' intelletlo, se*
condo 8. Tommaso e secondo il buon sehso. Ma Iintelletlo non pu6 operarc, se
non sopra i suoi oggelti. Dunque I'astrazione non opera n sopra un corpo
estemo, ni sopra una sensazione, nd sopra tin mero fantasma, ma sopra un
oggetto prima daU I'intelletto concepito. E che rimarrebbu del corpo esterno, a
ciii si togliessero tutle le materiali sue condizioni? in che ma* niera si pu6
sprtzafe la flsica sensazione, o il fisico fantasma sempre adcrente ad un
organo? Iintellettb dovrebhe tagliar Iorgano del fantasma' in due parti, e
d'una parte dell'organo costituire il comune, dellaltra parte il proprio delle
cose? Vrggiatno che cosa replica il C.
M. a que$te mie osserra- zioiii. II. In quanto al I II C. M. replica negandoci
che s. Tom* uiano ammettesse per lume deH'intelletlo Iente in universale,
ma nella qnlstione loa della raedesima-
terza pi^rte^i) (s. Tom* Vrhaso) ci dice che I'oggelto prirao dell'intellelto
non ^ I'ente 41 e il vero comune, ma I'ente e il vero consideralo nelle cose M
materiali (a). Rispesta. II C. M. non e!
risponderebbe cosi, se avessc considerato iina distinzione intporlantissima che
suol fare s. Tommaso spiegando I'alto dell'intendere. Egli dunqtie distingue
ciu che s' intends, quod intelligilur, e il mezzo onJe s'inhinde, quo
intelligilur (3). ,0 quod intelligilur & I'oggetlo dell' intelletto^ il quo
intelligilur 6 la specie colla quale 1' intelletto inteude (4). Dice diinque s.
Tommaso, che u I'oggetlo primu dsdl'intelletto (il quod iii- ,u telligitur) non
I'ente e il vero comupe, ma I'ente e il vero 44 considerato nelle cose
materiali . Ma non dice mica, che 11 I'ente e il vero comsideralo nelle cose
materiali sia il mezzo, la specie onde
s'intende (il quo intelligilur)-^ e il fargli dir que* sto, i un trattare assai
male il grand'uomo. Perocch^ sarebbe pure la stran'a sentenza quella che
dicesse che I'ente e il vero come sla nelle cose materiali fosse la specie del
mio intelletto. San Tommaso adunque distingue accuratamentc la cognizione
materiata dalla cognizione formale. JNeU'ordine della cognizione Li) IIo giji
noizio illrv due vollr, die quests tens psrie non esiste. (a) In un aliro luogo
dice il Mamiaiii slesso: > E ancora poli voter dire o che I'lntellello ha
per proprio uflicio il pensare I' universale, e queslo d M il seiiso dcllaltro
passo ove leggesi f intelletto ha loperaiione saa circa Iente universale ( P. II, c. XI, vi). lo rimetlo al C. M. il
conciliare qtiesli due suoi passi. . (3) Quests disliniinne A frequenlc in s.
Toinmiiso. Vcd. S. I, XV, ii. (4) Species QUJ inlelligitilr est Jorma faciens intellectum in actu ( S. I,
XV, II). Digitized by Coogle 64 * itiatfriaU la prlma co*a clie si conosce A
Tente e' il vero cons!* derato netle cose material!, e non in separatp da esse.
C non A qnesta la nostra dottrina appunte? non diciamo noi, che la prima
fanzione della ragione A la percezione delle cose cor- porce? e che cosa A
qiiesta nostra percezione, se non Pente P il vero considerato nelle cose
material!? non -A certo costituita dalje sole cose material! la nostra
percezione, nel quaP caso saremmo 'sensisti, ma bens) da tntti e doe gli
element!, t.* Pente e il vero (formale) a.* considerato nelle cdse material!
^mate> riale della cognizione). Noi dunque quando ci gloriamo di esser
discepoli delPAquinate, crediamo di tenerci ben lontani dalla tennitii de
sensisti. Mb resta a vedere, che cosa sia per s. Tommaso Paltro prinnie oggeuo,
c IVnle cbe cade sotlo il sense e I hnmaginazione, e prupriamente la sua quid*
dila u esscnza (i)^ ma Iente col cjuale prima conosciamo $\ come specie, i
rente comnuissimo. Egli i veto che noi riflettiamo ])oscia sulld specie nostru,
onde le conosciamo soiamente dope di aver conosciuti gli oggelti sussistenti^
ma questo non toglie cbe la specie ti trovi veramenle in noi ^ perocchi
esseiido ella il mezzo di conoscere, dee essere antecedente airatto stesso onde
ai conosce, e alloggetlo materiato che con essa si cono- sce; la specie
adunque, Iente ideale, la prima cosa cbe cade nel nostro inlellelto, anteriore
allatto stesso del conoscere ogni altra cosa, ma tuttavia i Iultima a cui
rivolgianio la nostra atten^.ione (a). Ma il.C. M. continua a interpretare s.
Tommaso al suo nopo, dicendo: Dove poi
nomina Iente il primo notissimo all in* telletto, si raccpglie dall'intera
lezione chei parla ivi in or- dine
dottrinale , Gosi il Mamiani. Ma non
cost s. Tommaso stesso, non cosi qnelli ehe hanno posto an Inngo studio nelle
sue opere. Scegliamo un solo di quest], il quale raccolse le dottriue
filosofiche dellAquinate, e le ordino in un compeiidio di filosona, voglio dire
Antonia (i) Jntellectus enim humani proptium objectum cst qitirblitas ret mate-
riali's, qane sub sensu el imnffmalionc cadit (S. I, LXXX.V, v). lo'vorrri che
il C.i M. ronsiderasse ,qur[la parola proprium objectum, ebu'e relativa
Bllaltra objectum commune. Dice dunque s. Tommaso, ebe Quanlo al 3., repKca il C. Rt, che volendo
noi ammetfcre che Pastrazione di s. Tommaso avesse per oggelto dc'singolari
intelleltivi, converrebhe supporre, ad essa csser prcceduta una sintesi, colla
quale Pintelletto avesse pdrcepiti que^singolari^ ni.a di questa sintesi s.
Tommaso giammai non parla. oDove per la teofica del Rosmini fa mestieri
ammettere' nna o sintesi primitiva delPidea delPessere con la modiCcazione
rn> dividuale, s. Tommaso giammai non
parla se non dastrazione, o cio d'analisi: e dalPastrazione vuol format! tutti
gli u^iver- usali, e ciu in mille pass! delle sue opere vien ripetuto n {i}.
(tj Uic tameit dilif;enler observuntUtm esl, nos posse habere dupliccm, ends
notiliam : alteram scieittificam, peneUando scdicet ipsa entis principia^ divisianes,
proprieUdes, el ^dtsiincUonem a /brmalitatibus parlicidarium en- hum i alteram
im per feciam etrudem. i/ud solum inlelligimuS ipsam enlitatem confuse, el ul
distinctam. a nibilo. Dam ergo D. Thomas dicil, ens esse pri- muiq a nobis
cogntlum, loiiutlur de cognilione ilia rudi el imperfecta, qua omnes eltam
maxime rudes intelligaiil quid sit ens, ipsumque dislinguunl a non ente,
Goudin, Pliilusophia juxta incoiicussa' tulissimaqtic D. Tboraae ilo):mal, (om.
IV, Philosopbiae
IV Pars, DiSput, 1, II, art. 1. (1). .V. I-, l.XXXV, m; tSj P. II, c. XI, VI. Digitized by Googit Bisposla. f.44 Se 8. Tommaso
avcsse fatto cominciare il lavoro dello spirito umano dall'aWui^in luogo che
dalla sinUsi, sarebbe inpappato iu ttD error . grossolaoo assai^ imperocchi
eglj i manifesUmente uii assordo 11 pensare che lo spirito possa scooiporre
quello che Cgli DOD ha prima composto mediaote la pe'rcezione, quando pure non
si voglia sostenere un altro assurdo, cio che I'ana- ' lisi venga da noi fatta
sopra cosa non prima da noi percepita. Ora .uno sbaglio si fatto fu ben notato
nei sensisti moderni da Reid, e da 'altri pensatori ehe venner di poi^ ma in s.
Tom- maso certamente non si rinviene. s.
Tommaso che, dicendo io ci6, intendo difendere, e non me stosso. Nel JV. Sdggio
io ho dimostrato (i), che due operazioni di- stingue s. Tommaso, la prima deile
quali egli chiama illustra- zione de fantasmi (i^urtranpAcome pretendejl M.^ ma
si bene all ostrorre fa'precedere unaltra operazione intelletlira, che col
lingunggio delle scuole egll chiama illustrazione. Ora a che fine i fantasmi
vengono iliustrati dall' intelletto agente? u Acciocch^, dice s. Tommaso, sieno
resi tali, da quali si poi^ano astrarre poscia le specif intelliglbili (2). Dunque dai fantasmi per sk non si pu6
astrarre cosa alcuna, ma i uopo, secondb
s. Tommaso, che prima diventino esseri inteUettuali , fa bisogno che riceyano
il lume dellintellelto agente. Ora se a! fantasmi si dee prima di tutto
aggiungere il lume dcllintelletto agente, e se si pub solamente di poi
escrcitare sopra essi Iastrazipne , non b egli vero, che, secondo s. Tom- maso,
deo' precedere la sintesi M'analisi? non t quests Uiumi- nazione di s. Tommaso
la nostra percezione inlellettiva de (1) V. N. Saggio ecc. Sez. V, cap. IV, J
3. _ (1) iLLVIllHAUTVe- quidem ( phanlasmnta ) : quia phanlasmata cx fuluU inUHecttts agenlis
rediiuntur babilia, lit ab CIS inteAlioncs inlelligibilcs ttbih aUanlur {S. I,
LXXXV, I, ad 4). r Digitized by Coogle 6{5 siagolar!? i fantasmi non sono la
modificazione individuale? e il lume dcil'intellelto agente, cbe vi s'aggiunge,
non i IVnlo di cui i fantasmi sono puri segni od effetti? La doUrina di s.
Tommaso convi^ne danque colla niia a capello, o a dir me- glio, la mia con
quella del sanlo Doltore. . ' Ma muove il G. M. ima novella istanza, facendo
osservare, die s, Tommaso riduce lulto al principio di contraddizione, non aH'i/ituuione delTente, come fo io.
uSegli avesse creduto, dice, a qualche principio innalu, u avrebbe posto nell
animo quaicbe sintesi primitive , la cui
evidenza non dimorasse nel principio logico della ripugnanza, uil qnal
principio i nondimeno preseutato da s. Tommaso,
come il vero e il solo fondamento dogni certezza uNe manco avrebbe risolnto le proposizioni
tutte assisma- uticbe in proposizioni identiche, o come saol dirsi oggidi, in u
giudicii analitici () Quanto a
qaest'ultima proposizione, egli i strano a 'vederla accarapata contro di me.
Crede forse il iM. di disputare contro di Kant? E pure il M. sa troppo bene,
che io ho rifiutato i giiydizj sintelici a priori di Kant. Ella non merita adunque
cb'io le faccia risposta. Quanto poi al principio di contraddizione, nol faccio
io, come s. Tommaso appunto, il fondamento della certezza? non diraostro io,
che il principio di contraddizione non i altro die I'idea dcllente applicata
(2)? Non (a dunque.bisoguo nel mio siztema, che Vevidenza dimori altrove che,in
qiieslo principio, perocchi questo principio i il medesimo che I'idea
dell'entd ' Ma voi fate precedere I'idea
dell'ente al principio di coiilrad- dizione.
Si, questo i vero^ come la misdra dee preesistere alluso che se ne fa;
come gli scolastici appunto meltevano innanzi I'operazione dc\ percepire', a
quella del comporre c del, dividere (3); borne s. Tommaso stesso fa precedere
1' iutuizione (1) P. II, c. XI, VI. (2) V. Nuovo Sag^io ecc. Set. V, cap, V,
arl. 1. ' ' (3) lu una Dola ai PrincipJ della Scienia
Morale, c. I, art. iii; ho diino- siralo, colrautorila Hi AIrssaodro Hi Ales,
come IiHea ' deUenlc fu ricoiio- si'iula precedere il principio Hi
contraddizione dagli scolastici ste.ssi, appunto perche Ioperazione deW
apprendert ( simplkium inUlligentia ) ricoaoscevaua 646 dcll'ente, a1 principio
die dice Tente non ammette in si stesso
IafTermazione e la negazione ad un tempo n , che i il principio di cootraddizione.
Volete aver sotfocchio le stesse parole del maestro d'Aci apprensione o degli
indotli, o d,eduui. (2) Cmi (jiiesia fortnuU Vannuiiziava ii priucipio di
ripiigiiaiiza. (3) Iff fits autem^quae in ap/frehensione ftorntnum caifuni,
quidnm orAo itiveniiur. Nnm illud quod primo QadU in apprehtnsiont est ens,
cujus i(i- tcHeetus includitur in omnibus, q^ecumque quis apprthcndii. Ei idea
prt^ mum principium indemonslrabile st, quod , non est simul affirmarc ei ne-
fiare n: QUOD FUND.ITUM SVFSa BJTWyEU ESTJ.S BT SffTJS! ei super hoc pnneipio
omnia afia /nndantur (9. I. 11, XClV, h). Hatio entts iene a dire io italiano
il concetto o Tidea dellVnie; o sia, chc ^ il inede* simo, non Teoie
parlicolarc; nia ienle in universale. Erra duuque il' C. M. quQtido asserisce,
che per Tessere e tl vero m si dee iuteudere cli'egli vo- M lesie significarc sol que.sto, doversi
dalla tnenlc die pensa, ricevere sem- N pre
una quaich^ reahta giacch^ aticbe il .seiiso riceve una qualcliu realila
> ma rinteilello, secondo s. Tomiiiaso, non riceve solo Teiile real**, ma
B^iTlQffSU BNTIS, che viene a dire, icule ideate, possibile, universale. Sc
diinqua su questa idea dell*ciile si iorida d principio di cou^raddizionc, e
sopra qucslo tulti gli altri priiicipj, chi nun vede, chc il puiito unico e
iermtssimo sul quale, tpiasi sopra cajdiue, insiste e si volge il sapere
umatio, t I'uiiica idea dcUVulc'/ Digitized by Googk Hi E come si saprekbe, che
tale i la natura dell'ente, dhe escluda la contraddizione, se non intuendo
Iente itesso? IV. E vide peru il C. Maniiani^ che il lume dell'intelletto
agenic, nominato tante volte da s.. Tomniaso, c da luiposto innato^ nelluomo,
romperebbe al tutto il suo sistema, e (lancheg^e* rebbe il mio^ onde egli pensa
di spacciarsene coiv questa in* terpretazione :
II lume innato di nostra mente a noi lembra volere indi* care non altro
che la potenza conoscitiva ()- Bifposta.
dell'ihtellelto. Dunque non i vero xi6 che pretende il M., che pel lume
dell'intelletto agente s'in* tenda una mera potenza , al modo come il M. la
intende. Egli A bensi vero, che la potenza intellettiva non esisterebbe piena-
mente, senza il Inme che le 6 forma ^ ma ci6 non toglie che il lume non sia
qualche cosa di distinto dalla potenza, mera : ap- punto a quel modo come la
potenza di misurare non esiste- rebbe pfenamente, senza il passetlo onde si
misurano le gran- dezze delle cose^ ma cii^ non toglie c|ie il passetto non sia
cosa diVersa dalla' facolta di misurare, sebben questa abbia bisogno di
simigliante stromento per fare Tatto suo. No! pure diciamo in ugoalissimo
senso, che la potenza dellintelletto non sarebbe pienamente, senza I'intuizione
dellente, del quale si serve a intuire tutte I'altre cOse. Dallo slcsso passo
di s. Tpdimaso apparisce, che pel lume del- l'intelletto agente non si
Conoscono ni i principj, ni le cose particolari, ma ^i conosce bensi in esso e
per ess6 il principio di tntto ci6 {principium illorum quak per illud lumen
'manife- sUfntur). Dunque, secondo s. Tommaso, pel lume dell'intellettq agente
si conosce pur qualche cosa, sebbene nulla di compiuto. E qugsto e quello che
diciamo noi, conoscersi per la forma dell'intelletto non gia le cose od i
principj compiutamente, ma solo iniziarsi la'cpgiiizione loro In essa forma
intellettiva, cioi nell'apprensione dell'essere. Ma poichi il C. M. ci incuica,
doversi 'attendere alia coerenza de varj passi^ noi vogliamo raffrontiire al
passo di s. Tommaso ultimamente citato, degli altri del medesimo autore, stando
a vedere che conseguenze ce ne derivano. ii) Lumen inlellectuale in aliquo
existens peb uoovu fobujE pekuj- KENTIS et perfectae, perfied inuUecium
principahler AD cotittoSCESOV PBINCtPIvie illorum tjuue per illuti lumen
mant/estantur; sicut per lumen intellectus agentiXf prneripue intellrctns
cognoscit prima principia omnium illorum r/uae nuluraliler cognoscuiiliir {S.
II. II, CLXXI, ii). Digitized by Google Inlanlo i fla ritcnerc, cte il lume
dell intellcllo agentc, come si Fa diiaro dal passo citato, adcnsce
all'intelletto come sua forma, per modum formae permancnlis. . Ora die cosa k
la forma dell'intelletto, secondo s. Tommaso? Ella k quel principio col quale
I'intelletto iutende, quo in- ti'lligit. Quindi con tutta coercnza in un altro
luogU dimostra il santo Dottore, die all'aniraa dee cssere inerenle, come sua
forma, un principio col quale ella intenda (i); ci6 die consuona a pieno con
quello che disse del lume dellintelletto agcnte. Vcggiamo . adunque che cosa
sia qucsto principio, questa forma dell'intelletto, colla quale esso intende.
In un.luogo ci dice chiaro, che la specie intelligibile i ap; e pero il cavare
da una percexioiic la malcrla, era per cssi ipianlo a dire un ~ iiuiversaliiiai
la , Rosmini. Il Ainitopamento. 8a Digitized by Google 6So Ma qiipsla srprrip
primissima rhe I'nforma Tuinalio intcllctto, e rliu si suol cliiamare piii
comiiiiemenlc hime c\m specie (ri* srrbando questa parola a quulle che sono
determinate), che cosa c'finalmente? San Tommaso rispondc, che queslo liime
6 un'impressionc u della prima verita ^ di che conchiude^ .che noi intendiamo tutto
quello che- intendiamo, nella luce della prima verita. E s'odano le sue parole:
da dirsi, che noi intendiamo. e giudichianio tutte le cose HELLS LUCE PELLA
PRIMA verita' : in quanto che lo stesso ldmb dcllinte11etto nostro, o sia
naturale o gratuito, nienle altro u sc
non una cotal iupressione della verita prima
(i). Possono essere piu chiare queste parole? unimprcssione h clla una
semplicc potenza? 'Vha dunque una prima
verita imprressa in noi per natura, secondo s. Tommaso: non k dun- que una
m'era potenza intellettiva, priva di ogni elemento co- noBcitivo, quella che il
santo Dottore accorda alluniana natura. Ma se in noi v per natura Iimpressione
della veritA prima, qual sari poi qiiesta vmiA prima, se nqn quell elemento che
nellordine del conoscere is necessariamente il primo, e senza il quale non si
comincia mai conoscimento di nessuna verit:\? E questu primo nolo, aiizi questo
primo notissimo, come lo . dichiara s. Tommaso, i Iente comunissimo, quello di
cui anco dice, che i cosi cognito, che
incognito non pu6 essere (a) in
alciln modo. Se dunque 1. Lente k il primo noto, il necessariamente
noto, sicchi non puu essere ignoto; 2.
Se Iente si converte col vero,, cio6 ente e vero sono la stessa cosa
secundum rem, e peru Iente primo noto i anco.il primo vero^ come bo dimoslnto
in taoli luogbi del fi. Saggio. die credo inuiile qui ripcicre. (i) Dicendum,
ijuod in luce PRlUjp veritatis omnia intelligimus et jitdica- mus, inquantum
ipsum lumen intellcclus nostri, sive naturale^ sive graluilum, nihil aliud est,
quam mpRESSlo VEIUTATIS PSIUJP, ut supra diclum est {S. 1, LXXXWni; w, td t).
(a) (Ens commune) incognitum esse non potest. QQ. Disp. X, xii, ad lo in
contiarium. Digitized by
Google 65 1 ?.* Sc il tnme cleinnlellefto agcntc i In nol lanato; 4. Sc il
lume (leirintellcllo agcate ^ Vimpressione in not del ptimo \*ero: 5. Se Bel primo vero noi vcggiamo lUltc le allre
cose^ 6. E se quanto conosciamo, lo
Gonosciaiao col lame del- Pintelletlo, clie ^ rinipressione in noi di esso
primo vero. (1); ' Egli manifesto, che
secondo la mentc, o sla la coeren7.a de' pensieri di s. Tomrnaso, ne risultano
ques.tc due fcrmissim eoDseguenze: I. L\nte in universale ^ una idea iooata
tiello spirito umaoo. i. NcU'ente, e per mezzo deUente intnito, come con prin-
cipio quo co^HOSi'ilary conosce Tuoum tutlo cio che cooosce. EtuUavia dice s.
Tommaso, che noi non rifleltiamo su qneslo enlc se non tardi, e lo caviamo per
aslrazione dalle cose (tia noi concepite)^ perocch^ solamente mediante la
rillessione ci aecorgiamo del principio ui, quod esl species it\ulli^ibilis in
mlu {In Ub. JI Sent. Dist. XX, quaest. 11, ad '2). Io dico, cbe Ieule io
univer- swlc d vtTo oggctio dciiiultllcUo liuu dal primo inomcuUi die a lui
atle* 65i Che cosa adunque rIsponJeremo a quell! che contro airia- tuizione
delPente, da no! posta a principio della rilusoOa, ci fanno questa
obbiezione: come I'anima vedra I'ente
prima davere ancora ricevute le sensazion! delle cose esterne? e tut- tavia si
professano seguaci della dottnoa di s. Tommaso? Rlsponderemo queste parole
dell'an'gelico Oottore : Qaesto lume non
i obbligato al corpo, sicchd Poperazione u che gli i propria si compia mediantc
qualche organo cor- u porco: e in questo ella si trova superiore ad ogni
material u forma, che non fa operazione se non tale, a cui la materia
ucomunichi (>) - E crediamo con ci6
averli ^ pieno soddisfatti. ' . . V. Ma segnita il G. M. la sua
interpretatsione di s. Tommaso, dicendo, che da lui v innati furono detti' i primi
principj sic* Kcome quelli che si rincontrano anterior! sempre a qualunque nostra cogitazionc (a).' . - Risposta. . Le, parole del G. M.
cii,danno piii che n'oi non vogliamo. 6e i primi principj si riscontrano
anteriori sempre a qua- lunque nostra cogitazione, dunque non sooo Pelfetto di
qua- lunque nostra cogitazione: dunque sono innati. Ni s. Tommaso, ah io suo
minimo discepolo, abbiamo mai dctto tanto. San Tommaso s pure spie'gato senza
equivoco, ha pur detto egli stesso in che senso dica innati i primi principj:
perchi non consiiltarlo? perchi tentare d'indovinare quello che si pu6 risce,
qiunlunque niana rijltssione faccia sului la meole, se non assai tanli, eJ i
pel' cio, che assai tardi di lui distiulaineDte ci accorgiamo. (i) Hoc Jumen
(intelleclui agenlis ) non esl,coriiori obtigatam, ut ejus opcmlio per organum
corporeum impUatur; in t/uo invenitur superion onini mulcriali forma, i/uae non
operalur nisi operationemi cui communicut ma- lena. QQ. Disp. Q. XIX, art. I.
l-i) 1. II, c. XI, VI. Digitized by
Googk f553 lii>gcrc ia s. Tommaso mcdcsimo ? Ecco adunque che coia vi &i legge: u dentro noi
ia certo modo immessa origloalmonte ogiil u scienza nel ldme dell' intelletlo
agente, niediaate le conce- u zloni univursali che pel lume dell'intelletto
agente di subilo u i ronoscono. ]>er le quali concezioni universal! si come
per universal! principj giudicliiauio
dellallre cose, 6 in esse le u preconosciamo
(i). Questo luogo fu da me citato nel Nuovo Saggia Sez. V, t. V, art. I.
Dice medesimamente altrove: Pel lume
dell'intelletto agente > I'intelletto conosce precipuamente i prim! principj
di tutte X quelle cose che naturalmetate si conoscono (a). Egli i dunque chiaro, in che senso
dicansi innati i primi principj: non altualmente , ma virtualmenle. Non v'ha
pro* priamente d'innato, che il lume dell'inielletto ageqte, secondu s.
Tommaso^ ma in questo lume si' contengono virtualmenle primi principj, i quali sono il lume st^o
dell' inlellello cun* sidcralo nella sua varia applicazione. CAPITOLO LV.
COHTI.NUAZIOHE. Fin qui le osservazioni inlorno al modo' d' iulerprelare s.
Tommaso, che lisa il G. M. Or poi , acciocch^ meglio apparisca quanto
I'Aquinate si lontani da'sensisti modern!, e come a tofto alcuni di quest! il
credano a lor favorevole, perch6 trovano clregli fa ueces* sarj i fantasmi
all'umana conoseenza^ credo non dover e^sere inutile il soggiunger qui tanto,'
che hast! a dissipare una vulla cosi falto pregiudizio, che agli avauzanienti
della sana GlusuGa in Italia polrehbe arrecare in veru non picciolo nocumenlo. a tal Gne loccher6 solo le due seuleuze
caralterisliche del (i) De Slente Q. X, art. vi. S. II. 11, CLXXI, II. Digitizc-d by Google 6.;4 fislenia
scnsistico, 1c quail . controverlibile presso i sensisli. Chi potrebbe credere,
che Carlo Bonnet, uomo si giudizioso, e di un nictodo esatto nelle spe- rienze
(isiche, lavorasse poi tanto d'lmmaglnazione. e d'analo- gia Irattando delle
operazioni dello spirilo? Egli vide, alcune operazioni dello spirito nostro
essere dipendenti da' movimenli del corpo : gti bast6 ; ' e corse per analogia
alia conclusione , che dunque ogni operazione dello spirito t impossibile
sen/.a de' movimenti corrispondenti nella materia : sopra uua base cosi
vacillante egli fabbricu .poi la sua Palingcnesia, ed altrc immaginarie !>ue
teorie. Non parlo di Hartley e di Pristley, i cui concetti Dugald Stewart
chiamava, a ragione, sogni e ca- price! (i). Or dico, che ci(^ contrario dirittamente aLconcetto che 5.
Tommaso si formu del pensiero. Vide egli bensi, che si fa- cevauo nel nostro
spirito delle operazioni, le quali aveano bi- sogno degli organ! corporal!^ nia
non conchiiise per questo, colla fretta de' nostri sperimentali, che tutte
ugualmente I'a- vessero; ma ne disamino gradatamente tutte le varie fiinzloni,
e ne trov6 pur una piii sublime dellaltre, iudipendente dagli organi, e in
quella fuuzioue appuntopose I'inteodimento. Eceo com' egli si esprimc';. u Di
tanto (I'auiroa uniana) colla sua virtii eccede la nia- e teria corporate, che
ella ha qualche operazione e faculta, a Delia quale la materia curporale non
coniunica per modo u alcuDO. E questa facolta dices! inlcllcHo n (a). (i) Essay fourth, on the
lUcla/i/ifsical theories of Uurtli y, Priestley by Da^nht auwort. Kdiinliurgh 1810, vol. IV. j.' 1, l.XXVl, I.
Digitized by Google I , 655 In nltro luogo dice lo slcsso rliiaramcntn: La virtu inlel- li'Uiva non i virtii di qualche organo rorporalc:
siccomc la virtii viniva at'lo dellocchio. Imperocchd 1' intendere i
un atto die non pu6 esercitarsi mediante
un organo corporale, siccome sesercita
la visione (i). E ancora: Airanima
intellettiva non e bisognevole il corpo
per la stcssa operazione intellettiva considerata in si stessa, ma per la facolta sensitiva, die addimanda un
organo equa- u mente complessionato (a).
Anzi di plii: non si potrebbe dare, secondo s. Tommaso, operaaione alcuna
intellettiva, se Iintelligenza dovesse essere impacdata colla materia. u A
questo, che I' uomo possa intendere tuttc Ic cose per via d'intdietto, e a questo, che I
intellelto' ii^tenda tutte le X cose immateriali e universali, egli basta che
la virtii intel- X lettiva non' sia mi atto del corpo (3). E altrove: u Egli ^ impossibile che il
principio intellelluale . X sia corpo: e similmente i impossibile che intenda
per mezzo X di un organo corporeo; pcroccbi la natura determinata di X quell'
organo corporeo inipedirebbe la cognizione di tulti i X Corpi^ siccome se
qualche determinato colore fosse non solo- X nella pupilla, ma ben anco nd vaso
cristallino, I'^mfuso li* X quore apparrebbe dello stesso colore.'ll perchi
Iintelleltilale X principio, che chiamasi mente o intelletto, ha cotale opera-
X zione per se, a cui il corpo punto non comunica n '(4). San Tommaso adunque
riprova come falso il primo prin- cipio demoderni sensisti, che Ogni operazione
intellettiva abbia bisogno d'un organo corporeo per efl'ettuarsi. (i) S. I,
LXXVI. I, ad 1. (a) S. I, LXXyi, V, ad 2. (3) I. LXXVI, I, ad 3. (4)
Impnsstbile esl igiiar quod prineipium inlelleetuale sil corpus. Et si- mililer
impossibile est quod inlellignt per orgnnum corpofeum : quin iidlura
determinata illms organi corporei prohiberet cngniliontin omnium corporqm ;
sicut si aliquis determinatus color sit non solum in pupilla^, sed etiam in
uase vilreo, liquor infusus tjusdem colons videtur. Ipsum.igitur intellecluale
prineipium quod dicitur mens, vel intellectus, hsibet etperalionem per se, cut
non comunicat corpus {S. I, LXXV, ii). Digitized by Google I/altra scntcnia
caratferislica del sistcma sensistico si i, che u luUe te idee o cognizioni
umane si ridiicano alle sensazioni u o alle immagini , sicchi qucste formino,
come suol dire- uno di qucsti filosofi, lo sgranellato del sapere umano. S'l
falta proposizione i conqessa colla precedeote, qnasi nn corollario. Perocchi
se lo' spirito i materia, come vogliono i materiali* sli, o se noq si danno
allre opcrazioni che del congiunto, cioi deir Msere mislo di aniraa e di corpo,
come aiTermano i sen- sisli^ certo che il pensiero si dec tuttb ridurre a
seasazioni di vario g^nere, e variamente modidcate , conciossiachi I'esscre
umano, in quanto i misto, non produce che sensazioni. Ma all inconlro, se si
pone, con s. Tommaso, che vabhia una poten7.a e iin atlo dellanima, ch6 non
operi insieme col .corpo, n& per mezzo di. alcun orgaiio corporale, nia
tutto solo c scevro da ogni materia; convien dire, che le specie o idee duve
(ini.sce quest' otto, nun .sieno n6 sensazioni, ni fnntasmi (i quali non son
piii die sensaziuni riprodulle nell'organo interno).^ non potendo .stare ml Ic
sensazioni ne i fantasmi senza una passione dell'organo cor|>nreo aniniato.
Cost appunto s. Tumbiaso: ufe manifesto, che le apparizioni u iiiimaginaric si
cagronano a qnandu a quandu' in noi per ana u Irasmutazione locale de'
corporal! spirit! ed umori n ()- E la cumunione della, sensazione e della
fantasia viene pure cosl espressa da s. Tommaso: II principio della fantasia
procede u dal senso rispetto all'atto suo. Imperocch^ noi non possiamo u
immaginare quelle cose che in nessun modo abbiamo sentite X ni in tutto, n^ in
parte: siccome il cieco nato non puu im- u niaginare il colore n (2). (1)
Matuftslum est auiem quod afpariiiones tmaginariae enuiantur in- tcrd\tm in
nobis ex locali mutatione corporalium spintunm ti humorunt (.s. I, CXI, III).
(2) Pnneipium pliantasiae est a srnsu secundum nctum. Non enim possu^ imoginnri
quae nntlo modo senttmus vel secundum totum, i^et secundum put tern: sicut
caevus tmius non potest tmogmart colot em (5. 1, CXI, in, ad i). Digitized by Google
Or (lunqup se la senjazioiie e il fantasma i srmpre affissu aUorgano corporalc
vivo, seconrio s. Tommaso,. ed e uoa pas* sione d! lu!^ egU i pure impossibile,
che quelle die s. Tom* inao chiama u specie iotelligibili n, abbiano niente di
comone co'fanlasmi^ pi'roocbu quesle apparteiigono all alio dell' inlel- Irlto,
che 6 aff.ilto inimuDe da qualsivbglia ma'teriale concre* zione, giusta
I'Angelico. Perci(^ s. Tommaso si dicbiara, e dice aperto: u Non i gia tt il
fantasma stesso la ybr'mn dell' inlelletto possibile, ma si u bene la forma di
lui i la specie iiilelligibile che si astrae u da' fantasini n ( i). Sul qual
luogo coDviene considerare, che s. Tommaso fu oh* bligato di usare quella
maniera di dire, che le specie intclli-
gibili si astraggoiio da' fatilasmi, perchu mauicra comur.e delle sciiole e
deH'arislotelismo, che si seguitava quasi per ferma legge. Per allro quella
maniera sommini.st.ra luogo ad un equivoco, Bel quale cadciero virnmente molti
mediocri ingegni. Clie Ia* strarre una cosa da uu'.altra (a) puo anco importare
che si t.rovi la cosa che si astrae, nella cosa oude si a$trae^ sicchi egli
sem- brerebbe che ne' faiil^smi si oontenessero in qualche modo le specie
inldligibili. Ma I'Aquinate,. sentila I'ambiguila della frase, dichiaro la sua
mente in modo da levac ogni equivoco, chi attende al suo ( I ) Ipsum pluuitasma
non esl fdrma inlulleclus possUntis , $ed species in- Ulitgibilis, quite II
phantasmaUbus abslndiilitr [S. I, LXX.V(, ii). (a) il pero eerlo/clie bene
.spesso s* Tonima.so n qiieslo moHo, ** nslrsrra fUMIinta.smi nc, e da quest!
segni la cosa segnala. Or come si puu fare questo natural passaggio da'JtmUismi
agli oggctli ho dimoslro^o in ouii
lini^a nola, che VmUlUtto agente, in quaulo fa quesU operazione di coiiver*
tir5i a fantasmi ed illuttrarii, ^ Iauima, Vio ad uo tempo Miisilivo e iii
tcll>ttivo posscssori de*fan|asmi e dchidca delTcnte. (3} S. Tuinmaso
ricouo^ce per eaallo questo ar^oineuto: m iao spirilu tiu> slro gimlica de*
fantasmi : dunque egli ha un alio al lutlo diVcrM e iutli> ptiidenlc da*
fanla.smi slessi m. Ecco le sue parole: A*l Uoc quod amma ^udicel de laltOus
imaginibus, quod non sunt ipsae res, sed rtntm simdilu- dines, oportet esse
ahqutd in antmu superius^ quod islis imuginibus non ru rnpfitur: el hoc esl
mens, quite de tedUms imagintUus JVPlCdRE potest, L),.sp. n \IX, alt. I, ad 1
4. 6(io Niuna tnaraviglia adnnque, se s. Totmnaso dichiari essere entila
diverse i fantasmi e le specie intelligi/>ili, soggiungendo alle parole
surriferite: I vrrsione inJica ]a sletsa cosa clic in altri luoghi si
disse il- Iiistrazione de' fantasmi , che
Paggiungcr loro il lume del- Ilntelletto agente, o>-sia Vente. ' E a
vedere ancor meglio, die la cosa sta cos), basta accura- te mente analizzare
Poperazione che fa Piutelldto agente o sia Vanima sensitiva-inullettiva,
secondo la descrizione fattacene da s. Tommaso. ' Vi lianno prima i fantasmi, i
qu:^i stanno nella fantasia, ill un organo vivo lor propr'io. Or che cosa sooo
essi>? Non .i reppresentanti' delle cose, ma solo deMoro accidenp'. u H
senso, u dice in moltj luoghi il santo Dottore, non apprende le es- senze delle cose, ma solo gli esteriori
accidenli-^ e il siraii u gliante si dica delP immaginazione n (i). AlPopposto,
die cosa vede Pintelletto mediante la specie intelligibile o idea? L'ente, la
soslaoza, dice s. Tommaso. , u I.a sostama come tale, non visibile ad ocdiio corjiorale, u ni soggiace
ad aicnn senso, ma nd pure all immaginazione, u ma solo alPintelletto, di cui
Poggetio e la quidcUli (z). Dunque Vintellelto vede uua cosa al tiitto diversa
da quella die percepisce il senso ^ dunque net fantasroa non ve puntu ti poeo
Poggetio ddP iutelletlo , che i PenlO stesso, o P es- senza della cosa. ' , . A
che dunque ha bisogrio Pintelletto agente di rivolgefsi sopra i fantasmi ? Non per vetlervi qiiello che' in essi non i,
ma per argomenlar da essi una cosa da essi diversa. 1 faqla- snii son dunque
alPintelletto un cotal segno, come tante volte ilicemmo, onde egli argomenta
Pesistenza de corpi che quel segno haniio ,prodotto , e nulla pin. Ecco che
cosa sia' il conveilirsi supra i
fantasmi dell iiilelletto agente secondo la descrizione che di questa
operazione ci da s. Tommaso d'.Aquino. Fermale queste cose, andiam olire. (i)
Senst{s non apprehendil essenlias reriim, sed extenorq accidentia tan^ turn ;
tirnililer neque imnginalio {5. 1, LVll, i, ad a). (a) Substnntia aulem
ir^quanlum hajusmod^, don eil visibilis nculq cor- porali , ilei/iie subjacel
alKut seiisiii, sed nec etiam imaginatior^i , sed soli iiiUlIccluij cii/us
objectum cst quod quid est fiS. Ill, LXXVI, vii). *()() Or (love , ip qiir^U
oprraziooe , T iptellctlo agenle trova I'enle? conic pu6 iixusare al pepsiero
di questo, cbe pur uon i pc' fantasmi ?
Risponde s. T6ninnato,.chu Tcute k I'oggclto naturale dclIiptelleLto
(i)^ I'iiitellctto ddunque suppUsce I'ente del (QO^ eglia de'suuiaccidenti .
Questi sono i due passi delPastrazionc da me dislinti. Or posciachi il
ijantasma, come dice s. Toinmaso,'
sempre parlicolare e di ebsa particolare (i), quando alPopposlo Penlc
die vi pone P Intelletto e sempre universale^ avviene die accon- daniente ,s.
Tommaso pronunci , i. Luniversale esscre'il pripcipio delPintendere (3), ' (t)
Ol'/eclnm inteVtcliis est qund quid out, id cst ipsa tssenlia rei: et SIC simditudo rri quae eat ia inlelicclu,
est simdiludo directe essenhae ejiist simduudii iiuiein quae est in sensu vet
imaginatione^ est similtUulo accuien* Hum rjus. (jy. Disp. (J. Vlll, ri. vii in
1. . (zt Jmnginatifl non est nisi corpondium et singutarium^ rum ptiantasia sit
nmtus /actus a sensu secundum actum,
hUetleclUs auteth unicersatium et incnrporalium est. Prubatum est in 5 dc Anima, quod intelleclus
non est actus alicujus partis cflr/un is, imagiaalip autem habet inganum
corpvruie detcrmiuatum. P/oii eat igitiir idem imuginatio ct inteitectua
possibiUs. Cuulra Lxvn. (5) Universale se.cuiidnm ipiod uccipitur cum
inleiitioiie iiniveraulitiitis, eat qmdeni qiiodiiinmodo puna i/Hiirn
ctagiiuscendi, factiut intciilui universailitatis conseqiiitiii tiivduin
uitcUigaiidi, qut cat pei ubsU acUuncni (A'. 1ecincato, e ridoUo a stato di
specie delermiiiata, nel modo cho abbiamo.tante volte dichiaralo. ' ' ' ^ V
CAPITOLO LVI. COHTIHDAZIOHE. Ora io non so, se il C. M., tutte queste cose con
pacata niente considerando, vorrebbe scrivere aiieura, cliu s. Tommaso, , u
quanto s'adagia cun la dottrina professata da lui, altcettanto sembra scostarsi da quella specialissima del
Rosmini n (3). . Ma acciocchi si possa recar sopra di cio il pin fermo giu-
dizio,io non vo intralasciare d'agglunger qui un confronto fra il C. M> e s.
Tommato circa'un punto speciale di somdia riluvanza, circa quel punto, voglio
dire, cbe ^ Io scopo diretto del libro del Rinhovamaito^Ae guareotigie della
certezza del sapere umano. ' Noi abbiam veduto il C. M. ridurre tutta la rerita
acces* sibile alPuomo a ccrti modi dell'anima, e cost rcndere I'u* inana
cvgnizione soggettfva: all'obbiezione poi, die la veritA diviene per lal modo
una mera produzione di un essere contin- gente, e per6 ch'essa rimane spogliata
de'suoi .caratteri di ne'> crssita e di assoluta certezza, rispondere, che
anche il sistrma contrario scontrasi nella medesima difflcolta; perocdii quan*
d'anco la verita fosse uu oggetlo indipendente dall'uomo, do- sd 4)' Pice che
il coDOSeere si fa per abstractionem , cioe, come ahblamo spiegalo,
considerando I'enle posto daUinlelletlu, c prcscindetido dalla ina- teriidilA e
parlicolariti de fanlasmi. (i) Hoc ipsum quod tsl inlelligi ee/ absirahi, vel
inUntio universglilatit est in inlelteclu {S. I, LXXXV, ii, ad a). (a) Quae fjuidem inlentio nihil
aliud est quant species intelligibilis. QQ-
Dis|y. Q. X, art. VIII. 0) P. II, *c. XI, VI. ' Digitized by Google GG4 vri bhc
tultftvia esser semprc dalle facolta iimalie rlceviita, e petriL) parlecipare
al difetto c alle conlingeuze di questc. 1 replica! esser vero, che la verita,
perchi aU'uomo si co> tnuiiiclii, debba esser accolta dalle facolta umane^
ma non es- ser altrcttanto vero,- che queste facolta, jn accoglierla, s'abbiaii
tanto d) potere, da manometterla. ed alterarla; .csseodo ella impassibile di
nalura sua cd imniutabile. Sicch^ nella natura eterna, immiitabile, divina
della verita, io riposi tulla la gua- renligia della umana cerlezza. Vogliani
vedere come la pens! I'Aquinate, e se con me, o rnl M. Anch'egli intanto
I'Aquinate sente tutta la forza della dilGcolta toccata-, 'ma vorra per queslo
mantenere, che la certa verita si possa trovare o nelle s^nsazioni, o nelle
modiGcazioni ' del soggetto umano, come fa it Mamiani? Anzi egli s'accorge da
ci6 stesso, come da nuovo argomento, che la certa verita ubii puu aver sua
stanza e sua origine in nulla aflatto di sensi- bile, in nulla di contingente,
in nulla di crealo: il santo Dot- tore non trova altro asilo alia verita y
altra sede cobsistente e sicura, se nun IinGnilo essere: egli intende, che
luttu altrove- la'si faccia consistere, ella e svanvta^ niuna verita ci resta
piii alle mani, ma un ingannevole simulacro di quella, nn nome; un nome che
dice una menzogna. dunque col far'divenirc la cognizione e la verita, di cui
I'uomo partecipa, noq da' sens! , non dall'anima nmana, non da alcun essere
create y ma da Dio stesso, che egli crede potersi solo guarentire all'uQino il
certq possesso di questo inestimabile tcsoro, \st verild ^ c tiene elie nun ci
abbia altro tnodo al moodo fuori di questo. Tale la manriera d; peiisare di s.,Tommaso. Si
vegga .s'io dico vero: si vegga se dalla n).ateria de'sensi dediica I'Aquinate
la certezza, o da piii alta origine. a Tutta la certezza della scieiiza nasce
dalla certezza dei principj. Perocchi^
le conclusion! allora con certezza si fanno, u quando si risolvono ne principj.
E per6, che qualehe cosa si u sappia di certo, nasce dal lume della ragione
immesso ipter- u uaraente a nOi Divi.NAMEMTE, col quale IDDIO in noi parlan
(i). (') QQ. Disp. Dc f'cvil. Q XI, arl. i, zj i3. E tiicora poco sppresso
Digitized by Google GGr, Non tuUo adunque rtiumo lia ila'^en^i! qn;)lc1ic cosa
ncl sislema intclletlivo di s. Tommaso ci tliscende Jail' alto! ft Gotesto
1ume^]ella ragione, dice ancora, col quale a tali priocipj ci sono noli, ^
immesso in noi da Dio, come u iina colal sioiililuJine in noi risultanlc della
increata ve- u rita (i). Si noti die
Vincrcnta i^eriUi per s. Tommaso h una sola, ed d in Dio, eJ ii Dio slesso, c
qiiivi dia ha la sua eternita (a), e per essa sono vere lutte le cose (3). Di
chc, veggano quei sensisti piu moderati, che professano a s. Tommaso grande
stima^ come fa il Mamlaoi, die non ^ per avventura da^sensi, die noi
raccogliamo c partecipiamo la verithy secondo IAn- geli.co, ma si da Dio^
perocche veggchJola noi vcramente eteroa, e non essendo ella eterna che in Dio,
convien dire cite in Dio la veggiamo, e die da Dio ci venga' qucsta luce,
sccondo la quale giudichiam de'fantasmi e delle* cose tulte, siccome con
suprema norma ed infallibilc (4)* 11 perchd s* Tom- ; , . / (ft(i 1^^ dire
cos): Certitudmem sdentiae, ut dictum est, habei nhquis a SOI^O DEOf qui nobta
turr^en rattoms indidilg per quod principia cogno* scimus, CT quibus oYitur
scientiae cc4.iilndo. (i) Hujusmodi autem ralionis Uuucn, quo principin
tjusmodi sunt nobis notrtg ent nobis a Deo inditum, quasi quaedam similituiio
INCREATM yERlTATiS in nobis resuliantis. QQ. Di'sp De Verit. Q. XI, nrl. i.
('i) ruillus intellectus essel aeternus, nuifn veritas esset aelema, Sed quia
solus intellectus divinus est ncternus, in ipso Solo veritas aelemitatent
liabet (5. I, XVI, vit). (3) Ontiies ( res') sunt vcme una PRIM A veritattf cui
unumquodque fliii- miiatur secundum suam entitatem {S. (, XVI, vi)- (4) S.
Tommaso avea detto chc (ouc le cose sono verc per la h prima verllR M die e
AcUa meute divion. Ora non si creda,-chc.il santo DoUore togliesse niruomo- ta
visla di quesla verila} nel qtil caso Tuomo non parte- ciperc'jlie della
verita, esseudo qiicsta una sola. Aiizi eglt fa, chc noi giu- clichiamo dellc
cose apponto secondo questa verity prirna: r K*'da dirsi , M eoti egli, che
Tanima nun giiidica delle cose tuUo secondo quaiunque fia e,e soto Dio i it ben
uni- versale. Laoode egli solo adempie la volouta, e sufncieiilc- mente la uiuove come oggetto (i). E cbnvicn
badare, che s. Tomnia'so intende di spiegare collo slesso argnmento Un fatto,
che i Iiiicliiiasionc al bene in uni- 'vcrs.ile, die ba la volontu , in
conseguenza della nolizia del- t'vnte in nniversale che ha Iintelletto^ anzi in
questo fatto pone s. Tommaso con-.istcre la propria oatura delta votontli^ di
che concbiiide, che Dio solo pu6 esserc I'autore iVella volonta, come quegli
che solo pui^ cagionare questa iiicliuazioae al bene in universale (i), la qual
e quella die produce poi tutte Laltre vulizioni (?l), come dalP intuizione
dclleiite in universale pru- ccdivno liilli gli altri atti conoscitivi.
a." Uu altro principio, onde parte s. Toniiuaso a condiiu- dere, ehc'il
fonte della cognizione, umana,e di sua certa veritit non pu6 esser n il senso^
ue Paoima nostra, ma solo Dm, si e (>) tmm rjus ( voluntatis} objei twi
honum univrrsaie, sicat et intrh- lecUts ob^rcium vi/ EtiS VNtf^EESALE.
Quoiiiibet aiUem botutm cr^tum est quoddam^parUcuiare bonum, solas aulem Ucus-
esi bonum unis/ersutea Unde ipse solus i/riplet voiurttalem, et suJficiefUtt'
turn movet ui oUjeetum {S. 1, CV. ly). (i) Columns habei ordinem ad universale
btsnum^ unde nihil aHud potest esse voltyUatis caiua^nisi ipseDeus,quiesi
umytrsale bonum ^S. I. U, IX, yi). (3) w IJdio muove la volonUi deil'iioiuo
siccanie universal inotore aUu*
otversalc oggeUo dcUa voloula,' ch e il beue( e tiuia (juusia
.uoiviT:iMl w mozlooe I'uomo ooo pu6 volcre cosa alcunaw fS. 1. 11, IX, vi, ad
5 ). VJia duuque neHa tolouli una iocliDnatotie al bene in universale,
anlecHdenlt* a tuUi i moYiiaeoli parlicolari dtfUa yoloula, che souo eltelih e
ap^dieaaiout di f|uclU. iticliualtoue. Ora V umvei'sal bene nou e allro,
secoudo Tonunasu, pareuu v I. U, IX, vi, ad 5). Digitized by Google r>r,8
1unita' perfctta di essa cognizione in tutti gli nomioi. que- !ito uno (1! que
solenni principj , che gla prima avea usato s. Agostiiio, come toccammo, a
provare il medcsimo, e che sono di una forza Ineluttabile. u Se eiitrambi noi
veggiamo. avea detto il gran vescovo afri- u cano, esser vero ciA che tu dici,
cd entrambi veggiamo esser u vero cio che io dico, e dove, di grazia, lo
veggiamo noi ? -N4 u io certo in te, tu in me', ma si I'uno e Ialtro nella
stessa iiicommutabile verita. che stadi
sopra alle nostre luenli (i). Questo
luogo stesso (: recato da s. Tommaso, il qual poi soggiungc: biamo toccato di'sepra, che da' fanlasmi
I'intdlctto si foritia le specie intelligibili, che ne fantasmi piioto non si
contepgono. Dinianda egli, come avvenga, che da'fastasmi, i qiiali' nulla piu
esprimono o contengono che alcuni accidenti delle cose, noi tuttavia
trapassiamo a concepirc le- cose stesse^ e onde sia, che i fantasmi non abbiano
virtu dilluderci. Noi giudichiamo i fantasmi, dice egli, cioi -giudichiamo
ch'essi non sono'altra cosa, se non certi efietti e segni di cose csterne. Or
ciA che giudica, cio che ripone i fantasmi nel novero delle apparenze, dee ben
esser da piii de fantasmi stessi^ anzi dee essere .ua liime infallibile,
imperocch'A sen^a un lume infallibile, noi non jHitremmo giapimai con t'al certezza
separare le appat'enze, e iissarci nelle realta. Conchiude il Santo: u
Ricercasi a tal giudizio, e alia sua certezza, il lume del- u I'intelletto
agente, pel qual jume noi conosciamo nelle cose hen di noUrsi, cbe qtieslo
iolellctlo sejiarato, aulore unico del luiiic ualuralc e supraniialurale Aeile
niciili, si ammette da s. Toiniiiaso come cusa parleoeute alia fede crisliaaa,
e non come semplice opiaiooe iilosolica: JnItUectus separalus, dice, secundum
nostrae fidei documenta, tsl ipse Deusj qui fst creator animae, el in quo solo
beatificdlur. Unde ab i/'so anima humana lumen intelUcluale participate
secundum illud; Signa- lum est super nos lumen vultus lui Domine {S. I,
1^XX.1X, iv)- Digitized by Google 6 JO niutabili immutabilmente la Tcrita, e
disrerniamo le slesM cose dalle
simitiludini delU cote ( i ). Ma cfae ^
questo discerner le cose dalle 'loro simiUtudini? dove trovo io qucste cose da
scernere?'ben ha i fantasmi net seDSO, o sia le simililudini (se cosi si vuol
chiamarli), ma le cose ovelle SODO? e come so io che i fantasmi sono
simililudini o vcstigi di altre'cose? chi mel dice? Quesle cose non
presentatemi ne' fantasmi, ma si nelle specie i/j{e//i^'Z>i7iVche nulla
hanno a far co' fantasmi, mi sono, risponde 5. Tommaso, presentate da Dio, il
quale i quegli che imprime le specie neiranima nostra. u Essendo egli il primo
bntb (queste sono le palrole del santo
Dqttore) u e in lui preesistendo tutti gli enti ;iccome X Delia prima causa, i
uopo che sieno in esso intelligibilmcnte, u secondo il modo di lui.
Conciossiach^ a quel modo, che tutle X le ragioni iutelligibili delle. cose
primamente esistono in Dio, X e D* I.DI SI DERIVANO HECLI ALTRI IMTELLETTI ,'
acciocche qUelli xallualmente intendano (Jcra tKTEiLiGAST)\ cosi pure si de- ^
X rivano nelle creature acciocche sussisUno. E per6 cosi Iddio X muove
rintellello creato, in quanto d& a lui la virlii d'in- xtendere, o nalurale
o sopraggiunta , e in quanto, imprime a xLoi Le SPECIE 'iMTELLieiBiLi : e 1 una
e Ialtra cosa inantiene, e , xconserva in essere i> (a). Or dicendo il
Santo, che vengono queste specie impresse da (i) Hequirilur enim lumen
intelleclus ageiitis, per quod immulabUiier ve- rilalem in rebus mulabilibus
coqnoscamns, el dtscerriumus i/isas res a simi- litudinibus rerum ($. I, LXXXIV,
vi, xd r). allrovc dire il nicdcsinio:
Jdeo ad hoc quod anitna' judicet de tahbns imagintbus^ quod non sunt ipsae res,
sed rerum similitudines. oporlet esse aliquid in anima snperius, quod istis
imaginibus non occnpalur; el hoc esl mens, quae de lalibus imaginibus judfcare
potest. yQ. Disp. De f'eril. t). XiX, i, ad 14. (a) Cum ipse sit primum ens, et
omnia enlia preexistant in ipso sicul in prima causa, eportel quod sint in eo
intelligibihier secundum modum ejus. Sicut eaim omnes raUones rerum inlethgibiles
primo existunt in Deo, el'nb eo derivanlur in alios intelleclus, ul aclu
inlelligaiit: sic etiam dtrivanlur in ereaturas, ul subsislant. Sic igilur
Deiis move! intelleclum crealum, in- quantum dot ei virlulem od intelligenilum
vel naturalem, vel sii/ieraddilani, ct inquaiiliim IMPRIIUIT El SPECIES
INTELLIGIBI l-ES cl ulrumque tenet, et tunseiral in esse (.J. I, CV, its).
Digitized by Coogle I Dio iicirintelleltn cirati), acriorclii egli allualmenle
liitenda, non viene egli al liiUo escliisa ogni interpretazioDe che polesse
miiiiiirt: la for/a di questo passo? Ma se le specie intelligibili simpriinono
da Dio, a che doii- qiiu serve PintellcUo ageiite? a che i sens!? come si
conciliano gii altri passi del santo Doltore? Riassumiamo- brevemenle tutlo il
sislema di s> Tommaso, e. Sara fatta la risposta a questa istanza. Conviene
distinguere qiialtro cose: i. il lume dell'intellello agente, a. i primi
principj, 3. le specie intelligihili, 4-* i fan- tasmi che provengono dalle
sensaziooi. , , II l.iime dell'inlellelto agente e impresso in noi per natiira,
iinmedialaniente da Dio (i). I primi principj non sono a)tro che lo stesso Inme
dellintel- letto considerate nella sua applicazipne. Perciu dal -santo Dot-
tore si dicono anchessi innati, in quanto che non si formano per induzione da
casi particolarv, come yogliuno i sensisti du' nostri tempi, ma immediatamente
appariscono (nio nelle prime c pin elementari operazioni intclletti've
drlluomo, ed appari- scono come evidenti e indimostrabili, appuoto perch
parteci- pano, o .piu tosto sono il primo evidenle, \\ lume dellintelletto di
cni si fa per noi uso. Ma perocchi'noi pronunciamo quest! primi principj in una
forma scientiGca solo assai tardi, per questo i 'modern! si danno a credere,
che noi veniamo Icn- tainente e faticosamente formandpceli ^ senza osservar
punlo, che noi ne facciam uso sempre, e che non si puu assegnare un atto solo
della mente, senz'essi. San Tommaso perciu dice: uE cosi I'nomp rioeve la
cognizione delle cose ignote per udue mezzi, cioi pel lume intcllelluale, e per
le prime con- u rezioni per s^ note, le quali rispetio a quel lume dell'inlel-
uletto agente stanno come gli stromenti allarlefice. Laonde' si u quanto
alluna, che quanto allaltra cosa, Dio e cagione della uscienza delluomo in un
modo eccellentissimo: conciossiacli6 egli e decoro lanim% dcllintellettual
Inme, e vimpresse la (i) T)ocere riirilur tiupliciler, scilicet principnhter
infnnilenilo lumen, et inslrumentaliter dirigendo primum aulem SOL! DEO ( convenit ). . u
nolizla de pnmi prJncipj, die sono si come cerli semenzaj u (Idle science, a
quella guisa appiinto che andie nelle allre 14 rose natural! inseri Ic
semiiiali ragioni di tuUe Ic cose 'da a prodursi (i)> 1 prlmi principj adunque non si
formano^ ma risplendono per tosloch^ si comincia ad usare del lume
deirintellelto^ e in questo signiHcalo son'o delti innali^ per ih noli,
inseriti in noi da Dio come semi di hitle le scienze^ sebbene essi pertS non si
manifestano cbe col primo uso cbe facciamo del lumc inte1leUiv6 (i). Ma in cbe modo quest! primi principj si
manifestano? Fino a tanlo che noi non abbiamo cbe i Jhntasmif non si possono
manifestare^ ma col pur formarsi in noi delle
specie intel- llgibili n, cio^ col primo pensiero di esseri sussistenti,
tosto quelli hanno un oggetto ove mostrare la loro efltcacia. M PreesistoDO in
noi, cosi s. 'rommasq, certi serai di scien/a, ucioi le prime concezioni
dellantclletto, le qtiali iocontanente, ucol lume ddrin\el1etto agente si
conoscono per le specie uastratte da' sensibili n (3). (i) Sic igitur homo
igaotorum cof>nitinnem per dun accipit, scilicet per lumen iniellectuale, et
per primas enneeptiones per se notas, rjiinc rompn^ ranlur nd istud lumen, quod
est inleltectus agenlis, sicut instrumenta ndar* tificem. Quantum igitur ud
utrunufuc , Dens fiominis scienCiae causa est exrciUnlissimo "modo: quia
et ipsam animam intgUectunU lumine insignivit, et notitiam primorum
priticipinrum ei impressit, quae sunt quasi quaedam seminaria scientiarum,
stcul et aids naturnhbus rebus impressit seminales rationes omnium effectuum
producendorum. QQ. Disp. De yerit. Q. XI, lit. (?) Trova s. Tuintmijto
^tssurdissimo il dire, ci>c la scirnza si crea in ooi, o SI prt)iiure da noi
s(e.isi , o da qualche essere creato. Kgli non da alia cri-alura sc non il poirre
di svikippare il germe della srienza preesi^ientn netrunnio, e nienie piii: In
eo qut docetur, qiieste sono sue parole, setentia Pll.flEXtSTEBAT, non qtitdem
m avtu completo, sed quasi in rationihns seminahbus, secundum quod umversales
concepttones, quorum cOgfdtio est nobts naturaliter insita, iunt quasi semina
quaedam ommum setpieuiium gnitionum. Quamvis nutem per virtutem creaUim
rattones seminales non hoc modo educantur in actum, quasi per allqunm. virtutem
cr'eatam wj'nndantur, tamen id quod est tn eis onginaliter el virtutditer,
aclione creatuc viriujis in nr///m ediici potest. QQ. Disp. De yerit. Q. XI,
jwl. i, ad 5. Similiter ctiam dicendum est dc scientiae acquisitione, quod
praerxi* stunt in nobts quaedam stienluium sciidna, scilicet primae
conceptiones in* Digitized by Coogle 6;3 Sta adumjne luUo a veJerc chi forma in
noi queslu Specie. San Tomraaso sostiene, cbe a formarle entrano tre principj,
o con>cause: t. an principio intenore, che i Ianima uma'iia 0 !>ia
I'iiilelletto agente, a.* un principio esleriore, cbe i Dio, 3." e nil
altro. principio esteriore, che sono le cose sensibili ('). Le cose sensibili
concorrono alia scienza umana col porgere 1 fantasmi^ u e secondo ci6,
egli vero, dice, cbe la mente X nostra
riceve la scienza dalle cose sensibili
(a). L'anima stessa nondimeno e quella cbe forma in si le si- u
inililudioi delle co^ in quanto pel lume dell'intelletto agente usi fanno le
forme, astratte dalle cose sensibili, altnalmente V idonee ad essere intese,
siccbi possano essere riceVute nel* u I'intelletto possibile (3). K Ma questo lume dellintelletto agente
nellaiiima rasionale X precede siccome da prima suit origine dalle soslanse
separate, X principalmente da Dio n (4). X E cosi, conchiude, nel lume
dellintelletto agente i.n noi u ill certo modo originariamente immessa ogni
scienza mcdiante X le concezioni universali, che incontanente col lume dellin-
X telletto agente si conoscono, per le quali, siccome per uni- telUclus, quae
statim luaiine intelleUus ageift/s cognoscantqr per species a sen\ibilibus
abstractas, sive sint complexa, ut - dignilales, sive incomplexa, sicut ratio
enlis, el unius, el IwjiismniU, ijuoc statim intellectus apprehendit. Ex istis
aulem principiis upiversatibus omnia prindpia seqauntur, sicut cx quibusdam
rationibus seminalibiis. Quando ergo ex i'slis-uniyersalibus co~ gnitionibus
mens educilur ul ni lii cognoscat particularia, quae prius in po- tenlia, el
quasi in universali cognosccbantur, lane aliquis dicitur scientiam acqutrere.
QQ. Disp. De f'eril. Q. XI, rt i. (i) Kationabilior videlur senlentia
Pbilosoplii, qui ponit scientiam mentis nostrae partim ab intrinseco esse,
partim ab exsirinseco, non solum a rebus a materia separalis, sed ettam ab
ipsis seniibilibus. Ibid., Q. X, art. vi. (a) Et secundum hoc verum est qupd scienliam a
sensibillbus mens nostra accipit. QQ. Disp. De yertt. Q. X, srt. vi. (3)
Nthiiominus lamen ipsa anima in se similHitdinqs rerum format, in- quantum per
lumen intellectus agentis e/fiauntur format a sensibdibus ab- stractae
intrlligibiles actu, ut in intellectu possibiii recipi- possint. QQ. Disp. De
f'eril. Q. X, iirl'vi. (4) Quod quideni lumen intellectus agentis in anima
ralionaii procedit si~ cut a prihia origine a substantiis separalis, praecipue
a Deo, QQ. Disp. De f'eril. Q. X, art. vi. Rosmimi.
11 Jiiiiiiovamento. 85 * vcrsali principj , giiiJiclilAmo dcirallrc cose , c le
pircono* uscinnio in esse (i)- Ecco tuUo
il sislcma mirabllmente connesso, e (^onsenlaneo. Ma lion siamo ancora
pervenuti a quello die ccrcavaino, come s. TommasD potesse dire die auco le
specie inlelligibili ci sono impresse da Dio. Gonviehe dunque che noi
inveslighiamo piii distinlamente la nicnte'del santo DoUore intorno
qiidl'operazione che fa I'aniiiia, forinandos! le specie intelligibili,
aU'occasione de' fanlasmi. Egli dice, che Ianima riceve dalle cose Gnite
esteriie la scieiiaa in due'^raodi; o i." raediante le parole di un
precctlore, 3. o mediante i fantasmi. Dice ancora, che questi due esterni ope-
rator! non ci danno la scienza immediaUunente , ma solo ci porgono dei segni
sensibili, dai qnali noi stessi passiamo alia scienza, o, che h il niedesimo,
passiamo alle specie inrdligibili, per quella argomentazione appunto, per la
quale dai segoi si passa a indurre la cosa segnata. , uSi dee dire, che nel
discepolo si descrivono le forme in- u tdligibili, dalle qudi i costituita la
scienza ricevula dallin- segnamento,
ihmeoiatamente dall'intelletto agente, ma meduta- mi:mte dal precettore . Or ecco. come avvenga; Imperciocchi uil maestro propone i segni ddle
cose intelligibili, dai quali u I'intelletto agente rtcevc le intenzioni
intelligibili, e le scrive u nellintelletto possibile; laonde le stesse parole
del maestro udite, o vedute scritte,
rispetto al cagionare la scienza nelliutel- oletto tengono lo stesso modo, come
lb cose che sono roont dell'ahima n (a).
(i) El sic eliam in lumine intelUclus agenUs nobis est quodammodo omnis
scientia Originaliter indila, mediantibus universalibas conceptionibus , quae
STATIM lumine inleUectus ogtnlis cognoscuntur, per quas sicut per uni- vertalia
principia jiifiicamus de aiiis, el ea praecognoscimus in ipsis. QQ, Disp. De
Verit. Q. X, art. v>. (a) Dicendum, quod in discipulo describunlur formae intetligibiles
, ex quibus scientia per doetrinam accepla constituitur, immediate quidem per
intelleclafn agentem, sed mediate- per eum qui docet. Proponil enim doctor
rerum inlelligibilium signa, e quibus intelleclus agens accipit intentiones in-
telligibiles, el describil eas in iiitellectu possibili; unde ipsa verba
doctoris audita, vel visa in scriplo, hoc modn se habent ad causandum scienliam
in intrlleclu, sicut res quae sunt extra animam ; quia ex ulrisque intelleclus
iutentwnes in telligibiles accipit. QQ. Disp, Dc Kcril. Q. XI, i, ad ii. Digitized by
Gi >gl( . Cgnie adunqne le parok: non soap che segtu delle
cose, e non le cose stesse; e a queste noi trapassiamo per intoriori: nostra
virtu, e non perchi ci sieno sommiaistrate dalle parole del maestro: cosl pure
le cose esteriori, le ^uali colpiscono i noslri sensi, non ci porgono giii le
cose a cohoscere , -ovvero Ieotita loro, ma de puri segni,* secondo s. Tommaso^
e siamo noi quelli tu^tavia, che pensiamo Yentit^ cstema, che non i ne' segiii
datici^ siamo noi che la poniamo, da quelli argo> mentandola, coo che ci
furmiamo le specib intelligibili. Se nun che s. Tomniaso ni pur taiilo concede
alle sensa~ tioni e a' fantasmi, (juauto alle parole del maestro^ perocebi,
dice egti, le parole del maestro souo a segni delle specie in- telligikili , e
non cost i fantasmi, che non segnano le idee gia foriuale, ma solamente ci
presentano gli eOetti delle cose, aeciucchi da quest! noi induciarao Iesistenaa
delle cose, cite i appunto un formarci le specie intelligibili (i). Per il che
i manifesto, cho- I'uomo vrene a pensare alle cose argomentandole da fantasmi,
(oro effelti e loro segni. a, tal uopo
egli dee dire seco raedesimu: a> fantasmi non potrebLero essere suscitati in
me, se uu aUe non li suscitasse . Quest' 6 lino de primi principj per si uuti^
uu di que principj cue, se- condo IAngelico, iocontanente, risplendono, quando
si comiiicia a far uso dellintelletto. , Ma sella i cosi, come posso io sapere
che u i fantasmi non potrehbero essere in me senza un ente esternoa ? II saper
qiie- sto, suppone i .* che io abbia Iidea dellente, die io vegga in questo
ente tale esser la sua natura^ che, cominciare e non aver causa, sia il
medesiino che esser ente e non essere (3). Ma Iaver iO Iidea dell'ente, e il
conoscerne si fattamente la uatura, i il medcsimo che aver il lame dellintellelto
agente (3). (1) Segulla'al passo citato oclla iiola precedenie cosii Qwunvis
vtrba doctorh PRQPINQVIVS se habenl ad causandum scienliam, quam senst- bilia
extra animam existenlia, inquantum sunt siqna inteWgibdmm inlen- tionum. QQ.
Disp. De Perit. Q. XI, 1, ad 11. (3) Io ho dcrivalo in questo modo dallintioia
natura deir.eotc, iuluita dalle menti oosire, il priocipio d| conlraddiiione,
quello di cauaaliU, e gli aliri primi printipf dcirialeiidimeDto umano. V. il
fiuovo Saggio, ccc. Sci. V, cap V. ^ou dissimulo puulu, ihc vi hauuo alcuui
pass! in s. Toiuuiajo, i Digitized by Google Essenilo questo adunque itnpresso
in noi^da Dio, secondo s. Tommaso', e il percepire una cosa esterna non essundo
altro die veder quel medesimo cnte, ebe Dio ci ha itnpresso, circo- scritto dal
suo effetlo, il fantasma^ niuna maraviglia, che si at- tribuisca a Dio, come a
prima causa, anche la percezione degli enl! limilati: il che 6 quanto
attribuirgli Pimpressione in noi delle specie intelligibili, non perchi da Dio
immediatamente sieno le specie, ma percb6 da Dio i Venle da' fantasmi deter*
miiiato in noi^ nel cbe nostra rimane solameote Poperazione del congiungere
Pente e i fantasmi, e poscia delPastrarre quello, riuianendoci rivestito perA
delle determinazioni ricevute da quesU. Tale i veramente la cagione onde s.
Tommaso cbiama la luce divina causa universale del nostro conoscere ( i ) , e
onde riduce le specie in Dio come nel supremo principio della^ co* gnizione_
(2), o come dice altrove, siasso lume.
M* cerlo.i die ovc la nostra rocnie inluisca I'enlc, dim non lia bisogoo
d'aliro lame. Convien dunque dire, cbe la ragione ddl'enie, di cui parla s.
Tommaso iu questo passo, sifi la ragiooe deliente codsiderala udle sue
relazioui cogli cnii aussislenti. (I) Ilia lux vera Ulumimat, licut CAUSA
Uf/lf'ERSALIS {S.'l, LXXIX, IV, ad i). .(p) Alio mode dicitur aliquid cognosci
in atiqfio, ticul in cognilivnis priii- cipio; sicut si dicamus, quod in sole
videntpr ea, quae videnlur per solem. t sic necesse est dicere, quod anima
huniana omnia cognoscal iu ratio- nihus aetemis i per quorum parlicipationem
omnia cognosetmus. Jpsum enioi lumen inlellccluate, quod est in nobis, nihil
esl aliud, quam quaetiam pur- kupnia simililudo lununis ittcreali , in qito
conlinenlttr raliones oeteruae (J. 1, LXXXIV, T). Digitized by Google 77 u
partecipa it nostro intelletto, si ridncono come In prima causa uin qualche
principio per sua essenza intelllgibile, cioi. in Dio. u Ma da quel principio
procedono mediante le forme delle cose u scnsibiti e roatcriali, dalle quali
noi raccogliamo la scienza > ( i ), net modo detto. N credasi per avventura,
che questo principio divino, onde procedono le specie, sia da noi cosi rimolo,
che nieiite di lui slesso partecipiamo. Sebbene ci6 che detto i fin qni, e tutto
ii cniitesto delle dottrine, ci sforzi a non intender cosi .fattamente la
inenle di s. Tommaso, tuttavia nna nuova prova io ue voglio aggiungere.
Stabilisce I'Aquinate, che la veriti delle cose non puA consistere nella
relazione che hanno coirintelletto nostro, Dia u nellaver esse conseguito la
similitudine delle specie che u sono nella mente divina n (a). Ora egli
attribuisce al non aver cunoscinta questa verita i filosofi antichi, Iesser
quelli cadqli nello scetticismo, veneodo essi a dire, che era vero ci6 che ne
paresse a ciascun uoroo; errore notato gi4 da Aristotele. Per- il chii consideravano, che il vero
importa una relazione all'intel- letto,
erano astrelU di porre la verita delle cose nell'ordine iiche quelle avessero
all'intelletto nostro.' Di che nascevano
qucgl'inconvenienti, che il Filosofo combatte nel IV d'e Me- u tafisici.
1 quali inconvenienti' non accadono, ove si ponga la (i) Dictndum, quod specif
$ inlelligibdes, quas pariicipainoster intelleclus, rtducuntur sicul in primam
caiisam in atiqund pnneipium per suam esien- tlam 'intelligibile, scilicet in
Deum. Std ab illo principio procedunt median- tibus fomis rerum sensibilium el
maierialium, a quibut scientiam colhgimus (S. I, LXXXIV, IV, sd I). la) Res
nalumles dicunlur esse ueme secundum quod assequuntur simi- liludinem
specicrum, quae sunt in mente divina (S. I, XVI, i). Ossvrvo, ohi; qui s.
Tommaso iita la parola specie, in vvee di quclla d*idee. Egli avva in* srgnalo
poco innanzi {S. I, XV, ii ), die io'Dio lion vi sono piii specie, ma pill
oggelli vediiti, o idee. Quesle iuuguaglianze di parlarc, iiou radc a irovarsi
odle opere di a, Tommaso, sono inevilabili io cbi taolo scrive, di si varic
malerie, e per varj aooi ed accideuli della vita. Mb cio slesso mosira il
bisogno di non sollermarsi alluua o allallra maniera di dire nsala da s
Tommaso, ma di preodere 1 iulcro corpo delle sue dollrioe , qtiando si vuglia
rilevame i foodamenlali e i prevaluoli coucelti ; c questo e, cbe noi alibiain
tenuto di fare nelle varie note poste al N. Saggio, e ill questo Capilolo.
Digitized by Google iiyS u verlla delle cose consislere Delia comparazione loro
all'iuteU ulelto divinoM (i). Se dunque la verila,' secoodu la dotlrina
dellAquinale^ conaiste nel rapporto delle cose colle idee diviue, o noi
pos&iamo partecipare queste idee divine e aggiaslare le nostre specie a
qnelle, o no. Se no, noi non abbiaroo. piii ve> rita. Riman dnnque che le
ragioni. eterne o idee di Dio, seb> bene imperfettaroente partecipate da
noi, sieno pur quelle che ci facciano partecipi del vero (a). ' 4- Un quarto
principio, onde a. Tontmaso conchiude, che non si poasa spiegare Iorigine e la
certa verila della, cognizione nostra senza far ricorso a Dio, si i queatu, che
tutte le normc, secondo le quail noi giudichiamo, debbono esaere ihfallibili, e
d'una dignita easenzialmente superiore alle cose giudicate. Ora giudicaiido noi
eontinuamente or della verita delle cose, or della giuatizia delle aziohi, or
della bellezza, or della bonla ecc., egli i pur manifesto, che noi dobbiamo
avere alle mani tali norme,- le'quali aieno auperiori in' dignita a tutte le
cose vere, giuste, belle, buone^ il che k quanto dire, che noi dobbiamo avere
delle norme, che non nelle cose sensibili, non nelle crea* tore per eccellenti
Ch sieno, ma in Dio solo .possano aver sede, e per& da Dio solo posadno a
noi comunicarsi. - Anche qnesto nobilissimo argomento si deriva da s. Agostino.
u Egli ^ diceva questalto ingegno, ufTicio di piii sublime in- utendimeuto, il
giudicare di coteste cose temporali secOndo u ragioni incorporee e sempiterne:
le quali ragioni se nOii fos- Nsero sopra Inmana mente, non sarebbero per certo
iiicom* xmutabili, e ae ad esse non si aggiungeise qualche parte di KDoi
stessi, non saremmo noi quelli che potessero giiidicare delle cose corporee (3). (i) Quia considerabant (antiiiui
philotophi), quod vtrum imporUd corn- paraiionem ad inteUeclum, cogebaiilur
yerilatem rtrum conslituere in online ad inlellectum nostrum. Ex quo
inconvenientia setjuebantur, quae Pluloso- phus perstquUur in IK Metapir. Quae
quideni inconvenientia non accidunt. si ponamus veritatem reriim consistere in
compariilione ad inteilectum di- vinum (S. I, XVI, i, ad s). ' (7) Le
partecipiaino poi, come fu Hello, perebi parlcclpiamo I'c'ite, cite di
tutto.cnsliliii.sce I'inmiulaliilc fotidainculo. ^3^ Of Timil. XII, II.
Digitized by E altrovc: a Di qiii A, dire, rhc anno i inalvagi prn Judxcape
alitfuo de veritnte dicimur dupHciter, (Jno modo, sicut m8a iul'ornia, i data
nel mio s!;letnn,neUa prima nalurale inluiziona dell' csserv , i data all'anim^
quetta dualita Giio dal primo suo csislere. Vha uu nesso fra I'rdte e Vanima.
tl quale non altro cbc I'intnizione
permanente , necessaria, ma questa iii- tuizione non confonde peru mai la
natura dellanima intuente; in quanto poi .si considera I'enle come termine
dellintuizipne deli'anima, in tanto dicesi oggetto: rispelto poi all'afficio
che egli presta di far conosccre all'anima tiiUe cose di cui ella esperimenti
1' atlivita, chiamasi lume, idea, o prima specie : e Gnalmente per I'evidenza
con che dppaga lo spCrito, e da la prova irrepugnabile a luUe le cognizioni,
appellasi veritd^ Quindi f-, che la dove i Kantisti, riconoscendo I'iinpotenza
del lorsistenia a provare il mondo esteriore, nc lasciano in dubbio la
siissisteiiza^ io allopposlo lamantengo, e di evidentc dimostrazione la com*
munisco. Ma con\ien altendere come il G. M. savvisa di provare, clip il mio
sistema sia impotente alia dimostrazione del mondo cslerno. Cosi egli seguita a
ragionare: Diffatto occorre a) Rosmini
provare doe assnnti principa- u lissimi, circa il mondo esteriore. 11 primo i
che eSistono i corpi ed agiscono sopra
di noi; 1' altro, che le cose tuttc u qiiante partecipano all'cssere, ma non
sono I essere (i). A me pare all
opposto, che quando i dimostrato che esi* stono i corpi , e che agiscono sopra
di noi , il mondo esteriore k dimostrato, e non si richiede di piii. u Tali due
assunti vengono vulidati dal nostro filosofo con queste tre specie di prova. Che esistono i corpi fuori di no1, si dimostra
evidenteroente' dallaiTezioDe passive
che cagionano al nostro animo, la quale u testimonia al tempo medesimo Iazione
loro sopra di noi n. Che le cose
ricevano 1 essere universale possibile, come le u nostre idee lo ricevono, si
manifesta da ciu, che Iidea pura dell
essere i essenzialmente obbiettiva, e essenzialmente di- vena dallatto nostro conoscitivo; onde in
quella debbesi u ravvisare Iesempio e il tipQ iufallibile di tutti gli esseri
n. X II principio di sostan/a, ed il principio di cagione goveiv (i; P. II, c.
XI, V. Digitized by Google , io avrei
preso. a dimostrare questo mostruoso as- sunto, cbe u le idee ricevono le idee
Per grazia di Dio, non ebbi io mai.ancora tal coofusione ne' miei pensieri! Pero
se il G. M- crede cbe io abbia voluto dimostrare il contrario appuoto di quello
che ho voluto, e me ne da bia> simo, io debbo reudergli grazic della lode. ,
. L' argomentazione che mi attribuisce d questa: u Lidea pura dellesscre i
essenzialmente obbiettiva, e es* u seozialmente diversa dallatto nostro
cono.scitivo . u Oude in quclPa debbesi ravvisaro I'esempio e il tipo in- u
hillibile di tutti gli esseri . u Onde le cose riceveno Pessere universale
possibile, come ]e nostre idee lo
ricev6uo . Ma qual connessione v ha fra queste tte proposi/.ioni ? Un tale
argomento non pure a me novissima cosa,
ma non i un argomento, 4. Dice ancora,
che io tolgo a provare, che il principio
di u sostanza e il principio di cagione goverpano le cose e le idee con eguale necessila . Or questo assunlo
il dee aver letto il C. M. in quello stesso libro dove ha trovato Ialiro, che u
le cose e le idee ricevono ugualmente Pessere universale possibile nj non in
alcun libro scritto da me. Il principio di sostanza e quello di causa
'appartengono aU Pordine delle idee, e consistono, il primo a dimostrare che u
nel concetto di accidente si contiene come sno relativo ilcon- cello di
sostanza , il secondo in provare che h nel concetto di cominciare si contiene
il concetto di un ente che faccia co- minciare . Se dunque tali princip)
appartengono nel inio si> sterna aiPordine delle idee, non possono governare
certamente le idee, le quali sono quelle che governano, e non le governate. 5.
Ma con quale argomentazione pretende egli, che io dimostri quest ultimo assunto
? Digitized by Google 68.': u II principio di sostanza e di causa, cos'i egli,
sono de- u dotti in maniera irrepugnabile dal principio nostro di ro- ll
gnizione, che i, Toggetto del pensiere ^ Iessere, e di que- u sto venne gia
dichiarata la necessaria esteriorita n. Dunque u il principio di sostanza e il
principio di cagione u governano le cose e le idee con egnale necessita ! Chi
ha letto il N. Saggio avra conosciuto facilmentc, chc non ^ per avventura
questa la mia maniera d'argomentarc. CAPITOLO LVIII. CONTlNUiZIOHE. Ma dopo
avermi regalato tali assurdi e tali dimostrazioni, egli si fa a combatterle.
Convien dunque che assistiamo alio spettacolo di questo combattimeuto, dove un
solo duellante fa le parti di tutte due. Le sue censure son le seguenti.
Primieramente aiferma, che io deduco il mondo esteriore dalla passivita delle
sensazioni^ u ma il punto sta a dimostrare u ch elle sono e debbono esser
passive (i). 11 G. M. aunnelte adunque ,
che dalla passivita della sen- sazione rettamente si argomeuti alia sussrstenza
di un mondo iiiateriale ^ nia solo esige die si pruvi cotesta parssivila, ed
ella nun la si lasci fra le cose chiarc da se, come ho fattio. Solo adunque
provalosi che le sensazioni sieno passive, ri- conoscc qui per buono il niio
argomento. ' Dunque falsaruente accusava da prima il mio sistema, dim- potenza
di provare il mondo esteriore, come quello che par- tlva dalle forme dell'
intellelto. iVon i piii dunque perch' io parta da una forma dell' inlelletto,
che non mi riesca a provare il mondo materialej ma unicamente perch^ tralascio
un anello nellargomentazione , creduto da lui indispensabile, tralascio cioi '
di provare la passivita della sensazione, e mi contento d' asserirla. Ma i egli
poi vero che io non do prova della passivita delle seusazioni ? e vero chc
allopposto il C. M. ne d^ una sufTi- (I) P. II, c. XI, V. Digitized by Coogle
686 cienle? E.intninlBmn prfnia (|iieslo seconilo piinlo. E a far cio bastera
cli io scriva ijui soUo I argoinenlaziuDc Jel M. corre- ilata d' alcune
annotazioni. DIMOSTRAZIONE CBB Da IL C. M. BELLA PASMVITA DELLE SENSAZIONI. u
II nostro principio spontaneo i uno assoliitamente , e rac> coglie nella sua unita I'oggetto pensato Ciu
pertanto cliu non i guar! spontaneo, e
alia spontaneita contraddice, u t fuori di qnella unita, il che vsje quanto
fuori di nostra iiiente r> B). Ma il senso del dolore non i spontaneo C)i e
nulladi* u manco esso giace dentro I'unila subbiettira di nostra mente D); ne segue che noi voglianio e non vogllanio ad
un tempo solo E\. La
contraddizione dei fatti i sempre apparente F). Adun- u tjue dee esisleie tin
terzo falto G), che spiegh! la qontrad-
dizione anzi esprcssa //), e fuori stando della spontanea u unita /)
abbia quotidianamente L) forza di tenere unit! in un subbicttu tnedesimo quello die i spoutaneo
e quello die no A/).
tenza sensitiva^ e il coniondere la mente spirituale colla sen- sazione
animale, A un bel prendere le gambc p6r la testa. E. Falso. DovA, cbe avendo
noi un dolore, il vogliamo? e se il volessimo e il disvolessimo insieme, non
solo noi saremmn piu che matli, ma non-uomini^ perocche a questi A di cib.fare
impossibile. ' F. De fatli veri , si : ma de' falli supposli, no. Digitized by
Google GSR G, Pcrchi dee esistcre un fatto , che tpleghi la contraddi- zionc a|)parente?
Che c'osa^ lacontraddizioneapparentedefatti della natura? non i altro se non la
m!a propria ignoranza, che non gl' intende a dovere. La contraddizione
appareote adunque sta tuUa in roe^ e non ne' falti stessi, dove non puo mai
essere alcuna contraddizione. Se dunque i la contraddizione uelle mie idee, non
fa piu bisogno d'lin fatto esterno a spiegarla^ ba- sta che io aggiusti le inie
proprie idee^ la lotta delle idee si appacifica scanibiando le idee od opinioni
difeltose, con delle altre idee piii sane, piii giuste ed esatte, ovvero con
delle me- iliatrici delle prime che battagliavano insieme. La conclusione del
N. A. i adunque falsa, perocch^ dall' ordine delle idee in che stavano le
premesse , salta in quello de'fatli. II. Uu fatto la cui esistenza si prova
solo dalla necessity di spiegare altii fatti, e iina pura ipotesi. Quando
adunque Iar- gomentaziune del C. M. prucedesse in tutto il resto diritta, pro-
verebbe I'esistenza de' carpi esterni come iina ipotesi assunta a spiegare
degli altri fatti, e nulla piii. E questa non ^ la di- mostrazione che si
cerc^. I. Se il fatto assunlo per ipotesi e fuori della si>ontauella , come
avra virtii di legare insieme neli unita soggettiva lo spon- taneo e il non
ispoiitaneo? L. QiiOtidianamente ? cioe? una volta al giorno? M. Qui dice in im subbietto niedesimo n, cid che di sopra
ha ehiamato u unita del principio spontaneo,e aiiche unita subbiettiva di nostra iiiente . Questo
variare di espressioni in una inedesima argomentazione, e cusa contraria alle
regole del metado GlosoGbo. Ma senza di cid, io dico, die qui egli pretende,
chc quclla forza, che assume ipuieticamcntc a coiiciliare la contraddizione de'
fatti, faccia I'impossibile. Di fatti, di sopra disse che il u dolore d fiiori dell'unita
soggettiva per sua naiura, non esseodo
egli spontaneo, nienire Tunita soggettiva d' Iunita del principio spontaneo. Sc
dunqne il dolore d cssenzialmente fuori dell'unita del principio spontaneo,
qual forza potra fare che il dolore medesimo sia deutro quella unita? non
sarebbe questo on fargli caiigiar natura? -Ma se a quell.t forza fosse
possibilc di u lenere uuiti In un Digitized by Google 68p lubbietlo medesimo qaello che ^ ipdntaneo e
quellb che no m , questo soggetto si comporrebbe di uo eleniento spontaneo e di
un elemento non ispontaneo. Dunque Iunita di questo soggetto ^ diversa
dall'unita del principio spootaoeo. Dunque so queste due unila sono diverse^
niuna maraviglia, che nel principio spontaneo non si contenga cib die non k
spontaneo,' e che all'opposio nell'unita del soggetto egli si contenga,
risuitando richiederebbesi cbe foste ben
cerlo, cbe tntto ci6 che i faori della uoitra spontaneila, fosse inori di noi.
Ma all'opposlo il M. c'insegna, che la spontaneity non A cbe noa parte del NOI,
la parte fenomenale, e I'nnita sna i ua'aniUt pnre fenomenale^ che v'ha
oltracciy un soggetto occulto sostanziale, appiatlato sotto quel fenomenale
soggetto. Or non puG Iazione cbe sof- feriamo nelle aensazion!, venirci da qne^to
soggetto a noi oc* cnito e faori della nostra spontaiieita fenomenica? Da tntte
parti adnnque vacilla la dimostrazione del mondo eslcrno, che ci di il C. M.
CAPITOLO LIX. ' ' ' . % COaTIHDAZIONE.
Ci resta a vedere, se sia ragionevole la censura ch'egli fa alia dimostrazione
nostra. Secondo lui, ci6 che manca alia nostra dimostrazione del mondo
esteriore, si i il non aver noi provato la passivity delle sensazioni. E
generalmente, di tntti quelli cbe tentarono dimo* strare il mondo esterno, egli
dice; se noi non prendiarao ab> baglio, qnello ehe manc6 loro fa di notare e
rilevare piii espli* u citamente il confondersi e compenetrarsi dei due
sentiment! u nella onita perfetta e assoluta del nostro essere
intellettivo ( )i e crede che la sua
dimostrazione st vantaggi dall'altre per que- sto, che stabilisoe bene questa
unity. Ma qui ci si prewntano diverse osserrazioni. i. lo bo giy osservato, che
il M. confotide Tunita del prin* eipio nostro ipontaneo, ooiPunity del
soggetto; la quale non si rompe per cadere nello stesso - soggetto de' fatti
attivi , e de' fatti passivi; quando ansi sgli i appunto un essere parte
pas> sivo; e parte attivo; e non pu6'esser altcamente, perocche tali soBO
tutti i oreati. a.* Osservai ancora, cbe egli confonde Tuniiy del priucipio
spontaneo, collunity dell'essere intellettivo, o della mente; (l) P. II, C. V,
111. Digitized by Google 6f) I quango 1e leasaMoni non hanno scde nella mente,
dm nella acDsitWitji. 3.* Ma o1lracci6 ouervo, che il aentimenlo pasiivo atlivo non si'^dee raai confonderej ni
coaipeneUare I'uno noU'allro: anzi si debbono tenere ba diilinti e separati
questi doe sen* tiaacntl, siccome doe modi inconfusibili, e che taltavia si
poc- aono trovare insiem^ c si trorano in un soggetto. 4-* Che se la censura
del C. M. si restrioge a dire, che a maned loro (a' illosofi) solo di notare e
rilcTare pin espliciU- mente Ponila
assolata del soggetto, dove t'adunanp i.fatti passivi ed attivi, ella i censura
assai leggierc; peroicchd viene a oonfessare, che qnesla unila fu uotala, ed
anco esplicila- mente, ma non taolo qnanto esso C. M. avrebbe volulo. 5. Quanto a me, il JIT. Saggio 6 starepalo^ peru
egli mi la testimonianza appresso quelli che I'avraiuio letto,. o vormnno darsi
la pena di leggerlo, che a Icngo favello dellunila del- Yh, non solo Come
soggetto uoico de falli attivi e passivi che in esso avvengono, ma ben anco
coiue soggetto unico dtiUe seo> sazioni e delle intellezioni^ nella quale
uuicila ripoogu la pos sibilita di tntti i ragionnmenti. 6. * Ma voi non provate,
che le seotazioai sieno passive. ~ Lo provo
e collo stesso argomento che usa il CL. bL a provarlo, in un ' modo asaai pih gencrale. I.'argnmentu
del M. h dedotto da sole le sensaziooi dolovose, c da noi non volote. II che
non basta^ come bo notato. Se le sensaziooi fossero passive per esser dolorose
e non volute, le .sensazioiil piacevoK sarebbero atlivc^ il cbc i Un assurdo.
Le M-iisazioni so no passive perclii sono neCessarie e non dipeodcuti dal voWr
nostro, le vogliamo poi aoi o non le vogliamo. Le ragiooi onde io ho provato la
paasivita delle sense' rioni sono le seguenli: n) La coscienea, la qaale ci
dice primieramente, che tanlo i falti attivi come i passivi cadoao nellcaiTa'
del soggetto, e che di alcimi damo nm la cagione, di alui ao. Cost si legge
Iiel JY. Saggio: oTutti i fatti cbc in noi avvengono non sono che modiB* u
cazioni dello spirito nostro. 11 nostro spisilo adunque i il u soggetto di
lutti que' Call!: la coscienza ee u'acccrla, poiche 6()a con essa dico u io sono quegK cbe sente, che
gode, che ad- odolora, che pcnsa, che vuole, ecc. , il che h un affermare che sono io il soggetto di questi
avvenimenti . ^uPure de' Jiuti passivi,
se siamo il soggetto, non siarao la ocaglone, poich^ non avvengono, come
abbiamo detto, per (Fazione nostra, ma noi li soffriamo, e li riceviamo da
chec> u chessia in noi prodpUi, contro, o almeno Senza nostra to> >
ioota X ( I ). b) Uosservazione interna, la qnale ci mostra la necetsila di
alcuni fatti che in noi avvengono, o sieno dolorosi o piacevoli. uCosi, se io
mi sto cogli ocehi aperti e volti rincontro al sole, egli i per poco
impossibile ch'io non vegga rabbagliante usplendore, e non senta i raggi acnti
chentrano nelle min xpnpille: in mezzo di una strepitosa banda militare, io
udr6, anche contro mia voglia, il snono
delle trombe e de' Umburi> KOve pure non mabbia gli orecchi ottarati: punto
da un ferro o da uno stecco, io
addoloro, sebben' non piacciami addo- lorare, poichi a nessuno i grato il
dolore: e per dir tutto in un motto,
ovio non fossi passive nelle sensazioni che nel mio KCorpo si suscitano, io
potrei a mio grado cacciar da me tatta
le sensazioni moleste, aver tutte le dilettevoli, non sofierir u mai,
non morir mai (a). c) Jl ragionamentOj
argomentando la passivita dellit sensa-^ zione dallo sforzo che no! dobbiam
fare pCr evitarla. u L'astrazione e alien'azion di mente i mai sempre un co-
utale sforzo per parte nostra, i nnazion faticosa e violenta, u talora essa e
di tal travaglio, che ci i impossibile di reggervi^ Ora a che mai tanta fatica?
certo a ritirarci, e fuggire dall'a-
zion del dolore, o di alcunaltra sensazione che non vogliamo . uDunque usiamo in questo sforzo
lattivit& nostra a sot- trarci da una
forza che ci vien contro, e ci vuol far soiferire^ u Ma dovi bisogno d' una
forza a impedire un eSetto, ivi & u manifestamente la forza in contrario
che tenta produrlo: im- u perocchi la reazione suppone I'azione, e la forza che
elide u suppone quella che viene elisa. L'attivita dunque colla quale (i) Sei.
V, c. IX, rl. *11, 2 2. (3) Scz. V, c. IX, art. xn, 2 > Digitized by Coogle
;,3 noi evitiamo talora I'esser passivi, i prova della nostra pas- usivitan
(i). Or a me pare, cbe quest! tre argomenti siano sufEcienti a ferraare la
passivita della sensazione. Laonde, non dimandandocl il C. M- che questa sola
dimo- strazione della passivita della sensazione, per concederci che abbiam
giustamente provata la sussistenza del mondo esteriore^ noi crediamo di avergli
soddisfalto col mostrargliela in quest! brani del N. Saggio, e col rimetterlo a
moltaltri che gli fia agevole rinvenire nello stesso libro. CAPITOLO LX. DEL
FRIRCIPIO DI SOSTARZi E DI CAUSA. Intorno poi a qnello che ci oppone il G. M.,
rispetto alia scconda delle tre specie di prova cbe ci attribuisce, noi ab-
biamo altrove ragionato. = Ci riman solo di agginngere qualche osscrvazione a
quanto ci oppone intorno al principio di sostanza e di causa. Udiamo pure le
sue parole;. u Al terzo argomento, che prova Iesteriorit^ del principio di sostanza e del principio di cagione, si risponde: se non
scinbra provato I'idca dell'essere uni^rsale c possibile, e la sintesi primitiva di quella con tutte le
dcterminazioni parti- ucolari avere un'esterna realita, cadono eziandio tutti
gli altri ragionamenti con cui
dall'intrinseco necessario si vuole ar-
guire I'estrinseco (a). 11 N. A.
qui confonde manifestamente I'opcrazione chc io cliiamo sintesi primitiva, coll
idea delPessere universale. La sintesi primitiva i il giudizio che noi facciamo
delPesi- stenza di un diverso da noi, in sequela delle sensazioni da noi
ricevute. O sia che si descriva a un modo questa operazione dello spirito, o
sia che si descriva ad un allro^ ella i da tutti vgualmcnte ammessa siccome un
fatto. (i) Sei. V, r. IX, rt. zii, g i. (a) P. II. c. XI, V. Digitized by
Google E veramente egli i mediante qnesta lintesi, o giujizio, cbe il M. vupl
provare il mpndo materiale, appunto come il provo io. Dunqoe ritpelto al valore
estrinteco reale di questa sin- tesi,
cade la sua ceosura^ perocchi per essa Tuoiuo non ista rilirato, per cosi dire,
nel solo mondo ideale, ma discende, viene attaccandosi alle sensazloai real!,
dalle quali induce i corpi. Non ha dnnque luogo la sua censura, rispetto
all'este- rtor valore della siotesi primitiva. Solamente i da notarsi, che il
norainare, comegli fa, una estema
realita della sintesi, i maniera
impropria. La sintesi, come ogni giudisio (e un giudizio i sempre una sintesi)
si fa dentru di noi, ma si fa in occasione di un impulso sensibile che ci viene
da fuori, e sul quale appunto noi giudichiamo. Non ha dunqiie la sintesi u
csterna realita n, ma bensi ell'ha valore di provare I'esterno^ il che il M.
stesso non pu6 non accordarci, ed io ne do lunga prova nella sesta Sezione del
N. Sagg'o (i). Ma egli .vuole che non solo la sintesi primitiva, ma ben anco
I'essere universale e possibile abbia un'esterna realita. L'abbiam vednlo, non
ha inteio il mio pensiero. L'csscre possibile, per dirlo di nuovo, appartiene
allordine ideale, anzi i d6 appunto che costitnisce quellordine : in vano
adunque rercberebbesi in lui unesterna realita. Non deesi giamrnai con* foodere
I'ordine dclle idee c Iordinc delle cosc, la forma ideale e la forma reale
dcllesscre. Ma sebbene all'esser possibile noi non attribui^o la forma reale,
il cbe sarebbe contraddizione ^ noi per6 diamo a lui una vera distinzione dalla
mente nostra, anzi una distinzione inlinita. Ripete tutlavia la stessa accusa
poco dopo, dicendo del prin- cipio di causa, che quanlnnque discenda diriltissimo dalla sna
tesi fondamentale ( delTAb. Rosmini), non pare a noi che possa o debba considerarsi per ci6 quale
verita obbiettiva e concrcta, ma invece cb'ella rimanga una deduzione logica u
pura duna forma intellettuale (a). Non
abbiamo .iioi voluto fame di pin*, e non potcvanio vo- (I) Cp. VIII e IX. ta)
I. II. c. XIII, V. Digitized by 6()5 Irrne dl pi^, poichi sarebbe stato an
volerne I'ioiposslbile. Dei principj della ragione non lice a noi fare quel che
voglla- ino^ non avendo noi altro potere , che di esporre quello che sono. Or
cercando che aia quel principio
I'efietto dee avere la sua cagionen, troviamo chegli ^ cosa che
appartiene tutta all'ordine delle idee^ per6 se noi volessimo fame una cosa
esteraa, reale, non faremmo che sostituire al vero la creatura della nostra
immaginazione, Lo stesso si dica di tutti i principj general!: essi non
eccedono I'ordine logico, appunto perchd sono general!. Cost quando io dico u
ogni effetto , non determino questo nd queireffelto reale, ma uso dell'idea di
effetto a significare qualsivoglia effetto possibile. E tuttavia, sebbrne le
idee e i principj logic! non appar* tengano all'uni verso reale, ma solo
all'universo ideale^ non i per6 a credersi, ch'essi, ajutati daltri amminicoli,
non val- gano a dimostrare pienamente e farci conoscere le cose reali e
sussistenti. Ci6 che io ho dimostrato, non i dunque, che la sola idea dellente,
o i soli principj logic! ne'quali ella si couverte, pro- vino
imuiediataniente'la realita de' corpi o degli esseri sussi- stenti: qnesto non
trovasi nel mio libro. Hb dimostrato in quella vece il contrario. Ho dimostrato
ancora, che I'essere ideale intuito dalla mente non e la niente, ma cosa
interamente ed inflnitamente da lei dislinta: ho di- mostrato che questo non
prova ancora la sussistenza del mondo corporeo, ma che spiega bensi la facolta
che ha la mente di pensare, o d'intuire un diverso da si, un mondo esterno pos-
sibile. questo il primo passo che si conviene fare: egli i difficile a spiegare
questo solo, come la mente concepisca l\ possibilita' d'un qualche ente fuori
di si. Concepire un ente possibile diverso da si, i gia concepire un diverso da
si. Dopo di ci6, rimane ( e questo i il secondo passo ) che il diverso da si,
che gii si vede nella sua pussibiliti, si perce- pisca nella sua realiti. A
compire questo passaggio della meute, pel quale ella si Digitized by Google
persuade, che quello che gia vede possibile, sia ancora tussl- slenle, vengoao
in ajuto la sensazioni, o piu in generale i sen* timenti. E i sentiment!
appartengono al mondo reale, il quale con> siste appunto nel sentimento, e
nei confiui e modi di questo, lo spazio, la materia (i). V'ha unita o piii
tosto identita fra il soggetto che intuisce I'ente possibile, e il soggetto che
sente Tente reale. Il soggetto dunque percepisce I'ente possibile realizzato
nel sentimento che prova: cioe si persuade, che quell'ente che priina intuiva
come possibile, sussiste aoco nella sua realita. Ecco in breve la dimostrazione
del mondo esterno, che a lungo ho svolta nel jV. SaggiO} e in tutte le sue
particolarita dilTusa ed analizzata. In questo riassunto della mia dimostrazione
si parla de' sen* timenti in generale, collajuto de'quali il soggetto
sensiti\o-in* tellettivo si persuade di un mondo reale. Vogliamo
speci(Icarequestisentimenti7Facilmentesi fa questa specificazioue. * Vi ha un
sentimento delP/o. Questo ci prova la realita del* Ianima immediatamente. I y'
ha un sentimento del proprlo nostro corpo. Questo cl prova la realita del corpo
nostro, con un argomento, in cha Tidea delPente si trasforma in principio di
causa. Vha un sentimento acquisito, che i modificazione del sen- timento del
corpo nostro. Questo ci prova la realita de'corpi esteriori al nostro, con una
forma di argomentazione, in cui si fa uso dell'idea dell'ente sotto forma di
principio di causa, e anco sotto forma di principio di sostanza. Come si
giustifica il principio di sostanza? Con dimostrare, che negare la sua
efficacia esterna, i un negare che I'ente sia possibile (a). Come si giustifica
il principio di causa? (i) Ho giil dimoslrato, die lo spazio non i die un modo
delle sensa- lioni, e la materia i Tormaln da spazio * da forza sentiln. Vedi
N. Saggio Set V, e. XVI, c XXIV, art. vii. fz) Scz. V, c. V. Digitized by
Google %7 Col provarp, olio negarc la siia vcrila e il suo valurc (oslernu), i
1111 negare che I'ente sia possihile (i). A che si riducono adunque tutte
quesle dimostrazioni ? A queslultinio prlncipio:- uL'ente i possibile che &
ciu chio chiamo priacipio di cugnizioiie. Quelli che negano u la possibllita
dell' cate n, soao i soli pertanlo che possaiio rinutare il aoslro ragiooameulo,
il quale iiiuove dal piii cospicuo de fnlti, dal falto per si evideate, dal
falto solo evidente, e ncirordinu logico aiiteriore a tulti i fatti. (i) Sii V,
c. V- F 1 N K. PiOSMisi. Il Uliwoiamrnfo. 8d Digitized by Google Digitized by Google T N D I G E
DEGLI AUTORl CITATI IN QUESTOPERA Agoftlino fs.). 4^> ^8i, 48^-4H8. 4h>4^. 5i8-52^ 53i, .
Alrinoo, 4^*7 AksaanHro Afrodisio, 47o
Alrxsnndro di Airs, q(>o, 645. Arnbrogh} 488. An.i5iagora)~Xifi (tat*.)j
34ij 58o*58q^ S9L. Anassann,
r>8a. AnaMmanclro. ^74> S^S, 583. Anaisimrnc, 583. Aiikclmo (a.), 445,
485. 5a6^ G3i. Apiilfjo, 555. .ArrbiU, 579. Ario, f>337^ AriMippo, 5fi4-56S.
Arislulele, 1 95,^44. 3ifi ftau.jj 585, 58(t. 537^ 588, 5^zio, fi37 639. Bonnet, 3i6 (tay.)t 5oi, 65d. BoiiHirr, 3oi. Brunu
^Giordano), ao>a3 C Camp.inrna, a3a5. iG3, toQ, aoiao4j aSTi, ^95, 3i6
(tav.)^ 4^^ Carprnlari, Cirteaio, 37. a5t, a54. 375, a87-3o3. 3io, 333334, 44a.
Cefante, CbiaTacci, 177. Cicerone, 3.io. 3a4. 4ni 473a6,344.470-47ij 586- 588
57 c. Euftcbio di Ceaarea, 48a. Eualraaio, 463. F Fichte, apa, 3a5, 334,
347-349# 3Goj 4o9-4o. |**tctno, 4o8"4f)9 Foacolo (Ogo), 34a. G. Gaasendi,
334. Genoyeai, 4 19. Gerdil, 3ia, 355, 4q9. Giacobi, 33o, 36-j. Giustino (a.),
48a. Goudin, 643. Hartley, 654. Hegel, 3ii-3ia, 3i6 (tat>.)^ 344 3$a>
356.369. Ilobbea, !ii6 (tat^.), 34a, Sa6i Hook., 3i5. liuet, 3i6 (iav.)t 3a8.
llario (a.), 53o. Ippocrato, Isucrate, 35:). Jamblico, 354, 487, 470j 479 870,
573, 577-578. Joutfroy, 4ii K Kant, ao3, 3i6 (la*'.), 36o, 36a-363 , 53i-^ 54a.
645. Klaproth, 44t)* Krug, 358. Laerxi'' (Diogrne), 3ao, Spt. La Manila, 3i6
Digitized by Google LrtbniiiOf q43-^44> Lrucippo, 564. Loclir, 1 63, 3i 48?!
Mclisso, 5 80. Wercnrio TrismrgislOi 670. Mocrnigo, aQ6. IVIoninio, 583. Moiro,
467- Mohrmio 35C. N Nrwlon, 384- Niculo di Cnaa, 376. Nicnmaco. 4^>9*470i
479 Niaolip, 2^ O Oeoello, 455. Ochino, 3o3, 3i6 (tav*), 3a8-3ji>. OLramo, 5
17. Oral) ((>are drgU), 3ai. Orignic, 484^ 6uj^ Pachiroera (Giorgio), G18.
Parmcnide, 3ai > 346 , 353*354 1 466, 5i8-5io. 576-580, 586. Patriaio, T5i.
Pelario, 468, ^4 48^ 618. Pittagora. I16 V tav.) 348, 35o-357, 36 1, 36q, 425, 44i 465-46*) I
PUlone, j44. 3ai. ja3-3a5. 344. 34^, 35^356, 4^5, 44*. 4^*~475, 4So-4H . 484.
4^> 40Qr~^** 5i8j 583, 588. 63,.633, 636, 669. FUuto, 3ita, Plutioo, 34?>
35?, 47^-4?^. 635.636. PluUrtio. 8a5.~553. 465^66, 468, 4"*> 478-4'. 9,
5:6.578, SSl, Poll, a!L Por&rio, 356. Sa;. Poasiilonio, 347, 487. Prisllry,
654. Procio, 346,' 4^. ProfrMori d> Coin bra, 5i7.53. Prutagora, lifi (uw.),
3lQ, 3a3-3a5, 344, 564.565. Ptrllo, 471. Rrid. a8i. lifi fioi'.), 3a6, 33o,
38j. 38a, 045. RrinlioM, 3S (lav.), 3a6, 334, Kontagnoti, 3ii.3i 1 , 3 if,
(lav), 33o- 34 1 378, 383-386, 4o3-4o5,
43o, 442^ 45i* 45a, 5j6, i>ii, 635. Villorioo (.Mario), 488, I Zarata, 465.
Zenonc, 443, 5 80. Zoroaalro, 449* Digitized by Google I N D I C E ]
NTUOnUZlONE pag. I UBRO PRIMO. Dl l nesso fra la questione deirorigitie MU idee
c qiiella della cerletta deWwnane coffiizioni
7 LIBRO SECONDO. I o5 Dcltorigine detU cognitiotd I. Ordin. ..2 Caimt.
XIX. Tt't atti necfttar/f trrnndo il M-imiani, /i /^rm57 Capit. XX.
('oniinuazione : e J'nlsn cht Ia concettone de termini paraf>0' nabiti nnn
tin t^iudizio i ^ Capit. XXI Continuazinne : Vintuizione del C. !^Iamiani *sige
un giu ditto, e delle idte preceilenti. l(jf CahT. XXII. La percezione e
anieriot'e airintuizione del C. M. dlta
percetton* e e/itenoi'e V idea delCetsere, eecondn H Mami.nu w Capit. XXIII. Al
/nrne de* termini e anleriorc V idea delC essere ' . iGi Caiit. XXIV'. L'idea delVetset'C non e un
prodotto tiell'aslraztone, come iri5 ifi5 Cap IT. XXVI. H C. M. non conoece la
natura delVidea delVessere H 170 Capit. XXVII. Esame del modo, onde U C-
Mamiani preUnde sptegare la /'ormatione delTidea dellessert 1 tG Capit. XXVIII.
Continuazione .7S Capit. XXIX. Cnntinuazione: cintjue errori del M.'imi.ini
intorno It ope^ rasrnni del pnragonat't^ e delV astrarre '10 Capit. XXX.
Continuazione 181 Capit. XXXf. Si trne conferma alia nottra dottrina dalle
astrazioni che fauna i bambini 'O' r.iiir. XXXII. Ahrn fattOf che conferma la
nnxtra dottrina: Una tendenta a ripular te cote piii tosto simiti, cite
dttsimili .... iij6 C.i-ir. XX.XIV. Errori. e eontradditione del hitmitni in
ittabiitre la na- tura del simde che in niu cute si ratn^Ua "loi Capit.
XXXV. Continuazione 20f Capit. XXXVI. Continuatione : le imprettioni dittinte
non ti pottono con- centf'are in un tentorin organico , ma solo in un* iilea ad
ette preetittrnte 30T) Capit. XXXVIII. Gli sCorti del .Mamiani a tpiegare la
generazione del. Villen delVettere nri//n ottengono 111 C1IT. XXXIX.
Continuazione: aftnluppi in cut si perde ii Mamiani \ . rs aia ii'i Capit XLI.
Continuazione 110 Capit. XI. II. Continuatione 1*1*1 iVi LIBRO TERZO. Ddla certezza
dellc cosnizioni wnanc Capit. 1. Pifesa dei filotofi che kanno cetxalo un
criteria del vero . n Capit, 11. (Aitutnuatione >4! Capit. 4) Capit. IV.
Continuatione a5o C.APir. V. t'onfutazione del entetio del rero pt'oposto dal
C. Mamiani Capit. VI t.ottUnuazionc . M jtw
Digitized by Google Cavit. VII. 5.' Capit.
VIII. Continuazione , q6(j Caht. IX. 567 Capit. X. Coniinuatione ^7^ Capit. XI.
Continuazione ;(> Capit. XII. Continuazione Capit. XIII. Paravane del
Manii.iDi con Cartcsio 287 Capit. XIV. ro/i/i/ua*ion " 3 Capit. XXXVU.
Grgpi conseguenze del xisieina del C. Mamiani. . . 4^^* Capit. XXXVIll. Contintiazione . ; ^ ^ ^
; 4 Capit. XXXIX. DelV immutabilita delle idee
4**4 Capit. XL. Conlinuaziune : antica dottrina italiang mlV immutaiilua
delle idee, ricevula poscia ancUe dalla JilosoJia gitca ^Aprr. XLI. Continuaiione 4^1 Capit. XLII. Pifoma delta fiioeo^a
itolica fntta da Padri della Chteig. 4tq
Capit. XLIIl. DetPintima -nalura delU idee, e della vof^nizione . ! i 4"PJ Capit. XLIV. Continuazione "
ap4T. XLV. Continuazione a Siii Capit. XLVI. Cor^utazione radicale di ogiii
tpecie di norninalurno 5kj Camt. XLVII.
Sola conjutatione pouiUle della sceiticixma . ... n 53o Capit. XLVIII. Come il
sensismo abbia sempre condotto 1 fHosoJl alio eeeuicismo .^^3 Capit. XLIX. Co/t9^ Orrf -.^ by Google C*f ir. Mil.
('orttiniiatione it! r,J4 M Si con/'erina In teoria JtlCentt qtinl tunit thUa
ra^iana col- Vautoritd di t. / o/n//ii<m* (Iclla vcrtia, JrU.t cognUione,
ilcHa vciila. M R // N. Sjggin i cita stcando Vfdiziane M Hiwhi Digitized by
Google Digitized by Google Digitized by Google Antonio Francesco Davide
Ambrogio Rosmini Serbati. Antonio
Rosmini. Rosmini. Serbati. Keywords: gl’agiati, Agostino, Aquino, la tradizione
Latina italiana. Refs.: Luigi Speranza, “Rosmini e Grice,” per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. Serbati.
Luigi Speranza --
Grice e Sereniano: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Sereniano was a philosopher who visits the emperor Giuliano. He
followed the doctrine of the Cinargo.
Luigi Speranza --
Grice e Sereno: la ragione conversazionale dell’ondella tranquilità dell’animo –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He belongs to IL PORTICO and is a
friend of Seneca. Seneca dedicates some of his works to him. In the dialogue
“On the tranquility of mind,” Seneca depicts them discussing the problems S.
has with maintaining his firmness of resolve. Anneo Sereno.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; osia, Grice e Serra:
la ragione conversazionale dell’economia filosofica – storia dell’economia
romana – massoneria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Dipignano). Filosofo
italiano. Dipignano, Cosenza, Calabria. Mercantilista. Considerato il primo
filosofo dell’economia politica in Italia, e uno dei primi in Europa. A lui va
il merito di avere composto per primo un trattato scientifico, seppure non
sistematico, sui principi e sulla politica economica. Poco si conosce della sua
vita: laureato probabilmente in utroque, imprigionato nelle carceri della vicarìa
di Napoli forse a causa della sua partecipazione al complotto architettato da CAMPANELLA
per liberare la Calabria ma più probabilmente dietro accusa di falso
monetario. Mentre e in carcere compose “Breve trattato delle cause che
possono far abbondare li regni d'oro e d'argento dove non sono miniere” e lo
dedica al vice-ré di cui spera l'aiuto. Riusce a farsi ricevere dal nuovo
viceré, III duca d’Osuna, per proporgli un programma di riforme utili al Regno.
L’incontro fu infruttuoso e e ri-mandato nelle carceri della vicarìa, dove
probabilmente muore. Essendo molto gravi le condizioni finanziarie del Regno di
Napoli -- esausto il tesoro pubblico e l'onere del fisco già così gravoso da
indurre molti a lasciare la città per sottrarvisi -- Santis propone di limitare
l'esportazione della moneta e di abbassare i tassi di cambio con le piazze
estere. La polemica con Santis è alla base della proposta di S. Dimostra con
esempi tratti dalla antica storia romana l'inutilità e anzi il danno di questi presunti
rimedi. Da ciò trae occasione per spiegare la vera causa della prosperità della
nazione italiana. Analizza la causa della scarsità di moneta nel Regno di
Napoli e il fattore che puo invertire questa tendenza economica. Il primo ad
analizzare e comprendere appieno il concetto di bilancia commerciale incluso il
bene di servizio e il bene del movimento di capitale. Spiega come la scarsità
di moneta nel Regno di Napoli e causata dal deficit della bilancia dei
pagamenti. Utilizzando le sue scoperte e in grado di respingere l'idea per cui
la scarsità di denaro e dovuta al tasso di cambio. La soluzione prospettata al
problema e indicata nella promozione attiva delle esportazioni. S. segna il
distacco dalla concezione moralistiche scolastica per passare ad una spiegazione
laica ed è assolutamente innovativa per l'epoca tanto che Croce la define
lampada di vita. Galiani a scoprirlo, tessendone un elogio in una nota del suo
celebre trattato Della Moneta. Chiunque legge questo trattato, scrive, resta
sicuramente sorpreso ed ammirato in vedere quanto in un secolo di totale
ignoranza dell’economia filosofica ha S. chiare e giuste le idee della materia
di cui scrisse e quanto sanamente giudicasse delle cause de nostri mali e de
soli rimedi efficaci. Galiani paragona S. a Melon e a Locke, considerandolo
superiore per avere vissuto molti anni prima in un'epoca di ignoranza dell’economia
filosofica. Egli, che in vita era stato del tutto trascurato e per
secoli, tranne appunto quell'elogio di Galiani, completamente dimenticato, dopo
molto tempo è stato finalmente riscoperto. Addante, Cosenza e i cosentini: un
volo lungo tre millenni, Rubbettino, Martelloni, Regno di Napoli e Terra
d'Otranto, Aspetti economici e sociali di una crisi, in Perrotta, La scienza è
una curiosità. Scritti in onore di Cerroni, Manni, Benini, Croce, Storia del
Regno di Napoli, Laterza. Avendo ottenuto di parlare al vice-ré duca d’Ossuna
per comunicargli cose utili allo stato, e udito, presenti i consiglieri, ma,
giudicandosi che avesse detto ciarle e chiacchiere senz'altro concludere, e ri-mandato
al suo carcere. Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno, Ecra, Destefanis, Illuministi Italiani, Galiani,
Milano-Napoli, Galiani, Della moneta, Napoli, Salfi, Elogio, primo filosofo di
economia civile, in Addante, Patriottismo e libertà. L'Elogio di Salfi,
Cosenza, Custodi. Scrittori classici italiani di economia politica, Milano, Pecchio,
Storia della economia pubblica in Italia, Lugano, Narrazioni tratte dai
giornali del governo di Girone duca d'Ossuna vice-ré di Napoli scritti da Zazzera,
Archivio storico italiano, Savarese, Trattato di economia politica, Napoli, Ferrara,
Prefazione, in Trattati italiani, Torino, L. Bianchini, Della scienza del ben
vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati, Napoli, Andreotti,
Storia dei cosentini, Napoli, Accattatis,
Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza; Fornari, Studii (Pavia);
Amabile, Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia” (Napoli);
Marco, Teorie economiche, Memorie del R. Istituto lombardo di scienze e
lettere, classe di lettere e scienze storiche e morali, Benini, Sulle dottrine
economiche, Appunti critici, in Giornale degli economisti, Economisti, Graziani, Bari, Arias, Il
pensiero economico di S., in Politica, Croce, “Storia del Regno di Napoli” (Bari);
Economisti napoletani, Tagliacozzo, Bologna, Einaudi, Saggi bibliografici e storici intorno
alle dottrine economiche, Roma, Schumpeter, Storia dell'analisi economica,
Torino, Rosa, I critici, Atti del Congresso storico calabrese, Napoli, Galasso,
Economia e società nella Calabria” (Guida); Nuccio, Rivista storica del Mezzogiorno,
Colapietra, Introduzione, in Problemi monetari negli economisti filosofici napoletani,
Colapietra, Roma, Aquino, L’approccio monetario all'analisi della bilancia dei
pagamenti, in Studi economici, Colapietra, Genovesi in Calabria, Rivista
storica calabrese, Manoscritti napoletani di P. Doria, Galatina, Toscano, La disputa sui cambi esteri del Regno
di Napoli, Rivista di politica economica, Rije, ed. anast., Napoli, Ricossa,
Cento trame di classici dell’economia, Milano, O. Nuccio, Il pensiero economico
italiano, Sassari, Il Mezzogiorno agli inizi del Seicento, Rosa, Roma-Bari, Alle
origini del pensiero economico in Italia, I, Moneta e sviluppo negli economisti
napoletani, Roncaglia, Bologna, Zagari, Moneta e sviluppo, Rosselli, La teoria
dei cambi, Landolfi, Valentia, A.
Placanica, Storia della Calabria (Roma); Roncaglia, Rivista italiana degli economisti,
Addante, Repubblicanesimo e mito di Venezia, Istituzioni e sviluppo economico,
Roncaglia, La ricchezza delle idee: storia del pensiero
economico, Roma-Bari, Grilli, Visto da Grilli, Roma, Villari, Politica
barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza, Roma); Roncaglia, S., in Il
contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Roma, Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino
di un impero, Milano; Parise, Vita e pensiero del primo economista moderno,
Roma; L. Addante, La politica del Breve trattato (Soveria Mannelli). Mercantilismo
Storia del pensiero economico. Treccani Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il contributo italiano alla storia del
Pensiero: Economia. Antonio Serra. Serra. Keywords: massoneria, circolazione
degl’idee massoniche, mito di Venezia, economia romana, l’economia del liceo,
roma antica, antica roma, Machiaveli, mercantilismo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Serra” – The Swimming-Pool Library. Serra.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sertorio: il
deutero-esperanto nella filosofia ligure – By Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo
italiano. S. partecipa al dibattito pubblicando dapprima il saggio “Elementi di grammatica analitica universale,”
poi “Un esame filosofico della grammatica universale,” e, infine, “Il problema
della lingua universale.” In quest'ultimo saggio, a proposito dei diversi
sistemi inventati – incluso il deutero-esperanto di H. P. Grice, S. individua
tre fondamentali tipologie di lingue ausiliarie. Il primo tipo comprende quella
categoria di linguaggi che definiamo a posteriori che riprendono alcuni, o
tutti gli, elementi, non di rado modificandoli, da lingue storico- naturali, come
può essere l'italiano, il francese, il cinese, ecc.. Il secondo tipo è costituito
da quelle lingue che definiamo a priori con le quali è possibile comunicare sia
in via scritta che in via orale, ovvero che presentano una forma
ideografico-fonetica tale da permettere non solo la semplificazione della
scrittura, ma anche una sua agevole e veloce riproduzione tramite foni. L’ultima
tipologia è costituita da quelle lingue che adottano delle scritture
tipografiche, crittografiche, numeriche, nelle quali gl’elementi fondamentali
della lingua sono utilizzati per trasferire solo l'idea della cosa che si vuole
comunicare, ma che non presentano un reale metodo di comunicazione orale. Della
seconda categoria discute ampiamente nel primo saggio dedicato al problema
della lingua universale, che intende come lingua adatta alla comunicazione tra
persone adulte, che hanno già delle idee proprie sviluppate attraverso l'uso
della loro LINGUA MADRE – l’inglese oxoniano di H. P. Gice. Qui S. s’occupa
innanzitutto della definizione del sistema numerico della lingua ideale, e ne
propone di due tipi differenti, sia a base decimale che sessagesimale, e, poi, del
suo sistema GRAMMATICALE – cioe, morfologia, sintassi, morfo-sintassi –
(“Pirots karulise elatically”) e lessicale (“pirot, karulise, elatic”. Le
informazioni seguenti sono tratte da S., Elementi di grammatica analitica
universale, Porto Maurizio, Tipografia
Prov, di Demaurizi. Il sistema decimale romano
– I II III IV V VI VII VIII IX X -- S. associa ad ogni numero da 0 a 9 una
consonante, secondo le seguenti corrispondenze: 1 = b, 2 = g, 3 = d, 4 = c, 5 = 1, 6 = m, 7 =
n, 8 = p, 9 = 1, 0 = z. A partire dalla
virgola che separa i numeri interi dai decimali si pongono in ordine da destra
a sinistra le 5 vocali (a, e, i, o, u) e questo ordine è invariabile. Le vocali
vanno scritte al di sotto delle consonanti precedenti e, durante la lettura,
questi nessi di c+v (che possiamo allora intendere come SILLABA – ma, pa, da)
sono da pronunciarsi assieme (del tipo “be” e non “b – e” (prima
articolazione). Le cifre devono sempre essere raggruppate a gruppi di tre, secondo
l'ordine decine, centinaia, migliaia, milioni, ecc.) e laddove non vi sia
alcuna cifra a coprire le sedi di queste terne si inserisce lo zero. Si avrà
allora qualcosa di simile all'esempio successivo: 372,215,8976,340 -- 4 d n
g .cgb.1pr. n m d Z e
a ・i a u i e a. Il numero così composto in italiano si dicee
"trecento-settanta-due miliardi, quattro-centovent-uno milioni, cinque-centottanta-nove
mila, sette-cento-sedici virgola trecento-quaranta.” Nella lingua di S.
solamente "denagu, cogibe, lapuro, nibema, ducozi.” I vantaggi sono
molteplici, come dice Frege – nella trauduzione di Austin per Blackwell,
favorita di Grice -- se si riconosce oltre all’evidente brevità – cf. Grice,
“Be brief (avoid unnecessary prolixity (sic))” -- anche il fatto che in un
sistema numerico-alfabetico di questo tipo le vocali che occupano un posto
fisso permettono d’individuare perfettamente l'ordine di grandezza di ciascuna
cifra senza dover ricorrere ad altre parole per indicarlo. Cosi si sa che la
combinazione c+e+c+a+u corrisponde sempre all'ordine dei miliardi, c+a+c+u+c+o
a quello delle centinaia, ecc. Il secondo sistema proposto è quello a base
sessagesimale in cui ad ogni cifra da 0 a 60 S, associa una sillaba cv, del
tipo 1 = ba, 2 = ge, 3 = di. Nonostante anche questo metodo assicuri una brevita
d’espressione considerevole (centoventitré › bagedi), risulta meno convincente
del precedente per il semplice fatto che quello prevede uno schema di
composizione RICORSIVO basato su POCHE semplici regole – la composizionalita
com’essenza d’una lingua come il suo oxoniano nativo, mentre questo aumenta
notevolmente il grado di difficoltà mnemonica associato ad ogni numero a causa
del maggior numero di combinazioni esistenti e
dell'arbitrarietà delle stesse.
Per quanto riguarda invece la parte della SINTASSI, LA MORFOLOGIA, e la
MORFO-SINTASSI – la grammatica ragionata -- e lessicale della sua lingua
ideale, S. indica delle caratteristiche fondamentali che questa deve possedere
per essere di semplice comprensione. La separazione d’un MORFEMA LESSICALE (‘be’)
d’un MORFEMA SINTATTICO – “Fido *is* shaggy; Fido e Rex *ARE* shaggy”; ‘Rex is
SHAGGiER than Fido’ (One pirot karulises elatically; therefore, pirots karylise
elatically – in an elatic way. L’esistenza di particelle SINTATTICHE nuove, più
semplici, meno *ambigue* -- cf. Grice, “Do not multiply the senses of ‘if’
beyond necessity, Strawson!” -- di quelle
esistenti. L’invariabilità delle parole – cf. Grice on word meaning –
shaggy’. A questi aspetti deve aggiungersi anche l'esistenza d’un vocabolario o
lessico in cui ogni elemento possede UNO E UN SOLO SIGNIFICATO (O STRETTAMENTE,
SENSO) – “Senses are not to be multipled beyond necessity”: Grice’s modified
Occam’srazor --. La sintassi verte intorno al verbo o PREDICATO (“... is
shaggy”, “kaurlise”), che da solo e opportunamente coniugato (Fido is shaggy,
Fido and Rex are shaggy; a pirot karulises, but pirot karulise -- è in grado di
descrivere non solo l'azione, ma anche il SOGGETO (cf. Grice on ‘the’ –
discussione con Sluga --) della stessa, il suo NUMERO – cf. Grice on Peano,
(Ex), “some, at least one”; il genere, e le circostanze di modo (modo indicativo,
ecc.) e di tempo (cf. Grice, “Actions and events,” basato su von Wright). A
questo, se necessario, si possono associare ulteriori complementi di pro-posizione,
anch’essi declinati, per descrivere
l'azione in MODO più particolareggiato (non volitivo, ma ottativo). L'alfabeto utilizzato è composto di
diciassette lettere, le stesse che sono state utilizzate per il sistema
numerico decimale visto in precedenza. Ogni particella sintattica o parte del
discorso presenta un ordine vcvcv ed esse sono riconoscibili a seconda delle
lettere che vengono poste in ciascuna
sede. I verbi sono riconoscibili dal fatto che presentano nella sede della
prima consonante una «b» o una «g» e questa, assieme alla seconda vocale, forma
il modo verbale -- diviso in: «ba» INFINITO (‘to be shaggy’), «be» PARTICIPIO,
«bi» GERUNDIO (‘being shaggy’), «bo» INDICATIVO (‘is shaggy’), «bu» IMPERATIVO
(please be shaggy, o ‘is shaggy, please’, «ga» SOGGIUNTIVO (‘that Fido be
shaggy’), «ge» CONDIZIONALE, i. e. con-dictum (‘si Fido e shaggy, Fido e
amato’), «gi» MORALE (“Jones is between Richards and Smith”, «go» FISICO
(“Jones is between Richards and Smith”), «gu» MATEMATICO O ORDINALE). La vocale
iniziale indica la forma del verbo («a» = verbo IN-transitivivo (“Fido IZZ
shaggy”, «e» = ri-flessiva, «i» = attiva (Paride ama Elena), «o» = passiva
(Elena e amata da Paride), «u» = neutra»). Le ultime due lettere, consonante e
vocale, indicano il tempo, il numero e la PERSONA (Grice, “Someone, i. e. I, is
hearing a noise”) a cui il verbo stesso si
riferisce, secondo ua tabella:129tem
0. Particelle numero d del e personal 1R28 22 มา
สิ
1.ª TO 3."
Singolare IP838a 아비아비비이2 Plurale
130 3. Specificazione del Tempo = Più che perfetto = Passato anteriore =
Passato indefinito Passato
definito Imperfetto Presente
Futuro Futuro anteriore = •
Dipendente = Indipendente = Persona Numero. Così ad esempio il verbo 'mangia!' (Grice,
hobble) può divenire «ibupe», dove «i» indica la forma transitiva (eat a nut –
Grice, as ordered to his pet squirrel, squarrel, Toby), «bu» il modo imperativo
– cf. Hare, “The window is closed, please -- e «pe» la seconda PERSONA persona
singolare (you, not ye) del tempo presente. Allo stesso modo si compongono i
nomi. La prima lettera - vocale - indica il genere (del tipo «a» comune – man
--, «e» sessuale – flower --, «i» maschile (aquila macchio), «o» femminile
(“ship”), «u» neutro» (‘ship’), la seconda - consonante indica la declinazione
e il numero, ed esistono cinque declinazioni. La terza e la quarta lettera -
vocale e consonante - delimitano l'idea in ordine alla quale si riferiscono le
preaccennate qualità di genere e numero, cioè costituiscono la parte che
potremmo in qualche modo chiamare morfema lessicale, RADICE (v this little
piggy went to market) lessicale SIGNIFICANTE (‘the shag of shaggy) della parola
(cf. Grice, word meaning); l'ultima vocale indica il caso di appartenenza. In
questo modo poi si formano anche tutte le altre parti del discorso. Il problema
d’un sistema di questo tipo è che la riuscita di una buona conversazione
dipende in maniera non trascurabile dalle capacità mnemoniche e combinatorie
degl’individui interessati – Grice: “That’s why I say: who cares?”. Oltre alla
notevole mole di nessi consonantici e vocalici esistenti, oltre al fatto che
questi cambino significato se non SENSO in base alla posizione, oltre
all'enorme numero di combinazioni possibili, un aspetto penalizzante e
soprattutto la struttura stessa delle parole che, indipendentemente dalla parte
del discorso interessata, deve necessariamente essere di cinque lettere o di sei
lettere, in ordine VCVCV o CVCVCV. Per
quanto riguarda invece la terza categoria delle lingue inventate ad uso
internazionale individuate da S., si riporta un esempio di lingua puramente
ideografica, numerica. Esempio: Ne Il
problema della lingua universale, S. propone la frase italiana. Il grammatico
intelligente interpreta facilmente questa scrittura; perchè il significato o
SENSO unico di ciaschedun segno è reperibile istantaneamente nella trascrizione numerica seguente del terzo
metodo: - 12. 111. 15. 2101. 1245 - 27.
33. 72. 2152. 1151 - 14. 114. 18. 0454. 3293 - 3 - 364 - 14. 111. 15. 1564.
4252 - 14. 112. 16. 0435.1555 -15. 33.72
- 1533. 1265 - 1. Ad ogni cifra associa una funzione grammaticale, sintattica o
di senso (ad esempio il numero «1» finale esprime il punto fermo, la fine della
sentenza. Il numero «3» corrisponde al punto e virgola. Il «111» significa
'soggetto della proposizione. Il «15» il caso nominativo nella sua forma
singolare. Il «364» significa 'perché; ecc.. I trattini indicano l'inizio di
ciascun termine e i punti dopo le cifre separano i fattori che fanno parte di
ciascun termine. Esempio tratto da S., Il problema della lingua universale,
Porto Maurizio, Berio. La volontà è
quella di limitare (ma non del tutto) la fusione dei morfemi e piuttosto
apporre nuove cifre che siano ognuna portatrice di un determinato significato
(del tipo 'leone-femmina' e non
'leonessa', o ‘aquila macchio’ e non ‘aquilo’). S. è perciò convinto
che, tra quelli individuati, il più esatto dei metodi e il terzo, visto che: La ragione dell'evidenza,
che ammirasi nel linguaggio algebrico e che spesso riguardasi come un
privilegio di questa scienza dell’arimmetica, si è che nei ragionamenti
algebrici o arimmetici non entra mai un segno il di cui valore assoluto e di
posizione non sia esattamente definito. Cf. Grice sul formalismo di Peano e
l’informalismo di suo alievo Strawson. La sintassi, che attualmente più
soddisfaccia alle esigenze filosofiche è la sintassi algebrica o arimmetica –
Frege, il concetto di numero, traslato da Austin, read by Grice -- ed i
precetti di questa dovrebbero essere
comuni ad una lingua universale. Di nuovo quindi, l'interlingua in grado di
descrivere in maniera conforme la natura delle cose è di tipo numerico e
algebrico o arimettico e per essere utilizzata necessita di tanti vocabolari
quante sono le lingue storico naturali esistenti. Giacomo Francesco Sertorio. Sertorio.
Keywords: Il deutero-esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Sertorio”. Sertorio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Servio: la ragione
conversazionale VIRGILIANA – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Nei "Saturnali" di Macrobio,
rivolti alla glorificazione di VIRGILIO, S. appare uno degli interlocutori. La
sua attività filosofica ha per sede Roma. Predilesse Virgilio, che esalta
come il maestro di ogni sapere e che commenta in un’opera di cui rimangono due
redazioni. La più breve sembra tramandare lo scritto autentico di S.,
mentre la più ampia ("Servius auctus o plenior o Scholia Danielis", dal
Daniel, che la pubblica) pare derivata dalla prima e da una riduzione del
commento d’Elio Donato. Si discute se gl’appartengano l’Explanatio
dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre saggi di metrica. Il commento
include non poche dottrine di carattere filosofico, che però provengono dalle
fonti usate da S.. Si è voluto fare di S. un seguace dell’accademia. Ma,
da una parte, non è lecito attribuirgli una teoria filosofica organica, e,
dall’altra, le proposizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non sono
proprie di essa, perchè appartengono all’accademia in generale, a Posidonio, o
anche alle credenze mistico-religiose di quell’età: natura divina dell'anima,
immortalità di essa quale principio di movimento, sue trasmigrazioni, suoi
destini dopo la morte, teoria delle sfere. Quando, oltre alle tre parti
dell'anima, l'anima vegetativa, l'anima sensitiva e l'anima razionale, ne
ammette anche una quarta anima, l'anima vitale, principio di movimento, si
allontana dalle teorie tradizionali inclusa l’accademica. Quando S.
afferma che nulla esiste salvo i quattro elementi (acqua, aria, fuoco, terra) e
il divino, che è uno spirito (o una mente, o un'anima) il quale, infuso in
essa, genera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, accetta in
complesso la cosmologia del PORTICO esposta da VIRGILIO, che però cerca di
liberare dal suo materialismo originario. Del resto, esplicitamente S.
loda i filosofi del portico -- et nimiae virtutis sunt, et cultores deorum -- che
contrappone ai filosofi dell’Orto, che critica spesso. In S. mancano
un coerente e un indirizzo preciso, sebbene si affermino in lui le tendenze
mistiche dell’età sua. Un'edizione del XVI secolo di Virgilio con il
commento di S. stampato sulla sinistra del testo. S. Mauro Onorato. Grammatico
e commentatore romano. L'appellativo Deutero-S. o S. Danielino si
riferisce alla pubblicazione da parte di Daniel di un'edizione del commentario
di S. all’Eneide contenente alcune aggiunte rispetto all'originale serviano.
Tuttora è discussa l'autenticità del cosiddetto S. Danielino. S. ompare come
uno degl’interlocutori nella “Saturnalia” di Macrobio. Alcune allusioni
presenti nei saggi ed una lettera di Quinto Aurelio Simmaco indirizzata a S..
Saggi: “Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, Commentarii in Vergilii
Bucolica, Commentarii in Vergilii Georgica. Del commento alle opere di Virgilio
esistono due tradizioni manoscritte. Il primo è un commento relativamente breve
e conciso, attribuito di per certo a S., ed è chiamato “S. Minore". A una
seconda classe di manoscritti appartiene un altro commento, molto più esteso,
infatti le aggiunte sono abbondanti e in contrasto con lo stile di S.. L’autore
è ignoto. Questo secondo è chiamato "S. Auctus" o "S.
Danielinus" da Daniel, che lo pubblica. Esiste una terza classe di
manoscritti, composti in Italia, derivati dai primi due, a significare la
diffusione di questi commenti. Per quanto riguarda il "S. Minore"
è in effetti l'unica edizione completa esistente di un romano scritta prima del
crollo del principato in Occidente. È una vasta critica al testo di VIRGILIO,
con critiche anche ai commentatori prima di lui -- in un certo qual modo ci
fornisce il modo di pensare dei secoli precedenti. S. non usa un linguaggio
particolarmente elevato, ma è colorito e fantasioso qualora si tratti di
etimologie. Oltre all'aspetto grammaticale, i commentari di S. contengono
abbondante materiale filosofico, la maggior parte del quale probabilmente è
derivata da fonti di filosofi anteriori, con cui la poesia di Virgilio viene
interpretata nel suo aspetto filosofico.. Commentarius in artem Donati, Raccolta
di note grammaticali d’Elio Donato. De centum metris ad Albinum - Un trattato
di diverse figure metriche, dedicato a Cecina Decio Albino. De finalibus ad
Aquilinum - Un trattato di metrica sui finali. De metris Horatii ad
Fortunatianum - Un trattato di metrica di Orazio, forse dedicato ad Atilio
Fortunaziano. Vita Vergilii. Enciclopedia italiana. Funaioli, S., in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pellizzari, S..
Storia, cultura e istituzioni nell'opera di un grammatico (Firenze, Olschki); Ramires,
S., Commento al libro IX dell'Eneide di Virgilio; con le aggiunte del
cosiddetto S. Danielino, Bologna, Patron, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. S., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. S. su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S. su
digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Avogadro. S. Open Library,
Internet Archive. Opere complete di S., su forum romanum.org. V · D · M
Grammatici romani -- Portale Biografie Portale Letteratura
Categorie: Grammatici romani Romani. The second version was named the Egyptian, which is a
puzzling name since the first reference to this particular descent/ascent
concept seems to come from a commentary on Book IV of the Aeneid of Publius
Vergilius Maro, or Virgil, by the commentator S. In S.’s version, each
planetary sphere is associated with one of the seven major vices. The list is
as follows: I avarice avarizia from Saturno; II desire for dominance and
gluttony from Giove; III violent passions or anger from Marte; IV pride from
the Sole; V lust from Venere; VI envy from Mercurio; and VII sluggishness from
the Luna. Some philosophers differ as to *which* vice to assign to which *planet*,
e. g., sluggishness is often assigned to Saturn instead of the Moon. It should
be noted that each of these seven vices, are all psychological characteristics
as is befitting of a soul. Roman philosopher and grammarian, commentator on
Donato and Virgilio There is some doubt as to his name. The commentator on
Donato in the Parisinus Latinus codex (GrL) is called _Sergio_, as is the
commentator on Virgilio in the Bernensis codex. In other manuscripts, the
commentator on Virgil is called S. but no mention is made of the rest of his
name (Marinone). In the Saturnalia, MACROBIO (si veda) gives a portrait of as him
an adulescens; and Daniel asserts, in a
note to the Bernensis codex that he is one of Donato’s students. If these
indications hold true, it would appear that he lives in Rome, where, according
to MACROBIO, he belonged to the intelligentsia of the ACCADEMIA. Of
considerable importance are his commentaries on Virgil's Aeneis, Eclogae and
Georgica, surviving in two ms. codices of varying length. The shorter is
published by Daniel, who adds several scholia -- the Scholia Danielis -- to it.
It is commonly known as the S. Danielinus. Critics disagree as to the contents.
Thilo holds that the additions are probably a fusion of an original text with
parts of Donato’s lost commentary on Virgil. His commentaries, based for the
most part on his predecessors (Donato in particular), enlarge on and enhance
that tradition by virtue of the quality of the grammatical observations and the
comparisons of Virgil with other philosophers. Various grammatical treatises
bear his name but modern criticism unhesitatingly ascribes to him only the
Commentarius in artem Donati (GrL). Prisciano mentions S. as the author in
Institutio de arte grammatica (GrL). Other attributions are uncertain. The two
books of the Explanationes in artem Donati (GrL) are apparently posterior to S.
(Schanz-Hosius). The tract De littera de syllaba de pedibus de accentibus de distinction
(GrL) gives "Sergius" as the author but seems to be an extract from
the Commentarius and thus not a work intended by S. to stand alone. Criticism
is divided over attributing to S. De centum metris (GrL), a treatise on
metrics: Müller excludes S. as the author while Marinone defends the opposite
view. The treatises De finalibus (GrL) and De metris Horatii (GrL) are
similarly controversial; see Müller. In his Commentarius in artem Donati, S.
brings home two points which characterize Roman grammatical thought, as seen in
the artes. First, grammar is intimately connected with all the disciplines
dealing with language – philosophy – GRAMMATICA FILOSOFICA – SEMANTICA
FILOSOFICA -- dialectics, and esp. rhetoric (GrL). Second, grammar has a
distinguishing subject matter which consists, according to S., of the analysis
of the VIII parts of speech – Latin does not have an article, but it has
interjection. S.’s admiration for Donato derives, in fact, from the latter's
unswerving conviction that a grammatical treatise ought to begin by defining
the partes orationis -- other grammarians were hesitant and inconsistent).‘That
is why Donato is wiser, who starts out with VIII parts of speech that concern
the grammarians – including the philosophical grammarians – specifically – UNDE
PROPRIUS DONATUS EST DOCTIUS, QUI AD OCTO PARTES INCHOAVIT, QUÆ SPECIALITER AD
GRAMMATICOS PERTINENT – Commentarius. S. holds, together with Donato, that the
study of grammar, taken to be the study of the partes orationis, is a
prerequisite for literary analysis, i. e., for commenting on poetic texts, such
as Virgil’s. Although S. contributes to enriching the discussions of the
grammatical distinctions formulated by Donato, by citing and criticising the
work of other philosophical grammarians, S. leaves unsolved the many problems
inherent in the categories handed down by tradition. For example, some
grammarians considered the 'future' tense to be a separate MODVS and not a
tense of the 'indicative' mode, given that, properly, one can 'INDICATE' only
what one knows and not the future, by definition an un-known. “And remember I’m
a philosophical grammarian!” Grice: “In Rome, grammarians simpliciter were
usually slaves!”. S. expounds the question clearly (GrL), but does not venture
an answer. "Martii Servii
Honorati Commentarius in Artem Donati" (GrL). "Commentarius in Artem Donati"; "De
finalibus"; "De metris Horatii"; repr. Hildesheim. S. Grammatici
qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Thilo e Hagen eds., Lipsiae. Editio Harvardiana, Rand et al.
eds., Lancastriae, Ad Aeneam; Stoker/Travis eds., Oxonii (Ad Aeneam). Commento ai libri 9 e 7 dell'Eneide di
Virgilio, with introd., biblio. and critical ed. by Ramires, Bologna. BARATIN, La naissance de
la syntaxe à Rome, Paris. Id., CRGTL, BARWICK, "Zur S.-Frage",
Philologus; BRUGNOLI, "S.", Enciclopedia Virgiliana, Roma. KASTER, "Macrobio and S., Verecundia and
the grammarian's function", HSCP; MARINONE, "Per la cronologia di S.",
AAT; MÜLLER, L. "Sammelsurien", Jbb. für Klass.Philologie; SCHANZ, M.
e HosIus, Geschichte der römischen Literatur, München, TIMPANARO, "Note
serviane, con contributi ad altri autori e a questioni di lessicografia
latina", Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura; WESSNER,
"S.", RE. Keywords: Virgilio, Donato. Servio Mario Onorato. Servio.
Luigi Speranza -- Grice e Sestio: la ragione conversazionale del fallito
morale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He founds his own school in Rome
that draws heavily on La Setta di CROTONE and IL PORTICO. S. preaches an
ascetic way of life, which includes vegetarianism, and exhorts his followers –
whom he called ‘Sestiani’ – to reflect at the end of each day on their moral
failings – “if any.” Upon his death, his son, also called Quinto S., inherits
the school, but it does not long survive him. One of the Sestiani is SOTIONE, who
becomes Seneca’s tutor – Seneca himself is influenced by the school’s teachings
for some time. Quinto Sestio.
Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale delle sentenze
trasformative – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. S. is a compiler – The “Sentences
of Sesto” are mainly of an ethical nature and show signs of a variety of
influences including traditional wisdom literature, and IL PORTICO. They
proclaim that wisdom is attained through the conquest of the passions. –
Chadwick, “The sentences of Sextus,” Cambridge. Grice: “Chomsky thought that
the sentences of Sextus were ‘transformational’!”
Luigi Speranza -- Grice e Sesto: la ragione conversazionale del’accademico
d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tutor to Antonino. Antonino regards
him as something of a role model and greatly admires the morality and humanity
of both his life and his teachings. Accademia. Suda thinks that S. is of the
scesi only because he confuses him with Sesto Empirico!
Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe
filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studies philosophy with Stilio
(si veda). He becomes the principe di Roma when his cousin Elagabalo is
assassinated. His principate is not however a success and he is himself
assassinated not long after. So
much for the line of succession. Severo Alessandro.
Luigi Speranza -- Grice e Severo: la ragione conversazionale del’amico
lizio d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A lizio, friend of
Antonino. Claudio Severo.
Luigi Speranza --Grice e Severo: la ragione conversazionale del principe
filosofo -- Roma—filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Severo rules the Roman empire
and it is said that he is well-versed in philosophy. Severo Settimio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Settala:
la ragione conversazionale dei problemi sessuali d’Aristotele -- desiderio e
piacere – la scuola di Milano – filosofia milanese -- filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Profisico. Studia a Brera
e Pavia. Insegna a Milano. Si prodiga in occasione della famosa peste dei “I
promessi sposi”. Manzoni lo nomina una prima volta quando parla del figlio, Senatore S., medico,
membro, insieme a Tadino del tribunale della sanità ai tempi della vicenda di
Renzo e Lucia. È tra i primi ad accorgersi che la strana malattia che si
diffonde nella zona lecchese, e la peste. Saggi: “In librum Hippocratis Coi de
aeribus, aquis, [et] locis, commentarii V. Appositus est Graecus Hippocratis
contextus ope antiquorum exemplarium, restitutus et emendatus cum indice rerum
et verborum locupletissimo una cum nova eiusdem in Latinum versione” (Colonia:
Ciotti); “Problemata di Aristotele” (“Commentariorum in Aristotelis problemata”
-- VII primas sectiones – secundam heptadem -- continens, ab eodem Latine
facta”) (Francoforte sul Meno: Wecheli, Marnio, Aubri); “Animadversionum et
cautionum medicarum libri VII quorum materiam sequens pagina indicabit”
(Milano, Bidell); “De peste et pestiferis affectibus libri V (Milano, Bidell);
“De ratione instituendae et gubernandae familiae libri quinque” (Milano,
Bidell); “Della ragion di stato” (Milano: Bidelli); “Cura locale de' tumori
pestilentiali, che sono il bubone, l'antrace, o carboncolo, ed i furoncoli
contenente tutto quello che si ha da fare esteriormente nellquesti mali tolta
dal libro della cura della peste” (Milano, Bidelli); “Preseruatione dalla
peste” (Brescia: Fontana); “Anti-rotario romano con l'aggionta dell'elettione
de semplice e prattica delle compositioni e di due trattati, vno della teriaca romana,
l'altro della teriaca egittia aggiontoui in questa vltima impressione auertenze
e osseruationi appartenenti alla compositione de medicamenti” (Milano:
Bidelli); “Avertenze, et osservationi appartenenti al curar le ferrite”
(Milano: Cardi); “Compendio per curare ogni sorte de tumori esterni et cutanee
turpitudini, raccolto da osseruationi fisice, e chirurgice” (Milano: Monza);
Statistica medica di Milano Milano, Guglielmini e Redaelli, Belloni, Borromeo e
la Storia della Medicina, in San Carlo e il suo tempo: convegno, Milano.
Edizioni di Storia e Letteratura, Bartolomeo Corte, Notizie istoriche intorno a
medici scrittori milanesi, Milano, Argelati, Bibliotheca scriptorum
mediolanensium seu acta, et elogia virorum omnigena eruditione illustrium, qui
in metropoli Insubriae, oppidisque circumjacentibus orti sunt, Mediolani,
Sangiorgio, Cenni storici sulle due Pavia e di Milano e notizie intorno ai più
celebri medici, chirurghi e speziali di Milano dal ritorno delle scienze sino
all’anno. Opera postuma, Longhena, Milano, Renzi, Storia della medicina
italiana, Napoli, Ferrario, Intorno alla vita ed alle opere mediche Cenni,
Milano, Capparoni, Profili biobibliografici di medici e naturalisti celebri
italiani, Roma, Cava, La peste di S. Carlo. Note storico mediche sulla peste,
Milano, Ricerche Firenze Ferro, La peste nella cultura lombarda, Milano,
Cosmacini, Il medico e il cardinale, Milano. Tiraboschi, Storia della
letteratura italiana, Firenze, Molini, Facchin, S.: un intellettuale barocco
fra scienza e arte Treccani Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Mellerio,S., in Dizionario biografico degl’italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, openMLOL, Horizons Unlimited srl. Patricio Milanese. ys id À
L904.7. V WM C th "s rex. fà vnm e LOOyV. n. Fe viu Leve. (ue » meéen ah
-, 2 COMMBRO/ VEM s X ^21/ dién sd 2 L * 1 mtmbys p APP A p memi. LUÜU DN.
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./ 64 ! Irstra- Jim vfldecur " ovi " du - e acu ly Kaitnllido ! 4 EL j^ ur aco v, la x .
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0709 - e € zT214URA pL Hæ "T. ( - "a » (Pl (ijAÓ ' 2 d 4. 9e sedi /
Gus A6vEuntod i € 4 2 sí "V^ ir TT /Au£ 20. fri mtn Lg ^w n QC ef 1 - Deep
uvm tort í Æ. uit? i s ei Ac » ; . p de 4, (s ma € vent . i V WX D69. ARA 4/7 n
^ C "4 z det made K 4, M. /j [^ » 22. Joni amv ) EU ^ P 2 odn 4 rw 26. " Jevikgunt ecfpute onm tu
. A x Q 22 i " 3 2 s " buy - ! . Ó 4 PZLIAZ y. : y po «€ [47 4»,
"T. *«? À, V us. Ier did / CMM - (s icu. Z4, T Ao àx/ 05 VIVPUA "bL.
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JUund- . IU» € eoí 2 Vendncuh. 9 dic. $. E^ Antea - "E " awful. M MP wmnlb y Me
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£v i Jle tmd rer e£ Dwwehst 24-. e. ra 9 de d. Qe r3 M pugamiata Sos, i iA ge
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jo qud t di E pt. miden: al Véteseom y Du" ^ h n m. eias Ze pos igi
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OC V DOVICI bob I ASI WEDIOLANENSIS. MEDICI CLARISSIMI,; P £nimadverfionum, er
Cautionum 74edicarum » 3 LIBRI SEPTEM, "T nuo 3b Aotore recogniti, et hac
pofiremaz, ^. editio: ;,C,€X xpurg catis 3q! IET np! urimis mene à 1 dis novo
nitori rellitut ONE CH EN f. d A. e » Am" 3m d Cx diiery,,» iycans d seis
Y y ». RCCÓNS DOS SEPTALIVS iau Py PW pu ATAVII, ff: ypogi rrr dit Ihuilii.
[628., LE Projlant apud Paulum Frambottum s. PER ILLVSTRLE et Excellentiffimo
Viro IOANNI PREVOTIO MEDICINÆ DOCTORE et Professori Primario.Paulus Frambottus
Bibliopola Patavinus. BAM A cít virtütis pulchritudo;ut dd cxtemisctiam
fenfibusfubtracta,ex veftigiis in precla« ro pectore impreffis cluceJenscm/ r3
(cat, mirabiles fui exci» Ice leramor es. i Mas abibo longius, Te te, Prevoti
Perilluftris et Excellentiff. exemplum ftatuo, in quo rarz virtutis,&
folidz doMirinz grata quadam confpirat harm 9e inia, ut commiuni do&torum
calculo, et falima: publice teftimonio apex eruditionis limeritó audiaris. Nec
enim fola Philofoliphia et Medicina, quam cum fumma lauide doces et cxerces,
tead unguem expoli vit fed ctiam alie difciplinz tibi, affiduo i 2 Dre 9 2 £ 94
fuo culto; (ingularia orriamentá fe debe-[U ic fatentur. udi res cm notior fit,
quaàmu] üt ego tenui ftylo et filoprodam et pro-Jij bemitum omnesin tui amorem
tacita qua]; dani illecebra pertrahit;. Ego vero; ut obi] fervaniriam, qua te
colo et veneror ; pübli-4) ] ce teftaret ; diu rnultumq; cogitavi : feci
hufquam mihi cómodior fefe obtulit oc: cafio, quàm cüm novam,eamq; lorige e;
iiendatiorem editionem Cautiorium me:] dicaium celeberrimi viri Ludovici Se
ptalii pararé: quam proinde fub felicis tui] nominis celebritate emitti cüravi,
planis perfuaías,opufculum hoc,mole quidem xiguum, pondere maximum, genüimump
foetnm fummi viri;qui fibi totícriptis moy numentis pofteritatem devirixit ;
tibi virqi" do&iffimo, et de Medicina preclaré meg. renti, gratiffimum
fore. Quare fiferem]i; fronte hoc quidquid cft libelli, argumeng tum niez in
teobfervátia.fufceperis, mee] folita beneuolétia amplexus fueris,
candiifi...diore hoítia me litaffe exiftimabo, V AL E AS VIE uM «Iq ena o e942*
164937 C6 dle: XA FT : NIST be ees; AS ears; ESSE ev E£3£ t 223 2, $9 "2;
€2, -. s[EReps: iis t 5 c» T3TU P SV: Iq s] Qe os cota cs Aj bnc gear ee dpQp o
25 7 (x QE a ! icesb 9» Ges? 32 €x 3d ue æe 3» 629 1939 Gé ei S. y a à4d T axi
à : ^cr Via hein lo: fote,ut biclabot meus iri: h vatios (ctmones eorüm; qui
itüt! tatioSeimm averent cognofce hs s res vel ccgbitam improbatent; gp üt o
hominum geneti pfe tibfire era primm lom nium It anitno háb beo. Cüm ab juv
enillbus an jnisa d hofce jam e3 cXaCLz etatistertnibos, ita tneddicam ! lianc
f2ctitavilfem artemsut fimul alias lio fiiine libero dienasartesaff
BieXpoitulavete mecum amici fiotüni Iiéteratüm e2enere pius alic quantó Viderer
Mponete labo tis;ac itudii, quim 1n hac ipfa faculIlKite; dade nominis,ac virz
z leaüdor nobis peti qxur uai verfus. Q iipp ) €; 1] *baut,moftros in Hippo Ja
^ Cratem, et in cione P MA ccn Corbin C. (cr v "m - et colertem homines,
quód in t3» tATlIos. D» tários,itemque de Ne vorum varietate Commer tarium »
quaimyis ad ipfos Medicina fontes haudij'" dubié pertinerent ; non tamen
attingere confueesj o" tudjnem,& ufum artis,& equum etfe; ut
quadra:4i^ ginta annorum,quotfermé contrivimus in how medico negotio, fructus
aliquis ad publicam utiifi" litatem exí(taret. luíta omnino,« piena fenfu
.humaniffimi vifa eft querela,fecimá ufq; libenté: ind uraninium,&
cogitationem à noftri: oble Games tisad commune beneficium avocaretmus. V
erümpiuz enimveró cum attenta meditatione mecum ipfi confiderafem, ecquis in
tanta librorum varietatufil vacuus locusinduftriz mea celictus foret, 1ta regu
periebam, otània, quecumque vel (cientiaé petu veítigatione, vcl differendi
tubtilitare trademdigji effent, exp icaffe inagnos viros, quorum nec virgi [1
gere, necequaregioriam poffem: ltznova cutdibis folicitabatanimum meum; et haud
fané medicis criterangebar. Nam neque placebat actum agegpiir do tempus
conterere,neque certandocum eXceepiü lentibus ingeniis mereri reprehenfionem ;
et capi villos;& recté monentibus ; atque cohortantib»] atoicis animuserat
fatisfacere. In bac fluctuanij apim1 folicitüdine di multumque volutátussari
madverti tandem »locis'aliis omnibusoccupat:) eum vacare,qui veluti moresartis»
et quotidilj nam diíciplinam contineret. Nam etfi partez hancipfam attigere
permu'tl» veriüs tamen at gere, quà ad plenum funt exíecut; : Et plerum que ità
variantopinionibus » atque fenrentilss haud fermé vera ratio poffit extricari
.Quamed geni [i sh ilperfa, vel contraria concilíando;vel omnia com tem vel
ínchoata perficiendo ; vel colligendo di» wiMPlectendo via quadam, et ratione;
videbar aliiu] id conferre poffe viciffim arti, que nobis et vi ujee die
nitatem,& commoda rei familiaris, et gra iliam ;& amicos, et vitam
denique ipfam confett, drelut zmula Fortunz, certé diving opis ad mint wlkra .
Cæterüm fcianr, quorum in manus hzc no ilEra cura pervenerit, fummam e(Te
voti,ut vergzen: 2 ihe jam ztate; patri& profimus extremo conattis iatera
concupi(cere ; vel fequi defitum mihi effe. «sciant item, quamvis certifima hzc
fit; et (impli«hiffima experimentorum difciplina ; quam táàm AMiu tractando
calamitates humani corporis,int ldpfo pta (ertim Valetudinario
Mediolanenfi,thea ro morborum omnium; haufimus, haud tamen dupuenaciter nos
defendere quidquam, et affirma idre.Sententiam mcam expono; inde fædum nce»
dpcusfædum exitu quod vitet, fumat juventus,que alprodit nunc primüm ad publice
valetudinis cu jram. Primus Liber zfeimad'verftomes et: Cautiones continet, qua
ad Medi cum pertinet quatenus AMedicusi e$t ; et proamait loco effe poterit .
Secundus, eas,quain reda vidus) vone,poti[simuin acutisocctmrat:) Tertiuseas,
qua ad pbarmaceutt-) cum negotium pertinent. UATtHs, £45, quatn fanguints mif
s: 7ene ob'ventunt, n Quintus;easquain curandis febr'vh bus obf erwari delent .
Sextus 2245s verfatur.qua ad mor9 bos partic nlares Acapite ad meti. bra
naturalia pertinent . Se eptimus eA$ conmpre! hendit, qui ka reliquis morbis
ob[e META Y i" REA T e y9 TITLE Bnimaduerfionum, et Cautionum Me. dicarum,
Continens eas, Que ad Medicum pertinent, quatenus Medicus ejV : quz proeezz
loco e [Je poterit - EDICVYVS pietatis, et relioionis .,M*4/* TÉ e. TAN c
pietatis cul "4 maxume fit cultor, arque ad ean- «n 4721/4. dem x2ros
ccnetur revocare. É 2. Habitu corporis in omnibtis. 5, ;,, rp, fanitatem
praíeferat,, quantunx prafeferat peculiaris ejus natura concefferit : putant
enim. plerique horminum,;fiqui minüs feliciter cc rp us difpofitum habeant; eos
neque aliis confülere poffe. Flipp. Zb. de Ædico. namajunt : Cauet primum fesct
tunc me illi daba. RÆ IR 3« Caveant igitur Medici, ne fe valetudina- ],;,,];:..
tios prædicent ;, et fi quando periodicis morbis. tentantur, cur illos eyirare
nequeant» often» dant ; quomodo autein fácilé illos evincant ; etiam doceant. .
Sit ftudiofus externz mundideismanibus Stadiofus ^ x : . Veg PE ?/^*
sotiffimüm, unguibus » capillis, et barba. Ex sonnditiet ) qum Hipp. //b. de
AMedico: oie Caveat tamen exceffum, ne in ttnolli-, / ; nsa datine,,
ticmncadat,neve excrementorum alvi, lotii, et excretorum "per- tüffim.
confpectum averfar1 credatur . nin ; 6. Veftitu utatur decoro . Hipp. l;b. de
7M eVeilitade-. 1; 9. Caveat, ne in fufpicionem ampullofi artifi£0Yf45 e A. pow
ccn cis cadat,& Sophiftz, quem depingit fuis coic ribus Hippocrates Jb. de
deceztzornatu, bis ver bis : Jem conventu faétosambitiosa queffuosa fna
profeffione decipientessia urbium circulis ver- fantur .- Quos ex vefhitu
(&* catevis ornamentas quis cognofceye poterit « Quin etiam, quà
[umptuofiusornari fuerit, eo majore odio ave r[andi, ab RSS o oc eisquieos
circum [pexerint, fusiendi. Ex u[n au- iu tem fuerit, contrarium in bis
fpettare ; quibus 102 zne[t exquifttus, neque curiofus ornatus» ui [eje c
cultus venuftate e frugalitate, non tam ad fuperflum curiofitatems quam ad
optimam ex fliimationem » prudentiam ; C animizaoderationem compavarunt . Càm
enimilli dodtrinà fibi au&torita- rem comparare nequeant, fplendore au
n,veftium cultu medico ; ac fervorum grege, eam A comparare ftudent ; quos
ridens Anftophanes p ram *- ip INebul. joco vocat cOpatyldoyv e pyo Xo TES. ar
adimi ' quód digitos ad ungues ufque annulis erpent. y? Odoratis utatur; cavcat
tamen, ne morbi r, o45,;7. inde concitentur : fepe enim mofchui, et fimi-
qualis. lia. redolentes, hyftc 'TIcas mulieres enecant . Sintigitur temperata
omnia . 9. Qualis effe debeat Medicus in omnibus y,,4;77; i ftans, non aliis
verbis, quim Hippocratis, o5 ibus defcribendus videtur, Jib. de deceztz orgatu
. ti pra]is reliquo vitz cultu muni mé fint diffluentes, auf quati ac fuperfiu1
; id eft . honefti in omnibus;f ftudentes, dicto, nec facto fuas actiones u]trà
quàm decet jactantes,; fed cum candore,veritate,& inteeri- tate, fepofità
omni fimulatione, finceré omnia reprefentantes; 1n hominum concurfibus oraves; ad
refp da dum, et docendum faciles,& appofiti ; ad altercantes graves, et pro
veritate conftantes ; in fimilium amicitiis con- trahendis s prof b 1C jentes ;
cum omnibus huma- n1, familiares, et affabiles ; in feditiofis contentionibus
taciturni, eofque audiant patientet, et us in refpondendo, fi effucere non
poffint, mode- A fti et quafi cogitabundi prudenter refpódeant; errores aliorum
ita corricant,ut non reprehen-- fionem, fed veritatem ob oculo sfib1 pra fixiff
e oftendant. In occafione prudenter capta indà, et coenofcendàoculati. In victu
fru cales, e paucis contenti; liberales fint, non fordidi ; aut petaces ..
Patientes fint in occafione exfpectan- dà, neque finantfe, aut deri,
aut.affiftentium precibus; aut importunis verbis vinci, ant'ad e entum ante tempt
Tene ores cibos ; vinümque concedendum .. Non à c / (4 m de À a fint i2 Qs fint
taciturni, neque loquaces ; f-d in eàzemo- derationem fervenr ;; promptitudinem
tamen; datà occafione, ad ratiocinandum oftendant ; | nihil fine demcnftratione
proferentes;non bàr- ^ baré,aut populariter?oquantur, fed cum affi- M
ftentibus; et zero eleganter; et pure, cum Me-- dicis Lariné . R ectefaaàt
perfüadere ; nam Pfa AA ve m9 Qo pde Legibus,vodr, ut primum doceat, et , Æ -
perfuadeat Medicus quid fitxgrofaciendum, | i 4cnon priüs imperer, ita
promptiüs parebit..i Quare dicebat Ariftoteles: Parebo lubens; fi vera58
bacsqua dacts « effe.demion[lraveris. Xlonores per. fe contemnant, ambitione
ca£entes ; fed ob vir- tutem cujus comeseft edoria ;. pro1pfo.etiam et vtabtm -
honore certenz, virtutem tamen certà ratione "Non :nani gloria n 77. fmi
amore gentetur . ftabilitam Hibenier admittant ;ine opinionis fuæ nimiim
ftudiofi videantur. Caveantmaximó, ne inani elorià, aut ni- mio fui amore
rententur 5 1llà enim ; quod ne- fciuntdifcere prz pudore renuunt;neinfcitiam
cum rübore-prodant per ;dium vero có pervce- niffe fe rerfuadent fibi, quó
perzendum erat. 10. 'Ne fe alicujusfectz, tamquam 1nanci MIT À ; "i E ^ pu
fi pium, addicant; necjurent inalicujus auctoris feta. fententiam, fed nudam
rnaim fectenrur wer p «i Suvalis £z &walis £n e» rreffibas. tatem,
ilíquefchi fübfcribant . 11. "Medicorum cóngszeffus, et confultatio- : nes
libenter admittant; iltud cbfervantes s ut in| jis fuperflua omnia devatent,
nibil ad pompam i| proponant:contradicendi ftudio non ducantuz; fed ciun f. ]um
fibi finem prafigant;ut mc rbumy £vin- f. evincant, ac priftinam reftituant
fanitatem. Congretfus hi, et plurium Medicorum confültationes feclufis arbitris
fiant, neque affi- nes, et dometfticradmittantur: liberis enim fic proferuntur
fentent&e, atq; facta à primo Medico » fi quando correcte ne indieent,
corriot liberé potfünt, fine rtot$ ienorantiz; qu v fi fir- mis rationibus
erunt firmata, facilc à Medico admittentur; quz fi palàm, et domefticis au-
dientibus proponantur ; ab eodem mordicus defendentur, etiam fi falfum
defendere fe cos gnoverit, ne fi mors fubfequatur,iMlTius caufa in eunr
referatur. Vnde perpetva diffidia inter Medicosoriuntur, quod antiqui Patres
noftri ir hac noftri urbe, et noftro €cleeio obfervans tes, lege caverunt, ne
confültationes medic pu ibIice haberentur ; unde etiam tanta conccr- diainter
Medicos magna Rujus urbis fempet perfeveravit, ut in£er tam mu[tos vix unum re«
perias, qui altum ad medicas conífültatiores. non admittat 13« SyInam
medicamentorum: praffantiffiTorum ad morborum eenus quodcumq; prom ptamad manus
habeant ; ne ina2rverte morbo; ac inducias non faciente, veluti in fàlo harere
videantur. 14. Vtfelectiora quedam, et experta, fi- piifque ex perientià
confirmata habere eos có« venit ; 1ta 1l[a in arcanis ita habere non decet, ut
etiama iliis communia ncn faciant. 1j.Sit re ; et opere Medicus, non famá, avt
A 3 noml- $ Confalta-o Loz 65 fang feciufis are bitris » Sy'uam mo
4.€^826€5nf10e rumed ma 2/M5 habeot Secrefa Tr dia noz ) b sbeat, fedi
CQÓaAunittf. Qu enis de et exciledus- nomine tantüm.; quod ut affequatur,his
omníbus przditum effeoportet;de quibus Hipp. /b. Y: de Lege. Nam excoli optime
debent hominum ingenia, fi ad perfectionem in hac. facultate ;ervenire debeant.
Qualis enim in terris nafceuum eft culturastalis euam Medicine cognitio. Indigemus igitur IVatura » Dotlrina s Moribus
genero[is, Loco ad di[cendum accommodata, In[ltutione Apuero, Induflria s et
Tempore. Natura no[ftva veluti ager efl doemata vero docentium veluti femina
funt . Infliturio à puero refpondet opportuno tempori » quo [emina terra
committi debent » Locus flIudiis aptus eft veluti ambiens æv, à quo €
terrana[centibus nutvimentum accedit . Induflvia, € flndium cultura e[t .
"Tempus tandem bac omma eonfirmat, ut perfecte nutriantur . Exercitationem
medicam fub docto ; et ds perito viro facere non dedignetur, neque erud ha d
befcat difficilia queque perfcrutari, atque de icd "^ obfcuris interrogare
: fic peraliquod temporis intervallum in magnis urbibus fefe exerceat ; exa
codea. non ftatim in vilibus oppidis, ftipendio conftiA iwel. Lf. tuto, quod
plerique faciunt ; ad medicinam fa- E T ciendam fefe accingat. Modeftià. quàdam
accinctus zerotan- pus ingre titm. domos ingrediatur; quilibet enim horà
distar. Virgines,
matronz, occurrunt, ut continentiam ómnibus in rebus et habere, et reprzíentare
teneatur. Cg gl. 18. Cumimpernts,& mulierculis de mor- culis, chi» bor:m
caufis, aut prefidiis adhibendis non2 agat; E xerceat fe / 253 Mod» Íe ao Avw,
GCL C [LE € Bat ; fed neceffaria folüm proponat : folent peritis de; énim
imperiti Medici, ut gratiam apud multos rebus. snee aucupentut ;, hoc medio
mulieres et imp 'Cr1tos feducere; quafi illas multi facientes, ut fi quan- do
morbis tententur ; eos ad curationem accer- fà nt. 19. Gratisaliquando medendum
tum pau- peribus, tum veris amicis;ne aut fordidi animi, aut minus grati notam
fübire coeantur . o. Neque tamen velim Medicos mercedem aut datam no recipere,
aut oblatam quafi aver- fari, aut exhibitam quafi cum rubore, aut velu- t
furtim excipere : fi enim prompté mercedem recipere viderit ; fibieger
perfuadebit, Medicüm illius curationem libenter fufcepturum., neque quippiam
eorum omiífurum, quz pro anitate introducendà fuerint peragenda. Mer- cede autem
non receptà,aut dubitabit, inre ani- mo curationem non füfcepiffe,aut certé
dignum illum eà non fe cognofcere ; unde contemptus ; et exiftimationis non
levis jdn ra. Sunt enim, qui hac raüone multorum curationes aucupen tur, quibus
cum cxpeélationi pramium ncn. oftmodüm correfpondeat aut moleftiam, et I f],,
onus illud fine fructu fuftinere coguntur ; aut muffitantes, et in angiportu
deinerati animi vitio conquerentes, quafi ridiculi, amiffis la- boribus, et
laborum pramiis, deferuntur, aut euam exploduntur, alis in illorum locum. poets
. Impium eft ; magno morbo urcente A ; de A nie ditis non [ferat » Gratis ali
quando Cii. rand 26 ^ Mercedem. Bromptée ac. CibiAo De mirede non pa- mercede
pacifci:ut enim in nobih hacarte feres eifcatur. per hocindignuin videtüt, ita
urgente tDorbos impium : occafio enim mederidi fepeavolat ; dumdemercede z$er
dehberat : hujus enim opportunitatis momenta redire nequeunt, et cà elapsà,
inclinatio fitad mortem, autad de terius . Atneetiam, fi quem ingratum futurum
Ingeetos 1 arbitretur;in periculis deferat; fatis enim fern- seceffitati- per
fait, ingratos etiam fututos humanitate.» us non de (crvare ; quàm inhumaniter
obingratitudinis ferat inetum deferere: et nielius multó eft; à morbo
evalefcentibus exptobrare, quàm calamitose affe&tos deferere . Hipp. zz
Praceptionbus. M Neimmoderaté, aut immodetfté nimià Non fit i4. cy, ya tantià
ninrim polliceatur : nimia enim ét bund'h. tc cnrationem
pollicitatio;exculationem poft e» nm! cutam requirit. : pollicitator. N A dis
idein z4. Nec rationein curandis morbis folüm; Docheina, sitatar; nec ufu, aut
nüdà experienuà : claudi- C "[4p9l- cat enim Medicus alterutro horum crure
defti- sini tutus, Ratioigitur ab experienuà incipiat ; et in eam etiam definat
: Experientia autem du- cem habeat rationem, et 1n eam dentque termi- hetur 5
utra enim per fe indigzens;altera alterius auxilio'ecet. 2$. Non inhumaná
feverirate ubíq; utatur s Nox fii fe. led fecundum conditionem hominum fe
guber- . veru; net; nonnumquam eratis curet, vel ob eratitu- dinis memoriam,
vel pre(entem exiftimatione, né avaridü » notam incurrat ; Quod fi occafig
exclexercende liberalitatis fefe obtulerit, vel pere- erino, vel eeeno omnino
füccurrat: Si enim ad- fuerit benignitas, aderitetiam artificio cóm pa- ratus
artiamor. Adeó ut quidam eeri, etiam fi fentiant morbum fuum calamitofum éffe,
ta- men propter Medici benignitatem, fibi perfua- deant, fe ad fanitatemredire
poffe. Hipp.sz Preceprtozibus . Prolaborantiumvariá naturá, et condi- tione, in
congrefTibus, et fermonibus conferen- disorationeminftituat ; et materiam fibi
deli- gat : alio enim modo cum viro philofopho eft differendum,&
aliocumaulico;diverfa eft ratio alloquendi puellam vireinem, et matro- nam
gravem : cum bibacealiquid de vino loquetur, de frieide, et limpidz aqua
deliciis cum abftemio ;. et fic in fineulis., In fermori bus varius pro agreráá
VATRCÍATE o PEDI b MEDIOLANENSIS, Animaduerfionum, et Cautionum Me- -. dicarum,
Continens eas, Quein vetlavitlus ratione » potiffggum. 1n acutis occurrunt.
Vstlus 1n acatis te- 20H55 CHI» c Vamvis acuta febre. laboranti- E busvictus
tenuis conveniat, pro Xarietgte acutiel immutandus, ; E] Gut materie
coricoquenda na- ; turamæis poffit vacare, atque morbo et fymptomatibus
conflictata, cibo etiam et craffiori, et plurioppreffa, non fuc- cumbat.
Virtute tamen debili per fe1pfam exi- ftente, et ncn vimorbi, aut forma vià üs
per unum graduri aut faltem quantitas erit augé- da.Si veró vi morbi debilis
reddatur, ut aliquo Vidus'vtr- ule o fe dei b; d^ 4i-- ge duse: foi Y723* ; ff
vt bow folà modo quantiras.augeri poteft; Itánumquai quátitate . forma viclás
crit immutanda. In virium imbecillitate, alia fit ratio vi1- éüsin qua
intitate, fi 1 per refolutionem fiat et alia.fi 1 per acefava tic nem : in
hacenr np árüm, et raró;inillà parüm,& fepé cibus offeredus eft. ji V ictüs
forma, et quantitas, licecab Hip- pocrate et Medicis prafcribatur definita; pro
conditione morbi mpg cautio tamen ma- xima adh iben da eft, pectu naturalis
tempe- ramenti, cüm alios « di inedi. im minüsidoneos M idea imus, alios
Jejunio ne tantillum quidem debilitart: : Quareaugendam 1n illis quantita- em
dicimus; quin et formzx eradumaliquando immu tandum, ut in calidis, et calidis
et ficcis obfervamus;, in quibus nifiid fiat, et acuüntur ce bres, adgratirti humores,
et exliau- untur fpiritus ; unde in animi deliquia,fynconi et maraífmum denique
terminantur cori. 4. Cautio etiam adhibenda eftin victu infii- ti iendo, qualis
fit corporis habitudo, an mollis, laxa;poris pervia; an folidior, torcfa;&
durior: - : I 'U:rYidufo YAYO » [4 per aggrauatie (EP; J/! be tal rcf p»? (0x e
p? TY HZ, C 45€ € 6 Z4 7713 Viéiusiun- JTHARAMS rattome 16é- peramone tora it i
E Vicdlus ime mutandus rattonc ba- in i]l|à enim quantitas erit cibiaugenda,
inhac £was co;- potius minu crida L poris. $. Habenda etiam maximé eft ratio
ventri- V/«s imculi : $1 enim veegetus fit calore, et multo fenfu
przditus;aliquanto plus HH: erit concedendum: fiad coctionem iners; et calore
deftitutus ; füb- uahendum de qi lantitate erit. 6. Viris, quàm mulieribus;iracundis,
et ro- buftis, quàm poni animi ho muncionibus;pl Us femper eft concedendum. 7.
In&tatbus ; ut pueris; et adolefcentibus plura mut TT Yattone diftofitionis
ventrictlt e PS do ( ;bi. quan IHto$ 2114 da vefteéin f Xs . M Ó / Puæris Co gm
tesa e RE :£z. adolefcensi plura funt concedenda,tum ob difflaüonem ni] gri
&us pluse - miam;Scob caloris robur, et ob teneram, mol-'1::: bicateden-
lémque fübffantiz compagem, tum quód per-.] i dum quà cnni quodamcorporis motu
agitati, facile ex-- eii fenibus-. hauriuntut:ita fenibus liberius etiam
jejunium) i52 poteft imperari. Cave tamer, ne inter fenes de- (ou: Decrepitis :
áo abs e pe" i Ai : parum, c. CEepltos collocaveris ; hrenim;cum virium
ime jr fp. becillitate tententur; ac fpirituum paucitate;utr| ui pauco: cibo
fünt reficiendi, ne paucus calor ài yiii multo füffocetur ; ita fepé cibandi,
ne coníu--| iii mantur.r. Z4pbor.14- griff ra. |. 9« Inquantitateveró,
qualitate; numero ex-4 oi tiopyo va- hibitiorum,ac forma victüs, et
confuüetudini 5 1 vietate con et regioni multum tribuendum cenfebat Dicta-4 (««
fuetudinis, tor nofter 1.4pbor. 17.quia quorum ventriculuss| cj €» regionis
(emel, aut bis humefcere intumefcere, et con-J c; eit mutan- coquere con(üevit,
fr defraudetur ; muratà con-4 ;j; di. füetudine,temperamentum;habitum;, et
actio-4 nem immutat . Et fi mufta et ingerere, et con-4 i. coquere folito aut
potionem fimplicem;aut for-4 ».; bitiunculam exhibeas, in marcorentcitó indu-4
Ces, ac vires vitales quàm primüm deftrues . 9. Cavendum etiam in quantitate cibr prz-4. fcribendà
in febribus, nefemper, et omnibus$),., gonceden-- » jade d n "T. Dun 4i;,
fed r4. ARI temporibus eandem definiamus,cum hye-4;. vius; 4ifta 86)& vere,
quód ventres tunc naturali calore. fe minus, làaximé abundent, vnica
exhibitione plus fii! ftd fapius . exhibend um :' hoc enim eff; quod docebatur
alli s. Hippocrate, 1. Zfphbor. 15. Æftateautem, S, autumno, cüm calor
langueat, minor quantita:4? fingulis vicibus erit concedenda ; fed fzepius
re«4? p Hyeme pi? TA Mur 3 petenda, ut calor, qui.diffolvitur, poffit inftau- rari :
quódnfinuavit 1. Z4phbor. 18. IO. Cautio tamenfit, ut zftate, fi partitas
"A cfilate exhibitiones, et quantitatem totam, autnius 44modo dici ;aut
integri quatridui metirus eris major PI eonce- fit quantitas, minar atizem
hyeme: nam hyeme 4*24»m i» minor adeftneceffitas quód tunc minüs refo]-
partitis vicibus conceffo,& imbecillirati caloris fatisfaciemus, minus
fineulà vice exhibentes ; et miim refotutioni, fzepiirs Gibiuexhibentes: quod
Galenus infinuavit 1.4e rat. wit az acut. 44. ubrenumerans, quzad:cibi in zeris
fiibera- €tonem faciunt,unumid.effe inter aliascribit, quód hycme quis
laboret;minus.enim tunccibi erit offerendum : recenfens autem quz ad cibi
adjectionem faciunt, unum effe dixit, fi atate laboret, quod Avic. 1.4.7 a£.
2.cap.8. de ciba- tione febricitantium in generali æens confir- mavit. 11.
