Grice e Ferrero: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale arimmetica – scuola
di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Just for having
written on the influence of Pythagoras on the Roman world, Ferrero is highly
commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras taught of course
at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!” -- Italian
philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del
Pitagorismo nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della Fondazione
Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta ancora oggi
uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato da uno
spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento
dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che
Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire
sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico
occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più
importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra
filosofia romana e pitagorica,
rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana
classica. Su questa base l’a. arriva a
sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica
ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e
realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la
formazione del politico. Il piano
dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente
permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della
Roma antica, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice
analitico che ne facilita la consultazione.
Si laurea con Rostagni, a Torino. Insegna a Trieste. Ferrero is not the first to claim Italianita
and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father
was an Etruscan! Numa learned from him! CICERONE corrects here – it’s the
tradition that counts – Livio also notes that a book by Numa was destroyed: by
that time, the republic had an official religion and Pythagorianism was not
part of it! The Cusano thought that the Holy Trinity is Pythagorean. Ficino
claims Plato is Pythagorean via his tutor who was Pythagoras’s tutee – Pico
asks Ficino for advice on these maters. Caparelli thinks it’s all Pythagoreian.
The important bit is politic, and ethnic. Pythagoreanism became popular in the
rest of Europe via Italy, that always showed more of an interest for ancient
history than the Germanic peoples – perhaps because runes do not give so easily
to history! ARISTOSSENO
('Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. Filosofo peripatetico, scolaro di
Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più
grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo,
sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca
naturalistica. I suoi Elementi di armonia eccellono per l'esattezza della
ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti
presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione diretta dei fenomeni
del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella
musica l'elemento etico e l'efficacia di educazione spirituale. Col suo
temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell'anima come
armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo,
trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò,
del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale,
politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro
messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su
Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento
di svalutazione polemica. Pei frammeriti degli 'Αρμονικά vedi le edizioni
moderne di Marquard (con commento e versione tedesca, Berlino), di Westphal (A.
v. Tarent, Melik und Rhytmik des Klassischen Hellenentums, versione e commento,
Lipsia) e di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes,
introd. and index of words, Oxford). Bibl.: von Jan, in
Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis, che contiene ulteriori
indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d.
Philos., Berlino; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et la musique dans
l'antiquité, Parigi 1924. La restituzione della Geometria Pitagorica
Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I Poliedri
regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del "postulato" di
Euclide. PREMESSE. Proclo, capo della Scuola d'Atene, ci ha lasciato un
prezioso commento su Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed
importanti notizie che i moderni posseggano sui risultati conseguiti e le
scoperte fatte in geometria da Pi-tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo Pitagora
trasforma questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimonta ai
principi superiori e ricerca i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura;
è a lui che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure
del cosmo (poliedri regolari). PROCLO, Com. in
Euclidem, ediz. Teubner: la traduzione su riportata è quella del Tannery TANNERY,
La Géométrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en
savons, Gauthier-Villars, Paris). Non è una traduzione alla lettera; e non
per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo che il testo
greco non dice che Pitagora rimonta ai principi superiori della geometria, ma ἄνωθεν
τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa: considerando dall'alto i
principi della geometria. Anche Loria (Le scienze esatte nell'antica Grecia),
riporta il passo con una traduzione analoga a quella del Tannery. Proclo ci
attesta inoltre che Eudèmo, il peripatetico, attribuisce ai pitagorici la
scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qualunque la somma degli
angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che
consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato
opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni
formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del
triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un angolo
piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei
triangoli equilateri riuniti per il vertice riempiono esattamente i quattro
angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono
qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti;
questa somma non è data esattamente che dai soli Cfr. TANNERY, Le Géométrie
Grecque, PROCLO, ediz. Teubner MIELI riporta il passo nel testo greco in Le
scuole ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1Eudemo da Rodi, l'eminente
discepolo di Aristotele. poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È
un teorema pitagorico. Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote- nusa
di un triangolo rettangolo. Se si ascoltano coloro che vogliono raccontare la
storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono questo teorema
a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta. Secondo Eudemo
(οἱ περὶ τὸν Εὔδημον) la parabola delle aree, la loro iperbole e la loro
ellisse, sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con questa
nomenclatura, classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo designa i
problemi dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e di quel-
la in difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione geometrica,
dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2 e) L'impiego
del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di
riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re
l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner,
PROCLO, ediz. Teubner Questo teorema è attribuito a Pitagora anche da DIOGENE
LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De Architectura), e da ATENEO. 6
PROCLO, ediz. Teubner PROCLO, ediz. Teubner Per quest'ultimo punto vedi anche
GIAMBLICO – De Vita Pythagorae Queste, insieme a poche altre che avremo
occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si possiedono
sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che a sua volta
le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però notare che il
Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il punto
unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera
geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha
neppure utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad
Euclide da Eudemo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita
Eudemo solo di seconda mano, e precisamente attraverso Gemino, un greco,
probabilmente, nonostante il nome latino. Quanto ad Eudemo, per spiegare
l'origine delle indicazioni passabilmente numerose e circostanziate perve-
nuteci per suo mezzo relative ai lavori della scuola pitagorica, Tannery sostiene
che deve essere esistita un'o- pera di geometria, relativamente considerevole,
che Eudemo deve avere avuto tra le mani, opera composta dopo la morte di
Pitagora, approssimativamente verso la metà del V secolo. È forse l'opera che
Giamblico designa come: la tradizione circa Pitagora. Osserva il Tan- nery10
che, in base al riassunto storico di Proclo, nel trat- tato di geometria greca
di cui si può sospettare l'esisten- TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom.
gr. TANNERY, La Géom. gr., za, il quadro era già quello che riempiono gli
«Elementi» di Euclide, dal I libro (teorema dei due retti), al 10o (scoperta
degli incommensurabili), al 13o (costruzione dei poliedri regolari). Questo è
il coronamento dell'uno e dell'altro; cioè del riassunto di Proclo e degli
Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie élémen- taire
nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de Pythagore, de même
que Minerve du cerveau de Jupiter. Nulla però sappiamo circa le dimostrazioni
dei teoremi, le risoluzioni dei problemi ed in generale la trattazione delle
questioni riportate da Proclo – Gemino – Eudemo; nulla, all'infuori della
dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non manca niente. La
dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eudemo ai pitagorici, non coincide
con quella che si trova nel testo di Euclide (prop. 32) ma ne differisce di
poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di un triangolo è eguale
alla somma dei due interni non adia- centi, basandosi sopra la proposizione 29,
a sua volta basata sul V postulato, o postulato delle parallele o postulato di
Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma dei tre angoli di un
triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella proposizione stessa.
Teorema e dimostrazione sono però, come osserva Vacca, anteriori ad Euclide;
perché, come è stato osser- TANNERY, La Géom. gr., VACCA Euclide – Il primo
libro degli elementi, Testo greco, versione italiana e note, Firenze vato da
Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica si riferisce non solo a questo
teore- ma ma a questa stessa dimostrazione di Eudemo. A questo punto dobbiamo
sollevare una questione im- portante dal duplice punto di vista storico e
teorico. La dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è quella stessa
che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si basava anche essa come quella di
Euclide, sopra un postulato equivalente a quello posteriormente ammesso e
formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel passo che riporta da Eudemo del
termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ, la parallela; fa lo stesso anche
Eudemo, e fanno lo stesso anche i pitagorici di cui parla Eudemo? Ed in tal
caso quale era l'accezione e la definizione, per loro, della parola: parallela?
Ed in relazione a questa questione di ordine storico si presenta l'altra di
ordine teorico: per dimostrare il teorema dei due retti, è necessario basarsi
sopra il famoso postulato di Euclide, o sopra un postulato equivalente?
Possiamo rispondere che il postulato di Euclide non è necessario per poter
dimostrare il teorema dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si
riferisce Aristotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si
può fare senza ammettere o premettere il V postulato, o, ciò che è equivalente,
senza ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data
passante per un punto assegnato. Se infatti si ammette, per esempio come fa il
Severi, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte
di una retta ed aventi da questa una data distanza, è ancora una retta, si può
osservare: che tale retta è unica; che per poter dimostrare come questa retta,
cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per il punto assegnato, è
anche l'unica non secante della retta data, Severi ricorre al postulato di Archimede,
il che prova che il postulato ammesso dal Severi non è equivalente al postulato
di Euclide; che la dimostrazione data dal Severi del teorema dell'angolo
esterno, e del teorema sopra la somma degli angoli di un triangolo (e che è
quella di Euclide), si basa in realtà sopra le sole proprietà della
equidistante (la parallela del Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta,
non si basa sulla proprietà formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre
per il vertice la equidistante dal lato op- posto ed applicare la proprietà
degli angoli alterni interni, ossia basta basarsi sul postulato del Severi e
non su quello di Euclide. SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, È l'edizione
non ridotta. SEVERI, Elem. di Geom.,SEVERI, Elem. di Geom. Vedremo in seguito
come se ne possa fare a meno, occorre però sempre ricorrere ad un postulato.
SEVERI, Elem. di Geom., ISEVERI, Elem. di Geom. Ne segue che la dimostrazione
cui si riferisce Aristotele può benissimo sussistere sulla base di un postulato
come quello del Severi o di un postulato ad esso equiva- lente, e che è
legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra esposta. Ma noi la
lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto riguarda gli antichi
pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti, anche questo unico
dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei pitagorici viene a
mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non dimostravano il teo- rema
dei due retti per questa via, ma in altro modo affat- to diverso e d'altronde
anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente Loria. Una sola cosa bisogna
notare a questo proposito, ed è che i pitagorici ai quali si deve la scoperta
di questo teorema non sono per fermo gli stessi che inventarono questo
ragionamento, ché altrimenti non si saprebbe comprendere come Eutocio, in un
passo del commento al 1o libro delle Coniche di Apollonio (Apollonio – ed.
Heiberg, Lipsiae) dica: Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei
due retti a parte per ogni specie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per
l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo
dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli LORIA, Le scienze esatte
nell'antica Grecia, Hoepli interni di un triangolo sono eguali a due retti».
«E» con- tinua Eutocio, «chi dice questo è Gemino». In conclusione anche questo
dato viene a mancare, e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an-
goli interni di un triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli
antichi; e che inoltre tale dimostrazione era suddivisa in tre parti;
particolare importante perché induce a ritenere quasi per certo che la
dimostrazione non dipendeva dalla teoria delle parallele o da quella af- fine
delle rette equidistanti. «Ai pitagorici» scrive ancora il Loria, «era noto il
valore della somma degli angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano
dimostrare [come?] il relativo teorema; ad essi per universale consenso viene
attribuita la scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca-
ratteristica del triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno
quanto per l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il
primo bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna
escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche
essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale
dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo:
«per conto Cfr. MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica, Firenze; ivi
è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA riporta tutto il passo nelle
«Scienze esatte. LORIA, Storia delle matematiche, Torino mio ammiro coloro che
per primi investigarono la verità di questo teorema; ma ammiro ancor più
l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con una di-
mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più
generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento. Non è noto quale fosse
la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo affermare, ci
sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie- tà enunciata
dal postulato delle rette parallele. Altrimenti gli antichi pitagorici, che per
quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero fatto uso già ed
anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto- cio-Gemino, che
solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa dimostrazione. L'Allman ha
indicato come gli antichi possano essere giunti al teorema dei due retti, che
egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva l'Allman22 che nel caso dei sei
triangoli equilateri congruenti attorno ad un vertice co- mune, essendo la
somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno risulta eguale ad un
terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo hanno per somma due
retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può essere la buona,
perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266 dell'opera citata
riporta il testo greco di Proclo. ALLMAN, Greek Geometry from Thales to Euclid,
Dublin, 1necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si
ammette l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si
possano effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma
nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a
meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo,
indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso
del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo
rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del
triangolo rettangolo qualunque, egli completa il rettangolo (di cui si
presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily
(empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il
triangolo rettangolo è così decomposto in due triangoli isosceli cogli angoli
alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A hanno per
somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli ad essi
rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma dei tre angoli di un
triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di qui il teorema si
estende agevolmente, sebbene Allman si dimentichi di dirlo, al triangolo
isoscele, e da questo ad un triangolo qualunque. Tannery riconosce
esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la proprietà
relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i sei
triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante anche
egli inverte l'ordine dicendo: «È anche molto possibile che sia stato il
riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti
attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della
eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi
triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino,
prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che,
seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso
particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello
all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que,
soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno.
Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia
quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai
risultati nel- TANNERY, La Géom. gr., l'ordine indicato da Gemino, e che faccia
appello all'in- tuizione in modo più semplice. 4. Quanto al teorema sul
quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare», scrive Tannery, «che se non
l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa proposizione fu una delle prime
che egli incontrò, ed affatto il corona- mento delle ricerche», come invece è
nel testo del primo libro di Euclide. Perfettamente d'accordo; ed appunto per
questa ragio- ne la dimostrazione pitagorica del teorema di Pitagora non solo
non può essere la coda e la conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma
deve essere indipendente dalla teoria della similitudine, da quella delle
proporzioni, nonché dai postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte,
se è noto e certo che gli egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli
aventi per misura dei lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto
trian- golo egizio, non risulta però affatto che conoscessero il teorema
generale sul quadrato dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse
ridotta ad un semplice pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i
peana ed i sacrifici agli Dei. Ricercando quale possa essere stata la
dimostrazione, Tannery, dopo avere detto che «i greci introducevano il più
tardi possibile la nozione di similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo
che Pitagora deve essersi TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr., servito
della similitudine, il cui impiego si dovette in se- guito restringere a causa
della scoperta della incommen- surabilità. Il principio di similitudine si
dimostra impie- gando il postulato delle parallele; «inversamente ammettendolo
a priori se ne potrebbe ricavare il postulato delle parallele. Ora, a parte il
fatto che si tratta di una semplice ipotesi non suffragata da alcun elemento,
biso- gna notare come sia ben vero che ammettendo questo postulato della
similitudine se ne potrebbero ricavare il postulato delle parallele, il teorema
dei due retti, la no- zione e le proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la
teo- ria delle proporzioni e la dimostrazione del teorema di Pitagora mediante
i triangoli simili, ma non si spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica
dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche
secondo Loria la dimostrazione che presenta il massimo di verisimiglianza è
quella basata sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che nascono
abbassando la perpendicolare dal vertice dell'angolo retto sull'ipotenusa. Con
una agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi
di Euclide. Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di
Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione
accennata da Loria e da Tannery, la quale conduce infatti al così detto primo
teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di TANNERY, La Géom. gr.,
LORIA, Storia delle Matematiche. Pitagora, non sia affatto quella originale;
senza contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora
dovrebbe trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra
il quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più
felicemente osserva Allman che sebbene Pitagora possa averlo scoperto come una
conseguenza del teorema sulla proporzionalità dei lati dei triangoli
equiangoli, manca qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera
deduttiva, e dopo avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora
tenne una via che non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera
più semplice e naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito
da Bretschneider. Questa è una dimostrazione di cui gli storici moderni
ignorano l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono solo le
nozioni di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette
perpendicolari e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due ALLMAN,
Greek Geometry BRETSCHNEIDER Die Geometrie und die Geometer vor Euklides,
Leipsig, retti; ed è invece, come
vedremo, indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua
l'Allman, l'Hankel nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che
«si può obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente
greco, ma ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale
del teorema mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli
egiziani, da cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che
sia la stessa cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia
pure derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa
sarebbe, secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da
Pitagora; si vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita
dalla figura, la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe
il merito che Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a
Pitagora? Del resto l'apprezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia-
no della dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed
applicando codesto criterio è probabile che si dovrebbe assegnare una
provenienza orienta- le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente
greci. Noi mostreremo come una dimostrazione del teorema basata sopra questa
figura si ottenga molto semplice- ALLMAN, Greek Geometry, HANKEL H., Zur
Geschichte der Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig. mente
usufruendo del teorema dei due retti e delle sue immediate conseguenze. Ed,
anticipando, notiamo subi- to che in tale dimostrazione ci serviremo degli
stessi cri- teri di composizione e decomposizione delle figure di cui Platone
fa uso nel Timeo e nel Menone32, e che in conseguenza tale dimostrazione non
soltanto ha colorito greco, ma ha il colorito pitagorico della dimostrazione
del Menone. 32 PLATONE, Timeo, XX; Menone, Da quanto precede risulta che
occorre risolvere questa questione essenziale e preliminare: Trovare in qual
modo gli antichi pitagorici dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo
soltanto che essi ne davano una dimo- strazione che non era quella basata sopra
il postulato delle parallele; e questo porta con una certa sicurezza a
concludere che non ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per
altro, trova conferma nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto
stesso di rette parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che
prolungate all'infinito non si incontrano mai, doveva apparire particolarmente
ripugnante alla mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il
compiuto e perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra
parte, escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la
29a proposizione del libro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per-
venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici
dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di
dimostrare il teorema. Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti il
Tannery che al tempo di Pitagora il numero delle verità ammesse come
primordiali era, senza dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso deve
essere consistito più che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu-
to che tra queste verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il
Tannery propende a ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se
questo può servire per giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non
serve per quello dei due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di
questo teorema e non a quella arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la
esistenza e la indipendenza dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione
ed anche per la sua relativa complessità bisogna escludere che i pitagorici
ricorressero ad un postulato come quello enunciato dal Severi e che abbiamo
riporta- to in principio. Queste considerazioni di carattere razionale
permetto- no di escludere che si debba ricorrere a simili postulati; ma con
sole considerazioni razionali non è sperabile di afferrare quale possa essere
il postulato cui ricorrere; possiamo soltanto aggiungere che deve trattarsi di
qual- che proprietà che seguitò naturalmente a sussistere dopo l'adozione del
postulato delle parallele e dopo l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma
che disparve in se- guito dal numero delle proprietà primordiali, divenendo
probabilmente una ovvia conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale
fosse è questione di inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo
inspirazione e 25 non capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo
sottoporla ad ogni possibile controllo, esaminare se ar- monizza con la
mentalità pitagorica e se consente uno sviluppo pari allo sviluppo
effettivamente raggiunto dai pitagorici e capace di condurre ai risultati
conseguiti da essi, quali Proclo ci ha tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo
esplicitamente a scanso di equivoci e per precisione, che per necessità e per
bre- vità noi presupponiamo ed ammettiamo accettato o di- mostrato dai
pitagorici il contenuto delle prime 28 pro- posizioni di Euclide; ossia quanto
precede il postulato delle parallele e la teoria delle parallele; in quanto che
a noi interessa ed occorre indagare come si possano dimo- strare le
proposizioni nelle quali la geometria pitagorica sappiamo che differiva da
quella euclidea. Sostanzial- mente ammettiamo e supponiamo che i pitagorici
(espli- citamente o no) ammettessero: i postulati di deter- minazione e
appartenenza; i postulati relativi alla divisione in parti della retta e del
piano (riferiti se si vuole a rette finite e piani finiti); i postulati della
congruenza o del movimento. E riteniamo dimostrate e note ai pitagorici le
proprie- tà che cogli ordinarii procedimenti se ne ricavano, e cioè: i criteri ordinari di eguaglianza dei
triangoli; le relazioni tra gli elementi di uno stesso triangolo; i teoremi
sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a lati di- suguali; il teorema
dell'angolo esterno (maggiore di ciascuno degli interni non adiacenti), il
teorema sopra un lato e la somma degli altri due. l'unicità della
perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle perpendicolari ad
una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle oblique, del-
l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za con gli ordinari
postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide. Adoperando il
linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo postulato,
ossia ritrovare l'antico postulato, per poter dimostrare il teorema dei due
retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi designassero le verità
primordiali da cui traevano logi- camente le altre proposizioni della
geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il carattere di esigenza
logica attribuito al concetto così designato, corrisponde al greco αἴτημα ed al
medio latino petitio, ed appare come termine matematico nell'edizione latina di
Euclide del Commandino, e come termine filosofico nella versione latina della
Reth. ad Alexan. del Philelphus. La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati
è di Aristotele; ed Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα.
Nell'edificio geometrico logico degli antichi figurava- no necessariamente
delle verità primordiali ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo
avvenisse per pura necessità logica, per dare al ragionamento il necessario
punto di partenza; né è detto che venissero
scelte e stabilite avendo riguardo unicamente all'intui- zione ed
all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tenere presente che la mentalità
geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla mentalità moderna che ha per
ideale una geometria pura, astratta, esistente unicamente nel mondo della
logica. Al contrario, osserva Rostagni, «Religione, morale, politica, scienze
matematiche non rappresentavano per i pitagorici materie separate; o veramente
si individuarono in progresso di tempo ma non cessarono mai di essere
emanazioni e dipendenze della cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito
nella filosofia pitagorica, sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le
domina tutte, indifferentemente. Archita, il pitagorico amico di Platone, in un
frammento riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio, dice che
la geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono
delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una
disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen-
dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gioco degli scacchi; era la
scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e
dell'estensione. L'aritmetica è la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del
numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- ROSTAGNI, Il verbo di
Pitagora, ed. Bocca, Torino Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore et la philosophie
pythagoricienne; Paris, gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed
è evidente il nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le
altre due, la astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che
questa visione sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era
presumibilmente basata sopra la sola intuizione ed esperienza sensibile umana
ordinaria e non aveva per oggetto soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο,
dell'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpicamente inalterabile
ἐστὼ τῶν πραγμάτον, l'essenza delle cose, l'al di là del περιέχον, della fascia
cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti.
Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna ancora all'intelligibile e non al
sensibile gli oggetti della geometria. Tenuto conto di tutto questo, la verità
primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è la
seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano
ruota rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato attorno ad un suo punto
fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta
situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della
retta (orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui
ha ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è
innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, dell'osservazione e
dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e
rigidamente connesso con il piano della ruota, si muove anche esso, e gira
sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a seconda che
più o meno gira la ruota; e l'intuizione e l'osservazione dicono che la
rotazione del segmento è eguale alla rotazione del raggio vettore. D'altra
parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare difetto ai
pitagorici; giacché, secondo Eudemo, il problema, un poco più arduo, di
costruire un angolo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice ed un lato
dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da Chio che di
Euclide; ed Oinopide è forse un pitagorico. All'adozione di questo postulato
parte dei moderni obbietterà che esso non prescinde dal movimento; ma occorre
osservare che non si tratta qui di discutere le questioni teoriche del
movimento e della congruenza, si tratta di giudicare se questo postulato possa
essere stato una delle verità primordiali ammesse dai pitagorici, ed il fatto
che esso si basa sul movimento, anzi sulla rotazio- ne, non porta in proposito
nessun pregiudizio. Il movimento, ed in particolare il movimento di rotazione,
si presentava come aspetto saliente e caratteristico della vita cosmica, e
perciò non solo poteva ma doveva pita- goricamente avere la sua funzione anche
nella geometria. La tendenza a fare a meno per quanto è possibile del movimento
è una tendenza di Euclide, e questa sua antipatia ha forse contribuito alla sua
grande innovazio- ne, alla teoria delle rette che prolungate all'infinito non
si incontrano mai. Sono rette di cui nessuno ha mai potuto procurarsi
l'esperienza sensibile e nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un
pitagorico e gli basta che la definizione delle parallele ed il relativo po-
stulato gli dessero il mezzo necessario per procedere nella sua via. Il
postulato pitagorico della rotazione non coincide, naturalmente, con
l'ordinario postulato della rotazione. Il postulato ordinario della rotazione
ci dice che quan- do un piano ruota intorno ad un suo punto fisso O di un certo
angolo α, tutti i punti di una retta qualunque AB del piano ruotano intorno ad
O, in modo che due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in
OA', OB' tali che ^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro
punto C della AB va in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B'
come C è disposto rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota
dunque di α. Il postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre
tutta la retta AB, con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa
l'angolo α. Nel caso di un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si
ottiene con la semplice rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una
retta qua- lunque AB la sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale
intorno ad un punto esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto
di intersezione (se esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna
traslazione. Il postulato afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se
ogni punto della AB ruota di α, non era naturale affermare che l'insieme di
tali punti, ossia la AB, ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi
immediatamente che se la ret- ta r con due rotazioni consecutive nello stesso
senso si portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+
̂r1 r 2 . Perciò la proprietà si estende subito al caso dell'angolo concavo e
dell'angolo giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro
di rotazione la perpendicolare OH alla AB, il raggio vettore OH si porta sul
prolungamento OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il
postulato pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con
essa un angolo piatto. Ma siccome è noto che due rette perpendicolari in punti
diversi H, H' ad una stessa retta non si incontrano, ci si limita a riconoscere
che in questo caso le posizioni iniziale e finale della ret- ta non si
incontrano. Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra rotazione esse
debbano incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si potrebbe anche
enunciare sotto forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota sopra se stesso
in un certo senso intorno ad un punto fisso l'angolo formato da una retta
qualunque del piano con la sua posizione finale è costante; oppure: se il piano
compie due rotazioni consecutive nello stesso senso con le quali la r va prima
in r1 e poi in r2 allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2 . Ma ci sembra che la forma che abbiamo
prescelto aderisca in modo più immediato alla osservazione ed abbia quindi
maggiore probabilità di coincidere con la verità primordiale ammessa dai
pitagorici. Con l'aiuto di questo postulato il teorema dei due retti nel caso
del triangolo equilatero si dimostra imme- diatamente. Naturalmente ciò
presuppone che esistano dei trian- goli equilateri e che si sappia costruire un
triangolo equilatero di lato assegnato. La considerazione del triangolo
equilatero doveva comparire molto presto nella geometria pitagorica, per la
corrispondenza che essi scorgevano tra i primi quattro numeri, ed il punto, la
retta (individuata e limitata da due punti), il piano ed il triangolo
individuato da tre, e lo spazio o il volume indi- viduato da quattro punti. Non
è forse un caso se anche in Euclide la prima proposizione del primo libro ha
ap- punto per oggetto il triangolo equilatero. E giacché se ne presenta
l'occasione notiamo che in essa Euclide am- mette tacitamente ed implicitamente
il postulato che se una circonferenza ha il centro su di un'altra circonferenza
ed un punto interno ad essa, la taglia. Così pure del resto è ammesso
tacitamente in Euclide l'altro caso par- ticolare del postulato di continuità,
e cioè che il segmen- to congiungente due punti situati da parte opposta di una
retta è tagliato da essa. Posto ciò, per dimostrare il nostro teorema basta
conoscere il 1o e 2o criterio di eguaglianza dei triangoli con i loro corollari
sul triangolo isoscele e sul triangolo equilatero, ed applicare il postulato
pitagorico della ro- tazione. Dimostriamo dunque il TEOREMA: La somma degli
angoli di un triangolo equilatero è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo
equilatero (fig. 5), e quindi equiangolo. 34 La bisettrice
dell'angolo ̂CAB incontra il lato opposto in un punto D interno ad esso, e
poiché i due punti A e D si trovano da parte opposta della bisettrice di ^ACB,
le due bisettrici si tagliano in un punto O inter- no al triangolo dato. Gli
angoli ̂OAC ,̂OCA sono eguali perché metà di angoli eguali, e quindi OAC è
isoscele ed OA = OC. I triangoli ACO, BCO sono eguali per il 1o criterio, e
perciò OB = OA = OC e ^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice dell'angolo ^ABC. I
tre triangoli isosceli OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o o 3o criterio) e
gli angoli al vertice ̂AOC,̂COB,̂BOA sono eguali. Facendo ruotare la figura
attorno ad O dell'angolo ^COB, ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la
BA e l'angolo da esse formato, cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato
all'angolo ̂COB. Proseguendo nella rotazione, con due altre rotazioni eguali,
la figura si sovrappone a se stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione,
ossia dei tre angoli esterni del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro,
ossia a quattro retti. D'altra parte ogni angolo interno di ABC è supple-
mentare dell'angolo esterno; perciò la loro somma sarà eguale a sei retti meno
la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti: ossia a
due retti. c. d. d. 35 5. La verità del teorema nel primo caso, secondo
Eu- tocio e Gemino, dimostrato dai pitagorici è dunque una conseguenza
immediata del postulato pitagorico della rotazione. Dimostrato il teorema
agevolmente in questo caso particolare, era naturale che gli antichi si
chiedes- sero cosa avveniva in generale, ed era naturale che pri- ma del caso
generale essi studiassero l'altro caso parti- colare del triangolo isoscele. In
questo secondo caso la dimostrazione non è così immediata; occorre premettere
parecchie altre proposi- zioni tutte dimostrabili con una certa facilità e
senza bi- sogno del postulato di Euclide, come del resto si trovano in Euclide
stesso e nei testi moderni. Ad essi rimandia- mo per le dimostrazioni e ci
limitiamo a ricordare queste proprietà, che sono del resto comprese tra quelle
indicate innanzi: La bisettrice dell'angolo al vertice di tal triangolo
isoscele è anche mediana ed altezza. Esistenza, unicità e determinazione del
punto medio di un segmento. Teorema dell'angolo esterno di un triangolo. La
somma di due angoli interni di un triangolo è sempre minore di due retti. Se un
angolo di un triangolo è maggiore od eguale ad un retto gli altri due sono acuti.
Se in un triangolo un lato a è corrispondentemente maggiore eguale o minore di
un secondo lato b, l'angolo ̂A opposto ad a è corrispondentemente 36
maggiore, eguale o minore dell'angolo B̂ opposto a b; e viceversa. Se un
triangolo ha un angolo ottuso o retto, il lato opposto ad esso è il maggiore.
In un triangolo un lato è minore della somma degli altri due. Definizione, esistenza, unicità della
perpendicolare ad una retta per un punto. Teoremi inversi sopra la mediana e
l'altezza del triangolo isoscele. Teoremi sull'asse di un segmento e sulle
bisettrici degli angoli formati da due rette concorrenti. Premesso questo
dimostriamo il TEOREMA: La somma degli angoli interni di un triangolo isoscele
è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo isoscele e sia AB = AC e quindi
^ABC=^ACB; sia AH la bisettrice, mediana ed altezza del triangolo isoscele. Si
dimostra come nê l caso precedente che la bisettrice dell'angolo alla base ABC
incontra la AH in un punto O interno, e congiunto O con C dall'eguaglianza (1o
criterio) dei triangoli BAO, CAO segue che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e perciò
CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra parte, essendo BC < AB + AC sarà la metà
BH < AB = AC; e presi allora sui lati BK = CL = BH i punti K ed L risultano
interni rispettivamente ad AB ed AC. Congiunto O con K e con L, i triangoli
OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per il 1o criterio, e perciò OH = OK = OL,
e le AB, AC rispettivamente perpendi- colari ad OK ed OL. Facciamo adesso
ruotare la figura intorno ad O, in modo che OH ruota in OK, la BC per-
pendicolare ad OH si porta sulla retta BA perpendicolare alla OK in K, e per il
postulato della rotazione l'ango- lo esterno ̂VBA del triangolo dato risulta
eguale all'angolo di rotazione ^HOK. Continuandolarotazionenel- lo stesso verso
OK va su OL, la AB perpendicolare ad OK va su CA perpendicolare ad OL e
l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL. Proseguendo la rotazione e portando OL
sopra OH la figura ritorna, dopo un giro completo, sopra se stessa, ed
^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è eguale all'intera ro- tazione di
quattro retti; ed anche questa volta, essendo i tre angoli del triangolo dato
rispettivamente supplemen- tari degli angoli esterni adiacenti, la loro somma
sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti
meno quattro retti, ossia a due retti c. d. d. 6. Passiamo al caso generale.
Occorre solo premettere i seguenti teoremi, che si di- mostrano agevolmente per
assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad enunciare. In un triangolo
acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai lati. b) In un triangolo
ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza relativa al lato maggiore è
interno al lato. Basta questo per dimostrare che: TEOREMA. In un triangolo
qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due retti. Sia A il vertice
dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo qualunque ABC. Abbassata
l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo ^BAC è diviso in due parti
dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' = AH e congiungiamo A con B e
con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali per il lo criterio, quindi
BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H. 39 Per il teorema
precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA', CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA
'+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del triangolo isoscele BAA', si
ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un retto, ^ABH+^BAA '=un retto .
^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti, ^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così
dimostrato in generale. 7. La dimostrazione si è presentata immediata nel pri-
mo caso menzionato da Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due
casi da essi menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del
primo caso è, da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso
include il primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente
in modo da includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale
occorre solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due triangoli
rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono eguali.
Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40 Se BA = B'A' il teorema
è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il
triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi
C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può
condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre
premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote-
nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due
triangoli, ^A=^A '=90° , BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo
rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele
41 B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB.
Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema
fondamentale: Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso
del triangolo ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC , ^ABC . Si
dimostra al solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo
ABC. Gli angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel
triangolo OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in
tutti i casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno
ad AB. Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti,
dimodoché anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di
vertice O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O
sopra AC e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I
triangoli rettangoli OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto
eguale; perciò sono eguali, ed 42 OK=OH. Analogamente sono eguali i
triangoli OAH, OAL e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC
hanno l'ipotenusa in comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è
bisettrice di ^ACB. Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di
un triangolo qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale
che, abbassando da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono
interni ai tre lati, e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la
figura attorno ad O, portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC
andrà successivamente sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC
per il postulato pitago- rico della rotazione risulteranno rispettivamente
eguali ai tre angoli ^KOH, ^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e
quella degli angoli interni sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende
dunque superflue le due precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso
del triangolo isoscele include quella del triangolo equilatero. Se ne deve
concludere che non è questa la dimostrazione in tre tappe degli antichi
pitagorici, menzionata da Eutocio e Gemino? Concludere in questo senso
equivarrebbe ad attribuire agli antichi la tendenza e l'abitudine moderna alla
gene- ralizzazione, ossia significherebbe giudicare alla stregua della nostra
mentalità. Per obbedire alle nostre norme avrebbero dovuto rinunziare a
dimostrare subito il teorema nel primo e semplice caso ed attendere (e perché
mai?) di avere trovato il modo di dimostrarlo nel secon- do e nel terzo caso.
Non va dimenticato inoltre che essi scoprirono il teorema; ed è probabile che
la scoperta sia avvenuta per il caso del triangolo equilatero; soltanto dopo ed
in conseguenza sarà sorto il dubbio se il teore- ma valesse in generale, e solo
dopo e con ben altra fati- ca saranno giunti a dimostrarlo negli altri due
casi; quin- di il passo di Eutocio si può riferire non soltanto all'ordi- ne
dell'esposizione pitagorica del teorema ma all'ordine cronologico, storico
delle loro scoperte. Perciò, a meno che si riesca a dedurre ed in modo ab-
bastanza semplice il secondo caso dal primo, siamo con- vinti che le nostre
dimostrazioni sono proprio quelle de- gli antichi, e quasi quasi riteniamo che
anche nel terzo caso essi non dedussero la dimostrazione dal secondo caso, ma
preferirono per analogia di dimostrazione ri- correre ancora al postulato della
rotazione. Si tenga presente ad ogni modo quanto scriveva il Tannery35: «credo
inutile insistere sulla difficoltà che sembrano avere trovato i primi geometri
ad elevarsi alle generalizzazioni più semplici», citando ad esempio proprio il
caso del teorema dei due retti. Comunque siamo giunti a questo risultato:
Abbiamo dimostrato il teorema fondamentale sopra la somma de- gli angoli di un
triangolo senza fare uso del postulato e del concetto delle rette parallele. È
un risultato di una TANNERY, La Géom. gr. certa importanza se il postulato
pitagorico della rotazio- ne non equivale al postulato di Euclide. 9.
Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio- ne non è equivalente al
postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto che dal postulato pitagorico
della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due retti. Viceversa, ammettendo
che la somma degli angoli di un triangolo sia una costante, se ne deduce il
nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro di rotazione ed S il punto
d'incontro della posizione iniziale e finale della retta r. Prendiamo sulla r
un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di O, ed uno B da parte
opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La rotazione che porta r in
r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B' ed è ̂AOA '=̂BOB '
l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali, quindi B^=^B'. I
triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ' , ^OTB'=^STB; e, se
ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo qualunque sia costante, il
terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B ' OB ; ossia l'angolo rr
' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi dimostrare. Dunque il postulato
pitagorico del- la rotazione e la proposizione sopra la costanza della somma
degli angoli di un triangolo si equivalgono come postulati. Ammettendo quindi
la costanza della somma degli angoli di un triangolo si potrebbe dedurne il
nostro postulato della rotazione, ed applicandolo al caso del trian- golo
equilatero, si troverebbe subito che la quantità di cui si è ammessa la
costanza è eguale a due retti. Girolamo Saccheri propose, come è noto, la
nozione che la somma degli angoli di un triangolo è eguale a due retti in
sostituzione del postulato di Euclide, ed il Le- gendre ha dimostrato che, se
si ammette anche il postu- lato di Archimede, la proposizione Saccheri equivale
ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne segue immedia- tamente che se
oltre al postulato pitagorico della rota- zione ammettessimo anche quello di
Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide. Se non si ammette altro, esso
non equivale al postula- to di Euclide. Infatti Dehn dimostra che l'ipotesi del
Saccheri è compatibile non solo con l'ordinaria geometria elementare, ma anche
con una nuova geometria, necessariamente non archimedea, dove non vale il V
postulato, ed in cui per un punto passano infinite non secanti rispetto ad una
retta data. Math. Ann., B. 53, Die Legendre'schen Sätze über die Winkelsumme in
Dreieck; cfr. BONOLA, Sulla teo- ria delle parallele e sulle Geometrie non
euclidee, in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti le Matematiche elementari. Dehn
chiama questa geometria: geometria semi-euclidea. Lo stesso vale
senz'altro per il nostro postulato. Una volta ammessa la proposizione Saccheri
o l'equivalente postulato pitagorico della rotazione, si può: ammettere il
postulato di Archimede, ed allora ne risulta dimostrato quello di Euclide; e si
ottiene l'ordina- ria geometria euclidea ed archimedea. negare quello di
Euclide, e quindi necessaria- mente anche quello di Archimede; e si ottiene la
geome- tria semieuclidea del Dehn. ignorare completamente i due postulati d’Euclide
e d’Archimede e le questioni relative, e sviluppare una geometria più generale,
indipendente dalla loro accettazione o negazione (e valevole quindi nei due
casi), come conseguenza del teorema dei due retti oramai otte- nuto. Gli
antichi pitagorici ignoravano quasi certamente il postulato di Archimede38, ed
avevano ottenuto la dimo- strazione del teorema dei due retti con un
procedimento indipendente dalla teoria delle parallele. Non introducendo il
postulato di Archimede noi veniamo a trovarci esattamente nella stessa
posizione. Se i pitagorici antichi non hanno fatto uso del concetto di pa- La
proposizione 1a del libro X di Euclide equivale all'assio- ma di Archimede. Da
alcuni passi di Archimede, risulta che, prima ancora, Eudosso aveva fatto uso
di questo «lemma»; ed Loria ritiene che l'origine di questo lemma debba farsi
risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr. LORIA, Le scienze esatte nell'antica
Grecia). Comunque gli antichi pitagorici dovevano ignorare il postulato di
Archimede. rallela, deve essere possibile adesso, dal teorema dei due retti,
sempre senza ricorrere al postulato di Euclide ed a quello di Archimede,
dedurre una dopo l'altra tutte le scoperte attribuite da Proclo ai pitagorici.
Se questo ac- cade questa geometria più generale concorderà o coinci- derà con
la geometria della Scuola Italica. 10. Prima di proseguire vogliamo però
esporre una via più rapida per dedurre dal postulato pitagorico della rotazione
il teorema dei due retti. Dal vertice A dell'angolo retto (fig. 11) di un
triango- lo rettangolo qualunque OAS conduciamo la perpendi- colare AH
all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo HA'=AH. Sappiamo che H è interno
ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli rettangoli OHA', SHA' ri-
sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e quindi OA=OA', SA=SA',
^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H = ^SAH+^OAH=unretto. Perciò,
facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la AS va sopra la perpen-
dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il po- stulato della
rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono quadrilatero
AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S + ^A ' SA = 4
retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA', OAA' bisecano
gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della precedente,
ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la somma degli
angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si passa a
quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo la
bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'altezza; ed essendo oramai
complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma
degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decomposto il
triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele
si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le
tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori
della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora
indicato. Abbiamo avuto bisogno del postulato pitagorico della rotazione per
dimostrare il teorema dei due retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non
ne avremo più bisogno, perché ci basta il teorema dei due retti ad esso, come
sappiamo, equivalente. E, siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il
teorema dei due retti perché lo dimostravano, la restituzione della geometria
pitago- rica procede da ora in poi partendo da questa loro sicura conoscenza,
comunque ottenuta, ma senza il postulato delle parallele. Anche se la via
tenuta per ottenere il teorema dei due retti fosse stata un'altra, sempre però
indi- pendentemente dal postulato di Euclide, ci troveremmo sempre nella
medesima situazione di fronte al problema della restituzione della geometria
pitagorica, come sviluppo e conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo
la nostra indagine a quanto occorre per ottenere i risultati attribuiti da
Proclo ai pitagorici, La testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio
posteriore anche a Proclo, è attendibile. Dice LORIA (Le scienze esatte) che
Eutocio, di mediocrissimo ingegno, è però assai diligente, accurato e
coscienzioso. È difficile d'altra parte inventare una notizia così precisa e
circostanziata. omettendo spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle
a tutti note. E per prima cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta
immediatamente la costruzione e la consi- derazione del quadrato e del
rettangolo e la dimostrazione del teorema di Pitagora. E notiamo come dal
teorema dei due retti discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze:
Gli angoli acuti di un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello
rettangolo isoscele sono eguali a mezzo retto. L'angolo del triangolo
equilatero è eguale ad un terzo di due retti. L'angolo esterno di un triangolo
qualunque è egua- le alla somma dei due interni non adiacenti. Passando ai
quadrilateri, osserviamo subito che Euclide ne distingue, nelle sue
definizioni, cinque: il qua- drato, il rettangolo, il rombo, il romboide, e
tutti gli al- tri. Essi sono definiti e distinti da Euclide in base alla
eguaglianza dei lati e degli angoli, e la definizione di rette parallele viene
subito dopo; mentre invece nel testo la costruzione del quadrato si basa sulle
parallele e com- pare alla fine del primo libro. Definito il quadrato come un
quadrilatero con tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti, la costruzione
di un quadrato di lato assegnato AB, e quindi la sua esistenza, discendono
invece dal teorema dei due retti e da esso soltanto. Condotto AC eguale e
perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del triangolo rettangolo iso-
scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B la semiretta
perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB = AC; la BC
divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da parti opposte
rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il termine: semiretta
per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e semirette prolungate
all'infinito non puo, ci sembra, essere condiviso dai pitagorici.
Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si riferiscono
alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il postulato se-
condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si può prolungare
κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla parte di C
rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso convenientemente
prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La definizione 23a di
Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette infinite. Si tratta
dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito dell'antica geometria e che
male si adatta alle altre definizioni dell'elenco stesso che precede il testo
di Euclide. golo ^ACD. I triangoli ABC, DBC risultano eguali per il 1o
criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB, ̂CDB=̂CAB. Il quadrilatero ABCD ha
dunque tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti; è dunque, per definizio-
ne, un quadrato. La diagonale BC lo divide in due trian- goli rettangoli
isosceli eguali. Si dimostra facilmente che AD = BC e che le due diagonali si
tagliano nel pun- to medio e sono perpendicolari tra loro. 3. Definizione,
esistenza, costruzione e proprietà del rettangolo. Prendiamo la seguente
definizione: Rettangolo è un quadrilatero con tutti gli angoli retti. Sia ABD
(fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed A il vertice dell'an- golo
retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di D
rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A rimangono da parti opposte
rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC retto la BD divide l'angolo
retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD sono eguali per il 1o
criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53 ^CDB=^ABD; e ̂
siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB sarà comple- mento di
^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero ABCD è retto; esso è
dunque un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i loro prolungamenti non
si possono incontrare perché sono perpendicolari ad una stessa retta; si
dimostra facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che esse si tagliano
per metà. Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per principiare che i
vertici C e D debbono stare da una stessa parte rispetto ad AB, perché altrimenti
la CD sa- rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai triangoli rettangoli
ADM, CBM risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere retti. Sia dun- ^ADC
, ̂DCB que ABCD un rettangolo; la BD determina i due trian- goli rettangoli
ABD, CBD, ed essendo in entrambi acuti gli angoli adiacenti all'ipotenusa, la
BD divide i due an- goli retti di vertici B e D del rettangolo, e lascia A e C
da parti opposte; inoltre ̂CBD è complemento di ^ABD, e quindi ^CBD=^ADB;
similmente ^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli ABD, CBD sono eguali, e CD
= AB, BC = AD ecc. Per costruire il rettangolo di lati eguali ad AB ed AD, si
prendono a partire dal vertice A di un angolo retto so- pra i due lati i
segmenti AB, AD; si conduce per B la perpendicolare ad AB, e su di essa dalla
parte di D si prende BC = AD, si unisce C con D ed ABCD è il ret- tangolo
richiesto. Il teorema dei due retti con le conseguenti proprietà del triangolo
rettangolo assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici l'effettiva
esistenza dei quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la costruzione, e ne
dava le proprietà fondamentali. Per dimostrare adesso la proprietà relativa ai
poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice comune, biso- gnerebbe
passare alla considerazione dei poligoni qua- lunque; ma, siccome per
dimostrare il teorema di Pita- gora non abbiamo bisogno di altro, passiamo
senz'altro alla dimostrazione di questo teorema fondamentale. TEOREMA DI
PITAGORA. In un triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato costruito
sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sopra i cateti.
Adoperiamo l'antica espressione: eguale, invece della moderna equivalente,
anche perché nella dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide nella sua) della
«nozione comune» di eguaglianza per differenza, e non della no- zione di
eguaglianza additiva che sola conduce al con- cetto di equivalenza (Duhamel) o
di equicomposizione (Severi). Nel caso particolare del triangolo rettangolo
isoscele, Platone dà nel Menone la seguente dimostrazione: pre- PLATONE, Menone.