Obfervandum autem, predicta non per- petuam habereveritatem, neque ratione cor-
porum, neque ratione temporum anni : vatur corpus; etate autem coplofiori cibo,
fed men "M^ * V7T^ ^V dt $ d o Hyeme uandomi aliqua. 54; puryig enim
dantur corpora, quorum natuiraliscalor dug. adeo eft imbecillis;ut à
frieiditate hyemis faci- lé cvincatur, calore veró zftatis quafi fcveatur: alia
etiam, five occultà quàdam, et nobis inco- gnità proprietate, in aliquibus
dictorum tem- porum annt; in robcre virium, aut imbecillita- te; proportione
non refpondent difpofitionibus £X ann] temporibus profluentibus; aliquos enim í
rci n Victus: for- a 12 4€H is variarda pro vavietate véeft, nc tinuà.; vftate
robuftiores reddi » quàm Ca lioe fortlotes autumno, quàm vere. In his is
ratione victüs inftituendà refpectu quantitatis, 1d; quod proximé dictum n erit
fervan düm; tum in quantitate con- tà. Echyeme pauciora, fed fiepiüs ;eftate
plura;fed rariàs erunt conceden- «la ; et anni tempora, fi fi naturalem non
fervave- rint naturam, victum inftituendum oftendent cujus naturam induerüt.
enim Récid hvet Inc pro ratione tem poris; tum in difcre potiffimu m 12. Forma
etiam vids pro-regionum va rietate, et locorum confuetu dine; aliquo modo
eftimmutanda, et quidem càdem ferv atà propor done per oradus rati inetempol 1
le laud andi IS. ÁÀ ver. 7 s,utip quantitate variandà um obfervan dum dixin «
Colieét.cap. 10. cim .Vnin fuà.regiope. ;nemp ein Hifpaniz parte cali- dior, |,
tenuilmam ditam effe aut cremoremip hord a€1 l« s àl aut: dux mmum melice 3 X
és fórma folà im] it angu autincifu m; aut friatum ex: ; cüniantiquis, et
Galeno potiffi- omnimoda quatriduana ine dia ; fictamen, ut vi--Jiz : eradum unum
i1mmute--Jffi rautem ied fiat non à eradu ad era 1 dum, fed à.tenüi ad medium;
&.aliavando eti ip» ut pid aim n pof 280.48 ad E lenuü In, Qua fi Pea
cpLEIdJJMDUS Dac VICI jo^te Péceaph,quod in mu duis I Hp Hi " * Y e k
AJpTpX CI ILE R4 iliz nobilif-, et Gallos eEa dà veró s ium; etiam legendus eft
pul]-J Ccher x ha eatur ratio, WEINE Copfi chetrimusejus liber-De zere.. aquis,
G' locis, qui luftratus. 13. Ex vite inflituto, ex arte etiam, quam. exercent,
defumenda erit à Medic et formas quandoque victüs; et quantitas,càque utraque
mutanda, prout magis, minüfve et laborib folidiores partes colliquantur, et
huimcres, fj finifve exhauriuntur. r4« In quantitate ettam fu [us benda À ante-
actz vitz rationem habere ;nonTj 'arvi Y0noJr.enpt ti eft : fi enim laute altus
fit, fi plura ingeffefit) anres :: btrahenda erit quantitas : fi veró
jejenaverit, et pauca,c: aquec nCO ctu facillima afivimg pfit pr aliquod
temporis intervallum quantitas érit augenda, aut forma erad us. 1 $. Cuin à
morbi lc ineitudipe, aut brevitate diftantiaque flatus nx rb limaxime ác IDattr
a EN rma victis, et alic uie parte qu ántitas,tüt miris 1 d quam cinis victus
rátio ; CUN TRC fultum Medias, et Paris cenfemus, quod àb Avac. conftitutum
eft: Cum jenoras egritudm di » fubtilia recen. id enim in morbisà materi
pendcnüibus cmnino intelligendum eft: Bie eniti) lo tempcris in- tervallo
materia ncn auccturinec virtus-diflra- hiturà proprio furgendo murere agendi
in. materiam: interim enim fuis fc fio eple miciBus, et materia faciens morbum.
facilét ficnect. 16. Vtveriffimum eft Medicórüillvd pra- Céptum ; et commune
tani ditturpis mcrbis . Bo95d- |! eiiam luculentis Comm entariJs à nobis eft
il- dab. vs y 9, €L ; is,9ui $e ali-, utm banda e $ p Aser - EX! SÉ, ! e ien
Acuttstn fóribus te nutus ciba dum quá 1 elus acutis Tenutfs. vi dla medz sn
flatu se frg. Abb. 8S. veriffi-- 9 de ffa1u benes f»mptoma- ?4. quàm acutis ;
JI flatuytenuiori vicluutendum e[- .| v. e, quam in principio; quoniam tamen fx
penume- ro evenit;ob ingluviem in aliquibus civitatibus; ventriculos primis
ftatim diebus, qui principio || debétur, crudis humoribus effe refertos,in
lifde: etiam tenuiori victu, quàm per principium li--| ;... ceret, uti, et
aliquando etiàm tenuiori, quàm ini| ftatu, cüm et inedia aliquando omnimoda con--|
veniat, oportere cenfendum eft. Celfus /rb. 2..| cap. 16.dicebat: Jzgiria
morborum primum [amem.»,| fitimque de[iderant . 17. Laudanda illorum eft.
diftinctio, inte-1 : nui,aut craffo victu inftituédo 1n acutis, et d1u-! turnis
morbis ; quód in febribus acutis tenuior) efTc debet, datà càdem brevitate,
quàm in aliiss] acutis morbis ; quodin illis magis coctioni 1a-4 cumbendum fit;
quàm virtuti;ac majora fubfinttj fymptomata : in diuturnis autem. febribus mi-j
fius tenuiter alenduni eft ; quàm in aliis diutur--j nis morbis, quodin
illismajor;quàm in his fiatt virium exfolutio, et proptereà etiam magis im
febribus virtuti eft profpjciendum.. m 13. Cüm Hippocraus aphoriftice
fententia]? quàm máximé univerfales etfe foleant; ea itidé;J que lib.r.
propofita eft numero 8. quà afferitur:j Cum morbus in [uo vicore con[Iteyit.,
teutlfimon ^ vitlu utendum e[l. ut univerfalis fityomnibüfqued, morbis
conveniat;de ftatu intelligenda erit,quiil| " ex magnitudine fvmpromatü
fumitur : fic enim) tam vera erit.1n morbis non fervantibus mate--«! riamad
unam criucam expulfionem, quàm in, ícr- L4 fervantibus, fecüs quàm communiter
Medici crediderint ; qui Aphorifmum illum folüm ve- tum effe ce .nfüer int in
morbis fervantibus ma- teriamad unam criticam expulfionem, de ftatu. ^ arbitrantes
Hippocratem loqui, quià coctione céisndnit P fu mitur : in quc D bfervàrunt,
Hippocratem Et. de vitiu acuit. 22. 1n morbo non fervante mate- riam ad unam
criticam expulfi ionem,ut in plev- ride, 1n ftatu sn ies coctionem plenius nu-
ciendum ftatuiffe. Quod fi ftatum penes ma- anitudinem fymp tomatum eti umin
iis morbis fumamus, utin plevritide, etiam tenuiffimo v1 tu utitur eogezs
lib.tex.a21. Cümos amarefcit, et ficcus morbus eft, tenuius ericalendum; tunc
enim,.etiamfi fit principium, aut augmentum. penes coctionem,in flatu tamen
penes fympto- mata confütutus efti morbus. Quamvis veriffima Hippocra tis
fenten- A bu "x Tenuisi- tia I. Zfp5or. 7. tenuiffimá. dira. utendum effe,
1530 "viélta ]t ubi morbus per purse cít,ó TU EE soul bores; cxim end
tamen ab his omnino erunt donsdas 458 fcbres peftilentes, in qi ET quamvis
fummo raris, pe- fint fymptomata, et ciaflime ad ftatum perve- gilestes ta
niatur, quód vires in cis flatim quafi collaba- se» feres Ícunt, lautiüs et
uberiüs eft nutriendum, ipfo fut excie- etiam v190ris tempore ; ut abundé
demon(ftra- 2:c74«. vimus in noftro] ibro 4e Peffe. t4 20. Ad formam
victüsinfüituendam, puta, "(257 an Ver coena tenul,anmediocri,anomni-
"^ 'TST da li nedi ?1 ;al (o k )po yu all fo rbition! bi IS,an c 64 £ercu
lis, pU La ; UC Xtà pt lan à, pane coricifo, aut LA COR - Ü * den ^. 4634€44,
C" po 4 770A" contritoex jure;quamvis virtus primum locum fibi
vendicet; Galeno refte, 9. AMeth.smed.cap.11« (P 13. 1. de.vat. vitl. 1n cut.
44. quod cüm. morbus fui ablationem folum indicet,virtus verofui cuftodiam ;
hac potiífimüm victüs formam oftendet, morbi ramen difpofitio etiam ad hoc
concurrit: nam ZApbor.7.dicebat,//b: smorbus peracutus eft, C fLatim extremos
habet labores,extreme tem[[imo vitlu utendum e|! . pex labores, acceffiones ;
et fymptomata intelligens, que morbi difpofitionem conftituunt, ut et colligi
poteft ex 24phor. feq. C" 1. acut. 42. 43« 44- (2. esic- dut, 36. ubi ad
formam victüsinveftigandam.», bud qu^ xewndicit neceffariam effe cognitionem et
roboris E virium,& difpofitionis morbi; et 3. acut. 61. Et jure quidem
merito: quis enimncefciat, ex lon- cis, gravibüfque acceffionibus, gra ibüfque
íymptomatis formam victüs tenuiorem indica- ti, nenatura tuncin refiftendo
caufz morbificze, et (ymptomatibus detenta, ad concoquendum cibum diftrahatur ?
Verüm nec virtus fola fufti- cit, neque illi conjuncta morbi difpofitio, nifi
iis diftantie ftatüs pracognidonem adjunga- mus; nam,etfi ex conftitutione
morbi, et viadü robore folam potionem in prfenti convenien- tem effe
cognoverimus;perfedlé ramen hocífci- renon licebit, citra ftatüs
przecognitionem, an ciboillo in pofterum fufficere valeat ; Citra vir-
rutisincommodum .: Obid Hippocrates, poft- quàm morborum difpofitionem
recenfuiffet,. fi fubintnlit : Coz];cere atttem oportet » &gvotamtem, fi
feficiet, ANIM A4DFERS. LIB. II.
i9 fi [fficiat, cum vitlu perdurare, doge snorbus con- f ftat . Fi tcb 1d.
Hippocrates in cc onfidcratione virtutis, ftotüsn.eminit. A morbi igitur difpO«
sev» "Ad fincne victüs fcrmam ei iemus ; deindea Oro- ew. tantis virtutem
infpiciemus ; deinde ftatüs di» antiam conjlciemus ; demümzaftimabimus; an eo
victu, qvem mcrbi conftitutio indicat; virtus zgrctantis ad ftatum, citramagnum
vi rium incommodt :, durare queat; in quá fen- rentiam veniffc G: ehum videmus
r. "hor. 12. 21. Cümin vi& üsinflitutioneillud maximé fita pud et
antique esp atrcs noftros, et recentio- tes contr: verfum, cum d ces admodum
ne- presaléte S ectio et fermo vic iis ; et qvantitas determina- dicatióne ta
prafcribi r« f: t; ad quam partem przftet de- 555, Errores 45 tenunatiu,
clinare, vt minüs Izxdamus, an ad: iumpliorem, fas. ders. in ad tenuicrem ; cb
locos Hippocratis co ntfO- riores, f im Verícs, 1. 7 por. C07 2.derar.vict4z
acut. acfecia. al:0s .1n €à cif cultate has adhibeat cau e nes Medicvs, Cümà
virtute primó illa dicatur infütvi, et per fe, ; peradjectionem ; fecunda fio,
! peraccidens à morbo, per fü btrad 1onem., fi Medico 1n victüs ratione
inftituendà, tum i fcrmá,tum in quantitate, viribus non ma validis, nec morbo
multin n co intrà Indicante, contineataliqvantifpera recta victüsratione»
defiectere Paucis Ito eft, pauló pleni r vt) victu, et ad latus ( ut ajunt)
plenioris accedete, quàm ad t:nvicrem, prevalente indicaticne s virtitis . quàm
rc A lav ctiam exemp lo cc nfir- iEaVIt Gal.1.4cnt.a2 .Quc madmodum écontfà,
Preoalegte Bv a consoc LED. SEPT.4ALII M EDIOL. anorbe funt contraindicatione
morbi fübtrahendi przva- deteriores lente, et viribus validis, ceteris enam
morbum fei exctffd- adjuvantibus, preftabitomnino ad tenuioremi deflectere,
acfi quando errando à recto illotra- mire recedat, minüs peccabit, fiad latus
tenuio risaccedet; fic enim ratio dictat, prevalente;có quód fübtrahendum effe
indicat;morbo, quod ibidem Galenus affirmavit. Ires ino 22. Obfervandumautem fi
pat fit indicatio forma vi-- à virtute, « contraindicatioà morbo, in victüs
dius pari i- formà inftituendà equale omnino effe pecca1 5c 545a gutant, qua
fortiora [untynocerent s qua debiltora, prode[Jent.facilis [ant ves erat :
Multum emm de fecuro detrahere oportebat, ut ad d ebiliffimum de- duceretur .
INunc autem uon minus delutum, nec oninus ladit hominem; ft pauciora,
defectuaftora, euàm [atis eft, affumantur : fames emm magnam potentiam in
naturam bhomims babet Ci famandisce dlbilitaudi, € occidendi : multaautema
etiam alia wala diver[aquimedlen ab ii:,qua ox veplettone fanty "mom quit
: $; quidem igitur [inapliciter, velut. aliqui ANIM.ADVERS. LIB. II. 2n gan
minus autem gravia, inanirionis [unt 5 quamee obremmulto variegatior eff, et
majorem diligen- tiam requirit s oportet enipa modum aliquem cone qePlare .
Modum autem, neque pondus, ueque ne Ier aliquem; ad quem referas,cogno[ces ;
Cer- titudinem enim exattam non veperies aliam, quati corporis fe fenfim...
Quayropter valde operofum eff, za exatte condi[cer e, ut parum 1n alterutram
pay- tem del ling "AS $ quamquam ego eam eum AM edi- cum vehementer
laudarem, qui parum delinquat ; Certitudinem enim exatiam varo viderc
contineit. Mox comparat malos Medicos malis na- ARA vium eubernatoribus ; qui
dum tranquillum. Je na mare, etiam fi aberrent;ncn fiunt mani» 7^9 . eft eorum
errores : atv bi tc mp inoru erit; »iHa eorum det tceit vriencrantia : Ita et
Me- dicorum errcres, dum falvbres my db OS CUFahts etiam 1fi n hirixime
celinavant, ncn fiunt manifefti :atubio raves m« rbifefei1llis cfferunt curan-
di,tunc manifefte d leprel enduntvr. Moxexem- plo (Litieiim docet, non mincra
1nccmmoda,s provenireà repletione, quàmab inanitione ; et loquitur non de
quantitate, - de formà vie étüs, ut patet ex pr imis, cum dk 151 que fortto- ya
[unt, "0cezt . quod ad fü nct ciborum pertinere conftat. 23. At veró
paribus, et ex virtute. et ex mor- bo vigentibusindica tionibus, fi quisin
metlen- ^ "m $ Z Krrores i5 JENNSMAM e dà quantitate à rectà ratione
recefferit, 1ita ut fip les plusin quantitate, quàm o pot teát, exhibest,
4445" quá aut et *a debità meníurza à aliquid ca letraha p^ P uta, (1 e
foy? P3 fex PT) LVD. SEPT ALII MEDIOL. fex uncias fucci ptiffanz exhibere
debeat, et aue . octo,aut quatucr prebeat,maj us commtttet er- ratum, fi octo
concedat, quàm fi quatuor folas propinet: hoc enim eft;quod Hipp.zex. 57 lb.
2.4CHf. docebat: adjecticni autem cibcrü multó minüs attendendum. Et rationem
reddit,jnam quod plus eft;noxas affert inemendabil 65; quod veró minus, facilé
emendatur, nempe fi virtus labafcere videatur, cibi exiguum poffum: is mi-
niftrare; verüm fi in ventré cibus fit abforptus ; quod füperfluit ; fialiàs,
multó magis in acutis morbis, tollere eft difficile. Vbi et Hip pecra- tis, et Galeni
verba non de formà victüs, "s d de quantitate effe, manifeftum eft. M [cüm
veró id refert, quot niam viciüs f rme«&eradu, et fpecie diverfz
funt;cognofcique,& e iei, difcer- nique Medico, in Hippocraus, et Galeni
ope- ribus excrcitato poteri ^ SIQve in ea errores committantt: ir, neceffe
eft, freciem mutare» ; sícque mæ2na erit muta ee etiamfi per upum folum eradu
m,aut fpeciem tranfieris,ut à meli- crato ad inediam,vel fic um pütfanz ; unde
et parerrorcommittitur. Átin quantitate;cum» eonjecturà folà uti poffimus, an
macis, an mi- nus fit exhibendum, non eft rar ra tio; ; quia ; fil tantam
quantitatem exhibe eris primá cibatio- lt « nc, ut commode conficere poffit;
nullo morbi autin veh emen tià, aut In acceffionibus facto:| augmento,& eam
quantitatem facile ferat, Vi- dcatürq; majorem etizm quantitatem citra in-
commodum ferre poffe ; quia inde conjicis, te: minus, quàm oportet, exbibuiffe,
in fequena oblatione parüm adjicies, ita ; quod minus eft, facilé emendatur ;
quód fi plus exhiberemus ; quàm zerotantis natura ferre poffet, noxasma
emendare ita facile non effet : Nam hunc erro- rem hec fequuntur
incommoda,gravitas hypo- chondriorum, frequentia anhelitus, febriles in-
cenfiones, fitis, capitis dolores, et hujufmodi, quz omnia difficile tolli
poffunt; nam repletio- nem hanc dedi camento o tollere non 1 licet, eum. nem.
In formà veró fecüs ied; nam fi à debiri forma,vel fup rà, vel 1nfrà ctiam, per
unum eræ dum tantum deflexeris, egrum præcipitem. æes in mortem, ut longa
oratione docuerunt Wppdersteo! et Galenus 1. ACHT. 30.40. (P 44 Co" 2.
ACHf. 19. e ?* 49. Locus veró ^ "Apbor. $. qui » determinationi € directo
adverfari videtur, ull odi reptienat ; neque enim loquitur de tenulori
victu,quàm par fit, fed de erroribus,& Izefronibus 1n tenui victis ratione
evenientibus, dicens, efle majores læfiones, quz accidunt ex rroribus in tenui
victu accidétib js, quàm qua 5 x erroribus commiffisin pauló pleniori. Vel m
dici poteft, inillo $. Aphorifmoloqui de totà victis rationis formà in toto
morbo, quse multó periculofior eft, quia errores commifli maois lædüt:at
2.4€41.237.loquitur de unicá;aut alterà cibi exhibitione in quatitate, quz fi
plus fuerit quàm oportet, plüs lzdit,quàm fi minus. D 4 24.4 Ne LVD. SEPT ALII
AfEDIOL. Giuspem 24: Ne quis errorem cenfeat,fi Medicus ali- lb deterier quando
ex pluribus cibis non malis, minus bo- sod) f44- num feligat, et per totum
morbi decurfüum ino vtor conce fam ducat, fi multó magis palato zorotanus v iia
e arrideat five ex confüetu linefiveexnaturàpes |! Fielligédi - culiari, fiveex
appetitu in morbo : Docebat 2d enim Hippocratés id omnino preftandum 2.
"Apbor.58. Sed diligenter attendat,ne luxu, et intemperantià ægri in
Crrores ducantur, quod [itu paffim ab adulantibus Medicis fieri video ; qui ut
principum virorum cule tamquam manci- pia inferviant, abutentes utiliffimà
Hippocra- tis fententil;aut zgrotantes pracipites agunt in mortém,
intemperantiz, et dominandi cujuídabo prorogato libidinis poenas dantes ; aut
mor arumenas fuas omnino 1mplentes ; cüm fciants Hippocratem dixiffe non
abfoluté, fed pauló deteriorem prxftantiori, modo fuavior fit; effe
preferendum. ibit 25. Gratificandum preterea quandoq; cgris ibis grati docebat
Hipp.6. Epid. fett. 4-tex.S. At id aliquid ! amplius eft, unam enim, aut
alteram cibatione:j 24 cdit &gris ce dis Had Col eo eri contra. ÉCLpYCIC 1n
quà deje&toappetitu aut V1 morbt » reglas. aut longitudine ; aut
utobfequentem magis 3 reliquis habeamus; aliquid concedendutrb s4t jj; quod
extra limites inftituti victüs etiam fit po-4 i; (itum, modó modicum fit :
interim plura pol- liceantur, ut importunitatem cohibeant. Adoersstj». 26.
Aliquando tamen eó ufque dejecta eftin omaino vi- €grisappetentia,ut cibi eenus
omne refugiant: Ái aliquan. ac averfentur; quin etiam,ratione fuadete» cun v1m
e Vini fibi ipfis inferant cibos affumentes ; ftaum illos evomunt, et tunc
Medicus deterrima que- que concedere femel aut iterum debet, ut vires
cuftodiat, ne in certiffimam mortem cadant : fepé enim evenit;ut ex malo illo
cibo affum pto expetito natura inftauretur,& morbus omnino quafi
conclamatus fuperetur. 27. Caveantin averíantibus cibum, neali- menta
przparentur ipfis przfentibus ; aut enum major ex diuturnà vifione fübfequetur
verfio ; autreculàaliquà minüs illis arridente vis à, in» majorem cadent
abominationem .,8. Cüm Hipp.t.-dphor. 16. tebricigngum victum omnem puer n effe
d debere fcribat cave, ne cerfeas de humido folüm p iotentik ie qui ; quamvis
enim et illud requiratur, humi- dum tamen actu,five liquidum;effe debere ma-
nifeíté intellisit:nam alibi,ut 1.7e D£etz,cibum humidum effe debere, id eft,
potentià imbecil- lum;fits expertem, coctu facilem, et liquidum omnino
teftatur, qualem ibi ptiffanam confti- tuit: humidumveró potentia etiam
liquidum cí(e debere, docet et Cornel. C ii 5. 3. CAp.6. CU EI etiam rei ratione
m re ddit Gal. Jib. de gpr. Seta ad T brafib. 4.càm ait: Quoniam qua conco-
quuntur » effumduntur, ideo C mox diftvibu untur, 49 &grotantes nonvuulto
labore in cibis cor ncanes d /$ indieent. Et ab his praceptum ua[citur, Iquidos
ci- bos omnes f'ebrici qon comvezire . Quod con- firmavit t. acut. 38.69 1. 4d
Glauc. cap.13.de UHTA febr. cont. fine euctie ; ubi cibos omnes fe^ bri. * a)
do etia pep fima conte denda. Cibos 4- vexfant tss ne cibos praparare videant «
Vasiius Le tmidas fe- bricitantie bus ofai- àus Cconvute£e nit acínu e£ "T
2115 talis bricitantium debere effe liquidos teftatür;quiz humida actu, et
facilis in chyli formam redu- cuntur, et ceteris paribus, facilius multó con-
coquuntur : cüm enim ex febrecalor naturalis imbecillior reddatur, ea erunt
exhibenda; que facile conficiuntur. V iderint ieitur, quàm bene victum in
febricitantibus inftituant, qui Pe- P2 AÀ tronam imitantes folidiora concedunt,
et non us folum clixatas carnes exhibent, fed affatas etiá, Y in quibus vix
humiditas in potentiá reperitur. Sed de hoc pofteà. ANS 29. Vtveriffimum eft,
in acceffionibus, id ? agi "s eft, principio, au gmento, et ftatu,
abfünendü d», d de, declinatnionémque in continuis, et potius quando cj
1ntervallum in incermittentibus commodum banda, tempus effe nutriendi, ut
colliei poteft ex 1. A phor.t1. C? za fige 1. de ratione vill. in acut. ita.
declinante febre acutà, fi viresurgeant;forma., aliquo modo erit mutanda, ut fi
ptiffana hor- deacea fit forma, in fine ftatüs, aut inchoante.;
dechnatione;primó potionem dabimus;ut cre- morem hordei, vel
jufculumrefrigerans, vel füllatum carnium cum aliquá aquá refrige- rante, mox
interpofitis tribus, aut quatuor ho- ris, cibum jam inftitutum concedemus, ut
in- nuit Hipp. 1.acur. zz fige. jo30. In Synochis veró, quz uniformes fint, In
$550- . Camdémque à principio morbi ad finem nfaue AS 242,- fetvant formam,
unicàqu e acceílione perficiun 72 cibsg--. tUt ; quandonam fit eger cibadus,
docuit-Gal. dam . Yr. eth. fed. cap. j.nempe quando xger faciJiüstolerare morbum
videtvr, et quando;dum fanitate frueretvr, cibum fimere confueverat: fiigitur
et facilior tolerantia cum folità horà ccincidat, hac erit eligenda : fin
minüs;femper pravalebit facilis tolerantia, quz fi immanife- fta modó fuerit, à
folà confuetudine tunc tem- pus nutriendi erit defumendum. 31. Quod fi
contingar, in intermittentibus om intervallum nullum effe, et declinante» jorbo
novam exfpectari acceffionem, ita üt tantum temporis à fine ftatüsad novam
inva- fionem non intercedat, u t cibus ingeftus coqui poffit, puta ; (p: LC Jp
trim horaru m tantüm» ia ut ne R^ m fit aut 1n fum mmo v19o renu- E, vel
fequenti accefficnioccurrere cibo in- co&o, et repleto ventricrlo, quod
fzpé in pra- xicxercend àoccurrit, quid in eo ca Mh £a |Cjen- dumerit? Anne fatius erit vieenteacceffione - cibv m pro
pin: I6, 2n potius viecreevitato, fa- tius erit ; Cibo in ventriculo exiftente,
febri oc- currere ? Con mp hiter ?b cmnibrs refponde- trr, deterius effe mu Itó
In principio cibum. exhibere, quàm in ftatu; quód nocumenta, principi! cim
aliis temporibus ccemmunican- tur, ncn fc: artem nocumenta ftatüás. Verümmvltó
fecüs Gal. 11. A erb. sued. ult. rem banc M eerivir ; ubi, cafu p ropofit
eodem, confide- randum effeid docet, o uo d mæis ureet,quod- que ma g1s noCituI
'um judicaverimus, fuoien- dum : dox cétque, eííe ccnfideranda locumaffe- (tum;
affectionem, princi pli et ftatüs naturam, tum Cibare bre f2af12 fine ffa1?, qu
prote tnos ffonem ; c» ouando. (4 / ul "424 h^. ya. tum et morem morbi .
Locus quidem, et affe- éctio;ut fi ventriculus, vel hepar afficeretur in-
flammatione, fi pauló ante acceffionem cibare- mus,omnino effet perniciofüm :
hepate enim affe &o alvi dejectiones unà cum acceffionibus folentinvadere :
ore autem ventriculi vexatos fyncopes fuperveniunt. Vbi veró abeft in-
flammatio, et vires debiles fuerint; ftatu om- nino evitato, propius principio
cibum iie cx pedit, potillimüm fi mos mor bi; princi pii et ftatüs mori
refpondeat ; hic veró confideratur in vigore, et principio, fiannotaverimus im.
fümmo vigore, an citramagnitudinem febr T. caloris ficeus t. [fu dens, an citra
[qualorem nurenss Priorem namque h bumetlante vitlumade- facere quamprimum
oportet : In [ecundo.dum plu- vinum calovis remittat » e. vfpettare . In
principio vero acce [ponis morem &[imabis, at corporis ex- trema
perfrigeret, magna [anguimis revocatto- zen ad interiora corporis faciat, an
omutimo corpus zn premat : quippe [ecuedum bocscen faciles man- fietumve
contesanes y 1m priore diflinguas oportet. Nam [i ab[que vi[ceris pblegmone,
aut [uccorum. vedundantia, motus ad interiora tin acce[[iontbus pollet» zibil
offendes paulo ante cibans ; fin vel phleemone, vel redundantia [ubfit, cavenda
eff ante acce[Jfwnem cibatio, ceu vesss AXIE nóxia . Cüm tamen multó major fit
quantitas morbo- rum,& habitudinum corporis quæ expofcüt, ut potius in fine
ftatíis nutriamus, quàm prope principium nov acceflionis, mæis laudarem, Cal ||
eam propofiuonem medicam, quà aflereretur; urgente hac neceffhitate, praftare e
1n fine ftatüs nutrire, quàm etiam per duas horas ante prin- cipium, quód major
quantitas febrium fit ex genere iride ex obítructione ob abun- ;] dantiam
crafíorum humoru m, et ex interni, vel externa phleeg: mone; in quibus, Galeno
tc- I fte, prai (tat in fi ine fta tüs nutrire, quam p roximc :| ante principium.
EL . Commendandus tamen aliquando cibus X 1n 1 principlo, et inauemento, et
ftatu, et Booxined ante principium, ubi habitus COrpo- iisaridusadmodum, à tque
fc qual lens fuerit; et 9 in febre admodum ardente ; biliofo humore, rante,
atque ad ventriculi os trans- lit inedia, vigilias |i d^ qp ] ee o6. di 4 M -
(* ] "m, c ws bu et .. ininoadecratasltrititia, c folliatudo, auibus et
exiiccatuim elit pius nilniO, c excaicractutin p - Tp ^ 4^7 Ox "£X Ld
"E" "e -. COI1 pus » ir ILICQtiC CODn9 C111 a3cr« y s EX HII
jdaaces A et 1 ME e£ a. dai 141 N t^ i E qu E o inunmores: proquarebpence inte
iii£g ence Mii Àet aus cit. L3a1C€hlis noitcti,I x. IM eti :2CG. eC |» 1»211í0«
ve dob: e N- í f. inqgi 1lDuUus caàlibDiis pI. (tabit a nt ein: y: 'nei L : a d
"111 ! j &in l DEYi IC11 LG ASM-Æ Lu an |t Lt Verum cum hoc rarius
contingat, in caf pi /" ! » f1,, Z " Xf». (17 ^ 44A Bm 1 $7175 *4 13^
47 p 1 *Yy Poe polito, ub1 à itatu à DI1nci Ji nOV. invalid nlsS nuum temporis
Jntercedit, ut comqiTnock CIDLi n i1w vis 1illiitlooe«.iLA&LALCICCIC 3 Ai!
liüs effe n n atüsnuütrlre, quàm pr ;Galen./z Com. multó plura referant
incommo- da, fi quis in principio cibum offerat ; quàm fi in ftatu. Et hoc eft,
quod innuit 1. Zdphbor. 11. cüm dicit,» acceffiomibus ab[Hinere oportetd eft;
et ptoxime ante, X inchoante invafione . Mugmotà 33. Quoniamautemaut
incomplicatione» acc ejfinis duarum febrium, aut in unà ediamyin qvàtem- minus
in- pora adeo extenduntur, ut anteqv àm fup erve- commod? Sat declinatio, nova
acceffio fuperveniat, sic- ibat que neque intervallum, neque declinatio repe-
quá flatus: v rariin quibus cibum offerre ex ratione pc ffi- mus,1n ambiguo
Medicorum animus hzret ; r* quandonam cibum offerre expediat. Auemen- ti tempus
prusotes et minores fecum invehe- re lzfiones cenferem ; quód nec ea immineant
damna, quz fequi docvit Gal. € 11. AMetb. 1.acut.penult. CÓ" 4.atnt. 39.
neque eó ufque ca- lor, et fymptcmata pervenerint ad fummum, utin vieore. Non
negandum, noxas etiam ex oblato ciboin augmento non parvas excitari 5 atindicatione
à virtute ur2ente,ccm modo teni pore. morbi importunitate füblatà, illud elit
cendum cenfemus, quod mincra fecum inves- prium hiti incommoda . Plorg tres D
um CR acuoatione 34. Cav eant,ne rempus trium horarum cen--|ii eant fufficere à
cibi oblatione ad novam inva-4ii: ad acc:fio fionem, quod pleriqve cenfrerunt,
Galeni au-Juj nem » 20 faf cord durer. 8. AMe: b. 4. lH bi: d f(Terit/fatis
effe, fiia. fities horas aqu inoctiales, quatuorve, inter] balneum,
acceffionffque tempus interpc »natntzj ibalneo enim cibum exhibere folebant ;
cümm alioqui Gal. 11. 2etb.1 s. docuerit; maxime in omni febre coctioni
1ncumbendum efle : quia fi adveniente acceffione, cibu s in eric ) non fit
confectus, ex retractione caloris ad in- terna febris omnino butsiiesü,;
pefimma illas fvmptomata producentur, de quibus Hipp.& Gal.4.4cut.59. Et
Avic. 1. 4. T racf.2. cap. 6. 1tà in febribus cibandum praci pit, ut vacuo ven-
triculo occurrant : hzc veró concociio ne in fanisq juidem trium horarum fpatio
confici po teft, cumin xeris natura ex morbo d« cbilis red- dita feeniter
coctioni vacet. S1 igitur fuerit " forbitio, ut ptiflana, aut contrltus
pan ida tus ex jure,aut idem concifus,aut hujus 5qi isi WT i ., ; 211-3 4 1^
VEN NS I quinque;iox,al tetiam feptem ati onc eden- A [| daxíunt, plus minus,
prorcbcre ventriculi,«& :] A 22-594 I " - p! «conditione Tebris int
num [1$ pecccantlsS . fantiCcriun, aut niicuium aiteératum, tres aGul1 ! EB É
im MN 3 dem hor xquinoctiales fufncient; de qva re "4Q "EM locu us
eit 45» €ID.4. GC XCCCOCCO €nif1n 1 L| raaicum apiiioquitur,non dCIcIDIUCRhC,
aut ferculo, quz non exhibuifle ccpttat cb angu ftiam temporis ad fequentem
acccftionem;füb- dit enim : $7 vero ctrca ve[peram, aut duabus bo- yis cttius
acceffto iervadar um laville mane licea?, tum ciba[[e; ux
evitecillaincommoda,;qua fequi docet Hipp. 4.aczu£. 39. ubi cibis incocts in, *
ventriculo accefito fi ervenerit: Pezter emm; inquic cær, faflidit cibum,
1mtenditur bypochbonr J^4244912 6Y1477 ; drium, 1atlatur corpus propter
saterzam tuyba- tionem, quens fixamon eft, dolet. ager, lancimaturs
-pellicatur, vomere affeélat, c fi mala evomnuerit, dolet ipo me[- 3$.
Excipienda tamen ab hac tegulà, et ho- c»weaad- Yarum cibandi ante acceffionem,
et non ofte- do offre rendi alimentiautin principio;aut ante princi- eibi
er" piumacceífionis, ea corpora, qux et calidas 162,00 10. et ficca funt
temperamento, et habitu eracilt; jeibus^ quibus fpiritus facilé diffolvuntur,
quz ore» ventriculi admodum fentente, et in quibus acris humor, et mordax ad
ventriculum trans fufus ita egrum infeftat, ut inipfius etiam in-
vafionisinitio fvncope indudià, vcl etiamins fimplicibus tertianis
intermittentibus fzpenus4 4A- meró mortem inducat; in llis enim ante inva-
fionem,velin illius principio cibandum cenfuit Gal.1o. 7Metb.cap.2.3.4.€9 f.
CibusgnA- 36. Adhibenda tamen ea eft cautio, quód;,| do offerédus fi animi
deliquia in febrium initio fupervencejn principio tint, affluente acri humoread
ventriculum, &y acceffion,. os iius mordicante, cibus vel immediaté ante c
quand? acceíffionem, velin ipfo principio erit exhiben-4 pauloante* dus,
utadmixta cibo bilis minüs mordicare. valeat. Si veró ex fpirituum fübtilitate
exfolu-4i V tio fequatur in principio febrium ; nutriendi erüntzeri per duas,
tréfve horas cibis hujuf. modi, qui citó inflaurare poffint fpiritus ; faciww
rPa9vatm (couccommutarL, ut funt ova forbilia, jufcula qux inftaurativa
dicuntur ; et fimilia, quibu: 4 adítringents fi &onnihil addiderimus, ut
fucc] era eranatorum, aurantiorum, aut fimiliu m,opti- me illis confultum fore
exiftimamus. ;7. Inacidis tamen iis in ufum du cendis ;il- 4ciderZ s lud maximé
cavendum exiftimo, ne nimio plus fs iz febr: limonum fuccus, aut acidorum
aurantioruma 45 acatis addátur, quod paflim etiam à doctiffimis viris stilis
fed fieri video; qui in acutis, et malignis febribus, shOÆTAT- in omnibus
ferculis, et jufculis fucci limonum Enn quàm plurimum adjungunt, non animadver-
voii tentes, tantá illi ineffe acerbitatem, ut, fi modü excedat, aut coctione
non temp eretur, quod in fvrupo de limonibus, et de fucco citri fit, aut
facchari mixtione non moderetur, obftructio- nes in venis pariat inemendabiles,
ideó mode- atéillo utendum ; in quà menfura fi in ufum. veniat,refrieerabit, et
incidet;altiüfque medi- catas potiones exferere faciet. Aurantiorum., fuccus
aliquanto minorem habet aufteritatem; c proptereài non tantà liquoris miftione
in- fier 38. Vidum omnem aut craffum, aut tenué, aut tenuiffimum antiquos
conftituiffe, docuit Hipp. lib.de prifca Medicina, nempe cünrcraf-|. etu (à comedimus,cim
forbemus, et cüm bibimus: nw Quarttim Galenus victüs genus addidit, om- ^ e
nimodam cibi, et potüs abftinentiam, 4- Com. ui vecipi? I oleum ent [mum 2
ppellavit; 2u5, c qui quód fi quz forbentur;bifariam partiamur,n£-. exclades- e
in tenuem, et craffam forbitionem, omnes 45. victüs habebimus ditfere
ntias.Verim quatuor fünt, quz acute febricitantibus conveniunt : E Craffa
Vicdlus tt- nauis (n 4-- s di à "e b y ma e ACERO, REDE 1 forbitio,de quà
r. cut. 26. eftinteera ptiffana; alica,panis lotus, five contritus, five
conciíüs ; et conta carnium. Tenuis forbitio eft, ut tiffana colata, aut
fercula eàdem tenuiora. . buen funt autoxymel antiquo more para- tum, mulfa,
ftillatitius liquor ex carne, jufcula cujuifquegeneris. Aquz veró frieide
potus, ju aut omnimoda abflinentia, fümmé illum te-.i nuffimum victum
confütuunt. Quz omnes |i victüs rationes, ultimá exceptà, vires augent, atque
inftaurant, quamvis aliquando imbecil- las vires reddere dici foleant, habito
refpectu ad corpora fanorum,qui fi illis victibus uteren- tur; ad marcorem
ducerentur . Noftris tamen vidus ext e-temporibus victus i1leextremé
tenuiffimus, et me tenuit - quatriduana 1lla 1nedia,aut ob confictudinem, we
nee autobregionem, exterminari omnino debet ; $ ww. Utpote periculi omnino plena,
ex quà et mors E: zensinducitur, et Medicis infamiz nota inu- ritur, fed loco
illius potiones induci debent, fyrupus acetofüus, vel de ficco citri, cum
ftilla- ütio àliquo liquore, aut jufcu]a alterara, vel cremor hordei . Viclus
39.. Cavendum tamen, netranfitvs fiat ad eraffns i victumillum, qui extra
limites victüs febrici- 4CHII5 "^ tantium continetur, ne fcilicet que
comedun- hi tine». ear, sáintquefolidiora, non liquida, concedan- 1 »! OS P eur
gr panis, carnes, et quod deterius eft, ho- Orb ded [7- viri fruétus, quod
paffim extra hanc provin- t CUT gam fierividimus. Herdesm40. Cüm nihil fit,
quod inzerotantibuscibandis,; et apud anuquos ;.& apud recentio Ies,
antiquo more febricitantibus maximé recte yi- Ccumaünsftituentes, magis inu fu
m ducaturipsà putt. lana ho rdeaceà, o pame confultun |. Medicis in hisameis
Cautionibus pradicis cenfii ; fi ali- gna OC loco mterp ofüero de rectà
conficiendg puffanz ratione, de qna etiam Gal. 1. de al. facul.cap.9.ab dep
nf[anascapA. O mde Colicit. I. 11. et Dàul. /zb. 1. cap. 78. podffimüim cum
adeo varlare jn cà fcriptores dang 10s videam ; recentiorum autem aliquos.
doctiffimos etiam longé aberrare.In cà igitu1 Lprma fit in clectio- ne hordei
cautio, qt ód cüm Bardqum fit du- plex, alterum quod fpopte nudu n nafcitur, 1.
dc M æne cap. 13.2" lib. EC RN: yicin, cap.6. quod in Cappadccià naía
fcribit ; ut ali- cubi euam apud nos Infi; bres ; alterum vefti- tum, quod mæis
commune eft ; ; poftremum hoc eligi debet, deglubitum ta men, et à corti- ce
exutum; quamvis enim ulti primo illo po- tius utendum cenfeant, €à forté ducti
ratione, quod cüm Galenus arte corticem adimat;fatiüs videatur fponte tali nato
uti ; fed non bono arpro ptiffaAna quale eligend& » Hordeum «lind fine
cortice eraffo na- feitir, a- lttd veffs UG. eumento: ro ieenim illu dicium
noverltl.4e alim. facul. 13.e0 tamen non vtitur ; quin fpecie ab alio differre
afferit, f;rtéque etiam faculta- te : Vnde Herodctus. Galenoontüquior apud
Oribafium r1. Col/e£. dicebat ; illud plurimum Ruttre ; multum fuccum. habere,
et proxime 1tritici naturam accedere ; quibus rationibus minimé in acutis
convenit : quz enim nimis E 4 multum inultum nutriunt, queve craffum, et
eglutino- firm füccum generant, ut triticum;inaácutisfe. bribus minimé
convenire poffunt. 1. dealipzfaa |i cult.cap.4. 4I. Sed quáarte preparandum
fit; ut cum ^ fru&u, fine damno in ufum duc poffi t; noh5 levem requirit
diligentiam, multáque cautio- ne indiget. Farinàaliqui utunturaquz,;aut ju- ri
mifcentes, et pultem efformantes ; quam. tamquam flatulentam, et excrementa
multa producentem omnino rejicit Gal. /jb. de atre- emuante vitfus vationescap.
6. Cf 1. de raf. vid. is acut.cap. 18.Freffo alii, et fracto utuntur ; at re-
felluntur 11 ab eodem Gal. /zb. 1. de al TCI. cap. 9. ^ lib. de attezuante
vithucap.6. 9 1. de 2 VAI. Vitl. 12 acutis, cap. 18. quód tormina faciat hy
pochondria diftendat, non levis fit ; non Tu- brica, quód denique craffos
fuccos producat . Leviter torrefaciunt alri, ut faciliüs exter nà tu- nicà
fpoliati poffit, et flatus exuere: At fic ptif- íanam minüs humectantem
reddunt, iminüfveuu aptat alvum folvere; collieitur id ex Herodo- to, referente
Galeno; 1. de alim. facult.cap.13.. fi pritenam ex ze torrefactà alvum
cohibere,af- di ferente : Vnde Oribafius, 4. Collet]. cap. 7. ex. Dievche,
hordevumin polentà rorrefa&um al- vum cohibere atfferit5 quod confirmavit
Gal. ) 1.de alizz.9. qninimó cap.2 2. ejufdlen : frixa em- t n4 flatum quidem
deponunt, fed di "fficile coquum- iln uv, Co adftringunt, craffun yque
fuccurm, cenerant. quód obfervans Trallianus /&. 8. cap. 8. voluit in
HKordeum quomodo jaradum fro puffana. in dyfenterià hordeum torreri,ne fi fine
frixio- piam ne uteremur, alvum fübduceret ; non cohibee etum. ret. Braffavolus hordeum aqvà fz
piüs mace- rat, mox ficcat;& in mortario ligneo illud Con- rundens
decórticat. Atfi pro primo cortice» expurgando id facit, non eft, quód aquàail
Illud prius maceret ; fi pro fecunda briliori, malé facit, cüm coctione fol ^
eximatutr. Galenus igi- vto vn ai cur capit hordeum Integrum» levi manu contu-
fum, et hoc modo decorticatum, atque mox panno afpcro pe erfricatum, ut
reliquum corti- ^ cis fi quid reliquum eft ; anod verifimile eft ; air levem
ictum, to lli poffi t. . Cautio autem 1n quantitate hordei ad zmerdei Pee m,
&aquz ad etin m In pl ra paratione quantita püffanz, maxima eft adhibenda ;
cüm variafit ad. aqua de his apud grauiffimos euam fcriptores fen- pre ptis
tentia, aliis pro fingulà hordei heminà decem. ^4paran" aqua adn ut
Dievches apud Ori- bafium, 4. Collect. 7. cenfuit, quam me fecutus eft
Conftantinus Cafar,lib.de Re ruf. 9 Antvllus veró, eodem Oribafio teferente» ;
4. Colle&£l. 11. pro fingulà hordei heminà quin- decim aquz adhibet;quam
fententiam fecutus e(t Paulus, /ib.1.c2p.73. Braffavolus autem r.de rat vill.
in acutis 18. pro fingula hordei heminá trieinta, et triginta quinque aqua
mifcebat . Galenus
autem 1. de aliz. facult.9. € 10. c Lb. de Priffana; nullius quantitatis aqua»
aut ejufd& proportio nis ad hordeum meminit. Neque yero id prater rationem,
fed jure merito,quód G4 obfer4uanésíÍnu/ ex obfervatfet hordeum pro varietate
foli aliud - facilius coqui, aliud difficiliàs,et docebat ípfez iet /ib. de
cibis bomiCP mmals [nci, cap. $. tum etiánt pro varietate nature illins erani ;
ut paf- fimi1n ciceribus excoquendisobfervamis; Sed et aqua non levis habenda
eít ratio, cüm aliam grana, et Cerealia omnia facillimé conficere »
obfervaverimus ; aliam difficillimé, ut docui- mus 72 Com. 17 lib. de ære,
aquis i loc. EH ipp: Sitamen ejus eeheris affüumamus, quod intu- [ Ra .ICcat,
et coquatur facilé, apiid nos Infübres mE pro fingula hbeminàillius, quindecim,
aut vi- ginti aqua affumere poterimus; que quantita- tis aquz varietas erit pro
várià conditione hor- dei, et aqua. Propifa 45. Sed'in ptiffane præparatione
quid ob- na cóuie? fervandum ? et in condiendà quid cavendum ? da . 2^ Sané
Galenus oleum, et acetum addidit, et addenda, falem; illa quidem 1. de al».
facul. 9. 4. tuenda va T9 valer, 4. Cf $, equ]dem. 8. lib. de M arcove, ult. 7.
: Methb.med.6. S.eju[dem 2. 10.Mfetb.Y1.Orib. 4- Collect. 1. et Paulus rb.
1.cap.88. Salem etiam indendum conftat ex 1. 2//9.9.& Orib.& Paulo
loc.ctt. Sed quo tempore hec addenda ?. Gal. r. de alim. 9. acetum indendum
cenfuit, cüm ad füimmum intiimuerit hordeum, deinde etiam permittendum, utTento
igne in füccum diffol- vatur ; tumaddendum : falem autem addi vo- luit pauló
ante tempus diffolvendz ptiffans : olevmaddebat pro condimento ; nos, quibus
placuerit; concedemus.. Placet tamen potiüs; ut cx jure oprimo carnium
patetur,five integra paretur;five colata, addità aut levi portione » falis ;
autfacchari pauxillum plus; pavxillum enim mellis addebat ptiffanz, 5. rende
valet.S. cujus loco przftabit faccharum indere: aliqua- to plus illtüs
etiamaddentes admifceatur ; prohibemus enim admixtione» ilius nefaccharum 1n
bilem vertatur .. Quod fi quisaceti ufurn refugiat, licebit [oco illius aut
fuccum aurantiorum, aut citri, aut etiam. » fi aceti nonnihil . L limonum
indere, modo fuccus is aliquandiu guetud AC plus cum rcliquis ebulliat, fecus
quàm paffim. «^ v» fiat; cim indi foleat füccus immediate tempore ?e/&- e
Æ. affumptionis,qui ob cruditatem ; et acerbitaté folet nonnihil obeffe;
quamvis mixtio fine co- étione nonnihil terreftreitatis illius, ac adftri-
étionis foleat retundere». 44. In pane concifo, aut contrito, pro fercu- lo
parando hecadhibeatur cautio ; fi febrem. curemus acutam, aut ardentem, panem
omni. Op rius effe lav andum,. "us. n tatà frpiüs aquà aut füperinfpersà
fepiüs aquà ; fic enim et fer- menti vis retunditur,« cibüs paratur m inus
nutriens;potiffimüm fi paretur ex jure fimplici pu Il: gallinacei; fiiccóque
aurantiorum con- fpersatur, fic enim parata panatella minüs etiam nutriet, quàm
ptiffana. Cavendum veró, ne panis igne pris cremetur, mox abluatur, quod factum
ab Oribafio videmus ; fic enim, ienex partes concipiuntur in pane, sícque et
ficcius alimentum paratur, et calidius, quod E 4 per Panatella 1n ACHtis
quomodo paranda « C9 Cor fn 4«o per lotionem minimé corrigi poteft; poterit
tamen fic paratum convenire, fialvi profluvio cum febre eri tententur, addito
aut ficco li- monum, aut granatorum. In reliquis febribus ex pane conciío, aut
contrito ferculum conve- (niet; etiam non loto pane, et ex jurecarnium
aliquanto validiore. Confum- 45: In confumptis juribus ex carnibus pa- yu Mu randis
hzc obfervetur cautio ;. maximéà me; ex cargo lA dariea, que ex carne vituli
macrà conficiü- vittling, üt » quód vix in eis elutinofum illud reperia- tur,
quod paffim in juribus obfervamus, que » ex pullis conficiuntur ; cutis enim
circumve- ftiens; et nervofz multe partes alarum, et cru- rum, gluten illud
generare folent;quz vix pof- funt auferri : in vituli autem carne, licet et fi-
brarum,& nervorum ratione, et capitum mu- fculorum glutinofa aliqua adfint,
mrltó tamen pauciora fünt;atque ex parte etiam auferri pof- j funt. Quód fi
quifpiam gallinarum, ant ca po- num jus expetar ; cautionem hancadhibeat, ut
alarum duz extreme juncture auferantur, et coxarum ultima pars ; quód fi cute
etiam pul- lum fpoliare poterimus, (alubriorem cibum et potum procul d:bio
parabimus. 46. Sedentes in lecto alantur;fi enim jacen- tes cibum capiant, vix
ad ventriculi fundum. cibum effundent ; deindeà cibo fümpto fe mi- horà
fedeant, vel (altem erecti aliquantulum. femiJaceant. 47. Ante cibum memores
fint expurgationis euem j- tum tenc- re debeat, dá ciban- tur. IL- os alluen
lhis oris: nam à febre plurimi vapores, et fuli- ipines furfum feruntur, quz
limum quemdam lin linguà efformant., .qui cüm guftum pertur- Ibet, cibos etiam
malà qualitate imbuit: quare li: et lingua; et os colluendum, et osfophagus;qui
TENIS. N lfzepe per febres areícit, madore aliquef1gan-. ex acels e£ Jac idus,
cui maxime infervit aqua etiam cruda €x - aw . aceto, et faccharo. EA 49. De
potu aquz in febribus pro potu quo- . P^vs 4c Itidiano, non pro medicamento ;
hec fitobíeg- ;"^ qua- ratio: fi in xerum inciderimus,qui in fanitate it
affuetus fit aquz potul, etiamcitra noxam pof- Ife nos utiqu e Hone nop
tmam,aut fcntanam; BD obe aut pluvialem cifternin: mc ncedere, aut CCr--,,5 f
po té decoctam fimplicem : fin minus affuetus poditn 2212 Qua cibus JL ma- AY »
49Ha no 7u$1nacmAd tuaque zeer fuerit, ne 1n ea 1ncommoda 1nci- zi. dat, dc
quibuHipp. 4. de rat. viel. in acur. ali- qu id addi licebit ; quó facilis ex
hypochon- driis meet, cruditas reprimatur, atque etiam. «cea "M eevias
morbo, fi fieri poffit; A Hldd eios ve wis adver- 9e, : canedio femur; ut fi
add faccharum.cinnamomum, E . anifum,femen coriandrorum;authordeumin-- -.
Ccoxerimus. 49. Deaquà hordei, quem ) potu Imantiquis 444a bar len Ar m pleri
quec enfent, quód nullibi Gale- deris æs nus ; Oribafius, Paulus, A?tius;
&aliiillius *5pro po- men tionem fec vei ; ita cenfeo, Hipp. 3. de 2 4
epiinide va) uiél.im acut. 13. (f a. de ratione vilius, 71. po- "limum
autem librà à . de Morbis, ubi laboran- tibus tor pore c: 1pitis propin
andamcenfet aqua hordeaceam, de cà mentionem feciffe ; ubi eti 1n"aua bor
Kein Of. nibus amar 615 n0 Con venit. v qua ber dei Que pa 1Anda . gue
intelligere non poteft (accum hordei, quia illis! có fübjungit ; Maze. pro
alimento. [uccum. bor--|vck dez exhibeo, utnec in aliis duobus locis, cütmi en
potum aquam hordeaceam appellet, füccumaj autem hordei paffim non potum,. fed
(orbitio] ji nem appellet .. Neque veró rejicienda eft, po] jj tiffimüm in
febribus exurentibus ; quod flatu] ili lenta fit ; fi enim recte excoquatur,
flatulenti&il "T exuit; neque fi diutius excoquatur, falfedinemi] «1
contrahit, quod ab aliis objicitur ; fi enim ins] s putfanà, quz longiori
tempore elixatur, id nom] «s veriti funt Hippocrates, et Galenus; nec expe-4
ui: rientia id oftendit, in quà mæis hoc feqiiilo deberet,ob hordei majorem ad
aquam propor--| tionem, et quantitatem, quà ob craffitiem faT- fedo in
elixatione loneà contrahi deberet, cufil idinaquà hordei omninoaquosà, et potu
ve--| tebimur ? Cautio tamen eft adhibenda, ne eail In omnibus morbis, aur
inomnibus febribus ini ufi m ducatur, ut aliàs fieri foleba 5 fed in iis!
folüm, in quibus magnus eftus fuerit, ut ubiil. abfterfioneopus et. At veró in
eà conficiendail ». magna adhibenda eft cautio. Accipito hordei vcri, non
fpeltz, feu zez, ut plerique faciunt, libram unàm duodecim unciarüm, máceretür
tantillumin aquà, mox panno admodum afpe--] IO Oprimé confricetur,donec omnis
arifta deci- derit, et quippiam etiam ipfius corticis craffi fit
deter(íiim;deinde optiméabluatur,& omniforditie expureata, addantur aque
libre quadra- Hi. ^ ginta, et tàmdiu claro ine decoquatur, donec optime hordeum
intumuetit, mox depofito de aMesua P ám lever. 1ene decocto, permittatur
perfrigerari, deinde transfundatur, quod perfpicuum eft, ac valde clarum
decocti;in vas vitreum, in quofi quippiamiterum refederit, denuó In altertim
vas transfundatur ; quod perfpicuum eft, et relin- quendum donec refideat ;
quod pro potu in» paramus pro medicamento, aut faltem cibo medicato, aut pro
potu. Pro medicamento;aut cibo medicato, vel cruda erit, vel cocta; Gal.
cocha.Qinimó etiam coctarum alieinteoré co- (**^* étz fünt;alie imperfecte ;
quz eciam magls ; && 4A. vavwe Fat ufiim duci poterit. d 1 : Mulfa di
jo. In mulfe melicrative compofitione ma: s A ; 77 (7; xima adhibenda eft
cautio: Vel enim mulfàm vj ^É pt an ''Ali0 » 3.de alim.f acult. 39. €? 12.
Afeth. cap. 3. Cruda.o -Á cds ! E, * . -Á eL. magis alvum [ubducit, munus
uutrtt ; contrá aute TLMN E . ec * minus et nutriunt, et dejiciupt, prout magis
aut minus coctionem füfceperint. Vtramque euam hanc aut meraciorem conftituit,
aut di- jutiorem Hipp. 3.4e rat.vit]. in acut.t.33immÓ 7... Gal.$. A etb.zzed.
4. 1n meraciffimam, medio. n 4»*« we S. 2 " " " . 1 $44
crem,& dilutam dividit. Sed quanam eft mel- 77*^* lis ad aquam, quibus
duobus folis conftát mul- jin fa; omnino proportio ? Cenfentaliqui, mera- ell;
1) A ciffimam efle ex una mellis, et duabus aqua, LE fic cenfiut. Avic. /ib. «.
et Diofcor. Mediocrem pum idi ex una mellis, et quatmoraquz, ex 4. de tuend.
aud vál.cap.6.Dilutam autem ex un mellis, et octo aquz, factà ebullitione ; et
defpumatis excre- mentis ; donecfupernatent, ex Paulo £/b.1.cap. 46.Sic vn b.
^£ ptu ex 06 Jh. cC s ^f yr t ou * Et .Sic Mefue, et Rafis 9. ad
"dIman[orem ; led: ante hos omnes Oribaf.4. Synop[eos; Cap.39. Hac 1T
communior eft recentiorumopinio. Eso verós ut veriffimam hanc effe opinionem
cenfeo. in» melicrato pro cibo fimplici . feu medicato : ita]; falfam exiftimo,
fi mulfíam fumamus pro potu: 'ad diftributionem cibi parando. Quin. ceníeos
dilutam illam, de quà 3. de ratzeze vitius ; 13] mentionem facit; eam effe
poffe, de quà Gal. 3. de vat. vicl.12 acut. 15. ubi dicit, mulfam dilu- tam
fieri;ubi pauxi illum mellis multz aquz ad- miícetur, ut aqua permeare queatad
diftribu- tionem, ne diutius in hypochondriis commo- retur; hoc enim munus eft
potüs;utpotus, non üt cibus ; ; quam fortaffe di iveríam à dilutà, de quà 8.
Metl-meminit;credere poterimus;quód diluta illa tamquam cibus effe poterit ; ex
unà mellis,& octo aqua: at quz diluta eft pro potu ad diftributionem
cibi,diluta magis effe debet, quàmutuna fit mellis ad octo aque, neque» enim
pauxillum mellis una eft uncia ad octo. Eritieitur mulfa pro potu, fi pro uncià
unamel lis viginti uncieaquæ fümant ur,pauló plus;aut. minus ; neque enim
determinataaque quanti- tas certó przícribi potett, ut etiam Galenum. videmus
feciffe 3 .acut. 13. 3. de alim. facul. 29.8. AMetb.cap.a.qui nullibi
quantitatis mellis ad a- quam meminit ; quód mellis videmus effe ma- enam
differentiam,càm fciamus, aliud effe bo- numsaliud m: idum. 3-40nt. 2.3. C7 4.
de tuend.val. 6. Bonum celerrimé coquitur, et celerrimé definit fi pumam
facere, inde minus aque abfimi- Contrà evenit in malo; et prc- I fum
effet;plusaqua a 'Inus;fimedium,medio modo. vandum eft,fi aqua forte crafficr
fucrit;ut apud lturin coctione. '[prereà in eo coquendo major indenda erit aque
']| copia, qua ab fümi poffit; quà in bonc;quód ex 'l|Philagrio colligitur,qui
referete Oribzf. s. Co/- letf.cap.17.in cofectione 2 poivelitis.fi mel craf-
ddi voluit; fi tenuius, mi- tiam obferVbie nos Infübres putealis efle folet;quz
in melicra- ti confectione fumitur, et optimum melindatUur,cüm ea aqua, ut
attepuetu r,lc nglori egeat elixatione, m el vero illud pau m antequàm illi
aliquantifper effe clixa ida um ttenuabitur,&in Sf mellis ft Gitan- im
recipiet, facil iüsqu e hy| mel indarur, 'leniméa tiam meabit. gr Sed cüm f: ;
fic cchondría peramfaccharum, ant iqu Is inCo1. dre CM fd enitu m, faltem
perfectum, noftrum in i ufüitn od Aj$* medicü, et inter delicias ouftüs
fittradvcium, ancx co mu] Iía parari poterit ? Vuq;,& Opti- ed part- 1na,
ci m non tantà poll ! immo in biliofisu ulior erit et fuavior.C extépc eat
acrimonia, ut m el, ilf aliqui;non nifi crudam mulfam ex facch laro pazari
poffe colliquatione, quod jam faccharv m.. attenuata aqu: i permeab i
hiinisarobo bus attenuatis. rur ea adhibeatur cautio, ut prius aqua clixeti Ó,
coctum fit. Ego veró et crudam colliqua i^f parari pofle crediderin., fed p rzftantiorem
éffe fue cocfa . V €octam ; quia Am cocüonem aqua permifcetnr
atione,&melius per dXpcenond rm quàm obtim.; 1 (UY 9 Cu cda ; quàm
illiindatur faccharum,& i in minori quam junii py . pitate; ita ut fepé
prouncià facchari libra aquai T fufficiat, potiffimum fi affectus non
admodumaliii a ftvans fuerit; 1n quo cafu fucci limonum non--joit nihilin
coctione addi poterit. ^^) )]; A2 5 $2. Oxymel, et Syrupus acetofus ad pen-Jn.:
paraci ra. m veniant;qui et pro pori ad fedádam fitimsdau 310 » et pro cib:
cibo in peracutis febribus, et pro medi-1u catà potione in ufüm medicum fe
penumero ve-4r«i piunt. Hiintriplici funt differentià pro varic]y) q^ de
ufu:vel enim funt valde acidi, vel mediocriter;? vel minimüm.De primo
Hipp.3.4041.26. dc fe-4 m cundo 3 .4cut.30. de tertio 3.4€4.57. locutus eta De
tribus iis omnibus Gal.4.de tuzd.val.6.d O38. cens illorum mixtionem ex aceto,
melle, et a quà ;aut faccharo loco mellis in fyr. aceto f| emm ec Minimé acidum
fieri afferens ex unà parte ace? EN ti, duabus mellis, aut facchari, et octo
aqua eDænl, De Mecium ex un ià aceti, duabus mellis,.& qua: tuoraqua :
Valde acidum ex duabus aceti. d ecu mellis, et quatuoraque. Galenum fecutus
etj, Oribaf. ;.Coll. 24. Paulus folius acris meminiifl..... lib.7. c. 11. Mefue
folius mediocris meminitij.. compofitic némq; tradidit. Sed animadverterg,,
dum,multüm i in cocturà à Grecis differre . Gad. ]enus enim ad quartam, aut
tertiam exccqtp.. debere dict. Plerig; i ita intellieendum cenfen]... donec
remaneat tertia, aut quarta pars, qv ibub. fübfcribere videtur Mefue, qui feré
hoc modi excoquit, ut pertotum forté annum confervtd tur, quod etiam omnes
Seplafiarii faciun cV rüm A rüm illud veriffimum eft ; cenfüiffe Grzcos, fo-
""tilamtertiam, aut quartam partem effe abfiimen "dam:docuit
enim Galenus; o xymcel efle tempc- jrandum,ut vi inumibidem ; cüm autem vinum,
inumquam meracum biberetur, fed tempera- tum ; ut colligitur ex Plinio 14.
AVaruralis Hiff. Wicap. ult. Ib.2.3.cap.1.& hocipfum vario modo
"temperaretur, aut pari aqu cum vino quanti- "Rtate affump A t
plusaqua addétibus :& hoc itriplici modo i£ duabus vini tres aqua;aut u- mi
vini vtm ruei ;autdeniqueuni vinl tresa- uæ addentibus; ut docuit Plutarch. 2
3- Sympof. Meuse[?.9. Athenzus Zzb. 1o. cap.S. C" 9. Siigitur o- Ixymel ut
vinum temperari dc ibba atjnumquam jad duas tertias,aut ad tres ex quatuor
excoqui Jporeft "- lioqüin non modo du pla, aut n Ja ad lim cleri, fed
tripl io;aut quadruplo à melle füpe- Jirabitur : quoniam mellis R minus a- dqua
ob craffitiem, et vifciditatem abfimitur . Exemplo fint;una aceti, due mellis,
quatuor a- quz unciz in qu: irtam redigantur, erunt una illincia cm dimidià,
sícquetota, aut penetota "eric mel ; fi ad tertiam ;€runt reliqvz duzun-
"rim,quarumuna cum dimidià erit mel, media &ijincia erit a acetum; ncn
gum ges duri imilec erit vino; quód fi unica ex qvatuor, aut una ex
tribusabfümatuor ; optimétempera- Jfmento vini correfpondebit ; quód fi ! War
decoctio cumaquá,vis aceti et in fa flu odore cum melle " hnqvetur didiu
coqueretur, mu po re, lía fieret mexæifima . te .K » b e VM^ Aon! UA - MK, ;
quód fi tam- mee "v, yy in cra ^ . 46 evita m AAA ]- 9 quét note pode pod.
Ps V. v evæe"", e in extrinfecis erat in uft,non per interna. |! Ac
Ox nei wen m tg Animadvertendum pratereà, Pharma--| rbi 4; Copolas,ut diutiüs
oxymel ; aut fyr. « cetofüm-.| Is rela 4 confervare poffint;ex decreto Mefüz,
pris a-- Galizico, quam et mel ufque adeo ex coquere;donec totajj quomod,
aqua,aut pene univerfa abfümpta fuerit ; mox i perttr,| acetum addere; et iterü
coquere, omnino quoc: aquz reliquum efta abfümentes; sícqueoxyme: non fieri ex
aceto mulsá. Vbiobfervandum. |1ii oxymel hoc ita paratum pro potu nutrien te
Lin ub ufim duci non poffe : eft enim potiüs forbitio,t: quàm potis. oxysel $4.
Cavendum prztereà,ne Medica coma] xi rix muni noftro oxymelite u tantur ad
humectani] Z0 btt dum ; cim exficcanti potiüs facultate conftet: a dd cümaquáà
carcat;in ufum tameneetiam hoc nof x p fs leote is ducitur, quod di
uluatur;liquidümque, et «a. PF i fluxile reddatur quadruplà fere parte aqua: E.
aut ftillatitia,aut decocti al licujus addità. Quar! $$. Obfervàndum
praterei,in plevritide» T "fot bi cra(fifcnt, et vifcidi humores, oxymel
noo] zanbectlle " : ri ; fn m imbecilltus effe;quàm fit illud mediocreqi
inaididad cut m in €o cafu valde acri utendvr m docuerij ht »p.3 2.4C€HT.2. á
$6. Obfervaridum pretereà,fi per totum) nofirum morbi decurfum utédum fit
oxvmelite; aut fyri] 3) acutis. acetofo,neqs acricrineque mediocri effe utem]
zit ac-, dum in acutis febribus, quód non humectet comfnoda potiffimum noftrum
ita paratum ; fed doce ad era[ia "- Hipp. 3. 4CUt. 37.0tendum effc eo; in
quo minii T y de Y - : J4À V^ vt vi 6 mum CLI'A9M . cA MER w^ € h 3 zx - &*
mum aceti fitadmixtum, ucmultüm poffit hunectare.nec inteftinis noxam inferre.
57. Cavendum pratereà, ne in oxymcelitis 5. autfyr.acetofi compofitione acetum
illud acer- rimum fümatur.;aut ex vino Cretico; vel alio potenti confectum :
nam in acutis febribus jin quibus, preter facultatem obftruc&iiones tollen
di;abftergendi,& incidendi;requirimus et lhu- mectationem,&
refrigerationem, po tiüs ficca- refolet;& excalefacere;quàm humectare: aut
fi taleacetum in ufvm ducatur,aquz cuantitas erit augenda ;tunc fortaffe
sentebaslenia des " 'erbis Galeni tolli pcffet;cóüm a.ze val.tuend.6.
voluerit; ex unà aceti, et duabus mellis fieri oxy mel mediocre ; acerrimi m
vcró ex zqualibus aceti, et mellis partibus:cüm in cófilio pro pue- ro
epilepticoacidiffimvm oxvmel ex una ace- )& quatuor mellis velit co nfici ;
miniméaci- di m ex unaceti,& octo mellis. Nificum doaceti pro oxysmnelie nó
ftt acer YImi,n6» que ex vis n0 pottne tffiano, echa ifa CM. &iffimo C
iealino dixerimus, libellum illuzi (pen t effe quidem Galeni ; fed multis in
locis depra- vatum : potiffimum cümoxymel ex favis confi- ci ibi tradiderit d.
9 oppofitum docuit (2 4.de val.tuend.6. € 2.de Fratt. 29. Qvod fi ex favis QUIS
dixerit doc ffe conficiendi m Gal. lib. dt med T her. ad Pa mbil. oxymel,1s
fciat,librum illum Galeni non effe, quod vel inde collieitur,quód diverfo modo
compofverit ibi Theriacam, ac lib.de T her. ad Pi[onemyac lib. de Aztid. Deinde
conf tat, confilium 11lud pro puero epileptico efle depravatum,quoód dies
Canicilarcs confti-, quat c E jo. tuat quadraginta, viginti ante exortum Cani-
cule, et viginti poft; quod Galeno repugnat, et Grzcis fimul,ac Latinis omnibus
fcriptoribus, Caniculares dies ab exortu hujus fideris in- choantibus, ut longi
oratione ; &" 72 Cons. lib. Hipp. de æve, aquis, (f locis, in Com.in
Probl. "Ariftorelis, docrimus . Colligitur ternó,men- dofibm effe libellum
illum ex eo, quód pueris epilepticis apium cócedendum, petrofelinutms
-abdicandum cenfet, quód petroíelinum lzdat epilepfià correptos ; cüm oppofitum
reperia- - mus apud omnes fcriptores ; apium epilepnicis obeffe,nullà fa&à
petrofelini métione : fic Plin. lib. 10.cap.r1.fic Alex. Trall.Izb.1.cap.1
$.(ic Avic. lib. 3. T raft. 2. cap. $$. fic Serapio /ib.Sigupl. cap. 190.&
Mefvezn fua Praxi,cap.16.de Dolore capi- tis. Nifidixerimus, corrigendum effe
locums illum in confilio epileptico; ut loco, seii: par- res o£fo, lecamus,
aqua partes oclo;fic enim ccn- veniec cum loco 4.4e tuezd. val-cap.6. $8. Cümin
vino concedendo in febribus, et Vin f? sotiffimüm acutis,tottantzg;
controverfiz ex- &ricitant! entur,ob varios Hippocratis et Galeni locos bus
acut? ; v ips zoterd. intet fe contrarios, de quorum conciliatione s; emdi per
755 : : fe libi à nobis conftitutum eft, nempe, numquam "V ipuw in ratione
morbi effe concedendum, aliquando arqtiscur vero ratione caufz, et fymptomatum,
tum eta aliquando ceorum,que fecundum natutam dicuntur,& vi- concedz-. rium
. Quoniam autem alicubi concedi paffim Lar. intelligo; ut in agro Neapolitano,
et fortafle; frequen^ s, cádémque controverfià quid fentiendumffit, a s
frequentiüs,quàm debeat, atque non apparens Æneis parue tibus fignis cocticnis
eftuantéq; zgrotantes 5. 9udA-vvemes ve quàm felici facceffusi pfi viderint;
nos Infübres. 42447,/& »d laborantibus febre acutà, € malignà cmnino vinum
interdicimus ; quod adeo felici fucceffü fit; ut ex viginti laboratibus maligná
febre cum maculis vix unus intereat, nifi forté, quod rarif- fimé evenit;
ratione virium aliquando conce- datur. $9. Cavendum tamen,quantum maximé pof
vis »- |! fumus, nein noftris his regionibus vinum con-. 4az ; ne
cedamus;etiamfi coctionis figna appareant ; vi-. 9Pparéti- demus enim plerofque
ex quávis vini conceflio- 9! 4wi42 ne,quantumvis minimà, in deterius labi,
atque en eH ^ . Y et éh9n15, a- denuó materiam recrudefcere : quod cüm fx pé ni
Teis- acfepiüs confideráffem,viderémq; antiquos ad- dian eó frequenter vinum in
febribus conceffiffe,, dido, |! non folüm ratione virium vitalium,aut ÍymptO-.
e; cur. matum, fed enamad adjuvandam cocionem, vabcaomee Vi fud; materie
morbifice ; atque ad promovendamil- - lius per lotium evacvuationem, ut videre eft
11. 7 Meth. med. 9.5 1.2d Glauc.
1m curanda tertiamay 73 C quartana febre;tumad fputum facilitandum, Ut I. AC4/.
22. 3.Aut. 1.C7 4. 4CHf. 37. non aliam horumaptud nos infelicium eventuum ex
vini exhibitione canfam effeconjcectavi; quàm vino-. «vsum, rum noftratium
conditionem, Rubra;& nigra vufAr«w foy - optima multa fint,quamvis primis
menfibus et q . auftera,& craffa,fed mfnüsaptaad febres,quód nec urinas
promoveant, necíputum facilitent. Qua alba funt; aut fiava, aut fünt potentia,
aut * e i imbeLN Vas ^ ^ ó1 €^ eot ue exéiu pa? n quet ^ D qua dijuatur; pel ne
itmbecilla: Potentia, quoniam maxime alba. ex- petuntur à noftris in aperto
vafe, ubi compreffis uvis reponuntursut fimul ebulliant,non permit- rüntür
tamdiu fitmari ; quamdiu oporteret ; uE debitam coctionem in fe conciperent ;
et id, ut álbo colore oculis ; auftero fapore, quem pican- tem vocant, palato
gratficentur hinc et aufte- titate coctioniofficiunt, obftructiones excitant,
neque urinas promovent, neque fputum adju- vant; pratereà veró caput petunt
quàm maxiime ; ieneis partibus validéin ipfo contentis, ob terreftres partes
admixtas : Vnde etiam primis»j menfibus eratiffima palato effefolent;,fi
dulce-: dinis aliquid cetinuerint,fübaufteris partibus cit: guftui
abblandientibus.. dulcibus duplicifapore Imbecilla veró et tenuia alba
hujufmodi funt» ut numquam máturefcant, nifi maximo zftatis calore
füperveriente, et ne tunc quidem aufterz: partes omnino co&tione evincuntur
; sicque m1nüsapta erunt et viresinftaurare ; et lotia. pro- movere:quod etiam
incommodum alterum ex- cipit, quód, ubi quafi. maturuerint ; aufterita- témque
depofuetint, aut ftatim ferà acefcát, aut evanida redda . hant,vnde ad ufüm
inepta redduntur . "dusigitur quàm maxime pueridis,maxime in acutis,
potiffimum enis, et etiam mæis in internis inflammationi- bus,utin pl
"debet, potentius potius eligaui, n malia ET. Cau60. ntür;.aut
corruptionem contrær Evitan-- B^ pud nos in febribus: evritide;viniufus; et
fiin ufum ducti 1 "ENS quod multa a-Cautio prztereà in bibendo adhibenda.
Bibende- eft, in febribus potiffimüm aftvantibus, quam. fap, en docuit
Ariftcteles 1; Problezz. $6. ut fzpe,& pau- paulatim latim aquam, et alios
potus frigidos ; ad fedan- "bdl. T dam fitim illam ex calore febrili
excitatam eon- M iria ceffos;affumant: potio enim mvlta;& conferum 5, e,
affumpta, nec exficcatas partes humedtat ; qui-. 5, c ca buseftus, et ficcitas
ineft,cü ftatim praterfluat; fori. nec fitim fedatzat fi (epis data fuerit; et
paula- tim pitiffando hauriatvr; os ventriculi; cefopha- eum, lineuam; et
palatuni, dum fenfim per eas tranfit,refrigerat, et humectatialiquà ex párte»
parictibus ; et turicisadhzrens: quin et paula- um fefe infinuansin carne
confcendit,'& venu- las exficcatas imadéfaciendo,& trrorando hume 7
&at;.. Quodaptiffimo exemplo docet :fi enim» c ri A. multa aqua.&
confertim aut decidat;maximé ft »/fe^ . ficca fit,in terram; aut aliunde per
cavum eorri- vetur., fuperficiem terra non permeat, fed prz- terfluit,nullam
noxam ducés ; at fi paulatimaut decidat, aut deducatvr, füuperficiem paulatimo
madefaciens,& ócclufos poros aperiens ; viatfiz fubfequenti ad
penetratiorem parat.]Id veró zepiba intellieendum eft deaquá in potim affumptà
gt ad fitim fedandam;non veró de eà,quz in multà quantitate affumpta ad
exauneuendam febremo ardentemaffutnitur,quz et multa,& affatim eft
affumenda;fed de hac rezz Cozz. noflris im Probl. 4 wel illud, quidauid
dicatadverfus Ariftctelem Hie- Mie S ua remias Triverius zz lrb. Hipp. de vitu
idtotarum.. ved. 61. Quamvis fomnus in acceífionum febriü ES v1 omnium E utens
p 7 E Suc P AI á S»m»»us Omnium principiis, confenfii omnium Medico--|
aliquando tüm, et mulus rationibus id perfuadentibus, fic] ^" in prizci--
fueiendus, animadvertendum tamen, aliquosi| ^ pio 4t'«[i? teperiri,quiadeó
fenfu exquifito in mufculis, &] /! nf "C esrpofis partibus fünt, ur
faperveniente effifio-| Pind ne materierum acrium ad illas partes, unde ri-| i
Tm" --gofem illüm concuffivum fieri Medici omnes: profitentur, tantis,
támque magnis doloribusi| 4! conficiantur, ut vitales vires profternantur,
&&| |! mots fepenumeró fubfequatur; iniis non folümz] UU in principio
fomnus, eft avertendus, fed potiàss omniingenio procurandus, ut fenfus ille
exqui-- fitus retundatur,aut fopiatur,rigorque;& doloij 5i mitior reddatur.
Somnus 62. Somnus in febribus potiffimum acutis, ff; immodt- -yyodum
cxcefferít,licet majori ex parte malo &«) 74/1? ^ erotantibus cedat, et proptereà
fit evincendus ;) i "aq : quoniam tamen,ut omnes alias à naturà factat! €
" 2 : ida €vacuationes cohibet, ita eam;quz perfüdorem] i fit, omnino
promovet, fi in fine ftatüs univerfa.]. i lis febris,ant in declinatione
fapervenerit, eciafí temporc modur excefferit, ita ut decem, aut e) tiam plures
horas perduret, non eft impedien«] ju . dus, potiffimüm fi indicatorià die
imminere crisd i fim perfudores commonftrarum fit:fit enim fæ] or penumeró, ut
promotis per longum illom fo;] mnum füdoribus ex univerfo corpore, et ex
illeéd! ti /ode)e ves lomno inftanratà naturà,& morbus fo]vatur, 8& nes
eger convalefcat : coenofcemus autem ex fienisdi i) * prafentibus bono ceffurum
hujufmodi fomnum] vornvwté $4. :, 4n T /^ -. longum.fifine tertore fit, fi
lenis, fi denique il]: t lum / Ó oil . y jum non imitetur, qui in lethargo,
comatosisve affedibus paffim confpicitur : Videmus enim, aliquando excitatos
zerotantes hujufmodi,e- tiam Medicorum confilio, impeditos in hujuf- -4r modi
evacuatione recidivam feciffe . Proptereà cauti maximé in hac re Medici effe
debent. 63. Inaére frigido admittendo in acutis, et 4er frigi- zftuantibus
febribus,hec adhibeatur cautio: Vt 4us acu? pro viribus frigidus quidem ær
ambiens in cu- febricitan biculum admittatur, et procuretur, utomnino tibus quo
et infpirari poffit, et interna vifcera xftuantia, "ede ce» refrigerare,
et faciei oblectamentum boc affer- eedendus re ; reliquo autem corpori ne nudo
obveniat, omnino cavendum ; quin ne etiam nimis tenui ftragulà;ac pervià
operto: circumverfante enim acre ambiente frigido aut flatu, et calidus va-
por, exhalatiove,quz foras perfenfumeffugien . N tem evacuationem promovebatur,
ad interiora ^4? " repelletur, et pori cutis pervii fcrtaffeadftrin-
gentur, et internus fervor adangebitur : immi- nuenda quidem in augmento, et
mæis inftatu zn v^ erunt cooperimenta, ut zftus ille imminuaturz ewe per
univerfim, et natura inftavreturàtantola- ^ bore; at fenfim id fiat,neque eó
ufque, ut illa in- commoda feqvi poffint. 64. Non placet tamen eorum
confüetudo, Nà zii: qui quafi eeris vim inferentes, plàüs nimio coo- cooperien-
pertos,& ftragalis obvolutos tenentfic et tran- 4; fregu- fpirabile mæis
corpus reddere cenfentes poffe, ^ 4c? et füdores prómovere : cüm alioqüi illud
ni- f'^rieiran mium effluxum fpirituum efficiat, et fübinde, '^*,, D 4 V)IeS
eH) Viresimbecilles reddat ; hoc autem violentiam naturz inferat, et aut ctuidum
humorem extra- hat; aut qui per alias partes exitum fibi quate- bat ad cutim vi
quádam ; naturá re pugnante s attrahatur, xc ELA LVDOVICI 4 PPTATITII.-.
Baimaduerfi ionum, et Cautionum Me- dicarum, diui Eas comprehendens ; vorige A2
Qua ad Pbarmaceviscum negotium pertinent . e Ep Vamvistáquam veriffima fit Hip-
Medica pocratis fentéuia, 2.24pbor. $2.O7- materia "ia [fecundum rationem
facienti. [i nom mutáda s [nccedat
fecundum vatioriem,non e[f ^ tranfeundum ad aliud fiante eo, quod e principi o
vifum ef? . Cavendum tamen, ne diu- tius in eàdem materià medicá infiftamis,
potif- fimum fi in alterantibus verfemuür ; fit enim fz- penumeró,ut, dum longo
temp« re eodem remé : gue Pm dio utimur,natura illi affueta ita illud in
alimen/Æxsa Área. tum vertat,ut morbificam caufam evincerenon 7
valeat;potiffimum fi alexipharmacum fit; pecu- harique qualitateagat.
Immwutanda ieitur crit materia prafidii, et quantitas etiam ; quz adeó Certa
przfcribi non poteft : hac enim ratione et '| vii cxiftimationi noftrz confülemus,&
eegros obfe-qj quentes magis habebimus;ne tamen id frequen || ii tds fiat,ne
ignorantiz notam per inconftantiam || i fubeamus. Puean- 2. In purgandis
humoribus per medicamen- |. dunagrg tum five [entens, fivefolvens ;ut multa
funt à irte. Medico et animadvertenda;& przcavenda ; ita exptd't,"
huic noftro Cautionum libro minimé inferen« q«o»do da,quód regule, et canonesilli
non nifi cautio- *45f? nesomnesfünt, quibus Medicum jam bene in- £derit«
fitutumfü pponimus : hé igítur in immeníum (ec e A erctef. cat liber, folüm cum
Hippocrate ;z fræmen " eile 4. t0 Ib.de medic-pareantibus,ilud
admonebo,;4ebe- TT re AM edicum pre[cripturum phaymacum quod far- frm» vel
deorfira purgat, prits £m '€YTOGAY€ y HHTA alias phavmacum pureans bau[erit ;
Cj num alvus ex pur eatoris deor[im f actle fe fol'vat, ac cst oberug
Parsvelporius dura fits hæc enim erit cautio pur- € l "T : 4 AFEA CIAM 1
gatorla 1n metu hvpercatha 1COS, ut naturam /!| WU eoo, e. on epa 1 tí
peculiarem cognofcat eerotantis,cümnullisno- tis idiofyncrafia cognofd poffit;
quam fi cogno-7. Ícere potuiffet Galenus, fe zqualem ZEfculapio cenfüiffer :
adeó enim aliqni faciles ad folutio- nem funt;ut vel primo pharmacorum odore
tre- .oa,, Pident, atque in fluxum folvantur ; aliiita duri: alvo fünt, ut vix
ullisremediis alvus refpódeat;^ fic enim ant mollioribus, et levioribus ;autvæ
lentioribus uti poterit. Purtame 3. Atfinüquám pharmacorum alvtm fübs |. dum
inter ducentium ufumfe inüffe affirmet, rum demum exquiANIM.ADVERS. LIB. III.
f9exquirendum, num, dum fanus effet,officii me- 7?s4re o mor alvus füerit, pro
conditione rerum affum- ertet; 2» ptarum, et numà pleniore cibofe in fluxum ef-
!riea fit fundere alvus foleat ; fic enim tutius zgrotanti pr confüleré poterit
Medicus. 4. In lenientium medicamentorum ufü, cüm LexientiZ videam Medicos adeó
diffentientes,& in quan- «f ati- titate; et in hora exhibitionis,&
inintervalloab !5s:?ri» exhibitione ad cibum,concedentibusaliquibus, 4?7mer-
puta, fucci caffiz ad minus unciam, tum et fe(- *91^?^ quiunciam, vel
electuarii lenitivi, vel dia pruni, per horamante cibum, et hunc potiüs matuti-
num, quàm vefpertünum, ut fomnum fugiant, quem poft medicinas imbecillas
fngiendum;au- &oritate magnorum virorum omnino probant, Je esce vc] eà
ratione, quód perfomnum et evaciatio-e Certo .| nes perfeceffum impediantur, et
medicamen- - tum naturz adeó familiare alimenti naturam. fübeat;quod in Italis
Medicis Francifcus Valle- riola;2.Ezarrat. c.$. maximé reprehendit: Nc-
cantibus aliis; aut hzc in principio morborum. effe concedenda;aut fané admodum
raró;in quo ; numero Mercurialem noftrum effe video JEgo ww ^^ de hacreita
cenfeo: Infebriumemnium, &a- liorum quoque morborum curatione,majori eX ;»,
(5,45 parte ab initio lenientium ufüm convenire; et UA wav excrementa;in
ventriculo contenta, et in vicinis |.,. A 7... partibus, evacuentur, et ut
commodiüs, fecu-. riüsque incidentia, tenuantia ; et abflergentia,, auxilia in
ufum duci poffint, fine periculo ; nez crudi fucci ad intimiores partes
ducantur. Quà NOS oe) : gras * mo lHh e urhe Kata VeTO quantitate ; diftantià à
cibo; et dt tempore ?. Sané nifi cautio adhibeatur et diftindo, in errore
verfabimur : Aut erífmin» T bs. princpio morbi ad. prefcriptum ufum exhiben-
dz,diffg. tU; ut progreffu morbi;ut alvus aliqua dejiciat éio. Andies,cum
enemata, » quód aut renuuntur, aut . leduntautnihil fübducunt;a aut alia causa;
in u- füni venire negueupr d 1$1 ob primm occafio- nem, et ad unciam, et ad id
fefquiunciam concedi zx. ; debent, et a aliquanto tempore ante cibum ; et
potiüsmatutinum, quàm vefpertinum tempus eligi debet, nifi aliter acceffio
febrilis perfua- deat. Colligiturid ex Gal.2. Ze em facul. cap. 31. de moris,
mox etiam de prunis agente, ubi alt : dl vups pruna movent,, Sinai f f prandium
gon ftatim. fed aliquamto poft in* ervallo inchoetur, capo t[ola comedantur ;
hæc enim communia, omnium laxantiumm przcepta meminiffe opor- Lax Iet ; ut enim
perfeinexiftentia excrementa fub- vunt edi qucant »fine cibo per fe concedi
debent;ne veró, tmc)en E ' cum naturz ea famil liari ia fint, 1n aPRSCHÉ Ver- E
d «t tantur, non multo poft cibus eft 4llis concedén- d Dx 4t - dus;ne veró
fomnuminterrumpant,dum alvum (s das p ád excretjionem movent.;c rd poft
quatuor;aut fex horas fieri folet - po tis ante prarídium erit Deb; .
exhibendum. 1Q: [Quod fiad ex xcrementa,que in. rsen jnteftinisa lagregaptur ex
quotidiano cibo,füb- ducenda ex thibe atur, cüm ld fepius fit oriítatt- we dum,
multó min or copia Mloru m erit conceden- da, puta, f (cmtu [uncias antea
deachnges dein facile folubili, &e2 quidem. jim- mediate (WW dd 4 121] /Á,
)1l eAVO (6: mediate ante cibum;vel cum ciboipfo;& porius; cum cana,. quàm
cum prandio: ficenim cibüs : emolliens;& lubricansredditur,& ferculum
one Jtvculn lud hquidum;aut ju fculum medicánmientofa m. UPC OBPINT induit
qualitatem lubricantem ; et felectaà nüs- turà parte nutriente, reliquum, quod
adanteftis: na transfunditur, et fxces contentas emollit; et ^
tunicasinteftinorum lu bricat neque .cruduma: fübducit; quoniam ; cüm naturz ea
familianas fint; illa non averfatur, aut cum crudis expellit; fec d co
ncoctione faétà, quod familiar '€ ma91s at aahit,reliquum.cum ex 'crementitià
parte ádin- teftina pellit; quod cum non fiat ; nifi celebratà : coctione ;
poft fo mnum folet fiéri : et vut millies p Jy OMA e2o ex pertus fum, et nof
ftrates Mc dici meoe exg« "2 Ja 1o cognoverunt ; hoc modo au t famiuncià ;
aut ctia un duabus dr achmis fierenumeró 1pajor ex- dg tetas crementorum copia
educitur, quàm cüm uncias ' &e etiam fcfquiuncia per horam;ut moris eft5ane
te prandium exhibetur : fomnus potius adjuvat: coctionem illam ; et
lubricitatem ; quàm impe» diat. Neqtie interrumpitur, quia quantitate» à tardius
agit,& non nifi poft cocticnem . Auctos - A ritas illius fententiz-&
VaHeriolà adducz ; aut. 2^* de primo modo exhibendi ea intellivitur ; vel v m
potius deveré purgantibus debilibus; de PME alis. G. :Ab affumpto autem
medicamento: veré 1 viec d * purgante;an fomnus co ncedendusamrerandüf- ZU AN z
91272 '4 vefit ala eft ratio ; neque unà refponfic né po«^ 4072 b] e?
eftíausfien ; aliterepim eft agenduniin medime quands. CoIento ; utenchitt
«améto lévi;aliter in valido:alia eft ratio, fi me« dicamentum fimplex
fitmedicamentum, alia ft venenofi infe quippiam contineat, ut hellebo- rus,
Colocynthis videntur : neq; idem imperan- dum.fi liquida exhibeantur;autin boli
formam mollioris, àutfclida concedantur, quales funt : pilulesfiex ex
blandioribus fuerint, et 1n formá li- quidà, vix eft füperdormiendum, nifi
ventricu- lusadmodum imbecillis fuerit;fi bolt molliores fuerint, et medicina fatis
potens ; aliquádiu fu- - él mela perdormire licet, potiffimum fi naufeabundus
emi 9 fit eær,aut debili ftomacho;fic enim faciliüs ad potnded actum ducuntur,
et non evomuntur. |A pilulis " £^ * optimum eft dormire, et longiori
tempore, ut PIS etus colliquatz, ad adtámque deduciz, facilé sol i - D PUS fuum
exferere poffint . A valentiffimis au- E tem medicamentis affumptisjin « quibus
virulen- ti: nonnihil ineft nullo modo dormiendum. ceníeo, nevirusad principes
partes, et potiffi- mümad cor per fomnum means, qut ad cerebrü vapores
transfufi nóxas pariant in&mendabiles . yin m Malé iis confülitur, quibus
ab affumpto -aMfumpto, pharmaco,;ne vomitus fuperveniat,calidi panni 2e / 07A
7v M reet n - p 34A / 7" zeli cs hoc autem et calorem naturalem à loco
avocat, lida sop G fa penumeró flatus excitando ex materià inis fentappli
ventriculo contentá naufeam promover. Gulz canda. igitur, et ecfophago potiüs
frigida fatim sdmovcri debent;ventriculo autem non r.ifi cüm dif- ficulterad
actum deduci peteft, aut dolor à fia- ^ £u congula y ant àut gule,aut regioni
ventriculi applicantur ; il-. y.gioni yg 10d enim potius vomitum trahendo
conciliat. Concitatur, calida applicenuir. Cavendum autem femper;ne calor
excedat,revocatur enim -.| potiàs fic natura ab opere. 8$. Cüm Hippocratem
viderint aliqui ab ex! J| hibito helleboro, aliove medicamento validio-
rl,cremorem horde! exhibuiffe, E reliquie,fi ul quc adh xererent medicamenti
eefophago, fupe- ricribusq; ventriculi partibus,fü bh erentur,aftüsq; ex
medicamenti vi in ventre productus 'reprimerentur ; poft quodcumque medicamen-
!tumaffumptum poft tres horas, fiveevaciare, jam ceeperit;five nullus adhuc
motus fiat;jufcu- lum pulli propinant; adjuvari fic cenfentes opus medicamenti.
Quod omnino cavendum ceníeo:
ficenim medicamenti vis hebetatur, aut preter rationem actio medicamenti
confunditur. Ino ^2e44- aod un fine fané evacuaticnis fiquis id pr rxftiterit,
opa- me illi confulttim cenfeo;nam et fiti ccnfülitut, 5, -. et reliquie medicamenti,
aut humorum fübdu- cuntur, ehuitur ventriculus ; atque vires aliquo modo
inftaurantur. 9. Purgante medicaméto dato, fi fpatio qua- tuor,aut quinque
horarum non dejecerint egri, nec bene;nec tutó clyfima 1njici poteft; quod paf-
fim à Practicis fieri video; nam diftentis intefti- nis pharmaco, ac ruentibus
füccis ;aditu prohi- betur remedium; ;fepéque deorfum pellente na turà, et
furfum propellente clyfinate, pugnà ex- ortà,dolores concitantur maximi, et
aliquando volvulus.promovetur. Glandem ieitur prafü- terit ex melle impofüiffe
cum fcmidrachmá fà- lis, Pbhartna- €0 nj pto . son femper in- fco p tres Loret
exbsbéda. HH eth . Mu 8U.A. oí " € tædia. PLarz;-- co no €? CHante s, chos
20 " dé sm, Jw Qo df. Cun m o $2 C^fA64 lis, fellis bubuli ; et fucci
cyclaminis ; aut cum pülvere trochif&orunvalhandal, fed cum filo . Quód fi clyfma indatur;fit acre
quidem; fed fex«. |... folüm unciarum. Praftattemen id promovere. |; cum hauftu
octo;aut decem unciarum juris pul-: |.., Ii;addito faccharorubro ad:dvas
uncias; aut un^ |i. ciàaddità mannz; aut fefquiuncià . : Vomitus ^. 10. EO
ufque mollicies noftra pervenit; ut: quet-NOmitivorum ufus feré exoleverit,ut
vel eam ef^ 1 plex, q'ii- fe caufam etiam credam ; ut raro rebelles morbi j..
£4; » C A nobis evincantur;ne tamen id fineanimadver- . |. 4775? fione
relinquam ; animadvertendum ; cümdu- j. V^ uley fit vomitus, arte procuratus,
Vniverfalis u-, sese Dus; quototius corporis conipages, fi quid malt"
concepetit;evacuatur pervomitum : Particula- ex eactrisalter;quo ventriculus
autà collectis per fe» . excrémentis infe,autab affufis aliunde ;inani- tur...
In primoillo exercendo;cavendám ómni- no effc hyemem dicebat Hipp. 4.
Z4pbor.6.quod. «c cim czaffi humcres tunc exuberent ; et viz non. fintaperte ;
corporisque compages denfior fit ; juàm ut locum humoribus attractis concedat,
difficillimanireddunteam actionem;fecüs eft,fa. J. vacuare humores per fein
ventriculo ratos ten--. taveris : frequentius enim id przftare debemus |. ^ .
hyeme; auctore Hipp. /ib. de [alubr? Dietas quo- p). " mani inquitjboc
tempus ad pituitam f ecundins eft; V7 et quamviseo tempore ventres ftatuantur
cali. |. dicres;r.2fpbor. 15. quoniam taroen pituite me-.| tropolis ecerebrem,
ob aéris frigiditatem 1naXi- || iné pituita abundat; unde defluxus illius ad
pe- || ER Kus» bs étuss et ventriculum ; ideó vomitus hyeme ma- 21s conveniunt
blandis iis avxiliisqua naufeam promovendo partem illam folam poffunt eva-
cuare;ut docet Ga ld. $. denfupart. cap.a.Atfi he- pate fe exonerante, bilis
recipi turin ventricu- loquod ex amarore lineuz, et aliis confpicitur, quovisid
anni tempore ex eniat, evomi poteft; licet frequentius id eveniat xftate . 11.
Numquam tabidi;,aut in tabem propenfi Vemitz: cvomant,fi fieri p offit, fed per
infer DONC cag tabidis i- tur, ob graviorum fvmptomatum metum. nimtcus. 12.
Cavendus itidem eft« vomitus,quibus ca- ; 11 E re eren m put c tolet; nifi ex
recrementis in ventre collectis quibus no id fiat;a ut quos interna ph leo:
'neobfi idet;aut COWUeIT . qui laborant moleftà aliqu à ham )ptoii 1, aut O-
culorum morbis ; lipothy miz,aututerinz affeCüoni expofitis etam 1ncommoda eft
vomitio,; ut et 1is,qui fracto;nau ife tiri ndoque funt ftoma cho, et denique
cob ptis, et morboexhau- füus. Eoufque progreffa eft hominum tnolli- P2area-
ties,rt etiam in medicir is pureantibus affumen : ca vefrige disvoluptatem
qu£&rant, dum illas frigidas a- '4t4» vet ctu; quin etiam.fi Deo p
;lacet;glacie refrigeratas tlaciata n expetant,.X fzpé ab adulantibus Medicis
con- "Je c? cedantur, non animadvertentibus, et multum NS L de naturá
proprià per: glaciem corrumpi i,igne: as partes, in quibus maximé purcandi vis
ine extingui, difficillime ad actum deduci, dolos res fa epe excitari, tum ex
frieiditate; cum diminu actione medicamenti;& fe penumceró adl j: L h uinc-
humores in ventre cexiftentes,.dum adhuc denfat magis,contumaces etiam nimium
reddit,unde.» repugnamus actioni medicamenti ; indéq; tor-: mina,&
inteftinorum dolores . Phawnz- 14: Cüm noftris his temporibus,quibus Chy eor
vali. micis, et Hermeticez Medicine locus fepé datus dorum p eftillud
inoleverit, ut extracta virtutum medi- vinum, camentorum perinfufionem in
vino;aut in aqua aut. AqHÀ. Nitze fere fiant nifi diligens cautio adhibeatur,
U/'4 eX" errores fequentur inemendabiles: ut enim con- MK cedi hocutique
poteft in medicamentis blandis, lofa- et placidis;ut Senà,Ágarico,&
fimilibus;ut etià in fimpliciter alterantibus ad calidum:ita 1n venenofis,&
fortibus non femper eft tutum,;ut it Colocvnthide, Turpetho; Cataputià, et
fimili--] »" L L] . M bus;vis enim virulenta altius permeat,;& cordis]
palpitationes producit;aut fi virulentia non in- fit; fed mediantibusieneis
partibus vehementiam habeat, adeó medio harum mæpnus vi-] gor illisadditur, ut
füperpurgationcs, aut fané dyfenterias efficiant ; fitísque tanta exci-4 tetur
; ut difficillimum fit huic fymptomati oc-4 currére. nLabarha 2000s Quinimó,
vel ob hancipfam caufam aliá info qua funt etiam blanda medicamenrta,qua quód »
vino ex igneis maximé partibus conftent;ut R habarba- Eris k Y^ 2 llc i -
bibita fe-. Yum, fiinfufione facta 1n vino concedantur, fe. ; : »WE- "
bres exci- bres fepenumeró inducunt non parüm a ftuán t4t tes: irrorari udque
antequàm Infundatur R hat... barbarum debet,ut ignez partes terreftribu] multis
admixtz quodammodo ad füperticien trahana ie Re i P QA í trahantur ;
atinfufioin vino facta nullo modo laudari à me poreft . In. componendis
formulis medicamen- Pjarma- torum diligenter animadvertat Medicus, ne ea «4 d
mi« miíceat,quz multüm tempore differant in ope- frétur, fint ratione ede *ndà,
i ta ut unum ex iis fit, quz non, (* 75 2"4 nifi longo pófttempore et
humores peculiares 42^" fé OCC WIOSS: Pp re agite et attrahunt,&
fübducu nt; ahud ex uis; quie ve- locifiimé eadem praftant,ut fi quis
electuarium ex ficco rofarum cü pilulis maftichinis mifceat: quoc d enim citó
vires fuas exferit,i jinteerum füb-- ducet medicamenti im tardius ad æendum,
aut dum vix 1d humo res peculiares ag 'creffum erit at bali iere,sicqi ic
imperfecte rem idrieb Unt actic- nes medicamentorum, et tormina in inteftinis 5
ac dolores exorientur., 17. In pilulis concedendis, et fecundum ma- Pilula
Inem,aut parvitatem efforn andis, ma- quando " da eft cautio : fi enim à
capite, aut »magza,et longinq s partibus attrahere deb ent,craffiores qwando
mao páttyd ine formari debent, ut diutiüs in ven- ^orve con triculo
firmatz;& valentiüs $, et mæis à lo nein- ortén Otis attrahere poffint :
atfi ad excrementa fo- /!!If« pre lüm, qua füntin ventriculo, e XC utienda
voten. CAPMems 7 7s din Lorej, pro tur,ur folemus de pil.alt ph anginis,«&
aloe face- sdiadeula rc, minutulz femper effe debent ; utnon diuibi. hare ant,
fed qui àm primüm abftereant ; fic ad iium cicermm magnitud Inem eas pilulas exh
?221720Y € $a bemus; quamvis ex aloe lotà cenfeéke pilla a- liquanto
craffiuftule concedi poflint, qu3m 1c ex non iota:cim erumrcbvr vosti2 Ra ; i
p. lil Pilula va ld:fima f 7/774 WO fmit. ma£4 Ciyfieves p £7 29 211 Js no f '£
[24 HY» HH Í indaut 5 yfeeres ? pragna ^ 2207 excedant « Clyfteres, por .
laborant bus ventb. [;2t parva 8 ille foleant;aliqua mdiu etiá plàs reuneri debét. In validis
veró pilulis concedendis,nimis magnz fünt vità ande: cüm enim non nifi longo
tempore evincit à calore noftro poffint, atque» colli iquari; diutiüsibifirma
tur; unde nimis macna fzpé fitat tractio humorum, unde et fuper- purgatio. 19.
Dealoes frequ entiori afu, deillius affu- inendi cenfuetu dineà con 3»de
ejufdem quan- titate maximé varià, ac de ejufdem i in (cbtibus ufu,cautiones
pluresaut hic,autin aptiorem lo- cum erunt ad dendz,defcribende eodem ordine
quo fu perius (criptz funt. :o. Declyfteribus hz fint cautione s Ima, in
eravidis non mu Itàm frequens fit clyfterum ufüs: fi Veana ge e e fint, progref
fi teitifo: ris per communicationem partes uteri, et adja- entes nimiüm la bande
hinezid'in ferna reple- tus uterus prol abitur; fi acriores veró fuerint. et
fetu noXxas afferant magni momenti,& ex pref- (ii, quem in ducunt,
prolapfum excitabt partis, et fxpenumeró 1 cmorrhoidas maximé mole- ftas
producunt " 21. Ingravidis ?randiori feetu clyfterisnon multa fit
quantitas, preterquàm enim quód có- primit foetum, flatim quafi etiam
comprimente feetu repellitur. Renibus calculo ; vel infífammatio nela$55 PD LI,
borantib us, parve itidem fint quantitatis,ne repletis nimiàmiinteft inis compt
imendo dolorem adausgeant, In prepingvibus non multüm calentes r, pay pesada
folent enim inteftina habere fenfi ma- guibns, e ximé prædita ;ita ut ab
injectione quafi fübitó ;zzefhinis expellantur fine utilitate : hoc veró 1n
omnibus subi fea obfervetur, qui exquifiti fensüs habét inteftina. fusselyite-
. In quibus flatibus maximé inteftinatur- 7*5 7enim ent,qui enema injicit,
blandé admodumidfa- ^4"'w m neque cum impetu propellat ; inangvfta e-
quens ' calentes e nim loca pro pulfi venti niln n mdiftendunt par Initcflinis
2 eS, atque einde dolores Ízpenu meró v ehem Cn- turgetib? tiflimi et
excitantur. flatib. cly 25$. lantumdem damni iis evenit; qui et plus 62; LZ
n1mio duratas feces in inteftinis habent,quíaue 42 inácié inteftipna iis nimium
repleta habent; pavlatisns di. enim em ollise illas dcbent;atque mibdsacti qua-
Clyfferes titatc indita, et blandé admodum. violenter. 216 Ch 3 res,quos ex
malvà, alrhzà,mercue 79? s: riali, violarià, betà, et fimilibus decoctis parant
ciédi que Dhn: I TN DS OUS ffinis fece patiim Ll'harmacopcla quos Ccmmunes
appel$ al. ai. vcpletis « lant, vel- hac telis ne femper fü n ectos habui,
"prs, Bey iz. quod decoctum 1llud p: v- tum diu tius Confer- (25,55 ven i
Gc quamvis cleo diutiüis fervare incorru- incommq- hujufmodi decocta
rrofiteantur,fi tameno da. affim« cl ervaveris,putridas& malé olentia ef-
fc coencfces : quo nidore fxpenumeró uterus in mu heribus commoveri flet, in
aliis dolor capi- tis excitatur. Qvare pra ftarct mulsà bene mel- lita; et
cleoid pra ftare ; aut ex urinà cum melle defpvmato.& o leo e dem
praparare, aut fané recens fcmper decoctum 1l lud parare. 27.. Magis veró iidem
cavendi erunt, fi addle 4Jisd go Ea tà un 70 LVD. SEPT ALII MEDIOL. eumdem, tà
uncià caffiz fiftulz, quam vocant, aut diacaí- incomto- (iz; pro clyfteribus
parentur : eam enim paffim» dum. |." parari fcio ex recrementis caffiz
abiutis face a- liorum medicamentorum exoóletorum, et fyru- pis jam corruptis
loco mellis, aut facchari;ut fe- é et magnos dolores inteftinorum inducant; inalvo
folvendà nihil proficiant . Clyferes. 28. Quantitas enematum major fit in mulie- pro mlit- yibus. Oribaf.8.Colle&f.cap.24.funt enim ventri-
ti^45 44À. cof v meis,& ventre capaciori;ut cüm uterum. Htate T^
ferrentminüs premerentur . af 19. Salemrecentiores femperadjungunt, et $al
clyffe- a a [ .O v ribu: 45; f quis 11lum omiferit, tamquam fi piaculum»
indédum . Conuififfet; derident,fed prater ufum antiquo- yum,& rationem:
quoniam illo addito non d1u- tiüs detinetur; cüm etiam per noctem integram.
aliquando probé detineri fcribat Ætius 7 er. 2. fer-1.cap. 129..., Clyfferi-30
In puerorum clyfinatibus olei ufüs intet- bus puérá- dicatur, et ejus loco
butyrum füccedat ; ne ver- "i ole nó mes;fi qui funt;(urfum
ferantur:sícque Sebeften indatur. juri,autferoincocti maximé erunt ex ufü ; ex
Paulo //b. 4. cap. 53- Clyftere ;1. Vt ante vene fe&ionem optimum aliqua-
in indéd^ do eftalvum clyftere evacuare, neinanitz vene jid /*- crudamillam, et
feculentam materiam ad fe» P072 V 7 vci bant : ita non placet ftatim fere ab
injecto iln4) QU& 6b f: er VAMA . lo venam fecare: praterquàm enim quod et
fri- gore tentantur aliqui ex furrectione; et aliis de- liquia animi
füperveniunt ; fit etiam fzepiüs, ut naturá adminiculante, noa femel tantum,
fed bis, ter,& quater,& fiepiüs dejicerefoleant: un- de aut in ipfo:
fedtionis actu alvus perturbatur ; aut edam artifex in ipfo dejectionis actu,
ne» tempus conterat, ob lucrum vena fecticnem. exercet. 32. Cüm morbus caufe
implicetur ; cave; ne Morbs morbo evincendo infiftas causá poftpofità ; fi e-
caw/e com nim illud primó tentaveris,quamvis interdum. ?!tato, mitior reddatur
morbus;manente tainen caus, ^^^ vm aut non evincetur integre, aut fané
renafcetur fe T proximé majori cum periculo. biens 33. Incaufisremovendis,
externa priüstol- Cawfi; latur, fecundó antecedens; tertió continens : fi-
"mitis bra quidem cüm alia ex alià nafcatur.nifi in iis evin- tibus,
cendisis ordo fervetur, fruftra quod primó ex- € ie petitur, fed poftremó
intendimus, nempe mor- ^ ' itd bum füperare;obtinere tentabimvs . aL dai- eon
In comnliran diete endis ;4/ ferv&dnis 34. in compiiceus morbis
removendis,fiita ^, difiideant, ut variæfedes occupent, nec unius,,,;. 5.
curatio alterius curarioni officiat, fimul curari, plicatis et eodem tempore
poterunt, atit etiam diverfo, morbis y neque multum refert,ab utro curationem
exor- quomodo diaris. procedens 3$. Siveró unius curatio alteri incommodü 4v.
afleratrmaximé erit cavendum, ne dum vni ftu demus affecti, alterum exacerbemus
; SOUUNU. "rt merece att e15qui mæis ureet,miaximé infiftemus;alte-
?"!r25 - CDM AF $i " quomodo ro nén neglecto; autfàné (quod potiffimum
ob- ELE fervabitur,ubi zqué vrecant) otique mediocri-,,, tate quàdam, et
contratiorum permixtione erit fuccurrendum. A E 4 36. In rra 2&. : ; 31^ Rd
Y "osi 3» multis. 36. In decernendá remediorum copià he fint ji remediis
animadverfiones .. Prima 1n levictribusmmorbis jiu gio proct- par fit remedium,
ac (emel, universimque mor- :| é^ dendum - lumfübmovens; cüm enini leve üt ;
nullam na 115 ture viminferet. 2 nu Extrebis |. 37, Atincxtremis,&
periculofis morbis lineal morbis [^ eunte morbo przftat valentiffimum
aádhiberea 55i 2 7, remedium ; quia cim mortis immineat pericu-i: yep lum;nifi
univerfim remedio evincatur, præt pesi? rendum. CC in mortem agemus . Hinc
extremis morbis: ni extrema remedia adhibenda ; confülebat Ferdi Mobi
Ppocrates. auediotri- 39 Quod fi tnediocres fuerint.fenfim,& blà-4ic bus
las» dé melius depellentur; niillam enim fic contxa- ga d? occuy- rie qualitas
noxam corporiinurent. INec ta-4 rendum. ynenádeó lentz eorum remediorum vires
effe nte debent; ut illas morbus non fentiat; exafperatulfo ixi enim fiepé
morbus ; et acerbior fit; cüm morbüs €4lid; fo- talia remedia facile füperet .
ius nólon 0:39. Tn fovendis externé partibus, üt incaleej n go tépore lcant;
prudenter fe cerat Medicus, ne diucius 1r i» ufum utatur;fcripfit enim Hippocrates:
Calidüsfi quii ducendi. diu,multimq; eo utatur,zgris damnum auget carnis
effoeminationem invehit,laxatis. carnium] fibris, diffipatoque proprio carnium
pabulo; 54 indu&to humore excrementitio;unde etiam nerun voróm fequitur
infirmitas ; nà eorum robur in.Ji mediocri confiftit ficcitate . Cerebri quoque
affi, fert ftuporem,nam fensás,motüs,cmpiümque- Jio; cerebri a&Hionum quafi
refolutioné pari et hæ morrhagias concitat,laxatis venis;& fanguine Jh. | fufos wj ma itf fufo; et
lipothymias; diffipatis Ro paient) &reil folutis membranis, qua mots 1pfa
excipit. At veró nec multim f rigidis diu utatur ; i| nam frigidum;ide manquit
E Hippocrates, fi quis incófideraté €o utitur, fpaífmos et r19i res affert; nam
exitu omnia corporis inquinamenta prohi- 1l ven et ofhibus;ac cerebro bellum
indicit. Ad prohibendum faneuinis flixum ubi- i] que osos frigida; nifiin
pectore fue- sl zit malum: fümmé enim frigida pectori fünt inimica; etenim
fanguinis, et fpirituum vias in- tercipiuntjlp fiüfque thoracis naturan n,que
carulaginea eft, labefad ant ; quod multo calore atad v Ita m fo )venca lam ^
42 In yehem 1enti sok ^: vel ex multà copià t C aig CCurrat;cavet dotspnerni
ident O- ij rusutamvur;fed noni mihl. eorum,que diícutiünt, eritadmifcendum :
quz enim adf'rinsendo re- 4 pellunt, cum tunicas ficcando exafperent,majo- d
rem inferunt dolorem, hinc potius influxum. j| augentsquz v« TO ÍO là
refrigeratio ine id przeftat, 4d. ut: aqua f r1i?1da,nix,2lacies,narcotica,cüm
ma- ] teriam nimis craffefacia nt ; Mb conden- M. fent;etfi dolorem minuant,
curati. tamen diffi- ] ciema fec i Im reddunt 43« INarcouica qua í J| ne temere
in ufum ducantur s fed non s in ve- I hementiffimis doloribus,vbivires
concidunt;ut 4i cetfantibus doloribus robur recollieant. Adi la Eori$ vero
Medici erit auc auram momo 1 ^ /15 tu poret Coma En CERT T) cn diia MN NEQUE T
m Exterois f igid; $ di nom utendum. AÀ (angus eb ios ns fiuxf frigidi. 0b1124
praterqua i2 thorace. Solis rgpel leztibus in printr- pio quado A a, 7 0n
fii£fie€ Je £144]73 9 Narcoti- ca nntm- quam sp- plicanda fiétuvis ca ptis - IN
arcot: cea mnum- quam in- 1Ya Are. Narcott- ea num- quam in pueris Natura quo
ver- git, 0 du- cere opor- i5 quo- apado :inzellicedzt. &» ;4 . captántis ;
ca in levibus doloribus in ufum du- cere. 44 Numquam commiffurz cot 'onali,
utin cxteris fit; ap plicentur in vehementibus capitis affectibus.fed
temporibus; et fronu. Numquam in aurium doloribus intra auris meatum;furditatem
enim fepe concitant ; quidquid R hafis contrà fentiat. 46. In pueris
narcoticorum ufus omnis füfpe étus:fi enim intüs fümantur, cüm aneuftis venis
Bi 4 adhuc conftent; quafi ftrangulantur; extrinfecüs: lits .autemad fomnum
conciliandum fi admovean--lj een reliquam vitam me morie multam Jactu--bo: im
faciunt. 747. In quácumque evacuatione moliendà à Medicojfive non Operante
naturafiv e imperfe--p« &e agente, qu :amvis et quó maximé natura tüil s»
partis,tum humoris verei it, có ducere oporteat, per loca c »nvenientia, id eft
poffunt;& à naturà etiamyf tentione fünt inftituta, q aut inflammatione;aut
alio morbo. Vnde Gal. 1. 4d Glauc.
cap. 11. dicit teftina laborent vel vulnere,vel infiamma non effe evacuandum
per illa Joca. Tum etiam; fi vicinus locus ille perfe conveniens parti ali- cui
laboranti fuerit ; per : fi ventriculus, velin-p tione; »per quz evacuartiflor
tem fecundarià inc-e oni eft ventriculus ;,d0/ vefica, inteftina : Cautio tamen
adhibenda eft dii quia fepe evenit; qua per fe fnnt convententia 5, ex
accidenti talia non effe; ut fi hecloca laborét: eciJe. accidens non erit
con--P veniens;ut quamvis thorax, et pulmones ad ex-4i cipie cnP € c ww 3 EE
" WA. M reu
im. iC s Pv lll Kipiendam materiamà cerebro transfufam apti! Ifimi fint,
aborante cerebro non eft per eam viam "JEvacuandum;quia tracheg arteria,
quz pulmo- '^ Ini juncta ef; cerebro maxímo eft proxima; et fic Ipericulum
effet, ne ad pulmones irruéret, ut te- "^ Mtatur Gal. 2.27 6. Epid. 52. .
Quamvis, que ab Hippocrate Medicin? cj»; jparente r.24phor. 22.propofita
eftfentétia:Coz- -edicari "I:rotfa medicarz oportet, C" cruda non
savere, nifi. opatercs, Ipsateria rurgeat.qua alioqui raro turget;hujufmo- c
eruda iii fit, ut maxima curandorum morborum fatio 79» move "i lieà
nitatur,ut felicitatem, quà in curandis eeris Vogt? '"Jper quadraginta
feré annos fruot;in obfervatio- siu A inem hujüfce canonis maximé referre
foleam.; dnd. [quoniam tamen unicam hanc exceptionem ad- (æe "I Mgecit,
mft materia turgeat. tunc enim cruda funt eorlatieii- i ipurganda;cum alioqui
et in plevritide HIpp.2. troverft "acu. 11. 6c in anginasa. acut. 30. et
cüm lotiutmo conciliati "Wicraflum eft, et nebulofüm, 4. zcwr. 43. quod
im- perfectæ coCtionis fignum conftituit Galen. t.de » [iC rif. 17.& in
quintá die, fi venter murmuraveJitit; Hipp. 4- 4€Hf. 64. et in quartà in
plevritide, (quz eft principium, 4. 2c.
76. medicamento yiflufus fit pureante: ut et Gal. 1. Ze differenti: feb.
"i ja-in febribus peftilentibus ; ($* 1. de compof. td. lier loca cap. 2.
S.curans alopeciam; c 2. eju[- wilden, cap. de curatione doloris capitzs, (9 4.
Metb. omlemed. c. 4.1n ulcere;fuperveniente eryfipelate; c qh1. Meth. 9. quod
ita puttidum eft, ut Corriei «Ainequeat;ab initio evacuandum;(£ c. 22. in óph-
Wkhalmiàa; et linguz inflammatione, ftatimi nitio 41 c firm t4 ÀA1ULA lo 6
LFKD. SEPT ALII MEDIOL. fluxüs medicamentis purgantibus ab 1niti0 s. quod eft;
ac dicere; crudà exiftente materia, ufn funt;in quibus certum eft,non turgere
materia 3; E bo ; ] 33 et forté eà ratione, quód praftet aliquid. cum. periculo
experiri ; quàm a grum defütutum re-4 mediis fineremori. Vndetamquam in falo
ha-4., rent Medici,cüm confirmari fententiam 111a mo «4... 232. 1. Sel.
videant, 1. Zdpbor. 24. 4- zpbor.Con; 1o. 4. ACutt. 22. 2. Prorrbet. $8. 3. de
diebus decret o. Iib. Quos, C quando purgare oportet stum fine, pen), longum
proceffumm. quomodo in hoc negouo om: nium, quazad faciendam medianam faciunt
maximi momenti, fe gerere debeant ; dubii hæ: rent ;.& quid pro
conciliandis contrariis iis fen tentiis dicendum fit,dubitant. Ánigitur cum.
antiquis Patribus evacuatione diftinctà1n era epe dicativam, quam in crudà
materia numquamy convenire;& minorativam,quam convenire afí& ferunt,
fatisfaciendum erit? minime; quód unn ecríalis fit reaula cum unà f0là
exceptione; e 4 ACHE. 22. dicit univerfaliter,non convenire, qui cruda non
cedunt ; at minüs cedent minoratiyl debilioribus. Nec raró in acutis in
principl uteremur medicamentis purgantibus.Et ratio Gal.in Com. 22. tradita ;
quód. non fit in crudi tate feparatum bonum à malo, in minorantibu locum
hàbet.. An potiüs canonem intelligemt lo ewvacnatione 13145 fat C112 41 ert'à
ET x "ep «c 28 de evacuatione,qua fit curandi eratià? et præf vationis
eratià cruda ab 1nitlo evacuare poter mus? AtHipp. 4. acut. 22. reprehendenti
Meq dicos cruda ab initio. evacuare tentantes ob u fiamba f ! Euh 77 lamma
itione;refponderemus;excufàti p Te eos, Iiceremufq l1e;1d ili )s ME IP d pra
cautionis erati preftitiffe non € à. At nec placétiiqui cüm ivacuationem aliam
conftituant evacuativam 3 1^ tationis, Iblum;aliam revulfivam:1 PEE IV ànumquam
Iruda in 1! » rincipio etit evacuanda ;in evacuati- à fimplic ialiqi ando pofk
dif erunt ;cumin Mevritide;in anegirà, et aliis inflammaticnibu [$5 Llamus eo
tempore revvlfionis eratiàfieri eas 4 IVacuat iones. Pratereà,incommoda, quz
fe- qu fcribit Galenusad crudorum evacuationem, "I^ Ts iRAdlfi æm In
evacuation ;VvCta fünt; lotiffimuüm cumabfolute, et fimpliciter reeula 'to,
nifi t urgeat, BI LL ciim dus A bobo £02 3 bDiubppocrare ponatur. Minus r«
ecipi endi,qui ki À A Vacuatione cruaa materla ] Ippecratemire]cere centent ».
2Z2pbor. 23. alibi IT M camdem concedere,frà parte folum áliquà ia TT . "
213^ * f5 /5(« I T o: f C PN ' d'a Mat: Quoniam rationes Galeni non folüm 1n
to-, ; TET UT j^w* I PP LEN. X. X mer Ik IT conv eniunt,;fed et in partiali1.
LUA.2CHT. 2.2, . leat m5 u'atione ioquit L5 KCuUa c AITCG fit, i t11, ? f 4 Lf
1 Cieccw n * 1 CIICCLLI CIutcoo1 Cal 5 I. non ad totum evacvuandüum; fed ad
n27teva ef non ad ictl1 L- uandtiun;iéeaa«d partem ei- 1LP DS ] iuin eit.(
jDCCctandaarm cvoraumm. vec dicenc Y; DCctlonem ordinata C Lal üuratione ;
coacta veT OW WM a 7 € )primatur zeer,cruda poffe evacuari,ut E. - "*
PTWORTAWN P7 2888 C5 on nid I1quibus vifum eft . Nam coactam effe tureen Scruda matel Lr paries
pd ivo ; d s] A" là 4Hh^ lam in 22. Zdpbor. excepit, ni mini on d A Pm c E
Jeperaddic. Minus etiam dic potefi n liis numquam licere cruda evacuare,
ififerte tureeat materia ; 1n morbis autem fine febre ss f cruda poffe
evacuari;quod aliis vifum eft . Con--fni vincit enim eos Hippocratis
auctoritas, 2. zcst« pi 11.qui in plevritide morbo cum febre, five cur-- putt
centiàà principio purgat. Vt igitur jam tandemnafam. in difficillimà hac
controverfià;quid aciendunmfan fit,eruamus,non pigebit longiori uti oratione
nsn &k preter inftitutum cautionum píacticarumnpui t tradendarum;cüm res
hzc bafis feré fit curatio-4oni num omnium, in quà tamen omnes feré aberrà-4ul
runt. In primis igitur memoria repetendum efti cruda, et co&a in duplici
effe differenti ; aliat enim cruda dicuntur; qua coctione mutatà in. 4liti
fubftantiam verti poffunt;alia veró non ves ré cruda, aut veré coqui dicimus,
fed per fimilupi idinem;nam licet nutrire cocta nequeant ; tod melicrem tamen
conditionem ducuntur . De. Bd duplici hac co&ione, et cruditate etiam prime
locutus eft Ariftoteles 4. /eteor. ubi non folürig cibum, chylum, et fanguinem,
cruda,& cocta; aprellavit fed et lotium, et excrementa ; vt T Hipp. 2.
4cut. 44. ubi bilem crudam appellat hio et Gal. lib. Quos ' quando rc. C lib.de
conjMy art. med. 16. Diftinguuntur autem hzc, quefhi, qua concoquuntur propric
ut nutrianteamde-fi, qualitatem, et fübftantiam nutritze partis fufcdfug.,
piunt;quaz veró improprie, et per fimilitudinenps. cruda. cencoqui dicuntur,
non. fufcipiunt ais qualitatem, aut fubftantiam, fed fufci piunt tail cüm
quádam fimilitudinem caloris concoqueqe, tis:znam chvlus albus fit in bepate
ruber, et faclo. culs feuis ruber albas partes nutriens fit albus. Tn. iM brudo
veró cocto, cüm putridum effet, non fit 4muratio fecundum fibftandiam, fed in
qualità- "Jte; ut faneuis putridus cru dus dicitur, pér co- j ctio nem
albefcit in prs. Hinc Galenus varié illvariis modis coclionem d efinivit. 2. enim de 5
aparurel. facul. cep. 4. Concotlio; inquit ; eff alre- patio, C mutatio epus;
quod putvit 2 [rli dier egus quod zutriir : Quom ctiam recepit Hs. de fTrzpt.
caufis y Cap. 3. Aiverfam tamen ab Ihac p fiiit aliam 2.77 1. £ pid. cap. 46.
cüm di- jJlcit ; C ocf10 eff viltoria inbsds leden: 25$. Et 2225 uuedrte zzed.
89. inquit,Cozcoé lio eft -qua finit purre- edulzzesz, manente [. «bf antia.Ter
primam enim il- dam ver a coctio definitur ; du: n Us 11 isalia ; qua uper
fim:t; tudiné dicicur,quec; putridi htimoris ir S. de coz zpo[. sed. 72 uridup
1 loc.ca 4p.7 dicit: li C oz coc? 70 eft, Al! era 40 fec: AH0Gb57277. kr 741
Fattoncem » iud /rriztudrmezz.ut vtramcue cc n.prchenderer, Jiquód in utráq;
fiat mutatio ad fimilitudinem; afed 1n p rimà fecundum fimilitudirem aualita-
itis. et fubftantiz; in fecundà veró tantüm fecun: pidum qualitates. Secundó
füppcnendim eft; aAMiquód inflammationes ex Gal.2. Ætb.zed. c. 3. diiduobus
modis fiunt: vclà tranfiviffo fà neuine» (ikb aliis partibus ad partem
1nflammandam: vel dnb attracto (a ing: ine: à part eipflammatà. $1 in:
ilflammationes primo modo fiant, ut faneuis ab anliis parti busa vo - artcm In
if: immandam tranf- qlimattatur,dupliciter etiam fieri poffUnt;vel quia qpartes
afficianturà multo fanguine : ve] quias T)!)]!10 n. r eIAAZUCAÀA"
puncantur ab acr rifanguine. Cüm enim multus KG partes infurgunt ad illum
expellendum, atjue ita expellunt ad partem inflammandam ; n iuten a fangu 1$;
SOM taræn dici nó déteste aptus eft, di iguotiiteto x xced citt neque improprià
cruditate, we P utre dini eft.qu ia fiin toto abundaret, Íync hum ger nerarét;
cüm tamen nulla præcedat f zepe febris. 51 vcróin parte mittente 'compnutru ifi
;jat min eà parte inflammationem produxi iffet; fanguis igi- cur ille
transfüfiis crudus non exat . Idem dicen- dum eft de fanguine ex pulfoà parte
9m punctio nem;ex acrimonià bilis fanguini adimixtze;cru da enim nullo modo
dici p oteft bi lis 11la: neque» enim cruditate alimétali cruda dici poteft
quia et ; f21 bili « nó nutrit:neq; putredinaliquia antequàmi k fluat,facerct
fcbrem ardentem, vel eryfipelata 5;] non igitur crudus fanguis ille dici
poteft. Vbi vero fangi iis ifte'influxerit in partem inflam- mandam, cüm extra
venas eft tcranfiniffus; incipit caleficri, et putrefcere, tüncquecri udus ffi
citur cruditate putredinali fenfim veró à calore: natu rali cum €o,qui prater
naturam eft, pugnate incipit Conco qui,& ex rubro fit albus; u nde dl...
oritur pus. Hancautem d
li(tinéctionem elicimus cx fonte Medicinz Gal.1. Proezoff. Cor. ult. ub
reddensr ationem,quomoc do fiantin flammatio nes,dicit,fansuinem,vel humorem
non nutr 1e1 tem fanguim mixtum, priufquàm influ xerit 1 cridumappellar non
pofle :nam tum p rimün tántum incipit alterat1, et à fia natvrà in al leni
peumut AT1,c üminfluxer It; nam fa nouis excidés propriis vafis, in priftinam
naturam revertere non poteft. fed putrefcit;& mox in pus vertitur, et
proprer obftructionem ili calor prarernatu- ram accedit; et immutat;càdem de
cansa a. de pat " part.c. Fexvfipelata ! LS preter nituram ex 1 turam
fieri dicebar,quód ad retentionem obftrn |éto fequatur;híncque cal rfequatur
przter na- turam, qui ulibsieni orfutmp It ; ex quibus hi- jyuftmodi affectiones
producuntür ; ut I calidà ^ )| propte er dictas caufas, M" vtr lereddità 1
cryfi- pelata generantur; et qui priis male ol nsnon jberat; factida tandem
redditur : de ACHT. 44. Quà p (npp fitione etn CItur,t itin quib icumque infià-
i: 1 A i mationibus à biliofo ve hiceatàbinitio pur ] 1 é » ^ 1* ^ yedi2
sgare,quia humor non eft crudüs ; et proptereà non comprehenditur fib Ar Sh
rifmo 1llo 25. t. DIOIIl " Section: b 077C( oCcta "eaicarz ó)CYUda
verà nan i 9/70 vere oporter, quia bilis in prin cipit ipflan nmatio«nis non
eft Mone Ab initio ver« ) pure $. -cj E. Telle in ervfinelare «| hovenos "
nto 1 winteiii9go 1n Ccrynrpceiate, nerpete', et ca teris InI
flammationibus,& fimilibus;ubi minimum eft, f E - xit; plurimum veró;auod
influxutum apett; ut influxuri humoris pars mat r repcllendo Biitic titt fi
multura inttuxiffet; p lus peri-, pue ex "à bhai armaco pbtean eretur;ob
influ- nateriam, quàm commodi propter fluxt- td r Lili dgrams;utdocuirl [tp] ).
4. AUCH. 2:2 i 1.€111 convenit materiam defluxam detrahere ; quód pro materià
noxià bona evacuetur,;vires debili- tentur,& in morbumadducatur. Quibus
pofi- tis,facillimum erit intelligere, cur in plevriride abinitio purget, 2.
2C. 11. et cur in angina 4. ac4t. 30. quia bilisin principio fluxionis non eft cruda.
Át44.4- 4cut.in lotio craffo, et nebulo- fo puzgat,quia jam«rat cocta materia.
1, vero de Crif. 17.càm craffum louum cruditaus fignum dicir;intelligit de
craffo,& turbido . Qnód ve- IO 4. 4CHf. 64. quintà die purgarit, crudo mor-
bo.optimé fecit, quod ex hiftorià conftat, fuiffe turgentem. Galeni etiam loci
illi reeulz non. refragantur: nam quod de peftilenuali dicit 1. de differentiis
feb.4-nihil eft; preterquàm enim; quód in peftemajori ex parte materia turget
undequaque mota,;nullum przfigens fibi locum determinatum;dico etiam,vere
crudam non cf- fe,ut aliàs docebimus: cruditas enim coctionem (üpponit ; atin
pefte majoriex parte eó corru- ptionis materia devenit, ut corrigi, concoqu ive
1 ^ nequeat;de quà putredine locutus eft 2. Z4pbor..].i 17. lib. adver[us
Iulia. cap.6.Galenus,quamesy. nonnifi evacuauone tolli pofle docuit. Aucto-]..
à . X " IR - » ritatesali: feré omnes funraut de biliofo fan- euine, in
principlo inflammaticnum, aut ervíipelatis affluente,quem ab initio purgari
poffe», jam docuimus, quód adhuc crudus non fit aut à * ^A A l4 ' de materià
alià, que nullo modo cruda dici po- reft,quód non computruerit . in w/o 49.
Cave ctiam, ne inter lenientia, potiffimtj rs inbiliofis naturis, et febribus,
tum veró maxi- mein acutis veris mc js IS,fV FI im rcf. folitivi- zer Je2i6n
recenfcas, qnodà rlcrifque Medicis factum viz:ria n3 ca- dec; cum enun
obfervasx IutivMus $vcrim fe penumeró, aut. z,"era- fimplicem, aut ex fer
idis ]: he mi tumtantam. 45/4 :m - » y fo 1 z bumcrüm copiam evacu: 'abtam vix inte-
"t" f ves i ! ( 5 1 j." ftina;m CIaralCz vene «X ventrici luscap
ere £i-. 4o! [f L N ow 2419212 d mul pofic nt.femper fum arbitratus ; ab
nniver- CHO fo corpore ; et venis majoribus humores attra- . 4 hcre. 59894 evi
et $0. INc 'n negaverm tamen,in aliis febribus, $4 AN * [T1 ul »inteítinls, é p
rimis VC- ?A€ 287 niscrud. fun hi mcrum cop1a fubfit, quód al- quando ia t1.:5
vires fuas exícrere nequeat.ta mquàm abfter PA liS.. í«11..m za f Léntum,anel
rcf.foclutivum in. Lai lí CULICIH 1 (fc. da . NS .* $1. In fcri lacüs ufu: i uz
eP rM plis modo feparetur aquofa hzc lactis fubftantia à bunt es reliquis.
Modus enim, quo paff: m no firi utun-^ Jndkan QM Oo ET,Ut CC cl I3 f Da
l'éntur,.ut facili icr eft, ita mi. Bo. weit nus falibrr :; rzftat enimfeparare
ut Diofc.do-. "7 * CCt; Ib. 2. Cp. 276. quod fit ducbns modis : Pri- mo,
fi dec qu: tur lac donec effervefcat, dimo vcatürq; ramis ficuli iium S,&
Ubi bis,aut ter defer e bcerit;confpereati r oxymelite, pro fingulà he mina,quz
eftoctovuncarum;cyathum illius im- « aH^u/ esL mifcend: id eft, fefquiuir ciam
. Secundo modo, r4 a1t; ferum feparari, fi ei cffervefcentiimm erga- tur vas
argenteum aqua frigidà »lenum. Idem. docet Gal.4.zcut. 7.& Orlbaf.1. E
ypor:[toz, cap. 9. Sed multó diligéuus Accius 4b. 1. Quat.Serg. - e RÀ ^ m S4.
2: €. 96. qui tef it efférvefcat, et ter defervefcat vafculo aquz frieidz pleno
voluit;mox oxyme lite, vel mulsà afpereendum,& percolandum effe,quod etiam
docuit Paulus lib. I.CAp. 99. 52. In ejufdem feri affumendi quantitate» B seriladis
cautio maxima efto,aut enim fv mitur ad univer Wni^;; ritas Perbiriasquo fum
corpus exp ru E et tunc maxima il- me lius quantitas hauriend: xeft,fic fecit
Hipp. 48y.770de con EL act. 29. dbi cotylas isad minus duodecim propinandas
voluit, que tunt centum 2: cé&o uncim ; "* quód fi valide fif on
'es,etiam ad fexdecim pet - venire pofle;id eft, cétum quadraginta quatuot
iasyfcribit;fic enim interpretabatur Gal. lib. iovorvas ex. dlc [adubri Díata,
» Ap 28. ubi Copeium. poticnis e Tiles am) fimilis propináffi t fcribit ; id
eft, centum et octo a pec uncias M ÆEEA 1 ad ventr pue «m,& inteftinao 44
velim abftereenda ; evacuanda bibatvr fe erum, ea» £Mroevex Viii is fue quz
tradita eft A Diotc.z5. I. ct eh CA]. 276. nempe qu inque heming. Heminam Pvgon
enim prius hauriendam fcribit, iens deam- bulandum,rvrsus aliam bibendam ;
iterum de- N eLambulandum;ufque ad quinque. -Hánt (equi- Mace ace gnaviow tur
Oribaf. r. Evpori[foz ; cap. 9. addens, hanc ef o jen quantitatem T pos
deratam. tam Ætius 1r. Quat. Ser. 2. cap. 96. Paulus lib. 1. Cap. 43* tradit
(xa quantitatem dide em tenden remad Ihuc parcio- 4C Tem, tresaut quatuor
henunas trà .dens; ps Ic ex- -- plicans cap. 89.etate vieentibus,triginta fex
un- cias;junioribus folum decem et c&to, id cf,Ca- v/evam pyo tylas quat
ER: t duasconcedens. Aliquando nafta ww :atite m fero lactis utimur, tamquam
materia i in£e ^ fufio ini5 $; fufionis, aut maceraàtionis, tunc multó minot
jl. lius « pla f fufhiciet: et fic Mefüe lib. 2 : Cap. 9.à fex unciis ad
duodecim concedit. Neque objiciat else fn à quifpiam Gal. a. act. 7.
aflerentrem,ferum inte- 777 ftina a folum fübire, illàque evacvare;qvod repu-
enare 1]! videtur, quo ;d primo dicebamus, ad unck is Cent!m et octo dariab Hip
P. 4- 4€ut. 29. "T ad univerfum corpus expureandum. Cum ew - menipfe
tantam quantitatem non pr obaret ; 1, conftat ex locis propofitis,cüm folüm
inteftinao evacuare fcribit, de moderatà alià intelligenLedicus, n declinatione
febrium Purgap- puturidarnm femper medicamento purgante» 45 55 natcria2,qua me
se m facie bat,Cvacuationcin femper 17. acere ; quamvis enim fzpe
hocneceffarium fit, febris nequerelin quuntur irs Mi ir 2. "Apbor.
declinatio 12.Ía pc tamen in * udiciis naturz nihil relinqui-: 7e: tur: iun À
dotar indo, eciamfi nulla crifis fa- : 5 iir: (A12. . cta fit,aut recta victüs
ratione; et debità abftinen /| tà aut infenfibili per habitum corporis factà
evacuatione, aut paulatim er c]yfteres cadem. martcrià evacuata, ^ evacuare1n
fine medicamen per (] to tentaremus, colliquatis humoribus bonis; et / carnibus,
et fpiritibus cxagitatis, ac excálefa- CLis; nribuqu c deftruciüs ; agrum
præcipitem. aceremusin mortem. fai JA 2. ndoigit r cognofcem lus, pureandü pz,
(fe corpus in ü e 1 fcb ris? Docuitid Pip poc. 2. quado i ad pbor.8.ci cit u8z
quis a morbo cibum « Jj" Wes declinatio non corrobor, ng ^ ium g [locorpus
pleaoriuti ili: ge feria : "L2 / 24 EP putridge mento. Quod fi nec
capienti id cóptingat,vacuá- sm. tionetumopuseffe procerto habendvm. Vbi ^
sdàome Gal.dicitintelliecre;fi i:bum multum afiumat, é&cumappetenta;que
fiadfit;non poteft abun- dare pravis humoribus relictis:sicque non indigebit
evacuatione;fi mültum cibum,& cumap- ; petentià affumpfcrit; et
corrobcretur: fi veró nó n ge- multum cibutn fumens non córroboretur, indi-
raarua i eec evacuatione. Animádvérténdum tamen. ! 2tela . corporis hanc
confirmationem non ftátim coenofci, fed trium, aut quatuof dicrem fpatio poft
quos dies, nifi fequatur et apperentia, et Co£toboratio,evacuationé per
medicamentum. . purgari utendum eft. Purgate $$. Animadvertendum
tamen,pureaticnem diinibfa iam et ftatum morbi intermedio illo tempore» delin*
(ypponere,& apparcre fiena cocticnis perfecte t9 ^ Yn ufina:fit enim
quandoq; ur ceffante febre pér 2 diemwunum,autalterum, febris ante quartz m» .
fedeat; nion quód non défierit ex ratione conco- &à materià, quod quandoque
fit étiam per ccto fe cde, . 165 ; neqve tamencrmunatus m. rbus dici po- 4. eb
. teft; quia adhuc cruda eft materia : et 1n eo caftü FI ficn eft in éofpatio
pureandum, qnia nec cocta eft materia;néc feparata mala ab uüili;tenc enim et
totmmina,& vertieinés produceret evacuatios colliquatis carnibus, et
fpiriiibus evacuatis. 2. "Apbor. 3 $.«& 36. Vnde n intermiffione hac
fal- (flo fn. - sà putantes aliqui Medicieffe verám declinatio T bem, poftcoctionem
materi factam evacuan- tes, corum interimunt. $6. In In iis, qui durà admodum
fint alvo, aut crafsifque multüm füccispotiffimüm in Ventricu ulo, et
inteftinis ies ne medicamentum veré purgans concedatur, quin priüs clyfma ve-
Ípere injectum fit;ut facil liüs fübducat ; et dclo- res non pariaG;,exitumque
per inferna ncn inve: nientes humores, et medicamentum, ad ventris cclum
regrrgitent ; quod docuit Ruffus apud Oribaf. 6.Colle£t. 26. Criucis
diebus;qvarto, feptimo, vndeci- mo, decimoquarto, vieefimo, fi nihil anté judi-
catum fuerit ; re di bitet Medicvsavt purgare, f6. viícid lis avtíonevinem
mittere:critici enim tunc ii dicen dl ncn fi nt Tj LM : ind1Caterio die
menftratum fit, naturam cl |facturamsnectair en faciat.levi- bus remedii,
QqUæctian In mant noí ftrà eft f :b- trahere, manusadqutrices porrigere eàdem
die euam poterimus. $9. Cavetamen, nein deficiénte natvrl in, materie motu per
alvum id facias, ne major qvam fitfiatevac uatio;fi auxilium medicamen- ti
tencadjoneas, cüm femel hauftum pharma- cum revocari nequeat;nec illud amovere
liceat: natur& enim 1$ eft mos, ut aliquando cunctetur aggredi
evacuationem,& aliquando cunétanter moveat,mox ren validéalvum excludat.
Quare poftridie potiüs erit pbarmaco utendu m,quo manv sqnaf adjutrices fatifcenti
naturz porri- garus ut quod reftibile eft à crifi imperfectà exclu iens k . Quid 3-; [ T 4; y Clyeseps
indédum fp? in al- "Uo daro» ante pnr- gationem. de Crincás d b. qua do
purgan nU . Crifi defe Ciente S
240m edo proceden- dum. Cif die Critica di- ficiéteyea- dé die zii- [il fnovesn
dum . $8 LED. SEPT ALII MEDIOL. 8ymptema |. 60 Quid fi natura ate codionem fy
mpto- sic zatu- MOS LIGE evacuauonem molitur? Die ud k intut ya obtran. hic Medici
docáffimi. Ego fic fenuc:fi fiat pet quid loca naturz diffentientia; omnino co
hib endams Medo cum Gal. 1. "Aphor. 21. At fi per co nfentanea. fe- Pref
adé* eatur, cohiberi non debere:nam.fallit interauni e *« : quz mala videri
poterat» bene : iiquando ce- ge dit.4. zdpbor.47. utin Metone cótigit, r.
Epraczz- Sect. 3 X unde fi cohiberetur, pravi humores co- pi, vcl qualitate
ftimulantes, qui evacuantUr » ad partem aliquam. princip em calamitcsé rapi
poffent. Et licet et cruditatis,& multitudinis ; et pravitatis hec e
vacuatio fit argumentum., et fienum malum;rauocne tamen cavufe bonum eft, vel
minus malum: nam minüs malim cft,humo res educi.quàm p principem partem ferri,
S1in otio quicfcerenti 1i fu cci, przfta ret eos ncn ex- cerni,fed cum pra viadeó
fint, ut partes irritents praftat eos exclud i. Symptoma &1. Cautio tamen
adhibenda, quód licet ta- lici natu- Æm evacuationem non convenia t cohi ibere,
mi- va operan- nimé tamenà Medico eft valde juvanda, cin, 16, cant? fiatà
naturà non omnino bene agente, etiamfi agetdum. fucrit diminuta. Imó ubi
diutius perfeverave- rirtalis evacvatio, et vires profternat, omnino erit
cohibendas. giu AM. wf Ll p C 4 Animadverfionum, et Cautionum Me- dicarum, S,
Continens eas, Ova in [angunis miffione obventunt : faneuinis evacuatione per
fe. can quinis tam venam, licet illi d fit obfer- miffioni andum, ut
ventriculo, et venis ao» séber mefcnteri] crrdis humoribus, premitten
excrementis IC| letis ; DOhnL 4a alvi le pni I hr t; quàm ea
abftereentealiquo,aut le- 7t? niente fLbducantur: cavendum tamei ne.fimor
Ibusita ureeat, ut mortis periculum immineat, Mid faciamus : ehe enim miffione
fanguinis 1]li Joccurrendum eft;ut in anginà,& vehementi ali- quà
inflammatione, et febre : meliüs enim eft, 5 mmunenrem mortem pravertere cum
aliquo i damno, quàm czerotantem à morbo op pprimi fi- nere; pouftimum cum
Jevioribus iis noxis non, ditfioo difficili negotio occurrere poffinus,
Sovguime 2. In faneuine detrahendo cavendum maxi- ilo mi- mé,ne quanto putrior
em,& deterioris condi- er ditas tionis fanguinem é vena p rofluere
viderimus, "uanti'4s tanto majorem quanttatein effluere finamus ; e»4c422-
quod plurimos facere obíetvanuis : tali enim. jo$ exiftente fà inguine, et
pauci tores 1 fubetfe fpiritus VM i£, et vires facilltme folent collabafcere.
Coloris $n .. Coloris in fanguine, qui evacuatur, mutaf ^. gnune dios qua in
evacuatione revult fivà; potiffimum in muttio ? internis Inflammationibus fp
ectatur,,non fit ter- [1^ minus,& menfura quantitatis. detrahendz;nam
[22027755 in febribus fepe primus fanguis;qui detrahitur, ruber eft,mox
niger;atit [acidus;cujus mutauo- nem fi quis exfpectare voluerit, pracipitemr-
Cols, &grumagetin mortem. TY Puworb Quin nec in 1inflammationibus internis
fanmuine iuidén perpetuo ilfa col oris mutatio exfpectan ia inflam da eft vaut
enim vix à parte, et circumfufis ob pittionib. craffitiem quandoque extrahitur
; aut fané tan- on etiam tà. illius eft copia, ut, fi cole ris mütationemo
exfpectan exfpectare voluerimus, vires o mnino fimus de- da. jecturi. Colois
i^^ «, Mfutatio hieccoloris ab Hipp. 2. aca. to. ioi tradita intellieatur; fi
prinium albidicrilleflu- aii ite xerit, mox purpurafcat ; vel cuim primüm pur-
lirenda, PUfeus exierit poft livefcens fundatur ; tunc Colori; ji; €nim
fupprimendus eft, modo dicto. fanguine 6. Hocautém fervandum erit; vbi vena
pro- aziutatioi xima eft affecto loco ; alioqui fi in alns cafibvs reviilfrone
Aaflamminationum 1dem quisæcre vellet, ni- inia séper f, AP ex[becian da 4 ac
Bed Lyc tios æt RN. ..... gr Ræ eros J| mia foret evacuatio,antequàm fanguisà
phlee- /gizqua, I moneabduceretur. - "am cxfpe 7. Inanginà tamen, et
hepatis inflammatio- 474a. ne, copiof fiü: s fanguinem extrahere potetimus, I»
agma quàm 1n plevri tide, et pulmonià ; Guód 1n 11li maxime et evacuate, et revellereopus
fit; in hi le I vcro preterc A od reliquum eft,vbi füppuratü "bos
Mfuerit,excreti^ne UTI ERIE E ones olt Jetfi onvs fit anim dlis pie UT lbeallà
exiftenre, cenftareillanon p teft ; quàm im S. ni pueris fecto venaz, qua
evacvandi offi- alis, c cium folum adimplet,utrariüs In ufi fumes de- eur.
Ibect;ob eas,quas Galenus,& fequaces c is C bepatis /j lamta- ATIS Quis
CUAien 1m- Ccuart! fàt, usaddu- P»er's et xerunt caufas;non tamen adeo perpetua
hzcre- !*væuauo Mv J : T J " ora eula ette debet; quin alicus rdi ante
decimum- 7^ r4 "t1T11153 313244 E LI ^ (n ome e ^ At^ an-- quarium annum
hoc remedium prafcribi pof- q dosis D. 2 2um atuar fit ; et debeat: tum quód pu
bertas fepé tern Inü j ; 4 s (2223: C12 all: m pra veniat;potiffimüm in mulieribi
s;tum P dd : à : : 2472 fca quod multos folidicris habitüs, et VIgOFISantÉ,,
porofi : e dM deci blu. 1 t "m pus c« nfpiciamus ; tum quód a aliquos
tanta fai nguinls COpJà rcfertos np "T L] cbfervemus in. acutiffimos
morbos incid Cre, quorum plenitu- bdinem, n1fi fectà venà ftatim (olvanmius
certum Jimortis impendere peria Tt cimus. Vnde» lI tPpenumeró natura 1
przveniens (quam omnino Jibene operantem imitari debet M edicus) copio- ("
ia pcr nares Mon Rao pun (ubitó m Wbos-Ruz jufm odif5lvit. Et euai nvis huic
fententiz re- fracari vic ide atur Galenus,cum tamen Cornelius ICclf fus,
Mauritani féré omnes, Hifpani.& Galli "Melerique, et ex Italis quàm ;
lürimi in hanc., de1*9 o VvAlilils ei Lvenerint fententiam;his affentiri potius
plævia atque experi entis pftopemodum in finitis; fpa- no quadraginta
annorum,quo in nuign àhac vr- be,& in magno hoc UG. Va igi 'udinario medi-
Fund excrcui, firmare p lum. 9. Quód fi de fanguinis mitlione per fectam.;
Patris P? «cnam loquamur,qua revulforia. eft,qualis ett ure qua adminiftr: atur
pro internis UE umatoni- femi om bus curandis ab initio,quales fü nt2
incina,phre- nitis,plevrits, peripnevmo )nlà; hepatis inflam- matio,omnino in
pueris ante quart Hunac cimum evacuari angnis pacctam venam j rit,.cüm X
ftatim, nifi xetr i atur f: antes ju verde cümimp dry dee eire in tT: dixe
vcríq; nequeat; neq; ex tra ifpiratione per mol- lem, tranfpirabilémq; habitum
fperari pofbig materiam retrahi pofle e,etiamfi concedatur, per meabilem illum
habitum evacuatonis vices füpplere pofle ; revulfivum n tamen numquam. confütui
; otcrit veré reme di uim. ro. Preftattamen in pueris a d fextum annu festen-
hirudinibus vena: perta fu guinem extrahere; à o 3 à x E 2 " 1 f sdi aan
VAL zum pre cuin enin uíc q; ad ieptimmnim annum ob excei- &at bira- fun
humiditaus,vena;arteri |DCrvus ferc fimul dizib4sconglobata png »ericulum
fübeft;neloco vena, fanguine aut fi: nul cum € À nervus aut arteria pertunda-
goacaitar e, " 1 "o 2 Rudd s rud PUcPT tuf. Qu Ó d fi eagam manie Íte
1€ exfera sl 1inCccoe9 CAY AU d. Ee ud : : "i là pertundatur quidet nfed
amplum potius,qua profundum vulnus fiat. i Dm næ vore oer eve Tempore Ir. feb
ribu S, fi tc tipo mittendi langute-4 anittezdi l jOI puce cnni, IFhoides
fluant, quamvis doctiffimi aliqui viri IFenfeant.non priüs quippiam à M edico
effe mo- E ddun: quàm evacuationcs illz defierint, etiam I fint im erfeéi 4 qi
"Y nefciamus quantum. o IWelit natura evacuare, et cüm imperfeáé ali-
Inuando 1n principio: igat, verfus finem autem. [uüppleat ; unde fi
evacuaremus; periculum im- minerét, neex exceffu vires deficerent : cenfen-
Irium tamen,melhis effe; cum verfus rid vide- mus naturam deficere ; manus
adjutrices porri- Ibere,ut ex conjunctis natura, « Mcdici. actioni|bus,
facilius evacnemus quantum opus eft ; fic Nf ] AY. 31351 14 363 9913343533,
Enim Méetoni aimiftivte fanevinem narium eva- I. 1t] l tX v"3 H1 Loel-4 4
( e« Ct 3. CAD. 24. F5 ( ] €C4K ] er11111 EX acu1 2 0, i ( O. 1)77 Sect. 2 vC.
: ^ 3 3 " 1 n " exeuntem humorem unà,dicebat.debere Me- r I l £21 ptt
n ei CIC3quod etiam « .In Coma, x pitCcabat, Id eft, dum imperfecte natura ope
] i "v^ d / "t 1 " l'atur:;non autem dicit.pefft. Sc quod
omnetmo Fall l4 ("n.f ! L FOI11C difiiculit: tcn, Asa . js. ! Ci LZ D €
Ubi nac - ! 2 1 A IDIOD ecu e Ct, quod 1n eo ca BE Lo ecorncids4 f: todminic
fecta Bit mus ilu imt! CLLIS 11 uen 1S aneulinl Ípect Dnoaus cit.Qqtm? I fatis
fore v rideb ütur,totum neectium permit- llrendum erit natura;fin minüs,tantum
Medicus IHetrahe tquantum fatis videbitur, ut ex c njun ttis ambo bis tanta
flat evacu atio, quanta pro Tbvincendo " it neceft ria. Vbi duo funt, bx
quibus facili : coll Ieitui rnc life esf ectare.» incm motüs n2 ture,edamfi
nperféctus fit.Pri- Inum.quoniam dict /; rir Fal vide "Dh quod hon
ceflatum motum oftendit, fed dum in motu eít; DE ( o I! aunnf, f! men, fnere r
" gtrit;j pt I C€UACitiaat an i a adeft A£ 001H$ o Grecibt. f Zdo Í ed ie
cce Id E £hr 4A ( át ZT« TT €t c RUP ÆRE mulium yum (lac e iu, 1f, 2901/8 d M
P^ £ 9)4 LFD. SEPT ALII -MEDIOL. eft, conjectándum effe ex impetu, an fv
fficiens futura fitilla evacuatio: Secundum, qucpnic m» fruftra "x impetu
1d con jectari doceret, fufhice- rct nien ceffato motu videre, an adhuc et mcr-
s magnus effet, f. ngrin isfubeffecabundan tia; MÁDS n: valétes: cüm autem imp
eium fiuen tis fanguinis sfpcétandum Jufl trit; id non alià de causa à faciédum
volvit, qu àmut ex impetu con- jectari poffimus;an fi ffeQ ura fit hujuf modi
na turalis evacuatio;ut, fi fuffectura fit; pi yen pater ono cemimpetu effluat,
totum negotium nàtu- ra relinquam us;fi veró lenté& guttatim, ante- quàm-c
'cfinat manus ad jutrices porrigete va- leamus; ü rutrifque con) junctis»ofhi
mus tantum evacvare, aranrtumopus fit; ai à diligentià ad- hibità,ea e"
cjemus p rericulayqu eadcó vercban IUur;q" ] contfa fent dunt. r2. In finevinis
metiendà quantitate ex babitu corporis eracili, cartio mæna adhibencai
eft,atque diligenter confideran dvn |,ànànatt- à eracilitztem nac ttus fit,an à
confi Danis: l- u. me rbove.2.de Temper Tibe im avt obo. vichüs parfimoniam, ap
iml curas, au it fimiliass4l quia verifimile eft parum fanguinis ip venis CCn-»
tineri, minor extrah1 d teb jet euantitas. In 11s ve-4 rÓ Qui ales ft ntnaturà,
quia fieri pcteft, vt et liberaliori victu ufi fuerint; et pf ptercà fa neut ne
abundent, plus detrahi poterit. 1.42 6 luc eft à do^ i fincHbs . Idemin craffis
animadvertendum:Difan] Oi ridi culi erunt carnofi à pinguibus ; in car: nofis;
«à G lau 14. cu iix inftituto video multos Medicos rra: exrare, plus fanguinis
in iis detrahentes, qui la- Msi s: boriofas artes exercenr, utin
fcfloribus,& fimi- i libus,quàm in iis; qui in artibus fedentariis tcti bes
da fun ntque iin illis plusinfit fanguinis; viribüfc jue ^^ 'aleant;n llispi
iritus, et fanguinem exhauriri:róbur ve- in folidiori fu prà repofitum effe, et
ex quoudianoalimento fuppeditari, cim alioqui VCDa n n multo faneu Inc rei erta
fi lO px Ot1u« CAM períectan 1 I aiiquan l CUla C1 Cuerit (x; M X6.fi terti i
nCccei (li 3 int L ftabit bis facere duo bus diebu: 1 Áni /* «u€;,inrev 1 NJ IM
Al an repetitam fanguinis ternos cgi M f f lV cna In Oeadem d 11^? T5 th:
A&IkLIOLLhD tasm ittci P^ madvertendum, pra MEMRUSol P. ue - de curaa. vat.
per [aug. sail] .cap-21.fi repetitio fiat ulfk OnlsS, ] «ütterendam. fe 1 d
Quód f acta fit,interpoínto d1ein DNEERS. XAB.JXr. of nofis,quia plüs
fanguineabu: ndantp lus fangui7 nis deu ihi pe 'terit;contrà in pinguibus. Gal
' 13 "i nt Lt1lO «ile, noir Lh Iib. .dátc £14 YaHnád VaL. i £1 T» iq.
nmt]. Cap. io mplex fuerit, Urgeat veró ían« termiffionis fieri poterit feprem
horarnm. fpati )( Peine, in terrium differri pc teft.In quart I6. [^ evac
aticnis gratidorer etenda n potiüs cadcm. ; B » h.n n ER Is DA d 3/2 ) : ^ I*t*
bins [27, CH» (d Qf41 1 te$ Lac ^ ani ) làdv ertrentes, etiam in itridis
febribus Curadis » £471 Saliqu indo Icquenzi, ahüs pet terpofito, faciendam do-
"à o Ulnls, biscadem die inpatio uentecm à hem etla Im 'CIcr- i 1 du-
joris invafionis, Iürtana veró pra- intermiflionis, ^47" 7 MED Po) rl
auralterum efle, 2a. E I7. Cave Miffwnis fangumss vevulfrua sepetttio quádo £a-
denm die Pace uud jácienaa . In cruris dextri in- ; f. amma pone qua pena fece
da pro »&- sulfione qai y ETNUNA A "HET jan 9€AUTIS t ks É 2A04 tt[que
dei: Cave tamen;ne in pracipiti morbo revul fionem ex pofcente id ferves; cüm
enim affiuxus fiat vehemens, utin effufione fanguinis per na- res,aut
uterom;,aut hemorrhoides;autin inflam. matione gutturis, hepatis ; pilmonum,
nifi eà- dem die fiat; fruftra fequenti die id tentabimus ; quód cum fanguine
anima fit effufa;aut füffoca- tio có pervenerit;ut nulla amplius fübfit fpes fa
lutis. 13. Cümin revul(ione perfectam venam fa- Gà, et rectitudo
obfervetur,& venarum confen- fus,unde laborante inflammatione crvre dextro
nunc fecandam jecorariam dextri brachii ; nune faphenam internam cruris
finiftr1 pracipiebat Galenus . Hac diftinctione in harü alterutrà feE ^ ; L
lisendà ego utendum cenfeo ; fi ex interna catt» o6 à, calido fanguine
affluente, fiatinflammatio 5 feccanda omnino erit vena jecoraria dextri bra
chii; ficenim verfus originem, et fontem retra hemus fanguinem.fervatà
rectitudine, et à cor- pore extrahemus. At fi externa aliqua caufas
puta;vulnus;contufio,aut quid fmule inflamma tionem pepcrerit, przftabitex
crure fanguin mittere, ut fanguis, qui ex vicinis ad partem laLi borantem
affivit,faciliüs per venarum commue- p, nicationem et revellatur, et
evacuettur. Cüm fanguinis miffionem ad anim ufq; deliquium concedat Gal.2 5. 1.
Z4pbor. in arden- riflimis febribus,;maximis inflammationibus;& Inorbi a
sadimittédum efle hoc zenusau nifefte vehementiffimis doólotibus, nonnifi in
extremiss| xilii,ma-4 em. pi JNTM. ADVERS. . nifefté oftendit. Verüm cümad
illud exfequen- ro ja sa dum tot requirantur etiam conditiones,nem- ducendz, pe
ut adfit.atas juvenilis ; temperamentum. «$4 qtsi- calidum et humidum; regio
temperata, cor- às» et pus faniguinis miffiom affuetum, anni tempus. &^r*
temperatum; quas vix in unoxX eodem corpore reperiri poffe conftat;cavebit
juvenis Medicus ; fanguinis miffionem ad animi ufque deliquium aceredi, fed eam
perias Medicis; et plurimüns inarte verfatis relinquat;quia, cüm vix tot con-
ditiones in uno concurránt;& fiin. uno repérian- tur ; vix cognofci
poflint, potiffimum à juniori ; necdum multüm inarte exercitato, przftabit il-
]am omittere, et maturiori judicio relinquere . Non femperante fectionem venz
lenien- $474 Vena om da eft alvus; vel leniente medicamento, vélcly- 5 «Sn
ftere; fed ubi crudorum humorum colluviem in i aput |! ventriculo, et venis
mefenterij adeffe coznove- rimüs;aut ex praterità victüs ratione, velex co-
lore linguz, vel ex &ravitate partium illarum. jp juxta ea; qua tradita
funt à Gal. 4. de ?wzd.fa- aut. c. $.ócanté ab Hipp.4.zenr. r16.ubi dicit; $i
Wfecanda eff venas C al'vus fluat, prius effe adferin- E oim. At ft ad [tr
il/esihiol serere gal a fol- || vendam ;,nefczlicet inanitz venz crudos humo-
Morzo £y 165, aut etiam corruptos ab illis locis fugant; ac præcipiti
attrahant. fanguis 2r. Infebribus putridis,in quibus diturindu mici de tcn,
ptzmitti, ubiadfi int crudi illi humores; aut bep ante p putridi in primis veni
s, clvfteres debét;aut lenié 4!vi e*t daalvum:atin przcipitimorbosà
fluxionefan- !/* G
culnis beat facit inAnitto e "mas J*enis bua €bit in fe- viendis, qua cau-
iones ad- Libenda. Catutiones £2 mitten do faugut 2e alia,à quibus pe tenda
euinis facto,vená prius fecato;nó alvü emollíase 22. Caterüm; omnibusin
pertundendisina brachio venis hzc adfit cautio, utbafilica feria-
tur,poftquàmfe;junxerit cephalicz infrà eundo per digiti latitudinem ;
cephalica: contrà fuprà per diciti latitudinem ;'nam corporum fectio id doce:
nam maximis nervus qui ex cervice in- ter primam coftam;& claviculam permeans;toto
brachio fertur, bafilicz? fübeft eo loco,'quo ferit digiti latitudo furtim
eundo ; fi confocia- tioni bafilicz ;& cephalice imponatur :? tunc fi
digitkálterà latitudtinead axillas abieris,eo loco fuperd áreditur bafilica eum
nervum, dumnem- pe curfu fim ad cephalicá fl etit; ibi pericu- ium. Quod/fi
infrà pergas;in altum fe abditnervus. INecetia tutó in ipfa cójunctione
vtriufque |.vene fit (ectioscui plerumg; validiffimi tendines fabfunt;
cephalica auté fuperius, ut dictum eft; erit ferienda; nam ibiab. arterià, qus
ei vicitia eft; longus abeft ; nec quidquá periculi habet. QE» Plures fi quis
in fanguinis miffione,& ve-^1 nà fecandà expofcat cantiones, et
animadverfio- nes; Avic.legat 1.4. cap. 20. fed potiffimum .Nicolum Florentini
» Sermone 2.T vati. v. Summa 2.Capi 1.17.0 tn ' 18. et recentiores, qui
defangui-à nis miffione per íectam venam ex: profetfo fcri- [e píerunr. Dum
enimregulas quafdam ad hane:[^ materiam pertinétes tradunt, cautiones
pleras--|*& que attingunt, quas,neactumagamus;in prz. nm fentià
pratermittendas cenfemus, potiffimum, p cüminanimadverfionibus circa febres, et
raor-- pa bos particulares. quàm. plurimasad-hoe. nego- tum fpectantes infrà
fimus propofituksi. 24. Incucurbitularum ufu, frlocus fcarifican Cucurbi- dus
fit, nop adeó multo igneopuseft; nam prz- r4; pA 77 terquam quód fepenumeró
vefice. in cuuculà fzarifca- elevantur aqnà plenasqua fcatificationem cutis
tiene,sffi- intcgrz impediüt;attractum ét fanguinem adeó gaztnr ez condenfant,
ut mirum non fit, fi incisà cute fàn- £44ce d guis non effluat, potiffimü fi
diutiis adhxreant. £7*» et 25. Infcarificandà füb-cucurbitulis cute ad
Scarifica- evacuandum fanguinem,.non eodem modo fem- " quado per incidenda
eft cutis: nam in cute fuübtili et al- profunda, bà,intenul fanguine et bilicfo
non profundis ;; quan de incifuris eft utédum, fed fiper&cie tenus eft fca-
17v; f- rificandum : vbi veró in craffitm corium incide- ciezda. rimus et
nierum;crafstisque fanguis, et feculen- tus erit evacuádus,profundiüs crit cütis,&
fülz jacens caro incidenda, ne evacuationis fine fru- ftremur;cümalicqui
artifices quá plures videa- mus,qui in quovis corpore vix cuticulá tráfetit,
folümque ichorofum,tenuem, et in extrem fu- perfice confiftentem fanevinem.
extrahunt, ut Inanus 391115, et vix ferientis.nomé adipifcantur. Caveant quàm
maximé,ne diutiüs cucur Cuenré;- bitulam;carnofe potiffimum: et molli part, ad-
f4/a moa hære fipant : càm enim. vehemens fiat attra- diutitis vf ctio, et
multa carnofa fübftantia cucurbitulam., /*4 Pare ingreffa fit, adeó coarctatur,
ut fpiritbibus ncn, ^mi permeantibus pars emcriatur, et eanorzna m, "^
quin etiam fphacclum fibeat; unde maxima vi- tx pericula fequuntur. e z L VLl
arm d" je?ri- bus interznittentiZ a DAS f^ d üTHU) provo Y2yHiai$.
Qontinais febribus top 2dior evAaCttalto La Lam per lot: et à P, ,
Animadverfionum, et Cautionum Me. dicarum, Eas complectens ; Que in F ebribus
curandis ob[evvari debent . f. T vcrumeltin febribus putridis fiu- doris,&
urinz provocationem uti- lem effe ; ita in intermittentibus ; maximé autem
tertiànis, fudoris $99 ctülioremcenfemus quàm urine. [uu Nam cüm fineulis harum
acceffionibus videa- mus feréad ambitum corporis portionem ma- terim transfundi
à naturà per fudorem, motum| 4i illius imitari debemus. Oppofitumin continuis
fiat: quód in inti-0 miioribus venisineis humor putrefcat, ex qui-- Jui ., N .
- bus perlotium aptiffime ex pureatur;nifi forfani«f ferofi nimium, et tenues
humores praváleant »» Bs: et zftas cum madórefit ; tünc enim etiam fudo--E ur
fibus evacuatur . I c Alec REED F. IOr Intertianà febre verà,& ardente,
hecins Teriasis J| clyfteribus adhibeatur cautio;ut ficut molles,&
€$rden^1! refrigerantes potentià effe debent ; ita actu vix. tib»s. elj-
teporem habeant. feres ioc 4. Vtintertianà refpe&tu fui; aut materieil-
J"*e"tes lam facienus, numquam aab initio ante coctio- ^as nem eft
medicamento purgante evacuandum.; ita cüm quandoque ad ventriculum bilis acris
jh. icit transfundatur et mordens; eraviffima invehens ionem pericula,& fzpe
mor tem; po otiffimüm fi eger ad quádoque,vomendum i Ineptus natura fuerit:ut
illa preve- sargadz ; niamus,licebit purgatione uti refpectu fympto-- e quado.
matis, ut fyr.rof.folutivo ex fero vai odit " vel cui incocti fint
thamarindi ; aut et valentio- ribus, ut electuario rofato Meu, aut de fucco
rofarum ; quin inacceffione ipsà fymptorate» urgente, ant liydkelz osten; velut
vomitum adjuvemus;vel ut decrfi im ducamus;aut fané ut acerrimam illam
qualitatem à .ttemperemus . $- Vfusrh abarbari ut omnino Inter principia V fus rba-
harum febrium eft interdicendus, quód e eleétivé ^ar? (Stt purget ; quod non
licet crudà materià ; et quód cun calidum fit, «& ficcum, qualia omnia
evitaridaz, mod E ante concoctionem docebat Gal. 1. 2d Glauc. ita ad
deturbandos biliofos illos hum ores, et fyn- copen cx morfu cris
ventricult;& vehement n ma alia accidentia;in p rimis tribus, aut quatu«c
acceffionibus ante cocticnem cmnino fug len- dus : humores enim illos ferventes
ma?is exa- cuit; partem phlogofi quádam afficit; cbftrucio nes in venulis
mefaraicis poti&sadaucet, fit?cuE (GG ? (C^ et f TN s^ uci ix losofque
denique eeros redditi Inh 6. In purgatione 18 biliofis febribus molien-
febrions dà,caveat Medicuss;ne deciptatut.fiypoftafim ih pro pire». urinà
albam,;levem, et az: qualem exfpectis: cürn tione [aff epim im biliofis
affectibusfola nubes illas habes eit a". conditiones ad concoctionem
oftendendam füf- tubem es ficiat»fi exquifi aora illa figna exfpectaverit, re-
pea E e facilé occafionem prebebit, quitem^. . Inbilein eftuofiffimis iis
febribus evacos- Ya deeli- "Y licet rhabarbarum primasapud omnes Mc-
4atops; CYcosteneat;animadvertendutn tamen omnino küuA»HE CIIt, fl caloradhuc
vehemens in declinatione fibriz rba - v elin ventriculo, ve] in hepate, vel in
univerfo barbarum, Corpore, et folidis partibus relictus fit, et fitis ez pro
j3neens,quodin vehemenriffimis terrianis ali- bile. pur-- quandosfiepius in
continuis, et cavfbnecontin- ganda fu eit, preftareillonon uti ; undein illius
locom. fpium (übfirere poterimus decoctuim thamatindorü CH, . cum
fyr.ref.folütivo,& portione mannz,& fimi dibus. Rhabarbarum enim
caliditate fnà, et ficcitate;ac ieneis partibus, ut calorem peracci- deris
minuit, evacuatà calida materià ; 1ta per fe in hujufmodi corpetum condidone
"calorem, exacuit;ficcitacem adauget;ac fitim inducit:un- deaccenfis denuó
fpirinbus, denuó febies exci- tantur ; aut folidioribus magis ficcatis,
hecticte introducuntnt£, quod multi non animadverten- tes,non levem 1enominie
notam fübeunt, quod go vel declina ata; vel ceffata febris nova corüm Lione
excitetut'; GV uonedo Nujvandoautem etiam inis cafibus rhà bulbs. P wi EIS y
Würer iride case MEET c AS a0; barbaro uti placuerit, autintertianisipfisadeÓ
;j454724 || non ardentibus, ant in corporis temperie,aut e stipof-,J|
conftitutione fic catidà, et ficcà, quód praftan- //mus pro J| tiffimum
cholagoeum fit, ac maximé in biliofis purganda ;affectibusab omnibus, et à me
commendatum, ^» etis pe ts uA 1 torto ve xA $n «ff uofis potius dilutum, factà
in aquis refrigerantibus, bribus aut fero infufione,commendo,ut caliditas
illius, fei, et ficcitas retundatur. et ignez partes repriman tur ; aut ex
facchoro in fyrupum paratum cum cichoraceis,ut eft fvru pus de cichoreà cum
rha- barb.defcript. Gulielmi. Qvódfi potiones quit- piam averfetur, in. ufüm in
pulverem quic cm ducetur, fed ad mixtà caffià, ejüsve fuccoad un- ciam, facilé
enim fic ficcitas ejus retundetur,& lenez partes compefcentur. 9. Scammonil
ufüm ut in biliofis omnibus Scammo- febribus fifpe&tum habere convenit, et
non nifi ? &/vs à refracàillius caliditate mixtione aliorum me- 4 fe
Idicamentorum refrieerantium;, ut in electuario ion jr .Frofato Mefüz,& de
ficco rofaxum,& admodum po » raro ; ita in ardente febre omhino fugiendum
MM ieriet tcenfeo:hazc enim febris magls, quà quævis alia, hrefrigeranua
expofcit. Quapropter per caffiam, imannam,.fyr.rof.folutivum ex fero, violas,
tha- imarindos,fubducere hv mores peccantes conve- Imiet, vel etiam Actio
Z'errab. 2. Ser.1. cap. 78. lid perfuadente. 10. Poft blanda hac medicamenta
;Optimé. s/74; "T, Ifaadet Avic. dormirealiquantulum ; cm enlm. furis.
lletiam alimentofam habeant facultatem;etiamfi medica- iportio aliqua in
alimentum vertatur, refrigcra- mentis, pa G 4 bit, t f - v/ B AA. Caufone
laborante T Psrgato » J&€ € : (asi ardentierum la- ePi opti- 222473 «
Sacchart vofati ti- f5 » post pegato- zem in Qogadl 915 » ion qrebádus. Ju fbre
9» gerttana eti mter e» [onis eie,vtilus à Gal. c^ alüs infi 11445, «- bud
noftra zes pericu- lofuts " xo4 bit; neque tamen evacuatio impedietur ;
natura ;| 1^ per fomnum refocillatà... 11. À purgato in caufone humore ;
fi.quis la--| 0^ ctis ferum ad frigidum alteratü per duosstrésve:| i dies
fümpferit;vel lacafinz;illi maxime confül--| iu tum cenferem:humedctat enim, et
refrigerat corr] d pus; fitim extinguit, atque fi forté hectica ince10
perit;omnino eam reprimit. NI 12. Vndeetiam non adeó probanda eft pra] ui
&icantium confuetudo, altero à purgatione diez] fem per faccharum rof. ex
aliquà aqua refrige uiti rante concedentium, ut calor, ficcitásque v1 ex-- tu purgantis
medicamenti facta, et ex febre reli-4 it &a et fitiscompefcatur ; càm
experientiffimuss ux Rhafis, 3. T rat. contin. 27. eos, qui calorem, &q qu
ardorem in ventriculo patiuntur;illud comede-4 it renullo modo debere
teftetur,& maximé fi eftass, ii fuerit;calefacit enim;inquit, et fitim
inducit;idls jc quod-etiam in multis experientia docet . Quareq a.
praftabitautfero ; ut dixi, uti, aut aquà horde] iu cum füccoaurantiorum, aut
julepo rofato ; autij gui violato. 13. Lauté etiam nimis, etiam intermiffionis]
un .tempore;cibari mihi videntur tertianà laborans]. .tesab omnibus feré;&
à Galeno ipfo:qui cibarg ni; .di modus fi apud. nos 1n ufum duceretur ; omne:
qi ex tertianà fimplici in duplicem, aut etam com] iy; tinuam duceremus. Atque
hoc fépé; ac fepiu: un; juniores Medici;&üm ex fcriptorum inftitutà vid oj
Ctüs ratione victum prafcriberent egrotantibus:| ex perti funt; cium
egrotantium periculo, unde ld uj; mutare WE. 3 A s P». "e *. E n TO ix A S (1À5. mutare fententiam coacti
funt . I4. Quinimo, fi vinum pro potu incipiente» co&tione curh
Galeno,& antiquis cócefferimus, onines in deteriorem condit0nem ducemus ;
ut ^ vixin ipsà declinatione concedere illud poffi- mus ; five hoc corporum
noftrorum conftitutio- nitribuatur;five vinorum noftranum conditio- ni; five
utrique; hoc unum fcimus ; fecurius per totum morbi decurfüumabdicari vinum.
15. In quotidianis curandis febribus anim- advertendum eft; quód, licet in febribus
aliis in principio uberius fic nutriendum, paulatim ver- fiis ftatum
progredientibus imminuendo; ;inilhs camen primo feptenario tenuiüs funt alendi
z- ori, ut et crudz in ventriculo contentz materiz attenuatz;excalefactz,&
exficcatz;aut in bonü fuccum vertantur, aut faltem abfumantur, aut per fe,aut
ope Media, le 'nientibus,& abítereen- bus fübducantur;in quà re Rhafis,
Avic.& re- liqui omnes Mauritani conveniunt, ut nempe» primis feptem diebus
tenuiori viu utamur; quàm etiam in ftatu5qui omnes à Tralliano mu- tuari
videntur. 16, Siramenà falsà pituità fiat; potiàs vomi- tu in principio
expulfa, aut dejectorio abíter- gente per inferna educta, cum nutricatui inepta
fitevacuabitur ; neque dixta adeó ab initio erit attenuanda, ne incalefcat
magis, ficcetürque minüfque eductioni apta reddatur. Quamvis vomitum in hac
febre Galenus Jaudátfe vifus fit;apparentibus fignis ccétionis, quod Vino i€r-
tianarti apad nes per totum morbum interdicé- lw quoti- diamis i5 principia
fnniAus A- lesdum e- tamqua in ffatu. Pituita falfa ab danteyvte u$ ab ife 2it0
nom adeb attee nunndas » fid evæ cuanda « Iz fcre enuctidis« 2A "vem [^ X
e tus utilis ab tnittio, eo quomo do« Siwotilia na in bre, prater qUmiupn ab
initio, valenttor evenit i Satu,e€x Gal. . Mel.vof.fo dutivii,l- - «et £n bi-
liofo ab i- 3211:0 non €OQventat, 22 pituito Js optima eff veme- dium, c eur.
"Aloe 15 quotidia- $5, C a- liis febri- £ns locis, optimum remediis. e/ P
d ZI) Í ^ y^vs /9 €. :06 quod in ftatu evenit ; id tamen decà per vomi tum
evacuatione intelligit, quà univetfüm cor- puscvacuatur radiculà, cui veratrum
album 1n-. fixum fit: cümenim majori cx parte primis die- bus ventriculus
pituità fit refertus; fi ad vomen- dumneptus non fit; aut natora, aut.
ftructurà corporis;optimium erit,blando facili vomito- xio tentare illius
evacuationemsaut fi fit naufea- bundus;à cibo . 18: Quamvis mel, et fyrupum
rof.foluuvum in biliofis febribus,abinitio,cradà exiftente ma- terià,in ufüm
duci non poffe ad fubducenda ex- crementa communia,jam docuerimus;in quoti-
dianà tamen, ad abftereendos vifcidos à ventri- culo humores. przcipué mel
preftantiffimum remedium cenfendum eft: attrahens enim facul
tas.frigiditate,& vifciditate humoris primo oc- currentis evancfcit;&
quafi emoritur; valés au- tem maxime facultas abftergentibus relinqui- tur.
jars 19. Ne quis inamphimerinis füfpectum ha- beataloes ufum,ad.deturbanda
communia ex- crementa, et pituitam in ventriculo, et primis venis exiftentem
fübducendam, vel ob eam ra- tionem,quód bilem potiffimüm illam fubduce- re
fcribat Gal. 7. Æt
b. med. a4-& S.de compof. med. [ecundum loca, cap.2.. C lib.de T ber. ad
Pz- Jonem,4. et Paul. £b. 7. cap. 4.vel fané,quia eam- dem calidam in
primo;& fecundum eradum at- tngentem,& in tertioficcam;idem Galenus.có-
füituerit;quod quàm fit febribus inimicum,qui- libet; aloe efle facultatem:
alter NIMADFERS. libet, qui febris naturam examinaverit, facile poterit
intelligere: Animadvertat,dup P. 107 licem ih . 41e, dy 4 am à totà fübftantià
jx faci ductam;quá bilem potiffimüm,tum etiatn pitui ;as. tam,fi non à toto
corpore, faltem à venis etaim " ^, Circa hepar attrahere, et é corpore
pellere con- fievit ; de quà locis propofitis etiam Galenus z alteram
deterforiam,& attenuantem,quá et exe crementa, qua funt in ventre, et
inteftinis, cue jufcumque fint generis, per inferna fi bducit ; cümqe
potiffimum inter feces evacuantià», ÉxxbebeTiXxo d dicta,principem feré
locum.occu- pet facilé propofitas omnes difficultates fü peras re poterit. Cum
enim tamquam bilis pureatós rium medicamentü affimitur aloé ad drachmas i'edüam
duas, et non nifi raró, utalia medicamefta longé à cibo fummo mané,quin 4n
febribus biliofis concedi poteft : fi etiam raró veró aloén Hu letjectori
medicam 1 üÜte Humamus, ut dejectorium medicamentum, üt "" ^ . - ique
deterfione quádam ac attenuatione, quid quid per viam invenit, fibducit, et
frequentiüs llafiumi, cum cibo permifccri, 1n mini ri quantiateaffumi, et
febribus loneis; tertianis hothis, »& quotidiánis, quàm maxime auxilio effe
pote- Iit; pouffimüm fi lota fuerit; nam quamvis jy. e£ IG. de ruend.
val.Galenus 31 Oocf neque ficcam, ne' l|Ique melleexceptam fenibus concedendam
fta- ftuerit, nifi maona aliqua neceffitas ureeat, c^ 8. Ie compof. med.
fecundu loc. cap. 2. bili fis,& ficIE15 corporibus alo€s ufüm non
mediocriter infe- Ium docucerit;In aliis (anc corporibus,five moctbo tenLorgis
fe» byibHs a loes ufus cópmodus . i^ MERIT æn gant ei (ix iQ1o8bo tentátis,five
fanis, ub! vitlofis füuccls utcumqs bent infeítentur, aloé non fine magno
commodoin. ufim ducitur, potiffimum ubi ventriculi villisii adhzreant:fic enim
Oribaf.7.Col/e£l.cap. 27.abfinthio alo£n cóferens,ftomacho placidiffimam juu
effe contendit et fumi quotidie poffe à ceenà ; depu. aT ME aie quod.
Ewporiffon cap.9.übi de evacuanübus; eju in fanis corporibus conveniunt, agit;
quan- titatem enimiis przfcribit,qui quotidie eam afAAloes va- Pia quanti 345
[umen 8A s [7 pro $urgato- o, C f $ro dei- éforiosat- dicatméete. fébducit
euim.» Yaquit c ciborum vis nou bebetat, Mi erattvea fitim uon inducit, C"
bominem ad cibos fu-. à anendos facit promptiorem ... Ex quoniam proximé f ante
hzc verba dixerat;aloén ad duas drachmas. furi fümptaio, pituitam,.& bilem
fubducere: cüma jen addit; [omi e riam quotidie poteff cama.non intel- i: licit
de càdem quáütate;fed alium ufum fumits Ki fümunt;trium cicerum mænitudine.Idem
eti3; et longiori oratione explicuit Aét. 7'etrab. 1. Serm. 3-c4p.24.cüm enim
ad trium drachmarumiJi;, etiam quantitatem ad multos demoliendos mot; '
bosoptimam effe ftatuiffet, commodam etia malos. effe (cribit fanitati confervandaz;fi
quotidie antep... coenam fümatur,utante prandium mane: id au--]i... tem effe
non poteft in càdem quantitate, fed adi fcrupulum, aut femidrachmam. Sic ex
Mauri-1,. eàdem, ut medicamento purgante; agit, ut et apud Mefuen viderelicet.
511g1tur tamquam... deterforium medicamentum, € ventriculum. i expurtanis
Avic./ib. 2. cap. 45.de iis.qui fecundà vale-4t. tudine conftituti alvum movere
poffunt ; de de-4.. terforià hac facultate loquitur; C Jib. 7. cap. a. ded. n h
i ad LI " » E- AA LM, Ixpurgans fümatur,& in minori 1llà quantitate,
li ftatim à cibo, vel etiam ante cibum ftatim fu-. fimatur, febricitantibus iis
fepé concedi poterit, "lin quibusaut crudi multi humores febres: pro-
fluxerint;aut certe ex diuzurnà febre debili red- flito calore ventriculi;multa
pituita congeratur, Int in longis febribus veni ire docet Gal. 1. ad IBlauc-
Sic 8. de compof. med.fecundum loca, bens 'JlBc Oribaf.Joco czt. in febribus
hujufmodi, potit- dMimuüm fi lota fucrit; aloén quàm maxime com- 'Ilmendàrunt,
non lotam tamen in iifdem, fi edu- 'Jcendi indicatio pravaleat; etiam
concedunt. '«KCócedacur igitur intrepide in iis febribus; cüm; Iguz ex febrili
calore defümitur ; indicatio nona 'Iprevalet ; fed qua ex craffis humoribus in
ven- lrriculo coneeftis o b diminutum partis calorem, Irum ubi roborandi
ventriculi viget indicatio, [quod in longis febribus;& ex pituità cenitis,
et lWtertianis fpuriis fepiffimé evenire dicebat Ga-- b en.1. 4d Glawc. Vnde v
^, cmus; Maurit; anos, à Weam fcholam fectantes; et pilulas ex hierà Gale- ni
comendare,& alephanginas bis in hebdoma- ddàin paucà quanutatc à 'canà
fümptas . 20. Ínufü attenuantium, et diureticorum.., hzc efto cautio, ne tiene
eorum ufi nimium jl fint calida attenuantia, fcd moderate aperiant; 4 neaut
materia nimis liquata;& fufa majori.mo 3 le tureeícat, et dolorem per
univerfum pariat ; :raut exhauftis tenuibus partibus,quz relinquun- ur fontiiob
esremancant;& quodammodo lapi- Wi defcant;& ininvictum fere malü gri
decidant, Als ill ud : (4€ I bÓA. Atenas
tia m p 2m ter calefa- Citntia s, Purgátia valeterra non multüm in febribus
ufum medicameétorum. Illud certiffimum eft, 1n Galeni doécteinà 14.4 *5i» Àri
pareantium commendari;cüium $.44erb. 1. abío» bus in 45 lutam putridarum
febrium curationem trades, VON . Purgatia Iivia repe nta sque ti dianis Covent . ne verbum
quidem de purgatione habuerit. Et Il. AMeth. inrefolutorià illà :methodo
curativà. earum, cüm putridum humorem evacuationeo effe propulfandum
doceat;ftatim fübdat, eligeix dà cffe medicamenta, qua fine calore educant ut
funt mulía ; ptiffana;clvfter.| Et
1. 22. G/ane. etiam in continuarum curatione purgantium., medicamentorum non
meminerit. In tertianà vero praftare ait medicamenta alterantia,quàm. ||
quomodolibet evacuare: id veró, quód fe penu- meró per urinarum copiam;aut per
füdores, in- fenfibilémque tranfpirationem morbifica caufa fit evacuata ; ;
quód, fi qua füperfünt, craffiores potiüs alique portiones erunt, non multz,
111a medicamenus noftris blandioribus non. calidis tolli poffunt;cüm in eà
quantitate effe conjecta- bimurquzad alios in putredinis communionem
attrahendos apta fit; cüm veró non fepe id in tertianis, continuis, et acutis
contingat, raró etiamin fine earum purgationem exercendam. cenfüit Hipp. 1.
Zdphor. 23. 2.2dpbor. 29. € lili. dé diua pura. . In febribusautemà pituità
venitis, qua : |." intermittunt, levia quafi medicamenta purgan- tia
tantum, eáque per iptervalla admittit Gale-. nus, quem fecutus eft Alex.
Trallianus; magna:^ vii aüctoritatis,/» I2«£ap. 7. d€ hacre differ €n$5, cüm
dicitzVerz oportet auteso ipfos tmiverfrm pur- ) [reete vices, C ftmplicioribus
medicament is. 1! €'c. Vnde fortaffe recentioresfuorum mmoran- 9 tiumufüm
defumpferunt. quod 1n aliquo cafü, et aliquibus febribus; et poft coctionem
conce- dituf ex arte, ad omnes febres, et quocumque, "f tempore, et in
principio malé traducentes J^ z3. Levius etiam;cautiüfque in febribüs om- '|
fibus purgandum efle conftat, quàm in alns vifcerum,cordis nempe, et hepatis
fervor, calor ex hiimorum motu contractus, et deleteria., vel faltem fatis
calens medicamentorum qualitas in causa fünt, ut cü timore in febribus
pureemus, in: morbo autem non febrilr audacter evacue- mus;id quod Hipp. Jib.
de rticuliss in fige, cla- rifhimis verbis o ftendit. 24. Verüm purgare corpcra
in febribus cüm opus eft, inclinante morbo, vel poft illum, quo "| tempore
vires majcr1 ex parte fü ntimbecillz, et E fpiritus multiüm exhaufti ; cavendum
maximc il Medico eft;ne ex affureendi frequenti; aut ex humorum evacuationein
fyncopen incidant fui M ueri quod vel in pureandis iis, qui à tertianà |fünt évacuandi;
niaximé timuit Averrocs. Qua- ] propter jubeat excrementa 1n lecto exonerare »,
vafe aliquo huic ufti 1 accommodato füppofito, aut findone plicatà, quod
innuiffe vifus eft Gal, : 3.de Cri. cap.9. r s: et ( ÀÀ - E- HÁ ÓMà Pureadg
Mone 2 morbis à febre fejunctis : calidiffimorum enim. fZre 444 2:3 alus
"orbis e? 471 Debiles dum pur- gantur, e leto 207 furgant. In quartanc
febris rectà victüs ratiorie », Quartana d&in quantitate;1lla fit
animadvcrfio; utin prin- rin prin CX plo £iplo va- yu; Ui- es, ch quemodo
sariadus. &alfatné- 42a quartz Jod: 2 944 LADOr a znuàbuscon- zcdenda,
"n parece ; emer. Quaia(cipio non in omnibus fit eadem;neque enim fefe per
à craffiori eft incipiédum, quod ex commu ni regulà 1. Z4pbor. colligunt
aliqui, in ftatu at- tenuantes. INeque etiam femper per primas tres hebdomadas
abftinendum erit à carnibus, et pullis gallinaceis, ut ctudi humores poflintat-
tenuari;& abfümi,quod magni alioqui nominis viris placuit; fed
diftin&ione opus eft. Saneui- nci,& carnofi, quique lautiàs vitam per
multos dies traduxerunt, et qui crudis multis fcatent fuccis, et qui ex
fanguinein melancholiam ver- fo febricitant, primis quatuordecim, aut viginti
diebus,tenuiüs alendi erunt,atque ctiam.fi fierl poffit ; ab ufu carnium funt
1interdicendi,ut et crudi humores in vétriculo,& primis venis exi- ftentes
concoquanturattenuati, et in fanguinem mutari queant, névealtius permeantes
obfttu- €tionesadáugeant. Qui veró in primà regione cruda non acervàrunt;&
biliofi funt;macri.faci- ]é refolubiles;tum et pueri; aliter funt in princi-
pioalendi,atque concedendze erunt carnes, ut diuturno morboobfiftere poffint ;
atque ad fta- tumufque cum viribus valentibus pervenire. 26. Quód falfamenta
iin quartanis laudentir à Galerio,cavédum eft,ne multo eorum ufu mes Jancholicus
ficcus in corpore adaugeatur ; con- cedendá igitur erunt parcà manu,ut
medicamen tofa alimenta attenuante vi predita, et utappe- tentiam, quz primis
menfibus omnino folet effe dejecta.excitemiüs . 27. Sànguinem quidem in
quartaná miffufia pa per fectam venam, fi opportuné hoc auxilium xis vez
adminiftretur, Galenus cenfuit optimum reme- /eclio 2u& dium ; opportuné
autem fiet, fi multus in venis 4ecozve« fanguis fuerit; et craffus, et
fceculentus,niger et "^ craffus. 29. Vnde jure merito Medic prafentia ne-
Quarta- ccflaria eft,dum talis actio à venifecà exercetur, »3labora qui
qualitatem fanguinis confideret,ut eo infpe- bus di Cto, fi niger, et craffus
fit, liberaliorem permit- /?guis tat evacuationem,habità femper virium,atatis,
*"4^44- plenitudinis, temporis ratione . Quód fi potius //^» Mess
tenuis,& clarus fit, et potis ad flavum vergat, gere fupprimendus erit.
shi. . .Adhibenda tamen hzc eft cautio, ne fta- Sanguis 2 tm ac perrubentem
faneuinem,& bonum exire "miffione viderimus ; illum füpprimamus fieillatà
ven; fenguini fepius enim vidi primas illas duas uncias effluc- z: quarta tes
bonz conditionis, quód non ex penitioribus »i» zé fta educantur,fed ex venis
brachicrum, quorum //7 fuf- fanguis ob affiduum eorum motum,quandoque PW,
purior redditur ; progrediente veró evacuatio- '- ne,nigrum, et craffum
cffluxiffe. Quapropter ó Pes, faltem due, aut tres unciz vt effluant, finendz
funt ; antequàm certum de hac re feratur judi- Sauguts 7 e» guis optimus é venà
fluat, permitti debeat effc /^ 24? ;1 1 "v 3 A i - * ^ 22 54071 xe;neque
fif oporteat.fi forté ex antéactà vità, ^^^ et fignis plenitudinis ad vafa
cognoverirous, ^ - d tantam fanguinis copiam conoeftam in venis cf- dm Íe;ut
nifi folvatur, periculumaimmineat, ne avt. 7/ Á HOovVvuS LFD. SEPT ALII MEDIOL.
novus aliquis morbus magni momenti adjun- gatur,aut Certe ex multà illà
fanguinis congeftà copià obftructione genità aduratur fanguis, et inatrum
fanguinem mutetur, addatürque in, caufam quartana . Ságuitin ..31. Etlicet
Galenus deloco, unde in quarta- quartana p fanguis eft evacuandus, agens,
cenfüerit ex quád? ex Axillari,five internà brachii finiftri venà effe edu 4t?
cendum, illud fumés, quod majori ex parte eveFM. nit,originem quartanarum ex
fplene pendere; du, praftattamen hacin re Actium fequi, cenfen- tem, confiderandum
effe priüs,an potius vitio hepatis,multum melancholicum fuccum eignen ris,vel
affato fanguine;vel aliquà alià occafione» fiat:tunc enim potiüs ex dextro
bracbio,; quàm é finiftro;fanguis effet mittendus. dnpefefa .32- In
peftilentibus febribus,fic didis; quód j» mini pefüferas emulentur;ut verum
eft,ma]ori ex par potest fan te mittendum effe fanguinem fectà venà,confen[
élam vt- dictis,rariüs id auxilium in ufum duci debet:nequa ex acris putredine,
nifi magna fabfit pleniperpenfis i gqnisper fe tientibus viribus:ita in
pefte;peftiferífq; fic vere fr. ), C queenim umquam, fi à pravis cibis in
annonz '| : e " Md ^ quando, penurià fiat, fanguinem mittemus ; neque in
cà tudo,& humorumzftus; miffo enim fanguine »» |. et füperfluum fanguinem
evacuabimus, et eftüij. frenantes ; ceris occafionem fübtrahemus multi, 7 æris
trahendi ; neque periculum imminet tanti). " collapsüs virium, Át cum
peftis contagioaliun--j. ^ » de delato alicubi ferpit ; qualecumque fit primüij
^ nrincipiem, miu intrepide poteft ; 11s omnibus "tM perpenfis et
obfervatis, quz in reliquis febribus 5 8 putridis confiderari folentquód ezdem
vieeant "Rindicationes. Confentit
Gal. 3.7 1. Epid. 26. in Critone.& 3g 3.cap.76.in Calvo Lariffe, in qui- I
bus voluit miffionem fanguinis convenire ; cüm * E pefte laborarent, 2.77 3.
Eprd. iz proezz. Quin et ERuffus;referente Oribaf. 6.5yzopf. 2 5.in pefte», Abi
fanguis abundaverit ; vel ubi alii humores ']Rdmixu fintfanguini.fiátque genus
aliquod ple- Inicudinis,jubet effefecandam venam.Idem Æt. der. f. cap. 95. et
Paulus, b. 2. cap. 36. ex Ruffi )ffententià. Ex Arabibus Aver. Jib. 3.7 bezf- T
rad. dB- cap. 7. Rhafis 3.cont. T ratf. 13. cap. 2. c? libro / Me
Pefle;cap.6.8c Avic.lib.a.Fen.1.1 rat. 4«CAp«A. jit ii fatiseffe poffint
adverfus Fracaftorium, et Inovitios aliquos,etfi magni nominis. Neque ve- Jró
faceffit negotium, quód haufto veneno fàn- 1IIBuis ex venà non detrahatur,ne
bono faneuine ; "Ur IPX venis evacuato, in venas trahatur, et perfan-
"fBuinem difpergatur, non fecüs, quàm de feclá "lrenà crudis in venis
exiftétibus humoribus: Dif- ü)ffPar enim omnino eft ratio ; nam hauftum vene-
i'ifiuum quamprimum eft vacuandum,;dum in ven- eliriculo;& primis venis
continetur, quod vel vo- it /llnitu, vel pureatione fit, venz fectione fieri
non Uifboteft, quia fanguis bonus In venis exiftens, de- ullra heretur,venz
veró inanitz fugerent, et attra- ""ilrerent ad fe venenum in
ventriculo, et mcefcnte- i! RÓo confiftens, quo nihil perniciofius cffe poteft.
silDuare Diofc. b. 7.de curationeab haufto ver.e- jillloæens, non meminit venz
fectionis; quem fe- 5 H £ cutus Mri. -ec ln Pt le s 33 J : ; : gnisad a- nem,
et aliorum Mauritanorum fententiam ea-4t. nimi deli ynus,qui in aliquà pefte ad
animi ufq; deliquiunogiui quid no». fanguinem detrahunt;cüm in pefte potius
quanagui enittédus: tas minor effe debeat fanguinis detracu, quàmgu : &utus
eft Act. Ser.13.cap. 45.X Paul.//b. cap. 28. Ai Atin febre peftiferà venenum,
five materia pe-/7 - ftilens,non confiftit in ventriculo;aut primis ve-4t
nis,fed jam ineft in venis cum fanguine commix-Jur ta ; proptereáque detracto
fanguine, pars illiussiui materie peftilentis fimul cum fan guine inanitureduii
Hinc Paul. Jb. $.capit. 2. dixit, veneno in venissfii exiftente,(angmnem effe
detrahendum . Difpattjnu, jcitur eft ratio curandi haufti veneni, et febrissp)
peftiferz evincendz .: fu ;:. Cavendum tamen,nein Rhafis opinio«jtt: inaliis
febribus putridis,quód vitales vires in edm: magis. faciliüs concidant . i| In
poffe fo. ..2 4, QuinimO,ne detrahendus.eft fanguis pest in 9? H7 fe tam
venamdn brachio,fi morbus jam invaluufi; MM rit ; quód vires qua f in princi
pio miffus e(fedin, 2 jeg x fanguis,vegetiores factz effent;,exonerata ab ona,
re natur, jam ex virulentià fradte fint, et propteyri; reà refiftentibusmagne
putredini;& alexiphar TM macis potilis eritagendum. ! 3$. Quid veró,erumpentibus,aut
eru ptis maur, culisillis;aut puftulis? an mittédus erit fan guisslius. 'an
potius ex fpe&tandus exitus nature? an jamais, eruptis ? Egofane,
dumoperatur natura,à primfs.. -cipio fum fpectator ; mox ; fi feeniter id agit
; 6. plenitudo magna adfit; et fervor humorum;eve., cuo fanguinem fe&tà
venà; et fe pe miteftit mor, bus ANIMADVERS. .: try jus, æftus imminuitur,
validiüfq; reliquum ad gutim expelli fepé animadverto . Neque enim Wiericulum
illud impendet, qucd vulgus etiatn» nigj-iedicorum umet, et adeó
exhorrefcit,neífcili- get humores ad cutim impetentes; aut delati re-
ulrahantur à circümferentiá ad centrum ; quod Wnifflione fanguinis fieri
tamquam certiffimum. Juffumunt;& tamquam affertü à Galeno 4. zuezd; Ital.
1o. Miffio enim fanevinis per fe potis fane fjuznem à centro ad circumferentiam
revocat,ut "ixperientia docet, et Galenus apertis verbis tta dudit a. de
ruezda val.4.quód fi oppofitum c. 10. aMuu[æm libri atferit ; id de multà
fanguinis eva- quauone per accidens intelligendum eft. Cüm Jinim per fanguinis
mediocrem evacuationem.; ginguis;qui in venis internis reperitur,ad exter- J| »
€ extra corpus revocetur, utin intetpisin- qiammetionibus manifeftum eft ; fi
ulteriüs pro- Jirediatur evacuatio;cüm interne ille magnæ ves («hz exinaniantur.natura
provida; ne partes majo Jis momenti deftitutz remaneant fanguine, ex gccidend,
et fecüdarió à carnibus et venulis am- ditüs fanguinem iterum contrà ad interna
retra- liit. At i mediocris fiat evacuatio,tantum abeft; Nit mifhio fanguinis
per fectam venam kedat ; aut levocetut doceerit Gal.6.Fpid. Sec. 2. Com. 30. in
latis illis puftulis Simonis cujufdam;fanguinis dniffionem maximé futuram
proficuam.Neque : Niicant; Oribaf:7. Synopíeos 7. €) 3.ad Evnap. 21. jum hac
verba ad verbum recenfet, omififfe feAMtionem vene; ut proinde ceníeant additum
effe "M .3 in Antbra eibus, t^ bubenib. apparent: &us f«can da vena, €
4o do.LFD. SEPT-ALII MEDIOL. r1 in textu Galeni, cüm in omnibus Galeni codici-
|| ci bus illa pe reperiatur, ut potius ab Oriba4 dti fii colle&ore omiffam
per oblivioné dicere poffi- «| 11) mus ; aut aliunde defümpta verba illa effe,
càümug m! cadé difficultasin purgatione etiá fubfit . Quam] tuii opinionem
confirmavit Æt. z. Quar.Serm.1 .cap-- Vit 126. puftulas, five vibicesin
principio peftiferæimo febris apparentes, fanguinis miffione curans . 7 36.
Inanthrace;furunculo, et bubone; potif- rs fimüm fi in emunctoriis cordis;aut
cerebri fiants, lunt nullum effe præftantius cognovi remedium ; fiilüni vires
conftent, &cin principio verfemur,maximé3 ji fi plenitudo; et fanguinis
copia adfit ; fanguiniss[ yn: evacuatione, tum ratione febris peftifera, tum)
ratione morbi particularis:càm enim fiant à fan- we; guine craffo adufto, bili
flava admixto; quidli equé fanguinem evacuabit peccantem 1n totaxXir corpore,
tum et dolorem illum intenfiffimuma d mitigabit, qui fiepé vires dejicit,
maximé cümzdliny partem nobilem obunuerit ; tum et materiam; evacuativà
revulfione à parte retrahet? Scio;hædin inre, ut et in füperioribus
experimentis certari sj; et contrariis quidem. Ego veró in pefteillà in-4n.
figni 1475. et 1576. noftrz hujus magnz civita-4fti, tis, profiteri poffum;ex
octo illis Medicis;quibuss, pefteinfectorum cura erat demádata; inter quossii,
et eco unus erá, càm unus;aut alter vene fectio-Juj. nemin fuis zeris aver
(aretur,Fracaftorii, et alio-4.. rum doematibus infiftens, nec ex fententià
cura-J». tiones füccederent, mutatà fententià ; aliorumz p, exemplis, et
felicioribus fücceífibus utique ex-J citati ^w Dd citati,quàm przftaret
fineuinem evacuare, tan- demcognovére. Vndeetiam comimuni confen.- fü in pefte
hujufmodi nobile remedium nullo 4 modo pretermittendum effe,decreverunt,modó
ftaumadminiftraretur, et parciori manu, cíáque adeffent, quz in co
remedioadminiftrando pet- i$ pendendaíünt. Eratautemnon ex acris COrfil- ' 4
ptioneuniverfáli peftis ea.fed contæione,& có- d municata ; et
ferpens,falubrialioqui et cælo, &e anni conftitutione faluberrimà ; et
rerum om- nium, quz ad vicum faciunt, maxima adetat abundantia ; corpora autem
noftratia veré fucci 4 plena conftitui poffunt. 37. Caveant tamen, nefemper ex
ehdem aut. 4,5, ven, aut parte fanguinem hauriant;fi enim poft cius, eh d aures
parotides exoriantur,aut füb axillis buboe. 2u£ez;- nes, aut anthraces,
furunculíve in trunco füpes bus aptæ riori eruperint,ex brachio ejufdem
partisftatim *enióus tundetur vena. Quódfiininguinibus bubones ^ £4fe; gU
erumpant, et inflammatorium dolorem proei- p^» Pd d gnant,;intalo ejufdem pedis
fe&à vená faneuis - Wevacuabitur. Si veró anthrax, aut forunculus 5^
(fapparuerit, ex oppofito evacuabitur ; illà enim Mectione venz et naturam
onere levabimus, et qananus adjutrices natnrz porri&emus,ut ad emü détorium
illnd humores detrudat ; cüóm enim à dcorde plurimüm recedat, vidimus plurimos
ex jf f bubone in inguinibus curatos ; pauciffimos au- gJKem.fi poft aures per
parotides; ut fere nullos, fi JMfüb axillis materia detrudebatur. Atfi anthrax
dnaícebatur in dextro; puta ; crure, evacnandua H 4 erat - i Xe X rj - 1 E E
PLN 4 ULEIXBE 2e ZLPD. erat fanguis ex finiftto, ne majorem molem ma- teriead
locum affectum traheremus,unde et in« : flammatio major fieret; et dolor
inrenfiffimus ; unde vires collabafcerent ; praftatigitur in con- trarium
revellere, evacuando,fimülq;à princie fi pibus partibus virulentiam retrahendo.
Do&rn- : nam hanc licet
colligere ex 6. Epid. e£. 7. tex. tun ubi dicit;in anginà peftilenti fe venam
fecuiffe in 1 cubito. Scarifez- 38. Sed cm in pefteomnia fint inprecipiti. fut
tis cur occafione pofita, et aliquando Medicus ftatim . (ite in pefle [^ non
accerfetur ; aliquando etiam vene fedio ab [ui Iuberri-. 4]iquibus non
admittatur, cuperem ad manus j|: T4* artificem habete qui fcarificationem
malleolo- rumfciret adminiftrare : commodum enim effe remedium cenfüit
Apollonius apud Oribaf.7« |: Colle&l. c. 19. C 20. quo etiam, cüm aliquando jur
pefte effet correptus, afferuit effefanatum; quod. |ui remedium pro plenitudine
curandà, quafi venz. . pnr» fe&tioni zquiparaturà Gal.4. val. tuend.4«O
20«. fii Qua actio omnino diverfa eftà noftrifcarifica- tione inloco
cucurbitularum, ut conftatex Oris pat baf:7. Collet?. 18.ex Anvylli
fententià;fiquis ca- fun put illud, et modum exercendz illius operatio- Bu; nis
confideraverit, et quz à doctiffimo Profpero Ju Alpino de hac re fcripta funt ;
ib. de Medicina Wu. "Ægyptiorum, quidquid contrà f enferint Avic.I. fü
lib. Fen 4. cap. 22. et ceteri Arabes Media. 1 Cueubi-39. Verümfi jam aliquátó
progreffusfit mor-. fan tula feri büsis peftilens aut nefciamus, an vitales
vires fav. ficata ali- fixing fatis fint; quod aut vereamur,ne pertenta- - P
K1S alSfi: apr! ANIMADVERS. LIB. FL. 124 tis arteriis peftemin nobis
contrahamus aut le- quiido vi- pe cautum fit ; ne primis quatuor diebus Medic
zs fe- Ipulfüsarteriarum tangant,ut apud nos confütu- Zioz;s ve tum eft : certé
folebam egoin noftrà pefte .aquà. z«. -icalidà ablutis füris;in internà parte
cu curbitulas linjungere cum profu ndlori fcarificatione ; iom Ikca evacuare
fangvinem ad fex, aut octo uncias ; pro fienisaut plen tudinis, aut robore
Yinubis Iquamvis enim immediaté f; nguinem ex v cnis i fIhon detrahant, fed ex
carnibns, neceffe tamen, Ie ft;ut carnibus inanitis, ex venis fübeat alimenA4 ;
fum, et confecuenter eiiam totum 1nanlatut . 40. Quinimó et frequétius,&
tutiuseft prz-. c,;,,5;. Ifid: ium hoi 'Cc,cum et evacuet fanguinem. Citra» re
cum imultam fpirituum exfolutionem, ab he pateau- f'arifica- ftem, et corde, ad
longinquam partem vi irulen- tione in fia j;ftiam avertat ; nec verum cft, quód
non fint pro- 75 ? peffe Futurz,quianimis diftent à corde ubie: na mina- f/equen-
AN ft- Inità plenitudine totius corporis ; ipfas quoque» p "i A72 €-
[cordi vicinas partes necefle eft inaniti., 1:21 0 4I. Quid fi inanito cor pore
urgeant fy DABIO: ou eniin [mata,& exanthemata lenté prori IDpant;COr
V€-,,j, $ doy ro aneuftiis prematur in pe efte, et animi eps fo qua ida
Itieliquia, autin fie nis do lor capis UIgeat, QUC zpJicam- Inmil lefvmp tO ma»
quod fa penumeroó in " efte» da, d jronungere videmus; erità nobis
przftandum ? quádo ni. An « cucurbitule dorfo erunt admovendz Quod ].deó con
troverfum inter M edicos video, aliisil- las omnino exhorrefcen übus;aliis
paffim, et in, ljuocu mque cafu illas in ufum ducentibus? Cen- jico;fi nihil
aliud urgeat;non effe temere, et fine. diíftnVeficitia i5 pesteo aliquado gn
ufum duci pof- funt, fed ?AaYD.5 quande* Veficátin $m fobrie bus peiti-
lentibus fone. tefle $n ufum duci non debent . p f/" wt F.heitta pavtibus
f'spevnts y comatofrs eff cliens - ia $2 LES 5 diftinctione admovendas, fed
negotium natur: effe permittendum. In illisautem cafibus, turri (carificatis,
tum fine fcarificatione uti nos poffe, et debere judico; neq; periculum (übeft,
ne ver- fus corattrahantur humores; propter totius cor- oris premiffam jam
evacuationem, potius enim é corde in füperficiem hümores evocarent,cutm» manifeftà
internarum partium utilitate . 42. Veficantia, utin huncufum antiquis ino pefte
non funt ufitata, ita, fi extremis partibus ; potiffimum füris,poft univerfalem
corporis eva- cuationé applicentur,non fpernerem,modó eftus illein corpore non
adfit, peccétque potius fero- fus humor, et pituitofüs;fic enimad inferna
Viftle lenti humores principibus partibus retrahétur. 43- In peftilentibus veró
febribus, quz cum» efte non fünt, fed fic dicuntur, quód infignem quidem
habeant putredinem in humoribus, fed non hujufimodi,ut veneni naturam jam
fübietit; cüm putredo corriei poffit, et per codtionem emendari, veficantia non
in ufum ducerem ; fed non fécüs, quàm aliz febres putride curande
erunt;excellentis tamen putredinis habitá ratio- ne,ex exficcantibus aliquo
addito, et corde non mediocriter roborato. 44. Animadvertendum tamen tam iniis
fe- bribus improprié peftilétibus, quàm in veré pe- ftiferis, ratione
fymptomatum, potiffi muüm ]le- tharei,& comatoforum affectuum,nullum effe»
przítantius remedium veficantibus ipfis ; aut parti brachiorum verfus humerum,
aut etiam íca pu- fcapulis applicitis: ferofos enim humores » et usse le-
frieidos cerebrum opprimentes citó, et facil- thargo cà limé et attrahunt;&
extra corpus evacuant:Con veziuzt. ftat hoc ex Antyllo,referente Oribaf.zb. ro.
.1n peftilentibus affectibus maximam fzpenu- meró effein fomnum propenfionem,in
quà fina- pifmos convenire (cribitymaximé in lethargo;& magná fané ratione
: nam in lethargo confiuxus fit materiz ad caput, unde opus eft revulfione »; cümque
perpetuo dormiant,expereefacere fimi li ?ravamine medicamentorum eos oportet.
Ide defendit Æt.-4rchbicene Ser.15.cap.181.& Paul; ain, /[7b.7.c.18. Hinc
Aretzus Medicus, his et GalenoantiquiorJibro 1. de curandis morbis acu- 115, c.
2. curatutus lethareum, dixit, tibias urticis effe verberandas, aut etiam
valentioribus medi- camentis effe utendum, denique etiam finapi. Cum veró ii
omnia priüs tétari voluerint, quàm ad veficantia veniretur,oftendunt, quanto 1n
er- rore recentiores verfentur, qui protinus in mor- biinitio veéficantia effe
admini(tranda cenfüuerüt. 4f. Aliuseft cafüs, in quo tutóin peftilenti-
Veffcdtia bus veficantibus uti poffumus : cüm univerfum ue corpus exterius
aleet ; et egre calefieri poteft, ^ bases non quidem fi refrigeratio fiatob
virium extin- Pura venies ctionem; tunc enim inftaurantibus Opis eft: fed: ^70
rore. Kain - . (07 p; PP fi ob alias caufas, tunc adminiftrari poffe docuit V
efic attin Antyllus apud Oribaf. b. 10. Colleé£]. CAp.13. et in beffilen
Archigenes, Aétio tefte, Sy»zma a.c. IS$1. tüncq: tibus, abi et tibiis, et
brachiis funt adntovenda » Oribafio corbus alV referente;Zoco addut£o, et Paulo
4E cin. lib.7.cap. getuiliaSce nT : ; ESO NST ME, Le ;.9 PNE ni EE bor be diii
Me n4 Quibus locis con fat duobus folis iis cafibus s in acutis, et pefte,
veficanubus nos uti poffe ; et hoc eft, quod Oribaf.ex Ruffo //b.6.5 ynopf.-
2$» ocebat ; in pefte calorificis quandoq; effe uten- dum,ad evocandum calorem
ex profundioribus corporis partibus ad fuperficiem; ut et Æt. 5er. $.c.95.&
Paul. lib.2. cap.36. Vndeneque inom- nibus peftilentibus ; neque femperin pefte
vet cantibus utendum cenfüerunt magni ii Medid; fed aut in foporofis
affectibus; vel cüm externa Veficztia a|oent,& interna zítuant;cüm
novatores ii fem- in peflilen Ser, Gcin omni pefte; peftilentíque febre, quin
dipsihar et fi Deo placet, in principio veficantia adhi- Lui 3d beant. Sed non
eft mihi in bacre tempus con- m pajfm terendum, cüm à doctiffimis viris res hac
abfo- ufurpata . lute, et ex profeffo fit pertractata » et à nobis 1n» libro 4e
Peffe; annis juvenilibus, dum totusin cà curandá in patrie mez calamitate
verfarer,com- pofito difputata;quem librum Amanuefis meus, ; homo exterus, cüm
emendatum meo juffu tran- fcripfiffetad editionem;fuffuratus eft; nefcio quo
confilio,cüm ftiret;apud mein fchedis ca omnia T remanere,licet multis in locis
defcedata . parenhe- «|. 46* Evacuatio pravorum humorum, caco- me utendi Ch
ymises per medicamentum purgans affumptü in pefle, t On minüs,quàm fanguinis
evacuatio,in pefteo [wj cur convenit, et fortaffe frpiüsinufrm ducitur:ut [tn
enim venz fectionumquamin pefte;que ex pra» qu vi fücci cibis fit. convenit ;
et non ita fepéineàs [|i qua ex corrupto ære, fepiffiméineà,quecon- tagio
ferpit: ita in lisomnibus purgatioinufüm [i vcnire . 2j venire poteft, licet
multó rariüs in eà, quz per contagium vagatur;quód f penumeró virulen- ta
communicetur hominibus fnis,& optimis humoribus præditis ; quibus fi
medicamenta, purgantia exhibuerimus, et carnes colliquabi- mus, et bonos humores
evacuabimus, fpiritus exhauriemus, et denique vires vitales deftruc- inus. Quod
firefertum pravis humoribus effe corpus conjectabimur, purgatione omnino opus
effe dicemus. In cà veró, que cx ingeftis malis cibis fit; purgatione omnino
opus eft; licet etiam ratione virium maxima adhibenda fit cautio. In
hancopinionem Medici omnes Graci, Arabes, et Laüuni venerunt ; locis adductis ;
ad demon- ftrandum venz fectionem convenire; inter quos Gal.1.de diff. feb. 4.
Vnus ex antiqvis Celfus I;b. 3- c4p.7.& ex recentioribus pauculi medicamen-
t15 uti purgantibus in pefte judicárunt inutile, quód non putredinem, fed
venencfam qualita- tem fimplicem in pefte fübeffe putàrint ; quód veneni
naturam medicameta propemodum om- nia, et igneam naturam participare cenfeant ;
quód alvi fluor iis concilietur, quo plerofque in pefte illàinteriffe teftatus
fit Gal.. Epid. J. cüim nequeCelfi auctoritas przponderareo poffit tot magnorum
virorum auctoritatibus, neque recentiorum illorum rationes convincat ; quód
atate noftrà tot medicamenta inventa» fint; que nequevenena fint, avt venenatam
na- turam participant,neque exceffi caloris ieneum febris x(tum adaugere ;
neque etiam alvi fluo- rem effe im z10 i 4) DinvOniüit f Hnveca D ue rem
concitare folent; cm non in otrini pefte» fymptoma hoc füpervenire fcribat
Galenus; fed in cà,quz fuo tempore vagabatur. In quam pe- ftis conftitutionem
fi quis inciderit ; cauté fe ge- ret, et iis uti poterit; in quibus vis aliqua
ineft et adftringendi,& roborandi. 47. Invento auxilio in morbis, illius
exhi- bendioccafio eft inquirenda, quod maximé in pefte eft obfervandum : cüm
enim 2. Z4phbor.do- cuerint Hippocrates et Galenus ; vel ftatim ab initio, vel
poftquàm matu rpnerint humores;co- fint; in declinatione humores effe purgi-
dos ; difficultas in hoc cafu maxima efle folet etiam inter dociiffimos. Ego,
quid prz- fiterim in hac noftrà peftilentià, liberé dicam, et quibus ductus fu
ndamentis; cui etiam even- cuim felicem fücceffiffe, fàn&? poffum profi
teri, quantum peftis effrenis rabies cócedere poteft. Evacuandum igiturin
principio ftaum aut (e- &5 veni cenfto, faltem fecundaà die ; fi putrido-
rum, autimalorum humorum copiam füb effe coenoverimus . Neqve "Apbor. 22.
1. Sect. quo afferitur, Concotiæ ffe ved: canda, €t cruda non movenda, nifi materia
turgeatsraro autem tuveet ; nobis repugnare cenfendum eft. Quod ut in-
tellieatur, confiderandum folüm erit, an fub evida, contineri poffint humores
ilh 1 "mE ES: Ciique b ^41 0 CLAÀM 1(VV YT/^111 2 Cil il Tii t tia Nol d
dcó putrefadii in principio febrium peftifera- rim. Egofané non video; quomodo
materia, qva nullam patitur concoctionem, neque 4li- mentilem; neque impropriam
quee pttride materix gmateriz convenit; cruda dici poffit. Crudum., enim, et
coctum correlativa fünt ;itautcrudum Ifit, quod coqui poteft, fed nondum hanc
perfe- I ctionem per coctionem eft affecutum . Atqui fi gBradum eum putredinis
affecutus eft humor is, jut peftem gignat, quo major vix dari poteft, ut jam
veneninaturam inducerit, et ad benignum fgmplius reduci non poffit, certé eum
numquam Iveré crudum dicere poterimus; aut coctionem [ejus pro purgatione
effeexfpectandam. Eóque [iagis, quód majori ex parte materiam hanc, [turgentem
effe obíervatum fit: quare càm tur- gentem materiam excipit ; utique
peftiferam., E materiam exceptam effe cenfendum eft, Iquód fepenumeró primá
dietureeat, aut pro- Ikimà die, aut alterà turgés fit fütura;hancenim IFuam
perturgentem intellexiffe Hippocratem Iconftat 4. Z4pZor. 1o. ft turgeat in
acutis, eadem fue effe purgandum, atierentem . At acutiffimum Imorbum efle
peftem, in quà materia plerumq; Iturgeat, quód acris fepé fit, ardens,
virulenta, IQueque undequaque mota principes partes im- Ipetat, quilibet, qui
morbos peftiferos viderit, jac diligenter obfervaverit, facilé cócedet. Nos lin
noftrà hac peftilentià fepenumeró vidimus in jtodem grotte, eodem tempore à
naturá mul- Jas.ac varias tentatas effe excretiones, per alvü, per vomitum,per
füdores, per urinas, per cutis Wefflore(centias, et per carbunculos quoque, et
»ubones. Docuit hoc Ruffus apud Oribaf. €. ]Wynop[eoscap-2.5. et Æt. Ser. $-
cap. 95. SON Q9 Peftis tnn feria turgens fapeDnuta2eràó. Jib.2. cap.36. qui
adeó varia, et vehemétiafyms- ptomata in pefte dum referunt ; nihil aliud re-.5
vrafentare videntur,quàm tureétem materiam hinc inde latam; nec certam
(edeníhabenteimn: j Quz fi, dum venenata eft, purganda ftatim eft.(iu abinitio,
ne repat ad princepsaliquod mem- [0 brum; multó magis tunc evacuandærit,cuümo
|t veneni natriram habet;cujus proprietas eft prin ful cipes partes petere.
Oftendunt 1d 1pfum pefti-| ti lentes cafüs, quorum libris de orbis vulgar.
meminit Hippocrates ; colligimus enim mate- jm zias in eis fuiffe
virulentas,& veneni participes; [itm væasitem, et certam fedem nó habentes
: cám] aun enim varias fedes peterent, varia etiam fymco-| var promata
induxiffe fcribit; in multis papule ap--j t; parebant, qua mox retrocedente
materià adl t; internas partes delitefcebant, quz pofteà alias» iti inducebant
feva fvmptomata. Neque quif-4 ui ! piam Hippocratem obiiciat dicentem.zz9 zz4-4
tui; Turg?5 -geyjag rursere,nos autem afferere,in pefte fzepe-4 ui mæt, DUDmero
tUTgere; fi namq; confideraverimus; p e«t quomoto - A n raro evenire,utiq;
materiam raró turgerezdt peftz [epos &n peftefiepe türgere, non effe
contraria, autif ois. JE Contradictoria juidicabimus: tureget enim mate,
ria,cüm natura à multà, aut pravà qualitate afíjti c&ta.materià concitatà,
tentatJnter initia eamuaJi: v. xpellere ; qua mvis importu né: fcimusautemujlu,
peftém femper àpravà,& veneni naturam faxis, 'piente materià fieri: Non
tamen credat aliquissphuii. nos putare, ubi nonturgeat materia evacuanedly, à .
. h dum non.effe : nam cum virulenta fit materiai morbum y4r0,0ov 1n ra i c d
d. ^" C- morbum faciens, et timendum fit, ne ultetiüé procedat, reliquos
omnes humorésin fidendo; venenique participes eofdem reddendo éx cori- tactu
portionis illius prim: ex contæltone ac- quifitz, pureandum ftatim erit;ne ad
terminum eum ducantur humores omnes, de quo locutus eft Galen. /ibró adver [us
Iulianum,cap. » Quod ubi totus fanevis putrefcit,vel alioqui vitiatur; morbi;
quiinde oriuntur, curari nequaquam; poffunt. Inquit enim: ZVoz pollictztur M
edici 3 Je omues morbos ex vitiato bumore, 0Hmmeizque pu- tredinem curaturos,
[ed eos tantum, quibus corpus t"dhbuc validum eft . C2 vires robu[le ; non aute,
quamdo [aneuis penitus corruptus, G" fachus arugi- nofnssut affumptum
alimentum in corruptelam tya- bat ; et quz feq. Cüm prétereà morbus is acn-
atffimus fit; fi declinationem exfpectare volueri- imus, inanis omnis noftra
opera erit, non folüm. quód fruftra exfpectetur coctio, quam nullate- nus humor
poteft admittere ; fed quoniam cüm J| declinatio tunc fübfequatur ; càm aut à
natur j| extra corpus pulfus fuerit humor,quácumque.; tandem v1à 1d fecerit,
aut ope Medici, aut mit- 1! fione faneuinis,aut alexipharmacis,& fudorife-
I ris,fruftra tunc Medicus tentabit in fine propel- lere. Non negeaverim
quidem,;aliquando ex pui- a eandum eftfe1n fine corpusà reduviis, ut renu.
di1riri poffit, atque à recidivis fefe vindicare qu 4 przfervatio hzc potiüs
erit,quàm vera curatio . Ij Purgandi igitur potius erunt ab initio humore: J
qnod cüm emendari nequeant; quamprimum. : ! exrclli Wes ctr tuta raa nns rs
crie RCM EE ette Matteo NE $5 ATDAIAC: S expelli debent : namapuffimo vini exemplo
ex* plicuit Gal. 2. d pbor. 17. quod ubi acefcere cce- peri5adhuc vinum eft
acidum;& tunc emenda- r1 poteít,& ad priftinam natnram reduci:fi verà
corrumpatur, et naturam propriam amittat, nó amplius vinum eft, fed acetum;
tuncinon am- pliusad prittinu m ftatum reduci poteft: Ita fan- guis,caterique.
humores,cüm pautrefcunt;ad be- nignum ircrum,autíaltem ad conditionem,quz non
multüm noceat.coctione.deduci poffunt; at cüm. compurrucrunt, jam naturam
mutarunt s ncque corrigi amplius den dy fed tamqua om- nino deletetia
ftatim.expelli à corpoze debent . Eít infuper prater morbi cauíam conninentem ;
quzeftaut in venis prope COE, aut 1D partibus cordi communicantibus, alia
quædam vitiofa., in ventriculo,inteftinis;&.circa præcordia adhe-
rens,dolore,colore,aftu;naufcà;amarore, aliísv e fignis manifefta, quz.
neceffarió quamprimum. purgationem. SREPI cH aMiquie declinationem po- teft
exfpectare. Qua fane.eriam efficit, ut alià rationein principio euam expurgari
debeat: nà fiin hoc morbo per totum ejus. decutfi fum alexi- »harmacis., .&
medicamentg à totà fubftantià utendumeft, ut etiam i1,.qui fecus fentiunt de
hac purgatione, concedunt nonne nccéffarió MES qe concedent,in impuro corpore
pracedere debere ps, gud purgationem ? Hxc namq; vel 1pío Gal. tefte ; fit
expui-. lib. $.de Janit. tucnd.cap.6.ante non fnt affumen- qa? cr. da,quàm
totum corpus inanitum fuerit : cüm po impuro torpore nó Ju enim.€a vel
itaanuüpharmaca;vel antidora dican [uL ., ANTAIADFERS. -tur, quód totius(ut
ajunt) fübítantiz diffidio 1mmutent yenenatam illam naturam, frangant,
obtundàntque, atque prorfüs cxftineuát;&. €Vàec cuenrtà corpore per
fudores, atque cutaneas ex- creüones ; nemini dubium effe poteft; in corpus
noftrum hzc minime praftari pofle, nifi prius Inanitum.fuerit corpus ;: non
enim ad cor vires fuas emittere poterunt, nifi meatus fint SEPhn eati; neque à
corpore per- cutaneas excretio venenum expellere poterunt, nifi pariter be fit
evacuatum .. Quin neq; e
atcuationem per cuum ullam effe diu in eg i totum corpus inanitum fucrit,ex
Gal, 8. IM eth. 4.
CQ" 11. M4 e- th.1o,at nec rarefaciendum prius, quàm fit eva- cuatum, 11.
74eth. 9. colligitur. Atinquiunbid fieri fanguinis miffione . Verüm quomodo vim
argumenu effugiunt;qui illam refpuunt? at om- nes faltem fatentur,in multis non
convenire, ut in pefte ex pravis cibis, et in cacochymis cor- poribus; in
quibus ex fpecta r1non poteft conco- €io ; faciendum igitur quod jubet Gal. 4.
dé 2 tuerrd. val. 4. Quod alienum à natura efl.nt ad pri- flinam bonitatem
vediei non poffit protmus evacue- |fwr. Huiusfententiz fuifle Galenum,
colligere, poffumus ex Ib. 1. de differentiis feb.4. ubi dicit, impura corpora
in principio ftatim effe purgan- da; et ad fanitatem deducenda . quod
manifeftis verbis confirmavit 2.77 $i de morb. vulg.in Si- monc;in quo late
puftulz efflorefcebant;idq; in libris Methodi medendi TInonftratum efle a f-
firmat;quod vel $.Ætb. sed. c.12. conftat, vbi * habet :
habetzCarerum,iiinpe[le facile [omari funt, pro- pterea quod præx[iccatn vis»
prepuratumdq; corpus otum fuerit;quizppe quod evomuerint ex Tis tonmul- li;
onmibus venter profiuxeritsatüs cum ita eva- euati effent qui evafuri evant
siis pu[Inle quas exan- phbemata vocant, mpra foto.corpore confertim mul- te
apparuerunt, ulcerofe à quidega plurimis, ommibus certe ficca. Cuibus ver bis
vel cecis mamfeftum eft ; pureanda etfe corpora ab initio in pefte». Quid.énim
per pureanda effe corpora fignificat, nift in principio effe-evacuanda
füedicainenm purgante? Nonne pratercà conftat ; excretio- nes has peftilentes
nuHas fere effe criticas, fed fymiptoníaticas; qua in principio;vel augmento
3ccidunt? Atnihilominus prepurgatum effe » déberefcribitcorpus, antequàm
apparerent; nó icitur exfpectavit coctionem. Secutus eft hanc fententiam
Avic./ib. 4 4. Fen 1-Tr.4.capit.4.cum inquit: Summa curatioms hurus febris eff
exficca- tio, C 1llaftat cum purgatione, à qua tocipere de- bens -& Kver.
3T bet1fit. T ratl. 3. cap.1.qui in, principio pilulas ex fimocolumbino, aloe,
et agarico commendatin pefte. Et R hafis tum 5. Continentis, cum lib. de Pefle
; quos pofteàfecu- tus eft Aver.2.Collett. 56. Éx recentioribus etiam plerique
feré meliorisnotz, inter quos Manar- dus Ferrarienfis, 5. Epi. 3. et 13. Eprff.
1. et Vi- &or Trincavellius zz l/bro de febre pe[ilentialin hane venerunt
fententiam. Quod experientia etiam confirmar e poffum: Mihi enim. &fociis
in 1nænà hac peftilentià magne hujus urbis fehet- CCY ; dag ter ceffiffe,
(ciunt et præfecti fanitatis, et cives noftri, publicéque etiam nos laudárunt
pro bo- nà,& fedulà preftità operá,cüm purgante medi- camento ab iniuo feré
curationis ufi fuerimus. Quod et Gentilis ille Fuleinas fibi experimento
conugifle teftatur 1.4. ubiinquit: Ego vidi focios zoftrossviros expertosqui 1n
prava pefhilentiaspri- pa » vel [ecunda die,"velin quarta ad [nummum s »
quam citius poterant, dabant pharmaca evacuan- L4, exfolueudo materias, ficuti
Rbabarbarum, vel "A garicum, aliquando dabant auedicinas Y1g0- ratas cum
pauca Scammonea ... Et vidimus plures evafilje per manus 1ftorum, quàm per
manus illo- VU, qui gon purgabaut, mfi cum levibus cly[fe- v115, C quandoque
[ola caffia.Neq; rationes, quas contrà adducunt, multüm urgent; quód enim A
phorifmü 22.objiciunt;jam docuimus;aut füb turgente comprehendi, aut fané veré
materiam 1llam crudam dic non poffe, quód nullam co- Cüonem admittat. Neq;
caliditas medicamen- torum vcrenda eft quz non avocavit Galenum ab corum ufu;ob
majorem utilitatem in turgen- te materia ; minus autem nos Impediet in pefti-
lenti;in quà fx pé minor eftus fübeft; potiffimum cum mitiora quàm plurima
medicamenta, mi- nus calida ; vel vix caliditatem attingentia, et fimplicia, et
compofita ncftris his temporibus fintinventa. Neque vercnda funt mala, et in-
commoda, quz fequi docet Gal. 1.24pbor. 2 24. € 2. pber.9.ubi quis crudam
materiam in prin €iplo,& non przparatis viis edu3 crit;cb majora E. :3 enin
"$a enim mala fugienda in tiizgente materià ; noti» veritus eft ftatim
evacuate, ;Ob eandem etiamo caufam nos in pefteidem preftabimus. Néque alvi
profluvia;quaz in pefte Hippocratis tempo- re ubi fipervenirent, mortem inferre
folebant, debentnosab cxhibitione niedicamen torum in principio deterrere:
namietfiin ea conftitutione |^ id.eveniebat; in aliis non femper eft cum pefte»
cotijunctum . Sed veró etiam nulfa vis eftargu- menti; nam fluxu illo siulti
interierunt, quod nimis oppt effa; acirritata natura fluxüsZ exone- taré
tentabat ; fed et füccumbebat; et materias quafieffrenis facta plis jufto
fluens vires deji- ciebat,undem ors fubfequebatur; at ftatim pur- gatis
himoribus. periculum hoc evitabimiis . Sedatgumentantur preteteà auctoritate
Gale- n19. de fimpl. medic. facult. cap. de terra Letmnias tibiinquit, illos;
qui tetre Lemniz;ant Bohli Ar- inehi affumptione cnrari non potuefunt;plerof-
queinternffe . Ovafi Veróy five manifeftis agant qualitatibus, five cccultis;in
ufum hac tutó du- ci poffint, non praimifsà purgatione ; cüm jam. ji
Galeniauctcfitate c onftitutum fitjanupharma- €á ; et antidotos tutó exhiber!
non pofle impuro corpore.. Peftiferz avtém, ac virulentze mate- rie cum venero
coim parátio,quà probare nitun- [ wir;in principio non effe purgandum, nclla
eft ; 1 neque convincit: Affumpto enim vencno, cim.» matcria.ea in ventriculo
contineatur,vomitorils quamprimüm ex xpelleretentamus; aut fi id ob- üncrinon
poffit;emollientibus, lenientibus, vel lubri* T Ex DRM LS od UBL. mts tte S sni
eii e s in otn c lu bricantibus per inferna ( fr bducere conamur. Ita 1n
peftecüm primüm corafficiatur,omni in- genio Gmnino tentandvm eft, 3
nobiliffimà parte 1llam revocare, ac quamprimüm ex corpore» pellere. 13j 49.
Caveat autem Medicus.ne; quod iri pefte Peffilétes conftitutum eft, in iis feb
ribus; qu et,quódinfi- z/,, 5. gniorém habeant putredinem, ;quàm vulgares ze
peffe » febres putridz, quóodqvein aliqu ibus fyrnpto- cockienens matibus
peftiferas veras aiu léritig Peftlentes expe fttt s dicuntür; quales font;qua
maculas, qua les puli-. vecz prin- cum morfis »aliáfq; etiam cutis
efflorefcentias cdd junctas habét;idem obfervandum cenféat : cm £244 - en1m eó
nfque non fit in eis progreffa putredo, ut ad priftinam bo "nitatem
revocari non poffint humores,;ait fané cü m per co&tionenrad quam- dam
temperiem et mediocritatem reduci pof- fint, ut mitéfcente eorum ferocia, autà
naturá, autarte a Iv Medic pelli poflint, exfpectanda om- nino crit eorum
ccncocto, sícque non in princi- pio » fed in declinatione érunt vacuandi . 49.
Qi 'dunvi Is autem eorum Opinlonern recee Purvatia perimus, quiin peftein princ
pio humores effe v4//2a ;» purgandos cenfüerunt veré cathartico medicà- peffe
sem mento, inter quos diximus fuiffe Ar abes; et in- c?veziit. ter hos Zoarem,;&
Avertocm: ; 'ecipi tamen ho- rum duc rum op nio non debet, qui validiffiinis
utendum, et calidiffimis medicamentis cenfie- runt. Nam Avenzoar 3. 7 be;
"JIr.cap.4. commen- dat medicamentum ex ev phorbio, et aliud ex fimo
colunibino,::Aver.veró 2.Colleél. Cochias ]4 exhibet . Mediocria
enim,necimpense calida, potius in ufum duci debent, tum fimplicia; tum
compofita ; in quibus etiamfi ícammonn nonni- hil excipiatur ;adeó tamen aiiis
ingredientibus orrigitur,ut ad mediocritatem reducatur. Stibii vi- $0. Vitrum
ftüibii ; quod tà »ntopere : probatur mm in aliquibus, nullo modo admitti debet
; quód ve- p«fte P*[f nenatà fuà qualitate majorem in humoribus in- 0471 .
ducat malignit atem,& ferociam; tum quod ex- perientià compertum fit ;
infcliciffimo eventu omnes in bac noftrà idi e: qui confilio Em- a ne um eo ufi
funt; ad unum interiüiffe. . Neq; tamens ego fum, qui multotutr. goeerroe
crrorem fequar ;utrumque hoc vui magnum auxiliumin pefte, ut &i in reliquis
fe- purgatio, bribus putridis,cxe 'rcenüum; cüm Hippocrates e fangui altero
folüm- utendum fuadeat aliquando ; ali- nii mif. quando autem utroque;
aliquandoauté neutro . Suderum $2; Sudorümjn verá pefte, peftilentibüfque
provota- etiam aliis feb ribus promo tio, frnaturà duce fu tio i» j*- (cepta
fuerit ut tuta eft, et perplacet; ita difpli- fte: M cecomnino cüm natvra
prorfus defes, inérfq ue» ^/P2P4/7 wullatenus munere (uo fungitur, videtürque»
ii malo prope fu iccu mbere. Intempeftiva enim» et audax nimiüm efteorum
curatio, qui miferos zorotantes fruítra fatigant, alias excitatis toto corpore
fudo ribus; aliasadhibitis cucurbitulis ; aliove quovis ezeeza e :x9y
auxiliorum genere; quód aliud nihil facia int, quam inaniter egrotan tium
corpora vexare;incertámq; pro certà cura- tionem füfcipere:; que omnia
ocioforum funt homiPefe jte vantib. femper co tem i]lum gradum putredinis;ac ad
exftineuen1 ! E ma m "Y.
hominum,atque vires, valetudinem,vitámque alienam pro nihilo habentium.
Quantumvis 191turro buftz fuerinta erotantium vires, num- quam admittenda
füdorifera hacab initio cre- diderim, nec Medicus Galenicus sumquamJma-
Smudores $ turabit exp xilfionem per cutimtentare,exfpecta 7efzequa bit
potius,dum aliquid ipfa perfe natura molia- 4o promo- tür,animadvertétque
curiosé;quorfüm ipfa ver- vendi gat, quàve parte infenfz mareriz quarat exitü,
alioqu 1 naturz motus antevertere, incerta pro certis ageredi;contraria moliri,
et ab incepto re- vocare,non fine vite difcrimine poffet: quinimó, ne ftatim
quidem per eas partes cevacuare debet, féd folum ubi imperfecté operetur
natura. ] heriaca, et Mithridatica ma ignacom- TLeriaca pofitio, ut femper,
nifiautaftusineens autin i» peffe. cem pore;aut in corpore fuerit;ad p refe
rvandas quado uté corpora à pel íteà me commendantur; ita procà- 47 et quo den
Pn dà nonita frequens earum ufus effe modo, ien poteft: quamvis enim ad
cohibendum excellen- reis Triend&. dam^4 virulentiam convenirent ; fi tamen
ardens éebris (iib fit;a ftüfq; maxim "E humoribus, et Ccorpore,non ita
tutó concedi poffunt, ne, dum. venenoobfiftimus, ita febrilem calorem aucea-
mus, ut vel ex eo folo mors ipfa AQOISAGRIP S À Iquacumque vcró de causà mors
fübfequatur;idé cít. Obfervandui n Igitur erit, "PN valeat bilis kin COI
orgia eique putre do illi virulenta fit Iiconcitata, przftare femper,
poftpofità Thcria- lica. et Mesià ficcifa; antidotis iUis, C&fclls ut),
used DRE c Ft ah ma P str rre i iy i om aue T Mace Lapillorz jrecioforz uus 6d
s 0mmmino ve gtciendas, nrc paf- Mim yu* fit, Yecipiendus. Pulvtfen loru» CAaY
d acoyz117») ^ f. aJ p 8$[us ocu eibis y fed 14210 YLo 224€ bo re e CipleAus .
quz refrigerandi ; et fiecandi facultate, preter alexiphar macam, prædita f
unt, ut acido citri, la- pide Bezahar,margaritissX fimilibus. $1ve cro, quod in
plurimis obfervaviscalor £ebrilis fit nu- tis.nulloq; mmodoaftuans peccétque
aut pitui- tajaut melancholia,in iífq; cóceptà potiffimum fit putredo,vir üfque
inde en aftatur;tutó et The riacà, et Mithridatica compofitione, et fimili- bus
antidotis uti licebit ; quibus etfi calor febri- Iis nonnihil adaugeatur, major
tamen erit ex i]- lorum ufü utilitas, tum in evincendà vi veneni illius, tum in
attenuandaà materià;, &cad cuum, temi ; $4. Vt lapillis preciofis,&
gemimis non om- nino fidem detraho, Sapphiro,Smaragdo,Hya- cintho, &c. quód
multis, et magni quidem no- minis viris eorum ufus receptus fit, &in
multis; et magnis antidotis receptas.ilfas íciam,ut in. electuario de zemmis
dicto, et alioà Concilia- tore nomen fortito;ita nec eifdem mudltü tribuo; ob
eas rationes, quz à doctiffimo lo. Bapt iftà Svluatico, primo Medicine
Profeffore in Aca- demià Tícine enfi,amico fingulari ; inlibro huic rei dicato
propofitz funt . fos Si quandotatnen in ufüm Medicum dv- cendi funt, communis
error erit fugiendus ne ante cibum immediaté ejufmodi pulvifculi ex- hibeantur,
ut nec marearitarum: ex illis enum» cibo commixtis cementum quoddam obftructio
nibus e1enendis aptiffimu m 1n ftemacho eene- ratur. Preftabit igitur ; fi modo
iis uti volue ri- mus, € et - m mMENEEEE TALL 2 P GÀ mnÜáPmÜP pe mus, 1mmediaté
ante dulcoratas potiones ; aut fullatitios liquores, fummo manéfolitos propi-
hari;illos concedere. 56. Auri ufus et ad ADIHERTOCROTOM et adatra- Aaturi ufus
pllarios affectus antiquis et recentioribus com- Pres lai mendatur,quoód, citm
fpiritus recteet;cot, nobi- 447dns. uffimum vifcus,robora ire poteft: neq; enim
Det- [enil opinionem recipio, qui non nifi in aureà IM lexandrinà rec: ntiorum
Græcorum ant!do to, D. n fecipi, aut pro »poni afferit ; cum alioqui I
Nicandet;an tiquiffin nus et Poet a,& Medi- rus, auro peros affum pto in
alexiphartnacis vta tur; et Diofc. [;b. $.c. 69. de ateento vivo;auri li- atam
fcobem mirabili effe aüxilio fcribat. Mo- T lis Veró, quo uti oportet, eft, vel
eo i tenuiffi- 4^" E fii - "d es affumé niim pollinem redacto) et
comminuüto; hoc p4- j ni tto: Defæcatifffmum,& puriffimum autum eli- mal :
featur, et coptufüm tn foliorum form3, aquà ro- jaccà afpersa, fub Porphyrire,
aut matmore, ad pinimenti inftar redieatur. Sunt etiam,qui Pan- Phonicos
ducatos;u itpote ex purior e anro; fub la- Pide piclorum [xvieatos quàm
tenuiffimé acci- pant. Alnafperolinteo condnué affricant, et E s ;in quà defcéndat.
Quód fi I. hymicà indufttià in liquorem fólvatur, modó Wimis 1eneas in (d non
habeat partes, fortaffe ts 3 commehdari poffet : $7. Stultum veró, meà
fententia, eft, aureas T UE -Bionera s,annulos JAUT ca .tenas Intra capones,
ju- Wrula;aut ftillatiti s liquores;aliofve quofvis co- eà teræ; J[uere ; cum
in his nihil aliud abfumatvr,; quàm. món: multa$, ^ net aí $, Ex avfent co
placéta pro corde in pefle de tefland«. incequere, multarum manuum fudor
adharens;nihil enim abfardi. ponderi penitüs detrahitur poft illorum elixa-
tionem : necetiam quidquam aurum aqua im- primat, nec etiam faporem, odorem,
aliüdveo adjiciat.TE 58. Placentas Iacobi Carpenfis ex arfenici cryftallini
partibus duabus; unà autem parte» rubri, ex albumine ovi,& tragacanthz mucagi-
ne exceptis, quas facculo fericeo, aut ex aliqua tenuiffimz texturz materia
obvolutas,& cordis rceioni appofitas, anosà contagii labe immu- nes,
omninogq; illzfíos fervare ; «eris vcro ad fa- ]utem magnum momentum
attuliffe;creditu m. eft; neq; recipio, et longa experientià in noftra, hac
peftilentià doctus omnino rejiciendas con- fulo: neq; enim experientia ; cuiii
tantopere in- nitebantur, pollicitis refpondit ; quinimo gra- viffima aliquibus
fymptomata induxerunt,ut in aliquibus etiam mortem preci piti quodam im- petu
concicarint. Vidimus fervos ; quiin magno illo D. Gregorii Valetudinario ægris;
et infectis hoc morbo operam navabant, et Chirurgos hac placentáalioqui
munitos;brevi fatis conceffifíes, quinimó multos vi hujus remedii 1n graviaad-
có fymptomata, animi deliquia, fyncopales fe- bres, tremores cordis incidiffe
obfervatum eft » utfe per illud vim peftis effugiffe fomniarent in vehementiora
fortaffe accidentia, et mortem ex remedio incidiffe certó cognoverint. Multáq;
exempla in hac noftrà peftilentià afferrezs] poffem,nifi et ratio ipfa 1d
perfuaderet:nó enimesp qucd M ! S Ami Joiha CJ PP, 1 $t. Huod aliqui afferunt,
conferre poterunt ; quód arfenicum occultiore vi venenis tamquam vene- num
obfiftat, cüm arfenicum non occultiore vi, fed corrofione conftet effe
lethiferum. Ex quo etiam colligitur ; nullam eorum efferationem, Qui cà ratione
afferunt conferre, quód cor in pe- ite primo affici folitum, veneno fenfim
affuefa- rlat, undenec tam repente, nec fine negotio po- teft ceca, violentáq;
pernicie corripi; cüm ratio nzcnulla fit; quód et experientiam habeatad-
yerfantem, nec arfenicum hocmodo inter venc- 14 connu merari poffit. $9. In
variolis,. et morbiilis curandis, cüm Jecoctum lentium, paffimapud Medicos
AraLentiz de €ockur t2 »esmaximé commendatum, etiam apud mul- see, ge os in
ufum veniat; cum abuftm potiüs illum €^ ia vaenfeam, hocloco nonab re effe
credidi, etiam *ielis, ip;- iujus erroris inrer medicas 1ftas Cautiones me-
prebad . Ipiniffe. Arabesiegitut omnes fcriptores, inter [uos precipui R hafis
18. Coztinentis, € 10. ad IMlman[orem cap.18. et Avic.4. Cant. cap. de cu-
Wizndis variolis. ad materiam ad ctim ex pellen- 'Mam,& ad evocandas
variolas;ex lentibus folis, I ex rifdem, lacchà, caricis, tragacátho,& hu-
qiifimodi, decoctum parabát.ídque cetera omnia irefidia ad hoc munus obeundü
parata füpera- PÍcripferunt; quo etiam multi ex recentioribus à peftiferis, et
pefülentibus febribus ad mate- iam ad cutim propulfandam;acad fuüdores per-
novendos paffim uti folent : Verüm non fatis et Wpo conjicere poffum ; quà
ratione lenres aut I fudcres Lentium qu ilita- Ie5. fudores promovere
poffint;aut invariolis; pefte, peftilentibüfye febribus concedi ; nam fi earum
naturam recté confideremus;eas mali effe fucci ; atque melancholicum fanguinem
generare dice mus;inactivis qualitatibus mediam, in paffivis ficcam temperiem
in fecundo. gradu foruri ; 1n» fecundis veró qualitatibus varias ; imo contra-
rias habere facultates: nam primà earum adhuc integrarum, et non deglubitarum
elixatione cie ri alvus folet;quód in extimá füperficie virtus fit:
irritandi;& deturbandialvum;cüm é contrà ite- rata decoctio, aut tota
comefta alyum adftrin- gat;unáq; opera collectos in ventriculo, et inte
ftinisfuccos ficcet,ur que vires corticis internass et integram lentium
fubftantiam reciptat ; que vim habent adftringentem;vehemenuus tamen lensin
cibo fumpta fimul cum cortice adftrin- citminus veró decorticata, Hzc funt, quz
de» lentium naturà ex Galeno, Gracis, et Maurita- nis fcriptoribus colligere
potui . Galenus quide 3 frmpl. cap-1 5,9. eju]dæm cap.de..Lente.1.de com- pof
omedic-local.cap.8.1.de alim.cap-1.C7 1 8.2.e]u[- dem cap. X8. 44. $. 1n 6.
Epid. 33» 1. de vitu tit acut. Com. . 4. eju[dem y cap. 4: C lib. de [alub.
Diata.cap.de Leute... Oribaf, 2. Synopf.cap. 1-7 1. Collell. cap.17. et
A€t.lib. 1.cap.de Lente.Pau- Yus; /ib. 2." lib. 7.cap.de Lente, et Actuat,
lib. de [pivit. animal. nutrit. cap.5.Hos fecuti funt: f. in omnibus. Arabes,
praterquàm in tempera»: mento, quod frigidum, et ficcum ftatuunt » for». taíffe
Hippocratis fententiam fecuti,6..Epid. Sets. f j: LX TTA [- tex. 33. ubiléntem
frieidiffimum cibum fta- iuit; quà inte étiám à -Galeno eo loco arguitur
Hippocrates; quód in àctivis qualitatibus mce- lium tenereindé collisendum fir,
quód et et ad- tringenre,& (olvente facuftatefit pr&dita;cüm llioqui
duplici ratione frigidum cibum confti- 'uere potuerit Hippocrates: Primó, quód
cim. tdftringens fit facultas in pluribus partibus, et n majori mole
fiibftanue,mæis frie1du m ci- pum poteft conftituere : quód fi poucnes é.con-
rà ex lente factàs confideremus, quz folvunt, primam nempe jill: im càctionem
validiüs cale- acere dicemus,quà àm fecunda refrigeret; quód Qualirates calidæ
facilius in aquá exciplantur, juàám que terrenefürit;& frieide:Sect e for-
C frigk dit ffimam ftatuit lenteim Hipp. non ratio- e qualitatum primarum fed
quód, cum hu imo- em, et fanguinem proeignant relancholicum, dam.qt latenuscibi
funt, frieidiffimzx dici po- I. erunt,squod fuccum produc: ant 1n noftro cor-
pore friaidii (umum. Qus .cümita fint de puru- imis, e fecundis lentium qua
htatibus ftatuta,, lon video.quomodo Mauriranorum fententia, lhacin re admitti
poffit. Nam fi primumeorum Wilecoctum, non delibratis iis; pra beamus;.cüm.
iklvum moveat, potiüs à peripherià ad centrum. numores trahemus.,. Quód fi
decorticatas, ut JA vic.jubet.imponamus;cüm tale decoctum va- jenter alvum
füpprimat, atque fanouinem me- lancholicum reddat valentérque adftringat, at-
Ijue obftruat;maximé tragacantho X caricis admixtis, quando ad cutim perfudores,
vel aliquo.| alio modo humotes virulentos expellere queat4 non fatis intelligo,
cüm auftera qualitas, quæ im. lente perfentitur, etiam Galeno tefte 1.4/77. 18.
interreà maximé parte Confiftat,ex Gal. $.de |., fimapl.medic.facul.cap.26.V
nde adftringen tüiqua- |." litate et obítructiones augebit; et craffitiem
hu- morum, qui ex eà generantur, magisimpinget. jj Pratereà, fi crafsum, et
melancholicum fuccum cenerat, fi flatulenta eft, et eà ratione fzpenu- meró
morbos comitiales excitat ; ad quid 1n pe- fte convenire ullus umquam affirmare
audebit ? Quá ratione etiam ex tragacantho,& lacchà de- coctum, aut fvrupus
ab Avic. paratus ad materias ad cutim propellendas, 1n., variolisrejici debet,
quód hu- mores noxios potiüs intüs obfepiat, quàm foras expellat, et cor- poris
po- ros obftruat, non. laxet . gud, 3E d , «ll Animadverfionum, et Cautionum
Me. dicarum, 9S 1 X d. V. C ontinerts eas, Qua; 4d 200r bos part: culares E
capite ad membra. naturalia pertinent . e A UG PR LG vOSQT E: ld lt Ne d De
dolore Capitis. actu frivida efle de bent L Oxyrbods natn capi N capitis
dolore, ab zftu,.Sole, tis dolere iene, et fimilibus, curando, cüm prosit ima
oxyrhodina in ufüm veniant, et £'»J^ ** frontalia;illa femper magis laudan ^ '
tur,quz ex alto dela pfa füper fütu- ram corona lem decidunt, maximé fi ad
intern cerebrum intem peries pervenerit; quz zft alto deci- Ant» Oxyrbedt 4»
pis appli- AlC cata ze frc Ce Iu 47 ec 2. In u(dem ftupis;vel duplicatis
linteolis ap- «x cif K ynaterta mpplicen- $4r» Oxyrbod: sis narco fica vix admi[cen
dla » NartoticA 8 Capitis dolore vo- ? 2;€ doloris 20 adbibe dla. fed ali quado
vo- ne vigilia THU. INarcoricA 3m dolere capitisper fe per os zon a[fa- geuda.
Infigaiter vefrigerau da44C4 puta non fear. plicandis,caveant.ne craffiores
applicentur, aut exficcarz parri-nimis adhareants conttariuimL enimeffectum
pariunt excalefaciendo;& infen- fibilemevaporationem prohibendo. 3.
Oxyrhodinis narcotica non mifceantur ; vel leviora : frontalibus autem etiam
valentiora miíceri poffunt;ad cerebrum enim vix,& refra- &à vi per
hanc. partem perveniunt ; per illam veró, futurà viam prabente ;
integrisviribusad cerebrum pervadunt . Quinimó in oxyrhodinis,&
fimilibus,num- quam narcotica admifcenda effe cenfeo ratione» dolorum.fed cim
vigiliz inde fuccedant;undes maxime vires collabafcunt ;in ufum aliquando
venire poffunt ; íed tamen futuris autznulla, aut debilia applicari debent, fed
fronti potius, et temporibus. $. Multoque minüs fomnifera hzc per os erunt
fümenda,in intemperie calidà fine mate- rià,ratione doloris,càm inde nullum
vite impen deat periculum. nec ullus fibi ob capitis dolore manus intulerit,
téfte Galeno, ut ex aurium, et oculorum dolore ;'ob diuturnas tamen vigilias
fumi poterunt. 6. Animadvertendum autem;aliqua effe cor- pora ;'quorum cerebrum
ferre non poteft ufum infieniter refrigeratium;Pueri, ob exceffum huet
miditatis,ne congeletur;autincraffetur;indéque in morbos comitiales;&
fimiles incidant, tum et ob fübtile nimium craniü: fenes, ob imminutum calorem,
et excrementorum copiam: mu liczes molles; ANIM ADVERS. molles; et
candidze:& qui cararrhis fzpé tentan- tur,& qui laxas nimiü
habétfuturas,ex us funt. 7. Aceti pars in doloribus mitigandis cx in- temperie
calidà fine materià.non major fit quar acerrimum continebit ., Oleumitidem rofatum
in eo dolore cali- do;ex olivis maturis fitne fi ex acerbis fit, cutim et,ac
difflatnionem impediat, potiffimum cüm revulfione non egeamus, nullà affiuente»
materià; in tali enim cafu omphacino uti licet . Sitoleumrofatum eoanno paratum
oleum fit ejufdem anni :illud. quidem, ne rofa- rum vis refrigerans
exfolvatur;hocautem,ne ex vetuftate calorem contrahat r1. In dolore capitis à
frigidà materià, qua ad mitiorem reddendum dolorem applicantur ; non fint
foetentia;2ravíve odore przdita; reple- re enim craffis vaporibus cerebrum
folent, et dolores augere . 2. Indoloribus capiüs ex morbo Gallico, errhinorum
ufus nullus fit: five enim ex bile fit ; five ex pituità putri,ulcerain
penitioribus nafi partibus ex iis excitantur, et fubinde offium nafi COIrru pt
lOoncs. . Inacutis febribus; LIB. FT. n tà;cüm nullus hic fit ufus. repulfionis
;fed ad re- frigerandum addatur, et ad penetrauonem, jus levis portio
fufficiet, cum «& calida in eo partes reperiantur. $. Obidacetum ne
potentiffimo vino,igneas enim multas partes fic Anh ah, op SERES LO, ando
vehementiítK a fimi fit, neg; ex Dolete £x fite ex t5 téberie ca lida, acete
porto im exyrhbodi- 2i$ fat par va. AAcetd 19 oxyrbodi- no quale CO veni.
Dolore ta- pits ex in téberte Ca^ ltda, olesi ofatum ft £X 0lí- Vl 5 VIAL Yi$. Ole us vo fatum fnt Yeceo 5 »
NO foeten ua fint, quá capit applican- Iu. Errbina perniciofa 17; dolorib. capins ex "iorbo
Gsllica. I )i ii . A44 gapitis; et xebemetif fimis,im- 9ninente erif, fu- sieda
ve- pellentia . Grifi im- tnpinente, quando à capite re- peliendá e pilsle ca-
" ^ puta: es 4 i 4:24 r4 ] GBA e M aflzeato yia q4AD- dono con codenda.
Errbina, € feauia8torta snala lakun Soo rx por A. 10113 FILAS L2 ; fimi dolores
capitis füperyenetint pulfaüles, cü rubore faciei, non ftatim oxyrhodinis
repellen- tibus utédum, potiffimüm fi fie his coctionis prz- fentibus: fepe enim
füperveniunt inftante crifi» et faneuinis é naribus profluvio proficuo ; quo in
cafifi infrigidátibusrepellatur,optimo ope- re naturzinm € aut augefcit morbus,
aut 1n cerebro firmatur materia, et cerebri mofbos 1n- vincibiles Spe 14. Quód
fi enam crifis i eat dolore» magno füperveniente, fed non ges fanguinem nariun
fed per vomitum, ems quomodo di Íícer natur, ex lib. de Cf. colliei p tei ;
tancrepel- lentibus,quin et adt Lringent abus uti licebic ne» per vomitum
cerebro repleto; dolor per idiopa- thiam reddatur. 15. Non recipienda eft
communis multorum confüetudo, piluJas ad humores à capite t: rahen- dos
inftitutas exhibentium ftatim à coenà : aut enim cibos corrumpunt, aut illorum
vis retun- ditur,aut fimul cum cibo é ventriculo eft fuo fruftrantur. Praftat
igitur aut incen cedere, aut fummo ma iné exhibere, fo autalterà horá concetfo.
. Si dolor capitis fit à bile, vel àferofo hu- more calido, et falfo; tenuíque,
mafticatoria fu- ROT erunt ; pcr 1culum enim umminet ;ina pulmones v ica
influxa;aut phthifes p Adel cat, aut pu Imonum alia vitia. 17. Siitem oculi
imbecilles fint,'& fluxióotüi- bus obnoxii. errhina ; et fternutatoria
fugienda in ie ? j11 fine latis C con- mno una e** h AAA ym TO 11 bmi vv et :
DEÆ NUM. ANLM.ADVERS.. Incontumacibus,& diuturnis doloribus; y«frcztie tbi
non cederent aliis& potentibus quidem re- optima; e£ mediis,antiqul et
Greci& Arabesad puftulan- capit ap tia,rubificantia,& dropaces,fi
inapifmofve attra- p'icatasm : 1 hentes confugicbant, ut ab internis evocarent
vthemer dir. "vt tiffimis do ta(íam materiam, atq; attenuatam
perinfenfiloribus £5» bilem ev aporationcm evacuarent:fed cim cutis ubt capitis
craffior fit,c quàm ut liberum humori adi- am tum concedat, ncque ulla fenfü
patens fiat eva- cuatio himorum,.eco fzepiffimé expertus fr m., pra ft: ure
derafis cap illis vefican itiamponereaut pa rü« lolenti,auttcti etiam Capiti ;
fic enimat- Lracta ad exterpa materia evacu res f maxime ea,quz tenuior eft, et
calida, et acris; vix enims, etiamfi ciuturnus dclor à craísà materià fiat,
fie- i potefl DUEV chementa dolorisadfit;nifi portio aliqua illius humoris
fitadmixta . De Phrenitide. I; Dhbreneti- I9 Ixin pbrerindelenienti
perosaffumen ^. i à MCL$ flattors TOP T ! * cL » p " V RE L y. do;ad detu
rban« 2 €3 (crementa, in. en imr tr1Culo, et primis venis exiftentia, primà die
lo- dæ cus datur, fed mclli clvfinate injecto, fi ejus eniá commoditas deti r,m
ittendus eft (anevis, fedà in brachio venà : cüm enim influxus jam defie- Faut
majori ex E factus fit, fruítra hocau- Vosa lum tentamiüs Dbrenett^ 20.
Caveautem,ne in Trollani et alicrvm. cis fribra errorem Incida iS, Qui cüm ob
maniacos motus «ebio sez fàncuin iem e brachio detrabere pDequeunt,ve- feri 54
I Y» 4 na itte em qam RENE IDSU,. dotdncap M ei poteit, noh fecam 8a eft ea,
quainfio 18. Pbhrenett- €i5 SAgHIS non mitte dus ad a- ntmi ufa5 gdoliquil In
frontis vena fec da blandé gula aá- f Y27 41v s Aut brevt z82p0Y€ . Pbrenetiz
€is, CHCHY bitulis ap 4 E - politis, qud fa&iendum . In bbrep huy T1 si run
Ho LVD. SEPT ALII MEDIOL. ram frontis fecánt; fi enim copia adfit fanguinis in
láborante ; ut in hujufmodi morbo majoriex parte cóntitigit;tantumabeft,ut
laboranti opem feras, ut potius ; atttacto ad partem laborantem fanguinesmorbum
ádaugeas: revellendus jeitur potiüis, atr fcarificatis cucurbitulis ;aüt ; quód
melius effet,venis fedis apertis. ii. Néqué etiam iri Hioc cafü ad animi ufque
deliquium mittendus eft fanguis, quod pleriíq; placuiffe video; quód; cüm
repellentibus friei- dis ab initio etiam ufi fimus, refrieerato toto; ac à
capite rettactoadeó multofanguine calido;fe- penuimeró aut phrenitis hectica
inducatur cura- tu impoffibilis, aut lerhareus fübfequatur . 23; In venà
frontis fecanda adftrictio illa gu- [z?*, quz fit, ut vena intumefcat, aut non
multum fit violenta, aut quim breviffimo tempore per- fidiatur ; ne quodammodo
ad füperna repulfo fanguine, ubiad' cerebrum et meninges perve- nerit, morbum
adauceat, aut fané, eodem in- cratffato,eunderm mætis contumacem efficiat . 25.
Cucurbitula, qti breemati,fronti,& re- liquis capitis partibus ; poft
evacuatum corpus afficuntiir,ad extrà trahendam matetiam, aren- tes non fint et
cum flammà, fed ex aquá calida; nec loneiori tempore hereant ; et fi fübjacens
parsin rüborem abierit, leviter eamfcarificabi- mus ; fin minüs, fpongiis
exaquà tepente fub- ftratum, et elevatum locum fovebrmus. 24. Cavendumin hoc
morbo, ne in eorum. errorem incidamus; quiab initio non effe purgandum cenfent,
fed ex (pectand am effe coctio- nem,maturatio enim putredinem jam factam.
fupponit,quam corrigat; quo in tempore ; facto dum ab £2ttio, C q440t23080» jam
apoftemate, morbus evinci vix poteft: eo- dem igitur,vela idtero die pu
irgandá, vel ex Hip- pocratis przcepto; 4. Z4pbor.10. imminet enimu
periculum,ne tota 1lla effrenis materia fein par- tem laborantem effundat
t,apoftema perficiat t; et vires profternat. Neque tamen crudam evacua- bii
fade cei us preceptum Hippocratis. 1. 4- 22. ve] enim turgens erit, vel nondum
putefadta; fic nec cruda fanguini admixta bibsin- tra propria conceptacula
adhuc confiftens, ut fecidle Hippocratem videmus 2. acur. 16. cm fluentem
humorem ad plevram ftatim ab initio medicameto purée fubduxit;tamquam non- aut
crudum, fed coctum. In iis, du 1alv o duzioti funt; R habarbaro non ita facilé
utendum: fi enim fimul cum biles effervefcentem m: 1e1s bilem red- eredi ay
rnis partibus;ob igneas pat- t:& ob hanc unam caufam dum ) putridun non edu
CItUr, tes,communicari Avic. ?ranaà cato aut fex fcammonii medi- 1ndidifle in
ph: quidauid dicant Grz- culi quidam, acriores Mauritanorum Íctipto- rum
reprehenf. res. camentis ex R habarbar: carandaà cenféndum eft, 26. Quamwvis in
hoc omnes feré conveniànt, fimpliciter refrio erantil bus primá tantüm dic Eur
ipifaébeiiepus a fime et par bus,f. PIRE repellenti- 1n utrepella- ris, et
influétium Rbabarbs rii tn phre auide ia ii54H dis riorz funt ALUO 422003
maltum im ufum ducendd o Solis repeb lentibus Aliqua do Sotds 775 eSI pt iit
"NE -U humorum temperetur; dolor fedetur;& affiictee arti robur
addatur, fequentibus veró diebus mifcenda effe aliqua refolventia ; fepiffimée
ta- men aliter faciendum effe,quód urgeant in aug- mentoadceó fymptomata, etus,
dolor;vigilia- et mania, ut frieidiffima etiam progreffu tem- poris in ufum
duci debean t, Aretzus admonuit . In phrene .. Cavendum tamen, ne nimis affidue
iis fiis nón. utamur frigidiffimis;aut narcoticis:tiam dicebat dintis fri
Aver.3. Colle£l.3. caput tutó calefit ; at non citra gi [imis pericula
refrigeratur ; periculum enim impen- utendum. det,ne quem dormire volumus,
poftea excitare non poflimus, ut ait Celfus:fepé enimain lethar- eum
calamitofimabire folet;ex folà mala cura- tione phrenitidis. ultraprin epum $ Q
PE 3 . » Á Eu * 28. Intop icis, etfi acetum 1n aliqua perucne get admifcere
expediat,ut et refrigeret repellat, et md penetrationcm adjuvet ; neque tamen
multum plicaydi « admifcendum eft,ne ficcauone vigilias ccncitcts neque acrius,
quod calide partes,& ficca ni- mium pravaleant . Acetiloco ;:.29:
Nequetamen placet, quod à plerifque» in oxyrbo ICCi pitur,ut aceti loco, acido
citri; aut limonum dinis aci- Atamursnimiüm enim adftringit; et ob acerbas,
d& citri, terreftréfq; partes neq; pervadio neq; admifto- vel l.mo- rum
penetrationem adjuvat : quinimó externos nem uo» wiestüs
conftringendo,refolutionem humoris 1n indendli ^ Jis temporibus omnino
impediet. F 22i DNI", E ibd » 4 TN "c De. Lethargo. v M MA .
lfiinlethargo.fi perfe, et cum febrefu- ropa gi- pervenerit, fanguinis
evacuatio per fe-. eis quado PEétam 1n brachio venam, viribus cenfenuenti-
fecanda f bus cmnino conveniat ; fi tamen, quod fxpius vez2 e: l'evenit ; vel
ad conunuamn febrem fübfequatur ; qu ádo n llvel ad phrenitim firpé etiam male
curatam, lomittendam ceníco, neq; fclum dejcétarum vi- Irium ratione, fed ob
materiam potiflimum à put. e fejunétam . S1 hecexerceri nequ cato bal ]UamcCaU-
(uen Ma: n ". apn it tamen repletu mfi t et nonnihilfían- ;4là in le-
lleuinis a« Im ixtum cognoveris, cucurb iru ]leino ££ me ufum venire
poterurt,nontamen dcrío, et hu- quado » Irmeris, aut fie bis, ut Md ain vifum
eft,fed licanda, li lateribus potiüs pone aures; prope venas applicitz: illa
enim fübtilem, m: iie ; fluxilem lian: guinem trahentes, rebellem maois, et
frioi- bdam, difficiliüfq; diffolubilem red lent in cere- bro contentam
materiam . Quód f € proximic ribus eo auxilio eamdeim talos ARCEM Jumpactz
etiam frigide materie aliquam à cerc- -Biorevelferni IS portionem. Eir32 C
avendum maximé, ne ab initio h iujus ilimorbi ad excitandum à fomno
fternutatoriis Iiramur;ex intempeftivo enim hujufmodi remc- d1o mæis funditu Ir
materia, m. igifque fubinde ;, 5ri»c;- limpingitur ; unde et ccntv max mcrbus
fit ma- pio 10 » [Ei nn .pople xlv fequuntur. Errbine- fs . Errhina in
veternooptima funt; in iis ta- pw» Afni» men Stermuta- fortis 20: utendum A IM
ee os oir M : gum Tm m Er E i LetLavgi- cis vepelle 3i barc applican- d&;
et [ane «d[trin- gentibus. Vefrcatia
25 letbar- g^ opti- 722,0 qui bus parti- bus appli€22da»s Memoria deperdita
vemedia 3200» seper calida, fed varianda, P YOvart - tate Catifa Y 4777. 6 r$4.
men, qui longocollofünt, et angufto pectore ; uno verbo dicamsqui proni funt ad
phrhifim, et qui fepé morbis oculorum tentantur, in ufum traduci non debent .
Inrepellentibus applicandis ; quz non nifi ab initio, et etiam non fumme
frigida admi- niftranda fünt, adftringentium ufas omnino 1n- terdicatur, ne et
craffior pars huraoris 1nfluxa-» reddatur, et ejufdem evacuatio,quz per
infenfi- biles meatus fit; impediatur. 3$. Dropaces,X finapifini, utin ufüm
venire debentad attenuandam materiam,eámq; à cen- tto ad circumferentiam
attrahendam : ita vefi- cantia mæis coràmendari debent,tum fcapulis, et humeris
appofita, ad extrahendamà cerebro pituitam,& aqueum humorem irrigantern;tum
derafo capite vertici,& fuper füturanrcoronale. De Cautionibus in la[a, aut
deperdztasmemoria curanda. "T. Icet abolita;aut imminuta memoria A,
folamfrigidam intemperiem referri vie B deatur à Gal. 2. de fyzapt. caufis, .
(e 3.dc.2 loc. affeél. 4. $* s.cüm tamen frigiditas hec non- jum numquá vera
fit cerebri intemperies frigida fim-. I plex fine materià;aliquando veró cum
materià [1 potiffimüm pituita ; aliquando veró ex defectu ||. caloris parti
infixi,aut fpirituum à corde immif. . f forum,& hoc caufas quàm plurimas
omnino in- Bii ter fe diftinctas,quin et fpe contrarias habeat : utà fümmo
externo frigore ambientis, fric iditatem pofitivaminducente;autab externo calo-
re,innatüm caloreém,& fpiritus;unde pars vivés calefcit;abfumente: in hoc
morbo curando pro- catarticas, et mediatas caufas Medici animad vertere
debebunt ; nec femper medicamentis. niant, càmoblivionem producit frigida mate-
ra fimilem in cerebro inte emperiem introduces Vbi veró fimplex fuerit
intempeties frieidà, et internis, et externis validé calefacientibus j et
ficcantibus erit agendum. Quod fi non pofiti- và frieiditatetentantur, fed
défectu caloris in- nati, aut fpirituum parte frieidà redditi oblivio fequatnr
Loses: intibus fpi iritus uti oportebit : In remedii ; vero habenda erit ratio
caufze ante- cedentis;cüm enim hac aliquando calida fuerit, bt 1][o, cujus
meminit Galenis, qui cüm ve colendis vitibus diutiüs füb Sole conttitiffet,
inedia ufus effet, in hunc affectum incidet: at; in conflatore vaforum
vitreorum, qüi ex fi ith 1- cis immenfo caloré memoriá amife 'fat;qui, cüm !in
eo Medici calidisutereritur, et imo rbus in de- Ecerius rueret,embrochis fr
igidis ; Capiti à mme ap phatis, ed Irt1o 3t!ol )e ex dec IS ju o frigido fadi
à. D. cibis optimé fanevinem,& fpiritus inftauran- s,ad fanitatem eft
reftitutus. In aiidBiéer n, I 1 O pA) Jeruinin mé? norie deperdi tione m nC] -
Iderat.folüm cenfirmatoantmo, 3€ fpiritibus vi- o « ais Optimi fici inftaur
4tl$ ; CUFAC1O perfecte Ia memo"1A deper- purgantib us curationem uitio,
aut caput- dita curd purgis, fternutatc riis, errhinis, mafticatoriis 4a rar?
utentur,cüm hiec folüm in ufum commodé ve-. *vænat;o eff. Opus in COTHA:0 fis,
primis diebus ma lé oleum cbamame linum cx aceto Ab- plicatur. Comato[is fométa
cx oleis nen £sto adbtQe D» f a6 eftadimpleta. Non igitur íemper purgan- tibus,
non femper cáput purgantibus, non iem- per excalefacienubus utendum erit in
curanda . Hors memorià aut abolità;aut diminutà . In Comates C fopovo[ts
affcétibus « m N. iisaffectibus,ubi aliunde ad cerebrum delatisaut craffis
vaporibus, aut ferofis humoribus affectiones ez excitentur;non veren- dus
eftufus oxyrhodini ; neq; ftatim ad calefa- cientia et interna, et externa crit
deveniendum; quinimó aceti quantitas eft augenda, vel dupli-
candaadoleumrofatum completum,vel ex Avi- cenne et R bafis fententià,ad diem
ufq; tertiam: quin et acriori in iis 2Ceto utendum eft,ut citra tefrigerationem
validius repellere poffit. Neq; placet Poffidonii fententia ab Actio relata,
qui primisillis diebus chamemelino ex aceto uteba- tur;cüm ab initio repelléda
fola fint adhibenda, non autem diaphorcticis fit utendum, fed poft- quàm
affluxerit materia ; quo etiam tempore 4 la addi debent valentiora,difcutienti,&
ficcan LECCE e M u facultate prædita, ut caftoreum, abrotanu mos;
lavendula;ferpillum;verbenaca;& fimilia . LI . . In.topicis 1n hoc morbo
applicandis, non Med. ^an [Tu $5 « 1Cacodlis,quia humectatio fiepé actualis ex
ole mbrochis quandoque vincit virtutem med n eó tutus eft ufus fomentorum ex
oleis; aut de-... E Eu imentorum incoctorum, nifi validà facultate £:c24 cante
predita fint;qualibus etiamfi utamur, peu- qe ló poft 4 D57 I[ó poft lineo;aut
cannabino panno caput erit ab- (tereendum. dn Pervigilio y[tve vieiliayuz ex
'ce[fa . Y N narcoticorum exhibendorum hcrá eli cenda E- S0nminui fa cüm
diflideant inter fe ferip tOres, "a qua bo aliis poft cbum é
ventriculolapfum, &anteex- ra exhiIhibiuonem alterius per "bus; alus cum
cær ; aliis veró poft coenam per 'lhoram. Egofic cenfeo ; fi ex fomniferis
fucrit 'Iwehementioribus, quale eft Philonium utrum- Ique;& recens T
heriaca, pizftabit priorem fen- Ireciam fequi;ne coctio turbetur, et cibis
admix- dra pom Apes at ' Cüm omnino medica- menti da fi in iss nullam nütriendi
facultatem. habeant. Sitamen maxime necceflitas üreeat., Etiam à coena per
horam concedi po (unt, v ipo- Aribu: s cibi fa cilius ded ucentibus vi m
íomniferam üd cerebrum: fic horà fomni P ilulàs ex.cynoglof- Ilo aliquando propinamus.
Si veró fomnifera. Kuerint leviora, aut etiam alimenti aliquid con- Mineant;aut
cum:cibo:exbiberi potfu unt, ut emul- IMBiones feminum papaveris albi ex aquà
lactuca, Iiolarum,nenufaris, et fimili m,.thvrfi latucze ffaccharo conditi;
autfanc à ceená per horam,ut |lyru pus de papavere,.de nymp Pha ex aqua la- jd
tucz:fic enim blanda illa cf fftumatio ex cibo Foi Wata nidiori illi, et aliquo
modo fr ig1dz ad- à fiepenumet 'ó fomnum con o «mm: ^deratas 1llas vigilias ex
fumidà, et t CX h d tres horas concedenti- 2ez4a. exhalatione productas; aut ex
calidà et ficcà ce rebri intemperie factas demulcet, et íomnuma convenientem
introducit . 40. Quotidianus tamen, et frequentior illo- rü nfüs,nifi nimius
partis Caior id perfuadeat;fuSomifz- rortt Af45 frequéenor. eendus eft ; ne,
dum cerebro fuccurrere tenta- efft i02 4€ ius; et illius fymptomati;aut
contrarium. introedis ducamus affectum;aut ventriculi coctionem im- PR
minuamus. 6- . b f^ f T n 41. Pueris parce admodum formnifera hec per os funt
concedenda; rariüs fortaffe valentio- a;folent enim quam» ra extrinfecus
applicand maximé memoriam labefactare. 42. Non priüs inanito corpore;aut
repleto ni- mium capite;nó funtinufimm ducéda: contuma- vationem Ineptos » ya
parcins $n pueris 2n ufu "m ducenda. Somnuife- ya repeeto corporeo,
cesenim humores; et ad evac aut copi" peros fiexhibeantur, omnino reddunt
; fi veró: ,00» ^^ capitiapponantur. in comatofos affectus &gros minjir9
deducunt. somnife- VA d et - - f Mee) blanda evaporatione cibi meliüs officium
iuum la * : ^ » E 43. Átenul admodum cænà exhobeantur; ut! complere quean
parcat mole obtruatur. Narcotica o non Hàáda jn princi- turalis;atq; impeditur,
ne calor fecbrilis quam- pio pire- primümex pandatur. xy[mi í "ode t:ita
tamen ne aut coctio ci-j poff c0 A. que Pepe : Y bi impediatur à frigiditate,
aut vis remedii ài 44. Cave; nein principio paroxyfmi narcoti-JsT! oss "
«^v . A 0^ E ; ca exhibeas;ex iis enim fæpe fuffocatur calor na-4 In
Coneelatione . . T IN catalepfi; five congelatione, cüm vi- r» carale- AA. deam
Praécticos omnes ftatim abinitio ca- ;// coz- lefacientibus et ficcantibus
uti;in errore«eos cmc- zs. cal;- :[ nes verfari exiftimo : cm enim in iis
peccetma- Za ipea teria melancholica, ab eàque morbus is produ- 5?furen- '|
catur;fi in principio; et auemento morbi calidis ^* |iis impense,« ficcis
utemur,craffior reddetur ;'| materia, ficcior, et ad diffolutionem InCptior ;
'J pre ftabit igitur calidis temperate uti ; ac hume- Cctantibus, ut materia
attenuetur, fluxilis redda- tur, ad evacuationem magis apta, quin ut per -J
fenfum effugientem evaporationem difcuti ; et TJ evacuari queat; progrefTu
quidem tempcris cali- diora adhiberi poterunt ; ad rcliquias materiz
abfumendas,& intemperiem à parte auferendá. [99 quet 4: In catale. 46. In
topicisitidem remediisinchoclocoace 5,7 7^ i; eÍ ns. : bft aceti tumnullibi 1n
ufum veniat; tumne pauciquifü- : cet : j ]4g1e7»da., 'J| perfunt ;
fpiritusexfunguantur ; tum .ctiam, ne ifatri humoris ficcitas, et
acoradaugeatur. In Vertigiæ . i47. T Llud folum in hoc morbo curando obfer-
Veytigino A vandum, cavendum cenfeo;cüm ex hu- 55,7, immoribus in cerebro
contentis elevati va pores,& tatorias cin jexhalationes inotdinato motu, et
in eyrum cied- capurpur ftur;fternutatoria non effe in ufim ducenda, ne- gia
fagiz- que valenda illa per nares attracta caputpurgiaz da. quamvis enim aliqua
materig pars educatur, xr1*3^ iIVII YÀÀ ) Qr (91S NA OlS, Cv icrfiam m j y
"LA 2n pavoxyf 2320 0 CO catiendt. I bilepr:- / 1 £:$ caf ut Cot80" 2 4 uS nz
Fi6€3Ais. ilept iEt €1$. "'UO62213M5 "72vEpi'epti- €15t pa"T v0X
y[7720 liosu oot gon nden T». ea 0, ^ Ww fymptoma tamen fepe jJ E aceto;aut
finapi;aut fucco ruta perfric: augetur, concitatur ma- .x motu fübito materie
morbus isine piutatur. In Epilepfia . acet,quod [, "Ntempore paroxyfmi non
pl tif Pu paffim à plurimis fieri video, qui fta 4 VU. corpus concutiunt,quin
etiam ipfum caput : fe- u ad numreróenim magis recurrit ex eo mot pe lus
perdurat 1nobftruendum materia, et di vafio. 49. Fugiant etiam, et omnino
caveant, ne ; dum.turpitudinem faciei, et diftorfionem, ac fpumaumjoccultare
tentant, capite, et facie pan- no cooperta, refpiratione liberà impedità, zeros
füffocent. $o. Cave nein paroxyfmo vomitum provo- ces ; vidienim aliquos in
invafione hocrentan- tes,ftriptorum quorumdam auctoritate ductos; przcipitem in
mortem :egros duxiffe:ex violen- |, to enim illo motu, magis repleto capite, ac
con--| citatà materià in cerebro exiftéte, ad perfectam cbftructionem faciendam
deducunt, unde apo--,.i plexia fequi folet . «1. Vt mirificé placet in
principlo patoxy--], finiori aliquid, et mediis dentibus indere ; ttj: hiansos
effe poffit, ne lingua intercidatur; fpu--]. ma educi poffit, et palatum
realiquà attenuan-], te, puta, Mithridaticá compofitione, caftoreo exu, "
iti poffit; ita 1f ut Fw "RT iE E us Je VÍA ita lignum folidius 1mmittere
nonita tutum eft, Í» penumeró enim inde excifos dentes vidi. Pte- ftatigitur
facculum ex corio,vel ex craffioti telá, repletum. atrenuantibus multis, et
validioribus quidem, finapi, evphorbio, caftoreo, rutà, aut ejus femine, et
fimilibus, ita parare, ut illius vi- ces.poffit fupplere : fic enim et voti
noftri com- potes reddemur fine illo periculo, et morbo ad- verfabimur. In brafei-
$2. In prefervatione ab hoc morbo;hzc fitin- vatieze. fecandà venà cauti
j»fiinftentacceffiones,nifiex 4^ epile- fu pprefíis menftruis ;aut
hzmorrhoidibusori- P qu o)nem morbus fumat m uttendus erit faneuis ex gum bra-
venis brachii (fs veró femel aut iterum, vere, vel. ^^"? » e iutumfo
fipervenire foleant ; aut. hax motrhoides,aut menfes fint fuppretfi, fecanda
erit veria ; in talo. aud s lud. quádo cx talo f^x- gai ?21Íf- tendus. $i ex
aurà virulentà aliunde elevatà-ad. rpilepti- mel morbus fiat; nifi infignis
plethoraid «iex an- perfuadeat,mittifanguisnon d debebir. ra tieva- $4. Cüm
plerofq; videam; Aretzo,& Ttvieen fa » o0 nà duce,in-przcavend æpilepfià
validiffimisuri "7742s medicamentis purgantibus, tum per vomitum, /
"£5 tum per feceffüm ; ; egó longa experientà doctus Lys profiteorme
numquam morbum hunc, in quo- quam per proprium cerebri affectum producti HAPE
validiorib jus vomitoriis curáàtum vidiffe fed ex... :o 11s omnes ad deteriórem
ftatum deductos:valc: üora autem per feceffi e cducentia aliqua: proi "u
flec bfíerv AVl, nod ónon lta B EE uium ducta fuerint; à frequentiori epim
eorum A CLLA L ufu, . L/D. SEPT ALII MEDIOL. ufiexhauftis fpiritibus
animalibus,a poplexiz facpé concirantur . n yeéicia $5. 1n confirmata epilepfià
per proprium ce- in capire rebriaffectum, fi quis derafis capillis, veficanti-
eptimum. bus peruniverfumcaput utatuf, atque ad peri- epilepfie pheriam humores
virulentos trahat, diutius ul- setsedié - cufculis cuam capitis infeftantibus
relictis, ut perlongum tempus ferofiilli humores per ulcu- Ícula emanent,
optime curationem irftituet ; contumaciffimos enim capitis morbos hujuífmo-
diratione ctiam curatos vidimus. In poplexia. Ataplecii 56- Vamvis excrementis
alvorefertà, non eis flatim fit evacuandus fanguis. perfectam ve- voittédus
nam, ne ad venas crudi humores trafanguis. hantur;in apoplexià tamen, cum ex
niorà confir- metüur morbus, quamprimüm fecare venam ex- pedit, fi
abundetfanguis, aut rnixtus fit fan cuini humormorbum faciens. Apopleti $7.
Quin fiindicatiofecandz venzadfit;pre- cis repeti- (abit repetitóid agere: fic
enim neque refrige- £o [215 cA bitur corpus;aut vires imbecilles
reddentur,& mitius. id obtinebimus» quod maximé exoptat Actius;
nempe,materiam morbificam commovebimus. ;8. Concudiatur/ blandé corpus, perfricetur
^osdun Calidis, et potiffimumbrachium, unde educen- 25 pof; dus eft fanguis, ut
et revellatur, et áttenuetur, emdum quicraffior perfe eft,& factusex
refrigeratnione zu. adhuccraffior, facilius effluere poflit . |. $9. Neq; Ap
oplecii £s COnCL- Neq; vulnus anguítum fiat quod aliqui- bus placet, uit motus
diuriüs perduret, fed latum fieri dcbet; nam craffior cüm fit (anguis, ftatim,
quafi reftagnat. 60. Venamifrontis aut pone aures ftatim ab Initio fecare quod
aliquibus placet, ut quampri- mum prafto fimus, non eft conveniens, nifi pra-
cetTerio univerfalis evàcuatiosfaltem per quatuor horas;admitti ramen aliquando
poteritfi pletho rà non adfit, et aliqua fübfit fanguinis copia in, capire. que
tamen duas non admittat fanguinis cyacuationes;. 61. In cucurbitulis in hoc
morbo affigendis cauto fit, ne parti pofteriori thoracis applicen- tur, ne
rcfpiratio umpediatur fed lumbis, bra- chiis,& fcapulis,quin et
occipitio,& jugularibus quandoque venis. fed poíftalias ;& tuncomnino
Ícarificare cutem fübjectam expedit. 62. Inligaturis-dolorificis non diutiüs
perfi- endum,ne pars gangrznam incurrat; fed partes modo ftringantur, modo
laxentur,;precepto Ávi- cene,ut et major fiat revulfio, et motus humoris. 63.
Cauterium in commitfurà coronali, quod laudat Actus, et alii, nó anvltüm
probatur,quód przfentaneum pon fit remedium, multáque alia - ^ E, Á € iam
invehat incommoda, de quibus aliàs . 64. Praítat, evacuatione factàsneque
nimiüm in exrimis rübefcente parte,cucurbitulam in ver- tice ponere, et
repetere, abrafo capite, vel validum medicamentum veficas excitans capiti ap-,
poncre, L "A bopledts ct$ dn fec da. vena vuln? fat ataplum . "A
popleckt Cci$ "vena frotis qua do fecanda . Apoplectz €t CHCHY- éitula
quande,et quomodo Abplican- da. Apot lecis Cis lgattt- r& QUALESo Apopleciz
C$ CO MIC Ya? 1 Có mif[ura coromals nate. Cucurlt- 'ula rs/0 '"titeyvel
mie adpoplect; €i qua quantitas €byfteriz. In apople- fitis vo- enitus fu- giendus. Antiimi-
"minuta fa- £UODHHID. Purgátia frat ex va lentiorib. Gterzauta- toria qua
do adinim Sranda. Ilo inuduo oibus ab ipabecillio v btts m "EE i4
Inclyfmateinjiciendo hzc fit animadver- fio; fiinjiciatur primó ut revellamis,
et peralvü fübducamus, ea quantitas erit infundenda, quie id praftare poffit;
et hociis obfervatis, quz aliás docuimus : fi veróutinteftina mordicanübus, et
valenter excalefacientibus vellicemus, et dolorem incutiamus in dimidiatà
quantitate 1nfundendum erit, ut diutiüs retineatur : quod fi diu- tius retentum
tormina, et inflatimationes in in-« teftinisexcitet;balano elicietur. 66.
Vonitus fugiendus;tum quód egerin hoc motu feipfum adjuv are nefciat ; tum
quód, cüm fe erigere nequeat; potius fuffocar etür;tum quód in repleto corpore
vomitus caput replere folea t. . Sribii igitur ufus 1n hoc morbo, potiíTi-
mümin paroxyftx 10, eft fugiendus. 69. Sed valentiora tamen deje dtoriá d:
xhiben- da erunt, ut paucà quantitate affümipta etiam à longinquis attrahere,
et educere poffint. 69. Sternutamenta ut maximé ex ufü füntin., hoc morbo, et
quidem valenuffima ; ira-non fta- timadhibenda;nifi priàs corpus fitinanitum ..
$i caput.
derafum oleis calidis inungen- dum fit; cautio fit ut à levi oribus priüs
1ncipia- mus, ad valentiora progrec lentes . 71. Vt veró diutius hæreant;ceré
aliquid fem- per indendum crit. 72. In merin Chymicà arte in üfam: duücendis
hec fit animadverfio: non iis folis t tendum efle », fed ipis me edicatis effe
admifcenda : cim enim. ieneà fubftanua conftent ; 1n fuperficie pofita ftatini
"9c on. dc RE d RU ANIMADEERS:. im diffipantur,& in halitusabeunt;nifi
aéreis,&& 5/7; fj; oleaginofis quafi lieentur; ac coérceantur . In
Paralyft . Pf. fed. oleis zneédicatis VAIXTA e ] 73 ]Ifi monet Avicennas, quem
omnes fe- 7^fare^quuntur recentiores, in paralyfi in prin- ^ efle purgandi um,
n ifi tranfactà quartà.; aut feptima. et netunc qu cos. validioribus me- dicamentis,
quod etiam cipionon c habet verit cítn )ateria rs (lefacta, Iancas;cgt. 4- M VE
TENUIT L] dicis in ads 4 promoventibu d fudcres movent, de e $9.85 - ha P X l
111 uberiorem bum bhuncvrinis rerentén 11 »^, ki 7 ; rt ptrs- exío) naptibusin
deterius rvei é ficra-qucouc edi tím. mon vePe* A PEE tCnll lléXiolUutaà à Pa
iltis, fudoribus autem : Queda m ! *noc et i €1l í Q4 d res ;craíffior mæis C1
"Iles. 5 cum UID lo obfervatum vi1- demus; jdtai nen,mée A (ententià;
perpetuam non, : fv enim primà ipsà die accerfi- tus Medicus fv ici m nondum
nervis impacta adhucin motu eft;dum nondum ;] otf Litmateriam quamprimum. e
medicamento fatis va ve ai IC. Atu b )LJà m firmata f alvum fubduce- It;
perfectéque obítru- ctionem 1 (€CETA; priüsattenuanda erit, et prapa- àm
evacbetur. us comm ittiti r error paffimà Me- urandà,c um cmuffis urinam. lea
rromptiüs accedüno; quz coctum Guatiati 'etia1n .Sarza pari- p nea artificia»
alioqui eS 27 Nace wer doit InOr-,& ebundé pro- cónfcrtim. ma- A » a crat-
autem parte callefcat, cxaf fiot f quando ab initio purga o Paralyti- €i$
fndors fera inu- ülta. roe LAYGUfI- jv, C5 dl ren i Paralyti- eis oleav$ fyeri
ex oleis nimiümrcalidisj& ficcis,faltem folis; ?i$ Cali- dn mala. Olea ff:i- sata fola éputilia. Paralti- g1$
vera 115 utilia. Paralyti- : €i vubif- €atia qu do conve- PIAB? . Rubifican Ha
guo ufque cuis adbarere debeant . Paralyti- eis cuctur- àiule u:r56 D. fior
reddatur;magisobftruat;atq; difficilior red- datur ad motum;&
ad'evacuatióoriem . 7$. Quà etiam ratione inunctioncs non debent periculum enim
impendet;ne materia nervis ad- hietens nimis exficcetur,& la pidéfcat:
quarellis femper pinguia mifceri debent; unde edat vis ignea illorum
coercebitur;re exhalet, et diutius adhzrefcent, neque titium exficcando contu-
maciorem morbum reddent . 76. Vtin paralyfi curandà aliquando vefican- tia;
poftuniverfum corpüs' evacuatum, fca apuhs, aut brachusapplicat? debent, ut
materia à cere- bro,& principio fpinalis ad extetna attracta eva-
cuetur;ita rubificantia folüm poft illa& t progxef- fü temporis ( Avicennas
trieinta poft dies iis uti- tür ) fpinz dorfi applicare convenit, tim ut reli-
quias materia extrà vocemus fpiritus 1terum in partem revocerütus, ut ea revifaneuinémque
dod 7. Cavendum tamen tenc, re rvbificantia e e adhareant, vt veficas, aut
puftulas 1n cure indc cant;fic enim fpirittisa d partém non revoca- rentur;fed
diffolverentur: có vfque foitur finapi- fint, dropacéfvectti adhærere quamdiu
rubida pars prefía d1eito not fcd robida perfeverát. 78. Cucurbitularutmufaüm
quàm maximé com mendat Avicennas' poft ex purgatum corpus, ca- pitibus
mufculorum partis labcrantisápplicitaé permittendi fint, n albefat, &,qui,-
rum finefcarificatione;nen quidem ad extrahendam ."E 4 LOT oe Jnireda, o
eas aa SER: intus eos f nnm ANIMADFERS.]. :3€7 ; dam materiam morbificam, ut
cénfuit Geritilis, dot: qus fcd ad evocandos fpiritusad pártem fere demor-
texas ap- tuam:quod ut obtinere poffimus, animadverten-P/ieanda - dum,
cucurbitulas angufti oris effe debere, cima multo igne effe applicandas, ac
divtiüs non effe,, permittendum ut adhzreant;ne diffolvatur quod ab iis eft
attractum. De C onvulftone .. . Y N fpaífmo; motu irruentis materize ceffan-
Wie : v . es CHC tc, ut cucurbitulze mediis mufculis affixze, ^4 rhitie p ome
"- la quado, et fcarificatz extra ufi m funt ; ita cavendum eft, ubi af 3e
f£nibhns mufz Wr "n ! -- 5 bnious muículorum ubi tendines funt, affi
plicabdá. gantur. $c. Addit Aretzus, in illarum applicatione.» e 15], Cucurbi
parce ttammam excitari debere;nam que à lab cucurbitz fit
compreffio.dcloris,conv auctcr efTe folet:molliüsi adhareant. FIS (ule i
ulfionifque jj; fms gitur trahant; et diutiüs qZo zppl;- canda. Cavendumetiam,
ne pars fübjecta; detra- Ceci Cus cucurbitulissfrigore tentetur; pars enim
rare- '/!!s faé- facta facile frigido a£re admiffo riecret. latiss p^ $2.
Cuftodiendzautem quàm maximé ab am- ^um biente frigido partes, que calidis
balneis pro- visis xime 1mmcrfe fucrint ; qug perfricatz, quaii gatz,que deniq;
dropacibus,fina pifmis;aliífve » ingeniis ad ruborem deductz, au nes calr- t
quovis modo 4j, foe rarefacta; quód nervis frioidit aS fit 1nimica, ma- zz.
£eriamq; convulfionem facientem craflefaciat. $3. Quapropter etiam
fupervenierte füdore» ossis L. 4 cb dofe fador.fu pervene- rit, quid agendum.
LVD. SEPT.ALII 7MEDIOL. ob doloris vehementiam ; maxime obfervandum erit ; ne
mador ille adhæreat ; néve frigefcat, fed omnino abftergendus erit ; fed ne
rneatus 2 aperü frigiditatem admittat ; Béve effluens fudor virtutem exfolvat ;
calente aliquooleo partes erunt MelZcho- licis :pur- gantia li- quida ma gis
conve 9UADE S Cuando "altéAus fangnis 5, et qua do fappri- auendmus, f(E9A
JE54, ttnhá . delinienda blandé. In AM elanchelia . Vamvisnon negandum fit,in
hoc mor- bomedicamenta, qux exhiberi debent ad evacuandum humorem, füb quà-
cumque forma concedi pofle ; veriffimum tamen 94. -eft;fi liquida gunntegekuss
multó magis utilia effe;necin omhibus ufum pilularum admitti poffe, Ob
ficcitatem melancholie; quamvis contumacia materiz ad eas nos revocet : nam
robuftius agunt combinatà vi,diutiüfque in ventriculo hzrent; et vehementiüsà
capite prolectant . 8:. In miffione fanguinis per fcétam venam, quamvis fciam,
plerofque Galeni au&toritate in- nixos hac uti diftinctione, üt viribus
confentien- tibus, et morbo masno facto, fecetur vena, « fi ater fanguis
effiüat;educatiür ad debitam quanti- tatem ; fin fübtilis, et rubens ; ubiad
tres uncias effuxerit; fu pprimatur: petpetuo tamen ho cfer- vandum non eft;
aliquando enim aliquà datà oc- cafione, cüm ca perit morbus 1: sin cerebro ;
opti- mo fanguine exficcato, fiin univerfo ab undave- rit fanguis, et torofz
fuerint venz, (aneuífque in iis nüllam conceperit labem,;fed copi fc làm pec-
cet MÓ M -ANIM.ADFERS. FT. T cet, fecanda quidem ierit vena, et fanguis,ctiamfi
fübtilis, et rubens effluat,omnino in debità quai titate erit evacuándus, ut
revellat à ca Dite, 1m- pediatur, quó minüsin nleram bilem vertatur, aut
melancholefcat. Galeniieiturfentengia ve- « "P € ra erit ; ubi non adfint
fiena verz plethorz ;tunc D Y, enim pro revulfione expedit fecare venam, et f1*
n iorum cundi videris nus,Cümin venis mænis í abundare nierum fanguinen n
viderimus,cfflu cre finemus; fir veró fübulem, et rubrum, fiflemus : quod p«
otiüs: i ptus fit imclancholicum fanguinem in fupernis exiftentem attemperare,
et ad benionain naturam revocare, QCoffa 7 r D Ss $474 U y Leute ru ED D e 2 Y
eR ET iunt 56. Foramen tàmen femper amn»lurm fit, ut, fi, i i CIS nA210»T2c* In
craffum faneuiném incidamu: s,prompte efflue L3rbabess mw». cH i Ab. re
pofht;neque tumor circa fciffuram excitetur. Jit ampla. M e OW *K»TS P T714 ^ y
ad. 3 m 957. Admonendus etiam eft venifeca, ut difle- Fzz4547 A5 ven: TP
1113313 7? 3 ^ * lc la f 1^1 T Veto v wap Y incutu 111 mi iquai [a im ud AVL
;Lh€ Crai- vintuli $ fioris fanguinis effufio impediatur. incifa ve- 24,0 me
hne f ÆS 2L antLeli- In Epipboi A "IZ C6 p10J0 ad oculos bur u22101-
lancholi "hn . * 4/4 ATtflt1 4 C$ e Li ^ 3 Au LJ PUER MMPEAMCTOCNGI TEMOR
b epibbo- $8. Vamvis, cumocculi fluxibus humorum. p? f fle : " cenfherir
Cial D 2 4 fA0Culort -4, tententur, cenfherit Galenus nmm 6.2d- qni, "we
Db0or. 21. Efi 13« AM eb. tilt. ob ad- t "mn " X ) X FIDUS tete) bd
d^ 2d dd d í AAA VA-LL4t wr LER, NEIDRU- ftrinzenuum ufo effe abfipendum ; 1n
epiphoráa gz As uet y ". : I E ED tamen multoófecus faciendum docet;
poufimu "1 -- ^ TR we ^A^31 E " Mood 441 EU in Lema
Oo:cumenimailiuxus nuimorls iit €exC» uy). P Re 014115, Ct" In fluxio et
materia in Intimioribus recipiatur,& ab exter--| sibus alii; nà tunica
quodammodo repellatur.aut faltem abi] ad oculos cà nonadmittatur, cui aqua ex
rubi fümmitati- abitinen- bus, ex foliis teneris quercüs, ex fragis, et
(imili--| dum 45 ' bus, vel compofitis, aut ferrata convenit :at ad--| «dri»?
ftringens ficcitas numquam admitti debet, ubi]. QÓAS. C conmimaciorem et folutu
difficiliorem efficiunt affectum, et fiepé etiam actioni visüs non leve af-
ferunt detrimentum. 99. Notant recentiores viri doctiffimi, et poft multiplici
experientiàà me comprobatum eft, in i Via 9laucis ocu l1s,ubi etiam vene ampla
confpiciun- agbla i, ; 'ü f mitioribus remediis agendum effe, quod forG'anmcis
1 "Herila, affe magis fint pervii. agendum.90. Mafticatotiis,&a
pophleegmatifmis uten- In epiplo dum.eft potius, quàm errhinis ; quæ tamen pro-
va errbi- grediente morbo, et frieidà affluente materià, ?5 ra^ modo validiora
non fuerint, in ufim aliquando venire poterunt: fic enim averfio materie fietà
æatibus canthorim oculi ad nafüm. 91. À fternutatoriis cujufcumque eeneris o-
mninoabftinédum: impetu enim propulfa mate- cul»us LTiàà Cerebro per nares, et
pereofdem meatusa poii; f, 9010s promovetur,& ab internis, et meatus ma-
gis aperiuntur, *, 247 t2au» SK FA dita- dPor:a $9 v gten ida» - humiditas ad
internas tunicas, et intra corpus; p^" T A In Opbtbalmia. . Y N. muliebris
lactis ex uberibus recenter emuléti;aut ftillaa ufüad demvlcendum.
vehementiffimum oculi dolorem, ut principem, ; locum inter hujufinodi prefidia
femper obtinuit; ita cautio adhibenda;ne eadem lactis portio diu- tius parti
àdlizreat: fepé enimab zftucc rromp- tur, et à vehementi calore oculi
acrimoniam ccn- Cipit;abítercenda Icitur blandé eric, aut novo la- Cte afperfo
fn bluenda. 93. Opiinfusin inflammatis ocvlis neque fre- quens fiGneque
multus:quamvis enim ip eo prz- valeat refrieerand! vis,cüm tamen amarotis non-
nihil habeat, fepé mordet, et dolorem adauget. Qiód fi ex longiori morà
prevalente frieiditate fenfus torpefcit ; et fübinde dolor imnünaüitur, tum et
per frigiditatem temperatur zítus,craffe- facto tamen affluxo humore
contumacior reddi- tir morbus, curatüque difficilior ; tim et visüs actio
hebetior fit, vt etiam Galenus cbfervavit, 3- Meth. med. c. 2. GO" 2. de
compo[. med. fecundum Mocz; c.1. 94. Obquasetiam caufss rejicieb IAM etb.med.
ult. ea,quæ vehementer Jeuamfirefrigerent, et re Imibus oculorum,utaca t'Gat. J
rineunt, ellantin inflammatioad [0 I ciam, et hvpocyf ^ tin; n6.» fiuxit,exituü
p EN "T (31*5 ITOnlmateria morbifica ; qux eó in lbeatur. 9$. Et
quemadmodum remedia in hoc morbo ILeni: Ha effe debent;ita ullum lentcrem ha-
bere Laéle ent liebri qua cauttone utenda us obhtbal- UMA e (N n TWIA 06H
tbalmia Obt! nfus 2e9u fi 4 Lj guens, 25€ Qt mult» $ Is, Adífrtn- gentia va lid
1 op L thalmia IL. gie da. Leztortn LabentiA bereoportet, ne pertinaciüsadhzreant,
néve, fiij epbtbal- 2 xulvifculum aliquem ex pompholyge ; Cadmià, 3C IH-
esindda plumbo;adjungamus,arefcant, acrimoniammye.»] vel ex admixtione acris
humoris, et calidi adíci- pun Allami- fcant: Quare licet albumii naovorum
diutiüs cone--jati Poi. quaffata cum aquà rofarum, vel my illnm Mis fondi va-
velfimiliunr, .acípuma yes atq; iterum detra--] i4 :io, € cZ. Ca, maxime
omnibus pro "bentur, acin ufum du-Joniic qu2 c4- Cantur, cum tamen
tenacins, adhereant ;ut huic "pene * . incommodo occurramus, foleo ego
ovum recenssit: ad duritiem quamdam c3 «coquere, et detractáil Andes - flavà
parte, per expr effionemex albo aquam ex-4» 1 - 4 À trahere et i illà uti
cumaliis; aut fané in loco cavonlile mA UE EV Ta cc iari albi, tutiz, et aqua
rofarum por rtione P impofità, in modum cementi ; per duplicem pe-tam expref
tione fact, aquam, fuccümve extra-y DESEE o BB li TRE tisocults fine moleftià,
&9 maximo cum. fructu utLfolco . ! pios Cod æreis cum Gal. 1j: ELS )
Emplafi jb onmbd.22. emplaftica um vimchabentia, et refri- fut eis in eph
cerantia in lHippit udine conyc 'nire., ut diu itzusad- d.) tbalmia Y ereant,
loi |gtoríque te porc refrieerando re-Jio pellant;ubi potifimim: iit ophthalmia
fit ficca «Jio. aut humor effiuens tenuis;necadharens; ubi vedi rÓ vi dior fit,
et mordens, füpcriorem cautio- nem adl übe bin BIEN FH: a9 Obf: Van zu
pratercà, Galenum e MEM eb nti»dü - AMeib. xit Ad de coni of. med. lecundum
loc... 2 em itpitu interlenientia do lorem in oculorum infian ^E 3n dine, nog
tione, cumalbumineovi,& lacte collocaffe deco feine. Cur. de xnu iugraci;id
veró plerique Medici paranij ex fek i1 1T S 1 Gianao utendum. 2 x femine; cüm
dn mm id mæis fit ca idv mi, nuam conveniat in oculo rum inflammatione »; [um
calidum in fecundo gradu, et ficcum in pri- jJmo pofüerit Galenus femen 8. de
fmpl. »td. fa- ^ s.d ind. affumi ieitur pro parando hoc decocto ad fc7147 YA
Jrendos oculos debebit herba pía, et ejus folia, AS Mond A ilioqui augebitiir
inflammatio. v 98. Quinimo in illius ufu hecfit cautio ex Ga- Fzzugrz-
enoibiderü, nein ufüm ducatur, nifi priüs ab- cz a&/sen uatur diligenter-;
ne pulverem admixtum ha- dum ante |beat; femináque etiam erunt excutienda :
sícque 244 Zeco- Iromimunem errcrem - E^; to 99. Infinita propemodum remedià,
aquas; |ptilveres ;&alia; cum videa im& paflim pro )jpe- 1l 5 et fcrib!
) placet iili ud h MC pro CaUutloneadnc- i 4ÀAC ; quod 1 Goctrliitno Mercato
lib. Iu Jepii: Aii orb. curasi. c. 30. fcribitur . In oculorem curat M vilia
ad- ie animadvertendum, quamvis pluri rima pra dpieiited lcripra fint remedia
nono '5, àut plurimis j aut femper effe utendum 'Serim boni promut- Jtunt; quàm
praftenr, ut a1 G ;alenus . Scio profe- I5, pl ures inom 'dam cocecit atem ded
" Ctos piles "vo Í^ p(le copia mdalium um potiüs, quàm defect tu 3 ex
Attn Jnequeunt enim ocoli ; quz. proficua fant, citra: Jdamnum perferre; ide Le
quz inordinate; et ci- Jtra rationem adhibentur rco. Iníüuffufione perfectà;
quam Cataractam I» eatara barbariappellant; curandà;4 aci removendà, 4a oculi drautio
hzc adfit, ut niinauam tali cutationl ma- 464 rere inum admoveamus,fi tuffi
xoer laboret. Si e- ve742 &o. Ph l1: Planen sleid SZICLA dina stes deed TE PTP RENS.
FEET inim acu introducia Íiupervenerit ; perf rationis $ LESE DCIlCll- jexicu
ide E Go CE "P A E, x T" ZU cdet ubl CENT AN e E -m w4Ot-periculum
impendet: fi veró tunicula depreffas ju: Bre Ciesa, ex.concuffione veheméa
dimota recurrit »ut WA.- Sternuta-
gneuto 1m pediente ; 90 1705?- dirtpoji. Catara- éfa, ante- quam aca cp 1-
"TP quid cavenda. Auribus. fS x si fim - 2106 labo vYaOAIlibus 'Ui Cone
nin! . ror. Si veró jam deprefsà fternutamentuma,u( immincre zger perfenferit;
unde aut recursüs pe--$io riculum immineat, aut inflammatonis in oculo s; «ri
fummitate dieit dextré majore oculi angulo có-- oui preffo, et perfricato,
periculum hoc evitabit im- do pedito fternutamento.. Quoniamante curationem
hanc per acüs fuii Medici fe pius ut periculum faciant, an fatis in--] i0
craffata fit, ut actioni per acum factz cedere pa- jeu rata fit fine ruptura ;
digito pupillam compri- Jii munt;cauté id facere debentne fi valentiüus id fa-.
fis: ciant, nimis tuniculam attenuent, facilémq; red b; dant ad difruptionem.
Cautiones ip " MAurium morbis curandis . N. aurium internà
curandàinflammatio- |». ne, à repellentibus,& oxyrhodino abfti-- nendum
omnino cenfeo ; cüm eniminternarumb. |... cerebri parcum repletarum foboles
effe foleattk c. materia eó detrufa, fi repellatur ; ad prinapemos.c partem
remeabit,& debrium quandoque pariet, kr... aliquando veró alios cerebri
affectus... Quód fij... Galenus, 3. de compo[. med.[ecundum loc.xepellene-...
tia, et oxyrliodinum in doloribus aurium ; et 1n». |. inflammationibus
earbimdem cócedere vifus eft j,5.. id intellizendum potiüs eft de phlogofi,quàm
de:j verà inflammatione. Si tamen non magna fuenit;;| atque non multam in
particulà,& cerebro fübeffe:| materiam cognoverimus, repelient ia aliqua in
ifum venire poterunt . 104. Qualiacumque tamen hac fuerint; qu. 5,5475
"lid leniendum dolcrem, et refrigeranduminfun- 44,245 "entur,edamfi
xíftus maximus in parte fue nt, applicita iumquam frigida appli licari d
lebebunt ; nam cuüm a4 æm 'Janguiais fint expertes aures;facile ad fibi co
'gna- fsat frigi-. "
am intemperiem frigidam flecti poffunt : tepen- 44 3a 1gitur fenpercum Galeno
adhibebusm. "y tof. Quód fi dolores contigerint à frigidà ma- /?, «urs
'erià partem extendente, qua actu calida funt, et 4^'»r/óws "potentia
omnino inftillabuntur : fic enim et fri- pu ridam intemp »eriem evincemus,
craffam mate- ume iam magis difcudemus, « penetrationem adju- lvabimus. Loth
ind 106. Intinnituaurium à lue Venere, alioqui 4ucezds. paturá fuà rebelli, et
vix fanabili, cauti fint Me- Tionieui lici; neque vehementioribus remediis
utantur : asm one& enim experientià obfervavi 1ma]jori ex par- f« morbo
re;dum tinnitum hujufmodi nimis cbftinaté evin. G?^"t? rere tentàffent,
omnimodam fürditatem induxif- "" ie. Siquod autem remedium illi
auxilio eft;uri- 1a afini,jn quà per noctem maducrit lienum. porem X pont]
caftorci, et mentaftri fafci-,,,;,, Ifrulus, diftillata; et auribus inftil
lata,aut per eva- ex »ior£o "dboratorium excepta ; maxime 1d praftat ; aut
Gallico e Apleum Gvajacinum eoffy pio exceptum ;4X auri- modium. pus bon nó . !
calefaci éra nó ap- plicanda. It221t43 Canter CO0YORA li fatuva 1 catarrlEo
Pun. ., j De Catarrhbo. 107 Vamwvis optime fciam ;.ab aliquibus etiam
praftantiffimis in arte 1 medicá viris in catarrho curando cantera proponi
inurc ndaad fituram coronalem,quo lo» co illi committitur faoi Ftajits ut et
caput expur- ectur ab excrementis,& ab infernis ad fupernas, et extra
corpus cadem revellantur : quoniam ta- men vix greg poteft, craffiora illa
excrementa» aícendere poffe, afcenfa vero per futuras permea- rc; vcrifimilius
autem eft, externe producta per cas deícendere pof dn omnino re ejicienda,&
7 ab ufu inedico repellenda effe videntur ; quod enim ali- qui (ibi fingunt
tfufpendiyintercipique materiam, ne ad pectus fiuat, tidia ufum eftzquo modo
enim fufpendi queat ; quod graveeft, nullo retinente ; ne mente quidem concipi
poteft: cüm veró hic neque occlufio adfit vafis sali icujus $, neque delica-
tio, aut CO Vii lle nc iba mor intercipi dici poteft. At veró nequetxev d
eft,cüm nul- 1a fere fit diftantia latera í zuleiteg E enim denudato cranto
periculum nof : neque derivatio, cum hac adl]. i&t- qiaminniius t
cjuseritufus. Atabufuss]. cognofcat ? ? quis adufto pericranio fecuritatem.s]
pollicebitur? quis 1nflamm: interna periculum non vereb! ibi men ibas T externa
cum inter "nis per nervos, "2 D 1 T^ "£/51^*vrnmt c 1^5 (^17 dba
venas, perat "V Ci pericula viíà 2^ doc ntanum.Coz[ilio 36. pro atio nls
et externa, Itür;aduíta parteis. eria: sjunguntur ? Atl :2end: met. io; ob multa» pro Nobili Veronen[e 143.
C" 170. Hieronymum Mércütia lem zz T omo 3. Con[iliorum; [aptus, 8c poft
omnes Fabium Pacium,z eruait:Jf[imis Com mentaris in lib. Adetb. med. lib. $.
cap. 13. 9 "Appendice ad lib-7.omnino genus hoc auxilii de- teftatos
fuiffe. Ego veró libere affirmare poí- fum, me quadraginta horum annorum fpacio
s quo in magnà hac vrbe medicinam facio, nul- lum ex iis quibus cauterium hoc
inuftum eft,vi- diffe à tali remedio adjutum, fe d aliquos etiam inflammatione
in parte excitatà effe periclita- tos : potiffimüm primis annisjuventutis mez»
quo tempore aliqui adhuc ex iis vivebant ; qui barbaram fectantes Medicinam,
frequentiüs Catarvbo senus hocauxilii in ufum ducebant ; fed fübfe- ad pulmo
quenti tempore, Medicis fpe fuà feaitlitia fa. "t5 et tho piüs,exoleícere
tandem illud, et pofthaberi me- 74/0 1r I1to CC pit. Vente s 108. Vbiad
pulmones, et thoracem, quin.Mam et ad fauces irruit materia, five tenuis fit,
five lofr, craffa, eargarifmi numquam 1n ufum veniant ; Gargari- ex motti enim
attracta materia fepe fuffocatio- fmata fa» nis infert periculum, . Quin et ubi
partes fpiritales jam reple- tx funt materià crafsà, à uad abftinen- dum ; cüm
non leve inde fuffocationis (ubfit pe- riculum. IIO. Quód f fi homo tabi; aut
afthmati obno- xius fuerit ; idem genus auxilii fugiet. Iri.
Solümtuncconvenient;cüm fluens ma- teria acris fuerit ; et autexulcerationisin
parti- bus M gienda, ve pleto bo- YaCe . Aft bmati aut tabi chbnoxis
gargorifmmaf fa 451 . Gar, ear ft ^5 ; eatarrlo. bus gule,aut aneinz periculum
impenderit 5 quádo con t&ncque et blandé id erit preftandum ; et addi-
veniunt - tisrefrigerationi adftringentibus, Catari Y12. Quoniamaliquos effe
fcio, qui, ut con- non [ft^ timacem, et moleftum morbum brevi tempore di
narcc!i (e curate poffeoftendant, ftatim nullà urgente» 5» ?7^. geceffitate, ad
fiftentia. catarrhum accedunt ; $OAgDA HT nA a 31.5 : TET. d CV. Juste ue
Theriacam novam, Philonium, pilulas ce cy ecffitate. nogloffo, et fimilia
exhibentes; animadverten- dum erit, iis uti eosnon debere ante humorum
expurgationem, et revulfionem;tunc neque fa- ciléad hzc veniendum, neincratfata
materia, óc refricerata, fi diutiüsin cerebro contineatur;ce- rebrales aliquos
magni momenti morbos pa- tiat. Ad earamen erit veniendum, fi eravia ur- ceantfymptomata,
ut fiita effündatur humor in pulmones, ut graviffimam tuffim, metum.
fuffocationis, exulcerationis, vel rupturz vena, acerrimà viafferat; tunc enim
miffo fanguine, fi opis fit, vel enamillico, et ante purgationem fiftere licet
hünceffrenem motum. De Zdngina. PM Voniam in hocmmorbo miffionem quii,
loboranti dem fanguinis per fectam venam o--] bus que mnes neceffarium
auxiliumeefle fa--], vna [it tentur, fed in loco deligendo variàffe
video.aliiss], ficanda. ex brachiis femper emittendum cenfenübus;.f aüctoritate
Hipp. 4. de vif. acut. 30. et quodi] fecti$ in brachiis non folum univerfum
corpus:| prom- proniptiüs evacuatur, fed fimul.eiiam non pa- rum fanguinis à
faucibus revellitur:alus ex par- tibus infernis, faph hanà, vcl e.- venàtali,
quód fluentem fanguinem in fluxio nis initio non ÍC- lum ad contraria k ci
laborantis, fed et fontis transfundentus, «x ad OM i regula à Galeno tradita
revellen dum eíle OQ (tendant : cum.eitHr laborans pars fit collum, fons'autem
transíun- dens fit jecur, pracipua íanguinis officina ; fi fanguinem miíerimus
(célis venis 1n brachio, tantum abefi ut ad contraria fanguinem retra- hamus,
ut po ;tiüs ad partem laborantem av Oce- mus: vena fiquidem cava indelata in
duos ra- mos fcinditur, levium, &.dexuum, qui in jugu- lares, et axillares
dividuntur: at à jugi axbus externis lary n91s v afa ortum. ducunt . Sanguine
joiturex vei nis brachii tracto, certum eft, ad v e- ias juguli edam trahi ;
sicque potius morbum. augeri, attract o fanguine ad laboratem partem, vicinià.,
et inflammatione fanguinem trahente In hac controverfià ceníco ego,on nnino
animad- vertendum efle, an Corpus mk iximé affiuat fan- cuine,five natur "
mies ibanteactam vita mfive €x folità ali iquà evacti tione (up p reísà ; tunc
enim ce níeo; f inguinem velex vena pop nus; vel malleoli effe detrahendum,
eàdem autem die, urgente morbo, vel fequenti, Jecoraria, vel ce- phalica erit
fecanda ; et fi non cefferit morbus, rübor autemadfit faciei, amp »liüs etiam
venicn- dum erit ad fectionem venarum fub lingua Á Quód fitanta non premat
fanguinis cop la, In- M a Ltaci1s Mani om M tactis venis inferiorum partium,
przftare credi- derim, ftatim cubiti venas fecare; moxq; ad fu- pernas
incidendas accedere. Inamgina Repetendaautem et ex brachiis fangvi laboranti
31s miffio eft ; non folüm quód mæis revellat; &us iteri- minüfq; vires
debilitet ; fed quód obfervatuum, da fa? $*i 3t Ce pius ad partem laborantem
affluxus novos zismf?- Geri. aut parte aliquà ; ut onere; quo premitur,
levetur, transfundente ; autob dolorem, et ca- lorem laborante parte
attrahente. . Cümautem aliqui ex moleftià medica- Wrlires mentorum, aut quód
naturà medicamenta ab- potias dà horreant, facile medicamen ta evomunt; preftat
da, quà lemper potione uti, quàm bolis ; aut pilulis : fi in folida €nim-
contigerit pilulas, aut'bolos evomi, cm. foma. conferüm, et magno impetu ad
anguftias op- preffi ab inflammatione tranfitüs propelantur, fuffocationis, et
ftrangulationis periculum non leveafferunt. "ngincfis116. Quiad
difcutiendum ininflammationi- fæculi ex bus. aliarum partium ex arentibus
pulvifculis difcut:éi parantur facculi ; inanginà numquam in ufim., &ns
mali- ducantur, quód denfando externam cutim po- tiüs curationem impediant ;
humentibus igitur porius eft agendum. r L) A notpof[rs De Plevritide. qa
slewi-. Vamyvis in plevritide curandà fectà [ ^ . vide, dolo- venáà,majoriex
parte exfpectanda ve deften- fit coloris in fanguine mutatio, €x Hippocratis et
Galeni precepto; 2.404f.10.mO- dente, $5 .dó eger ferze poflit ; ficenim et
antecedentemo fa»guizis inflammationis c: .ufam avertemus, et conjun- miffone
ctam amovebimus; id tamen p erpetuó,autin, 79 e5 exe qu l'àcumque plevritide
obfervandum non eft: fiie aliàs enim docuimus, fervandumid effe;ubive-
"975 pa; quz fecatur, proxima eft loco affecto : pro- "P! prereà
dolore defcendente, et infimam thoracis partem cccupante, talis non exfpectatur
muta- t10: nam tales partes, ait Galenus,nutrimentum fuum bauriuntà venà füb
corde ; et cordis par- tes nimiüm Inaniremus, antequàm fanguinem. infiammauorem
facientem evacuaremus . ! Quin necfemper quidem in plevritide Neg. viri« partes
fu€rnas occu pante 1v itti eó ufquefan- bus debsli guis debet, quó coloris in
co fiat mutatio : fepe ws enim dum coloris exfpecta mus mutationem, Vle tales
vires concidunt ; nec zger valebit ea € pe- ctore vacuare, quæ aut refüd: int,
aut diftupta Vomicà in pu Imones defluxa collecta funt . ; . Etevenit etiam,
ut, etiamfi vitales vires Ne; ime confiftant, non exfpedtari poffit ulla
colorisin, P^per- fanguine mutatio, fi infederit loco firmiter fan-
"!/^"$4- guis, et in denfiorem membranam infederit . dn . Licet
plevritidis curationem primo ten- tandam docuerit H1pp.2. zest. fomentis, ut;
an iis curari morbus poffit, tentemus, et dolor miI» blevri- tide foti- |bus
quan tefat;idtamen neque femper, neq; in qui US doueer- plevriuüde, aut in
quàlibet corporis conftitutio- 44, ne,autquovis fctu praftai poteft ; fi enim
Jam qwinus morbus auctus cft; aut v ehemens cft inflamma- M 3 to, CZ tio.
&dolor; zftüfve magnus, aut corpusimul- to fanguine repletum, non alio
hujufmodi re- medio uti licet; quàm aquà repente ; ne 1na- jor eftus ; dolor
;.aut affluxus materie ad lo- cum fiat. 2r. Át magni etiam in iis fotibus; qui
ad nzo1 4emulcen dum dolorem in ufum veniunt ;adhi- x a. bendis cautione opus
eft: fi epim ad fupernas t^, fons DATUES pertingat ; et verfus claviculam ) dol
lor, ftntbug; €um et materia acrior, et maxime calida effe ; di. foleat;
calidis; et humidis actu potius res crit uanfigenda : fin ad inferna. vereat
dolor,qui Dolore 4; €tiara nonadeó pungeriseffe folet; quiquencn, Jeendetey
]eveus flatuum copiam adjunétam habet; ficca, f«ti- . ediaminufüm duci
poterunt, et fané commo- dius ; attenuant enim máagis, exficcant, et di2e-
runtzex humidis autém attentiatur quiden )ma- teria, fed crafliores flatus ex
fimili materià exci- tad non 1ta commodé difcüti folent. Sarculi fo ^ 122.
Sicciii fotus, üt ex i ii lici materia vétes [jg parari folent; ita ea mæis
prefertur, quz levis lv, lit5 ficmilium ceteris prafert Hippocrates, pa- nicum,
furfures, femina, et flores diftutientes ; : falis autem etiam portio aliqua ob
exficcatio- nem hcet admifceri aliquando poffit, minus ta- menilhus addendum.
quàm folet, tum ob gra- vitatem, tum ob àcrimoniam. Mirfeeg 123. Quod fi ex
fotu etiam dolor mitefcat ; zé dolore, DO proinde tamé ftatim evictum effe
morbum ni flatipg, Cerifendum erit, aut à eenerofis remediis ceffan- &[iia-
dum,puta.miffione finguinis;fepé enimad pri- mum Ix plevrt ! M À bum, paululum
etiam tuffis fuperfit, et corpo- ^7 mee | risadfitaliqua caliditas quz
aliquando magis jr infcítet ; quamprimum dandam effe operati; ut.que reliqua
eft; materia difcutiatur;aut enim quz relinquuntur recidivas faciunt, aut ad
füup- pes ohem convertuntur. EU 26. Non fünt hoc loco pretereunda preftam.,,,
[9 iff ma duo remedia, qux doloribus iis laterali- bs SM UL busadco uulia effe
cognovi, ut multos, qui j jam p, "aflanti PN jam fuffocari videba ntur, ab
hujufmodi pericu- 5»; e lis exemerim, Primum eft;fi poft miffü i hdariz gi hui
A : mum fotüs blandimentum mitefcit in phlegmo- 4^» 4 ne dolor, quód pars tenía
laxetur, fed revivifcit veris re- mox ardentiüs, novà affluxà materià : quare.»
mediis. fi et febris, et fpirandi difficultas enam perfeverent, non erit
cunCtandum, fed: affluens ma- teria quamprimum crtit revellenda. I24. In hoc
morbo maxime pleriq; qui Me- Exrerzis dicinam P rofitentur, arcana remedia
promu nt 7o indifiz externa, interna : in externis nullum committi &e æde.
poffe errorem omnes fibi perfiiadent, unguenta cx dialthaa fubuli;/butyro
veteri,& cumini pul- vcre patant; alii ex calce, et alus cerata, &cata-
plafmata ; alii ex pice, et rebusaliis quàm plu- rimis calefacienübus, cum
zgrotanuum detri- mento: cavenda hec maximé erunt, potiffim üm In prin C1p10 ;
calore enim fluxiones concitant atq; humores trahunt; alia veró prætereà etiam
Iaxant. 25. Obférvandum prztereà, quód optimé !»/Ievrisi annotavit Aretzus, fi
poft devictum hunc mor- ^5 relige M» 4 guinem ouinem exhibuerimus tres uncias
mellis ro f. fo2 lutivi, et tantumdem butyri recentis ; quód fi etiam
progreffus fuerit moibus ; .diffcile autem füppuretur ; aut difiuptá vomica
«gris pericu- ]umimmineat fuffocaticnis,maximé etiam cone 2. feret .|In
eumdemufi:m feliciter utor quinque 1! unciis olei aínvedalaru m recentis, cum
uncià . Hil unaàmannz. |In: eumdem ufüm duco infrà fcri- eu ptum :
Recipeoleiolivarum optimi, et maturi unc. viii. aqua fo ntis lib. 11.
excoquantur fimul fine cooperculo.in vafe terreo vitreato, ad con- fümptionem
totius aque, et póft olei illius unc. vii. dentur, dolorem mitigat ;
fuppuradonems adjuvat, alvum blande mollit ;acnon ignetcit ; autin bilem
vertitur. e Suppuratione . 127. Vn fuppurati ex difruptà vomicà vix alià vià
recté expurgentur, quàm per gar matis tuffim fcreatu, non multum fpei in evacua
indà siad Mo. €8 materià peralvum reponere debet Medicus; dice p al- quód ope
Medici hoc vix fieri poffit ;. praftat vnm ex-- 1d quandoque natura, quz nobis
incompertas furgari, vlàsinvenit ; et ad falutem zgri ftruit ; audacis tamen
potius eft officium,cüm non per alias vias excerni péralvum poffit, quàm per
cor, et jecur fibi tranfitum materia parante, quod periculi plenumnezotiü
femper cenfi; ; fyncopen enim, dum per cor tranfit, inducere poterit: cüm veró
euam heparattinget, et inteftina, et dyfente- riam 1» emt" 252416 n0n n M
tiam mordaci vi concitabit ; et fanguificatrice» hepatis facultate lzsà
hyvdropem faciet. Salu- briter id quandoque à naturà tentatum fcimus ; id
Arctaus teftatur: et nos in purulento ex plev- ritide jamjam cx füffocatione
moribundo vidi- mus in Mane hoc Valetudinario, qui cüm phlegmone laboraret ; et
propemc dum ftrane eularetur, (isdores: jam frieldi adeffent, 1ivefce- rent
omnia extrema, po tiffimüm fa cies, fubito alvi flucre fu perveniente, maximà
fanici copià effusa, brevi rem ipore conval luit:raró jieitur cum id faciat
natura, cüm eadem nobis incoenitas vias fibi ftruat cum p rxtereà non fit pet
loca convenientia, omnino ncn erit imitanda à Me- dico ; poti iffimóum quia, fi
leviori pureante ute- mur, noxii nihil evacuabimus; fin validiori, vi- res
imbecilles reddemus in qu ibus fclis falutis fpes pofita eft,ut et ferendo
merbo fintidonez; et materia per tuffim fcreatu cxpelli fatis poffit. 128.
Perurinam licet; quz 1n th hnic; pul- monibus continetur
materia,difficillimé,& mi- nis tutó educi poffit; promoventibus tamen lo-
tium tutó uti poffumus, ut Í alrem materia, quz in vomicà adhuccontinetur, et
quz denuó col- z ligitur, per veficam exccrni poffit :quód fciamus; vená azygos
interdum inferi ramulis arterie aor tz, interdum ca |vzt vena -bi furcatz ad
renes, 1n- terdum vena adipali, vcl em ileentibus,& prc- ptercà frequentior
etiam éft per v eficam ejuf- modi materic evacuatio, et proinde etlam 1mi-
tanda, cum etiam fit per vias conv - ntes. 1 Subburæ tis dinreti cA COvens re
foffunt, e^ CH T» Inuftione; et fectione faciendiin ems | pyticis hec fit
cautio;ne à ruptione vomice ftatim 1 fiat, fed cum Hipp. zz Coacis
pradictionibhs, dif- ferenda erit in decimumquintum diem, ut et materia
coctione ulteriori mitefcat magis, quin ab effaüfione extra locum, ubi:
maturuerat, ite- |]., rum alteretur ; et ulteriorrcoétione meliorred- | datur;
poft quem diem, fi inuftio facienda, om- nino maturandum. Placet enrm Oribaf.
9. Sy- nop[eos, cap.3.celeriter evacuandam effe;neque » multüm cunctandum, ne
virescollabafcant;in. quo caf omnino à tali actione abftinendum eft, ne in
ilTud incommodum incidamus, in quod cam certo mortis periculo incurrunt, qui in
afci te ad feéchionem numquam veniunt, nifi ceteris remediis omnibus primüm
inüfüm ductis, et ja s exhauftis,& morte pre foribus ftante. Supture- jo.
In fuppuratis vomitus plenus eft peri- "is vomi- E ;fi enim eodem tempore
vehemens tuffis, i As pericu et exfcre: andi neceffitas fü perveniat, fimülque
5 | le[15.. - evomantur impetti multo ex ventriculo cr affio« NT ra, vIX
evitari poteft fuffocatio, cc onfpir. ante ad fuffocationem et efophago, et
arterià af perii tum prztereà, quód conftrictis mufculis abdo- minis in vomitu,
puris copia multa in pectore » repleto ;magisinteeione venofr ar- teri compulfa,
fie pé cor ita füffocat ; ut ftatim, I, Supfrya. MOYOES fubf fequ: tuf. ns vsi- «131. Proderiteamen
inanem vomitum etiam. t5 9o 5, d1gito provocare, non tamen promovere: fic. B
vac £l; . €nim à recs abdominis mufculis ab infernis parEmpnyc attando
nsrédiaut f'eandi. partibus compreffo diaphragmate, matéria pa- ratior facilius
propelletur. In A flimate . C. Vim majorr ex parte.difficultates ez re-
fpirationis à craf:à, et vifcidà materià in fpirit A s partibus contentà
producantur, f pce 'tlam non leves errores à Medicis commit- ti fol eant; dum
illam pr reparantes ad evacuatio- nem attenuantibus valentioribus utontur, et
impense calidis;exhaufta enim fi penu imero pat te tenulori, craflefcunt nimium
rel 1Qt ule; Imcr- bum reddunt incurabilem. Cum ; quod qu: Magi iid arefa- !
€tione pulmonum fit, coarctatis,8 frin elc- ! bum ductis pulmonum alis, maona d
dilisnria adhibenda erit, ne; dun rattenuare, abftereere, ' 8 et incidere
materiam ; quevt plerimüm ànhe- lationem producere f flet, tentamus ;
ficcitatein parte adducti, 5s rum1in mortem przcipitem. ldcamus.. Vrinam
promoventia tutó in hoc Ibi senere! in ufum ducin on] li valida | fucrint ;
fiepé enim |[pa rübus, quz füperfünt Bent Dliorem redd CUratioi dunt " p
UNT TR 2E. I3j Qu: mvis qua in C Imor- otfunt, po aftimüm acuatis tenuibus di S
thorace continetur ante evacuari * XN $ o» arte aliunde, Catonem atud a €
[materia, vix medicamento Nie EH ASIERE U aU t | "^ [UTC poffit; botiffimà
m à capite aftu AN r - I » !aoH 7^ 1n ff ]ima te attt-- 214A7111A y e snbe- se
calidas Ala. Aft Lmna- ticit ficca fa gtt zda, * A P La. Hct$ diuve HCA724-
'ores reddite.difB. ! ecu pus Aftbmati [44 is 'iraan 1n J fum dar4 náA ^ cet,
optimum eritmedicamentis anteceden tem] tti illam materiamstibi przeparata
füerit;evacvare,.t At id in magno paroxyfimo preftare, periculi: plenum eft
negotium ;neautfupervenjente vO-4 mitu eger fuffocetur, aut dejectis viribus
vitali-J te: bus, animalis, quz per tuffim excernit, fuc--iiur cumbat. Aflbmatü
136. À vomitoriis, potiffimüm in vehementia eis vomi- fuffocatione, abftinendum
erit, quidquid dicattpu: tus ma. Rhafis ;3mminet enim periculum
füffocationissgoi abfolutz : mirum enim in modum nifus ille pe- Non é&us
affligit, metüfq; adeft, ne materia in cefo-- fimi phagum adducta afperam
arteriam opprimat.. ! . Ius galli veteris ex agarico, fenà, cnicos, ux; A B
bmati eis ius gal adiantho, marrubio, hyffopo, paffulis, femini-li veri; Uus
difcutientibus, duod paffim paratur, et ài malus,r Mauritanis primó inhoc
morbo, et colicis do--| Cur. loribus adeó commendatur, quodque ab anti-.|.
quis, et recentibus Pragmaticis paffim ufürpa--[i; tur, quod experientie non
correfpondcat, et rain tioni adver fetur, tamquam noxium re ici edumi eft :
cüóm enim fepiüs in magna hac vrbe à doe... Cu íflimis Medicis in ufum du ctum
cernereimmos, ji 244.5». potiffimum ex defcriptione Benec licti Faventi--fi, Wo
niz7 Emptrica ; cüm et ego aliquotiessirrito fuce-fi. ceffu,in Tgiiroogs morbis
cxhibuiffem.cur fru) ftraremur noftro £be, indagare cepi ; atque obf multas
raticnes cbeffe fzepiüs, prodeffe vix vm-- p... quam, mihi perfuafi. Ex lonoá
enim ebullitio--b.. ne nitroft illa partes, quibus maxime prodeffe. jus illud.
2alli vetens crediderunt ; tamquama terreftres fübfident, atque in percolatione
reji- "14 cuntur; vifcidz autem, elutinofz, craffz, tum. et perpingues,
excute, pedibus, alarum extre- rhis mufculofis denique; -& nervofis
partibus promanantes, maxime remanent. Vnde non. folum non adjuvabit materiz ex
pectore excre- tionem, fed craffiore, et vifcidiore materià,& antecedente,
et conjunctà reddità,contumacio- rem, mæífq; rebellem ad exfcreandum reddet.
Quód fi non juris fübftantiam, fed qua illi in- | Coquuntur confideremus,ne fic
quidem in hu- jufmodi morbo cum mult pituitz copià conveÁ /f ", A 4- q n
Amiet: qua enim pro folvendà alvoindu ntur,aga- ES - t'A€71F124 f^ /bxicus,
fena, femina carthami, omnino,cüm pat- "reca iflrmam adnuttante bullitio
nem, vim omnem. ifolvendi amittunt, ex longà ebullitione ienéis ix partibus
diffolutis ; d ge vero attenuantia etiam qadduntur, ut capillus Veneris,.&
alia, cüm in. gfoperficie vi ires fuas fortita fint, ex eàdem illas amittunt;
alia veró, ut origanum,.b trys, far- | longà ebullitione putrilaginofa reddun-
(rur, atque omnino exfolvuntur | 138. Sudorifera in hocmorbi e enere,qualia ,
AMfunt deco&ta Guajaci, Chinz, Sarza parilie,Sat- S/derezs ?20ventis Ma
fras, ut concedi poffunt in adthzidid ad iine : 2 2 ajE 59a amendam materiam
antecedentem, quin et con- Wi pas junctam; ita maximé cavendum eft;ne1 IDSTUCD-
4,422). Cn dg44240 rc magna fuffocationeinu fum veniant: fu iffocan EA Eur enim
magis ceri, et auctà neceffitate fpir adi, ec quide quandoq; magna fequuntur
jas ula,& venarü ze;. lio pulmonibus difruptiones; quin et morsapfa.; p |
139. Cum ro TER ;:9. Cümtamen exficcanti facultate infigni 4Tbmitt S lleant
hec,numquam in ufum venire debent, 2 je nifiadmixtis iis quz dulcore et afpera
arteriz fera 1n u- a : ij poffint abblandir, et humores in pectore nit [me
pulmonibus .contentos ad excreuonem qmagis dulcibus. paratosreddere. |
Inparoxyf | 140. In pazoxyfmo ne medicamento purean- viopurgas te utantur
Medici, ne irruens materia attracta.» zà eff pro vi medicamenti non ad
ventriculum, fed ad lo- pinand - cum 1mbecilliorem; et folitum, fubitó egruma
Inaf bi? iterimat fuffocando . su nó ve-, ) lay : 1 to bam I41. Sic quoque eodem
tempore non eft fic- | dion dum á à : ; candum; ne füffocetur zeer; blandiendum
enim 4groimpa S asco remporestefte Galeno,quàm curandü M /me. potiüseo
tempore,tefte Galeno,quam curandu.. Inparoxyf |. 142 Quin neclyftetibus quidem
tunc locus m afib-. eft: neque enim proftratis injici poteft citra fuf- stis ne
focationis periculum « | elyfterib. 143. Vomitus etiam;ut diximus, eo tempore3
quid u- evitandus ; neque enim materia 1n fpiritalibus zndam. contenta
evacuabitur,fed quz in ventriculo;quq Nec v?! cm per cefophagum vi expellitur,
ita arteriamg a £u uéd- o (eram comprimit, ut füffocet . Non[upi- .
Eodemtempore füpinus vitetur decu. 2us ia- bitus; nam;utait
Aretzus;ftraneulatonis peri« €tat culum affert . Nonfricà o X45 Fricatio etiam
pectoris codem tempore dé pecias, Omnino fugien da. N««c fove- r46. Quinne
fovendum quidem pectus fponjtt, 4 P di pilas. elis cum laxantibus; calor enim
1lle fxpe flatij bus excitatis; fymptoma auget, et quandoqu SR fuffocat . Quam-
| [ To Bil ? 191i « Quamvisin omnibus feré morbis illud Ó "y » cratis
veriffimum fit, non effe mutanda libene infüituta remedia, ftante.eo, quod ab 1
initio, I vifumeft;in hoc tamen, commüni omnium fcri- | bentium opinione, cate
a ad eumdem fco- [funipesta intibus eadem fervanda fit intentio ; A varianda
tamen erunt remedia . In afibrma te fap? mn tanda me dicamen- tá. De Sputo
fanguinis. | EE Vm infanguinis per tuffim rejectauo- 7, farto ne foleant Medici
ftatim optimo con- 55; c;uis Iilioad d lio nem fanguinis per fectam vena1 gue
vena in brachio poufti müm dextro ex jecora rià recur /ecanda- rere,
animadvertendum, fepenumero idin mu- 3anguinis | licribus evenire ex fup
preffis menftruis purga- ^ /putoex | mentis, autaliaceffante evacuatione, quz.
per^ dentis JJ hæmorrhoidas ; et in eo cafu, fi fanguinem ex ^^ ifibns |
brachii venis extrahemus; peffimé noftro egro- 7,, J tanti erit confultum; po
tius enim flinio ni adde- ^^ | mus occafionem,ad f iu periQi arationevacu rt |
euinemattrahentes E it1gltu r,fectà vena lin talo ; ad inferna retr ahere fanguinem,
mcx |repeuus vicibus ex brachio etiam conveniet * ll'eumdem corrivare . 149.
Sed ut in reliquis occafionibus 1n hoc, " I morbo, dum ex venis brachii
fanguinem eva- 5 ;,; icuantes re petitis vicibus, et 10 non mu |tà quan-
affatun ef fi ritate 1d à aft: umus ;ita dum ex talo fane ineqa/7; gu:- Blob
eas cauf: as detrahimus, copiosé, et affatim idaz derra- 'd praítabiaaus ; ut
sera fiat revulfio . b::dum Coqua ven& r2 'sanguin? Conanturaliquiin
fanguinis peros re- veieclant jectatione cucurbitulis aut illumad loca,unde 4|!
bus cue-. effluit, revocare,aut in lifdem retinere, feliiin- |^ eurbitula
terdum füccetfu; aliquando cum zegrorum cala- patti «ff- mitate ; proptercà
diftinctione opus eft: namfi |^ x4 quà? ab externaaliquà causa in his partibus
vas fue- eonvetit * yic difraptum, indéque per os fanguis rejecte- tur, fi
cucurbitulà fluxum retinebimus, phleg- monem in parte fine dubio
concitabimus.Quod fi non rofo, aut difrupto vafe; fed reclufo 1d fiat; tutó
cucurbitulz tuncadmoveti parti porerunt. 151. Cavendum maximóé, ne, quod
plerique. |*^ kii Á faciunt, à rejecto fanguine per difruptam ves | guinis fu
PATI glutinantibus ftatim utamur; ut enim hoc [Us 10 quando aliquando confert,
fi etfufüs à venà fanguis 1m. coveniat. pülmones,aut thoracem per tuffim fit
totus eva cuatus : ita. fi illius poruo adhuc conclufa, et |" fluitans
remaneat circa pulmones, tantum ab- | cft, ut elutinantia juvare poffint,ut
pocius zegrü precipitem ducant in mortem:vifcidiorem enim [e reddunt fanguinem,
et craffiorem, sícque 1ne- [i ptum magis reddunt ad excretionem; unde fuf- .|
focationes, anhelitüs interceptiones, febres ve- p» hementiffimz ;
inflammationes partis laboran--['u tis et fübinde mors. Grumi igitur prius erunti]/a
incidendi, et excernendi, et tunc glutinantiumi'ui ufus eritineundus. In fputo
152. Quod deglutinantibus dictum eft, adi] ii| fanguinis exficcantia, et
adftringentia omnino etiam erit adfiringe deducendum . Videas enim plerofque
ftam ac tia qua5- infpuentem fanguinem incidunt,non etiam be-3u;. "ET
nepetr i e perfpecto vcroloco laborante ; an thorax; et 4» utilia, 4 pulmones
illum per fe evomant ;anà capite ad && 422»- Il fpiritalia loca fanguis
feratur; neque 2rum1 ad- do won. huc adhzreant, et an fanguis adhucibi fiuitet
; adí(tringentia, X qvidem valenticra 1nj ingere et etiam lambendo propinare,
unde ne ales Tru nesoborivntur. | . Prafente febre vehemente, in adftrin- 4f
izgé id ous, et La Mig MD... temperati cffe de- "/2 fafre- I bemus 5;
potiffimum fiaut ab inflammatione;aut Geciniiw l| eiaminde a s fit: non minus
enim ex cà im- eite S £5 CH foc minet periculum, quàm ex fanguinis eruptione,
j,, 154. Vb1ab ero fione vafis, vcl euam aper-, li2onc ex acriori fanguine, ac
bile referto fangui- 5; q4jp s | nis fiat rejectatio, purgandus ab initio
ftatim, ex atri tu A erit biliofus ille humor, ne, dum att emperare» szore.
ffa- illum prius tentaverimus, coplà fua, et acerrie mm pu- [mà qualitate
perfectum producat fymptoma.; 2224s. ineque enim putrefactus eft, ut coctione
indi- Igeat, et cum tenuis fit; medicamentorum attra- lictiont facillime cedit.
^ buf In / 110 15$. Medicamenta tamen non fint valentic- In fputo fira, quod
ica calida cum fint ; acrimoniam 1 n hu- hier hes moribus adaugeant X valida
motione » nus mctu1ic Mfluxicnem co ncitent : hinc qua fcammmonium. licont un
ent; fueienda erunt ; non folum cb« Cam, í caufam, fed euam quód venas
aperiant. ^» 4 Quà etiam ratione et aloé,& ex cà Bar. ue ftiv AMrata
medicamenta 1n ufum duci: ncn Adag PAUTAS jc c quód 'enarum ora aperiants et
acriora fiüt » cannbus ji anm par fit ^ n 4la; a N 1/7. QiiRbabar- barum mm
fputo f[an- guinis fufpecium . 1n fpnto fanguiais quado va lenter fic- cantibus
utendum "ceti fo- ufas 172 f/puto fa»eguin:s linis falpeélus . Quinimó R
habarbarum aliquando inz hoc fymptomate noxium eífe folet ; cimenim igneis fuis
partibus altius fefe infinuet ;'& fan- guini mifceatur ; quod vel ex
lotioimpense fla- vo ab ejus affumptione perípicué«colligitur; ubi forcé non
pro ratione bilis educatur, acutior, et calidior fanguis redditus morbummasgis
acuet, et deteriorem reddet. rj$. Inífputofanguinis ex vafis, aut pulmo- nui
crofione, illud inaximé animadvertédum, an plus fanguinis exfpuatur ; an puris
: fi enim. plurimum fanguinis, ad ftringentibus maximé res érit agenda: fin
veró multum puris,& pa- rum fanguinis excerpatur, potenter ficcanubus erit
utendum; citra multam adftriéctionem;alio- qui pus perdit pulmones; fic Gal. $.
AZetb.6.fo- lis trochifcis Ándronis Polyidz, vel ex chartà combuftà utebatur.
Vnde et cüm pus merum. cxcérnitur, folis fimilibus trochifcis utemur . 1 $9.
Non placet eorum fentenua,. qui. The- mifonis, et Thetfali fententiam fequentes
ina rupto, velapezto vafefincerum acetum ad for- bendum, et lambendum
concedunt, uz aut ad- ftrineant, aut grumofam. fanguinem incidant ; certiffima
enim utentibus illo fincezo imniiet pernicies; partesctenim certiffimé
exafperat;ac ||; ubi per afperamarteriam rranfit,tuffim excitat; | nde nóvum
fluoren? promover: dulcórandumi oat erit aut melle, aut faccharo ; atque fic
ina ufum ducendum. 16c. Intopicis adhibendis placet Tralhliami] £275 uc Voli
confilium, ut emplaftra frequenter mutentuüf » 2565/5; ne incalefcarit ; 1d
enim, inquit, fanguinem eó vocat, proptercàirrigationes potius placent. t61.
Frigidiffima ramen actu hzc effe non. debent: przxrerquám enim quód talia omia
pes étoriinimica effe cenfui doctiffimvs Sener, fi externe etiam partes rubrx
et calentes foerint, fangwnenr ad interna propellendo fluorem. conctabunt. 162.
Qwvàmvis quz valenter adftringunt, et exficcánt, urgente morbo, maxime commen-
dentur ;cauté tamen étiam hacinre agendum eft, et incraffanua erunt adnufcenda,
ut amy- ]um, far, et lac: quód àmmoderatvs ficcantium ufüstuflim excitet
contvmacem, fed inanem ; undeant nova fluxio fanouinis promovetur,aur vena mæis
lacerantur. De Ph:hif. 165. Vm inter omnia prafidia ; quz 1n. phthifi in ufum
veniunt, Iac primum. fibi locum vendicet,ut mu ta de fpecie lactis,de
quantitate, detempore, de modo; ac mixtione, opum? à Gal. s. € 7. 7M'erb. szed.
propofita, recentioribus plerifq; recipienda ; et commen- danda judico ; ita
illud ; qwod ab omnibus fere recentioribusadditur, nufquam tarnen à.Galc- no
traditrm, non recipio, ut à lacte affumpto non dormiant zeri : cüm enim per
qvinque hc- ras ante cibum velint exhibeédum effe xeris lac, fi
fomnusinhibcatur, et preftanuffimo auxilio mA tabidi t0piCA fa» piis tnu-
tanda. Acin fri- gidiffima effe mon de bent, 944 tboraci 4p pliczantur.
SiCCAVtiA valeter 15 fgate fan- £141n15 em pla fits admi[cen da . l^ phbtbifs à
lséle ^f Su bto dora nmieaum Tr Phtb 'h ; ÆN y qp anunæ al );£$ ^ ^h "4$
7220. EU £t. litatis fomnus ille confe: tabidi deftituentur fomno nempe
matutino, pociffimüm cüm exficcati fepé noctes infomnes ducere foleant, autob
tuffim moleíftam fomnus impediatur; fi etiam eo tempore à fomno arcea- mus, et
ficcitatem augebimus,« vires vitales imminuemus ; per fomnum autem.&. vires
1n- ftaurabimus., et cor pus ficcatum humectabi- mus, coctionem lactis in
ventriculo accelera- bimus. Neque cnim valet ratio Mercurialis, quód fomno
majores fiant eva porationes; quód in tabe, five hecticà febre, five catarr
ho;& pul- monis ulcere, blandailla evaporatioiactis ma- xime ad fomnum
majori ex parte deperditum onferar; in verà autem phthifi cum diftillatio- ne
acri, et falfuginosà, et ulcere pulmonis, tem- perata hæc evaporatio utilis
erit ac. acriorum exhalationum calorem temperabit;phitfque uti- et tuffim
cohibendo : quàm damni evaporando ; maximé cüm tuflis concuflt ione lactis «tondodbio
amediat E 164. Cüm phthifi confümptis; fialuidluor fu. perveners lethale fit
maximà cautione uten. dum eft, fiin 115alvus non dejictatin ufu fubdu- centium;
blandé enim omnino agendum, neque caffram, prunorum dulcium decoctum, man-
na,mel violatum aut ad fummum, mel rofa- tum foluuvum tranfcerdesze debemus. De
Tuff. d Vód fcriptum fit ab aliquibus, et do- ctis quidem VAS: E [n ^ E [uriats
fitiat; vigilet, qui vbevmata curat . vigilan- in curanda tuffi quàm
piures:zgrotantes vigi- e. C liis macerant, ut fluxiones.impediatit ; peflimo
74474» fane confilio: ut enim fuperfluum fomnum ce- rebrumnimis replere
concedimus, ita 1mmode- ratas vigilias muito majora incommoda afferre
experimur; potiffimum cüm per eas vitales.vi- res corruant, quz in. hujufiriodi
morbo maxime neceffariz funt : vieilandum4ane eft cim: à ce- p a. rebro adeó
affluit materia, ut fubitz fuffocauo- fa dern nis peticn ilum immineat; «&
tamdiu vigiladum, quamdiu tàle imminet periculum: fecus in muíh x 4 moderatà;
dormiendum enim;ut concóquantur ALES Nn humores,«& quiete pectus firmetur
;fi enimo "v7 Galenus 1. de /12m.cap:28.ut citat Rabbi Moy- fes 213-.Se£t.
Aphor.ícribit, tuffim ; fternutatio- nem, et fingultum cutaria diquando;cüm
hcmo fuftinet ; atq; fefe abiis; quantum fieri poteft, motibus cfficiendis
abftinet, ( quoniam cum motus ifte fiat à voluntate, fed 1rritatà ; poteft quis
interdum volés non.tu ffir) cur etiam fom- num non commendabimus, in quo omnes
fiftun tur fluxiot nes, X tuflis quafi fufpenditur ? . Inufu pilulari im in tuffi,ad
evacuan- Pilula d dam materiam in capite exiftentem, non placet tu[f mal?
aliquorum fententia;inter quos fuit doctiflimus ?^/ cendi Mercurialis, qui
volüerunt; eas exhibendas effe 44" - perquatuor,aut quinque horas poft
cenam, «quando ventriculus nondum, ut ait Mercuria- E ai lis, ex toto vacuus
eft : quoniam tunc niagis fa- 7^ r pernatant, et facultatem mittuntin Pin Des,
4. I d et afpe et aíperam arteriam. Cüm contr illudcer- Giflimum fit ; ex hoc
modo exhibitionis multa. -d.. fequiincommoda;nam aur cum cibo cititis fib-
ducentur ad inteftjna ; quàm oporteat ; aut fané femiconcocrum ciburs deducent
ad inferna;aut ommum fiet confufio | Quare pra-ftat;autince- eM S natum illas
fümere, autíane fiummo mane jeju- peor 10; « vacuo ventriculo devorare, procurato
forno per ünam, aut a]jteram horam. De cordis Palpitatione . . T N
graviffimohoc morbocurandocaven dum maxime, ne Gal.verbis $.4e loc. ai siiid
affect. 1. ubi afferit, omnes, qui paffi funt palpi- e 34,,,. 'aUonem cordis, à
fectione venz juvamentum »us fan. &CCeptfIes.quem fecutus Avic. 1.5.7 ratd.
c. Cap. guis mi- 7:3n omni cordis morbo, fcribens,utilem effe» tndus, Íanguinis
miffionem:quifpiam adductus in om- ni cordis palpitatione fanguinem per fectam
ve- nam .evacuet; neq; eni: omni, neque fempet Galenus fectione venz utendum
ibi cenfuit, fed omnes, quibus fübitó, cm fàni effent, fine ullo alio accidente
cordis palpitatio füpervenit; fanguinis eductionem juvifle: hos veró,quód inte:
grà,& inculpatà valetudine fruerentur, à fan- 2uinis copià, forfan. et
calidioris, in eum mot- bum incidiffe, mihi fit vetifimile;quod quilibet etiam
ex Gal.2. de caufrs pulf. cap. 2.collieere po- terit, càm dicit : Z4ccidsr
ettam pulfuum imaqualz- (45 Interim ex fanguinis Copia, qui aut in venas aut
ertt. In.cordis palpitatio abteriastp[as fit vufu[us; atq; bac quidem [anguimis
aniffone fedatur facillime. Hactenus Galenus. Caufæft, quia copia illain venis
arteriasillis vicinas premit, et coarctat ; qua fi venz fectio- ne tollatur;
tumorem, extenfionémve venarum tollit ;Jocàmque fübinde-dat ad motum arte- ris.
Vnde veriffimum eft, cuicumque cordis palpitationi, ex humorum copià in venis
exi- ftennum,optimum effe prefidium fanguinis pet venam detraétionem ; quod
confirmavit etiam Gal./;b. de veua fect. ad verus Evafiflrataos, cap. 4.
Quemadn odum etiam fi aut eftuatio;fervor- ve fanguinis, fiveervfipelas aut
coripfum ten- tare agoreffus fit, aut etiam venas;arteriáfque » vicinas
invadens, et palpitationém inducens, ad hoc auxilium ag2rediendum nos invitat. Precepit hoc Gal. 13. eth. cap.
11. € lib. ad- verfus Erafiflrareos, cap. 8. Atut hac veriffima,s funt ita
aflerendum ett, in veràillà cordis pal- pitatione, qua illi cum aliis
particulis commu- nis eft, quz que morbificz folius caufz foboles cft;non conferente
facultate, quz majori ex par te ex flatu eft, drminuto calore ; tum etiam nz
non verà, quz cordis propria eft, fi vel ex frigi- do humore; qualem defcribit
Hippocrates, vel f1 alio, /sb. de facro zsorbo cim fcribit: 57 porro ad cor
proereffvm fecerit af fluxus » palpitatie appre- hendst, C anbelarsones, G7
corpora corrumpuntur, «liqui etiam cux: fiunt Cum enim dk dcenderit fi- tiita
frigida ad pulmonem aut ad cor, pevfrigerz- tur feng:isy vena autem violentey
perf icerate vd N 4 pulmonem, C cor affiliunt, &£ cor palpitar . nullo modo
fanguinis miffionem convenire, :Quins ne tunc.quidem fanguinis per fectam^venam
evacuatione utendum eft, cum cordis palpita- tioà virulentà materià ccr imp
etente fit; autà vapore; fuliginéve venenosà. Quód:fi Avicen- riasin omnibus
cordis affectibus venz fectionem utilem effe dixit; non proptercà tamen in
omni- bus caufis evincendis morborum cordis utilem cfle pronunciavit; $1c etiam
in palp ita tione» Conveniet, at non Íempcr, nequein quàcumque
-patpitationis.causà commendanda ; In paljita - 168. .Sedillud in evacuando
fanguine per fe- tne cor- &tam venam maximé anima dvertendum; fi ma-
dis,«bi in Ximam in corpore laborantis hoc morbo fübetfe fanguinis fæguinis, et
humorumabundantiam cognove- abundan Sina qu 12 non tantüm vires premat, fed et
i- tia mitt Wa quoq; vafa diftendat, tutó nosadillud auxi- lium defcendere-non
poffe nifi fanguinis mo- qu» 95 tum.cor verfus abendé proficifcétis fimul com-
X indo: peícamus, ac abipfo corde revellamus : cüm., enim cubiti vena.,.qua
fecanda eft, ab axillari axillaris autem non longe ab afcendentis venze cave
ramo proficifcatur, unde 1n cor ramus in- fienis coronarius divaricatur,
abundantiorem. faneulnis copiam ex venacavà hauriri contin- get; ex quà
quidemre fiet ; ut plurimus fanguis Cor verfus iterar ripiat, sícque cbn dis.
viícus ma- 21s fuffocabit .. Ne igitur in hoc incommodum incidamus, co
ipfotempore,qno in brachio ve- na tundetur, utrifquehypochondriis optimum erit
us [ut sá- lerit cucurbitulas affieere,;dextro quidem. 5 «uod inde vena cava
exoriatur ; finiftro autem, quód illic plurime terminentur arteriz, quz
Mpirtuofum à corde fanguinem revellere pos |rerunt : fic enim fiet ; ut
qua:jamiavafura erat licor fanguinis copia, cucurbirulis admoüs re l'vellatur ;
quz vero influxit ;venà fectà exhau- P riatur. . Quód fi humoris; et fanguinis
tantas linon adfuerit copia, aut fola fufficiet fanguinis l| per fectam venam
evacuatio, aut fane poft illam llapplicari poterunt cucurbitula .. Átubi
infienis adfucrit fanguinis abun- Idantia ;in utriufque brachii cubito venam
ape- | rire, udliffimum erit tfi veró non adeó magnas | fuerit; finiftri tantüm
füfficiet fecto . 171. Quod fi ne (ic quidem affectus ceffave- |
ritarteriofum,;& fpiritibus plenü fübtiliffimum | in arteriis potius abundare
judicabimus;& tunc dis affects j| cum Gal. Ze cur. rat. per fang. mni
[[.11. íectiones arteriarum opus erit . Sed in eo cafa non magnas, fed exiles
|| potius elizemus fecandas ; quales funt ee, qua | per digitos excurrunt:licet
enim parva fino ma- I ximum.tamen juvamentum afferunt j atque fa I ciliis
inductà cicatrice, fine anevrifimatis peri- culo coaleícunt. 173. Cucurbitulas
fcarificatas dorfo affixas cordis palpitationem curare ; fcribit R hafis 7.