Una traduzione corretta e completa del passo di Platone trovasi nelle Scienze
esatte nell'antica Grecia di LORIA. Platone conosceva la validità so un
quadrato ABCD e riunitine altri tre eguali congruenti in un vertice come è
indicato in figura si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato. Dividendo poi
ciascuno di quei quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene un quadrato che
è doppio del quadrato dato, perché composto di quattro triangoli eguali ad ABC,
mentre il quadrato dato lo è di due. Passando al caso generale, tra le settanta
ed oltre di- mostrazioni conosciute, le più semplici sono: 1o quella suggerita
dal Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni, ma di cui si sa che è
antica; 2o quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel 901 d.C.) e di cui ci
ha serbato memoria Anarizio; 3o quella di Baskara posteriore a Tabit. La prima,
sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia per la sua del teorema nel caso
del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa doppia del cateto minore; risulta
dal Timeo. Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche.Cfr. G. LORIA, Storia delle
Matematiche.grande semplicità, può darsi benissimo, e noi ne siamo convinti,
che sia quella di Pitagora. Vediamo come questa dimostrazione si possa fare
senza il postulato delle parallele. Supponiamo che nel triangolo rettangolo ABC
sia  l'angolo retto ed AC il cateto maggiore. Sul prolungamento del cateto AC
prendiamo CD = AB e sul prolungamento di AB prendiamo BE = AC. Ne segue AE =
AD. Per C e per D conduciamo dalla parte di B ri- spetto ad AD le semirette
perpendicolari alla AD e pren- diamo su esse DP = CK = AB; e congiungiamo K con
P e con B. I due quadrilateri ABKC, CKPD risultano per costruzione
rispettivamente un rettangolo ed un quadra- to; e precisamente il rettangolo è
eguale al doppio del triangolo rettangolo dato, ed il quadrato ha per lato un
segmento eguale al cateto AB del triangolo dato. Essi sono separati e situati
da parti opposte del lato comune CK, perché le tre semirette AB, CK, DP
perpendicolari ad una stessa retta AD non si incontrano due a due, e siccome C
è compreso tra A e D, la DP e la AB stanno da parti opposte della CK. Essendo
poi retti gli angoli di vertice K del rettangolo e del quadrato la loro somma è
un angolo piatto, e quindi i punti P, K, B risultano alli- neati sopra una
perpendicolare comune alle rette DP, CK, AB. Sui prolungamenti delle DP e CK
dalla parte opposta alla AD prendiamo i segmenti PF = KM = BE = AC, e
congiungiamo M con F e con E. Il quadrilatero PKMF risulta un rettangolo per costruzione
ed anche esso è il doppio del triangolo dato ABC; KMBE risulta un qua- drato
che ha per lato un segmento eguale al cateto AC del triangolo dato; ed anche i
tre punti F, M, E risultano allineati sopra una perpendicolare comune alle tre
rette AB, CK, DP. Si riconosce subito che il quadrilatero AEFD ha tutti gli
angoli retti e tutti i lati eguali e quindi è un quadrato. La terna delle tre
rette AB, CK, DP e la terna delle tre rette AD, BP, EF sono tra loro
perpendicolari, e poiché K è compreso tra C ed M, e tra B e P, CM e BP dividono
il quadrato AEFD in quattro parti. Esso è quindi eguale alla loro somma. Il
quadrato AEFD è dunque eguale alla somma del quadrato costruito sul cateto AB,
del quadrato costruito sul cateto AC, e di quattro triangoli rettangoli eguali
al dato. Prendiamo ora sopra DF ed FE i segmenti DG = FH = AC e congiungiamo C
con G, G con H ed H con B. I triangoli rettangoli ABC, DCG, FGH, EHB risultano
eguali per il 1o criterio e perciò il quadrilatero CGHB ha 58 tutti i
lati eguali. Inoltre siccome le semirette GC e GH stanno da una stessa parte
rispetto alla DF e gli angoli DGC, FGH sono acuti e complementari (perché
^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH che si ottiene toglien- do dall'angolo piatto i due
angoli ^DGC , ̂FGH risul- ta retto; in modo analogo si dimostrano retti gli
altri an- goli del quadrilatero CGHB, il quale dunque è il quadra- to costruito
sull'ipotenusa BC del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è acuto e ̂DCM retto, il
trian- golo CGD ed il quadrilatero CGFM stanno da parti op- poste rispetto a
CG. CG divide dunque l'intero quadrato in due parti e cioè il triangolo CDG ed
il poligono CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il po- ligono
precedente è diviso da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il poligono
CGHEA; questo a sua vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il triangolo
HBE ed il poligono CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel triangolo
ABC e nel quadrato CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal quadrato ADFE
togliendone quattro triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma togliendo dal
quadrato ADFE i due rettangoli ABKC, KMFB, ossia quattro triangoli eguali al
dato, si ottiene la somma dei quadrati costruiti sui cateti AB ed AC, e siccome
la seconda nozione euclidea (che si trova però già in Aristotele) dice che
togliendo da cose eguali cose eguali si ottengono cose eguali. Così il quadrato
costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.
Ammettendo il postulato pitagorico della rotazione ed ignorando i due postulati
d’Euclide e d’Archimede, abbiamo così ottenuto subito i due teoremi
fondamentali della geometria: il teorema dei due retti, e da questo il teorema
di Pitagora. Essi sono validi entrambi tanto nella ordinaria geometria euclidea
ed archimedea quanto nella geometria più generale che ammette il postulato
pitagorico della rotazione e prescinde dai postulati di Euclide e di Archimede.
Il teorema di Pitagora si presenta così come primo teorema nella teoria
dell'equivalenza; precisamente come, secondo il Tannery, avveniva coi
pitagorici. Esso sta alla base di questa teoria e non alla fine. La
dimostrazione che ne abbiamo dato dipende unicamente dal teorema dei due retti,
noto agli antichi pitagorici, e dalle sue conseguenze immediate. Si sa che una
dimostrazio- ne basata sulla figura che abbiamo adoperato esisteva, è antica,
ed il suo autore non è noto agli storici moderni della matematica. Noi non
abbiamo fatto altro che ren- derla indipendente dal postulato di Euclide, di
cui i pitagorici non si servivano per dimostrare il teorema dei due retti e che
diventa perciò superfluo anche per il teorema di Pitagora. Tutto sommato, non
ci sembra affatto improbabile che questa sia proprio la dimostrazione che il
fondatore della «Scuola Italica» scoprì e dette venticinque secoli fa. Con essa
il teorema è valido nel senso di eguaglianza per differenza in una geometria
che ignora od anche che nega i postulati di Euclide e di Archimede. La
dimostrazione del testo d’Euclide prova la validità del teorema di Pitagora
sempre nel senso di eguaglianza per differenza se ed anche se si ammette il
postulato delle parallele e nulla si dice di quello d’Archimede. Le
dimostrazioni moderne ne provano la validità nel senso di eguaglianza addittiva
(Duhamel), equivalenza od equicomposizione (Severi), se ed anche se si ammette
insieme al postulato d’Euclide anche quello d’Archimede. Dalla dimostrazione
che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e con la massima
sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni moderne dalle
formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2 Quanto al
primo basta semplicemente osservare la figura per riconoscere che: TEOREMA: Il
quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è eguale alla somma
del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua- drato (BEMK)
costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati eguali ai
segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema diventa: il
quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è quadruplo di
questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII. 61
am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla figura,
ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett. ABDP
ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla
differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma
dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo
che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si
ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone
ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b
) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha
per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro
che la squadra dei muratori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un cateto
di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito
sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così
pure il 62 TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il quadrato costruito sopra un
lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri
due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per
brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo
sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e
chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2 , e
supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 +
c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma
allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo,
come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im-
mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63 TEOREMA:
Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al
rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH
(fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni
CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no-
tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e
di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte
quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+
c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e
h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64 [β]
h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è
la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso
è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+
2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema:
TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è
uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto
sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide.
Ricordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che
ad Euclide appartiene solo la dimostrazione che si trova nel testo degli Elementi
(Libro). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu- lato delle
parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due l'altro
teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente il
seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro
equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la
[β] ossia potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo
è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto
omologo del secondo. Siano i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ =Ĉ ed AC =
B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian- golo, c. d. d.
b2=(AC)2 –BC·HC=ab' Di questo corollario ci serviremo in seguito. Tra le conseguenze
del teorema di Pitagora ha massima importanza la scoperta delle grandezze
incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del teorema ad un triangolo
rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel nostro tema; così pure non ci
occuperemo dei metodi attribuiti a Pitagora per la formazione dei triangoli
rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri interi45. 8. Dallo studio dei
rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei quadrilateri e dei poligoni in
generale. Dal TANNERY, La Géom. gr., triangolo rettangolo isoscele e dal
triangolo rettangolo qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e le loro
proprietà. In modo simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo scaleno, si
ottiene il rombo ed il romboide. Rombo, secondo la definizione che si trova in
Euclide, è il quadrilatero equilatero ma non rettangolo (perché in tal caso si
chiama “quadrato” [GRICE, IMPLICATURE: A square is a quadrilatero rettangolo].
Sia ABD un triangolo isoscele non rettangolo, e dal vertice B della base BD
conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A rispetto alla BD, formante
con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA. Siccome ̂ABD è acuto, sarà
̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa parte rispetto ad AB, mentre
C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo C con D: i due triangoli
ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e quindi i quattro lati del
qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un rombo. Gl’angoli  e Ĉ sono
eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC; la diagonale BD biseca gli
angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C; quindi anche l'altra
diagonale biseca gli angoli, è perpendicolare alla prima ed il loro punto
d'intersezione è il loro punto medio. Viceversa se il quadrilatero ABCD è un
rombo, se cioè AB = BC = CD = DA (supponendo i vertici ordinati), osserviamo
prima di tutto che i vertici B e C non possono trovarsi da parti opposte
rispetto ad AD. Supposto infatti che ciò accada, il vertice C non può trovarsi
rispetto alla BD dalla stessa parte di A, perché i due triangoli isosceli ABD,
CBD con la base in comune ed eguali per il 3o criterio coinciderebbero e C
coinciderebbe con A. Ma neppure può accadere che il vertice C stia da parte
opposta di A rispetto a BD e di B rispetto ad AD, perché l'asse della base
comune BD dei due trian- goli isosceli deve passare per A, per C e per il punto
medio di BD, e quindi la semiretta AC sta tutta rispetto ad AD dalla parte di
B. Dunque se un quadrilatero ha i quattro lati eguali due vertici consecutivi
sono situati dalla stessa parte della congiungente gli altri due vertici.
Essendo poi A e C da parti opposte di BD questa diago- nale divide il rombo in
due triangoli isosceli eguali e di- vide per metà i due angoli B^ e ^D del
rombo; l'altra diagonale AC non è che l'asse di BD; le due diagonali si
tagliano dunque internamente, nel loro punto medio, sono perpendicolari tra
loro, e bisecano gli angoli del rombo. La definizione di romboide data dagl’elementi
d’Euclide è la seguente. Romboide è il quadrilatero che ha i lati e gli angoli
opposti eguali tra loro, ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco
(ossia un rettan- golo). Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri
quadrilateri. Subito dopo compare, in Euclide, la definizione di rette
parallele, e manca invece completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo,
la definizione di parallelogrammo; mancanza sensibile anche per il fatto che
sappiamo da Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione d’Euclide.
Abbiamo già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la
23a ed ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'elenco dei
postulati, non va troppo d'accordo con le definizioni 2a, 3a e 4a per le quali
la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei quadrilateri
precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in conseguenza la
definizione di parallelogrammo. Si ha l'impressione che l'elenco delle
definizioni a noi giunte insieme al testo di Euclide sia l'antico o più antico,
e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta sia la classificazione
antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima definizione, come il
postulato delle parallele è appiccicato in fondo all'elenco degli altri
postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più conforme ad una
geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla geometria euclidea,
basata sul V postulato; PROCLO, ed. Teubner. Cfr. ALLMAN, Greek Geometry, e si
spiega con il fatto che i quattro quadrilateri: quadrato, rettangolo, rombo e
romboide si ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il
triangolo rettan- golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il
triangolo isoscele e, come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo).