Continents v At Avic. 4. Fen y 1. Dotl.$. cap. de | Cucurbitulis ; eafdem dorío
applicátàs aliquas | quidem Cczur bi- (Hla i pale tttatione cordisqu& de
appli- £anda. In pa:pita tone core
di: a4 ve n3 fecan- da. Arterioté- 731A 472 COF bus guade C07) GEX1f » Arteria
qua fecan d4127 cor- dis palpi- tationt « Cucurbi- ) ] ^ t'i'a dorje ffxa&
in x. m HII Cim rn. P cordisqua 9o profsat.? fi ! atit. cordis £ro- vdedut fistibus
L^. tricals quidem bona facere fcribit ; fed et vencericulum ledere, et cordis
tremorem inducerc: fi tamen cautio adhibeatur ; utrumque optime obfervát- fe
dicemus, quidquid dicat Mercurialis nofter in fta Praxt,capsite proprzo ; cüm
fciamus ; peri- tum; Medicum numquam. repleta corpore cus curbitulas ante
totius ex purgationem applica- turum .. Diftinctione igitur potiüs ali3opus
eft; nam fi ex humoribus palpitatio cordis prove- niat » fi dorfo € regione
cordis, ur plerique fa- ciunt cucurbitulz applicentur,id in manife- ftam vgri
pernicienrfiet; augetu r enim circa cor faneuinis Copia ob calorem, et dolotem
: doce- bat enim Galenus rr. A4eth. 17. übi 1n iis fit plethora, non magis ex
pulmone in pectus. ali- quam excrementi. partem transferri ; quàm.» ex toto
corpore 1n utrumque. At ubi palpita- tionis cordis flatus fuerit in causa »
evacuatà materia, unde elevantur, cucurbitularum ap-plicatio dorío é
regionecordis. praftantiffimum erit remedium. Quinimmó applicari etiam.
commodeé. poterunt, ubi cum flatu frigidus quifpiam humor-conjunctus fuerit:
nam ven- tofus fpiritis admotà cucurbitnlà digeretur; qui veró reliquus eft
humor; facilis evacuaaione » detrudetur. . Flaubus etiam cordis
palpirationem. inducentibus ; femper humorum et in ventri- culo, et
inteftinis..& flatuum ibidem collecto- rüm maxime habenda eft ratio, atque
ii inde.» fubducendi ; quod. iis inanitis, fepiffimé folu- tos ltos etiam eos
obfervaverimus, qui circa cor ob^ Ivcrfabantur . . Fugiendum veró quàm maxime
illud, ;, jalpita ide quo nos Galenus 12. Math. ult. admonuit, fuis mum fi
adhuc in iis partibus fücci, ex quibus flatus 4; (s fia" Ielevantur,
continebuntut,à nullàre m: ac1s eí- tibus, sz- Ife metuendum, quàm à calore,
quod eos colli- ters zz Ijuet; atque in flatum vertat, fed digerere ncn.o lids
mon valeat: craffa et 1m, et ejutinofa dum calcfiunt, effe. men- Iflariofum
fpiritum gienetre folent, Gal. tefte» AMI Pr dv Inbidem . ftutr m ; tertia. Vbi
ad cor aut efferveícens fanguis ; laut bilis affluat; ut phlegmones, ucl
eryfipela- itis periculum adfit ;, quibus in corde productis; 54. Ideíperata
omnino falus effe folet ; ftatim àfan- sellestia, Ipuine miffo, vel dum
mitdtur, circa cordis re- cordi Afm. Irionem repellentia adhibete convenit :
qua 9lsanda. Iquamvis 1n morbis pectoris omnino fueiendas e(Íc conftitucum fit
; 1n hac tamen afflictione js irum, ad quamcumque partem materia fluens
Irepellatur, ea fitignobihor corde, necinde ad- Iro fibitó mors immineat, nullà
interpofità mo- Cere la- raapplicanda funt. bordite en 177. Vbi ex craffo
fanguine cor hujufmo- erafis hm Hi morbis laborat, à diureticis, et füdorife-
7». Dum mit 71;
fa*ii diMreticA "Is erit abftinendum ; nam hec exhauriunt fe- ? | : $» 6 à! beso yg É C
fudorie um faneuinis, et fanguinem craffiorem red- ! pela dun! Ld "^j 7
UEntHf, 178. Verüm, fi aquofus humor, et ferofus,,,, ;,, norbumillum producat,
nibil eft, quód facifé sobtitaa iius yuin hujus morbi poffit evincere . PLI,
2Difeutien dibus fia- in Cor- dis palpi- faftone, snifcenda fnbadfiri gentia o
In flatulentà palpitatione vehementer || rcfolventia damnanda fünt : nam fpi-
ritus vitales nimis exhauriunt. Quód fiin ufüm ea ducere .. neceffitas cogat,
ad- ftringentia ali- qua erunt admi- fcendaa . 20g LIBETIA Comprehendens eas,
JDe dolore l'entrictii. eiendum erit, lAnimadverfionum, et Cautionum Me.
dicarum, 4$ no 0908 Ousinvrelk qua. - 1/77 uUualium partium morbis fuat obfer
Yauda. SUN inflammatorio dolore, inflam- Dolente W| mationem partis, aut
eryfipelato- veztricu- fum affe&tum infequente, genus /^ v6 iz- omne
medicamenti pureantis fu- f^amma- nifi fimul affluxam '/?vé» par id ventriculum
bilem cognoverimus;in quo ca- i pureantia omnia evitabimus, ob innatam ca- 4 pienda.
Iditratem, et nenovz fluxioni ad partem Ja1., fo! ore laborantem detur occafio
; concedemus SIS, cantia fis ramen Sus vcuna $3 ufune daucend2- Rbabarba yum 1n
do love vexit: eui infla $9 X 0rto fsgiendz. Qiata n dolore vé- zriculitia- fl^mm TI, yio. quan- do
conc.- dcnda. Ventrieu- lo dolente có mflam »lomé . f icida po (as Co ex- irà
appofi n0,9Ha5- do cox vten.at. Ventricu- li ia dolore «o6. tamen lenieritia,
abftergentia,cumrrefrigerauóe | : t m ne aliqvà: tamarindi, fetum, fyrupus
violatus, | et fimilia concedi poterunt.;. R habarbarum, multis in hoe
familiare»; omnino fueiendum: nam et igneis qualitatibus nocet, et biliofi
humoris affluxum folet con- Citare. 3« Opium, et opiata, licet in omnibus vene
| triculi affectibus fugienda fint, urgente tamen» dolore inflammatorio, cum
lenientibus ca ad- mifceriin paucà quantitate poffunt ;fic enims neque actionem
impedient, dolori fuccurrent et intemperiem imminuent : etenim fic Gal. Ze:
compof. med. fecundum loc. circa medium, exayni-- F7 nans medicamentum quoddam
Afclepiadis adij* ftomaticos,quod recipit plura medicamenta, &:] ^"
inter hzc aloén,& opium; reddénfque utriufq;j 7 raticnem,inquit, alocn
vitiatos humores ex pur-4^ care, et infcrné peralvürn évacuare: opium ve«4 *ii
1o fenfum obftupefaciendo, mitigare moleftiamgr'i ortam ex acrimonià humorum;
erat tamen opi ad reliqua medicamenta dofis unius ad vigint quatuor; quam etiam
non improbat . 4. Im inflammatorio dolore ventricuh, aum incipiente eryfipelate,
aqua frigide potum; au^ [) frieidiapplicatlonem ut convenire aliquand 4;
concedimus; ita id faciendum ab initio maxim] cenfemus; affluxà enim maseti, fi
frigida exhiu'ic beretur, morbus curàtu difficilior redderetur . | «. In
doloribus autem ventriculi, et ineft]; zorumà frigidà materi,áutà flatn ex. eà
gem]i, tO5 fi | WIH. io; | to, fi contumaces fuerint, et multà fübfitmate- ex.
frg: ria, Hiera licet à Gal. commendetur, et à ple- 4a,«t crz/ ifque Medicis,
quoniam tamen tardiffiméopes /2 mate| ratur, aC fepe dum ob vifcidam materiam
tuni- 1/2 Hrer« | auget,necéffarium effe cenfeo medicaméntum jaliquód pureáns
admifcere, quod et materiem cis ventriculi adlieret, attenuata, et in halitus
4/44 ^, * » 1 " A ut converfa. materia ventrem diftendit,& dolorem
"^'^^ »n€n1147 Hryoans$ . n smifcendit. adjuvet fübducére,átque Hierz vim
intendat, ut diaphainicum;electuarium Elefcoph,& fimi: !lia ; nequémultàm
dubitandum eft, ne ad. partem laborantem fiat multus materix affluxus, cum enim
támmulta adfitcraffa, et vifcida materia, vim ombium medicámeéntorum hebetat,
i| et impedit, ne à longinquis trahat, materiam autem etiam 1n éo exiftentéem,
et attraéctam | quamprimüm fübducat,ita ut minima ventriculo noxa inferatur ex
affluxu materiz, utilitas '€ró maxima ex caufz morbifice evacuatione s, j|
potiffimum fedato dolore. De: Ventyiculi irsbecillitate ex frigida ite npevié .
6. [ N $uellibonz cornftitucionis ; ave catelli pu; 72 perpinguisapplicatióne
reeióni ventris riculo.ap . E - x £^ ; PM A culi, prima lizc fitanimadverfio ;
quód cüm in »:4; ze J| tardà: coótione ex friaidà intemperie; nihil fit fomnum
quod niagis coctionem adjuvet ; quàm IoBieus, (errim et riori interru ptus
forinus, ánimadvertant. pá« P^" - sicrites,Jieexanquietis fit pücr, qui ex
affiduo motu motu fomnum patientis. interrumpat-: majus eniminde damnum.ex
impedito fomno feque- retur, quàm utilitasex blandoillo calore; quod etiam ex
catellis magis verendum ; potiffimum fi patientes ex lis (int, qui et facile ex
pergiícan- tur, et difficillimé in fomnumrelabantur. puliin 7. Secundo illud
etiam animadvertendum applicatio. ft, Cepenumero ex hoc complexu t udcrem ex-
gecaven- citari, quinifi affidué detergatur, noxam affert dus fador. magni
momenti : quare vel ab eo defiftendum etit ; vcl- intermedio fübtüliffimo
linteolo 1n eo períeverandum. Inm,b- $8, Suntetiamaliqui adeó in Venerem pro-
iiio? pi,utexcoamplexu in fomno polluantur aut 45174- 3d Venereos congreffus
conciteptur ;1n quibus omnino ab hujufmodi remedio eft abfüncdum, De. INas[ca.
€ Fomitu. Vomitus 9. E Tfi quàm plurima ad vomitum attinen- fugiendus,
tiafuperius propofita fint ; hoc tamen, fieauez-. loco aliquá non fünt
omittenda imagbl momcn- tioryfed er tj, qug in vomitu exercendo pro naufez, et
vo- gente ^ *- qytüs curatione maxime funt et animadverten- far tne da,&
cavenda . Brirnàm igitut fir quód Iicet jio; fc. ir adiquibus, qoibusautob
ventriculi imbecil- ^. litatámsatitob afflexum aliunde humorum col-.] lieitur.
materia in ventriculo »concedendus fiti] vomimis.frequentius tamen 1d non erit praftane:]
dum fed femel; aut bisin menfe, ne et in ma--], lam confuetudinem
deducamus;naturam » patrz] tem ww À rem imbecilliorem reddamus; et membrum co-
éHoni ciborüm, et nutridionirinferviens, fentina excrementorum efficiatur. :
Cüm vomitu materia: expellitur, five» p, pis fponte; five levivomitorio
(numquam enim for | 4 4,4755 ti in hoc cafu utendum eft) non erit longiori tem.
i4fjfgedz . pore in eo infiftendum ; cüm alioqui cupiditas cvomendi fepe
perfeveret; ne. ex nixu, feu vo- mendi impetu, aut vena aliqua in pectore, aut
in eulà difrumpatur . aut affluxus.novus mate- riz potiflimum biliofie
concitetur, infrà igitur potius fub fi fttendun jT ' TRUM * x i. ?. (Orr Repe
ità ctiam potiüs evacuatione,:& petendis, 1nterrx iat | 1C fiat, quàm unica
d. nua didi 12. Quinimó prior magis protrahi poteft ;. ;,, ;; ;»/;- pofteriores
autem breviores fint; licet cum ali- gadauz r1; 11lud auidebi. ut multa Vezitus
is hoc autem,ut craffior repeti fex in fundo ventri- qnales efVonmitus €N pot
45$ TE^ ; m i fubfidens educ qu e po Xflitsfed nullàalie- /e4e27, ni materie ad
partem attractione; 13. Si qi is on ex naufca neceffitatem vo- situs, mendi
commonftrante ad vomendum promo- 44: fé» yu veatur, fed quod feid effnsere non
pofle expe- /» se»fe rimento cognovetit ; ftatutum »» menfe diem., ft, non aut
terminum non prafigat ; p. nunc plures, habeant nunc pauciores dies
interponantur;ne 1n pra- diem $fa- vam, &inevitabilem confi etude lta dedu-
I catur sut fi fl pats, et quaframur | latutum terminum aliqua datà occa- fione
tranfcendat, in morbos aliquos incidat. 4, Quam 'ls autem; data hacoccafione;
VO- VFontt* OQ mitu qui apftj- itu evacuandi fint, fi tamé ad vomendum ine-
mei, ptfuerint, aut fi perpingues fuerint, aut angu- fto nimiüm pectore, aut fi
atiàs fputo fanguinis tentati fuerint, aut fi cerebro admodum imbe- cillo, aut
oculis debilibus prediti fint ; potius perinferna purgabimus. Womendà | 4$.
Vtconcedendum, vomitotia, quz vehe- quádoie- mentia funt, quibus humores ex
pelluntur à to- $450 vt- to Corpore,aut faltem à longinquisattrahuntur; tricalo
C Tejuno ftomachoeeffe exhibéda; ita in levioribus quando 4 concedendis, quz
contentos in ventriculo hu- «cds mores evacuant, ea diftinétio adhibenda eft:
quód fiquis ad vomendum non ita facilis eft praftatà cibo vomitum proritare,
potiffimum. ficraffi fuerint humores : fi veróad vomendum fuerit facilisynec
humores multüm rebelles fint; pratftabicid jejuno ventriculo tentare ; aut
levi- culo auxiliojuvare, Cras ba. 16... Quinimo, fi non folüm craffus fuerit
hu- soribus more ventriculo evacuandus, fed in paucà quan $n wertri- citate,
licet malus ; poft cibum erit vomitu €ji- «ul2(xi-7 ciendus ; admixtus enim
cibo facilius expelle- fence ' tur,etiam qui in fundo ventriculi confiftit,quod
m ^1, alioquinon ita facilé ventriculus in fefe contra- UU . hensillemelevare ;
et propellere poterit. . Cavenda tamen magna ventriculi ex ci- borepletio e1,
qui cibum ad vomendum affu- mit ; difficilior enim redditur vomitio, quód
ventriculus (ead expellendum, quod illi mole- ftem eft, vix tantà pofità
repletione contrahere pcteft. Y opitriri A09 21H $ replegtür. IS. At í11 At. ne
ftatim quidem ab affrmpto cibo »,,, ;,. aut evom;endum eft; aut vomitorium
fümendüs,;, ; 7, fed tantum tempcris intcrponendum, quantum sto, qua fufficere
pofle conjeceris, ut humor noxio ad- 4/4 vo- mifceri poffit, agitar.i,
circumvclvi, et verfusos mu» 25- ventriculi fiblevari ; id veró-fit fpacium
unius. Zendii hcrz, aut ad fu rini m duarum : 1d autem fem- per intelligendum
eft de vomitu ad evacuadum ciexcrementa, quz in ventriculo cconünentur ; et de
levibus vcntcrlis ; quid enim in vomitu vniverfüm corpus evacuante, et in
vehementi bis vomitcriis obfervandum fit, et alias dictum c(t, et ab Avicenna
petendum. De Siti izymoderatA I9. T fitis.ex immoderatà caliditate; .& 55;
;,,,, ficcitate ventriculi, aüt eam COGI. 75; 2547 prafen da h umorts calidi et
ficci,eqva frielde 4c frigida largo fa pé potu curatur, " aft m exfünguen-
&ibezda, do, et bilemob multam aquz copi lam inecftam C quado fr bducendo ;
ita maxime cbfervandum erit ; fi calida. fitis hzcinexhaufta ex falfa pitvitz
adhafu pa rictibus ventriculi, vel ejufíem n fundo illius $ mo rà producat!
r,frieida potum ncn fcre uti- ]em; quód cont: macem mæ?is cavfi m reddat ; et
craffiorem ; eam vcró ctiam fa cile potus pr rg terfluat : przfta ibit 1e1tur
tu aovà calidà ; qux maais penetrat, attenuat, divtiüfque in ventte.
commoratur, pouffimtm fi quidpiam 1lli ad- mixtum fit ; quod attenuanti
facultate. pra di- QD a tum 31»; tüm fit; fed et in paucà quantitate, et non
excedens. De Cholera. Cholera | 20. Vamvis in hocaffe&u, et per fuperna,
Jaborates et nim inferna humores excerri foleat, quédo per &impetu tali;ut
freno potiüs,quàm fupe ftimulo opus fit ; quoniam tamen aliquando ir- C^ 24542
vea tiones quidem adfünt;fed promultitudine» pe vba máteria non complentur ;
ideó adjutricem ma- vag4,, Dum Medicus porrigere debet : at tunc ambigi- tur,
an fuprà;an infrà. Primo ieitur confidera- bimus, an naturà ad vomendum zeri
fint faci- les, et an confueta fit aliquando talis evacuatio; tunccenim per eam
partem adjuv; ii am nt, hac diftinétione adhibità : fi cibi corrupti talem
niorbura produxerint, ftatim vomitu excerni pofle; uteuam fibiliofi humoresab
hepate, aut univerfo corpore fucrint transfufi, quód biliofa per fuperiora f. aciliüs
excetnantur »fin vero aut ad vomendum naturà ineptus fuerit ; aut craf- fior
fuerit materia ; praftabit. abftereentibus fubducerce. Von ^ 21. Sed fi
vomitoriis agendum, ea omnino ria in cbo €evitentur, qua vel aliunde attrahendo
vomitu lera fint attractam expellunt. ex. levib. . Sed cüm blanda illa mu!
vicem fint;aqua Fomiter te pida; hvdrelzeum, mulfa, ox vmel,quæv aria ria in
c)? vatjoneid petant; quomtódo ea in ahi F0424T7 s? Sibiliofa fit; et mordax ut
ctiam fyncopen inducat, aquam tepidam, vel jus pu Ili fim- riezate plex, vel
hydrelzum potiüs eligemus :Si craí- maierit fior fuerit materia, et picultz
admixta, pt rxeh- genda eritaut mulía, aut oxymel cum aquá : S1 trefactus
cibus, omnia hec convenient . 23: Per inferna, fiopus fit, id eft;fi moveatur
imperfecte, fi biliofa fuerit,à mannà cmnino abftinendum, et abftereenübus ex
melle; aut faccharo ; ftatim enim 1n CO rruptelam trahun- tur,&b jilefcun t
:fedfcrum lactis omnium erit oreftantiffimum remedium, aut caffre fucci por
tio, quz ardorem cohibet;mordicauonem com- primit, * blandé fübducit : quód fi
pituita pu- trefacta 1d excitabit, aut bilis craffa, nihil pre- iius rit melle
rofato, aut folvente ex fero lactis ; aut facto cum infufione rofarum rubea-
rum. 24. Vtvomitoria in aliis morbis curandisin Veste multà qu: inütate affumi
debent, ut etiam mole r:aiz cho natura ad vo cé" m proritetur;itain hoc
mor /e4 zen bo mincr copia fufficiet, vel Aretzo tefte: quód frat, mul- Ur
icmeiovss ventriculo, et difficilior exitus /4 2/2tà humorum acrium reddatur,
et major vis,& do- '^//* lor ftomacho inferatur. In repellentium, et
roborantium ufi hec adíit cautio ; numquam ftatim ab initio ea 1n. ufüm duci
poffe : fi enim ex copià ciborum, aut ;,,, quas humorum 1n ventriculo, et
vicinis pasbine Ü- qoid quo lis morbus provenerit, non prius ea concedi pc-
5,4» i5 terunt ; quàm materia 1]la majori ex parte fit. wap d gvacuata : quod
(i aliunde affluxerit, nifi vires cez4a . i4 exfolManna, (5 faccha 1? barata s
f"fecta $ cbolera* Repellen - tia1n cho it4 exíolvantur, permittendum
etiam erit, tit. pars illius evacuetur, ne illius impetu xepreffo ; aut febris
exitialis concitetur;aut ad menibrum ali- quod princeps repat ; fed non:
dierum. numero hec movenda erunt, quód morbus acutiffimus fit, et aliquando
uno;aut altero diezgrosinter- imat ; fed horarum dumtaxat, ut unius quan-
doque,.aut duarum horarum fpacio viderim. tantam humorum copiam evacuatam,.ur
vires conciderint,.& corpus quafi confumptum, et depreffum undequaque
apparuerit . De Cardialeia. Cardial-. 36, Vamvis quz adftringunt, aliquo modo
gi lahe- etàm repellart, in hoc tamen morbo rátibus in in principio repellentia
convenient, dri atn'dlo modoadftringentia : illa enim affluen- esvenii;, £5ad
0s ventriculi humores mordicantes, po- x2 41/1, ui ffimümin febrium principio
affluentesrepel- gea, lunt,adftringentiaautem, licet id praftare pof- fint,
affluxos tamen quafi retinent, atque parti impingunt: fecüs tamen evenit, fi
repellens ali- quod per os affi matvr ; repellitenim deorfum,
precipitatadvenienté;corrngat;adftringit.& in- durat, ut ficillimé;munità
parte interná,vim af- fluenus hum: risretüdere poffit, atq; repellere. Cadia. |
In vomitu promovendo in hoc morbo, gia labo- heec adfit cautio ; fiflu&tuet
materia, et proinde ga"tbu5 perinterval!la invadat, neqne nc va affluat, S
qnádo vo VOmitorlo, licet.blando; uti poffumus;ut a: rd aO, . aij , aquà
tepida, vel folà, vel cum fyrupoace- »sitoria,ee tofo, vel oxymelite : quód fi
vel ab hepate, vel 4444ode- alimmdeaffluat bilis, potiüsrevocanda erit à fu-
*^*foria. perioribus, et perinferna fübducenda. 6s cin 28. In biliofis, et
acribus fbducendisiis hu« "4d | ^ Cédis acr& rioribus, licet Galenus,
et Trallianus aloe; five, dis Hieràutantur, ut fi qua tuniciscris ventriculi
jjj, matetia adhafcrit,detergi poffit; alii autem 2,44; Rhabarbato: placet
tamen magis blandioribus ;a cardial uti, maximé cüm jam leniora commodiffimas
gia,lenio- noftrozvo inventa fint; fic decoctum tamariri- néss utes dcorum,
fyrupus rofatus fol. caffia, vel ex prunis 4&7. paratum medicamentum, aut
etiam addito fero lactis, ræi1s convenient. 29. Placet tamen magis bolovti,quàm
[liqui- S424ucess do medicamento ; quod diutiüs in ventre mo- f'^ &ilie-
ram trahens, non folüm commodiüs fübducet /^: ^»mo- tales humores;fed fimul
contemperabit illorum "777 cer" acrimonlam ; 1n quo genere et
caffiam, et pul- iss pam tamarindorum, fi premum [locum obtine- 77^ 747 rc
cenicrem . MT IDE E niant, c 30. Qnodfft1à pitvità fiatacidà, quod rariffi-,,
qua for me accidit, euamfi ufis Hiere à me commende- 52. tir, quód humceres
ilosattenuet., et fimul füb-: Here pre d'cat;cuoniam tamen et tardiffima eft in
aCtio- eardialgia ric,&frpéà materie vifciditate evicta etiam.
7"'/cesdiz imiæis retordatur, unde fiepé fymptoma adau- fter al getür,
optimum effe cenfeo, illi aliquod medi- 1*4 *»c- camen'rum admifcere, quod vim
illius acuar, et *'c4"»tr7 quamprimüm medicamentum cum infeftanti- * bus
bumoribus deor(um ducat. O 4 Ds $15 C0?7)U€i16. . De. INaufeas. Innaufea 31-
V1tos video in naufeà orani ftatim aut quado bn evacuantibus per vomitum ; aut
per mores vc- leceffum uti; felici aliquando fuccetlu ; aliquan- mt^; €
doinfelii: quod ut evitemus ; obfervandum. 2:449 P** erit, an inanis omnino fit
naufeay an cum aliquo ftf" vomitu: fi inanis; conjectandum,an aut infarcti
Anu tunicis fint humores, aut admodum adhate- a wnbs Ícant; tunc enim omntiio
preftabicillos attenua- praparas- 1€» abftergere, et incidere ; ut preparau
poflint A. educi facilius : quod fi 1n capacitate ventriculi contineantur, et
fymptoma maxime urgeat, ftatim aut vomitu educend? ; adjuto motu, fi ad vomitum
faciles finc;aut per feceffum erunt ab- fterzentibus evacuandi . De Hepatis
intemperaturis . 32. Y IN calidà hepatis intemperie;neque fem- per ab initio
medicamento purgante » jupe, Univerfum corpus, et jecur expurgandum eft, quando
Quod doctiffimi quidam viri, ex Archigene, et purcadzg, Galeno 8.de compof.
med. [ecundum loc. ad finem, €^ quádo colligunt ; neque femper ab hac
abftinendum.;, nen. rictüs folà ratione, &alterantibus ad frigidum
contentis, quod ex Tralliano; et Avicenna alii cenfent ; fed diftinctione
utendum : fi ex proca- tarticà aliquà causa fubito talis intemperies in-
troducta fit in corpore alioqui fano,detracto fan guine vena fedtà, et
refrigerandi totius ; ache- patis Hep tis £n cAlida Il trahat, neve calor, e s
patis causa, et revellendi ejufdem à parte labo- rante,ftatim ad alterantia
veniendum erit:quod fi corpus bile prius refertum fuerit, et paulaum
intemperies fit introducta, altiu(q; radices ege- rit, et quafi habitum contr
axerit, non. folum. fanguinis miffione erit utendum, fed medica- mento aliquo
blando calidi humores jaminde» 'niti erunt | pus exp urgandi, mox reírigeran-
bu s erit æendn m. . Neq; vero in ho c cafu fueie nd lus eft ufus Ain ccun i
fero, aut (vrupi rofati Í olutivi; guod docti fimo Matt; uie vifu m ef (tob eam
ratione quod cüm dulcia fint, periculum fitjne bilefcát: valet enim argumentum
in 1is, quz alte 'rando diugcüs in corpore moram turahu nt,non autcm magis
evincunt qu: àm ibdt icendo potiüs refri« 1n fubductoriis, qua c evincantur, et
bilem fi gerant. ;4. R habarbarum potius m ihi fufpectum eft 1n hOoC Cà cium
enim tardius o |peretu ir,19ne€as autem multas x artes habeat, quibus
penitiores partes í facilé adire potef s et ] jecur 1 maois excale- facere
poterit; ut ex lotio, quod ftaimab: Tum / pto me lican entof flavitiem affumit,
e ru ffum. / confp ICItUF, quii bet cognofcere po Jte ít. 3f. In externis ap]
licandis ea adf it cau tO refrigcrantia, et adítr in |gc ntia fint modera tai
tum actu, tum potci hv m conha fu: 'tla,ne vifcus fcirrl 1 port CS,q 1inde cx
halà ES I rerinceantur,ne etiam clau datur via fangu inl,aut LI denique
putredini detur occafio, De 2L7 Hepatitis i/i 2016277 perie £ali- ^a man- na
uon [wu fpectum . Hepati; 12 Intem- berie cali- da Rbhba- baybari£ f (fpe 7471
L4, Hepatis r1 E intéperie calida ve- rigeratia ett adffris Renta tm peu:?
fnfecil. De frigida Hepatis intemperie . In bepetis 36. | IN calidis et ficcis
externis applicándis |; intempe- ea fitanimadverfio; ne nimitininiisex- | | "ie
frigi- cedant: fitenim (lepenumeró,ut humidioribus 1» da, calda pattibus
abfumptis;aut e&ficcátis;fcirrhi in pàr- jen C^ fà "té cohcitentur.
f4/pacta . De Hepatis obflruttioge . Hepatis 37.| N topicisinufüm ducendis,
piimó hzc jk sn obitru- adfit cautio; ne attenuántibus umquam, éHone 4t-
vitamur, nifi longo intervallo poft cibum affum- tenuantia ptum, ut non modó in
ventriéulo cibis in chy- eie Iummutatus fit, fed in hepate'etiam jam mitita-
dgio donem in fangninem nactus fit. Quapropter |; RA. cümà ceenáad prandium
multó majustempo- |i f rs 1ntervallum intercurrat, quàm à prandioad
coenam,commodifTimium tempus judicamus c(& fe, fi fiat perhoramante
prandium. Linimbiis .. 29 Animadvertemus pratereà,antequamo |... f (us cali-
linymenus,aut inunctionibus niramur, femper [s di ai fp;m V1ÍCus effe fovendum
decoctis attenuantibus, et [i gia pra- difcutientibus cum fpongià, ut et
inunctiones ittedi. altius penetrare poffint, et materia ab actuali »l» et
potentiali calore attennatà, aut per fe diffipa- . |... xi poffit; aut
medicamentis c corpore duci. RIIANII |.emone nó priàs applicanda erunt, quàm
fectio- | ne venz evacuatum fit corpus, et pars materiz ^. I revulía: fi enim
fecus fiat,vel fi ob abundantiam e E uo WA e 4 s *. cf ^ 5s Me - - A0. deu
SCORE M. - o. ERE UUS De Hepatts inflammatione . 39.Y cet repercetientia
extrinfecüs appofita. Hepate iz medicamenta in inflammationum prin //4mmmste
cipio adhiberifoleant,in hepatis tamen phle- repelletta "m prine p:o. ante
fe élioné ve- n4 non có ; "Y^ (o, EJ 3 *» F^ T* * e » ; ^ ' *p)o l 2, 1* |
repellere non poterunt, rebellis magis reddetur 1, . K ÁO Ó N e | timor, et
contumax, craffior reddetvr materia, et duritie coptractà fcirrham excitabit,
vel re- pulía ad cor, et fpiritalia membra impetu rues, mortem ftatiminducet.
40. Laborante concavà hepatis parte, licet p,;;f'ag; faciliüs fit, medicamento
purgante materiamo ;arne evacuare ;id tamen crudà exiítente materià, et
bepauisip in rrinciplo fieri non debet, fed ccncoQà, &in «ezva par-
decUinaticne. Qvamvisautem 1n phrenitide, !* megan aliquando ab initio, ad
revellendum, evacv2n- dum, [cd d: m fit medicamento pureante ; ficut docet in,
"* d.cina plevritide, defcendente ad hypochondraa dclo- «oi re, Hiep.
2.4cut. quia, ut aliàs docuimus, non-dum cruda eft materia, fanguis nempe
bibofus ; in hepatis tamen inflammatione nullo modo 1d,, infini pre ftandum eft
: quód, cüm pars 1!la labotec;,, sone humores, auià venis undequaque
evomunt"r 55,5; i adjecur,etiamfi aliquà ex parte evacuentur ; p«»cipio
per partem tamen laborantem feruntur ad ven- sos. 2a» triculum, sícaue et 1»
becilliorem reddunt, et 454a. reduviz craffiores remanent; magifque
impinguntur. 2 AI. | T e Hefatts gibba in- fidsaata, ante dta- retica le- -
ninda al UMS. In be 11:$ HZ fla ?2 2 311076 4 yebellentt Dus, itüprilcifi0
niteda . Hepnte tn femato, aciü f !?i da fic fd 7 d 4 la 9 Quz in gibbà hepatis
parte fit inflam- matio, et quz ad eam partem affluxa eft mate- ria, licet per
lotium commodiüs expurgari,com muniomnium doctorum fententià poffe confti-
tutum fit, antequàm tamen diuretica hec in. ufüm ducamus, optimum cenfemtus,
leniente» aliquo medicamento, aut etiam abftergente», materias in primis vHs
contentas evacuare, ne» ufi ducentium per urinam, quz in primà illà corporis
regione continentur,ad penitiora de- ducta, inflammationem adaugeant. 42. Licet
autem in principio inflammatio- pum aliarum partium fimplicia repellentia in
ufum venire debeant, in hujus tamen vifceris phlegemonealiqua etiam attenuantia
calidaad- miíceri poffunt, et debent, non eam folüm ob 220 7» caufam, quód
frigida, et adíftringentia ad penitlOres partes facilis devehant;fed
etiam;quód, cüm vifcus illud undequaque angufti iffimis ve- nis fit refertum,
et illius fübftantia ex iilis: fere folis fit comp ffitasut proinde parenchyma
optimé dicatur, fi frigida fola, et adftringentia aut exhiberentur,
autapplicarentur, facillime ad- ftrictis venulis, et craffatà materià; fcirrhus
in, parte concitaretur ; aut fane tumor per fe incu- rabilis fieret. 43. Vt
proinde etiam hzc eadem hepati non valde frigida actu applicari debeant, ob
eafdem caufas; tum eti: ime ne naturalis facultas noxam aliquam contrahat ;
nativo calore quafi exítincto. 44. 9i j| I: aon: 44. Si tamen nulla adhuc
affluxerit mate- zropatein Iia, fed affluxus certó impendceat ; ut in cafü » fz
mdi I étu, aut externa aliqu: à Causa, pura repell entia, f1se ate etiam cum
aliquà adfirictione,concedi po terüt. riasvepellé 4 $- Quinimo, i in
ervfipelate vero eadem pu- !/2/ela c9 ilta conceci poffunt ; cüm :& materia
fit renuifhi- (€ 15 efipe aMnpa, calidiffima, ut periculum non fit ; ne ni- eri
1 epa amis craflefcat, &-obftruat venulas . tis, vegellé » Vnde etiam
frieida actu repellenua C3.» v fola ci Aapplicari regioni hepatis poterunt j
CUm cns eoninnt. Irenfiffima fit ibi caliditas ; qua ctiam medica- /5 er yfipe-
Amenti mntenfionem refringere facilé poterit. In. /a:e zepa- IQuo edam cafu
pau» dllum aceti indendum crit, ris, frigi- Jr frigidiffimi medicamenti
penetratioadjuvas 44 2s Ar? px flit. abplican- 47. Et quemadmodum ratione
partis ab jni- B | bebati |, Ho dictum eft;non puis repel Hane. ieudu B. t
"T" PA E: infamma (Ie, fed attenuantia aliqua effeadmifcenda ; 1ta |
à [102€ 5 17 lin declinauone non pu risrefolv im us utédv I sch æcoiimatio
docuit Galenus 15.4e:5. fed nonaihil adftrin- ne puris re Ipentium
admifcendumeerit ; ne laxatà nimiümo | (juez j. parte, tonus illius deftruatur.
bus non utedum . De Hyárope. 149. Varmwis illud et veriffimumfit;& Gaost bydro- leni
auctoritate confirmatum, /:7b. " ferofr H0 $5 TUR que tao pur. CAYC
oportet ic- Mast lrofos humoresab1 initio p! Iro ari pc offe, quód. nul 44 ize
; illain eis exfpectari debeat coctio, quód nullam purgarz cionem admittant ;
cavendum tamen erit ; 5o, validis fed à levie ribus tn- ehogdum. Poft bydra
g^:^ vale 1:a ventri ciilus vobo YADUÁLS . 1n Iydre- picis «tte- nudis tenda s
nt butic- yes p wies mua du- "T poffint . In bydvopt DEG m ear1té xWAII2HÍ
dia no 1i- ff LCLPDP Iní y iret ín düweti cis nà diu 57 fallenLVDb. SEPT.ALII
MEDIOF. cOgIS ftatim ab initiojfed ]evao 222 validis uti hydræ rialiquo med
icamento erunt prima excremen- ' ta educenda ; et fic vie ad-validiores
evacuatio- nes prxparabuntur. 49. In valenticrum hydragogcrum ufü fem- per
maxima ventriculi: ábenda eft ratio : cm., cnim majori ex parte tonum illius
I5befactent ; fi frequentiüs, u ità multis foclet;jexhibeantvr;nisíque
abillorim exhibitione ventriculi habea- türratio, imminvtà aqvá flates
cilicrem, fi Averrci credimus, zerum noftri m» inducemus. jo. Vt veriffimum
eft, ferofos hos et aqueos humores nvllà coéticne effe preparandos ; )ta» cüm
pctiffimüm perl-tiumfint evacüandi; via, per quas permeare debeznt, infar&u
funt hbe- randa: in quem ufim et decocta, &fvrupia atte- nuantes, et
abfteroentes, et incidentes maximé converient,ut cráfficres,& limcfi
humores vias cbfttventes, et effluxumvrinz ad renes, et ve- ficam impedientes
pra parentur, ac facile educi poffin at, $r. Nectamenin horum ufu diutiüs
infiften dum eft, ne dum 1d tentamus, morbificam cau- famadauecamus. $2.
Hocautem maximé in vfu vrinam proe [Hi mmcventium eft animadvertendvm, et
cavendü: vidimus enim quàm plurimos, dvm obftinaté nimis per lotium humores hos
fercft s deducere: 1! ec obfervarent,an co-- 1t potionibus 11$ tentatent; pia
augebitur, et in^ deteric remfpeciem hydrcgi is, et curatu ciffi- la urinz
augeretur, mortem a grc tis fuis acce- Ica petu [entà il!à materi in corpore
reten- IEà, et in morbificam caufam mutatà. $3. Praftat igitur per tres,
quatuorve dies, lipericulum facere, et potionibus rem hanc tam- iquam
aptioribus aggredi : quód fi pro voto hzc inon füccedant, aridis res erit
tranfigenda, fuccis Iconcreus, pulvifculis louum premoventibus ; Itrochifcis,
et fimilibus. $4. Rhabarbarum, quod in hydrope labo- Prantibus 2 à mune.
commendari video ; ut for- . [té aliis pro roborando hepate acmixtum ccnce-
lili poteft; ita fi frequentiusin ufum ducatur,aut licommanfum, aut in pulveris
formam affü m- | ptum, ad evacuandum numquam probarià me pee quód talia a aprum
non fit evacuare, qua- lia opus effet,quoc ique docuerit Gal.Zb.de purg. I
ozcd. f acul.eap. 2. quz flavam, vel nigram bilem purgant, Amportuna efTe, et
inutilia hydropicis. $5. NNon omittenda eft Galeni animadverfio lex Afclepiade,
9. de compo[. sed. Jeeundum loc. et ; M à Tralliano repetita ; cavendum effe à
frequen- f uoribus, et iteratis vacu: auonibus;qu iod hydra- j.o02a hac per
fenoceanrz he pati corpi üfque uni- ver(um reddant debilius, et plus phan quam.
profint: itaque faris eft; ceftante A lex./ib.9.cap. l| 2. paulatim, et tutó
vacuare, quam fe finando, perturbandoque,unà cum morbo agrum de» medio tollere
: praftabit gitur, ev acuatà parte materie per feceffum, hepar per aliquot dies
ro- borare, moxque yacuationcem repetere. 16. QuamM aum, £5 quando. Potulenta
i» bydrope Ex ep? fafüecin. Rbabarba ri Lbydro- picis inuts TH Hydropi- cis
rebett- ta fapiss bydrago-- gAnexia« vefeckHa ^ $6. Quamvis duos hydtope
laborantes fana- pydlropicis à viderim ; quom in cruribus perfe excitatis,
eribus et difrupus;& multà aquà ons eam partem eva- ephlicat^," caatà,
exhibitis pofteà multis hepar roboranti- pericula-. us; nullos tamen umquam
fpacio h oc quadra-- e cinta annorum,quo in magnà hac urbe medici- ' 'nam facio
; curatos vidi, quibusà Medico vefi- cantia cruribus admota fuéte, fed fere
femper cangtznz fubfecutz funt cura itu impoffibiles; ;ut paümée etiam
doctiffimus Maffaria longà expe- rientlà obfervavit. e De Lenis obftruélione s C
darstie. $7.3 N fplenisobftru&tione non ftatim refol- Veleibis s,quin ne
quidemattenuanabus 'alidis medicamentis cftasen dum :cüm enim anenuan Vicus hoc
femper fesculenus, et craffis fuccis sibusagé- refertum fit, gi ulum impendet;
ne fubtilio- dum . ribus,& liquidioribus parabus abífumptis,craf- fiores,
quz remanent, per ea quafi lapidefcant; et verumfcirrhum inducant. Splene ob-
(8. Prineipio tetar emollientia adhibenda» Jffructo c (ui t; et fluxilem
materiam reddentia ; poft au- duroymil- tem difcutientia tuto adhibere
poterimus. dendi Uu. $9. Sed cautione hicopus eft, nó effe utrum- 220, post .
vefolven- gum, Splene ob- Firuclo,no validis :ue hocofficium femel tantüm
prxftandum;tedij repetitis vicibus;,punc emolliendum;nunc quod emolliítum eft
et fufim aifcuti tiendum ; itertimi-J que quod jam emollito fübeft;iteruin
emolhen-4. dum; mox ;élbtvendii S digas tota molers$ ditfipetur . . Nec z5j 6o.
Nec placet, quod plerifque ufiratum fci- 17 l'en nus, m initio emollientibus
attenuantia admi- ticis 9 l| fcere, ut illa incommoda evitemus : cüm eim
lentius. eodem tempore ducrum illorum operationes ^" "5^7 | perfici
nequeant, fed attenuantium,& difcu üen | rium ;ob caloris efficaciam, actio
multó citiüs ll abfolvatur zinillud femper incommodum inci- | demus, quód
difcuflis fubtilioribus part ibus, | qua fuperfunt ficciores evadent;ac
difficilius fu- perari poterunt. 6&1. Nullo modo Hier. Mercurialis
fententia 5?/enicis in obftructionis lienis curatione ; /b. 3. de cogn.
'^Xàtións | C c ramdigibuma n corporis aff eciibus, cap. 21. re- aliqua ad | E:
ienda eft, càm in lienis affectibus curandis, ^44 imu am neceffarium effe
cenfuit, ut medica- "^*^: I"menus laxantibus commifceantur
adítringen- | tia, ob eam rationem, quód, cüm viícus illud admodum fit 12no
bile ;fuà naturà debet effe la- xum, et latum, ut facile recipere pr fiit humo-
I res melancholicos ; cüm fententia hzcé directo | repugnet 13. Z44eth. cap.
17. fed maximé 2. ad E ec. cap. $.& ratio id docet :cüm enim vifcus | fit
non parvi momenti,multum refert,nimiüm- ne fit laxatum; fic enim illius tono
perfracto,fa- cultatibüfque- naturalibus i edditis 1mbecilli- bus, minüs recte
fanguinem defecare po terit,& | hiepa r, corpüfque univer(um expuroare:
minus | tam en, quàm in hepate curando hac in re eri- ] mus folliciti, et in
minori copià emollientibus ] Bicuingenna admifcebimus. 62.
Fruftraobíftructum,;aut duritie tentatum Lies vix p lienem tuno O56 feenda « fe
lot: poet PÜeyieióin € fr ncifio TU gon Put- yofos Las 6 J quB s et 4 ob J 11]
g'4paran- 20 di r orediuntur ; cium enim mdflns ab hoc vifcere adl vias urina
fit tranfitus, Galeno etiam tefte, 15.. Meth. 17.1d fruftra tentare cenfendum
cft, in. quo Medicum fruftran fine contingit:per fecef-. fumieitur ea materia
ducenda etu Quód fi quan: do aliqui per lotium copiofum curati vifi funt, ut de
Bicne fcriptum eft j 2. Sec? 2. Epid. id vell; et per vias occultas factum];
recenfet Hippocrates ;velf ane aliis adhibitis re--|, tamquam rarum; mediis
emollie ntibüs X diffipantibus, et per alvum fübducentibus,cüm multa feeculenta.
per venas pbi. materia, qua foveri;ant re- novari tumor ille poterat ; per
urinas ei fubdu- ét, pra quod imitari Medicus poterit ; ubi nigras craffas,
foeculentáíve urinas adetfe COgnOverit : P Jienem curare conantur ii ; qui.
diureticisidag-. expurcay i in? rfervatio potius, quàm curatio facta eft::|
autt]. diureticis enim tutó tuncuti poterit, adantece-.| &4cntem materiam per eam
partem vacuandam..] De lero. Icet Galenus nofter, Jib. OQ; 40$, C2 quando ;
purgare eportet, doc uerit ; lenues, et feo j* initio efle évact icteritia
biliofi fucci funt ftatim evacuandi ; neiw que enim f: mper ten ucs funt «neque
ferofi dicii] poffunt: preparandi igitur ante evacuationem jl et,fi putrefacti,
omnino concoquendi ; vel exd K "I d. s ^ d - ! fh fent Ruffi fen -- Ww
"2 wi 6 A. Á t :s humores,nullà exfpectatà ccctione, abii 'andos,non
proptercà tamen nah Med imperfecto, un lequaque bile difpet: ieve- inert.
&4. At veró cüm bilis quàm minima copi: à» e. ida A clerici vA int nalliad
inteftina crahifmifs ; ex obítructio- ;, d n F II. 2257 1 [2 "P2: * S x
Leltis ned ntiori- Ine veficz fellee;torpida remaneat expultrix fa-. ;, 4j.
cultas int eftinort um, va le ntioribus femper mnc- Cc£ADRERTS ldicamentis erit
utendum . ond. 6*. Cavenda tamen. valentrora hec medica- C) a5 dà limenta
erunt, fi aut ex hepatis inflammatione» wvalentiec1 Íymptorma hoc fuperven«
rit, aut motu c ririco, fa furgan De Colicis doloribus . ^ i :, 3 1 anodvnorum
in hoc morbo: lud 1s ecolieis P W ha i primóanimadvc denied Bi iritio, fl
dulorzbug in ufüm ducantur,antequam evacuata lit mæ- initio teria, non
effeadimifcenda valentet difcutientia valere? flatus; ut rutaceum oleurb,
autolea quibus ru- [citieita » ta, baccz lauri, et fimilia incoctafint,etiamex
^^: Galeni oracepto 12. 74M erb.8:cüm enim ob co- plam mate riz affidué flatus
eenerentur;non va- lentia illos difcutere, fap édok res augent, G7. Erranzimultó
magis ; qui 1180 leis vinum E aut fapam (tatim ab REPRE dmifcent; vfteribus
infvpdunt: cruciatus ab n fiepe aup» colicis clyfteves ab initio cum vinos
eentur, excalefactis, attenuatis nimiüm rai 3 fabA3 T Ó ot. ZEE . á vUeyí
j"pyp" fis et frieidis humoribus ; et in halitus ele- 55i. vatis. d.
I" ^^?" 1 diss A143 529 )' 6o. t quemaa modum catlidaiozà hact oten-
colicis €8 tia,frive itf 351 five extra,!n prit pi lo non la uda- /ida va4l-
mus ;itaáctu etiam nimis calida concedendas 4» 44^ s cí C eocamiFt ; tpalá » Pa
69. Anime Chfte 69. Ánimadvertendum euam ; ne clyfteres colicis ge 4ndantur,
repleto adhuc yentriculo: fic enim ci- indantay, Dus attraheretur apte ten
pus,magi(que impin- repleto ve gerentur crudi humores in intefünis, augeren-
triculo. tur dolores, et cvratio redderetvr difficilior . Stubéía- 70. Stu
pefacientia quamvis in omni dolore ttezt/27? colico convenire poffint ;
frequentiüs tamen in col'icis 9- nm duci poffunt,ubi materia morbum faciens
Prom^.po- c lidior fit,& acris : non folüm enim fic fenfim pol O btundim
us,fed etiam caufz morbum facientis ris e,Lj. au onem habemus... | dis. 71.
S1quando tamen iis utendum eft;eó ufq; Opiata i; ion funt differenda,donec
vires vitales jam col- eolicis, vi labafcant ; egérque non longe abfitab interitu
: rió4s va- folet enim fzeepenumeró fine dolore dormiendo denriéus . yita
terminari . Colicis ip | 72. Incolico dolore ex pituità, fi quis recen-
dolor;5j; tàorum dogmata fecutus lenientibus folis;aut ad furgani- fummum
ftercorariis admixtis aloe, aut. Hierá éus in ini Galeni ccntentus, à
purcantibos veris abftinuc- fio utez- rit tandem honoris jacturà factà;aut
eeros mo- dum. ricum maximis cruciatibus finet,aut alterius Medici acceffione,
qui cum Grecis omnibus, et Mauritanis, validiori medicamento pureante, et
abftergente propinato,materiam ab inteftinis deturbabit, ac eà ratione dolores
aut imminuet, aut tollet, exiftimationis non parvam jacturam faciet: non
valente enim leniente medicamento vifcidam, et craffam pituitam deturbare, et
Hieràob tarditatem actionis diutiüs in intefti- inis commorante, et fepiffimé
non valente per- cranZ ^ ^ * ES wg. JERDL Q4 T: 2e C RE--- 0 0 M ANIM-ADVERS.
LIB. FII. 229 canfire, fed materiz illi craffe adharente, ele7 vatis flatibus,
validiffimi dolores excitantur ; et augentur. Qr'are preftaret u rgenti dolori
quam- primum r eductà materià fuüccurrere ; et 118 uti; qua cum attenuantibus
mixta citó materiam» fubducere pcffent. Neg; impedit, utad locum aftc 'ctum
materiam deducanius: nam neque ve- 1e locus affectus ita lafos eft ; ut hunc
Serien non adizittat, cnód ad hoc à naturá fint inftitu- ta inteítina ; et (i
qua materia ad eas partes du- citur, fimi le tiam cum præxiftente evacuaturj fi
affecta cflet pars, fi inf! ammatlorne ten Haste] tinc maximé peecaremus, fi
talem 1n eo caíu evacuaticnem procuraremus. Neque cruda» hac materia dicenda
eft cà cruditate;que ab 1n1- tio, pracepto Hippocratis; evacuari non debet; de
cà enim ca fententia intellieenda eft ; qua ex pt tredine fadià, Coéctlo nem
requirit; qua putri- dis debetur hi moribus, quales fu nt humocresin febribus
putrefcentes.. Hxc extra venas eft; 1n locisad evæuationcm inftitutis fine
eenereillo putiredinis, ita ut folis attenuantibus aliquibus ; et
abftergenübus, tam peros fumptis,quam 1n fufis, preparariad evacuationem pofhit
; quin- imo infu fis per clvífmata Pa U. atà vià,& attenuan übus
mediocribus difpofità materiá, fi ctia pureantibusattenuantia admifcuerimus,; X
eft Hiera, intceré omnibus fatisfacere. poteri- mus ; fic enim fvbdv cà
materià, et diícuffis, quin et expulfis flatibus; aut dolores folventur ; 4 alt
certe maitiores fient, Dp j 71, Olei i;0 V/ussli,- 73. Olei velexamyedalis,
velex femine lini ij: in colicis wis, ubi multaadfuerit materia craffa
;inuulis;] i 205 €v4- C^penumceró effe folet,reünetur enimaliquan- | í Bus ss
do; et vifcidiorem materia reddit : et licet tam--| teria, i,, quàm anodynum
quandoque mitiores reddat] i: il. olores, quoniam tamen materiam peccantem /]
ii fubducere non valet ; folent non curari dolores ; |ui Íed fepe denu ó infurgere.
Oleum in. 74. Apertàig itur vià, et fübductà parte mæ] ui cici;
lerie,autenematibus ; aut medicamentis pure «du ou^»do gantibus, fradhuc
urgeant dolores ; preftandf--[n optimum fimum effe folet prafidium. préftdib.
^5. Sedíi vereamursautob craffitiem mate-.| rdg riz; aut ob ejufdem
quantitatem, ne poffit prz- ddodacs terfluere, admifieadunilli etit
nonnihilabíter- abfise, 8 gentium,ut meliis rofati folutivi;aut etiam pur- |
tibus, ay; gatum, ut diaphenici l;ve cl electuarit Elefcoph,,| purganti- diffolutoru
mcum aqua aut glandium Perfico- | y; éus . rum;autaniforum; aut fimilium . Ín
colis |. 76. Quod fia à flatibus.dolores provenerint, à flatuyo- fine mulià
copià materiz, nihil eft quod magis ha data exufit effe foleat eodem oleo;etiam
ab ii nitioauc | etiam. ab per fe fumpto aut ; quod: melius cííe facpius ex-
Jue sr ^- pertus fum, cum pradicus. | EI Seem 77. In ufu vomitoriorum cauti
fint maxime: [i A a fi enim ventticulus, et fuperna parces inteftünoe | £olica.
s. Tum replete nimium fuerint, ex ufü maxime li fvs, c» 4. €rünt, ut
medicamentis ad dejiciendum ingefts: [i éufus... locus detur pertranfeundi:
quód fi totus dolor; eiüfquecaufa infernas partes obfideat, non fo- lum fruftra
tentatur vomitus, fed aliquando fit. | cum ANILMADVERS. LIB. cum zerotantium
certà pernicie;vo Ivulofi enim fipe fiunt; ac cum certo mortis periculo, etiam
ftercora per eam partem evomunt . 78. In cucurbitule magne appofitione regio-
ni umbilici ea adhibenda cft cautio, ut ea ex illis fit; quz funt in medio
perforate: fit enim fzepe- numeró, ut cüm pars fub]ecta mollis fit ac pan-
eguis,multa illius rcoles inuró trahatur, qna fub- tractionem-cucurbitulz
impedire folet : unde» vel diutiüs retenta 1n fp! acclum fübjectam par- tem
deducit, aut fi frangatur, ut hocincommo- dum eviremus, aliquando ex vitrorum
fra- ementis cutis vulneratur. 79. Cüm pluribus, potiffimum mollibus, et
perpinguibus, hx: antes fere fintumbilici, et ex vi füperpofitz cum igne
cucurbitule pinguedi- dosis a portio aliquando trahatur per eati partem, confalo;crifici
o1lliut prius fü perponàt parvüm ceratum, puta,ex cerufsà coctà ut tale
incommodum evitent - Vrincolicis doloribus ex flatu anodyna ftatim et interna,
et externa concedenda funt; ut cruciatus illi mitieentur ; matcria; unde
elevantur, fitevacuata; ita ea fu- gienda effe cenfeo cum Gal. 12.7 eth. qua
infi- gniter calefaciendo difcut ere quàm maxime va- lent: attenuata enim
fnateria. majorem Jocum. occupans inteftina magis diftendit, ac flaubus
1dauctis dolores auget. Cucurbitula etiam in iis dolor'bus ex flaVII 3t eadamfi
nondutn : Cucurbi- tale ma- £v4 inco lzcis appls cand& cati £10 e V mlilic?
mnunter- dus in ap- plicatione cucurbi(Ux 4. Colicis ex f'atu Ta- lenter di-
fcutienits An6XlA « Celieis ex tibus, ubi urgeat fyroptoma, uti poffumus ; fed.
f/4tu /a£o FP cctTante vàtes 441 Ce(lante dolore, vel mitiore reddito ;
materias; eucirbituunde elevantur, fübducenda eft;alioqui redeüt, le ufam ut
optimé docuit Gal. 12. Adethb. cap.8.Si tamen P^44:- non adcó urgeat dolor,
utomnem ad. fe trahat indicationem curativam, preíftabit evacuatio- nem
pramittere,prafertim fi multa fübíit mate- ria; aut adhuc novaaffluat, ex 13.
Z4eib. 19. 92. Contingit aliquando, ut colici dolores adeó vehementes fint, ut
omnem Medicorum 444 qu, Operam eludant, 4C quocumque auxilio adhi- doque tet
bito potitis augeantur, in quo cafu ad contraria dum. €tittranfeundum:Cüm enim
colici dolores ma- jori ex parte à materià frigidà fiant, aut à flati- bus
diftendentibus; fit aliquando, utaut ratione dolorum, aut vi igiliarum, aut maroris,
ob con- tamaciam aut incalefcant nimium inteftina, accedentibus etiam calidis,
et intrà,& forisappo- fitis remediis aut phlogofi quadam tententur,
autetiam verà inflammatione incipiant affici, aut multa præxiftens bilis ibidem
transfunda- tur; unde ad conrraria erit cranfeundum ; et in- figniter
refrigerandum. Quod mihi anno prz- teritoc ont191t, primo in nobili Hifpano,
peci- uum duce egregio ; poft in N. à fecretis Iluftrif- fimi, et
Excellentiffimi Marchionis Caravagil, qui cüm colicis doloribus per aliquot d
lies fuif- fent acerrime conflictati, et jamjam mors efset pre foribus;nulli Jp
/^ eget arteriarum pul- fus; fudores adefsent refolutorii, nulla denique
ampliüs fuperefset fpes falutis, ne quidem apud Medicos cua prettantiffimos:
accerfitus et ego, cum Golicis im delorióny frigida a«x - A "use c EET 1.
cim fitim inexftinzuibilem,linguz fcabriciem, nierorem, ac.duriciem, pertactis
autem hypo- chondriis, et ventre inferiori, calorem in parti- bus illis
eftuantem adetl c obfervàffem, Hifpano aquam multam nive et: um refrigeratam
biben- dàm exhibui, cüm naturà abftemius efset, et multz aqua potator egregius
; in íomnum pro- lapfus eft, et quatuor horan m fpatio cüm dor- miviíset,
dolore quodam. inferioris véntris, à primo maximé, ut ipfe referebat, diverfo
exci- tatus à fomno, miram bilis flav copiam evacua vit, et à doloribus liber
evafit. Vndejcollegi; Me dicos, qui illius curationem f fufce, "erant $ 1n
Causa nx rbi illius longe deceptos bá e cum. calidis remedus curationem
inftituifsent, à fr1- gidà materià factum morbum judicantes . Alte- rumautem,
cüm jam agentem animam invenif- fem, non alià ratione ftatim curavi, quàm lineo
i|ds plicis in quadrati formam com- to, hine immetfío ; ac mirantibus aftanti-
bus quid facerem, ventri füperpofito.cumque» ut dormiret injunxifsem, dnt
itiüíq; edam fom4 poopp refsus fine motu cum conquacte CICLU, VCrentes affines,
et uxor,ne jam fatis ceffifset,cum experge f ecif: ent, indign: inuitus s, quód
tànto bonoe eum privà sen t, quafi € lecto exiliit; à do- Lubin cmnino ibis :
85. Si1ex Miiaienon inteftüni dolorem. fieri conueerit, caveat Medicus, ne ullo
qvan- tumvis levi medicam nento fubdi jcente utatur,ne attractisad
parteminfiammatam ab illzefis par1 i9 ee si I2 celíci (x inflar H ?97»at105H£
[^ purgatto )* yv TEIZETTS tibus; calidis;aut pravis humoribus;aut inflam-,
matio augeatur;aut impedito tranfitu,in volvu- lum de(inat. Caffia dn | 94.
Caflie tamen folius ufum aliquando non eoiicis ex refpuerem in tali cafu;quód
miti illo,blando,& sfiam- humidocalore lie pé i inflammationem fe det, do-
745"* lorem ]eniat ; et fuppurationem tumoris ad- 1075. juvet ; Seu d 95$.
Quamvis venz fectioex brachio in
coli- Coco 9? 6o dolore x inflammatione, decreto Gal. 12. dolore ft- da bina
AMetbh. zzed. commendetur : sf tamen eó ufque » 514],,. P'orbus pervenerit, ut
urinim fü pprimat, fecta liquagdo Vena intalo maxime conferet; aut poft priorem
coofep:, Mlamy,fimultaadfuerit plenitudo, aut etiam fi talis non adfuerit, fi
ex talo loto fanguis primo mittatur,non erit preterrationem, d expteri- menta.
De lvi fluere [ N alvi profiuvioillud ma: ximé cavédum, epus ne,dum virium
maxime habere ratio- gui L nem voluerimus, confi et jurt- bis pinguibus
laxitatem ventriculi, et intefti- norum nimiam neenon: ius ; alvique fluorem jn
Iecamus. I» SN 97. Sunt fepenumeró noftrates Medici in., rf.io frigido potu
concedendo reftricti, ut rralint ^ gidaus cum manifefto detrimento tepente aqu
àfluxü, potus [epe laxitate introductà, alvi augere, eo confilio, convent. quod
frigidum nature inimicum cenfeát, quàm Juíto jufto teri defiderio faüsfacere,
quod tamen na- tura eti. am bene operant e fit; ut et adítrictioni Bt fni dumm
(atisfiat. $8.
Inflammatione tamen verá tentatis inte- ftu nis, frigide potus vitandus eft.
69. C Cavendum in diartheeà, quod plerifque video confuetum, ne femp er aut in
plerifque» ftatim abft erforium aliquo d exhibeant; ut mel; aut fyrupum rofatum
aut fimplicem, aut folu- tivum cum fero lactis, aut mannà;cüm enim ali- quando
bene Opcrante n. atura id. fiat,non erit aut irritanda, aut promovenda, fed
totum ne- 9otium natutz erit relinquendum: fin veró ma- là qualitate icritata
etiamid natura przftiterit; non etiam erit adjuvanda, ne calcaribus natuta
current addius, pt Izecipites in mortem agros igamus : 1peCctatores1g1tur p«
nus hu jus tnotüis nature aliquandiu erimus, et morbi morbifice- quecaufe
potiílimum rationem ha bebimus, Quod fi naturam hifCere, aut fuccumbete vide-
rimus,neque materiam poffe pfo rauone eva- cuare,irritari tamen pattes;
fzprüfque ad excre- üuoncm fere inaniter provocari ; tentiginem Hn ano; et
inane defiderium egetendi fubcíle ; tunc manus adjutrices petita 'ere coni
eniet, atque.» abítereentibus uti ; quin aliquando folventibus blandioribus; ut
matind,& (yup o,aut melle f£o- fato folutivo;ut quod pluribus egeftionibus
cum dolore, et natura labore evacuati tentatut, bre- viori t€empore,&
mincri moleftià educi poflit . De Frigida f'gien: dá .AABngB fla 375 72411058
inteftino- Yum OQuado ab fe '"geati- bus i diay vL&a uten dumIz dyfen-
geria qua do purga- dum, c^ a [£4 Jed bono viclu C facili ad alia 236 LVD.
SEPT.ALII MEDIOEL. De Dyfenteria. 90. Vmin curandà dyfenteri3 adeó diffidenr
tes fint etiam doctiffimorum virorum. fententiz, an reterto corpore pravis, et
acribus humoribus, laborante dyfenterià verà, ulcera- tis, aut abra fis
inteftinis,conveniat medicamen- to aliquo faltem blando, puta, Rhabarbaro,
myrobalanis ; tamarindis, manna, fyrupo rofa- to folutis vo, et fimilibus,
humores evacuare an potiüs omnino ab iis fit femper abftinendum,; qt ie in
mediciná faciendà maximi momenti effe conftat. Ego nonaliam hac in re fententiam in medium proferre
tentavi,quàm eam, quam no- bis tradidit doctiffimus Vallefius 4. Epid. cap.96.
qui ab utráque fententià extremé diffidens, ali- quando pureandum cenfüit,
aliquando omnino abfüinendum y voluit. Verba eius fünt : wt zn d'yfentertco ef!
cusa cacochbymiasmæna exulcera- FIO nondum Wai TAG aut cum exulceratzone magna
cacocbymia EXIGHAS AUT ut raqs exiguas aut utraque magna: $z pyimium, expureari
debet: S1 fecundum, miti o fe dad [i dores,ad urinam ; ant vomitus »o0t
"andum, e infa umaum loce alib Z7A1 777 C i ius 3 cu £X- tertius pro
ulcere curando : Si tertium,ue tunc qu. dena localibus admoduss, "eq;
purgatzone opus eff, f €UdCcHuA 107€ 5 6 €Yi- vatione : Si quartum, "aic
abilis eft, facies aut Hi. bil, aut omia tentandigvatia, velut 12 ve de[pera-
Tales enim etiam cui ationes aliquando pro- mihi femper difplicet illud Celfi :
ó&pe ] 4A. C iUcrant; : neqs;i JAXNTIM.ADVERS.. Sape quos vatiozon juvit,
remery i47 dia peyut à 91. Debet i1giuir quan primum hujufmodi 7» dyfen- humor
pravus ;& acris evacuari aliquo ex prz- teria, ubs dictis medi1camentis, fi
illius m: enam copiomo PA/*9Z4d, €X CIIS amalrcre, ventris ti his tione, avt
aliis qmm fignis fübeffe ccgnoverimus, antequàm ex fre- " id qt enti, fed
paucà excreticne ulcera adaugear- Heo e: [Ur,aut vires de ji ICIantu | 92.
Animadvcrterdvm tamen, fi fübeffe co- piam arrabilarii humcris
cognoverimus;,etiamfi exulcerauc adhuc magna 1n inteftrfüs facta non fit, non
ftatim purgeante medicamento cffe edu- ; cendam, cancerofa enim u Icera,&
peffima ex- citaret; fe dattemperar!, ejüfqu e ferocia delini- ;e, bris r1
prius debet.: quod ubi factum effe cognoveri- feroia il- mus, cmnino evacuari
debebit, fed blandiffimo iss tezzp medicamento ;, deccétione tamarindorum, vel
72454: jmyrobalarorum, cum fi rupo; vel melle violato f"'g26z. folutivo,
iifque fimilibus. 3. Rhabarbarum in dyfenterià ab Hs."qUi nLea BAS rt:
orum dogmata fectantur,qu1que pur- £227» || gandum fepein cà cenfüerunt
quamquàm vl- 4yfzate- I deam paffi m ad hunc finem in ufum duci. potif- ria
f/'sfpr- l| fimüm ubibiliofi,«& acres humores abundave- &- rnt;quod
tamen et tpa "Enos partes habeat, || quod in fübftantià affumptum, ut in
hoc affectu || pleremque fit tunicis intefünorum, et ulceri- | bus adharefcens
dolc res pariat implacabiles; ut I fa pius obfervavi, omn ino fuoi ndum cenfeo
c; I quamvis fvrupusde cichoreà Gulielml cum eo. ccu. cà | paratus ad/triélione
carere fatendum ft, cimo Zadar iamcn y 4») 7 C-0 terta, bue 530Y€ atra y'
bilario e, aAa0€Y 217*toG Gulielmt. 4-4 $2 tact» admit FN TS /2 19: &ji Rbhbaba pe bav
4 1er refackuim 2n dente eti at ei £ 164 à am. Df fentert £15 yao 47. s)0n1f
fan gHints ys!jf20; (e €Hvr » ramenà cichoreaceis igne illius partes reten-
'antur, fi cum decocto ramarindorum, aut my- robalanorum concedatur, non ita
rejictendum., cenferem.. 94. Sed 1agis etiam recentiores communi erróre decipi
iuntur, torrefactum R habarbarum in dyft enterià vagis,adftricüonem, et ex-
ficcationem augere volentes ; ut utràque facul- tate, purgatork à. .&
adftrictorià adauctà, melius intentioni fatisfacere poffint quodi innoc entitis
fieri torrendo putant ; cüm experientià conftet, medioctiter tot xefatutn
vehiementiüs,:à et mi- nori dofi purgare, quàm integrum ; 1eneas ta- men
partesadhuc magis vigere: et fi majorem. sd eto adhibuerimus, purgatorià
faculta- te penitüs deftituitur. 95. De mittendo faneuine per fectani vena, cüm
graviffimorum virorum fententiz é diame- troomnino inter fe fint
contrarizsaliis majori ex parte fanguinem mittentibus, aliis pumquatn.. Eco
hujus fii n fententia, fi fimpliater dyfente- riam confideremus, aut ejus
caufam, aut multa cx adjunctis, dolores, febres, 1inflammauones ; omnino
convenire miffionem fanguinis, quà& |^ fluentes hun ores ad partem
laborantem poffint retrahii,& plenitudo tolli, et jecur refrieerari ? fed
càüm fopiffimé à diarrhæà proc ducatur, illiüf- que edam perpetuo fit focia, in
quà,eti iamfi non fit pro mu ltitudine fufficiens, num quam mitten dum effe
fanguinem cenfui i Fil »p.& Gal.4 de 2 rat. yict, t5 acut. tie. ( I.4d
Glauc, CAD. 14- aubdi aut pl »1( it 11i "no AGE PCI y dg ima a AND aut
vires vitales fint imbecille reddite, aut pe- riculum 1mmineat, ne
profternantur ; ra ró cen- fendum eft occafionem dari fanguinis mittendi ;
potiflimum cüm majori ex parte in hujufinodi Caíu íciamus peccare humores à
fanguine diftin- ctos, et tales gros cacochymiá laborare, facil- liméque tum o
b evacuationem, tum ob vehe- men tiffimos dolores, vieiliáfque qu: afi
perpetuas,in fummam vitalium virium debilitatem bicidenc.. 96. Sitamen
aliquando mittendus erit.fían- Dyferre: euis,alvifluore non magno przefente »1r
inflam- cis quan- matà parte, urgentibus doloribus, hepate, 4»,c quo toto iua e
b febremzftuante ; aut o D Ca- fmodo[an Icfactos 1 humores in venis, viribus
prefentübus, fr confentrientibus, imminentis virium colla » is dicioni: penculi
habitat atione; r ec multu m,neque c fertim, et femel, fed parium per intérva
illa.& fx pius ev: 1CU: sÉ) ius, Aéti,& Alexandr etiam fententià: Ídque
non cà folàm rauicne, quód vi- res non 1ta dif : an ntur,, fed etiam quód
iteratà evacuatonce fangu inis meliüs revulfio perficia- tur,qua maxi re in hoc
atfectu expetitur,ut Ga- |! lenus auctor eft lib. de eur. vat.per [eciam venam,
cap. 12.fiquidc " | natura toties irritata majori cü 'J impetu et facil
Itate: affuefcit materiam, ad affc- 'J «tas partes confluentem .1n « ntrarios
locos de- pellere, et quafi per alios rivos transferre . 2, $45. ARTS TERR TES
Lathis 4 | Delactis ufu in dyfenterià cüm videam ; | Y p ied : Æ . oir furin d
ddociiffimos aliquos viros adeo iraffe, ob ^ " L1; 4c Q- mcm pr I " 4
b " j Fev?n | AAÀIPpOCI2US, C izalcni AUCLOILIAUT $ p 70r. X . et Celfi,
Ib. 3.cap.25.ut rariffimé in tali mor- boipfumin ufum ducant, quód dejectiones
fere femp er in cà fint biliofæ,& fc ebres non leves ma- jori ex parte
conjungantur ; cüm alioqui fciam maxime laudari à Gal. P de fémapl.smed.facul.
c 3«de alim. facul. cap. 1$. ubi non folüm dyfente- re,fed omnium ventris
fluxionum acrium opti- mum dixit effe remedium ; cenferem nullo mo- do, febre
prafente, et acribus fluentibus humo- fibus; lac convenire fimplex,& fine;
praparatio- nc; at paratum, ut faciebantantiqui,& ut docet Alex.
Trallianus, lapidibus; ferto, aut chalybe in co exftinctis frequenter ut et
ferofa abíuma- cuf fubftantia, et pinguis, butyrosáque corriga- turlgneis
abfümpts.certum eft; non nifi maxi- mas 1n boc affectu afferre poffe utilitates
; quód non accendi, et in bilem verti hoc modo para- tum certó fciamus ;alyum
autem fiftere poffe» certum fit, tum ob cafeofam máteriam incraí- fantem, et
frigidam ; tum quód ex candentibus lapillis aut chalybe adftrine entem
nanciícatur facultatem. in dies 98. Cümin principio difficultatis inteftinc-
zerici; cjy F0 » fepenumeró. mucofitatibus quibufdam fieri al apparentibus, p
affim Medici ad, Æ Eso a fférgentig €nemata deveniant, neadhzrefcente diutiüis
tu- "fas cugy nis inteftinorum hujufimodi humore falfo, ut €autioge . Ypfi
putant, exul Icerentur inteftina; fa 'penumeró etiam maximo in errore verfantur
: mucofitas enim hujufmodi non adventitia eft, neque præ ter naturam, fed
naturalis, quz à ipio inse nis indita eft; ut muniantür, ne à bile, qua cun
£icibus in dies evacuatur ; interna inteftinorun pars abradatur ; quz cüm in
diarrhocà ab acri- bus humoribus commota, et abraía exire inci- piat, fi
clyfimatibus magis abftergatur, denuda- tà tunica eo, quo munitur; faciliüs
exulcerari poterit : diligens igitur cura adhibenda eft ut mucofi, et vitiofi
humores ; aut à capite, aut à ventriculo defluxi ad inteftina; à naturali muco-
fitate inteftinorum difcernantur ; quod licet dif- fcile fit ; hzc tamen
frequentius cum pinguedi- ne junéta effe folet, et cem aliqvà rafürà internæ
tünicr, et tunc non folüm non eft abítergenda, fcd potiüs incraffanda;
pingeicribus,& vifcidio- ribrisinjectis tentanduim erit munire Ioca illa,
et acrimoniam fluentium hemorum reprimere, quod oleo rofato omphacino, aut
unguento ro- fato commodé praftari poterit. 99. Atin eodem errore verfanturii,
qui fluo-. C/yeriz re materiernm ceffante, dvfenterià tamen perfc- abifergem verante,
et ulcere in inteftinis,iifdemabftergen- */4 i2 fiæ tibus clvfteriis utuntur,
ex aqua hordei, vitellis dyséterie ovorum,& faccharo,impedicntes hoc modo
ag- an [Hs o eIntinationem, quód fic penumeró natura vifci- damin fine
materiam, nutrireaptam, ut repo- natur, quz naturalis erat jam abrafa,
eomittat., e 1 et1a72D rco. Tanta eft doloris 1n hoc morbo vehe- in riti
mentia, ut nullo tentato alio remedio narcoticis 5j, "ni fit f'atim
utendum, non folüm per os affumpts 5 4, cozve- fed etiam per inferna injectis.
, Iniüstamen diutiüs non eft perfeverane Nareoté Q, gum, Narcott pies 9 dum,
quoniam fiepé imponunt : cm enim fo- enterta Pon mnü conciliàrint, proinde
fluxiones futerint, et zendap, icfrigerando, et incraffando. humorum et acri-
moniam,« tluxilitatem imminuerint ;olore ) imminuto morbus curatus videbitur,
nifi tamen v lutinantibus, et ficcantibus uicus fanemus, re- crudefcet morbus,
et novo dolore fupervenien- te; nova fluxio excitabitur, et ulcere non curato
difficultas inteftinorum denuó fiet . Dyetei | 102. Pinguia cuam illa ; et
viícidà fübftanria eis pin- prædita ; ut in acerrimi humoris fluxione necef-
guia im- farla funt, ad Internam inteftinorum tunicam ssittere | vefüiendam,ne
magis abradatur, et ad munien- q4and» das udceratas partes, ne morbus augeatur,
et stile, et dcloresexacerbentur ; ;itainilsnon multüm cft ^ infiftendum, quód
fordidum ulcus efficiant, et itiniiss: progreffu temporis.curatu
difficilius;abfteræn- tia igitur funt 1nterferenda . | 103. Queadeo exficcantia
funt,ut arfenicum nimi; *X (t ochifcos recipiant corrodentes, et carnem,
fceántes in ulceribus fübcrefcentem altmem poffint, ut in dyfia- paffim à Rhafe
et .Mauritanis propcnuntur, teria om- numquam in ufum duci debere confülo ;
tum. zino reij- quodadeo quandoque valenter carnem nein cemdi,
mant,utreliquamanteftint füubftantiam confü- mentes perforare foleant;
;quamwvisenim paftilli Pafionis, Andronis, ex minio, et quz ex arfeni- Co etiam
fepiüs loto parantur, externis ulceri- bus; vrina et callofis applicentuz; fi
tamen fen- tienti mul tüm particule, aut nudz,:& non for- dida, nonve
callofe ; aut fane applicenrur, no- Xas Clyfferes * » dis b. am. vt. IDdpe pm o
| xas afferunt inemendabiles . Et erit; qui 1n abra- ! fis, cruentis, nudis
inteftinis, etiam fi ulcere la- ! borent fordido, audeat clvfmare infundere» |
acria hujufimodi, et corrodentia medicamenta ; | quibus et acerrimi dolores
excirantvr,& intéfü- ! na dilacerantur, et fepe perforaptur ? 104. Siqua
tamen acria,& valentet fccantia. Arrius infundenda font, ut mvria olivarum
; aqua na- efus in :urales Salmacidz, lixivium cum fapone, et fi- 4y/euteria |
milia, ftatim fuperindendus erit alius clyfter ex quid ffa- | oleo rofato aut
ptiffanà,aut decocto furfuris ^7 facié- | cum fyrupo de portulacà et ovis; ut
et dolor le- MT | niatur, et tunica veftiatur . 10$. Quoniamautem evenit, ut
injectus cly- Chyfer sut | fter ftatimaur exeat,aut propellatur, ftatim at-
retzzee- | queinjectus eft, fovendus erit anuslineo panno /^" quid !
intin&o in decocto rerum adftringentium, atq; 74/444 : etiam aliquo conatu
manu pars erit compri- menda. 106. Quamvis hepatitis fub morbis hepatis ratis !
collocari deberet,qvia tamen à Practicis fib dy- /imulare | fenterià curatur,
volui pra ftantiffimum reme- remediz » ' dium hoc loco docere, quo, fi alio
uMo, hepati- ! cos curari poffe experientià multiplici cognovi; ! coque
libétiüs,quód ev porifton eft medicamen- tum, et rationi conveniens: Sumitur
uva rubra, | quam Pignolam noftri dicunt ; acinis eft ncn. magnis, racemis
adftriciis ; ut tardiàs mature- | fcat, et vinum nobile, rvbellum, et quod
P;caz- ! te vocant, facit ; colligi debet dum media eft in- ter acerbitatem, et
maturitatem, quod folet Q 2 apud inermes e»ecAnti- Pss exhi- bendis quid pr«-
Jlandurm. apud nos effevetfus dieim feftum Nativitatis S. Virginis Marie;menfe
Septembri; Soli perqua- tuor dies primó exponitur, mox ia fvrno femi- calefacto
exficcatur, et fervatur ad ufüm: et ve- niente occafiope, quoniam emollefcit,
in vafe.» vitreato, aütad ienem, avtin furno iterrm ex-: ficcatur, adeó ut n
pulverem reduci poffit. Hu- jus drach. 1j. per duodecim,aut quindecim dies, ex
vini rübri potentis unc. iiij. fineulo die ; per quatuor horas ante prandium
exhibeo, et cum. hoc folo pra'fidio non paucos ad ptiftinam fani- tatem deduxi
. Nec mirum.fi femper non fiicce- dat, cüm;ubi radices eeerit,difficillimé
curetur. Ex vino autem concedemus, fi zeri careant fe-. bre ; qua fi conjuncta
fit, locovini fnmet deco- C donem rad. cichorii craffarmm, lone ebrlli- tione
cum expreffione, in quà fi chalybs ignitus fzpiüs exftingudtur, meliorem
effectum pro- ducet. De Vermibus. 107. Y N medicinis et per osaffumendis,&
per inferna 1nfundendis, fem per hzc adfit cautio,ut antequàm ea ipn ufiim
ducamus, dulcia aliqua, aut pinguia concedamus, ut iis allecti vermes faciliüs
ea comederc tentent, qui pro- pric; et veré et necare, et expellere € COrpore
eos poffunt. Melleieitur, faccharo, lacte ; avt pin- guibus przmiffis,
füccedent que enecandi vera mes facultatem habent. em | ! . Quin . -sa4g . Quin
ne hzc fola tunc danda erunt; ne à dulcibus ad amara, aut acria accedentes,
factà tatione in contraria, potiffimüm à gratis ad ingrata ; ab eis abfítineant
; cum dulcibus joitur admifícenda funt, aut pinguibus, utaliquá fimi- litudine
ducti, ac 2rato (pore allecti, iis etiam nutriartur, quz occidere eos folent.
rc9. Ob hancautem etiam caufam obfervan- dum erit, ut cüm unguentis, aut
emplaftris ad cos occidendos utendum erit, pxiüs Indansur clvfteres ex
dulcibus, aut pinguibus, ut iis alle- ét ad inteftina inferiora alliciantur,
ut. ventri inferiori illis applicitis, et enecari, et expelli faciliàs poffint.
110. In iis autem externis applicandis,ut quz ex farinà lupinorum,aloc, myrrhá,
ex fücco ru- tz,aurrutz caprariz five galege, vel aceto pa- rantur, cavendum,
ne rcgioni ventriculi appli- centur, fed circa regionem umbilici, et ventris
infcrioris:i!Ia enim fepe ventriculo infefta funt; et cavendum etiam, ne;fi ad
ventriculum afcen- diffent, in eo loco enecenturz, folent enim ex tali
occaficne qvàm plurima, et graviffima lympto- mata prodncl: przftabit 1gitur
ventriculum. fovereadfirinsentibus, et acidis, ut roborata parre, deorfum
pulfis vermibus ;applicaus ven- tri inferiori remediis, illos cvincere ; et
enecare poffimus .. Iniis,qve per osaffumütur, illud omni- no obfervadum eft;ut
fi ex iis fuerint; que et ene- Care, et € corpore propellere poflunt, ut
eftaloe,; Uu coloVerimes enecanti- bus. dul- Cia, vel pinguia admtifcen dà . Ante en blafira e-
necantta, VEFIACS, ciyfd eres dulces ip dendi. In vermi- bus enece dis emplea
flra nbt applicanda. Vete e»tcanit^ óns ger 9 fumptis, qutd fa- ^ eendum.
Hamor- tboidibus feperf'a? evactany- HPHT, n oàs occlti- denda,a? tna reli
'qu*nda, fententia A3sGoris. colocynthis,& fimilia,ea fatis effe;fo]hüm
q'ein- digere aut re aliquiabftergente;áut etiam refri- ectante ebibità: at fi
ex iis fuerint; qus eriécan- te facultate f5là przdita funt, aliqua poft fiper-
bibenda funt; qu: abftersendo eos jam enecatos expellere poffünt . De
FHæsorrboidibu: . r12.] N hemorrhoidum curatione, quia ubi fuperflæ fanguinem
emiferint, Medi- Cos iri contrarias fententias abire, cum maxima. eétotantium
calamitate, quotidie obfervamus; aflerenübus plerifque cum Hipp. 6.
"Apbor. 12. non omnes occludendas effe, fed unam faltem, effe apertam
relinquendam ; fic enim et immo- deráti fluxüs fanguinis rationem habebimus;ca-
fum virtiitis vitalis impediemus, et morbis ex immodicà hzmorthagià
imminentibus contri ibimus ; neque camen morbis illis occafionem. dabimis, qui
ex foeculento, et atro humore.» oriuntur, qui per illas partes evacuari folet :
Aliis é contrà cuni Actio defendentibus, ubi fi- perfluus fit fanguinis fluxus,
omnes omninooc- cIudendas effe; et rectà victüs ratione inftitutà, ftatífque
temporibus et ex purgandum effe cor- pus, et fánguinem per fe&tam venam
evacuanJ/ ^ étnh dum . [E20 veró hujus fim fententiz,obi fanJuly... guis per
easvenasimmodicé effluat,ita ut et vi- : res vitales dejiciantur ; pallor feqvatur
magnus, fubtumida confpiciatur facies, ad malum habitum tendat corpus, omnes
omnino effe, fi fieri | poffit; occludendas ; quia virtutis füpra omnia.»
habenda eftratio, nequeullam apertam relin- quendam ullo modo efie, cium 1n ct
rativis indi- cationibus ab ec, quod magis urget, femper fi fit inchoándum. Ne
veró res hzc Hippocrati adveríari, et communi feré omnium lv. edicorü fententia
videatur, cbfervandum eft ; fanguinis per has venas effuficnem aliquando etle«
onfue- tam;ut ftatis quibufdam temporibus, puta; fin- | gulo menfe, aut ctiam
frequentiüs, vcl bis, vel ter 1n anno, feri confüeverit; aut c crte vimorbi; p^
3, In magna febre, cum fura; à plenitudine femel, aut iterum acciderit ; aut
denique quód cum ftatis temporibus moderate effunderetur fanguis, v) morbi, aut
ali& occafione fuperfluas tunc fverit. Secundó obfervandum ett, anti- quos
in immoderata cx veris fedis effuficne.ve- nas ilfasaut [ieaffe, aut fuiffe,
aut, uffiffe, ita ut numquam per ligatam aflutam aut ufta m ve- I nam ius
fanguis evacuari pc ffet, ut apud | Grccos, Arabes, et Latinos ; et antiquos;
et re- centes conftat ; quz tàmen curandi ratio noftris E temporibus exclevit,
pulvifculis cemplafti- cs, et adftringentibus contentis ; aut ad fum- Hmumu
ftio ne. His fic ftantibus, fi excetfus is hz- orrhagiz mfoFitus fit; et vi
morbi, et plenitu- |dinis fuperven erit, cenfeo mpino effe fuppri-, mendum,
nullà ap ertà vena reliétaàme vena fan- guinemevoimente, in propofita incommoda
in- lcidamus. Quod fi ftatis temporibüs, aut quan Q a ritate ne / netu 72... "A79 y
s feides et m7 (3n€794L nqlla AAUC 0^ HE Cf A Cn » n, j «A40 "07 P 4, Yt
Tuntn | bg titate excedens;aut qualitate infeftans,aut utrà-]/ » queratione
moleftus; à naturà per eas venas ex| - purgari folitus aliquando modum
excetfetit, uti] et vitales vires profternantur, et alia incommo-:
daindücantur, aut etiam fipngulisevacuationiss| / ; temporibus, puta; per duos
;aut tresillos diess| :folitz evacuationis füperfluat, aut fi frequentiuss| /
exiens, quàm foleret; aut oporteret; illa inducatt| incommoda, fi, ut
illiscbfiftamus, occludere»] venas illas velimus, fi caufticis medicámentis,,]
licaturis; ab&iffione,ati ferro candenteid prz--j ftare quis tentaverit ;
càm ex 1llà curandi ratio--] nenon folum tranfitus prefenti tempore fangui-] y
ni interclufüus fit, fed omnis via eriamimped 1a-]i turin pofterum, per quam
tranfire poffit ; ne ini eaincommoda zeri póft incurrant, de « quibus: itp. G.
Epid. et Gal.ibidem. c& 6. Mpbor. va. c7] 3. 1/ 3.ltb. de Humor. necetarium
eft;edam aliiss] 5 uflis; atfutis; abífciffis ligatis ; unam relinquere
apertam,ut per eam excrementitiusfanguis;quij incorpore in dies ageregatus;
ftatis temporibus:f ij, evacuari folet, expurgari ex more poffit ; ne af-- Jl
fectus illos melancholicos, maniam;melancho--] ii liam, ulcera; cutis
defeedationes, et alia produ--] ii cere valeat. Sed fi folüm pulvifculis
adftringen-.| übus; emplafticis; aut et urentibus resagendas fit; et
eumcurationis modumfequamur, qui &: facilior eft .& fecurior ; licet
aliquando recidi-..| vas admittat ; fi ad eum terminum evacuatio:] « fanguinis
pervenerit, qui jam defcriptus eft; omnino via omnis erit intercludenda, ut
praesentibus incommodis eccurramus ; cm per hác «curandi rationem non ita obfignentur
venz, ut humore denuó-éxuberante, iterum natura fibi viam invenire, et ftruere
non poffi;aut ope Me- dici aut perfricauone cum rebus afperis, aut fcalpello,
aut hirudinibus aperiri denuo vena nequeant. De Renuum samflammatione, Lii Vm
in curandis renum affectibus evaLaborancuatione fanguinis perfectam venam t»
reni opus eit, à Quà parte mittendus fit fangvis, non una eft connium Medicorum
fentenua ; quód Galenus tb. de cur. rat. per [ettam venam, partie bus fupra
renes laborantibus, € parübus fupe- ri: ribus, nempé brachiis, mittendum effe
fan- guinem docuerit; infernis autem atfectis, puta, utero, veficà, et coxis, é
venà vel fub poplite», velin talo; cüm renes laborant, pene ambigat: libro
autem 13. Meth. med. in renum affectibus fecandam venam effe doceat in
poplite;aut talo; aliis majori ex parte fu prà ; alus infrà, aliis fine
diftinétione alterutram partem eligenübus.Ego cum do&iffimo Trincavellio,
habità ratione» communicationis venarum, majori ex parte ex infernis mittendum
cenífcrem ; cüm et evacua- tionis eratia;nifi forté plenitudo ad vafa prefens
fuerit, et derivationis, certiffimum fit, à parti- bus laborantibus, et
vicinis, fectis illis venls ; fanguinem evacuari pofle . At cüm in inflam-
matione bus au4 vena fe- £cAnda Tto xd Ee EC. 4: Luc aia oU MES 1j -matrone
renum, cüm revulfione opus fit, potif-- fimüm in principio, in contraria
retrahi fà debeat, et ex parteà fonte fanguinis verf perna retrahendo,
pouffimüm fi (fanguinis mul- tà:Copta refertum fit corpus,à jecorarit brachii
dextri,aut finiftri fanguinem extrahemus: quin-- imo, fi etiam in principio
inflammationis nons verfemur, fed jam affluxerit (aneuis, fed magna ;| tamen
adíit plenitudo, ab iis locis fanguinem. extrahemus, mne fi ab infernis
evacuetur, cüm ex motu fanguinis in venis, quiin fonte eft, et in fupernis
confertis, verfus locum incifim affa aüam aftluens, per locum affectum, et
vicinas partes tranfiens, et dolores augcat., et inflammatio- nem, Quod
fiinflammationon fücrit, fed ali- quis ex aliis affectibus, aut renum; aut aliarmm.,
illarum partium, nec plenitudo magna adf t;in- dicátio tamen mittendi fanguinis
concurrat, ab 1n rez, internis,ob venarum conjunctionem et rectiti- ipfam.
dinem,mstendum effe fanguinem judicamus., Home,bf? 114. Áb 1n renum
inflammatione in princt- [«clam ve p15, potillimüm fi multa fübfit plenitudo,
licet, "a ^ ut dictumeft, mitti debeat fanguis ex brachio; ^t? f &-
prooreffü tamen temports ex talo mitti etiam, "9 Fin poterit, bt quiin
vicinis aut in parte confiftit, ». evacuart, et derivari commode poffit. | Reb.
cobPRpVX OI clyfteres in di folent ad refrigeran- lorarióu; C010, et
emolliendas £rces, ex ptiffanà, violari chiftesg malva oleo rofàt dæra ds to,
aut violato, fyru po violato, fft Ypau et fimilibus, quantitate mediocres fint
ca quan -Xepletione fübjecti inteftini re tfta. t,ne per nes comprimant. IIG.
Quam- " nguis: [iz i^fü--M i we Quamvisin principio aliarum inflam- J^renw
'lmaaonum mnateriam fli;entem medicaméto pur aj nne- |Bante evacuari poffe
aliàs docuerimus, quód ad- (14:9 fac cruda non tit materia, et dum fluit,
revul- nod ut- lione evacuau và à párte, quz ftatim eam füfce- 5,, Jptura erat,
recràhatur, ut in plevritide docuit 7; Hid; dIfaciendum, dolore de(cendente,
Hippoc. 1.40€. Irzr. vicd 22 acit. et ain inflammadaone lingue Ga- fenus t3. ME
erb.med. in renum inflammatione, Ki aliqua jam ad partem fluxerit, omnino
abfti- inendum, ne perinteftina fluente matcrià cum limedicamento, ma9is renes
exardefcant ; quare principio i iena: ^2 7 llcatfià fiitulari contenti, au
tfyrupo vi a to folu- lI:kivo, aucf lis;aut mixtis, aut fero lactis ex mal-
Iva, violai là, endivià, vel jujubis, fi evacuauone opus fit, ad alias comp
lendas indicationes de- Ifcendemu. ; eorum enim etiamfi parsaliqua,in-
lIreftina Ri Wes ad renes pervenerit, utili- acem afferetnon mediocrem . 117.
Khabarbari ufus in hoc morbo, ut et in. rsfzzza- Jurinz ardore, femper mihi
fuit inipectus s et fl n5 rent quando ab aliquibus in ufüm ductus eft .fem-
r^z^era Iper male ceffi ile vidixquamvis enim ap uüffimum "t »/» /2 fit
inedicamentum adi bile m evacuancam, quiz Peasiduos hos affectus plerumq;
producit;quoniam- amen ob 1gneas pattes,q! ibus pollet, per venas kiffundi
videmus, et (ubfeque nter ad renes, iIquód lotia crocea poft illiusaffumptionem
often Ilunt, merito fugiendus videtur. 118. In m: ERI hoc inchoante, licet ufüs
re-. gs. pellentium externé applicandorum conveniat; ;.F, L| : '] Rb 115 tamen,
Lx nimiumimpensereirigerant, £55 tæ cem da. cendum . : A í nme I) see, :
Adidautem preftandum, licet qua ex-venum v, fiCcante facultate przdita funt,
maximé inaliissii lid? ef; Conventant, 1n renum, et veficz ulceribus 0«4
€dnt;,*, Wnthno fugienda fünt, ob mordacitaté, cujus oc-. n[us ea». Cafione
excitati dolores novam fluxionem con- lus. citarent; quz blandé igiturabftereunt,
et dolo-.] io, s$ refrige- abftinédum eft, Alexandri etiam monitu:quáme-.
vantium vis enim, cüm ex parte repellatur materia af-, w/45: eti» fluens,&
calor partis eftuans retundatur,videasd, Princi vuraffe&tus mitefcere, et
omnia fymptomatazsl,.. ""l5. imminui, quz tamen jamaffluxit matería,
autt] ... in fcirrhum vertitur, vel craffefacta indolentenm! . quafi tumorem
producit, qui proceffü temporiss] fuppuratus ulcus in parte producit, et
morbum)... incurabilem . De Renus ulceribus . Viens ve- aum cito bus, precepto
Galeni curandum eft. ut fit maximé foHicitus Medicus, rit ulcus quim. citiffimé
ad cicatricem deducatur. ad citatri ris mitigatoria funt, convenient, qualis
eft mul--Jt fa, et fyrupus de jujubis, vel ex rofis ficcis, cum portione fyrupi
de portulacá . L:Be im I2I. In renum ulceribus curandis, cüm &; ronctden-
ynl(à conveniat, et lac;nifi diligens adhibeatur] do in re- num ulce vibtis qua
CATEO » cura, et in tempore exhibitionis, et in lacte feliz] gendo, et inillius
quantitate, aut fruítra ccnce- di, aut cum detrimento coenofcemus. In prin-
cipio enim, poft dift ptam vomicam, aut ulcus: ab acribus humoribus
excitattim,cüm ulcus for; didum 1I9. Biautem ulcus fit excitatum in reni. : à
^? i didum fuerit, lac conveniet ferofum, quodque» abftergzere magis valeat,
quale afininum :zillud vero ex lotio cognofci poteft, fi in. eo pus fubfit
copiofiim, feetens, et fordidum . V bi veró ulcus! meliorem acquirit
conditionem, ac à fordibus repureatum fuerit, quod cosnofcemus; fi pusin Urinaà
contentum, album à et zquale fuerit, lac Conveniet, quód mipüs abftergat; et
trægis car- hem producere valeat, quale eft caprinum. Vb3 autem ulcera
expureata rité fverint; ut lotium. non ampliüs purulentum appareat, tunc potius
lacus eenus conveniet craffius, mæis nutriens ; carnémque gererans, quale eft:
villv m,aut-bu- bulum; in primisillis pauxillum mellis, autfacchari, aut julepi
rofati,aur violati adjiciendum erit:in poftremo minimum facchar, aut julepi
rofati, cüm levi quantitate tragacanthbz . r22. Quantitas lacis neque vno
inomnibus 55; modo metienda eft. R atione loci laborantis, multa conveniret, et
potiffimüm fi ad abfterfio- | nem exhibeatvr lac afininum, potiffimum fi la- Qi
veeraffuetus fit nec ex ejus ufü moleftiam fentiat, libram concedemus: fin non
affuetus fit; q tta titat t2 YCH UTD tlceribtés LLL ab unciis quinque ve] fex
incipientes, Pine ad majorem quantitatem accedemus . Caprilfi minorem femper qu
antitatem concedemus, nceqr euncias fex excedemus, quód diutiüs in ventriculo
cüm commoretur, fi mültum illius cen- cédemus, aut acefcet; aut in grumos
concrefcet ; ob quam rationem ovilli& bubuli etiam mino- iem folemus
quantitatem concedere, x od De Calculerenum cum. dolore acerrime . Vamvis in
calculo renum curando ; vbi dolores non adfint acerrimi, ea» curandi ratio
convenlat, quz ab Avicennà, et Mauritanistradira eft; quámque. [uu recentiores
plerique fecuti funt ; » repleto ven- . jriti triculo vomitus provocetur,
mollibus clyfteri-. pus bus fceces fubducantur, aliis itidem emollieng- f: bus
laxatà parte leniantur dolores, et fi quas . fau, materia in intefünis
confiftens., unde eleventur: puto flatus diftendentes, abítereatur,&
evacuetur; juu mox emollientibus, laxantibus, et anodynis, S& fui mitgetur
dolor,dilatentvr vi ix à calculo diften- . tt, quod f. mentis,
inuncüonibus,emplafuis,& pi id genusaliis etiam tentar dcbet ; mox conte- |
renübus lapidem, et eundem propellentibus diureticis curatio prcfeqvi debet.:
quinimo fi Me: evacuarl ventriculus non pou perfe- AT, peros etiam ad fimilia
preftanda exhibent [ir iei fiftularis medullam aut per fe, aut ex levi portione
olei amvedalarum dulcium, aut diafe- beften ron folutivum, aut diaprunum; mox
ab- ftergentibo s, incidentibus, et atem bed aptecedentem,& conjunctam
materiam ad evas-- f.i. cuationem pra parant ; numquamautem ab in1--4t«.. tio
folvente, et veré purgante medicamentoop,.. utendum judicárunt, ne aut cruda
materia aboli initio hon ptzparata evacuetur, aut deorfum latalaborantem partem
magis affügat. Quo«m. niam inI3m tamen fepiffimé evenit in noftris hi$ regio-
nibus, et potiíffimumin m æna h ac urbe,ut et nimium Genió indulgeant, multàque
affidué ingerant,& multis tententurà capite diftillatio- nibus, ut
ventriculu s,Inteftina;& venz mefàrel urefertze fint niultis crudis
humoribus, à quibus per venas ad renes delatis adeó frequentes fiunt «lolores
renales, et podagrz ; qui nifi cevacuen- ur, nequetutó anodynis üti poterimus,
neque Iconterentibus lapidem, neque eundem prop cl- llenübus, quin nec
diureticis. Cüm pretercà fz- ipe adeó urgeat dol. r,urlongam illam curatic-
inem exfp c&tare nec velint &erotantes, nec poffint, nec exp ediat ob
collabentes vires ; Menos Ifima vero illa lenrentia, vel lubricant; fzpi ffi-.
Ite muneriilluevacuandi materiasanultas, cráf- iS,& vifcidas fatisfacere
non valeant,fed reten-- la et 1pfa,:& per fe mclem augendo,«€ com-
iIprimendo dolcrem aueeant ; aut elevatis& ex le, et ex commortàa;non ex
pul:à materià multis IHatibus, cenfeo fep iffime exyedire,medicamen- out
folvente, pro varietate materia benedictà lixativa, dia phanico elec gv ario
Elefccph, ele- Ltuario de fucco rofarum, Indo,& finiilibus, ad. .Ilità
portione caffiz, vel du com amc]le ro- [to fo lutivo; fic enim et crudas illas
materias in JAyentriculo, et inteftinis confiftentes, et fi quc suntin primis
viis tamquam caufe antecedentes; Mrvacuabimus, eafdémque, X& fizniles
revelle- (fous, molem et fecum, et htmotrum in intefti- dusrene s comprimentem,
et doloremaugentem immiLenitniia fola ia cal culo non fufficiant. imminuemus
anodynis, mollientibus, laxanti-]: bus, diureticis ; conterentibrs lapidem, et
pro-] am ftruemus . Quà curandi ratio-] te,cüm fzcpiüis ad eos acci effemus;qvi
nephri-4 pe lenribus v1 tico dolcre laborantes curabanter, priori illoo 1o,
clvfteribu llibus videlicet, et bolis exx InOciO,; C1 eribus mo hbbos
viIdCilCet,c« DO IS CXI3 caffix medullà, avt lenitivo, avt fchs; aut cumul
portiunculà Hierz,medicamento folvente exhi-]: bito,mocx anodynis,
mollientibus,laxantibus,&j lapidem propellentibrs adjunctis cito, et feli--
citer; cum mæná meà glorià ac invidià, curationem abfclvi. Cüm veró curandi hac
ratic rationibus lis nitatur, quz proximé enarratax] funt, Hippocratem, et
Galenum,duo Medicined vera Inmina, habet et doctores, et affertores; Epid.
Se&. 1. tex. 6. ubi poftquàm tradidit Hip: pocrates figna, quibus
nephriticus affectus coo) enofci poffit; breviffimis ettam verbis totam cuj
rationem abfolvit, et juvenes etiam helleborcej pureandos docet : et 27 Com. Galenus, dum. unamquamque vocem varia praffidia
medica. continentem fieillatim explicat, dum de puri" cando corpore agit,
medicamento purgante-[ tamquam vecte effe propellendum.docet . Ned que veró
cruda tunc evacuare, et pureare dice mur, contra przceprum Hipp.r. "Apbor.
Conc Bá medicavi, C c.coctio enim illa.de quà in Aphi] rimo, illa eft, quz
humori putrido convenit] in potiffimum in febribus, cci coétio illa conventi
quz fecundo loco defcribitur ab Atiftotele 44^ Jdeteor. quam putridis humoribus
mentig | | et exeredi ug mentis convenire docebat, fecundum quam bi- lem crudam
dicimus, et lotium crudum, tam- quam fienum in febribus putridis: at cruda» s
qua alimentalem cocü 'nem (ubterfugerunt ; aut P er inediam ad bo nam frugem
duci debet ; aut fi plura fint, quàm fuperari | poffint ; atque. àcalore
ventric "uli evinci, aut conco qui; ;quam- - primum funt evacuanda aut t
lenientibus; &ab- ftergentibus, aut etiam,fi in venulis mefaraicis; et
altis infarcta fint, purgantibus; qualia hac e(fe cruda cenfemus, quz in neph
isis exubcrant. Neque vero | per evacuationem per infer- naad renes materiam
trahimus, fed ab illis re- vellimus, et per inteftina ft ubdu cimus;quamvis
enim in tranfitu adfit vicIp1a.non adeft tamen. con] ncl1o; neque periculum
eftin tranfitu, nc LA Í noxam renes fentiant,utin rénum inflamma tiohe in
tranfitu bilis, quia neque hic inflari. mpatio in parte c adeft, necne calidus
eft humor ; quimovetur,fed laboranti parti etiam füuccurri- mus, inanitis
inteftinis que ob repleanonemu. comprimebant renes à lapillo undequaque»
compretios. 124. Incalcrlorenum curando, ubi acerbif- fimi fuerint dolores, et
ex fitu coznoverimus, jam lapillm ureteres occu páffe, fi quis divre- ticis
tentaverit calculumà loco dimovere, 15. mænum (ie pen umero periculum zerotantem.,
deducet.nefcilicetin urinz (uppreflionem eum ] ] » »- r1, » ^4 p»,47, deducat
ET oruente afk t!m ad Obfiru ctum 1 lo- Clu1n lot 10 5 e fcp c culi arenulis
" fz lus Cuts T5 R craí$à, Diuretica ?roprafe - "aAtione calculi f«
pé "0XIA « crafsa,& vifcidà materià . Quare prxftaret runc
emolhentibus, et laxantibus decoctis uti;cx ca- ricis, malvà, althase, et
maálvze feminibus,femi- nibus item frigidis majoribus, liquiritià, juju- bis;
febeften paratis. Quód fiad pe netrationem aliquid diuretici: addere voluerint
in pauca quantitate; non repugnarem .. Ad. qvem ufim., etiamoptimum^femper
jidicavi olei m amyg- dalinum dulce, ex levi vinialbi tenuiffimi por- tone».
125. Commwuni feré hominum confenfu re- ceptiim eft, proavertendis, et
pricavendis do- loribus ex calculo, et impediendà lapidis gene- ratione, ex Men
bisaut rer1n menfe diureti« cum aliquid a(lumere, ant in fyru pl longl, aut
julepi, decocti, aquarum füillatitiarum;aut ele2598 étuariorum, aut pa
dvifculorum formam, quo materie, quz indiesin renibus agercegartur paulatim
expellantir, et abftereantut, necaloreaccedente renum indu rentur,& ]
lapidefcant : quod inftitutum. ut omnino non eft imprcban- dum;fi cum rauone
fiat;ita quàm plurimis per- niciofum effe folet;(i enim ab homine continen- te
Ó aticoopbiiil rimaffumptionem leniens, t abítereens medicamentum fiimptum fit;
uti ditata afferre poteft. Atí1 cule 1s deditus fit; aut cruda mvlra in primis
viisæerecare foleat, vt folent majori ex parte Ape æ et cal- culofi, tantum
abeft; ut illorum a (fumpt t1O €os prefervetà calculo, ut potius frequc illi
przbeat occafionem, et fepe 'nüorem. etiam 1n füppreti- x ANIM ADFERS. |
preffionem ur in: deducat, et graviffimos alios | morbos, &f [ymptomata,
deductà materia, quie in ventriculo erat, et in primis viis, ad vias urinc.
126. Cüm quàm plurimi pro lapillis exre- T/;:"; nibus propellendi s aquis
'Thermalibus utan- les tur, ut illarüm ufum aliquando laudamus,cüm. cur;
impaócti nimiüm in renibus fuerint;necaliis ce-. caleuL dant remediis;fic enim
refrigerats illis aliquà- /* do dehiícentes locum cedunt Ja ipidic commoto,
€&4* quin et quantütate aqua pro] ulfüs aliquando deícendit; ita rarius
eedem concedenda erunt, quod de deb ero batiteli ad locum lapilli d fepe etiam
morbus redditur contumacior, et liquando ad füppreffionem urinz omnimo' ?
" lo " 7t* 111" dam per illas egrotantes deducuntur. Lsatid is
E22 5 De lapide Vefica.. Q' Cioe2o, et antiquos, et recentes fcri- iJ ptores
infinita propemodum, et fimveficà; at horum auctoritate etiam ício quàm 7/2
plurimos ærotantes in perniciem à Medicis ' ts nimiüm credulis deduc bos Æ
grotantes cüm ex /?* lapidis per incifionem ex tractione quàm P ;luri- mos mori
obfervent, omnia malunt prius ex- periri, quàm cenus illud carnificinz etiam pe
riculo "um Medici partim experientia deftitu- ti, promiffis fcriptorum
adducti, et fpe przmi ob avaàrit iartiall Cii, curationem pro trahun AK 3?
cmnia vlicia, et c mpofita medicamenta tradidiffead czeztu: comminuendum, et
frangendum lapidem in fzz Lapidis in veftca a- oatca cura 2/0,EXIYAde f 2 P ^ ,
LVD. SEPT ALII. MEDIOL. omnia experiuntui ur,.& denique aut fpe defrau-
dati,aut]am curationi füccumbentes, ;tandem non aliam fe viam invenire curandi,
quàm pe fcctionem, profitentur:fe fed interim zeer crume- nl exhauftà, ob dolores
; et vieilias confumptis arnibus, viribus vitalibus etiam. ob v1 igil as CO!
ifi imptis, exará lefcentibus renibus, vefica, et vrina ipsa, ta pcne mirror
hanc curationem confentit, et eam etiam ob rem ma- jori ex parte moriuntur
diffeéu . Quare p ret ab initio. Lca4 13 etia 1n in vp(ta4 Lc, dum vires
vitales v iced COr- pus adhuc car: Yofum, et fucci plenum eft,dum. veficaadhuc
mucosà materlà veftita eft, non- dum aut perfric atione l: apidis;a
utvicalidorum dicamentorum, et acrium abf ería, unde» Ó acerbi funt; dum deni-
dum ad magram molem ex- Crevit, Cul hanctentare, yop timo arti- fice electo;
qua les hoc temporea aliquos excel- lentes cogno fcimus ; cüm enim prim 1s
etatis mez annis plerique ex hujufinodi curandi ra- ne per (ectionem
interirent, triginta abhinc nis eorum major pars füpet ftes evadit, co- rum,
quià Ioanne Acorombo no à Nurcià paores non adeo Is non itlO ne ln S Lo &,
4 tre, jam hocannowità functo, et Ioanne eA nto- nio filio curati fuerunt.
Quarum A rom tan- qua minftaromnium hiftoria mp ul chis errimam hoc ; » co
réfatoe utiliffimum effe duxi. Comes "un roius Ir ite Senator, et Equ es,
bona- rum Td rarum patro nus, cum fl rangu rià p à liquot rimnen (es 1: labo
xratfet Hs in canali urinz rio Ccarneuim ert ANLM. ADVERS. carneum aliquod impedimentum
perfenfiflet ; inillud omn E moleftiz caufam referebat;ut la- pidisin vefic:
à,quantum pofl et, fufpicio nem. declinaretme femper reclamante,& maximam
la pidisin veficà concreti fufpici ionem fubefle » aflerente .. Cüm antem
aliquando ad ameniffi- mal m Sancti Flo rani fuz ditionis villam fecef- fifl c
t.in eraviffimos, et acerbiffimos dolores incidit; qvi cüm per quadraginta
horarum fpa- tuum fine intermiflione p 'erfeveraffent, citatis equis ego
accitus fum, et cün : omnes fübeflenc note, quibus pertu iaderi poteramus,
lapidem. icà, faltem prob abiliter,cüm nullum;icnum path ognomon icum lapidis
1] fi seti ad vrbem remigraret, ut certam rei hvjus habere poffemus im miffo
cathetere coonitionem. Advenit,fed càm carun- cula impedimento effet, ne catheter
in veficam immitti poffer, priàs auferendum fuit impedir ?| (1 i l e qerwer m
Qs d disas, e orsa sibisie att ndr cA ai X zi: mentum, « fttata catheteri
via,cumque a peri- Á *( 2» Avr11l In M (leo Te invoentnue : d L c 1i L1CC 111 n
1111 S €elicts lapi ;ilVCHLuLuS5CcILt. C)vrarect | nità, utaliauando fe ab
acerbiflii n 13 i ^3 ui : le CO! ril us eximeret vir clarifiimus, omn1a qttra-
prit;um paranda cenítuit, ut ad fectionem veniret, expurearemus nos
corpus,dixit;ic animum. ' /^1 "^ 1; : vIVPITOATMTDI:1».230C 1me011 I r11
113360 101m L1 C [1 A17 at Li C |i N hlliüan ) 1C 11 Ine» C dienis firmaturum,
et teftamento de rebus fuis difpofiturum . Nos diem felieeremus ad placi- E |
-, fe1 10.c die ftatul c1 e (1 nibus pa- ratis accederemus, fe fcmper paratum
fore». Oni IDUS I1(C paratis a CCCOLIIEL $S,alacr1 aniino, f16Sq ^2 LFD. SEPT.
ALII 7MMEDIOL. nos excipit, et nosadopus adhortatur, et fe » omnia intrepidé
paffurum profitetur: fit fectio, nulla vox querula, nullus ejulatus;
adhortatio- nes folum ad artificem, ut intrepidé negotium. perficeret; unus
primó forcipe extrahitur lapis magnitudinis magnz caftanez ; alium adhuc
füpereffe extrahendum artifex profert : ne du- bitet, extrahat ; iterum
adhortatur : (ecundum extrahit, tertium; quartum, quintum, et deni- que fextum
ejufdem magnitudinis, fpatio me- die horz; nullaumquam querela, nullus eju-
latus, celfi animi omnia indicia, (ola poft actio- nem Deo gratiarum actio. In
lecto repofitus, refectus de more, omnia bene cefferunt, nulla, febris
fupervenit;nulla inflammatio,nullus do- lor ; fomnus poft tantas vigilias
(uavis ; ulcus iermino quindecim dierum pro medià parte optime ad cicatricem
deductum; ecce cà die fu- pervenit febris vehementiffima continua, nul- là
occafioneà vulnere habità, quz adeó ardens fuit, introductà etiam hecticà
febre, ut brevi temporead tabem,& extremam ficcitatem cor- pus deductum fit
; in quà adeó carnea fübftan- t11 confümpta eft, ut etiam cutis exaruerit, ita
it extrema cuticula 1n corpufcula furfuraceas per omnem corporis ambitum diffolveretur,
et excideret; cutis autem vera tamquam ftorea to- ta fiffuris diftincta
confpiceretur, et afpera, du- r3, et ficca tangeretur;ulcus exaruerat, et labia
in calli modum exficcata confpiciebantur,nulla amplius fanies, nullus ichor
promanabat. Et cum res fere cflet ccnclamata, refpectu ad has res habito ;
nulla fpes falutis fere fuperetle videretur, cum ali qui vitales vires adhuc
atis valiiz confifterent, ezoq; humceétantibus, et retrigerantibus calori
febrili contrairem, et in- ftaurantabus naturaleni calorem foverem, tum humidum
fuübftanuficumoptimis cibis repone- Moueynlstiginn fe prcma Meine qa tiin
acerille tebrilis calor dafinbpiie ctio cta- quanto À lior reddita eft ; et
quod majorem, parere poteft admirationem, majoremque ía- luusípem Vr mri onec
rece pore aridum, et quáfi callofum, 1terum recru- duit ; dolere aliqi peuleumb
itai micéptii- pem emittere, mox ichorem; póftaliquam etia faniem, deinde per
te, nu] adhibito przfidio exierno,1ta convaluit, ut ad | | fanita- tcim fit
reftititus, anno aatis fu: xage Silio rertuo,cumadl:uc octvæena RENE. vat,adeo
litteris deditus hac etiam atate, ut perpetuo fcré in inftrucütlima fi à
Bibliot theca véerfetur, perpetuo etianz cum mortuis v1vens Ccolveéctari
videatur. Admirabilem aliam fortafle hiftoriam, n propofitum, fi "0 amí, |
l EL » T3 ou^ Ins^3 recenfeam. Nobilis Henricus l'eccnius;
Roeetsferidiodshenito viet ft Aoid ribus ex lapide in vef'ca eflet
corfitctatus, nec umquam curati rem pcr exiraéilonem admi- fiffet) cim
acerbi(Timis doleribusanoctretur, vr fatius moricerferet, avàm huj: fime di
tormen. rpetuoóaffiig1, cumqueextractum proxi Á 1n mé lapidem trium unciarum
feliciffimé ab Il- luftri viro Cefare Pagano fexagenario obfervàaf- fet,à quo
ad hancadmittendam curandi ratio- nem proprio experimento erat incitatus ; tan-
dem me accivit ; qui D. Pagani curationiadfti- teram,feomrninoexperiri fortunam
füam etia inillà atate velle ; et fe autabacerbiffimis illis doloribus eximere,
aut ut fortem vitüm mori » profeffus eft ; càóm uridiq; anguftias fübeffe cer-
nerem, quód pauciffimis diebus cum tot ; tan- tí(que cruciatibus,
vigiliis,& virium viralium» imbecillitate füpervicturum obfervarem ; eaf-
dem tamen vires imbecillas, ztaté jam effetam, et mænitudinem lapidis tanto
tempore auétà ; illi operationi repugnare,anceps, et animo du- bius, quid
confulerem, hzrebam tamquam 1n» falo, et tandem fux voluntati totum negotium
commifi. Oui tandem omnibus expenfis, de- -revitfe huic curationi committere.
Excifus ; et extractus ab eodem artifice lapis feptem un- ciarum, et drachmarum
quinque ; et quamvis per loneum tempus vulneris curatio tum ob mænitudinem, et
dilacerationem ; et angul- nis multi in grumos concteti in veficam colle-
&ionem, tum ob «tatem, protracta fit, conva- luit tamen poft duos menfes,
et per annum» etiam fupervixit; felix eo tempore, quód dolo- ribus careret,
quibus per tot annos fuerat con» flictatus . p '", 4*4 /3« . * e » Q 115 [
10 fluxu et c st gin » e curando Medicos video à rectà vià aberrare,ut
necef129. À Deófepéin feminis hocinvolunta 3 i farium fit, aliqua etiam hac in
re annotare». Cum autem morbus 1s ob varias externas occa- fiones olivenire
(Gents et ex congreftu V enerec Íacpenume ró communicetur, c Fi di iP
eüsmaridum erit, an ex lue G.; oricinem duxerit, an potius ob exceffum 1n "c"
Cta,an ex congrefiu cum muliere eo morbo laborantes; e Ci | I] ^ X1* 4 11 11
fine fufpic nc Gallici morbi: fol t enim eti21n»o communicari 1$ morbis (ine
Iue Venerea: diffi bro artee 4 ! l » ? 12? e bw de 9? C &fs Gonoybaa G ]
lica n8 fla f«pbruneda . 7 Ganor- rhoi mtt- fatur Dm f uxum 2! DI) e (5
2220Yy-£&a altauando minalia, ut tempore debito femen contineant, ex
continuo enim affluxu partes ille ret rtz na- turà adeó laxantur; nt diutiüs
duret fluxio illa ob illam folam caufam. Vndeetiam, cümex diuturno feminis
effluxu acrimonia, et calor materiz refrixerit ; [e penimacró decipiuntur
Medici, refrigeranti- busin eo cafu utentes,cüm excalefaciendum fit aliqua Vea
femper autem adítringendum : in; quem ufüm ut fiepé foleo decocto ex ligno len-
üfcino, aut ex ligno cupretli, aut decoctione maftiches, et aliorunrex aquà
chalvbeatà, aut mincr. ic 1s aquis ex ferro . . De cipit v eró et fepe peritos
Medicos ; q: id. cümab initioab externà aliquà causa ex- calefaciente, et
lixante 15 morbus inceperit, ex longà auté fluxioa e fpiriibus multis inanis et
malto femine evacuato, et corporis habitus í It refrieeratus, et multus
humoraquofüs, et fri- e1dus genitus, mul Aq; pituita pr« ducta, cum. in primis
Illis remediis infiftant; omma in dete- rius ruant, et aneeatur fluxio. In
quocafu teme perad contraria erit tranfenndum,& iis n ten- dum Lec en
faciunt, et ficcant cmm aliquà fubadfirictione ; 1n quem ufum co coctum cx
Giiajaco, cum pa rtione igsbenæe 1fcinlut 1n nlperi, aut cupreffi;aut maí
ftiches: nno verbo dicam.;ea omis curatio etiam conventet,, qua prafcribitur
mul laborantibus. veniet de- Bu ribus albis purgamentis:f i De Menfium
[uppre[[ione, -diminutzone . T infüppreffis menfibus, ubi fan- guinis miflione
per fectam venam. | opus eft; (emper Galeni decreto à venis crurum ' evacuandus
eft, lib. de cur. rat. per fang. m. cap. 11." 18. itaubi hzc c eadem
fuppreflio cu- randa eft, cum magnà fanguinisabundantià, in dubium verti video,
an hzceadem curandi ra- btts i tic ofequen da fit, afferente Ætio ; /;b. 16.cap.$7-
| prius extrah« andium efe fanguinem ex cubiti vena, mox veró ex venà tali,
neaffatim ad 1n- |ferna ob copiam irruente fanguine, magis ac | magis venz
uteri repleta bítrüerentur ; ;quam opinionem, tamquam etiam à Galeno non dit-
íentientem ; fequuntur Altomarus, T rincavel- | lius, Mercatus, &alii
multi. Mercurialis au- al tve vitcho. Item, et Maffarias, etiam fümmà prafente
pleinitudine;in fuppreffis menfibus numquam cen- Lfuerunt à cubito mittendum
effe fanguinem;fed tfemperab infernis,quód etiam per illam fectic- knem
plenitudinem tolli poffe cum Galeno cre- iliderint; et fi qua fanguinis copla
per venas ute Iri fertura fupernis artracta ; et am per eandem viam ad inferna
attracta evacuetur per infernas lMllas venas. ( rediderim tamen ego przeftare,
dum; Vene. - .Atibi plenitudo ad vafa in corpore acervata füe- Iit; illius
habità rationc, primó,antequàm füp- IprefTi lonis curationem æerediamur ; fectà
venà lin cubit ) 5 illam folvere,In1OX VCIO interpofito | I " | * vrbs
debito tempore, fectis Aids tal firppreffioni menfium opitilari ; et cüm prima
illa non fit facta ad curationem füppreffionis menfium, fed ad folvendám
plenitudinem, hac O ; conveniet "vao Ga Í one operi inrenon repugnabimus
Ga le no cenfenti,fem- c .f47 He. 1 (La jw" £/7€ perin fappreffis menfibus
curandis fecandas ef- fe venas crurum. Æit tamen non placet fenultio e tentia,
quem alii recentiores (equuntur;cenfen2e21i2 Y€f N tis,primó mittendum effe ex
cubit nsnnen ls "M / . ; mox ftatim ex pede, ut per primam folvatur [ec
Ir'one k 7?) cr prir vera is plenitudo, per fecundam, fi qua ab ute ro ad fii
menfibus perna facta fit pet primam evacuationem re- fasrc[fis. tracto, iterum
ad confuetam viam uteri retra ^hatur; fic enim et habenas equo retraheremu et
poft calcaribus ftimularemus, cüm fieri Gof- fit,ut m M Mie fecta vena
füperiorad impe- diendum, quàm altera inferior ad promoven- dum m. MA uas
pureationes. Ven: fe- y22 Si avis qua traduntur à a Gal. Zi ). dc ..À Hoi bra- cur. vat.
per fola "m Yenam cap. y6.ubiin Biden fe- Pens Clodi M talo. pro curatione
füppreffarum pur- sationum menftruarum, tempus folitum, eva- 4 €uatio nisilla
rum effe obfervandum docet, atq; HI J^ pertres,aut quattior anté dies effe
evacu andum s fimguinem, dilige enter confideraver hi facile in1b 1 I l n
Iecov- 2 elu æ, tellioet, 1 1bi plen tudo talis ad vaía ; n c«( X rpore 1 Coah
doped 11, quo fuppreffi funt [ibit ci i, non effe TTL TAM Yam exfpecta midst)
npus purga tionis folitum adl 'Vacuatione cubito faciendam : tunce NEN 7 PY €
cuati CImnocx to faciendam ; tunc enim ) Oo CAL V. -À " T . ? ^ (
iupnprettiol adillyaremus « Ineaincomtnnw« Ubpreitioneadcj;uvyarcinus, ecin
vLincomÓos- VOSR 1M. à |] M CL i 1^5 «a 11 1 et avocaretur in contrarium
fanouis, et potius H. ANIMADVERS. . a da incideremus, qua d Ma rcuriali, et
Maffarià proponuntur; fed iliud przftandum erit in medio menfe, poft decem, aut
quindecim dies Z termino : fic enim et plenitudo tolletur, edm confuetus motus,
cüm eo tempore nullus fit, avertetür. eia nj uu aulus ZEeineta 1ntelle- Ti juod
tamen intellexiffe vix fieri poteft, efie quid illiin mentem venerit, hoc morbo
cu rando dixit, non efle fecan im venam ante prafnitum menfium tempus; d per
dicet. dies poft. n promoven« is menfibus diminutis ; licet preceptum Gal. /zb.
de cur. vat- per [ang. 995i [[.cap. 19. maxime mihi probetur, ut per tres; aut
quatuor diesante tempi fanouinem mittamus ; y Penes tamen expertus fum, mæis
proficere, fiftatutum tempuz pur- eaticnis finamus adventare, 32 ibi diminuté
operari vide povenuni defabiiair: of Pass evacua- tonem, veríus finem motüs
manus adjutrices porrigemus naturz, et motum illus promovc- bimus,ut fimul
cumpaturà defence totu1no opus perficiamus, juxta Galeni decretum 9. po i"
MEC ed. Ó hac dere «eh fentiant ; quunt,aut maxi1i1no timcre c íectione vene
ten- tant vi) moms tse endo pcríeccrtam venam » 11 1^ " - ; t1f1 in
talo;per er tres,.aut qu. |LULOT gi1es ance ænnituig NEN "WO Kid a Je Doo
"ve p ^ "X4 £x Decio 7 MA ee fe yw Kt, 4uA 40 €^ € € . ^to. [WP AT
Vez IZOHS J dimuirttis | )Y0?A0- i ^ * f -,F£ " Len Ü. 90 65 *v2t !j L],
;;0- illud tempus, cum Galeno ; fi enim fluente fan- cuine fanguis mittatur,
non folàüm non promo- vetur fà inguis menftruus; fed ex animi deliquio, aut
timore ita fiftitur, ut amplius per illum ter- "t minum effluere non
foleat . Meis 15$. In promovendis menfibus (c&tà venà in pn qrom* exqu,
femper praftabit repetitis vicibus,bis;ter, Fu - s aut etiam quater fanguinem
evacuare, quàm. vs os: unà cvacuatione fol totum negotium abfolve- [5 - re:fic
enim melius fanguis ad motum incitaus mi«- $27 tur, et fepius motus facili üs
ad fluxum invi Sechto ve- tatur. lossqézsexialo 136. Placet magis füb noctem ex
pede fan- Lex inh. volue fot guinem detrahere, ut ex affiduo motu ; aut fta-
fab mo- tione et humores facilis defcendant,& ex mo- PREPSURCUUNQ QE
attenuati faciliüs profiuant. fob ixi: : 137; Per duos tamen, aut tres dies
ante ab- W- rof luantur crura. ex decoctis attenuantibus;& aro- dfricla. 4.
ant X. matibusafperfis, et mox longà fricatione deor- * | fectionem - AV uon €
cuini ; | Li onda I 5$. Faciliüs etiam fiet voti compos . fi ante cx ialeti«
hecomnia,aut diebus prepara tionis exercitiis 2 dere 4«- ytatur aut univerfi
cor poris yat inen par- éet CX?rC! tium infernarum, maxime autem | ]jumborum.;
f / fione fan aut fanguinem ejufdem conditionis obftructio- nem inutero facere
cognoverimus, priüs fo: culis ex »] ; zai0 oven yuln ' |; regio Tnentis, X emp
laftris reeioné uteri fovere; quo» fum trahendo invitetur fanguis ad
fluxí9nemi[: adinferna,44 artenuentur humores mixti fans-B: DW 74 139.
Praftabit aurem etiam ante fanguini: 1 PoE/14- 221] : miflionem, fi craffum, et
v iícidum humoremo.Jnm ANIA ADVERS. . l'rum materia, cüm provectioribus hzc
fcriba- | mus; tylva autem prafidicrim apud fcriptores reperiatur paffim, et
fit extra noftrum pro po- fitum, apponere non opportunum effe cenfui- mus. 140.
In decoctis menfes promovertibus ex- hibendis hzc adfit animadverfio, ut 1llcru
m. jmagnam quantitarem concedamus, ut integris viribus ad uterum pervenire
poffint; atq; n« n. tolum fanguineman venis exiftentem craflio- Irem
attenuaxe,fed et eum, quiin utero 1mpa- ctus, et cbftrvens, impedimento eft
fluxui, fe- cernere, et fübtilemreddere., De lAI. Q Fluxu zeen[iruorum immodtco
. Vemadmodum in fü ppreffis menfi- bus, dum repetità utimur fanguinis fep endn
e emaul yn. A leg evt 1x . Méfes pro 7200€2114 per os fint 2 mmulta quanti 1216
[n f ^ n xà nie fium mifflicne, dictum eft, praftare », PR mon eadem die 1llá
repetere, ut modico illo tem li peris fpatio imminutà materia, et o1iis
interpo- Mitis et attenvanribus, et attrahentibus, natura JMmeliusaffuefcere
potfet ad materian n per illa jf partem de more evacuandam : ita é contrà m, !
hr evulfionehacab utero per fupcrras partes bis, | et ter eadem die rep ctendum
cerfercm ; qvód h& cevacuatio fanguinis vreeat ; et retractà qvà- primum
materiá, fluxio citius fiflatur,neg; tcm pus Intermeditim neceffarium fit conc
dti,Uut lun Pp) reffione, 2d parandam materian 2. ]n hoc« medi 0 fangut
"i$ mio epe !iia 7 F att a MP d E ACCQ AA ifectu video multos vereri i fum
: medicamentoru E folventium, quód "- fum digpé'ty latus humor biliofüus,
ac commotus, unde faépé gandum . is morbus provenit, ad uterum etiam fet ratur
1 aut compreffion ne, quz in regerendo humore fit, venz dehifcant magis, atq;
magis profundatur faneuls: quoniam tarnen per eam partem eva- cuatio aut
revulfiua eft. fi fluentis ab hepate; autàliene, velà toto materia motutm confide-
yaverimus; aut derivativa,ubiautactri,& cali- do per admixtionem bilis
fanguine fiat, aut à illámqué revocare à .parte;ad quam fluit.Quod ompreffione
mufculorum ventris inciderit, cüm breviffimum fit et humoris irritantis
evacuatione, Á egpen [mnt REIN "entium aliquorum. fFriclimr. dici 1 ;
quia,et fa dftringentes aliquas partes hadatum, fcrofo, aut psi jc )paümum
femper erit, ex- purgato ab use nentis f: inguine, minüs fuz qu xilem reddere,
mini (foli acrimonià irricantem, f hs iod incommodum ex motu eveniat .autil ilo
sueiusibot et revulfione y^ | Midica- Sint tamen n medicamenta hc aut per] |
spenta tz- fe cum aliquà adftrictione; aut adjectione ad-4 n aü- 4 R hab
arbarum ín hoc cafü fugiant Me-] i ! [ r^ abat- beat: potiffim! üm fi non
multüm maturum fue: 62 7 7 vit, quoniam tamen, inquam; tota illius folvem |
fup. [lis di visinieneis et tenuiffiriis partibus pofita Jii Cie eit. qtux
facillime venas uic cd c etlam ! faneuinem fuo colore tingunt;&
eàrationeacu tiem illiaddunt, et calorem ;càüm tot alia ; 8X fi nplicia, et
compofita fup erint, fatius fempe | duxi abillo abftinere ; potiffimum cum ab
alii lic, cüm ei, quz aut -i icraffanti facultates aut 774//22*
lipEniraspropémodem mulieres ab hoc morbo Incmdton. et facillime P: arabile.
Recipit àutem Gor deme 4. iy datvm, obíervàrim, multa in hoc morboattu- life
incomimodao.Poft hujt re remedia ea ratione fa(a Pire feri b rdaxitbe
corveniant;unumanr pre- /, (ena cnirtema iato Bodo effe cenfiisquo "^ di
;interfecreta "Jn udo refe rvattim. clefcehtibas ; áui fub noftrà tütel:
id pPraximi me K Am addiféendàm exercéntur;etia Icomimiimicatum
nb&hcomhníbus;ad communem Hiliitenm cc mmune iit ;Qquo feré& nunm-
iquam friftra ufus füm,modo exulcerato aliquo vaíe in ütero fluxus as
menftruorum aliquaiu.; kon habeareccaficohem-: eftautem omnino eva? ^ aqva
libras feptent; 1n'quà 1ncoquo cortüces lerium aurentivm acidorum ; aliouanto
adhuc fiubviridiom,'&i1llas in philyras incido ; et exiccanoàd duarum
pártium confumptionem; et factà colatrri, vhicias novem vel octo potanda Imane
dé: euod fi vay medicamentum paliorebiccirf:m volo;nunrpalum herbz pilofel- 1
31li«c £g *1 . E 11 like 1n fne exccquendum addo : Ines adhuc redditur; fi ie
aqvà Villenfi decoctio fiat, aut fi in octo "Hbris aqui fiat? vbi duz
terti? partes pér coctiopen abf mypta fverint,& excolatumm
ldciimiyehalybetdito ignito fepius 3 PUT 713 roborettir. Boethi u- xoris albo
profievio laboratis biftortec o explicata et Gal.lib, de praco- gn. ad
Poflbu22H?7 « az De albis per uterum purgamentis. 146. C Vmillud mihi femper
fit perfuafum, | |. | in hoc morboeaiterum non laborare.» per fe, mifi cüm ex
longo «lefluxuetiam pars ea;, 1;, aut laxatur nimiüm ., aur refrigeratur, aut;
jy, cetiamaliquando ulceratur fed vel à totocore. f; pore, aut à ventziculo;aut
ab hepate; aut eriam. |i àcapite materiam 1llam transfundi, laudare.» fatis.
non poffum,quod Galenus //b. de -pracog.ad Poflhumurz, maxime necetfarium,
effeduxit; ut aut totius, aut partis laborantis,& tranfmitten- | |. tis
rationem habeamus ;.nec fufficere humores . |... divertere, et evacuare et per
alvum, et per uri- ps, ut fecit eo loco. Galenus ; qui non folum... diureticis,
afaro, et apio, et hydragogis ufus]... eít, fedlongà, et forti fricatione, ciun
non abi]; hepate, aurà ventriculo tumor ille ventrisinfe- rioris, et
fluxusaquofus per uterum originem. duxerit, fed ex refrizerato nimiàm,&
humente: habitu corporis, et potiffimum carnibos par... tium infernarum,unde
per longam, et validam; fiicationem, et fimplicem,& cum melle cocto | EUR.
» "e .non folàüm revocabatur ab utero ferofailla af]. fluens humiditas ;
fed incalefcebat habitus cor--J poris, et ira ficcabantur carnes, ut (anguis
adi]; appofitionem, et renutritionem tranfiniffuss] non ampliü s recrudefceret,
autin pituitam, fe--] . rofümve humorem abiret, fed nutrirer,sícque |. optimé
nobilis illa matrona convaluerits nona, Jguur [^ 'J vocare «Quod fi af
ANIM-ADFERS.: . Igitur oportuit alia etiam adhibuiffe, et exhi- buiffe prarcr
ea, qua tradidit eo Iibroad aufe- rcndam intemperiem à tcto; aut parte, üt cen-
fuit t doctiffimus laffarlas meus, cm non alia» labcraret: unde excalefaétà; et
ficcatà par- t€, ne denuo m aterja e enerayrecur, faris fuit;ges nitam et
peralvum, en perurinas ab utero re« '0 &apioufus eft, ad du- cendam
materiam " er i mofadd àm,qua tamen etia 27$ 4| perm,enfes, et uterum
folent evacua re; ncn vl"A P * f detur mihi reprehendendus;s qui nt và
cencra| rione humoris inhibità, rectà victüs ratione; | potiflimüm pottis
parfimonia,iX füblatà intem- J| petieà parte laborante; nó ahud habebat;quod |
faceret pro eàcurandà ; quàm genitam jam a- | quam evacuare,& à partéad
quam tota fereba! div reticis » tur, derivare ; nempe hydræoeis per alvum. per
veficam, et iis quidem;que fimul menfes prolicere poffunt; qualia
effeafarum,& apic m docuerat 5. C $ xfi med. facul. ^ut etiam fi qua
excrementa picultof. | uteri veris, et utero 1pfo i ferofa in, rent;aut ob
craf- fitiemretincrentvr, neaut corrumperentur re- tenta, aut iptcanperiem 1n
utero 1nducerent, tandem etiam quamp rimum expurearentur, . Ex quacvrandiration
e illu d primo col- ligendum eft, ncn hac 3" làin cedendum effe in curando
fli xv mulIicbi ahbà enim và 1ncef- fife et alios Medicc: n. cmanos,&
Galenum ipfum, ex Hi Medicis anuquvis dcíompt refide pocrate, et optimis qvibufqveo
à,Cccnftatex cap1teo $ à illo: Albg bro. fiii fa- bé CHYAV- dut vtría ra- Moe à
di tradita et », ls l;b. de pr&cog. ed. Pofl bu 322/4772 . lx arena
yanarina fepe: e 2nalum, £9 contra G a. Albi bro- finvi vc- YA CHYAL- Ai
TAL.illo: mutàffea item poftcà Galenum fentétiam; poftquàminundià ftomachi
regione. ex unguen to nardino precordia perfenfit frizida,& humi- da, ac
mollia; ncn fecüs quàm lac coaguíiatum ; nondum tamen in càfeum concretum ; ut
ex hi- fori illà tradità Zib.de pracog. ad Poflbusmum.», eap. 8. colligia 129.
"XN etroris 'arcuendi. funt ; qui piocurando eo moi rbo ;mulieres in
calidá ma- risarenà fepeli endas ex Ga leni. decreto cenfent; cim tamen
Galerius fateatur aperte; et ce tcros omnes d C feipfum non firié errore hoc
remedium attentàffe: ut magis ii finr. deridendi; qui etiam in divi arena Soli
aftivo nudas mulieres exponentes, ac deméreerites ; tentà- runt mbrbutá
huncevincere. 149. C urari igitur poterunt fim iles ur orbi, derivatà, et
fimulevacuatà materià per vias fe cefsüs ydrago?is; diureticis per viàsu rinz,
eo modo, quem docuit Gal. cap. illo o.de pracog. ad Poftb. Inter hvdragoga
noftrotempore pri- mum fibi locum vendic at Mechoacani kann fialiquaadmixta fit
bilis; £x Jappa,tum ola Q tertüm cum pilu lis ak epha iginis, fuccüs 1reoss potiffimum,
f. Bie I? decoctum; et Pa m aj fylv 'CitI1S 14 )a- 541- Ixt il« LI t (imilibus«
alia.aut ex 115:2* . Dofita. tiffimum witbid, &'prafentaneum remiedium
funt; aque T bermales falíz. vt T'ettuciana ; et fimiles, quód per vias
fecefsüs hunziditates de4? " Do v .À d S S asi es AUI FEMA ^ M. ducant. Tot ner hanc viam
naturam attuetcat eoi- cCrC. Incafi lium tam een haco n inl daa fient dem
tranfimitt y77 Gent, nifi partis cenerantis hos humores ratic- pem habuerimus
aut, ftà toto eenerentur;to- uus; propterea, in ufum e. CURED dug intem- periem
partis aut touus tollere poflint; puta» EL: | e MN wd fi frioe1da et humida
fuerit; quod 1a pius evenit; je. aut ventticuli,aut hepatis, aur toti
s,excaiefa- cientibus,«& ficcantibus conabimur evinccre ? commodiora autem
hazcerunt, f15ü88nrhoc prc1-4 331311 " ; (^v 1taàlnLls 3 a Vt( Lt : assise
ap, o e« 1ncontrarum tractam eCvacliaic co i LHl- C15 potiliiniulu lia totoad
uterum trans fundaa- - h 1 * T decoótum Guajaci: aut fi1ntemperies bec frigii Q
| :, 1*3 ^ 14 : vw da « humida jecur etiam att1gccr1t; quo d Cx Ia- dice, vel.
ilgno oafiairas paratur; ex quorum hr ES, * $^ "s " 14* T^ we 4 | Qe»
T C XCInD] l ) CU 111 P xin rima aiia | roponl px (tunt. 1 E I $C. Animadvert«
naun Lt 1d Cn,n ja fempet1 aut íerofuin humorem, aut pitu1tcium peccare; peque
ícmpernunc cíic. Cx pl rcandum neque 423311 " I ! À ' E a^ bor d x c4
femper calidis cczr1endam efie caufam efncien Puross:8 2 mulie by 12 20) 75ber
"t £ J 7 ,211 CALtis Ci 4avanáa o Adftrictus enim locis ; aut nobiliota
meinbtáà in-. 1: vadent molefta illa excrementa; aut retenta in., malum habitum
; aut. hydropem laborantes] ducent. De. Vteri prafocatione . Prfoa- 132 f leri
prefocatio ut morbus eft per-- 1^ Vis air dn niciofus, ita cutn folis
mulieribus,,! tento fei et fepe ex Iimprovifo adveniat ; curationem fe-- [4
ne,odova- X6 € fola fibiadfciverunt, ut inde quàm] j]uri--p £5 vulva 1naà
errata introducta e(ífenon fit titm : Inter nen inn quz lllud primum locum
obtinet ; quodi infuf-- pun gea. ^ focatione matricis ex retento femine, in
matiriss| virginibus, et viduis ; internas vulva partes ;1n--[' ungunt odotatis
cleis, ex Zibeto, Mofcho,& fi--|' milibus, aut peffaria talia
imponunt;quibus,licet ob fuavem odorem, uterus füpetnas partes: petens deorfüm
allictatur ; quoniàtm cunen et titillatio excitatur, et appetitus Veneris
promovectr;quaft in furorem viregineum coricitan-- p turmulieres, &à
comprefhio ne diaphragmatis retracto utero in proprio loco extenfus, quaft
turzente materia undequaq; movetur, ac fynt- ptomata p ropemodum ind icibilia
producit; Le- fo cetebro, et corde: hinc cordis palpitationes, et fyncope, hinc
pulfüum deperditaiones, hinc:] dementis, lío cerebro, concuffiones omnium
partium, convulfiones, et fimilia. Prafota- 153. Quare pra ft arct fuaves illos
odotes co- tiséeze o X1$in párte internà prope. puderda alligare, quam onum
intrudere, fic enim beneficio fuavis olen- ! tie fruerentur,nec in illa tam
magna incom- 1 | modi inciderent . r$4. Nutriquam faciem frigidà in tali Cau
afperzant. Minüsautemodoratis aquis. r$6. Quinimó ne vino quidem facies erit
abluenda. 157. Quamvis enim vini nonnihil vietiam adapertoore infündi poffit;
cum Hipp.Z/b.dc» | morb. mul. cra tamen. eodem tempore malé ! olentia naribus
admoveat, vino faciem làvan- I dam non efle docet . 158. TitiHationes
aut'dieito medioimpofi- | to, et perfricante os uteri,aut aliis inftrumen-
tis,ut femine excreto füblevetur mulier,à Chri- ! füano homine omnino
ablegentur . 1f9. Quametiam ob caufam peffi illi ex ali- | ptà, lienoa |Joe,eca
ryophyllis, Zibeto, et fi fimili- Pbus parata, licet difcurere flatus uter:
valeant, !quin et fermen promovere;quoniam tamen ten- J'tizinem maximam
promovent, et Saty riafim. fepe inducunt, in hac fuffoc ationis fpecie ex re- I
rento femine non ita tutó in ufum duci poffunt, MEC Cerata ex Tacahamach&,
Caragnà, fGalbano, et fimilibus, utin hoc morbo ex re- litentis menfibus ob
craffitiem, aut putrefacts, llrron refrieeraris excrementus, ac ex flatibus à
Wl proprià fede dimoventibus; proficua funt ; ita, I[mb: ex femine.retento, et
putrefacto ortum du- Ixerit; non 1ta fecura erunt, nifi cum exftinguén- S ^
tibus lentia to xis appli- canda . F scies frs qida n9 æ fhergeda. Nec a- quis
ode- pyAf:'fe Nec vinos Pauxilis viniconce dendum mai? olem tiba$ na- ribus
Appo- fitis « In prafeos catis ex fe mine reti ciéda titi latione. Pe[ft odos
raulpra- LUUD e femine reiitiédi » GCeratæx Caragna» galbano » gc. tpr et
focatis (ex f 1oine y. Gucarcoi- z ZéLá. 1 " r&- /* J« jocis Za d fit
P €? ü4 E tibus femen,aut refrieeran ub us; ficcantibuss uteítagn 15
caftus&« Sorallium»aliquid adjun- ol 1l ^ AX61I«. Scio multas, quo ri Pe.
ev t TE 7 emo NE S TEN in locc Pp OpEh yretinea nhtL,Uu6 DnVItCLLiCA alieettio
23 x Ln en excitentur; hujufinodi ceratisex T acahátnach uti,41n.umbilici
autem, Cay itate 11 1 f56snere q10n1 nponecie quo aut tria grana Mofchi: fe C 1
quàm ] ehci fucceffu, 1 ipíz viderint ;ex calore enim corporis et lec elevatis
bene olenübus vaporibus;fepe in pi focaüones incidunt ., 162. Cucurbitule ut infernis
parti ris, et coxis, quin et 1pfi publ appofitz profi- ciünt ia reeioni
umbilici | Te» parte Obefle ic lent. adis. In 3 Vero y ftot A nx 3 - Q5 ; 1€ CX re tenti: d inen 1
/ ^14 e! * ^x/11133 1140 7 T gor 3 44A Cu iquo n yd. Xxumque appo lli 29 PP!
OXAS bi alliüi Lil 1 US E 1 lm. LJ Cc 291 Db 11C5 Li Tas 13 EIU 3x4. 1 ders: s Lou. PLUS 5 ctiam in par:
X VilllO a mo s COI LI » poris totus refrigeretur ; Don j« LU 1n DatOoxy. Y ibe
enda eft dili S4NIMADFERS:- LIB.FIF .281 T2) 166. Incaauteém, quT Cx Hagone (
Ag ine D o0» fla- T p^des v ducit, cucurbitulà magna umbilici regioni apa ;;,
c55- lic rel 3 toin (1617 qo ^ 1 : Prtifi » VCI intcf uroblücum E ul em
pl&G- as tadffimum;fi quod aliud,remediun efleíclet. zza ati- ^ 2 Hac
tamencautione,utaut €x aGUa ca- 5/75. ÓH 1^ !1 »li "etr! . 111 "Y 1^
' id-erxa30mnme 13 61 T5 bruvbpi- ldáaapp ICCI1 L5 41 LCI m non nil m 19n€;,
pocti- gu Ve» - : E ! "1 : nia : 24/3 7H inum jn pra pinguibus mullcribus
. IH: a 255 1698. Sitex iis,qua perforatx funt 1n furn- 5 mitate. j : 3 m. d P
m E di 1 2 t 5214 169. Diutius non permittaptul adherere.ne, - - LI * a "
MoqT1 48 Í3 t: 4 «1171 1^ 1 (11 ^ if impegito kA AlilLL 2 lllLUl £1l5| D I |)
ill «CC 2 ]I1lo 1$ ^^] v m lI13carr- anmod alia p Qe qu oa n91 4Enaln CL. aLLiI
3 quod et iiti LIII «idl . )Yali$ et j i j 1 Z»^r: I * f. Y : | D, ! )! 3 up
1410 J 420A A20 n2^77 0741147253122 : ] Lc 14154 E aud A40, i AF LH222 07-1 A.
MI e«LcoATL a Ter 4 Le per mient e j«€?t E m, Medicorum 1n partu naturail ; præ
JÆcuncdi, dicorum. Canones veró curationiim omnium morboram muliebrium:
diligentiffimé -profe- cuti funt; przterantiquos Patres noftros, Graz- cos,
Arabes, et Latinos, ex ecentioribus Mer- catus, Mercurialis, et Maftfarias ;
fofüm aliqua attingamad munus füfceptunvattinentia . Obfetrici
Primóanimadverto, et frequenti experien- £us non te tià Obfervavi, nons effe
temeré credendum ob- mtré cre- ftetricibus aut aftruentibus graviditatem, aut
dendil, fea negantibus;,ubi agituraut de promovédis men- Mec Gus aut de fecandà
venà ; aut purgando cor- dd ed pore, ob urgentem aliquem morbum; fed Me- Hla
iljg,; dicus diligentiam fuam adhibeat, conjecturis expendos, 4$aG has cum
dictis obftetricum congu negat, et agar, lufpenfofemper pede in re-admodum
judicatu 8 difficili incedat; ne, fi dicta folümobftetricum, 1 aut mulierum fequatur;
nimis fecuré incedens, abortum inducat;aut remediis deftitutam lan- guentem
finat. Obffetvici | 371. SYumquamtamen in fimilibus cafíbris bus sfferé
aperiendi (untoculi, tunc fáné quàm minimum tibus fe- obftetricibus eft
credendum,etiam jurejurando tum mor- afferentibus, cüm mortuum effe fætum
teftan- P489 59 tur, et valentibus medicamentis excludendum ice . Perfüadent;
cüm fepenumeró multas videri- erts mus, à quibus feet!m ramquam mortuum, aut
excludendim;aut, quód pejus ett, ferramentis extrahendum effe cenfebsnt
obftetrices, et fub füà, ut ajebant; conftientià jurabant, quz non., ita muftó
póít vivum,& bene valentem fcetiim pepererunt. E HÁÉÓ € acerbit ter
efflæitant à Medi potrigant, pulveres, decocta, àquás füllaauas potrige endo :
; quibi 1S 1 (æp Vta ate dol " utem non ita óbftetricibus; ita aures non f
tirientibus, qui aifficatéa de partis ue: Na orm commortz precibus inftanC1: K
datur, autirritata natul tcvc T5 i 4* n! dd i cit nac Ale Ob hat tanta rtat
undeaut acerbu clu(iis ante temptts à natura cotil fervet ndtur m fitum 1i 1C
ipfam cà difficiltàs, unt pra facile SENCASCI éit eben ; ut mahuüs adjuttrice
ftit n exe indo. ifaycun laxantib P emolltentibus res erit triti fizenda ati
folemus ad expellénd üm fetum 1mnor q mbus tuiim; I74. aut fecur Quod f 1
placidi ráfémpér in aum parturien infantis éxclt Occidàtmus. 17;. multerit
neque i enim CO ee A mentes; fueéverint, énim fuübfequuntir fübv« alvus
xliquándo citatur : tó convenit, quód dolores 1l foleant,n eet üm . dated. ter
er, nin dà df no iearuue I^ [ r1 aus 1ftofi uerih n Ira 1 ^"r41 G "i
1 n T u ; ad]: imyoda arcu CUUccl ! 11€ nfe t d bl CX nil ^ Mc À. a» V $^ CXP
^( 5 5 Xlt loratunm laritm,d Da [im iciimque c fiiper ione exl TÍI nc
primipatris 1s fi 1 I 1 uo ) JUS V "f. Cxnh1Dc $ ventric lt s iabeamus,
quar e fit; ut infans aut occi- "i tenifpus debituman- cegcto datur;aut
ex- utum, non» n partüs ad- OUS » Gt laln 11$ etiam ad hic eft venien« á UL. um
ip: ci debebunp ivaré » DC, 'élymus;, " li pfius Im, (ofüinia aut étiam ip
d : noftris exhiben video n fluxerti it,neque vc he venit: nire c De
"EPIIT fe pc LA o9 E | CC 1l Qui DadIp iCrvenirc non P parParttut »o [rà
Uth- vA PTS á Medico ob fprttes parturien I A7 Paviu dm ains vt29 tja fati s bi
07220 Et [cam dAs, 4p 20X1A . Fét& ex- cLedentt- $ QHA7 do dun; - Qieu?n 4^
mys dali. |onü A par- tu hegue femper,ze gue ou Uentt s 4at6Hn)11- ? Us cg
Febrttit Li LoUs.a bart : LI ag mut jeans [AU * gz 4 [u- ht f par, 2 201ÉS e.
gv i, - piod qua purgatio C07 din et "i ndo obofd, qu. ex £ontvoverY fia
b«c til lez d: a . exp eme. A! com
bue E ) . LFVD. SEPT.ALII um fiuere velit materia. "176. Sifüpervenerit
febris, aut inflammatio aliqua, numquam à fuperioribus venis extra- hehdus erit
fanis, qn dgad alu fentiant;ne » retrahantur purgamenta: fed ab infernis fem-
pereritevacuandus. M EDIOL.: Aag pe ud De AMforlbis articularibus... ( 7s Íciam
maximé. contre um efle, an incipi Sn eplc varticulorum,potufflimüm.po ex ufu
fit medicamento elective purgante iid motes evacüarc, multis 1d affirmantibus,
quód ;, humores fluxionem facientes evacuentur, re- vocentüf£, et ab articulis,
ad quos fluunt, rev Sy lantur; evacuatà enim materias cn urnores fuc- céldent
dolores ;& brev lori tempore pii ura- bunt: experientiam bac inre iunltoru
m etiain. afferunt ; in quibus expurgatis humoribus me- dicamento, et dolores
leviores fuerunt, et bre- v1evanueru nt. B epugna nthuicopiniontali,
afferentes, ci dicamento purgante res ad inf iürihantur,*« devehantur;, fpe
humores per íé € à medicamento com- motos vehementius irruentes, majori etiam»
impetu, majori A ug et magis affatin culos pedum ; et ad 2enua affiuere et
vehementiores cfl dcc re dolores : et ob hanc unà caufam, dicunt, et Galenum;
et omnes fcripto- restam Gf£zCos, quàm nos« 1 Á IT. [| bns iiLilnoO4p Ccrna e a
SICQUuc 1ad arti-4 * Maurit 2QI3060S C lat IOS. m e Crraturos;cu dloribus adfit
et expellentis ; à UCTIt COp1a ANIM ADI Dæiscommendáàfle evacuationem factam
per contraria humores eoe £T? L| ime. Cij us i cum dili- Zenter caufam
1inveft1io irem; ceno iictl1onem hacin re QC materias Savocare,1d vero au
IDnatcria inque'qdquandatrate La ad 111a: RQARSM VEPPE erimenta; ul ex] crie tà
cc Ec Cas a l11q l 3 M ic fiuens 5 CX 3 'Clilltas recipientis de,ant rob:
controverfiam .düàn fias evacua dà ex £diftin- 2uluc ho . )pri - ü1m. i8 mS
"m pr E E ", 26. LED. SEPT ALII MEDIOEL. Ead ut ex fignis debilitas
arücnlorum. Facilids Gxtvonviip autem difcernemus, an purgante medicamento ^...
utendumfit.an abftinendum, ex experimento facto : fi enim femel aur itezum
tentatà purga tione, &ingravefcant dolores ; et diutius per- durent, ab
illà in pofterum abftinere oportebit: fin autem melius fe habuerit ; aut faltem
bre- vicr faétus fit morbus, omnino intrepide erit corpus purgandum. Purpusio
x79. Cum vero, fi purgandum eft; in princi- zpwdsgra piold faciendum fj. freftra
preparaturfytupis cü facit. materia; cüm nec putrida fit, ut: cocticne indi-
day etl l4 coat; tantem aucferofa., et rennis,queftaum; Us um [466 expureari
poteft, Galeno magiftro, Jib. Qwoss:. 9 | da, r Qj quatido purgareéxpediat, avt
fané bilicfa.; te- ph wv^^^ quls, non potrida, qua facilé expurgatur;nec. |?
Becy)wM coctione indiget, quód fit fine putredine: cum. |. "von netóf v
tamen craffa aliquando fb perfit præparari po- pc terit, et atcenuaris ut
facilis, fi non refolvatur Acum per infenfibilé evaporationem, cvacuari pofht .
179. Miflio (aneuinis per fectam venam ut / : A T7ÉATCUAAMA . Ppodagri "-
A 1 É - : ^ dg quA A: gmaxll ne lauda CUT, ad praca vendam podærà 5. MN (C sis - | JC -irgdus,
goinefit refertum ; et ad eandem curandam, ft. |! an guin- bumores mixti fint
cum fanguine : ita fi fercft: [uy jJ" dozen. fucrint humores,&
frigidi, &frà parübusexe-- pu cernis capitis defluat materia, fruftra tentatut:
pni tale remedium, quód. habitum corporis refrie- | ecret, et hujufmodi humori:
prftet occafic-- [1t nemo . Pedaga X80, Quin ubi frequentiüs hujufimodi pce]
dagrice» [q" ód crudis humoribus tunc det occafionem 5q« | elagricz
acceffiones homines invadunt fie piüf- ^ f | quealiquem affüixerint, nifi fumma
adfit ple- vei fim- Initudo qui alis inebriofis, et vinofis aggreearl,,;, ji e
| folet, hujufmodi remedium erit omittendum, tendus uius /feffatis d vvv eL-
eda | habitum corporis refrigeret, nec curfum hu--* yis | morim extra
venas«ohibere poffit . E- $1. Repellentia quamvis paffimin princi Podagre |
p1o, Ccvacuato tamen p rlüs corpore aut fangui- lalerax f | nis miffione, aut
purgatione, commendentur à £u ridiou Jaffirmare,raró tutó in ufum duci poffe ;.
fi enim ró Con"ve- ntt Í .lidolores vehementes articulorum non prius ps
"6o | zefícunt quàm ubi :materia illa maxime calida, i'Galeno, Acuo,Pau
lo,&. Ceteris; aufim tamen. Jeztia va Lin. hu C34Y ^ ad externa prol.
abitur, tumorem, et ru Pocos Y m 1p partc excitans,quc modo repulfa
refrigeratis »«Æ clot | externis partibus non morbo occoficnem augc- | bit;
exitum impediens ? Quód fiadítridio Ten hleigendes | pu lion juncta fit, magis
eriam ledet .. Sed ve- - | 1o jam ex parte f'uxa amate ria dolorem excitás, |
nonne etiam, fi cà ref riger à dolor imminu: tur, craffeícet magis, magi f ue
impingetur; et 2. ad fubind e€contumaciorem mo yrbum efficiet? Non po P»
nifrigitur feviffimis doloribus ; omnem ad fe; " curationem trahentibus,
verisrepellenübvsu- J| C0. LL a. remur, frigidà, aceto, farinis admixtis,
pfyllio, lenticulà pafnftri ex aquà.& accto.& fimilibus; Securius eft
oleum rofaccum, quod vocant Com o dos. "- pletum, quamvis enim refrigeret,
et alique eec. modo repellat, vi tamen olei laxante tranfpira- c^ tionem non impedit,
neque partem conftipat; atit [Let ano WSLGii quatre prat joy: !] -! * v cr el
Tn ex Cut: $e), LC piam 2! 3 Í AG eui; articulos po X | CAT. Q. C 4 A do
fricart'r,; 1D ^47 03 Li Ü no» " 4 l (t, difcutit nre iatiifa P ter
praulel-. 1 IOX123.». Ep: 1,€0 nequaten ^11 v emm Ve V ( nimad A Pa P Oo ^et /
Q "C e E tS. EUEM u pti b tione ir dolores li1ttt 1 wi n iupra mí tis enim
c [ n di aue huimo* 1naíor 1 Of9f! C | p [: J *eo( (0 CM A 1 1 1117€ p nts 1!!
Phvl E 41 [1 ntifl 6€ co" ^nbi 4 LI L idià 1 * Qu tentia, et el | "11
ET A A. 7 [2 ris. (:3Hs^w1S I UETTICIL soni e «& vix falfedo oleo
communicatur, foleo ego fa- lem tritum M A EERATE in vini calidi leviffimà
poruone pat] aum colliquare, mox falem illum | cciliquatum affidue fpatulà cum
oleo agitare »; I et ficoleum falíedinem contrahit: Velin fübti- | liffimum
pollinem falem contritum, et oleo ad| mixtum femper ; antequàm 1n ufüm ducatur
| dilicentcr concutiemuls . De AMorbo Gallico. - ^ 136. N Venereà hac ]ue cura
inda multa fa- À néannotare potero, cüm illud veré af- firmare aufim, poft
delatü à novo Qrbe ad nos I| hunc morbum, me fortaffe multo plures hoc I morbo
laborantes curáffe, quàm qu ifquam. alius, quód prater innumeros in magna hac
urI be paffim curatos, per quadraginta annorum. fpauum magni illius Hofpitalis
Brolii,in quo, ll folus 1s morbus curatur ; et fzpenumeró vere I folo
fepringentis, quà decoctis, quà inunctioni- l| bus, et fuffumiegis curato
adhibetur ; reliquo vero tempore faltem ducent ex ulceribus femJ| per crrantur,
purgato diligenter corpore, et Ili multis etiam et pulvifcul 1$, et elec
tuariis,alexipharmacis praterea exhibitis ; curam in adole- fcentià mihi
demandatam fcmper retinuerim., et adhucin hac tate retineam, ob FRUIR cau- fas
; rtüm potiffimum, ut adolefcertes, et novi- tiosin hoc morbo cerrando poffem
exercere ». Vnde cuamanno praterito ; multis poftulantiT bus, adzmifce- tur s
fi fal oleo no?» qa idus 04 Lol CÓ voa / p Æ ra pn. Gallici morbi cu- ratio du
clort Quo- 7modo frequens, c in ea mal ta obfer- vare quo- 72049 po- tuerit. mw
M A MorlLi gal ]l:wei cura- 20 diver- f?» morbo vix 1- €boante, FR mento aliquo
füperficiei penis, atit feminei pu- 0e bus, diebus, quibus à Moralibus,&
politicis ii meis lectionibus vacare conceffum erat ; pluttbus fermonibüstotam
hanc de Iué Veneftea tra- étationem comprehenfis fum. Ex quibus ali: qua, quain
curatione hijus morbi finguilaria occurrunt, excerptà hocloco annoranda miht
fumpfi. | Primó ieitur illud annotandutm;non eándem eífe curationem luis hujus
primis diebus com- municatz, et übi altiüs radices egerit, fedém- que, quam
hepar femper cenfüt, occupaverit 2 . ^oi A fiepé enim malà illà qualitate
mediante recre--déndi; communtcatà,externas folüm partes oc--J. cupat;
ulcufculo cariofo, aut fimilibus excitato; quo exficcantibus curato, aliquando
penitiorés partes noh attinet, eu occafioné neque mittendus erit fanouis; néque
purgandum corpus ; 4; ne, quz externis partibüs folis adhæret conta:
cio;agitata magis diffundatur, magífque ad in- terna trahatur, urndé veré
morbus contrahatuür Neque veró timendim eft ; ne contta medica- tzcepta agamus,
quibus cavetur, ne umquam localibus utaviur,anteduàm erirverfum fit inásJ,
nitum: Id enim veriffimum eftin morbis à cauw si interni ortur ducefitibus, non
autem in iis S &. qui ab externis ; tiani 1m miorfü venenatorutns]
4nimaltum ómninoad externa evocamus, fiftt] mus, acad cutem trahimus, denique
non. pürn camus; ut comode in fcabie recenter ccntadt . ^, ^. » - N . 4
communicata, in quà fxpiffimé citra purgauea ncm ANIMADFERS. LIB. FII. 394 nem
cuti emendanda, et fcabiei tollenda folüm unfiftimus . Neq; tamen placet,quod
ab Empiricis paffim commendari video, ut indiftin&é qui- bufvis cibis ; et
cujufceumque conditionis utan- ' Iur, multaque paffim ingerant, poriffimüm ubi
I:bubones appareant, nec ita facilé eleventur ; uomodo enim naturam opiailantem
ad expul f1onem habebimus, aut ad foi confervationem, fiillam multitudine
ciborum;aut malà qualita- ite cbruemus? Át neinecià etiam macerandum eft cor
pus. neinternz partes 2]imento debito deftitu- Ita, ab ambitu corporis, et
externis partibus at- T trahànt. 199. Exercirium, quod alii injungunt, po-
tiffimüm in bini bone promovendo, ut non pof- fum non commendare, ita fi
excedat ; f peoffi- 'Teere poteft, apertis nimiiim meatibus ss ex- 'THhaufüs
intern2rim partium fpiritibus, quà oc- Ieafione virus exrernem fepcad interna
remeat: "FQ rows ab exercir1o füdor promoveatur;abij | fter. 'ebet. neaperiis
meaubuscumrecremen tis oualitate mala infectis remeet, et interna Tinfciat..
Átveró ne decipiamvr, dilieentet in» 4 carie apparente obfervandum eft, fi à
congretfa Babont- bus nàe- XL bas $ n0n "male ta ingeré- da,neque
quibufvis vefcendti, cotra Em pirieos. Morbo gal lito. in- ChoADte » tenuis
vte« ? malus. Gallico t cboante exércitim valdum fap made lssta Carte gallica
atpaI4 Venerco p er quatuoraut quinque dies caries i]- rente; T f laar paruerit
. creffn tempcris : fi cilenim primun 4 efle ex fordibus communicatis, et tunc
nullà 1 a prean po ;tiüs sr illud evererit,fionum erit,crram mode tr&
"7 enda DEAN c9 06? &n1//€ . precedente corporis univerfali
evacuatione s exficcantibus folm totum negotium trarfige- mus: fi véró ex labe
hepati communicat illud fieri judicabimus, tuncevacaato corpore, ale- :
xipharmacis rem abfolvemus ; ingow- | 191. Sic& in gonorrhoeá
procedendum:ali- vhs (^ quandoenimà concubitu ftatim evenit ; validà $0763 49?
exi(tente natura, et ftatim propeliente per cam enodo pro- artem virulentiam
contractam; et tunc nullo cededit « ; f à . à modo per raultos dies erit
cohibenda, fed finen da, fübluendum folüm quod adharet . At pro- erediente
tempore fi non definat;aut fi novum. aliquod fymptoma füperveniat jam
providendum eft fedi, et evacuato corpore ; alexiphar- |j macis edomare vim
morbi, vel potius malamo qualitatem tentabimus . Quomos 192. Idemin bubone
apparente:fi enim pri--] do proct- mis diebus apparuerit ; quoniam robur
arguit] dendw fAcultatis propellentis luem illam ad ignobi-4. £2 €/4* lem
partem, omnino actioilla eritadjuvanda ;4, fione, bu- &one gall £o appare
gt. nec purgatione; àut faneuinis;miffione evacuan düm erit corpus, ne
revocemus naturam à mo- tu illo : et fiepé talem evacuationem aperto bunémque
virulentiam evacuáaffe. Ya 193. Obfervatum tamen eft aliquando, tan) 32 bubo-.
^ iyole humorum premi naturam,& adeo craf! ze contu- à snati alina. As
aggrediatur natura tale opus,fuccumbat ta ; men oneri, nec dd elandularum locum
poffi!] purgandi . à : materiam totam propellere ; inchoatumque- J opus COYbM S
» (4m, et contumacem effe materiam, ut, quam bone totam vim morbi edomáffe
conftat, ome«4 y | opus relinquat ; 1n quo | I fum,füblevatà naturàà mole, et
farcinà, eva- | cuato corpore, foeliciàs omnia ceffiffe, tumo- ! rem in debitam
menfuüram effe elevatum, et ! materiam duram, et contumacem ad fuppura- |!
tionem effe deductam. nj X n r2 . PUO I r^ ood ac NLLTTISSERPNXEMS LL LS ud
cafü fzepiffimé expertus . Vbi virulenta bac qualitas fedem jam| occupaverit,&
morbus Gallicus jam factus fit, | radicéfq; jam egerit; edomari illa debebit;
atq; N alexipharmacis evinci: expurgarr autem ante | corpus debebit, fed nonab
initio folis lenientibusagendum ; cüm enim ii humores veram» coctionem non
admittant, fed in eo eenere fint; | utfolàüm pre parariad evacuationem debeant,
I lenientibus et abftergentia funt adjungenda,& aliqua etiam veré
purgantia;fed in minori quan ritate; et hzc veré funt minorantia . Quin, fi in
aliquo morbo, in hoc maxi- mé validicribus eft agendum ; tum quód fpé
rebellis,& contumax eft materia, puta, lentas; et vifcida, et fzpiüs
adufta;tum maximé,quia, cüm per exrerna prorepferit, et jam bonà ex parte extra
venas ad carnes, et folidas partes pervenerit; non potcft nifi validis
medicamen- üuseducd. . In decoctis pro diluendis fvrupis;autin fyrupisipfis
variis pro varià materlà, cul potif- fimüm infidet virulentia illa; femper
admifcen- dum eriraliquid ex iis, quz alexipharmacá fa- cultate x j a"
Gallico »orbo pro greffo pur ga ndum In eallico morbo 15 principio lenietibus
abífergen I7 N72 ganrtia ad i 06A o In gallico mo bo v4 lidis pur qantibus
ACenatmm, T e Iv fyrupis pro morbo gallico zd denda 4- lexiphar» "afa. na,
aut faponaria; ex quorum ufü.fepiüs exper- tus fun, poft repegitam purgationem
; et mul- tos affumptos fyrupos adeo imminuta fuitfe ac- cidentia, ut mult fe
jam convaluiffe cenfentes, cztera auxilia refpuerent, X ni(i admonuiffem;
refractam folüm effe vim. morbi, non. convul- fam, vix alia auxilia amplius
admififfent . Pilula ia. 197.
Poítremum quod in purgatione repeti» fine perga c fumitur medicamentum, placet
effe in formá 10515. 12 /fo]idà, qualia funt füb pilularum formà ; quód enorbo
gel Sc) longioribusattrahant, et fi qua à medica- licobF^f- entis, aut (yrupis
commota fint recrementa»; rehda . facts ooi dd cs acilius poflint educere.
Syvupifol 198. Inrepetità preparatione humorum lau ventt$ i? doadmiícerefyrupos
compofitosfolventes ; ut gporbo gal fyrupum Montani, de fumarià compofitum,de ?
?"* bolypodio, decichoreà Nicoli ; vel Gulielmi ; dans e. : tiores, et
pouffimüm Maffarias doctiffimus ; neque enimimpeditur coctio;quz nullibi in ta
limaterià exípectatur ; fed paulatim. prepata- |J tam materiam, cui virus
infidet, evacuamus. Palvfcu . Quinimó,ubi maximam fupereffeads li fc!ve-
Syacmaterke coplam cognoverimus, optimtrm. 26$, (9 e Eg uo wiain alli : atico
ANT ^ir n 2 5 rs,; aut fuffumigia, pu 'vifculis, aut confectis ex! znendaz-:
folvéntibus paratis ; Senà, Mechoacano, Ziapro varietate materie, quidquid
dicant recen- | ; effe cenfeo, antequàm ad vera alexipharmacaz.]
véniamis,potiífimum autem ante 1nunctiones,,| lr. lappà, Turpetho,
Hermodactylis,& fimilibus, : " s *À ^ pro varietate materie
exuberatis; add1tà zqualiferéad omnia quántitate Sarzg panilie pulvee;] I1z4l4
5 NT € B t " tC s e ais tunc SDN a. «i vta lora sow ruis cate Se 0"
ANIMADVERS. LIB.VIL a9$ d rizatz, exhibitis, materiam illam imminuere 5 uc qua
rel iqua erit, aut per fudorem propelli poflit, faciiufque dieere e per
univerfum cor- | pus difpet(a edomari, atq; evinci ; aut f1 per os expure zanda
fit, peculiari argenti vivi faculta- | te, mole (uà. no * füffocet, aut gravi
(fima lla; | quz aliquando folet; fymptomata non inducat. 100. In decocüs ex
1is paratis, qua alexite- Guaiacs ||| ria facultate ; et antipa thia quàdam
virus illud fpecies. in | evincunt,.& ex corpore pellunt ; ut quod ex vagos
|| Guajaco paratur ; primó veniat cófiderandum, 7 Mola illüdque p rimüm
animadvertendum, non effe Ie illud inufüm ducendum, quod annofum eft;ni- i| miscraffos
truncos habens; ataue peromnia, i| vetuftatem Niediolebes quod paffim Empurici
fa- i| ciunt, utacrimonià illà perfectionem medica- i| mentiareuentes a2ris
(uis 1m ponant; cüm calor natur disin tali ligno jam fere fit abíumptus,&
.|| vis ejufdem effeta dedidit ta; Vimoiridum (hbétantis yn oleaginofa pars
abfümpta, aucta ficci- | ta5 » five potius ariditas fine pinguedine ; nam. | ob
has caufas,cüm multas partes terref fttes de- i| coctum rale habeat; numquam
clarefcit de ter- j| reftres iile partes cama wifteritate quàdám acres yh eram
pe: (entiuntur 201. Neque tamen etiam truncos illos mi-,, (l| nores laudo ;.
minimus cnim illis ineft vigor, et,,,,; i»- Ji calor h uoi litate füperfluà
hebetatur, et fücitlt 2, 4;d;i . |i tas illa à tota fübftangià tamquam
in-infante eft imbecilla . 202. Efttamen fpecies quedam Guajaci que Gaaiaci 4
n'meGsaiacs, LÀ b. 9^. dass EL. 3 eie W numquam in ufum ducenda eít, qua
nierorem.» cis, c VErumin medio non habet, fed colcris cft íub- sb Obícuricum
quádam viriditate, que decc cvm decoclumy facit omnino tur bidum, quod numquam
clare- faciens, fcit, tum maximà acredine et in eulà, et fauci- reiicióda . bus
ardorem excitat; ob craffas autem, et terre- ftres partes majori ex parte in
fplene, nonnum« quametiam in hepate obftructiones inducit ; Empirici fylveftre
lignum fandtum appellant fed cüm apud fcriptores nullibi reperiam dupli cem
hancífvlvef tris, et domeftici differentiam, potius ratione foli has qualitates
acquirere cen- ferem. Guaiaci 03. Ánimadvertendum etiam, ne aut m» Jobs neq,
ciafiær particulas, aut in nimis fabtilem pol- erf ]inem minuatur; illud enim
impedit, ne virtus fi (nes ligni bene aquz impertiatu IE hoc autem efficit, Sec
7? wt difficillime clatefcat decodhum, fed femper ^' feréebibatur turbidum,
undeobftructiones in fplene, aut hepate. Virg opi . 2104. Abfu rdum eft, quód
viri quidam alio- mimatc- qui doctiffimi etiam firiptis editis cenfierunt,
"4 »1? ^ yon poffe fieri decocta ex vino,aut faltem ex v i4 5 et nof, fed
infufionem fieri debere ex aquà ; qan OR Harc diutiüs Reb ime effe, adden-
Fives dümque in fine vinum, quod hoc cenfe 'antine- : ptam effe materiam
infuftoni; quodque tamdiu cxcoqii nequeat, quamdiu opor teretad clicien dam Enc
medicamenti : certum eft enim, et in chymicis extractionibus experientià come
probatur, nihil effeaptius ad extrahendas me- dica. coéiis 1n Idicamentorum
facultates ipfo vino, aquá vini ; I& aceto; quód igneis, et calidis,
fubtilibut que partibus renitiora queque permeans ; intimi rem ise Kun
facultatem pcterit extrahere; et lin fc concipere : verum quidem eft, non adeó
longam pau coctionem, f fed aut longà infufione id compet fati f let, aut in d
ici vafe folet ex- Eoqvi. Parare ego decoctum foleo 1n morbo in: 4^ Iveterato,
cum mal VRRBET- : » materia frigida pr dominan te, ex vino; quo aliqucs a pud
alios tos ertcéte curavi. Paraturautem hoc ; ea infufione corticis ligni fancti
OpUd C | CI: ihmodoe: iml,cra de 'contufi unc. xviij. in vinl alb |ppem |, ut
gt od dpbdfid Vernatia dicitur;boc- ica æ Isn (catibos decem et octo / funt
auteni: Ilibrz medicineles xxxx1j.) per duos CES exca- lcfacto prius vino, et
femper per duos illos dà lin duplici vafe, vel cin ribus cale: 16d í lento iene
vel in duplici Và apes IÆ n- ilfüumptionem rertic partis j quo utàturagrotus
li& mane loco fv1 upi, et c pro potu in cibis; fümet NEN ac mier Mr nh ie
ds mne iid Imane unc. v1]. pot ram proliciantvr fudo- Dr t (d les: in 'xceda
linc.xiv.Vti D the [0] M 'O autem, et 1n ceena » nOn ( vid a 444 44 a u-ipett
rt oo i i(Timum eft etiam 1n1s, aui inunctioLE LULA 48A p M [A Jecoloss Jo
üraaadà fzve P T m » medi [^ bro xir ? gallice . erdum "Y Ie factà ex
vicia: v1vo non C nvaluc nt; I& portdoaliqua argenti vivi relicta eft in 76
c; ada "More l^ 2o« Sunt,quiutuntur dccocto folvente ex pc; I3 ta1aco,
Sorzà, vcl etiam Chinà, ex Sen, 5 Il'urpetho, Hermodaéctvylis ; aliquand iaim
lveratro ni2ro,additofemper carduo benedi pL ^ yo 12 Hil quA, Sudores
proliciedi aat i2 by- pocaufto., aut in le- &o, fed qu4 caH- t0 ad pibe
Ev1tbora- feriis t5 calidis c fiecis na- furi utem dum. Inter fa- dandum nó
freque fer purga dum. Sudores 3 0an a aff umpto ie i^ favo EI lici odit. Chin
ras ut Brafavolus, et Matthaolus, et aliu. Hzcía- né in robuftiffimis, et
quibus fuüdores aut non» profunt, aut pr olici non poffunt, meà quidem.
fententià, in ufüm venire poffunt:fi enim pulvifcülis, et clectuariis
aliquando, fi non ad reftineuendam, ad imminuendam faltem labem feli- c
fucceffu utimur, cur id etiam cum decoctis praftare non poterimus ? non tamen
adeó eft fecurum, cüm aliquando infequi foleant 2ravif- fimz dyfenteriz. S PIER
206. In fudore proliændo, fi fponteab at- fümpto decocto non fluat;uti tutó
poffumus aut DX poca ta aut capfülà cum 1gne in lecto : fed n pofteriori hoc
diligentia adhibenda eft, mu- cda effe. liftéimina,ne fordes infecbz jam ex-
pulfz iterum remeent, quodà paucis obferva- tim vidco: quapropter hypocauftorum
ufus, fi tolerari poteft,.multó tutior effe folet. 207. ln calidis, et ficcis
temperaturis, et e- maciatis vi morbi, füdores commode evapora- torio proliciemus
. 208. Vbifudores commodé proffuunt, non. adeo frequenter intermediis
medicamentis cor pus per feceffum evacuabimus; revocatur enim liumoresà
füperficie verfus ceatrum,impediüt- que faltem,aut difficiliorem proptereà
reddunt füdorem, corpüfque rmbecillius faciunt. 209. Non ftatimab affumpto
fudoriferoat- te promovendurs eft fi üdor, fed pel th Drop ln- tercedente, fi
fieri poflit, omn ? cec (Krnon. 210. Inradicis Chine decocto parandó,cüm
foleant, tid ih £2. 9 !foleànt; fi recens fuerit; et noncariofa ; unciám
unamillius in decem librisaqua, vel fi felecta non fuerit, et antiqua, duas
ejufdem uncias 1f libris duodecim aqua. excoquere; multi etiam. * cf mat ote Ritt i a ent ehe
aaa tg ERREUR Yn, ^ /^ ^ Cem cAvi^ 0e. 0A P ili v ü. à (a0 Á& foe * /
299" dicis deco &o inpa- rando có- munis er- ror MediMedia, ut nimie
impente rationem habeant ; corum. ! cüm multi totam illam decoctionem unicá
die» abfumere nequeant,vercanturautém,fi 1n alte!rum dicm confervent ; né
acefcat, dimidiam Chinz ? portionem in dimidiatà aqua quanttæ te excoquunt, et
aut dimidias, aut duas tertias confumunt, fic cenfentes et indemnitati crümee .
le confiluitfe ; et decoctum xqué validüm pàá« | raile: fed maximé
decipiüntur,& (1 suftüs udi I cium non fübtraxerint,facilé coenofc ent,
poten ius multó effe primum illud decoctum ; quàm | fecundum; et rauo * in A
Don a: tis eft dari proportio ! | fpectáidum maxim éte 'mpus coctioni js «&
actio-, et reactuonis aquz. m dca chapa aquz communicandam ; cüm l| quatuor,
puta; horarü fpatium intercedere de- | beat ; quantum confuümetur in abf
ümendis pet I elixationerm fex, aut ock | '] diatà qu: intitate im cià, libris
fex aqi ue, dimidium c ytiftittiere finà- v Lert e irtes,m ino ride ) qti: I
nis caloris igni hendam enum facultate: &- ficcifIima, et mtus; aut du
duarum horarü al ni 19nls I cere ] 1m IAdl1CI1S ad libris aQU£s:; pofi C hin:
ilente ? Nequ Ie vc eró quis di- is quantitate, et | magis lento igne fi fat
€oslio; poffe nos PM 'eTow etifcer« au deat, da incommodo contrà venire : nam
ad extrahen- ; e. . A E dam vim
hanc ex folidiori fubftantia, debita quoqueignis quantitas concurrere debet .
" x P j . A 2aw. Sar[opt'i yir. In Sarzz parilie, quam in edomand$ rd
7*-Gui^i (enpertenere cenfui ; decocto, illud obfervans (ofa. 9e Qeeacls ; (L84
&£« de «Af liz decotlo hac ]ue, et fuperandis fymptomatibus primas prs
seper . €? dum, numquam folam in ufum ducendam effe; uitfíceda.cüm enim laxante
quàdam facultate preditas fit; et fapore fatuo, adeó eos, qui illà utunturj,
naufeabundos reddit, ucob imbecillitatem vi- rium ex ciborum averfione multa
illius ufum omittere cogantur; adjicienda igitur tertia, vel quarta pars ligni
Guajaci; quinimó apud nos : Mediolanenfes decoctum Guajaci folius vix in L ufum
duci poteft;ob temperamentum calidum, et humidum, et ob hepar ejuídem tempera-
tura. pisa deci So Obfervandum autem, cüm zftate pa- d ds, CAtür, cumminor
quantitas decocti paranda» ; fit ; majorem effe debere aque quantiratem, EY e .
: A " " ci msior; quàm hyeme; utloneiori cocturà tota vis Sarze
guiatita. communicari poflit ipfi aque ; nam quemad- 'e 4444 modumin decocto
Chinz dicebamus, non fo- fier? de-. ]àm eftobíervanda proportio aquæ ad medica-
et » C menta, quz fimul excoquentur, fed etiam pro- ENT portio temporis
coctionis, tum ut communice- tur vis aqua, tum ratione actionis ienis calidi-
tate et ficcitate,tum reactione aquz cum humi- ditate, et frigiditate. Guaiati
213. Curautem Guajacum, cüm durius fit ; deccéluno ex Ííolidius non tantam aqua
quantitatem exe» poi1cat; "ML AM ^ " - Vr ennt ir a ier ardere o eel
ai Tees nma ra cx c ESL 1T 3ci Ipofcat; nequetam longam cocturam pro extra-
Ictione virtutis alexipharmacz,ut China et Sar- za, fecüs quàm cenfuerit
doctiffimus Rudius,, [qui temporiscoctionis rationem non confidera- vit; in
caufa eft humidit: 1s Mla ærea, et oleagi- Inofa Guajacd, in quà potiffimum
facultas illa, álexiteria refidet, quz facilis et extrahitur,&
Icommunicatur aqua, quàm qua in Sarzà eít | quz quamvis rariori fi fübftz ntià,
et minüs fo- I1idà, ex(ucca tamen eft, et arida; et in hac tcta. | pofita eft
facultas S Sarzz. Chinat tamen multó | majoriindiget et aquà, et cod turà tum
quo- | niam duriffima eft, tum qu1a;,arida cum fit,nul- Ilametiam habet
oleæinofam fübftantiam. 214. Sed quoniam fepenumeró evenit, ut aliqui vel vi
morbi;vel procraftinatis remediis; vel Medicorum infcitià,ab hoc morbo macera-
|! ti; et ad extremam tabem deduc fint, ut nulla amplius f fupereffe falutis
fpes videatur, ne etia n ope medicá deftituti remaneant, remedium quoddam
proponam, quo quàm plurimos ex | 3isad optimum ftatum deduxi, fimülque viru- |
lentiam exftinxi, &àtalitabeomnino curavi. | Eft veró confumptum
quoddam;quod folà ale- | xipharmacà qualitate;fine fudore ullo, fed me- I
eliantibus pinguedinofis carnis partibus, ali- '|! menti vim fumens, et in fübftantiam
aliti ver- '] fum, et vim illam virulentam evincit, et abfu- | mit, et
fanguinem eenerat alexipharma ica illà '] qualitate præditum,ut malàillà
iqualitate : l- | tà, inaliti bonam fubftantiam vertatur. Sic autem t Ó' P €HY
foiads longa €p- ura igo v 1 at, cum düritás fit Sar[a deco i mira- bile adta
&idos ex »jorbo gal lico. gebe bk echt Px Anat - Inte; ;o0. erswxbÁma autem
paratur: Rec. Sarzz pàáriliz electa mi- vi tola nutim incifz unc.vj. infundatur
per horas vigin ad feq mac .ti quatuor in libris quindecim aquz calentis;ita E
1 utlenem calorem confervet, et operculo bene occludatur vas, mox lentoigne
decoquatur, it4 ut nihil exhalet, donec quinque libre abfume pte fint, et tunc
cochleari perforato extrahatut Sarza,& tundaturin marmoreo mortario, moX
eidem aque reimponatvr ; addendo carnis vi- tuli macrz libras tres, feminum
coriandrorum preparatorum, unc.1, aut eorum loco aut ligni (an&i rafi
tantundem, aut fantalorum citringos rum minntim inciforum drach.1j. pro varià
ho. ft minum, et przdominantium humorum condis : [| tione, et benc operto vafe
; iterum lentoigne»] fimul ebulliant, donec remaneant libre quin--["
que.& in fine aromatizentur cum drach.iij.cin--[ pamomi electi mox fiat
colatura cum fort! ex ar preffione, et refervetur in vafe vitreo, vel vi- Jud
del cov - treato ; de qnà furimo mané per quatuor horassf i emat - apre cibum
capiat zegerunc, vj. aut vij. vefpernp autem iiij.aut y. unciasante cenam, vcl
per tre:gqi horasanté ; aut fi tempus non intercedat come modum, immediaté
antealios cibos: quód fij * inaftate verfemur ; autfebris hectica adjunctaqlut
PeaL' ve tulelt fit, fimulcum Sorzà parilià indere foleo hordesphar 5
excorticati uncias Mij. atque in affumptione-Jpt uri huis decocti per quàm
plurimos dies perfeve 3 geb m AN randum eft, jitaut ad Centefimum quandoqu qd j
ote dicm perveniam. 11j. NNonomittendus hoc loco ufus altering decoch
ANIMADFERS. LIB. FH.) e inecocti alexipharmaci fa icilé parabilis; pro pau (p
fperónth Iperibusoptimi, €x fa pon: arià, herbà vulgari; et safor A omnibus
notà, parandi ; quin 1n conturaciffi-- ARN mo morbo áliquando u fus fum eo,
felici fuccef- lusfed guftui inoratum eft; et propterceà páupe- - libus
refervatum . Accipiantur fapona js viri- afe Iis M. 1j. infundantur per noctem
in lib. viij aqui mox excoquanttur ad coctura fàpc nada Lteinde librauna cum
dimidià aquæ cum herbá jam coctà excoletur cum expre flione, Q )uz Ire-
lervétur prof potione matutinàad fud resp roli- (ad Iriendos, fum endo uncias
viJ.aut viij. quod ve- Iro fuperet rotulvereRor cum paffulis;autfa iccha- ko,
pro potü cum cibis; æftate; et bilicfisratu- IKis;addi poterit aut fonchi,aut
cymbalarie Mj."Valet et pro tulieribus ad menftrua alba ab- » hé frt. i
fiimenda, cum M.s.cvmbalariz; et addiro tan- ma es nl iirundem filipendulz.Inventum
ef efttz apate;Em- aliscmatlo. ipirici Hifpani. Egoautem fzj pé ac fe pius illo
Rifus fum. Doct &iffimu s Rudius meus, /jb. $.de2 aptorbis occultis,
4?" venenatis, cap.18. de Sapon: Aria, et ejus decocto facit mentionem;
fed vereor féum numquam ufum efTe decocto ilo;ctm pu- ipeillos vj. decoqu
átfaponariz inTib.xvj.aqui ad Mdirnidias ; cüm aquz ad fapcnaria m nimia fit
pqtianutas : et quod majoris eft momenti, tenel- Aa herba virens non 1nd ciget
tam lone elixatio- "line, jienéz enim et acrez partes c Iuninc evanecent;
et in nihil iab ibunt; in quibvs temáhn "héértum eft, vim falteni
fudoriferam «ffe pofiZitan V [ , Eoi4 LED. SEPT.ALII. MEDIOL. Avv . Eorum,quz
ex argento vivo parantur, A JO» medicamentorum due cüm fint formule; qui- tod
bus vim. malz hujus quahtatis ; qua 1n mo rbo ef gnenta ai Gallico reperitur x
cw ref. lemus, aut é cor- 4C in ufum pore pellere humores malaillà qualitate
infe- duci pof- ctos: quorum altera in formam fuffumigiorum, 5 Boa. /5* » €
altera inunctionum applic ari folet. Duos hos dii quando. remediorum m: xlos ad
evincendum hunc mor- 1; bum experientia Haygptossesubis magniquie jut dem
viri,tumexantiquioribus, tum ex recens |t: Dbys,numquamin ufum Pete dos
cenfent, jb multas noxas, quas ex argento v ivo in cot--[ lo poribus humanis
excitari à fcriptc ribus tradi- tum eft; et (epe experientia oftendit. Alii
nullài factà diftinctione, ftatim ad fuffitus. hos ex cinnabari,autad uncliones
ex hvdrareyro de-4 i ícendunt, ut faciunt Empirici i. Alii hacin re» fu fpenío
q idem pede eunt.p riüs reo11s alexi- | ph: armacis evincere l:em illam
tentantes, fed ubi tamquam hydra denvó novum caput emit«| | ] | tereluea :
Veneream vid erint, experiri altert irum exiis medicamentis permittunt, fed
uni]; dr ver(nm neeotium Empiricis, et ba rbitonfcril;... "m bus
committunt; ne fcrm:-]oim quidemaut fuf: é REC t unguenti, qn Auf ri fint;
przcognofcer y. es,;quinimo, f fi ab es fc mulam aliquam expo fcas, obmutefcunt
; là timé id Empiricos fcire. re [popdentes . Ego hacin re ita cenfeo, et ita];
apes pax procedo : fiin p! inci pi: » fuerit. morbus, atu, eA uolo caamfi
progreffu aia iüs radices egerit, nom. v7. dum tamen ufus fit re elis remediis
« alexi phar macls s» I F- ^ nd wd L gue pe c «f ANIAt ADVERS. LIB. FII. 305
nacis, omiffis illis ; quid cum veris alexiphar- Inacls! preftare pæem
experior, et quandoque rei »etità üac curan Idiratione, omni ingenio tali id em
tento 5 ftc emm et ma ilam illam qual Itaté evincere foleo,& laneuetr entib
us particulis robur addo : $in vcro fic vis morbi evinci nequit fed hic nos
'eludit ; Su€ fi cb sis iitatem rei fami- liaris illa 1n ufum duci non
poftuünt; tutó;« : ia- cricer ad hiec remedia tranféundum cenfeo ; et ecofzpce
illa remedia in ufum duco. 217. Sed cavendum, ne totum id neectium E In pil
r1Cl1S I; LE OH CH NN comn Ittàn t5'€ inc m inibus eodem calopodio titentes,
autin. multus imperfectum relin quunt neeotium, aut pracipites &grotantes
aguntin gr: iffima pe- ricula,aut edam In mortem. 218. Maxi n Crro! reverfantur
ii, qui poft omnia adhibita r reoia remedia, cüm zerotan- tcs jam imbecillos
videant, M rtüute vitali, et quafi universa carne confumptà ; nec aliam. » Jue
e ml m RE e den os! mri Rr mme ee n A fm Intinélto fumigia 04b Eta fries, fsd à
fert tis Medi- cis ad mi^ niftvari debent ; nuncio fun ereí lef] Cc)n, qua min
ren led iis x hydrarey- l "n 7 rA end Ern Cimes 7 : nes ex ar to paratis ;
1 lla quidem ncedut -. ed debilia, aut quantitate arcenti vV1IVj, aut numero
aut inunctionum, aut foftituum;& fp 'cnumeró fti- en olant. Ai t cnim omnino
duo hec remedia xcludenda funt, avt omnino valentia conce- fent, et quantitate
hvdrargyri, et numero inunctionum, aut fuffituum; alioqui attenuata, et loco
motà quidem materi, dolores, et fym- ptomata imminuta viderentur, fcd cóm ea
non expellatur ; alium locum quarens, fxpe nobi- | V liorem qento vi- vo a no
admint- firanda » att vali- de, trm quantis te COZfi-- nua, 11473 PilCrtL A Á
liorem partem impetit, potiffimum caput, EN hydrargyro, et cinnabari na ura fua
ten dente $ " et fecum attenuatas materias ducente;quinimo . cümargentum
vivum veneficam habeat qualitatem, eoà corpore non evacuato, egrotantes duplici
morbo laborant, eo, qui fità qualitate» luis Venerez, et aliis fymptomatibus ;
quz ab hydrargyro fiunt. Quoetiam fit ; ut tales feré numquam curentüur, fed
infeliciffimam vitam ducant, et tandem tabefcentes marcefcant. Inundlio 4119.
Ex duabus formulis femper et tutio- uádopra rem, et quæ meliüs morbum
exftirpat, eam eí- ferenda, fe cenfeo, quz cum inunctione perficitur : ino ch
142- emaciatis enim, fi ccis naturis, 1n ftricto pecto" $2 31 do f4ff^-
xe,3nanh lofis magis convenit, et in omnibus ængi^- (ymptomatibus magis eft
proficua. In caden- tibus tamen capillis; 3n cruftofis, externis ulce- ribus,
praferre foleo fuffumigia. Suffumi - 2,20. Abfurdum ett fuffumigiis ilis uti
ina gia levia € ncendo hoc morbo; quz levia à doctiffimis Fallopii, Fallopio,
Mercato, et ahis dicuntur, in quibus e^ M*r'à noninereditur
cinnabaris;exficcant enim exter zin m?'- nas partes laborantessat «im morbi
interni not £o FOR cxfüneuunt, neque materiam,in quà virulentia p «nutu Ma
refidet, expellunt. " 221. Bafis fit cinnabaris ; addita. portione» 9j t
es Antimoenil Wa March efitæ:ut prouno æorotan- £5 "7. tecinnabaris fint
uncie tres, Antimonii,& Mar- fo mds chefite ana drachme tres, auripigmenu
drach. s. aromatum ad penetrationem additorum, pro yarià cerporum condiücne
variantium quanti- tas v1 1 i ck T. ANIM-ADVERS 1 VAR E: 9 d pon. dus caterotri
LIB.FVIL. 3 Q im: &[ ichmis fex, v« aiuti di eria f per prunas, corpus in
hypo- auftoinclufum univerün piat, C anna ac. ans, sif firanhelo- liquando I|
tas it ferea lius frnou] lie dr: es n exci Infpirans, et exípi um tamen erit,
Íus, aut aneuft nem illiu sfun 45 1222 j$ Antequam ta IOTacl5s,42 "hs 31
17/3 lexcipere B j 'mie1a caleícat aliquandiu zeer,& p O off i fudores Pic
'O- fluant, non ^ Inutile », 224. Inunctiones ex hydrarevro: apud me»funt multó
frequentior prouna curatione,iteratis inun t131 It1Ont Inus tri | quatuor
unciis hydrarey i | s falis lgO mw 1n nw Ct1OI 1 35:10. ingeicc l GG CD s nlus
tan naxti rta già, qu : "ut: laceo,& fi n «X pulv cribus: Ini, et
Gmilibu S alique m Case Marciatiaddü nt; lIidere,; ut aliquibus vifun b feriat.
215. In fricidiffimis natur rià przfente,quz vix attenvar b p CO moveri, 1 Ibi!
eft preftantiu aqua | | | aniforum, vel ale,portionem un- placet crocum ad-,
quod caputinimis et crafsa mate- ffit; aut de Io- $, quàm fi portio portiuncula
olei Gq I 1i 226. Vlratftabit "multàan T Í v 3 catis dofibus, ul OICp
OrtiOoibusad fpu bus, vel ber ona ., Ex- | hominis ; commu- 10 Cum. elIn n du
plicata dofi e(fe debet, addi- pica,lili ni- "15,1: iaftic em S, benzoi-
07 ulverisil- [uncia unà 1n, Suffü "mi- giA ét ove * aliquado eXCipiei da.
Saffuni- g*4 aAZIÍE- quam fiat calor 1g corpore ex [4 71 A A5 LI H»dárar / s,1n
quarum una dofi 7 JU prouno bomine Cr AW, v Lr OHAT Hs, £^ VL et 4d a- &a
propor 10. CYOCH 1 26i le Ch tones ex bydrar gyro 7:0 i egrediatur. A2uA vis
!&, yel 0» lea calida Cbynica, quado "Án £uentis addenda. Vrguente so6
LPD. SEPT ALII A4EDIOL. Iruncédt e»ultam bus multam illius copiam] Pharmacopola
ali- quie. quis diligens, fidelis fi fimul prz paret;ut axun- FXericah gla vett
iftate cc nt tacta attenuationem adjuva- i urs poffit: at quoties dofis
neceffaria eft extrahen "æg da, fpatulà, qua: deoríum erant partes fuprà
ponantur,,& piftilli L ongàin gyrum com mmotio- ne optime de novo
commifceantur ; gravitate.» enim fuà hydrargyrum femper vafis continen-
tisinfimas partes petit. Sudorife- | 217- Peccant communitet practicantes ; 'e
ya alexi- graviffimi quoqu e fcr ipto res, quia ante hanc in- pharma- unctionem
pr ropinant (iid lorificum aliquod me- cawuipra- dicamentum a alexipharmacum,
fic cenfentes affuméda igmminui fymptomata illa fà eviffima, quz poft (ded
inundionem illaminfequi f epenumero folent ; ÉH006* cym illud potius fequatur,
ut fübtili per f füdo- rem parte cductà, contumacicte crafsa reddita, non
moveatur loco; neque ados feratur; vest hydrargyrumn maximáà egrotantium
pernicie corpore non ex lens, perpetuam illislafferat mo- "dex leftiam «i
infu perabilia; fere fymptomata . abarmaca 238. Preftabitigitur decoctis iis
alexiphar- soft inus. WX icis utl poftquàm inunctioneevacuata fue- eg iones c-.
Tit materia, five per fputum, five pe r feceffum puma. Áiveper lotium, ut
vifcera à malà illà qualita tei fi« anaréuen erii liberentur. 229. À pedibus
aícendendo ad os facrum | modas. Qupui nd fiatinunctio, &à carpo vc er(us
fcapulas, et per inungex. Ípinam ad collum ufque : nu wt m caput in- | dum. X ungatur,quod peífime
aliqui iaciunt. Junto i30. lnunganturadfputi prafilicdns ec] tunc c PER. M * 4 T» - treno t TR i oii BER e e e cati nto
tem ANIMADVERS. LIB. VII. 3069 quando cunc per diemintermtttatur ; et fi lenté
moveri Edi fputum viderimus;iterum unà ; aut alterà inun- 77 P 4" ctione
inCitetur ny s Sjuto zs 231. Si nimis affatim, et cum impetu przci- jj; 4f...
pirari materiam ad os viderimus, periculüm- siad di que fübeffe inflammationis,
aut füffocationis ; effiwentes deturbanda erit; et ad inferna períeceffum me-
c» periei dicamento aliquo erit ducenda ; id tamen raró /» inflam faciendum erit,
et non nifi magnà urgente ne- 74/0975» ceffitate . C fuffow €8110/$75 grafente
FI MAI. XX quid pra f'andum FOR V:M; Quz in hocopere conamnentur. . P ?"
" ! cerum im exyrbodinis mon ftt acerrimum, aut € * 3 2 Ad : C vino
potenti[[nmo. lib.6. hi "Aceti loco in oxyrbodimis [uccus citri aut
limonum non iudendus. libro 6. 2! "etum pro oxymelite non [it acerrmmm nec
ex vino potentif[mo-.-lib.z. $7 JAceti folius ufus im. [puto fanguinis [u[pectus . libro
"A cidorum uus 12 acutus. febribus utilis ; fed zodtvandus, C quamodo.
lib. 2. 37 ge cerkoodte 2ur-2iddat : Mert PNE A cribus imus 1 dy Hi EY1A, quid
fta um prejram- dum. ' b a7 L Í O $ 1eutic in febribus tenui ens M orant
-Acutis 1n | eUriDus. TOHWIMS CibAHQO Hm quam 17,5 alitis acutis. . [7 LI T . e /1 * : * ' L
ecu Acute l'ebricitantes [Hragulis nom numis cooperien- a /.. Ps ZI / AA e7 14
277 lk / c5 ULL 23 ! DAL Ü CH inflamma- Md ^" n^ ] ^ Y ; -J - 1207€ (9 f
€t /€» fi Í»ecta. I1b..6. I j 3 n
* . cs r* . ] * Adfieinrentia 1n [puto [anguimis quando conve- niunt, quando
non. lib.6. 152 Jer frigidus acuce febricitantibus quando conce- dendus.
lib.2.. 63 | e Ld nc flate quomodo ip acutis plus cibi concedendum lib.2. IQ
etu IWNSDMESVY "etii fententia vefutata, in [anguinis miffione 121; enim
[uppreffione. lib. I3I Albi pr ofi Yit vera curandi vatio que . lib.7. 149
«Albo m fluvio laborantes arena fc peli re malim.» ;b. 145 4lboi 1H Pluoye
adftr ingentia omnino fugienda . [ib; 07. IfI uA b: mp: ofiuwvium curatum A
Galenotaz uxo € Boetbi 377,eularis fuit cafus ; (9" curatio TAYO
"uitanda. lb.7. I46 "Album profs !"PIUm apis us curandum
aiver[Aa Ya- Vincula T. radit ;G al £7 / 7 LE l1 jf I "muuaane ovt 7
Voopidibd roa ral 10 5 eo Catttimes. lb. 9$ " LLexipbarmacts vmpuro
corpore non utendum. li- rà 0 f. 7 "lots dofts varia, fi p*o pureante
[umatur, cft f pro atjeBori. ij I9 "L: oes duplex faculta: 3
fastahorbikana C abfler- feria etrenans eresa les I9 l| Jdtoes Jonmumenm
relettantibus mala. lib.c. 156 loes ulis dr riti libi. I9 ah locs ulus in
fobribu: quotidtantt » C longis opti- - Ls 27145, C7" quama oeauteuaum .
lLb.«. I9 MUI Tx YU T Lb! 2 T] ! JA vi profiuvto laborantibus frigida potus
fape con- Yeztt. lib. 7. Q7 Gp), «neotna laberantibus, C b petis "fi
(922241 1022€, copiofrus fanmuis evacuart pote[ff, quam in alüs 17 fi. Uy
pmeaionbuss € cur. 7 b.4 7 Ant ; ' Aneoiza laboranti bus g (4l Feci PN [7 iz
laborantibus repe! 'cida [c£ 10 Y€Z hi . h b. Ó. Æ Cant. v Caut. 174 "nein
laborantibus pra[lat potiones dare; quam medicamenta [olida. lib.6. I1j
"Angiofts [2cculi ex di[curientibus mali busenutia pra[tave. ib.G. 116
Animi deliquio [uperveniente in principio ex af- fluxu bumorum acrium ad os
veutriculiin prin- cipio «cce [[7onum eft autriendum; ff ex refolutt ne
[pirituum aliquanto ante . lib.2.. 36 Antbrace, et bubose apparente;pro varietate pav tis à
diver[is venis [anguis mittendu rlib.$. 37 aut braces furimenlo, C bubone im pe
fle apparcu- te; fécanda vena, et quando. tib. 5. 36 A:uimenium in apoplexia fugiendum. lib. 6. 07
dntimonium in pefle veyiciendum . lib. s. $o Apborifmus quinis prima Sect.
quomodo intelli- SCIAMUS. LIU 2. 23 "M:popletlicis aimiimmonitm mon
dandum. lib.6....67 JdApople£licis cauteriam in comnailjura coronali 1n- utile.
"Apople£fieis ely[levzum quantitas varia. lib.6. 65 Ci pU corpus. l'ib.6.
"Apoplett:cis cucurbitula fiucipiti appo[ita utilis. lt4, POETA. rho zi) 2
rA» ddr nesrlisitte HG "p 'DLOCUTCLS COHCHII1CHAMUIP » perjricanaum eft |
$8 i Lj bát bro] "A popletitets 12 ficanda vena vuluus. fiat apaplum. "Apopleiticis 1a
ctirandis votaitus fugiendus. lib.6 Caut."Ayopletticis ligatura quales
adhibenda.lib.6. ..6. "d popletlicis quaudo » C quomodo cucurbitula apiye:
plicauda plicanda. lib.6 6i Jd pc aple&icis repetizà fc "euis mittendus.
lib. 6. $7 jetpoplectteis, ft [2 net: ei[[oconveniat.flaiin
admitni[handa.lib.6. $6 dpoplecztcis p ezaf ontis qua do [« cazaa.l:b.6.60
ledpoplechicus veficantia caput rafoappoft tau ite. Jdpoplexia i curanda,
valida meaicemen a coti- veutunt. lib.6. 69 Idpoplexia 1n curandas[ternutatorta
quanao ednui- mftranda. lib.6. 69 IVdpoplex:a 12 curanda » ab oleis minus
waltáts 1n- choandum. lib.6. 70 Mdqua bordet 12 acutzs febribus optimus eft.
potus - lib.2 p : 49 vAqua bordei non comventt 12 ommbus suarbis .h- bs 0 2.4
A9 ^ kdgua bor "dei quo 077 odo paranda. lib. 3 49 liqua op ciflerninas
aut fomiana, jop! mius potus 17 ACHI JA lib. p Á 49 T L/ IL4daua vita, € olea
calida Cbymica arte parat a» quando cum utilitate wiguentis ex bydrara)ro |.
adauntur.lb.7. 22$ Mr: n&murtna, Yel fluviali, laborantes war em 0- flivio
zudas [zb Sole fepelire malum effe » et ex Ww ^ NY X a& o de ad Galezo
repugnans. Iib; 7. L4 | wr fenico
p braparate placenia pro favendo corde, im Fe eflc le. lib. s. (9 duetrrevia
qua [ecenda in palpitatrome. cordis . lib. 6. C. 172 «ilti 20ft Zia 1 "77
palp itatione C07 diquando C0AH- Y€AL. ILXLNGUAVEX i 9. id ] b yenit. lib.6.
fyI JA[cite laborantibus poft bydvagoga valida, ven- triculus roborandus. lb.7.
49 "Afcite laborantibus bydragoga [aptus vepetit as, noxia.lib.7.. $5
ftbmati ai tenuantia, OQ" impense calida, mala». lib.6. I2X "Af omat:
obnoxii gargarifpata f l'neiant.lib.6.110 At omaticis diuretica mala.lib.6. 124 zifhoma icis, fomentis
calidis gon fovendum pe- eD&us. lib.6. 146 VAflbrnaticis c Hi veteris jus
naxium.lib.6.. 137 "A: flbmatiecis sa pa rox [mo medicamenti m purgansi
mon propimaud um. lib.6. I40 Af bmaticts iu paroxy[noo nibil violentum f
acien--| ies lib.6. IA4I![ Jl (omaticorum im parox "ox ymo ue clyfleribus
uten- dun. lib. I42 A flbmaticis
in par oxyfmno nom perfricandum pe-4 Cus. lb.6. L4 55] Lh mat icis medicamenta
purgantia que opaodo 12.4] a funr ducen da. Irb.5 T E A: batis quomodo, C'
quando ladorifera con-4, : 1 J d YeRIuut. lib.6 : I3 "A febmatteis
ficcamtta fugienda. lib.6. 133 Aftbmaticis fit 745 [ "pin u$,72alus.lib.6.
I4 flbznatici [udorif iferisnon utantur fine dulcibus lib.6. 1j: "All
omatteis vornitus pericn dois. lib.6. I 3f A fl bmaticis vonzius 1a paroxy[mo
fugiendus. lbi] ^ Cut Hl. I4 A ft hma2 1 L € TD h ww : d WT "* A o ral ep
c 0, S BUE oo caliber à Mie E£MA COD. E 3 I bmatteis varta remnedia mutaada,ct
mes lib.6. I 47 l'rzennantta tz ^! 1€ comventunt ad deob[lruendas | vias uriza.
lib.7 9) M'rtenuantia 12 princ: 'pio quottdzanarum non ftnt J| valeztey
catefacinita. ib.s. 20 I vc | L0 0PIZILIAO cibum aliquando d ætervrima | aueaue
concederfa. lib.1. 2:6 Iugoentum acce[[mongs: gmimus incommodeum ciba- quam
fLaiusurmente nece[fiiate. lib.a.. 3 TE €a5 722207€ £A, Gc L0 ques quribus 27C0
quer €» ab- " IU furdum. lib. $. (9 Inribus vera inflammatione laboi
antibus vepelle " ] 114 ULX C07 D€ZILHM v b b.6. IO3 luribus applicanda
vemedia menit alla fricida. ; | Ib.6. IO NES s al us 7 ]1 urium dolor: |
"materia frigida, remedia ia- fait vr ftii: IO$ moz ufus per os
aamaittendus. lib.«. $6 lurz per os alJuzmendi varii modi. lib.g. $6 ) b bendum
[. p €, fed paulatim 1n et fuantibus fel mi bes, mon affattm, C confertim.
lib.a. 6o i |] p^ a P ], | febribus, ad offen dendum pureand a» c» pe E 77220*
€772, | "vfhcit 1 7 lotio 4ac []e P [/A dir 2Z alba H m p»€?2,C7?'
&Qud. pa. lib.,- G andis iedicamæntis alumptts s ' vus [omms po- A JJ Ec[t
concedis. Itb. s. IO i T2947 ux 0i All [^ profiu y:o l. "bora "ntis
bi "[Toria Xplicata, Q' rao reddita curationis llus . lib.7. Cant. 146
Bubone F.y NS IMESXI Zubone contumaci exiftente ; aliquando purgattomeM y
utendum. lib.7. 19551: Bubone Gallico apparente, ques "podus CHYATOHTE enl
Bubone non exeutzte, non multa ingerenda neque dd quibu[vis ve[cendum» contra E
mpiricos. lb. 7-4 Caut. 196; C Calculo ureteres occupante,diuretica mala. lib.
77 Cat. 122d Caragna, T acabamacha, Galbanum, 1n forma cep vati applicata, in
prafocatis ex femine » nul aid lb.7. 1640) Cardialeia laborantibus quando
yonmitoria;et quad do dete&loria conveniunt. I1b.7. 2i Cardialgia
laborantibus dejettoria [int 1t forma); boli. Lib.7. 121] Carie Gallica
apparente, qua cautione proceden, dum in curatione. ltb.7. 19)| Carnofts.quam
pinguibus;plus [anguis detvaben.. dug. lib.a. I Cel[ia ia colicts ex
taflammatrone utilis .lib.7. 84. Ca:alepfi laborantibus calida P fteca
fugiendax),.. lib.6 - 4A Catalepft laborantes aceto intus * foris iutevam
cendi. lib.6. " Cataratla oculi in vemovenda, cavendum ne tu[/h. ad[it.
hb.6. Id Catavalla oculi antequam deponatur » quid. cavet dum. lib.6. 1d
Gatarrbo ad thoracem, C pulmones srruente cam gari[mii| . gari iri
periculofi.Inb. 6. 108 Wetarrbt non fi lends narcotzets, nifi magna trgeu da E
te. l1b.6. 1124 Vufts rui hissoufüo t bu; quis ordo t2 illis evsa^ C7 er
vendus. iib * 2» j: liaufone laboranti purgato [ers exbibitio poft, op
ma.lib.5. II iutione s qui multas babere voluerit circa Jangti- nis 7H, fionem
T quibus petere dichos, 2€ acta ab aliis &gere vta lcaptr. lib.a. v os uidi
Mm 1n futu: a coronal ; cata D0,T€ cien (9 52.0. 9^ Un REMEC - repe aso wt
"P | YAiclti17 GCCOCIO p«uranao COPMZZHPEAS error 4 ]fec do tinens
"mt Ps , 1 7L cac HT027 LÍD«. /« 2JlIO j "Aalt) OC ) Ibole: Í 0Yantes
qaiuaniao pet tpe? 2 € aq 540 ! t? / /Lat f "p - Le. [D.7 B 2 M, AI DAI20H€C
17 HA, AH ALÍ€Ya CT! Leandauma &OoY0oÍtjs Ld E, 4 d I3 DU AUECY 1a? 3 4€
C1005 " £barare Yiæant. lib. 2.Canut. 27 v Y^, ri 4 )4 ; RETOURS KL onspsa
osse v T Apb: 17 «Ctt 0KHE OQUAHGOO 0] eT€HAMS ; (d quanao ] ] i JS [2 1 «^
]4), " [ 5 * " per áuas bores ABC HU. *, ; da " E "P !
"n, ! pons pauio ætertoi,24000 [MAYIOY » COZC CaoHnattse OT Q NOUTT CN
Sete PL E b 2. À pl CI.245.010H/0« C etit V2 490977 » LE Un, 4 7 Y J H Wrbu:
querido o erre æUet 1» y? "etpio acce) Duy. ub dib.». jj ' J 3 £e ÉL.
" d nutaseuutanda YAUDHC lexus, € YoUOTLLS j r Ma, - Uu Col ! À, e 6 f bun
0p €! 15À2 DY1À ctt 10 2 (2 "Zl 4994€510 act efi:g- ] d «hl ?7 j ".,
"J^ /2 i si j D. : 2 2 y : v ubtes Kroxexes ERI "T IM UTE 7 0j et / c
yr&[rat perju J/4€82 [ftaius » € -- Rt Io : juftante acce[fran e CP auando.
lib.2. 21 Ci eres abflergentes in dyfeuteria quandoinden- ] aài.lb. 7* 98 cif
cerium abflergentium in fine dy[enteria abufus. lib (7. 99 Cly[leres l lande
inWiciendi, turgentibus flatuinte- fini Yo. 2» 24. Clyfleves communes cum.
decottione folita zzmvete- Válaty 707 let "Idadi ib. 4j. 26 Cl»(lerium
commumum frequentes abu[us.lib. 3.277 Cif eres etam refr:, COT AHICS inflammat
25 Y€Hids, fint pauce quantitatis. lib.7. 11j Chyfleres ia effetiibus vepum
quantitatis parva. li- bro 2 3* AR Clyfleri in indendo ante fcBlionem venaqua.
obfer- vanda.lib.3. 3l |j Clyflerem aute indendum in alvo dura, validum..|
muedicamentum exbibendum.lib.. $651 Clyfleres in pragnantibus grandtori |
fetu,quanti- tate non excedant .Atb.3. 2I! Cl feres NUM €: fícce antes in dyfentericis
rejiciemi di Mib.7. 1044 Clyfieves prapinguibus uonindantur multum calem ) tes.
lib. 3. 2.33. Clysieves pragnantibus non frequenter 3ndantur /V lib. T 2 CQ, C!
jfrere pro mulieribus quantitate majores effe A. ) iig ID, 2t Clyfleribus
puerorum oleumnon indendum.lib. 388 Chysleves violenter non injiciendi,
snteffinis facd, oM MUR: PL 2'8 Cly[ler FHAXNTSU Vvfter ut retineaturquid
pre[landum. lib.7.. og piscis a flatu olea data ab aito etiam ut ilia.lib.7 .
Cant. 76 plicis caltda valde atiu, uoxta.lib.7. 68 plicrs cly[Teres ab initio
cum vino, vel [apa noxii. lib.7. 67 pl;cis clr[leres ne zndantur, repleto
ventriculo.li- br ME 69 Wicis ex flatua valenter di[cutie €t4 nox 7 J[ib.7 . 60
Up/zers ex flatu laborantes ante u[um cucurbitula puregands. lib.7 i SI E WA 3
TIPIRAS in dolori ibus aqua frigida quandoque utilis ; e Ce quama NH, jJ. 72 92
APIZCLS L7 doi lO0Y 10145 .£ i flammat 1071€» "mca 1 A122 CH - : T j L Q
Jzo purean t1, let baie.lib.7 92, LJ. ] 35 »- p/ E 'oyt lecta YYCeAA 277 talo.
]14 "dado confert i "1 "3 ] ! 4 p - " E ss i - Izcis 172
aotoribus non Legientibu. Jolissaut ft Ji 'erco- FAVILIS., «H 'Aræ agentibus
med pem C7 1$, Aat ILI zrautegdum Jed pere pur gaumtiuns » (cur. I /b.7. 7 rcr
s 172 121110 vale nterdi[cutietia mala. lib.7.66 qWNzczs [T upc facientia
potilTipouma con vcaiunt jfi fimt Wa calida mat eria.li ib.7, 70 Meus SEupef
acientia concedendas viribus confi flem Sirebus. lib.7. 71 y2C1$ uftes ok orum
ab t1a:t:0,202 ali 4 grecede c2 CHAT » Muiuttlis.lb.7. 73 ' | boatna compen C"
ion5 ^P MV 0o 4 O0^^ mn zs 742 na44 1 f444^ / FAAULO[L S ! 092€/2: 4 €X olets
208 Iutt 7 "4 bibeg A4 vLlbro IV NS DEM PA. Ais 3$] ( dii io male primis
diebus oleum cl« onamcli- ? ex aceto applicati m. lib.6. 37! C inc oCta
médicari,cruda ncn movere, c'e Fin pocva 1i fent €fii 1a expHeatz ; loc Hi
"ppocratiss! i (C alen: con: roverfi coz ciltati-lib. 3. 48i "on [udi
ar iones meæ debent fieri feciufrs arbi-- tris (P eur-liba. I2 Cos[ mpsaqui a
porius ex carme vi tulina.lib.2. 4$] Con mp quom odo parcatur«F. | Convt jr partes
omnes ca. TUE fo? enda. lib.6. 92, f«do ove [uper Y€81€5H:€ s quid á (enam i
(un Q. ;41 4 ib. o: Cordis in palpt'« attore zum ob fers 29 41015 is wbunaa 7
QU x1 z ram mitiendus fi [anguis » qua caurto adf biben da. i;b. 6. 16 Code
laboramte ex craffis bumoribus, diuretica.A c fedorifera non cor vertunt. cfi
6. 177] Coáe laborante ob fer ofó buroves, diuretica » C [udov:fera optima.
Iib. 6. 17 Cordis] palpitattoni quando, G1" quo cafn fangu "m
'cndus.lib.6. IC E vi ft d fia fente quomodo proct ede dum.lb.s. fi in
iamper[ecía ; codem die sibil à AMedicomml, E: €/ don bs 25 Crift immiutntes
quando à capite eff repellendum l:b.6. ] Critici: diebus quando sædicamentum
purgans eA Crocum inuutliones ex bydrargyro non ingred. 2 Crura Hi PY. liD. 7.
IA DX Ey Crura. [unt perfricanda, ' abluenda per tres dies eunte [ethionem
tali.lb.7 137 Cucurbitule zn fpa[mo q ducimio applicanda.lib.6.8e Cucurbitule12
dor[o, "E 107 cordi5.quando comvemant.lib.6. 173 Cucurbitule in
palpitatione cordis quando applican- da. Cucurbitula in pefle dorío quando
applicanda, is quando ag0n.lib.$. Cucurbitule im. prafocatis ex enenfibus famreffis ventri
applieite,mala. lib.7. 163
Cucerbitule in prafocatis nbi affigenda.lib.7. 162 Cucurbitula magna in colicis
applicanda cautio. Libro 7 y 78 Cucurbinul 4ARAQUHA ventri a pi heit, fi ff f
CHZ paunco z2ene.lib.7. 167 Cucurbitulamagna [it ex perforatis.lib.7. . 168
Cucurbitula magna ventri appoftta diu 20 bareat . Cucurbitula noa diutius afhxa
parti permittatur . Iib... 26 Cucurbitula [carificata ia pefle aliquando
vicarie fechionis vena.libro 5. 29 Cucurbitula [Gavificata in [uris in pe[fle
frequenter in ufus venire [olent.lib.s. 40 Cucurbitule, fi cum [carificationes
cum pauco 1gue fent afficenda.lib.4. 2 Cucurbitulis [ablatis 1a [pafmzo,
fabietla paries fo vezda.lib.6. oI D Debiles dum purgautur.aon ex[uraant. X A
-- i Dec CÜINDEM. Decotta folventia in morbo Gallico rarà in ufum yeniant.
lib.7. 20j Decrepiti parum, C fepe cibandi; € cur.lib.a. 7 Diapboretica 1n
flatibus cordis aur 1n ufum. nca ducenda, aut sllis admi[cenda fabad fl
ringentia. lib.6. | 179 Diarrbea laborantibus pinguia [n[pecta. lb.7. 8$
Diarrbea laborantibus quando ab[lergentium ufus conventt.ltb.7. Diureticain
a[tbzaate mala.lib.6. 134 Dinretica ia calculo venum in uretevibus mala. libro
7. 124 Diuretica in pra[evvatione à calculo; [epe moxta.». lib.7. 12j Diuretica
potulentá won diu in lydropicis in u[um ducenda, G cur.lib.7. $2 Dolente capite
ex intemperte calidasaceti portio it ox »yrbodrnis frt parva. Dolente capite ex
intemperie calida fine materia, oleum vo[atum 1a oxyrbodinis fit ex olivis
maturis, C cur. lib.6. 9 Doloribus capitis etiam vebementiffimisyimmninen te
criftsvepellentia fugtenda.lib.6. Ij Dyfentericis clyfleves abflergentes quando
conventant.)l. i TU Pi Dy[enterici ex atra bile antequam purætur, fero--| cia
illius bumoris prius attemperanda.lib.7. 92:41; Dyfentericis in decltmatione
ab[lergentia malas. Dyfentericis per fe convenit [zngurmis »ui[io;fed oll,
adjuntla raro convenit. Dyfen- Dy[entericis pinguia in Jict quando utile,
noxium. lib.7. C" quando Dyfentericis quando purgans medicamentum cosn-
vent, C? quando non.lib. 7. $9 Dy[entevicis quando, * quomodo Janguis mitten-
dur.ltb.7. 96 Dyleutevicit quomodo, cf quando narcoticis uten- dup.lib.7. IOt
Dyfentericis KR babarbar: ZZ Jufpettus. lsb. 7. 93 Dyfenterici ubi
psrcadi,flatim id pra[ladul.7.91 £z EmplafHicis in ophthalmia quando
utenda.lib. 6. 96 Empyii a na' ura curari per evacuatiouem mattri& per
[eceffumsexemplum.lib.G. I27 Empyiei quando wrendi;aut [ecandi. lib. €. f:,
Epileptici in paroxy[mo non concutiendi.lib6. 45 Epitepriets ex aura
virulentælevata raro gmitten dies [anguis.lib.G. í3 Epilepticis in paroxy[mo
caput non ceoperiendum.». lsb.6. j Eytlepricis lignum ori nom ind£dum fed quid
aliud. lib.6. f1 KEpilepticis pralervaudi quando ex brachio, cf quando ex talo
mittendu: Janguis. lib. 6. $5 Eptlepticis pra[eyvandis valida purgantta fepe
no- xam afferunt.lib.c. | $4 Epileptiets veficantia capiti de vafo applicata,
optt mum remeditm.lb.. 33 Epilepticts vomitus malus.lib.G. $o KE pilepricis vom
orta fempe y mala.lib.6. $4 Epiphbora i2 curanda tn princrpio «dftringentibus
Aytendum. $5 KÉypiphbora in curanda eyrbinorü rarus ufus.lib.6.90 Errbina;et
flernutatoria aal laborantibus oculis. lib.6. ! 17 Errbina in letbargo optima
»18 emultis tamen fu- gienda, et 1n quibus .lib.G. 33 Errbina funt pe[[ima in
dolore capitis ex- morbo : Gallico.lib.6. ! I1 Errovescommi[fi ig ten
yillu;pravalente indica tione à virtute, funt majores » fi peceetur minus
dando.lib.2. 21 Errores commi[fi in tenui victu in formapari indi catione
virtutis C£ morbi exiflenre ; pares fant s c «qualia inducunt pericula.Iib. 2-
22 Errores commi [i ia tenni vitium quan "tates pars exiflente indicatione
virtutis CP morbi, pe]ores unt fi plus quàm par frt concedamus.lio.1. 23
Errores 1 tenui vitlu p valete mdicatione à sorbo fabtrabed:, majores»fi
peccetur plus dado.l. 2.21 E yacuandum [anguimis mi[fione, antequam motus
defierit ; fi tempore mit endi [anguimis men[es fluere contigerit »[ed
impevfetie lib. a. II Evaporatorus in calidis,có frecis naturis, ad [udo- res
utendum.lib.7. 207 Ex argento vivo inuntliones parate»? fuffumigits zon ab
Empiricis, fed à peritis pra fcribi debere; UR yariari.lib.7. 217 Ex bydrargyro
parata vestediapro morbo Gallico, an im ufum duci po[fint. C quande.lib.7. ^ 216
Febricitantibus à partu ummquam mittendus [au- 4/721 e guis à f[upevnis.lib.7.
1768 Febribus in continuis evacuatto per lotium comma- dior, quam per
[udorem.lib.5. à Febribus in intermittentibus, potiffrmum tertia pis,fudoris
provocatiopraflats qua urina.lib. s.t Febribus longis aloes u[us commodus, C
quomodo e lib. 5. 19
Fiuentibus ad oculos bumoribus ; ab[linendnm ab ad [lringentibus. lib.6. $8
Fonngraci in lippitudine utendum decocto, mon fe- mins. lib.6. 97 Fanugracum
abluendum antequam in ufum duca- tur .lib. 6. 9 Fotidanon [int,qua capiti [unt
applicada. lib.G.11 F gium excludentibus quando utendum, Gi quomo- do. libro 7.
174 Fomentis calidis non diutius utendu et cur.l.3.39. Fomentis frigidis
a&bu nü dinutenduset cur.l.3.40 Fontanella in [tura coronali in catarrbo
ve]iciente da.lib.6. 107 Formam vittus primo virtus o Bendit,[(ecundo [ym P |
Die p'omata ertio flatus d:flantia. lib.2.. 20 Forma vitlus qua doceant 1n
acutis morbis. Frigida potus [ugiendus in inflammatione inte jfeinorum. lib.7.
98 Frieid:fima atu e[fe nom debent, qua tboracs apple cantur.ltb.6. 161 Frigida
«d fiflendum [anguinis fuxum optima... | praterquam [i ex tborace fluat. lib.5.
AI Frontis in vena [écanda » blande gula ad[Iringen- dax brevi tempore .lib.G.
X 3 Frue . E rullus bovarii in
acutis vejiciendi. Galeni con[ilium pro puero epileptico depravatiam . Galli
veteris jus aflbmaticis noxium. lib. 6... 137 Gallico12 7ovbo curando, quomodo
zAutlor plura s quàm alii ober vare potuerit.lib.7. 186 Gallico iz »orbo in principio
lententilss abflergen- tia C purgantia admijcenda.lib. 74.194, Gallico in morbo
curando alexipharmaca mi[cen- da.lib. 7. 196 Gallico1n morbo proeve]fo
purgandum. lib.7.. 194 Gallico in morbo pargantibus validis agendum; c9
cur.libro 7. 19$ Gallici morbicuratio diver[Aa » inchoante ; pro-
ere[[osmorbo.lib.7. 186 Gallicosmorbo incboante C$ bubone vix exeunte 2, tenuis
vitlusnalus.lib.7. 18$ Gallicoyaorbo incboantesetuam ad bubonez promo-
vendumsexercitium validum malum- Gallicus yaorbus inchoans,ftze purgatione
exteris quandoque folis curatur. " ",, Garczavifmata fugiendasis, qui
repleto [unt tbera- ce.Iib.6. 109 Gargar:[matain catarrbo quado co
veniat.l.6.111 Glaucis 12 oculis s(£ latas-venas babentibusy smittoræxterna
comveniunt.lib.G. 89 Glutinantia in [anguinis (puto quando utilia, quando
noxia. 11.6. IjI Geonorrhbea Gallica non fLatim fupprimeda. 1.7.1 18 Generrbea
Gallica in curanda,quomodo 1t curatio- ne pro- FINE IROBS X se
procedendum.lib.7. 19] Gonorrbeamuta:ur 15 f'uxun albu.fi diutius per- feveret.,
et mnc quomodo curanda. libro 7. 130 Gonorrbea quando calef acientibus
curada.l.7,129 Gracilibus quibus plus [anguinis detrabendum, c quibus
muixus.dib. 4. 11 Cua]aci decoblum cum dura fit illus fob[litia, qua nodo minus
lonea cotitone zndiget. lib. 7. 213 Guajaci ligni fpecies qua in Cura done
morbi Gallici re]ciende. lb.7. 260 Cua]aci lignum quod in ufum ducttur,non [ft
anno- durm-lib.7. 200 Guajac: [pecie s rejiciatursque eft mimi acris,et tur
b1au decoétu facit, pumquam clarefcens.1.7.202 Guajaci fcobs neque craffor,
neque im pollinem du&a.lib.7. 203 Gya]aci rune non [int umoris ligzi, neq;
parvi, nam [unt in validi.lib.7. 201 H Flemorrboietbus [sperflue evacuantibus,
am omnes occiudenda » an una velinqueuda, fententia AA4uCloris.lib.7. II2
Heyate evyfipelate laborantes frigida atla comve- "nunt .lib.6. 46 Hlepate
evyftpelate laboraa*e, vepellentza [ola con- veniunt . lb.7. 4j Hlepate f
712:do; calida t? ficcamedicamentæxier na fufpetta.lib.7. 3$ Hepati:
eibbainflamata, ante ufum diureticorum alvus lenienda. lib.7. I FHepatico
fiuxuis remedium fineulare.lib.7. 106 Ne d Hepaf ND E'zx. Wgepatis in
calidaintemperie quando purgandum » ci quando non. lib.7- 3 Hepatis in calida
integperie manna uo [ufpe£tum - lib.7. 33 Hlepatis in intemperie calida ref[rigerantiaumpen-
se, e adfiringentia [u[petta- Hepatis in inflammarne in principio non purgan-
dun- Hepatis ia inflammarione repellentibus attenuan tia etiam in principio
mi[cenda . Fiepátis in inflammatione attu frigidafugienda . (im [bi Hiepatis
inflammatatava purgandum. fed in decli». fis nationes cotla materia. MH Hepate
inflamma:o [ime mate ria,repellentia fola conveniunt Hlepatis in iuflammatione
in declinatione mon puris. | vefolv entibus urendum. Hepatis in ob[lruttione
attenuantia cur dnte pran- «| dium applicanda. Horde: ad aquam proportio pro
pti[Jana paranda .. |l, m Ó dj Hordeum aliud [læ cortice, ve[hrum aliud. lib.
2..11i Caut. ] Hordeum pro ptifana quale elicendum.lib.a. | 4p Hordeum quomodo
parandum pro pti[Jana confi--| cienda.lib.z. ATi Hora tres à cibatione ad
principium acce[[wumis nom. | fifficere. lib.a. 344] Elunores effc ducendos quo
aatura vergit.quomodcià gntellimendum. H»yárarFIXNYXDOcBGI | Ei ydrareyri
prouno bomine 1numgendoque quati- tas." qu& ad aliasmar edientta proportio
J| Jd ydropicisattenuatia no diu in usu duceda. L 7.5I | Hydropicis Rhabarbarum
inutile.J| Hydropicis bumores [erofl à principio purgari po[- fuat; fed à et
levioribus tncboandum. li ddyeme plus concedendum. [ed variussa[late miuus; fed
[apius.Iib.2. H yeme quando minus nutriendum.lib.z: I1 "i Ilerici
inprincipio non purgandis[ed praparandao eft materia. Iilerici valetioribus
medicametis evacuadi. Jélevicis valida non danda medicamenta, [i ex ix. patis
inflammatione.lib.7. 65 In cardialeia ex vituitaatida dejecloria fiat cum
purgantibus. lib. 7 30 Is cardtaleia 1n SrinGSpuA vepellentia conveniunt, non
ad[ ringentia.lib.7. 216 In cardia dia fbduiloria fim blanda. Iu empyemate no
tentanda materia expurgattio per Po fece[furn. I| Jnflammato bepatesrepellentza
ante fecélionem vene non comveniunt. lib.7. 29 IIo palpitatione cordis curanda
que vena f[ecanda,. | libro 6. 176 In palpitatione cordis ex flatu pr
"ovidendum flati- bus ventricult. Jn palpttatione cordis ex flatibus,
exterats calidis non e[[e utendum pra[cuie adbuc materta. 5 In
plevriticiseexterms no indi[Lintie utedul.G. Inter Jntev [udandum ton adeà [ape
purgandu.lib.7.208 Inunéiiones ex argento vrvo aut non [unt 1m u[uino duccudas
aut ft in ufum ducantur valide efJc de- bent. cur-Àib. 7. iid Tnunélio in morbo
Gallico magis laudanda. Inuntlio ex argento vivo quando1nte rpolanda. Inuntlio
fi fiui praferenda in curatione morbi Gal lici. Jnwungendi roodus.Lac in
d'y[entevicis am conveniat » quando, C quomodo parandum Lac in renuma wlceribus
qua. diflinélione dandum. Late a[fempto in phibift, dormiendum. Latle muliebri
qua di[Hntlione utendum in ophtbal VU, »mia. Latlis quantitas rn ulceribus
venum qu&. Lapidem in vefica frangentia medicamenta fiétittia.Lapidis in
vefica unica curatio, excifio. Layidum ex vefica extrattorum bifloria due
admiranda. Àhu Lapillorum precioforum [us neq omnino ve ficien- dus,nec
pe[[amsut fitsrecipiendus. Lenientia:n morborum principio majori ex partem,
comvenunt. Bi P Lenientia quo tempore, qua bora, C quantum ane cibum exbibenda.lib.5.
$i Lens quomodo Fitppocrati frigidiffima.lib.g.. ye8 LenILentium decobtuma, C
f)rupus inpe[le, C vartolis vepiobasdum ie Y MLentium qualitates,
variazatura.lib. D? $9 J erbargicis cucurbii ula applicanda | Lei bar. eicis
quando [ecanaa veuas C£ quando mon 0 Letbargieis vepellentiaparce applicanda. C
fiue 2 aa[tvitlione 4: | Lezimeniis hepatis 1a obflru£lione fotus calidi pra-
?ALTi endi. vs ; cS FS ): Jt, P". ; sc E P - V aLippiiudigi valide
ad[Lringentta contraria. d !' MM azrea s, co Jp ccharo parata, 14 chole va fn f
Cla» !j M aflicatoria 12 doloribus a calidis, €? temubus bumoribus quando non
concedenda. LM edicamen: ovum altevautium materiam t [fc mutandam.lib.s. I JM
edieus commre]Tus medicos amet, C quopzodo [e 12 €15 gerere debe. l1b.1. I1 aM
edicus cum mulierculis, C imperitis de rebus medici non differat |abyo dM
edicus de mercede non paci[catur. Mad edteus C do£irizasC ufu inflrutius
artemexer eat lib.i. 24 IdM edicu: fuaiat mollitiem exteruer.lib.t. $ uiuM
edieus eratis aliquando curare debet. uM edicus tznan glortasaut nimo [ui amorc
aon ten- Ji tetur-lib.x. 9 dub edicu: gratos erian1n nece[[itaizbus non defc-
ab -rat.lb.1. 21 AM cdiI'N*JDS.E Medicus in omnibus praftans qualis.lib.t. 3
Medicus im oratione, C farmonibus varius, pro | jo agrorum varia natura.lib.1.
26 lu Medicus juvenis fab datto M edico praxim. addi. Lim fcat Medicus morbos
[uos excujet. lib.1. 3 | Medicus nom inbumana [evermate utatur.lib.y.25 li
Medicus aon fit jattabuudus, amt nimium pollici- 4. w( tator. |l M:edicus gulli [ctt fít
additinus s fed nudam fequa-. Mais rur veritatem.lib.1. 10» M edicus pietatis cul
tor.lib.1. Ii Medicus qualis in
veftitu.lib.1. 6; Medicus qualis in odorati sfe vendis.lib.t1. 7] Medicus
quomodo excolendus.lib.1. HET dicus Jamtatem pra[efe vat.lib.t d v Medicus
[ecreta remedia non profiteatur, [cd alis I, communicet.lib.1. Medicus ftt
[Fudiofus munditiei.lib.1. Medicus [ylvasm medicamentorum prompi am ha beat.
lib.1., Avfel vof fol.licet im bilioft : febribus ab initio 20 CCo vyeniat,in
quo'iduanis opiimu eff vemedin.l.s-YÀy, AMelancbolicis liquida macis.quam arida
vIEAICUA qenta comvemunt.lib.6. «q €Melancholicis quando fineuis
spittendus,quani,. fupprimendus, et quado finendus.hb.G. Mellis ad aqua
propor!10 pro paran da sul [a.l.2..] Memoria deperdira remedta non famper
calidas cet Galenus ejus caulum frieidam faciat.l.G. .| Memoria deperdita curanda
varii modi et contio. rii.) Vit. Lib. 6. 36 jJ Memoria deperdita quomodo à
frigiditate; fi fepe à caufis calidis. lib. 6. 36 ^l] Memoria curada rara
evacuatione op eff.l.6.36 | | Men[es promoventia pev os fumpta debent effe i2
multa quantitate. lib. 7. -I40 | AMenfibus immodicis in iflendis repetita
[angurauts silhofiat endeen die. lib. 7. 141 VAM ez fibus mimodice fluent ibus;
aliquando medica- men! o purqante utendum . AM ez fibus promovendi, Jecari
pote[t vena in. à ante tempus motus cum Galeno, C? verfus finezo motus. lib. 7.
53 TAM
enfibus 12 promovendis mon eff [ecarda ver a dum diminu: € fant tibi mulier aut
t1207€ iui afficiatur. aut animo folea: AT lficei re. . | Wa enfibu:: 15 i
pramoy enais pra[lat repetere [25gu:-1$ 9i Jf oneza. $ p^ n[tbus
[uapevfiuisscum v "edicement opurgaute o | uilcenda. aa[tringentia. [; MR
I4 "T enfibus [up ci finis remedin "o "lare . 1.7. 145 m7 e
libus fupp: ejfcs LU e Pene yox naa. D ies 131 Mercedem oblat am Mediceus prompte, uon qu
gi s] 2 furtim capiat. Irb. I. 2C Map. onem [aneuinis ex talo pracedere debet
exer- jn CLUMm RA "me partium m fern un. l7 ode[Ha aceintius Medicus domos
dngrediaiur . WM orbis complicatis ton contvrartis, quomodo pro- cedendum
WWACER S j "Morbis complicatis eontrarus quomodo provi- acndum
dendum.lib.5. ær Morbis extremis; flatim extremms vemediis utendum Morbo
cau[& complicatostau[a primo vationem bæ qu bebomus. Morbis mediocribus
blande; cum tempore occur ; vendunz.lib.5 Morbo jn pracipiti [anguis prius
mitti debet,qu& Vu alvus [ubducatur.lib.4. 21 jd Morbus cum 1gnoratury
attenuandus victus . cur »»1) . quomodo.lib.1. AMofthus in umbiliai cavitate
pr&focatione gignt «vina . zGXul Mulfa alia crudasalia coéfa.lib.». $c
AMul[a aliapro medicamentosaliapro potu.lib.2.. 5 cc (m; 7Mulfa alia
meraci[[mmasalia mediocris » alia dilus ta.lib.z. $« ib Mul[a ex faccbaro
optima quomodo paretur. AM ufa
svekmelicrati d. fEnetro ; e£ conficiendi rad) in IN H10.lib.2. Narcoricaim
capitis dolore ratrone doloris ix aad) am pibenda, fcd aliquando vatione
vieiliarum.l.6- i r Narcotica:n dolore captis pev fe vix per os concad ai
denda.lib.6. Narcotica in dy[entevia parce adhibenda.. Narcoiicasumaua
applicada f uris capiti., Narco' ica numquam aurvibu: emmittenda.lb.3 v
Narcotica numqua iu puerts in usu ducenda.l.3. Narcoticis varo utendumsQ
quando.lib.3. Naufca laborantes quando purgandi, C quado sid, INatn-li TT 1] li
Is Do EY ] AMaufea prefente, vomitu excitato,in co sion veul- tum infiflendum
ie d Obffetricibus eut affeventibus.aut negatitibus gra- viditatem, Medicus non
temere credat. FOb[lerricibus remeré non credendt.cy afferunt fe- tum e [fe
mortuum se »iexclidenat, ef[c.l.7. 171 ipOlea in colicis data adjuvanda cum
ab[lero ibus, vel pureantibus. lib.7. 7 WOlca f'nllata in wfism mon venient »
mft aliis alliez- ta.TOleis cur cera cddenda. lib.G. yÀ: WOleum amyedaltmum a
partu ntq; femper.neq; qui busvis coz venit qOlcum per os [umptum quando zn
colicis optimum. 4o prafdim. aiOleum rofatum pro oxyrbodinis fft vecens. JOpb:
balmta in curanda opii vfus neq multus, neq; A frequens JOph!baimia 1n curanda,
qua lentorem babent A comrmoda.lib.c. 75 UOpb:balmicis paucif[ma externa
vemedia adbiben | da.lib.6. 99 Dpiatasut 7n alitis ventriculi affctlibus
fugienda, sta in dolore inflammatorio eju[Æm concedenda, b C quomodo.lb.7. 3
WOp: ufus frequens im lippztudrme malus. 4D: colluendum anrequam æri cibu
[smant. | qDo mel no[t-u imbecille ad cra[faincidéda. 1.2. AQ. ymel H0 ferum 17
ACUETS f bribus non fat 15$ 44CCom eodatum. lib.a« j Oxymel iN Oxymel quamdiu
excoquendum. Qxymel feplaftariorum diveríum à Galenico ; C Gracerum. lib. 2. $2
Ox*ymel feplafiariorum fimplex nom eft potus » fed forbitio . lib.2. $3 Q:ymel
feplafrariorum non bumetlat. Q»ymellis parandi ratto Oxyrbodina applicata ne
ficcentur. » aut ex affa zmateria applicentur. lib.6- 2 Qiyrbodina n capitis
dolore magis proficere » ft ex alto decidant.Ox yrbodinis narcotica vix
adpiifcenda Panatella an [emper ex pane loto.lib. 2. A4 Panatella quomodo
paranda 1 acutis.lib.3. ^ 44 Pazalytici quando ab initio purgandi.lib.6. 73
Paralyticis cucurbitula ubi; quamdáo pn A. ra Paralyticis diuretica optima .
lib.6. 744]. Paralyticis olea diflillata folainutisa - lib.6. 760p Paralyticis
oleanmmis calida mala Paralyticis rubificantia quando comveniant.l.6. 765m
Paralyticis fedorifera non enultum comada. Paralyticis vc ficantia
utilia.itb.6. za Partus non accelerandus ob preces parturientium | partu in
diffcils varó exbibenda promoventia fei cukdas.lib.7. iz Peffi odorati impoftti
in pr efocatis ex femine » ve IL. LA ciendi.I:Pete affecti medicamento
purgandi. lib.5- m Pefle !| Peffe laborantibus ex diver [rs caufis, quando
smit- rendus fane s.lib. s. ji |! Pefle laborantibus mon [emper conveniunt
purga- ros fangumis mito. lib. s. fI | Peffe laborantibus numquam mittendus
[anguis ad ammideliquium. | Peffe laborantibus folum im principio [angws mnitti
poteft. cur. lib.g. 34 |Peftis materia ab initio puyanda. Peflis materia
crudadici non poteft. LPeffis materia majori ex parte turgéns. lib.g. 4
KPe[Hlentes febres, licet peracuta, non requirunt te- nuifhmum vitium .
MPeflilentes. febres frne peffe coElionem expo[cunt in "HAI€YIA » nec 1n
principio 1u dis purgandu.A MPeflilenti in febre, maculis evumpentibus, [anguis
|... fecta vena poteft evacuari Ci quomodo.lib.$. 3 r APharmaca glacie, vel
aliter vefrigerata pe[[ime à quibu[dam conceduntur.lib.5. 12 /MPbarmaca » que
mifcentur, non ffztt ex dis, qua difpari tempore operantur. IPbarmaco a[wmpto,
non dormiendum, cr in qui- buss e quando. IPbarmaco aJumpto, eule, aut vemionz
ventriculi calida non [unt applicanda. "dMPEarmaco non évacuante, uon
[emper poft tres bo- ] ras pufculapropinanda. lib.5. dPbarmaco non
evacuante;clyfena mo indendsz.1. 2.9 Jbarmacorum validorum extratla per vinum; aur aquam
vite, periculi plena. JPbrenetict in principio purgandi. WPbreneticis acetum in
oxyrbodimis parce adbibene v Y 9 um. e Phreneticis cucurbitulis appo[itis quid
faciendum Phreneticis in curandis mon diu narcoticis uiendum. Phreneticis in
curandis vepellentiætiam folaultra principium comy emunt Phreneticis non e[l
enittendus [anguis ad ammi ufq; deliquium. Phreneticis fi inbrachio fecari vena non poteft, non
fécanda easquein fronte. Phreneticis [latim vena fécanda.lib.6. 19 Phtbifi
laborantes latte ajumpto dormire debent Phthifi laboratibus blande alvus
mollieda.l.6. Y64 Piluleta Gallico morbo laborantibus purgandis in fine
praferenda.lib.7. 197 Pilula in tufi f capitis ajfectibus ; male dantur poft
cenam. Pilulepro capite expurgando majores » pro ventyt- culo minores. lib.3.
Pilule pro capite purgando à cea 40 danda.l.6. 15 Pilule valid:f[ima forma non
fiut magna (cur. Dituita fal[a quotidianam producente » plenius mu rriendum in
principio, [éd 4 ventriculo deturbaui y; da e[ materia. lib. $. ? Plevrifictí;
c€ ante fomentis dolore, non confe[tim| defi flendum A veris remediis.
plevriticis, dolore a[cendente » fotus fimt bumidi || defcendente [icci.lib.6.
p DPlevriticis » dolore def[dendente ; iH feclione vez) "07? 1] ILLA EX
OEAZXA son efe exfpeclanda coloris [anguimis mutatio Plevriticis quando fomenta
anodyna conveniunt.Plevriticis [acculs fovetes ex levi materia.l.6.122. Pleuriticis, viribus
imbecillbus, nou ex[pettanda coloris ia [anguine mutatio.. Plevriticorum
reliquia omnino abfamenda.l.6. Ya y Pleyrsticorum triapraclarif[Timaremedia. Podæra laborantibus varo repellentia
conveniunt. Podagra laborantibus am ab suitiomedicamentum purgans dandum
scontrover[ia cociliata Pi Podæra laborantibus quando mittendus eft. [anqurs.Iib. Podagra
laborantibus frequenter [ecanda varà ve- ZA.ltb. Podagrofís fmunttto ex oleo
falito ante declinatio- nem aAla. Podærofi non. [olum oleo. [alito snungendi ».
[ed etiam yperfricands. Podævofis oleum [alitum 1m declinatione Optitum. Potulenta
12 bydrope a[cite [epe fu[petla. Potus acutarum f ebrium quis, C qualis. [ib.
Prafocatis bene olentta coxis applicanda .lib.7. 153 Prafocatis ex flatu ; cucurbitula magna ventri in-
eriori applicitA » praftanti[umum remedium Prefocatisex retento [emine bene
olentibus vulva non 1nungenda. Prefocatts f acie: bene olentibus non e[t
a[pereenda.3 libra. . : r$? Prafocatis facies frigida non afpergenda.lib.7.14*
Prafócatispauxtllum vini concedendum » [ed vmale elentianaribus tunc apponénaa.
Prafocatis quando etiam im pároxy[mo po]fit fecars pena. lib.7- nsn 164,
Prafocatis quando mon lscet fecare venam. Prefácatis vino facies non abluenda.
Preanatibus clyfteves no frequeier indatur. Pregenantibus erandiori fetu
cbyfferes quantitate non excedant. Prapinguibus, et fenfu exauifito praditis
inte fhinis, clyfteves non indanter »ultum calentes Principio morbi cur
aliquando tenui[[ime ciban- dum.lib.2. 16 Priffanæx quo genere bo ydei paretur
PuJana ut condiatur » que addenda, quando quomodo. lib.2. 43 Prj[ana ut paretur
s quomodo hordeum praparabixinus Puelliin applicatione 'cavendu: fior. lb.7. 7
Puelli in applicatione caveda pollutio nocturna.l 7.9 Pueris ante decimum
quartum annumyevacuationtis eratia,aliquando [ecari yote[t vena. lib.a. 8 Pæris
ante feprenmum yra [lat bi rudimbus [angui- nem mittere, et cur. lib.4. IO
Puevis, c adole[centibus plus cibi concedendum, quam fenibus. lib... 7 Pueris
numquam concedenda narcotica. lib... 46 Pueris pro revulfione fecari omnino
«ena débet .. | 5m, lib. Pulverei C eletluarias qua etiam fol'vant; n; bo PUN
DV bo Gallico comvenive Pulvifculi cardiaci non cum cibis, fed cum potioni- bus
fepunis dandi. Purgamenta muliebria non [emper frigida, nec ca- lids curanda...
1j0 Purgandum egrum quid interrogare oportet.1.3.2. Purgandum in principto n
pe[fle, Difputatio. lb.g. Cut. Purgandum interrogare oportet » an alvo [it
lubri- c4,an dura. Purgandum in vera declinatione . Purgandum non [emper in
declinatione febrium pu-. tridarum.lib.3. $3 Purgandum quando in barum
declinatione. , Purgantia debilta repetita im. quotidianis. comvenut. Purgantia
fint leviora 1n febribus, quam in aliis oorbis, € cur.lib.s. ""
Purgantia valenter apud Galenum in febribus varà ia ufum veniunt.lib.s. 3I
Purgattone impe[le utendum. lib.s. 46 Purgantia valida in pe[fe non
comveniunt.lib.g.. 49 Purgatto in podagrofis fi f acienda» [latim facienda
Purulentis nom tentanda efl evacuatio materia per feceffum medicamento.Putrida
non omnis materia coquenda Quartana laborantibus vitlus in principio varian-
dus CP quomodo. lib.s. 2j Quartana laborantibus [al(amenta concedenda; [cd
parca manu. Quarutat laborantibus dum [ecatur vena, prafen« S 5a Medici nece
[[avia.lib.s. 1 uartana laborantibus quando et dextro brachio extrabendus
[anguis. Quartanis vena [ectio quando convert. Ouartanariis dum [anguis
mittitur y non flatim. -fupprimendussetuamfi bonus.lib. 5. 29.(2* 30 Quibus
maxume in acutis os colluendum. uotidiana in febre. ab imtio vomitus utilis,
qualis.Iib. s. 17 Quotidianain febre quomodo Galenus commenda- yit vomitum
validu pofl [rema cocottionis.l. 5. Y7 uotidianis in febribus tenuis etiam,
quam iz. flatu alendum in principio Refrigevantia in[igniter qua capita no
ferant. Renædiis in multis quomodo procedendum.lib.3.36 Remedium
pra[tantiffimum ad wen[es [uperfiuos. j Renibus inflammatis;po[t [etlam
venambrachi ea etiam [ecandæ[L, qua 1n talo. Rembus mflanmatis, Rbabarbari wfüs
[u[pettus Renibus laborantibus, clyfleres quantitate parva Renibus
laborantibus, qua vena [ecanda: Renibus ulceratislattis admunifltrandi ratio
varia. Renum 1n inflammatione non purgandum, fed le- niegdum blande. Renum in
inflammatione 17 principio ) impense re- WM, Cc frigeranziamala Reuun Ü - UIT
PMI E^Zi Renum calculo laborantibus lemientia ab snttzo" ape non
[ufficiunt ; itaq; etiam purgandi Renum tn ulceribus valide exftccatiamala.
Renum ulcera quam primur o Jm Repellentia in cholera quomodo, Cj quando in u[um
ducenda. Repellentia in podagra, [nfpetta.lib.. 181 Repellentia 1n palpitatione
cordis, dum mittitur Janguissregtont cordis applicanda. lib.c. 176 Repelle
ntibus folis in doloribus in principio quando 10n utendum Repetitio fanguinis
mi[fiomis quando eadem die, €& quando altero.lib.a. I6 ] Repetitio [anguis
milTionis vevul[iue, contra Galenum [ape eodem dte repetenda eur" quan-
do: ] Revul[1o ree. [célam venam quando requirat vecli- Iudinem partium (t
quando con [en [um YOnat-Yum. Itb. a. 18 I Rbabarbari safu[lo vino exbibita
febres eftuan- te$ excitat. lrib.a. Ij I Rbabarbart ufus £n eflnofis febribus
[nfpettus.l.s-g IL Rbabar bar: ulus 12 [puto [auguinis [epe [ufpettus
LRhabasbari ufus dy[entericis fnfpettus.lib.7..Rbabarbarum bydr optcis 10utile.
I Rbabarbarum im dolore inflammatorio ventriculs fueieudum.lib.7 x WRbabarbarum
12 in nflamnratione renum fu[peétum- y lo ebarbar H2 menfibus [opevfluis noxzu.
E Mhatar barum pro purganda bile, 12 dévirmtione | Y D &[tuan- | effuatium
febriumsmalum, C quando eo uti pof- famus.lib.s. 7.6 8 Rhabarbarti phreneticis
no multu utendum. Rhabarbarum [n[petium in intemperie calida be- patis.lib.7.
0034 Rhabarbarum torrefatium in dy[enteria rejicienadum Rubificantia quou[que
cuti adbarere debent. Ay Sacchari ro[ati exbibitio poft purgatum corpus
ardentibus febribus, non multuprobanda.l. 5.12 Sal clyflevibus non ita
frequenter tndendus.l.3.. 2.9 Sal oleum quomodo [al [um reddat, ft oleo nom
liqua- tur . [i Sara et decotlo portio Guajaci cur indenda.l.7. 211 Sara
decotlum a[late cum majori quantitate aque. |o parandum; C cur. Sarza parilia
mirabile decoblum ad tabidos ex Gal | i; lico s2orbo.Itb. Sanguine malo fetla
vena exeunteminor quantitas iio; illius evacuanda . lib.a. 1 Sanguinis in
colore zutatio in evacuatiua. eUACHA- i) tione mon vevulfrvas non ex[peclanda.
lib.4. 33). Sanguinis in colore mutatio nec in vnflammationi- bus etiam
perpetuo exfpettanda. lib.a. T Sanguinis in colore mutatio quomodo
intelligendai| lib. 4. Mn Sanguinis in colore mutatio ua vevul[tone a
longimsyds, quis non ex[pectanda. lib.4. T Sanguinis 1m colore mutatio in
plevritide non ei ex[petlanda, impa 1o in parte bumore. . Yi] Sanguimis
gatffiomi non. [emper p Aldi; eni- J lenitio. lib.a. 1 Sanguinis mi[[io ad
animi deliquium raro inu[um. ducenda.a quibus, C? cur.lLb.a Sanguinis mi[io
quando per [es quando per accidens A centro ad circum[ erentiam trabit, quomo-
do.lib. $. 3$ Sanguinis mi[[ionem quando pracedere debeat fa- cum [ubductio.
Sanguinis minus detrabendum i1s,qui artes laborio fas exercent .lib.a. I Saguinis
repetita evacuatio quomodo facieda.] 4g Sanguinem ve ectantibus cucurbitula
parti affix ao quando conventat . lib.G. I1$O Sanguinis [puto ex retentis
men[ibus, qua vena [c- veda. lib.G. 148 Saponarie decoélum pro pauperibus 12
morba Gal- lico. Scammonii u[us im e[luofts febribus [nfpetlus, e quando eo
titendum . lib.s. Scarificatio crurum tn pe[le [aluberrima. lib.g. 33 Scar:
ficatia quando proj unda factenda, G' quando Ww leviter.ib.4. T Gellio venain
talo ad movendos men[es melius jit fub noctem.hib.7. 136 Semis in curando
profluit diver[a ratto [ervan- da »pro varietate magna occaftoms .lib.7. . X38
Seri € lalle [egreg and: veramdica v mds ie. $1. Seri quantitas varte 4 uarias
tradit a.quomodo con- cilianda.lib.5. ! $i Siccanttbus valenter in [puto [anguinis
empla[lica o mi[cenda.l:b.6 (6 2, Siti in magna calidas G quando frigidabi-
bcn- Symptomatice narra operante quid à Medice moliendum. Symptomatice natura
operante » caute agendum. | Iib.ss 61. [s Synocha labcvantibus quando cibus o
fferendus.lib.2. Cant. jo Syrupi acetoft parandi ratio. Syrupus » c mel.vof.
fol. quando in principio conce- denda.lib. 3. $a. f, Syrupus ex cichorea cum
Rhabarbaro Guliclmi, 1t dyfenteriaadmittendus |y, Syrupis pro morbi Gallici
materia paranda alexi-- V, pharmaca mi[cenda. Syruptes vof.(ol.inter lemientia
non connumerandus», y. fed 1n*ev [olventia.] Syrupi [olventes in cura morbi
Gallici commendaniy, di. T'enui[fcmo vitta in ftatu acutorum utendum fem-. per.
1. Aphor. 8. quando verum . lib.2. 18: T enui[fimo vitlu utendum. in peracutis
omnibus :) i exceptis pestilentibus.ltb.2. 114 T'ertiana in febre ante
cotlionem quandoque pur: n eandum, quando. . T T erttana im febre, etiam
intermi[[ionis die; victim [. à Galemo, cà aliis infhitutus apud noftrates
perti eulofus. lib.s. ij T'ertianis € ardentibus in febribus clyfleres vii
tepentes indendi.lib. s. T beviaca in pe[fle quado tendit, ci quomodo.. [^
"Tiggitui aurium. ex morbo Gallico valentia remit " dizuon
applicanda.lib.6. icd] 7 in- d E;AN8 Dx Exe X ! T igmitut aurium ex morbo
Gallico remedium pr4- ftanti[J[ymur.itb JT uillatwüesureri 12 prafocatis ex
femine vejicien- d&. I Y urgens materia quomodo varo, € in pefle [ape
ruygens. l IT ufft laborantibus quando, &$ quatenus vigilan- dum. p WMPenis
brachii in feriendis » qua cAMLOHES, vA'100€ Suc funt babenda.lib.4 22 Weza
[ettio 1n wedalieliediois fit ampla. Wene fe£htaun brachio menfibus [uppre[/zs
quando admini 'Jferanda. Wena fetta 1m talo in fanguinis puto, affatim [angus
neo e fe detrabendtuim. iib.. 149 W/entriculi im dolore a frigida, c erafla
materias, purgans aliquod medicamentum Hier a aliquan- do «ddendaum. lib.7. $
M'entviculi im imbecillitate, in puellis, aut catellss ventricult reet 0771
eiie » CAY endum, Hnc» Joma us interrumpatur. G eutriculo dolezte ob "mfi
ammationcm purgantia fugienda.lib.7. I yos A Abe ob LZ miemationem » In mida
po- | $57 €Xt appof 10 quedo c ZH 'UCHIA jt... ("M7 nodi
inflammatopre[enti bile quibus vacuam de b I (0«BoPerzmes enecantibus dulcia
mi[cenda Aib.7. 108 WVermes enecantibus erzplaftris cly[fleres dulces pra-
ponenas. WMerzzes
enecantibus fumptis peross quid. facien- z aum.: dum.lib.7. III.(?' Veymibus
pro enecandis emplaftra ubi applicanda. Iib.7. IIO Vertiginofis flernutatoria,
caputpurgia fugien- da.lib.6. 47 Veficantia etiem [uper caput applicata, im.
"vebe- sueuti[femis doloribus optima.lib.6. 18. [^ Veficania in febre
pefhlentiali [rne pe[ffe sm ujuma. 1
duci nou debent. Veftcantia in febre peHlentiali in letbargo optima. .]^
V«ficantta bydropicorum eruribus applicatamoxia, V Vificantia in letbargo
optima, C quibus partibusi| applicanda. lib.6. 357] Veficantia: tn pe[le
aliquando in ulum duci po[[unt »)/ C quando.lib.s. 421] Veficantiaia ye[Hiferis
» cum extra corpus alget 4! utilia.lib.5. 4$ Veficantia in peflilentibus
peffreme pa [form ufurpata Ati Itb. $. $! Ve ficantia in principio febrium
peflilentialium noii] i. conveniunt. lib. s. T Vitus cra[fas 1n acutis
rejtciemdus.lib.a. jt Vitlus formatn acutis paffim corrupta y ve '(peCtu ves |
cionis mutanda. lib.2.. I: Vitus bymidus febricitantibus confert, bumidwl!n,
atu. c potentia.lib.2. PH Vitius immutandus, vatione temperamentorum CO
quomodo. IHb.. Y. c4 30 9v2141* 772 J, * ; L bi *, f Vibius mmutanaus, vatiome
babitu corporis » CA terperamenti ventrigulilib.a. 4G] lt-ION DoESLY. Vicius
mttandus in acutis obanteatla vitam.La. I4 Villus ratto pro vartetate
con[netudipis » Ci vegio- "s wautanda. lib.z. Victus tenus pro acutis
antiquis quotuplex, Cb qui 4A nobis reciptendus . lib.a. 30 Vicius tenuts 12
acutis cur. lib.a. I Vinculum laxandum, [e£la wena 1m melanchalicis. lib.6. 87
Vinum 1n acutis per fe numquam concedendum.», præfertim apud Infubres Vinum: acutis
quando concedendwum Vinum In[ubriues ineptum pro potu acute febrici- tantum
.lib.3. $9 Vini medicati formula praflanti[ima pro aliqia.. Jpecie morbi
Gallici.lib.7. 204 mum optima materia pro paraudis aliquando de- coctrs
pro.quorbo Gallico. 1b.7. 204. Fino terttana laborantes Apud no[lrates per
torum morbum interdicendi-lb.g. ' I4 Virtute per [e debili, vitlus ativezicus
ct 72 forma ; ft vi wor bi, folum quantitate. ! Virtute debili ob
aeevavationems, parten. C varo ; » M inf n 6n gnat pee ob reíolutzozt Wn paruTC
i&pecióaraum.l.. i Vite "mhi u""umua lormevitie:i
ecutrt.l.a. jg / 7, 2 44. -P pawlir *4h 4 Vomendnm A cibo, cra[]75 in
ventriculo exz[lentibi bus huno ribu;.dib.7. 16 Vomcndum quando 1e]uno
ventriculo, C quands 7 epleto.lib.7. | r$ Vomitorio ab allumpto, quam diu a
vosnttu abfti- nendum .lib.7. 1o OO QS€, m mq 4 P o osa a £5 pi "p LIFE.
Kk. 0721IMS TTCOHOEAT10? | 4£;:€/2a13 "deu C27? " PE WT Vomitus in
men [e determinati non habeant dies» flatutum Jib.7. 13 Vomitus potius repetendus,
quam diu in eo infi 'ften- dum.lib.7. II Vomitus quibus noxas afferat inemendabiles.l.3.
12. Vomitus vepetiti quales effe debeant.lb.7. I2 Vomitus quomedo frequentius
byere promovendt ; C quomodo rarius, € im quibus ca[ibus.l.3.. 10 Vomitus
tabidi: inimicus lib.;. II Voritu qui ab[Linendi.lib.7. I4 Vomiturinon debent
nimium cibo vepleri.l.7. 17
Voritoria in cholera fint ex levioribus » nec multe quántitatis.lib.7. 11.e£ 24
Vomitoria in cholera varianda, pro varietate ma- teri& Vomitu in colicis
quando utendum.. M» Vmbilicus aliquando mumiendus im applicationc.2
cucurbitula.lib.7. 79 Vnguenti ex bydrargyro preftare »multam quanti- tatem
parare, C" cautio ante illius u[nm.1.7. 226 Veri regio fovenda
attenuantibus ante. [anguims wi [tonem ex talo.lb.7. 139 Laus Deo; Deiparzque
Virgini ep" E Hez ^ MACC gs NI Aer: ce EO Edd iR c aq. dpa did Ludovicus
Septalius. Ludovico Settala. Settala. Keywords: ragion di stato, lizio, sesso.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Settala” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Severino:
la ragione conversazionale del velino -- oltre il linguaggio, oltre l’aporia di
Parmenide – la scuola di Brecia -- filosofia lombarda -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Brescia).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Intende collocarsi
oltre ogni filosofia permeata dal nichilismo. Si laurea a Pavia come
alunno dell'almo collegio borromeo, discutendo una tesi su metafisica, sotto la
supervisione di BONTADINI. Insegna a Milano e Venezia. Lincei. Critica sia il
capitalismo sia il comunismo, fonti della vita inautentica in quanto
espressioni di dominio della tecnica, come d'altronde il FASCISMO, ma anche la
sinistra in quanto non è più social-democrazia, rilasciando anche dichiarazioni
sul suo punto di vista sul passato e sull'avvenire dell'Italia. Le spiegazioni
della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando
vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene
adeguatamente affrontato, è l'abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione
occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell'Occidente si sono
affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assolutoe
innanzitutto Dio. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo,
dunque anche quella forma di assoluto che è lo stato, che detiene il monopolio
legittimo della violenza. Questo grande turbine che si porta via tutte le forme
della tradizione è guidato dalla tecnica ed è irresistibile nella misura in cui
ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro
tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le
forme più deboli di stato. La trasformazione epocale di cui parlo non è
indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di
funzionare, soprattutto in paesi come l'Italia. E il nuovo ordine non ha ancora
preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l'Italia). Criticando
"l'assolutismo religioso e comunista", oltre che tacciando la
magistratura di "ingenuità", poiché processando una classe politica a
fondo ha rivelato la contiguità anche con la criminalità organizzata, figlia
della guerra fredda e, secondo S., impossibile da debellare integralmente in
pochi anni senza debellare lo Stato stesso, causando notevoli problemi.
«L'Italia è uno stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle
proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si
sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello
dell'Italia unita.. Sull'evasione fiscale: Una tara storica, come prima le dicevo.
L'evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c'è da costruire una strada
io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli
imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però
conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di chiesa facevano capire
che se non avessero ritenuto "giusto" pagare le tasse dello stato,
avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando
di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la
"corruzione" di fondo è l'"evasione" del mondo dal passato
dell'Occidente. Oltre alle citate critiche, Heidegger parlando con FABRO a Roma
ha a dire a proposito di "Ritornare a Parmenide" di S. Immobilizza il
mio Dasein. Già da molto prima prima, alcuni appunti di lavoro heideggeriani
testimoniano come Heidegger seguie S. (da uno studio di ALFIERI e HERMANN -- è
stato criticato da ODIFREDDI, in risposta a un giudizio critico su un'opera di
ODIFREDDIi, ovvero l'introduzione scritta all’ABC della relatività di Russell,
dove venneno citati alcuni filosofi (tra cui S. e CROCE) in maniera non congrua
e "alla rinfusa l’ODIFREDDI l’ accusa invece di non considerare
l'importanza della scienza, come già fecero i neo-idealisti, come CROCE e
GENTILE, a differenza di filosofi che studiano a fondo alcune teorie. Nel
dialogo con Chiara, “Oltre l’umano e oltre il divino” la filosofia della
necessità si contrappone alla filosofia della libertà. Fa spesso riferimento a
pensatori come PARMENIDE di VELIA, LEOPARDI, e GENTILE. LEOPARDI e GENTILE sono
all'apice della follia del nichilismo. Considera LEOPARDI e GENTILE come i due
più grandi geni che hanno portato all'estremo la concezione del mulla ovvero
l'entrare e l'uscire degli enti dal nulla. Affronta il problema dell'essere.
Tutte le filosofie costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un
errore di fondo: la fede del divenire. Sin dagli antichi, infatti, un ente
(ovvero un qualcosa che è) e considerato come proveniente dal nulla, dotato di
esistenza e successivamente ritornante nel nulla. Rifacendosi a VELIA, è stato
definito come un neo-veliano, di cui sarebbe l'unico esponente, peraltro
criticato in senso anti-metafisico da SASSO e VISENTIN, i quali sostengono,
rovesciando la sua tesi, come, contrariamente all'opinione diffusa, in VELIA
esiste invece un deciso rifiuto della metafisica.. Riflettendo sull'opposizione
assoluta tra essere e non-essere, dato che tra i due termini non vi è nulla in
comune, ritiene evidente che l'essere non può non rimanere costantemente uguale
a se stesso, evitando di rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo
l'essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di
esso dotato di esistenza (S.rifiuta, quindi, il concetto di differenza ontologica
così come è stato avanzato da Heidegger). Per S., quindi, tutta la storia della
filosofia occidentale è basata sull'errata convinzione che l'essere possa
diventare un nulla, sebbene alcuni filosofi tentano di negare tale assunto. Ma,
mentre VELIA tenta di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità
dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l'esistenza delle
cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), sceglie una via differente,
portandolo a delle tesi estreme. Dato che l'essere è, e non può mai diventare
un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero, ogni attimo e
eterno. Il di-venire non può, quindi, che rappresentare l'apparire degli eterni
stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a
formare lo svolgimento completo di un film. Gl’essenti entrano ed escono del
cerchio dell'apparire. Quando un essente esce dal cerchio dell'apparire, non
diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente all’inter-soggetivo. Dunque,
l’essente esiste anche quando scompaie ovvero non si perceive. Vedere senza
vedere, dice Sperduto in una tragicommedia. Afferma che il di-venire
dell’essente è come lo scorrere dell’essente sulla superficie di uno specchio.
L’essente, infatti, esiste prima di entrare nel campo inter-soggetivo dello
specchio e ovviamente continua ad esistere anche dopo esserne uscite. Il
di-venire e l’ immagine inter-soggetiva dell’essere. Questo si estende anche a
ogni essente che nel divenire si manifesta. La dimostrazione dell'eternità di
tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di non contraddizione,
ma non nella versione che ne dà Aristotele nel “De Interpretatione”. In essa
anzi il discorso del tramonto del senso dell'essere trova la sua formulazione
più rigorosa e più esplicita. Bisogna invece ritornare a VELIA correggerne
l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in contrasto col
principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il divenire così come
uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto, non è affatto
evidente. Di qui si potrà proseguire su una via -- quella indicata da VELIA, il
sentiero del giorno. Consideriamo la proposizione di VELIA -- è infatti
l'essere, il nulla non è. Tale proposizione esprime l'opposizione assoluta tra
i "essente" e "non essente". Pertanto ogni essente, in
quanto ent-e, è assolutamente opposto al nulla e non ci può essere uno stato in
cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non contraddizione
aristotelico -- è necessario che l'essente sia, quando è, e che il non-essente
non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero di una
condizione, in cui l'essente è nulla, in cui essere = nulla. Questa impossibile
ed impensabile contraddizione costituisce una follia essenziale. Infatti il
pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'essente come essere, ma
insieme come di-veniente, cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla. Ad esso
sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il
nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia.
L’essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire
ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens
rispetto all'ente. Rigetta questa concezione. Afferma che la totalità
dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza
ontologica è quindi quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente
e quello immutabile. L'essere che appare e scompare non è lo stesso essere
immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti
dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad
alcun mutamento. Tutto è avvolto (fino alla morte) dal nichilismo Un po' tutti
i filosofi che l'hanno avuto sottomano hanno inteso il nichilismo come
allontanamento dalla verità, e l'hanno dunque declinato a seconda dell'idea di
verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell'eternità di
tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali,
ovvero che l'essere possa non essere,ed uscire e rientrare nel nulla, ovvero
credere nel di-venire delle cose. Credere infatti che le cose escano dal nulla
e vi ritornino equivale ad identificare l'essere con il nulla: quindi si parla
di pura "follia". Al di fuori della follia appare l'eternità di ogni
cosa e di ogni evento. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell'ente è
il comparire o lo sparire dell'eterno. Il divenire dell'essere è un'opinione
senza verità. L'Occidente non domina il mondo casualmente o perché ha una
possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva
superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili
idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura
che ritiene più avanzatae dove dunque l'avanzamento non è una virtù morale, ma
la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all'imprevedibilità
dell'esistenza. Ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il
terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto
si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal
nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di epistème che tendono a dare un
ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo
stesso terreno. L'intera storia della filosofia italiana è quindi storia del
nichilismo. La radicale distruzione dell'epistème operata da parte della
filosofia e la rapida ascesa della scienz ai vertici del sapere sono
conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica
è, infatti, la forma estrema di volontà di potenza). Tutto ciò che appare
appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non
segue, quindi, una sequenza casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non
esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il
nichilismo. Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il
"mortale" come noi lo conosciamo. Ma l'Occidente è destinato al
tramonto, per fare spazio al destino della verità, la verità che testimonia la
follia della fede nel divenire. Solo all'interno del destino della verità la
morte acquista un significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione
dell'assentarsi dell'eterno. Da quanto detto precedentemente appare chiaro come
non ci sia posto per il divino comunemente inteso. Nel corso della storia della
filosofia, l'affermazione dell'esistenza di qualcosa di immutabile (tra cui il
divino in tutti i diversi modi nei quali filosofia e religione lo hanno
concepito) è sempre stata fatta partendo dal presupposto che il di-venire non
significhi necessariamente la nascita dal nulla e il tornare nel nulla delle
cose che in esso si presentano. Quest'affermazione è, inoltre, sempre avvenuta
con l'intento di risolvere le varie contraddizioni che quel presupposto implica
e di inventare un rimedio per l'angoscia che il pensiero dell'annientamento
provoca. Questo genere di immutabilità è, quindi, di segno diverso da quella
che compete agli enti sulla base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si
annulli. Per questo motivo è impossibile che esista un divino. A maggior
ragione è impossibile che esista un dio dotato della capacità di creare gli
enti dal nulla e di mantenerli in esistenza grazie alla sua libera volontà
(altrettanto libero potrebbe essere, pel divino, l'annichilimento"diverso
dal concetto fisico di annichilazione -, e cioè la volontà di far cessare la
durata della loro esistenza per farli ritornare nel nulla). Essendo ogni ente
eterno, non può esserci né creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio
comunemente inteso. Alla luce del destino della verità, ogni ente, anche il più
insignificante, acquista un significato inaudito. L'uomo si porta quindi
radicalmente al di là del super-uomo e della volontà di potenza. L’uomo è un
super-dio, ben più grande del divino della tradizione religiosa.
L'inconciliabilità fra la dottrina dell'Essere e AQUINO è stata sostenuta da
Fabro. BARZAGHI, con cui ha più volte dialogato pubblicamente, ha mostrato la
possibilità di utilizzare le intuizioni sull'eternità dell'essente proprio per
affermare l'esistenza di Dio e ricondurre il pensiero del filosofo all'alveo
cristiano da cui si è staccato (entrambi sono stati alunni, all'Università
Cattolica, del filosofo cattolico e apologeta BONTADINI). Pur non rivedendo
pubblicamente il suo punto di vista sull'esistenza del divino, apprezza ed
elogia la proposta di BARZAGHI. Con “La Gloria” giunge, tra le altre cose, alla
dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri". Quando
Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la conferma delle
ipotesi da parte dell'esperienza, e cioè da parte della presenza certa a me da
parte delle cose, si apre il problema della fondazione dell'esistenza appunto
di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere del mondo, ma che a
differenza della mia non sono apparenti, non sono cioè da me visibili. I
fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema (eminentemente proposti
ad opera della fenomenologia, sì che questo problema fu certamente uno dei più
cogenti all'interno del discorso filosofico di Husserl), a cominciare da quello
di Cartesio, si determineranno essenzialmente per l'assenza del senso autentico
dell'essente e del senso dell'oltrepassamento. L'oltrepassamento dell'attualità
nella costellazione infinita di cerchi finiti dell'apparire del destino è
necessità dell'esistenza di un altro apparire finito, diverso da quello
attuale. Nella Gloria, perviene alla fondazione del senso autentico
dell'oltrepassamento, dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il
divenire autentico (cioè non nichilistico) non è il crearsi e l'annullarsi
dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ma è in questa
sede innanzitutto fondamentale precisare, a partire da considerazioni svolte
dallo stesso S. in Destino della Necessità (che le cose della "terra"
(termine con il quale S. designa la dimensione degli essenti che via via
appaionoe che, per contro, il nichilismo pensa come fuoriuscenti dal nulla ed
al nulla ritornanti) "incominciano" ad apparire (il loro apparire
esce cioè dall'ombra del non-apparire ed entra nel cerchio dell'apparire). Con
"cerchio dell'apparire" si intende, qui, la totalità degli enti che
appaiono: è, cioè, l'apparire in quanto ha come contenuto tutto ciò che appare
(ossia è l'apparire "trascendentale"); l'apparire delle cose della
terra, quell'apparire incominciante di cui sopra, è, perciò, la relazione tra
il cerchio dell'apparire (l'apparire trascendentale) e una parte del suo
contenuto. È altrettanto fondamentale precisare che l'incominciare della terra
(a sua volta eterna), non aggiunge alcunché al tutto eterno che è, con VELIA,
appunto, “non incompiuto” (ouk atelePombaon), “non manchevole” (oulon achineton).
Anche l'incominciante apparire, difatti, è eterno: il suo incominciare è il suo
entrare nel cerchio dell'apparire. Entrandovi, naturalmente, apparema questo
apparire dell'entrare è lo stesso entrare, ossia è quello stesso di cui si dice
che, eterno, entra nel cerchio dell'apparire. E, così come ogni ente, anche
l'appartenenza della terra al cerchio dell'apparire è eterna. L'eterna
appartenenza al cerchio dell'apparire entra nel cerchio eterno dell'apparire.
Entrandovi, appare, e quest'ultimo apparire è lo stesso apparire incominciante
in cui consiste l'incominciante appartenenza della terra al cerchio
dell'apparire. L'apparire incominciante è cioè apparire di sé stesso (e di
tutte le altre cose che incominciano ad apparire), ed è questa autoriflessione
dell'apparire incominciante ciò che entra nel cerchio dell'apparire e
incomincia a far parte del contenuto di questo cerchio. Ma ogni essente che
incomincia ad apparire (ogni oltrepassante) è destinato ad essere oltrepassato:
diventerebbe, altrimenti, condizione indispensabile dell'apparire degli essenti
e quindi originarietà che sarebbe dovuta apparire già da sempre. Un
oltrepassante che sia non oltrepassabile è impossibile, perché altrimenti esso
dovrebbe iniziare ad appartenere allo sfondo (e intende, con questo termine,
quel complesso di significati, o costanti persintattiche costanti sintattiche
di ogni significato –, senza i quali non apparirebbe nulla, motivo per cui non
possono non essere sempre presenti. Tra questi ad esempio vi sono i significati
esseree e nulla. Inoltre, la serie progressiva degli essenti che via via
appaiono è necessariamente finita; infatti, se in direzione del passato fosse
estensibile all'infinito, ci vorrebbe un percorso infinito, e quindi mai
concluso, per giungere al momento attuale. C'è quindi un primo passo compiuto
dalla terra. La totalità attuale di ciò che è destinato ad apparire è, per
quanto sopra esposto, necessariamente oltrepassata. Ma in che senso? Essa non
è, difatti, oltrepassata dall'apparire infinitogiacché l'apparire infinito
(l'infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie dell'apparire finitodove
la Gloria è proprio questo infinito dispiegarsi) non è un oltrepassamento
incominciante, ma è l'oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto
della totalità del finito. La totalità attuale dell'incominciante è, dunque,
necessariamente oltrepassata da un incomincianteil quale non può apparire
attualmente, ma è tuttavia necessario che appaia (in quanto l'incominciare è
incominciare ad apparire), e che quindi è necessario che appaia sopraggiungendo
in un cerchio diverso, altro, dal cerchio originario dell'apparire. La totalità
simpliciter degli essenti-che-sono-degli-oltrepassanti (la totalità
dell'oltrepassante, cioè, che include come parte la totalità attuale
dell'oltrepassante) non può essere a sua volta oltrepassata, perché ciò che la
oltrepasserebbe sarebbe un oltrepassante non incluso nella totalità
dell'oltrepassante; e se l'oltrepassante (cioè l'incominciante) che oltrepassa
la totalità degli oltrepassanti non fosse a sua volta oltrepassato, esso
sarebbe quel contenuto impossibile che è, appunto (per quanto sopra esposto),
l'incominciante non-oltrepassabile. Poiché la terra oltrepassa anche
l'attualità dell'apparire del cerchio originario, sopraggiungendo in un cerchio
diverso, il contenuto incominciante che appare nel cerchio originario
dell'apparire attuale, è oltrepassato (infinitamente) in due direzioni: (a) In
quanto contenuto incominciante, esso è oltrepassato lungo il dispiegamento
infinito del contenuto attuale del cerchio originario (o, per utilizzare il suo
lessico, lungo la Gloria del dispiegamento infinito della terra che si inoltra
nel cerchio originario). Ma non è in quanto tale contenuto è attuale che esso
viene oltrepassato lungo il dispiegamento infinito del contenuto attuale. (b)
In quanto contenuto attuale (in quanto, cioè, alla sua attualità) il contenuto
incominciante è oltrepassato invece in un altro cerchioe in un'infinità di
altri cerchi dell'apparire. L'oltrepassante-incominciante, qui, entra
nell'apparire non attuale. Anche questa seconda direzione dell'oltrepassamento
è un dispiegamento infinito nella Gloria, ma, appunto, nella gloria che
consiste nell'infinito sopraggiungere, nel cerchio originario, della
costellazione infinita degli altri cerchi. La gloria è l'unità di queste due
dimensioni. La dimensione dell'essente, che incomincia cioè ad apparire nel
cerchio originario, è necessariamente oltrepassata da un'altra dimensione
dell'essente (perché l'incominciante non può incominciare ad appartenere
all'essenza dello Sfondo, non incominciante e non tramontante, del cerchio
originario); ma anche l'attualità dell'essente che incomincia ad apparireossia
anche l'apparire (che, in quanto tale, è apparire attuale) dell'essente che incomincia
ad apparireincomincia ad apparire, sì che (per lo stesso motivo) è
necessariamente oltrepassata in un altro cerchio dell'apparire; e anche la
sintesi tra l'attualità del cerchio originario e l'attualità in sé dell'altro
cerchio incomincia ad apparire nel cerchio originario, quando in esso
incomincia ad apparire ciò che ne oltrepassa l'attualità; e dunque (per lo
stesso motivo) tale sintesi è oltrepassata in un terzo cerchio (e, cioè,
l'attualità in sé dell'altro cerchio non è oltrepassata solo nel cerchio
originario, ma necessariamente in un terzo cerchio)e così all'infinito. In
definitiva, l'oltrepassamento dell'attualità di un cerchio non avviene solo
lungo la dimensione "verticale" del singolo cerchio, ma anche
lungoquella "orizzontale" della costellazione di cerchi del Destino.
L'oltrepassamento hegeliano, invece, conserva "idealmente", cioè
astrattamente, ciò che oltrepassa, e non realmente, determinandone la
distruzione. In un contesto siffatto è fondata l'impossibilità dell'esistenza
degli "altri", perché l'altro, che è il mio oltrepassante,
determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad una dimensione
puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza degli altri
significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi comunque
interna all'esistenza produttiva dell'unico io. Il nichilismo è un essente che
incomincia ad apparire, ed è quindi destinato ad essere oltrepassato. L'essente
che oltrepassa il nichilismo è l'essente che porta al tramonto l'isolamento del
senso delle cose dalla verità. Il nichilismo è, infatti, pensare e vivere le
cose come nulla in quanto delle cose non appare il legame alla struttura
originaria della verità, e quindi non appare l'eternità. L'essente, o la
dimensione di essenti, che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose
dalla verità è la gloria (cioè la manifestazione) della verità stessa.
L'ampiezza dell'isolamento non coinvolge solo il legame tra i singoli essenti e
la verità, ma anche il legame tra gli infiniti cerchi dell'apparire, il loro
passato e il futuro del percorso che la terra è destinata a compiere in essi.
Nella Gloria non si è il divino, perché il divino crea ed annienta le cose
anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell'errore perché
l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed eterno,
cancellarne l'identità. Il divino è, quindi, infinitamente meno della più
umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre il divino e oltre ogni forma di
mortalità, compresa la vita umana come credenza nel poter creare e annientare
gli essenti. Saggi: “La struttura originaria” (Brescia, La Scuola; Milano,
Adelphi); “Fichte” (Brescia, La Scuola, poi in Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi); Filosofia della prassi, Milano, Vita e Pensiero, Milano,
Adelphi); “Ritornare a PARMENIDE di VELIA” -- Rivista di filosofia
neoscolastica», poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano,
Adelphi, Ritornare a Parmenide. Poscritto -- «Rivista di filosofia
neoscolastica», poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano,
Adelphi, Essenza del nichilismo. Saggi, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi,
Gl’abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica (Roma, Armando,
Téchne); “Le radici della violenza” (Milano, Rusconi, IMilano, Rizzoli); “Legge
e caso, Piccola Biblioteca Milano, Adelphi,); “Destino della necessità. Κατὰ τὸ
χρεών, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “A Cesare e a Dio” (Milano,
Rizzoli, La strada, Milano, Rizzoli); “La filosofia antica” (Milano, Rizzoli);
“La filosofia moderna” (Milano, Rizzoli, “ Il parricidio mancato, Collana
Saggi. Milano, Adelphi, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a
Wittgenstein, Milano, Rizzoli, Traduzione e interpretazione dell'«Orestea»
d’Eschilo, Milano, Rizzoli, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano,
Adelphi, “Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Biblioteca Filosofica
n.6, Milano, Adelphi); “Antologia filosofica dai Greci al nostro tempo, Milano,
Rizzoli); “La filosofia futura” (Milano, Rizzoli); “Il nulla e la poesia. Alla
fine dell'età della tecnica: LEOPARDI, Milano, Rizzoli); “Filosofia. Lo
sviluppo storico e le fonti” (Firenze, Sansoni); “Oltre il linguaggio” (Milano,
Adelphi); “La guerra” (Milano, Rizzoli); “La bilancia” (Milano, Rizzoli); “Il
declino del capitalismo” (Milano, Rizzoli); “Sortite -- sui rimedi e la gioia”
(Milano, Rizzoli); “Metafisica” (Milano, Adelphi); “Pensieri sul Cristianesimo”
(Milano, Rizzoli); “Tautótēs, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, La
filosofia dai Greci al nostro tempo” (Milano, Rizzoli); “La follia dell'angelo”
(Milano, Rizzoli); “Leopardi -- Cosa arcana e stupenda” (Milano, Rizzoli); “La
tecnica” (Milano, Rizzoli); “La buona fede” (Milano, Rizzoli); “L'anello del
ritorno” (Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “Crisi della tradizione
occidentale” (Milano, Marinotti); “La legna e la cenere, ovvero,
dell’esistenza” (Milano, Rizzoli); “Il mio scontro con la chiesa” (Milano,
Rizzoli); “La Gloria. ἄσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di destino della necessità
(Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); “Oltre l'uomo e oltre Dio” (Genova,
Melangolo, Lezioni sulla politica. I Greci e la tendenza fondamentale del
nostro tempo” (Milano, Marinotti); Tecnica e architettura” (Milano, Cortina);
Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli); Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi,. Nascere. E altri problemi della coscienza (Milano, Rizzoli,
Milano, BUR,. Sull'embrione, Milano, Rizzoli, Il muro di pietra. Sul tramonto
della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli); Ricordati di santificare le feste”
(Milano, AlboVersorio); “L'identità della follia” (Milano, Rizzoli).
“Oltrepassare” (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Etica e Scienza”
(Milano, Editrice San Raffaele, Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, La
buona fede. Sui fondamenti della morale, Milano, Rizzoli, Volontà, fede e
destino, Grossi, Milano-Udine, Mimesis); L'etica del capitalismo e lo spirito
della tecnica, e sulla pena di morte, Milano, AlboVersorio, La ragione, la
fede, Milano, AlboVersorio, L'identità del destino. Milano, Rizzoli, Il diverso
come icona del male, Torino, Boringhieri, Democrazia, tecnica, capitalismo,
Brescia, Morcelliana, Discussioni intorno al senso della verità, Pisa, ETS, La
guerra e il mortale, Taddio, Milano-Udine, Mimesis. Macigni e spirito di
gravità. Riflessione sullo stato attuale del mondo, Milano, Rizzoli,. L'intima
mano, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Volontà, destino, linguaggio.
Filosofia e storia dell'Occidente, Perone, Torino, Rosenberg e Sellier,
Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana); Il mio ricordo degli eterni.
Autobiografia, Milano, Rizzoli,; Milano, BUR,. La bilancia. Milano, BUR, Del
bello, Milano, Mimesis,, La morte e la terra, Biblioteca Filosofica Milano,
Adelphi,. Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano,. Educare al pensiero,
Brescia, La Scuola,. Pòlemos, Milano, Mimesis, Intorno al senso del nulla,
Milano, Adelphi,. L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica. E la pena
di morte, Milano, AlboVersorio, La potenza dell'errare. Sulla storia
dell'Occidente, Milano, Rizzoli,. Il morire tra ragione e fede, Venezia,
Marcianum, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente ed
Occidente, Milano, Jaca, Sul divenire. Modena, Mucchi,. Piazza della Loggia.
Una strage politica, I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana,. In viaggio con
Leopardi. La partita sul destino dell'uomo, Milano, Rizzoli,. Dike, Biblioteca
Filosofica, Milano, Adelphi,. Cervello, mente, anima, Brescia, Morcelliana,
Storia, Gioia, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, Il tramonto della politica.
Considerazioni sul futuro del mondo, Milano, Rizzoli); “L'essere e l'apparire”
Brescia, Morcelliana, Dell'essere e del possibile, Milano, Mimesis,. Sulla
verità e la morte, Milano, Rizzoli, Il nichilismo e la terra, Milano, Mimesis,
Testimoniando il destino, Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi, Ontologia e
violenza. Milano, Mimesis, Aristotele, I principi del divenire. Libro primo
della Fisica (Brescia, La Scuola). Filosofo dell'eterno. Il mio ricordo
degl’eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli, “Parmenideo” -- VELIA, su la
Repubblica, Scianca, Addio a S.: ecco chi era il grande filosofo dell'essere,
su Il Primato Nazionale, Bovegno, il filosofo cittadino onorario, su giornale
di brescia «L'esperimento di Barzaghi è importante e va seguito con attenzione.
Immerso nell'alienazione, il cristianesimo è come una casa invisibile di cui
qualcuno dice, indicando un banco di nebbia: "Là c'è una casa". Che
cosa si riuscirebbe a vedere se la nebbia (l'alienazione) diradasse? Forse una
casa. Ma forse nulla. Nel primo caso, il cristianesimo avrebbe ancora qualcosa
da dire, e di grande» (S., Nascere. E altri problemi della coscienza
religiosa). «Rigoroso fino alla fine. Solo un po' più triste», in Brescia oggi,
Emanuele Severino, il tributo si celebrerà a Palazzo Loggia, in Bresciaoggi.
Ecco perché la giovane Italia va in malora", su il Fatto Quotidiano,
Odifreddi, La scienza sotto tiro, su la Repubblica, Fusaro e Didero,
Filosofico. Miligi et al., "Sguardo su S.", su filosofia.)
"filosofo poetante" cf. La Guerra, occorre riconoscere che le sue
posizioni, qualunque sia il giudizio che si pensa di dover dare su di esse, non
sembrano aver avuto, perlomeno fino ad ora, un vero e proprio seguito tra
coloro che si occupano professionalmente di filosofia.» (Cfr. Visentin, Il neo-parmenidismo
italiano. Le premesse storiche e filosofiche, Napoli, Bibliopolis)
Neo-parmenidismo, su filosofia. Se noi potessimo mai non essere, già adesso non
saremmo. La prova più certa della nostra immortalità è il fatto che noi ora
siamo. Perché ciò dimostra che su di noi il tempo non può nulla: in quanto è
già trascorso un tempo infinito. È del tutto impensabile che qualcosa che è
esistito una volta, per un momento, con tutta la forza della realtà, dopo un
tempo infinito possa non esistere: la contraddizione è troppo grossa. Su questo
si fondano la dottrina cristiana del ritorno di tutte le cose, quella induista
della creazione del mondoche si ripete continuamente a opera di Brahma, e dogmi
analoghi di Platone e altri filosofi.» (A. Schopenhauer) Sperduto, Vedere senza
vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena ed., Fasano di Brindisi,
"Ritornare a Velia", in Essenza del Nichilismo, Brescia, Aristotele,
Liber de Interpretatione, essenza del nichilismo, follia estrema ed
estremamente nascosta: la persuasione che gli essenti, in quanto tali, escano
dal loro non essere e vi ritornino: la persuasione che vi sia un tempo in cui
l'essente (prima di essere e dopo il suo essere) sia nulla, che il non niente
sia niente: la persuasione che è il culmine in cui si mantiene l'intera storia
dell'Occidente. Destino della necessità, Milano, Adelphi, L'alienazione
dell'Occidente. Quadrivium, Genova); “La struttura originaria, Milano, Adelphi,
Sito web Amadori F., Il libero arbitrio, "Filosofia" Antonelli,
Verità, nichilismo, prassi. Roma, Armando, Berto F., La dialettica della
struttura originaria, Padova, Poligrafo, Crapanzano, L'immutabilità del
diveniente. Roma, Gruppo Albatros Il Filo, Cusano, Capire S.. La risoluzione
dell'aporetica del nulla, Milano, Mimesis Cusano N., S. Oltre il nichilismo,
Brescia, Morcelliana,. Sasso, Dal divenire all'oltrepassare. La differenza
ontologica, Roma, Aracne, Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Tra attualismo e
metafisica” (Milano, Mimesis); Giovanni, Sul divenire. Gentile e S., Napoli,
Scientifica, Paoli, “Furor Logicus” (Milano, Angeli); Aporia del fondamento,
Napoli, Città del Sole); Fabro, L'alienazione Genova, Quadrivium, Goggi, Al
cuore del destino. Milano, Mimesis Goggi, Vaticano. Magliulo, Quaestiones
disputatae, Milano-Udine, Mimesis, Mauceri, La hybris originaria. Cacciari
Napoli-Salerno, Orthotes, Messinese, L'apparire del mondo. sulla struttura
originaria Milano, Mimesis, Messinese, Il paradiso della verità. Pisa, ETS,
Messinese, Stanze della metafisica. Carlini, Bontadini, Brescia, Morcelliana,.
Messinese, Né laico, né cattolico. S., la Chiesa, la filosofia, Bari, Dedalo,
Petterlini, Brianese e Goggi, Le parole dell'essere. Per S., Milano, Mondadori,
Poma, Necessità del divenire. Una critica a S., Pisa, ETS,. Saccardi, Metafisica
e parmenidismo – I veliani, Il contributo della filosofia neoclassica,
Napoli-Salerno, Orthotes,. Scilironi, Ontologia e storia, Abano Terme,
Francisci, Scurati, Pensare l'identità. Milano, Alboversorio, Simionato, Nulla
e negazione. L'aporia del nulla (Pisa, Plus); Soncini, Il senso del fondamento
in Genova, Marietti, Spanio, Il destino dell'essere. Brescia, Morcelliana,.
Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Fasano di
Brindisi, Schena, Sperduto, Maestri futili? Annunzio, Levi, Pavese, Roma,
Aracne, Sperduto, Il divenire dell'eterno. Su S. (ed ALIGHIERI), Prefazione di
Messinese, Roma, Aracne,. Testoni, S., La follia dell'angelo, Milano, Mimesis,
Tarca, Verità, alienazione e metafisica. Rilettura critica della proposta filosofica
di S., Treviso, Mevio Washington, Valent, Cura e salvezza. Saggi dedicati,
Bergamo, Moretti & Vitali, Visentin M., Tra struttura e problema. Note
intorno al pensiero di E. Severino, Venezia, Marsilio [ora in Il
neoparmenidismo italiano, Dal neoidealismo al neoparmenidismo, Napoli,
Bibliopolis, Metafisica Ontologia Episteme Nichilismo Leopardi Velia Valent
Galimberti. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Associazione spazio
interiore ambiente, Ursini. EMANUELE SEVERINO LA POTENZA DELL'ERRARE Sulla
storia dell'Occidente Alle radici della storia dell’Occidente, in concetti come
azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione più profonda della verità,
ossia l’estremo disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una
ricchezza rimanendo impoveriti. A questo principio cruciale della filosofia di
Emanuele Severino è dedicato questo libro che, parlando di arte, cristianesimo,
politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del nichilismo, il più
potente dei meccanismi dell’errare. Quando si parla di “nichilismo”» scrive
l’autore si intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre,
solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato
come un fatto che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.»
Queste pagine ci esortano invece a prestare ascolto alla spinta che ha
provocato l’inevitabile accadere della resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino
allo stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela il
meccanismo oscuro che culmina nel rovesciamento del mezzo in scopo. Il
risultato è un’analisi che porta allo scoperto come lo “scambio delle parti”
derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e che dimostra
— con nuovi scorci e riferimenti — come la malattia nascosta (il culmine
dell’errare) sia la persuasione che le cose siano nulla, e il viverle come un
nulla. Accademico dei Lincei, è autore di saggi fondamentali. Scrive
regolarmente sul “Corriere della Sera”. Tra i suoi sagi più famosi ricordiamo
l’autobiografìa 1/ mio ricordo degli eterni (Rizzoli, ora in BUR), Capitalismo
senza futuro (Rizzoli) e Intorno al senso del nulla (Adelphi) e La potenza
dell’errare Sulla storia dell’Occidente RCS Libri S.p.A., Milano. In copertina:
Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Andrea Cavallini /
f/zeWorldo/DOT rizzoli.eu La potenza dell’errare. Per richiamare e introdurre
Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di processi in cui il mezzo
di cui ci si serve, agendo in modo più o meno complesso, diventa lo scopo (il
nuovo scopo) di tale agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare
il nuovo scopo. Si può dire che tale rovesciamento è uno scambio delle parti.
Altri saggi di S. si rivolgono a questo tema. La sezione prima del saggio
intende tuttavia mettere in luce la relazione tra alcuni luoghi apparentemente
distanti in cui quel rovesciamento si manifesta: arte, cristianesimo, politica,
diritto, economia. Ma intende anche richiamare che alla radice non solo di tale
rovesciamento, ma dello stesso rapporto tra mezzo e scopo, cioè dello stesso
concetto di azione-volontà-potenza si trova Yalienazione più profonda della
verità, ossia il disfarsi della verità, in modo estremo, da parte della storia
dell’Occidente. Disfarsi, nel senso in cui ci si disfa di una ricchezza
rimanendo impoveriti, disfatti. Appunto per questa alienazione il rovesciamento
in cui consiste lo scambio delle parti di cui si è detto appartiene all’
essenza del nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione prima). Tale
essenza è il più potente dei meccanismi delVerrare. Quanto più l’errore è
profondo, tanto più è cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa.
Non può quindi esistere un potenza buona e una cattiva: la potenza è, in quanto
tale, errare e ferrare è la forma originaria di ogni violenza e malvagità.
L’impotenza, tuttavia, non è altro che la volontà di potenza fallita,
frustrata. E la potenza ottenuta e vincente è soltanto l’ illusione di aver
ottenuto e di aver vinto. L’essenza del nichilismo esprime nel modo più
radicale un evento che è essenzialmente più profondo di ogni peccato originale.
L’illusione estrema è la fede (posseduta da uomini e dèi) di avere la potenza
di condurre le cose dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. È però possibile
parlare di errare e di errore, di alienazione della verità, solo se la verità
appare, solo se si manifesta ciò che è opportuno chiamare destino della verità
per indicare qualcosa il cui contenuto è abissalmente diverso da tutto ciò che,
lungo Vintera storia dell’Occidente, è stato chiamato verità. Il capitolo VI
della sezione prima richiama appunto la configurazione di fondo di tale
diversità. Con questo si sta insieme dicendo che l’alienazione della verità non
è soltanto un evento che appartenga alla storia del pensiero filosofico, ma è
il terreno in cui vanno via via crescendo le opere, le istituzioni, le res
gestae - e quindi anche, e certo innanzitutto, le molteplici forme culturali -
dell’Occidente e quindi anche ogni historia rerum gestarum. E forse è il caso
di avvertire già qui che, anche queste pagine, per lo più, intendono parlare
delle cose segrete, delle più segrete, a lettori che non hanno la filosofìa in
cima ai loro pensieri giacché le cose più segrete sono peraltro manifeste, e in
piena luce, nel più profondo di ogni uomo (e forse non solo), ed è inevitabile
che trapelino nel deserto in cui l’uomo è gettato dall’alienazione della
verità. La forma in cui oggi culmina lo scambio delle parti rimane quella che
altre volte ho indicato, cioè il rapporto con la tecnica, dove tutte le forze
oggi dominanti (i luoghi indicati all’inizio) sono destinate ad assumere come
scopo l’aumento indefinito della potenza, lo scopo cioè nel perseguimento del
quale la tecnica consiste (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, Rizzoli 2012).
Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e accompagnata da altre forme dove tale
scambio si costituisce tra quelle forze stesse (ognuna peraltro destinata alla
fine, come si sta dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo scopo che subordina
a sé gli altri e ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza). Ad
esempio: lo scambio esistente tra felicità e verità - per cui dapprima la
verità viene ricercata per essere veramente felici e poi si vuole esser felici
per poter contemplare la verità con una felicità diversa da quella che serve a
produrre tale contemplazione (cfr. E.S., La buona fede, Rizzoli 1999, 5-6;
Dall’islam a Prometeo, Rizzoli 2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si
produce tra cristianesimo e arte cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra
individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro - lo scambio
marxiano, questo, che ripropone lo scambio aristotelico tra economia e
crematistica (dove l’uso del denaro non ha come scopo l’acquisto e il consumo
della merce, ma l’aumento indefinito del denaro stesso). In generale: nella
storia dell’Occidente la verità sta alla felicità come l’arte cristiana sta al
cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno all’individuo, come il denaro sta
alla merce, come la tecnica sta al diritto (naturale e positivo) e, infine, sta
a tutte le forze che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo
per realizzare i loro scopi. Il primo termine di queste coppie è ciò che,
assunto inizialmente come mezzo per realizzare il secondo termine, diventa lo
scopo di quest’ultimo, che diventa il mezzo. Come volontà di aumentare
aU’infinito la propria potenza, e riuscendo a essere la potenza suprema, cioè
vincente su ogni altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere
planetario, destinato quindi a subordinare a sé ogni forma politica dello Stato
e ogni trust sovranazionale che sul fondamento della potenza economica sia
riuscito a subordinare a sé tale forma. L’Apparato è cioè destinato a
costituirsi come Superstato planetario, essenzialmente diverso dalle logiche
politiche che hanno condotto a organizzazioni internazionali come la Società
delle Nazioni e l’Onu. La forma politica dello Stato nasce come scopo che gli
individui o i gruppi sociali si danno per sopravvivere, rinunciando ai propri
impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo iniziale) e
riconoscendo nello Stato il monopolio legittimo della violenza-potenza. In modo
analogo, la conflittualità oggi esistente tra gli Stati (che ripropone il bellum
omnium contro, omnes) spinge verso la forma estrema di Superstato, il Leviatano
supremo in cui consiste l’Apparato della tecnica (e di cui il Duumvirato
Usa-Urss è stato una prima, ancora acerba ma significativa anticipazione). Esso
riesce a essere il supremo monopolio legittimo della potenza quando riesce a
comprendere il senso autentico della propria potenza perché sente la voce del
pensiero filosofico che mostra fimpossibilità di ogni Limite assoluto all’agire
dell’uomo e quindi all’agire tecnico, che più di ogni altra forza è capace di
oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella voce, l’Apparato ha la
capacità di mostrare l’illegittimità di ogni Limite assoluto e di ogni altra
forma di potenza. Anche ma non solo in questo senso la filosofia è la madre
della potenza estrema. Ancora una volta la filosofia degli ultimi due secoli -
e propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più inesplorato (cfr.
sezione prima, cap. II) - è il fondamento della più grande trasformazione
storica del pianeta: quella appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia
la coscienza della propria forza, riesce a subordinare a sé ogni altra forza.
Questa, sommariamente indicata, è la configurazione complessiva di ciò che
abbiamo chiamato scambio delle parti e dell’alienazione nichilistica della
verità che sta alla radice di esso. Ad alcune delle forme di tale scambio si
rivolgono queste pagine. Quando si parla di nichilismo si intende per lo più il
crollo dei valori tradizionali. Inoltre, solitamente, il 10 nichilismo è una
crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto che accade, ma che
sarebbe potuto o potrebbe non accadere. Questo libro mette appunto in risalto
(richiamandosi ad altri miei scritti) l’incapacità di prestare ascolto alla
spinta che lo ha fatto inevitabilmente accadere, e al significato di questa
inevitabilità. Ma mette in risalto anche qualcosa di ben più decisivo, giacché
la definizione usuale di nichilismo, nonostante la sua visibilità, è soltanto
una conseguenza del senso autentico, ossia di ciò che abbiamo chiamato Yessenza
- peraltro nascosta del nichilismo. Inutile ogni rimedio se si ignora la natura
della malattia. La malattia nascosta (il culmine dell’errare) è la persuasione
che le cose siano nulla, e il viverle come un nulla. Tanto più profonda, la
malattia, quanto meno si riconosce di esserne affetti. Ma una volta accertata
la vera malattia anche il senso del rimedio mostra un volto essenzialmente
diverso. Questo tema sta al centro di tutto il mio lavoro filosofico, ma è
prevalentemente accessibile a chi ha già una certa confidenza con il pensiero
filosofico. Come già ho accennato, questo libro intenderebbe invece coinvolgere
nella riflessione su questo tema - che è la radice più profonda di ogni
attualità - i lettori che tale confidenza non hanno. Intenderebbe, appunto,
avvicinarli all’essenza del nichilismo e della potenza - quindi al destino
della verità, cioè allo stare autenticamente oltre tale essenza. Il linguaggio
di queste pagine proviene da un gruppo di scritti (alcuni inediti e altri
rielaborati), pubblicati prevalentemente sul Corriere della Sera e sul
settimanale Liberal. Il tema di S. si rivolge alla poesia di Dante e di
Leopardi può lasciare perplessi. Il fiore! Che serietà può avere rivolgersi
alla poesia - e per di più con un’immagine così scontata come il fiore - in un
tempo tragico ed enigmatico come il nostro, dove i popoli poveri intendono non
essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi e dove la tecnica sta avviandosi al
dominio su tutte le altre forze della civiltà? La lotta contro il dolore e la
morte si è fatta troppo dura perché sia ancora lecito rivolgersi alla poesia e
ai fiori. Ma dobbiamo subito chiederci qui: la poesia non ha proprio nulla a
che vedere con la lotta contro il dolore e la morte? È così scontato che la
poesia appartenga al regno del superfluo? Queste domande non intendono alludere
al luogo comune che, dopo aver chiuso la poesia nella dimensione dell’estetica,
crede che la poesia sia qualcosa di indispensabile per le anime belle. Oggi,
indebolendosi, la poesia è diventata anche questo. Ma alVorigine la poesia
appartiene invece al gesto essenziale che l’uomo compie contro il dolore e la
morte. Appartiene al rimedio essenziale. In principio, il gesto e il rimedio
essenziale sono la festa arcaica. All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò
che in seguito si separa e diventa canto, mito, rito, danza, poesia, arte,
sapienza, saggezza, filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S., Dall’islam a
Prometeo, cit., 8). Quanto più la poesia si allontana dall’originaria casa
festiva, tanto più si indebolisce e diventa oggetto di godimento estetico -
cioè qualcosa che può certamente sembrare superfluo rispetto ai bisogni primari
dell’uomo. E invece, nell’antica lingua greca poesia - poìesis - significa
produzione. La poesia appartiene cioè all’ambito della potenza. Come gli altri
fattori della festa. Anche in seguito la grande poesia conserva le tracce di
quell’antica potenza. Nel canto XIX del Paradiso (w. 22-24) Dante si rivolge
così ai beati: O perpetui fiori de l’eterna letizia, che pur uno parer mi fate
tutti i vostri odori. Sono, i beati, i perpetui fiori della letizia divina.
Fioriscono dall’albero della letizia eterna, che li unisce in modo che i loro
odori, per i quali essi si distinguono l’uno dall’altro, paiono e sono tuttavia
un unico profumo: pur uno. Mezzo millennio dopo, Leopardi compone La ginestra o
il fiore del deserto. Rivolgendosi alla ginestra il canto dice (w. 32-37); Or
tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni
altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il
deserto consola. Il riferimento a Leopardi e a questo suo canto può sembrare
estrinseco. Eppure il pensiero di Leopardi porta al tramonto l’universo in cui
si muove il pensiero di Dante. Leopardi, prima ancora di Nietzsche, e nel modo
più radicale, mostra l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni
eterna letizia. Non si tratta dell’opinione, della fantasia, del sentimento di
un poeta infelice e deluso. Leopardi, come altrove ho mostrato, apre la strada
della filosofia del nostro tempo: un percorso inevitabile che tuttora è in
attoed è la radice del distacco del nostro tempo dalla grande tradizione
occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero filosofico dei
Greci. Di questa radice Dante è pienamente e potentemente consapevole. Quando
all’uomo non basta più la letizia della festa arcaica, nasce la letizia della
filosofia, che per i Greci è la massima di cui l’uomo possa godere sulla terra.
Ma, in precedenza, la festa è il primo rimedio c ontro la paura del dolore e
della morte perché è l ’immagine della lotta umana contro di essi. Nella festa
l’uomo si identifica a questa immagine. L’immagine si solleva e si libra al di
sopra della lotta: già per questo librarsi si sente libera dal pericolo e dalla
paura, ossia è vittoria, lotta vincente, godimento della salvezza. La paura che
è vinta dalla festa è più originaria e angosciante della paura di chi, ormai
all’interno del regno della ragione e della fede cristiana ha paura perché si è
allontanato dalle leggi divine, dalla diritta via della salvezza. Lo dice anche
Dante all’inizio deìYInferno. La selva oscura è la lontananza da Dio, dalla
quale proviene la paura; ma questa selva paurosa Tant’è amara che poco è più morte.
( Inferno, I, v. 7) È tanto amara che la morte è poco più amara. Il che vuoi
dire che la paura della morte è ancora più amara della paura suscitata dalla
lontananza di Dio. È questa ancor più amara paura a essere inizialmente vinta
dalla festa arcaica. Il deserto della morte è dunque ancora più originario del
gran diserto (Ibid., v. 64) della selva dove Dante incontra Virgilio. La paura
che non è ancora raggiunta e vinta dall’evocazione dell’immagine festiva è
essenzialmente più radicale di quella di chi, dopo aver abitato quell’immagine,
se ne è allontanato credendo di trovare altrove il rimedio, e teme le
conseguenze di questo suo gesto - e tuttavia, anche e proprio per questo suo
timore è pur sempre in rapporto con la dimensione festiva e salvifica. Di quel
più originario e pauroso deserto, da cui l’uomo ha sempre tentato di salvarsi,
parla il canto della Ginestra. Il fiore del deserto il deserto consola. Nel
mondo di Dante i perpetui fiori dell’eterna letizia sono lo stato più alto
dell’uomo. Ma Leopardi vede l’impossibilità di questa letizia: dal deserto che
è il regno della morte non si può uscire. La ginestra è il poeta stesso; il
poeta è insieme il filosofo; il genio è l’unità di poesia e filosofia, e questa
unità è lo stato più alto che l’uomo può raggiungere prima di essere afferrato
dal nulla della morte (e dopo che la tecnica ha invano tentato di salvarlo).
Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo, effimero paradiso terrestre;
sa di essere il genio. Il genio della ginestra consola il deserto perché sa che
non ci si può salvare dal deserto della morte. La consolazione consiste nella
poesia pensante, nel pensiero poetante. (Cfr. E. S., Il nulla e la poesia. Alla
fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli 1990 e Cosa arcana e stupenda. L’Occidente
e Leopardi, Rizzoli 1997). Nell’incontro di Dante col cielo, all’inizio del
viaggio nell’oltretomba, la parola consolazione è invece assente in quanto
riferita alla paura del poeta. Dal cielo giunge per lui la salvezza. Quando
Virgilio glielo dice, Dante si sente come i fiori che escono dal gelo notturno
- e questo suo stato è la prima prefigurazione della rosa dei beati: Quali i
fioretti, dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li imbianca si
drizzan tutti aperti in loro stelo tal mi fec’io.(Inferno) Dalla paura del gelo
notturno al calore eterno - un sol calar di molte brace -, da cui si leva
l’unico odore dei fiori dell’eterna letizia. Volendo essere il rimedio contro
la paura originaria del dolore e della morte, la festa arcaica vuol essere
sempre più potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e
oggi si presenta come civiltà della tecnica. Potenziamento crescente della
festa, che è potenziamento delfimmagine festiva della lotta in cui la vita
consiste. Il potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due vie: quella
del contenuto delfimmagine e quella della forma, cioè del modo in cui
l’immagine esprime il contenuto. Ma appunto perché la potenza originaria della
festa sdoppia la via della propria crescita, appunto per questo l’originaria
potenza festiva si indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il sorgere e
l’articolarsi del mito; il potenziamento della forma è il sorgere e
l’articolarsi di ciò che sarà chiamato arte, poesia, tecnica. Gli abitatori originari
della casa festiva tendono a separarsi e la separazione diviene violenta e
irreparabile quando il contenuto sapienziale del mito non sa resistere alla
propria volontà di sapienza e diventa lògos, ragione, filosofìa. Il mito,
infatti, vuole sapere per salvare. Ma la volontà di salvezza è massimamente
esigente: richiede che il sapere sia capace di resistere a qualsiasi dubbio; e
ciò che possiede in modo assoluto questa capacità è la verità, intesa come i
Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere che non può essere in
alcun modo smentito. Questo il senso della verità che, lungo l’intera
tradizione dell’Occidente, giunge fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In
questo senso della verità il pensiero di Dante è essenzialmente immerso, e in
modo pienamente consapevole. È questo senso radicale della verità a separarsi
dal mito e a scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e
dunque l’indebolimento degli abitatori dell’antica casa festiva. Li separa da
sé e gli uni dagli altri. Separati, è inevitabile che si trovino estranei gli
uni agli altri, dunque sostanzialmente in conflitto e pertanto privati della
forza a essi conferita dalla loro unità originaria. Arte, poesia, tecnica,
sapienza incominciano a vivere di vita propria. La loro capacità di salvare dal
dolore e dalla morte si prolunga, ma indebolita. Pochi oggi credono che la
poesia o la filosofia possano salvare dal dolore e dalla morte. E il discorso
può essere esteso in consistente misura alla religione. Eppure, per quasi due
millenni e mezzo la verità evocata dalla tradizione filosofica è la via lungo
la quale procede non solo Finterà cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente.
È la diritta via, la verace via di cui parla Dante. Nascendo, la filosofia
porta alla luce la forma estrema di ciò che per il mortale è il pericolo:
intende il dolore come l’andare nel nulla da parte dei piaceri, e la morte come
l’andare nel nulla, da cui non c’è ritorno, da parte della vita intera. E per
poter così intendere il dolore e la morte la filosofia deve pensare il
significato radicale del nulla e dell’essere. La filosofia salva il mortale
perché essa crede che la verità esiga che quanto più conta, nella vita
dell’uomo, sia già da sempre salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o
addirittura sia quell’Essere, già da sempre salvo dal nulla, che è il divino.
In questa concezione del divino si inserivano l’esperienza cristiana e la
riflessione teologica su di essa. Dante è uno dei massimi testimoni di questa
inscrizione. Ma i testimoni non aggiungono alcunché al testimoniato. Questo
significa che Dante non è soltanto un testimone. Si sa che il concetto che
Dante possiede della poesia va in direzione opposta al suo fare poetico. Egli
non fa quel che pensa. Pensa che la poesia sia soltanto bella menzogna qualora
non si faccia banditrice del vero, testimone della verità che sta nascosta
sotto il velame della favola e il favoloso e ornato parlare. Dante pensa della
poesia quello che pensa Platone. E anche di tutto il gran volume della sapienza
greco-latina- cristiana - comprendente anche la configurazione dell’oltretomba
e i viaggi che in esso si possono compiere -, anche di tutto questo egli pensa,
nella sostanza, quel che è già stato pensato, per quanto rilevanti siano alcune
sue prese di posizione. Scrive allora la Commedia solo per esprimere in un
favoloso e ornato parlare la verità già pensata da altri? Per questo impegna e
consuma tutta la sua vita? Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di
essenzialmente più decisivo. Anche senza rendersene conto, con la Commedia egli
intende produrre la nuova immagine salvifica della festa: intende rinnovare la
festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il dolore e la morte.
Questo suo gesto scuote fino alle radici il grande albero della tradizione. Che
Dante scriva la Commedia significa cioè che per lui la grande sapienza della
tradizione greco-cristiana e la stessa vita a essa conforme hanno una potenza
salvifica inferiore a quella della dimensione dove la verità e la vita adeguata
alla verità sono il contenuto del canto e della poesia. Bella menzogna e velame
della favola, la poesia, quando il suo contenuto non è la verità; ma più
potente della nuda verità quando, avendo come contenuto la verità, le
conferisce una potenza salvifica ben superiore a quella che la verità possiede
di per sé sola. La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli
indotti. La difesa di Dante della lingua volgare, su cui egli fa crescere il
proprio linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente letterario o astrattamente
culturale, ma esprime la coscienza che ad attendere e a tendere alla salvezza
della verità sono tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti,
possono identificarsi a quella rinnovata immagine festiva, che è la verità
della filosofia, solo se tale immagine si presenta non nella sua cruda e
astrale concettualità, ma, attraverso un ulteriore rinnovamento, con le parole
terrene della poesia. Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia,
il cristianesimo), Dante fa cenno all’antica festa di ritornare presso i
mortali. Ciò significa che troppo flebile rimembranza è per lui la liturgia
cristiana - in cui peraltro si sente ancora forte l’eco della festa arcaica.
Dante pensa che dalla poesia non possa separarsi la festa della verità e della
cristianità - cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria
salvezza e la propria destinazione all’eterna letizia. La liturgia cristiana
deve diventare liturgia poetica. Questo pensiero di Dante non si mantiene
dunque sotto la protezione della cattedrale del passato: scava a fondo nel
terreno del suo tempo e sbuca in un altro emisfero. In tale pensiero si dice
che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva come unità di poesia e di
filosofia. Dante non si limita a essere un grande testimone della situazione
dove lo scopo dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente
concretantesi e la vita a essa adeguata: al di là delle sue convinzioni sulla
poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la poesia come fattore indispensabile
all’immagine festiva che consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte.
Certo, la poesia è terrena; a differenza della nuda verità parla, oltre che ai
sapienti, anche agli indotti; mentre nella letizia eterna del paradiso nessuno
è indotto. Nell’eterna letizia la poesia, in quanto indispensabile alla verità,
è cioè destinata a scomparire come scompare la fede - giacché la fede è
l’assenso alle cose che non si vedono (non apparentia, dice l’apostolo Paolo),
mentre nel paradiso le cose si mostrano e non hanno bisogno della fede. Ma
perché qui, sulla terra, si libri l’immagine festiva e salvifica è necessario
che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche
la poesia. E Dante è pur sempre un essere terreno quando giunge al cospetto dei
fiori dell’Eterno e della candida rosa. Rispetto alla verità che si mostra nel
paradiso, le forme visibili della rosa sempiterna dei beati - Il fiume e li
topazii / ch’entrano ed escono e il rider de l’erbe ( Paradiso) - sono forme
esterne, preamboli, prefazioni - prefazi - della loro verità, che in qualche
modo esse coprono d’ombre (son di lor vero umbriferi prefazi, ibid., v. 78),
mentre i beati la contemplano in sé stessa. Ma nella condizione terrena -
all’interno della quale Dante pur sempre rimane compiendo il suo viaggio
nell’oltretomba - è l’ombra terrena della poesia a illuminare la sapienza del
contenuto, a rendere potente l’immagine che salva: a rendere potente la sua
forza salvifica e a rendersi quindi indispensabile alla potenza dell’immagine:
E vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di
mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogni parte si
mettean ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive. Poi, come inebriate da li
odori, riprofondavan sé nel miro gurge; e s’una intrava, un’altra n’uscia fòri.
Come semplice verità della ragione e della fede, l’immagine terrena della
beatitudine del paradiso impallisce e dunque non dispiega la propria potenza
salvifica se i beati non appaiono insieme nelle forme della poesia: come i
perpetui fiori dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del
cielo, formano le due rive, dipinte di mirabil primavera, del fiume, fulvido di
fulgore, da cui escono di continuo le scintille degli angeli della vita eterna,
api che sui fiori depongono rubini nell’oro e che restano a loro volta
inebriate da li odori. Imponendo la propria presenza alla liturgia sacra, la
liturgia poetica, si è detto, scava nel terreno del tempo in cui Dante vive - e
sbuca in un altro emisfero. Di che cosa si tratta? La Commedia apre uno spazio
nel quale lo scopo del mortale è l’immagine festiva dove la poesia si unisce
alla filosofia - e dove la sophla si dispiega nel kérygma cristiano. Anche se
Dante deve chiamare commedia e non tragedia il proprio poetare cristiano,
tuttavia la commedia, sulla scia della tragedia attica intende riproporre il
clima della festa arcaica - sebbene ormai la festa non possa più prescindere
dalla filosofìa, che è peraltro il principio della separazione degli abitatori
della casa festiva. Dante pensa come scopo dei mortali la festa, nella forma
poetica della commedia filosofico-cristiana. (La tragedia infatti si arrende al
dolore e alla morte, dice Platone nel libro X della Repubblica e quindi è la commedia
la forma poetica adeguata all’eterna letizia cristiana). San Pietro gli dice: E
tu, figliuol, che per lo mortai pondo ancor giù tornerai, apri la bocca, e non
asconder quel ch’io non ascondo. (Paradiso, XXVII, w. 64-66) Il riferimento
immediato è alla corruzione della Chiesa, ma il contesto imprescindibile di
tale riferimento è tutto il contenuto della Commedia : su tutto questo
contenuto Dante è convinto di dover aprire la bocca e non nascondere quel che
in cielo non è nascosto. Non nasconderlo è proclamarlo appunto scopo dell’uomo.
E se lo scopo è il dispiegarsi dell’immagine festiva, nella quale il contenuto
filosofico- cristiano deve stare unito alla poesia, allora, questo contenuto,
in quanto separato dalla poesia, non è più lo scopo a cui l’uomo deve mirare.
Ma quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al messaggio
cristiano, è soprattutto questo messaggio a parlare alle genti, e a dir loro
che la salvezza si ottiene seguendo Gesù e nient’altro. Ogni altro che si
voglia seguire è un secondo padrone; e non si possono servire due padroni.
Quaerite primum regnum Dei. Il messaggio cristiano non dice di tendere
all’unità del regno di Dio e della poesia. La primarietà che compete al regno
di Dio in quanto scopo non include la poesia. La bella menzogna della poesia,
il velame della favola poetica, il favoloso e ornato parlare non sono necessari
per andare in cielo. La Commedia di Dante, già con la sua semplice esistenza,
intende invece mostrare che il viaggio dalla terra al cielo è autentico solo se
è avvolto, espresso, sorretto dalla poesia. Unita alla filosofia cristiana, la
poesia salva. In quanto separato dalla poesia, il contenuto
filosofico-cristiano cessa quindi di essere lo scopo: diventa, nella Commedia,
il mezzo per poter cantare la verità, cioè per raggiungere quello scopo che è
l’unità della verità e del canto. Cercate per prima l’unità del regno di Dio e
della poesia. Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva. Questo è lo
straordinario pensiero di Dante - anche se in lui tale pensiero può aver
evitato di guardare in faccia sé stesso. Tale pensiero è infatti la perentoria
negazione del mondo sapienziale e morale - cioè della filosofia e del
cristianesimo - che pure è cantato nella Commedia. Nel pensiero di Dante la
salvezza può presentarsi all’uomo in un’immagine salvifica che dev’essere
guidata da due padroni, cioè dal mondo cristiano e dalla poesia; e pertanto il
mondo cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come indipendente e
separato dalla poesia, non appartiene allo scopo dell’esistenza. Tale mondo può
essere cioè presente solo come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di
mondo cristiano e di poesia, e dunque resta negato, essenzialmente negato,
nella sua pretesa di essere l’unico padrone a cui l’uomo debba affidarsi - che
è la pretesa evangelica. La Commedia si rivolge al divino - al salvifico - per
cantarlo; non canta per rivolgersi al divino. Non canta per rivolgersi al
divino, inteso come l’unico padrone che si serve della poesia per mostrare la
propria gloria al di sopra di tutto, anche della poesia. Così inteso, il divino
non salva. Certo, il canto della Commedia canta il divino, ma, appunto, è il
divino che appare nella sua inscindibile unità alla poesia - e che è salvifico
solo in quanto è cantato. Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta
la grande arte cristiana, da Giotto a Bach e oltre ancora, lungo un processo
dove il divino diventerà sempre di più il pretesto perché il canto si levi come
unico padrone di ciò che rimarrà dell’immagine festiva sapienzialmente e
religiosamente salvifica. Diventa sempre più intenso e perentorio il processo
in cui, per il grande artista cristiano, al di sopra di tutto - anche al di
sopra del messaggio di Gesù - finisce con Tesserci l’arte; nell’arte egli vede,
sempre di più, la salvezza. Quando non si sentirà più cristiano, l’artista
crederà di essere lui il vero creatore del mondo. La negazione oggettiva -
ossia non intenzionale - del mondo sapienziale della tradizione greco-
cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della dominazione di tale
mondo. Sussiste, questa dominazione, anche quando le forze della terra, specie
quelle pratico- economico-politiche agiscono in direzione contraria alla
sapienza e alla morale filosofico-cristiana. Anche questo agire è una negazione
di tale sapienza, ma è una negazione che avviene alTinterno del riconoscimento
esplicito, da parte dei potenti, che tale sapienza è l’inviolabile guida del
mondo. È quindi una negazione in malafede. Video meliora proboque, deteriora
sequor. Invece la grande arte cristiana, dunque anche la poesia di Dante, non
nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché ancora non sa o
ancora non rende esplicito che il suo sentirsi indispensabile a tale sapienza,
e alla evocazione delfimmagine salvifica, è in effetti la negazione perentoria
del modo in cui il cristianesimo, cresciuto sul tronco della filosofia greca,
intende sé stesso. È una negazione che dal sottosuolo preme sul pavimento della
coscienza, ma che ancora non lo frantuma e non si rende visibile. L’anima
riceve vita. Negazione perentoria ma implicita, dunque; e non solo implicita ma
an che soltanto sentita, voluta, vissuta, cioè senza sostegno e fondamento che
non sia appunto la prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si
contrappone al vecchio, sapienziale - il vecchio modo che però ha alle proprie
spalle il fondamento costituito dalla grande tradizione filosofica. Per quanto
innovatrice, la negazione della verità della tradizione, da parte della poesia
e dell’arte, attende ancora che venga alla luce la necessità di lasciarsi alle
spalle la verità che la filosofìa ha portato alla luce e in cui si manifesta il
vero senso del divino. Nel tempo del dominio della verità filosofico-cristiana,
l’arte cristiana apre la porta alla morte di Dio, ma senza ancora sapere quel
che sta facendo e senza riuscire a scorgerne la legittimità e la necessità. È
Nietzsche a parlare della morte di Dio - e a fondarla (cfr. sezione prima, cap.
V). Ma è innanzitutto il pensiero di Leopardi a scorgere questo fondamento a
mostrare la necessità di questa morte, cioè Yimpossibilità di ogni eterno, di
ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna letizia. Nonostante
tutto, la gigantesca potenza filosofica di Leopardi rimane oggi ancora celata,
sebbene fosse stata intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca
potenza, qui, non si può dir nulla di determinato e pertanto rinvio ancora una
volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il nulla e la poesia: Leopardi; e
Cosa arcana e stupenda. Si deve però richiamare che il carattere indissolubile
dell’unità di poesia e filosofìa, al quale Dante guarda per primo nel mondo
cristiano, forma uno dei temi più esplicitamente, potentemente e diffusamente
presenti nel pensiero di Leopardi. Ma è presente nella sua innegabile necessità
- cioè appoggiandosi al fondamento, di cui qui sopra si parlava, che invece è
assente nella negazione del mondo sapienziale cristiano da parte dell’arte
cristiana e dunque della poesia di Dante -, cioè nella negazione che è soltanto
volontà di negazione, soltanto volontà di autoaffermazione. E va aggiunto che
l’unità di poesia e filosofia è presente nel pensiero di Leopardi con il senso
radicalmente nuovo che la filosofia assume quando essa si rende conto delfimpossibilità
della verità e del divino evocati dalla tradizione dell’Occidente. Leopardi
mostra per primo, aprendo la strada della filosofia del nostro tempo, che
l’uomo non può salvarsi dal nulla. La verità, ora, è questa, terribile. Ci si è
anche rallegrati, nella cultura degli ultimi due secoli, della morte di un Dio
divenuto più angosciante della paura da cui egli avrebbe dovuto liberare.
Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci si rende conto che nessuna
opera umana potrà mai salvare l’uomo dal nulla. Il contenuto del mito consente
al mortale di sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che,
sebbene unito agli altri tratti dell’immagine festiva, più le conferisce la
potenza salvifica e dunque la letizia per la quale la festa si configura come
lo scopo supremo del mortale. La filosofia porta il mito al tramonto, ma nella
tradizione dell’Occidente ne diventa anche l’erede. La filosofìa della
tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola significa appunto
festa. Ma quando la filosofia scorge, e innanzitutto nel pensiero di Leopardi,
che la verità innegabile è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla,
allora la verità della filosofia non può più dare alcuna letizia. Leopardi vede
dapprima che la conoscenza della verità rende estrema e insopportabile
l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale può esserci, sia pur breve, un
tempo di letizia, cioè di festa, questo deve nascondere la verità e non essere
altro che bella menzogna - che dunque può essere solo umbrifera, apportatrice
di ombre che oscurano e che non possono essere, come in Dante, prefazii della
verità. Ma dopo questo primo modo di intendere la poesia Leopardi si avvede
anche, ben presto, che ormai non solo rintelletto, ma nemmeno la fantasia può
lasciarsi ingannare dalla poesia e che dunque è inevitabile che anche e
soprattutto nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato di questa
consapevolezza è che l’unico tratto festivo e caducemente salvifico concesso al
mortale è la potenza con cui la poesia esprime la nullità dell’uomo. Il genio è
il produttore: gignens. Genera quanto ormai, eco lontana, è possibile
ripristinare dell’immagine salvifica della festa. Volgendosi all’opera del
genio, - dice Leopardi nel pensiero 259-61 dello Zibaldone - l’anima riceve
vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte
perpetua delle cose e sua propria. Questa vita è appunto quanto rimane
dell’antica letizia della festa - le opere del genio, scrive Leopardi in quel
pensiero dello Zibaldone, riaccendono l’entusiasmo, sono consolazione che apre
il cuore e ravviva ma tale vita e forza festive posseggono la potenza
dell’immagine in cui il genio presenta la terribile verità innegabile della
filosofia, cioè la morte e la nullità dell’uomo e di tutte le cose. L’immagine
prodotta dal genio unisce la poesia alla filosofia, ma è la potenza della
poesia a consentire al mortale di sollevarsi ancora per un poco al di sopra del
nulla che si mostra nella verità terribile della filosofia. Nel genio, l’unione
di filosofia e poesia è l’ultimo modo in cui, col disincanto rispetto alla
tradizione cristiana, è concessa al mortale l’aura festiva di una passeggera
letizia. Il pensiero di Leopardi mostra cioè che quando sarà manifesta
l’incapacità della tecnica di salvare l’uomo dal nulla, resterà quell’ultima
forma di tecnica che è la poesia pensante del genio, l’ultima festa - l’ultimo
quasi rifugio, dice Leopardi - a cui tendere prima del silenzio nudo e della
quiete altissima della morte. Il genio è la ginestra, il fiore del deserto. La
ginestra siede tra le rovine del deserto che il vulcano ha steso attorno a sé:
una ruina involve dove tu siedi, o fior gentile. come il genio, cioè Leopardi,
siede a notte sulle rive del flutto indurato della lava: Sovente in queste
rive; che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che ondeggi, seggo
la notte. Il lume divino, le scintille del fiume di fuoco dell’amore divino
fulvido di fulgore, intradue rive dipinte di mirabil primavera. è ormai
divenuto il flutto indurato della lava, sepolcro che sigilla, copre e a bruno
veste la vita annientata dal fuoco del vulcano. La mirabile primavera delle
rive del paradiso è vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio, siede tra le
rovine delfeterno. Esse sono il deserto. Ma Inodorata ginestra, che è la nobile
natura del genio, è contenta dei deserti: guarda in faccia il deserto del nulla
e, sapendo di non potervisi sottrarre, ne è contenta, cioè non si illude di
poter aver altro, non si sente il perpetuo fiore dell’eterna letizia che
d’eternità s’arroga il vanto. La nobile natura del genio della ginestra tien
ferma dinanzi agli occhi la verità terribile, non le sottrae nulla, non
distoglie lo sguardo dal fato comune del nulla: Nobil natura è quella che a
sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al cumun fato, e che con franca
lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il
basso stato e frale. Non detrae nulla dal vero in cui appare l’essenziale
nullità deH’uomo; ardisce sollevare lo sguardo mortale sulla verità: questa
forma intransigente di volontà di verità è l’essenza della filosofia del nostro
tempo. Leopardi la inaugura. Ma la franca lingua che nulla detrae alla verità è
la libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che mostra l’impotenza
dell’essere e dell’uomo. Senza la potenza poetica l’uomo è subito risucchiato
nella pietrificata contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un
poco nell’ultima eco dell’aura festiva, unendo dunque filosofia e poesia. La
ginestra non detrae alcunché alla verità angosciante della nullità del tutto; e
tuttavia il can i. C’è uno scambio delle parti già a partire dal fiore della
poesia, che da mezzo per mostrare la verità diventa fine; per arrivare alla
tecnica, che, da mezzo per realizzare gli scopi delle grandi forze
dell’Occidente è destinata a diventare il loro scopo. Anche le pagine che
seguono possono essere lette come un contributo a una fenomenologia, finora
solo abbozzata nei miei scritti, di questo scambio delle parti. Il problema del
fiore della poesia conduce dunque al problema della tecnica. Oggi se ne
continua a discutere. Ma se ne discute rimanendo all’interno della dimensione
che ha reso possibile qualcosa come la festa, la tecnica, la poesia, il mito,
la filosofia, il cristianesimo, la scienza. Si rimane all’interno della
dimensione dove l’uomo percepisce sé stesso come un mortale, che in preda alla
morte e al nulla ha bisogno di salvarsi. Siamo proprio sicuri che questa
dimensione, in cui l’intero pianeta è ormai completamente immerso, non debba
finalmente esser messa essa stessa in questione? Siamo proprio sicuri che
l’eterna letizia non possa avere altro significato che quello che la tradizione
le ha conferito? Al di là di questo significato, noi siamo perpetui fiori
dell’eterna letizia, ma non nel senso che è stato inevitabilmente distrutto dal
pensiero e dalla cultura del nostro tempo. Il senso autentico dell’eternità del
Tutto è abissalmente lontano dal senso che l’eterno possiede nella tradizione
filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che possa essere rintracciato in
qualche altra forma di civiltà, diversa da quella dell’Occidente - anche se
esso risplende nel fondo di ogni uomo. Nel paradiso della tecnica, la tecnica
può essere guidata e animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si
unisce alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in entrambi i casi, per
quanto alta possa essere la luce del tramonto, è inevitabile che ci si renda
conto dell’essenziale incapacità del mortale di vincere il nulla - ossia di vincere
il divenire, il contenuto della fede, cioè della volontà che le cose siano un
uscire dal nulla e un ritornarvi. Comunque si configuri, il paradiso della
tecnica è cioè destinato all’angoscia estrema. Può essere quello, allora, il
tempo in cui l’uomo incomincia a volgersi verso il senso inaudito dei fiori
dell’eterna letizia. Esso non è un futuro da produrre e da creare. Già da
sempre attende di essere condotto fuori dall’ombra: già da sempre attende che
tramontino le ombre che attirano su di sé la cura dei mortali, lasciando fuori
del linguaggio (e, in questo senso, nell’ombra) la luce piena di quel senso
inaudito. Nella sua essenza il cristianesimo è una grande religione della
salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui sarà salvo. La fede,
peraltro, può ottenere la salvezza solo se la vuole, e solo se, d’altra parte,
questo volerla non è un atto di imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio
la salvezza è pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è quindi la
preghiera, così intesa. Appunto per questo Tertulliano dice che la preghiera
insegnata da Gesù è veramente la sintesi di tutto il Vangelo. Alla fine del
Vangelo di Marco (16, 16-17) Gesù dice: Chi crederà sarà salvo, chi non crederà
sarà condannato. Ma prima di questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come
Gesù abbia unito strettamente e sorprendentemente il tema del credere a quello
della preghiera. In quanto inseparabile dalla fede, la preghiera sta dunque al
centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice.
Abbiate fede in Dio. In verità vi dico che se qualcuno dirà a questa montagna:
“Togliti di lì e gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et
non haesita = verit in corde suo], ma crederà che quel che dice s’abbia a
compiere [fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi dico: tutte le cose
che chiederete nella preghiera abbiate fede [credite] di ottenerle e le
otterrete [et evenient vobis]. E quando vi accingete a pregare, perdonate, se
avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi
perdoni i vostri peccati. Marco accenna subito dopo a quello che a suo avviso è
il centro della preghiera insegnata da Gesù, ma non lo sviluppa. Essa è invece
compiutamente riportata nel Vangelo di Matteo (6, 9). In questa concezione
della preghiera è presente un grande sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda
a Dio qualcosa, per esempio di essere aiutato in una certa circostanza, ma che
in un primo tempo Dio ritenga di non dargli ascolto; e che tuttavia quell’uomo
insista, sino a che, alla fine, riesca a ottenere quel che voleva. Se ci si
chiede che Dio sia mai questo, la risposta è scontata: non è il Dio delle
religioni monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non può esserlo, perché se
alla fine egli cambiasse parere ciò accadrebbe o perché quell’uomo è più
potente di lui, oppure perché alla fine Dio si renderebbe conto di aver avuto
torto a non dargli ascolto subito. Ma un Dio che è meno potente di un uomo o
che può aver torto non è, appunto, il Dio del monoteismo, non è il Dio di Gesù.
Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si prega Dio di avere da lui qualcosa che
egli non vuol dare, non si potrà mai essere esauditi. Egli è l’Onnipotente. A
Dio si può chiedere dunque solo quel che egli vuol dare. Si può volere solo
quel che egli vuole. Appunto per questo, Gesù insegna a dire, nella preghiera:
Sia fatta la tua volontà. È sul fondamento di questo decisivo sottinteso che va
interpretato il senso deH’affermazione paradossale che la fede muove le
montagne e che, se uno riesce ad avere la forza (si potes) di credere, tutte le
cose sono possibili per lui (omnia possibilia sunt credenti, Me., 9, 23). Se
avendo fede si ottiene il massimo, cioè la salvezza eterna, si può anche
ottenere tutto il resto. Purché sia voluto da Dio, l’Onnipotente. Già Platone,
dando forma filosofica al mito biblico, afferma che Dio è tecnica divina, cioè
la più potente. Inoltre, se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la
salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un comandare all’uomo di credere. Non
lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che
creda. E quindi, pregando, l’uomo deve innanzitutto chiedere, senza aver dubbi,
di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo. (Chiedendo di credere,
chiede insieme di non aver dubbi intorno a questa sua richiesta. Si può
mostrare che chiedere con fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal
punto di vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio vuole, non può non
ottenerlo, perché Dio è l’Onnipotente. Da quel punto di vista, la fede che
muove le montagne non è un paradosso. Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo
non solo ottiene ciò che vuole, ma sa di ottenerlo, perché non può non sapere
di voler quello stesso che è voluto da Dio, che è l’Onnipotente. E non spezza
nemmeno in due quella preghiera, come se nella prima parte di essa egli voglia
che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole lui -
il pane quotidiano, la remissione dei debiti; la liberazione dal male ecc.
Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre
vuole che l’uomo abbia il pane. Lo stesso si dica per gli altri doni richiesti.
Anche per quello che è espresso dalle parole e perdona a noi i nostri debiti,
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. Infatti nella preghiera
autentica l’uomo può chiedere di essere perdonato solo se sa che Dio vuole
perdonarlo. E lo sa per lo meno perché crede che sia il Figlio di Dio a
comandargli di chiedere al Padre di essere perdonato, e il Figlio non potrebbe
comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare l’uomo. La preghiera di
Gesù contiene dunque anche l’implicazione, vincolante e compromettente, tra il
perdono per i propri debiti, che un uomo chiede a Dio, e il perdono, da parte
di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi confronti. Perdonami
come io perdono, dice quell’uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole
perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti che gli altri hanno contratto nei suoi
confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto che riguardi lui
solo, cioè dove Dio lo lasci solo a compierlo? No. Lasciarlo solo vorrebbe
dire, per Dio, non volere che l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non
perdoni: starsene in disparte lasciando che sia l’uomo a trovar la forza che lo
può salvare eternamente - visto che se non perdona non è perdonato. Ma in
questo modo l’uomo dovrebbe volere qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a
cui è indifferente. Verrebbe meno, allora, il principio per il quale l’uomo può
ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che Dio, dopo aver
detto all’uomo che se non perdonerà non sarà perdonato lo lasci solo a
raccogliere le forze che gli occorrono per riuscire a perdonare le offese
ricevute dal prossimo. Tutto questo significa che - quando, nella preghiera di
Gesù, l’uomo chiede a Dio di perdonare i propri debiti come egli perdona quelli
dei propri debitori - è necessario che l’uomo creda che Dio vuole che egli
abbia la forza di perdonarli. Anche il perdono delle offese è dunque qualcosa
che l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è
voluta da Dio, e che quindi egli otterrà anche questa capacità (più diffìcile
da avere che non la capacità di muovere le montagne). L’uomo è salvo solo se ha
fede nel Liglio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole
quello che è voluto da Dio, e la preghiera è quel mettersi in rapporto con Dio,
dove non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole
effettivamente, cioè si perdona il prossimo, lo si ama, e si fa tutto ciò che
Dio prescrive. E volendo tutto questo si è convinti di ottenerlo, giacché chi
crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia capace
di ottenere quel che vuole. Chi vuole che sia fatta la volontà di Dio è il giusto,
il buono, il santo, ossia è quel che Dio vuole che egli sia. Ma è anche
necessario che egli sia convinto di essere il giusto, il buono, il santo,
perché se fosse incerto di esserlo sarebbe in dubbio anche sul proprio star
volendo quel che Dio vuole. Chi si trova in questo dubbio ammette la
possibilità di star volendo qualcosa di non voluto da Dio; dunque non vuole
quel che Dio vuole e quindi non può nemmeno credere di ottenerlo. Volere
qualcosa, infatti, è credere di volerlo. Se non si crede di volerlo non lo si
sta volendo ma si resta incerti se lo si voglia o meno, non ci si trova cioè
nella condizione di chi, pregando, riesce a muovere le montagne. Convinto di
essere il giusto che perdona le offese e ama il suo prossimo, chi prega nel
modo dovuto agisce nel mondo e si imbatte in situazioni via via diverse,
portando sempre con sé quella convinzione. (Altrimenti abbandonerebbe
l’insegnamento di Gesù.) Agisce nel mondo, cioè nella polis. La politica è
appunto questo suo agire tra gli individui, le istituzioni, i gruppi sociali.
Per Gesù la politica è innanzitutto perdonare le offese e amare. Ma che una
certa azione sia un’offesa, una cert’altra sia un perdono e una cert’altra
ancora sia una forma di amore è chi agisce nel mondo a doverlo decidere. A questo
punto chi presta ascolto alla parola di Gesù si trova davanti a due strade. O
rinuncia a credere che il modo in cui egli decide di considerare offesa,
perdono, amore certe azioni sia esso stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure
non compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole e fa sia
voluto da Dio. Nel primo caso, non può più credere - in relazione alle
valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve adottare nel mondo -
nell’identità tra la volontà propria e quella di Dio: rinuncia a credere e
quindi a pregare nel modo autentico; rinuncia pertanto alla propria salvezza
(perché solo chi crede sarà salvo). Sul piano politico è la rinuncia a ogni
progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso crede che ogni sua
azione privata o pubblica sia la volontà di Dio e che quindi egli sia il
giusto, il buono, il santo che sa capire quando un’azione è offesa, perdono,
amore e dunque sa realizzare il regno di Dio in terra. Non ammette che sia per
un equivoco che egli giudica come offesa un’azione; né può ammettere che nel
proprio agire non sia presente il vero perdono e il vero amore, conciliabili
con la punizione del colpevole che non può essere che giusta. Sul piano
politico è, questo, il passo decisivo verso la teocrazia, che è il regno di Dio
in questo mondo, mentre Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo.
Certo, chi ha l’intenzione di essere cristiano tenta di ritrarsi da ciò a cui
conducono entrambe queste strade (anche se entrambe sono una tentazione
costante). Tenterà di camminare un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Ma anche
in questo modo tradirà la propria fede, non ne salverà la coerenza. Non sono
infatti, quelle indicate, le conseguenze del rapporto che nei Vangeli viene
istituito tra il credere e il pregare? Lo scambio delle parti che si presenta
nella preghiera di Gesù è una delle più potenti anticipazioni dello scambio in
cui la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù l’uomo prega Dio,
la Potenza suprema, per salvarsi: la salvezza è lo scopo, la Potenza divina il
mezzo. Ma anche Gesù fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura il
mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè assunto da un essere bisognoso di
salvezza, quindi debole, finito, mortale quale è l’uomo, indebolisce e vanifica
il mezzo (la Potenza) e pertanto pregiudica la propria realizzazione. Anche
Gesù fa capire che l’uomo deve porre come scopo non il soddisfacimento dei
propri bisogni ma la volontà di Dio (Sia fatta la tua volontà). In questo modo
gli sarà dato tutto il resto. È, questo, uno dei modelli più rilevanti della
situazione in cui l’uomo, dopo aver tentato di servirsi della tecnica, capisce
che, per salvarsi, deve dire anche alla Tecnica: Sia fatta la tua volontà, non
la mia, che, posta come scopo (volontà capitalistica, comunista, cristiana,
democratica ecc.), non ha la potenza della Tecnica e quindi, condizionandolo,
indebolisce il proprio mezzo, ostacolando in tal modo sé stessa. Sennonché,
ponendo come scopo la Tecnica, la volontà cessa di essere ciò che intendeva essere,
giacché per essere ciò che intendeva essere doveva essere scopo. Nello stesso
modo, si è visto, pregando autenticamente, il cristiano è costretto a imboccare
quelle due strade che lo portano a non esser più cristiano. Proprio per aver
fede in Gesù e quindi per pregare autenticamente, per salvarsi, il cristiano
non può più essere cristiano. Non lo è, sia facendo la propria sia facendo la
volontà di Dio. È indubbio che chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma
non è nemmeno vero che chi perderà la propria vita per amor mio [héneken emou,
cioè avendo me come scopo, dice Gesù, Me., 8, 35] e del Vangelo, la salverà. Lo
scambio delle parti dove la Potenza, da mezzo, diventa scopo e quindi
salvifica, non salva, giacché la vita, intesa come vita autentica, cioè
cristiana, è perduta anche quando, dopo che la si è perduta, Gesù assicura che
la si sia salvata. È perduta lungo entrambe le strade, qui sopra indicate, che
chi vorrebbe esser cristiano è costretto a imboccare. Proprio perché, per
raggiungere la salvezza, ci si serve di ciò che si considera come la Potenza
suprema (teologica o tecnologica), proprio per questo non ci si può salvare; ma
non ci si salva nemmeno assumendo come scopo la Potenza suprema, perché,
rispetto alla Potenza teologica, la volontà che intenderebbe esser cristiana
non può esserlo e, rispetto alla potenza tecnologica, la volontà che vorrebbe
essere scopo, cioè volontà capitalistica, comunista, democratica, totalitaria,
cristiana ecc., cessando di essere scopo, non può più essere ciò che essa
intende essere. Continua ad aumentare la pressione dei popoli poveri su quelli
ricchi. Non si tratta solo di spostamenti di masse umane, determinati dal
bisogno elementare di sopravvivere. Da sempre, infatti, l’uomo interpreta la
propria sofferenza. Il modo in cui soffre nel corpo e nell’anima e tenta di
uscirne dipende da ciò che egli crede di essere, dal modo in cui interpreta la
propria vita. Cultura è innanzitutto questo credere. Per quanto ne sappiamo, in
questo credere sono sin dall’inizio presenti gli dèi. L’uomo crede di essere un
vivente che è in pericolo e che sta in rapporto con misteriose potenze che lo
possono aiutare o schiacciare. Il senso della cultura è legato a quello della
coltivazione e del culto. La pressione dei poveri sui ricchi è cioè un fenomeno
eminentemente culturale. Gran parte dell’immigrazione è islamica. Il culto dei
poveri è diverso da quello cristiano in cui, almeno formalmente, i Paesi ricchi
si riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam a essersi posto alla guida
dell’interpretazione della sofferenza e della fame dei poveri. In quest’ultimo
decennio si è reso altrettanto visibile - sebbene non nelle forme drammatiche
della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato vigore della Chiesa
cattolica. Si tratta di un fenomeno ambivalente, perché da un lato la Chiesa
non può non vedere nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità,
dall’altro non può non avvertire che l’islam è anche l’avversario dove la
religiosità dei fedeli è molto più convinta di quella cristiana (non dice forse
la Chiesa che l’Europa è terra di missione?), tanto da alimentare quel
fondamentalismo che convince individui a immolare la propria vita per il
trionfo della causa. D’altra parte non è nemmeno possibile affermare che l’ambivalente
tensione tra islam e cristianesimo è il fenomeno culturale che più determina la
fisionomia degli ultimi decenni. Se non altro perché la modernità, contro cui
cristianesimo e islam si trovano alleati, esiste. La tecnica, che è impensabile
senza la cultura moderna, stupisce il mondo. Tuttavia la tecnica sta procedendo
senza guardarsi le spalle, cioè senza sapersi difendere dalle critiche della
tradizione occidentale, che la accusano di violare limiti inviolabili. Un
gigante, la tecnica, che tocca il cielo, ma che rimane incapace di interloquire
con chi gli dice che il cielo non va toccato. Intendo dire che chi potrebbe
rendere il gigante capace di replicare è la punta estrema della modernità,
ossia quella essenza, prevalentemente nascosta, della filosofìa del nostro
tempo che è in grado di mostrare l’inesistenza di ogni inviolabile e che quindi
il gigante è legittimato a toccare il cielo. E tuttavia quell’essenza è come
l’arco di Ulisse, che nessuno dei Proci è in grado di tendere. Da un lato,
pertanto, la potenza cieca della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi
impotenti del laicismo contemporaneo, che andando avanti così non riuscirà mai
a possedere Penelope, cioè a dominare il mondo, lasciando ancora a lungo la
scena alla coscienza religiosa. Nel nobile modo in cui Benedetto XVI ha
espresso la sua rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del
cristianesimo: il cristianesimo si trova oggi in un mondo soggetto a rapide
mutazioni e turbato da questioni di gran peso per la vita della fede (in mundo
nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis
prò vita fidei perturbato ). Rispetto a questo problema, che un pontefice
dichiari di non avere più le forze per affrontarlo è un tema che, nonostante la
sua rilevanza e pertinenza, passa in secondo piano. Nel testo, la parola pondus
(peso) compare tre volte: come peso delle questioni riguardanti la vita della
fede, come peso del gesto di rinuncia e come peso del ministerium che viene
lasciato per il venir meno delle forze. Ma solo il primo peso vien detto
grande: la vita della fede è oggi gravata da questioni di gran peso ed è essa
stessa turbata dal turbamento del mondo. Il mondo cristiano (tanto meno un
pontefice) non può riconoscere che il turbamento della fede è ben più profondo
di quello visibile, dovuto alla corruzione alfinterno della Chiesa. Il
turbamento del mondo, tuttavia, riguarda non solo la fede religiosa, ma anche
quelle altre forme di fede ancora dominanti (e che non amano sentirsi dire che
sono a loro volta fedi). Mi riferisco soprattutto al capitalismo, alla
democrazia, al capitalismo-comunismo cinese, o, in Iran, alla mescolanza di
teocrazia e capitalismo; e il comuniSmo sovietico, come il nazismo, era tra le
più rilevanti di queste forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di
eliminare le proprie degenerazioni, ma si rifiuta di ammettere l’inevitabilità
del proprio tramonto. Non è una metafora né un’iperbole fuori luogo affermare
che ognuna di esse si sente un dio che deve distruggere gli infedeli. Ma, come
la fede religiosa, anche la vita di queste altre forze è gravata da questioni
di gran peso - da questioni che fanno intravedere l’inevitabilità di tale
tramonto. Certo, un pontefice deve credere che il cristianesimo durerà fino
alla fine del mondo. Ma la gran questione è se quelle forze - dunque anche il
cristianesimo - si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le
travolge. Il relativismo è stato l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo di
combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo
concettuale e l’ingenuità del relativismo ne favoriscono infattila diffusione
presso le masse, e tale diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita
della fede. Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente all’avversario
autentico quando individuava negli inizi della filosofia moderna (Cartesio) la
matrice di tutti i grandi mali del XX secolo, quali le dittature del comuniSmo
e del nazionalsocialismo, o l’egoismo dell’economia capitalistica. In questa
prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso come un parto di quella
matrice. Ma tutte queste interpretazioni non riescono ancora a guardare in
faccia l’avversario autentico. Riusciranno le varie forme di fede ad alzare lo
sguardo affinché, se vogliono vivere un po’ più a lungo, non accada loro di
combattere i nani, quando invece il gigante pesa già su di esse e toghe loro il
respiro? Il gigante che possiamo chiamare Prometeo. Anche qui, è ovvio, mi
limiterò ad alcuni cenni; doppiamente insufficienti perché a chi sta per
morire, e non vuole, è estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla
propria morte. All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere
all’uomo il respiro, impedendogli di vivere. L’uomo può incominciare a vivere
solo se vuole trasformare sé stesso e il mondo da cui è circondato. Se non fa
questo non può nemmeno compiere quella trasformazione di sé che è il respirare
in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo nella Barriera che gli
impedisce di trasformare sé e il mondo. La Barriera è l’Ordine immutabile della
natura. Solo se la penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare,
può liberarsi un poco alla volta dal suo peso e ottenere ciò che egli vuole. La
Barriera è l’altro gigante: il Tremendum (per servirci, ma per altri scopi,
dell’espressione di Rudolf Otto). Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché
l’uomo può incominciare a vivere solo se domina le parti della Barriera
frantumata, e se ne ciba - così come Adamo, cibandosi del frutto proibito,
frantumando cioè l’icona stessa del divino, può diventare Dio ( eritis sicut
dii, sarete come dèi, dice il serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il
tratto essenziale del sacro, del divino, del Dio. La Barriera divina vive
inviolata solo se uccide l’uomo; l’uomo vive soltanto se uccide Dio. Il fuoco è
il simbolo essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco - uccide
l’inviolabilità degli dèi - per darlo all’uomo. Prometeo è l’uomo. Soprattutto
da due secoli egli è l’avversario della tradizione. Mostra infatti che il
divino merita di tramontare e che su questo meritarlo si fonda tutto ciò che
più salta agli occhi, ossia l’allontanamento della modernità e soprattutto del
nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla vita della fede. (In
questo contesto, la corruzione della Chiesa è più grave di tutte le forme
passate del suo degrado.) Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia
ciò la cui esistenza è considerata innegabile anche da chi si è alleato con
Dio. Giacché, dopo l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata, ha lasciato
spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e l’uomo della tradizione lo ha
trovato meno tremendum e più fascinans, e gli si è alleato, diventando uomo di
fede, non solo cristiana ma anche quella degli dèi - delle barriere - in cui
consistono le forze (sopra menzionate) via via dominanti nel mondo. Prometeo,
ora, ruba il fuoco dell’alleanza dell’uomo con Dio. È la potenza di questo
furto a nascondersi, per lo più inesplorata, sotto le rapide mutazioni del
nostro tempo, turbato da questioni di gran peso per la vita della fede. Una
delle radici dello Stato moderno è il desiderio dell’uomo di sottrarsi
all’imprevedibilità della vita facendo funzionare lo Stato come una macchina
tecnicamente razionale a cui viene riconosciuto il monopolio della forza e che
quindi consente a ognuno di calcolare in anticipo le conseguenze delle azioni
proprie e altrui. Così si esprime Max Weber; ma questa constatazione risale a
Hobbes. Allo Stato si chiede di eliminare il più possibile il rischio del
vivere. Anche il capitalismo è un calcolo razionale (a differenza delle forme
violente di acquisizione della ricchezza). Tuttavia è anche rischio, scommessa,
imprevedibilità delle conseguenze dell’agire. Due componenti inseparabili, fino
a che il capitalismo esiste nella sua forma tradizionale. Il talento
dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di vista scientifico è
imprevedibile: la forma relativamente più remunerativa di investimento. A sua
volta, il talento è inseparabile dalla fortuna. Il più capace degli
imprenditori, se è sfortunato, non è veramente capace. È vero: oggi si sa che
una teoria scientifica non è valida se non è confermata e che tale conferma è
una forma di fortuna, una circostanza felice. Ma l’imprenditore capace deve
avere una fortuna incomparabilmente più grande di quella sinora richiesta per
le teorie scientifiche: egli ha tanto più successo quanto più rischia, cioè si
lascia alle spalle - in base alle proprie intuizioni - le precauzioni della
razionalità scientifica - che essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro
adottabili anche dalla concorrenza. Sebbene siano entrambi macchine
tecnicamente razionali, Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque in
direzioni opposte: azzeramento e moltiplicazione del rischio. La tendenza verso
lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato - non è soltanto un fenomeno italiano.
Alla sua base sta il crescente potenziamento dell’economia e il crescente
indebolimento dello Stato moderno. Ciononostante, a quel potenziamento corrisponde
non solo l’indebolimento dello Stato, ma anche quello della produzione
economica legata principalmente al rischio, al talento e alla fortuna del
singolo imprenditore. La macchina economica tende cioè a diventare l’erede
della macchina statale e del compito, proprio di quest’ultima, di garantire gli
individui dal rischio del vivere. Contro l’oppressione di uno Stato sempre più
obsoleto rispetto ai bisogni della società civile, le destre mirano invece,
ancora, a un’azienda-Stato diretta da ultimo (sebbene non esclusivamente) da
uno o più superimprenditori capaci di rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in
questo modo si mira a qualcosa che corre a sua volta il rischio di diventare
obsoleto prima di nascere. Lo Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a rischio.
Certo, in democrazia l’elettorato ha il diritto di rischiare e di imporre il
rischio alle minoranze, credendo che la fortuna continuerà ad accompagnare i
superimprenditori statali. Però è opportuno sapere quel che si sta facendo. La
difesa dello Stato tradizionale contro le prevaricazioni dell’economia è invece
propria delle sinistre. Che a loro volta stentano a comprendere la tendenza, di
cui si è detto, che conduce dalla macchina tecnicamente razionale dello Stato a
quella di una economia sempre più simile alle procedure scientifiche e sempre
meno bisognosa del carisma e della fortuna di certe persone - la presenza delle
quali può peraltro costituire un passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre
credono nella necessità di rafforzare l’iniziativa privata; e la concezione
minimalista dello Stato non equivale, per le destre, alla soppressione di esso.
Tuttavia le sinistre continuano a credere nella capacità dell’apparato
giuridico statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello Stato può essere
superata restando all’interno della politica. Ma si vuol riflettere sul fatto
che la macchina dello Stato e quella economica sono tecnicamente razionali? Non
è già significativo che tanto lo Stato moderno quanto il capitalismo siano
considerati delle macchine? Si tratta di comprendere che è la tecnica a
conferire potenza agli Stati e alle economie. E si è richiamato che nel suo
significato più autentico la tecnica è la potenza che presta ascolto alla voce
del pensiero filosofico degli ultimi due secoli - alla voce cioè che mostra
l’inesistenza di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo e innanzitutto
all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con un ozio astratto: è la
condizione che consente all’operatività tecnica di accrescere indefinitamente
la propria potenza. Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del
vivere, non sarà più né la forma tradizionale dello Stato, né lo Stato-azienda,
ma la tecnica, di cui entrambi hanno così bisogno da doverla togliere dalla sua
funzione di mezzo per assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato o lo
Stato-azienda che si servono della razionalità tecnologica, ma quest’ultima che
si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi siano diventati
mezzi: mezzi di cui la tecnica può servirsi per accrescere il proprio dominio
sul mondo. Se a questo punto si vuol usare ancora la parola politica, si può
dire che la grande politica è destinata a restare estranea alle destre e alle
sinistre mondiali sino a quando non comprendono l’inevitabilità della rotazione
che dalla dominazione dello Stato e dell’economia conduce alla dominazione
della tecnica. In uno dei suoi significati economici più importanti la
collaborazione -- di Grice, ‘the principle of conversational helpfulness –
efficenza e solidarieta -- riguarda oggi, nel sistema capitalistico, il
rapporto tra datori di lavoro e lavoratori (nel senso più ampio di questo
termine). Con la fine del socialismo reale è finita anche, nelle società
avanzate del pianeta, la volontà di soffocare questa forma di collaborazione e
di sostituirla col suo opposto, cioè con la lotta di classe. La collaborazione
riguarda il rapporto tra gli interessi di chi lavora e quelli del capitale.
Quest’ultimo collabora con gli interessi dei lavoratori quando non si propone
soltanto il proprio interesse, cioè l’aumento del profitto, ma anche la
salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A sua volta, il
lavoratore collabora con gli interessi del capitale quando non si propone
soltanto di aumentare il proprio tenore di vita, ma anche il rafforzamento
dell’intrapresa in cui egli si trova ad agire. Il primo tipo di collaborazione
conduce alla solidarietà; il secondo all’effìcienza. Fino a questo punto, si
può credere che, sia nell’ambito del capitale sia in quello del lavoro, quando
esiste la collaborazione di cui stiamo parlando, ci si proponga, in egual modo,
la sintesi di efficienza e solidarietà - la sintesi in cui, appunto, consiste
tale collaborazione e si può credere che il centro del problema stia nel saper
realizzare le condizioni che conducono alla collaborazione. Ma in questo modo
si va fuori strada: non si scorge la configurazione autentica del problema e ci
si priva degli strumenti per poterlo affrontare. Visibilissima in tutte le
società avanzate, la lotta tra capitale e lavoro ha quasi completamente perduto
i connotati della lotta di classe marxista; ma non si estingue con la
realizzazione di quella sintesi di efficienza e solidarietà che sarebbe
perseguita in egual modo dalle forze lungimiranti del capitale e del lavoro:
non vi si estingue, perché essa si ripropone a causa del diverso modo in cui
tale sintesi è perseguita da queste due forze. Oggi si tende a mascherare
questa diversità. Per esempio dicendo che efficienza e solidarietà devono
alimentarsi in una circolarità virtuosa - una espressione che si è fatta strada
tanto nel mondo imprenditoriale, quanto nel mondo cattolico (o, in generale,
cristiano) e in quello delle sinistre. Nella alimentazione circolare i due
elementi in circolo sono posti sullo stesso piano. Ma è un’apparenza, come è
un’apparenza la virtù del circolo. Infatti, dal punto di vista del capitale i
livelli di solidarietà (quelli cioè fino e non oltre i quali può essere spinta
la solidarietà) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali il capitale
ritiene che l’efficienza (cioè l’incremento del profitto) non possa scendere.