Anche il romboide, infatti, si ottiene con questo procedimento. Sia, infatti,
ABD un triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo-
sta ad A rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD,
si unisca C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta
dunque insieme a D dalla stessa parte rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD
sono eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD
divide l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC. Abbiamo
dunque costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli
opposti eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con
C, i triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; quindi ̂DMA=̂CMB e
perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali del romboide
si tagliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide il romboide in
due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è conseguentemente
eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e poiché gli angoli
opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple- mentari. Viceversa, se si
escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati e quelli non
convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati opposti eguali esso
è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua- drilatero debbono essere
tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo concavo il vertice C dovrebbe
stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed essere esterno al triangolo BDA
e così pure dovrebbe essere A esterno al triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A
interno al triangolo DCB, sarebbe, come si può dimostrare, la somma di AD ed AB
minore della somma di CD e CB, mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono
essere eguali. Ma se A è esterno a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da
una stessa parte di BD il quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il
quadrilatero ABCD ha gli angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta
rispetto a BD da parte opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il
quadrilatero sarebbe intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il
quadrilatero ABCD, allora, è diviso dalla diagonale BD in due triangoli eguali
per il 3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati
opposti ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che
se un quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide.
Anche in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD,
perché essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il
triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester-
no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero
ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte
opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma
dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo
eguali le coppie di angoli opposti si avrà allora ^CDA+^DAB=due retti; e quindi
̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teorema dei due
retti questa somma ha per supplemento l'angolo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB.
Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il
secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un
romboide. Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se un
quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47.
10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si
possono definire quadrato, rettangolo, rombo e romboide, e riconoscere le loro
pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto
d'incontro delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre
quadrilateri) è un centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso
ai lati opposti sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a
questo punto, nel caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli
altri ed ogni vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa
con ogni rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato
si sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della
generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e
dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del
quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al
contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale verisimilmente
e probabilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga, se non ne-
cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec- cessivi
ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo attenuti
è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di Euclide»,
e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di scoperta
ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei
pitagorici. pone successivamente alla retta degli altri lati, e nel caso
del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di mezzo giro.
Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un triangolo qualunque
quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre bisettrici, ed il quadrato
si comporta come il triangolo equilatero sovrapponendosi a se stesso quattro
volte in un giro completo come quel- lo tre volte. Se facciamo queste
considerazioni è perché il nome stesso del rombo e quindi anche quello del
romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti, dicono i dizionari, ῥόμβος
(da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re o mosso in giro.
Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso le fila tessute
prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al rom- bo di bronzo
di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso i greci, ed uno
scoliaste alle Argonautiche d’Apollonio dice che il rombo è un rocchetto che
vien fatto girare battendolo con delle striscie di latta. Archita pitagorico parla
in un suo frammento di questi rombi magici che si fanno girare nei misteri. Apollonio,
Argonautiche. In OMERO (Iliade) sono chiamati anche στρόμβοι. Anche Proclo
(Teubner) dice che sembra che anche il nome sia venuto al rombo dal movimento. MIELI
(si veda) che riporta il testo greco di Archita traduce ῥόμβοι in tamburi
(MIELI – Le scuole jonica, pythagorica) e lo CHAIGNET traduce: les toupies
magi- Cosicché la classificazione dei quadrilateri che si trova negli Elementi
di Euclide, non solamente è indipendente dal concetto di parallele, ed ha tutta
l'aria di essere pre- euclidea, ma nella terminologia sembra riconnettersi al
postulato della rotazione pitagorica, ed alle proprietà dei triangoli che vi si
riferiscono. La proprietà riscontrata per il triangolo equilatero e per il
quadrato sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed equiangolo,
inscritto in una circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od una
circonferenza, in n parti eguali, e presi a partire dal centro sopra i raggi n
segmenti eguali, riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene un
poligono regolare, decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di
eguale altezza (apo- tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al
centro di un 1n di angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e
quindi in un giro completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il
postulato della rotazione l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e
quello interno il suo supplemento. Aumentando n, l'angolo interno va crescendo
e si può calcolarne il valore per n = 5, 6, ... ques. Siamo ora in grado
di occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti
attorno ad un vertice che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno
tre, ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'angolo
giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte
di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro
retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono
il cui angolo è un terzo di giro; e non può verificarsi con altri poligoni
regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il
terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teorema dei due
retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è
affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come
Tannery e Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita asserzione di Proclo che
della proprietà dei poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice fa un
teorema pitagorico. La divisione della
circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo della
inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non presenta
difficoltà per i pitagorici. Occorre appena osservare che dalla riunione di sei
triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene appunto l'esagono
regolare il cui lato risulta eguale al raggio della circonferenza circoscritta.
Più difficile invece si presenta il problema della divisione della
circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in essa del pentagono
e del decagono regolari; problema che doveva destare nei pitagorici speciale
interesse perché l'arco sotteso dal lato del decagono stava nell'intera
circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno certamente risolto questo
problema, perché altrimenti non avrebbero potuto costruire l'icosaedro ed il
dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno fatto. Vediamo come possono aver
fatto, sempre prescindendo dalla teoria delle parallele, della similitudine,
delle proporzioni e dai due postulati di Euclide ed Archimede. Il problema
dell'applicazione semplice, che Euclide risolve dopo avere dimostrato il
teorema sopra i paralle- logrammi complementari (parapleromi) si può risolvere,
in un caso particolare, anche senza ammettere il postulato delle parallele. Il
problema si può enunciare così: Costruire un rettangolo di base data ed eguale
ad un rettangolo od un quadrato assegnato; problema che corrisponde alla
determinazione della soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc
ax=b2 Se a > b oppure a > c, il problema è risolubile anche nella nostra
geometria. Sia, per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b
e BC = c. Preso sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA =
a, completiamo il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti
restano da parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia
in un punto P interno la diagonale AC. Conduciamo infine per P la MN
perpendicolare alle AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli
ABC, ADC; PNC, PKC; AHP e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è
eguale (in estensione) al rettangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il
rettango- lo PNCK si ha che il rettangolo MNCD è eguale al rettangolo dato
HBCK. Il segmento CN è dunque l'incognito x dell'equazione. Se invece a è
minore tanto di b che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più
la certezza che la AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del
lato HK. Tale certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il
postulato di Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel
commento ad Euclide (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi
dell'applicazione sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ
τὸν Εὔδημον, e non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è
basato sopra l'autorità d’Eudemo. La testimonianza non è questa volta quella
personale di Eudemo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza
corrisponde il fatto che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle
parallele, potevano risolvere il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del
resto quello che ci interessa, perché per- mette di risolvere le questioni che
ci si presenteranno in seguito. Per risolvere, dopo quello dell'applicazione
semplice (parabola), gli altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo
premettere il seguente teorema ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio
dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed
in- versamente se in un triangolo il punto medio di un lato è equidistante dai
tre vertici esso è rettangolo. Sia ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A
il verti- ce dell'angolo retto. Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad
AB la semiretta che forma con AB un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa
è interna all'an- golo retto ^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O
interno, formando due triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli
alla base complementari di angoli eguali); quindi O, punto medio
dell'ipotenusa, è equidistante dai tre vertici. Viceversa, se nel
triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA = OB = OC, risulta ^OAC=^OCA;
^OAB=^OBA, , siccome per il teorema dei due retti la 80 somma di questi
quattro angoli è eguale a due retti si avrà: ^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le
due altezze dei triangoli isosceli li suddividono in triangoli rettangoli
eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3. Passiamo agli altri due problemi
dell'applicazione. Il problema dell'applicazione in difetto (ellissi) si può
enunciare così: Costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la
differenza tra il rettangolo di eguale altezza e base assegnata ed esso sia un
quadrato. Più moderna- mente e più chiaramente: costruire un rettangolo di data
area b2, conoscendo la somma dei lati a. Si tratta cioè di risolvere
l'equazione di secondo gra- do: x (a – x)=b2 Sia ABCD il quadrato di lato AB =
b. Preso sulla AB dalla parte di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà
di a, si determinano sulla AB i punti E ed F tali che OE = OD = OF. Per il
teorema precedente il triangolo EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co-
struito sull'altezza AD è eguale al rettangolo di lati AF, AE. Costruito il
rettangolo EKGF, con EK = AE, se da esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il
quadrato ABCD, la differenza AEKH è appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF
risolve dunque il problema, ed è EA la 81 x dell'equazione data. Affinché
il problema ammetta so- luzione reale occorre che sia a>2b. Il problema
dell'applicazione in eccesso (iperbole) si può enunciare così: costruire un
rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra di esso ed il
rettangolo di eguale altezza e base assegnata a sia un quadrato. Il pro- blema
equivale a costruire un rettangolo conoscendone l'area e la differenza dei
lati, ossia corrisponde alla riso- luzione dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed
ammette sempre soluzione. Sia ABCD il quadrato di lato b, e prendiamo dalla
parte di B sulla AB il segmento AF'=a. Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo
sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il triangolo EDF è rettangolo, ed il qua-
drato dell'altezza ABCD è eguale al rettangolo che ha per lati le proiezioni EA
= EK, ed AF = EF' dei cateti. 82 Se da questo rettangolo si toglie
il rettangolo AHL'F' di eguale altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap-
punto un quadrato EKHA. Il rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA
è la x dell'equazione. PROBLEMA. Determinare la parte aurea di un segmento;
ossia dividere un segmento in modo che il quadrato avente per lato la parte
maggiore (parte aurea) sia eguale al rettangolo avente per lati l'intero
segmento e la parte rimanente. Questo problema è un caso particolare del
problema dell'applicazione in eccesso; e precisamente il caso in cui a = b.
Costruiamo il quadrato ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di
AD, e prendiamo su AD i segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo,
quindi il quadrato che ha per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per
lati DK = DF ed ED. 83 Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC,
ri- sulta DF e quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque
minore del lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente
maggiore; perciò la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal
rettangolo EHKD e dal quadrato ABCD la parte comune AGDK si ha che il quadrato
EHGA è eguale al rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed
il segmento BG, che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG,
ossia il lato del quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel
modo richiesto, ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che
AD è la parte aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della
parte aurea AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte
aurea di un segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG
un'altra soluzio- ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB ‧
BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS
‧ SG = (AG)2 ma (AG)2 = AB ‧
BG = AB ‧ BS – AB ‧
SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧ SG = AB ‧
BS – AB ‧ SG e (AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧
SG + AB ‧ SG = AB ‧
BS 84 dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS ‧
SG + AB ‧ SG = 0 ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0
Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può accadere solo se SG = 0,
ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un triangolo isoscele aven- te
l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due ret- ti è la parte aurea
del lato. Un triangolo isoscele VAB che abbia l'ango- lo al vertice di 36° e
quindi quelli alla base di 72°, è diviso dalla bisettrice di uno degli angoli
alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed i tre segmenti VC, AC, AB
risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB risultano inoltre
equiangoli tra loro. Abbassando le altezze VH ed AM, e conducendo da H
l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12 BM – 14 BC I triangoli
rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il cateto AH del primo è
l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del capitolo precedente si
ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA, NH) = 4 quad. (AH) rett.
(VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC) Dunque VC, ossia AB è la
parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il teorema inverso: Se un
triangolo isoscele ha la base che è parte aurea del lato, esso ha l'angolo al
vertice eguale alla quinta parte di due retti. Sia V'A'B' il triangolo dato e
la base A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il triangolo isoscele VAB con
VA = VB = V'A' e l'angolo al vertice un quinto di due retti, sarà per il
teorema precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e per l'unicità della
parte aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali c.d.d.50 50 LORIA (Scienze esatte) attribuisce a Pitagora
la costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello
della base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare
che la base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli
VAB, ABC (fig. 24), e sembra che in- Per costruire un triangolo isoscele con
l'angolo al vertice metà di quello alla base, ossia per costruire un angolo
eguale ad un quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro, basta
prendere per lato un segmento qualunque, e per base la sua parte aurea. Facendo
com- piere a tale triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali all'angolo
al vertice, si viene a riempire il piano attorno al vertice e si ottiene un
decagono regolare. Viceversa se una circonferenza è divisa in 10 parti eguali,
il lato del decagono regolare inscritto è la parte aurea del raggio. Siamo
dunque in grado di risolvere il PROBLEMA. Dividere una circonferenza in dieci
parti eguali. Uniamo il punto medio C del raggio OA con l'estremo B del raggio
perpendicolare ad OA, e prendia- mo dalla parte di A il segmento CD sulla OA
eguale a CB; AD è la parte aurea del raggio. Essendo AD minore di OA la
circonferenza di centro A e raggio AD taglia in due punti E, P la circonferenza
di centro O e raggio OA. Questo accade, naturalmente, ammettendo tacitamente
(come Euclide ha fatto ancora, due secoli dopo Pitago- ra) il postulato della
continuità in un caso particolare, ammettendo cioè che se un circolo ha il
centro A sopra una circonferenza di centro O e passa per un punto D tenda
significare che tale via fu tenuta anche da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo
mostrato parte, invece, dal teorema di Pitagora, ed utilizza soltanto
conseguenze di questo teorema, in particolare il corollario ed i problemi
dell'applicazione che sappiamo erano stati risolti dai pitagorici. esterno ed
uno interno a tale circonferenza le due circonferenze si tagliano. Questa
proprietà talmente assiomatica che Euclide non ha sentito il bisogno di
postularla, per i pitagorici doveva costituire un dato di fatto, una verità
primordiale. Gli archi AE, AP sono dunque un decimo della intera circonferenza.
Facendo centro successivamente in E ed in P ecc. con il medesimo raggio si
determinano gli altri punti di divisione, due a due diametralmente opposti es-
sendo 10 un numero pari. Riunendoli successivamente si ottiene il decagono
regolare inscritto; riunendo il primo con il terzo, il terzo con il quinto ecc.
si ottiene il pentagono regolare inscritto. Si vede dunque come partendo dal
teorema di Pitagora, e con i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici
erano in grado di dividere la circonferenza in 5 e 10 parti eguali, e di
inscrivere in essa il decagono ed il pentagono regolari. Il pentagono stellato
o pentalfa (o pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente conducendo le
cinque diagonali del pentagono; e poiché il pentalfa era il simbolo del sodalizio
pitagorico, la scoperta della divisione della circonferenza in 10 e 5 parti
eguali e la costruzione del decagono regolare, del pentagono regolare e del
pentalfa, vanno attribuite senz'altro a Pitagora. 7. Le ragioni per le quali il
pentalfa fu prescelto come simbolo dalla nostra Scuola non sono tutte di natura
geometrica. Cosa naturale, data la connessione tra la geometria, le altre
scienze e la cosmologia pitagorica. Ma le proprietà geometriche che legano tra
loro il rag- gio della circonferenza, i lati del pentagono e del deca- gono
regolari inscritti, e quelli del pentalfa e del decago- no stellato o decalfa,
sono tante e così semplici e belle da avere indubbiamente suscitato
l'ammirazione dei pitagorici e da avere contribuito a determinare od a giusti-
ficare la scelta del pentalfa a simbolo della Scuola ed a segno di
riconoscimento tra gli appartenenti all'Ordine. Vediamone ordinatamente una
parte. Congiungendo successivamente i punti di divisione A, B, C,... della
circonferenza in 10 parti eguali si ha il decagono regolare ABCDEFGHIL, di cui
indi- cheremo il lato con l10. Esso è la parte aurea del raggio. Congiungendo A
con C, C con E ecc., si ha il pentagono regolare ACEGI di cui indicheremo il
lato AC con l5; congiungendo A con D, D con G ecc., si ha il decagono stellato
ADGLCFIBEH oppure AA'BB'CC'... LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con
s10; congiungendo A con E, E con I ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure
ANCN1EN2GN3IN4 di cui indicheremo il lato con s5. Congiungendo A con F si ottiene
il diametro, e tiran- do da A le corde AG, AH... degli archi sestuplo ecc.
dell'arco AB si riottengono in ordine inverso i poligoni re- golari già
ottenuti. I poligoni regolari e stellati inscritti nella circonferenza, e che
si ottengono mediante la sua suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e
solo quat- tro. Il pentalfa deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A
dell'alfabeto greco) come quello formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura.
Il nome è adoperato da Kircher nella sua Aritmetica. Siamo però convinti che
questa è la denominazione originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la
denominazione origina- le del decagono stellato. Abbiamo già veduto che
riportando 10 volte successivamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce
la circonferenza, come la somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E
come gli elementi della geometria: il punto, la linea (retta o segmento
determinato da due punti), la superficie (piano, triangolo determinato da tre
punti), il volume (tetraedro, determinato da quattro pun- ti) riempiono ed
esauriscono lo spazio (tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi
quattro numeri interi dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che
dall'unità attraverso la sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto,
naturalmente, succede nella nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo
doppio BD, con il triplo DG e con il quadruplo GA dà per somma la intera
circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66.
91 Il quadrilatero ABDG che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per
diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso dalla diago- nale BG in due triangoli
rettangoli, e quindi si ha: l2+s2=4r2 10
5 l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione che lega il
raggio della circonferenza ed i lati dei quattro poligoni, che si enuncia con
il TEOREMA: La somma dei quadrati costruiti sopra il lato del decagono
regolare, del pentagono regolare, del pentalfa e decalfa inscritti in una circonferenza
è eguale ad otto volte il quadrato costruito sul raggio. Si riconosce
facilmente che il diametro AOF è perpendicolare al lato EG del pentagono ed al
lato CI del pentalfa, ed essendo l'angolo ̂EOF di 36° ed il trian- golo EOA
isoscele l'angolo ̂EAF risulta di 18° e quindi ̂EAG di 36°. Ne segue il
TEOREMA: La somma dei cinque angoli del pental- fa è eguale a due retti, che si
dimostra facilmente vero per qualunque pentagono intrecciato. I triangoli
isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al vertice di 36° hanno la base parte aurea
del lato. Dunque il lato del pentagono regolare inscritto è la parte aurea del
lato del pentalfa; ed NN è parte aurea di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF di 72° DAO viene
di 36°; simil- mente si riconosce che ̂CAO è di 54° e ̂BAO di 72°; ossia che la
perpendicolare per A al diametro AF e le congiungenti A cogli altri punti di
divisione in 10 parti eguali della circonferenza dividono l'angolo piatto
attorno ad A in 10 parti eguali; ed analogamente per gli altri vertici. Se ne
trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il triangolo ECN avendo i due angoli alla
base CN eguali e di 72° è isoscele; perciò EN è eguale al lato l5 del
pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo, le dia- gonali del pentagono
regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in parti corrispondenti eguali,
di cui la mag- giore è eguale al lato del pentagono. Nel lato AE del pentalfa,
NE = EG = l5 è la parte aurea di AE, quindi N1E = AN è la parte aurea di EN; ed
NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente NN1N2N3N4 è un pentagono rego- lare.
Notiamo infine che l'apotema del pentagono regolare è la metà del lato del
decalfa, come si ottiene dal trian- golo rettangolo ACF. Altre proprietà avremo
occasione di riconoscerle in seguito. Dobbiamo ora stabilire un'altra
importante relazio- ne che si presenta nella costruzione dell'icosaedro, e che
i pitagorici debbono quindi aver conosciuto. Ammettendo che ogni retta passante
per un punto in- terno ad una circonferenza è una secante, si dimostra che la
perpendicolare al raggio nel suo estremo è la tangente in quel punto alla
circonferenza. E siccome sappiamo che il luogo geometrico dei vertici dei
triangoli rettangoli di data ipotenusa è la circonferenza che ha per diametro
l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre le tangenti ad una circonferenza
da un punto assegnato. Conduciamo allora da un punto P esterno ad una
circonferenza la tangente PN, il diametro PO ed una secante qualunque PCD. La
mediana del triangolo isoscele OCD è perpendico- lare alla base CD, ed il
rettangolo che ha per lati PD e PC ossia PM + CM e PM – CM è eguale come sappia-
mo alla differenza dei quadrati costruiti su PM e su MC. Si ha: PC · PD = (PM +
MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2 = = (PM)2 + (OM)2 – [(OM)2 + (MC)2]= = (PO)2 –
(OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2. Prendiamo allora nella figura sulla AB a
partire da A il segmento AS = OA: i triangoli isosceli OAC, ASO, avendo il lato
eguale e l'angolo al vertice eguale sono eguali, e quindi OS = AC = l3; e
siccome in questi trian- goli l'angolo al vertice supera quello alla base, la
base 94 OS è maggiore del lato OA ed il punto S è esterno alla
circonferenza. Condotta da S la tangente ST, sarà per il teorema ora
dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del decagono regolare, esso
è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi ST = AB = l10 Dal
triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2 ossia la
relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato del
pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per
cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura
26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai
triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC
= l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la
parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si
ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95 Da questa relazione e dalle
altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per
brevità con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6]
s2 +r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e
perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l
quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l
=3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo
adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r;
l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF =
l10 si ha AD=AF=s10; CD=s5. Preso AM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si
trova (cfr. LORIA, Scienze esatte) nel libro di Euclide (che è di Ipsicle), e
così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova che fossero sconosciute prima
di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che l'apotema del triangolo equilatero
è la metà del raggio, proprietà nota certamente molto prima. sulla
perpendicolare alla AM il segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL
risulta rettangolo, perché CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo
compaiono gli stessi cinque elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha
per cateti il lato del pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha
per altezza il raggio del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti
sull'ipotenusa sono eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re
inscritto ed a quello del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte
aurea dell'altezza e l'altezza è parte aurea della proiezione del cateto maggiore.
Il cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei quadrati
costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato costruito sopra
l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a quei poligoni
regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per metà dalle
diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del rettangolo di
lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha quindi una terza
relazione tra quei cinque elementi: l5·s5=r(s10+l10) indicando con a5 l'apotema
del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo alle precedenti
anche le relazioni: 2a5=s10=r+l10 2a10=s5 Vedremo in seguito le relazioni che
legano questi ele- menti ai vari elementi del dodecaedro regolare. Il pentalfa
era il simbolo del sodalizio pitagorico. Si disegna, con la punta in alto
scrivendo in corrispondenza dei vertici le lettere componenti la parola ὑγίεια,
latino salus, da intendere nel duplice senso che ha la parola salute in Dante e
nei «Fedeli d'Amore», ossia nel senso di quella salvezza o sopravvivenza
privilegiata indicata alla fine dei Versi d'oro. Questo antico simbolo
pitagorico riappare qua e là nella tradizione esoterica occidentale, designato
di solito come la figura di Pitagora. Talora al centro si trova scritta la
lettera G, iniziale di Geometria, come ad esem- pio nella flaming Star di un noto
Ordine Occidentale avente per scopo il perfezionamento dell'uomo, ossia alla
lettera, la teleté dei misteri. Ma non è ora il caso di fare la storia della
sua trasmissione sino a divenire il fatidico stellone d'ITALIA. Diremo
soltanto, che il pentalfa ed IL FASCIO LITTORIO (tra i quali passa più di un
legame) sono i soli importanti simboli spirituali veramente occidentali. Il
resto, buono o cattivo che sia, vien dall'Oriente. Per vedere in quale modo
Pitagora pervenne alla costruzione dei poliedri regolari ed alla loro
inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo spazio quel che ab- biamo
fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la geometria pitagorica dello
spazio senza introdurre i con- cetti di rette parallele, di rette e piani
paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si possa egualmente pervenire ai
risultati che Eudemo attraverso Proclo ci tramanda come conseguiti da Pitagora.