Ma dal punto di vista del lavoro i livelli di efficienza (cioè fino a che punto
debba essere promosso lo sviluppo economico) sono stabiliti dai livelli al di
sotto dei quali chi lavora ritiene di non poter far scendere il proprio tenore
di vita e la qualità della propria vita. Nel primo caso la collaborazione di
efficienza e solidarietà ha come scopo primario e dominante l’efficienza; nel
secondo caso la collaborazione ha come scopo primario e dominante la
solidarietà. Nel primo caso la solidarietà è un mezzo per realizzare
l’efficienza; nel secondo l’efficienza è un mezzo per realizzare la
solidarietà. In entrambi i casi le due semicirconferenze della circolarità
virtuosa sono diseguali, si alimentano in modo diseguale, la circolarità è
claudicante, cioè viziosa. I due avversari possono gettarsi a vicenda polvere
negli occhi, invocando ed elogiando la collaborazione. Ma quando la Chiesa
cattolica dichiara che il profitto deve avere come scopo il bene comune della
società pensa a una sintesi di efficienza e solidarietà, cioè a una forma di
collaborazione, dove lo scopo dell’agire economico è la solidarietà e
l’efficienza è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista afferma che
non si può dire a un capitalista “limita il tuo guadagno”, perché un
imprenditore deve produrre ricchezza e quanto più lo fa, più opera per il bene
della società, il capitalista che parla così pensa a una sintesi di efficienza
e di solidarietà, cioè a una forma di collaborazione dove invece lo scopo
dell’agire economico è l’efficienza e la solidarietà è il mezzo per
realizzarla. In entrambi i casi, come si è detto, la collaborazione è una
circolarità viziosa, dove ognuno dei due fattori circolanti tende a fare
dell’altro il proprio alimento evitando di diventare a sua volta l’alimento
dell’altro. Ciò significa che la collaborazione è un paravento, una maschera
che più o meno consapevolmente nasconde il proprio opposto, ossia la lotta,
l’opposizione, il conflitto irrisolto. Si evita di riconoscere che se la
collaborazione tra interessi del capitale e interessi del lavoro esistesse per
davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far posto all’altro, e
pertanto non esisterebbe più né il senso autentico dell’intrapresa
capitalistica, né il senso autentico del lavoro; e che se invece questi due
fattori esistono per davvero - come in effetti esistono storicamente per
davvero -, allora ognuno dei due vuole diventare lo scopo dell’altro e ridurre
l’altro alla funzione di mezzo, e in questo caso il loro alimentarsi in una
circolarità virtuosa svanisce, cioè svanisce la loro collaborazione. Si tratta
infatti di comprendere che se lo scopo dell’agire economico è la sintesi di
quei due fattori - ossia è la sintesi costituita dalla loro collaborazione -,
allora, in questa loro sintesi, ognuno dei due limita l’altro, gli impedisce di
espandersi sino a diventare l’unico scopo, e quindi ne distrugge la
configurazione originaria. Se un uomo (fuor di metafora: l’agire economico) ama
due donne (fuor di metafora: la crescita del profitto e la solidarietà), e
crede che il suo amore per l’una e il suo amore per l’altra abbiano a
collaborare, cioè ad alimentarsi in una circolarità virtuosa, quest’uomo si
inganna, perché l’amore che darebbe a una se non ci fosse l’altra non può
esserci più quando oltre a quell’una ama anche l’altra. Se i due amori si
alimentano virtuosamente e collaborano, ognuna delle due donne è meno amata,
l’amore vero, esclusivo che ci sarebbe potuto essere per lei è andato perduto;
se invece questo amore vero ed esclusivo rimane, allora esso non potrà più
dividersi tra le due donne e cioè l’amore vero ed esclusivo per l’una finirà
inevitabilmente col detronizzare e vanificare l’amore vero ed esclusivo per
l’altra. Fuor di metafora: o efficienza e solidarietà collaborano, ma allora
non ci sarà più né capitalismo - cioè volontà di non limitare il proprio
guadagno - né dottrina sociale della Chiesa o delle sinistre, che, sia pure in
modo diverso, non intendono limitare la realizzazione del bene comune,
sacrificandone parti o aspetti al profitto; oppure efficienza e solidarietà
mantengono i caratteri che storicamente sono loro propri e per i quali ognuna
di queste due forze intende essere lo scopo primario dell’agire economico, ma
allora non ci potrà essere collaborazione tra i due, ma urto, lotta, conflitto
più o meno mascherati. Per ora, si può dire che ognuno dei due antagonisti
tende a predicar male e a razzolar bene. Cioè predica la collaborazione con
l’altro (e dunque predica, più o meno consapevolmente, la propria rovina - e
questo è appunto il predicar male), ma in effetti persegue il proprio scopo
tentando di ridurre a mezzo lo scopo dell’antagonista (e questo è appunto il
razzolar bene). Ci sono avvisaglie, nel mondo, che oltre a predicar male i due
avversari incomincino anche a razzolar male, e cioè incomincino a collaborare.
Ma questo fatto vorrebbe dire che i due avversari - efficienza capitalistica e
solidarietà cristiana o progressista - stanno avviandosi al tramonto: così come
va al tramonto quel vero amore per una donna quando esso viene a trovarsi in
compagnia dell’amore per un’altra. Stanno avviandosi al tramonto perché
rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano a sé stessi. Che cos’è oggi un
governo tecnico in Europa - e, con qualche riserva, nel mondo? È un insieme di
decisioni, vincolanti per un popolo, che, guidate dalla competenza scientifica,
si propongono il benessere di quel popolo. Ma tale benessere non è lo stesso
per le destre, le sinistre, la Chiesa cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam
ecc.: in generale, per le diverse concezioni culturali dell’uomo e del bene.
Appunto per questo, quando si produce un forte condizionamento politico dei
partiti che sostengono un governo tecnico (come ad esempio è accaduto in
Italia), le decisioni vincolanti sono guidate da una mescolanza di competenza
scientifica e di volontà politica, e la competenza scientifica è soprattutto il
mezzo per realizzare il concetto che forze politiche quasi sempre contrapposte
hanno del benessere del popolo che esse intendono guidare. Tale concetto non ha
un carattere scientifico. L’azione politica non è la scienza politica. Si dice,
appunto, che la politica (Yazione politica) è un’arte, avvolta quindi da quell’alone
di arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade quindi, al governo tecnico così
inteso, che la scienza serva per realizzare una forma di non-scienza, tanto più
lontana dalla coerenza scientifica quanto più accentuato è il contrasto delle
forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per Max Weber la
scienza ha un carattere puramente strumentale, il cui scopo non ha un valore
scientificamente appurabile; ma è anche vero che in questo modo la ragione vien
posta al servizio della non-ragione, alla quale viene affidata la sorte del
mondo. (Certo, si dovrà poicapire che cosa sta dietro la ragione scientifica.)
Ma nei governi tecnici che agiscono nelle economie di mercato il benessere del
popolo, perseguito attraverso il condizionamento politico, è il benessere quale
è inteso, appunto, all’interno delle categorie della produzione capitalistica
della ricchezza. In questa situazione, il capitalismo è la condizione ultima
della politica e del governo tecnico: la politica è un mezzo di cui il c apitalismo
si serve. Chi si propone ancora, nel mondo democratico, una economia non
capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le sinistre vogliono essere ormai
lontanissime da ogni forma di marxismo o di economia pianificata. La
contrapposizione tra destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore
comune, è una lotta all 'interno del sistema capitalistico. Parlare dunque di
un condizionamento capitalistico dei governi tecnici e della politica sembra
soltanto un’owietà. E lasciarsi alle spalle la distinzione tradizionale di
centro, destra, sinistra significa, innanzitutto, adottare correttamente e
seriamente le regole dell’economia di mercato. Nulla di strano che il
riformismo del governo di Monti si sia rivolto a (quasi) tutte le formazioni
politiche, rendendo più visibile che (quasi) tutte, ormai, si muovono
all’interno della logica capitalistica. Tecnica e politica sono un mezzo di cui
il capitalismo si serve per realizzare i propri scopi. Sennonché nemmeno il
capitalismo è scienza. La scienza economica può sostenere che esso è la forma
più efficace di produzione della ricchezza, ma all’essenza del capitalismo
appartiene il rischio, Yazzardo, mentre la scienza è essenzialmente la volontà
di evitare che le proprie leggi siano leggi a rischio, azzardate, e dunque
arbitrarie. Joseph Schumpeter, amico del capitalismo, ha sostenuto che la sua
crisi è dovuta alla progressiva sostituzione del rischio con la routine delle
procedure tecno-scientifiche. D’altra parte, anche per il carattere rischioso
del proprio agire, il capitalismo si sente autorizzato a porre come scopo
primario non già il benessere del popolo ma il continuo aumento del capitale 61
privato. Anche per il capitalismo si deve dunque affermare che esso, assumendo
come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la scienza serva a realizzare la
non-scienza: che la ragione (ossia ciò che oggi è considerato come la ragione
per eccellenza) serva a realizzare la non-ragione. Tuttavia, la situazione si
complica ulteriormente quando accade che la dimensione tecnica del potere sia
condizionata non soltanto dall’economia capitalistica, ma anche, e magari
fortemente, dalla dimensione religiosa, per esempio dalla Chiesa cattolica. In
questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere insieme capitalismo, politica e
cattolicesimo (evitando le degenerazioni dell’agire economico e politico e
anche religioso), servendosi della tecno-scienza. La situazione si complica
ulteriormente perché, mentre per il capitalismo lo scopo primario dell’agire
economico e quindi del governo è l’incremento del profitto privato, per la
Chiesa lo scopo primario di tale agire e di un governo giusto non deve essere
il profitto, ma il bene comune quale è appunto concepito dalla dottrina sociale
della Chiesa. Il capitalismo deve essere cioè un mezzo per realizzare questa
forma del bene comune. Mezzo, e non scopo. La pretesa della Chiesa (vado
ripetendo da tempo) che il capitalismo abbia come scopo il bene comune e non il
profitto è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua volta il
capitalismo, assumendo come scopo primario il profitto, vuole, a volte non
rendendosene conto, la distruzione della società cristiana. È un problema,
questo, che non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma tutte le
presumibili coalizioni che governeranno l’Italia. (Quasi vent’anni fa, in un
articolo sul Corriere poi incluso in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993,
avevo preso in considerazione la proposta di Monti al convegno di Cernobbio di
quell’anno, di tenere insieme efficienza capitalistica - e solidarietà -
cristiana - e avevo mostrato le difficoltà a cui va incontro non solo tale
proposta, ma ogni progetto politico che intenda conciliare democrazia,
capitalismo, cristianesimo.) Dico questo per rilevare come anche, ma non solo,
in Italia si renda percepibile quella gigantesca trasformazione del mondo che è
costituita dalla crisi del capitalismo (e del cristianesimo - e della
politica). Un governo che assuma come scopo primario sia l’efficienza sia la
solidarietà, assume infatti uno scopo che non può essere né quello del
capitalismo né quello della Chiesa, i quali non intendono avere al loro fianco,
in posizione paritaria, alcun altro scopo (ma dove l’efficienza subordina a sé
la solidarietà, servendosene, e la solidarietà, a sua volta, subordina a sé
l’efficienza, servendosene). Se tale governo crede di poter mantenere in
posizione paritaria sia l’efficienza capitalistica sia la solidarietà cristiana
si illude, cioè si propone di realizzare una contraddizione. Ciò non significa
che tale proposito non abbia a realizzarsi, e magari con risultati
soddisfacenti: significa che tali risultati saranno inevitabilmente provvisori,
instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò che crede di
poter ottenere. Come di regola accade lungo il corso storico. Comunque, sia
illudendosi di unire efficienza capitalistica e solidarietà cristiana (e
politica) sia evitando questa contraddizione, dando quindi vita a un nuovo
senso dell’efficienza e della solidarietà e dunque della loro unione, proporsi
come scopo tale unione servendosi delle competenze tecno-scientifiche è pur
sempre un agire in cui la forma oggi ritenuta la più rigorosa della razionalità
umana (la tecno- scienza, appunto) è posta al servizio di forme meno rigorose
di tale razionalità. Cioè la potenza di quell’agire è posta al servizio della
non potenza. E la potenza, la capacità di realizzare scopi, è insieme la
ricchezza di un popolo. Proporsi, come accade nei governi tecnici d’oggigiorno,
di eliminare le degenerazioni della politica e dell’economia è però un passo
avanti nella direzione lungo la quale si finisce col capire che le società
diventano potenti e ricche non eliminando la cattiva politica e la cattiva
economia, ma mettendo la buona politica e la buona economia (che anche risanate
sono pur sempre forme meno rigorose dell’agire razionale) al servizio della
tecnica guidata dalla scienza - della tecnica, il cui scopo è precisamente
l’aumento indefinito della potenza. Difficile smentire, nel loro insieme e nel
loro senso più corrente e generale, le osservazioni proposte nel 2003 dalla
rivista Liberal (n. 19) per la discussione intorno agli Stati Uniti d’America.
Esempio. Dall’Europa, dalla sua cultura politica prevalente, si guarda sempre
più all’America in modo semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare i valori
della sua democrazia e a sottolinearne, al contrario, i limiti. Se le
espressioni Europa e sua cultura politica prevalente indicano soprattutto gli
umori dell’opinione pubblica europea, allora è un fatto che mentre alla fine
della seconda guerra mondiale gli Americani erano per gli Europei i liberatori,
oggi vengono piuttosto sentiti come i cittadini di uno Stato che ritiene di non
dover dar conto a nessuno del proprio operato. Questo è un problema di
psicologia delle masse, facili a dimenticare i benefìci ricevuti (anche perché
il ricambio generazionale fa sì che i dimentichi di oggi non siano più i
beneficiati di ieri). Se invece Liberal intendesse affermare che oggi in Europa
è in atto una critica dei valori espressi dalla Costituzione americana, questa
affermazione vorrebbe dire che in Europa cresce la preferenza (o la nostalgia)
per lo Stato autoritario. Ma questo non è vero (in Europa i partiti di estrema
destra e di estrema sinistra sono piccole minoranze); e non sembra nemmeno che
Liberal voglia sostenere questa tesi. Fuori discussione, invece, che quella
americana è la prima costituzione liberal-democratica apparsa nel mondo moderno
- la prima, cioè, dove il principio della libertà dal potere politico si unisce
al principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E fuori
discussione, inoltre, che gli Stati Uniti sono nati da una grande decisione
collettiva di proteggere gli interessi e il bene comune, definiti soprattutto
in relazione a ciò che essi significano nella cultura illuministica. Qui va
aggiunto che tale decisione è tanto più rilevante quanto più essa ha inteso
arginare (con maggiore o minore successo) gli interessi e il bene dell’economia
di mercato, dove l’agire capitalistico non ha e non può avere di mira l’interesse
e il bene comune, ma l’interesse e il bene privato, cioè l’incremento del
profitto (sì che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica,
non sono lo scopo dell’agire economico, ma una conseguenza, un sottoprodotto di
quell’incremento). Relativamente allo sfondo (o al contenimento) liberal-
democratico del capitalismo si può dire, con Liberal, che è la natura della
democrazia americana a presentarsi come un fenomeno unico anche nel contesto
più generale dell’Occidente. La domanda centrale (e, se non mi inganno,
retorica) di Liberal suona comunque: Non è forse questo - americano - l’unico
modo di vivere una democrazia, che altrimenti si limiterebbe ad essere un
insieme di procedure...?; e tale domanda è preceduta dalla affermazione della capacità
della democrazia americana di credere in sé stessa e di assumersi le proprie
responsabilità. Queste affermazioni riguardano un insieme di questioni
eterogenee: da un lato, la tesi che la condotta storico fattuale degli Stati
Uniti è sostanzialmente fedele al proprio ordinamento costituzionale;
dall’altro lato, la tesi che l’Europa avrebbe il miglior ordinamento
costituzionale se adottasse quello statunitense; e, anche che gli Europei
condurrebbero la miglior vita politica se sul piano storico-fattuale si
adeguassero alla propria rinnovata costituzione così come gli Americani vi si
adeguano. Tesi, queste ultime, che possono essere veramente discusse, ma che
lasciano fuori campo la questione preliminare e decisiva (alla quale abbiamo
già accennato), che peraltro è venuta sempre più in luce dopo la risposta
americana, in Afghanistan e in Iraq, all’attacco terroristico dell’11
settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni produce uno
Stato che agisce in base alla convinzione di essere di fatto rimasto l’unica
Superpotenza alla guida del mondo e a proposito del quale si teorizza anche il
diritto a esserlo? La risposta americana all’attacco subito era inevitabile
(come in altre sedi ho motivato), ed era inevitabile che la risposta avvenisse nella
forma della guerra preventiva concepita come legittima difesa. Ma, nonostante
tutto quel che si è detto in proposito, non sta qui il problema - il problema
preliminare e decisivo. Esso riguarda il contesto delle convinzioni con le
quali gli Usa stanno vivendo questa fase della loro storia. Altro è infatti
credere che i supremi interessi dello Stato americano richiedano che esso si
difenda adottando misure come la guerra preventiva, ma lo si creda sapendo che
tali misure, prese in modo così fortemente autonomo, sollevano il problema, non
meno grave di quello del terrorismo islamico, del rapporto tra l’autonomia
americana e il resto del mondo, e cioè sapendo che tale problema è, appunto,
problema e non soluzione; altro è che gli Usa trattino come soluzione questo
problema e siano convinti che, poiché sono di fatto venuti a trovarsi alla
guida del mondo, o hanno il compito di porvisi, allora l’autonomia esercitata
nella loro risposta al terrorismo è la conseguenza naturale della loro primazia
planetaria. Due atteggiamenti profondamente diversi, questi due, e, soprattutto
negli ultimi tempi, tra loro in contrasto negli stessi Stati Uniti. Il
contrasto è alimentato dalla coscienza crescente che gli Stati Uniti non
possono reggere da soli il peso immane di cui il secondo, e trionfalistico, di
quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli. Affermare che l’unico modo di vivere
una democrazia è quello americano significa certamente che l’Europa non può
mettersi in rotta di collisione con gli Usa. Ma significa anche che l’Europa
deve stare a loro soggetta? Il bon ton della riflessione politica auspica che
l’Europa non allenti i legami con gli Usa e che d’altra parte non ne sia
succube. Ma può l’Europa non essere succube senza essere forte - cioè
militarmente forte, o addirittura competitiva rispetto agli Usa - e continuando
ad affidare aU’America la propria difesa? Sembra che vi sia stata la tendenza a
sottovalutare l’asse Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in
contrapposizione alla guerra Usa contro l’Iraq. Ma si parla anche
dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione eu-ropea - sia perché
la Russia muove i primi passi verso l’economia di mercato sia per la rinnovata
visibilità della Chiesa ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il
testo è stato poi incluso ne II declino del capitalismo, cit., col titolo
L’Europa tra America e Russia ): Ciò a cui si presta troppo poca attenzione è
che la Russia, una volta aiutata dall’Occidente a uscire dalla crisi economica
in cui si trova attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella
protezione militare, contro le minacce del Sud, di cui gli Stati Uniti hanno
oggi il monopolio - e in nome della quale possono pretendere che l’Europa stia
in posizione subordinata, perché non può restituir loro un vantaggio di egual
peso. Scambio che invece è possibile nel rapporto tra Europa e Russia, perché
l’Europa ha sì bisogno di aumentare sostanzialmente il livello della propria
potenza militare, ma anche la Russia, che può consentire questo aumento, ha a
sua volta bisogno del sostegno economico che l’Europa occidentale può darle. Un
processo che d’altra parte già allora si presentava tutt’altro che agevole,
soprattutto per quanto riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo,
giacché l’Europa potrebbe sostenerne economicamente l’efficienza solo se la
gestione e il controllo di esso fossero effettuati, oltre che dalla Russia,
anche dagli altri Stati europei. Certo, a distanza di vent’anni, la situazione
è cambiata: la crisi economica dell’Unione europea rende quest’ultima molto
meno forte nella contrattazione con una Russia che ha superato il trauma dovuta
al tramonto del marxismo e dell’economia pianificata. Da ciò si spiega
l’aumento della diffidenza dell’Ue (perfino della Germania) nei riguardi della
Russia. Sino a che la crisi economica dell’Europa non verrà superata, il
processo che conduce a una più stretta collaborazione politica tra Europa e
Russia subirà un inevitabile rallentamento. Da satellite degli Stati Uniti -
per i quali diventa peraltro sempre più pesante il compito di contenere anche
in Europa la pressione del mondo arabo -, l’Europa non intende diventare
satellite della Russia. D’altra parte è nella natura della storia dei rapporti
secolari tra Europa e Russia, della situazione geopolitica e degli attuali
rapporti economici tra le due aree, che esse vengano a formare un unico sistema
euroasiatico di controllo della conflittualità internazionale, insieme a Stati
Uniti, Cina, India. E se da un lato è nell’interesse della Russia che la decadenza
dell’Europa venga arginata per non essere coinvolta, dall’altro lato la Russia
non può non capire che gli Stati Uniti non accetterebbero mai che per tale
decadenza la Russia divenga arbitra delle sorti dell’Europa. Pertanto, se oggi
l’Europa è più debole che in passato nella contrattazione con la Russia,
esistono tuttavia le condizioni perché il rapporto tra queste due aree tenda a
riequilibrarsi. Non si tratta qui di auspicare (o temere) la simbiosi
Europa-Russia, ma di constatare una tendenza che è nell’ordine delle cose,
anche se contrastata da molte forze, innanzitutto da quanti, ancora,
concepiscono gli Usa come l’unica Superpotenza che non può rinunciare a questo
suo status e che in ultima istanza deve rispondere soltanto a sé stessa. (Tra
quelle forze va annoverata anche la Chiesa cattolica, che vedrebbe
ridimensionata la sua presenza in Europa ad opera della Chiesa ortodossa russa,
e che tempo fa, per bocca dell’allora ministro degli Esteri vaticano Tauran ha
manifestato perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione europea,
aggiungendo che prima si dovrebbe pensare all’entrata di Stati come l’Ucraina e
la Moldavia.) Per mezzo secolo il bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la pace
nel mondo, nonostante l’insanabile contrasto ideologico delle due superpotenze.
Alla guida dei popoli poveri, l’Urss ha anche contenuto e controllato la loro
aggressività. Impensabile, in quel tempo, un terrorismo islamico. Per quanto
paradossale possa sembrare, l’Urss ha contribuito in modo decisivo ad assicurare
la pace delle società democratico-capitalitiche. Da quando si è creduto che il
bipolarismo fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati sulle spalle un
fardello troppo pesante, reso ancor più pesante dal fatto che la Russia,
avviandosi verso la democrazia e l’economia di mercato, si è sempre meno
presentata come guida delle rivendicazioni dei popoli poveri e si è sempre più
schierata in favore delle popolazioni slave contro quelle mussulmane. Il
bipolarismo Usa-Urss è stato (come da vent’anni sostengo) la prima incarnazione
dello Stato mondiale - ossia del monopolio legittimo della violenza esercitato
su scala mondiale (cfr. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo,
Adelphi 1988); e sin dalla caduta del muro di Berlino sostengo che la scomparsa
del bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti. Infatti, il
bipolarismo ha un carattere primariamente militare, che non è certo venuto meno
per il fatto che l’arsenale nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a
quello Usa, non è più gestito da una ideologia totalitaria (Cfr. E.S., Il
declino del capitalismo, cit.). Se il bipolarismo gestito da irriducibili
avversari ideologici ha salvaguardato per mezzo secolo la pace (ho spesso
rilevato l’ingenuità della convinzione che le due maggiori potenze della terra
considerassero seriamente la possibilità di distruggersi a vicenda), si
presenta ora la tendenza reale verso un bipolarismo costituito da due
dimensioni economico- politiche (Usa e Europa-Russia), che, in parte già
omogenee, per quanto riguarda l’Europa, vanno sempre più avvicinandosi e che,
insieme, possono costituire quel centro dello sviluppo storico sulla terra, che
non può essere gestito da una sola delle due. È nello stesso interesse di
quest’ultimi che tale nuova forma di bipolarismo prenda piede. Ed è prevedibile
che alla fine gli Usa prendano coscienza dei loro autentici interessi. Degno di
nota, in proposito - ripetiamo - che in Italia il presidente del Consiglio del
governo di centrodestra abbia più volte proposto l’entrata della Russia
nell’Unione europea. Le considerazioni qui sopra sviluppate indicano il
contesto in cui tale proposta può avere fondamento. E forse è interessante
anche (e non paradossale, come a prima vista potrebbe sembrare) che quella
proposta sia accompagnata dalla volontà di mantenere un asse preferenziale con
gli Usa. Se non è una contraddizione, quella proposta può essere infatti
condotta a significare che l’Europa può essere la vera alleata e dunque non
subordinata ah’America, solo se essa possiede, oltre alla potenza economica,
anche quella militare, che oggi continua ad avere il suo fulcro in un arsenale
atomico invincibile, cioè in un apparato che sarebbe velleitario per l’Europa
costruire (nonostante la chance nucleari di Francia e Inghilterra), ma che la
Russia realmente possiede, e la cui perpetuazione diventa tuttavia sempre più
onerosa per la Russia - premuta, quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza
che in un mondo sempre più pericoloso l’invincibihtà atomica è un bene
irrinunciabile, e dall’altro dalla tentazione di intaccare il capitale atomico
cedendone porzioni in cambio dei vantaggi economici che i compratori, più o
meno affidabili, potrebbero assicurarle. L’entrata della Russia in Europa pone
indubbiamente enormi problemi - soprattutto, si è già detto, per quanto
riguarda la gestione dell’apparato nucleare russo -, che però sono pur sempre
inferiori a quelli dell’alternativa costituita da un mondo sempre più complesso
(anche per l’affacciarsi di nuove grandi potenze come la Cina) ed esplosivo, dove
gli Usa fossero convinti di poterne da soli determinare le sorti e dove le
difficoltà economiche della Russia potrebbero farle perdere il controllo del
proprio apparato nucleare a vantaggio del terrorismo islamico. Il problema del
rapporto tra popoli ricchi e poveri si risolve riducendo il loro dislivello
economico; ma la tendenza verso l’entrata della Russia nell’Unione europea e il
conseguente rinnovato bipolarismo stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi
ricchi e rende quindi efficace e sicura la loro indifferibile decisione di
ridurre la loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati. La costituzione
americana è un grande modello di società liberal-democratica, ma è
un’astrazione proporlo all’Europa senza tener conto del processo storico reale
che spinge l’Europa a confrontarsi col problema-Russia. È un’astrazione anche
perché il sottinteso dei sostenitori della democrazia e dell’economia di
mercato è che quest’ultime, dopo la fine del socialismo reale, non abbiano
alternative. Ma, anche qui, debbo rinviare a quanto vado sostenendo da molto
tempo. Infatti il Meccanismo inaggirabile - richiamato anche nelle pagine
precedenti - per il quale le grandi forze che oggi guidano il pianeta
(capitalismo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo ecc. - e,
ieri, socialismo reale), e che lo guidano servendosi, come mezzo, della tecnica
moderna, sono destinate a diventare mezzi del potenziamento del proprio mezzo,
cioè della tecnica, la quale dunque è destinata a diventare il loro scopo. Ma
la tecnica destinata a diventare scopo non è la tecnica scientisticamente
intesa, ma è l’apparato scientifico- tecnologico in quanto esso va unendosi
all’essenza della filosofia contemporanea, ossia alla struttura concettuale che
negli ultimi due secoli ha mostrato l’impossibilità di ogni limite assoluto
all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è guidata dal risultato
essenziale del pensiero filosofico dell’Occidente. In quanto tale pensiero la
guida e le fa scorgere l’impossibilità di ogni limite assoluto dell’agire, la
tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a quella di ogni tecnica
che invece sia assunta come mezzo e pertanto sia limitata e frenata dagli scopi
delle forze della tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la
destina - in un mondo che crede sempre di meno nei valori assoluti della
tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica che funzioni come mezzo per
la realizzazione di tali valori. Già da questo ordine di considerazioni si può
capire che lo strumento vincente conduce a una situazione dove la sua tutela e
Fincremento della sua potenza sono destinati a diventare lo scopo delle forze
che invece vorrebbero trattenerlo nella sua funzione di mezzo. Oggi anche la
democrazia si serve della tecnica, ma il mondo procede verso un tempo in cui
sarà la tecnica (intesa in quel suo significato complesso) a servirsi della
democrazia (e delle altre forze prima menzionate), ossia a utilizzare
l’organizzazione democratica della società per realizzare Fincremento della
propria potenza - a utilizzare la democrazia, dico, e non quell’assolutismo
politico che appartiene all’insieme dei limiti assoluti di cui il pensiero
filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la democrazia come scopo
della tecnica è qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia che diventa
mezzo della tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita buona, cioè
dell’etica, è qualcosa di essenzialmente diverso della ricchezza che ha l’etica
al proprio servizio; e l’etica che si serve della ricchezza è qualcosa di
essenzialmente diverso dall’etica di cui la ricchezza si serve. Ho in più modi
indicato perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di scopo e
mezzo sia qualcosa di inaggirabile - un rovesciamento, peraltro, che pur non
dicendo affatto l’ultima parola, è destinato a dominare per lungo tempo la
storia del pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti prima citati: E.S., Il
destino della tecnica, Rizzoli 1998; Crisi della tradizione occidentale,
Marinotti 1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza
2001; E.S., Capitalismo senza futuro, cit.). La democrazia europea e americana
continuano a concepire la tecnica come mezzo per realizzare un mondo
democratico. Stando all’interno di questa convinzione, si può vedere nella
costituzione americana il modello stesso della vita democratica. Ma se, in
forza di quel Meccanismo, la democrazia è destinata a perpetuarsi solo nella
misura in cui diventa mezzo della tecnica, e se la democrazia come mezzo è
qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come scopo, allora il
problema dell’adeguazione della democrazia europea al modello americano diventa
obsoleto, perché a questo punto viene in primo piano il problema di quale nuova
configurazione venga ad assumere - negli Stati Uniti, in Europa, in Russia - la
democrazia, una volta che essa sia ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il
Meccanismo di cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge lo stesso problema,
prima considerato, relativo al rapporto tra Usa, Europa, Russia. Il processo
che conduce verso il nuovo bipolarismo democratico è inscritto cioè nel più
ampio e più profondo processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito
potenziamento della tecnica - in quanto unita alla consapevolezza filosofica che
non esistono limiti assoluti all’agire umano (Dio è morto) - diventa lo scopo
delle forze che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque diventa
lo scopo della stessa democrazia. La rivista Liberal rileva che la democrazia
americana crede anche nelle responsabilità che si assume e nella sua capacità
di difendere i suoi principi di riferimento. A fondamento di questa fede si
trova la volontà di non cedere agli avversari; e tale volontà è concreta solo
in quanto potenzia il più possibile l’apparato scientifico-tecnologico che le
consente di non cedere. Ma sino a che tale apparato è mezzo, strumento, esso è
soggetto al logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia
stessa non può permettere che abbia a logorarsi lo strumento che le assicura la
sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in quanto evita che la tecnica, ossia
il proprio strumento, attualmente insostituibile, abbia a logorarsi, la
democrazia è già sulla strada del Meccanismo a cui abbiamo accennato, la strada
dove la democrazia stessa rinuncia a porsi come lo scopo dell’agire sociale e
assume come scopo del proprio agire la tutela e rincremento indefinito della
potenza del proprio strumento. Lo stesso discorso va fatto a proposito di tutte
le altre forze che, come la democrazia, intendono servirsi della tecnica come
mezzo per la realizzazione dei loro scopi (reciprocamente escludentisi).
D’altra parte la liberal-democrazia americana è unita all’economia di mercato e
già da tempo quest’ultima non è più lo scopo dell’azione storica degli Stati
Uniti. Essi cioè, in quanto superpotenza planetaria, non intendono sviluppare
la propria potenza, e guidare il mondo, allo scopo di incrementare il profitto
dei grandi trust del capitalismo americano, ma, all’opposto, intendono servirsi
del profitto che l’economia capitalistica va accumulando, allo scopo di
sviluppare la propria potenza e dominare il mondo. Infatti, anche questi due
scopi sono tra loro conflittuali; ed essere potenti per essere ricchi
indebolisce da ultimo la potenza e quindi la stessa ricchezza che dalla potenza
è resa possibile e sostenuta. L’inevitabile percezione di questa conseguenza
spinge l’America verso un atteggiamento dove essa vuole essere ricca per essere
potente, cioè per incrementare la potenza del proprio apparato tecnologico, di
cui ci si illude ancora, negli stessi Usa, di servirsi. Peraltro, l’illusione è
tanto più giustificata quanto meno viene percepita l’inevitabilità del tramonto
dei valori della tradizione occidentale - tra i quali, va sottolineato, vanno
annoverati gli stessi valori dell’islamismo. In questa situazione, lo scopo
dell’agire non è più l’incremento capitalismo del profitto, e quindi non è più
la liberal-democrazia in quanto a esso unita: lo scopo diventa la tecnica; e la
democrazia, cambiando volto, assume tratti che sono ancora tutti da decifrare.
Ma già qui è opportuno rilevare (e l’osservazione vale per tutto quanto ho
scritto sulla tecnica) che il rovesciamento in cui la tecnica, da mezzo,
diventa scopo - il meccanismo cioè del rovesciamento - è un movimento che si
costituisce alVinterno della fede che esistano mezzi e scopi - e questa fede
appartiene alla follia estrema del mortale (cfr. cap. VI). Come tale follia
diventa coerente quando essa nega ogni immutabile e ogni verità che pretendano
porsi al di sopra del divenire, per dominarlo, così la follia estrema diventa
coerente quando la volontà di far diventar altro le cose esce dalla situazione
in cui essa si serve della tecnica come mezzo ed entra nella situazione in cui
il potenziamento infinito della tecnica diventa lo scopo dell’uomo. Proprio
perché appartiene al contenuto della fede nel divenir altro delle cose, e
pertanto della volontà di farle diventare altro, il rovesciamento di cui stiamo
parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia alla non-verità. Nello
sguardo del destino, invece, appare che, commisurato alla verità autentica
ossia al destino della verità, il contenuto della follia - cioè della fede,
della volontà e della volontà interpretante - è il nulla - non essendo invece
un nulla la fede, la certezza che tale contenuto non solo non sia un nulla, ma
sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del destino della verità appare cioè che
l’apparire di quelVeterno, che è la fede di assumere la tecnica come mezzo, è
seguito da quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa
scopo - dove questo rovesciamento, cioè questo scambio delle parti, ha un
carattere vincolante, ossia è qualcosa di inevitabile, aU’interno della logica
e delle regole secondo cui si costituisce il contenuto della volontà
interpretante, ossia della fede. In altri termini, è lasciando parlare la fede
nel divenir altro, che essa, diventando coerente alla propria logica, afferma
la necessità che quella volontà di far diventar altro le cose, in cui la
tecnica consiste, divenga, da mezzo, scopo. Il discorso va esteso all’intero
contenuto della volontà interpretante: l’intero contenuto di tale volontà è il
nulla, ma tutte le determinazioni che restano evocate dalla volontà
intepretante sono degli eterni che appaiono con necessità così come appaiono -
dove questa necessità è essenzialmente diversa da quella che compete alla
logica che guida la fede e la volontà interpretante. Si richiami qui uno dei
motivi fondamentali per i quali in queste pagine si afferma che lo scambio
delle parti - ossia il rovesciamento del rapporto mezzo-fine - è, all’interno
di tale logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro, cit.).
Nell’agire, lo scopo, come idea - ossia come primum in intentione, come
presenza ideale nella mente di chi agisce - determina il mezzo da cui è
realizzato: lo configura, lo orienta e gli assegna i limiti oltre i quali esso
non sarebbe più idoneo a realizzare tale scopo. Lo scopo, come fatto reale -
ossia in quanto è Yultimum in executione -, è prodotto dal mezzo; ma, prima e
durante questa produzione, la presenza ideale dello scopo guida, controlla,
regola la produzione del mezzo. (Ad esempio, la decisione di far guerra guida,
controlla, regola la produzione delle armi che sono il mezzo con cui tale
decisione è realizzata, cioè sono il mezzo di cui quella decisione si serve per
realizzarsi?) Se uno scopo è in conflitto con altri scopi e non intende farsi
sopprimere da essi, e anzi intende prevalere e sopprimerli, l’agire che mira a
farlo prevalere non può evitare di potenziare il più possibile il mezzo di cui
tale agire si serve per far prevalere tale scopo. Ma non può potenziarlo oltre
i limiti al di là dei quali il mezzo non è più guidato, controllato, regolato
dallo scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo non può concentrare tutte le
proprie energie nella produzione e nel perfezionamento e potenziamento del
mezzo, altrimenti non resterebbero più energie e tempo per la realizzazione
dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di perfezionare e potenziare il più
possibile il mezzo con cui ci si propone di realizzare uno scopo sottrae il
mezzo alla guida, al controllo, alla regola che lo scopo stabilisce per la
produzione del mezzo. Se, nel conflitto tra scopi (e nella storia dell’uomo nessuno
scopo si è trovato al di fuori dell’elemento conflittuale), uno di essi, per
prevalere sugli altri, rinuncia alla propria o a una parte della propria
determinazione del mezzo e potenzia il mezzo oltre il limite che rende coerente
il mezzo allo scopo, gli scopi antagonisti saranno certamente vinti, ma il
vincitore non sarà nemmeno lo scopo che, per vincere, ha rinunciato a
determinare il proprio mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso. Sfuggendo alla
guida di ciò che dovrebbe essere il suo scopo, il mezzo che ha vinto non ha
realizzato il proprio scopo perché andato oltre i limiti che determinano il
mezzo e che, insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato uno scopo diverso da
quello che inizialmente intendeva servirsi di tale mezzo per realizzarsi. Propriamente,
lo scopo che è stato realizzato è diventato il potenziamento del mezzo che
doveva realizzare un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito da tale
potenziamento, il vecchio tenta di restare aggrappato per poter mantenere
ancora la propria funzione di scopo. Ma invano, perché la fine di un conflitto
è solo una parentesi nella conflittualità che è ineliminabile perché è dovuta
all’esistenza stessa dell’agire e della volontà; sì che viene alla luce che lo
scopo autentico dell’agire è un potenziamento del mezzo, che non consente ai
vecchi scopi di restargli aggrappati per sopravvivere come scopi. Anche lo
Stato parassitario che dà loro l’apparenza di scopi è destinato a tramontare.
Una situazione, poi, in cui nessun agire oltrepassi i limiti che determinano i
propri mezzi e definiscono i propri scopi sarebbe una situazione non
conflittuale, cioè una situazione impossibile, perché le cose che la volontà di
una certa forma di agire vuol trasformare per ottenere un certo scopo sono le
stesse che la volontà di una cert’altra forma di agire vuol trasformare per
ottenere uno scopo diverso, e quindi il conflitto tra le due volontà è
inevitabile. Quando si afferma che il fine non giustifica i mezzi, si intende
che i mezzi devono essere coerenti al fine voluto. Il fine giustifica i mezzi
che sono coerenti a esso. Ma la giustificazione dei mezzi è anche la loro
limitazione. La giustificazione dei mezzi da parte del fine è la loro
mortificazione, il loro freno. Poiché ogni scopo si trova in una situazione
conflittuale, l’agire, cioè l’assunzione di mezzi per realizzare scopi, è una
contraddizione, dove, da un lato, lo scopo guida il mezzo da cui è realizzato
e, dall’altro, per prevalere sugli scopi che impediscono tale realizzazione, lo
scopo non guida il mezzo. Da un lato il mezzo è potenziato fino a un certo
punto, dall’altro è potenziato oltre quel punto. La libertà dell’individuo
moderno è la facoltà di realizzare una serie di scopi, e nella democrazia la
libertà di un individuo si estende sin dove arriva la libertà degli altri
individui. Lo Stato moderno dovrebbe garantire l’equilibrio, cioè i limiti che
definiscono le diverse serie di scopi, cioè la libertà di ogni individuo. Ma
anche all’interno dello Stato moderno queste diverse serie sono tra loro
conflittuali, e pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione.
La libertà del cittadino è contraddizione. All’interno della contraddizione si
trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù, che è totale o parziale a
seconda che chi si impone abbia una signoria totale o parziale sul vinto. Nel
conflitto, chi ha vinto un avversario autentico - cioè che non si limita a
subire lo scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere sull’avversario -
ha dovuto potenziare i propri mezzi oltre i limiti che determinano i mezzi e
definiscono lo scopo del vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso,
perché per non perdere ha dovuto a sua volta oltrepassare il più possibile i
limiti che determinano i mezzi di cui disponeva e che definiscono gli scopi a
cui mirava. L’avversario autentico non perde (diventando in tal modo servo o
schiavo) perché non ha oltrepassato quei limiti, ma perché, oltrepassandoli non
ha ottenuto dai propri mezzi la potenza che dai propri è riuscito a ottenere il
vincitore. L’agire del vincitore è contraddizione proprio perché è
contraddizione anche l’agire del vinto. Poiché l’agire dell’uomo è
coordinazione di mezzi in vista della realizzazione di scopi, e si trova
essenzialmente all’interno di una situazione conflittuale, l’agire umano in quanto
tale è contraddizione. È contraddizione dallo stesso punto di vista di chi non
vede l’alienazione dell’agire in quanto volontà che qualcosa divenga e sia
altro da ciò che essa è. Tutte queste considerazioni sono ora da riferire alla
situazione conflittuale di particolare rilievo storico, dove le grandi forze
dell’Occidente intendono realizzare i loro scopi conflittuali servendosi ognuna
di una certa frazione dell’apparato scientifico-tecnologico, divenuto ormai il
Mezzo supremo per la realizzazione di ogni scopo dell’uomo. La filosofia del
nostro tempo mostra infatti, nella propria essenza, che non può esistere alcuna
dimensione divina e immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso
da quello tecnologico, cioè da ciò che nella tradizione filosofica era
l’adeguazione dell’uomo e dello Stato alla verità svelata dal sapere
filosofico. All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente intende
guidare, controllare, regolare e quindi limitare il mezzo tecnologico di cui
essa dispone. Ma nella situazione conflittuale è inevitabile che il limite che
determina il mezzo e definisce lo scopo di ognuna di tali forze sia
oltrepassato e che il potenziamento della tecnica divenga lo scopo supremo di
tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente dello scambio delle
parti e, insieme, la forma più imponente della contraddizione dell’agire.
Capitalismo, comuniSmo, democrazia, cristianesimo, islamismo, nazionalismo sono
(o sono stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il Mezzo
tecnologico a loro disposizione, e, dall’altro, sono (o sono stati) costretti a
indebolirlo, cioè a limitarne il potenziamento, per evitare di farlo uscire dal
loro controllo, dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la tecnica è il
fondamento della salvezza di ogni scopo e quindi ogni scopo, per salvare sé
stesso, è costretto ad assumere come scopo il potenziamento del proprio Mezzo:
per salvare sé stesso ogni scopo è costretto a rinunciare a sé stesso. Nel
saggio di S. La tendenza fondamentale del nostro tempo (Adelphi), ma anche
prima in Téchne (Rusconi 1979), e in seguito in altri scritti ancora, si mostra
in che senso e per quali motivi è necessario affermare, da un lato, che
l’essenza - Inanima - della civiltà occidentale è il pensiero filosofico, e,
dall’altro, che il pensiero filosofico del nostro tempo, quando si riesca a
scendere nel suo sottosuolo essenziale, mette in luce l’inevitabilità del
tramonto della grande tradizione dell’Occidente e l’altrettanto inevitabile
destinazione della tecnica al dominio del pianeta. Ma, fino a che non si scorge
il significato autentico di queste affermazioni, esse scadono al livello della
semplice notizia. (Se non intende essere la semplice opinione di qualcuno, ogni
affermazione dev’essere infatti argomentata. La parola argomento proviene dal
latino arguo e dal greco argòs, che indicano il porre in chiara luce. Poiché la
luminosità può essere maggiore o minore, per affermare qualcosa in modo
adeguato bisognerebbe dire che cosa propriamente significa luce e qual è il
grado di luminosità di cui la risposta si avvale. Da millenni l’uomo tenta di
dirlo.) In che consiste l’identità dell’Europa? È stato indicato in molti modi.
Come prendere posizione? Innanzitutto va messa in luce l’indicazione che è in
grado di includere tutte le altre e che non è inclusa da nessun altra. È quindi
inevitabile che essa sia la più astratta. In quanto è comune alla maggiore o
minore concretezza di tutte le altre, tale indicazione sta infatti al di sopra
della concretezza - senza tuttavia ignorarla. L’astratto non è qualcosa di
negativo; è anzi il segreto in cui è riposta l’adeguatezza della diagnosi. Si
tratta di portare alla luce ciò che è comune all’immensa varietà di eventi da
cui è costituita la storia europea. Oggi il sapere diffida di ciò che è comune.
Si ritiene, oggi, che la forma più rigorosa del sapere sia la specializzazione
scientifica - che, appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune. Ma dal
comune non ci si può liberare. Ogni sapere autentico - si dice - dev’essere specialistico
e quindi il senso dell’Europa si spezza nella molteplicità di sensi che
appaiono all’interno delle varie forme della specializzazione e del frammento.
Ma se solo il frammento ha senso - se cioè il senso è frammentario -, allora
tutti i frammenti hanno questo di inevitabilmente comune : di essere, appunto,
dei frammenti. Inoltre l’Europa è, originariamente ed essenzialmente, tendenza
e vocazione al frammento e all’isolamento delle cose. A un certo momento, in
Grecia si incomincia a pensare che una cosa è ciò che è - l’ente - ed è come
ciò che non era e non sarà, ossia è come ciò che era nulla e tornerà a esserlo.
Ma ciò che è stato nulla non può avere alcuna relazione con ciò che già esiste,
instaura relazioni provvisorie e accidentali che verranno meno quando ciò che è
non sarà più. Questo significa che, nonostante ogni intenzione in senso
contrario, ogni cosa è un frammento, è isolata da ogni altra. La
specializzazione scientifica ha il proprio fondamento nella filosofia greca,
che stabilisce una volta per tutte il significato delVesser-cosa, con un gesto
che si rende sempre più presente e operante in ogni azione e in ogni
conoscenza: in ognuno degli infiniti eventi, grandi e piccoli, che formano la
storia dell’Europa, dapprima, e, ormai, dell’intero pianeta. In questo
significato consiste Yidentità dell’Occidente. A esso sono essenzialmente
legate la volontà di potenza e la violenza estrema. Si può voler annientare
qualcosa solo se si crede che le cose (uomini e enti non umani) siano di per sé
stesse figlie del niente e a esso destinate. E la violenza dell’annientamento
inseparabile dalla violenza della creatività. Dapprima l’Occidente non si
accorge del proprio essere volontà separante e costruisce le grandiose
cattedrali della volontà unificante: il senso filosofico del Tutto, che
raccoglie in sé le differenze e le opposizioni più marcate, il Dio di tutte le
cose, l’eguaglianza cristiana tra gli uomini in quanto figli di Dio, la volontà
di essere comprensibile da tutti, lo Stato che è il Dio in terra e dunque
principio di unità, l’economia di mercato che mette in comunicazione i popoli,
la scienza che, prima di diventare specializzazione, vuol essere a lungo
unificazione delle leggi della natura, il comuniSmo che si rivolge ai
lavoratori di tutto il mondo perché si uniscano, la globalizzazione del nostro
tempo: sono alcuni degli esempi più rilevanti della volontà di unire ciò che,
essendo stato concepito e vissuto come separato, non può essere unito. È
innanzitutto il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo a portare
al tramonto la volontà unificante della tradizione. Dio muore e rimane la terra
infranta. Su questa base, non solo ogni integrazione e interazione tra i
popoli, ma anche tra gli individui dello stesso popolo, della stessa città,
della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi provvisori. Auctoritas, non
veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari Schmitt). Anche su base
linguistica, lex è l’ordinamento imposto alle cose, che quindi le costringe a
stare insieme. La verità è il mondo in cui nella tradizione occidentale si
vuole legare ciò che è vissuto e inteso come originariamente separato. La
verità è quindi destinata al tramonto. E auctoritas significa potenza (anche
qui la linguistica lo conferma). La legge è il risultato dell’ auctoritas,
ossia della costrizione che lega insieme le cose. La potenza della legge può
essere maggiore o minore. Oggi la potenza maggiore è la tecnica guidata dalla
scienza moderna. Il sottosuolo della filosofia del nostro tempo ha distrutto la
verità e quindi autorizza la tecnica a facere legem. La specializzazione
scientifica, Lisciamento e il frammento sono legati alla costrizione che con la
propria potenza unisce i frammenti del mondo. Qui è il fondamento di ciò che
vien chiamato globalizzazione. Ma se ogni volontà di unire ciò che non può
essere unito è una costrizione destinata, prima o poi, a fallire, si apre il
problema della configurazione dell’evento che è destinato a lasciarsi alle
spalle la stessa civiltà della tecnica. Stiamo parlando a un pubblico composto
soprattutto da giuristi. Che però sono anche filosofi del diritto e quindi
comprendono bene l’opportunità che nel mio intervento tenga conto anche delle
sollecitazioni che prima mi sono state rivolte. Innanzitutto è il caso che ci
si chieda che cosa significhi filosofia. Se già qui non ci intendiamo, faremo
poca strada insieme. Ne facciamo ben poca se concepiamo la filosofia come un
sapere che dipende dalla scienza, se riteniamo cioè che la filosofia, per
costituirsi, debba incominciare col tener conto di quanto si afferma
nell’ambito del sapere scientifico. Alla filosofia è nota l’esistenza del
mondo, e nel mondo c’è anche la scienza; ma ciò non significa che la filosofia
debba fondarsi sulle sapienze del mondo (oltre alla scienza ce ne sono anche
altre). Se ha bisogno di fondarsi sulla scienza, meglio lasciarla perdere, la
filosofia; che non potrebbe andare molto oltre una specie di ricapitolazione
del sapere scientifico. Meglio lasciar parlare questo sapere. Prima è venuto
fuori il nome di Searle. Che, anche lui insieme a moltissimi altri (in ogni
campo), dà appunto per scontato che esista quella forma di storia del mondo
dove, in un primo tempo, l’uomo ancora non esiste, seguita da un tempo nel
quale l’uomo esiste, e infine da un tempo in cui, con ogni probabilità, l’uomo
non ci sarà più e il mondo continuerà a esistere più o meno a lungo. Certo, la
scienza procede adottando la convinzione che la realtà esista indipendentemente
dalla conoscenza umana di essa, breve parentesi nel corso degli eventi. Spesso
(ma con eccezioni) gli scienziati (per esempio Max Planck) lo affermano
esplicitamente. (Però Bertrand Russell, senza essere idealista, ammette la
possibilità che il mondo intero sia incominciato a esistere da pochi istanti,
corredato di tutte le esperienze che ne abbiamo, di tutti i nostri ricordi del
suo più lontano passato e con tutte le aspettative e i progetti riguardanti il
futuro.) Per Searle, poi, uno che non lo creda è un minus habens. Non credo
tuttavia di esserlo, se affermo che la filosofia non può presupporre alcune
delle pur mirabili costruzioni del sapere scientifico, anche perché si tratta
di un sapere che, come l’amico Giorello sa benissimo, oggi riconosce il proprio
carattere ipotetico. Ora, sarebbe sorprendentemente improprio che si desse
credito (come mi sembra che Ferraris finisca col fare) al senso comune, e lo si
sollevasse al rango di verità incontrovertibile, là dove il sapere scientifico,
perfino il sapere logico-matematico, mette in questione la propria incontrovertibilità,
la propria verità assoluta. La filosofia è critica radicale, radicale
problematizzazione del sapere, e quindi non può procedere dando per scontati i
risultati della scienza (o di qualsiasi altra sapienza, quella filosofica
compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad affermare che la
filosofia, autenticamente intesa, richiede una concettualità estremamente più
radicale di quella scientifica. Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a essere
(ripeto) un panorama del sapere scientifico, o una specie di pattuglia in
avanscoperta dove alcuni audaci, o incoscienti, si inoltrano nel deserto per
tentar di vedere di sfuggita e approssimativamente come stanno le cose, in
attesa che poi arrivino le truppe regolari, quelle della scienza, che stabiliscono
come le cose effettivamente stanno e rimandano nelle retrovie le avanguardie
filosofiche. No: sin dall’inizio la filosofia ha inteso essere 1’evocazione
dell’innegabile, della verità in quanto innegabilità assoluta. Anche quando si
contrappongono i fatti alle interpretazioni si tende a considerare il fatto
come l’innegabile, come ciò che non può essere negato, mentre l’interpretazione
- lo richiamava il professor Zaccaria - rende sì particolarmente significativo
il fatto, ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di non-verità, per
cui da ultimo, nel confronto, è il fatto che prevale - e prevale in quanto,
appunto, lo si ritiene innegabile. La filosofia evoca il senso radicale
dell’innegabile unendolo al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di
leggere Heidegger: basta un vocabolario per sapere che i Greci chiamano
alétheia la verità. A-létheia significa, alla lettera, non nascondimento. Ciò
che è vero è il non nascosto. Heidegger però non rileva che, per il pensiero
greco la verità, nel suo senso radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes
alethéias (scienza della verità è una delle traduzioni correnti di questa
espressione). Ciò che si disvela neW alétheia è il contenuto assolutamente
stabile (epistémonikón ). Il tema -ste di epi-stéme, dalla radice indoeuropea
-sta, nomina appunto lo stare di ciò che, disvelato, si impone su (epi) tutto
ciò che vorrebbe spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si può dire
che epistéme tes alethéias esprime sia un genitivo oggettivo (il sapere assolutamente
stabile che ha come contenuto la verità), sia un genitivo soggettivo (la
stabilità assoluta che è il contenuto del disvelamento). Questo senso radicale
della verità - il contenuto manifesto che sta e che, proprio perché sta, è
innegabile - è evocato una volta per tutte dal pensiero greco. Una volta per
tutte, anche perché quando oggi, per esempio nel sapere scientifico o
filosofico, si dichiara di non voler proporre verità assolute,
incontrovertibili, definitive, ci si riferisce appunto al senso radicale della
verità che i Greci hanno per la prima volta evocato, e da esso ci si allontana.
A questo punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò che si mostra
nella sua stabilità, significa che ciò che oggi è chiamato coscienza è il luogo
dell’innegabile. È nella coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e
si rendono visibili. I Greci chiamano phàinesthai la visibilità, l’ apparire
(phàinesthai deriva da phos, luce, e il visibile, essendo ciò che sta in luce,
garantisce la propria esistenza). Ma come la semplice affermazione che X è X, o
che a X non possono convenire Y e non-Y, non è sufficiente per poter affermare
che il principio di identità e di non contraddizione sono innegabili, così la
semplice affermazione che qualcosa appare non è sufficiente per rendere
innegabile il principio della fenomenologia - che in effetti non riesce a
essere che un presupposto, un dogma. Perché ciò che appare non può essere
negato? Con questa osservazione alludo alla necessità di procedere oltre
l’immediata elevazione del visibile al rango dell’innegabilità. Il senso greco
deìYalétheia (da cui discende il principio di tutti i principi della
fenomenologia) è ineliminabile, ma non può riuscire a essere l’assoluta
stabilità e innegabilità richieste dal pensiero filosofico. Quando, sul
Corriere della Sera, intervenni nella polemica sul cosiddetto nuovo realismo
(cfr., nel presente saggio, sezione seconda, cap. 8) intendevo mostrare quali
siano le possibilità del realismo e dell’idealismo, ossia di forme filosofiche
che si presentano all’interno della storia dell’Occidente. I miei scritti
indicano tuttavia la dimensione che mostra perché tale storia è il culmine de\Y
alienazione della verità. I Greci evocano cioè una volta per tutte il senso
della verità, ma aprono anche la strada al pensiero in cui si intende come
verità ciò il cui contenuto è, in modo radicale, l’alienazione della verità. In
quel mio intervento sottolineavo la potenza concettuale di Giovanni Gentile; ma
non, ovviamente, perché il pensiero di Gentile sia libero da quell’alienazione.
Ciò a cui quegli scritti si rivolgono è abissalmente lontano dal pensiero di
Gentile. La potenza concettuale del pensiero di Gentile è massima perché tale
pensiero è massimamente rigoroso nell’errare. Non tenendo conto di questa
potenza dell’errare, il cosiddetto nuovo realismo (all’estero e in Italia) non
fa cheriproporre (sembra senza rendersene conto) quel realismo della tradizione
greco- medioevale che è stato messo in questione, e fuori gioco, dallo sviluppo
fondamentale della filosofia moderna da Cartesio a Kant, all’idealismo fino,
appunto, aH’idealismo gentiliano. Giacché - qui entriamo nel vivo della
questione - più decisivo del problema del rapporto tra realismo e idealismo o
tra realismo e ermeneutica, ben più decisivo è il problema della sorte della
verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è il contenuto che la
verità (l’incontrovertibile, l’innegabile) ha assunto nella tradizione
dell’Occidente, altro è il contenuto che la verità è venuta in seguito ad
assumere - e inevitabilmente. Queste considerazioni coinvolgono anche la
dimensione del pensiero giuridico. Quando si confronta il fatto con
l’interpretazione, il fatto si presenta come ciò a cui per lo più compete il
carattere dell’innegabilità, della verità. Tuttavia in campo giuridico il
problema del rapporto fatto- interpretazione riguarda l’esigenza di porre tale
rapporto in relazione con la norma : l’accertamento del fatto intende stabilire
la compatibilità del fatto con la norma. E l’accertamento della convergenza o
divergenza del fatto rispetto alla norma non è fine a sé stesso, ma è operato
perché sia fatta giustizia. Il problema del rapporto fatto-norma rinvia al
problema della giustizia; e tale problema riceve oggi (penso ad esempio a Rawls
e a Kelsen) una soluzione essenzialmente diversa da quella che gli viene data
lungo la tradizione filosofico-giuridica. Qual è la definizione tradizionale di
giustizia? Nella Summa Theologica Tommaso d’Aquino scrive: Iustitia est
constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi, la perpetua e
costante volontà di assegnare a ciascuno il suo ius. Una definizione in seguito
continuamente ripetuta (qualche volte con l’infinito del verbo invece del
gerundio). Sono note le critiche che sono state rivolte a questa definizione -
non solo tomistica, ma classica - di giustizia. Essa sarebbe un circolo vizioso
perché nel definiens si ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il
definiendum, ma ius, che compare nel definiens sarebbe daccapo identico al definiendum).
Eppure questa definizione non è un circolo vizioso. Si rifa a Platone, al
secondo e quarto libro della Repubblica : giustizia è, sì, che ciascuno non
abbia ciò che è di altri e non sia privato di ciò che è suo (IV, 433 e), ma
quel che è decisivo è 95 che ciò che è suo è ciò che gli spetta in relazione
all’Ordinamento assoluto della realtà che è compito dell’ epistéme della verità
mostrare, indicando pertanto in che luogo di tale Ordinamento si trova ogni
uomo e ogni cosa. La verità mostra incontrovertibilmente in che cosa consistono
gli uomini e i diversi tipi dell’umano, e la giustizia è il riconoscimento, nel
conoscere e nell’agire, di ciò che, in verità, ogni uomo è e di ciò che non può
essere perché, in verità, è di altri. Lo ius che compare nel definiens della
definizione qui sopra menzionata non è dunque la semplice ripetizione della
iustitia in quanto definiendum. Poiché Yepistéme tes alethéias crede di poter
mostrare in modo incontrovertibile l’esistenza di un Ordinamento assoluto e
immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è quello che essa è
solo in quanto ha il posto che le spetta all’interno di tale Ordinamento), la
giustizia è appunto il riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a
ogni cosa, e pertanto quella definizione della iustitia non è un circolo
vizioso. (Né ciò significa che lungo la storia del pensiero filosofico
quell’Ordinamento abbia avuto sempre la stessa configurazione.) Questa
grandiosa concezione della giustizia illumina e domina anche la dimensione
giuridica della tra dizione occidentale. Uno dei temi centrali in sede
giuridica è oggi il rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Il
diritto naturale è il modo in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato
dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che nella società
accade, i fatti, e le norme che la regolano. Tali norme si inscrivono in
quell’ordinamento e stabiliscono ciò che spetta a ciascuno aH’interno di esso,
ossia ciò che a ciascuno spetta per natura - la natura non essendo altro che
tale Ordinamento. Si aggiunga che se il diritto naturale afferma che l’uomo ha
un posto che gli spetta necessariamente, per natura, nell’Ordinamento
complessivo e incontrovertibilmente immutabile della realtà, allora non le
interpretazioni, ma le constatazioni (ossia ciò che è ritenuto constatazione),
qui, hanno il compito di accertare se i fatti (ciò che accade) siano o no
compatibili con le norme. Al diritto naturale si contrappone oggi il diritto
positivo. Questa contrapposizione è la conseguenza, in campo giuridico, di un
evento grandioso e spaesante: il tramonto delle forme sapienziali e pratiche
della tradizione dell’Occidente, il tramonto cioè al cui fondamento agisce il
tramonto dell ’epistéme della verità e dell’Ordinamento immutabile che essa ha
inteso mostrare. Essenzialmente più decisiva del rapporto tra idealismo (o
pensiero ermeneutico) e realismo - ognuno dei quali intende valere come il
contenuto della verità - è, dicevo prima, la domanda: Che ne è della verità?; e
quindi: Qual è la storia della verità?. Infatti il problema della
contrapposizione tra realismo e idealismo può essere risolto solo accertando
perché si debba tener ferma la verità dell’uno piuttosto che la verità
dell’altro. Tutto ciò significa che il problema relativo a quella
contrapposizione, e pertanto alla questione del rapporto tra fatti e
interpretazioni, rinvia da ultimo alla questione di quale sia il contenuto che
è necessario porre come verità, ossia come incontrovertibilità. Vado
richiamando da tempo che l’autentico e profondo avversario della tradizione
occidentale non è il relativismo (come ad esempio la Chiesa cattolica invece
ritiene). Al di sotto del rifiuto appariscente ma impotente della tradizione
occidentale, proprio del relativismo, al di sotto di tale rifiuto, ossia nel
luogo che vado chiamando sottosuolo filosofico del nostro tempo, agisce un
pensiero tendenzialmente nascosto, ma capace di mostrare Vimpossibilità che
l’Ordinamento immutabile e divino della tradizione sia il contenuto dell’ epistéme
della verità. Fra i pochi abitatori del sottosuolo, Giovanni Gentile,
Nietzsche, e ancor prima di loro Leopardi. Nell’ epistéme della verità
quell’ordinamento immutabile domina il mutamento degli enti del mondo, domina
cioè il loro uscire dal nulla e il loro ritornarvi. L 'epistéme è il
riconoscimento originario dell’esistenza del mutamento così inteso. Ma è
appunto sul fondamento di tale riconoscimento che nel sottosuolo essenziale del
nostro tempo si mostra (ne accenneremo tra poco) Vimpossibilità dell’esistenza
di ogni dimensione immutabile. Ogni realtà e ogni sapienza sono pertanto
storiche, temporali, contingenti, finite. Da ciò segue, e inevitabilmente, il
prevalere del diritto positivo sul diritto naturale, cioè segue la necessità
che ciò che spetta a ciascuno e ciò che non deve essergli sottratto è tale non
assolutamente, ma in relazione a una certa epoca storica dove le forze sociali
che sono riuscite a imporsi sulle altre stabiliscono (con una voluntas che
quindi non è constans et perpetua ) che cosa sia ciò che in tale epoca spetta a
ciascuno (ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non gli può essere tolto.
Hanno carattere storico, pertanto, non solo i fatti, ma anche i criteri in base
ai quali i fatti sono individuati, interpretati e giudicati. E, questo, sia che
i fatti vengano sia che non vengano considerati come indipendenti dal loro
essere interpretati. Il tramonto di ogni realtà e sapienza immutabile è quindi
l’orizzonte comune al realismo e all’idealismo - la cui contesa si risolve
peraltro in favore dell’idealismo solo qualora quest’ultimo si sollevi alla
dimensione che l’attualismo gentiliano (come altrove ho mostrato) ha saputo
indicare. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo e il positivismo giuridico
Se si vuole richiamare in breve il senso essenziale della potenza concettuale
del sottosuolo filosofico del nostro tempo (degli ultimi due secoli, si
potrebbe dire) - se lo si vuole richiamare in breve e in una forma che possa
valere come tratto comune agli abitatori del sottosuolo (che d’altra parte
hanno elaborato in modi specifici e differenziati tale tratto) -, si deve
innanzitutto richiamare la convinzione di fondo che incomincia con la vita
stessa dell’uomo sulla terra, e che lungi dall’esser qualcosa di nascosto in un
sottosuolo sta invece alla luce del sole, mostrando ciò che non viene in alcun
modo messo in questione lungo l’intera storia dell’uomo: si tratta della
convinzione che la terra si trasforma, e l’uomo con essa. La trasformazione è
il diventar altro da parte delle cose, il loro diventare altro da ciò che
dapprima esse sono. Le teogonie e le metamorfosi confermano il carattere
archetipico di questa convinzione. Con l’avvento del pensiero filosofico il
diventar altro da parte delle cose è interpretato in senso ontologico : il loro
diventar altro si spinge fino al loro diventare quell’assolutamente altro che è
il loro non essere, ossia il loro esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla,
diventano quell’assolutamente altro dal nulla che è il loro essere, ossia il
loro esser enti. La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte nella storia
dell’Occidente e ormai del pianeta, non solo il senso della verità come
assoluta incontrovertibilità, come epistéme tes alethéias, ma anche il senso
ontologico del diventar altro delle cose; e una volta per tutte, lungo quella
storia, l ’epistéme della verità pone tale senso come il proprio contenuto
originario. È a partire da questo contenuto che, nella tradizione, Yepistéme
della verità si porta oltre di esso (oltre, cioè metà, nella lingua greca) e si
costituisce come metafisica, ossia come sapere che mostra la necessità di
affermare, al di là delle trasformazioni del mondo, 1’esistenza
dell’Ordinamento immutabile e divino dal quale il mondo è regolato e per il
quale il diritto naturale si fonda su di un’etica assoluta. Il senso ontologico
del diventar altro diventa in tal modo l’evidenza suprema delVintero Occidente:
sia della tradizione dell’Occidente, sia del sottosuolo filosofico del nostro
tempo, sia degli amici sia dei nemici di Dio. Ma è questo sottosuolo e il
carattere della sua inimicizia verso il divino a costituire la forma più
radicale e rigorosa della fedeltà a ciò che lungo l’intera storia
dell’Occidente e ormai del pianeta - dunque anche all’interno del sapere
scientifico, religioso, artistico e ormai dello stesso senso comune - è
ritenuta la suprema evidenza del senso ontologico del diventar altro. (È per
questa fedeltà che il diritto positivo si fonda su una forma storica di etica,
su di una Grundnorm, che è tale solo in relazione a una certa epoca storica e
che quindi - la tesi è resa esplicita da Kelsen - può avere qualsiasi
contenuto.) Ebbene, da un lato, l’Occidente è convinto, sin dai suoi primi
pensatori, che l’evidenza suprema sia il provenire degli enti dal nulla e il loro
ritornarvi (e si può dire che anche Parmenide lo creda: nel senso che egli
afferma l’esistenza di una regione dove si crede evidente il provenire e il
ritornare nel nulla da parte degli enti, una regione che tuttavia egli
qualifica come illusione, dóxa). All’interno di questa convinzione il futuro è
l’ancor nulla, il passato è formai nulla. D’altra parte, in ogni sua
configurazione, Yepistéme della verità, che lungo la tradizione dell’Occidente
intende affermare l’esistenza di un Ordinamento (o Legge) immutabile, non può
ritenere che tale Ordinamento domini soltanto il presente, ma deve ritenere che
il suo dominio si estenda anche alla totalità del futuro e del passato, cioè
che futuro e passato non possano sottrarsi al suo dominio e alla sua legislazione.
Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla del futuro possano provenire o che
dall’ormai nulla del passato possano ritornare cose che si sottraggono a tale
Ordinamento e siano per esso qualcosa di imprevisto. Nemmeno la libertà
dell’uomo e la contingenza delle cose riescono a distruggere realmente la
Legge. La Legge deirimmutabile è universale (e chi ha creduto di poterla
violare si è ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla Giustizia e dalla
Punizione). Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor nulla del
futuro e l’ormai nulla del passato e gli prescrive tutto ciò che da essi può
veramente (e non apparentemente e provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a
essi è destinato ad appartenere. Ma questa invasione del nulla da parte deH’Immutabile
rende essente il nulla, lo entifica e quindi cancella o rende apparente il
senso ontologico del diventar altro, il senso che sussiste solo in quanto è un
diventare dal nulla e un diventare nulla. E tale entificazione del nulla non
soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che Yepistéme stessa
dell’Immutabile è essa per prima a riconoscere -, ma nega e sopprime anche
quella differenza tra il cominciamento e il risultato del divenire, senza la
quale nessun divenire, e tanto meno il divenire ontologicamente inteso, può
esistere. Così parla il sottosuolo essenziale (cioè filosofico) del nostro
tempo. Se una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile esistono, è
impossibile che esistano quel divenire e quella volontà di far divenire le cose
che per l’intera storia dell’Occidente (dunque anche per la tradizione
epistemica) sono l’originaria, suprema e innegabile evidenza. È appunto nel
sottosuolo essenziale del nostro tempo che l’Occidente giunge a scorgere, sul
fondamento di tale evidenza, che l’autentica realtà e l’autentica verità
immutabile sono il divenire di ogni realtà e di ogni verità immutabile e
pertanto sono la volontà sempre più potente di trasformare il mondo. Non
rendendosi conto del proprio carattere essenzialmente antinomico, la tradizione
epistemico-metafisico-teologico- ontologica dell’Occidente elabora la pur
potente struttura concettuale in cui si intende mostrare che gli enti
divenienti esistono solo se esiste un Ente immutabile; gli abitatori del
sottosuolo essenziale del nostro tempo, scorgendo il carattere antinomico della
tradizione, si rendono conto che gli enti divenienti possono esistere solo se
non esiste alcun Ente immutabile. E questa è conseguenza necessaria della fede
che il divenire sia l’evidenza originaria e innegabile. Anche se il sottosuolo
non ama questa espressione, esso è dunque la forma più coerente dell’ epistéme
tes alethéias, perché esso mostra che il contenuto d éìl y epistéme
incontrovertibile non è il rapporto tra il divenire e l’Immutabile, ma
l’esclusione necessaria di ogni Immutabile. Appunto in forza di questa
necessità tale sottosuolo non ha nulla a che vedere con le ingenuità del
relativismo e dello scetticismo. Dalla potenza concettuale del sottosuolo
deriva l’impossibilità di ogni diritto naturale; il prevalere del diritto
positivo è inevitabile. Il tramonto della forma tradizionale dell’ epistéme
(che si dispiega dai Greci a Hegel) è cioè anche il tramonto della
configurazione giuridica di tale forma, ossia è il tramonto del diritto
naturale. Il senso autentico del conflitto tra diritto naturale e diritto
positivo può essere quindi compreso solo se lo si vede inscritto nella
grandiosa vicenda che conduce al tramonto ormai planetario degli Immutabili.
Tuttavia, anche per il positivismo giuridico la giustizia è volontà di ius suum
unicuique tribuere: nel senso che ciò che spetta a ciascuno non è quanto viene
mostrato dalYepistéme della verità, ma ciò che, all’interno di un certo gruppo
sociale e in un determinato periodo storico, per le norme vigenti spetta a
ciascuno. Ma poi, sul fondamento della distruzione dell ’epistéme della verità,
a ciascuno e a ogni cosa di ogni luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il
loro essenziale divenire, il loro essenziale esser qualcosa che esce dal proprio
nulla e vi ritorna; sì che la giustizia consiste nel salvaguardare e
assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il loro diritto di
oltrepassare ogni limite assoluto (e di non costituire un limite siffatto). In
questa situazione, ogni forza si propone di prevalere sulle altre, ogni
individuo sugli altri. Ma le grandi forze che guidano il mondo e gli individui
si servono tutte, per prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica è
destinata a diventare, da mezzo, scopo di tali forze, essa impedisce che
l’anarchia totale prenda piede e, subordinando a sé ogni forza, stabilisce una
gerarchia, riconosce a ogni forza e a ogni volontà di potenza ciò che loro
spetta alFinterno di tale gerarchia e pertanto realizza la forma suprema di
giustizia a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà di ius
suum unicuique tribuere. 103 4. Realismo e idealismo Quanto alla
contrapposizione tra realismo e idealismo (nella quale è coinvolto il rapporto
tra fatti e interpretazioni), ho già rilevato che essa si inscrive nella
vicenda, qui sopra tratteggiata, del tramonto degli Immutabili. Aggiungo che
tale contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero occidentale, una
complessità ben più profonda del modo in cui il realismo viene oggi sostenuto
in ambito analitico e continentale e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo
viene conosciuto. Ad esempio si tende a ignorare la necessità che conduce dal
realismo premoderno alla riflessione cartesiana sull’ impossibilità che - se la
vera realtà è esterna al pensiero e indipendente da esso (come vogliono il
realismo premoderno e lo stesso Cartesio) - la realtà pensata (il cogitatum),
in quanto pensata (la realtà che peraltro è il mondo in cui l’uomo vive), sia
indipendente dal pensiero. E si tende a ignorare l’ulteriore necessità
(mostrata dall’ideahsmo) che la cosiddetta realtà esterna e indipendente dal
pensiero sia pur sempre un pensato e sia dunque un concetto
autocontraddittorio. (Nella tradizione l’idea è ciò attraverso cui è conosciuto
l’oggetto reale, essa è id quo objectum cognoscitur; Cartesio mostra la
necessità di intendere l’idea come ciò che è conosciuto, id quod cognoscitur,
ma che, ancora, lascia al di là di sé la vera realtà l’essere formale: Kant
vede l’impossibilità di conoscere la vera realtà, la cosa in sé; l’idealismo,
rilevando l’autocontraddittorietà di ogni concetto di cosa in sé e di realtà al
di là del pensiero, mostra la necessità che Vobjectum del pensiero sia idea, ma
mostra insieme che l’idea è la stessa realtà in sé stessa, la stessa cosa in
sé. Lo stesso sviluppo si ripropone nella riflessione sul linguaggio, che
conduce alla cosiddetta svolta linguistica; lo sviluppo dove, dapprima, nella
tradizione, la parola è intesa come id quo objectum 104 dicitur - e Yobjectum
sta al di là della parola poi ci rende conto che, in quanto detto, è Yid quod
dicitur a dover essere Yobjectum della parola, sì che il linguaggio parla del
linguaggio, ma, ancora, lasciando al di fuori di sé la cosa; infine si
intrawede che anche la cosa è in qualche modo detta e pertanto, non la cosa
esterna al linguaggio, ma il linguaggio stesso è la cosa, che peraltro continua
a esser concepita come ciò che esce dal nulla e vi ritorna). Ma anche il
realismo premoderno è ben più complesso delle sue attuali configurazioni. Per
il realismo greco, ad esempio, è propriamente solo quando Yepistéme della
verità ha dimostrato l’esistenza della Realtà immutabile, è solo allora che può
essere affermata l’indipendenza della realtà dalla conoscenza umana. Ne\YEtica
Nicomachea (se ricordo bene, in 1139 b), si dice che quello che sappiamo
epistemicamente non può essere diversamente da com’è; ciò che può essere
diversamente da come è, quando esca dall’osservazione [ci] rimane nascosto se
esso sia o non sia. La potenza di questa affermazione è tale da prefigurare e
contenere l’essenza stessa del pensiero fenomenologico dei nostri tempi. Il
testo greco dice: ho epistàmetha, che ho tradotto con quello che sappiamo
epistemicamente, ossia ne\Yepistéme della verità. Ciò che sappiamo in modo
epistemico met’endéchesthai àllos échein, non può essere diversamente [da come
è]. Questo non poter essere diversamente è l’innegabilità,
l’incontrovertibilità, la definitività deìYepistéme della verità. È in modo
assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in modo epistemico non possa
essere diversamente; esso non può assolutamente essere diverso da ciò che
l’epistéme è. Il testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia
alle cose che è possibile che stiano diversamente (e che quindi non sono
contenuti àe\Yepistéme), e dice che, quando escono dall’osservazione ( hótan
éxo tou theoreìn génetai), allora lanthànei, cioè rimane nascosto, ei estin e
mé, se esse siano o non siano. L’osservazione, theorein, è la nostra visione delle
cose del mondo, è il loro apparire, mostrarsi, il phàinesthai (Cartesio lo
chiamerà cogitare). Ho tradotto theorein con osservazione perché theorein è
costruito su theorós, ossia lo spettatore, colui che osserva e vede con i
propri occhi. Quando le cose non epistemicamente note escono dall’apparire
rimangono, appunto, nascoste, e quindi rimane nascosto se continuino a esistere
o no. Ciò che invece continua a esistere anche quando non appare nella
conoscenza umana è l’Ente immutabile la cui esistenza è dimostrata, all’interno
deWepistéme, sul fondamento del principium firmissimum che nega la
contraddittorietà degli enti. D’altra parte, l’apparire degli enti che possono
essere diversamente è l’apparire del loro diventar altro; e tale apparire è ciò
che innanzitutto il pensiero greco considera come l’evidenza originaria e
supremamente innegabile e quindi come appartenente eàYepistéme della verità.
Ciò si spiega, perché se quelli divenienti sono gli enti che possono diventar
altro, tuttavia che essi possano diventar altro ed essere diversamente da come
sono è qualcosa che, appunto perché appare, ossia è originariamente evidente e
innegabile, non può diventar altro e non può essere diversamente da come è.
Appunto per questo Leibniz potrà considerare come verità (ossia come epistéme
della verità) non solo le verità di ragione (riguardanti ciò che non può essere
diversamente perché è contraddittorio che lo sia), ma anche le verità di fatto
(che appunto riguardano ciò che può essere diversamente perché non è contraddittorio
che lo sia). Se la scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e
continuerà a esistere anche quando l’uomo non ci sarà più, tuttavia la scienza
è una fede; certo, oggi, la più potente. Ma la 106 potenza non è la verità. Il
mondo che esisterebbe indipendentemente daH’osservazione e dallo sperimentare
non è comunque qualcosa di osservabile e di sperimentabile. Questo anche se
all’interno delle regole della fede scientifica si devono trarre (in base a
certe altre regole non incontrovertibili) certe conseguenze, che conducono alla
tesi dell’indipendenza del mondo dall’osservazione umana. Ma, appunto, si
tratta di inferenze compiute all’interno di una fede. Sul fondamento della
convinzione che le cose del mondo diventano altro è inevitabile che prevalga la
sapienza del sottosuolo, in cui si mostra l’impossibilità di ogni Immutabile e
quindi di ogni verità incontrovertibile che, da un lato, si ponga come Legge
assoluta del divenire, e dall’altro differisca dalla verità assoluta che si
mostra nel sottosuolo. Ma il destino della verità (così viene chiamato nei miei
scritti) sta al di là della fede nel diventar altro delle cose e degli enti,
ossia al di là deWintera storia del mortale e dell’Occidente, dunque al di là
dello stesso processo che conduce dall ’epistéme metafisica della verità al
sottosuolo essenziale del nostro tempo. Sta pertanto al di là dell’inevitabile
prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni verità
immutabile. Il destino sta al di là, nel senso che contiene, mostrandola, la
storia del mortale e dell’Occidente. Il destino è l’apparire del senso
autentico della necessità e della necessità che ogni essente sia eterno. E la
testimonianza del destino non è né realismo né idealismo, perché sia il
realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni dell’ente possono
esistere anche se altre non esistono ancora o non esistono più; laddove, poiché
tutto è eterno, né l’uomo può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere
senza l’uomo e senza la più irrilevantedelle sue parti. Poiché si obbietta -
come anche in questo nostro incontro è accaduto - che l’affermazione
dell’eternità di ogni essente nega ciò che incontrovertibilmente appare, ossia
nega il diventar altro delle cose, concludo accennando al motivo di fondo per
il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente non è in contrasto con il
contenuto che appare incontrovertibilmente, e che, in quanto tale, appartiene
alla struttura del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro sentire nei
concetti di esperienza, osservazione, dato, fenomeno ecc. Quando si crede che
gli enti che si manifestano non siano stati (totalmente o in parte) e tornino a
non essere (totalmente o in parte), quando cioè si crede che escano dal nulla e
vi ritornino, è impossibile (contraddittorio) che si creda che gli enti, quando
ancora sono nulla, appaiano e si manifestino già così come appaiono e si
manifestano quando incominciano a essere; ed è impossibile che si creda che
essi, annientandosi, continuino ad apparire e a manifestarsi così come appaiono
e si manifestano prima del loro annientamento. È impossibile, perché
altrimenti, nel diventar altro, il prima non differirebbe dal poi e quindi non
ci sarebbe qualcosa come un diventar altro. È quindi necessario che, quando si
crede nell’uscire dal nulla e nel ritornarvi, si creda che, quando gli enti non
sono, non appaiano nel modo in cui appaiono quando incominciano a essere, pur
apparendo ed essendo in qualche altro modo nel loro esser attesi, sperati,
temuti, supposti, previsti; ed è necessario che, quando vanno nel nulla, non
appaiano più nel modo in cui appaiono quando ancora esistono, pur apparendo ed
essendo in qualche altro modo nel ricordo, nel rimpianto, nelle varie forme in
cui ci si riferisce al passato. Ciò significa che nella misura in cui si crede
nel tempo in cui un ente è nulla (prima o dopo il suo essere), in questa misura
si crede che tale ente non appare, ossia non appartiene alla totalità degli
enti che appaiono - la quale include anche gli enti che, in quanto attesi e
ricordati, non sono un nulla. Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti che
appaiono in quanto tale non può nemmeno mostrare alcunché di ciò che non le
appartiene ancora (quando esso è ancora nulla) e non le appartiene più (quando
esso è ormai nulla); e pertanto l’apparire, in quanto tale, non può nemmeno
mostrare che gl’enti escono dal nulla e vi ritornano, appunto perché il loro
esser nulla non appartiene a ciò che è mostrato (come non gli appartiene
nemmeno che gli enti sono già e continuano a essere anche quando non appaiono).
Nella misura in cui qualcosa non è (ossia è nulla), in questa misura esso non
appare e pertanto l’apparire non può mostrare il suo non essere. (Facendo
corrispondere il cielo alla totalità degli enti che appaiono e il sole a uno di
questi enti, allora, quando il sole non è ancora sorto e quando è ormai
tramontato, non si può chiedere al cielo che ne sia del sole quando non si
mostra nel cielo: in questo caso il cielo non può che tacere sulla sorte del
sole.) Aristotele - si è rilevato - afferma che, quando un ente che può essere
diversamente (ossia che diviene) non appare, rimane nascosto, cioè non appare
se esso sia o non sia. Ma anche Aristotele crede, come l’intero Occidente, che
certi enti che appaiono possano non essere. Eppure non può essere l’apparire a
mostrare il non essere degli enti che, non essendo, non possono nemmeno
apparire. Il non essere di ciò che ancora non è e di ciò che non è più è dunque
una interpretazione, non una constatazione; una interpretazione che non solo
richiede un fondamento, ma che è negata dal destino della verità, che scorge in
tale interpretazione il culmine dell’estrema follia in cui l’uomo si trova.
(Tale interpretazione non ha un fondamento incontrovertibile - anche se è
sollecitata sia dal modo, spesso terribile, in cui ciò che all’uomo sta a cuore
esce dall’apparire, sia dalla constatazione che ciò che esce in quel modo
dall’apparire non ritorna più.) Ma qui ci si deve arrestare. Il linguaggio,
ora, è di fronte al tema decisivo: l’impossibilità che Tessente in quanto
essente non sia. (Sta al centro di tutti i miei scritti.) Il linguaggio è cioè,
insieme, di fronte all’essenza dell’uomo, ossia alla dimensione, già da sempre
salva, che circonda la follia del mortale e dell’Occidente. Dalla relazione
tenuta al convegno fatti e interpretazioni rivolto a un pubblico di filosofi
del diritto, tenutosi all’università di Padova, il 30 novembre 2012, e
presieduto dal magnifico rettore prof. Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione
dei proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra gli
altri, dei Illetterati, Milanesi, Scilironi, Testoni. Da centinaia e migliaia
di anni prima della nascita di Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo
delle stagioni, che i popoli arcaici considerano sacri. I giorni dedicati alla
rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli che vanno dal
Natale all’Epifania. Nel loro mezzo, il Capodanno, festeggiato dovunque.
Soprattutto in quei dodici giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l’integrità
e la vita del mondo, consumate e perdute durante il tempo che veniva chiamato
l’anno. Ripetono la creazione originaria compiuta dagli Dèi o dal Dio supremo.
Oggi i popoli credono sempre meno nel divino; ma la loro cultura dominante ne
ripropone, sia pure in modo profondamente diverso, i tratti essenziali. Tale
cultura è la tecnica scientificamente orientata e controllata dalla produzione
capitalistica della ricchezza. La produzione di beni e di merci richiede
energia. Il consumo di energia ne richiede il rinnovo, la reintegrazione.
Richiede la ricostituzione del suo fondo. La rifondazione del ciclo energetico
ripropone la ripetizione umana della creazione divina. Il Capodanno può essere
anche la festa del ciclo energetico. Noi capiamo subito che l’energia si
consuma e dev’esser rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di
rifondare periodicamente il mondo? Se non si risponde, anche l’analogia tra
tecnica e rifondazione mitica del mondo rimane sospesa nel vuoto. Eppure quel
bisogno è molto meno stravagante di quanto possa sembrare. Per rispondere alla
domanda che ci siamo posti incomincia a venire in aiuto il concetto di volontà
(un 112 aiuto di cui non si approfitta adeguatamente non solo da parte delle
scienze dell’uomo). Poi indicherò come le implicazioni di questo concetto siano
in grado di spiegare il bisogno di cui stiamo parlando - che non è per noi
irrilevante, ma è anche il nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di
vivere. Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé stessi). Se
non si vuole e si resta immobili, si muore. La volontà è la vita. Ma quando la
volontà apre gli occhi non ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a
qualcosa che non si lascia smuovere e trasformare: l’Inflessibile. Per il singolo
è l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è ciò che noi chiamiamo
natura, ma che a essi si presenta, appunto, come la Barriera di fronte alla
quale l’uomo si sente impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia
aprirsi un varco per riuscire a ottenere il voluto e dunque per vivere. Un
varco nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta alla volontà come la
dimensione della Potenza suprema, demonica, divina. Nell’atto stesso in cui
l’Inflessibile acquista per l’uomo il volto del divino, in quello stesso atto
l’uomo, per vivere, deve quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne
la Barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo. Volendo essere come Dio
Adamo vuole uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo rende come Dio Adamo
mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo si
senta colpevole, in debito. Il bisogno di vivere diventa bisogno di espiazione.
Ogni giorno, ogni ora, ogni istante facciamo esperienza di ciò che, per vivere,
la volontà richiede. Se il mondo ci stesse davanti come un unico blocco che non
si lascia spezzare, ci spegneremmo subito. La volontà, per ottenere, ha bisogno
di spezzarlo, di agire sui frammenti, sulle parti del blocco. L’agire richiede
l’isolamento delle parti dal blocco e tra di loro. Oggi si crede che anche la
conoscenza sia seria solo se fa conoscere parti del mondo, non il Tutto,
vanamente inseguito dalla vecchia sapienza filosofica. La scienza chiama
specializzazione la propria conoscenza delle parti. E la tecnica, da essa
guidata, agisce sempre su parti. (Anche l’arte si chiude nel frammento.) Adamo
che vuol uccidere Dio ha già un’anima tecnica. La tecnica ha un’anima
teologica. E il senso di colpa affiora anche nell’uomo della civiltà della
tecnica, ben al di là della preoccupazione per la propria incapacità di
realizzare uno sviluppo sostenibile. Per quanto ci dicono le scienze storiche
si può dire che ogni forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al
proprio centro il mito in cui lo smembramento del Dio è la condizione
dell’esistenza del mondo. Dall’Oceania alla Mesopotamia, dall’India alle
popolazioni germaniche e alle società greco-cristiane i miti raccontano la
creazione del mondo come effetto del sacrifìcio originario di un Dio, di una
Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio: Hainuwele (Nuova Guinea),
Tammuz, Dumuzi, Tiamat (Mesopotamia), Ymir (presso i Germani), Purusha e
Prajapati (India), Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo. La creazione del
mondo è lo squartamento del Dio, che diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo
in quanto usa, consuma, gode le membra, le parti del Dio. Anche la morte di
Cristo sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata creazione del
mondo che era andato consumandosi e morendo in conseguenza del peccato. E nel
Genesi si dice che Dio si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che
aveva fatto e da cui era stato dunque consumato e indebolito. Ma il divino
rimane pur sempre la fonte della vita. L’esaurirsi della fonte è la morte
dell’uomo, così come lo era l’inflessibilità originaria del divino. E la morte
è il pericolo estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario
che si restituisca al divino quel che gli si è tolto e che tuttavia è stato
consumato e non c’è più. È a questo punto che il genio religioso deve inventare
il sacrificio compiuto dall’uomo (che assume anche la forma del sacrificio dell
uomo) come ripetizione del sacrificio divino e dunque come rifondazione del
mondo. Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei popoli, ma l’essenza
della ripetizione del sacrificio divino e della fondazione divina del mondo è
la consapevolezza della necessità che, per continuare a vivere, non venga
spenta la fonte della vita. Quando ci si convince che qualsiasi vittima offerta
dall’uomo al Dio è radicalmente incapace di assolvere il compito gigantesco che
le si assegna, allora diventa necessario credere che sia Dio stesso a farsi
uomo e vittima con la quale Dio restituisce a sé stesso quello che la violenza
e il peccato dell’uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo dire e fare
cose vere, si porterà oltre il mito da cui è preceduta (e da cui sarà seguita),
le sue prime parole (quelle di Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi
dal divino, dovrà necessariamente dissolversi in esso, scontando la pena
dell’ingiustizia commessa con tale separazione - dove la separazione dal Dio è
l’eco dello smembramento- sacrificio mitico del divino, e la pena da scontare è
l’eco della ripetizione umana di tale sacrificio. Quando, infine, nel nostro
tempo, non si crederà più né negli dèi del mito né in quelli della verità, e la
lotta contro la morte sarà affidata soprattutto alla Potenza suprema della
tecnica, allora al consumo di questa Potenza, cioè al suo Sacrificio, dovrà
corrispondere una civiltà in cui le saggezze e sapienze del passato, per quanto
grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni loro aspirazione al dominio del
mondo, e cioè non contrastare il potenziamento indefinito della Tecnica. Sin
dagli inizi della storia deH’uomo il giorno del Capodanno, rifondando il mondo
e aprendo un nuovo ciclo alla vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della
vecchia terra, ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia cadere nell’oblio.
(Accade anche nel grande Capodanno de\YApocalisse di Giovanni, dove l’anno
della vecchia terra viene diviso da quello della nuova.) Oggi il Capodanno
rievoca soltanto le vicissitudini della volontà: non le rivive. Ma a questo
punto la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda appunto
il senso autentico della volontà - alla quale invece ci si affida come alla
cosa più sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge
interamente al di fuori di quel senso. Ora si aggiunga che quando, all’inizio,
si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme
avvolta da essa. Infatti non può tornare indietro. Tornando indietro,
riuscirebbe non solo a far diventare altro il mondo, ma a ottenere
immediatamente tutto ciò che essa vuole, giacché tornare indietro è lasciarsi
alle spalle la Barriera che le impedisce di trasformare il mondo. Ma la volontà
riesce a vivere solo se fa breccia nella Barriera; e il far breccia implica un
tempo in cui la volontà è bloccata e muore (è originariamente morta). E non può
nemmeno, e per lo stesso motivo, muoversi di lato, a destra o a sinistra, o
verso l’alto o il basso. Appunto per questo diciamo che all’inizio la volontà
si trova di fronte all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme
avvolta da essa. Le metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a
comprendere perché, essendo di fronte e insieme avvolta dalla Barriera, il far
breccia in essa sia insieme un uscire da essa. 116 Appunto per questo,
all’inizio del pensiero filosofico, Anassimandro ripropone il rapporto tra la
volontà e la Barriera, dicendo che le cose del mondo, separandosi dall’Uno,
divino, ne escono - escono dal luogo da cui proviene la loro nascita ( génesis
). Far breccia dall’esterno è lo stesso far breccia dall’interno, uscendo da
ciò da cui si è avvolti e commettendo ingiustizia (adikia). La volontà può
riparare l’ingiustizia (e qui la volontà è il mondo stesso che si è separato
dell’Uno) solo ritornando nel luogo, separandosi dal quale essa ha commesso
ingiustizia: solo morendo le cose che hanno voluto separarsi dal divino possono
rendergli giustizia per l’ingiustizia commessa ( didónai dìken tes adikìas). E
così si comprende perché le cose debbano tornare là da dove son venute. Dove il
sottinteso è che la morte subita dalla volontà fino a che non riesce a far
breccia sulla Barriera del divino è diversa dalla morte a cui la volontà (ossia
la totalità delle cose del mondo) va incontro ritornando nel divino. Tanto
diversa da far dire, in seguito, che morire è incominciare a vivere la vera
vita. Ma nel pensiero filosofico, e innanzitutto in Anassimandro, è un
sottinteso anche la ferita del divino prodotta dalla breccia con cui la volontà
riesce a uscire e a staccarsi da esso. L’intenzione esplicita della filosofia,
sin dall’inizio, è di affermare, come dice Anassimandro, che il divino è eterno
e non invecchia, è immortale e incorruttibile; eppure la Barriera che la
volontà umana trova dinanzi e attorno a sé, a sbarrarle la strada, è sentita da
essa come la Potenza dominante, sacra e divina come il Tremendum-Fascinans,
l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè corrotto, reso vecchio, ucciso in
quanto Inflessibile, perché la volontà possa vivere. (D’altra parte la
Barriera, smembrata, è anche la condizione perché la volontà possa cibarsi
delle sue membra - e per questo, oltre che a essere il Tremendum, essa è anche
il 117 Fascinans .) E che l’uscire delle cose dall’Uno divino sia inteso da
Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito, del sottinteso
che il divino è ferito e ucciso dall’avvento della volontà. Il pensiero della
tradizione filosofica deve trattenere nell’inespresso il sottinteso, cioè la
contraddizione per la quale il divino, in quanto trascendente il mondo, Altro
dal mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può permettersi di
evitarla sia con la fede nell’unità del divino e del mondano (ripresa peraltro,
in campo filosofico, dalle varie forme di immanentismo), sia con la fede
nell’esistenza di una molteplicità di dèi (per la quale la morte riguarda uno o
alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino non muore
definitivamente, ma muore e risorge. Ma, detto questo, la questione decisiva
rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà
alla quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo. Non si
scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel
senso. Dai Greci a Hegel la tradizione filosofica è la volontà di indicare come
si configura il contenuto del sapere che ha il carattere dell’assoluta incontrovertibilità
e stabilità: Yepistéme (alla lettera: il sovra-stare) della verità. Tale
epistéme è per Platone tò anamàrteton (Civitas, 477, 35 - una parola che è
negazione della negazione di màrtys, testimone, colui che essendo in presenza
delle cose non può errare nei loro confronti). Dai Greci a Hegel, Yepistéme a
cui compete il carattere delfincontrovertibilità ha un contenuto che non solo è
ciò che è, l’ente (tò ón ), ma è l’ente che assolutamente (pantelós) e
primariamente è, l’Ente immutabile ed eterno, il divino che è fondamento
(trascendente o immanente) degli enti che sono ma non sono assolutamente, cioè
divengono, vanno dal loro non essere al loro essere e viceversa. Per la
tradizione filosofica Yepistéme è prevalentemente sapere metafisico. Con alcune
rilevanti eccezioni (ad esempio lo scetticismo), la più profonda delle quali è
l’antimetafisicismo kantiano. Che però intende mantenere il carattere primario
àe\Y epistéme della verità, cioè l’incontrovertibilità, e che come immutabile
pone la struttura a priori della soggettività finita (immutabile, quindi, sino
a che il soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione filosofica è la
storia delfincontrovertibilità dell’epistéme e del modo in cui l’ente
diveniente ha il proprio fondamento nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme
metafisica è Dio. Vessenza della filosofia degli ultimi due secoli è invece la
distruzione di questa grandiosa concezione della realtà. Distruzione, dunque,
che - nella sua essenza, appunto - è a sua volta grandiosa. Purché la si sappia
cogliere. Oggi come ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono per lo
più affermate e vissute all’interno di una fede, cioè di una scelta che da
ultimo è arbitraria (anche quando si presenta come ragionevole, rationabile obsequium).
Sul piano filosofico, il modo in cui oggi si contrappongono amici e nemici di
Dio non è per lo più consapevole della grandezza e profondità della lotta tra
il presente e il passato della filosofia. Tanto più grande e profonda, questa
lotta, quanto meno entrambi gli avversari si rendono conto che l’abbandono del
passato non è una semplice scelta o una semplice constatazione storica, ma è la
fondazione incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello stesso
mondo filosofico la grandezza di quella lotta rimane cioè sullo sfondo, o
addirittura sepolta. Non mancano certo forza e competenza, a quel mondo, che si
usa ancora dividere tra analitici e continentali. Ma le due prospettive sono
molto meno divise di quanto possa sembrare. Giacché per entrambe la fine
deH’affermazione filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione.
Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto assente la discussione
sull’autentico fondamento filosofico che ha condotto alla negazione di Dio. Una
negazione che tende quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia,
al livello che è proprio della fede. Accade quindi non di rado che oggi sia la
filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una fondazione
dell’impossibilità di Dio, ma, ad esempio, di essere la semplice constatazione
che la fede in Dio, almeno in certi luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure
di essere una scelta, una prassi - dunque una fede, che preferisce un universo
in cui Dio non esista. Rinunciando a quella fondazione, e a ogni fondazione
assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel relativismo o
nichilismo concettualmente inconsistente a cui gli epigoni della tradizione
filosofica - tra cui la Chiesa cattolica - trovano comodo o tendono a ridurre
tutto ciò che la filosofia ha pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo
modo quegli epigoni non riescono ad avere di fronte il loro autentico
avversario, e gli avversari della tradizione filosofica ignorano la forza
speculativa della tesi che essi sostengono. Da tempo i miei scritti mostrano la
distanza tra Yessenza profonda e tendenzialmente nascosta del pensiero
filosofico del nostro tempo e il fenomeno in cui tale essenza si presenta
alterata e svigorita, e che è costituito appunto da quel relativismo e
nichilismo di cui ci si può sbarazzare molto facilmente. L’avversario autentico
della tradizione filosofico-metafisica è appunto quell’essenza. Tale essenza -
si diceva - è la fondazione radicale delfimpossibilità di Dio. Radicale
significa che procede dalla radice stessa della storia dell’Occidente, la
radice che fa vivere sia gli amici sia i nemici di Dio, sia l’essenza del
pensiero filosofico del nostro tempo sia il fenomeno di tale essenza - non
filosofi e filosofi, uomini di azione e di pensiero. Questa radice è la persuasione
che le cose del mondo siano un divenire in cui esse escono dal nulla e dopo un
provvisorio soggiorno nell’essere ritornano nel nulla. Per la filosofia che è
amica di Dio questa oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla non è un
assurdo solo se esiste un Dio immutabile ed eterno; per Yessenza della
filosofia del nostro tempo tale oscillazione non è un assurdo solo se il Dio
immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul fondamento della persuasione che
le cose del mondo vengono dal nulla e vi ritornino che Yessenza del pensiero
filosofico del nostro tempo mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e che
quindi è illusorio ritenere che il divenire del mondo sarebbe un assurdo se Dio
non esistesse. Tale essenza è la fondazione radicale delfimpossibilità di Dio
perché si fonda sulla radice che essa ha comune con la tradizione filosofica da
essa distrutta. In questa radice consiste Yessenza autentica del nichilismo la
cui forma più coerente si presenta nell’essenza del pensiero filosofico del nostro
tempo. Non è questa la sede per approfondire il senso concreto di questi cenni.
Qui si può solo indicare il senso generale del discorso, rinviando, per quel
suo senso concreto, agli scritti sopra menzionati - che mostrano la Follia
estrema dell’essenza autentica del nichilismo e quindi mostrano che la
persuasione che le cose oscillino fra l’essere e il nulla è soltanto una fede.
Innanzitutto, ciò che è stato chiamato essenza della filosofia del nostro tempo
ha un contenuto storico determinato: è un nucleo, circondato da un alone che
più si distanzia dal nucleo più ne perde di vista la potenza. Per quanto è
possibile guardare nel sottosuolo essenziale della filosofia del nostro tempo,
il nucleo ha un perimetro breve. È costituito dalla dimensione centrale del
pensiero di Nietzsche e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E, prima di
entrambi - e conosciuta da entrambi -, la filosofia di Giacomo Leopardi.
All’alone appartengono invece pensatori che oggi sono ritenuti tra i più
decisivi, come Heidegger e Wittgenstein. Non si tratta di mettere in questione
la loro importanza, bensì di rendersi conto che, nonostante essa, in modi
differenti lasciano aperta la porta a un Dio che ritorni dall’esilio in cui è
fuggito. Una porta che invece non è lasciata aperta dai pensatori di quel
sottosuolo essenziale (e dunque da Leopardi, la cui potenza filosofica,
soprattutto nella filosofia anglosassone, è completamente sconosciuta).
L’essenza della filosofia del nostro tempo consiste nel mostrare che se
esistesse il Dio immutabile ed eterno della tradizione, esso sarebbe la Legge a
cui dovrebbe adeguarsi anche il nulla da cui le cose provengono e il nulla in
cui esse ritornano. Pertanto il nulla diverrebbe un ascoltatore e un suddito di
tale Legge, cioè non sarebbe più un nulla, ma un ente. Ma la persuasione che
gli enti provengono dal nulla e vi ritornano implica necessariamente che l’ente
e il nulla differiscano - un’implicazione, questa, che sussiste anche se,
nell’ambito dell’essenza della filosofia del nostro tempo, il principio di non
contraddizione è visto come negazione del divenire e quindi è rifiutato.
All’interno di quella persuasione, la negazione dell’esistenza del Dio
immutabile ed eterno della tradizione è incontrovertibile perché tale esistenza
implica necessariamente che il nulla sia ente - il nulla senza di cui è
impossibile quel divenire degli enti che sta al fondamento non solo del
pensiero metafisico (che procedendo dal divenire intende condurre al Dio
eterno) e del pensiero che invece distrugge la tradizione metafisica, ma anche
delle stesse opere e istituzioni che costituiscono la civiltà dell’Occidente.
Se si ignora tutto questo - se si ignora cioè la grandezza della lotta tra
tradizione e distruzione radicale di essa - anche il dialogo tra credenti e non
credenti rimane alla superficie, ossia è un equivoco dove non si riesce a
scorgere il dramma autentico del mondo attuale. L’essenza della filosofia del
nostro tempo mostra l’impossibilità di porre limiti assoluti all’agire
dell’uomo - e dunque a quella forma suprema dell’agire che è la tecnica guidata
dalla scienza moderna e il supremo Limite assoluto è la Legge in cui consiste
il Dio immutabile ed eterno. Oggi la tecno-scienza non è ancora in grado di
ascoltare la voce dell’essenza della filosofia del nostro tempo. Nessuna
meraviglia, visto che nemmeno la filosofia contemporanea e il cosiddetto
laicismo sono in grado di ascoltarla e si riducono a essere una semplice fede
nell’inesistenza di Dio. Ma quella voce e la tecnica esistono, ed è inevitabile
che si finisca col comprendere che la loro unione consente la maggiore potenza
di cui l’uomo abbia mai potuto disporre. È questa unione l’autentico avversario
del Dio della tradizione: non l’incredulità dei popoli europei o il consumismo
dell’Occidente. Ma il passo decisivo verso il dialogo autentico, quello tra le
due grandi forze in lotta tra loro - l’essenza del passato e l’essenza del
presente della civiltà occidentale, ormai planetaria - è il loro prender
coscienza della propria anima comune: io. fede che le cose del mondo escono dal
nulla e vi ritornano. Che non ci sia bisogno di un Dio perché ciò accada è la
fede vincente rispetto alla fede che invece ritiene che di un Dio ci sia
bisogno. Ma se ciò per cui le due fedi si oppongono è certo grandioso, esso è
ciononostante qualcosa di subordinato rispetto all’esistenza di quell’anima
comune, cioè rispetto alla fede che le cose hanno nel nulla la loro culla e il
loro sepolcro. Abbiamo più volte chiamato fede quell’anima comune che invece,
sia per gli amici sia per i nemici di Dio, è l’evidenza suprema. Infatti a
questo punto si tratterebbe di volgersi verso il culmine del pensiero e di
lasciarsi alle spalle anche quel passo decisivo, cioè anche il dialogo
autentico tra il passato e il presente dell’Occidente. Volgendosi verso quel
culmine si vedrebbe che in entrambi - cioè sia nell’affermazione sia nella
negazione di Dio - è presente il senso più radicale del nichilismo, ossia la
convinzione che le cose (ossia gli essenti, che non sono un nulla) sono nulla:
proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente e conclusivamente
nulla. E, come sopra si accennava, la convinzione che ha come contenuto
l’Errore estremo, l’estrema Follia, non può essere che una fede. L’anima comune
degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza del nichilismo, cioè dell’eccidio
dell’essere. E, insieme, è la forma fondamentale dell’omicidio. La convinzione
che l’uomo, di per sé, sia nulla, e come le altre cose sia il prodotto di Dio o
del Caso, è infatti il requisito essenziale perché si decida di rendere l’uomo
un nulla. (Ma ogni decisione non è forse, ormai, la volontà di far passare le
cose dall’essere al nulla e dal nulla all’essere? Non è forse, ogni decisione,
un eccidio? Il linguaggio stesso non avvicina forse il de-cidere e l’uc-cidere?)
Nonostante il riconoscimento altissimo e crescente della sua grandezza poetica
e filosofica, il genio di Leopardi, insieme al genio di Eschilo, è forse quello
di cui meno si è visto il carattere decisivo nello sviluppo storico della
civiltà - dunque non soltanto della cultura - occidentale. L’accostamento dei
due nomi non è casuale. Eschilo appartiene al ristretto convegno di sovrani con
il quale incomincia la filosofia. Appunto per questo la sua poesia è tragica.
La filosofia, infatti, porta alla luce il pericolo estremo: che il divenire
delle cose del mondo è il loro venire dal nulla e il loro ritornare nel nulla,
da cui non si ritorna più, sì che anche la morte dell’uomo assume il volto e
l’anima tragici dell’annientamento. Se non ci si rivolge a questo, che è il
passato essenziale dell’Occidente, si perde di vista il senso autentico di ciò
che Leopardi ha inteso dire nelle sue prose e nelle sue poesie. Anche quel
portare alla luce è qualcosa di assolutamente inaudito. La filosofia è la
radice del tragico perché intende lo sta -re nella luce (nella quale essa
stessa consiste) come la sta¬ bilità del sapere che non può essere in alcun
modo scosso o smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità
assoluta del sapere innegabile. La chiama, appunto, epi-sté- me (in cui risuona
lo sta -re e che inadeguatamente traduciamo con la parola scienza). La
stabilità dell ’epistéme è l’essenza della verità. Porta oltre i millenni
dell’esistenza guidata dal mito. Ma proprio perché attribuisce questa stabilità
al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e ritornano nel nulla
(proprio perché afferma che Tesser preda del nulla è verità), la filosofia
getta l’uomo nelYangoscia più profonda, più profonda di quella di cui il mito è
il rimedio e che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il mito conferisce al
mondo un senso che non si mostra nella luce, ma è voluto, e quindi, da ultimo,
è una fede, un arbitrio, anche se chi vive nel mito non se ne avvede e crede
che esso mostri la realtà. Tuttavia la filosofia è, insieme, la radice del
senso che la tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa
sorgere nell’uomo anche la ricerca del saldo rimedio (secondo l’espressione di
Eschilo) contro il dolore e l’angoscia. Sin dall’inizio il pensiero filosofico
porta alla luce l’esistenza di un Principio {arche) divino, eterno e
incorruttibile, sì che la nascita delle cose è dovuta al loro separarsi da esso
e la loro morte è il loro farvi ritorno, lasciando nel nulla l’ingiustizia,
ossia tutto ciò che nelle cose è l’effetto di quella separazione
(Anassimandro). Il Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che
preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che dà senso al mondo e al dolore è
avvolto dal divino, e tuttavia non si mostra nella luce, non è saldo. Eschilo,
per primo in modo esplicito, porta alla luce che Yepistéme della Verità, come
coscienza del proprio contenuto divino, è il fondamento della salvezza e della
felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma culturale e pratica della
tradizione dell’Occidente. Ed è espresso da Eschilo con un linguaggio che non
può essere quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al teatro
nel senso corrente della parola. Théatron, per Eschilo, è la ricerca che
culmina nella contemplazione della Verità. Il dialogo di Platone, in cui la
tragedia (e l’arte in genere) viene radicalmente condannata, non capisce di
avere nel teatro di Eschilo il proprio più potente predecessore. Leopardi, per
primo, rovescia tutto questo; dice tutto l’opposto. Porta alla luce
l’impossibilità e l’illusorietà del quadro grandioso della tradizione
occidentale. Un altrettanto grandioso, terribile e inevitabile gesto, quello di
Leopardi, la cui potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo stesso
Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della cultura europea. Ma come è
possibile capire questo gesto - presente in ogni verso, anzi in ogni parola di
Leopardi - se non si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto, ossia
ciò che qui sopra abbiamo sommariamente tentato di indicare? A proposito di un
passo di Diogene Laerzio, in cui si richiama il fondamentale principio di
Socrate, Leopardi afferma: Oggidì possiamo dire tutto l’opposto. Possiamo: nel
senso che dobbiamo, che è necessario, che è tutto l’opposto a dover esser
portato alla luce dalla filosofia. Che cosa si dice in quel passo? Che per
Socrate vi è un solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un solo male [kakón],
il non sapere [ amathìan ], cioè la privazione di quel sapere (màthos ) in cui
Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale solo se è vero, se appare non
nell’opinione, nella fede, nel mito, ma nella luce della epistéme della verità.
Ed esiste un rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un
vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la salvezza da lui
data sono portati alla luce dall’ epistéme della verità. Quest’ultima è dunque
la radice di ogni bene, e, in questo senso, è l’unico bene. Il male è il
dolore, la morte e l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la
salvezza del male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è,
da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo. Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è
tutto l’opposto, cioè che Yepistéme è l’unico male e che il non sapere (amathia
) è l’unico bene. Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva,
sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun Principio eterno,
incorruttibile, divino, e che quindi tutte le cose sono nulla, perché sono
circondate dal nulla infinito che le precede, le segue e le attraversa. Se
esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose
che nascono e muoiono - si è qui al cuore deirultrafilosofia di Leopardi -, il
loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza;
laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della verità che per
l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del
divenire è innegabile, la verità è che l’Eterno, l’Infinito è impossibile.
Questa, la potente anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana
morte di Dio. Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il
Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non saperla, la verità,
che saperla; meglio Yamanthìa che Yepistéme. (Soprattutto a questo punto vanno
tenuti presenti Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e stupenda, cit., che
ho pubblicato per Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e, per quanto
riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi 1989).
Leopardi può in tal modo portare alla luce il legame profondo che unisce
Yamanthìa, l’ignoranza della verità, alla poesia e all’arte in generale. Anche
qui, molti decenni prima di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è
illusione, inganno, menzogna, senza di cui la vita sarebbe però impossibile.
Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno letterario, ma della poesia
potente, dove ad esempio il poeta incita l’esercito dalla battaglia o di quella
dove il canto fa sopportare il dolore e la morte. Nell’illusione poetica - che
peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - l’uomo crede di
essere in rapporto all’Infinito e aH’Eterno. In un primo tempo Leopardi crede
che, per illudere, la poesia non debba mostrare la verità, cioè la nullità di
tutto - e il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo primo
atteggiamento, dove il naufragio nel mare delFInfinito è dolce. Ma poco dopo
egli sviluppa la grande teoria del genio che unisce nella propria opera la
verità terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia e
poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il contenuto del canto,
ma, sia pure provvisoriamente, convergono nella potenza del canto, in modo che
l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente
la morte perpetua delle cose e sua propria. Infinita ed eterna è questa forza:
non nel senso che il genio si sostituisca a Dio, ma nel senso che la forza, pur
sempre finita e caduca, con cui egli riesce a esprimere la morte, cioè la
finitezza e caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma
di vita della cui infinità e eternità ci si può ancora illudere. E sono la
suprema salvezza e consolazione concesse a chi non può salvarsi né essere
consolato. La ginestra è il fiore del deserto. Il deserto è la morte e nullità
di tutte le cose; il fiore è il genio. Egli è mortale, nasce per morire, e
questa nascita è natura. Ma nobile. Nobil natura. La sua nobiltà è la capacità
di tenere uniti il suo profumo (la potenza del canto) e Yepistéme della verità
che vede il deserto. [...] di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il
deserto consola. Ora la dolcezza non si addice al naufragio nel mare
dell’Infinito illusoriamente cantato come reale: l’Infinito è morto (è
distrutto Iddio, scrive Leopardi, anticipando il Dio è morto di Nietzsche) e il
deserto ne ha preso il posto. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver
detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte. Il pensiero poetante del
genio ha l’ardire di guardare con occhi mortali la morte (il comun fato), non
nasconde la verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il quale
Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è la nobile natura che
unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto poetico e che intende come vero amore il
porgere agli uomini questa unione. Come vero amore e come unico rimedio di cui
gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica, potranno, sia pur fugacemente
godere, prima che il fuoco del vulcano ardente abbia a distruggere la ginestra,
il fiore del genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne vede
il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo profumo consola il
deserto. Il genio che consola il deserto non è la volontà dell’oltreuomo che,
in Nietzsche, accetta il deserto e ne vuole l’eterno ritorno. Ma se si
prescinde da questa tematica di Nietzsche, da questa vetta della
contemplazione, come egli la chiama, che si porta ancora più in alto della
vetta raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui linguaggio sta
tuttavia più in alto del linguaggio di Nietzsche), allora si può dire che sia
come filosofia sia come poesia il pensiero di Leopardi è, di diritto, il
pensiero che più si addice all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se ciò
che viene portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vortice che getta
le cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso del nulla,
allora il pensiero di Leopardi indica la conclusione inevitabile della storia
dell’Occidente e del mortale. Ma proprio a questo punto si fa innanzi la
questione decisiva. Possiamo formularla così: è così indiscutibile che quel
vortice - in cui crede sia la tradizione dell’Occidente, sia la distruzione di
essa, avviata dal pensiero di Leopardi - appartenga all’evidenza assoluta, cioè
all’assolutamente indiscutibile? Ogni linguaggio è problematico: non solo quel
che esso dice lo dice all’interno di un’interpretazione, che non può mai essere
una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del linguaggio è il
contenuto di una interpretazione. Noi dialoghiamo perché, nonostante la
problematicità dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al linguaggio
delle parole, ma anche a quello del comportamento, ma poi a tutte le cose dalla
terra e del cielo -, abbiamo fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro
interlocutore (se esiste) sia a sua volta un interpretare e ponga a fondamento
del suo interpretare le stesse regole che noi, e, daccapo, per lo più
inconsapevolmente, poniamo a fondamento del nostro. Ma anche noi - e anch’io -
siamo contenuti di una interpretazione. Di solito quelle regole non vengono
messe in discussione. Ad esempio che esista un prossimo, una società, che certi
eventi sensibili siano linguaggio, che un certo oggetto sia un libro e che sia
scritto in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di
interpretazione che ne scaturisce in virtù di certe altre regole - analoghe
alle regole di trasformazione di cui parla la logica - che appare qualcosa come
Storia dell’uomo. Storia dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche (o un
certo Nietzsche). Con queste considerazioni non si intende affermare che ogni
sapere sia interpretazione. Anzi, solo sul fondamento dell’apparire della
verità autentica si può affermare che un certo ambito delle convinzioni umane è
interpretazione, ossia non-verità. Nietzsche appartiene all’esito inevitabile
della storia del pensiero occidentale - e della stessa civiltà dell’Occidente
(cfr. E.S., L’Anello del ritorno, Adelphi). L’attenzione maggiore deve essere
dunque rivolta all ’inevitabilità della distruzione del passato, a cui
Nietzsche ha potentemente contribuito. Che Dio sia morto non è dovuto alla
semplice circostanza che - come lo stesso Nietzsche qualche volta ritiene - la
gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli è indubbiamente questa -
nonostante il peso che le religioni hanno riacquistato negli ultimi tempi. Ma
le tendenze, anche, si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di
nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è risorto? L’obbiezione storica
decisiva, che per Nietzsche consisterebbe appunto nell’attuale incredulità
della gente, non ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero di Nietzsche sta
altrove. Non la si trova nemmeno quando si riduce il pensiero di Nietzsche al
prospettivismo - che sostanzialmente non differisce dallo scetticismo. (Che
peraltro può presentarsi in forma non ingenua quando - di fronte ad avversari
che si limitano a rilevare la contraddizione della sua tesi che sostiene la
verità dell’inesistenza di verità - esso può replicare chiedendo per quale
motivo non ci si debba contraddire; e a questa sua domanda ben pochi sono in
grado di rispondere in modo adeguato.) Nella sua essenza autentica - tanto più
autentica quanto più nascosta e quanto più rara - il pensiero del nostro tempo
non è scetticismo. Non lo è, certamente, il pensiero di Leopardi e di Giovanni
Gentile. Costoro, insieme a Nietzsche, seminano l’essenza del nostro tempo.
L’essenza del nostro tempo conduce alla sua forma più rigorosa l’essenza
dell’Occidente, cioè la fede nell’esistenza del divenire, inteso nella
configurazione ontologica che i Greci una volta per sempre gli hanno assegnato:
la fede nell’evidenza originaria e irrinunciabile di tale configurazione.
Appunto sul fondamento della fede nell’evidenza del divenire - inteso secondo
tale configurazione - Nietzsche (come Leopardi e Gentile) mostra
l’impossibilità di Dio. Si tratta di capire l’incontrovertibilità -
Yinevitabilità, appunto - di questa fondazione. Che Dio sia morto - cioè che
non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una necessità. Si
tratta di capire il senso di questa necessità. E, insieme, di capire che
Nietzsche porta al culmine la storia dell’Occidente anche perché mostra che la
forma di potenza che la tecnica è destinata ad assumere per essere la potenza
suprema è la potenza della volontà che vuole l’eterno ritorno di tutte le cose.
Capire cioè che, proprio perché è necessario che Dio sia un morto, proprio per
questo è necessario l’eterno ritorno di tutte le cose ed è necessario che tale
ritorno divenga il contenuto essenziale della volontà che costituisce la
tecnica. Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può esistere è
chiamato da Zarathustra l’Uno, il Pieno, il Satollo, l’Immoto, l’Imperituro. La
fede nel divenire, che accomuna tutti i pensieri e tutte le opere
dell’Occidente, implica con necessità l’impossibilità dell’esistenza di questo
Dio. Zarathustra dice: Affinché vi apra tutto il mio cuore, amici, se vi
fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere Dio! Dunque non vi sono
dèi ( Sulle isole beate). Ma nell’ Anello del ritorno si mostra che la premessa
autentica di quel Dunque è quanto Zarathustra dice verso la fine del capitolo:
Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?. Ma nemmeno questa è
un’affermazione che non abbia bisogno di essere compresa. Nietzsche aveva
ragione ad affermare l’indispensabilità di una cattedra universitaria per la
comprensione di Così parlo Zarathustra, da lui considerato il più importante
dei suoi scritti. Se si vuole richiamare in astratto la sequenza essenziale che
costituisce la grandezza del suo pensiero, ci si può esprimere così: la
creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza originaria. Tale
evidenza implica con necessità l’impossibilità di ogni Dio. La stessa necessità
che implica tale impossibilità comporta l’eterno ritorno di tutte le cose, il
ritorno che in quanto voluto dalla volontà di potenza conferisce alla tecnica
la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione concreta di tale
necessità). Questa è una indicazione astratta. Senza la concretezza
corrispondente (a cui L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca strada. Ma è
l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò significa che tale sequenza non
esprime le molteplici tematiche che nel discorso di Nietzsche le sono più o
meno strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della sequenza
essenziale presente neWAnello del ritorno esprima qualcosa che appartiene a
Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna
alternativa che abbia la capacità di modificare questa mia convinzione), ebbene
non avrei troppe difficoltà ad affermare - modestia invita - che quella
sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la storia dell’Occidente (non
cesserebbe di esserne il culmine), per il fatto di non appartenere a Nietzsche.
b) Affinché vi apra tutto il mio cuore Che cosa mai resterebbe da creare se gli
dèi esistessero? Nulla! Questa è la risposta richiesta dall’interrogativo
retorico. Creare e annientare: sono gli aspetti fondamentali del divenire,
secondo il senso che i Greci hanno assegnato al divenire: andare dal non essere
all’essere e dall’essere al non essere. Creare: condurre nell’essere ciò che
non era, che era nulla. Annientare: riportare nel nulla ciò che era riuscito a
essere. Negare l’esistenza del creare e dell’annientare è negare 1’esistenza
del divenire, ossia di ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema. Che cosa
mai resterebbe da creare, all’uomo, se gli dèi esistessero? Nulla! L’esistenza
degli dèi rende impensabile la potenza creativa e annientante dell’uomo cioè la
vita dell’uomo - giacché è questa potenza a formare il centro di ogni divenire,
e dunque il centro dell’evidenza originaria. Ma perché l’esistenza degli dèi
rende impensabile e impossibile il creare e l’annientare dell’uomo?
Incominciamo a rispondere dicendo il motivo per il quale Zarathustra
attribuisce al dio i caratteri dell’esser l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il
Satollo e l’Imperituro. È ben più profondo di quanto non sembri a prima vista.
Il dio è pieno e sazio. Pieno di tutta la realtà, che sta raccolta
nell’immutabile e imperitura unità che lo costituisce e lo sazia. Il dio è
questa unità anche se lo si pensa separato dal mondo. Il mondo non aggiunge
nulla alla pienezza del dio, che dunque è sazio anche se ha lasciato al di
fuori di sé il mondo. Pertanto il dio prescrive sé stesso a tutte le cose. Ne è
la Legge. Egli non può non prescrivere sé stesso; non solo a tutto ciò che è
già, ma anche a tutto ciò che sarà e a tutto ciò che è già stato. Se qualcosa,
al di fuori del dio, avesse una propria legge, un proprio ordine e senso, una
propria vita, diversi da quelli in cui il dio consiste, il dio non sarebbe
ancora sazio, avrebbe ancora qualcosa di cui potersi saziare. Egli prescrive sé
stesso al presente, al passato, al futuro, al tutto, prescrive la propria
costituzione, cioè la legislazione in cui egli consiste e che egli proietta
intorno a sé, nei secoli dei secoli, catturando e mantenendo tutto dentro di
sé, sazio da sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al divenire
dell’uomo e della terra non resta dunque nulla. Nulla da creare e da
annientare. Il divenire sarebbe impossibile, se vi fossero degli dèi. Se vi
fossero, come potrei sopportare di non essere dio!?, dice Zarathustra. Non si
tratta di una esclamazione vana e infine patetica. L’insopportabile non è tale
per un individuo dalle molte pretese, ma per il pensiero che intende vedere la
verità e che non può sopportare che l’esistenza del dio renda impossibile e
impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e irrefutabile del divenire.
Il dio è infatti la Legge suprema a cui tutto deve adeguarsi, che non può
tollerare che dal nulla emerga una novità da lui non prevista, la quale
sconvolga la sua legislazione e mostri che solo apparentemente egli era sazio e
immoto. Con la propria pienezza e sazietà egli ha già raggiunto tutto e non può
essere raggiunto e sorpreso da alcunché. È pieno perché ha riempito tutto di
sé. Che cosa resterebbe da creare, che divenire resterebbe, se egli avesse
tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse raggiunto e occupato
futuro, passato, presente, imponendo al futuro di non essere un futuro, un
ancor nulla, ma di esser già una regione totalmente adeguata alla Legge; e,
trattenendo a sé il passato, impedendogli di essere un ormai nulla e
prescrivendogli quindi di non sottrarsi alla Legge, andandosene in una regione
dove si possa essere liberi da essa? Che vita resterebbe all’uomo da vivere se
tutto questo dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente che l’uomo vive.
Dunque dio non può esistere. Il divenire implica che esista un non essere da
cui gli enti divengono e in cui ritornano. Ma un dio immutabilmente pieno e
sazio ha già da sempre riempito tutti gli spazi vuoti del non essere: da essi
non può provenire alcunché di cui egli non sia già sazio, e nemmeno nel vuoto
in cui le cose si portano possono trovarsi mondi ed eventi di cui egli non si
sia ancora impadronito o che si sia lasciato sfuggire di mano. Ciò significa -
ecco il tratto decisivo e fondamentale - che 1’esistenza del dio, la cui
legislazione si estende al tutto e alla totalità del tempo, trasforma il non
essere, che è necessariamente richiesto dal divenire, in un ascoltatore e in un
suddito dell’essere. Il dio identifica il nulla con l’essere, e quindi cancella
il divenire, cioè l’evidenza originaria e suprema del pensiero e delle opere
dell’Occidente. Molti a questo punto possono domandarsi se sia così scandaloso
per Nietzsche che il nulla sia essere e l’essere sia nulla. Non è forse ben
nota la spregiudicatezza di Nietzsche nei confronti dei principi logici? Eppure,
chi crede nell’esistenza del divenire, quella spregiudicatezza non può averla -
o ha un senso del tutto diverso da quello che comunemente le si assegna.
Credere nel divenire significa infatti credere nella differenza tra il prima e
il poi, tra ciò che ancora non è, ed è un nulla, è ciò che ormai è, tra ciò che
è ciò che ormai non è più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del
principio di non contraddizione proposte dal pensiero del nostro tempo negano
tale principio in quanto esso si presenta ai loro occhi come negazione del
divenire, ossia come negazione del senso autentico della non contraddittorietà,
del senso consistente appunto nella ineliminabile differenza, nella struttura
del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il nulla. Oggi si crede che
i problemi dell’uomo possano essere risolti da un ritorno ai valori, alla
tradizione dell’Occidente e soprattutto alla radice di tutti quei valori, che è
Dio. Ma è un passato che agli occhi di Nietzsche si presenta come una foglia
secca, ancora attaccata al ramo - una grande foresta disseccata che all’uomo
della tradizione appare ancora come una vegetazione animata dalle linfe della
terra e quindi ancora capace di guidare l’umanità. Ma se Dio è veramente morto
139 come è ancora possibile questa illusione? c) Eterno ritorno e tecnica La
seconda parte di quella che sopra abbiamo chiamato la sequenza essenziale del
pensiero di Nietzsche afferma che la stessa necessità che implica l’inesistenza
di Dio implica anche l’eterno ritorno di tutte le cose. Si può esprimere questa
tesi anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve perdere di vista
la concatenazione essenziale di tre capitoli che nel testo compaiono invece
separati l’uno dall’altro: Sulle isole beate, Della redenzione. La visione e
l’enigma. La visione e l’enigma racconta l’eterno ritorno di tutte le cose.
Zarathustra racconta che ci sono due strade, una che procede in avanti, l’altra
all’indietro. Da come si presentano, non si dovrebbero mai incontrare; eppure,
assicura Zarathustra, si incontreranno e tutte le cose che camminano su di esse
si ripresenteranno, e infinite volte, così come una volta si sono presentate -
ad esempio questo ragno e questo chiaro di luna e il colloquio tra Zarathustra
e il nano. Zarathustra, qui, racconta. Eppure a Nietzsche è del tutto estranea
la volontà di raccontar miti. La sua è una gaia scienza. Gaia; ma scienza. Non
la scienza come epistéme che afferma resistenza di Dio, ma come conoscenza che
tuttavia intende essere incontrovertibile e innanzitutto affermazione
incontrovertibile dell’esistenza e dell’evidenza del divenire di tutte le cose
e, su questo fondamento, conoscenza incontrovertibile della morte di Dio, ossia
di ciò che rende impensabile e impossibile resistenza del divenire. Il pensiero
di Nietzsche appartiene al culmine dell’essenza autentica del nichilismo -
all’essenza cioè cui si rivolgono i miei scritti mostrando la Follia estrema -;
ma, proprio perché è la forma più radicale del nichilismo, esso è anche la
forma più radicale di fedeltà alla fede nel divenire. Gli amici di Dio, che
pure fondano questa loro amicizia su tale fede, non posseggono tale fedeltà.
Appunto per questo sono destinati al tramonto e a essiccare anche se sono
attaccati ai rami. Il genio di Nietzsche sta nel rendersi conto che il rapporto
fra la creatività dell’uomo e Dio è del tutto analogo al rapporto fra tale
creatività e il passato. Come il Dio immoto, imperituro e sazio è
immodificabile dalla volontà umana, così il passato si presenta all’uomo come
immodificabile dalla sua volontà. Sul passato non si può più intervenire, non
lo si può cambiare. Così fu. Ma questa - agli occhi della fede nel divenire - è
la voce della non-verità; come è la voce della non-verità quella che afferma
che Dio è vivo. Il passato possiede la stessa anima, la stessa essenza
dell’anima e dell’essenza di Dio. Come l’immutabilità di Dio rende impossibile
il divenire, così il divenire è reso impossibile daH’immutabilità del passato.
Sebbene Zarathustra non usi queste espressioni, si può dire che anche il
passato - quando sia visto da chi riesce a portarsi oltre l’uomo - è l’Uno e il
Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro. La sua esistenza è infatti la
legislazione che condiziona tutto il futuro. Non in senso deterministico, ma
nel senso che anche quando ci si vuole liberare dal passato e dai suoi
condizionamenti non si può evitare che esso sia stato così come è stato, sicché
la liberazione da ciò che non può essere diverso da come è stato non può
renderlo diverso da sé e non può non esserne condizionata. Una liberazione
apparente. Ci si potrà proporre di evitarne le conseguenze, ma non si potrà
evitare che la totalità del futuro si mantenga in relazione a ciò che non potrà
mai diventare diverso da sé e a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in
questo senso più profondo. In nessun luogo del divenire si potrà evitare di
rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere più ciò che è stato.
La coscienza umana può ricercare il passato - pensa la fede nel divenire -, ma
è prigioniera della convinzione di non poter far sì che ciò che è stato non sia
stato. La legislazione in cui anche il passato consiste potrà essere
dimenticata ma non distrutta, e quindi anch’essa riempie di sé ogni spazio
vuoto del nulla in cui il futuro consiste. Anche questo nulla diventa quindi un
ascoltatore del passato, un passato esso stesso; così come il nulla implicato
dal divenire diventa, con resistenza di Dio, un ascoltatore e un suddito di
essa, diventa cioè un essere. Proprio perché non può essere modificato o
annientato, il passato è il macigno che anticipa il futuro, e quindi lo
annienta. Se esistesse un Immutabile, nessun evento, per quanto lontano nel
futuro, potrebbe non tenerne conto, ossia potrebbe configurarsi
indipendentemente da esso. Inoltre, da un lato il passato è ciò che è diventato
nulla; dall’altro lato, tuttavia, ha un contenuto positivo che non rinuncia a
sé stesso e al suo imporsi al futuro, così come non vi rinuncia Dio; sì che
anche in questo senso il così fu è l’identificazione del nulla e dell’essere.
Anche il futuro, quindi, sino a che l’uomo crede che il passato sia
immodificabile, si presenta come qualcosa che non proviene più dal nulla -
secondo quanto è richiesto dall’essenza del divenire -, ma proviene dal macigno
del passato, da cui dipende come si dipende dal macigno di Dio. Come Dio, anche
l’immodificabilità del passato implica la negazione del divenire, cioè di
quella novità autentica che è la nullità di ciò che è ancora un futuro. Come
Dio, anche il passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non
ci può essere divenire, in un essere, in un ascoltatore del passato. Pertanto,
come è necessario affermare che Dio è morto, così è necessario affermare che è
morto anche il passato, in quanto esso è pensato e vissuto come l’assoluta
immodificabilità del così fu. La creatività della volontà implica cioè
necessariamente la sua capacità di trasformare il passato, di volere il passato
come si vuole il futuro. Si tratta ora di indicare come ciò sia possibile. d)
Volere Veterno ritorno e volere il passato Ancora sulla base di Così parlò
Zarathustra - che nonostante i suoi tentativi di sviare il lettore contiene
tutti gli elementi che rendono la dottrina dell’eterno ritorno una conseguenza
inevitabile della fede nel divenire - richiamiamo dunque il modo in cui
Zarathustra mostra come la volontà possa volere il passato (il che essendo già
stato fondato da quanto è stato qui sopra rilevato), senza essere una semplice
velleità. La volontà è il tratto essenziale del divenire. La sua libertà è
innanzitutto il suo liberare da Dio e dal passato, e in generale da ogni forma
che gli immutabili possono assumere. Proprio per questo, è libera nel senso che
non è sottoposta ad alcun disegno prestabilito. Non solo essa è casuale: è il
caso stesso. Se essa si presenta dapprima come volontà che vuole il futuro,
ormai Zarathustra ha mostrato l’unilateralità di questo aspetto della volontà,
cioè ha mostrato che essa è padrona del passato come del futuro. Essa vuole
anche il passato. Ma essa non può volerlo separatamente dal proprio volere il
futuro, perché altrimenti il futuro, una volta voluto e ottenuto, diventerebbe
un passato su cui la volontà non ha potenza. È cioè necessario che il volere in
avanti - il volere che vuole il futuro - sia lo stesso volere che vuole a
ritroso, ossia che vuole il passato. Questa identità è possibile solo se
volendo in avanti si percorre un circolo: un percorso in cui si finisce col
ritornare al punto di partenza. Il percorso circolare - l’anello del ritorno -
rende possibile che, volendo il futuro, si voglia per ciò stesso il passato.
Solo se il divenire del mondo è un circolo, e un circolo che ritorna su di sé
alfinfinito - un anello del ritorno -, la volontà che vuole il futuro vuole per
ciò stesso il passato, e lo ottiene come ottiene il futuro. Ogni punto del
circolo è un punto di partenza. Altrimenti, se esistesse un punto privilegiato,
esso sarebbe il punto immutabile, Yarchè del processo: sarebbe, daccapo, un Dio
immutabile che anticiperebbe in sé la totalità del divenire, vanificandola. Il
circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se inizio e fine sono il nulla (come
invece pensa Leopardi con un rigore che è massimo all’interno di una
prospettiva in cui, tuttavia, non si vede ancora la necessità dell’eterno ritorno
di tutte le cose), perché anche in questo caso il divenire avrebbe una
direzione, cioè sarebbe sottoposto a una legge che attribuirebbe al nulla i
tratti che sono propri dell’anticipazione divina del tutto. Se il nulla stesso
fosse l’origine unica e inamovibile da cui tutto proviene e il termine a cui
tutto ritorna (anche la scienza e in particolare la cosmologia si muovono per
lo più nei paraggi di questa tesi), il nulla preordinerebbe il futuro e
riceverebbe il passato in modo analogo a quello in cui il futuro e il passato
sono rispettivamente preordinati e conservati da Dio. Ciò non significa che il
futuro non sia un uscire dal nulla e il passato non sia un ritornarvi:
significa escludere che i nulla del futuro e del passato si distacchino dai
punti del circolo dell’eterno ritorno e si configurino come dimensioni
teologiche, immutabili, dominanti ed esterne rispetto alla casualità del
divenire. Nemmeno il nulla può essere lo scopo e il riposo eterno dell’uomo.
L’esistenza non ha senso. Che il divenire abbia un senso è un modo di affermare
che il divenire è guidato da un Dio. Appunto perché è 144 impossibile che un
qualsiasi immutabile esista, è necessario che il divenire - e cioè il tutto, la
totalità di ciò che esiste - sia assolutamente senza senso. Come è impossibile
un inizio assoluto, così è impossibile uno scopo assoluto. Il pensiero di
Nietzsche mostra dunque non solo che ogni Dio, cioè ogni Immutabile, rende
impotente la volontà, ma che la forma più potente della volontà è quella in cui
la volontà vuole l’eterno ritorno di tutte le cose. Sino a che la scienza
guiderà la tecnica assumendo la potenza come una volontà che vuole soltanto in
avanti e che non sa di avere potenza anche sul passato, ossia non sa di essere,
essa, l’eterno ritorno di tutte le cose, la tecnica non potrà raggiungere la
potenza massima cui è destinata. Il destino della tecnica è di ascoltare la
voce dell’eterno ritorno di tutte le cose e di realizzare l’epoca della potenza
massima raggiungibile dall’esistenza (e a sua volta destinata a declinare, a
ridursi, per poi ricomparire infinite volte). La tecnica è destinata a volere
l’eterno ritorno di tutte le cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che ancora
è la più lontana dalla coscienza che scienza e tecnica hanno di sé stesse (anche
se la possibilità di un recupero del passato è sempre più presa in
considerazione aH’interno del sapere scientifico). Più vicina a quella
coscienza è la dottrina che la morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di
potenza, anche se la morte di Dio non deve essere trattata come un dogma
simmetrico a quello degli amici di Dio, ma deve essere vista nella sua
necessità. Tutto ciò che qui è stato sommariamente tracciato trova il proprio
significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si deve lasciar da parte, di
quel mio scritto, la considerazione dell’aspetto speculativamente più rilevante
del pensiero di Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è
145 avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede nell’evidenza del
divenire implica necessariamente l’eterno ritorno di tutte le cose, tale fede
implica necessariamente la negazione di sé stessa. Infatti, se l’eterno ritorno
non è la riesumazione di un’antica dottrina metafisica, esso è tuttavia pur
sempre un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai guardato
in faccia (e che quindi non ha nulla a che vedere con le considerazioni di
Nietzsche sulla tragedia attica) e che tuttavia grava sulle sue spalle è che la
negazione del divenire appartiene necessariamente all’essenza del divenire: che
il divenire non è divenire. Il genio di Nietzsche è infinitamente maggiore di
quello che egli è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente maggiore,
perché, senza volerlo - e anzi volendo l’opposto - mostra l’abisso senza fondo
su cui si libra la fede che regge l’intera storia del mortale e, al culmine di
quest’ultima, la storia dell’Occidente. Non si dovrà dire allora che il
librarsi della fede nel divenire sull’abisso senza fondo della negazione di
questa fede - il legame indissolubile che lega questa fede alla propria
negazione - è il librarsi stesso della Follia - non quella che lacera la mente
di un individuo che è stato un grande filosofo, ma quella che sta alla radice
del modo in cui l’uomo ha abitato e tuttora abita la terra? Ricordo che due
anni fa - Hans-Georg Gadamer era venuto a Venezia, e stavamo entrando a Ca’
Foscari parlando di Heidegger-, mentre ponevo termine alla nostra
conversazione, perché la conferenza del professor Gadamer era imminente, volli
avanzare quello che mi sembrava il punto decisivo, e gli dissi che tra
Heidegger e l’essenza della tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al che
Gadamer rispose con un no tanto perentorio quanto gentile. Ma è proprio su
questo punto che vorrei un po’ soffermarmi; quindi mi è cara l’occasione per
riprendere quel discorso interrompu con Gadamer: l’essenziale solidarietà del
pensiero di Heidegger con l’essenza della tecnica, con quell’essenza che
secondo Heidegger si colloca agli antipodi della sua posizione. Ieri si è
parlato di differenza ontologica: vorrei prendere le mosse da questo concetto.
Differenza ontologica significa che esiste una essenziale accidentalità nel
rapporto tra l’essere e l’ente. Significa che l’ente non è essenzialmente
legato all’essere e in questo senso è un evento che sopraggiunge
improvvisamente e imprevedibilmente. Il concetto che è opposto a quello di
differenza ontologica è la non- differenza ontologica. Questa lega l’essere
all’ente; questo legame, per Heidegger, o la storia di questo legame, è la
storia della metafìsica. Legare l’essere all’ente vuol dire assicurare le cose
al loro essere. Assicurandole, le cose diventano stabili e arginano, bloccano,
il sopraggiungere delle novità storiche. Allora, parlare della non-differenza
ontologica è parlare delfimmutabilità, o dell’eternità delle cose.
Recentemente, è uscita la traduzione di Was heisst Denken, dove viene
sviluppato il concetto che al culmine di questa assicurazione degli enti
all’essere, al culmine della non-differenza ontologica sta il pensiero di
Nietzsche. Heidegger cita il frammento della Volontà di potenza, dove si parla
della vetta della contemplazione: la vetta della contemplazione è il ritorno di
tutte le cose. Questa, per Nietzsche, è l’estrema approssimazione del mondo del
divenire al mondo dell’essere. Heidegger vede in Nietzsche, in quanto teorico
dell’eterno ritorno, l’anticipatore della civiltà della tecnica, perché la
civiltà della tecnica consiste nella programmazione che esclude la differenza
ontologica; la programmazione che, stabilendo la routine, la ripetizione
dell’inedito, esclude la possibilità del sopraggiungere del nuovo, del diverso.
Heidegger si muove certamente verso l’espressione dell’essenza del pensiero
occidentale, in quanto, allontanandosi dalla maggior parte delle forme del
pensiero contemporaneo, capisce che l’essenza di tale pensiero va vista in
termini ontologici. Ma è appunto in questa raffigurazione heideggeriana
dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale che si cela quella sostanziale
solidarietà fra Heidegger e la tecnica, di cui avevo parlato prima. Perché? Il
tema dell’eterno ritorno dice dunque che il nuovo è impossibile, ed eterno
ritorno vuol dire estrema approssimazione del mondo del divenire al mondo
dell’essere. Ecco, penso che tutti colgano il significato della parola
approssimazione, che è estrema, ma è pur sempre approssimazione. Ciò vuol dire
che la distinzione tra il mondo del divenire e il mondo dell’essere rimane; c’è
sì l’estremo tentativo di identificarli, ma è tentativo che lascia
inevitabilmente un margine dove il divenire non è l’essere. È il massimo che si
può compiere per identificare i due mondi; ma il tentativo è uno sforzo, non
riesce. Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce col bloccare il divenire,
ma il divenire è bloccato solo in quanto se ne riconosce l’esistenza. Se
teniamo ferma la vicinanza che Heidegger stabilisce tra tema dell’eterno
ritorno e civiltà della tecnica, allora l’immutabile, cioè la non-differenza
ontologica in cui consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è possibile
soltanto sul fondamento del riconoscimento dell’esistenza del divenire.
L’immutabile protegge dal pericolo della novità, precattura il nuovo, ma
proprio perché è la difesa rispetto alla novità che il divenire porta con sé,
appunto per questo l’affermazione dell’immutabile è il riconoscimento del
divenire. Ma questo riconoscimento del divenire - che dunque è evidente in
Nietzsche: proprio in quanto egli si vuole assolutamente cautelare dal divenire
- questo riconoscimento del divenire non è nulla di diverso, nell’essenza, da
ciò che Heidegger chiama differenza ontologica. Perché, se differenza
ontologica significa accidentalità dell’ente rispetto all’essere, il non essere
legato necessariamente all’essere da parte dell’ente, allora differenza
ontologica vuol dire appunto il movimento di oscillazione delle cose, e la loro
eventualità è il loro andare e venire - un processo in cui le cose sono
lasciate nel loro andare e venire. Voglio dire che quel divenire, che è necessariamente
riconosciuto da Nietzsche quando egli intende rendere radicale (e insieme
difendersene) con 1’evocazione dell’eterno ritorno, quel divenire è altrettanto
radicalmente riconosciuto da Heidegger quando egli lo esprime in termini
puramente ontologici, come, appunto, differenza ontologica. D’altra parte è
chiaro che quando Heidegger parla della programmazione operata dalla civiltà
della tecnica, che impedisce la storia, dissente da questo acme che la
metafisica occidentale raggiunge nel pensiero di Nietzsche e nella civiltà
della tecnica. Voglio dire che quel modo di interpretare Heidegger per il quale
egli verrebbe a equivalere simpliciter a Weber, non è quello che intendo
sostenere. Dal punto di vista filologico è ovvio che Heidegger intende prendere
le distanze dall’epoca in cui domina la civiltà della tecnica. Egli rivendica
la possibilità del nuovo in contrapposizione all’eliminazione del nuovo.
Allora, una prima domanda: qual è il fondamento dell’esigenza del nuovo? Perché
ci deve essere il nuovo? Perché non ci può essere un sistema che predetermini
la totalità dell’evento, precatturando appunto ogni novità e rendendo
impossibile ogni novità? Che cos’è ciò che fonda questa esigenza del nuovo, che
è l’esigenza dell’esistenza della storia? Lo so, è l’esigenza di tutti
abitatori dell’Occidente: noi vogliamo che la storia esista. Ma perché deve
esistere il non¬ sistema? Ecco, sostengo che Heidegger esprime semplicemente
l’esigenza, ma non più che l’esigenza, della esistenza del nuovo: si limita a
un’atteggiamento, che è proprio dell’intera cultura contemporanea, che non può
escludere il sopraggiungere di un sistema il quale riesca a fare ciò che Hegel
non è riuscito a fare. Per escludere il sistema, per riuscire a escludere la
negazione della storia e della novità è necessario un approfondimento del senso
ontologico del divenire, che rimane invece nel sottosuolo del pensiero di
Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori del tempo, Armando 1978, il
capitolo intitolato Gòtterdàmmerung). Seconda domanda: quando Heidegger
polemizza contro la civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione,
non si dimentica forse della caratteristica essenziale della scienza moderna,
cioè del carattere ipotetico della scienza? L’anticipazione del futuro da parte
d elYepistéme tradizionale è indubbiamente una cattura che elimina radicalmente
la novità. Se è già aperto il senso del mondo, se il senso del mondo è già
aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo è certamente impossibile.
Ma la scienza moderna si è costituita proprio attraverso la distruzione d
elYepistéme; quindi la programmazione, il piano, in cui consiste la civiltà
della tecnica, è una anticipazione ipotetica del futuro: se teniamo presente il
concetto di scienza come metodo sperimentale, allora, all’interno di questa
prospettiva, la scienza, come sperimentazione, è una programmazione che però
resta aperta alla smentita possibile operata dalla novità sopraggiungente.
Vepistéme, sì, elimina la novità; dice alla novità: Io so già che cosa tu sei, io
sono la tua regola; ma la scienza non fa questo, cioè la scienza realizza
appunto a fondo quell’atteggiamento di apertura verso la novità storica, che
Heidegger si limita a invocare. Questo sarebbe un primo senso secondo il quale
la civiltà della tecnica è l’autentica erede dell’atteggiamento che Heidegger
intende proporre. Ma vi è un senso più sostanziale. Il senso più originario e
più nascosto della volontà di potenza è la volontà che la storia (il divenire,
la differenza ontologica) esista. Solo se si stacca l’ente dall’essere e lo si
fa oscillare tra l’essere e il niente è possibile il dominio dell’ente. Alla
base della volontà di dominio sta la volontà che esista il campo del
dominabile. Questa volontà originaria è l’essenza dell’Occidente. E in questa
essenza convengono quindi anche la tecnica e il pensiero di Heidegger. Ma il
pensiero di Heidegger, a differenza della tecnica, contraddice la propria
essenza, perché mentre la tecnica, volendo il dominio dell’ente, porta a
compimento l’originaria volontà di potenza (cioè la volontà che il dominabile
esista), e cioè resta fedele alla propria essenza, Heidegger contrappone alla
volontà di dominio il lasciar essere gli enti: quel lasciar essere che è stato
originariamente violato (anche) dal pensiero di Heidegger, proprio perché la
volontà che separa l’ente dall’essere - e che quindi vuole la nientità
dell’ente - non lascia essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel
suo essere unito al suo essere. In questo senso, la volontà di potenza, nel
pensiero di Heidegger, è incoerente (tradisce la propria essenza), mentre la
tecnica si libera da questa incoerenza ed è quindi la coerenza del pensiero di
Heidegger (e non solo di esso). In questo senso bisogna dire che il pensiero di
Heidegger è unterwegs zur Technik, in cammino verso la tecnica. O anche: il
pensiero di Heidegger esce dall’incoerenza solo se si pone come il lasciar
essere le forze che si contendono il dominio dell’ente, e quindi come il
lasciar essere l’organizzazione tecnologica del mondo, che ormai ha avuto il
predominio su ogni altra forza. * Intervento al convegno su L’eredità di
Heidegger, tenutosi all’università di Padova nell’inverno 1978 (con la
partecipazione, tra gli altri, di Gadamer, A. De Waelhens, M. Riedel, G.
Vattimo) e poi pubblicato in Verifiche. Le religioni soddisfano i desideri più
profondi deiruomo. I miti gli dicono che può accostarsi e unirsi alle potenze
supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla morte e renderlo felice in
un’altra vita. Dando ascolto a queste voci, per millenni e millenni l’uomo
riesce ad anticipare qui sulla terra quella felicità, e a sopravvivere. Crede,
ha fede in esse, ne è certo. Ma queste voci asseriscono, raccontano: non
possono impedire che il dubbio si insinui e si faccia largo nella gran massa
delle loro certezze. Il mito soddisfa il desiderio, ma è inaffidabile. La
salvezza è il contenuto di un sogno. Nemmeno le religioni più evolute riescono
a uscirne. Si fa avanti allora la religione. Intende mostrare come il dubbio
possa esser vinto. La storia breve della religione: due millenni e mezzo. In
essa, però, i criteri per accorgersi di ciò che è sogno sono andati sempre più
perfezionandosi. E tuttavia il contenuto del sogno non è stato sostituito da
una veglia altrettanto salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto vedere - e,
di assolutamente affidabile, ha visto soltanto l’assoluta precarietà della
propria condizione. Scienza e tecnica fanno sì prevedere, qui sulla terra,
l’avvento del loro paradiso. Ma fanno anche capire che nemmeno questo paradiso
può uscire dal sogno. Sanno che, per quanto raffinate, le loro procedure
razionali sono ipotetiche, fallibili. La condizione umana è precaria, perché
precaria è ogni rassicurazione razionale dalla non precarietà dell’umano. Sia
pure in modo diverso, la salvezza dal dolore e dalla morte continuano a essere
qualcosa di sognato. In questa situazione, i miei scritti indicano qualcosa che
non può non sembrare esorbitante e velleitario. Può essere espresso con
l’affermazione di Eraclito: Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose
che essi non sperano né suppongono. Intendo: da cose che sono infinitamente di
più di ciò che essi desiderano, suppongono, sperando di ottenere; infinitamente
di di più di ciò verso chi vuole condurre la stessa speranza cristiana, e
dunque di più di ogni immortalità e di ogni resurrezione della carne che a
speranze di questo genere sono connesse - e infinitamente di più di ciò a cui
lo stesso Eraclito poteva riferirsi. Siamo destinati a qualcosa che è
infinitamente di più di tutto quanto il più insaziabile dei desideri può
volere. Ma il carattere esorbitante di queste affermazioni è ancora maggiore,
perché quel che esse indicano non si presenta, nei miei scritti, come il
contenuto di un mito, ma come lo stare, in modo assoluto, al di fuori del sogno
in cui rimane ogni mito e ogni forma della stessa ragione. In questo stare al
di fuori del sogno non si tratta di attendere l’avvento dell’insperato: già
ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da una veglia assoluta che è infinitamente
più radicale di ogni incontrovertibilità e di ogni procedura critica della
ragione - dunque anche di quella delle scienze logico-matematico- naturali. È
all’interno di questa veglia assoluta che si mostra la destinazione dell’uomo a
cose che egli non spera né suppone. L’uomo non è ciò che il mito e la ragione
gli fanno credere di essere, ma è lui stesso, nel profondo, a esser questa
veglia assoluta. In essa appare l’infinito allargarsi di sé stessa, cioè la sua
Gloria; il suo accogliere tratti sempre più ampi del Tutto, ossia della Gioia
che l’uomo, da ultimo, è. Nei miei scritti tale veglia assoluta è indicata
dalla parola destino, intesa come costruita in modo analogo a termini quali
de-amare, de-vincere, dove il de esprime l’intensifìcazione dell’amare e del
vincere, sì che il destino è l’intensificazione estrema dello stare, cioè
dell’inamovibilità in cui consiste la veglia assoluta. Il destino è l’apparire
di ciò che è, ossia degli essenti. Nel destino appare che ogni essente è sé
stesso e non diventa altro da sé, e dunque è eterno; e appare che il variare
del mondo è il sopraggiungere degli eterni nell’apparire, ossia è la Gloria
dell’inesauribile sopraggiungere della Gioia; e, insieme, nel destino appare
che la negazione del destino è negazione di sé stessa, una freccia che,
volendolo colpire, colpisce sé stessa. Il destino è il senso autentico della
verità. E, ancora, nel destino appare che l’uscire dal nulla e il ritornarvi
non appaiono, ma appare il sopraggiungere di quegli eterni che sono il dolore e
il piacere, la nascita, l’agonia. Il cadavere - gli eterni che sono
oltrepassati quando tramonta l’isolamento della terra dal destino.
Nell’isolamento della terra, la fede nel divenir altro porta alla luce la
volontà di salvezza e di potenza. Nel suo significato essenziale la morte è il
divenir altro (ossia è l’impossibile); e da sempre i mortali hanno tentato di
vincere la morte diventando altro da ciò che essi sono: uccidendo il Dio, come
Adamo, o diventandone gli alleati, come Gesù. Hanno tentato di vincere la morte
con la morte. Certo, tutto questo, detto in questi termini, può sembrare un
ennesimo mito che ripropone quanto la tradizione filosofico-metafisica
dell’Occidente ha inteso essere: l’unità di quanto interessa l’uomo e di quanto
la ragione può dire (l’unità tuttavia che non può essere realizzata né dalla
coscienza religiosa né dalla configurazione che la religione è venuta ad
assumere nel nostro tempo). Ma, lungo la storia stessa dell’Occidente, quella
tradizione è tramontata. Sennonché è proprio nei miei scritti che si mostra l
’inevitabilità di tale tramonto, la quale va rintracciata in quella dimensione
più profonda del pensiero filosofico del nostro tempo, che questo stesso
pensiero per lo più non riesce a raggiungere. D’altra parte sin dal suo inizio
la filosofia porta alla luce non solo l’istanza dell’incontrovertibilità, ma
anche un senso radicalmente nuovo della salvezza: si tratta di salvarsi dal
nulla da cui le cose del mondo sporgono improvvisamente. Il mito prefilosofico
non pensa il nulla e dunque non vede nemmeno che la morte è annientamento. Non
vede il pericolo estremo e quindi non salva da esso. Pensando l’eternità del
divino, la tradizione filosofica crede che la salvezza dal nulla sia possibile.
Ma se si sa scendere nella dimensione profonda della filosofia degli ultimi due
secoli si scorge che qualsiasi Essere eterno è impossibile. Impossibile,
quindi, anche ogni verità eterna, incontrovertibile, definitiva. Ciò significa
che sia la tradizione filosofica sia la filosofia del nostro tempo, sia
l’intero passato sia l’intero presente della civiltà occidentale, e dunque,
ormai, planetaria, hanno in comune il grande mito - la grande Follia - in cui
il variare del mondo è inteso come l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte
degli essenti. (Il mito che dunque accomuna non solo gli amici e i nemici di
Dio, ma anche, per quanto riguarda la filosofia del nostro tempo, la cosiddetta
filosofia analitica e la cosiddetta filosofia continentale). La volontà di
salvezza - che è la stessa volontà di potenza - è la figlia di questo mito. Ma
è inevitabile che si obbietti: Come può essere sostenibile un discorso che
ritiene di essere l’unico a non appartenere al mito e alla follia? Il genio
dell’uomo ha sempre fatto perno sul divenir altro delle cose; e proprio quel
discorso, che pretende di smentire quel che l’uomo ha sempre pensato, e su cui
si fonda tutto ciò che egli ha creato, dovrebbe esser l’unico detentore della
verità?. Possiamo richiamare così la risposta a questa obbiezione - che peraltro
è sempre stata rivolta ai filosofi e al campo di lotte senza fine (dice Kant) a
cui essi hanno dato vita. Che esistano altre coscienze, oltre a quella che
appare nel destino è, originariamente, un problema, non una verità assoluta.
Originariamente, è un problema che l’uomo sia una società di individui umani.
Ed è un problema anche ciò che i linguaggi dell’uomo intendono dire. Li si
interpreta; ma l’interpretazione non è una verità assoluta. È dunque
un’interpretazione anche Yesistenza del dissenso rispetto al linguaggio che
indica il destino - del dissenso che si esprime dunque anche nell’obbiezione
che stiamo discutendo. È una interpretazione anche l’esistenza della storia, di
cui prima si è detto, che conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli uomini
sia sempre rimasto al di fuori del destino, e abbia sempre agito secondo questa
sua alienazione, è interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il
linguaggio che indica il destino dovrebbe propriamente dire: se c’è stato
qualcosa come mito, e se c’è stato qualcosa come ragione, allora l’avvento
della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito, e la esprime nel modo sopra
rilevato. Certo, al destino appartiene anche la necessità del suo essere
presente in infiniti altri cerchi dell’apparire - e in questo senso gli
appartiene l’affermazione che Tesser uomo è Tessere una molteplicità di modi di
esser uomo, ossia è una società. Ma poiché è sul fondamento del destino che
l’esistenza di questa molteplicità può essere affermata incontrovertibilmente,
allora, se si scopre che tale molteplicità è tutta o in parte un dissenso
rispetto al contenuto del destino, tale dissenso morde la mano che lo sorregge,
nega ciò sul cui fondamento è affermata incontrovertibilmente la sua esistenza.
Che esista il dissenso che si scandalizza o irride le esorbitanti pretese del
linguaggio che indica il destino non è un fatto: è anch’esso un mito. Quando il
destino mostra di essere presente in un’infinità di coscienze e mostra il loro
dissentire dal destino, tale dissenso perde ogni verità. Che tale dissenso
esista viene affermato infatti proprio in base a ciò da cui si dissente. La
fantasia è l’insieme delle immagini originarie, delle forme di rappresentazione
più antiche e più generali dell’umanità: gli archetipi (ad esempio il divino).
Diffusa dappertutto, la fantasia appartiene ai misteri della storia dello
spirito umano. Così scrive Cari Gustav Jung. Platone vede nelle idee le
immagini originarie di tutte le cose, gli archetipi; così originarie da essere
le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non appartiene
ai misteri dello spirito umano, bensì alla scienza ( epistéme ) della verità a
cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l’opposto della
fantasia intesa come evocazione misteriosa, e quindi da ultimo oscura e
arbitraria, di mondi. Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni
archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci si imbatte
nella forma originaria della fantasia, di cui tutti quegli archetipi sono derivazioni.
Da tempo chiamo terra la storia dell’uomo e delle cose che gli si fanno
incontro. Infatti si può pensare che la più antica origine di questa parola
indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il seno e la
voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore e il piacere: cose
terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo
punto della loro vita e poi da molti di essi si allontana. La terra: gli stormi
delle cose che vengono e vanno. Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si
allontana? I mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l’uomo non
è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare ciò che da sempre la verità
è destinata a essere: il destino della verità del Tutto; essenzialmente diversa
da ciò che i mortali hanno inteso con le parole destino e verità. Nell’uomo
sopraggiunge la terra. Ma insieme a essa sopraggiunge e si fa dominante la
convinzione che l’uomo sia un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive
come se in verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna.
Non solo le anime, come invece pensa Platone, ma anche i corpi, e tutti gli
stati delle une e degli altri. Anche la terra è eterna; e anche quella
ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità. Com’è
lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali. Anche e
soprattutto in questo caso la sua inevitabilità non può essere, qui, neppure
lontanamente indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e da lontano, in che
senso è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo evocato dai
mortali. Tanto indietro da poter scorgere che sia la verità dei mortali sia la
loro fantasia hanno la stessa anima e che quest’anima è la forma originaria
della fantasia. In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la
capacità di portare alla luce mondi diversi da quello quotidiano o da quello
che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di
andirivieni, entrambi evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il
fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma
anche della fantasia. E la terra si inoltra nel luogo eterno del destino della
verità. Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono queste righe sta
pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la realtà e la serietà della
vita. Fantasie, appunto. Ma anch’essi sanno infinitamente di più di quanto
credono di sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia originaria
è cioè la convinzione che la realtà con cui noi abbiamo sicuramente a che fare
sia, appunto, le cose che vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della
terra ; e ormai si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto
è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella
terra separata dal destino della verità, nella terra che appare sfigurata,
irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la
separazione della terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a
comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi che la filosofia
autentica non è metafora, ma il pensiero più radicale, essenzialmente più
radicale e inevitabile di ogni altra forma di sapere, scienza compresa. Quando
i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il
cielo non lo vedano più. Non si produce in essi qualcosa come un oblio del
cielo e del più alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle
anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli archetipi che
appaiono nella pianura della verità. Quei cacciatori, il cielo, lo vedono
ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro
del cielo direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose con
cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli
perché non mirano ad altro che a prenderli, gli uccelli; ed effettivamente li
prendono, e gettano loro addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo,
li trascinano giù in basso e li uccidono. La fantasia originaria è il volo
irretito degli uccelli. L’arte tenta di rievocare il libero volo, ma, per
quanto splendente, rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto
sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella metafora, il volo
degli uccelli corrisponde alla pura terra, il cielo al destino della verità. La
rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la
terra dal destino della verità. Tale isolamento è la forma originaria della
fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti, filosofia,
arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali. Discutere
il destino della verità, concretezza delVerrare, isolamento della terra,
linguaggio Anche oggi il tema di fondo del pensiero filosofico - nonostante i
tentativi di eliminarlo, ma anche in seguito alla loro presenza - riguarda la
verità di ciò che è conosciuto e voluto dall’uomo. Con diversi gradi di potenza
e rigore la filosofia del nostro tempo rifiuta la possibilità di una verità
assoluta e definitiva, capace di affermare qualcosa di Immutabile. Un rifiuto,
questo, che è cosa ben diversa dal considerare superfluo il tema della verità;
e che là dove è adeguato al proprio compito è un rifiuto inevitabile. Esso è
tuttavia la coerenza estrema del nichilismo. Da quando abita la terra l’uomo
intende le cose del mondo come un diventare altro; da quando la terra è abitata
dalla filosofia la filosofia concepisce la cosa come ciò che è (ente) e
definisce il suo diventar altro come passaggio dal suo non essere al suo essere
e viceversa. La cosa che incomincia a essere è stata nulla nella misura in cui
essa non era e incomincia, e la cosa che finisce di essere torna nel nulla
nella misura in cui essa finisce e non è più. Procedendo da questo senso
dell’esser cosa è inevitabile che la filosofia pervenga al rifiuto di ogni
verità assoluta e definitiva e di ogni Ente immutabile e divino; e viceversa,
tale rifiuto è inevitabile solo se procede da quel senso - che domina
progressivamente non solo i pensieri ma anche le opere della civiltà
occidentale e, ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non significa che questa
dominante inevitabilità stia davanti agli occhi di tutti i protagonisti della filosofia
contemporanea: all’opposto, va invece rintracciata nel sottosuolo del nostro
tempo.) Il senso greco dell’esser cosa domina la terra perché è ritenuto
indiscutibile. Ma perché non può essere discusso? In questa domanda traspare la
dimensione ignota alla storia della terra. Tanto più ignota quanto più tale
dimensione si mostra non come un semplice domandare, ma come negazione di quel
senso e quindi come negazione di ciò sulla cui base è inevitabile che si
pervenga alla negazione di ogni verità incontrovertibile. Tale dimensione è il
destino (inteso secondo il senso richiamato nelle pagine precedenti). Il
destino è la manifestazione del differire degli essenti tra loro e del loro non
essere. Essi sono le differenze. Proprio per questo il destino è la manifestazione
dell’impossibilità che ciò che è, in quanto tale, non sia: è l’apparire della
necessità che Tessente in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia eterno.
Le implicazioni di questa affermazione conducono molto lontano. Ma il destino è
tale solo in quanto è la dimensione in cui appare incontrovertibilmente il
senso dell’incontrovertibile e Tincontrovertibilità di tale dimensione: non è
la fede nella propria incontrovertibilità. Con una espressione che, qui, non
può che rimanere astratta, formale, si può indicare il senso
delTincontrovertibilità e della necessità del destino dicendo che esso è la
dimensione la cui negazione nega sé stessa. Il destino è la negazione della
fede, cioè dell’errare. L’uomo di cui si parla all’interno della terra isolata
dal destino è anch’esso il contenuto di una fede. Con ciò si intende qualcosa
di essenzialmente più radicale dell’affermazione che l’uomo erra: si intende
che la fede nell’esistenza dell’uomo della terra isolata è un errare, un sogno.
La terra intera, in quanto appare separata dal destino, è il contenuto del
grande sogno in cui consiste la vita e che è il grembo di ogni fede. (Ma in
quanto è un essente, anche il sogno è un eterno.) La vera essenza dell’uomo è
il destino. Essa non appartiene ad alcuno degli abitatori, umani o divini,
della terra isolata. È all’opposto la terra isolata ad appartenere al contenuto
che appare nel destino - giacché solo nel destino può apparire
incontrovertibilmente l’esistenza dell’errare, della fede, del sogno, ossia
della negazione del destino della verità. Discutere il destino è un modo di
negarlo, sì che tale discussione nega sé stessa. Infatti discutere significa
affermare una differenza: tra ciò che è discusso e ciò che in vari modi gli si
oppone. E il destino - si è detto - è innanzitutto l’apparire del senso che
compete alla differenza (ossia alla differenza dei differenti). Discutere e
opporsi al destino è quindi un differirne. E proprio per questo è condividerne,
più o meno inconsapevolmente, il tratto originario: l’affermazione della
differenza. In questo differire - condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si
ripresenta l’indicazione, prima sommariamente richiamata, del senso
dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui negazione nega sé
stessa. Discutere il destino è condividerlo; ma è anche negarlo, e pertanto è
negare tale condivisione, sì che discutere il destino è negazione di sé stesso.
È necessario affermare l’esistenza delle differenze non perché esse appaiono
all’interno della fede e del sogno in cui consiste la terra isolata dal destino
- e dunque, da ultimo, non perché si vuole che esse siano. È nel destino che
appare la necessità della differenza dei differenti e la necessità della loro
eternità e di tutto ciò che essa implica: nel destino - che già da sempre si
apre al di là del percorso dove gli abitatori della terra pervengono
inevitabilmente, sul fondamento della fede nel diventar altro, alla negazione
di ogni verità e di ogni Ente immutabile. Discutere e opporsi al destino,
quindi condividendolo, è pertanto solo il tentativo inconsapevole di
condividerlo. Giacché altro è la negazione del destino, che gli appartiene
essenzialmente in quanto esso è la negazione della propria negazione (e questa
negazione del destino non è un semplice tentativo di esser negazione); altro è
la negazione che appare nella terra isolata dal destino e che se (a differenza
dell’altra negazione) si rende visibile agli abitatori di questa terra,
tuttavia, in quanto è una fede, è solo un tentativo di essere negazione del destino.
Già il vivere è trovarsi nelle differenze - è, appunto, credere, aver fede di
trovarvisi. Forse la differenza più antica è quella che la volontà è convinta
di esperire tra i propri desideri e le resistenze da essi incontrate. Oggi la
tecnica guidata dalla scienza moderna è il modo più potente con cui la volontà
domina le differenze. Ma nemmeno la scienza e la tecnica, nonostante il loro
rigore concettuale, riescono a porsi al di là della fede e pertanto della fede
nell’esistenza delle differenze. La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà di
liberarsi dalla fede - quindi dal mito, che è uno dei contenuti più antichi
della fede e che a lungo ha raccolto in sé e dominato ogni altra forma di fede
(e ancora permane in molte parti del mondo). Eppure la filosofìa conserva il
tratto centraledella fede prefilosofica nelle differenze: conserva, appunto, la
fede nel loro diventar altro. Il pensiero filosofico conserva in sé la fede che
le differenze siano anche un differenziarsi, e nel modo più radicale. I miti
raccontano cosmogonie, teogonie, metamorfosi: le grandi forme del diventar
altro. La filosofìa, però, intende essere il vero racconto. La sua grandezza
sta nell’aver evocato una volta per tutte il senso radicale della verità. La
verità è il mostrarsi dell’assolutamente incontrovertibile. Si è poi trattato
di stabilire il senso dell’assolutamente incontrovertibile e il contenuto di
cui è necessario affermare tale incontrovertibilità. Ma lungo la storia
dell’Occidente la fede è prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a essersi
sviluppata come fede nel differenziarsi delle differenze, la filosofia si è
sempre più consolidata come fede nell’incontrovertibilità della manifestazione
(esperibilità, osservabilità) di tale differenziarsi. Verità si dice in molti
sensi anche perché molti ambiti della vita si presentano come verità - e per
questo si parla di verità religiosa e morale, di verità degli istinti, degli
affetti, dell’arte, di verità della filosofia e della scienza; e,
complessivamente, di verità dell’esistenza della vita e della terra (quale
appare nel suo essere isolata dal destino). Ma poiché queste verità non sono il
destino della verità, esse sono tutte verità controvertibili - per quanto
diversa possa essere la loro plausibilità (probabilità, ragionevolezza, potenza
e coerenza concettuale) e potenza - e raffermarle è sempre una fede, anche
quando esse hanno fede nella propria incontrovertibilità. La più plausibile è
lontana dal destino tanto qua nto la meno plausibile: infinitamente. (Questo,
anche se è appunto all’interno di questa infinita lontananza che tuttavia si
presenta come inevitabile, nel pensiero del nostro tempo, la distruzione di
ogni verità assoluta e di ogni Ente immutabile.) Si può chiamare filosofia
futura il linguaggio che, invece, testimonia il destino della verità. Essa è
futura perché se nel presente la sua voce è soverchiata dalle voci della terra
isolata dal destino, tuttavia essa è destinata a mostrarsi come il linguaggio
dei popoli. D’altra parte, testimoniando il destino, la filosofia futura si
rivolge alla dimensione che, eterna, non è inclusa, ma - più antica del più
lontano passato - include la totalità del tempo che viene affermato all’interno
della terra isolata. Tuttavia, le stesse voci che si levano nella terra
isolata, e sono quindi negazioni del destino, vanno rendendo anch’esse sempre
più concreto il contenuto del destino. Infatti vanno rendendo sempre più
concreta quella negazione del destino che essenzialmente gli è unita, e in
questo senso gli appartiene, e quindi senza la quale il destino non potrebbe
essere. Ciò significa che la discussione del destino non è soltanto
l’opporglisi che, si è detto, proprio perché intende differirne condivide
(ossia è il tentativo inconsapevole di condividere) l’affermazione della differenza
che in esso appare: tale discussione è insieme l’arricchirsi della negazione
del destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di esso. In questo
senso tutto l’infinito contenuto della terra isolata dal destino - il contenuto
che è, tutto, negazione del destino - va rendendo sempre più concreta la
negazione del destino e quindi il destino stesso, in quanto negazione di tale
negazione. D’altra parte, la terra isolata, in quanto fede originaria, è
interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma, proprio in quanto esso
è un conferire, non gli può competere l’incontrovertibile necessità del
destino, ed è quindi volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso
che, nella terra isolata che appare nel destino, certi eventi appaiono come linguaggi
e come linguaggi che negano il destino. Tutte le negazioni del destino che
appaiono nella terra isolata sono cioè contenuti dell’interpretare (cioè del
sogno) che appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è pertanto un
tratto del destino). Gli eventi della terra isolata sono interpretati come
linguaggi che, proprio perché testimoniano altro dal destino, ne sono la
negazione. Che dunque esista la discussione del destino offerta dalla terra
isolata, è qualcosa di voluto dall’interpretare (che appare nel destino). Né
può essere diversamente, perché se nella negazione del destino il destino
apparisse, essa apparirebbe come negazione di sé stessa, e l’apparire di tale
autonegazione sarebbe l’apparire stesso del destino. Se il destino appare è impossibile
esser convinti della sua negabilità e controvertibilità. Lo si può discutere e
negare, se ne può affermare la controvertibilità e negabilità solo in quanto il
discuterlo e negarlo è un linguaggio che nella terra isolata testimonia
soltanto essa - cioè un linguaggio che nel destino appare come qualcosa di
evocato dall’interpretazione. Sono così evocati anche i linguaggi che,
all’interno dell’interpretazione, mostrano di essere affermazione del destino,
o di condividere il linguaggio che lo testimonia - e questo stesso linguaggio è
evocato dall’interpretazione in quanto esso appartiene al passato, mostrandosi
con la proprietà dell’esser mio. Appunto a questo tipo di linguaggio (e non al
mostrarsi del destino) si rivolge la discussione del destino nella misura in
cui essa riesce a costituirsi - visto che essa riesce a costituirsi solo in
quanto non si rivolge al destino, non ne contiene l’apparire, non lo capisce:
solo in quanto non ha come contenuto il destino, nel quale la
negazione-discussione di esso può apparire soltanto come negata. Diciamo
dunque: nella misura in cui riesce a costituirsi la discussione del destino si
rivolge al linguaggio che lo testimonia, perché non è non è un tratto del
destino che tale linguaggio possegga tutte le condizioni richieste per essere
capito dai linguaggi altrui. L’uomo vive soltanto se crede - nel senso più
ampio di questa parola, rispetto al quale la fede religiosa è soltanto una
specificazione, per quanto eminente. Vivere è innanzitutto credere di esistere
e di agire nel mondo. E ogni credere, ogni fede, è volontà. La volontà non
vuole soltanto cambiare il mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto vuole
che le cose presenti e passate siano ciò che essa crede che siano e siano
state. La fede-volontà è interpretazione. Tuttavia credere-volere-interpretare
è stare al di fuori della verità non smentibile. Credere è errare. Ma se l’uomo
fosse soltanto un vivere, cioè un credere, allora sarebbe soltanto un credere
anche l’affermazione che vivere è credere e volere - affermazione condivisa
peraltro da gran parte della cultura non solo filosofica del nostro tempo. E
invece - ma al di fuori del modo in cui è così condivisa - questa affermazione
non è un credere, ma è una verità non smentibile. Ciò significa che l’uomo non
è soltanto vita, cioè fede, ma è, originariamente, l’apparire della verità non
smentibile. È all’interno della verità che - in modo non smentibile,
incontrovertibile - appare la vita, cioè la fede, la volontà. La verità a cui
si è rivolta l’intera storia dell’Occidente non è riuscita a essere la verità
non smentibile - la verità che d’altra parte s’illumina nel fondo più nascosto
di ogni uomo (e ovunque qualcosa appaia). A volte il linguaggio la indica; la
chiama destino della verità - come appunto nei miei scritti viene chiamata. Ma,
anche qui, che questo linguaggio sia l’agire di qualcuno - che qualcuno ne sia
l’autore, che tale linguaggio abbia il carattere dell’esser mio -, questo è
daccapo uno dei contenuti in cui la vita può giungere a credere (come crede che
l’uomo esista e agisca nel mondo e che sia l’autore dei linguaggi che parlano
del mondo). Il nichilismo - inteso nel senso indicato nei cosiddetti miei
scritti - è la forma più potente della vita, cioè della fede, cioè dell’errare.
Lascia le sue tracce anche in questi scritti, che sono andati via via
liberandosene. D’altra parte sono il contenuto di una fede sia Vesistenza del
linguaggio che conduce oltre il nichilismo, sia quella forma di vita che è il
voler dire e quindi anche il voler dire in cui consiste quel linguaggio. Ciò
che sta oltre il nichilismo è il de-stino della verità. Esso mostra anche in
che senso non è contraddittorio che quella duplice forma di fede (cioè di
non-verità) possa condurre al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto
tale, non è un punto di arrivo, ma è il punto di partenza di ogni percorso. In
un senso che è fondamentale i miei scritti hanno quasi subito guardato nella
stessa direzione. Però il loro è stato un percorso, non un salto oltre il
nichilismo. Il percorso è incominciato molto presto (nei primi anni Cinquanta),
ma l’oltrepassamento del nichilismo è stato progressivo^ Anche ai miei scritti
(sebbene, sembra, in misura consistentemente inferiore rispetto a molte altre
scritture filosofiche) si può quindi muovere l’obbiezione, considerata nel
paragrafo precedente, di essere uno sviluppo dove il linguaggio giunge a dire
qualcosa che in qualche modo esso dapprima negava. E perché, allora, quel che
ora esso dice non dovrebbe essere a sua volta negato da un suo ulteriore
sviluppo? Tale obbiezione e la relativa risposta hanno in questo caso un peso
particolare perché riguardano il rapporto tra il senso radicale della verità e
il linguaggio che lo indica. I molti significati della parola verità, comunque,
non tolgono di mezzo la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui
contenuto è l’assolutamente non smentibile e incontrovertibile - il destino
della verità, appunto - e tutti gli altri sensi, nei quali, alla luce della
verità così intesa, le diverse forme di verità appaiono invece come sapere il
cui contenuto non è qualcosa che non possa essere in qualche modo negato.
Saperi, si è detto (si pensi ad esempio alle espressioni verità morale, verità
dell’arte, verità della fede, verità del cuore, ecc.), ma anche intuizioni,
emozioni, certezze, fedi, impulsi profondi, desideri, costumi, tradizioni ecc.
La gran questione è la determinazione del contenuto dell’incontrovertibile,
ossia del non poter essere altrimenti (secondo la definizione aristotelica): il
contenuto che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come verità (
epistéme della verità) non è riuscito a essere l’assolutamente
incontrovertibile. Rispetto all’incontrovertibile autentico, ogni modo di
esperire le cose che differisca da esso è un modo del controvertibile, cioè
tien stretto un mondo che d’altra parte può sottrarsi alla stretta ed essere
diversamente da come è - per quanto alto e nobile o per quanto profondo e
preteso dalle viscere e dal cuore. L’incontrovertibile autentico è il destino-,
e la struttura originaria del destino è il centro da cui si irradia la
multiforme pianura infinita del destino. Nella sua essenza autentica l’uomo -
ogni uomo - ne è l’eterno apparire (e tale affermazione è una forma a sua volta
appartenente a quella multiforme infinità). La risposta all’obbiezione che si
sta considerando in questo e nel precedente paragrafo, si fonda sul rapporto
tra destino e terra. Nel destino appare la terra - ossia tutto ciò che
sopraggiunge nell’eterno apparire del destino ma appare nel suo esser isolata
dal destino, appare cioè come il luogo originario del controvertibile - ossia
del credere-volere - interpretare. AH’interno della terra isolata si crede
inoltre che il linguaggio non parli d’altro che delle cose della terra (lo si crede,
senza poter sapere che sono le cose - umane e divine della terra isolata dal
destino). E tuttavia nello sguardo del destino appare che nella terra isolata
anche il linguaggio che testimonia il destino riesce ad affacciarsi; e appare
che non è impossibile che tale linguaggio sia presente anche in linguaggi che
sembrano essere - nelle interpretazioni del mondo che crescono e dominano
alfinterno dell’isolamento della terra - le negazioni più perentorie dei tratti
del destino. Quella forma di testimonianza del destino che sono i miei scritti
sono eventi della terra isolata, che nello sguardo del destino appaiono
alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce l’isolamento
della terra - appaiono all’interno dello sconfinato contenuto dell’isolamento.
L’obbiezione che si sta prendendo in considerazione è una voce dell’isolamento,
cioè del controvertibile. Che la testimonianza del destino sia uno sviluppo
dove il linguaggio giunge a dire qualcosa che prima negava è un presupposto
controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in quanto
configurantesi così come attualmente si configura - potrebbe venire a mostrarsi
come incontrovertibile: quella configurazione è una negazione
dell’incontrovertibile. Tutte le più incrollabili certezze della vita (che
appaiono tutte nella terra isolata) - tutte le forme del controvertibile - sono
alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione consiste
appunto nel rilevare che tale obbiezione non solo è un presupposto
controvertibile, ma si costituisce all’interno di quella forma estrema
dell’alienazione della verità che è l’isolamento della terra. In relazione allo
sviluppo del mio discorso filosofico - quale appare all’interno della terra
isolata - dell’intera storia isolata - sono peraltro complesse le articolazioni
che conducono da La struttura originaria (1958) a La morte e la terra (Adelphi
2011), e nelle quali, tuttavia, il centro di quello scritto del 1958 permane
lungo tutto il tragitto (e si era fatto innanzi già qualche anno prima). Nel
tragitto, la svolta (così è stata chiamata) consiste nella sopraggiunta
consapevolezza, per un verso, che quel centro richiede la messa in questione
dell’intera storia dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione dell’uomo e,
per altro verso, che Valienazione (del senso autentico della verità ) che
domina tale storia lascia per un certo tempo le sue tracce anche neìYalone che
nei miei scritti avvolge quel centro. L’alienazione del senso autentico della
verità investe quindi anche il cristianesimo. Ma anche il cristianesimo, come
ogni altro evento storico, appare all’interno dell’interpretare secondo cui si
costituisce la terra isolata dal destino della verità. Che il cristianesimo
esista e che degli uomini abbiano una fede cristiana è cioè il contenuto di una
fede, della fede in cui consiste l’isolamento della terra. Nello sguardo del
destino non è invece il contenuto di una fede l’esistenza di quella fede e
dell’interpretare che compete all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto
ciò che chiamiamo la nostra vita è contenuto della fede interpretante. (Appare
aH’interno di quella fede anche l’intera vicenda che è stata riassunta dal
titolo redazionale di un mio libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli 2001.
Questo scontro, che appare all’interno della fede della terra isolata,
sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e quella grandiosa
forma dell’alienazione della verità che è il cristianesimo e la sua
configurazione storico-istituzionale, ma tale scontro è, innanzitutto e propriamente,
la negazione, da parte del destino della verità, della verità di ogni contenuto
della terra isolata - e quindi anche del cristianesimo, in quanto appartenente
a tale contenuto.) Il mondo è interpretato. Non nel senso che l’uomo, quando
voglia, abbia la facoltà di interpretarlo. Anche gli uomini e i loro rapporti
appartengono infatti al contenuto dell’interpretazione. La quale, dunque, pur
essendo volontà interpretante, non è a disposizione dell’uomo, ma dispone
l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da essa stabiliti e
modificati. È l’interpretazione originaria. Ma l’interpretazione non è verità:
è fede, volontà, ossia errare. Il mondo in cui l’uomo crede di vivere è errare.
Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno della verità. Non delle verità del
mondo - che sono a loro volta form e particolari di interpretazione -, ma di
ciò che nei miei scritti è chiamato destino della verità, o semplicemente
destino. L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino. La
terra isolata è ciò che appare in questa separazione. Anche le teorie
dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del nostro tempo, appartengono
alla terra isolata. L’interpretazione, che evoca i propri contenuti sul
fondamento di regole e di criteri (di cui essa è più o meno consapevole), può
adottare (cioè volere) quell’insieme di regole e di criteri in base ai quali
essa può affermare che l’uomo esiste come molteplicità di individui umani e che
gli uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un diverso grado di
coerenza rispetto alle regole e ai criteri adottati. Ma anche e innanzitutto il
destino della verità vede la differente coerenza delle interpretazioni evocate
dall’interpretazione originaria. Che la storia dell’uomo sia storia del
mortale, cioè della fede che, in modi estremamente diversi e complessi, le cose
e l’uomo stesso diventano altro da ciò che essi sono e quindi muoiono via via
ciò che sono stati, fino alla morte di tutto ciò che essi possono essere,
questa è una interpretazione; che però si presenta come la più coerente, sino
ad ora, rispetto a ogni altra interpretazione di quella storia (la cui stessa
esistenza è un contenuto interpretato). Non è escluso cioè che - ad esempio in
seguito a una svolta radicale delle discipline storiche, linguistiche,
antropologiche, psicologiche ecc., si imponga una nuova forma di
interpretazione, per la quale l’uomo non ha mai creduto che le cose siano un
diventar altro. Sino a che quella svolta non si manifesta, l’interpretazione
più coerente è tuttavia in grado di mostrare quell 'ulteriore coerenza, per la
quale i diversi modi di pensare e di vivere il diventar altro delle cose è esso
stesso un mostrarsi sempre più coerente a sé stesso, lungo il percorso che
conduce dall’esistenza guidata dal mito all’esistenza guidata dalla verità e,
in seguito, dalla distruzione della verità (ossia della verità che appartiene
alla terra isolata) alla civiltà della tecnica. Il destino della verità mostra
che questo è il percorso dove YErrare estremo perviene alla propria estrema
coerenza; ma è anche questo stesso percorso, in quanto isolato dal destino e
dunque con le proprie forze, a mostrare il proprio diventar sempre più coerente
alla fede nel diventar altro, dalla quale tale percorso si sprigiona. Non
potendo sapere di essere l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a rendere
sempre più coerente (e, dal suo punto di vista, sempre più vera) la propria
fede nel diventar altro, che all’inizio della storia dell’Occidente si presenta
in forma ontologica, ossia come convinzione che le cose del mondo,
corruttibili, escono dal loro non essere (dal loro esser nulla) e vi ritornano.
E poiché questa convinzione - se il linguaggio si libera daH’incantesimo della
terra isolata - è convinzione che l’essente in quanto essente sia niente, la storia
dell’Occidente è storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da
quello affermato da Nietzsche e Heidegger. Innanzitutto, l’intera storia della
filosofia si costituisce il proprio costituirsi come sistema : non in senso
hegeliano, come sistema della Verità, ma come sistema dell’Errare. Il compito
gigantesco da cui è atteso il linguaggio che sul fondamento del destino mostra
il nichilismo dell’Occidente è di allargare a tutte le dimensioni attraverso le
quali si dispiega l’Occidente l’analisi in cui appare il suo carattere di
sistema : allargarla alla dimensione religiosa, artistica, economica,
politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e delle res gestae,
oltre che, appunto, a quella delle diverse forme della scienza in quanto sapere
della natura e dell’uomo e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste
dimensioni è possibile scorgere il percorso che rende sempre più coerente e
visibile il nichilismo che in modo specifico le avvolge e sorregge, e la sua
tendenza all’autodistruzione. La dimensione filosofica del nichilismo anima
tutti gli altri luoghi dell’Occidente e ormai del pianeta - e tanto più quanto
più essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione analitica del suo
articolarsi dev’esser data la precedenza. Per indicare l’Errare è necessario
esserne al di fuori: solo in quanto il destino della verità è già da sempre
aperto qualcosa può apparire come l’Errare - che d’altra parte non è qualcosa
di accidentale rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del nichilismo non è
una semplice confutazione di un errore che, esercitando una maggior attenzione
e perspicacia, si sarebbe potuto evitare. La grandezza della verità richiede la
grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza delle configurazioni
storiche del pensiero filosofico, per la loro inevitabilità - cioè per la loro
capacità di andar oltre le forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio
perché sono queste stesse forme a richiedere di essere oltrepassate senza
peraltro riuscire a soddisfare questo loro intento più profondo, è un modo di
pensare la filosofia che troppo presto è stato messo in disparte col pretesto
che Hegel ne aveva abusato. Recuperandone la forma (e non il contenuto, si è
già detto), si dovrà comunque distinguere il senso che l’inevitabilità del
processo storico presenta in quanto considerato alfinterno della logica
dell’Errare e il senso di tale inevitabilità in quanto appare nello sguardo del
destino. Al culmine della propria coerenza - e dunque nell’incombere della
propria distruzione - il nichilismo si presenta come civiltà della tecnica.
Come ho richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è infatti il suo
carattere scientifico-matematico (che peraltro, oggi, non si scorge come
potrebbe venir sostituito da una concettualità più potente - anche se questa
insostituibilità è una situazione di fatto, un fatto grandioso che ha alle
proprie spalle tutti i successi della scienza). L’essenza della tecnica è la
messa in opera del rapporto mezzo-fine: l’organizzazione di mezzi in vista
della produzione di scopi, e propriamente di quello scopo che è l’incremento
indefinito della capacità di produrre scopi. Se qualcosa riuscisse a servirsi
della tecnica - se cioè riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo,
costituendosi pertanto come il supremo dominio e come la potenza suprema, tale
qualcosa sarebbe la tecnica autentica, cioè la tecnica più potente. Infatti già
ora la tecnica assume e usa come mezzo non soltanto le forze che si illudono di
servirsi di essa come mezzo, ma si serve anche di sé stessa o di una dimensione
parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine di quell’illusione), che
qualcosa si serva della tecnica significa che la tecnica, ossia ciò che oggi si
presenta come la forma più potente del divenire, si serve e usa sé stessa o una
sua dimensione parziale. Poiché la volontà di accrescere all’infinito la
propria potenza è lo scopo della tecnica, questa volontà è la forma
trascendentale del divenire, che servendosi di mezzi si serve anche di sé e
delle forme particolari, empiriche del divenire. Detto in modo sommario: si
serve di sé, in quanto potenza massima attualmente realizzata, per produrre sé
in quanto potenza ancora maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si
serve e usa anche le forme di volontà di potenza che credono ancora di poter
guidare la tecnica (e lo credono nella misura in cui la tecnica non riesce
ancora a sentire la voce dell’essenza, peraltro tendenzialmente nascosta, del
pensiero filosofico del nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni limite
assoluto alla volontà di accrescere la propria capacità di realizzare scopi).
La tecnica - che può essere mezzo solo in quanto si propone innanzitutto come
lo scopo supremo del divenire - è ormai la forma fondamentale del divenire,
rispetto alla quale il divenire naturale si presenta come routine, staticità
che tale volontà va sempre più sciogliendo. La civiltà della tecnica è, così,
il culmine della coerenza del nichilismo (anche se ancora resta da esplorare,
da un lato, il rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche
intendono la forma trascendentale della volontà che si fa avanti alla fine
dell’età della tecnica, e, dall’altro, il rapporto tra questi modi e
l’attualismo gentiliano). L’anima dell’Occidente: la persuasione che le cose e
gli eventi - gli essenti - escano dal niente e si annientino. Ciò significa che
annientati sono niente, e che prima di uscire dal niente sono niente. Ma questa
persuasione è la Follia essenziale, la più profonda che possa manifestarsi nel
mondo dell’uomo e nel Tutto. È infatti la persuasione che un essente, un no
n-niente, divenendo, sia, in quanto essente, niente (come passato e come
futuro). In forme diverse, la Follia domina la storia della terra, ma al di
fuori della Follia appare eternamente l’eternità di ogni essente: di ogni
evento, di ogni stato del mondo, di ogni essente che non sia uno stato del
mondo. Il mantenersi al di fuori della Follia essenziale non è una semplice
fede, un mito, un desiderio vano, un dono divino, una filosofia, e non è
nemmeno un atteggiamento scientifico: non perché non riesca a raggiungere il
rigore delle scienze della natura e delle scienze logico-matematiche, ma
perché, nel suo significato autentico, il mantenersi al di fuori della Follia
ha un rigore, un’incontrovertibilità, una stabilità, e dunque una verità e
necessità essenzialmente più radicali di quelli che competono al sapere
scientifico, e a ogni altra forma di sapere e di coscienza. La negazione di
ogni verità assoluta a cui è pervenuta la coscienza critica del nostro tempo è
conseguenza inevitabile della persuasione che le cose e gli eventi siano
divenienti, cioè possano uscire dal nulla e annientarsi. Ma in quanto appare,
nella Non-Follia, la Follia di tale persuasione, quella conseguenza non è più inevitabile;
cioè non si può impedire, al pensiero che si mantiene nella Non-Follia, di
essere la verità e necessità essenzialmente più radicale di ogni verità e
necessità della conoscenza scientifica, e di ogni altra forma di conoscenza.
Destino della necessità si può chiamare questo senso estremo della verità e
della necessità, che si mantiene eternamente presso di sé. Il destino della
necessità è l’essenza autentica dell’uomo: come apparire eterno degli eterni,
l’uomo è infinitamente altro dall’essere un che di effimero, preda del tempo e
del nulla, più o meno raggiunto dalla grazia di un Dio o di un Salvatore. Nella
sua essenza autentica l’uomo è il luogo eterno che accoglie la terra, ossia
tutto ciò che sopraggiunge - e tutto ciò che sopraggiunge è il corteo degli
eterni al quale appartengono non solo gli individui umani, ma la stessa Follia
essenziale, cioè la stessa fede che gli essenti possano uscire dal niente e
ritornarvi. Stando aH’interno della Follia, gli uomini chiamano storia del
mondo e dell’universo il sopraggiungere degli eterni, ossia la terra. Al di
fuori della Follia, la storia del mondo e dell’universo non è la produzione e
la distruzione degli essenti, ma è il comparire e lo scomparire degli essenti,
cioè degli eterni. La morte appartiene alla manifestazione degli eterni, è un
evento interno al cerchio eterno dell’apparire degli eterni in cui l’uomo
consiste. La morte non travolge e non disperde l’uomo, ma è l’uomo a
comprenderla in sé stesso come parte della totalità in cui egli consiste. Da
sempre e per sempre, quel cerchio è l’apparire della verità del destino. La
terra sopraggiunge nel cerchio del destino - che dunque è una dimensione
finita. L’uomo è sì l’apparire infinito del destino della verità, ossia
l’apparire di tutto ciò che è, nella sua verità assoluta - e dunque è
l’apparire in cui non può sopraggiungere alcunché (appunto perché esso è
l’eterno apparire di tutto) ma l’infinito rimane l’inconscio del finito:
nell’uomo, in quanto luce finita del cerchio del destino, l’eterna luce
infinita è destinata a rimanere nascosta, pur affacciandosi, con la terra, 182
in quel cerchio. Come eterno oltrepassamento di tutte le contraddizioni del
finito, l’apparire infinito del destino è la Gioia, l’inconscio dell’uomo, in
cui egli è destinato a inoltrarsi, all’infinito. Ma che ne sanno, intanto, gli
individui umani - o i popoli - di tutto questo? Nulla. Vedono in eterno la
verità, ma i loro linguaggi tacciono di ciò che si mostra nella piena luce e
parlano soltanto di ciò che sopraggiunge; e la terra appare come la dimensione
in cui la volontà dell’uomo ha la potenza di trasformare e dominare cose ed
eventi. Due anime abitano nel nostro petto: l’apparire del destino della verità
e la separazione della terra da tale apparire. Il mondo in cui crediamo di
vivere - il mondo del dolore e della morte - è il volto che la terra viene a
mostrare nel suo essere così separata e isolata. Ma intanto, prima del tramonto
della Follia l’uomo è rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È
infinitamente di più di quel che crede di essere. Rattrappito, perfino quando
crede di essere Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia immortale o che
anche il suo corpo possa risorgere. È rattrappito anche nei suoi desideri: non
perché debba desiderare di più, ma perché l’uomo desidera quando non è
consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità che tale
ricchezza gli si faccia innanzi lungo un percorso a sua volta infinito al
quale, dunque, si addice la parola Gloria. E, tutto questo, non certo perché
sia io o tu o un popolo o un Dio a dirlo, ma perché appare, non smentibile, nel
più profondo di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre qualsiasi Dio
e qualsiasi forma dell’esser uomo. L’isolamento della terra dal destino della
verità è il fondamento, la radice più profonda della Follia essenziale.
L’isolamento della terra non è una colpa, una decisione dell’individuo, ma è
esso stesso destinato all’uomo in quanto cerchio finito del destino. Solo
all’interno della terra isolata può apparire qualcosa come individuo umano,
popolo, società. Sul fondamento della terra isolata si fa innanzi,
nell’apparire, la Follia essenziale e la storia dell’Occidente, che è ormai
storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà della tecnica. Quali
sentieri la terra è destinata a percorrere nel cerchio finito dell’apparire? Il
suo isolamento dalla verità è insuperabile? È destinata ad abbandonare quel
cerchio? Quali spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi in quel cerchio
durante la vita e dopo la morte - che, comunque, non può essere l’annientamento
di ciò che dell’uomo è andato via via apparendo? Nella sua essenza autentica
l’uomo non solo è l’eterno apparire degli eterni e degli eterni della terra, ma
è la luce che si allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che
ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni configurazione della terra) è
destinato a essere oltrepassato dal sopraggiungere, nell’apparire, di altri
eterni; sì che anche l’isolamento della terra - che tuttora domina i pensieri e
le azioni dei mortali - è destinato al tramonto; e la Gioia, pur rimanendo
inesauribile, è destinata a mostrarsi libera dal contrasto con la terra
isolata. L’essenza autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli eterni,
che si allarga senza fine, è la Gloria dell’uomo. L’uomo è destinato a questo
rapporto tra la Gioia e la Gloria - che dunque non è un premio concesso a chi
abbia usato bene la propria volontà libera -. È necessità che, dopo il tramonto
dell’isolamento della terra - e dunque dopo il tramonto della vita e della
morte, della volontà e dell’abulia - l’uomo sia l’inesauribile apparire della
libertà della Gloria dalla terra isolata. Tale libertà non è oblio della terra
isolata: tutto ciò che nel cerchio dell’apparire è oltrepassato è insieme
totalmente conservato in quel cerchio. Se il dolore, che come ogni essente è
anch’esso eterno, non fosse eternamente e totalmente conservato nel cerchio
delfapparire, il suo oltrepassamento sarebbe una semplice immagine, un’astratta
rappresentazione (cfr. E.S., La Gloria, Adelphi 2001). Poiché la Gloria - il
dispiegamento infinito degli eterni nel cerchio finito delfapparire - è la
Gloria dell’uomo, per un verso essa si dispiega nel cerchio in cui appare
questa mia fede di essere una forza, individuo capace di trasformare
consapevolmente le cose; per altro verso la Gloria è il dispiegarsi, in quel
cerchio, e in ogni altro cerchio, degli infiniti altri cerchi finiti. In ogni
uomo è destinata cioè a sopraggiungere, in carne e ossa, la totalità infinita
dell’umano e dunque la totalità infinita dei modi in cui la terra è stata e
sarà isolata. Questo è il venerdì santo che precede la pasqua della terra
libera dall’isolamento. Si dice, di Cristo: Nonne oportuit haec pati Christum
et ita intrare in gloriam suam? (Le., 24, 26-27). Ma volendo trasformare la
terra per prendere su di sé il dolore del mondo, egli vuole qualcosa che invece
è necessità che accada in ogni cerchio delfapparire, e il cui accadimento è
richiesto con necessità dalla destinazione di ogni cerchio alla Gloria, oportet
haec pati in Gloria - e nella Gioia. Cfr. su questo punto, per restare agli
studi più recenti, i saggi di Leonardo Messinese L’apparire del mondo. Dialogo
con Emanuele Severino, Mimesis 2008; Il paradiso della verità. Incontro con il
pensiero di Emanuele Severino, ETS 2010; Né laico, né cattolico, Dedalo 2013; e
i saggi di Nicoletta Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo,
Morcelliana 2011; Capire Severino. La risoluzione delVaporetica del nulla,
Mimesis 2011. A Messinese interessa valorizzare soprattutto il mio scritto del
1958 La struttura originaria (La Scuola) - e in generale la prima fase del mio
discorso filosofico - e gli interessa valorizzarla anche perché, a suo avviso,
essa sarebbe compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece
sottolineare quanto del nichilismo permanga in quella prima fase di
oltrepassamento del nichilismo, e, questo, per valorizzare il modo in cui gli
scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa 185 anche
sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il nichilismo permane
in quella prima fase e tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il
primo passo, compiuto appunto in tale fase, che è quello decisivo, perché
spinge inevitabilmente verso tutti gli altri. Eschilo (E): Conosco quel che tu
scrivi di me... che oltre a essere uno dei più grandi poeti sono anche uno dei
più grandi filosofi che i mortali abbiano mai avuto... e che proprio perché la
filosofia è in me così grande può esser divenuta in me così grande la poesia...
Ma... c’è anche dell’altro... Interlocutore (I): Se tutto questo - ed è molto!
- non ti può bastare... e non certo perché tu sia insaziabile... E. Certo! Tu
mi metti in testa al grande Corteo della tradizione dell’Occidente. Ma poi, questo
Corteo lo vede fermarsi (o muoversi per inerzia)... e credi che sia sorpassato
da un più potente Corteo : quello della civiltà del vostro tempo: la civiltà
della morte di Dio, come Nietzsche si esprime, la civiltà della tecnica... Non
è così?... I. In qualche modo sì... ma, tu sai bene, ciò che più conta non è
quel che si dice, ma la verità di quel che si dice... e la più gran questione,
a partire dai Greci, è il senso della verità... Quanto al semplice dire, anche
i bambini sono capaci oggi di dire che Dio è morto... E. ... e tu credi invece
che si possa sapere il vero perché di questa morte! I. Ma se ti fermi qui non
ci facciamo capire... E. Lo so... Perché poi, a tuo avviso, tutti e due quei
Cortei di cui ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti da una
stessa cadenza... o, se preferite, dalla stessa Anima... Come se la loro marcia
fosse scandita dallo stesso Canto... (che però richiede orecchie fini, tu dici,
per essere udito)... e per te quest’Anima e questo Canto li accomuna più di quanto
188 la loro inimicizia li divida...: come se celebrassero un rito comune... che
però è inviso al Cielo... (chiamiamolo così). I. Sì... purché ci si intenda
sulla parola Cielo... Non la uso mai... ma forse, in questo nostro veloce
colloquio potrebbe servirci... E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare il
riconoscimento che tu dai della mia grandezza poetica e filosofica! Ti sembra
che mi ci trovi bene alla testa di un Corteo che, per quanto potente, non solo
è superato da un altro ancora più potente, ma che insieme a quest’altro non
ottiene il favore del Cielo? L Dipende da questo Cielo che le cose vadano così.
Cioè né da me né da te... Ma, intanto, su questo possiamo esser d’accordo: che
il Cielo di cui stiamo parlando non può essere il cielo di Dio (non si dice che
Dio sta nell’alto dei cieli?)... ma nemmeno essere quello degli atei, che
riabbassano il Cielo al soffitto delle loro case... Non credo che avremo tempo
di parlare del significato del Cielo inaudito al quale ci si deve riferire. Ma
ora lasciamo dire questo... E. Certo! E ... che se non ottenere il favore del
Cielo significa essere nell’Errore, l’Errore è però prezioso come la verità...
Soprattutto quando è grande come quello dei due Cortei di cui si parlava... Lo
dico, un po’ nel senso in cui quell’altro grande che è Emanuele Kant osservava
che senza la resistenza dell’aria le colombe non potrebbero volare... E. ...
Intanto siamo al mio Cielo: il Cielo di Dio... che d’altronde non è nemmeno il
cielo di Cristo... e non solo perché, quando io scrivevo, Cristo non era ancora
nato... L Sì, tu ti rivolgi a Dio - ecco le tue parole - con un sapere che sta
e non si lascia smentire; e questo sapere non può 189 essere la fede cristiana
né alcun’altra fede. Avvolto nello splendore della tua poesia, è tuttavia il
Dio dei filosofi e tu sei stato uno dei primi re del pensiero ad affermarlo. La
grandezza di ciò che tu hai visto non poteva essere espressa che da un
linguaggio potentemente nuovo, che ha attratto gli amanti della poesia ma ha
fatto perdere di vista che lì stava nascendo la filosofìa, la più grande delle
avventure del mortale... E. Di solito, quando si dice Dio dei filosofi si
pronuncia questa espressione con un accento di più o meno larvato rimprovero,
mentre il volto e la voce si rischiarano, quando a codesto Dio si contrappone
il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e, soprattutto, il Dio di Gesù... I.
Ma il rischiararsi di quei volti e di quelle voci è poca cosa rispetto al
chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al sapere che sta e non si lascia
smentire! E. È il chiarore della filosofia. Quando pronuncio l’espressione
phrenòn tò pàn intendo parlare del culmine della sapienza... (come tu traduci)
ossia di ciò che noi Greci eravamo in procinto di chiamare filosofia. E il
culmine della sapienza è il sapere che non si lascia smentire... Stando su quel
culmine e in quel sapere, si abita en phàei, nella luce, nel vero chiarore...
I. Sì, nella tua lingua luce si dice phàos e la parola filosofia contiene le
parola sophia... che è costruita sulla parola phàos, e dunque suona come se
dicesse: grande luce... E. ... Certo: quel so di so-phia è un prefisso che
rafforza, intensifica e, appunto rende grande il significato della parola da
cui è seguito, cioè, in questo caso, il significato della parola phàos. I. ...
e quindi si deve dire che philo-sophia significa aver cura per ciò che sta
nella grande luce, al culmine della luce... La cura per qualcosa che è
essenzialmente più radicale del rigore del sapere scientifico e della dedizione
di ogni fede. E. ... e che per questo, ma solo per questo, può essere detto
sapienza... Forse ora si potrebbe incominciare a capire ciò che tu affermi del
modo in cui io intendo la sapienza: quel che sta al culmine della luce è il
sapere che sta e non si lascia smentire... L Ho dovuto usare quest’ultima lunga
espressione per tradurre quel che tu esprimi rapidamente quando affermi di
rivolgerti a Dio... E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio pant’epistathmómenos ...
che tradotto alla lettera nella vostra lingua significa ponderando bene tutte
le cose... Ma tradotto così alla lettera dice ben poco... Se si è capaci di
scendere nel senso profondo di queste mie parole greche, bisogna intenderle
nella direzione in cui tu ti sei messo... In esse risuona una grande parola: la
parola epistéme che alla lettera vien tradotta con la parola scienza, ma che
nel suo significato originario significa lo stare (- stéme), dove lo stante non
si lascia scuotere dalle forze che vorrebbero scuoterlo, abbatterlo e
smentirlo. I. Ti ringrazio per quanto hai detto di me... A questo punto sarebbe
forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel tuo Inno a Zeus -
l’Inno a Dio - che, parlando del culmine della sapienza, sta esso al culmine
della sapienza che guida la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il
contesto in cui compare la rapida e potente espressione che ho tradotto con il
sapere che sta e non si lascia smentire... E. Ne ricorderò solo una parte... e
non nella mia lingua, ma nella traduzione che tu nei hai dato, e con qualche
ritocco... Se il dolore, che getta nella follia, dev’essere cacciato 191
dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un sapere che sta e
non si lascia smentire, non posso pensare che a Zeus [...] che ha vinto tre
volte. Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria perviene
al culmine della sapienza. Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito
che il sapere acquisti potenza sul dolore. Quando, invece del sonno, goccia
davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza che lo
vogliano, sopraggiunge nei mortali un sapere che salva. Questo è un dono dei
dèmoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus. I. Quanto tempo
occorrerebbe per portare alla luce la grandezza di queste parole!...
Bisognerebbe mostrare, innanzitutto, che Zeus è per te ciò che la filosofia,
nascendo, chiama Dio... e che tu sei tra i pochi che la fanno nascere... E.
Zeus ha vinto tre volte: ha vinto per sempre la propria mente... quindi è il
totalmente essente, come tu hai tradotto l’espressione pantelés, che compare
nella mia tragedia Le supplici ... I. ... e, ancora, bisognerebbe mostrare che
tu incominci a intendere la morte come l’andare nel nulla e dunque a pensare
quel significato radicale del nulla che prima di Parmenide, di te e di pochi
altri era rimasto nell’ombra... e portandolo alla luce avete fatto sì che gli
uomini incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da prima: nel modo
estremo e più terribile... E. Morire sapendo di andare nel nulla dal quale non
c’è ritorno è infatti qualcosa di essenzialmente diverso dalla morte di chi, la
morte, non la può vedere legata al nulla perché ancora non sa nulla del
nulla... I. All’estremo opposto di Zeus che ha vinto per sempre la propria
morte e per questo è totalmente essente, c’è il panóles, la parola con la quale
tu indichi Tesser totalmente distrutto di chi è spinto nel nulla dalla morte...
E. Eppure... eppure nel mio Inno a Zeus dico che il dolore che getta nella
follia deve essere cacciato dalVanimo con verità...! e il dolore getta nella
follia quando lo si patisce come messaggero della morte!... Nel mio Inno io
indico anche il Rimedio!... il Rimedio contro la follia in cui getta l’angoscia
della morte!... il Sommo Rimedio! I. Sì, tu hai indicato il Rimedio... Di più:
alTinterno della storia dell’ epistéme tu sei stato il primo a indicarlo a
chiare lettere... Di più ancora! Il tuo Rimedio è il Riparo sotto il quale si
sono rifugiati quasi due millenni e mezzo di storia dell’Occidente... e si
semplificano troppo le cose dicendo che il tuo Rimedio è Dio!... E. Certo, si
semplificano troppo, perché anche nel mio Inno dico che... con verità è
necessario cacciare la follia del dolore... con verità!... cioè con un sapere
che sta e non si lascia smentire... e questo sapere non può essere nessuna
sapienza che il mito ha prodotto, e nessuna fede, nemmeno quella che per chi è
venuto dopo di me è stata la fede cristiana o la fede nella tecnica del vostro
tempo! Inchiodato dalle arti, cioè dalla tecnica del falso Zeus del mito e
della fede, non è forse il mio Prometeo, a urlare: La tecnica è troppo più
debole della Necessità? Sono io a pronunciarle, queste parole, perché la
Necessità è proprio ciò che si manifesta alTinterno del sapere che sta e non si
lascia smentire, e che nel mio Inno chiamo sophronéin, cioè sapere che salva,
come tu hai tradotto... L Siamo al centro del tuo pensiero e del pensiero della
tradizione occidentale: la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno lo metti in
piena luce. E. Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha stabilito che il sapere
acquisti potenza sul dolore e questo è il sapere che sta e non si lascia
smentire. I. Ha in mente te e gli altri grandi filosofi greci, Gesù, quando
dice: La verità vi farà liberi! Liberi da che cosa se non dalla incapacità di
sopportare il dolore e la morte...? E. ... solo che in lui la verità è ormai
diventata la verità della fede, la volontà che un sapere sia verità perché è
lui a rivelarlo... I. ... mentre la filosofia ha cura per il sapere che mostri
da sé stesso di non poter essere smentito... E. Su questo pensiero la filosofia
si è curvata per millenni... L ... si tratta di aver cura per la luce che non
inganni e della potenza che può essere suprema, divina, supremamente
liberatrice solo in quanto essa appaia in questa luce... E. Saldi rimedi;
saldi, cioè veri, invocano le Erinni alla fine della mia Orestea... Su questo
pensiero la filosofia si è curvata per millenni... L ... e si è spezzata... e
questo è insieme lo spezzarsi dell’intera civiltà occidentale, e ormai è la
spezzatura del mondo... E. Tu vuoi dire che si è spezzata nei due Cortei di cui
parlavamo all’inizio?... il Corteo della tradizione, della verità liberatrice,
del divino... L Sì, e il Corteo del tempo presente, dove invece si scorge
l’inesistenza di ogni Rimedio, di ogni Riparo dalla nullità dell’uomo. E. Sì,
il mio Corteo ha pensato (e per primo) che le cose e i mortali sporgono
provvisoriamente dal nulla, ma ha anche pensato che dall’angoscia in cui spinge
il pensiero della nostra nullità, ci si può liberare solo con la verità che
sta, non smentibile, e mostra il divino che ha vinto per sempre la morte e in
cui in qualche modo restano salvate dal nulla tutte le cose mortali... I. ...
ma una volta che il tuo Corteo ha evocato il canto terribile della nullità
delle cose era inevitabile che il controcanto del Rimedio e della Salvezza dal
dolore e dal nulla si rivelasse senza forza e si spegnesse, e si facesse
innanzi l’altro Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo stesso
Inno, diverso al tuo, ma figlio legittimo del tuo: l’Inno del nulla, della
incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è inevitabile che il tuo Corteo
sia seguito da quest’altro... E. ... ma tu dici anche questa inevitabilità non
è a portata di mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il mondo
debba essere guidato da loro... I. Sì, lo credono... si illudono... perché
sotto la cenere di Dio c’è il fuoco del nulla. Leopardi canta così: ... a noi
presso la culla immoto siede, e su la tomba, il nulla e questo canto finisci
col sentirlo anche al di sotto delle voci delle magnifiche sorti e progressive
della tecnica... E. ... che tenta di allontanare il più possibile il dolore e
la morte. L La tua sentenza che la tecnica è troppo più debole della Necessità
deve essere rovesciata: oggi appare che la Necessità è troppo più debole della
tecnica : considera allora quanto essa (cioè il canto del tuo Corteo) sia
debole, se la tecnica stessa che è molto più forte è poi del tutto impotente
rispetto al nulla che attende ogni cosa! E. Ma, poi, tu sostieni che l’anima
più profonda di quei due Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato all’inizio!).
Mi sembra che tu voglia dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla, e che
il mio Corteo si illuda, dopo averlo cantato di poter cantare anche quello a
Zeus... I. Sì, ma ora è tempo che il nostro colloquio si concluda... E. ... e
sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due gli Inni non riescano a
ottenere il favore di quel Cielo di cui parli tu e che sarebbe abissalmente
diverso sia da quello degli amici sia da quello dei nemici di Dio... L ... sì,
ma ora dobbiamo salutarci... E. ... e in quel Cielo appare la Necessità
autentica, non quella che si fa vincere dalla tecnica, ma la Necessità che
tutto sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni vicenda,
anche i due Cortei, e anche i due Inni... I. ... questo Cielo non è una
dottrina che passi dalla testa di uno a quella degli altri. E. ... risplende in
ognuno di noi anche quando non ce ne accorgiamo... I. Ti ringrazio di aver
accennato a queste cose.. E. ... arrivederci, allora! I. Arrivederci! Parmenide
1 Interlocutore (I): Anche tu, gli uomini, li chiami mortali. Della loro mente
dici che è plaktón. Dovrebbero riflettere a lungo su questa parola. Di solito
la si traduce con errante. Non è sbagliato - purché si sappia che cosa spinge
la loro mente a errare. Parmenide (P): Infatti. Sono spinti a errare perché
credono che 1’esistenza della nascita e della morte, cioè l’uscire dal nulla e
il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio Poema. Ad esempio nei
versi 39-40 di quello che voi chiamate frammento 8. I. Ma quando dici che la
mente dei mortali è plaktón rendi ancora più profondo il senso dell’errare che
viene espresso da questa parola. Infatti plaktón, che tu riferisci alla mente
dei mortali (fr. 6), prima ancora che errante, significa colpita. E chi è
colpito patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e nell’impotenza. Si è
impotenti quando non si riesce a ottenere ciò che si vuole. Quando ciò accade
si è preda del dolore, e allora si vacilla, si va di qua e di là, si va
errando, appunto. La mente dei mortali è errante perché è colpita. È colpita
dalla convinzione non vera che nascita e morte esistano. E, preda di questa
convinzione, patisce. P. Sì, con la parola amechame ho indicato appunto questa
impotenza, angustia, mancanza, questo essere avvolti dal dolore quando non si
segue - così lo chiamo - il sentiero della Verità. Amechame indica l’assenza di
mechané, ossia della macchina (nel senso originario di questa parola), ossia
del mezzo che consente di liberarsi dall’impotenza angosciata. La frase
completa dove parlo della mente errante dei mortali dice infatti: Nei loro
petti un’impotenza angosciata governa la mente colpita ed errante. I. Dunque tu
dici che credendo nell’esistenza della nascita e della morte, nell’essere e non
essere di ciò che è, la mente dei mortali è colpita e va errando nell’oscurità
dell’angoscia... ! P. ... e che da questa Notte si esce andando verso la luce
della Verità. I. Nietzsche ha scritto che tutto il pensiero filosofico, prima
di lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu stai
indubbiamente al centro della storia dell’Occidente. Un celebre filosofo della
scienza ha sostenuto non molto tempo fa che tu sei il padre di quella
roccaforte della scienza moderna che è la fisica e che tutti i grandi fisici
del nostro tempo sono stati parmenidei. Di nessun altro Platone ha detto quel
che ha detto di te: Venerando e terribile, l’espressione che Omero riferiva
agli dèi. Sono d’accordo con Platone. Ma tu sei un grande dio bifronte... ne
parleremo più avanti, se lo vorrai... P. Sentirò che cosa intendi dire. I.
Ritorniamo, se ti va bene, a quanto stavamo dicendo prima della mia
digressione. Quando parli dei mortali dalla mente errante, mostri le
configurazioni della loro angosciata e dolorosa impotenza ( amechame ): essi,
tu dici, sono ottusi, accecati, storditi. E sostieni che è necessario cacciare
via dalla mente, con verità, tale impotenza, che li rende folli. P. Anch’io ho
compiuto il gran viaggio verso la Verità, accompagnato dalle Figlie del Sole, e
mi sono lasciato alle spalle le case della Notte, le case di quell’impotenza.
I. Non è un caso che Eschilo dica lo stesso. Nell’Inno a Zeus, dell’
Agamennone, il coro canta: È necessario cacciar via dalla mente, con verità, il
dolore che rende folli. P. Sì, son proprio le sue parole... I. ... e anche le
tue; anche se tu, la mente, la chiami nóos e lui phrontìs; e il dolore che
rende folli tu lo chiami amechame, mentre lui lo chiama àchthos. Ma
quell’affermazione di Eschilo, e la tua, indicano la nascita stessa della
filosofia - 198 anzi, sono questa nascita. P. Sì, la filosofia è il sentiero
della Verità. Se lo si percorre si è capaci di cacciar via dalla mente
l’angosciata e dolorosa impotenza che la rende folle. I. Anche prima della
filosofia ciò che i mortali vogliono sopra ogni altra cosa è riuscire a vincere
il dolore e la morte. Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il tempo in cui
essi credono nell’esistenza delle potenze demoniche e divine della terra e del
cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma, appunto, credono, hanno
opinioni, si illudono e nutrono cieche speranze (anche queste sono parole di
Eschilo), la loro è una salvezza sognata. P. Sì, per uscire dalla salvezza
sognata è necessaria la vera salvezza, è necessario che la Verità venga
incontro e si mostri all’uomo, e mostri in che consista la vera Potenza. Ma
l’uomo può scorgerla solo se riesce a capire in che consista la Verità. Questo
è il culmine della sapienza. I. Non deviamo dal nostro discorso se a questo
punto ricordiamo che per Aristotele la filosofia nasce dalla meraviglia. Con
questa parola si traduce solitamente il termine greco thàuma. Ma è una
traduzione che porta fuori strada. Basta tener presente, per giustificare
questa mia affermazione, che per Aristotele anche l’uomo del mito (l’amante del
mito, philómythos) è in certo qual modo filosofo, perché anch’egli è preso
dalle reti di thàuma. Ora, è ingenuo pensare che, nell’esistenza dominata dal
mito, sia l’esangue sentimento della meraviglia a esser capace di far rivolgere
l’uomo e di farlo alleare, per salvarsi, alle potenze che egli crede supreme.
L’uomo del mito è il primo a lottare contro l’immane sorpresa del dolore e
della morte. Thàuma è l’angosciato stupore, l’angosciata e dolorosa impotenza.
P. Sì, thàuma è Yamechame. Infatti Aristotele afferma che la filosofia conduce
nello stato contrario a quello da cui essa procede. Il viaggio che descrivo
all’inizio del mio Poema conduce anch’esso allo stato contrario: dalla Notte
delYamechame al Giorno della Verità, dove il mio animo vuol pervenire (fr. 1,
v. 19). Lo stato contrario a thàuma, a cui la filosofia conduce, è per
Aristotele la felicità, per quel tanto che essa è concessa agli uomini, è la
loro salvezza. I. Ma, come tu avevi incominciato a dire, il pensiero che
stabilisce il senso di ogni sapienza e di ogni agire - e dunque della salvezza
e della felicità - è il senso della Verità. Che importa una salvezza se non è
vera? E una virtù, una sapienza, una potenza che non siano vere? È un amore per
il divino se l’amore e il divino non hanno verità? A te e a coloro che per
primi con te filosofarono spetta questa gloria ineguagliabile: aver capito che
l’avventura più alta dell’uomo consiste nel portare alla luce il senso della
Verità. P. I più pensano ad altro. Lo dice anche Eraclito: I molti vivono come
avendo una loro propria saggezza (fr. 2), che è del tutto estranea alla Verità
di tutte le cose. I. Tutte le cose! Il Tutto! Tu e quel coro di dèi che voi siete
- voi, i primi pensatori greci per la prima volta sulla terra avete
incominciato a parlare del Tutto. È un evento infinitamente più decisivo di
quello in cui, come si racconta, l’uomo si è rizzato sulle gambe e ha
incominciato a guardare il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e
profondo è il Tutto rispetto al cielo stellato. P. Sì; e lo sguardo verso il
Tutto è necessariamente richiesto dal senso della Verità. Infatti il cuore
della Verità non trema (è atremés). Trema il cuore delYamechame; trema il cuore
di tutto ciò che può essere negato da uomini o da dèi. Il cuore non tremante
della Verità non può esser negato né da uomini né da dèi. Proprio per questo la
Verità non può essere la verità di una parte del Tutto: se lo fosse, rimarrebbe
esposta al pericolo che dalle altre parti si faccia innanzi qualcosa capace di
smentire la verità di quella parte - la verità, cioè di dimensione particolare
dell’essere -, e il cuore della verità non cesserebbe mai di tremare. P. Questo
è uno dei motivi per i quali affermo che il Tutto non è divisibile, ossia non
ha parti. I. Certo, ma su questa tua tesi, vorrei, ritornare tra poco. Ora
vorrei aggiungere che la Verità non può essere negata né da uomini né da dèi,
non perché per ora essi non siano capaci di negarla, ma domani o in un futuro
più o meno lontano potrebbero diventarne capaci... P. ... ma perché è
impossibile che lo diventino. I. Solo che è questo impossibile a dover render
conto, ora, del proprio significato. Da questa impossibilità dipende infatti
1’esistenza di un cuore non tremante della Verità. P. Infatti, il Tutto è ciò
che è, l’essente (tò eón). E al centro del mio Poema sta questa affermazione: È
impossibile dire o pensare che Tessente non sia. L’impossibile è appunto
questo: che Tessente (ciò che è) non sia. I. E qui tu ti sollevi sopra tutti
gli altri. D’altra parte, mi sembra che tu voglia anche affermare che
l’impossibile non ha un significato per proprio conto, indipendentemente dal
significato dell’espressione Tessente non è; ma che impossibile significa
proprio questo: il non essere dell’essente. O almeno mi sembra che nel tuo
Poema le cose vadano così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo
dire che è impossibile che Tessente (il Tutto) non sia. Tu hai l’audacia di
affermare che ciò che è, è ingenerato, imperituro, eterno dunque. E non è
un’audacia avventata, ma dà da pensare ai millenni e a tutte le sapienze che
son 201 venute dopo di te - a tutte, dico, anche quando esse non se ne sono
rese conto e ancora per molto continueranno a non rendersene conto. P. Ma non
ci sono quelle due affermazioni che tu hai lasciato in sospeso e che ora
dovresti chiarire? La prima, che io sarei un grande dio bifronte; e, la
seconda, la tua riserva - almeno così mi è sembrata - a proposito della mia
tesi che il Tutto - Tessente - non è divisibile, cioè non ha parti. I. Andando
avanti per questa strada - tu lo sai bene - ci avviamo verso una regione
impervia e insieme grandiosa, che in questo nostro dialogo dovremo
accontentarci di guardare da lontano. Si tratta, ancora una volta, di capire
che cosa significa essente. P. Sì. Platone, nel Sofista, mostra con potenza
mirabile perché io escluda che Tessente abbia parti. E affermo questa sua
potenza pur sapendo che egli ha inteso compiere un parricidio, come lui dice,
nei confronti del mio pensiero, cioè ha mostrato che Tessente è necessariamente
molteplice, ossia ha parti. I. Diciamolo, intanto, che cosa significa che
Tessente non ha parti. P. Significa che il mondo, in apparenza ricchissimo di
parti nello spazio, nel tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti, non può
essere Verità. Nel mondo, Tocchio non vede, l’orecchio è stordito, la lingua
straparla. Le cose del mondo sono soltanto opinioni dei mortali, a cui non
compete alcuna vera convinzione. Sono illusioni. Sono soltanto nomi. Dicevo
all’inizio che i mortali sono spinti a errare anche perché credono che nascita
e morte siano verità. Ma come è illusione la falsa ricchezza delle molte cose,
così è illusione la nascita e la morte. I. E Platone mostra perché tu neghi che
Tessente abbia parti 202 (terra, cielo, piante, animali): perché, se le avesse,
ognuna dovrebbe differire dall’essente. Infatti cielo (o casa o altro) non
significa essente, cioè non è essente, e il non essente non può essere. Quindi
le molte cose del mondo non sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se
le cose del mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici, come è necessario che
Tessente sia, così è necessario che il nulla non sia. P. Questo non potrà mai
venir imposto, che le cose che non sono siano. So che, secondo alcuni, io non
avrei negato la molteplicità delle cose. Ma se fosse così dovremmo dire che
pensatori come Platone, Aristotele, Hegel non abbiano letteralmente capito
quello che ho detto. I. Sono d’accordo con te. Io sostengo da tempo che non è
stata capita la potenza del tuo pensiero. Ma altro è affermare che tale potenza
non è stata capita, altro è affermare che non si è capito quel che il tuo Poema
ha esplicitamente affermato. P. Tu hai scritto anche più volte che il mio
pensiero può sembrare il punto in cui l’astro dell’Occidente viene a trovarsi
più vicino all’astro dell’Oriente. Come l’induismo e il buddhismo, dico anch’io
che il mondo è illusione - maya, dice l’Oriente. Ma quale differenza! I.
Infatti: sono simili le tesi. L’Oriente possiede tesi analoghe a quelle che si
leggono nel tuo Poema, ma, separate dalla cura per la Verità, separate dal
perché le si afferma, esse non sono filosofia, ma miti. P. Prima di noi
l’Oriente è philómythos, non philosóphos. Poi rileggerà i propri pensieri - il
cui splendore è indiscutibile - alla luce dei nostri. I. D’altra parte, proprio
perché il tuo discorso sulTimpossibilità che Tessente abbia parti è ben
comprensibile, non può evitare di confrontarsi con Platone, che mostra,
all’opposto, la necessità che Tessente sia molteplice; e lo mostra portando
alla luce un principio che resterà alla base dell’intero sviluppo
dell’Occidente - dell’Occidente, dico, non della sola cultura occidentale. P.
Lo so: Platone mostra che l’affermazione che Tessente è una molteplicità di
essenti... I. ... l’affermazione che il mondo esiste... P. ... non implica,
come invece io sostengo, che le cose che non sono siano... I. ... cioè non
implica che il nulla sia. P. Di questo gran passo di Platone parleremo un’altra
volta... I. D’accordo, qui vorrei allora restare alTinterno del tuo discorso,
ed esprimerti quella che tu prima hai chiamato la mia riserva, invitandomi a
non dimenticarla. I mortali, tu dici, vivono nell’opinione ( dóxa ), che è
illusoria: credono che esista la molteplicità delle cose e la loro generazione
e corruzione. P. Nascita, dolore e morte, infatti, non possono esistere se non
esistono le molte cose del mondo. Questa illusione, che li fa errare lontani
dalla Verità, li colpisce e li fa sprofondare nell’ amechanie. I. Ma tutto
questo significa che, per te, l’opinione illusoria e Vamechanie e, infine, i
mortali stessi sono, esistono, non sono un nulla. E allora, non è soltanto
Tessente a essere, ma anche il mondo illusorio dei mortali - giacché, ripeto,
quando dici che questo mondo non ha verità, nemmeno tu intendi dire che,
dunque, è nulla... P. ... e allora tu mi stai obbiettando che dunque, ciò che
è, Tessente, è costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che vorrebbe
esser solo lui a essere) e il mondo dell’illusione, che poi è a sua volta
costituito dalle molte cose illusorie che sono soltanto nomi - e, anche qui, tu
diresti che per me i molti nomi non sono un nulla, ma a loro volta sono.
Cosicché io stesso verrei ad affermare quella molteplicità delle cose che
invece dichiaro impossibile. E potresti aggiungere che, oltre ai nomi che per i
mortali sono cose, ci sono le parole che nel mio Poema indicano la Verità e si
distinguono le une dalle altre e che io non sarei certo disposto a considerare
inesistenti per il fatto che sono molte... ... Ma a questo punto puoi andare
avanti e dirmi perché, prima, mi hai chiamato un grande dio bifronte - e, mi
pare di aver capito, bifronte in un senso diverso da quello per cui sarei
bifronte già per il fatto di affermare implicitamente quella molteplicità delle
cose che invece esplicitamente nego. I. Ma innanzitutto un dio. In questo
nostro dialogo non abbiamo il tempo per mostrarlo. Ciò che più conta dovremo
quindi lasciarlo da parte - e ciò che più conta non è soltanto il senso del tuo
essere un dio. Ebbene, ti dico bifronte rispetto all’essenza autentica del
nichilismo, ossia dell’anima e del fondamento dell’intera storia dell’Occidente
e, ormai, dell’intero pianeta. P. Se questo è il tema, allora so quel che
sostieni. Tu dici che io sono colui che indica il Sentiero del Giorno e,
contemporaneamente, spinge verso il Sentiero della Notte: colui che indica che
cosa sia veramente il nichilismo e quale sia il senso autentico della sua
negazione, ma che, insieme, apre la strada che conduce nel baratro del
nichilismo. I. L’essenza del nichilismo è infatti affermare che ciò che è non
sia. Non si pensa mai che ogni annientamento degli uomini e ogni devastazione
della terra sono possibili perché, innanzitutto, si crede che ciò che è possa
non essere. L’errore estremo è insieme l’estremo orrore. Ma poi anche tu -
anche tu! -, anche la tua mente è colpita come quella dei mortali dalla doppia
testa, dikranoi, come tu dici: anche tu affermi che ciò che è non è, ossia che
le molte cose del mondo sono nulla - esse che invece non sono un nulla nemmeno
per te, nella misura in cui sono il contenuto dell’opinione illusoria. P. E
questo lo dici perché Platone ha mostrato che se una qualsiasi cosa del mondo,
ad esempio la luna, non ha lo stesso significato di ciò che è, o di essente -
se dunque la luna non è Tessente -, d’altra parte la luna non ha nemmeno lo
stesso significato di nulla, luna non significa nulla, e pertanto non è un
nulla... I. ... con la conseguenza che, affermando che la luna è, non si è
costretti ad affermare; come invece tu sostieni, che le cose che non sono
siano, ossia che il nulla è; ed è dunque necessario affermare che le molte cose
sono. P. Ma so anche che, per te, Platone, salvando il mondo da me, si porta
dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col quale io uccido (o almeno
penso di uccidere) il mondo. Tu dici appunto che, col parricidio compiuto nei
miei riguardi, Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà ne
è il cattivo pastore, e che è alTinterno di questa cattiva cura del gregge che
poi si farà innanzi, lungo la storia dell’Occidente, ogni buon pastore. I. Ma
quando parlo del nichilismo che anima quella storia, non intendo dire che gli
uomini avrebbero potuto pensare meglio di come hanno pensato - e qui mi
riferisco innanzitutto a te: gli uomini hanno pensato e agito come era
necessità che pensassero e agissero; e anche il cielo e la terra procedono nel
modo in cui è necessario che procedano. In proposito non dico altro. Vorrei
invece ritornare un momento su quel discorso che facevo a proposito della luna,
cioè del suo non esser né Tessente né un nulla. Questo non significa che tra
ciò che è e il nulla vi sia qualcosa di 206 intermedio (la molteplicità delle
cose, appunto). Significa invece che quel ciò che è, separato dalla
molteplicità delle cose che sono, è esso un nulla. Certo, luna non significa
essente, ciò che è; ma Tessente non è il non composto, il semplice, ma è ciò
che ognuna delle molte cose è, ossia è ciò che è presente in ogni cosa. P. Vedo
dove il tuo discorso sta andando. Tu dici che, essente, è ogni cosa. Quindi
Tessente è, propriamente, gli essenti. Ma, insieme, tieni fermo che è
impossibile che Tessente non sia - e appunto per l’accecante splendore di questo
pensiero mi chiami un dio; ma, tu aggiungi, Tessente è ogni cosa e quindi di
ogni cosa è necessario affermare che è impossibile che non sia, è cioè
necessario affermare che è eterna. I. Hai detto bene anche questo: che quello
splendore è accecante. Ha accecato tutti, tutte le menti più alte dell’umanità.
Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non si dispiegasse totalmente e in
tutta la sua forza e in tutte le sue luci, la Verità non potrebbe esistere;
così come il Giorno non potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il
linguaggio parli e del Giorno e della Notte, ma che dica sì al Giorno, non alla
Notte. P. Della Notte parlano i mortali, la cui mente, colpita dal dolore e
dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della Notte credendo che sia il
Giorno. I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa, per i quali Tessente non è ed
è necessario che non sia, il linguaggio della Notte gliel’hai messo in bocca
proprio tu! P. Cioè? I. Voglio dire che, per quanto ne sappiamo, quei mortali
sei stato tu a evocarli per la prima volta. P. Perché? I. Perché, per quanto ne
sappiamo, tu sei stato il primo a pensare e a parlare dell’essente come di ciò
che è assolutamente opposto al nulla. L’Oriente ignora la radicalità di questa
opposizione. E se così stanno le cose, prima di te non potevano esserci quei
supermortali per i quali Tessente non è ed è necessario che non sia. Esistevano
i comuni mortali del mito, che ancora non potevano sapere che la morte è
annientamento e la nascita è uscire dal niente. P. E quindi tu affermi che io
non solo ho evocato per primo la Verità dell’essente, ma per primo ho anche
evocato i suoi nemici, quelli che tu hai chiamato i supermortali. I. Che sono
per davvero tali, perché, a partire dall’atmosfera aperta dalle tue parole,
essi hanno incominciato a credere di morire dinanzi al nulla che li attende, sì
che la loro morte ha incominciato a essere infinitamente più angosciante di
quella del mito. Proprio per questo tu hai guardato alla Verità come sommo
rimedio contro l’angoscia estrema. P. ... Abbiamo parlato di cose grandi, anche
se abbiamo dovuto soltanto sfiorarle. Di molte altre, e grandi, che a gran voce
chiedevano di essere dette, abbiamo dovuto tacere. Ora dobbiamo salutarci. A
presto! Dal testo richiestomi da Pressburger per le Interviste impossibili,
tenutesi nel 2007 al Teatro Stabile di Trieste. Dialogo richiestomi dal
Corriere della Sera. Di tutti i miei possibili critici, (dunque, oltre che di
quelli passati e presenti anche, di quelli futuri) va detto che tutti, con
maggiore o minore potenza sviluppano il Contenuto a cui si rivolgono i miei
scritti. Questa affermazione non suona paradossale se si tiene presente quanto
si è detto nel capitolo 6, della sezione prima. Non suona paradossale nemmeno
se si aggiunge, e lo si deve, che tutte le possibili critiche al Contenuto dei
miei scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno rilevanti, di quel Contenuto
(una parola, questa, che va con la maiuscola, miei scritti andando invece con
le minuscole). Quel Contenuto è infatti la verità, il destino della verità.
Immodesto non sono io: immodesta è la verità che ne ha il diritto perché non è
cosa modesta e attira a sé il linguaggio imponendogli di testimoniarla.
Ritorniamo brevemente su questi temi. La verità è sola in quanto nega l’errore.
Senza errore non c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la rende ferma, nel
senso che essa ha il cuore che non trema - per usare un’espressione di
Parmenide - solo in quanto mostra che essa è e significa errore e la necessità
di negarlo. Essa vive, eterna (e l’uomo ne è l’eterno apparire), solo in quanto
l’errore vive; ed è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto e
fiorisce ed è robusto, coerente, razionale, suggestivo, cioè quanto più
sviluppa la ricchezza che gli compete. La verità ha cioè bisogno degli
scavatori che portino alla luce questa ricchezza con la convinzione di portare
alla luce la verità (una convinzione che è presente anche quando scrivono libri
e libri per mostrare che la verità non esiste). È, il loro, un lavoro che invece
chi scava per portare alla luce la verità non riesce a fare così bene, o non
gli dedica il tempo e la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti
i critici e tutte le possibili critiche al Contenuto a cui si rivolgono i miei
scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e spesso originali. Anche tutte le
critiche che possono essere mosse a proposito del discorso che qui si è appena
fatto intorno al rapporto tra verità e errore, agli scavatori dell’errore e
della verità, e alla loro indispensabilità. La magnificenza dell’Occidente, che
ormai conquista la terra, è il tempo dell’errore, della sua fioritura e del suo
trionfo. Ma la verità non abbandona a sé stesso l’errore: esso cresce secondo
le leggi della verità. L’errore cresce secondo le leggi della verità anche
perché ogni obbiezione che si possa fare a quel Contenuto (e l’ignorarlo è la
forma preminente della negazione di esso) è convinta di affermare qualcosa che
differisce da tale Contenuto. Non solo, ma crede anche che il fatto di differire
non sia cosa di poco conto. E infatti è di tantissimo conto. Il Contenuto di
cui si sta parlando è infatti la manifestazione del senso autentico e della
necessità del differire dei differenti. È il punto infinitamente più stabile di
quello che ad Archimede sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben vengano
dunque, daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere per davvero obbiezioni;
ossia intendano differire da ciò contro cui obbiettano e tengano quindi in gran
conto la differenza dei differenti e l’impossibilità di negarla. E, una volta
che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in gran conto proprio quel
Contenuto contro il quale esse vorrebbero andare. Gli scavatori dell’errore
sono gli erranti - e come individui tutti sono erranti, anche quelli che
scavano la verità. Nel tempo dell’errore - un tempo che coincide con il tempo
deH’uomo, cioè con l’uomo quale è inteso all’interno della terra isolata dal
destino della verità -, l’errore crede di conoscere ciò che ai propri occhi
appare come errore; e si crede capace di distinguere questo, che gli appare
come l’errore, dall’errante. Ma là dove domina l’errore che è tale agli occhi
della verità, ed esso dice di voler combattere e distruggere ciò che ai suoi
occhi è errore, ma non l’errante, là è inevitabile che ci si convinca che il
fiorire degli erranti finisce con l’essere il fiorire dell’errore ai danni di
ciò che è ritenuto verità, e si finisca col condannare, e punire e distruggere
anche gli erranti. Questa confusione tra l’errore e l’errante attraversa tutta
la storia del mortale. Eppure anch’essa contribuisce alla costituzione della
concretezza dell’errore. Tutta la storia della sofferenza umana è richiesta da
tale concretezza. Il destino della verità è destinato a oltrepassarla (cfr.
E.S., La Gloria, 2001, cit., Oltrepassare, Adelphi 2007, La morte e la terra,
2011, cit.). Il relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca a conoscere una
verità assoluta e irrefutabile. Se ci si ferma a questa definizione, tutta la
cultura del nostro tempo, innanzitutto quella filosofica, è relativista. Ma
allora va anche detto che quella negazione della verità era già sostenuta 2500
anni fa, e in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo saremmo
ritornati al punto di partenza per quanto grande fosse il suo stile? No; perché
a quella definizione non ci si può fermare. Anche perché già il pensiero greco
sapeva che chi afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli
stesso che nemmeno questa sua affermazione è una verità assoluta. (Le cose non
sono però così pacifiche, perché un negatore della verità potrebbe replicare
che egli intende proprio negare e insieme affermare la verità, perché no?,
visto che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il principio di
non contraddizione egli potrebbe daccapo rispondere che quel principio, così
semplicemente affermato, è un dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per
mostrargli che non lo è). Il relativismo degli ultimi due secoli è tutt’altra
cosa. Nega tutto l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno crede
che il relativismo possa appoggiarsi anche a Pascal, per il quale la verità
assoluta non potrà mai esser trovata perché tutto muta col tempo. Ma Pascal non
giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non può esistere
nemmeno un Dio eterno e assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il quale Pascal era un
genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non giunge a tanto, perché per lui
quel tutto che muta è, propriamente, il mondo. Nietzsche arriva a tanto perché,
fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta, mostra Vimpossibilità
dell’esistenza di un qualsiasi Essere eterno e assoluto, al di là (o
all’interno) del mondo. Ma tale persuasione non è solo di Pascal e di
Nietzsche: è di tutta la cultura e la civiltà dell’Occidente - e, ormai, del
pianeta. Sin dall’inizio l’avanguardia dell’Occidente - la filosofia greca - è
persuasa che il mutamento del mondo sia una verità incontrovertibile (e che il
mutamento sia un passare delle cose dal non essere all’essere e viceversa, cioè
abbia un carattere essenzialmente più radicale del modo in cui esso era stato
precedentemente inteso dall’uomo). O gli odierni relativisti ritengono forse,
contro i Pascal sui quali essi si appoggiano, che il mutamento del mondo sia il
contenuto di una conoscenza fallibile, congetturale (per usare una nota
espressione di Popper)? E la ricerca della verità, che i relativisti
preferiscono al suo possesso, tale ricerca, dico, non è forse una forma
rilevante di mutamento del mondo? E l’esistenza di tale ricerca è forse, per i
relativisti, il contenuto di una conoscenza fallibile e congetturale? No di
certo. (O vedano loro che cosa intendono sostenere.) Solo che è Nietzsche,
insieme a pochi altri, a saper mostrare perché, dal fatto che nel mondo tutto
muta, è necessario concludere che non esiste alcuna verità assoluta e
irrefutabile oltre a quella che consiste nell’affermazione di quel fatto, e che
non esiste alcun Essere eterno e assoluto oltre agli esseri che mutano nel
tempo (cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche e pochi altri - abitando quello
che chiamo il sottosuolo essenziale del pensiero del nostro tempo - sanno fare
cioè quel che i relativisti d’oggigiorno non sanno fare; e non lo sanno anche
perché, per lo più e più o meno consapevolmente, evitano di riconoscere che
anche per loro è una verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose
mutano col tempo. Antirelativisti sono invece coloro che lungo la tradizione
dell’Occidente condividono sì la persuasione che il mutamento delle cose del
mondo è una verità irrefutabile; ma, a differenza dei relativisti, ritengono
che verità irrefutabile sia anche l’esistenza di un Essere eterno e assoluto al
di là o aH’interno del mondo. Sono gli amici della metafisica. Nel sottosuolo
essenziale del nostro tempo appare appunto l’impossibilità della metafisica.
D’altra parte, ai relativisti che stanno fuori del sottosuolo, alla superficie,
gli antirelativisti e i metafisici obbiettano quel che già abbiamo sentito,
cioè che se tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è
anche Taffermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale.
Ed è quindi inevitabile che i relativisti di superficie non abbiano argomenti
incontrovertibili contro la metafisica e la verità assoluta e incontrovertibile.
Per trarsi d’impaccio, i relativisti più spregiudicati di superficie hanno
finito col riconoscere che anche il loro relativismo è fallibile e
congetturale. (Sembrerebbe il culmine dell’atteggiamento critico - ma allora
non si vede perché si dovrebbe dar loro ascolto.) Il filosofo liberale
americano Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia lo aveva riconosciuto, e
anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito, che però aveva il difetto di non
essere americano e di essere fascista, come il suo maestro Giovanni Gentile -
che invece, insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo e
ha quindi molto da insegnare a tutti i Popper. Comunque, se il relativista
riconosce che tutto quel ch’egli sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile
e congetturale, pronta ad abbandonare i propri valori teorici e morali se altri
si rivelano più credibili, lo ascolto con interesse (condividendo anche i suoi
buoni sentimenti). Ma aggiungo che anche questa autocritica del relativista è
apparente. Domando: chi si dichiara pronto ad abbandonare i propri valori se
altri si rivelano più credibili è uno che dubita di esser così pronto? È uno
che dice: Forse son pronto ad abbandonarli se ne vedo di più credibili?. È uno
che dice: Forse son pronto, perché non escludo che anche se ne vedessi di più
credibili non abbandonerei mai i miei?. Se si son capite le domande, la
risposta non può che essere negativa. Anche questo relativista, cioè, non mette
in dubbio, è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera come
irrefutabile, indiscutibile e dunque assolutamente vero il proprio trovarsi
nello stato in cui egli è disposto ad abbandonare le proprie convinzioni se ne
vede di migliori. Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di quel che dice. E
se dice: Dubito di quel che dico, egli non dubita di dubitare. (Che è cosa del
tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l’uomo apre bocca solo se non
dubita, la maggior parte delle volte che l’apre dice però cose false; mentre le
considerazioni di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità
incontrovertibile.) A Popper che afferma il carattere fallibile e congetturale
di tutta la nostra conoscenza va dunque replicato che, d’altra parte, l’uomo -
dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo - è sempre convinto,
più o meno consapevolmente, di conoscere verità assolute e incontrovertibili
(anche se sbaglia quasi sempre). Come ne sono convinti anche quei logici che
secondo certi relativisti avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) che non ci è
possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria. Come ne sono
convinti anche i relativisti alla Popper e alla Hans Kelsen, che sostengono
un’implicazione necessaria, cioè assolutamente vera, tra relativismo, libertà,
democrazia. E allora? Allora, nella folla sterminata di coloro che - senza
saperlo e anzi spesso negandolo - sono convinti di conoscere verità assolute,
si trovano anche gli uomini dell’Occidente, per i quali la verità assoluta e
incontrovertibile dominante è che le cose del mondo mutano col tempo; e son
giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la necessità che tutte le
cose mutino, nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste alcuna verità
immutabile se non quella che afferma il divenire e il travolgimento di ogni
cosa e di ogni verità. Restano travolte anche la politica e la morale che,
lungo la tradizione antirelativistica dell’Occidente, consistevano
nell’adeguare la vita dello Stato e dei singoli individui alla verità
immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare
con verità. Se oggi qualcuno auspica una politica capace di parlare con verità,
deve tener presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda
parecchio complessa. Per questo in un mio articolo sul Corriere avevo domandato
a Ernesto Galli della Loggia, che cosa intendesse con la parola verità, avendo
egli appunto auspicato una politica capace di parlare con verità. Glielo avevo
chiesto anche perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa ad esempio usano
questa espressione, intendono un politica e una morale che, contro il
relativismo, siano legate alla verità incontrovertibile e assoluta della
metafisica tradizionale (aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono
una democrazia che non sia, come invece lo è la democrazia procedurale, una
libertà senza verità. La risposta di Galli della Loggia è stata fuori luogo,
perché mi ha detto - c’era ancora il governo di centrodestra - che una politica
che parla con verità è quella che non nasconde ma dice in che stato miserando
si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che (a
parte il fatto che non riguarda la verità, ma la sincerità, giacché se non c’è
verità senza sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur sempre
subordinato alla gran questione del rapporto tra relativismo e antirelativismo
- visto che l’accentuata corruzione della politica e della morale è una
conseguenza dello stato di transizione in cui il mondo si trova: tra la
tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre sottoposti al
giudizio della verità, e il tempo futuro: il tempo in cui - con l’inevitabile
tramonto di ogni verità metafisica e di ogni eterno Signore del mondo - quella
forma suprema dell’agire umano che è la tecnica viene autorizzata, a prendere
in mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il sottosuolo,
dico, non la vera buona politica. (Un processo, questo, in cui consiste il
senso autentico dell’antipohtica.) Con la lettera del pontefice a Eugenio
Scalfari il dialogo tra credenti e non credenti è giunto a una svolta di grande
importanza e interesse.Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è
soltanto uno spettatore - che però, come me, sia interessato al problema. Il
pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al prossimo.
Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori, di confrontarsi con ciò
in cui non credono. Proprio per fimportanza di questa inedita forma di dialogo
è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi.
Il pontefice scrive a Scalfari: Mi chiede se il pensiero secondo il quale non
esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie
di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Il pontefice
risponde: Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel
senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora,
la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo.
Ma aggiunge: Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva,
tutt’altro. Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì
parlato di verità assoluta, ma intendendo non ciò che è slegato, ciò che è
privo di relazioni, ma proprio la verità che non è variabile e soggettiva. E il
papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: tutt’altro. In questo
modo, la domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa
(Cfr. la recente enciclica Lumen fidei, Editrica La Scuola 2013). A sua volta
Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo, ha lodato l’innovazione di
papa Francesco rispetto alla costante critica rivolta al relativismo da papa
Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto per
il suo rifiuto del concetto di verità assoluta). Ma lo loda per qualcosa che
papa Francesco si è ben guardato dal sostenere. Chiedeva Scalfari: la verità è
variabile e soggettiva? No, risponde il pontefice: Tutf altro! Una seconda
possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più
importante. Dopo aver scritto che la specificità di Gesù è per la
comunicazione, non per l’esclusione, il pontefice aggiunge che da ciò consegue
anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e
la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare
quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente,
si è costruita la storia dell’Occidente. Non mi consta che finora Scalfari
abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece,
proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso sarebbe il silenzio a favorire
l’equivoco. Da quasi cinquantanni (che rispetto alla storia dell’Occidente sono
certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire
la distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica, nega tale
distinzione. Non ho mai ricevuto una risposta adeguata - e mi sembra grave mi
sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il
nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche sulle colonne del
“Corriere della Sera”. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia
tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come d’altra parte non
vergognarmi di doverlo fare ancora una volta? Domandiamo a Gesù se a Cesare -
cioè allo Stato - si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di
noi Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno
essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa
si ritiene depositaria. Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare
leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia
di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e
altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe
ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato
sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda
lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di
essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere
cristiane (e cattoliche). Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle
quali non implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi -
come spesso si dice, ma senza accorgersi della connessione tra questo dire e il
detto di Gesù - è necessario che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche
delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che
nell’al di là. Ma in questo modo la distinzione tra la sfera religiosa e la
sfera politica, che, anche secondo questo pontefice, dovrebbe essere
conseguenza di quel detto, è invece radicalmente negata da questo detto. Certo,
Yintenzione di Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il
contenuto oggettivo di quello che egli afferma è inevitabilmente la riduzione
della sfera politica a quella religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare
l’inconciliabile, vuol conciliare la distinzione tra politica e religione con
la loro reciproca opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio
non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare). Con quanto ho osservato
non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz’altro ragione il pensiero
laico, che vuol tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il
comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede. Nel dialogo tra
Scalfari e il pontefice i problemi che ho indicato non sono gli unici, i più
importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla
tutela della chiarezza del dialogo. Davanti alla filosofia molti scienziati
alzano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno
ragione. Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati
della scienza, o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti
fondamentali della scienza sono inevitabilmente filosofici: in un senso ben più
radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità delle
categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra Einstein e Niels
Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M. Jammer, The Philosophy of Quantum
Mechanics, Wiley). E se il fisico Léonard Susskind, nel suo libro La guerra dei
buchi neri (2008, Adelphi 2009), scrive di non essere molto interessato a quel
che dicono i filosofi su come funziona la scienza, tuttavia la sua guerra,
combattuta contro il collega Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la
filosofìa si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli
altri. Per Hawking i buchi neri presenti nell’universo sono voragini in cui
vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in
questa tesi la violazione del primo principio della termodinamica, per il quale
la quantità totale di energia dell’universo rimane costante nella
trasformazione delle sue forme. Ora la costanza dell’energia è il suo
continuare a essere; e l’incostanza delle sue forme è il loro venire a essere e
il loro ridiventare non essere, nulla. Certo, il fisico si disinteressa del
senso dell’essere e del nulla, ma il primo principio della termodinamica non
può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è aH’interno di
quest’anima che cresce la scienza anche quando i suoi cultori alzano le spalle
davanti alla filosofia, che a quest’anima si rivolge sin dall’inizio. Si
ritiene tuttora che la teoria generale della relatività d’Einstein e la fisica
quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma Einstein e Heisenberg si contrappongono
mantenendosi entrambi all’interno del senso greco¬ occidentale dell’essere e
del nulla: per il determinismo di Einstein le forme di energia escono dal
proprio esser nulla e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile
(determinato) e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né
inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e
rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli abbia ricondotto il
concetto di onde di probabilità al concetto aristotelico di dynamis, potenza,
cioè alla possibilità reale (non alla necessità) che uno stato del mondo sia
seguito da un cert’altro stato). Freud ebbe a scrivere, di Einstein, col quale
ebbe peraltro rapporti cordiali: Capisce di psicologia quanto io capisco di
fisica. Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla
caducità delle cose del mondo, che oggi è data comunque per scontata. La
filosofìa sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della scienza.
La discussione è tuttora aperta. Anche al tema deH’incontrovertibihtà la
filosofia si rivolge da sempre. Per il grande matematico David Hilbert il
rigore nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza proverbiale
in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra
ragione. E II più grande spettacolo della terra di Richard Dawkins (Mondadori
2010), eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: Le prove a favore
dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno e non sono mai state più solide.
Esse dimostrano come la “teoria” dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in
quanto tale incontrovertibile. Ma quel che rimane oscillante e alla fine oscuro
in queste pagine è proprio il concetto di prova, di fatto scientifico, di
incontrovertibilità, cioè la loro filosofia. Sono un buon paradigma di quanto
tende ad accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra parte,
l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi
ritornano così come accade per le forme incostanti della costante quantità
totale dell’energia. L’evoluzione è un fatto, oltre ogni ragionevole dubbio, è
la pura verità confermata da una valanga di prove, con la certezza assoluta che
non ci sarà smentita. Come la certezza, intende Dawkins, che il sole è molto
più grande della terra e che l’antica Roma è esistita; come la teoria
eliocentrica e quella della deriva dei continenti. Si può certo convenire. Ma
il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso dell’inoppugnabilità e
incontrovertibilità di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore
esista una valanga di prove nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la
loro abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della
certezza assoluta che di esse non ci sarà smentita. A meno che Dawkins - e
allora il discorso potrebbe finire qui - non si proponga altro che allineare la
teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo, e per dare risalto
al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico e improprio, che però,
tirate le somme, risulta inoffensivo. (D’altra parte egli sottoscrive il
vecchio principio che a rigor di logica solo i matematici sono in grado di
dimostrare davvero qualcosa. Parole che però debbono fare i conti con
quest’altra sua dichiarazione: Nel resto del libro dimostrerò che l’evoluzione
è un fatto inconfutabile. Infatti se solo i matematici sono in grado di
dimostrare davvero qualcosa, allora il suo libro non matematico non dimostra
davvero che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste possano
sembrare all’illustre collega considerazioni da pedanti e da sofisti, però è
diffìcile sostenere che non siano a rigor di logica.) Ma che cosa intende
Dawkins affermando che il suo libro dimostra che l’evoluzione darwiniana è un
fatto? Egli sa bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere
oggetto di osservazione diretta, la quale, come egli sottolinea, è
inaffidabile. La sua dimostrazione vuol essere quindi un’inferenza che dalle
tracce lasciate dal processo evolutivo risale all’esistenza di tale processo,
al suo essere, appunto, un fatto. Egli sa bene che anche l’inferenza si deve
basare, in ultima analisi, sull’osservazione. Sostiene però che l’osservazione
diretta di un evento come un omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta
delle conseguenze di esso: È più facile che incorra in un errore di
identificazione un testimone oculare piuttosto che un sistema di inferenza
indiretta come il test del Dna . Sì, posto che sia più facile, non è però
impossibile che in certi casi l’osservazione diretta sia più affidabile. Anche
per Dawkins. Esser più facile non significa essere incontrovertibile, ossia è
un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Sennonché da questa ipotesi dipende, nel
suo libro, la validità dell’inferenza con cui egli intende dimostrare che
l’evoluzione è un fatto incontrovertibile. Ciò significa che anche questa
inferenza, e pertanto l’esistenza dell’evoluzione, sono soltanto ipotesi. (Egli
rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono troppo lenti per poter essere
osservati da un individuo nell’arco della sua vita. Ma chi si propone di
dimostrare che l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale
fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio questo: invece
di dimostrare che l’evoluzione è un processo lentissimo, afferma
arbitrariamente che essa non può essere direttamente osservabile perché è un
processo lentissimo.) Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una
nota ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si mostri che
nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta la possibilità che
l’evoluzione, almeno come viene intesa dai biologi, sia qualcosa di
inesistente. Dice dunque Russell: Può anche darsi che abbiamo cominciato tutti
a esistere cinque minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini
bucati e capelli incolti. A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che
preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della Passione secondo san
Matteo di Bach, e, questo, per far sapere che l’esistenza non è da prendere
troppo sul serio - a parte cioè il senso che all’esistenza viene conferito
dall’intero pensiero occidentale, che la ritiene caduca, effimera, storica,
temporale, provvisoria abitatrice dell’essere e preda del nulla (dunque degna
di esser cominciata cinque minuti fa) anche quando e appunto perché la si pensa
nelle mani di Dio o della poesia o di altra nobile e austera dimensione - a
parte tutto questo, come risponde Dawkins a Russell? Risponde scrivendo che sì,
è possibile, a voler esser pedanti, che gli strumenti di misurazione e gli
organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale
inganno, cosicché, se l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe un colossale
inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare
credito. Risposta deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile
dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma nemmeno per
Dawkins la pedanteria è qualcosa di scientificamente inaccettabile. In secondo
luogo perché dal fatto che i teisti non darebbero alcun credito al colossale
inganno non segue che tale inganno non possa esser perpetrato e che quindi
l’ipotesi di Russell sia da respingere. Queste osservazioni non hanno il benché
minimo intento di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione abbiano
ragione. Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò
che decide dove stia la verità non è il costrutto concettuale delle teorie
contrapposte, non è la loro incontrovertibilità, ma la loro maggiore o minore
capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l’apparato
scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a
dimostrare la verità incontrovertibile dei propri contenuti combatte una battaglia
di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche
per quelle logico-matematiche. L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad
esempio, implica che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità
incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si
fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente incontrovertibile. Da
quando nasce la filosofia pensa la verità come in-contro-vertibilità, ossia
come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende
essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la
verità e l’inviolabile principio di non contraddizione attraversa tutta la
storia della cultura. Per Hilbert la questione più importante è dimostrare che
basandosi sugli assiomi della matematica non si potrà mai arrivare a dei
risultati contraddittori. Ma Kurt Godei dimostrerà che questa dimostrazione è
impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere
un sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile. Se lo
dimentica Dawkins quando afferma che solo i matematici sono in grado di
dimostrare davvero qualcosa. Infatti, dimostrare davvero, cioè
incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella possibilità.
Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine della specie (The Origin
of Species). Già dal punto di vista linguistico origine, che rinvia al latino
orior (provengo da..., sorgo) corrisponde all’antico greco arché, la parola con
cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il principio da cui tutte
le cose provengono e in cui tutte ritornano. La filosofia ha voluto giungere in
modo incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del principio, ma
insieme ha reso estrema la fede che è radicata nell’uomo più antico: la fede
che le cose, per stare dinanzi a lui - e quindi l’uomo stesso -, abbiano
bisogno di qualcosa d 'Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda
disponibili. Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori
della stirpe, il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia appare,
Yarché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di questa fede è la
convinzione (a cui prima si è accennato) che le cose, di per sé, sono incapaci
di stare sulla terra - e poi, quando la filosofia incomincia a parlare, sono di
per sé incapaci di essere, e sono preda del nulla. Cose morte. La morte e il
nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar
loro un’origine. Anche la scienza si muove all’interno della fede nell’origine
(ormai divenuta fede filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la
concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di
quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per Yarché e l’origine della
specie, per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano
come origine della coscienza. E ancora: per il lavoro, la società, la storia,
il linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della mente e
della cultura. In generale, per le cause prossime e remote degli eventi. E
perfino il nulla è un succedaneo dei vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più
oggi pensano, più, o meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine
ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza
dell’uomo. Ma proprio perché la fede nell’origine porta sulle spalle un
fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si debba chiedere se sia
in grado di reggerlo? In Italia alcuni fisici e qualche filosofo hanno notato
l’affinità tra la tesi centrale del mio discorso filosofico - l’eternità di
ogni ente e pertanto di ogni stato del mondo - e la tesi di Einstein che per
noi fisici, la distinzione tra passato, presente e futuro non è che una
testarda illusione. Ho messo tra virgolette la parola tesi, per sottolineare
che quando le logiche che conducono alla stessa tesi son diverse, son diverse
anche le tesi che suonano apparentemente identiche. E la logica della fìsica
einsteniana è essenzialmente diversa da quella secondo cui si manifesta la
necessità dell’eternità di ogni essente a cui si rivolgono i miei scritti. Ciò
non vuol dire che ci si debba disinteressare del rapporto tra le due tesi,
soprattutto ora che molti fisici mettono in questione il concetto di tempo, che
sta in piedi solo se il presente differisce dal passato, ossia dall’ormai
nulla, e dal futuro, ossia dall’ancor nulla. L’esempio più recente e tra i più
rilevanti di questa crisi del tempo nel mondo della fisica è il libro del
fisico Julian Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima
ventura (Einaudi). Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo
comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia intende comprendere il senso della
scienza e della tecnica, scienza e tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma
è vero anche l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un fisico come Steven
Hawking prevede (1979) che la fìsica debba lasciare il posto a una Teoria del
Tutto, si toccherebbe il fondo della povertà di pensiero se non ci si rivolgesse
alla filosofia che, da sempre, è stata la Teoria del Tutto. Ma poi la filosofia
giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio mira appunto a
questa indicazione - in che senso essa non è un sapere ipotetico, esigenziale,
metaforico, falsificabile ecc., ma è il sapere assolutamente incontrovertibile
- in un senso essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica
attribuisce all’incontrovertibile e di cui la filosofia del nostro tempo ha
mostrato l’impossibilità. Barbour scrive: Da una quindicina d’anni un numero
esiguo ma crescente di fisici, me compreso, comincia a considerare l’idea che
il tempo non esista veramente. E lo stesso vale per il movimento. Posso
invitarlo a tener presente che la riflessione sull’eternità di ogni essente e
di ogni evento è presente nei miei scritti sin dalla metà degli anni Cinquanta
e che a metà degli anni Sessanta la discussione su questo tema è stato un non
trascurabile evento della filosofia italiana, che continua tuttora a essere
vivo? Egli non è uno di quegli sprovveduti che non vedono relazioni tra fisica
e filosofia: nella prima pagina del suo libro (di grande interesse e
avvincente) scrive che ben pochi pensatori, nelle epoche successive, hanno
preso sul serio le idee di Parmenide; io invece sosterrò che l’eterno fluire
eracliteo... non è che una radicata illusione. Dirò allora al professor Barbour
che qui in Italia, da mezzo secolo, quelle idee sono state prese molto sul
serio non solo da me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son
certo che al professore non interessa favorire quella sorta di incompetenza che
c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana. Letteratura, scienza e
religione, confrontandosi con la filosofia, si danno spesso la mano. La
Bellezza regna su queste pagine di Roberto Calasso, tra le sue più importanti e
ricche della loro disincantata sobrietà: La letteratura e gli dei (Adelphi).
Indicano la Bellezza che presenta sé stessa nella sua assoluta autonomia dalla
Verità e dalla Bontà. E indicano insieme gli dèi pagani, soprattutto quelli
greci, che si eclissano in oscurità variamente profonde, ma per ritornare in
Europa, secondo diverse forme di evidenza. Ad esempio nella pittura fra il
Quattrocento e il Settecento. Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine
dell’Ottocento: l’età eroica della letteratura assoluta che incomincia con la
comparsa della rivista Athenaeum (Schlegel, Novalis...) e si chiude con la
morte di Mallarmé. Letteratura assoluta perché indipendente da ogni
legislazione esterna, soprattutto quella della comunità è alla ricerca di un
assoluto e perciò non può che coinvolgere il tutto. Un anello - Calasso ne
intende decifrare la lega - unisce letteratura, linguaggio, mitologia, poesia,
arte e gli dèi che appaiono in queste grandi luci. Il sottinteso è che il
cristianesimo non appartiene alla letteratura assoluta. Ma non è proprio
all’assoluto e al tutto che la filosofia si è sempre rivolta con l’intento di
preservare il proprio sguardo da ogni dipendenza da altro, innanzitutto dalla
comunità e dal sociale? E, se è così, la discordia tra letteratura assoluta e
filosofìa non è la discordia tra due forme della filosofia, sia pure lontane
tra loro? Per indicare questa lontananza Calasso scrive ad esempio: La
letteratura cresce come l’erba tra grigie, possenti lastre del pensiero. Ma è
un accertamento poliziesco di identità (come dice Calasso dei tentativi
concettuali di irretire la letteratura) chiedere se quelle parole di Calasso
sono erba o lastra? Certo, l’esperienza degli dèi, in cui consiste la letteratura
assoluta, intender non la può chi non la pruova. Ma o quest’ultima espressione
non ha assolutamente senso, o, se lo ha, ed è innegabile tale senso, è la mano
che incorona la testa di quell’esperienza, e pertanto la sovrasta. Calasso
intende sfuggire a questo nodo che stringe il collo della proclamazione
romantica della superiorità assoluta dell’arte. Ma se non è una possente lastra
del pensiero a conferire assolutezza alla letteratura assoluta, allora, a
conferirla, è erba che appassisce, semplice aspirazione all’assoluto. Oltre
l’età eroica della letteratura assoluta, ma nel suo clima, si ricorda nel
libro, Gottfried Benn scrive che al di sopra del linguaggio che raffigura vi è
il linguaggio, cioè Nietzsche: E allora viene Nietzsche e incomincia il
linguaggio, che non vuole (e non può) altro che fosforeggiare, luciferare,
rapire, stordire. Calasso commenta: Nietzsche era stato il primo tentativo di
evadere dalla gabbia delle categorie di origine platonica e aristotelica. Che
cosa si estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora accertato.
Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da parte mia, chiedo a Calasso se non gli sembra
che su questo punto il suo discorso possa procedere soltanto perché ha messo
tra parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio, che come dice Benn, non vuole
altro che... non è forse un volere? E non si dovrà allora tentare di
comprendere, innanzitutto, che cosa il significhi, appunto, volere? (E, certo,
l’affermazione che al di sopra del linguaggio che raffigura, vi è il linguaggio
che stordisce vuole raffigurare o stordire?) Il rapporto teatro-scienza, e in
generale arte-scienza è stato teorizzato da Brecht in Scritti teatrali
(Einaudi). Una prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente
antiplatonica - il che non meraviglia in un marxista come l’autore delle tre
versioni di Vita di Galileo -, per altro verso va incontro a una delle esigenze
più profonde espresse da Platone: quella di parlare di cose di cui si è
competenti. Platone, infatti, invita a diffidare dei poeti tragici e dell’arte
in genere proprio perché l’artista può avere soltanto opinioni e non scienza
intorno ai grandi temi della vita e della morte, dello Stato, della pace, della
guerra, dell’amore e dell’odio, ai quali costantemente si riferisce in modo più
o meno esplicito. Certo, Brecht riconosce che il piano della scienza e quello
dell’arte sono diversissimi. Tuttavia non solo si rifiuta di considerare
semplici hobby gli interessi scientifici di Goe¬ the e di Schiller, ma, con gli
stessi esempi offerti da Platone nel libro X della Repubblica (grandi passioni,
storia dei popoli, impulso del potere), sostiene che anche nell’arte i grandi e
complicati avvenimenti non possono essere sufficientemente riconosciuti in un
mondo di uomini che non si provvedano di tutti gli strumenti utili ad
intenderli. Un dramma sulla vita di Galileo può essere quindi scritto solo da
chi conosce da vicino la nascita della scienza moderna. E Brecht, che per la
Vita di Galileo ebbe a ricorrere anche all’aiuto di alcuni assistenti di Niels
Bohr, non esita a riconoscere che una quantità di letteratura è a uno stadio
fortemente primitivo. Platone respinge l’arte perché non ha competenza di ciò a
cui essa si rivolge; Brecht si fa banditore di un’arte che invece questa
competenza ce l’abbia, lasciando al suo destino la sterminata quantità di
letteratura che invece si trova, per la sua incompetenza, a uno stadio
fortemente primitivo. Rimane il problema di come il contenuto scientifico che
può essere racchiuso in un’opera poetica debba essere completamente risolto in
poesia. Rimane anche ovviamente incolmabile l’opposizione tra Platone, che vede
l’anima dell’uomo destinata a una vita immortale, e un Brecht, che in sintonia
con il pensiero filosofico del nostro tempo, scrive: Lo confesso: io non ho
nessuna speranza. I ciechi parlano di una via d’uscita. Io ci vedo. Quando gli
errori sono esauriti siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla (
Poesie, Einaudi). Non è allora del senso del nulla che (anche) l’artista deve
avere la massima competenza? Oggi si tende a considerare la scienza moderna
come la forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai il
proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a
questa consapevolezza sono giunte prima delle scienze della natura e
logico-matematiche. In modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha
aperto la strada in questa direzione. Ci è mancata sinora scrive una scienza la
quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità. Passa la vita a tracciare
la configurazione di questa nuova scienza. Al di fuori di essa, esiste una
istoria senza filosofia, cioè, per lui, senza verità: una conoscenza storica
che mostra sì un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge
immutabile, eterna che dia loro un senso unitario, e quindi lasciandole allo
stato di ipotesi. La Scienza nuova deve procedere pertanto senza veruna
ipotesi: senza le incertezze e dubbiezze che competono alle scienze storiche
sino a che rimangono separate dalla filosofia. Ma il nostro tempo - e
innanzitutto l’essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro
tempo - esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che
le scienze storiche si trovano oggi a conservare proprio quel carattere di
incertezza, dubbiezza, ipoteticità che Vico aveva consapevolmente colto in esse
in quanto separate dalla filosofìa. La Scienza Nuova è stata ripubblicata da
Bompiani nelle tre edizioni, a cura di Manuele Sanna e Vincenzo Vitiello, con
un importante saggio introduttivo di quest’ultimo. Il testo è riproposto
secondo l’edizione fattane dallo stesso Sanna, da Fulvio Tessitore e Fausto
Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del 1730 e del 1744. Un’imponente
operazione culturale. Molto opportunamente, Vitiello mette in luce il carattere
problematico della conoscenza storica e in generale della nostra memoria. Vico
e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica non mettono però in
questione Yesistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in questione
Yesistenza della natura. Storia e natura sono cioè trattate come
indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità
incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di mostrare la verità non
ipotetica dell’esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza
scientifica - quindi problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente
vera, e quindi non scientifica? Né il senso comune può farsi avanti con la
pretesa di saper lui rispondere, infatti non può avere la pretesa di possedere
una conoscenza superiore a quella della scienza. Affermare che l’esistenza del
mondo è una verità innegabile significa affidare alla filosofìa il compito di
mostrarlo. È sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi
in vari modi fino al luogo che non può esser messo in questione. Da questo
punto di vista, non mettendo in questione l’esistenza della storia, lasciandola
cioè implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane indietro
rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per altro verso egli coglie
nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di
fronte alla storia, alla natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima
affermazione. Il senso comune, in cui si trova ognuno di noi da quando nasce,
non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi
crede con tutte le sue forze. (Vi crede anche la scienza, anche quando essa si
discosta dal senso comune.) Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza,
e non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a meno di credere
che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è
la terra a muoversi attorno al sole, che sta fermo rispetto a essa. Ma la fede
non è la verità innegabile. La fede mette in manicomio o distrugge chi mostra
di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno
forza del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza vincente.
Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul
fondamento di ciò che per essa è la verità innegabile: 1’esistenza del divenire
del mondo, cioè del divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere
ogni verità che pretenda imporsi su di esse e regolarle. Affermando che la
verità innegabile è il divenire del mondo (implicante l’inesistenza di ogni
eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro
tempo lo afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a distruggere chi
la pensa diversamente da essa. In verità, il mondo non è il mondo (storia,
natura, lo stesso altro dal mondo) quale appare all’interno della fede nella
sua esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno della
non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia la non-verità:
innanzitutto perché la verità è negazione della non-verità e per esserne la
negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia
la fede nel mondo, al cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la
fede nella storia e nella natura, la fede religiosa), ossia ogni altra
non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il mondo è la fede
nel mondo e che la non-verità della fede nel mondo appartiene necessariamente,
come negata, al contenuto della verità. Quando Vico pensa una scienza la quale
sia insieme istoria e filosofìa dell’umanità, non scorge che l’esistenza della
storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede che nell’unione di
storia e filosofia la storia sia illuminata dalla verità della filosofia e
divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è
inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall’errore. Quale volto
deve avere la verità che si mette autenticamente in rapporto col proprio opposto?
Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato Prospezioni vichiane
Vincenzo Vitiello scrive: Al presente spetta la cura della “possibilità” del
futuro, che non solo, in quanto futuro, non è, ma neppure è necessario che sia.
Sono d’accordo che questa sia una prospezione vichiana, un proseguire cioè
lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo sentiero è solo un
tratto del grande Sentiero aperto dalla filosofia greca e in cui consiste la
storia dell’Occidente: il Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui
sopra si parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel nulla
del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di un’espressione dell’antico
Parmenide, lo chiamo Sentiero della Notte - dove la Notte è l’errare estremo.
Quella prospezione vichiana raggiunge il proprio culmine e la propria estrema
coerenza in ciò che prima ho chiamato essenza (tendenzialmente nascosta) della
filosofìa del nostro tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni
Essere immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la malattia mortale -
l’essenziale non-verità del mondo - che sta al fondamento di quel Sentiero e
che impedisce alla verità di essere l’autentica negazione dell’errore, cioè
della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del pianeta
che il futuro e il passato non sono e non è necessario che siano. Ho detto che
tutto questo vado mostrandolo da gran tempo? Mi son lasciato andare. Rispetto
alla grandezza della posta in gioco quel tempo è minimo. Suicidio dell’Europa
Lasciar da parte la brocca riempita di vino e porre al suo posto una cavità
dove si trova del liquido. È quel che fa la scienza, secondo Heidegger,
rendendo un che di nullo la brocca e tutte le cose. Ma già per Goethe la scienza
lascia da parte gli aspetti più concreti e intimi delle cose; e questa
astrazione è chiamata da Hegel intelletto. Non è nemmeno un discorso
perentorio, perché si potrebbe replicare che anche la poesia annulla tutto ciò
a cui invece si rivolge la scienza. E quella cosa che è l’Europa? Pietro
Barcellona non si confronta con il passo di Heidegger, ma anche nel suo ultimo
libro l’Europa è proprio come la brocca piena di vino che è stata annientata
dalla scienza e dalla tecnica moderne: è stata sostituita con una cavità in cui
si trova del liquido. E poiché la scienza è un fenomeno europeo l’annientamento
dell’Europa è un autoannientamento. Il libro di Barcellona è infatti intitolato
II suicidio dell’Europa (Edizioni Dedalo 2005). Da molto tempo Barcellona si dichiara
d’accordo con vari aspetti del mio discorso filosofico. A modo suo, con
sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: Bisogna fare a pugni oppure
aprire le braccia. Non mi sembra che le apra alla mia tesi che la dominazione
della tecnica e della scienza è inevitabile (per un certo tratto - dunque
finito - della storia dell’Occidente. Però lo invito a mostrare dove non lo
soddisfano le pagine che ho scritto a proposito di tale inevitabilità. In esse
si mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si suicida ma è
un albero dove i rami più alti (tecnica e essenza profonda della filosofìa del
nostro tempo), per respirare e vivere, fanno appassire quelli più bassi
(tradizione teologico- metafisica-religiosa dell’Occidente), sebbene, come 240 quest’ultimi,
traggano la loro linfa dalle stesse radici e dallo stesso tronco. Certo,
scienza e tecnica non hanno l’ultima parola. E quello dell’Europa è l’albero
della Follia. Anche Lucifero è folle, ma è il signore del mondo. Barcellona mi
concede che gli eventi del mondo siano l’apparire e lo scomparire degli Eterni,
i quali sono pace, guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò
che non si lascia vedere e che culmina nella gioia e nella gloria a cui l’uomo
è destinato. Ma Barcellona parla anche degli intervalli in cui l’Eterno della
gioia, l’Eterno della gloria non si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno
di questi intervalli, mi ci ritrovo io - scrive - che, non avendo (ancora)
visto la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male. Dice infatti
che la tecnica distrugge avvenire, speranza, promessa, profezia, rende tutto
presente, calcolabile, manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che
vale però per il pensiero filosofico tradizionale (i rami bassi dell’albero di
cui sopra parlavo). Volendo essere tale pensiero incontrovertibile, ha infatti
la pretesa di dire già tutto sull’essenza del futuro, ossia di ciò che ancora,
per l’intero Occidente, è un nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono invece
un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza, ma le si adatta,
lasciandola vivere e aprendosi all’awenire. Inoltre la filosofìa del nostro
tempo mostra l’impossibilità di ogni Eterno che stia al di sopra delle cose
create e annientate, ma che non ha nulla a che vedere con gli Eterni, di cui
parlano i miei scritti, che non sono i padroni che dominano e regolano quella
creazione e annientano, ma sono le cose stesse. Questa sintesi di tecnica e
filosofia del nostro tempo, alla quale ben pochi guardano, è animata da quella
volontà di avvenire, la cui mancanza fa star male Barcellona e anche altri. Mi
sembra che egli oscilli tra l’inconsapevole adesione allo spirito del nostro
tempo - che, proprio in quanto tecnologico, e contro quel che di solito si
pensa, intensamente vuole e promuove l’awenire - e l’adesione al mio discorso
filosofico, dove anche la totalità del futuro è già, eterna, e attende di
venire alla luce, oltrepassando quell’Eterno che è la Follia da cui è dominata
la terra. A volte Barcellona mi dice che la sua è una fede. Troppo modesto.
Alla base del suo discorso c’è invece una filosofia per la quale la verità non
può essere che visione. È il principio della fenomenologia. Ma si può dare
davvero un rapporto necessario con la verità scrive che non sia la visione?
Rispondo: sì, perché la semplice visione non potrà mai essere necessità.
Limitarsi, in un paradiso, a vedere Dio, significa esporsi al dubbio di essere
vittime di una illusione. La semplice visione non mostra la necessità di quel
che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù toccava la necessità che egli fosse il
Figlio di Dio. Tempo fa, in un editoriale di Liberal (n. 19, 1998) il direttore
Ferdinando Adornato richiamava il problema delle nuove regole di un equilibrio
mondiale e affermava la necessità che l’Europa abbia una propria autonomia
politica di difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare saggio pensare che
tale autonomia debba servire a riproporre un ordine mondiale basato su un
“bipolarismo antagonista” nei confronti degli Usa. Poiché in un mio articolo
pubblicato su quello stesso numero sostenevo una tesi che a prima vista sarebbe
potuta sembrare affine a quella che l’editoriale non considerava saggia, nel
numero successivo aggiunsi, in risposta, quanto segue. Siamo d’accordo che
l’Europa si trova all’interno di un processo storico che la vede e continuerà a
vederla alleata degli Usa. D’accordo, anche, che un alleato non è un suddito.
Lo diventa se non ha potenza - se non ha l’autonomia di cui Lei parla. A meno
che l’alleato debole abbia grande autorità su quello forte. Ma non è il caso
dell’Europa rispetto agli Usa (che hanno tirato diritto anche di fronte alle
esortazioni del Papa). Nel mio articolo rilevavo che il processo storico in cui
si trova l’Europa la vede anche avvicinarsi alla Russia, nel senso che si
profila la tendenza verso la collaborazione tra la potenza economica europea e
la potenza nucleare russa. L’unione di questi due fattori fa nascere appunto
quell’alleato degli Usa, che è tale solo se non è un suddito. Non si profila dunque
un semplice antagonismo rispetto agli Usa. Perfino il bipolarismo Usa-Urss era
chiamato dal sottoscritto, sin dagli anni Settanta, Duumvirato (l’espressione
era piaciuta anche a Giulio Andreotti). Rispetto alla concordia discors del
Duumvirato di allora, il Duumvirato che si sta profilando (e che il mio
discorso si limita a constatare) vede considerevolmente ridotta la discordia.
D’altra parte gli alleati sono veri, solo se ognuno dei due ha la forza di
resistere alle possibili prevaricazioni dell’altro. Solo questa forma di
alleanza tra Europa-Russia e Stati Uniti può consentire all ’Occidente di
tutelare affìcacemente i propri valori rispetto al resto del mondo. Lei rileva
invece che la logica della deterrenza nucleare è obsoleta. Il terrorismo è evanescente
e asimmetrico. (D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un
ombrello nucleare russo che sostituisse quello che gli Usa hanno tenuto e
tengono aperto sull’Europa. Ora, contrapporre al terrorismo l’armamento
nucleare è ovviamente insufficiente. Oggi esistono le armi chimiche e le
cosiddette nano-tecnologie di basso costo e di altissimo potenziale distruttivo
dalle quali è estremamente difficile difendersi. Ma perché i terroristi non le
hanno usate, per esempio per difendere l’Afghanistan e l’Iraq? Se l’armamento
nucleare è insufficiente, è però anche necessario. Alla fine, sono soprattutto
degli Stati ad alimentare il terrorismo. Gli Usa non parlano forse di Stati
canaglia? Rispetto a quest’ultimi la minaccia atomica (esplicitamente richiamata
dagli Usa prima dell’attacco all’Iraq) non è obsoleta. E allora non si dovrà
dire che il terrorismo si astiene dall’uso delle armi chimico-batteriologiche
proprio perché certi Stati temono la ritorsione atomica su di essi da parte
degli Usa (e della Russia)? Ma poi, la concreta risposta americana al
terrorismo dell’11 settembre non è stata forse l’attacco a due Stati? E un
articolo di questo numero di Liberal, scritto da un americano, non è forse
significativamente intitolato E adesso l’Iran^ È proprio così obsoleto il
possesso di un arsenale invincibile (e invincibile lo è tuttora e nonostante
tutto anche quello russo), in un mondo dove la rincorsa all’armamento nucleare
sta diventando sempre più pressante - come proprio in queste settimane stiamo constatando?
A parte il riferimento alla potenza economica europea, che come già si è
accennato nelle pagine precedenti si è nel frattempo notevolmente ridotto, le
considerazioni presenti in quella mia risposta vanno tuttora tenute ferme. Non
credo alla sopravvivenza Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui la
comprensibilità del discorso di Jacques Derrida ha tratto, un notevole,
giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati Boringhieri e affettuosamente
intitolate Jackie Derrida. Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive che per
Derrida, cercare di far sì che non tutto scompaia è stato al centro delle sue
preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis narcisistica (p. 20).
A dar ragione a Ferraris, è lo stesso Derrida che dichiara: Non penso che alla
morte, ci penso sempre, non passano dieci secondi senza che la sua imminenza mi
sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della sopravvivenza, è
veramente la sola cosa che mi interessi, ma proprio nella misura in cui non
credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto,
tutto ciò che faccio, sono, scrivo, dico (J. Derrida e M. Ferraris, Il gusto
del segreto, Laterza 1997). Nella cenere tutto viene annientato dice da qualche
parte. Ma di quel continuo analizzare il fenomeno della sopravvivenza non trovo
traccia nelle pagine di Ferraris. E lo si spiega; perché per quanto ne sappia,
non la trovo nemmeno nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che continua a
pensarci, ma è difficile venire a sapere che cosa egli abbia pensato in
proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli non crede alla
sopravvivenza post mortem. In questo senso, non solo Ferraris ha ragione a
sostenere che in Derrida non c’è una meditatio mortis narcisistica, ma verrebbe
da dire che non c’è affatto una meditatio mortis. Certo, a dirlo così nudo e
crudo si sbaglierebbe, perché Derrida conosceva bene la meditazione di
Heidegger sulla morte. E tuttavia doveva anche saper bene che è una meditazione
fenomenologica, che cioè non si pronuncia sui problemi metafisici come
1’esistenza di Dio, la sopravvivenza dopo la morte ecc. Rimane dunque
l’impressione che Derrida abbia distolto lo sguardo da ciò che maggiormente lo
assillava. Che è certamente quel che più conta. Sono d’accordo. Ma sono d’accordo
perché al tema della cenere in cui tutto viene annientato ho invece dedicato
tutto quello che ho scritto. Tutto quel che ho scritto si riferisce alla
necessità che ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna, cioè che nessuna cosa
si annienti nel cosidetto suo diventar cenere. Vi si riferisce argomentandola e
mostrando il senso della necessità e dell’argomentare. Peccato che in proposito
Derrida non abbia voluto prendere posizione. Ma limitarsi a dichiarare la
propria incredulità intorno a qualcosa non è il momento più alto della
filosofìa. All’amico Ferraris vorrei pertanto proporre di non seguire, in
questo, Derrida. Che, per quanto ne sappia, non si è mai interessato di
Leopardi. Ma la meditatio mortis di Leopardi è grandiosa, straordinariamente
potente, unica. E non è soltanto fenomenologia. Leopardi crede di poter
mostrare che nessuna cosa è eterna. Ma come è alto e ricco, e argomentante il
suo errare! Con questa meditazione devono fare i conti i credenti. Derrida li
disturba ben poco. Se non si guarda da vicino il senso del pericolo, cioè
dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice dell’angoscia,
quale consistenza può avere la ricerca di un rimedio contro la morte ossia di
quel far sì che nontutto scompaia? Per Derrida il rimedio era la scrittura, che
trattiene ancora per un po’ le cose nell’esistenza. Proust questa tesi l’aveva
già analizzata a fondo. Ma, anche qui, com’era ben più radicale Leopardi, che
pensava alla scrittura nel senso più ampio, cioè, come opera del genio, ossia
di chi sa dire con potenza la nullità di tutte le cose. Per le scienze del
linguaggio il sacro è il separato: tiene lontano l’uomo; anche se insieme lo
attira. Freud ha visto neH’inconscio la follia da cui la coscienza dell’uomo si
è distaccata. All’inizio del suo bel libro Orme del sacro Umberto Galimberti
scrive tuttavia che a conoscere questa follia non sono la psicologia, la
psichiatria o la psicoanalisi, ma la religione. Ma la religione - osservo - è
solo un credere; e se un sapere riuscisse a mostrare che l’occhio della
religione vede più lontano degli altri e riesce a scorgere la profonda verità
della follia del sacro, non sarebbe allora questo sapere (lo si è chiamato
filosofia) ad avere l’occhio più acuto? Più in alto di una testa incoronata sta
la mano che la incorona. Per Nietzsche al di là della ragione c’è il caos. Per
Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud l’inconscio è il luogo in cui non vige più il
principio di identità e di non contraddizione. La contraddizione è il caos, è
Cristo, la follia. La follia è la verità ultima dell’esistenza. In ognuno di
questi casi, si apre alle spalle della ragione il mondo dell’indifferenziato,
dove, scrive Galimberti, una cosa è questo e anche altro. La ragione, tuttavia,
non trova scandaloso pensare che un vino possa essere forte e anche nero. I
problemi incominciano quando si pensa che lo stesso vino sia forte e non forte,
nero e non nero: indifferenziato, appunto. Platone e soprattutto Aristotele
sostengono che il contenuto di questo pensiero non può esistere: cioè che il
mondo della follia non può esistere. Qui mi limito a riproporre una domanda che
può sembrare oziosa. Quella follia che, separata, sta al di là della ragione, è
forse non separata? Se ne stata forse al di là, ma anche al di qua, dentro la
ragione? No! - risponderanno gli amici della follia, 248 del caos,
dell’inconscio, di Cristo, dell’indifferenziato. Ma la follia non, è forse,
anche, non follia? A questo punto quegli amici perderanno la pazienza e diranno
di aver già detto che la follia è follia - punto e basta. Ma, allora, non è
forse molto, ma molto giudiziosa questa follia che se ne sta ben attaccata a sé
stessa (e dunque al principio di non contraddizione), e non vuol essere anche
altro, cioè non vuol essere ragione - e, dunque, tirate le somme, non si
permette di essere folle? Secondo un principio consolidato della metafisica
classica, il divenire richiede una condizione che lo trascende scrive Biagio de
Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza.
Dialogo sul moderno (Guida 2011, p. 121) - e tale principio regola anche il
pensiero di questi due grandi protagonisti del moderno. La complessità del
saggio di de Giovanni, implicante notevoli conseguenze sul piano politico,
richiede che qui si accenni solo ad alcuni punti. Quel principio della
metafisica classica domina effettivamente sia l’antico, sia il moderno; non
però il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede altro
che sé stesso. Il mondo non ha bisogno di Dio. Che il divenire richieda una
condizione trascendente, indiveniente, infinita, significa che essa salva il
finito - il divenire (nascita e morte) essendo appunto il regno della
finitezza. La tesi di de Giovanni, che l’intento di fondo di Spinoza e di Hegel
è di salvare il finito, è quindi del tutto consequenziale. Ed egli, questo
intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso,
rende esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando
molto il suo discorso, si può dire che il mondo è salvato solo da Dio, ma che
il rapporto tra Dio e Mondo produce inevitabilmente un radicale spaesamento del
pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i problemi prodotti
dalla coabitazione di quei due termini. Ciò significa che le difficoltà e le
contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza
non sono imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono strutturali. In
una delle pagine decisive del suo libro de Giovanni scrive: I grandi testi
della filosofia non sono grandi precisamente perché gravidi di altissimi
contrasti, che sono il vero sale del pensiero?, e questo sale non è forse la
profonda istituzione di una dualità che non aspetta vera conciliazione e che
però ambisce a vincere la scissione senza poterla abolire?, sì che proprio
questo paradosso è la stessa vita umana? Ritengo che i punti interrogativi non
siano retorici. De Giovanni non presuppone arbitrariamente 1’esistenza
delfinfinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e
a Hegel, dove, a suo avviso, Dio, cioè l’infinito e indiveniente Invisibile, è,
non meno e anzi ancor più del finito, il luogo dove i problemi e le
contraddizioni maggiormente si addensano. L’infinito-invisibile è infatti per
lui il contenuto di una fede. Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo
avviso all’essenza dell’uomo, ossia a quel paradosso che avvolge non questo o
quel gruppo umano; non questa o quell’epoca, ma la stessa vita umana in quanto
tale. E qui il paradosso indicato da de Giovanni è scavalcato, nel senso che
diventa ancora più complesso, la fede nell’invisibile essendo appunto ciò che,
come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto dell’essenza o sottosuolo
della filosofia del nostro tempo, dove il Tutto resta identificato alla totalità
del visibile-finito - diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante all’antico e
al moderno (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla, e anzi prende
le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti, che unisce l’intera storia
dell’uomo e che quindi sostiene sia la fede nell’Invisibile sia la fede dei
nemici dell’Invisibile, amici della Terra. De Giovanni contrappone cioè il suo
modo di considerare la storia dell’Occidente a quello dei miei scritti, che
considera il pensiero dell’Occidente come preso in un unico solenne errore, che
è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il
significato delle differenze, ossia di ciò a cui non si può rinunciare (p.
117). Credo che qui de Giovanni si riferisca alle differenze intese come
differenti modi di errare, non come differenze tout court - giacché
l’affermazione dell’esistenza e anzi dell’eternità delle differenze (ossia
delle molte cose e dei molti aspetti del mondo, innanzitutto) è una tesi
costante del mio discorso filosofico. Ma è una sua tesi costante anche
l’affermazione dell’esistenza di differenti, infiniti modi di errare; che però
hanno questo di identico, di essere errori, cioè negazioni della verità. E
l’avere in comune il loro esser errori non cancella i differenti modi
dell’errare - così come, per i colori, l’avere in comune Tesser colori non è
una monocromia, ossia non cancella il loro differire l’uno dall’altro. Nei miei
scritti si mostra che la vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è
di identico in ogni errore, ossia il suo essersi separato dalla verità. De
Giovanni mi gratifica di un riconoscimento che mi piacerebbe meritare (Sono
convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e pressoché
unica oggi in Europa), ma aggiunge che la pedagogia che nasce da questa
profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della
metafìsica [...] alla monocroma ripetizione dell’errore. Nei miei scritti si
mostra che l’Errore è la fede nella trasformazione delle cose, il loro diventar
altro da sé. Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta
monocromia, un solo punto, nella storia dell’uomo, dove non si creda
nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si creda in una forma di
errore diversa da questa fede. Poi, se vorrà, potremo discutere il punto
decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che questa fede, nonostante la sua
apparente plausibilità ed evidenza, è l’Errore più profondo a cui l’uomo è
stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico dell’uomo è già da sempre
libero. Cresce il rifiuto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in genere
male intesa) che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Nietzsche non è un
realista. Ma implicitamente il bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a
Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato
sulla scia di questi pensatori, a partire appunto da Nietzsche. È ora -
sostiene Maurizio Ferraris - di far rivivere su scala mondiale i fatti, la
verità, il realismo. Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più di mezzo
secolo va dicendo che il senso autentico della verità non è investito dalla
crisi inevitabile a cui è andata incontro la verità quale è intesa lungo la
storia dell’Occidente, e quindi anche dal realismo. Ma Ferraris vuol far
rivivere fatti, verità e realismo dando come cosa per sé evidente (almeno così
sembra) che la realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale
sarebbe però capace di conoscerla con verità, scorgendo appunto i fatti, ed
essendo quindi una certezza che ha come contenuto la verità. Con fatica, si
potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel chiamava appunto
identità di certezza e verità. Non dubito che Ferraris (e Eco) l’abbiano
presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso comune non è la conferma
filosofica del senso comune. Anche per le scienze della natura la realtà esiste
indipendentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo
di pensare dei popoli, il loro senso comune. Ma ben prima della scienza è la
filosofia, sin dai suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l’essere umano e
la realtà - e sul significato di queste due dimensioni. Prevale, con la grande
filosofia classica (Platone, Aristotele), la conferma del senso comune. E più
tardi tale conferma sarà chiamata realismo. La prospettiva espressa dal
principio di Protagora che l’uomo è la misura di tutte le cose (e che quindi la
realtà dipende dal modo in cui l’individuo pensa e vuole) resta a lungo
emarginata. Ma, proprio perché conforma il senso comune, il realismo filosofico
non è il senso comune. La filosofia, infatti, viene alla luce evocando un senso
prima sconosciuto della parola verità - il senso che domina l’intera tradizione
dell’Occidente dai Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità come scienza
(epistéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé
evidenti e il realismo filosofico ritiene che il senso comune abbia verità. Ma
è la filosofia a conoscere la verità del senso comune, non il senso comune. Per
avere un esempio della potenza e complessità concettuale del realismo
filosofico si tenga ancora sott’occhio (cfr. sezione prima, cap. Ili) questo
passo deW Etica Nicomachea di Aristotele: Ciò di cui abbiamo scienza non può
essere diversamente da come; delle cose che possono essere diversamente,
invece, quando siano fuori dalla nostra osservazione, rimane nascosto se
esistano o no. (La parola osservazione traduce la parola theoréin :
l’osservazione appunto, la manifestazione del mondo, che accade con l’esistenza
dell’uomo.) Si può dire che in questo passo sia addirittura anticipato
quell’importante atteggiamento del pensiero contemporaneo che è la
fenomenologia fondata da Edmund Husserl, per la quale è verità tutto ma anche
solo ciò che è osservabile (manifesto, immediatamente presente,
sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità, venga affermato
qualcosa intorno a ciò che non è osservato. Proprio per questo la fenomenologia
non è una conferma del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò
che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale
del senso comune in quanto sussistente al di fuori della conferma che Yepistéme
gli dà: tutto ciò che esso dice non è scienza (epistéme). Inoltre, per
Aristotele, la realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste indipendentemente
dall’uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la fenomenologia c’è scienza
(e anche Husserl intende la filosofia come scienza rigorosa). La scienza è
infatti, per Aristotele (come per l’intera tradizione occidentale) anche
scienza di Dio, metafìsica. Il realismo filosofico greco si è sviluppato nella
filosofia patristica e scolastica (Agostino, Tommaso tee.) e quindi nella
dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e poi nel
Rinascimento e nella stessa filosofia moderna prekantiana, che però procede a
una forma più elaborata di conferma del senso comune. E il realismo è stato
messo in questione da Kant e daH’idealismo, per poi riaffacciarsi in varie
correnti della filosofia degli ultimi due secoli, Marx e marxismo compresi. Si
continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma quanti
conoscono l’idealismo da cui ci si deve liberare? Per l’idealismo (e il
neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura
esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani. È dalla
coscienza trascendentale (liquidata con troppa disinvoltura) che la natura non
è indipendente. La scienza, si diceva sopra, è realista. E la filosofia
analitica sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna
rivolgersi alla scienza moderna (che non è più epistéme). Sennonché, se il
realismo della scienza moderna non vuol essere semplice, ingenuo senso comune,
allora è una tesi filosofica è cioè quel realismo filosofico la cui potenza e
complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni non realistiche
sfuggono completamente al moderno sapere scientifico - e sarebbe un peccato se
sfuggissero anche al nuovo realismo, stando al modo in cui esso è stato
presentato. Si aggiunga che la scienza intende fondarsi suh’osservazione. Ma la
gran questione è che la realtà - che per la scienza esisterebbe egualmente
anche se l’uomo non esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare soltanto a un
certo punto dello sviluppo dell’universo) -, in quanto esistente senza l’uomo è
per definizione ciò che non è osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa
esperienza: non può esserci esperienza umana di ciò che esiste quando l’umano
non esiste. Quindi l’affermazione che la realtà è indipendente dall’uomo
finisce anch’essa con l’essere una semplice fede, o quella forma di fede che è
considerata come altamente probabile. Comune al nuovo realismo e al pensiero
debole di Vattimo e Rovatti è comunque l’istanza politico-morale, messa in
primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalitarismo. Ora, la
filosofia - come il mito e poi la scienza moderna - è nata, sì, per difendere
l’uomo dal dolore e dalla morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini.
In questo senso la filosofìa (come il mito e la scienza), nascendo dalla paura,
è mossa da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia si accorge che il
rimedio non può essere quello inaffidabile del mito, ma deve avere verità, e la
verità non può fondarsi sulla dimensione politico-morale. Per la sua assoluta
spregiudicatezza la verità deve chiedersi perché la violenza dei più forti
debba essere bandita. E deve saper rispondere. Altrimenti essa è semplice
edificazione. Un’ultima osservazione a proposito di Nietzsche. La sua tesi che
non esistono fatti ma solo interpretazioni non va intesa in senso assoluto:
riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo
esista non è per Nietzsche un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni
storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il divenire (la storia il tempo)
esistano è per Nietzsche - anche per Nietzsche - l’incontrovertibile verità
fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna immutabile,
divina che sovrasti il divenire e lo domini e guidi. Questa verità è la Grande
Fede al cui interno cresce l’intera storia dell’Occidente e, ormai, del
pianeta. La fede che da tempo i miei scritti invitano a dar conto del suo
incontrastato potere. Persiste il silenzio su uno dei tratti più importanti
della cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare quanto sia
decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene
possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la
dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio
nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, politica,
religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado
di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce
che ogni Limite assoluto all’agire delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni Verità
immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non
solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale
autorizzazione le conferisce la reale capacità di superarlo. Non si salta un
fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa
ne è capace. Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente il
pensiero di Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile, la cui radicalità è
ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui
tuttavia continuamente si parla. Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è
preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi).
All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella
continentale, di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è
interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui
accennavo. Infatti, nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un
potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento
frenante, reazionario, rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della
tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la
chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però
limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più modesto,
riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni. Per Gianni
Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer ecc.),
l’antirealista, cioè la critica alla concezione metafisica della verità sarebbe
una scoperta di Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p. 100). Si tratta della
critica alla definizione di verità come corrispondenza tra intellectus e res,
tra l’intelletto e la cosa. In tutto il libro Gentile non è mai citato. Ma ben
prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo
radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella definizione. In
sostanza egli argomentava - per sapere se l’intelletto corrisponda alla cosa,
intesa come esterna alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario
che il pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la cosa; la
quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a essere conosciuta, non è
esterna al pensiero, ma gli è interna. Ciò significa che il pensiero, per
essere vero, non ha bisogno e non deve corrispondere ad alcuna cosa esterna.
Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da quell’appunto di
Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che non ci
sono fatti, ma solo interpretazioni e che anche questa è un’interpretazione,
ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile,
sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma questa sentenza di Nietzsche
dovrà dire allora che anche la critica alla concezione metafisica della verità
è un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile. Capisco quindi che egli
consideri anche la propria filosofìa soltanto come un’interpretazione
rischiosa, una scelta, una volontà le cui motivazioni sono soltanto decisioni
etico- politiche (p. 53): Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica
oggettivistica perché la sentiamo come una minaccia alla libertà e alla
progettualità costitutiva dell’esistenza (p. 122, corsivo mio). In sostanza,
come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti
libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di
considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della
democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure
- chiedo a lui e a tanti altri - anche l’affermazione che la libertà è
costitutiva dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile? En passant,
egli è stranamente fuori strada quando mi attribuisce l’intento di oltrepassare
la metafisica attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo e
rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che l’Essere è evento
(contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono
avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è
un essere eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano
anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto
del pensiero (sebbene Gentile differisca da Heidegger perché, platonicamente,
intende il Pensiero come indiveniente). Comunque, già l’idealismo classico
tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che
la verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà
esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a
tale corrispondenza toghe di mezzo solo un certo tipo di metafisica. Per
mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire
dell’uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è
sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma non
in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e che sopra chiamavo il
nucleo essenziale della filosofia del nostro tempo. Se Vattimo, che condivide
la critica heideggeriana alla verità come corrispondenza, su questo punto è
inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus
Gabriel,sostiene ora un nuovo realismo (che peraltro condivide con molti altri)
al quale forse rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con
Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con Maurizio Ferraris (non più
allievo di Vattimo), che presenta in Italia il libro di Gabriel II senso
dell’esistenza (Carocci editore 2012). Vi si sostiene subito un argomento che
conduce alla tesi seguente: C’è qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e
proprio questo esprime anche il concetto di verità. L’argomento è che, una
volta ammesso che noi produciamo qualcosa, noi però non produciamo il fatto
consistente nell’esser produttori di qualcosa - il fatto che dunque è
indipendente da noi. Gabriel lascia indeterminato il significato di quel noi
(sebbene egli interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco). Ma
l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che,
certo, questo o quell’individuo non producono il fatto consistente nella
produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo fatto è pensato (anche da
Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come invece questo libro
sostiene, una realtà indipendente dal pensiero, ossia da noi in quanto
pensiero. Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in- un-mondo,
scrive Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel
suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine chiave
apparizione. Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza.
L’apparizione non è il qualcosa (o ente) che appare (anche se essa stessa è un
ente). Se Gabriel intende che c’è apparizione di un mondo anche senza che
appaia questo o queU’individuo empirico, allora, su questo punto, sono
d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che
esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l’apparire in cui
tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto, come tutto ciò che non appare). Ma
Gabriel intende così l’apparizione? Per lui ciò che esiste esiste
necessariamente all’interno di un campo di senso, cioè all’interno di un
contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo in
quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo altro è il contesto
del qualcosa, sono d’accordo (ma esortando Gabriel a rendersi conto che egli,
contrariamente ai suoi intenti, sta sollevando il principio di non
contraddizione - ossia il differire dal proprio altro - al rango di assoluto
principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un
contesto egli crede di dover concludere che qualcosa come il Tutto, la totalità
degli enti, non può esistere perché il Tutto non può avere un contesto, e non
può nemmeno contenere sé stesso, giacché è necessario che il Tutto, in quanto
contenente differisca dal Tutto in quanto contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a
rilevare che, poiché il Tutto è l’apparizione del Tutto (anche per Gabriel
dovrebbe esserlo), allora questa apparizione contiene sé stessa proprio perché
il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il
contenuto e il contenuto è insieme il contenente. Da gran tempo i miei scritti
si sono soffermati su questo tema come su quello del significato che compete
all’affermazione che il nulla è il contesto del Tutto. (A proposito del tema
del nulla è curioso che Vattimo, per il quale - come per Gabriel e l’intera
cultura del nostro tempo - 263 tutto è contingente, neghi a un certo punto - p.
60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro
annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa consistere la loro
contingenza e storicità.) L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a ssoluto
realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione
fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un rilievo,
questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari neorealisti a studiare
Gentile. Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere trascendentale del
pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all’idealismo
tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’al di là di ogni pensiero,
l’assolutamente Altro, l’Ignoto, gli infiniti tempi in cui l’uomo non c’era e
non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto
questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non può essere
trasceso e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di
esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità.
L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal
consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di convinzioni. Insieme a
molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su
cui la comunità più ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo
concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il
linguaggio della comunità, giacché siamo esseri storici e la massima evidenza
disponibile qui e ora si costruisce solo con un accordo, che può essere messo
in questione e rinegoziato (p. 109). Ma, daccapo, questa sua affermazione è una
verità incontrovertibile? Oppure che gli uomini esistano, ed esistano
storicamente, accordandosi o discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile?
Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel far rivivere la
metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica? Ma
soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo
intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione
dello sviluppo storico (la sequela delle epoche dell’Essere) finisca col
valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e indiscutibile. La
tecnica può riuscire a porsi alla guida del mondo solo se si è in grado
dimostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi
forze della tradizione (quali il capitalismo, le religioni, la politica e la
concezione del mondo che sta al loro fondamento). Ma chi può mostrarlo? Non
certo la tecnica e la scienza. È invece l’essenza tendenzialmente nascosta
della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare).
Mostra che non possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze
delle tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non
solo) per questo la filosofia ha un carattere decisivo. Di qui l’importanza di
saper cogliere ciò che chiamo essenza della filosofia del nostro tempo - alla
quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a questo
contesto si riferiva anche il mio articolo (Corriere della Sera, la Lettura, 16
settembre 2011), intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. D’altra
parte, continuo a ripetere, quell ’essenza è la forma più coerente della Follia
estrema da cui è avvolta l’esistenza dell’uomo - la Follia del nichilismo). Ben
presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si
convince che il mondo esista indipendentemente dalla coscienza che egli ne ha.
Questa, la base di ogni forma di realismo. Se l’uomo è il singolo individuo
umano, anche l’idealismo è una forma di realismo. D’altra parte, il mito, e il
pensiero filosofico della tradizione (sia pure in modo profondamente diverso)
vedono in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, divina, di Volontà,
capace di dominare la materia di cui le cose son fatte o addirittura capace di
produrre ogni aspetto del mondo, come pensa anche l’idealismo classico,
culminante in Hegel, che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina
e cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli è unita. Come Cristo, l’uomo
autentico è Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non dall’uomo singolo, ma
dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica è
fondata nel modo più rigoroso. Marramao (Il Secolo d’Italia) è limpidamente
d’accordo con me circa questo rigore - osservando giustamente, tra l’altro, che
uno dei motivi del disinteresse per Gentile sta nel suo stile pesante e
ottocentesco. Che però, aggiungo, vanta un nitore concettuale estremamente
superiore a quello del neohegeliani del mondo anglosassone del XIX-XX secolo.
Contrariamente alle loro intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi
hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel, determinando una
reazione realistica non immune da consistenti ingenuità, che sarebbe stata di
più alto livello se nel mondo anglosassone la presenza di quella forma di
neohegelismo non avesse impedito la presenza di Gentile. Ma soprattutto - per
quanto riguarda il predominio del realismo rispetto aH’idealismo - la
tecno-scienza si presenta quasi sempre come realismo (assunto come ipotesi di
lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte sua il
realismo filosofico dà spesso per scontato che la filosofia non possa procedere
indipendentemente dalla scienza. In questo modo accade che la centralità della
scienza nel mondo contemporaneo determini il predominio del realismo rispetto a
ogni altra forma filosofica. Nell’intervento di Maurizio Ferraris (la
Repubblica 18 settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da Kant a
Gentile, noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto
con fenomeni, con cose che appaiono a noi. No: questo lo si può dire di Kant (e
propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di Hegel o di
Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il contenuto della ragione sono
proprio le cose in sé. E a sua volta Gentile ribadisce che solo se si
presuppone (arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero, si
può affermare che i contenuti del pensiero siano soltanto fenomeni. Per
confutare l’idealismo Ferraris richiama l’esistenza delle infinite cose che
esistevano prima dell’uomo, gli ostacoli incontrati dall’uomo,
l’imprevedibilità degli eventi. L’idealista risponde, a ragione, che di tutte
queste situazioni non si potrebbe parlare se non fossero pensate e che quindi
esse non stanno al di là del pensiero, indipendenti da esso, che invece include
nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono, subiscono quelle
avversità e muoiono. I miei scritti stanno tuttavia al di là dell’opposizione
realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente (Corriere 27
settembre 2011) i loro temi centrali, che nel mio articolo avevo messo tra
parentesi per non complicare troppo il discorso. Invece Gianni Vattimo
(Corriere 21 settembre 2011) mi trova troppo affezionato al vecchio argomento
antiscettico (se uno dice che non c’è verità sostiene peraltro che quel che lui
dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo avviso, che un
giochetto logico-metafisico. Un giochetto che però (per richiamare solo due tra
molti) Platone ( Teeteto) e Aristotele ( Metafisica) prendono molto sul serio.
Platone scrive addirittura che quell’argomento è raffinatissimo (kompsótaton).
Ma poi Vattimo dimentica che quel che qui egli chiama giochetto, nel suo libro
(Della realtà) lo chiama invece giusta accusa di autocontraddizione. (Comunque
nel mio articolo prendevo atto delle sue frequenti dichiarazioni di non voler
dire cose vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d’accordo. Ma
poi, non è proprio per non esser vinto dall’argomento contro lo scettico che
Vattimo, per sostenere la propria negazione della verità, dichiara di non voler
dire una cosa vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che
quell’argomento ha un’importanza decisiva nel suo discorso?) Da parte mia ho
scritto invece più volte che quell’argomento non è sufficiente contro lo
scettico non ingenuo, giacché a chi gli obbietta che si contraddice egli può
ancora replicare chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il
discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene
anche che dialogare con qualcuno significa andare a braccetto con lui. Ora,
vado sì dialogando con Gentile, con l’essenza del pensiero del nostro tempo,
con la storia del nichilismo, con i realisti, ma non vado a braccetto con loro.
Dialogo anche con Vattimo...) Per Markus Gabriel (Corriere 29 ottobre 2011) il
contenuto dei miei scritti è realismo e quindi, da realista, scrive che
apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona.
Infatti, a suo avviso, Parmenide afferma un essere indipendente dall’ambiente
umano. Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno mostrando che ciò
che Parmenide dice dell’essere va detto invece degli enti : di ogni ente va
detto cioè che è eterno (ossia è impossibile - è contraddittorio - che non
sia), e quindi è eterno anche ogni ambiente e pertanto anche Cambiente umano.
Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo, che identifica l’ente e
il niente. Nessun ente può essere stato o può diventare un niente. Se realismo
significa che certi enti potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il
realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una tesi autocontraddittoria) -
come l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe esistere se non esistesse un qualsiasi
altro ente.) Gabriel aggiunge che la realtà è parzialmente contraddittoria (e
cioè che il principio di non contraddizione non regola tutta la realtà) perché
gli uomini continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo secolo che
vado distinguendo il contraddirsi, che invece è l’impossibile, il
necessariamente inesistente (Cfr. sezione terza). Con una metafora: i pazzi
esistono - e sono pazzi e non sani, cioè sono enti in contraddittorio -, ma
(secondo coloro che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son convinti
non esiste. L’esistenza del contraddirsi non rende dunque parziale il dominio del
principio di non contraddizione - che peraltro, in relazione al modo in cui è
stato storicamente inteso, è ben lontano dal presentarsi come un sapere
assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle espressioni più decisive del
nichilismo. Qualche chiarimento a proposito delle considerazioni (Giornale di
Brescia 4 settembre 2012) che Massimo Borghesi ha dedicato al mio
libretto-intervista Educare al pensiero, gentilmente propostomi da La Scuola
editrice. Provo a indicare, con un po’ di esagerazione, il senso complessivo di
quanto intendo dire. Supponiamo che si voglia dare un’idea della Divina
Commedia affermando che essa è una illustrazione dell’Inferno (punto), e
quindi, se non proprio evitando di citare l’ultimo verso della Cantica - E
quindi uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo appena. (Per me la vita
sarebbe cioè infeliceì ) Chiedo scusa per il paragone inverecondo, ma vorrei
sfatare l’impressione complessiva che si può avere leggendo l’articolo di
Borghesi. Sembra cioè, dal tasto su cui egli batte soprattutto, che il mio
discorso consista nel sostenere che noi tutti siamo eternamente dannati e con
noi tutte le nostre convinzioni (punto). E invece, se mi è concesso sfruttare
la metafora dantesca, nei miei scritti si mostra che ognuno di noi è infinitamente
di più di quel che crede solitamente di essere: è lo sguardo eterno in cui
eternamente appare lo splendore delle stelle, l’eterno apparire del firmamento.
Sennonché (lo mostro nei miei scritti), nella luce del firmamento che noi siamo
si fa innanzi questa nostra terra, la quale, sì, corrisponde aH’Inferno del
poeta. Infatti, abitandola, noi ci chiudiamo in quel che per lo più crediamo di
essere e non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del quale sta un
Firmamento ancora più infinito). Per quanto riguarda la parte dei miei temi
considerata dal Borghesi troverei invece molto più adatte queste parole di
Angelus Silesius: Uomo, smetti di esser uomo se vuoi raggiungere il Paradiso:
Dio riceve solo altri dèi. Oppure, Uomo, se non hai dentro di te il Paradiso,
non vi entrerai mai. Certo anche queste sono metafore: ogni loro parola indica
e nasconde. Ad esempio è sommamente occultante Yimperativo (smetti di esser
uomo), perché ogni uomo ha già smesso da sempre di essere quell’uomo che per lo
più crediamo di essere, e già da sempre, necessariamente, ha dentro di sé il
Paradiso che peraltro è destinato a raggiungere. Ma poi sono le parole uomo
Dio, dèi, Paradiso a dover deporre il loro timbro mitico-metaforico - anche
perché sapere che cosa significhi uomo non è per nulla più facile che sapere
che cosa significhi Dio. Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che il mio è un
sistema di pensiero che rifiuta l’idea che l’uomo possa cambiare. Detta così,
questa sua affermazione altera il senso del mio discorso, e, anche qui, perché
ne mostra soltanto un lato. Proprio nella prima risposta dell’intervista dico:
Invece gli eterni che costituiscono gli essenti [quindi anche gli uomini] hanno
una essenziale mobilità; tanto che ho scritto da qualche parte che “solo
l’eterno può divenire”. Nel senso che lo spettacolo che sta davanti, costituito
dall’apparire degli eterni, è continuamente variante, è il variare che dapprima
si mantiene all’interno di ciò che chiamo “terra isolata dal destino” [cioè
l’Inferno di cui parlavo] e poi continua al di là della terra isolata dal
destino della verità [dove il “destino” è l’apparire, che noi siamo, dello
splendore delle “stelle”]. Questo proseguire della variazione degli spettacoli
eterni è un proseguire aU’infinito in un percorso che chiamo “Gloria”. La
Gloria è l’infinita adeguazione del finito all’infinito (p. 18). Ogni uomo è
destinato a compiere questo percorso. Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16
maggio 2012). Massimo Borghesi dà, dei miei scritti, un’immagine certamente più
adeguata di quella da lui proposta in prima battuta. In risposta avevo aggiunto
qualche osservazione. Ma qualche altra è forse opportuno che ne aggiunga a
proposito di questo suo nuovo articolo. Mi sembra che egli non condivida la
tesi che Inesistenza dell’uomo sia tenebra, sogno, non-verità, errore. Però a
lui, che è cattolico, posso ricordare che all’inizio del Vangelo di Giovanni si
legge: E la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno accolta. La
luce è innanzitutto la verità; le tenebre sono l’esistenza dell’uomo nel mondo,
e sono tenebre perché sono sogno, non-verità; errore, negazione della verità.
Dicendo questo, delegittimiamo forse le tenebre, come Borghesi in sostanza
sostiene, criticandomi? Si delegittima ferrare dicendo che è errare (con tutto
ciò che ferrare implica)? Certo, il pensiero filosofico non può accontentarsi
del senso che le religioni danno alla verità e alla non-verità; ma è anche
chiaro che il cristianesimo non intende render luce le tenebre, ma condurre
l’uomo fuori di esse. Si tratta allora di capire perché, nei miei scritti, si
afferma che ogni uomo è già da sempre nella luce, al di fuori delle tenebre, e
che ognuno lo è nel modo che gli è proprio e che lo distingue da ogni altro
uomo. Ogni uomo è già da sempre Oltreuomo - anche se questo suo esserlo è
contrastato dalla convinzione ottenebrante in cui tutti ci troviamo per lo più
a vivere. E, ancora, si tratta di capire perché in quegli scritti si afferma
che le tenebre sono essenzialmente più profonde ed estese di quelle a cui si
riferisce Giovanni, e perché da quel contrasto siamo tuttavia destinati a
uscire, e perché la luce lasci sotto di sé le tenebre. Borghesi dice che il mio
discorso è un dualismo. E allora? Questo suo dire è solo una descrizione, non
una confutazione. Ma la sua descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire
cose che non ho mai detto -, soprattutto quando afferma che per me la vita
dell’uomo nelle tenebre è l’inutile affaccendarsi di un formicaio. Ancora una
volta, vorrei chiedere a Borghesi: ma la vita degli uomini che pensano soltanto
al mondo (alle tenebre di Giovanni), e non a Dio, non è appunto, secondo il
cristianesimo, l’inutile affaccendarsi di un formicaio? Tuttavia preferisco
ricordare che il sogno nel quale consistono le tenebre di cui parlano i miei
scritti non è quel vagare delle formiche che per chi non sa che cosa sia un
formicaio è senza senso, un inutile affaccendarsi. Il grande sogno si svolge
anch’esso secondo la necessità del destino (come peraltro lo stesso mio critico
riconosce); e con un ritmo e secondo una struttura che in molti ma molti miei
libri sono andato indicando, chiamandola storia del mortale (ossia
dell’abitatore del sogno). La follia che produce il grande sogno è la
persuasione che le cose si strappino da sé e divengano altro, invadendolo,
dividendolo, spezzandolo. Quindi la follia sta al fondamento di ogni volontà di
far diventar altro le cose. E anche qui si tratta di capire perché è necessario
che la follia si presenti dapprima nei miti, poi nella storia della razionalità
teorico-pratica dell’Occidente, e infine nella distruzione di questa
razionalità e nella progressiva dominazione planetaria della tecnica. È
necessità che nelle tenebre si proceda illuminati dalla luce di Lucifero.
L’autentica educazione è il linguaggio che mostra tutto questo, e non invita a
incrociare le braccia (anche il rinunciare a volere, sappiamo, è un volere), ma
mostra che cosa, in quanto abitatori delle tenebre, i popoli sono destinati a
volere. Altre volte Borghesi si è occupato dei miei scritti. Anni fa, su 30
Giorni, ebbe a scrivere che Severino su un punto ha ragione: la tecnica è
l’orizzonte assoluto del nostro tempo. Ringraziandolo, con molto ritardo, per
aver salvato uno dei miei punti, osservo che non per caso la tecnica è
l’orizzonte assoluto del nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola lo
sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo della struttura qui sopra indicata.
Se la si studia, si può constatare che, nelFInferno dantesco, non aveva torto
il Diavolo a dire al suo interlocutore: Tu non pensavi ch’io loico fossi. La
vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto. La vita cosciente, dico, cioè quella
in cui il mondo si manifesta. Tale Rifiuto nega che il giorno sia notte,
l’acqua aria, gli alberi stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che
qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone avverte che questa negazione
è presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Nei primi decenni del
Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la tesi che
nella mentalità primitiva quel Rifiuto è assente o quasi. Bergson, Durkheim,
Mauss mostrano in molti modi l’insostenibilità di questa tesi. E infatti come
sarebbe possibile, per l’uomo, compiere il gesto più semplice, ad esempio bere
dell’acqua, se la mentalità primitiva credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco,
aria)? Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di crederlo. Tale
Rifiuto sta all’origine e alle fondamenta della vita umana, la domina e la
comanda: tutte parole, queste, che corrispondono all’antica parola greca arché,
che viene tradotta anche con principio. Già per la filosofia greca il Rifiuto
che qualcosa sia altro da sé è Yarché di tutta la conoscenza. Ma la filosofìa
intende il Rifiuto originario in un modo radicalmente nuovo. Prima di essa il
Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l’acqua pietra, e così via.
La filosofia sostiene che questa negazioni non sono semplicemente un volere, ma
un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni
altro sapere e di ogni agire e che quindi è la verità originaria. Aristotele
dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un’unica arché, che è
la più salda di tutte le conoscenze. Più tardi questa arché sarà chiamata
principio di non contraddizione. Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del
pensiero filosofico riterranno che il tentativo di separare questo principio
dalla volontà, facendone la suprema verità incontrovertibile, è destinato a
fallire. Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro
Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia
contemporanea; e qualcosa di simile accade (sia pure con vistose eccezioni)
nelle scienze, nell’arte, nella coscienza religiosa. Popper rileva sì che senza
il principio di non contraddizione crollerebbe l’intero edificio della scienza:
tale principio è il fondamento dell’atteggiamento razionale; sennonché, per
lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è una fede irrazionale, e quindi è
innanzitutto il principio di non contraddizione a esser dominato e guidato da
una volontà (fede) senza verità. 1 Al di sotto della propria maschera tale
principio è in effetti, nelle sue diverse configurazioni e formulazioni
storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel modo da
esso prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato l’unico
grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre quel principio
all’arbitrio della volontà.) Tale principio serve certamente a vivere, rileva
Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera.
Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente richiamata - la storia
cioè del Rifiuto originario - copre e nasconde qualcosa di essenzialmente più
profondo e decisivo. Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia
l’autentica negazione che le cose siano altro da ciò che esse sono: il Rifiuto
che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il
Rifiuto dalla volontà. Dall’altro lato quella vicenda copre e nasconde il
sapere più alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da
ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è sé stessa), proprio per questo ogni
cosa è eterna. Ogni cosa - dunque ogni stato di cose, ogni stato del mondo e
dell’anima, ogni situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del
tempo. La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del mondo (ossia
del cronotopo quadridimensionale) è eterno, ma non lo afferma perché ogni cosa
non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica
scientifica, che è ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la
teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il
Rifiuto autentico, sia YEternità (anch’essa da intendere autenticamente, cioè
in senso essenzialmente diverso da quello che le compete lungo tale vicenda).
Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive diverse, ai miei scritti,
che indicano il senso autentico del Rifiuto e delfEternità come un dito indica
la luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una risposta adeguata
alle loro osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più
recenti. Suggestive e ricchissime le indagini contenute nel sesto tomo di
Filosofia e idealismo di Gennaro Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo
libro con uno struggente Congedo dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a
rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto perché egli ha
ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio -
che generosamente, anche in queste sue pagine, considera importante per lo
sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del
senso autentico del Rifiuto e delfEternità. Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide,
anche Leo¬ nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente dedicati ai
miei scritti, pubblica ora Stanze della metafisica. Heidegger, Lowith, Carlini,
Bontadini, Severino (Morcelliana 2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la
Chiesa, la filosofia 278 (Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote,
che tenta acutamente e coraggiosamente di porre la luna, indicata dal mio dito,
alla base di ogni sapienza. Un tentativo compiuto anche da Francesco Totaro nel
suo importante volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi
(Vita e Pensiero 2013). Molto interessante e ricco di spunti anche il modo in
cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione.
Oltre il postmoderno (Mimesis 2012) si rivolge alla luna e al mio dito. Carlo
Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad arrendersi (perché lo colgo in
contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: Sì, mi contraddico, e
allora?! (La verità è un’avventura, GruppoAbele 2013). Allora, rispondo, se non
gli importa contraddirsi non gli importa che la verità non sia un’avventura e
nemmeno che ogni affermazione contenuta in questo e negli altri suoi libri sia
la negazione di ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che
noi siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo siamo destinati
a perderlo, egli è disposto a contraddirsi e a riconoscere che noi non siamo
quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha presente
(come mi sembra che accada a Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove
il principio di non contraddizione è la semplice volontà che il mondo non sia
contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti
- ci si può certo disinteressare del proprio contraddirsi. A uno che gli aveva
fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose appunto: Sì, compagno,
mi contraddico, e allora?!. Raffinato e penetrante come gli altri scritti di
Alessandro Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da
Goethe a Calvino (Feltrinelli 2010). Scrive Carrera che questo suo saggio fa
parte di un trilogia incominciata con La consistenza del passato: Heidegger,
Nietzsche, Severino (Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche,
la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni ipotesi heideggeriana,
nietzscheana o altrui, in base alla quale il passato sparirebbe nel non essere
o non potrebbe sopravvivere se non manipolato dal presente e per i fini del
presente (p. 181). Sì, la consistenza del passato è implicata dall’Eternità di
ogni cosa. Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba
esistere in ogni tempo, ma nel senso che il fluire del tempo non porta via con
sé, nel nulla, questa luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è già
scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare.
Perché - mi domando, e domando a Severino - la tecnica come capacità indefinita
di realizzare scopi (capacità velata di astratto e generico) sarebbe destinata
a soverchiare la tecnica della forza, che è immanente al diritto e che
accompagna ogni norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella
volontà di potenza è più potente di questa? È la domanda che Natalino Irti mi
rivolge anche nel suo libro più recente L’uso giuridico della natura (Laterza
2013) che, egli ricorda, prolunga la pluridecennale discussione tra noi due sul
tema della tecnica. E la prolunga in modo quanto mai felice, innanzitutto per
l’importanza di queste pagine. Dedicate a me nella concordia discors del
pensiero. Lo ringrazio di cuore. Con altrettanta generosità l’eminente giurista
rileva di quanto si sia ridotto il suo sentirsi discorde. Rimane però quella
domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui altre volte ho risposto.
Dev’esserci quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e che provo a snidare.
Accennerò poi alla direzione delle motivazioni che costituiscono l’organismo
della risposta (attendendo che Irti le consideri). Il mio discorso sulla
tecnica non indica uno stato di cose già in atto, ma una tendenza (non priva di
resistenze): all’interno delle diverse forme di tecnica è oggi in via di
formazione il progetto che ha lo scopo di aumentare senza limiti la capacità
umana di realizzare scopi, di dominare il mondo. Anche ma non solo per questo
vado scrivendo che la tecnica, in quanto è tale progetto, è destinata a
prevalere sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La destinazione si
riferisce al futuro.) Questa capacità è velata di astratto e di generico (come
scrive Irti), ma solo nel senso che oggi l’uomo non può conoscere concretamente
e specificamente le proprie capacità future. La sua volontà vuol diventare
sempre più potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti
filosofico-religiosi posti dalla Tradizione all’agire umano vanno mostrando,
soprattutto all’interno del pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e
concettuale. Volontà di potenza e tecnica sono sinonimi; ma la Tecnica che
progetta Fincremento senza Limiti inviolabili della propria potenza differisce
essenzialmente da tutte le forme di tecnica in quanto sottoposte a quei Limiti
e che pertanto le si oppongono. Differisce da esse, spingendole altrove, ma
agendo al loro interno. Si chiamano economia, politica, morale, diritto, arte,
le stesse discipline scientifiche (fisica, biologia, astronomia ecc.) e le
tecniche da esse guidate (apparati industriali, militari, burocratici,
sanitari, scolastici ecc.). Anche il capitalismo è ancora, prevalentemente, una
forma della Tradizione: pone come Limiti inviolabili (e pertanto come verità
indiscutibili e naturali) l’uomo in quanto individuo isolato e libero, la
proprietà privata di beni e mezzi di produzione, il mercato come dimensione che
rende possibile il profitto e la sua crescita, la concorrenza e, anche, il
sistema di leggi che garantiscono la perpetuazione di questi Limiti, il sistema
cioè che nelle società capitalistiche viene chiamato diritto tout court.
Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio discorso, quella tra la Tecnica e
le altre forme di volontà di potenza sia la contrapposizione tra una certa
particolare forma di tecnica, quella fisico-matematico-biologica, e le altre
forme, tra cui il diritto (la volontà capace di regolare altre volontà). E,
appunto, si domanda perché debba prevalere Luna piuttosto che l’altra. Sennonché,
dico destinata a prevalere non quella forma particolare (sebbene oggi
emergente), ma la Tecnica in quanto progetto di incrementare all’infinito la
potenza presente nelle tecniche esistenti e che mira a porre tale incremento
come la norma suprema - la norma che è il più radicale superamento delle Norme
e Limiti imposti dalla Tradizione. Un progetto dunque che non sta sopra la
testa di quelle forme (astratto e generico), e non è nemmeno la loro semplice
somma, ma tende a esser sempre più presente e dominante in ognuna (e, certo, in
modo più avanzato, nella forma fisico-matematico-biologica) e a distoglierle
dalla loro soggezione ai Limiti inviolabili che via via sono stati loro
imposti. Nel diritto quei Limiti si incarnano nel cosiddetto diritto naturale.
Che però tende a essere sempre più emarginato dalla convinzione che il diritto
sia positivo, posto storicamente dalle volontà vincenti; non, quindi,
espressione di una volontà che rispecchia una immodificabile Legge Naturale.
Nel mondo occidentale (ma ormai sull’intero Pianeta, sia pure in modi molto
differenziati e spuri) vincente è ancora, e nonostante le sue crisi, la volontà
capitalistica, ed essa si impone come la Legge, lasciando sullo sfondo, quasi
dimenticato, quel carattere positivo della legge che sta soppiantando la
pretesa del diritto capitalistico, di essere naturale. La forza e la capacità
coercitiva sottolineate da Irti non competono cioè a una pura volontà giuridica
separata dalla volontà vincente, ma alla capacità di quest’ultima di rendere
operante la forza e il carattere coercitivo della volontà giuridica. (La
contrapposizione tra potere politico e potere giudiziario - o quella dove un
gruppo economico è sottoposto al giudizio della magistratura - si svolge
completamente all’interno dell’orizzonte giuridico che tutela i valori
dell’economia di mercato). La volontà che progetta l’incremento indefinito
della potenza non è quindi, come invece Irti mi obbietta, astratta
disponibilità, generica forza di raggiungere risultati, indistinta e indefinita
varietà degli scopi, nome con funzione riassuntiva - mentre il diritto avrebbe
il vantaggio di essere decisione che impone certi scopi escludendone altri (pp.
53-54). Le cose non stanno così. Le decisioni del diritto sono le decisioni del
capitale, o dell’economia pianificata, cioè delle forme di volontà di volta in
volta vincenti. Le volontà di potenza che hanno come scopo la potenza di
certuni e non di altri, di certe concezioni del mondo e non di altre, di certe
forme di ricerca e non di altre, non possono avere come scopo la crescita senza
limiti ed esclusioni della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo reale ha
ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il capitalismo evita la
produzione dei beni che, pur vantaggiosi per l’uomo o l’ambiente, non avrebbero
mercato, e alimenta forse quella relativa scarsità delle merci senza la quale,
cioè con la loro abbondanza e la caduta della domanda, non avrebbe nulla da
vendere. E in ognuno di questi casi vengono ostacolate forme di potenza, quali,
appunto, la tecno-scienza, il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il
superamento della scarsità.) Perché, dunque - riformulo così la domanda di Irti
- la Tecnica è destinata a prevalere sulle forme particolari di essa nella
misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per il loro chiudersi
nella loro particolarità, sia per Tesser ancora soggette ai Limiti della
Tradizione? E quindi: perché la Tecnica è destinata a prevalere anche sul
diritto in quanto le si oppone nel senso ora indicato (visto che, nella misura
in cui sono invece il terreno in cui prende piede la Tecnica in quanto progetto
di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica non prevale su di esse,
emarginandole, ma se ne serve - o prevale nel senso che quel progetto è lo
scopo che regola i loro scopi particolari)? Rispondo così. 1) Oggi la tecnica
(tecno-scienza e apparati) si presenta ancora come un mezzo, anzi come il mezzo
più potente di cui si servono le volontà di potenza dominanti e tra di loro in
conflitto: stati, concezioni politiche e religiose e, soprattutto la volontà
oggi più potente, il capitalismo. 2) Ma nella tecnica si sta facendo largo,
ravvivandola, la Tecnica in quanto progetto di incrementare ah’infinito la
potenza, oltre ogni Limite assoluto. 3) Il fondamento di questa negazione è
l’essenza - il sottosuolo essenziale - del pensiero filosofico del nostro
tempo. 4) Nel conflitto, ogni volontà può prevalere sulle altre solo se
rafforza sempre di più il mezzo tecnico di cui dispone. 5) Tale rafforzamento è
ulteriormente rafforzato dal progressivo prender piede, nella tecnica, del
progetto della Tecnica di aumentare all’infinito la potenza - e tale progetto è
a sua volta rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in testa, di
potenziare il mezzo di cui essa dispone. 6) Pertanto lo scopo delle volontà
dominanti si trasforma. Infatti, riferendoci ora al capitalismo, esso - e
quindi il diritto che lo esprime e sancisce - tende a non aver più come scopo
primario l’incremento del profitto, ma la sintesi tra tale incremento e il rafforzamento
del mezzo: il rafforzamento che nella sintesi tende a occupare sempre più
spazio rispetto a queU’incremento. 7) In tal modo la tecnica, da mezzo, tende a
diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si trasformano e la cui
configurazione originaria tramonta. La tecnica tende dunque a diventare lo
scopo del capitalismo e del diritto capitalistico. E in questa tendenza
consiste la destinazione della tecnica al suo prevalere su di essi e al dominio
del mondo. 8) A questo punto si tratterebbe di richiamare il senso autentico di
tale destinazione (cfr. ad es. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo,
Adelphi 1988, o Capitalismo senza futuro, Rizzoli). Ma, dicevo all’inizio,
questo è solo un cenno alla direzione della risposta. Pieno di debiti nei Loro
confronti, non mi è concesso nemmeno di esordire in modo originale. Perché
anch’io, come tutti coloro che mi hanno preceduto, debbo incominciare con i
ringraziamenti. Soprattutto io devo farlo - e, certo, mi è caro farlo. Mi
rivolgo innanzitutto al dipartimento di Filosofia, all’università di Venezia e
a chi ha preso questa iniziativa: i professori Mario Ruggenini e Davide Spanio;
e poi c’è l’appoggio finanziario dato a questa iniziativa dal professor Luigi
Ruggiu in qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha fatto piacere anche
quella sorta di preconvegno, organizzato dal professor Luigi Tarca, costituito
da una serie di seminari dedicati ai miei scritti. Il professor Ruggiu ha anche
opportunamente sottolinea-to il senso centrale di quanto è venuto fuori questa
mattina, e cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno del pubblico può
essere sembrato un discorso.... algebrico, astratto, filosofico (nel senso del
formalismo filosofico), e le implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione
politica. Qui davanti ho appunto l’amico professor Pietro Barcellona e l’amico
Natalino Irti, nei cui interventi questa dimensione è emersa in modo più
visibile. Mi è capitato altre volte di essere oggetto di incontri come questo,
e mi sono sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi
partecipavano. Vivo la qualità etica di chi festeggia come decisamente
superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente
ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo nostro incontro come
manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso
quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto
l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che di questa
università costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia dell’università
di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare
di aver dichiarato da qualche parte) anche per merito del dipartimento di
filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia
straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche per questo il
fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La
stessa che mi è data dalla presenza di pensatori che, venendo da altre
università, contribuiscono ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro
Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un abbraccio al
professor Spanio, in particolare, per l’amicizia con la quale si è impegnato
per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso
splendido: abbiamo sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle
ben note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori
Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e di tutti quelli che hanno
parlato. Scusino se non li nomino tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi
hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo
convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista, oppure
bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è
mancato e che è stato ricordato dal professor Perissinotto, al quale rinnovo
anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del
dipartimento di filosofia. Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che
mi sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal
professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto
ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo incominciato
a dire - di una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i problemi
pratico-politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere. Che
noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo
della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale nella quale esistono
forze politiche, economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia,
America e via dicendo, che vanno storicamente sviluppandosi -, ecco che noi si
viva nel mondo è la grande fede alla quale nessuno di noi vuole rinunciare. Noi
ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a credere che ad
esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che stiamo parlando di filosofia, e che Ca’
Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema
internazionale ecc. Ecco, questa fede (come ogni fede) è un attribuire un
valore di verità (usiamo così alla buona la parola verità) a ciò che in quanto
contenuto di fede non ha verità. E a cui, però, noi non sappiamo rinunciare;
non sappiamo saltare al di fuori della nostra fede. Allora, una parte degli
interventi - che qui ho sentito con estremo piacere e dai quali ho imparato
moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico - si riferisce
al contenuto di questa fede, al centro del quale sta la nostra civiltà
occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi
progressivamente coerente. Coloro che vedono la storia del mondo come un
susseguirsi di frammenti caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà
dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi dello sviluppo. Allora, una
prima parte degli interventi è consistita (penso soprattutto a quello di
Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il
calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione delVOccidente.
L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che spingono dalla forma
iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è quella della
civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori
non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così insistentemente
l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato (anche ieri il
professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito la mia simpatia
per le forme più radicali della coerentizzazione della storia dell’Occidente.
Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso di essere un po’
immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia modestia è stata messa
duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa prova,
mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto. Allora posso dire che un lato
del discorso filosofico del sottoscritto (ma è anche questa una fede: che io
abbia scritto dei libri fa parte di quella fede nel mondo di cui parlavamo
prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato coerentizzazione della storia
dell’Occidente. Che, come è venuto in chiaro da parte degli amici che hanno
parlato, è la coerentizzazione della Follia estrema. Nei laboratori ci sono
scienziati che per accertare le capacità distruttive di un virus ne favoriscono
lo sviluppo massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità. Una
parte del mio discorso filosofico - qualcuno di loro prima richiamava i miei
scritti su Eschilo, su Leopardi, su Gentile - tratta di quelli che sono i
grandi nemici della verità. Ma la verità non è un qualche cosa che sia grande
indipendentemente dalla grandezza della negazione della verità. La verità non è
qualcosa di grande indipendentemente dalla grandezza dell’errore. Senza la
grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è tale (è un
po’ il tema di cui parlava l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è
negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare forza dalla
concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle
sue ultime conseguenze (consistenti nella dominazione definitivamente
vittoriosa della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto
a questo processo di coerentizzazione, allora la stessa energia negativa della
verità risulta astratta. Da questo punto di vista potrei dire che tutte le
osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti,
Vitiello, Visentin (chiedo scusa se in questo momento non mi ricordo altri
nomi, ma ci sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità.
Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la negazione dell’errore esige la
concretezza dell’errore. Un primo lato di quanto abbiamo sentito in queste due giornate
riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale -
ecco ripresentarsi l’immodestia - credo di aver dato una mano. Qualche amico mi
dice: guarda che il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua
invenzione. Ma siccome penso che quel cosiddetto mio Nietzsche sia in grado di
eliminare la forza teoretica della grande tradizione dell’Occidente, se il
Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col Nietzsche quale
appare nei miei scritti, allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei
scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se
fosse falsa la mia interpretazione, oltre che di Nietzsche, di Leopardi e di
Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti
rispetto al passato dell’Occidente, ma sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel
Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si
dovrebbe dire che se fossero qualcosa di diverso (ma non lo credo) peggio per
loro: il loro discorso non riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione
dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a mostrare l’impossibilità degli eterni e
dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il
Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che
ne ho dato (e che finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E
qui siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente
non sono gli eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo
dei due lati del mio discorso filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo
fede nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È
probabile che una parte di Loro dirà: questo è il mondo, quello in cui crediamo
noi è il mondo vero; e quelle che sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie.
Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto
tale, non giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio contenuto. Se lo
facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede
tende a coincidere con lo scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che
questo mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare
ragione. E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede, cioè dalla
verità. E solo per questo può esser qualificato (con verità) come mondo della
fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo
incontrovertibile, appare l’esistenza della fede, ossia del mondo isolato dalla
verità. Discuto questo tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante,
la proposta del professor Messinese, di valorizzare la prima fase, la chiamava
così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto
una fede (sia pure altissima), ma è innanzitutto ben di più, ossia è la
manifestazione della verità. Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio
discorso filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e
altri, riguardavano appunto questo secondo lato. Con un’altra metafora
geometrica, i due lati corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio
inscritto è la nostra fede nel mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una
parte del convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere
nella verità a cui accennavo prima, è stata dedicata l’altra parte. E abbiamo
incominciato con quest’altra parte, con la relazione del professor Visentin. Mi
rendo conto che rispetto alle accurate articolazioni concettuali che abbiamo
sentito, queste mie considerazioni sono molto generiche. Qualche osservazione,
quindi, va fatta a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere
problematico come quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle
difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse,
inconfutabili. Per considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò
che chiamo struttura originaria del destino della verità, direi che rispetto a
questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo scientifico si
produce quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di discorso, per esempio
quello matematico.Nella cosiddetta aritmetizzazione della matematica, l’intera
complessità del sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione
problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si
mostra che partendo da un certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono
assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento
incontrovertibile, come appunto accade per i postulati dell’aritmetica -, non
si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una
contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il
contenuto semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della contraddittorietà
dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno
alle obbiezioni alla struttura originaria del destino, allora ci si muove
impropriamente, perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si
rivolge appunto a quella struttura) intende appunto escludere una situazione
concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici, probabili,
problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente in
base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come immediatamente
tra loro contraddittori, è possibile che si deducano conclusioni o teoremi in
sé stessi contraddittori. Sennonché, in relazione alla struttura originaria del
sapere, cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a
mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella
gòdeliana, perché il fondamento è l’ incontrovertibile e partendo
dall’incontrovertibile è impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di
tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo da sviluppare
conseguenze che ne siano la negazione. E allora l’obbiezione alla struttura
originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale
struttura, cioè dal chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha
l’ardire di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire
da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono da questa base è un
mostrare solo ipoteticamente (mi pare che con l’amico Vitiello fossimo d’accordo)
l’insufficienza di questa base. Come giustificazione di quanto ho appena detto,
chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria della verità (mi rivolgo
dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive come quelle di Tarca sulla
differenza) intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso
che tutti noi si risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione
(ob vuol dire contro). Anche quando si proclama assolutamente problematica e
ipotetica, l’obbiezione assume come indiscutibile - incontrovertibile! - la
differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di
ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura originaria - c’è la
differenza dei differenti, cioè il riconoscimento che i differenti sono
differenti - quella differenza che è appunto il contenuto primario della
struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un
incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria (e pertanto
l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse
proseguire, si dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi auguro che prosegua -
chiarendo questo punto. Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente tutti Loro,
con ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con
invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei miei riguardi. Grazie! Debbo
tener presente, oltre alle considerazioni estremamente interessanti di Enrico
Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua
relazione), che hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per
ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno,
anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e parlavamo della sua evoluzione
verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione, rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il
significato) essere non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è
nemmeno un significato equivoco. L’osservazione che facevo all’amico Berti era
questa: il tuo avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore
sottolineatura delle differenze di significato della parola essere. Anche se
l’obiezione può sembrare formale (mi pare che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello
volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non possiamo
prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario, Ca’
Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser differenze.
(Tra parentesi: perché le obbiezioni formali devono essere respinte?) È questa
Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di Aristotele:
che ci sia qualche cosa di identico nelle differenze, che d’altra parte sono
originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle). L’analogia dei
molti sensi dell’essere, non è il risultato di una argomentazione, ma è il
contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e
apparire. Apparire è appunto la parola italiana con la quale traduciamo
phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge, perché altrimenti
(negando cioè l’identità dell’esser differenze delle differenze) il senso
dell’essere diventa equivoco: non si sfugge a quell’elemento identico che c’è
nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener
presente l’inizio del libro IV della Metafisica, dove quando Aristotele parla
dell’essente in quanto essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è
qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi arriva persino a
dire che anche il non-essere è un essente. Ecco, se noi dovessimo ancora - ma
me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio che corri tu,
Berti, è quello di arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di
differenze del significato essere, che vorrebbero ma non riescono a essere pure
differenze, nient’altro che differenze, appunto perché sono anche identiche
nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha detto il caro
Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di
questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso
di Spinoza e quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il concetto
di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il concetto di causa sui -
neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione causa sui - egli
mostra di intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è
un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando
ci si chiede la causa delle cose, è perché le si considera appunto come enti
che possono esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa
espressione spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche qui:
le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che
qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle,
però la semplice tesi filosofica non è la fondazione di essa. Perché allora -
hai citato mi pare qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime
pagine di Borges sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la tesi che tutto è
eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed
è la fondazione a dare significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere
se in Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a
me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio
più volte citato Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire che: primo, non
ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola neoparmenidismo - mai.
Mai; anzi, è scritto sin da Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo
nichilista (immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così
essenziale e profondo, in questo suo intendere l’essere monachos, che anche se
oggi, come ha ricordato il professor Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci
sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe inventarlo
quel Parmenide tradizionale che la storiografia contemporanea toghe di mezzo
per dire che no, che egli prende positivamente in considerazione la dóxa, che
non si limita a qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe
inventario quell’altro Parmenide che oggi viene emarginato, ma che è il Parmenide
che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche
di Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori - grandi pensatori (chi
più di loro?) - abbiano reagito rispetto a Parmenide nel modo in cui hanno
reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione
storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper
la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione,
l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è incoerente la pretesa
di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale,
cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa incoerenza è
a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche
questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è
fondato su una fede irrazionale, è a sua volta fondata su una fede irrazionale,
ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi alla tavola rotonda
tenutasi a conclusione del convegno di studi Il destino dell’essere. Dialogo
con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino tenutosi il 29-30 maggio 2012
nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia. Gli uomini
chiamano male tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i
dolori che ne sono i battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin
dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita.
L’immagine si libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo
sopportabile. La più antica delle immagini è la festa. Nell’antica lingua greca
la festa è chiamata theorìa, che significa contemplazione, immagine, appunto.
Nella festa sono fuse insieme le forze che poi, separandosi, si chiameranno
mito, arte, ekklesìa, tecnica, sapienza. In ognuna di queste forze separate si
prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti
figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del
male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo
splendore delle forme della scultura greca, delle Madonne col Bambino di
Raffaello, dell’Amor sacro e profano di Tiziano. Se il male fosse dimenticato
non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le uniche protagoniste
della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener
lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra
dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro
protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio
per la sua assenza. Non vedere questo Assente è non vedere la bellezza del
bene. Una mostra della rappresentazione visiva del male dovrebbe raccogliere
tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva,
dunque, fare diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il male
si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a
lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia
ancora più inquietante perché è lasciato dall’artista a sé stesso e
aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo
riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella suscitata dalla
parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado errato. Credo che in quella
mostra non fosse presente alcuna Madonna col bambino di Raffaello. Ma in queste
figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del
sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò che per Raffaello è il male
assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e
tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di
Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il criterio della raccolta non era
il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo
la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di come è
possibile, oggi, parlare di valore artistico, è possibile indicare il senso
autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto
temporale era dal Beato Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in
cui il cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del
cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra opera dell’uomo
occidentale. Dapprima la rappresentazione mostra la vittoria sul male compiuta
da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle
Madonne e le Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che si dispiega,
al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione
e della Gloria. Il tratto salvifico dell’immagine è il Racconto cristiano.
Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza
cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento nuovo.
Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista
figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra
Cristo per dipingere, per celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e
dunque della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il
mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del rapporto a essa da parte
dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana,
diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre incombente il
male - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale
contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va
perdendo la propria potenza ed efficacia salvifica. E accade che le
moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre
più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto cristiano
di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul
difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge
al culmine quando anche la pittura del nostro tempo eredita il distacco dal
divino - prodotto soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli -
e non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La quale si addossa tutto il compito
salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle
di quel Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il dolore, la
morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla
potenza con cui il male è mostrato dall’immagine. La forma è tolta via dal
contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a
essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la dissoluzione
della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al
contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del
mondo, evocato dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è
inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del
nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più avere
la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di
impedire che - al di là di ogni valore artistico - altre forme della
rappresentazione visiva, come la fotografia e il cinematografo - attraggano a
sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un
male che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi da
esso. Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e nel Medioevo
le stesse arti figurative non venivano considerate arti vere e proprie (arti
liberali) ma arti meccaniche. Anche la semplice voce e la semplice scrittura
della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla scrittura. E, già nel Rinascimento,
soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica)
richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria e dalle
incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno
innanzi quando il rovesciamento di mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui,
ancora, la tecnica produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede
sempre più decisamente verso la produzione di una realtà nuova. Con la tecnica
del nostro tempo l’immagine festiva si solleva al di sopra del proprio
carattere di imma organizzavano e vi partecipavano. Vivo la qualità etica di
chi festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E
questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero
questo nostro incontro come manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché
è chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico,
emerge soprattutto l’interesse profondo per la filosofia da parte di coloro che
di questa università costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia
dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano,
dato che (mi pare di aver dichiarato da qualche parte) anche per merito del
dipartimento di filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla
filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di altissimo livello. Anche per
questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di
gioia. La stessa che mi è data dalla presenza di pensatori che, venendo da
altre università, contribuiscono ad alimentare la ricchezza filosofica del
nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo però un abbraccio al
professor Spanio, in particolare, per l’amicizia con la quale si è impegnato
per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso
splendido: abbiamo sentito voci quanto mai rilevanti e variegate. Come quelle
ben note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori
Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e di tutti quelli che hanno
parlato. Scusino se non li nomino tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi
hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo
convegno, e allora andava via tutto lo spazio per l’intervista, oppure
bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è
mancato e che è stato ricordato dal professor Perissinotto, al quale rinnovo
anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è direttore del
dipartimento di filosofia. Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che
mi sono stati suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal
professor Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei rivolgermi soprattutto
ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo
incominciato a dire - di una discrasia tra il tecnicismo filosofico e i
problemi pratico-politici. Come eliminare questa impressione? Tento di
rispondere. Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come
crediamo - mondo della natura e dell’uomo, e cioè con una struttura sociale
nella quale esistono forze politiche, economiche, religiose, e industrie,
fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente
sviluppandosi -, ecco che noi si viva nel mondo è la grande fede alla quale
nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non
possiamo rinunciare a credere che ad esempio ci troviamo a Ca’ Dolfin e che
stiamo parlando di filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in
Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc. Ecco, questa fede (come
ogni fede) è un attribuire un valore di verità (usiamo così alla buona la
parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui,
però, noi non sappiamo rinunciare; non sappiamo saltare al di fuori della
nostra fede. Allora, una parte degli interventi - che qui ho sentito con
estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche
nel loro aspetto critico - si riferisce al contenuto di questa fede, al centro
del quale sta la nostra civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha
uno sviluppo e un suo farsi progressivamente coerente. Coloro che vedono la
storia del mondo come un susseguirsi di frammenti caoticamente giustapposti non
vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie fasi
dello sviluppo. Allora, una prima parte degli interventi è consistita (penso
soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi)
nel mettere in luce il calcolo, presente nei miei scritti, della coerentizzazione
delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che spingono
dalla forma iniziale della civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è
quella della civiltà della tecnica. Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti
ai lavori non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato, ripetere così
insistentemente l’affermazione dell’eternità dell’essente e, dall’altro lato
(anche ieri il professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito
la mia simpatia per le forme più radicali della coerentizzazione della storia
dell’Occidente. Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso
di essere un po’ immodesto - ma visto che siamo in un clima in cui la mia
modestia è stata messa duramente alla prova, mi rendo conto di chiedere di
incrementare questa prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più immodesto.
Allora posso dire che un lato del discorso filosofico del sottoscritto (ma è
anche questa una fede: che io abbia scritto dei libri fa parte di quella fede
nel mondo di cui parlavamo prima) ha dato una mano a ciò che ho chiamato
coerentizzazione della storia dell’Occidente. Che, come è venuto in chiaro da
parte degli amici che hanno parlato, è la coerentizzazione della Follia
estrema. Nei laboratori ci sono scienziati che per accertare le capacità
distruttive di un virus ne favoriscono lo sviluppo massimo, fino a che il virus
mostra tutte le sue potenzialità. Una parte del mio discorso filosofico -
qualcuno di loro prima richiamava i miei scritti su Eschilo, su Leopardi, su
Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità. Ma la verità
non è un qualche cosa che sia grande indipendentemente dalla grandezza della
negazione della verità. La verità non è qualcosa di grande indipendentemente
dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza
della verità. Se la verità è tale (è un po’ il tema di cui parlava l’amico
Vitiello questa mattina) in quanto è negazione dell’errore, allora è la verità
stessa a guadagnare forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia
dell’Occidente non è portata fino alle sue ultime conseguenze (consistenti
nella dominazione definitivamente vittoriosa della civiltà della tecnica), se
ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione,
allora la stessa energia negativa della verità risulta astratta. Da questo
punto di vista potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state
rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello, Visentin (chiedo scusa se in
questo momento non mi ricordo altri nomi, ma ci sono), queste osservazioni
critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la
negazione dell’errore esige la concretezza dell’errore. Un primo lato di quanto
abbiamo sentito in queste due giornate riguarda quello che sto chiamando
coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi l’immodestia -
credo di aver dato una mano. Qualche amico mi dice: guarda che il tuo Nietzsche
(adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che
quel cosiddetto mio Nietzsche sia in grado di eliminare la forza teoretica
della grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato
o non fosse congruente col Nietzsche quale appare nei miei scritti, allora
sarebbe il Nietzsche che appare nei miei scritti ad avere quella capacità di
eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia interpretazione,
oltre che di Nietzsche, di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che
non son stati loro a essere vincenti rispetto al passato dell’Occidente, ma
sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel Gentile che emergono
nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se
fossero qualcosa di diverso (ma non lo credo) peggio per loro: il loro discorso
non riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non
riuscirebbe a mostrare l’impossibilità degli eterni e dei divini che tale
tradizione ha evocato, mentre questa capacità l’hanno il Leopardi, il
Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che ne ho dato (e
che finora non mi sembra che debba cedere il passo a un’altra). E qui siamo al
centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente non sono gli
eterni a cui si rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al secondo dei due lati
del mio discorso filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede
nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che esso sia. È probabile
che una parte di Loro dirà: questo è il mondo, quello in cui crediamo noi è il
mondo vero; e quelle che sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi
si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la fede, in quanto tale, non
giustifica l’affermazione dell’esistenza del proprio contenuto. Se lo facesse
non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a
coincidere con lo scetticismo ingenuo. Egli pensa: non c’è altro che questo
mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione.
E invece il mondo della fede è circondato dalla non-fede, cioè dalla verità. E
solo per questo può esser qualificato (con verità) come mondo della fede. La
fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile,
appare l’esistenza della fede, ossia del mondo isolato dalla verità. Discuto
questo tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del
professor Messinese, di valorizzare la prima fase, la chiamava così, del mio
lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia
pure altissima), ma è innanzitutto ben di più, ossia è la manifestazione della
verità. Ci stiamo movendo lungo il secondo lato del mio discorso filosofico.
Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano
appunto questo secondo lato. Con un’altra metafora geometrica, i due lati
corrispondono a due cerchi concentrici. Il cerchio inscritto è la nostra fede
nel mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del convegno. Al
cerchio circoscrivente, cioè alla non-fede, a quell’essere nella verità a cui
accennavo prima, è stata dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con
quest’altra parte, con la relazione del professor Visentin. Mi rendo conto che
rispetto alle accurate articolazioni concettuali che abbiamo sentito, queste
mie considerazioni sono molto generiche. Qualche osservazione, quindi, va fatta
a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere problematico come
quelle, mi sembra, del professor Vitiello: mostrano delle difficoltà, presenti
nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse, inconfutabili. Per
considerare il modo corretto di impostare l’obbiezione a ciò che chiamo
struttura originaria del destino della verità, direi che rispetto a questa
struttura la situazione è diversa da quella che in campo scientifico si produce
quando si vuole assiomatizzare un certo tipo di discorso, per esempio quello
matematico. Nella cosiddetta aritmetizzazione della matematica, l’intera
complessità del sapere matematico è ricondotta all’aritmetica. È un’operazione
problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si
mostra che partendo da un certo gruppo di postulati, o di ipotesi - che vengono
assunti senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento
incontrovertibile, come appunto accade per i postulati dell’aritmetica -, non
si può escludere che lo sviluppo di tali postulati conduca a una
contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il
contenuto semantico dei propri postulati, venga ad accorgersi della
contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il
discorso intorno alle obbiezioni alla struttura originaria del destino, allora
ci si muove impropriamente, perché la mia più volte citata Struttura originaria
(che si rivolge appunto a quella struttura) intende appunto escludere una
situazione concettuale in cui si parta da postulati, che sono ipotetici,
probabili, problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti
semplicemente in base alla loro congruenza, ossia al loro non presentarsi come
immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si deducano conclusioni
o teoremi in sé stessi contraddittori. Sennonché, in relazione alla struttura
originaria del sapere, cioè del destino della verità, è impossibile che si
pervenga a mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto
diversa da quella gòdeliana, perché il fondamento è l’ incontrovertibile e
partendo dall’incontrovertibile è impossibile dedurre qualcosa che sia una
negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa base in modo da
sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora l’obbiezione alla
struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più
tratti di tale struttura, cioè dal chiedersi perché una certa dimensione
concettuale ha l’ardire di proclamarsi come originaria e incontrovertibile.
Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono da
questa base è un mostrare solo ipoteticamente (mi pare che con l’amico Vitiello
fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base. Come giustificazione di
quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria
della verità (mi rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche a prospettive
come quelle di Tarca sulla differenza) intende dire la stessa cosa di ciò contro
cui egli obietta? Penso che tutti noi si risponda di no: altrimenti la sua non
sarebbe un ob-iezione (ob vuol dire contro). Anche quando si proclama
assolutamente problematica e ipotetica, l’obbiezione assume come indiscutibile
- incontrovertibile! - la differenza tra quello che essa dice e ciò contro cui
essa dice. Alla base di ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla
struttura originaria - c’è la differenza dei differenti, cioè il riconoscimento
che i differenti sono differenti - quella differenza che è appunto il contenuto
primario della struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la struttura
originaria è un incominciare a essere d’accordo con la struttura originaria (e
pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione
dovesse proseguire, si dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi auguro che
prosegua - chiarendo questo punto. Ma ora è tempo che io ringrazi nuovamente
tutti Loro, con ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e
direi quasi con invidia per la generosità che Loro hanno avuto nei miei
riguardi. Grazie! Debbo tener presente, oltre alle considerazioni estremamente
interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e di Pagani ieri (ottima la
sua relazione), che hanno parlato dopo il mio primo intervento. Era solo per
ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno,
anzi, all’una, eravamo insieme, con Berti, e parlavamo della sua evoluzione
verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione, rispetto all’affermazione di Aristotele, che il semantema (il
significato) essere non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è
nemmeno un significato equivoco. L’osservazione che facevo all’amico Berti era
questa: il tuo avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore
sottolineatura delle differenze di significato della parola essere. Anche se
l’obiezione può sembrare formale (mi pare che la reazione dell’amico Vincenzo
Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione formale), però non
possiamo prendere sottogamba la circostanza che le differenze (il lampadario,
Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser
differenze. (Tra parentesi: perché le obbiezioni formali devono essere respinte?)
È questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di
Aristotele: che ci sia qualche cosa di identico nelle differenze, che d’altra
parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle).
L’analogia dei molti sensi dell’essere, non è il risultato di una
argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia
distinzione tra essere e apparire. Apparire è appunto la parola italiana con la
quale traduciamo phàinesthai. A questo senso dell’analogia non si sfugge,
perché altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze delle
differenze) il senso dell’essere diventa equivoco: non si sfugge a
quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio.
Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro IV della
Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in quanto essente (on hei
on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia
sostanza, sia accidente, e poi arriva persino a dire che anche il non-essere è
un essente. Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a
discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti, è quello di arrivare
all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere,
che vorrebbero ma non riescono a essere pure differenze, nient’altro che
differenze, appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi
ha molto interessato quello che ha detto il caro Giorgio Brianese. Molto
intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro
ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il discorso di Spinoza e
quello del sottoscritto. Ma vogliamo prescindere dal il concetto di causa (ben
presente in Spinoza)? Adottando il concetto di causa sui - neWEtica Spinoza
esordisce pressappoco con questa espressione causa sui - egli mostra di
intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è un’azione
del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede
la causa delle cose, è perché le si considera appunto come enti che possono
esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione
spinoziana. E poi anche il concetto di conatus essendi. Anche qui: le cose non
hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che qualche volta
Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice
tesi filosofica non è la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare
qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges
sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la
semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la fondazione a
dare significato alla tesi. Si tratterebbe dunque di vedere se in Spinoza ci sia
quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci
sia. Ancora un’osservazione, se posso. A proposito del mio più volte citato
Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire che: primo, non ho mai usato per
indicare quello che scrivo la parola neoparmenidismo - mai. Mai; anzi, è
scritto sin da Ritornare a Parmenide che Parmenide è il primo nichilista
(immenso anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e
profondo, in questo suo intendere l’essere monachos, che anche se oggi, come ha
ricordato il professor Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale
e perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe inventarlo quel Parmenide
tradizionale che la storiografia contemporanea toghe di mezzo per dire che no,
che egli prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a
qualificarla come illusione, non-verità ecc. Bisognerebbe inventario
quell’altro Parmenide che oggi viene emarginato, ma che è il Parmenide che sta
dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi anche di
Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori - grandi pensatori (chi
più di loro?) - abbiano reagito rispetto a Parmenide nel modo in cui hanno
reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione
storico-filologica. Mi fermo qui. Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper
la decisione di accettare solo ciò che è fondato sulla discussione,
l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è incoerente la pretesa
di fondare l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale,
cioè in base a sé stesso. Ma, osserviamo, il rilevamento di questa incoerenza è
a sua volta una argomentazione razionale, e quindi, stando a Popper, anche
questa argomentazione, che conduce ad affermare che l’atteggiamento razionale è
fondato su una fede irrazionale, è a sua volta fondata su una fede irrazionale,
ossia non è una verità incontrovertibile. Due interventi alla tavola rotonda
tenutasi a conclusione del convegno di studi Il destino dell’essere. Dialogo
con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino tenutosi il 29-30 maggio 2012
nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di Venezia. Gli uomini
chiamano male tutto ciò che essi non vogliono - innanzitutto la morte e i dolori
che ne sono i battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio
hanno tentato di difendersi costruendo Yimmagine della vita. L’immagine si
libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo
sopportabile. La più antica delle immagini è la festa. Nell’antica lingua greca
la festa è chiamata theorìa, che significa contemplazione, immagine, appunto.
Nella festa sono fuse insieme le forze che poi, separandosi, si chiameranno
mito, arte, ekklesìa, tecnica, sapienza. In ognuna di queste forze separate si
prolunga, sebbene affievolito, l’antico rimedio festivo. Anche nelle arti
figurative, dunque. Ma l’immagine festiva e salvifica non può dimenticarsi del
male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore
delle forme della scultura greca, delle Madonne col Bambino di Raffaello,
dell’Amor sacro e profano di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si
vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che sembrano le uniche protagoniste
della scultura e del dipinto. Non ne vedremmo la potenza, la capacità di tener
lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella forma sembra
dominare occupando l’intero spazio dell’immagine pittorica, c’è sempre l’altro
protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio
per la sua assenza. Non vedere questo Assente è non vedere la bellezza del
bene. Una mostra della rappresentazione visiva del male dovrebbe raccogliere
tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva,
dunque, fare diversamente - una selezione relativamente al modo in cui il 299
male si rende visibile nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute eccezioni) a
lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia
ancora più inquietante perché è lasciato dall’artista a sé stesso e
aU’imprevedibilità dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo
riferirmi all’imprevedibilità addizionale rispetto a quella suscitata dalla
parte visibile dell’opera figurativa. Se non vado errato. Credo che in quella
mostra non fosse presente alcuna Madonna col bambino di Raffaello. Ma in queste
figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da una perentoria assenza del
sorriso - lo sguardo mostra di aver dinanzi ciò che per Raffaello è il male
assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e
tuttavia ben presenti a coloro a cui il dipinto si rivolgeva. La mostra di
Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il criterio della raccolta non era
il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato secondo
la selezione di cui dicevo. Lasciando da parte la questione di come è
possibile, oggi, parlare di valore artistico, è possibile indicare il senso
autentico dello sviluppo storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto
temporale era dal Beato Angelico ai grandi pittori del Novecento: dal tempo in
cui il cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del
cristianesimo. La pittura lo rispecchia. Come ogni altra opera dell’uomo occidentale.
Dapprima la rappresentazione mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha
come scopo esplicito questa celebrazione. La serietà delle Madonne e le
Deposizioni nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che si dispiega, al di
là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e
della Gloria. Il tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano.
Colori, figure, prospettive hanno come scopo la celebrazione della salvezza
cristiana dal male. Ma un poco alla volta si fa innanzi un atteggiamento nuovo.
Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista
figurativo, come il poeta, non dipinge più per celebrare Cristo, ma celebra
Cristo per dipingere, per celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e
dunque della pittura cristiane sta qui: nel progressivo rovesciamento dove il
mezzo, cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del rapporto a essa da parte
dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana,
diventa mezzo, pretesto. In questo processo, rimane pur sempre incombente il
male - di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale
contenuto non essendo più lo scopo dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto, va
perdendo la propria potenza ed efficacia salvifica. E accade che le
moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate sempre
più dalla potenza della forma pittorica e sempre meno dal contenuto cristiano
di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul
difforme - a impersonare il dominio del bene sul male. Questo processo giunge
al culmine quando anche la pittura del nostro tempo eredita il distacco dal
divino - prodotto soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli -
e non può assumere il Racconto cristiano nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La quale si addossa tutto il compito
salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle spalle
di quel Racconto. Il dipinto, ormai, mostra il difforme, il male, il dolore, la
morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla
potenza con cui il male è mostrato dall’immagine. La forma è tolta via dal
contenuto dell’opera d’arte figurativa (e di ogni opera d’arte) e si riduce a
essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come contenuto la dissoluzione
della forma, il difforme, giacché la forma che prima apparteneva (anche) al
contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del
mondo, evocato dalla tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, che è
inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del
nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal divino, non può più avere
la potenza del divino. Diventa un rimedio caduco, sempre più incapace di
impedire che - al di là di ogni valore artistico - altre forme della
rappresentazione visiva, come la fotografia e il cinematografo - attraggano a
sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso l’immagine, a un
male che si presenta in carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi da
esso. Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme di tecnica - e nel Medioevo
le stesse arti figurative non venivano considerate arti vere e proprie (arti
liberali) ma arti meccaniche. Anche la semplice voce e la semplice scrittura
della poesia richiedono mnemotecniche, tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla scrittura. E, già nel Rinascimento,
soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche modo la musica)
richiedono tecniche guidate dalla matematica, dalla geometria e dalle
incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno
innanzi quando il rovesciamento di mezzo e fine ha già preso piede. Ma qui,
ancora, la tecnica produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede
sempre più decisamente verso la produzione di una realtà nuova. Con la tecnica
del nostro tempo l’immagine festiva si solleva al di sopra del proprio
carattere di imma e e tende a diventare la realtà nuova che sostituisce la
realtà angosciante originaria, al di sopra della quale già si era sollevata
l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più significativi - la
tecnica guidata dalla scienza moderna pensa già alla costruzione di una vita
umana in cui la sofferenza e la morte siano allontanate il più possibile. La
tecnica stabilisce la nuova aura festiva, più potente di ogni immagine festiva
perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la produzione che
anticipa l’Apocalisse cristiana, dove la terra nuova e il nuovo cielo
sostituiscono la vecchia terra e il vecchio cielo. Ma la logica della scienza,
che sta al fondamento della tecnica, non è una logica della verità assoluta e
incontrovertibile. È una logica ipotetica. La scienza stessa è un sapere
ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla sofferenza e dalla morte,
per quanto stupefacenti possano essere i suoi progressi, rimane pur sempre una
liberazione ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla possibilità che
l’intera legislazione scientifica si mostri incapace di dominare le cose e che
l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita semianimale o addirittura
nella propria completa estinzione. La tecnica non salva l’uomo dal nulla. Ogni
salvezza è ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a
farsi udire dalla tecnica, a farle sentire che nessuna potenza può salvare
necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla, e che dunque la minaccia del
nulla rimane sospesa su ogni avanzamento tecnologico della liberazione
dell’uomo dal dolore e dalla morte. La nuova realtà e la nuova vita, che la
tecnica produce sostituendo l’antica immagine festiva della realtà e della
vita, si presenta così a sua volta esposta al dolore e alla morte, tanto più insopportabili
quanto maggiore è la felicità dell’aura festiva che la tecnica sia riuscita a
produrre. È a questo punto che l’arte può riproporsi come l’ultimo barlume
dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di sopra della
realtà - al di sopra cioè di quella nuova realtà che con la tecnica sta oggi
sostituendo l’antica immagine festiva e salvifica della realtà originaria. È,
questo, il pensiero di Leopardi: quando - dopo il tramonto della verità
definitiva e assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a cui
appartiene quel che Nietzsche chiama morte di Dio) - appare che nemmeno la
tecnica ha la potenza di salvare con necessità (ossia non ipoteticamente)
l’uomo dal nulla, allora la potenza dell’immagine poetica che canta
l’impossibilità di ogni salvezza non ipotetica dal nulla rimane l’ultimo
barlume di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono - quella
forma di festa dove è la potenza del canto, e non il suo contenuto, a salvare
ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il nulla e la poesia. Alla fine
dell’età della tecnica: Leopardi, cit.). A volte, certi essenti che chiamiamo
opere d’arte stanno in una relazione specifica con l’infìnito. Se non nel senso
che essi rappresentano senz’altro l’infinito, nel senso che qualcuno crede che
lo rappresentino. Ma, anche qui, ciò che la tradizione filosofica intende per
infinito non può essere sempre presente, nel suo autentico e concreto
significato, a chi crede in quel modo, ossia a chi ha quella fede. D’altra parte,
anche se in tale fede l’infinito può apparire in modo indeterminato, ambiguo,
inadeguato, a volte essa è tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa di
ultimo, non oltrepassabile, intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo comune
è disposto a parlare della bellezza di ciò che gli sta dinanzi; e sono i casi
in cui l’uomo comune nomina come può l’infinito. Beati gli umili (gli uomini
comuni), perché di costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il
Regno dei Cieli è il regno della bellezza che appare aH’interno della fede
(ingenua, umile) che qualcosa sia il senso ultimo delle cose, inoltrepassabile,
intoccabile. Schelling, come Hegel, non parla di fede, ma di una
rappresentazione che, sia pure per riflesso, è verità che essa abbia come
contenuto l’infinito, cioè Dio. Si tratta della verità dell’intera tradizione
filosofica, che giunge al suo culmine ma anche al suo compimento. Si può
parlare di arte contemporanea prescindendo dalla tendenza fondamentale del
nostro tempo? Si può parlare di un uccello migratore - sapere che natura abbia,
da dove venga e dove vada - prescindendo dallo stormo che sta migrando? Oggi il
grande stormo del nostro tempo sta migrando verso l’estrema lontananza da Dio.
Il grande uccello dell’arte non può che andare nella stesa direzione. Schelling
è ancora un grande amico di Dio, ossia dell’archetipo per eccellenza. L’arte
contemporanea sta invece vivendo anch’essa ciò che Nietzsche chiama morte di
Dio. Ci si accorge che la materia è senza luce, il reale senza ideale. Il contenuto
della bellezza si trasforma radicalmente. La bellezza, ora, è innanzitutto, ma
non unicamente, la capacità, da parte dell’opera d’arte, di suscitare in
qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del mondo
che è il trovarsi privi di Dio e la disperazione che ne consegue. Anche qui, ci
si può rivolgere a questa terribile bellezza da uomini umili, poveri di
spirito, che però questa volta non possono essere beati (o la cui beatitudine
può consistere, come dice Leopardi, solo nella forza con cui vedono la propria
infelicità, debolezza, nullità). Il tragico, la frantumazione dell’ordine e del
sacro, il frammento sono aspetti della morte di Dio. Questa è la vertigine del
moderno. Ma pensatori come Benjamin e molti altri del tempo presente hanno
molto da imparare da Nietzsche - e innanzitutto da Leopardi non hanno qualcosa
di essenziale da insegnargli o un’obiezione decisiva da muovergli. Proprio per
questo il nostro tempo è tragico. Se la negazione nietzschiana di Dio fosse
oscillante, la speranza nei vecchi valori non sarebbe spenta - mentre in verità
è spenta, anche se molti sono ancora quelli che sperano. In quanto tendenza
fondamentale del nostro tempo, lo stormo di uccelli di cui qui si è detto è
l’ultimo degli stormi di cui prima si è parlato - o il penultimo, se si tiene
presente che anche la civiltà della tecnica è destinata al tramonto (cfr. E.S.,
Oltrepassare, cit., cap. X). Del tragico le élites si sono accorte da tempo; le
masse stanno accorgendosene. Infatti, come oltre ai modi adeguati di rivolgersi
a Dio ci sono quelli inedeguati, così c’è adeguatezza e inadeguatezza nel
rivolgersi al cadavere di Dio, cioè nel pensare che Dio è morto. Nel tempo
della morte di Dio, la bellezza è la fede di qualcuno - ma è una fede in
espansione - per il quale il tragico è, appunto, il senso ultimo del mondo e
che crede che in certi essenti, detti opere d’arte, questo senso si manifesti.
Si parlava prima dello stormo di uccelli che migrano. Migrano verso un tempo
dove la Tecnica sostituisce Dio. I due si assomigliano molto più di quanto di
solito si creda. Ma la questione decisiva è che cosa sia l’Aria in cui lo
stormo si muove. Lo stormo non può saperlo. Vola verso la morte di Dio - come
lo stormo della tradizione volava verso la vita di Dio. Sono accomunati (amici
e nemici di Dio) dalla volontà di dominare gli spazi. Ma poi resta la questione
di ciò che qui ci limitiamo a chiamare Aria - che è libera da ogni volo e sta
al di sopra della vita e della morte di Dio. Qui, di essa, si può dire che non
ha nulla a che vedere con i modi in cui, all’interno dei voli, si è voluto
andare oltre Dio e gli dèi e si è pensato alla creazione come suicidio di Dio e
alla terra come al suo cadavere. È tecnica il Dio demiurgo, ma è tecnica anche
il Dio suicida. Li accomuna la volontà di manomettere l’essere. Nella nostra
cultura, chi si vuole portare al di sopra dell’azione e della dimensione
demiurgica crede pur sempre nella loro esistenza. L’arte lo ha sempre creduto.
Oggi lo crede ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica. L’Aria,
di cui parlavo, è invece l’apparire dell’eternità di ogni essere. Appare
allora, in questo apparire, che l’azione - anche l’opera d’arte, dunque - è
soltanto un contenuto della fede. Cioè non soltanto la bellezza, ma anche
Inesistenza dell’opera d’arte - ossia dell’opera che fa essere le cose che non
sono (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede. Dice Leopardi che, nelle opere
di genio, l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con
cui sente la morte perpetua della cose e sua propria ( Zibaldone, 261). Una
vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile la sopravvivenza
dell’uomo. Un tema centrale, questo, del pensatore-poeta che ha aperto la
strada all’intera cultura del nostro tempo. La prima opera di genio è quella
dei popoli più antichi: la festa, che è l’immagine della vita e dunque della
morte. L’immagine si libra al di sopra del mondo: gli uomini festivi si
identificano in essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più tardi la festa
arcaica si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica profana, arte.
Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite
derivazioni che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle
visite dei pontefici romani e, in minor misura, del cinema. Si dice che nei
precedenti film di Terrence Malick emerga l’indifferenza della natura rispetto
alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora
più crudele la natura, nei film di questo regista, quando il massacro è
circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba e al
tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una natura che mostra a
sua volta il proprio volto terribile, gli uomini possono sentire che in qualche
modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende sopportabili.
Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per lo meno è
unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile compagno dell’uomo. Il dolore e
la morte ne sono la radice. Ma, per quanto vissuta nei suoi derivati, la festa
non ha cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei
film di Malick la bellezza della natura non è l’indifferenza, 309 incapace di
rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con cui l’immagine festiva,
facendo sentire la morte, dà vita airanima. Se non si guarda in questa seconda
direzione, l’ultimo film di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra
battere, sorprendentemente, una strada del tutto diversa da quelli precedenti. La
strada biblica (nominata quasi all’inizio del film). Per la quale chi segue la
via della Grazia non avrà timore. Che poi è la strada di tutte le religioni.
Infatti il timore è vinto, cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince
di riuscire a stabilire un’alleanza con quella che si ritiene la Potenza
suprema - e il Divino è appunto questa Potenza. Perché ciò accada è necessario
che essa accolga il desiderio dell’uomo; e poiché nulla può costringerla
1’accoglierlo è una Grazia, un dono. Si può dire che Inalbero della vita sia
questa alleanza. L’anima riceverebbe vita da questa alleanza. L’intera
tradizione dell’Occidente lo pensa. Se l’uomo è l’essere che crediamo di
conoscere, la fede nella possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per
questo la religione si riaffaccia continuamente nella coscienza umana. La
cultura europea ha messo in discussione Dio, ma non il bisogno di allearsi con
la potenza che si ritiene suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a
ritrovarla nella tecnica guidata dalla scienza moderna. In Europa le masse
avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va sempre più
allontanandosi da Dio e che d’altra parte non si vede ancora sufficientemente
garantita da una tecnica ancora troppo confusa con la gestione capitalistica
della tecnica. Continuando a seguire questa linea interpretativa, che conduce
il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può allora risultare
sorprendente perché, prendendo le distanze dai contenuti dalla cultura europea
del nostro tempo, dà voce, sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto
che viene indicato qui avanti, ai contenuti tradizionali della religiosità
americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una rispettabile
preparazione filosofica? Tale cioè da averlo messo in grado di pubblicare la
traduzione di una difficile opera di Martin Heidegger? Il che - si potrebbe
osservare tra parentesi - metterebbe in luce qualcosa di più importante, cioè
la porta che Heidegger ha lasciato aperta al divino; e che in qualche modo ha
tentato di tener aperta anche per Nietzsche, che invece si rifiuta di venir
sospinto lungo questa strada. Heidegger guarda infatti al passato della cultura
europea come a qualcosa da cui non si può prendere un definitivo congedo. Solo
un Dio ci può salvare, egli scrive - a differenza di pensatori radicali come
Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto, proprio Giacomo
Leopardi, al quale Malick, si verrebbe a trovare vicino se lo sfondo del suo
quadro poetico fosse l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità
dell’uomo. Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche morbosamente,
la madre, dolcissima, e patisce l’esteriorità della fede religiosa e il
carattere soffocante e a volte brutale del padre, e perde il fratello e non
vede la ragione di esser buono quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto,
varca la porta del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo dove
la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e tutti si amano. Ma
allora - vien fatto di dire - che la fede sia una lotta continua col dubbio, la
disperazione, il cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni.
La tradizione religiosa americana preferisce chiudere presto i conti con il
dramma della fede: predilige la compostezza, dove però, il dramma, più che
risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di Malick
rispetto a quella tradizione si ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che
quel dramma esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però parlerebbe un
linguaggio che per un verso è d’avanguardia ed enigmatico, per l’altro
lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell’amore e a
una natura splendida e sovrana. La forma lussureggiante e innovativa
dell’immagine non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante, cioè
l’aspetto scontato del film. Però l’interpretazione che abbiamo sin qui
prospettato non rende giustizia a quell’immagine. La quale non esprime
l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere festivo di cui si
parlava all’inizio. Che il contenuto americano del film di Malick sia
edificante e scontato non ha più importanza del fatto che i contenuti
dell’antica tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori
conoscevano dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano
riproposti. Sono i miti che parlano della vita, dunque della morte. Prometeo,
Edipo, la guerra di Troia. Ma come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo
l’immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte: l’immagine che è
sentita più reale e più rassicurante dello stesso carattere salvifico del mito
che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare l’uomo
evoluto della polis solamente quando esso si trasfigura nell’immagine festiva
del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’Europa
moderna soltanto quando anch’esso si esprime nell’immagine festiva della Divina
Commedia, nella Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto nella
fusione di rito e arte. Nella minore dimensione del cinema avviene qualcosa di
analogo. In questo diverso senso, L’albero della vita è davvero un’opera
edificante ( aedes facere ): costruisce la casa dell’immagine festiva e
salvifica. L’imperatore Giuliano, l’apostata, si adopera perché tra il popolo
vengano diffusi e difesi i miti e i riti pagani. E tuttavia non è altrettanto
noto che, ai suoi occhi, essi appaiono non meno assurdi delle finzioni
mostruose del cristianesimo. Che senso ha, allora, questa sua difesa del
paganesimo? Scritto nel 1964, uno dei saggi che compongono II silenzio della
tirannide di Alexandre Kojève (Adelphi 2004) aiuta a rispondere. Giuliano è
filosofo autentico e grande imperatore. Spesso danneggiato dagli estimatori.
Vince nelle Gallie e in Persia. Muore a trentadue anni in battaglia. Se è vero
che il cristianesimo è uno dei maggiori fattori della crisi dell’impero romano,
la volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i popoli dell’impero è
lungimirante. Ed è una volontà politica; non l’espressione di una fede
religiosa. Per lui, sia il cristianesimo sia il paganesimo sono miti, cioè
storie false in forma credibile. Però il mito pagano può ancora salvare
l’impero. In ogni mito - egli scrive - il senso è contraddittorio (falso,
indegno), mentre l’espressione o è capace di mascherare la contraddizione del
senso - e in questo caso il mito ha come contenuto il divino, oppure, come
nella poesia, l’espressione non si preoccupa di nascondere l’assurdo, ma si
rivolge a chi, ancora bambino nel fisico o nella mente, può credere in esso. In
entrambi i casi, la contraddizione è mobilitata per conseguire un fine utile o
per divertire (Pascal parlerà di divertissement), per allontanare cioè lo
spettro della morte. Affinché l’impero viva, al popolo bisogna nascondere la
verità: che con la morte è tutto finito. Kojève qualifica giustamente come
straordinario questo passo di Kojève: uno dei maggiori interpreti di Hegel.
Anzi, per lui Hegel è il Filosofo oltre il quale non si può andare. E di Giuliano
egli mostra più volte perché lo si debba considerare un “hegeliano” ante
litteram. Proprio così. (Per esempio legge in Giuliano l’anticipazione del
celebre tema hegeliano del riconoscimento del signore da parte del servo.) Ora,
è notevole che lo straordinario discorso di Giuliano, intorno alla
contraddittorietà del contenuto del mito, per Kojève non faccia una piega.
Giuliano dice che, proprio perché il contenuto (il senso) del mito, cristiano o
pagano che sia, è contraddittorio, proprio per questo esso è inesistente. Un
discorso aristotelico. Ma è anche noto che il problema fondamentale
dell’interpretazione di Hegel è stato ed è tuttora il rapporto tra questo
pensatore e il principio di non contraddizione. Sono molti a ritenere
incautamente (Popper in prima fila) che Hegel sia pervenuto alla negazione di
questo principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera,
contraddittoria. Quale occasione migliore dello straordinario discorso di
Giuliano avrebbe avuto allora Kojève per allinearsi a quei cattivi interpreti,
e dire con forza (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel la Verità) che il
discorso di Giuliano non sta in piedi, appunto perché identifica Yirrealtà con
la contraddittorietà? E invece niente. Anche per questo silenzio Kojève è un
grande interprete di Hegel. I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà,
la disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la
convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare; con l’impiego
meditato, calcolato della più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della
propaganda più ipocrita, messe in atto simultaneamente o di volta in volta; con
una risolutezza incrollabile nel sacrificare sempre tutto al prestigio, senza
essere mai sensibili né al pericolo, né alla pietà, né ad alcun rispetto umano;
con l’arte di alterare nel terrore l’anima stessa dei loro avversari, o di
addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le armi; infine con una
manipolazione così abile della menzogna più grossolana da ingannare persino la
posterità e da continuare a ingannarci. Chi non riconoscerebbe questi tratti?
Una pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi 1990) che Simone Weil ha
pubblicato nel 1940. Alla domanda finale la Weil risponde che in quei tratti
tutti possono riconoscere la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è
una creazione specifica del popolo tedesco - come la propaganda
nazionalsocialista sosteneva -, ma qualcosa di più profondo, cioè l’imitazione
di un modello che va rintracciato molto più indietro nella storia europea,
nell’Impero romano, appunto. In Simone Weil questo giudizio sull’antica Roma -
che si estende al rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero romano -
è anche più pesante di quanto non appaia dal passo riportato, ma non è
arbitrario (si pensi ad esempio alla condanna dei metodi di conquista romani da
parte di uno storico come Jéròme Carcopino), o è arbitrario nella misura in cui
non spinge sino in fondo il proprio significato. Ma intanto va completato
l’intreccio proposto dalla Weil: rendendo esplicita una conseguenza - forse non
adeguatamente sottolineata dalfautrice - che discende, da un lato, dal suo
giudizio su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo stato attuale del
capitalismo. Con molte ragioni, la Weil vede già presente, in Marx, la tesi che
i lavoratori sono oggi sfruttati non tanto dal capitale privato, ma dal
capitalismo di Stato, divenuto ormai, secondo l’espressione di Marx, una
macchina burocratica e militare, che è presente sia nello Stato nazionalsocialista,
sia nello Stato sovietico, sia nella democrazia americana di un Roosevelt
influenzato dai nuovi tecnocrati. Il comun denominatore di queste tre forze è
infatti la tecnica - la disumanità della tecnica che riduce a funzione della
macchina statale l’individuo umano. La conseguenza è che l’impero romano è il
modello non solo per la Germania di Hitler, ma per l’intera direzione
fondamentale della storia. Non solo della storia contemporanea, ma di tutta la
storia dell’Occidente. Il Sacro Romano Impero, gli Stati nazionali moderni,
Richelieu, Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla stessa strada. Per ulteriore
disgrazia, scrive la Weil, a Roma si afferma il cristianesimo, che eredita il
Vecchio Testamento, dove la disumanità verso i nemici vinti e il culto della
forza si accordano straordinariamente bene con lo spirito di Roma soffocando
^ispirazione divina del cristianesimo. Il giudizio su Roma di Simone Weil,
dicevamo, non rende esplicito il proprio significato più profondo. Ma avrebbe
potuto trovare in Hegel un aspetto più profondo. Hegel non mette tra parentesi
la virtù romana, ma mostra perché si trovi unita, come egli dice, alla durezza
e all’atteggiamento compostamente risoluto dello spirito romano. Si tratta
dello spirito che assume lo Stato come scopo supremo e ultimo. Tutto il resto è
subordinato, a incominciare dalla stessa vita familiare e dai sentimenti
dell’uomo romano. Se si pensa per davvero questa affermazione, si comprende
l’inevitabilità di tutti gli aspetti negativi, denunciati da Simone Weil, attraverso
i quali i Romani sono diventati i padroni del mondo. La Weil, più debolmente,
scrive che i Romani sacrificano con risolutezza tutto al prestigio. Ma se si va
più a fondo, il prestigio è l’aspetto assunto dallo Stato presso le genti
quando vale come scopo ultimo dell’esistenza. Ciò non significa che questo
spirito - la volontà di porre lo Stato al di sopra di tutto - non sia stato
attraversato da forze opposte e potenti: significa che, nonostante le traversie
a cui Roma è andata incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo anche
quando sembrava svanito, e ha avuto la forza di imporsi perfino su quei barbari
che stavano prevalendo ma che a lungo, nella maggior parte dei casi, non hanno
pensato di distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero
Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai mortali -, ma hanno inteso
diventarne essi la forza portante, e i loro capi hanno inteso porsi alla guida
dei processi che continuavano ad assumerel’Impero come scopo ultimo
dell’esistenza. Come si spiegherebbero altrimenti i dodici secoli di vita di
Roma (giungendo a Giustiniano), se lo spirito romano non avesse esercitato
un’attrazione così potente? Appunto alla volontà di potenza, da ultimo, ci si
deve dunque rivolgere per comprendere perché quello spirito abbia avuto una
tale forza di attrazione - pur non essendo certamente stato la prima forma di
volontà di potenza nella storia dell’uomo. L’uomo sperimenta sin dall’inizio la
potenza sprigionata dall’aggregazione dei singoli e che appare subito superiore
alla somma delle loro forze. Lo Stato (l’aggregazione), deve apparire quindi
qualcosa di divino. Inevitabile dunque che sin dall’inizio l’uomo assuma questa
potenza come lo scopo ultimo a cui tutto debba essere subordinato. Sin
dall’inizio la dimensione religiosa e quella politica si fondono, sia pure con
intensità diversa e con diversa coerenza rispetto alla potenza che si vuole
ottenere. Se lo Stato si mostra ben presto come lo strumento più efficace per
avere potenza, tuttavia, proprio perché la potenza sia grande e crescente, lo
Stato non può rimanere soltanto uno strumento nelle mani dei singoli e pertanto
qualcosa che non può non risentire negativamente della loro impotenza. È cioè
inevitabile che lo Stato divenga il loro scopo supremo, a cui qualsiasi
interesse e scopo particolare deve essere sacrificato. Lo spirito delle
monarchie assolute dell’Oriente riesce a sopportare a lungo la contraddizione
per la quale il monarca è un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia qualcosa
di non individuale. Poi la contraddizione esplode, e la democrazia greca tenta
di superarla. Senza riuscirvi, perché in Grecia la democrazia non può non
sentire la voce della filosofia, cioè della coscienza che non solo non può
identificare l’individuo a ciò che non è individuale, ma che, anche a proposito
del non individuale in cui consiste lo Stato, denuncia l’impossibilità che uno
scopo finito, quale è lo Stato, possa essere assunto come lo scopo supremo, e
in questo senso infinito. La sapienza (il cui aumento, dice la Bibbia, aumenta
il dolore) indebolisce lo Stato. La potenza di esso è maggiore quando cresce
lontana dalla radicalità della sapienza filosofica. Proprio per la sua
intenzione di dare la felicità, la filosofia indebolisce la fede dell’uomo
negli strumenti di cui egli si serve per sopportare il dolore. È la filosofìa a
voler porsi come scopo ultimo. (Poi sarà la fede cristiana.) I Romani dice
Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia sono solidamente orientati
all’attività pratica, ma non riflettono teoricamente su questo loro
orientamento. Hegel non dice che appunto questa riflessione indebolisce il
proprio oggetto, cioè Inattività pratica, come appunto accade alla polis greca.
E non la sapienza radicale della filosofia, ma la sapienza del diritto rafforza
la fede nello Stato, appunto perché a Roma il diritto si sviluppa
esplicitamente, a differenza della filosofia, all’interno della convinzione che
lo Stato sia lo scopo ultimo dell’esistenza, e contribuisce alla realizzazione
di tale scopo. Per i Greci la tragedia è uno dei punti più alti della loro
grandezza. Per i Romani l’anfiteatro è uno dei più bassi. In entrambi i casi si
tratta però di porsi in rapporto al dolore e alla morte, per sollevarsi al di
sopra di essi. E lo Stato appare ai Romani come la salvezza. Ma nella tragedia,
che è grande filosofia, i Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso e
indicando il senso che il rimedio può avere. L’anfiteatro romano, invece, si
limita a produrre realmente il dolore, e la riflessione tende a coincidere con
quella povertà dello spirito che è il godimento suscitato dalla sofferenza
altrui. Qui, la risolutezza romana raggiunge, insieme, il proprio apice
imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma) e, insieme, la
propria distruzione, che l’originaria e sobria lontananza romana dalla
radicalità della sapienza filosofica aveva saputo evitare. Gl’ebrei hanno
qualità positive di coesione e di solidarietà che mancano ai tedeschi. Affetti
da eccessivo individualismo, i Tedeschi sono Ariani degenerati. Si trovano in
uno stato di debolezza, di divisione, di estremo pericolo. Giudizi, questi,
insieme a molti altri affini, che non sono espressi da un severo critico della
Germania del XX secolo, ma da Hitler in persona, nel suo scritto Mein Kampf.
Funestamente celebre; scritto tra il 1924 e il ’25; il libro più diffuso in
Germania sino alla fine della seconda guerra mondiale. Per Hitler i Tedeschi di
quel tempo erano un armento. Che non solo si era allontanato dalla creatività,
volontà di dominio e genialità del vero Ariano (un giudizio, questo, ripetuto
da Hitler poco prima di uccidersi), ma che aveva anche il torto di essere
oggettivo, insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si pone al
di sopra dell’oggettività), e dunque inferiore allo spirito dialettico degli
Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento, di sottovalutare gli Inglesi e
soprattutto di tollerare gli Ebrei. Chi ha letto Mein Kampf (La mia battaglia)
non sta sentendo nulla di nuovo, ma è nuovo e interessante il modo in cui il
libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e da Chiara Volpato (cfr. Le
intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del Mein Kampf, (Patron).
All’enorme quantità di ricerche che da ogni punto di vista e con risultati di
grande rilievo sono state condotte sul nazismo questo saggio aggiunge una
dissezione del linguaggio di Mein Kampf operata con i metodi più recenti della
psicologia sociale. In primo piano, l’analisi delle corrispondenze tra le
espressioni più ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui giudizi
riportati all’inizio non risultano irresponsabili, ma appartengono a un piano
ben preciso, che giustifica il successo di un uomo come Hitler in uno dei Paesi
più civili del mondo. Stando ai risultati di questo saggio di Capozza e Volpato
è già notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia come ci si
potrebbe attendere, la razza Ariana, ma quella Ebraica, considerata come il
prototipo della razza aliena che ha di mira, alleandosi con i bolscevichi, la
distruzione della civiltà ariana. Tutti gli insulti più odiosi e minacciosi
sono usati da Hitler contro gli Ebrei, che tuttavia hanno ai suoi occhi alcune
qualità positive che costituiscono per i Tedeschi il pericolo maggiore. Egli
addita cioè ai Tedeschi il pericolo mortale in cui son venuti a trovarsi per
colpa degli Ebrei; ma non li deprime, perché presenta loro quel Partito
nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza capace di salvar-li e farli
diventare quel che essi sono nella loro essenza ariana. Il suo partito è unito,
ha fede e pur lottando contro il marxismo capisce i problemi della classe
operaia. Cioè Hitler scrivono le autrici suscitava antisemitismo non solo
tramite la spiegazione dei fallimenti dei Tedeschi, ma anche presentando gli
Ebrei superiori ai Tedeschi in una importante dimensione di confronto:
coesione, solidarietà, omogeneità: una dimensione in cui non si vuole essere
inferiori. Tanto che le autrici possono concludere che Hitler, capace di
raffinate intuizioni sull’uomo sociale, per diffondere il suo programma ha operato
sulle motivazioni e i processi previsti dalle teorie psicosociali. A loro
avviso il testo è basato su tre idee: darwinismo sociale (lotta eterna tra
forti e deboli, selezione naturale, spazio vitale ecc.), principio etnocentrico
(al centro dell’esistenza c’è una certa razza, un certo popolo) e principio
della personalità (l’individuo superiore guida la massa stupida e incapace).
Qui vorrei rilevare che quei tre principi appartengono (in modo filosoficamente
ingenuo) a una grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due
ultimi secoli della storia dell’Occidente. Quelli della morte di Dio. Tutto a
posto, allora, ritornando a Dio? No; la morte di Dio è la figlia legittima,
inevitabile, della vita di Dio. E invincibile sino a che non ci si sappia
rivolgere al senso essenziale e non si sappia mettere in questione la
creatività e la volontà di potenza dell’uomo ariano e non ariano che sia. Al
capitolo III 8. Piazza della Loggia Trentanni fa c’era molta incomprensione per
quanto stava accadendo in Italia con gli attentati terroristici. Pochi giorni
dopo la strage di Piazza della Loggia osservavo quanto fossero inadeguate le
interpretazioni fornite delle massime autorità della politica e della cultura.
Il presidente della repubblica Giovanni Leone dichiarò che il fascismo,
ritenuto responsabile dell’eccidio, era morto per sempre il 25 aprile 1945 e
che di esso non sopravvivevano che squallide minoranze. Per eliminare le quali,
aggiungevano altri, si trattava soltanto di rendere più efficienti polizia e magistratura.
C’era anche, però, chi sosteneva la necessità di adeguare la legislazione al
dilagare del terrorismo - il cui senso veniva peraltro lasciato nel buio -,
ripristinando magari la pena di morte. Il giorno dopo la strage di Piazza della
Loggia Alberto Moravia scriveva sul Corriere della Sera che gli esponenti del
fascismo erano soltanto dei razionalizzatori per lo più inconsci e quasi sempre
imbecilli delle proprie private tare. Nel suo insieme, questo modo di prendere
posizione rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben altro
dietro le squallide minoranze o gli imbecilli che razionalizzavano le proprie
tare private. C’era il problema dell’avanzata del Partito comunista italiano,
che con i consensi elettorali ottenuti stava andando verso la conquista
democratica del governo - e, questo, all’interno di una situazione
internazionale dove la sfera di influenza degli Stati Uniti, alla quale
l’Italia apparteneva, non avrebbe mai consentito che al governo, in Italia, ci
andassero i comunisti. Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America,
Kissinger non solo minacciò il ritiro delle truppe americane dal nostro
continente qualora gli alleati europei non si fossero allineati agli Stati
Uniti nei confronti dei Paesi produttori di petrolio; ma a chi gli parlava di
una troppo pesante ingerenza degli Usa nella nostra penisola Kissinger (è
importante ricordarlo oggi) rispose che se l’Italia fosse passata sotto la
sfera di influenza dell’Urss, il mondo democratico avrebbe poi rimproverato gli
Stati Uniti di non aver salvato l’Itaha dal comuniSmo - dal che si capisce
quanto fosse un bluff la minaccia di ritirare le truppe americane dall’Europa,
che a sua volta, e a maggior ragione, doveva essere salvata dal comuniSmo.
Negli anni Settanta ho dedicato una considerevole attenzione alle connessioni
tra terrorismo e situazione politica internazionale. Il mio libro Téchne
(Rusconi 1979, Rizzoli 2002) ne è la testimonianza. Ma solo un poco alla volta
è maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici esecrandi, che a
prima vista sembravano solo esplosioni di una ottusa brutalità, erano invece
espressioni di quella dura vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi
la sopravvivenza e i privilegi in un mondo sempre più pericoloso. Il terrorismo
che ha portato a episodi come quello di Piazza della Loggia non appartiene alla
banalità o alla semplice dimensione defl’immoralità, per uscire dalla quale
basta qualche pia intenzione delle anime belle. Un discorso analogo vale anche
oggi. Rispetto al Partito comunista italiano il fascismo italiano degli anni
Settanta è un nano. Che però ha alle spalle una forza enormemente più
gigantesca di quella del Pei: il sistema democratico-capitalistico, con gli Usa
al proprio centro. Di fronte alla possibilità di una conquista democratica del
potere da parte del comuniSmo, tale forza agisce in modo che il Pei risponda
agli attentati terroristici con azioni illegali, che avrebbero consentito il
ripristino autoritario della legalità e, con la messa al bando del Pei, l’eliminazione
del pericolo comunista. Di qui il rifiuto violento del Pei alla proposta di
reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non ha reagito illegalmente alla
provocazione fascista non è stato per amore della legalità e della democrazia,
ma perché, da un lato, ha capito che alla legalità e al carattere democratico
del proprio operato era legata la propria sopravvivenza; e dall’altro perché il
Pei era consapevole di non potere e dunque di non dovere prendere il potere in
Italia. A quel tempo, scrivevo che al governo il Pei sarebbe andato quando non
fosse più stato un partito comunista. Tasse e amnistia L’aumento della
criminalità in Italia è, come si suol dire, un fatto. Dunque non solo in città
come Brescia - dove il tasso di immigrazione, superiore alla media nazionale, è
uno dei fattori di tale aumento. Non l’unico. Come l’atteggiamento caritativo
della Chiesa nei confronti degli immigrati non è l’unico dei fattori da tener
presenti nella discussione di questo problema. Non l’unico; e tuttavia molto importante.
Dico questo, per l’analogia, apparentemente paradossale, che sussiste tra il
problema delle tasse degli Italiani e il problema dell’amnistia nei confronti
di migliaia di detenuti delle nostre carceri - un’amnistia voluta dal
centro-sinistra del secondo governo Prodi e, direi, soprattutto e fortemente
dalle forze cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle decise
sollecitazioni della Chiesa cattolica in quella direzione. Ed ecco quanto
intendo rilevare. È molto probabile che, come a suo tempo aveva rilevato
l’onorevole Visco, il clima determinato dal precedente governo di centro-destra
in tema di tassazione avesse favorito e incrementato la propensione degli
Italiani all’evasione fiscale. Quando l’autorità sembra andare incontro alle
nostre inclinazioni individuali, quest’ultime tendono infatti a rafforzarsi e a
espandersi. La televisione è ormai considerata un’autorità, e accade appunto
che comportamenti televisivamente tollerati, o lasciati scorrere con indulgenza
sul piccolo schermo, aumentino la propensione della gente a imitarli. Ma è
anche difficile, a questo punto, evitare l’analogia tra il problema fiscale e
l’amnistia carceraria che ha rimesso in strada anche persone il cui primo
pensiero è stato di riprendere l’attività interrotta dalla reclusione.
L’amnistia non aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche immigrati
extracomunitari. Difficile, allora, evitare il seguente ragionamento. Come è
molto probabile che il clima prodotto dalla politica fiscale dei governi di
centro-destra abbia favorito l’incremento dell’evasione fiscale, così è molto
probabile che il clima determinato dall’amnistia carceraria abbia prodotto un
clima che ha portato la gente a credere che l’autorità guardasse con una certa
indulgenza l’evasione dal diritto civile e penale, un clima che quindi ha in
qualche modo favorito ed esteso la propensione per quella diversa forma di
delinquenza che consiste negli omicidi e nelle rapine. Inevitabile che chi ha
subito questa forma di suggestione, determinata dall’amnistia, siano stati
soprattutto gli immigrati e in particolare gli extracomunitari che, proprio
perché tali, entrano nel Paese da cui sono accolti senza avvertire - come
invece possono farlo coloro che in quel Paese son nati - la presenza e il
carattere bene o male vincolante delle leggi in esso in vigore. Nel caso
dell’amnistia la suggestione è stata ancora maggiore, perché il provvedimento
era stato proposto non solo dalle forze politiche al governo, ma anche da
quell’autorità della Chiesa, che nel mondo può certo vantare un’autorità
maggiore delle forze politiche italiane. L’amnistia ha creato un’immagine
pubblica del legame tra legalità e carità, che ha allentato il timore di
trasgredire la legge. Pensando a questo e ad altri ordini di problemi avevo
detto alla svelta, in un’intervista rilasciata al Corriere, che mi risultavano
incomprensibili certi atteggiamenti caritativi della Chiesa bresciana. Si
parlava dei delitti commessi a Brescia. Ma il mio discorso era rivolto
primariamente alla Chiesa in generale, che tenta di seguire come può l’invito,
rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare ai poveri tutte le proprie ricchezze.
Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai popoli ricchi di dare tutte le loro
ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può seguire la sublime follia di Gesù.
Non può permettersi di sembrare sublimemente folle. Tenta come può di seguire
Gesù: con le forme tradizionali della carità. Le quali, per un verso, lasciano
che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si riversano, quando possono,
alfinterno dei rapporti civili presenti nei singoli Stati e diventano opere
assistenziali di vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è
stata appunto l’amnistia in Italia. Che certamente non è l’unica responsabile
dell’aumento della criminalità nel nostro Paese, ma che, altrettanto
certamente, responsabile è. Lo sport è importante. Perché - forse soprattutto -
non è innocente. Tanto più importante quanto più simula le forme della lotta e
del combattimento. La gente trova in esso quello sfogo delle proprie
frustrazioni, che altrimenti indirizzato le procurerebbe gravi sanzioni civili
e penali. Ma bisogna che la squadra in cui ci si identifica vinca e che la
vittoria non sia ostacolata. Altrimenti lo sfogo straripa, diventa
incontrollabile. Nelle società povere Finsoddifazione finisce col trasformarsi
in massacro. Ma oggi anche quelle ricche hanno motivi per essere insoddisfatte.
Si percepisce che il mondo dei valori tradizionali va franando. È la notizia
che fa da sfondo a ogni altra. Ed è ormai un luogo comune rilevare che i mass
media, diffondendola e moltiplicandola, la trasformano nel modello da imitare.
Poiché la frana della tradizione è violenza, che acquista mille volti,
l’imitazione del modello violento diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa
e moltiplicata. I violenti si sentono pertanto ripagati di molte delle loro
frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione che si esiste solo se si è
in televisione. C’è sempre stato qualcosa di analogo. La violenza è una forma
di potenza (o addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è
pubblicamente riconosciuta. Non esiste un sovrano o un dio la cui potenza non
sia stata o non sia pubblicamente riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie
frustrazioni se non ci si sente in qualche modo potenti o violenti e se quindi
non ci si rende il più possibile visibili. I mezzi di comunicazione di massa
del nostro tempo sono la forma più potente di riconoscimento pubblico e quindi
di produzione della potenza e della violenza. Alla messa in scena del
progressivo disfacimento dei valori morali, civili, religiosi, estetici delle
società avanzate si unisce la messa in scena del disfacimento di ogni regola di
convivenza tra gli Stati. Hobbes rilevava che 10 Stato nasce per uscire dal
belluino stato di natura (homo homini lupus), ma gli Stati hanno continuato a
essere lupi gli uni per gli altri. Questo è l’esempio che gli Stati danno agli
individui! Gli Stati, che pure dovrebbero rappresentare la ragione e la civiltà
contro l’istinto e l’egoismo individuale! E anche di questa belluinità degli
Stati i mezzi di comunicazione di massa danno continua notizia alla gente,
dando la maggiore visibilità e quindi il maggior respiro alla violenza. In
Italia è tempo di pensare alla riforma del diritto. Ripeto che come la politica
finanziaria della destra incrementa l’evasione fiscale, così gli indulti e le
amnistie della sinistra incrementano la violenza del crimine. Ma la gran
ventura, che riguarda l’intero pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi
della civiltà dell’Occidente) non è necessariamente negativa, è 11 guado che
dai valori del passato conduce al futuro. Ravaioli: La crescita produttiva
continua a essere l’obbiettivo più tenacemente auspicato e perseguito da
economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da
tutti invocato anche nel discorrere più feriale, che so, al bar, in treno, al
mercato; dato come una indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di
fede... A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei chiederle che ne pensa: è
d’altronde un avvio perfettamente calzante col discorso che ci proponiamo.
Severino (S.) Questo continuo parlare della crescita come di cosa ovvia è in
buona parte dovuto all’ignoranza. Sono decenni che si va intravedendo
l’equazione tra crescita economica e distruzione della terra. Comunque, è
tutt’altro checondivisibile l’auspicio di una crescita indefinita. R.
Professore, sta dicendo che l’economia è una scienza consapevole delle
conseguenze negative della crescita? S. Ha incominciato a diventarne
consapevole: l’auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi. Anche
nel mondo dell’intrapresa capitalistica - la forma ormai pressocché planetaria
di produzione della ricchezza - ci si va rendendo conto del pericolo di una
crescita illimitata (anche se poi si fa ben poco per controllarla). R. Non si
direbbe proprio... S. Sì invece. Vent’anni fa, quando Lei scrisse quel suo bel
libro che interpellava numerosi economisti a proposito del problema
dell’ambiente, la maggior parte degli intervistati affermava che quello del
rapporto tra produzione economica ed ecologia era un falso problema. Oggi non
pochi economisti sono molto più cauti... e anche le dichiarazioni dei politici
sono diverse da venti o trent’anni. R. In pratica però non fanno che invocare
crescita, senza nemmeno nominarne i rischi... S. Be’, in periodo di crisi
economica, di fronte al pericolo immediato di una recessione, è naturale che si
insista sulla necessità della crescita... Purtroppo però lo si fa riducendo il
problema alle sue dimensioni tattiche, ignorandone la dimensione strategica. R.
E intanto si verificano sempre più tremendi disastri, che inconfondibilmente
denunciano la pericolosità della crescita... Dal Golfo del Messico a
Fukushima... per citarne solo un paio dei più gravi e che hanno avuto massima
risonanza. S. Certo. Ma, facendo un passo avanti, vorrei precisare che prendere
atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono
dovuti alla tecnica in quanto tale, ma alla gestione economico-politica della
tecnica... Non sono disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione
ideologica della scienza e della tecnica... Sono disfatte, cioè, del
capitalismo (fermo restando che l’economia pianificata di tipo sovietico era
ancora più dannosa per l’ambiente). R. La mia impressione però è che quanti
insistono a invocare crescita continuino a ignorare che tutto quanto vediamo,
tocchiamo, usiamo, è fatto di natura; e che dunque disponiamo di materia prima
in quantità date, e non dilatabili a richiesta. Questa realtà in sostanza viene
rimossa. I grandi industriali che si confrontano a Davos, Cernobbio ecc.,
spesso neanche citano il problema... Automobili, barche, indumenti, mobili,
computer... tutto quanto esce dalle loro fabbriche... di che cosa credono che
siano fatti? S. Ma è un atteggiamento normale dell’uomo quello di preoccuparsi
soprattutto dei problemi immediati, lasciando sullo sfondo quelli che non
sembrano urgenti, ma che spesso sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua
la prima preoccupazione è tappare la falla... Poi si pensa al luogo dove
approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non pensano mai a
trovare il porto, e quindi, nel complesso diventa inutile tappare le falle...
Si verificano allora tutti i comportamenti che lei giustamente rileva. R.
Scusi, non vorrei aver capito male... La sua è una giustificazione di questi
comportamenti da parte di chi, poco o tanto, è responsabile dell’economia
mondiale? S. No. Dicevo che è, purtroppo, costume umano non aver occhi che per
i problemi immediati, ignorando quelli fondamentali - che magari gli stanno
sotto il naso... È però una mancanza di consapevolezza che ha incominciato a
incrinarsi anche prima di cataclismi come Fukushima. Sebbene ancora non se ne
vedano conseguenze nelle scelte politiche... R. Ma il problema esiste da
decenni... Il deperimento dell’equilibrio ecologico è stato clamorosamente
denunciato dagli anni Cinquanta, ma nelle scelte politiche è stato
completamente ignorato. S. Ecco, forse su quel completamente si può non essere
d’accordo... Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al Gore: nel suo primo
discorso da presidente ha parlato agli Americani della necessità e convenienza
di una crescita economica sostenibile... Una dichiarazione di intenti che in
qualche modo anche Obama ha fatto propria. R. Però nessuno di quelli che
contano sembra rendersi conto che la crescita produttiva attualmente perseguita
- che è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di fatto
col sistema capitalistico. Anche celebri economisti (vedi Stiglitz, Krugman,
Fitoussi... per citarne qualcuno) riconoscono la gravità della situazione
ambientale, ma non accennano nemmeno a soluzioni che mettano in discussione il
capitalismo. S. Sono pienamente d’accordo con lei: è proprio questa la
situazione... Ma occorre anche dire che oggi, in un mondo conflittuale, dove
nessuno intende rinunciare al potere, una politica economica meno
produttivistica significherebbe mettersi dalla parte dei perdenti, indebolirsi
anche sul piano militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina...
Nella situazione attuale, rinunciare alla crescita, cioè alla potenza
economica, significa essere sopraffatti... E sembra difficile anche rinunciare
alla base economica richiesta dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a
differenza di quanto spesso si continua a credere, la potenza nucleare appare
decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un problema enorme, che si
tende a non affrontare nemmeno là dove si è consapevoli che la crescita incontrollata...
distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato per la soluzione di tale
problema dovranno accadere disastri giganteschi... con qualche milione di
morti... Ma prima si tirerà la corda finché sarà possibile. R. Certo. Tutto
questo che lei dice corrisponde a una lettura intelligente e del tutto esatta
della realtà. Mi domando però fino a quando questa realtà potrà reggere, di
fronte a una natura devastata - in misura già oggi forse irrecuperabile - da un
agire economico fondato su una crescita produttiva che non prevede limiti. S. È
da guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare cinico - l’intellettuale
che dice alle grandi potenze mondiali: Dovreste mettervi in discussione. Le
grandi potenze non cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono
qualcosa che va contro i loro interessi... Ce la vede lei una Cina che rinuncia
a una politica economica vincente, e al proprio tète- à-tète attuale con Stati
Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai
anche in Europa la vita va avanti alimentata dalle centrali nucleari. E
continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non basta quello che
sta succedendo: solo un disastro di proporzioni senza precedenti, dicevo,
potrebbe convincere l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo
radicale... R. Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla storia? S. In
base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c’è
un’altra inevitabilità, ancora più perentoria: quella del tramonto del
capitalismo. Diciamolo in quattro parole. Un’azione è definita dal proprio
scopo. Anche l’agire capitalistico è quindi definito dal suo scopo, cioè
dall’incremento indefinito del profitto privato. Quando il capitalismo, di
fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non
più l’incremento del profitto ma la salvaguardia della terra, allora non sarà
più capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando avanti così,
cioè volendo avere come scopo il profitto, distrugge la terra, la propria base
naturale, e quindi sé stesso, oppure assume come scopo la salvaguardia della
terra, e allora anche in questo caso distrugge egualmente sé stesso. In questo
senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.
R. Lei è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre
- quel poco che ne rimane - sembrano aver definitivamente rinunciato all’idea
di superare il capitalismo. Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di
ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli spetterebbe, perché in
fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso ecologico sono soprattutto le
classi più povere... Ma no, anche le sinistre sono allineate sull’invocazione
della crescita, di fatto preoccupate esclusivamente di occupazione e salari:
ciò che certo è comprensibile, anzi necessario, ma che forse potrebbe non
limitarsi (come per lo più sostanzialmente accade) a occuparsi di singole
situazioni di crisi e magari tentare di spingere lo sguardo un po’ più lontano:
dopotutto la globalizzazione è un fatto, che riguarda tutti e - anche se non ce
ne accorgiamo - tutti per mille modi ci determina... S. Quando parlo di declino
del capitalismo, parlo infatti di qualcosa che presuppone anche il declino del
marxismo, delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è che la
sinistra sia in una posizione avvantaggiata rispetto al capitalismo... Ma il
discorso va completato. Sia il capitalismo sia il marxismo e le sinistre
mondiali - ma anche i totalitarismi e le teocrazie, e la democrazia, e anche le
religioni e ogni visione del mondo e ideologia... - si sono illusi e si
illudono tutt’ora di servirsi della tecnica. Ma che cosa vuol dire questo? Che
la tecnica è il mezzo con cui tutte quelle forze intendono realizzare i propri
scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure l’incremento del
profitto privato, oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la sinistra è
cioè sullo stesso piano del capitalismo per quanto riguarda il rapporto con la
forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che
il socialismo è quel reggimento politico in cui gli individui sono in grado di
controllare la macchina tecnologico-statale-militare- burocratico-finanziaria
ecc.. L’individuo - come il capitalista - si illude di poter controllare
l’apparato tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione... R. Una
prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i possibili. S. Invece andiamo
verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della
sopravvivenza dell’uomo - ed essendo la condizione perché la terra possa esser
salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione - è
destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata;
e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente
tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi ideologici, per quanto
grandi e importanti siano per chi li persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata
a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra
mondiale, democrazia, religione, e ogni ideologia e visione del mondo, ogni
movimento e processo sociale diventano qualcosa di subordinato, diventano essi
un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è
insieme l’incremento indefinito di tale potenza... Perciò spesso dico che la
politica vincente, la grande politica, sarà delle forze che capiranno che non
ci si può più servire della tecnica... La grande politica è la crisi della
politica che vuole servirsi della tecnica. Andiamo in una direzione dove,
dunque, anche le sinistre - e il capitalismo, e tutte quelle forze in campo che
ho menzionato - saranno costrette a rinunciare ai propri scopi e diventeranno
esse i mezzi di cui la tecnica si serve. Non si tratta di un processo di
deumanizzazione, o alienazione, come invece spesso si ripete, dove l’uomo
diventerebbe uno schiavo della tecnica; perché in tutta la cultura - anche in
quella che alimenta ogni più convinto umanesimo - l’uomo è sempre stato inteso
come essere tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma neanche
remoto. Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà destinata a rendere conto
della sua primazia, ma non dovrà renderlo alle forze che ancora si servono di
essa ma che sono forme deboli di tecnica. In questo senso appunto parlo da
decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo. R. Professore, mi
permetta un’obbiezione. Già oggi la tecnica, da mezzo, sempre più sembra imporsi
come scopo... E - ne abbiamo parlato poco fa - mi pare che in questa funzione
stia dando prove quanto meno discutibili... S. No, perché come dicevo prima,
ciò che dà cattiva prova di sé è la gestione ideologica della tecnica - è il
modo, ad esempio, in cui in Giappone sono state organizzate le centrali
nucleari: e lì non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione capitalistica di
essa, che per il profitto ha sottovalutato la pericolosità di quel tipo di
centrali. (Debbo però aggiungere - ma anche qui chiudiamo subito il discorso -
che la tecnica destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o
scientisticamente intesa, ma quella che riesce a sentire la forza della voce
essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale dice che non possono
esistere limiti assoluti all’agire dell’uomo.) R. Rimane il fatto che le
tecniche, anche le più avanzate e intelligenti, le più utili persino, finiscono
per essere nei confronti dell’equilibrio ecologico naturale delle continue
aggressioni, o quanto meno delle minacce. S. Di nuovo rispondo di no, e che è
la volontà di profitto a rischiare oltre il livello di rischio denunciato nelle
previsioni tecno-scientifiche. R. Ma non è la volontà di profitto a generare, o
almeno a favorire, la creazione di tecniche? S. Sì, le ha favorite (e in
qualche caso generate), ma allo scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo
che questo scopo è destinato al tramonto. R. Resta però il fatto che molti
istituti scientifici, anche di largo prestigio, vivono in quanto finanziati da
grandi potentati economici... E questo in qualche misura significa
condizionarli... S. Certo, questa è la situazione attuale. Ma la tendenza
globale è un’altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi inevitabile
che, a un certo momento, chi condiziona si renda conto di non poter più
continuare a farlo, perché, alla fine, condizionare (e quindi subordinare e
pertanto indebolire) la tecnica per promuovere sé stessi è indebolire sé
stessi... R. Si diceva che le sinistre - a parte l’impegno per la difesa del lavoro
- non dicono, né propongono cose gran che diverse dalla destra. Il marxismo un
tempo aveva uno sguardo ben più ampio di quello che hanno le sinistre oggi...
Dopotutto non a caso l’inno dei lavoratori era l’ Internazionale... Tentare di
guardare un po’ più lontano... Cercare di allargare lo stesso discorso sul
lavoro, non potrebbe portare a una proposta alternativa? S. Questo allargamento
va imponendosi da solo. Infatti non si può separare il lavoro dalla tecnica (ma
dal capitalismo sì, come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti politiche oggi
si sente dire a proposito dei problemi più importanti: Non è questione né di
destra né di sinistra, è una questione tecnica. È un piccolo indizio del
processo dove le soluzioni tecniche prevalgono su quelle politiche e
ideologiche. R. Mi riesce difficile seguirla... la tecnica viene solitamente
vista come uno strumento usato dal capitalismo... S. Questo è lo stato attuale
che il mondo capitalistico vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il
capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che i servi si
liberassero dei padroni. La liberazione decisiva, rispetto alla quale si è
ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale. R. In definitiva
Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica. S. Sì. O meglio: è la logica
del discorso a vederla. R. Una tecnica che - insisto - porta alla devastazione
della terra... S. Se la tecnica continua a essere gestita dal capitalismo, sì.
Ma - insisto anch’io - sarà il capitalismo stesso ad accorgersi che devastando
la terra devasta sé stesso (e cambiando rotta, cioè scopo, si distruggerà
egualmente). R. È insomma l’intero sistema produttivo che di fatto agisce
contro la salvezza dell’umanità... Non crede che in tutto ciò esista qualche
responsabilità anche da parte delle sinistre? Dopotutto erano nate per
combattere il capitale, no? S. Ma il discorso che vado facendo da molto tempo
indica qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle mobilitazioni, dei
progetti, della volontà politica. Riguarda un movimento che procede per conto
proprio, guidando e animando la volontà così come, si sa, la struttura del
capitale domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva appunto
che i singoli capitalisti sono le prime vittime del capitale. Ecco, si tratta
di capire il modo in cui la tecnica prende il posto del capitale. R. Lei si
riferisce a un movimento, o una tendenza, in qualche modo, come dire...
operante e avvertibile? Oppure si tratta per ora soltanto di un’ipotesi
filosofica? S. È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo
adeguato (e dunque non soltanto ipotetico) di fare filosofia. Per essenza la
filosofìa si riferisce all’autenticamente operante e avvertibile. R. Cambiando
discorso. Lei ha dedicato un suo recente articolo, apparso sul Corriere della
Sera, al modo in cui il Nordafrica va cambiando. Non crede che forse proprio
dal Sud del mondo, non ancora interamente assimilato alle logiche e ai valori
del capitalismo, possa muovere una critica, e magari una messa in crisi della
cultura dominante? È qualcosa su cui più volte m’è capitato di riflettere. Ad
esempio quando un anno fa, in Bolivia, durante il Social Forum di Cochabamba,
un gruppo di campesinos lanciò uno slogan che diceva: Non si tratta di cambiare
il clima, bisogna cambiare il sistema; aprendo un orizzonte enormemente più
ampio di tutte le altre parole d’ordine correnti, che insistevano soprattutto
sui mutamenti climatici, e di fatto denunciando un rapporto Nord-Sud che per
mille aspetti ampiamente si attiene alle logiche del capitalismo, e le impone.
È solo un episodio, ma non crede che proprio da questi mondi potrebbero partire
spinte decisive alla messa in crisi delle logiche politiche dominanti? S. Be’,
il fatto che questi popoli vadano riproducendo il modello occidentale dimostra
che l’Occidente ha raggiunto la prospettiva più radicale: la destinazione della
tecnica al dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo l’itinerario compiuto
dall’Occidente... L’autentico cambiamento di sistema è quella destinazione. R.
Professore, certo è incapacità mia di seguirla fino in fondo... Ma più volte
m’è capitato di riflettere, e anche di scrivere, in libri dedicati appunto alle
questioni ambientali, su questo crescente prevalere della tecnica sui modi e i
ritmi della natura... Spesso citando quello straordinario libro, firmato dal
grande biologo americano Gould, che si intitola Gli alberi non crescono fino al
cielo : una critica dell’intera vicenda umana, tutta centrata su una
impossibile sfida alla natura. Nella quale peraltro sempre è evidente il senso
di colpa... E infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse... tutti sempre
vengono puniti... La tecnica, nella mitologia, è colpa... E lo è la scienza in
assoluto, si direbbe, se si pensa ad Adamo ed Èva, cacciati dal paradiso terrestre
per aver gustato il frutto dell’albero del sapere. S. Onorevole, non solo Lei
segue benissimo, ma continua a proporre spunti estremamente interessanti.
Quando parlo in termini positivi della tecnica, ne parlo nel senso che essa va
ritenuta la forma più rigorosa della più radicale follia in cui l’uomo è
caduto. Non intendo affatto fare l’apologià della tecnica ma intendo dire che
l’errore, la follia, vanno progressivamente facendosi più rigorosi e
coerenti... Pensi al discorso di Freud, che la religione è quella follia -
grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le forme di follia
dell’individuo... Nella tecnica l’errore è destinato a diventare massimamente
rigoroso. L’errore nasce con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper
dire perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti né le altre forme della
sapienza umana. È vano combattere e incolpare Prometeo, che ha dato tutte le
tecniche ai mortali, con strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il
capitalismo, il marxismo, il cristianesimo, l’islam, il totalitarismo, la
democrazia ecc. sono forme deboli di tecnica. Ma con ciò non intendo dire che
la tecnica sia la verità. No. È la forma più radicale dell’errore. Che però
sembra la forza più potente. R. Una volta ancora non posso non apprezzare il
suo pensiero... Non riesco però a non domandarmi se non ci sia nulla da fare, o
per accelerare questo processo portandolo a una soluzione, o in qualche misura
per mitigarne la distruttività. Sono tante ormai le persone che si preoccupano
per il futuro di un mondo per mille versi sempre più problematico e
rischioso... Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati... A
tutti costoro che cosa si sentirebbe di consigliare? S. La ringrazio. Per ora
siamo gettati nell’errore; ma proprio per questo c’è molto da fare. C’è da
favorire il processo che porta l’errore a maturazione. Ecco perché parlavo
prima della grande politica. Per praticarla è necessario incominciare a
guardare in faccia il senso essenziale della storia dell’Occidente, il senso
cioè della volontà di potenza: il senso del fare. Intervista fattami da Carla
Ravaioli e pubblicata sul manifesto nel luglio 2011. Al capitolo V 12. Non
veritas, sed auctoritas facit legem- Per considerare il rapporto tra processo e
tecnica si può certo rimanere alFinterno della specializzazione giuridica. Ma -
chiediamoci - è ancora specializzazione Patteggiamento che non riflette sul
senso della specializzazione? Si vive in una nave - la si vive come nave -
quando non si sa che cosa sia una nave? Certamente no. E d’altra parte,
riflettendo sul senso della specializzazione si è ancora alFinterno di essa?
(Si profila così un’antinomia, che può essere il sintomo del carattere
contraddittorio della specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo
aspetto, peraltro fondamentale, del discorso. La tecnica riguarda il processo
in relazione, innanzitutto, ai limiti entro i quali le competenze
tecnico-scientifiche devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il
compimento delle procedure giudiziarie. In questo caso, le competenze tecniche
(mediche, psicologico-psichiatriche, chimico-fisiche, urbanistiche ecc.)
servono da strumento - da mezzo - per quello scopo che è la conduzione e il
compimento del processo. A sua volta, il processo stesso, come fatto giuridico,
è scomponibile in un momento tecnico-strumentale e in un momento che è lo scopo
di tale strumentazione. Momento tecnico-strumentale è, ad esempio, la
formazione dei magistrati, e in genere, dell’organico, e il modo in cui sono
formalizzate le regole in base a cui il processo si svolge; lo scopo è la
verifica dell’applicazione della legge in rapporto ai casi intorno a cui verte
il processo. Ma, daccapo, lo scopo di una società non è quello di verificare se
la legge sia applicata: lo scopo è che la legge viga. Affinché viga è
necessario verificare se ciò avvenga. E questo significa che la verifica
giuridica si dispone a sua volta come strumento, come mezzo per la
realizzazione di quello scopo che è il regno della legge nella società. Questo
rinvio, il triplice rinvio qui sopra sommariamente indicato, dove lo scopo si
dispone come strumento di uno scopo superiore, ha un prolungamento decisivo,
che riguarda il concetto stesso di legge, sottoposto a una profonda
trasformazione, dove l’atteggiamento giusnaturalistico, proprio della
tradizione occidentale, viene spinto al tramonto dall’atteggiamento giuridico
che è proprio del diritto positivo. E, anche qui, si tratterà di comprendere
l’ultima sezione di questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è
a sua volta destinato a diventare, da scopo della verifica giudiziaria, mezzo,
cioè strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui dominio il pianeta sta
procedendo. A partire dal pensiero greco, e lungo la tradizione occidentale, in
cui il giusnaturalismo si inscrive, non auctoritas, sed veritasfacit legem. La
verità è il fondamento, il principio ispiratore della legge. Lo ius è dato
dalla natura delle cose; e la verità è il luogo in cui tale natura mostra il
proprio volto autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i millenni del
mito, un senso inaudito della Verità: la Verità come sapere incontrovertibile
che mostra, manifesta (e pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia
smuovere, un contenuto che sta e appunto per questo è chiamato epistéme (
epi-stéme ). La Verità mostra l’ordine immutabile al quale lo Stato (e il
singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua alle leggi che si fondano sulla
Verità che il sapere filosofico ha portato alla luce e alla quale si commisura
la stessa rivelazione cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo
Stato (e l’individuo) è misurato dalla sua adeguazione alla verità, in quanto
principio ispiratore della legge. Il valore della legge non è dato dalla pura
forza, ossia da un auctoritas che sia pura forza, ma dalla sua dipendenza dalla
verità. Ma dopo questa grande epoca della civiltà occidentale, dove verità e
legge formano una unità indissolubile, si fa innanzi con sempre maggior forza
il principio opposto, per la prima volta enunciato da Hobbes: non veritas, sed
auctoritas facit legem. È il principio del diritto positivo, che acquista il
proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal contesto in cui
viene formulato nella filosofìa di Hobbes - in una filosofia cioè dove, nonostante
tutto, resta ancora fermo il senso di fondo che il pensiero greco ha conferito
alla verità. La transizione dal giusnaturalismo al prevalere del diritto
positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio emergente del grandioso
processo storico-critico, in cui la tradizione dell’Occidente viene abbandonata
dal pensiero, e pertanto dall’agire umano, e soprattutto e fondamentalmente dal
pensiero filosofico degli ultimi due secoli. Poiché il diritto positivo non si
fonda su alcuna Verità assoluta, ed è positivo perché pone ciò che la volontà
sociale dominante (del sovrano, dell’eletto rato, di una oligarchia economico-
politica) vuole di volta in volta come legge, il processo giudiziario che si
sviluppa alfinterno di questa forma di legge è compatibile con qualsiasi tipo
di contenuto giuridico, di natura democratica o no. D’altra parte, la
transizione al positivismo giuridico è analoga a quella che conduce dalle varie
forme di totalitarismo alla democrazia del nostro tempo, che definisce sé stessa
come semplice procedura, che di per sé non propone o impone alcuna Verità
assoluta ai cittadini ed è pertanto compatibile con qualsiasi contenuto
sollevato al rango di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa
radicalmente fondata - e inevitabile, all’interno della storia dell’Occidente -
l’affermazione che non veritas, sed auctoritas facit legem. Il fenomeno,
grandioso, di cui la transizione al positivismo giuridico e alla democrazia
sono aspetti particolari - e molti altri potrebbero essere menzionati - conduce
al di là delle forme essenziali della tradizione occidentale. È il fenomeno che
Nietzsche ha chiamato morte di Dio - sì che il passaggio dal giusnaturalismo al
positivismo giuridico è la morte di Dio in ambito giuridico -, è la morte della
forma assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel fenomeno è
grandioso, non solo per le sue proporzioni, cioè per il suo aver investito ogni
aspetto del pensiero e dell’agire tradizionali, ma anche perché si presenta
secondo una inevitabilità (cfr. sezione prima, cap. V), per la quale tale
fenomeno non è semplicemente un cambiamento di opinioni da parte della società
e dei suoi membri. Solo cogliendo il senso di questa inevitabilità si può
comprendere che oggi l’uomo non può più cercare la propria salvezza volgendosi
verso la grande tradizione dell’Occidente - e dunque verso il modo in cui
all’interno di essa viene realizzato e praticato il diritto. Certo,
l’inevitabilità di cui stiamo parlando è l’inevitabilità del tragico; ma non le
si possono voltare le spalle per il semplice fatto che non va incontro a certe
nostre aspirazioni. L’espressione dietrologia è screditata. Ma può essere un
sinonimo del concetto scientifico d’ipotesi: l’ipotesi esplora ciò che sta al
di sotto di quanto si manifesta comunemente o immediatamente. Al di là del
senso screditato della dietrologia, l’ipotesi scientifica ha cioè un carattere
essenzialmente dietrologico. Nemmeno quel tipo di disciplina scientifica che è
il diritto può evitare di formulare ipotesi, ossia di andare al di là di ciò
che comunemente appare e che viene chiamato il fatto. Gli estimatori del fatto
- anche tra i non giuristi - collocano spesso l’attività giuridica in un ambito
improprio; cioè la considerano come la dimensione all’interno della quale il
fatto riceverebbe uno dei più validi e autentici riconoscimenti della sua
importanza e del suo carattere decisivo. Tuttavia è nota la tesi di Popper, per
la quale la struttura del processo giudiziario è il modello dell’attività
scientifica. Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi di
Nietzsche, che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Ma tale corollario
significa che alla base della scienza non esistono fatti, ma interpretazioni, e
che tale circostanza rispecchia la struttura del processo giudiziario, sì che
quest’ultimo - lungi dal presentarsi come il luogo in cui i fatti sono posti al
di sopra di tutto, come fondamenti indiscutibili - è inteso invece come il
luogo che si fonda su interpretazioni rivedibili e falsificabili. Gli estimatori
dei fatti, che vedono nell’attività giuridica la più autentica valorizzazione
dell ’infallibilità dei fatti, non si rendono conto che la scienza riconosce
ormai senza complessi la propria fallibilità e che quando intende chiarirne il
senso si riferisce proprio e precisamente all’analogia che sussiste tra
procedura scientifica e procedura giudiziaria. L’analogia può essere così
espressa: il sistema delle leggi scientifiche viene commisurato a un insieme di
elementi che non sono fatti, ma interpretazioni di fatti; cioè risultati di
decisioni che un gruppo qualificato di individui stabilisce di assumere come
base (o come fatti) del sapere scientifico, in modo analogo alla commisurazione
per la quale nel processo giuridico il sistema delle leggi viene applicato non
a fatti incontrovertibilmente accertati veri, ma alla decisione di un gruppo
qualificato di assumere un insieme di eventi come qualcosa di effettivamente
accaduto. Il veramente accaduto è inesistente. Esiste veramente la decisione di
assumere qualcosa come il veramente accaduto. Anche per questo motivo la storia
di un popolo non può essere ricostruita in sede giudiziaria, appurando i fatti.
Comunque, anche questa crisi della verità del fatto appartiene al processo, a
cui prima ci si è rivolti, che conduce al tramonto inevitabile della tradizione
e della tradizione giuridico-politica dell’Occidente, la tradizione dove il
giudice è colui che mostra con autorità la Verità - giudice essendo parola
composta da ius e dalla forma congetturale dix, riconducibile alla radice
indoeuropea deic, che indica appunto il mostrare; sì che l’autorità del giudice
gli deriva dal suo rapporto con la verità. È aH’interno della transizione
inevitabile di cui stiamo parlando - cioè dalla vita alla morte della Verità e
di Dio - che assume un significato particolarmente rilevante anche il tema
della corruzione della società italiana e del conseguente conflitto tra
magistratura e potere politico. In base a una logica diversa da quella che
intende appurare i fatti, cioè in base alla logica dell’interpretazione, è
possibile affermare che nella seconda metà del xx secolo è stata combattuta una
lotta mortale tra capitalismo e socialismo reale, una lotta senza esclusione di
colpi. Una situazione, questa, che, ovviamente, ha costretto ognuno dei due
antagonisti a tenere nascosto all’altro l’organizzazione delle proprie forme di
offesa e di difesa. Anche le società democratiche, dunque, sono state
costrette, per evitare il suicidio, ad adottare questa strategia. Le democrazie
parlamentari sono state cioè costrette ad agire in modo non democratico,
giacché democrazia e trasparenza (e dunque quella trasparenza che avrebbe messo
la democrazia nelle mani dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza
democratica è il carattere pubblico delle decisioni essenziali di una società;
e la democrazia, per sopravvivere, non poteva rendere trasparenti i propri
piani di difesa e di offesa contro il socialismo reale. Ma questo clima di non
trasparenza, di occultamento e di privatizzazione delle decisioni essenziali
delle società democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire la
corruzione. L’illegalità di alto profilo politico, cioè la necessità che per
sopravvivere la democrazia agisse in modo non democratico, ha prodotto l’illegalità
di basso profilo, cioè la corruzione per ottenere vantaggi privati, che ha
accompagnato gli anni della guerra fredda (che si è prolungata sino ai nostri
giorni e anche in futuro alimenterà il conflitto tra politica e magistratura)
soprattutto in Paesi come l’Italia, più esposti al pericolo comunista sia per
la loro posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti politici che
in tali Paesi erano guidati dall’Unione Sovietica. La fine di quel gigantesco
fenomeno che è stato il socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene
al tramonto della tradizione occidentale - non ha lasciato il vuoto: sul
terreno ha lasciato un gigantesco cadavere, con il quale ancora a lungo si
dovranno fare i conti. Lo dicevo già, più di una quindicina d’anni fa, ben
prima cioè che esplodessero i disordini nelle ex repubbliche dell’Urss.
(Infinitamente più complessi di quelli, pur consistenti, che si devono fare
quando un capofamiglia autoritario se ne va all’altro mondo.) Durante e dopo la
guerra fredda c’è stato qualcuno che, pur di combattere il comuniSmo, ha agito
illegalmente; e qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio personale da
azioni illegali, ha combattuto il comuniSmo. È stata cioè di alto profilo
politico l’illegalità che la democrazia è stata costretta a praticare per
combattere il comuniSmo e per la quale la democrazia si è avvantaggiata, ad
esempio, dell’aiuto di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più
sicuro, dal punto di vista anticomunista, il sistema mafioso che non i partiti
della sinistra italiana.) Anche la corruzione italiana (ma il discorso può
essere esteso ad altri Paesi dell’Occidente democratico) è dunque una
conseguenza della morte inevitabile della verità, del diritto naturale, di Dio.
Da un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto consapevolmente
in contraddizione con sé stesso; dall’altro lato, ha sopportato l’immoralità
privata come tributo da pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed
entrambi questi due lati si costituiscono perché, a differenza degli Stati
totalitari, o etici, del fascismo, del nazionalsocialismo, del socialismo reale
(che sono una versione secolarizzata e distorta del divino), la democrazia non
crede più nell’esistenza di una Verità che regoli la vita sociale e individuale
e che non possa essere in alcun modo violata. Come il giusnaturalismo sta al
positivismo giuridico, così lo Stato totalitario, persuaso di possedere la
Verità e di dover adeguare a essa la società, sta alla democrazia che si lascia
la Verità alle spalle e si propone come procedura di per sé indifferente alla
verità o falsità dei contenuti. Lo stato di cose che ho or ora indicato - e che
a sua volta si presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà luogo a un
dilemma.Da un lato il sistema vincente è stato la democrazia, o, meglio, il
capitalismo, in quanto unito alla democrazia parlamentare. Esso ha vinto il
nemico mortale. È una forza che non può quindi rassegnarsi a essere sottoposta
al controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un controllo che non può tener
conto, in quanto giuridico, della situazione storica eccezionale in cui il
capitalismo democratico è venuto a trovarsi. È presumibile che, se questo
controllo fosse condotto fino in fondo, il capitalismo italiano (e non solo)
vedrebbe minacciata la propria sopravvivenza. Quando, dopo la seconda guerra
mondiale, il fascismo è caduto, Togliatti ha evitato che la burocrazia fascista
- che in quanto funzionale allo Stato fascista aveva agito in condizioni di
illegalità - fosse incriminata e giuridicamente perseguita. E si trattava di
incriminare chi aveva perso; non, come invece è il caso della democrazia
capitalistica, chi ha vinto lo scontro mortale e ritiene un’ingiustizia essere
punito per un’illegalità funzionale alla vittoria. Come incriminare certi nodi
cruciali dell’assetto capitalistico vincente, operando con criteri giuridici
che si fondano sul principio fiat iustitia et pereat mundusì Ma, dall’altro
lato, non può essere dimenticata la situazione drammatica del giudice
consapevole della propria funzione, perché a sua volta egli è e si sente
obbligato a procedere contro tutto ciò che gli appare come illegale. Sembra che
sino a che in Italia non si farà luce su questo dilemma e non si prenderanno le
decisioni richieste per operare una chiara distinzione tra illegalità di alto
profilo politico e illegalità di basso profilo, si perderà anche di vista che
lo scontro attuale tra politica e magistratura è l’epifenomeno di una frattura
ben più profonda - che tuttavia non è qualcosa di statico, ma è in evoluzione,
come ora proverò a precisare, ossia si trova anch’esso su un piano inclinato
che porta al tramonto tutto quanto si muove lungo di esso. S. inizia queste
riflessioni mostrando una sequenza dove ciò che dapprima si pone come scopo,
diventa in seguito mezzo e strumento. Si era detto che nella tradizione
occidentale (ma ormai ogni altra sapienza appartiene alla preistoria
dell’Occidente) il regno della legge, fondato sulla Verità, è lo scopo della
vita sociale e individuale. Ma la Verità tramonta. Restano, tra l’altro, una
politica e un diritto che sono entrambi positivi. Ogni sapere e ogni azione
ormai sono positivi - o è in quanto positivi che essi guidano la storia del
mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire tradizionale tentano ancora di
adeguare alla verità. Ogni grande forza oggi ancora in vita (sia essa una forza
della tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto addio) ha
questo tratto comune: di servirsi della tecnica. Ognuna intende servirsi della
tecnica, che è lo strumento più potente oggi esistente. Anche la dimensione
politica e la dimensione giuridica intendono servirsi della tecnica. Ma la
tecnica guidata dalla scienza moderna è destinata a diventare, essa, lo scopo
di tutte queste forze. Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la
conflittualità che contrappone le une alle altre: dopo il socialismo reale, il
capitalismo, la democrazia, il cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le
diverse forme di umanesimo laico, e la stessa ideologia
scientistico-tecnicistica (che non è più capace delle altre forze di cogliere
l’essenza autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un principio di
cui spesso ci si dimentica, e cioè che lo scopo di un’azione determina e
stabilisce il senso e la configurazione di essa; sì che essa diventa qualcosa
di diverso da ciò che essa era, se viene ad assumere uno scopo diverso da
quello che inizialmente la definiva e stabiliva. Un diritto, o una democrazia,
che si pongono come scopo della tecnica sono qualcosa di essenzialmente diverso
da un diritto, o da una democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si
costituiscono come mezzi per la realizzazione di tale scopo. Una situazione
conflittuale, come quella che sussiste tra le forze di cui stiamo parlando,
richiede che ognuna di esse miri non solo al potenziamento crescente dello
strumento - la tecnica - di cui si serve per imporre i propri scopi su quelli
antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento ottimale di tale
strumento. Altrimenti soccombe. Ma quando ha di mira i due tratti che abbiamo
indicato, essa è già sulla strada in cui, invece di assumere come scopo i
propri valori, ha assunto come scopo la potenza dello strumento che dovrebbe
realizzarli. Anche senza avvedersene, tende a uno scopo diverso. Anche senza avvedersene,
sta diventando qualcosa di diverso da ciò che essa crede di essere. Andiamo
verso un tempo in cui non saranno più la democrazia e il diritto a servirsi
della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua configurazione autentica, a
servirsi, se ciò varrà ad accrescere la sua potenza, della democrazia e del dir
itto. I due avversari che oggi si combattono - dimensione politica e dimensione
giuridica -, e la cui lotta dà luogo al dilemma che sopra abbiamo considerato,
sono pertanto destinati a riconfigurare il loro conflitto in relazione alla
circostanza che tale conflitto tende a essere di retroguardia, cioè a non
essere più una lotta tra scopi, ma tra mezzi che hanno lo stesso scopo: il
potenziamento crescente della tecnica - di una tecnica che non è la tecnica che
intesa in senso tecnicistico, scientistico, riduttivistico, merita di essere
soltanto un mezzo, ma la tecnica riduttivistica che tende a dare sempre più
ascolto alla voce essenziale del pensiero che porta al tramonto la tradizione
dell’Occidente. Mostrando la morte di Dio e della verità tale pensiero mostra
l’assenza di ogni limite all’agire dell’uomo e soprattutto a quella forma
suprema dell’agire in cui consiste l’apparato scientifico- tecnologico: la
forma di volontà di potenza a cui va già sottomettendosi ogni altra forma di
volontà di potenza apparsa lungo la storia della terra. (Dopo di che sarà la
volontà di potenza a dover dar conto di sé - giacché le considerazioni che ho
sviluppato non intendono certo sostenere che la tecnica abbia l’ultima parola.)
Tecnica e pluralità delle tecniche 1 La gente si accorge che le leggi difendono
spesso gli interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se vogliono
sembrare giuste. Però la gente crede ancora che ne sono fatte e se ne
potrebbero fare di buone. Nelle scienze giuridiche tradizionali, buone e giuste
sono innanzitutto quelle che rispecchiano la natura dell’uomo: leggi, appunto,
del diritto naturale, per il quale la natura dell’uomo rispecchia a sua volta
l’Ordinamento vero e divino del mondo, immutabile e inviolabile, portato alla
luce dal pensiero filosofico sin dall’inizio della nostra civiltà e poi
interpretato dal cristianesimo. Da uno-due secoli questa concezione giuridica è
profondamente in crisi (sebbene non sia ancora morta). Si pensa cioè che non
esista alcun diritto naturale e che ogni legge esprima un diritto positivo,
posto, imposto dalla libera volontà dell’uomo. Anche alla radice di questa
crisi si trova la filosofia, quella che mostra l’inevitabilità della morte di
Dio e la conseguente morte di ogni natura che, in qualsiasi campo, intenda
rispecchiare l’Ordinamento vero e divino della realtà. Anche il diritto (come
la democrazia) diventa pertanto semplice procedura in cui può essere immesso
qualsiasi contenuto - quello delle democrazie parlamentari, del capitalismo,
del nazionalsocialismo, del socialismo reale, del cristianesimo, della grande e
piccola criminalità. (La procedura correttamente praticata può anche sopprimere
sé stessa.) Che una forza si imponga sulle altre non dipende dalla sua verità,
ma, appunto, dalla sua forza. Con Natalino Irti, eminente giurista di grande e
rara apertura filosofica, discuto da tempo questi problemi. Un nostro Dialogo
su diritto e tecnica è stato ad esempio pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha
pubblicato in seguito il volume Nichilismo giuridico (Laterza), sul quale tra i
temi centrali figura una consistente ripresa della discussione avviatasi tra
noi due. Gli sono grato della grande attenzione e stima che anche in queste
pagine mostra nei miei riguardi - anche se mi sembrava di aver già risposto a
quanto egli mi obbietta. D’accordo con me, sostiene che il diritto, ridotto a
procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui l’essenza tecnica del
diritto abbia già, di fatto, del tutto eliminato ogni diritto naturale e ogni
Ordinamento vero e divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il
passato sopravvive. Anche se è una foglia secca attaccata al ramo il punto è
che può persino credere di stare alla guida del mondo - si pensi alle foghe
secche che hanno determinato la vittoria di Bush alle elezioni americane. Per
questo, da parte mia, si parla di una tendenza che, certo inevitabilmente,
conduce dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto conduce alla civiltà
della tecnica -, ma che ancora deve fare i conti con la sopravvivenza di fatto
del passato. Per Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica
almeno il capitalismo e le discipline fisiche e naturali. Non allunga l’elenco
perché, credo, vede che, ad esempio, delle religioni, di certe forme dell’arte
e della cultura, del comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati del
comportamento umano non si può ancora dire che siano già tecnica. Nemmeno del
capitalismo lo si può dire, che, proprio perché intende servirsi anch’esso, in
quanto si serve, della tecnica, ne differisce. Non sono già tecnica: stanno
diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi della tecnica come
mezzo, sono infatti sempre più costrette ad assumere come scopo non più i
valori che esse perseguono, ma l’efficacia del mezzo di cui si servono per
realizzarli, la quale è pertanto destinata a diventare il loro scopo. Ma Irti,
ritenendo che tutto sia ormai tecnica, mi dice che la tecnica si scompone nella
pluralità delle tecniche, in modo che la tecnica a cui io penserei si
svuoterebbe di ogni contenuto. Egli non tiene ancora presente che quando dico
che la tecnica non mira a uno scopo specifico e escludente, ma all’incremento
indefinito della potenza, intendo che la tecnica (a differenza delle forze che
mirano a servirsi di essa) tende a far sì che gli scopi da essa realizzati non
impediscano la realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza
disponibile. Ad esempio tende a far sì che la produzione di farmaci che
arricchiscono certe industrie non impedisca la produzione di farmaci non
remunerativi ma indispensabili alla sopravvivenza di intere popolazioni; o che
le istanze ecologiche siano soddisfatte evitando la catastrofe economica; o che
le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non si limitino a
vicenda. Irti vede solo lo scontro (il cui esito sarebbe imprevedibile) tra le
forze che ormai sono già tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al
di fuori e di contro alle tecniche specifiche, come astratta capacità di produzione.
Io gli rispondo che non ho mai pensato a una tecnica siffatta e che lo scontro
fondamentale è tra le forme meno potenti della tecnica e la tecnica moderna,
cioè tra le forze del passato - fra cui il diritto naturale - che ancora
tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi (illudendosi di
dominarli), e l’inarrestabile tendenza di questi apparati a farsi strada e a
diventare essi gli scopi di quelle forze detronizzandole. La tecnica moderna è
il nostro destino perché è la forza oggi più potente, ed è la più potente
perché avverte sempre più la voce della filosofia. Tale voce dice che davanti
alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna natura da rispettare. Con ciò
non si intende negare la presenza di qualsiasi forma di limite. Infatti, la
tecnica si dà limiti che, pur non essendo espressione del diritto naturale,
sono espressione del diritto positivo. E se in un primo tempo anche il diritto
positivo può illudersi di assumere come mezzo la tecnica, nell’età della
dominazione del senso autentico della tecnica nemmeno il diritto positivo può
essere lo scopo che si serve della tecnica come mezzo, limitandone pertanto la
potenza. Anche il diritto positivo è cioè destinato a diventare un mezzo che
rende possibile il maggior incremento possibile della potenza tecnica. Il
diritto positivo, peraltro, sa di non essere una verità necessaria,
incontrovertibile; e quindi ancor meno della Verità della tradizione può avere
la pretesa di porsi come scopo del potenziamento dell’apparato scientifico-
tecnologico. In latino uccidere si dice anche mactare. Noi diciamo mattanza. In
spagnolo uccidere si dice appunto matar. Ma la parola latina mactus significa
ingrandito, rafforzato, innalzato, glorificato. Ha la stessa radice di magnus
(grande): la radice indoeuropea magh, che è presente anche nel greco mechané
(strumento). Una sorta di etimologia popolare latina sente in mactus qualcosa
come magis auctus, cioè reso ancora più grande e più ricco. Su mactus si forma
il verbo mactare, che significa appunto ingrandire, aumentare, glorificare,
innalzare, e anche onorare, placare; ed è parola specifica del linguaggio dei
riti, soprattutto di quello del sacrificio. Mactare sposta allora la propria
mira dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis, rafforzare il dio con le
viscere delle vittime del sacrifìcio), allo strumento del sacrificio, cioè alla
vittima, e significa allora anche uccidere, ammazzare: accanto a mactare deum,
compare mactare victimam. In qualche modo il linguaggio nasconde la violenza di
cui parla; tenta di rovesciarla nel proprio opposto. Ma dai recessi dove il
linguaggio costruisce le apparenze da cui sono guidati i mortali si deve
risalire ben più indietro. Le trasformazioni del mondo gettano nel terrore i
mortali. Essi sono appunto coloro che vedono le trasformazioni, cioè la morte
delle forme. Fame e sazietà, freddo e caldo, dolore e piacere, tenebra e luce,
comparire e svanire nelle costellazioni celesti, allegria e angoscia, vita e
morte; e le metamorfosi dell’uomo in animale, insetto, pianta, roccia. Non
appena il mortale si afferra a qualcosa, fuori o dentro di sé, le cose gli
diventano altro da quello che sono. L’altro in cui si trasformano è
l’imprevisto, dunque l’angosciante. Ci si difende dall’angoscia evocando come
rimedio la forza più potente e rendendosela amica: la forza del dio. Agli occhi
del popolo greco questo processo incomincia a mostrarsi nella sua intensità
estrema: cose, eventi, stati incominciano a trasformarsi in quell’assolutamente
altro che è il nulla. Al culmine della storia dell’Occidente, con la morte del
vecchio Dio, si crede che la tecnica sia la forza più potente, cioè il dio, il
rimedio efficace contro l’angoscia del divenir altro. La storia della fede nel
divenir altro è la storia della Follia più profonda. Quella in cui si ha fede
che una cosa sia il proprio altro, ossia ciò che essa non è, e infine si ha
fede che le cose - gli essenti le cose che non sono un nulla - siano nulla.
Affinché Dio ci salvi, bisogna che abbia forza. Bisogna che l’uomo la custodisca
e l’accresca. All’inizio del rafforzamento umano del Dio domina il sacrificio:
l’uomo offre al Dio sé stesso e quanto possiede. Poi il Dio è rafforzato
vedendo in lui, con la filosofia, la forza che non si lascia strappare da sé,
ed è quindi immutabile, eterna, e custode di tutte le cose che nella vicenda
terrena son divenute cose morte. Anche in questo secondo caso - e proprio con
l’intento di salvarsi dall’angoscia del divenir altro - l’uomo cede al Dio la
propria eternità e immutabilità, il proprio essere.Un Dio che uccide, dunque -
sia come Dio religioso sia come quel Dio tecnologico - che permane al di sopra
del tempo degli individui, ma rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per
sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui. Da quando Feuerbach mette in
tensione la sentenza di Moleschott: der Mensch ist, was er isst (l’uomo è ciò
che egli mangia) con Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche Dio
è ciò che egli mangia) il nesso tra ontologia e nutrimento - e tra nutrimento,
sacrificio e annientamento - non ha più nulla di implicito. (Cfr. in proposito
il saggio di Ines Testoni II Dio cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più
importanti in questa direzione e che insieme si porta al di là dell’ontologia
da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il diventare Dio esprime in forma
positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale divenire è infatti un sacrificarsi
al Dio. Hegel pensa che nella religione lo Spirito assoluto veda sé come Altro,
ceda sé stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa tesi
hegeliana pensando che è l’Uomo a cedere sé stesso al Dio. In entrambi i casi
il Dio consuma l’essere dello Spirito assoluto e dell’Uomo. E anche Hegel e
Feuerbach fondano l’alienazione dello Spirito e dell’Uomo sulla fede nel
divenir altro. Tuttavia, in gran parte delle immagini del divino lo svuotamento
dell’uomo che si aliena in Dio rispecchia lo svuotamento del Dio che crea e
salva l’uomo e il mondo. Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un
divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la salvezza dell’uomo, che sta al
centro del messaggio cristiano, sta al centro dei miti precristiani: la morte
del Dio è creatrice del mondo. Il sacrificio del mactare victimam è preceduto
dal sacrificio dove la vittima è il Dio (Prajapati, Dioniso, Cristo) che deve
morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima, all’inizio del tempo
umano, c’è la lotta tra il Dio e l’uomo, dove il Dio è il Tremendum la cui
inflessibilità non lascia vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per
vivere, deve farsi largo e abbattere la divina barriera inflessibile, ossia
deve uccidere il Dio - giacché abbattendo la barriera e facendo sempre più
arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando Dio nell’al di là e infine
negandone l’esistenza) l’uomo uccide il Dio originariamente omicida (Cfr., ad
esempio, E.S., L’intima mano, Adelphi). Particolarmente interessanti i rilievi
critici rivolti a L’anello del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco Totaro.
Qui rispondo brevemente solo ad alcune delle obbiezioni sollevate (Cfr. gli
atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004 all’università di Macerata).
Riprendendo un problema già sollevato in quel libro, Vitiello osserva che la
volontà, che nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale rivuole il già voluto,
non vuole al modo del precedente volere, e quindi ciò che ritorna non è
l’uguale, ma un che di diverso. L’interpretazione dell’eterno ritorno data in
quel libro non riuscirebbe quindi a mostrare l’inevitabilità di tale dottrina.
Ne L’anello del ritorno si rispondeva anticipatamente a questa obbiezione
dicendo che il ritorno dell’uguale non può essere il ritorno dell’assolutamente
identico, appunto perché un qualcosa differisce dal ritorno di tale qualcosa.
D’altra parte, Nietzsche fonda la necessità che tutto ritorni; e Vitiello non
prende posizione rispetto a questa fondazione, ma si limita a indicare
l’assurdo che scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia, per Nietzsche
tale necessità sussiste nel senso che è necessario che ciò che nell’eterno ritorno
ritorna assolutamente identico sia la totalità del contenuto voluto (la
totalità che dunque è finita), ma non la forma del contenuto, cioè il ritornare
di esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma, ossia
Inattività del volere cresca all’infinito. E poiché nemmeno ogni nuova
ripetizione può costituirsi come un così fu, cioè come un passato immutabile e
indipendente dalla volontà, è necessario che ogni nuova ripetizione sia essa
stessa eternamente ritornante e ripetuta, eternamente rivoluta: l’attività è
eterna, scrive Nietzsche. Il contenuto ritorna eternamente, assolutamente
identico; la forma cresce all’infinito e ogni sua nuova configurazione
incomincia a ritornare, aH’infinito, e in questo senso eternamente essa
stessa.) La critica di fondo sviluppata da Totaro nel suo confronto con
L’anello del ritorno riguarda la tesi, fondamentale anche in questo libro, che
anche per Nietzsche l’esistenza del divenire - inteso come venire dal non
essere e ritornarvi, da parte degli enti - è l’evidenza suprema, la suprema
verità. Nella sua forma più generale questa tesi dice che, nel proprio
sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico degli ultimi due secoli (e
Nietzsche è tra i pochi abitatori di tale sottosuolo) non intende essere un
semplice scetticismo, relativismo, prospettivismo, ma intende essere anch’esso
verità assolutamente incontrovertibile, ossia intende anch’esso come verità
assolutamente incontrovertibile ciò che per l’intera cultura e anzi per
l’intera civiltà dell’Occidente è la verità assolutamente e originariamente
incontrovertibile: l’esistenza, appunto, del divenire, inteso nel modo indicato
(e una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una verità
assolutamente incontrovertibile è una forma di scetticismo). Anche per
Nietzsche la rappresentazione del divenire è indubitabile. Totaro invece lo
nega, sostenendo che anche per Nietzsche ogni rappresentazione, quindi anche la
rappresentazione del divenire, è la posizione di un permanente cioè una
inevitabile fissazione del divenire, una negazione di esso, un andare
controcorrente rispetto al flusso del divenire. Sennonché - rispondo -, se per
Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico- morali hanno questo
carattere, non tutte le rappresentazioni lo hanno: per lo meno non l’ha quella
rappresentazione che è la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo,
giacché se qualsiasi conoscere avesse quel carattere, questa teoria non
potrebbe nemmeno rappresentarsi il divenire come tale, cioè come quel flusso
che viene fissato, negato da quel primo tipo di rappresentazioni
controcorrente. È indubbio che in quella teoria il divenire è e appare come
divenire, ossia è identico a sé e quindi permanente; ma se questa identità e
permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno divenire e, questa volta sì,
il divenire sarebbe negato e fissato nel suo non esser divenire. Come ho già
detto altre volte, a partire da L’anello del ritorno, il Nietzsche che si
mostra nella interpretazione offerta da questo libro ha la straordinaria
potenza (insieme a pochi altri abitatori del sottosuolo essenziale del pensiero
filosofico degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso
dell’essere che guida la tradizione metafisico-morale dell’Occidente. Ammesso e
non concesso che questa interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché
violerebbe le proprie regole, bisognerebbe dire che allora (modestia invita, ma
inevitabilmente, quella straordinaria potenza compete al Nietzsche arbitrario
che appare ne L’anello del ritorno. Ho detto anche altre volte che il mio
discorso filosofico dà anche una o due mani affinché il pensiero del nostro
tempo mostri tutta la potenza che gli compete - lasciandolo poi al suo destino,
che è quello di essere la forma più coerente della follia estrema del divenir
altro. Le altre interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che stanno al suo
passo) non mostrano questa coerenza e potenza. Restando ad esempio nell’ambito
del convegno a cui ci stiamo riferendo, un altro mio critico, Umberto Regina,
scrive che per Nietzsche Dio è impensabile perché non consente all’uomo di
poter “sperare” di far suo tutto il mondo. Ma - osservo - questo discorso non
intimorisce Dio, che, rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a
fare a meno di queste sue speranze, come appunto incomincia ad accadere col Dio
veterotestamentario, che a W’erimus sicut dii - in cui si esprime la speranza
del primo uomo di far tutto suo il mondo -, risponde deludendolo, cioè
cacciandolo dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si fonda su tale speranza
- o sulle varie forme di prospettivismo - per far morire Dio è ben debole. Il
Nietzsche de L’anello del ritorno ha invece la potenza di farlo morire per
davvero. (Per mostrare, poi, che la filosofìa di Nietzsche non ha nulla a che
vedere con le critiche ingenue che vengono rivolte al principio di non
contraddizione, ma, come in Hegel, è una critica del modo inadeguato di
intendere tale principio, è sufficiente pensare l’espressione l’eterno ritorno
dell’uguale - die ewige Wiederkunft des Gleichen. Come prima si è richiamato,
ritorna eternamente l’ identico contenuto - ritorna ogni cosa... e tutte nella
stessa sequenza e successione, scrive Nietzsche nella Gaia scienza - e una cosa
può essere identica, la stessa, solo in quanto non è le altre cose, ossia non è
contraddittoria: ritorna eternamente l’incontraddittorietà di tutte le cose.)
Si parla di governi tecnici e di tecnocrazia. Ma il senso conferito oggi a
questi termini è essenzialmente diverso dalla più profonda dimensione tecnica
sulla quale (ancora una volta) inviterei a riflettere. I governi tecnici - ad
esempio quello sperimentato in Italia oppure, a livello europeo, il governo
costituitosi con l’asse Sarkozy-Merkel - sono soltanto epifenomeni di quella
dimensione: così come l’immoralità e l’indifferenza religiosa delle masse sono
soltanto un epifenomeno della morte di Dio a cui si rivolge il pensiero
filosofico del nostro tempo. Dal punto di vista etimologico, tecnocrazia
significa, certamente, il kratos (il potere) alla tecnica. Ma per lo più questo
termine ha il senso di un ottativo, di un’aspirazione o di una deprecazione: di
un esortare verso la realizzazione o di rifiutare o far rifiutare qualcosa che
si ritiene più o meno realizzabile, più o meno incombente. Si può andare più indietro
di Veblen o Spengler: si può arrivare agli inizi dell’Ottocento, a Saint-Simon,
il quale comincia a parlare di necessità, di doverosità, di opportunità di dare
il potere alla tecnica. Invece quella più profonda dimensione tecnica a cui mi
riferisco non è in alcun modo qualcosa a cui si invita, un progetto, una
ricetta, un’esortazione o un rifiuto, ma ha il carattere di una descrizione, di
una constatazione - che peraltro si trova su di un piano ulteriore, e se si
vuole astratto rispetto a quello su cui di solito la riflessione fenomenologica
si mantiene (un’affermazione, questa, che sottintende quell’elogio
dell’astratto che Hegel invita a condividere). Nonostante abbia l’apparenza di
un tema specialistico, il discorso sulla tecnocrazia negli anni Trenta
coinvolge qualcosa di profondamente essenziale, che travalica i confini
geografico-temporali indicati da quel discorso, fino a presentare, addirittura,
un carattere planetario e a costituire una svolta in cui ne va delfintera
tradizione dell’Occidente e dei suoi valori. Quel discorso coinvolge la
dimensione tecnica, di cui abbiamo incominciato a parlare: in essa la tecnica
appare come destinata al dominio del pianeta. La descrizione e constatazione di
cui prima si è detto è descrizione di una destinazione, cioè di una necessità.
Si tratta di capire in che senso queste affermazioni non siano un’esagerazione
arbitraria e incomprensibile, e in che senso la tecnocrazia negli anni Trenta
possa coinvolgere una destinazione di questa portata. Natalino Irti ha parlato
dell’importanza di Ugo Spirito in relazione alla situazione italiana di quel
tempo. Ma prima e alle spalle di Ugo Spirito c’è la figura decisiva di Giovanni
Gentile. Questo apprezzamento può stupire, perché (a parte le riserve che si
possono avanzare sul piano politico) non solo si riferisce a una forma
culturale che spesso vien guardata con sospetto - cioè la filosofia -, ma anche
perché si può dire che la filosofia contemporanea ignori quasi completamente il
pensiero di Gentile (e in generale la filosofia italiana). Ignora, però, ciò
che essa ha di più decisivo ed essenziale. Non solo: può sembrare anche molto
strano che, a proposito di tecnica e tecnocrazia, si parli di Giovanni Gentile,
visto che in Italia il pensiero di Gentile (ma anche quello di Croce) è stato
considerato radicalmente avverso alla scienza e alla tecnica e quindi estraneo
al nuovo clima culturale postbellico. Si tratta di capire perché questa
prospettiva è completamente fuori strada. Si incominci a rilevare che, sebbene
ignorato, il pensiero di Gentile afferma ciò che nel nostro tempo è affermato,
si può dire, ovunque (sia pure con tonalità e reazioni diverse): che non esiste
alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva al di là del mondo umano.
Solo che, quasi sempre, questa affermazione non è altro che un dogma, un
presupposto che vien dato per scontato, un’intuizione, un impulso, una fede,
qualcosa che sta diventando senso comune; laddove il pensiero gentiliano
(insieme a pochissime altre posizioni filosofiche) è la fondazione rigorosa di
tale affermazione. Rigorosa, nel senso che è la più coerente al fondamento che
è comune all 'intero pensiero dell’Occidente (quindi non solo alle prospettive
della tradizione filosofica, artistica, religiosa che invece affermano
l’esistenza di una Realtà immutabile e divina, ma anche alla prospettiva
tecnico-scientifica). Tale fondamento è la convinzione che il divenire del
mondo, il trascorrere delle cose dal non essere all’essere e daccapo al non
essere, sia l’evidenza più indiscutibile e originaria. Gentile mostra che tale
evidenza implica il divenire del Tutto. A questo punto, ciò che passa
inosservato - per chi non sa scendere nel sottosuolo abitato dal pensiero di
Gentile - è che la negazione fondata di ogni Immutabile è la negazione di ogni
Limite assoluto e inviolabile che si innalzi di fronte all’azione dell’uomo e
quindi a quella forma dell’agire umano, che oggi è la più potente, nella quale
consiste l’agire della tecnica. Ciò significa che, di per sé, la tecnica non
può sviluppare tutta la potenza di cui è capace, ma può svilupparla solo alla
condizione che sappia ascoltare e capire la potenza concettuale di quel
sottosuolo. È questo sottosuolo filosofico a dare potenza reale alla volontà di
potenza della scienza e della tecnica. Appunto per questo vado ripetendo che
solo apparentemente Gentile è stato fascista e che se c’è una forma di
filosofia radicalmente opposta al fascismo essa è proprio la filosofia di
Gentile. Il fascismo infatti, come ogni regime politico totalitario è uno degli
Immutabili di cui il pensiero gentiliano ha mostrato l’essenziale
impossibilità. L’impossibile è un sogno che per qualche tempo riesce a
prevalere sulla veglia, ma dal quale è inevitabile che prima o poi ci si
risvegli. Della fondazione gentiliana di questa impossibilità si può dare qui
solo qualche cenno, formulandola in modo che possa venire alla luce la
configurazione che è comune a tale fondazione e a quella operata dai pochi
altri abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali Nietzsche e
Leopardi). Gentile mostra che se esistesse una realtà immutabile - che quindi
sarebbe una realtà esistente in sé stessa, al di fuori e al di là della nostra
esperienza, cioè del nostro pensiero, indipendente da essa (e questo è il volto
che il divino ha mostrato lungo la storia dell’uomo) -, il divenire delle cose,
il loro uscire dal nulla e ritornarvi, non avrebbe quella serietà che invece
gli compete per il suo essere l’evidenza originaria e suprema. Innanzitutto, se
esistesse un Dio in cui ogni cosa è già contenuta prima ancora di essere
prodotta o creata, allora l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte delle
cose del mondo, sarebbe una semplice apparenza, non avrebbe serietà. Ma
l’uscire dal nulla e il ritornarvi è l’evidenza e verità fondamentale (è,
questa, la suprema certezza dell’Occidente, quindi anche di Gentile). Dunque
non può esistere alcuna realtà e quindi alcuna verità immutabile e divina,
esistente al di là dell’esperienza umana. Si può riproporre così questo tratto
decisivo della coscienza contemporanea: sulla base della convinzione originaria
che, evocata dal pensiero filosofico, sta al fondamento non solo delle forme
religiose, della scienza moderna e di tutta la cultura occidentale, ma anche
delle stesse opere e istituzioni dell’Occidente, sulla base dunque della
convinzione che le cose del mondo umano oscillano tra l’essere e il nulla, è
impossibile che esista qualcosa di assoluto, immutabile, divino, perché esso,
precontenendo tutte le cose, avrebbe già riempito tutti gli spazi vuoti che
sono richiesti dal divenire, ossia avrebbe già riempito quel non essere che
(come gli antichi atomisti avevano compreso) è necessario che competa alle cose
quando ancora non sono e quando non sono più. Un Dio immutabile (pieno,
satollo, dice Nietzsche) e quindi una verità assoluta in cui questo Dio sia
eretto sono la Legge alla quale sia il futuro sia il passato più lontani devono
adeguarsi, sì che l’ormai nulla e l’ancor nulla non possono più rimanere un
nulla ma diventano degli ascoltatori della Legge, cioè diventano qualche cosa
di positivo, un essere. Questo, sommariamente richiamato, il tratto decisivo
della coscienza moderna. Come già si è detto, esso è anche la distruzione di
ogni Limite (Legge) all’agire dell’uomo e quindi all’agire della tecnica. La
legittima a oltrepassare ogni limite. La legittima quindi - essendo essa
l’agire che di fatto è il più potente nel mondo contemporaneo - a subordinare
al proprio scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose, economiche,
giuridiche ecc.) che invece intendono servirsi della tecnica per realizzarli.
Col compiersi di tale subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano.
Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente, la giustificazione di queste
affermazioni (rinviando ai miei scritti per il suo senso concreto). Ci si
rivolga innanzitutto a un concetto che pur essendo ampiamente presente anche
nelle discipline scientifiche va però esplorato al di là delle prestazioni da
esso offerte in quei campi. Mi riferisco al concetto di mezzo e di scopo. Lo
scopo di un’azione determina il modo in cui essa si costituisce: ne determina
il senso e l’essenza. Se si decide di uscire di casa (o di fondare un impero),
il contenuto di questa decisione fa sì che si compiano certe azioni e non
altre, diverse cioè da quelle che si compirebbero se si decidesse di rimanere
in casa. Lo scopo determina la struttura dell’azione. Pertanto, se lo scopo di
un’azione cambia, l’azione cambia, è un’altra azione anche se in certi casi si
può credere che sia rimasta la stessa. La tecnica guidata dalla scienza moderna
è il mezzo di cui si servono o si sono servite tutte le forze dominanti
(capitalismo, democrazia, cristianesimo, islam, comuniSmo e altri regimi
totalitari ecc.). Intendono servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi,
cioè per realizzare, ognuna prevalendo sugli scopi delle altre, un mondo
capitalistico, democratico, comunista, islamico, cristiano ecc. E la tecnica è
il loro mezzo: non esiste oggi uno strumento più potente della tecnica. Il
teorema sul quale va richiamata l’attenzione è che le forme di azione che
perseguono gli scopi rispetto ai quali la tecnica moderna è il mezzo
insostituibile, sono costrette ad assumere come scopo lo scopo che è proprio
della tecnica, mentre i loro scopi iniziali sono costretti a diventare mezzi
del loro nuovo scopo. Le forze che si servono della tecnica sono infatti tra
loro conflittuali. Il capitalismo è in conflitto con la democrazia (sia di tipo
classico sia procedurale), la democrazia procedurale con il cristianesimo, il
cristianesimo col capitalismo e col comuniSmo ecc. La democrazia intende porre
dei limiti alla volontà di profitto privato; questa volontà non vuol farsi
limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del bene comune; il
cristianesimo e la Chiesa cattolica in particolare riconoscono al capitalismo
il suo essere un mezzo di produzione della ricchezza più efficace dell’economia
pianificata, e tuttavia gli ingiunge di assumere come scopo ultimo non il
profitto privato, ma, appunto, il bene comune. In tale conflitto ogni forza
mira quindi a che le forze antagoniste assumano come scopo uno scopo diverso da
quello che le definisce e per il quale esse sono ciò che sono, e cioè mira a
distruggerle. Quando la Chiesa dice al capitalismo di non assumere come scopo
ultimo l’incremento indefinito del profitto privato, che invece deve essere
soltanto un mezzo per realizzare il bene comune, essa sollecita il capitalismo
a non esser più capitalismo. (E questo va detto anche riconoscendo che la
Chiesa, spingendo oggettivamente il capitalismo al tramonto, non ha
l’intenzione di distruggerlo e intende differenziare il proprio all’agire
marxista-comunista, senza peraltro riuscirvi.) Nella conflittualità tra le
forze dominanti, il mezzo di cui tutte si servono per prevalere sulle altre è
oggi la tecnica: la tecnica, intesa in senso, per così dire, trascendentale,
cioè come sistema dei sottosistemi (giuridico, sanitario, militare,
burocratico, economico, scolastico ecc.) che coordinano razionalmente mezzi in
vista della produzione di scopi tra loro non conflittuali. Ma, dato il rapporto
conflittuale tra le forze dominanti, ognuna di esse, per prevalere sulle altre
e non soccombere, è costretta a rafforzare sempre di più il mezzo di cui essa
si serve, ossia la frazione dell’apparato scientifico-tecnologico da essa
gestito. Questa volontà di rafforzamento del mezzo è crescente perché è
continuamente alimentata dalla situazione conflittuale. Questa crescita toglie
spazio, dunque, allo scopo iniziale di ognuna di tali forze; lo scopo di ognuna
di esse viene cioè sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a
essere completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale resta subordinato
al nuovo e diventa un mezzo per la realizzazione del nuovo scopo. Ad esempio, se
lo scopo è un mondo capitalista, allora, per realizzarlo vincendo le resistenze
opposte dalle altre forze, è necessario che il capitalismo potenzi le
possibilità tecnologiche di cui esso dispone; ma incrementando questo
potenziamento è necessario che il capitalismo assuma come scopo non più
soltanto l’incremento del profitto, ma l’incremento del potenziamento del mezzo
tecno-scientifico. E come prima si diceva che quando la Chiesa esorta il
capitalismo ad assumere come scopo il bene comune essa distrugge il
capitalismo, così ora va detto che, quando l’area dello scopo del capitalismo a
un certo punto viene completamente invasa dal potenziamento (promosso dal
capitalismo stesso) dell’apparato della tecnica, la tecnica distrugge il
capitalismo - appunto perché, assumendo uno scopo diverso da quello da cui è
definito, il capitalismo non è più capitalismo (anche se si continua a chiamare
con questo nome ciò in cui esso si è trasformato). E non più capitalismo anche
quando l’area dello scopo capitalistico è anche solo parzialmente invasa.
Quanto si è detto del rapporto tra capitalismo e tecnica va ripetuto anche in
relazione a ogni altra forza oggi dominante. Le forze che non potenziano il
proprio mezzo tecno- scientifico soccombono; ma soccombono anche le forze che
prevalgono perché tale potenziamento l’hanno operato. Tuttavia il rovesciamento
del rapporto tra tecnica e forze che se ne servono per realizzare i loro scopi
dipende da una condizione decisiva. Sino a che gli scopi di queste forze sono
da esse vissuti come imposti da una Verità immutabile e assoluta, esse
eviteranno di alterarli e si opporranno al loro spodestamento da parte della
tecnica. Ognuna di esse si farà spezzare piuttosto che piegarsi e la forza
vincente della tecnica sarà giudicata illegittima, ingiusta, malvagia,
prevaricante, tirannica, disumana, dissennata - priva di verità, appunto. E
comunque, anche se non giungeranno a farsi spezzare, quelle forze renderanno il
più possibile difficile il prevalere della tecnica e le imporranno, come Limiti
che essa non deve oltrepassare, i valori della Verità in cui esse credono.
(Limiti che non sono soltanto etico-religiosi, ma anche di carattere diverso,
come quello economico. Ad esempio il capitalismo, oltre a porre come Verità
assoluta e come Limiti inviolabili la proprietà privata e la libertà di
intrapresa, proibisce alla tecnica di produrre beni che non possono essere
venduti, o la cui vendita non produce un profitto ritenuto conveniente, anche
se sono indispensabili alla sopravvivenza degli insolventi - e tale proibizione
è inevitabile se il capitalismo vuol sopravvivere.) Ma oggi la fiducia
nell’esistenza della Verità va tramontando. Questo è il clima che, procedendo
dall’Occidente, sta diventando planetario - destinato com’è a travolgere
fenomeni di crescente presenza del cristianesimo nei continenti extraeuropei.
(Nell’Unione Sovietica i sacrifici richiesti ai cittadini potevano essere
sopportati quando era più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una
Verità assoluta e che quindi la produzione tecnico-economica della ricchezza
dovesse innanzitutto servire alla promozione e difesa di tale Verità e non alla
riduzione di quei sacrifici. Ma, quando questa convinzione è venuta meno, è
venuta meno, oltre alla disponibilità dei cittadini al sacrificio richiesto per
realizzare la società giusta e senza classi, anche la disponibilità
dell’apparato tecno-scientifico a essere il mezzo per tale realizzazione.) Ora,
il fuoco sotto la cenere del progressivo allontanamento delle masse dalla
Verità, divina o terrena, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo (il
sottosuolo abitato da pensieri decisivi come quelli di Gentile o di Nietzsche),
dove - si è richiamato - si mostra Yimpossibilità di ogni Immutabile, quindi di
ogni Verità immutabile, di ogni inviolabile Limite all’agire delfuomo e
pertanto all’agire tecnico. E tale impossibilità è l’impossibilità che gli
scopi delle forze ancora convinte di potersi servire della tecnica siano
l’adeguazione dell’agire alla Verità immutabile, che ora (ma ancora, per lo
più, sotto la cenere) si palesa come un sogno. La coscienza che l’Apparato
scientifico-tecnologico ha ancora di sé stesso è ancora cenere, la cenere che
copre il fuoco del sottosuolo, e quindi tende a essere ancora una fede nell
’inesistenza degli Immutabili e nella morte di Dio; ma, nella misura in cui
quel fuoco si libera dalla cenere di tale fede, in questa misura la
subordinazione della tradizione dell’Occidente (e del pianeta) alla tecnica è
inevitabile. Si può richiamare un ulteriore aspetto del rovesciamento per il
quale il potenziamento della tecnica diventa lo scopo delle forze che intendono
servirsi di essa. Riguarda il rapporto tra capitalismo e tecnica - il
capitalismo essendo ancora, nonostante la sua crisi profonda, la più potente
delle forze che dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata la
produzione dei beni di consumo e della ricchezza. A un aspetto soltanto di tale
rapporto qui si farà cenno. Non può esistere capitalismo senza perpetuazione
della scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente disponibile
non è merce, non è vendibile, nessuno è interessato a produrlo o ad
acquistarlo. E il capitalismo, essenzialmente legato alla perpetuazione della
scarsità, si serve della tecnica per produrre merce. D’altra parte la tecnica,
proprio in quanto mezzo, ha un proprio scopo fondamentale e supremo: l’aumento
indefinito della capacità di realizzare scopi. Questo scopo non è escludente -
a differenza degli scopi delle forze che si servono della tecnica. Non è escludente
anche perché esso è un mezzo capace di realizzare gli scopi tra loro
conflittuali perseguiti da tali forze. (Lo scopo del capitalismo è invece un
mondo capitalistico e non comunista, e viceversa; lo scopo del cristianesimo è
un mondo cristiano e non ateo ecc.) Ora, se per sopravvivere il capitalismo
deve perpetuare la scarsità delle merci e si serve della tecnica - la quale ha
peraltro come scopo fondamentale l’incremento indefinito della potenza, ossia
della capacità di realizzare scopi -, va ora rilevato che l’incremento
indefinito della potenza implica Veliminazione progressiva della scarsità. La
situazione è cioè quella di un padrone che si serve di un servo il cui scopo è
l’ehminazione del padrone. Il capitalismo si serve di un servo (la tecnica) che
lavora per lo spodestamento del padrone. Nella dialettica di servo e padrone,
Hegel mostra appunto che la storia è fatta dai servi: per servire il padrone
essi devono acquistare competenze, sollevandosi quindi al di sopra di quelle
del padrone; elaborano tecniche e conoscenze scientifiche, gestiscono e quindi
si impadroniscono di quella potenza scientifico-tecnologica che finisce per
rovesciare, il rapporto feudale servo-padrone. Ma, anche qui, il servo può
rovesciare il padrone solo se non crede più che egli sia il portatore della
Verità - solo se la tecnica non crede più che il capitalismo, quindi la
perpetuazione della scarsità delle merci, sia la vera e insuperabile condizione
umana. La contraddizione in cui consiste il rapporto fra forze che si servono
della tecnica e tecnica si acuisce e diventa estrema quando cioè viene in luce
che gli scopi delle forze che si servono della tecnica non hanno una Verità
assoluta. E a portare alla luce la morte della Verità e di Dio non può essere
la scienza o la tecnica (che quando tentano di farlo sono soltanto cattiva
filosofia) ma, si è visto, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo. (Così
come, d’altra parte, non può essere una fede a rifiutare quella morte e il
principio che tutto ciò che si può fare sia lecito farlo.) Non ci si può dunque
limitare alfawertimento che la tecnica non ha limiti. Il sapere che dà questo
avvertimento è innegabile - è il sottosuolo di cui stiamo parlando -, solo in
quanto mostra che è sul fondamento di ciò in cui da ultimo credono sia gli
stessi difensori dei Limiti sia la tecnica stessa, è su tale fondamento che
viene affermata l’assenza di Limiti. Da ultimo sia la tecnica sia i difensori
dei Limiti all’agire dell’uomo credono, appunto, nell’esistenza dell’agire. Lo
si crede lungo l’intera storia dell’uomo. Si crede che le cose possono essere
smosse, controllate, prodotte, create e distrutte. Per la prima volta il
pensiero greco intende la creazione (produzione) come l’uscire dal non essere e
la distruzione come annientamento. Pensando per la prima volta l’essere e il
niente conferisce un senso ontologico al creare e al distruggere. In modo
sempre più diffuso lungo la storia dell’Occidente si crede che l’agire sia
creare e distruggere in senso ontologico. Se non credesse in questo senso della
creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente non esisterebbe: non
esisterebbe, in esso, azione (umana o divina o della natura), quindi non
esisterebbe nemmeno azione tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono
nel senso ontologico dell’agire anche quando sono convinte di non aver nulla a
che vedere con l’essere e il niente. Nel suo senso più alto e autentico, la
tecnocrazia è l’ascolto, da parte della tecnica, della voce del sottosuolo
filosofico del nostro tempo - della voce che, sul fondamento della convinzione
che l’agire esiste secondo il senso ontologico evocato dall’Occidente, fa
sentire l’impossibilità dell’esistenza di un Limite assoluto all’agire così
inteso, che peraltro è la forma radicale dell’agire. Nella misura in cui la tecnica
dà ascolto a quella voce (e tale ascolto è un processo in corso, che ancora
fatica ad affermarsi), lo scopo della tecnica, ossia l’incremento indefinito
della potenza, è destinato al dominio del mondo, cioè a presentarsi come lo
scopo delle forze che ancora vogliono servirsi della tecnica, trattenendola al
ruolo di semplice mezzo. Poiché Gentile è uno dei pochi abitatori di quel
sottosuolo il tema della tecnocrazia negli anni Trenta non solo non ha
carattere specialistico, ma coinvolge, come si è già rilevato, il problema
centrale del nostro tempo: dove sta andando il mondo? Ma, ora, si aggiungeranno
soltanto alcune sottolineature e alcune precisazioni - rinviando al modo in cui
nei miei scritti si configura l’affermazione che il mondo sta andando verso la
dominazione della tecnica. (E comunque, si ripeta, non si tratta di consigliare
al mondo dove debba andare, ma di osservare dove è destinato ad andare. È
patetico voler dire ai popoli quello che devono fare: si tratta invece di
capire che cosa sono destinati a valere e a fare.) Nel suo significato più
profondo la tecnica non ha nulla a che vedere con la concezione
scientifico-tecnicistica della tecnica (e tanto meno con i governi tecnici di
cui oggi si parla). Mostrando l’inesistenza di ogni Limite inviolabile, il
sottosuolo filosofico del nostro tempo non solo legittima la volontà di potenza
della tecnica e il suo oltrepassamento di ogni limite, ma li rende possibili.
Se non si sa di avere in mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si
vince. Di qui (anche di qui) il carattere radicalmente pratico del pensiero
filosofico, ossia di ciò che è il più astratto. L’ascolto della voce del
sottosuolo, da parte della tecnica, è un processo in atto che ancora è
ostacolato dalle voci della superficie. La voce autentica dice che il vero
tramonto degli Immutabili è dovuto alla necessità che la loro esistenza renda
impossibile quel nulla del futuro e del passato, quel senso ontologico del
divenire che ormai ovunque è considerato come l’evidenza suprema. La potenza
della tecnica è dovuta al carattere pratico del sottosuolo filosofico, non alla
praticità del sapere matematico (o fisico-matematico) che sta al cuore della
tecnica. Il che va detto anche se oggi questo secondo carattere è il fattore
per il quale la tecnica ha più potenza di altre forze. Tale maggior potenza è
però una situazione storica contingente, perché se accadesse nuovamente che
pregando si muovano le montagne e le si muovano più di quanto la tecno-scienza
riesca a muoverle, allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica
ma quella pregante, destinata dunque essa al dominio del mondo (e, certamente,
diversa da quella che si rivolge alfimmutabile Verità di un Dio). Se la
dimensione economica - la più potente delle forze che si servono della
tecno-scienza - domina ormai la politica e le strutture statuali (si pensi al
peso che grava su di esse in forza della globalizzazione capitalistica), ora è
la stessa economia che sta per essere oltrepassata dalla tecnica. Non nel senso
che non esisterà più economia, ma nel senso che, mentre per il capitalismo la
tecnica serve per incrementare il capitale, si sta andando verso un tempo in
cui il capitale servirà per incrementare la potenza tecnica. E l’uomo? Molte,
le voci che accusano la tecnica di essere disumanizzante. Ma che cos’è l’uomo
nella cultura occidentale, ormai planetaria? Al di sotto delle molteplici
definizioni dell’esser uomo agisce un tratto a esse comune - e decisivo -, per
il quale l’uomo è un centro di forze cosciente, capace di organizzare mezzi, in
vista della produzione di scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende essere
questo centro. Il mistico è infatti il supertecnico: apre le braccia alla
suprema e infinita potenza di Dio e crede, lasciandosi invadere da essa, di
poter essere estremamente più potente deWhomofaber spesso dimentico di Dio.) Ma
la definizione dell’uomo come centro cosciente di forze, capace di organizzare
mezzi in vista della produzione di scopi, è la definizione stessa della
tecnica. E allora non si dovrà forse dire che la tecnica è Yinveramento massimo
dell’uomo, ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria essenza più
profonda, così come, nel tempo che precede la morte di Dio, è nella potenza,
ossia nella tecnica divina che l’uomo trova e vive il più profondo esser sé
stesso? Anche Dio è stato l’inveramento massimo dell’uomo, perché l’uomo, che
da principio chiede a Dio di salvarlo, poi si rende conto che per essere salvo
deve essere innanzitutto salvaguardata la potenza del Salvatore, perché se Dio
diventa un mezzo nelle deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza, allora
anche Dio in quelle mani diventa un debole strumento di salvezza. Nello stesso
modo, quando l’uomo si rivolge alla tecnica per essere salvato, e dopo averla
assunta come mezzo nelle proprie mani si rende conto di poter esser da essa
salvato solo se egli non assume come scopo la propria salvezza ma il
potenziamento dello strumento salvifico, allora egli trova e vive nella Tecnica
il più profondo esser sé stesso. E lo trova e lo vive solo se la tecnica si è
posta in ascolto del sottosuolo essenziale del nostro tempo. La discrasia tra
tecnica e uomo - la disumanizzazione dell’esistenza da parte della tecnica -
riguarda quindi le diverse concezioni ideologiche dell’esser uomo, cioè l’uomo
cristiano, l’uomo capitalista, comunista ecc.; non riguarda il tratto
essenziale che è a esse sotteso. Tale tratto dice che l’uomo è azione, prassi,
volontà cosciente e convinta di avere la capacità di trasformare le cose fino a
farle diventare, da nulla, essenti e, da essenti, nulla. L’uomo ideologico
viene certamente messo da parte dalla tecnica autentica, che ascolta il
sottosuolo. La tecnica non ha come scopo il benessere o la felicità dell’uomo,
ma quel potenziamento indefinito di sé stessa che peraltro dà all’uomo più
benessere e felicità di quelli che egli otterrebbe se essi fossero lo scopo del
suo agire. Sì che egli è messo da parte non come tratto comune ai diversi modi
ideologici di intendere l’uomo, ma, appunto, come uomo ideologico che, da
scopo, diventa mezzo per l’aumento indefinito della potenza tecnica. Anche la
scienza e la tecnica sono ideologie, cioè non sono verità incontrovertibili, ma
sono le ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo filosofico che conferisce
loro l’effettiva potenza sia, ormai per l’intero pianeta, e più o meno
esplicitamente, la suprema e unica verità incontrovertibile. A questo punto è
possibile intrawedere Yinizio del sentiero che conduce a un Sottosuolo
essenzialmente più profondo di quello di cui si è parlato sin qui. Si può
esprimere così tale inizio. In quanto unita al sottosuolo filosofico del nostro
tempo, la tecno-scienza non è scetticismo ingenuo, appunto perché in questa
unione si nega l’esistenza non di ogni verità, ma di ogni Verità immutabile che
stia al di là di ciò che nel sottosuolo appare come l’unica verità
incontrovertibile: l’agire del divino, dell’uomo, della natura, cioè
l’oscillazione delle cose tra il loro non essere e il loro essere, per la prima
volta evocata dal pensiero filosofico greco. Del carattere pratico della
filosofia che abita il sottosuolo del nostro tempo, si è già detto. Ma quella
evocazione ha un carattere pratico ancora più decisivo, perché solo se si crede
nella disponibilità delle cose al loro oscillare tra il non essere e l’essere è
possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che è l’agire in senso
ontologico. L’evocazione greca di tale senso è il luogo nel quale soltanto è
potuta e potrà crescere l’intera storia dell’Occidente. Tuttavia, se ovunque si
è convinti della verità incontrovertibile di quel luogo, perché tale
convinzione è verità incontrovertibile? Questa domanda suona assolutamente
strana. Non è forse ovvio, e sin dagli inizi dell’uomo, che l’agire esiste e
che le cose vanno dal non essere all’essere e viceversa? Non si perde tempo a
prenderla in considerazione? È inevitabile che sembri strana. La si ascolta
infatti stando all’interno del luogo che da tale domanda è messo in
discussione. Ma perché è necessario rimanere all’interno di quel luogo?
Innocenza del divenire e valore dell’uguaglianza Se spesso gli storici del
pensiero filosofico vedono gli alberi - come si suol dire - ma non la foresta,
non è certo questa una critica che si possa muovere all’imponente e poderosa
ricerca di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia
intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri 2002). Egli mostra come
il pensiero di Nietzsche sia potentemente unitario e come in esso le variazioni
non siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto tempo prima
che lo si capisse - e non è che oggi tutti l’abbiano capito. Sono d’accordo con
Losurdo anche nell’individuazione del tratto o elemento che determina il
carattere unitario del pensiero di Nietzsche. Egli considera Nietzsche filosofo
totus politicus, ma questa espressione non riduce il suo pensiero alla
dimensione specialistica della politica: all’opposto, intende “salvare” il
filosofo nella sua interezza, cioè nella sua volontà di abbracciare e
comprendere la realtà nella sua totalità e nel suo assillo di intervenire
attivamente su di essa (p. 900). Solo non rimuovendo l’elemento che
l’attraversa in profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia
militante della rivoluzione e della modernità, è possibile cogliere l’unità del
pensiero di Nietzsche e la sua interna coerenza ( Ibid .). Losurdo scorge che
per Nietzsche la modernità e la rivoluzione hanno un inizio lontanissimo nella
storia dell’Occidente: incominciano con Socrate; e, da ultimo, il loro
avversario autentico, al di sotto delle sue molteplici forme, è l’innocenza del
divenire - quella in cui forse vive il più antico uomo greco, l’uomo
dionisiaco, e nella quale intende consapevolmente abitare il superuomo
annunciato da Nietzsche. Il divenire è innocente quando, liberato da ogni
Verità assoluta e da ogni Dio immutabile che intendono assoggettarlo, è
liberato anche da ogni colpa che gli deriverebbe dal suo non adeguarsi alle
Leggi vere e divine. Il quadro presentato da Losurdo è tra i più fedeli e
pregevoli. Ma quando si mostra il corpo di un lottatore, la rappresentazione è
concreta - ossia non è un semplice dipinto -, quando riesce a mostrare la forza
del lottatore, cioè la sua effettiva capacità di vincere gli avversari.
Nietzsche appartiene al ristretto gruppo dei grandi lottatori che riescono a
distruggere i nemici del divenire, i nemici che formano l’intera tradizione
dell’Occidente. La ricerca di Losurdo è quanto mai pregevole, ma ancora non dà
a Nietzsche quel che è di Nietzsche, cioè la sua straordinaria potenza speculativa,
che esige di essere riconosciuta anche aH’interno della riflessione storica.
Per cogliere tale potenza bisogna fare i conti con coloro che a essa si sono
esplicitamente rivolti. Per esempio Heidegger. Ma qui sarebbe modestia fuori
luogo se non mi riferissi anche a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei
Losurdo a riflettere - anche perché la scansione meno convincente del suo libro
è proprio data dal modo in cui egli fa rientrare il tema deH’eterno ritorno nel
Nietzsche totus politicus che lotta per la salvaguardia dell’innocenza del
divenire. Losurdo, giustamente, dà valore al modo in cui Nietzsche intende sé
stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha posto al di sopra di tutte le
proprie dottrine quella dell’eterno ritorno. Sembra che a questo fatto Losurdo
non dia il peso dovuto e che, anche lui, si ritragga dal problema. Che certo, è
gigantesco: il divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un ritorno eterno!
Ancora non si comprende che tale dottrina non è una stranezza, ma, come Nietzsche
stesso asserisce, è quella nuova conoscenza che è necessità suprema, innegabile
e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta asserirlo: bisogna mostrarlo in
concreto. Nietzsche l’ha potentemente mostrato, mostrando l’implicazione
necessaria tra divenire e eterno ritorno. Anche lo storico ha il compito di non
nascondere tale potenza. Soprattutto la filosofia è equivocabile. Rivolge lo
sguardo verso temi che tutti credono di conoscere. Grandi filosofi sono anche
straordinari scrittori e, tra chi li legge, si crede che accostandosi al
linguaggio letterario si abbia in mano il suo senso filosofico. Quasi sempre i
mass media comunicano tesi, dominati dalla convinzione che ogni tentativo di
discuterle le sbiadisca, le tolga di scena, le indebolisca. E invece c’è
filosofia solo quando le tesi sono radicalmente discusse, fondate, argomentate.
Si potrebbe continuare a lungo. Bene ha fatto dunque Luciano Canfora a
riconsiderare (Corsera, 11/1) gli equivoci che possono nascere intorno alla
filosofia di Nietzsche. Sostiene che i grandi pensieri hanno a che fare con le
loro conseguenze; ad esempio il Vangelo con la storia della Chiesa; Marx con
l’Unione Sovietica, Nietzsche con il nazionalsocialismo e il razzismo. Ma quasi
a parare l’obbiezione che la luce del sole ha a che fare sia con l’azzurro del
cielo sia con la putrefazione dei cadaveri, Canfora richiama il fatto che in
Nietzsche i valori dell’uguaglianza (morale del dovere, democrazia, socialismo)
sono rifiutati. E il fatto c’è indubbiamente. Tuttavia questi valori - che in
parte sono anche cristiani - hanno a loro volta a che fare con le loro
conseguenze, tra le quali le crociate, il periodo del terrore durante la
rivoluzione francese, la stessa rivoluzione sovietica e il comuniSmo, la
soppressione fisica di chi, di volta in volta, è stato ritenuto immorale.
Nessuno è innocente, nemmeno i nemici del superuomo di Nietzsche. È però
necessario che si capisca perché Nietzsche abbia questi nemici. Non si può
affermare che egli è un ribelle aristocratico (Canfora riprende l’espressione
dal libro di Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si dice che il nostro
calzolaio vota per questo o quell’uomo politico (con tutto il rispetto per i
calzolai). Si deve invece capire quale fondamento filosofico abbia condotto
Nietzsche a quell’atteggiamento. Egli si ribella all’intera tradizione
occidentale, perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo, ripeto da tempo, che
si facciano o si siano fatti sforzi consistenti in tale direzione. Heidegger ha
sostenuto che Nietzsche è rigoroso come Aristotele. Sono d’accordo. Ma si
tratta di capire perché lo sia. In Nietzsche, si crede, c’è tutto e il suo
contrario. Un eminente illogico. (Anche Leopardi è stato trattato come un
dilettante che andava compitando la filosofìa. Il fatto è che quelli che lo
leggevano, non capivano.) Se il nostro calzolaio si contraddicesse come spesso
si crede che Nietzsche si sia contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le
scarpe. Nel suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che giustamente è assunto da
Canfora come affidabile punto di riferimento nel problema- Nietzsche) scrive,
della Nascita della tragedia di Nietzsche: Per quel che concerne la logica,
quale migliore propedeutica si potrebbe consigliare di questo immaginario
antihegeliano per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema
degli opposti?. La nietzschiana morte di Dio che sta alla base del superuomo
appartiene al significato essenziale dello stesso pensiero crociano, anzi di
tutta la filosofia (e quindi la cultura) contemporanea. (A tale significato
appartiene anche quel Gramsci che incautamente sardonico riconduceva il
superuomo di Nietzsche al conte di Montecristo e ai romanzi di appendice.)
Nietzsche rifiuta i valori dell’uguaglianza perché essi sono legati al Dio che
muore. Ma, soprattutto qui, si tratta di capire perché egli annuncia la morte
di Dio. Rawls, Hegel, Kant John Rawls è molto conosciuto in Italia per
iniziativa meritoria di alcuni studiosi come Salvatore Veca, Sebastiano
Maffettone e altri. Nel 1982 Feltrinelli aveva pubblicato Una teoria della
giustizia, l’opera maggiore di Rawls, e le sue Lezioni di storia della
filosofia morale, apparse negli Stati Uniti nel 2000. Sono una gradita sorpresa
soprattutto per l’ampia e approfondita attenzione che dedicano a grandi figure
della filosofia moderna come Leibniz, Hume, Hegel e soprattutto Kant. Un
riconoscimento dell’importanza della filosofia, osserva giustamente Veca nella
Nota all’edizione italiana, non abituale nella tradizione che per mera
convenzione possiamo chiamare analitica, entro cui la ricerca e l’insegnamento
di Rawls si situano. Lo stesso Rawls riconosce le radici kantiane di Una teoria
della giustizia, ma queste Lezioni si spingono sino ad affermare che lo stesso
Hegel è un liberale riformista moderatamente progressista, che si muove lungo
quella linea del liberalismo della libertà che da Kant (senza escludere Mill)
giunge a Una teoria della giustizia. Rawls può sostenerlo, perché è convinto
che buona parte della filosofìa morale e politica di Hegel possa reggersi da
sola, cioè indipendentemente dal suo fondamento metafisico-speculativo. E,
certo, qui c’è molto da discutere, anche perché è poi lo stesso Rawls a
coinvolgere quel fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di
Hegel. È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte più ampia
e centrale di queste Lezioni, dedicata a Kant. Il gesto essenziale di Kant
consiste infatti nel porre la filosofia morale e politica come, appunto, una
dimensione indipendente dalla metafisica. Primato della ragion pratica. Non a
caso, un saggio di Rawls tradotto recentemente in italiano da Edizioni di
Comunità è intitolato Vindipendenza della teoria morale. Non sembra tuttavia
che Rawls risolva il problema relativo alla genesi del teorema del primato
della ragion pratica. In Kant questo teorema presuppone la critica del sapere
metafisico. Se questa critica cade, cade anche quel teorema. Ad esempio non si
potrà più dire che 1’esistenza di Dio, f immortalità delfanima, la libertà sono
postulati della ragion pratica e non verità metafìsiche. Ma Fidealismo classico
- Schelling, e Hegel in particolare - ritiene di aver messo in luce i
presupposti arbitrari e da ultimo contraddittori che stanno alla base del
rifiuto kantiano del pensiero metafìsico. Questa convinzione delfidealismo non
è cosa da poco - e soprattutto non può esser messa da parte perché sembra
trovarsi in contrasto col sapere scientifico. Purtroppo Rawls non entra in
questo tipo di problemi. E questo può essere il limite (del tutto
comprensibile) di questo suo magistrale interesse - per molti imprevedibile -
per le grandi forme del pensiero filosofico.Possiamo riassumere la filosofìa di
Bergson in una singola idea: il tempo è reale. Lo afferma Leszek Kolakowski
alfinizio del suo studio del 1985: Bergson (Palomar dialoghi, che ricostruisce
il pensiero di Kolakowski, dedicato soprattutto alla storia critica del
cristianesimo e del marxismo). Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione
il tempo è reale non suona particolarmente illuminante, originale o stimolante,
essa è invece il nucleo di una visione del mondo del tutto nuova, perché dire
che il tempo è reale equivale a dire che il futuro assolutamente non esiste - e
questa tesi è invece stata in vari modi negata nelle forme di pensiero che
credono in una qualche forma di anticipazione del futuro. In questa pagina
Kolakowski si riferisce al determinismo e alla fisica, ma sa bene che per
Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente e immutabile è un
modo di affermare l’anticipabilità del futuro. L’implicazione tra realtà del
tempo e assoluta inesistenza del futuro è indubbiamente decisiva, come appunto
ritiene Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione
dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa sull’esigenza di prendere sul serio
il senso del tempo, non è solo di Bergson, bensì è il tratto fondamentale del
pensiero del nostro tempo. Non a caso Gentile parla di serietà della storia: la
storia è seria, e va presa sul serio, precisamente nel senso che essa non può
esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della tradizione) la anticipi. Si
vuole andare alla radice di questa volontà di serietà? Si incontra Nietzsche,
e, ancor prima, la straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione
platonica dell’idea, la quale è il prototipo di ogni volontà di anticipare il
futuro, negando la serietà del divenire e del tempo. Nel suo testamento
Bergson, ebreo, scrive che si sarebbe convertito al cattolicesimo se non avesse
visto l’ondata formidabile di antisemitismo che sta irrompendo sul mondo. Un
gesto di grande nobiltà. Ma nel 1914 il Sant’Uffizio aveva messo le opere di
Bergson all’indice dei libri proibiti e Kolakowski ricorda che tutti i
principali filosofi tomisti francesi, con Maritain in testa, pensavano fosse
Loro dovere combattere la dottrina bergsoniana. E Sant’Uffizio e filosofi
tomisti coglievano nel segno per quanto riguarda il rapporto tra filosofia di
Bergson e dottrina ufficiale della Chiesa. Alla fine della sua vita Bergson si
è sentito cattolico. Ma non ha rinunciato alla propria filosofia, che in
sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla libera creatività di un agire,
soprattutto per il quale il futuro è del tutto inanticipabile. Un agire senza
scopo (come pensa Nietzsche), che solo dopo aver agito può scoprire dove è
arrivato e che cosa ha prodotto: una negazione radicale, questa, del Dio della
tradizione cristiana. Tuttavia, anche se ancora si stenta a capirlo, il
cristianesimo del futuro dovrà dare sempre più ascolto al pensiero che tien
ferma la serietà del tempo. In questo processo (dove tramonta la forma
tradizionale del cristianesimo), dopo la consonanza tra il movimento cattolico
del modernismo e la filosofia di Bergson, quest’ultima, insieme alla maggior
parte della filosofia del nostro tempo, sembra destinata - ma non certo nel
futuro prossimo - ad attrarre nuovamente su di sé l’attenzione della cultura
cristiana. Non vi sono tesi somme, ossia principi, verità eterne che sovrastino
la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo rifiuto, ormai, non sono soltanto
le forme filosofiche del nostro tempo, ma anche la scienza: non soltanto la
filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione dell’uomo,
dunque anche a sé stessa -, ma anche, e da tempo, la scienza, nella misura in
cui essa si libera dalla illusione di essere, oltre che potente, assolutamente
vera. La frase riportata all’inizio è contenuta nei Contributi alla filosofia
(Beitrdge zur Philosophie), composti da Heidegger tra il 1936 e il 1938,
pubblicata postuma nel 1989 (Adelphi). Nonostante le profonde e suggestive
innovazioni rispetto a Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di
fondo del pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel
rifiuto di ogni tesi somma e di ogni verità eterna e soprastorica. In Essere e
tempo si dice: Che ci siano delle “verità eterne” potrà essere concesso come
dimostrato solo se sarà stata fornita la prova che l’Esserci era, è e sarà per
tutta l’eternità. Finché questa prova non sarà stata fornita, continueremo a
muoverci nel campo delle fantasticherie. Heidegger sta dicendo che, fino a
quando non si proverà che l’uomo (l’Esserci) è eterno - eterno non
semplicemente immortale -, sarà solo una fantasticheria parlare di verità
eterne. Ma per Heidegger è del tutto ovvio che l’uomo (come ogni cosa del
mondo) non è eterno e che quindi quella prova non potrà mai esser data - per
Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato e
agito da quando, all’inizio della storia dell’Occidente, è apparso il senso del
tempo e dell’eterno. Che nessuna cosa con cui l’uomo abbia a che fare sia
eterna è diventata ormai la convinzione più profonda e scontata anche presso la
gente comune, tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita di tempo.
Il tempo perduto - che fortunatamente ha forme diverse - i miei scritti l’hanno
aumentato di molto, mostrando invece che lo splendore delle cose (anche di
quelle terribili) è infinitamente più luminoso di quanto si sia disposti ad
ammettere. Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che non solo
l’uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose: situazioni,
configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri,
affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna esclusa. Il tempo, la
storia, è il comparire e lo scomparire degli eterni. E la necessità che ogni
cosa sia eterna è qualcosa di essenzialmente più radicale di quella prova
dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà mai esser data. Dall’inizio
alla fine il tema di questo pensatore è stato la domanda dell’Essere (
Seinsfrage ). La domanda - che continua ad attendere la risposta, ma che in
questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L’Essere non è
l’ente, non è alcuno degli enti (case, fiumi, stelle, pensieri, azioni, uomini,
dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che è e che è questo e quest’altro.
Qual è il senso di questo è - ecco la domanda dell’Essere -, da cui tutto in
qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche la filosofìa è stata, per Heidegger,
riflessione sul senso dell’ente, ossia è stata pensiero metafisico, e ha quindi
velato la domanda dell’Essere, pur dando vita alla storia dell’Occidente.
Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla
sommità del pensare, ma non per questo è una tesi somma, una verità assoluta.
Essa è storica. Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il superuomo,
ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei Contributi, non attribuisce al
proprio discorso nemmeno la capacità di costituirsi come l’autentica domanda
dell’Essere, ma solo il carattere di pensiero transitorio, che ai fini della
comunicazione deve spesso procedere ancora lungo il tracciato del pensiero
metafìsico, e i cui sforzi saranno un giorno superflui e ricadranno nell’accidentale
(p. 419). In una conferenza pubblicata nel 1964, e intitolata La fine della
filosofia e il compito del pensiero, Heidegger aggiungerà che al proprio
pensiero non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla
dimensione pubblica dell’epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica, e
che il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient’affatto fondante,
giacché gli basta risvegliare una disponibilità dell’uomo per una possibilità,
i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto. Va tuttavia anche detto
che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente
dichiara, espressione di una falsa modestia, giacché quell’oscurità e
incertezza, quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel carattere
preparatorio e non fondante non sono per lui semplici caratteri della scrittura
dell’individuo Heidegger, ma sono insieme, e addirittura, il modo in cui
l’Essere stesso si vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo stesso si può
dire di quella superfluità e accidentalità che nei Contributi Heidegger
attribuisce al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una
filosofìa che vorrebbe allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur
riconoscendo tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme
essendo convinta che tali difficoltà non sono dovute alle carenze di un certo
individuo, ma sono le difficoltà in cui le cose stesse si trovano. Ma queste
non sono tesi somme? Destano sorpresa anche molte delle tesi, peraltro suggestive,
che si incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo più in là di quanto
secondo lo stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio le tesi dei venturi,
dell’ultimo Dio (Quello del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie
rispetto al Dio cristiano), del modo in cui l’Essere - vibrando, oscillando -
si appropria del mondo. Heidegger intende rovesciare la metafisica senza
abolirla (e il timbro della sua filosofia è fortemente neoplatonico), senza
cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l’Occidente e ormai il pianeta:
la fede che l’uomo e le cose non sono eterni. Tra i temi più in vista e
operanti, nei Contributi, quello del creare, è essenzialmente metafìsico.
(Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e crea-tori, perché
di costoro ha bisogno la sua essenza?) Ma - dico - nessuna cosa creata è
eterna. È creata proprio perché non è eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E
dell’Essere stesso Heidegger esclude che sia eterno. L’Essere stesso è storico.
Ma questa fede nella non eternità di ciò che è non esprime forse la follia
estrema? Non pensa forse che ciò che è, non è (appunto perché non è eterno)?
Che il non niente è niente? Che gli esseri sono nulla? Certo, questa non è come
la domanda di Heidegger. Qui la Risposta - positiva - è già da sempre data e
non da uno di noi, ma dalla Necessità, e rende possibile ogni domanda.
Fenomenologia e libertà La distruzione della tradizione filosofica occidentale,
compiuta da Heidegger, non ha un significato semplicemente negativo.
Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad Aristotele. Piuttosto egli
intende portare alla luce la dimensione implicita che rende possibile il loro
esplicito dire. In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro,
ahimè così antico da essere stato la mia tesi di laurea, composta negli ultimi
anni Quaranta, discussa nel 1950 e in quell’anno pubblicata (e ripubblicata poi
da Adelphi, insieme ad altri miei scritti di quel tempo, col titolo Heidegger e
la metafisica). Ricordo queste cose per un certo e spero scusabile
compiacimento da me provato leggendo l’imponente lavoro del filosofo tedesco
Gunter Figai, ( Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, il melangolo
2007), che si muove sostanzialmente nella direzione di quel mio libro, vecchio,
ma che ritengo tuttora valido nelle sue linee essenziali. Non intendo
ovviamente confrontare l’esperienza filosofica di un ragazzo con il lavoro
maturo di uno studioso di grande serietà (e tanto meno vantare priorità). Ma in
filosofia hanno la preminenza i concetti, in nome dei quali vorrei dire a
Figai, tra l’altro, che il suo modo di intendere la distruzione dell’ontologia
tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe ulteriormente rafforzata se
anch’egli avesse richiamato quegli avvertimenti quanto mai sintomatici e
abbastanza frequenti di Heidegger, nei quali, già a partire da Essere e tempo,
egli dichiara che la propria indagine fenomenologica non pregiudica in alcun
modo la soluzione dei grandi problemi della metaphysica specialis; quali
l’esistenza o meno di una vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o meno di
Dio - i problemi, appunto, che ricevono le prime grandi risposte positive dalla
metafisica di Platone e di Aristotele. E in effetti un’indagine che si propone
come fenomenologia non può dir nulla intorno a questioni che per definizione
stanno oltre la dimensione fenomenologica, ossia alla dimensione che, con
qualche approssimazione, si può identificare nell’esperienza. È invece più
difficile convincersi della tesi che Figai intende rendere più visibile e che è
indicata dal sottotitolo del suo libro: Fenomenologia della libertà. Sono
d’accordo sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’essere (ontologia) e
sul senso della libertà in Heidegger. Ma Figai si dice convinto che la filosofia
di Heidegger dia modo di ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente
nuovo. Cosa che a me non sembra, perché se il senso ontologico della libertà
significa da ultimo la finitezza e contingenza delle cose e quindi delle
decisioni (cioè il loro essere qualcosa che sarebbe potuto non essere), allora
tale contingenza dei contenuti mondani è pienamente affermata già da Platone e
Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso di Heidegger,
a qualcosa che, come dice Figai, la si sarebbe potuta compiere in modo diverso
(p. 411). Ma allora, come Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene
presente), l’idea trascendentale della libertà - dice Kant - non contiene nulla
di derivato dall’esperienza ossia non è un contenuto fenomenologico), e pertanto
rimane aperto il problema, che né Heidegger né il suo interprete hanno
affrontato: quello di mostrare quale sia il fondamento deU’affermazione che è
il contenuto di tale idea è anche qualcosa di realmente esistente. Nella
bio-linguistica di Chomsky la lingua è considerata come un aspetto
particolarmente significativo della mente e dunque del rapporto mente/cervello.
Pertanto si inquadra ragionevolmente nella psicologia e, più in generale, nella
biologia umana. Esplorazioni in questo campo, da lui peraltro già da tempo
dissodato, sono Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (il
Saggiatore). Anche qui Chomsky dichiara di voler usare le parole mente e
linguaggio senza una valenza metafisica. Così attento al significato delle
parole, egli non dice nulla sul significato della parola metafisica; ma è
chiaro che il suo intento è di considerare la mente e il linguaggio come
oggetti naturali - senza però addossarsi l’onere di escludere ricerche
filosofico-metafìsiche sulla mente, il corpo, il linguaggio. E, a prima vista,
il proposito sembra del tutto legittimo. Analogamente, come può essere
illegittimo l’intento di considerare la nona sinfonia di Beethoven
semplicemente dal punto di vista delle scienze fisiche, quando la ricerca non
intenda escludere la comprensione estetico-musicologica e nemmeno quella
filosofico-metafisica di quest’opera? È lo stesso Chomsky a riconoscere che
l’arte può ammaestrarci, intorno alla mente, molto di più di tutte le
informazioni che intorno a essa possono esserci fornite dalla biolinguistica.
Eppure, come era prevedibile, anche in questo caso la filosofia e la metafisica
si insinuano nella dimensione scientifica che vorrebbe tenerle fuori dalla
porta. Come il corpo, anche la mente e il linguaggio sono, per Chomsky, uno dei
domini empirici analizzati dalla scienza. Anche la mente è una parte della
totalità dei domini empirici, ossia della totalità dell’esperienza. Ma, come la
parola metafisica, così l’espressione totalità dell’esperienza - o dei domini
empirici - non riceve alcun chiarimento esplicito da parte di Chomsky. O,
meglio, riceve un chiarimento implicito che rende esplicita la presenza di
quella metafisica da cui egli vorrebbe tenersi lontano. Intendo dire che una
certa metafisica (ben lontana dal mostrarsi come inoppugnabile) è presente
proprio nel concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza.
Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha basi assolutamente certe (pur
essendo affidabile e applicabile alla realtà), perché i segreti della natura,
delle cose-in-sé, ci saranno per sempre celati. Il che significa che l’indagine
scientifica si chiude prudentemente in sé - lasciando fuori di sé la metafisica
- perché essa non accetta imprudentemente la metafisica della cosa in sé:
quella cosa in sé kantiana, rispetto alla quale non solo la dimensione della
mente non può essere altro che una parte, ma la stessa totalità dell’esperienza
(che potrebbe essere la definizione più ampia del mentale in campo scientifico)
si riduce a essere una parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara,
per altri motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove la res cogitans ha altro
al di fuori di sé, è il motivo più profondo. Come tanti altri che ignorano
l’insegnamento idealistico, non vede il carattere profondamente metafisico
dell’affermazione dell’esistenza della cosa in sé. L’anima come totalità e come
parte di ciò che appare L’anima è in certo modo gli enti: He psyché ta ónta pós
estin. Questo, afferma Aristotele nel De anima, Vili, 231 b, 21. Gli enti (ta
ónta ) non significa una certa parte degli enti, ma non le altre parti.
Significa: tutti gli enti: pànta ta ónta. L’anima è in certo modo (pós) la
totalità degli enti. In certo modo dalla tradizione aristotelico-scolastica a
Brentano e alla fenomenologia questa espressione è intesa come già Aristotele
sostanzialmente la intende: l’anima è gli enti, ma non nel senso che essa sia
simpliciter (fisicamente dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le
case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è
la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si
interpreta: l’anima è intenzionalmente tutti gli enti; è il riferirsi a essi.
Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi degli
enti. E il pensiero greco chiama phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la
totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e quindi Aristotele
non intende affermare che l’anima sia onnisciente, ma che essa è tutti gli enti
che vanno via via manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e
insieme: che essa è sì la manifestazione della totalità degli enti, ma la
totalità si manifesta come processo, sviluppo, generazione degli enti del
mondo. E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via via
manifestantisi) l’anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità.
Ciò non significa che l’anima non possa apparire. In Aristotele questo aspetto
del discorso sull’anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che l’anima
è in certo modo gli enti è proprio l’apparire di questa forma di identità
dell’anima e della totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme
l’apparire in cui l’anima ha come contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo, ha
come contenuto sé stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma
come l’apparire della loro totalità. L’apparire degli enti è il fondamento di
ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni
progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di ogni aspetto
della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono
aU’anima (coscienza, mente, spirito), intesa questa volta come parte della
totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristotelico), religione,
scienza, arte hanno imboccato questa strada, dove l’anima è uno degli enti
particolari che appaiono. Per esempio, per millenni - e, dopo la parentesi
idealistica, tuttora - quelle forme culturali (guidate da un sapere filosofico,
che a sua volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro
apparire, gli enti esistano in sé stessi, cioè indipendentemente dal loro
apparire e dunque dall’anima in quanto sia intesa come il loro apparire. Solo
sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi teorie come quella
evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato di un
lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella in cui consiste la
psichiatria, dove la psiche, intesa come oggetto di una iatréia, è circondata
dalla cura come ogni altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua
volta inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero. In questo
modo, si perde però di vista che queste e ogni altra teoria che considerano
l’anima come parte - e innanzitutto quella credenza nell’indipendenza degli
enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro da
ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio sull’apparire degli enti,
cioè su quell’anima che lungo la storia del pensiero occidentale è
sopravvissuta ed è stata pensata come phàinestai, cogito, Io penso, Spirito
come atto puro, esperienza (in quanto esperienza della totalità degli enti che
vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di esperienza, si
osservi che il metodo sperimentale è, per la scienza stessa, l’indagine che
pone a proprio fondamento l’esperienza; sennonché dell’esperienza in quanto
tale la scienza non si interessa: volta le spalle al senso fondamentale
dell’anima per dedicare ogni sua attenzione all’anima come ente particolare. E
se oggi si rivendica il carattere linguistico dell’esperienza, va detto che
anche con questo carattere l’esperienza è il fondamento di ogni attività
teorica e pratica dell’uomo. Ma anche Aristotele, oltre a intendere l’anima come
apparire della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale
apparire è infatti per Aristotele l’identità del conoscente in atto e del
conosciuto in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del
processo che conduce a questo risultato è, da un lato, la capacità dell’anima
di conoscere (ossia il suo esser conoscente in potenza), dall’altro lato è la
capacità degli enti di essere conosciuti (ossia il loro esser conosciuti in
potenza). Queste due capacità non sono lo stesso, non sono identiche.
L’identità di conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto ed
essa è appunto il risultato del processo che conduce dalla potenza all’atto. Ma
quando l’anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di intelletto
passivo) e differisce dal conosciuto in potenza - ossia dagli enti che hanno la
capacità di apparire -, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima
diventa parte anche quando l’apparire della totalità degli enti è inteso come
atto di un io (persona, soggetto), e si afferma, appunto, che io penso - dove
il pensare è innanzitutto quell’apparire. Anche qui, e nonostante tutti i dubbi
che si nutrono in proposito, è la filosofia greca, e dunque lo stesso
Aristotele, ad aprire questa prospettiva. Si ritiene che esista un produttore
del pensare e che tale produttore sia un io, una persona, un soggetto.
(Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale soprattutto in campo
biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) È manifesto
che è quest’uomo singolo a pensare - manifestum est quod hic homo singularis
intelligit, si afferma nel De unitate intellectus contro averroistas di san
Tommaso. Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo singolo sia il pensante
(Tommaso) e che il cogitare sia il cogitare di un ego (Cartesio) appartengono
alla stessa prospettiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non
solo filosofica - peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche,
Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva,
l’io, la persona, il soggetto (ma anche il corpo, la materia, il cervello) sono
parti della totalità che appare. Vintelligere di quest’uomo singolo è il campo
di ciò che è manifestum e quest’uomo singolo è una parte di questo campo -
ossia dell’apparire della totalità degli enti. A questo punto, si tratterebbe
di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui
a un’indicazione sommaria. Se in quella prospettiva io penso significa io sono
produttore del pensiero, il pensiero non è d’altra parte inteso come qualcosa
che sia ignoto all’io. L’io ha notizia del pensiero da lui prodotto. Ma l’aver
notizia è l’apparire. E a sua volta il pensiero è innanzitutto l’apparire degli
enti. L’io penso viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno
esplicito) a gli enti appaiono a me: io, che penso, sono appunto l’io a cui
appaiono gli enti. L’a cui è la notizia che l’io ha di essi. Dire quindi che
gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me -
appunto perché a me non può non significare, in questa prospettiva, apparire a
me; sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che
l’apparire degli enti appare all’apparire a me... et sic in indefinitum. In
altri termini, che gli enti appaiano a me non significa, in quella prospettiva,
che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza,
cioè a un apparire; e se si intende tener fermo che l’apparire è sempre un
apparire a un io, a una coscienza, allora l’apparire a me è l’apparire
all’apparire a me, dove l’a me determina un progressus in indefinitum. Con la
conseguenza che, se ciò a cui appaiono gli enti viene indefinitamente spostato
e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l’apparire
possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non
appare alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per la quale
io penso e gli enti appaiono a me. Nella variante riduzionistica di tale
prospettiva, il cervello pensa (o il corpo pensa). Ma in questa variante non si
intende sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono - è il loro
apparire al cervello, e quindi in tale variante non è presente la
contraddizione che invece compete alla prospettiva di cui il riduzionismo è,
appunto, una variante. Al riduzionismo compete un’altra contraddizione, che ho
considerato in altre occasioni e che è cioè Yanàlogon del riduzionismo
teologico. La riduzione della mente al cervello è cioè Yanàlogon mondano della
riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente
riducibile a Dio, non c’è mondo; e se la mente è totalmente riducibile al
cervello, non c’è mente. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale c’è
un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa
stessa afferma: nega quella mente e quel mondo che essa riconosce esistenti
proprio per la sua volontà di ridurli, rispettivamente, al cervello e a Dio.
Testo, con alcune modifiche, dell’intervento alla tavola rotonda sul tema
Tecnica e processo»; tenutosi a Venezia, all’inaugurazione dell’anno
giudiziario. Articolo pubblicato sul Corriere della Sera» il 27 gennaio 2005.
L’ultimo capoverso è aggiunto. Rielaborazione dell’intervento alla tavola
rotonda La tecnocrazia negli anni Trenta» con Giuseppe Morbidelli, Natalino
Irti, Guido Rossi. Firenze, Palazzo Strozzi. Già nel capitolo IV de La
struttura originaria - dunque più di cinquantanni fa - avevo indicato quanto
occorre per rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state
rivolte intorno al modo in cui, in quel capitolo, viene risolta l’aporetica del
nulla». Questa aporetica, sin da Platone, consiste nel rilevare che il nulla è
pensato, e che quindi è qualcosa che appare e di cui il linguaggio parla continuamente,
sì che il nulla non è il nulla. La radice di quelle obbiezioni è il pensiero
che, sin dall’inizio della storia dell’Occidente, isola la terra dal destino e
su questa base isola le cose della terra (le molteplici determinazioni del
mondo) dal loro essere, ossia isola (in ciò che è, cioè nell’ essente) il ciò
che dal suo è. Tale atteggiamento isolante si riflette, appunto, nel modo in
cui l’Occidente pensa il nulla. L’isolamento delle cose dal loro essere
incomincia con Parmenide - col Parmenide quale è interpretato nella tradizione
platonico-aristotelico-hegeliana. E alcuni miei critici - Gennaro Sasso
innanzitutto, e Mauro Visentin - sono giunti, attraverso l’esperienza del mio
discorso filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva originaria di Parmenide
- del Parmenide, appunto, che è presente in quella tradizione e per il quale,
al di fuori della verità dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo
intero e l’intera storia dell’uomo sono soltanto dóxa, opinione, illusione,
nomi», cioè sono, in quanto tali, non¬ essere, nulla. Per quei miei critici, e
innanzitutto per Sasso, essere» significa, come per Parmenide, soltanto
essere», senza alcuna proprietà oltre a quella di non essere il nulla. In
questa prospettiva, la totalità delle determinazioni, ossia delle differenze
che costituiscono il mondo naturale e umano, sono appunto il contenuto
dell’opinione. Ne viene, allora, che anche tutte le considerazioni sviluppate
da questi miei critici per sostenere le loro tesi e per criticare il contenuto
dei miei scritti - considerazioni che formano a loro volta un sottoinsieme
della totalità delle differenze del mondo - sono opinioni, non sono verità
(assolute e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in modi
diversi, riconoscono il carattere opinabile (Visentin) o addirittura
contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur interessanti e articolate
riflessioni (cfr. G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopola; M. Visentin, Il
neoparmenidismo italiano, Bibliopolis). La struttura originaria della verità è
l’apparire dell’impossibilità che ciò che è non sia ciò che esso è.
L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere implica infatti che
qualcosa non sia ciò che esso è: implica (con Parmenide) che le differenze
siano esplicitamente poste come nulla; e implica (con Platone e poi con
l’intera storia dell’Occidente) che, essendo intese come ciò che esce dal nulla
e vi ritorna, siano implicitamente poste - esse, che non sono un nulla - come
nulla. Questa implicitezza custodisce il segreto dell’Occidente, cioè l’essenza
del nichilismo. Tale essenza non può riuscire a scorgere che le differenze si
distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono nulla. La
distinzione, infatti, non è separazione, isolamento. Anche quando intende essere
la negazione più radicale della separazione - per esempio e soprattutto con
Hegel -, l’essenza del nichilismo rimane prigioniera di ciò che essa nega,
perché intende unire ciò che peraltro essa intende come originariamente
separato; sì che ogni volontà di sintesi è destinata al fallimento. Ogni
differenza del mondo - cioè ogni essente, o significato - è cioè destinata a
esser pensata e vissuta come un nulla - anche quando si ritiene che un Dio
eterno possa salvare il mondo dal nulla. Il modo in cui il nichilismo pensa e
vive la nientità degli essenti determina il modo in cui esso pensa e vive la
presenza del nulla. Nella Struttura originaria si mostra che il nulla è un
significato contraddicentesi. Data la distinzione, indicata in quelle pagine,
tra il contraddittorio», o rautocontraddittorio» - ossia l’impossibile, il
nullo - e la contraddizione», che invece non è un nulla, in queste pagine si
precisa - IV, 6 - che il significato “nulla” è un significato
autocontraddittorio, ossia è una contraddizione» - un significato
contraddicentesi», appunto. Affermando l’esistenza di quel significato
autocontraddittorio» (cioè contraddicentesi), in tale scritto non si dice
quindi che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la
contraddizione è (e che la contraddizione sia non è impossibile - fermo
restando che questo suo essere ha un fondamento», cfr. ad esempio Fondamento
della contraddizione, Adelphi 2005, sul quale nei miei scritti si è sempre
richiamata l’attenzione). I due momenti contraddicentisi del significato nulla
sono, da un lato, il positivo significare» del nulla, ossia il suo essere nulla
e l’ apparire di questo essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e assenza di
significato del nulla che è positivamente significante. Da un lato, il positivo
significare di ciò che, dall’altro lato, è l’assoluta negazione di ogni
positività e significato. (Recentemente ho ripreso e approfondito queste
tematiche nello scritto Intorno al senso del nulla, Adelphi). Questi due lati o
momenti sono originariamente e necessariamente uniti perché la loro
separazione, cioè Yisolamento dell’uno rispetto all’altro, implica l’essere
dell’impossibile, ossia che il nulla sia un essente. Infatti, se i due momenti
sono (più o meno esplicitamente) intesi come separati, l’assoluta nientità del
nulla appare, e appare come significante, ossia è: il nulla appare
inevitabilmente come un essente. Se i due momenti vengono separati, è
inevitabile che il positivo significare del nulla (il primo momento) si
ripresenti nel nulla - ossia nel secondo momento, cioè nel significato che è il
contenuto di quel positivo significare -, sì che Y esito inevitabile di quella
separazione è la constatazione che il nulla è un essente. Questo esito
differisce essenzialmente dal significato autentico del nulla, ossia dal nulla
come significato contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché,
in esso, nulla (il significato nulla) non significa essente, ossia non è un
essente (e appunto per questo il significato nulla contraddice quell’essente
che è la positività del proprio significare). Nell’esito della separazione dei
due momenti del significato contraddicentesi, si è costretti invece ad
affermare che il nulla, essendo significante, è, è un essente, sì che
l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di
essere, è. In seguito alla separazione, l’aporia del nulla si presenta pertanto
come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo.
L’isolamento-separazione conduce all’essenza del nichilismo, costringendola ad
affermare che gli essenti sono nulla (in quanto escono e ritornano nel nulla);
ed è ancora l’atteggiamento isolante a costringere l’essenza del nichilismo ad
affermare, in relazione al nulla, che il nulla è un essente. Con la differenza
(rilevata da Nicoletta Cusano in Capire Severino. La risoluzione delVaporetica
del nulla, cit.) che nel primo caso il nichilismo non può vedere il proprio
essere identificazione dell’essente e del niente, mentre nel secondo caso - in
relazione cioè al modo in cui il senso del nulla si inscrive nella struttura
originaria della verità (alla quale si rivolge il mio discorso filosofico) - il
nichilismo, e propriamente quella sua forma che si è posta in relazione a quel
mio discorso (la forma presente ad esempio negli scritti di Sasso, Visentin,
Massimo Donà), porta esplicitamente alla luce il proprio identificare il nulla
a un essente e intende questa identificazione come inevitabile (ossia come
inevitabilità della negazione della struttura originaria della verità). D’altra
parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di tale identificazione -
ossia dell’assurdo e dell’impossibile, in cui appunto consiste Tessere del
nulla - solo in quanto, dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non
significa essere (essente). Se questo assoluto differire non apparisse non si
potrebbe nemmeno affermare che l’identificazione di nulla e di essere è una
contraddizione che secondo alcuni miei critici inficerebbe la struttura
originaria del destino. Il nichilismo non si avvede che l’aporetica del nulla
sorge non perché il nulla sia inevitabilmente un essente, ma per la logica
isolante messa in atto dal nichilismo stesso, ossia perché quella inevitabilità
è, ancora una volta, la conseguenza della separazione che, in questo caso,
crede di poter prescindere dalla sintesi originaria del significato nulla e del
suo positivo significare - sì che, presentandosi isolato, tale significato,
proprio perché si presenta, non può che apparire come Tesser un essente da
parte del nulla. Pertanto, che il nulla sia significante» non significa che il
nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il
significare. Il significare del nulla non appartiene al nulla, perché il nulla
non è un essente a cui questo significare o qualsiasi altra proprietà o
attività possano appartenere. In quanto il significare è positività (e anzi è
la positività stessa, lo stesso esser essente), il significare del nulla
appartiene cioè all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto
essa appare nella struttura originaria della verità. E che il nulla sia un
significato» non significa che il nulla sia qualcosa di passivo» rispetto
all’attività significante dell’essere, giacché anche questo essere un che di
significato» appartiene a quella totalità. Si aggiunga la seguente annotazione
in rapporto al modo in cui Heidegger intende il problema del Niente»
(soprattutto in alcune pagine de II nichilismo europeo, 1940, intitolate
Nichilismo, nihil e Niente). L’intento di Heidegger è di mostrare che il Niente
non è un ente, ma non è nemmeno mai ciò che è soltanto nullo»: il soltanto
nullo» relativamente al quale il pensiero metafisico dà per scontati sia il suo
esser contrapposto all’ente sia l’assenza di ogni altra forma di
contrapposizione alla totalità dell’ente. In apparenza Heidegger vuol portarsi
in una dimensione più profonda di quella in cui si dà per scontata la
contrapposizione tra ciò che è soltanto nullo» - il nihil -, e l’ente; ma
dicendo che il Niente» (che poi è per lui l’Essere» stesso) non è nemmeno mai
ciò che è soltanto nullo» attribuisce una funzione decisiva al soltanto nullo»:
la funzione di determinare la dimensione che include sia l’ente, sia il Niente»
(l’Essere»). In tal modo, tutte le connotazioni del soltanto nullo» da cui
Heidegger in quelle pagine intende prendere le distanze, e tutte le aporie che
il soltanto nullo» solleva, ma che Heidegger qualifica come conseguenze
dell’incapacità di sollevarsi al senso autentico del Niente, ritornano in
circolazione, e vi ritornano nel loro non esser state chiarite e risolte -
innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma Heidegger non lo rileva), per
la quale ogni considerazione intorno al nulla fa del nulla un qualcosa», ossia
un ente; l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni
apparentemente acute. È probabile, stando all’andamento del testo, che per
Heidegger sia solo apparentemente acuta» anche l’osservazione, da lui
richiamata che se il Niente è niente [e qui il Niente è il soltanto nullo»], se
il Niente non c’è, allora non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi mai nel
Niente e che tutto si dissolva nel Niente, allora non ci può essere nemmeno il
processo del diventare-niente». Ma anche questa osservazione, che Heidegger
sembra trattare con sufficienza e lasciare infine da parte, ritorna in
circolazione nello stesso discorso di Heidegger, quando egli, come si è
rilevato, di fatto assume il Niente, inteso come il soltanto nullo», come
essenziale per poter affermare che il Niente, autenticamente inteso (ossia il
Niente che è l’Essere» stesso) non è il nihil soltanto nullo», come d’altronde
Heidegger ha sempre affermato nei suoi scritti. Un libro Nella successione» dei
miei scritti, Destino della Necessità (cit.) sta al centro. Rende radicale il
tema di fondo che si era presentato un quarto di secolo prima; apre i problemi
che il filone primario degli scritti successivi intende risolvere. Il tema di
fondo è, appunto, la Necessità : di ogni cosa, di ogni aspetto o stato del
Tutto. Ma di necessità» gli uomini parlano da millenni. Al di là di ciò che ne
dicono, in Destino della Necessità si fa innanzi» il senso innegabile della
Necessità. Esso sta : nessuna forza può scuoterlo. La parola de-stino» indica
questo stare. Appunto per questo è nel linguaggio che quel senso si fa
innanzi», venendo a mostrarsi nel destino, cioè in sé stesso in quanto luogo
che accoglie anche il linguaggio: nella già da sempre manifesta innegabilità
dell’esser sé di ogni essente. L’esser sé: il non esser altro e tanto meno
quelfaltro che è il nulla: l’impossibilità dell’essente di essere stato e di
tornare a esser altro e quell’assolutamente altro che è il nulla: la
necessità-eternità dell’essente in quanto essente. Tempo, storia, divenire del
mondo umano e della natura non sono il venire dal nulla e il ritornarvi, ma
l’incominciare ad apparire e il non apparir più, all’interno del cerchio eterno
del destino, da parte degli eterni (quindi anche di quell’eterno che è il
linguaggio - e anche il linguaggio che testimonia il destino). Da sempre e per
sempre il destino è l’essenza dell’uomo. Ma non testimoniando il destino
l’intera storia dell’uomo è alienazione della verità. Nel suo stato attuale,
ossia nella forma finita del destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il
destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione più ampia, è
l’isolamento della terra dal destino. Destino della Necessità rende radicale
tutto questo, perché Essenza del nichilismo (Adelphi) lascia ancora aperto il
problema relativo alla Necessità o non- Necessità del sopraggiungere e del modo
in cui sopraggiungono gli eterni nel cerchio eterno, in cui il destino
consiste, nelVapparire degli essenti: ogni essente è eterno; ma gli eterni
sarebbero potuti non sopraggiungere in quel cerchio, o sopraggiungervi in modo
diverso da quello che appare? Destino della Necessità mostra che la Necessità
autentica implica anche la Necessità del sopraggiungere e del modo in cui gli
eterni sopraggiungono nelVapparire del destino. La contingenza degli eventi e
la libertà della volontà appartengono cioè all’essenza del nichilismo ossia
alla persuasione che Tessente in quanto essente sia un esser stato e un tornare
a esser nulla. La volontà ha quindi un significato essenzialmente diverso da
quello che le è stato via via assegnato. Non è una potenza che determini
liberamente l’oscillazione degli essenti tra il loro essere e il nulla, ma è la
fede di avere tale potenza, la fede che quindi vuole l’impossibile, non
sapendolo, ma essendo anche fede di ottenere, a volte, e a volte di non ottenere
ciò che essa vuole. La volontà di potenza, che culmina nella tecnica moderna,
si manifesta anche nel modo in cui le lingue indoeuropee, cioè il terreno in
cui cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del mondo) ( Destino della
Necessità). Al di fuori dell’alienazione della terra isolata, la volontà»
autentica e il destino, in quanto apparire della Necessità e libertà
dall’errore (Verrare essendo peraltro anch’esso un eterno). Nella sua forma
infinita il destino è l’eterno oltrepassamento di ogni contraddizione, ossia è
la gioia. Nel suo inconscio» più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è
l’infinito. Ma Destino della Necessità apre, insieme, i problemi fondamentali
degli scritti successivi Nell’ultimo capoverso del libro ci si chiede
innanzitutto: Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio
dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla
solitudine [all’isolamento dal destino] o all’oltrepassamento della
solitudine?». Gli scritti successivi (soprattutto La Gloria, Oltrepassare, La
morte e la terra, citt.) mostrano la destinazione della terra a questo
oltrepassamento e le sue decisive implicazioni. Nietzsche e Freud insegnano a
Hemingway quanto siano terribili gli impulsi più profondi dell’uomo. Ma già
Sofocle, millenni prima, dice che l’uomo è deinótaton, cioè il più temibile»
degli esseri. E si può ancora retrocedere. Hemingway concepiva la sincerità
come il supremo comandamento morale. Anche e innanzitutto nella scrittura, che
non deve nascondere quello che l’uomo prova veramente. Quindi il suo non era
soltanto cinismo, esibizione della propria malvagità. Spesso si confonde la
bontà con la conformità degli istinti alle consuetudini sociali. Li si nasconde
perché è difficile che siano confessabili. La bontà non è la cosiddetta
innocenza» dei bambini o la mansuetudine delle pecore - anche della quale si
può peraltro dubitare come si dubita di quell’innocenza. Hemingway impara che
il piacere della vita è inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è guerra,
dice l’antichissimo Eraclito. Ora, intendo dire che non c’è bontà che non sia
lotta contro il male esistente fuori e dentro di noi. E da ultimo il male è il
dolore, l’angoscia, la morte che l’impulso distruttivo dell’uomo produce negli
altri e in lui stesso. L’uomo buono - soprattutto il santo - non è chi sia
privo di inconfessabili impulsi, ma chi ne abbonda. Se ne fosse privo, sarebbe
appunto l’innocente o il mansueto quadrupede. Forse per questo i veramente
buoni e i santi sono spesso insopportabili. La loro indole è terribile. Sono
buoni e santi perché, lottando contro di essa, la vincono. Tanto più buoni e
santi quanto più la malvagità invade la loro natura. Se i cristiani sono
convinti che Gesù sia il più santo, devono credere che natura, indole, impulsi
siano in lui i più malvagi e che egli sia il più santo proprio perché, solo
lui, riesce a vincerli. La crudezza di certe espressioni di Gesù può essere un
sintomo. Il primo passo per vincere quanto di «terribile-temibile» è presente
in ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità. Hemingway la possedeva.
Poiché credeva che i «valori supremi» della tradizione occidentale siano morti
- e che uccidere gli uomini non violi dunque alcuna legge inviolabile -, gli
restava come unico valore l’aspirazione alla sincerità, il desiderio di dire la
verità (forse esagerando) intorno a quanto di malvagio c’era anche in lui e di
cui egli godeva. Ci si può spiegare come alla fine non sia più riuscito a
sopportare la vista di sé stesso e, forse per questo, si sia ucciso. Nietzsche
scrive: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si
svalutano. Che i valori si svalutino significa che essi restano distrutti,
annientati. Lo stesso Nietzsche alimenta la convinzione che il vero senso del
nichilismo sia la volontà di annientare - e gli uomini pensano che
l’annientamento più nefando sia quello di cui son vittime essi stessi. Eppure,
per quanto potente sia la riflessione di Nietzsche - e poi di Heidegger - sul
nichilismo, essa non ne raggiunge il fondo. Le «guerre di annientamento» del XX
secolo sono la conseguenza più vistosa di una persuasione che risale alle
origini della nostra civiltà, cioè al pensiero filosofico dei Greci. Si tratta
della persuasione che gli esseri possano esser stati e possano ridiventare
niente; ossia che gli esseri possano esser non essere, cioè nulla. Il culmine
dell’errore, qui, si unisce al culmine dell’orrore - anche se questa
persuasione domina ormai l’intero pianeta. Se qualcuno dicesse che c’era un
tempo in cui il cerchio era quadrato e ci sarà un tempo in cui il cerchio
tornerà a essere un quadrato, tutti, o i più, protesterebbero e direbbero che
un tempo siffatto non può esistere; ma nessuno protesta di fronte al pensiero
che c’è un tempo in cui l’essere (che ora è) era ancora nulla e un tempo in cui
tornerà a esserlo. Qui la sordità è totale. Troppo profonda perché sia
imputabile alla semplice debolezza della mente umana. Ma intanto, come
potrebbero, un uomo o un Dio, proporsi di annientare un qualsiasi essere, se
non fossero convinti che l’essere da annientare possa diventare nulla e, una
volta diventatolo, sia vero affermare che tale essere è il nulla? Il culmine
della follia non è forse pensare che l’essere è il nulla? E «nichilismo» non è
forse, innanzitutto, pensare che l’essere è nulla? E non è forse per questo
antico pensiero che possono esser maturate tutte le radicali distruzioni che
scandiscono la storia dell’Occidente? Nietzsche afferma che «Fannichilimento
mediante la mano asseconda Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è
Fannichilimento dell’essere mediante il pensiero dei Greci che non solo
asseconda ma è il fondamento essenziale di tutte le distruzioni estreme
compiute dalla mano dell’Occidente - la più civile delle civiltà -, che ormai è
la mano del pianeta. Emanuele Severino. Severino. Keywords: velino, velia,
parmenide, zenone, scuola di velia. Zenone il velino, Parmenide il velino,
divenire, GENTILE -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Severino” – The
Swimming-Pool Library. Severino.


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