Ma per non allungare troppo questo nostro studio ci limiteremo ad indicare per
sommi capi la via da tenere, o una delle vie da seguire, tralasciando in
generale le dimostrazioni che ognuno può trovare da sé. Perciò, ammettendo che
un piano divida lo spazio in due semispazii, ammettiamo anche il postulato del
semi- spazio: Il segmento congiungente due punti situati da parti opposte
rispetto ad un piano è tagliato in un suo punto dal piano. Può darsi che anche
questo caso parti- colare del postulato di continuità fosse ammesso tacita-
mente come una verità primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che: Una
retta non giacente in un piano e che abbia con esso un punto comune è divisa da
esso in due semi- rette situate da parti opposte rispetto a quel piano. Se due
piani hanno un punto in comune la loro in- tersezione è una retta passante per
quel punto; uno qualunque dei due piani è diviso dalla comune in- tersezione in
due semipiani situati da parti opposte rispetto all'altro. Se per un punto H di
una retta m si conducono ad essa in piani diversi due perpendicolari a e b,
ogni altra retta del piano ab passante per H è perpendi- colare alla m, e
viceversa ogni perpendicolare alla m per H giace nel piano ab. Il piano ab
dicesi per- pendicolare alla retta m in H; e la retta perpendico- lare m al
piano ab in H. d) Per un punto A appartenente o no ad una retta passa un piano
ed uno solo perpendicolare ad essa. Teorema delle tre normali: Se una retta m è
perpen- dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel piano una retta a
perpendicolare ad una retta r di α (passante o no per il piede H), la terza
retta r è perpen- dicolare al piano am delle prime due. f) Due piani che si
intersecano dividono lo spazio in quattro parti (diedri). Seguono le
definizioni di die- dro convesso, piatto e concavo. Sia β un piano perpendicolare ad una retta a e sia
H il suo piede. Conduciamo per a un piano qualunque α, e sia r la αβ; e
conduciamo per H in β la bb' perpendicolare alla r. Per il teorema delle
tre normali la b è perpendicolare al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa,
^aHb' risultano retti. Facendo ruotare il piano ab intorno ad H su se stesso
esso rimane perpendicolare alla r e quando la semiretta b va sulla a e la a
sulla b', il semipiano β vasul semipiano α ed α su β'.I due diedri β̂α e ̂αβ '
si sovrappongono, sono quindi eguali; il semipiano α biseca dunque il diedro
piatto ^βrβ'. Ogni altro semipiano per r è interno all'uno od al- l'altro dei diedri
α̂βe^αβ'; quindi per una retta r del piano β si può condurre uno ed un solo
piano α che bisechi il diedro piatto ^β r β ' . Il piano α dicesi perpendicolare
al piano β; l'angolo ^a H b dicesi sezione normale di αβ, ed è retto. Se per un
punto P di α si conduce la perpendicolare a' alla r dal piede e la c in β
perpendicolare alla r, anche il piano a'c è perpendicolare alla r; facendo
ruotare attorno alla r il semipiano β va in α ed α in β', la semiretta c va
sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a =̂a ' c ' = un retto, e quindi a'
risulta p̂erpendi- colare anche a β e la sezione normale a ' c del ̂^ diedro αβ
risulta eguale all'altra ab . h) Retta perpendicolare ad un piano per un punto.
Sia H un punto di un piano β, e si conduca per H in β una retta b qualunque, e
per H il piano α ^ Se poi il punto dato fosse P esterno al piano β, condotta in
β una retta b qualunque e per P il piano α perpendicolare alla b, esso
interseca la b e quindi il piano β secondo una retta r. Da P in α si conduca la
PH' perpendicolare alla r e per il teorema delle tre normali risulta PH' perpendicolare
a β. Per assurdo se ne dimostra subito la unicità. I piani passanti per una
retta perpendicolare ad un piano sono perpendicolari ad esso. 103
perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H condu- ciamo nel piano α la
perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre normali risulta a
perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H si di- mostra per
assurdo. k) Se i piani α e β sono tra loro perpendicolari, la per-
pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è perpendicolare a β.
Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano, se due piani α e β
sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la perpendicolare a β
essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque. Per due punti A e B
(fig. 31) della costola r di un diedro α̂β
conduciamonellafacciaαleperpendicolari a, a' alla r, e nella faccia β le
perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli
angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi infatti su α AC = BD e su β AE = BF i
qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli e quindi CD = AB = EF. La r è
perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il piano α è perpendicolare ai piani
ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla interse- zione a dei due piani α ed
ab risulta perpendicolare al piano ab e perciò anche alla CE; analogamente
risulta perpendicolare alla DF; ed analogamente la EF risulta perpendicolare
alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è
perpendicolare al piano ACE, e la EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE,
giace nel piano CDE; perciò il quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano
cogli angoli retti, ossia è un rettangolo. I triangoli ACE e BDF risultano
quindi eguali per il terzo criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104 sono
eguali. Le sezioni normali di un diedro qua- lunque sono dunque eguali. Se due
piani α e β sono perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è
perpendicolare a γ. Due piani perpendicolari ad una retta non si incontrano.
Definizione di piano assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo
geometrico dei pun- ti equidistanti dagli estremi del segmento. Distanza di un
punto da un piano; e luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza
assegnata da un punto esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto
in una circonferenza, un punto qualunque della per- pendicolare al piano del
poligono condotta per il centro è equidistante dai vertici del poligono. q)
Piano bisettore di un diedro e sue proprietà. Per un punto P del piano γ
bisettore del diedro α̂ β si conduca il piano δ perpendicolare allo
spigolo r. I tre piani α, β, γ sono perpendicolari a δ; condotte da P le
perpendicolari PH e PK ad α e β esse giacciono in δ; ed unendo il punto M di
inter- sezione della r e di δ con H, P, K, i triangoli rettangoli PHM, PKM sono
eguali per avere l'ipotenusa PM in comune e gli angoli ^HMP , ^KMP eguali
perchéγèbisettoredi α̂β efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va
su γ ed i due an- goli si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto
P interno ad α̂β è equidistante da α ed a β,esso appartiene al Si dimostra nel
solito modo, e si estende all'angoloide. TEOREMA. La somma delle facce di un
triedro è minore di quattro retti. Si dimostra nel solito modo e si estende
all'ango- loide convesso. Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le
facce eguali, ed eguali i diedri for- mati da due facce consecutive. Definizione
di poliedro. Il poliedro si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni
regolari eguali e gli angoloidi sono regolari eguali. Possono esistere al
massimo cinque poliedri rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con
cinpiano γ bisettore del diedro αβ.
Definizione di triedro e di angoloide convesso. TEOREMA: In un triedro
una faccia è minore del- la somma delle altre due. que facce congruenti
in un vertice eguali a dei triangoli equilateri; uno con tre quadrati
congruenti in un vertice, ed uno con tre pentagoni regolari congruenti in un
vertice. Questa possibilità si dimostra nel solito modo. Costruzione del
tetraedro regolare. Dimostrata la possibilità dell'esistenza dei cinque po-
liedri regolari passiamo alla loro effettiva costruzione. La proprietà del
baricentro di un triangolo qualunque si può riconoscere valida anche nella
nostra geometria pitagorica indipendentemente dal postulato di Euclide; nel
caso del triangolo equilatero è poi facilissimo rico- noscere che il baricentro
è anche centro delle due circonferenze circoscritta ed inscritta e che il
raggio della prima è doppio di quello della seconda. Per il centro H di un
triangolo equilatero ABC si condurrà la perpendicolare h al piano ABC, e
siccome AH è minore di AB si determina nel piano Ah l'intersezione di h con la
circonferenza di centro A e rag- gio AB. Si unisce questo punto D con A, B, C;
e si ha DA = DB = DC = AB. Il tetraedro DABC ha per facce quattro triangoli
equilateri eguali; gli angoloidi sono dei triedri a facce eguali; ed i diedri
sono pure eguali, per- ché il ̂diedro di spigolo AC ha per sezione normale
l'an- golo DKB del triangolo isoscele KDB che ha per lato l'altezza della
faccia e per base lo spigolo, ed è quindi lo stesso per tutti i diedri. Esiste
dunque un tetraedro rego- lare di dato spigolo AB. 107 Chiamando l4
lo spigolo, con il teorema di Pitagora si ha: (BK )2= 34 l24 e quindi (BH )2=
49 · 34 l 24 (BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro della sfera circoscritta sta
sulla h che è il luogo dei punti equidistanti da A, B, C; quindi se D' è
l'altro estremo del diametro OD, il piano ADD' è diame- trale, il triangolo
ADD' è rettangolo perché il punto me- dio di DD' è equidistante dai vertici, AH
è l'altezza di questo triangolo rettangolo e quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32
·(DH)2=2r·DH; 3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e OH=13r Ne segue la regola per la
Inscrizione del tetraedro regolare nella sfera di raggio r. 108 Preso OD
= r e da parte opposta OH = 13 r si ha in DH l'altezza. Si conduce una
circonferenza di diametro DD' = 2r, e per H la perpendicolare al diametro; la
sua intersezione con la circonferenza sia il vertice B del tetraedro. Condotto
infine il piano passante per HB e perpendicolare al diametro DD', si descrive
in esso la circonferenza di raggio HB ed in essa si inscrive il triangolo
equilatero ABC. Il tetraedro ABCD è il tetrae- dro regolare inscritto.
Esistenza e costruzione dell'esaedro regolare. Sia ABCD un quadrato. Conduciamo
per i vertici le perpendicolari al piano del quadrato ABCD da una stessa parte
del piano, e prendiamo su esse i seg- menti AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I
piani EAB, EAD risultano perpendicolari al piano α del quadrato ABCD; e le
perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono rispettivamente nei piani EAB,
EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati eguali al dato. Analogamente la
CH coincide con la intersezione dei piani FBC e GDC perpendicolari ad α, e
quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò CH è perpen- dicolare al
piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche al piano BCHF; il piano
CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH perpendicolare all'intersezione
CH risulta perpendicolare anche al piano BCHF, e quindi alla HF. Quindi ̂FHG =
un retto. La FH è quindi perpendicolare al piano CDGH. D'altra parte la DG è
perpendicolare al piano HGE, i piani HGD, HGE sono perpendicolari tra loro e
quindi la FH perpendicolare al primo di essi appartiene al se- condo. Il
quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano coi lati tutti eguali ed un
angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce dell'esaedro ABCDEFGH sono
dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni vertice sono dei quadrati ed i
diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è costruito. EA ed HC sono
perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è perpendicolare ad ABCD, la CH
pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un quadrilatero piano con gli
angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due diagonali del cubo CE, AH
sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF e CD risultano perpendicolari
a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la diagonale FD è eguale alle altre
due ed è tagliata per metà dal loro punto medio; lo stesso per la BG. Le
quattro diagonali sono eguali, e si incontrano in un medesimo punto O 110
che le biseca, quindi O è equidistante da tutti i vertici ed è centro della
sfera circoscritta. Si ha poi (EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2 e quindi 4R2=3l26 ed
l26=34R2. Condotta OM perpendicolare ad EH e quindi alla fac- cia EFHG, il
segmento OM, che è la metà dello spigolo 2 R2 è eguale all'apotema del cubo, e
a6 =3 . D'altra parte si riconosce facilmente che il quadrato costruito sopra
il lato del triangolo equilatero inscritto in una circonferenza di raggio R è
triplo del quadrato del raggio (ossia il lato del triangolo equilatero è R √ 3
e si ha quindi il TEOREMA. L'apotema del cubo inscritto nella sfera di raggio R
è 13 del lato del triangolo equilatero in- scritto nella circonferenza di
raggio R; e lo spigolo del cubo è i 23 di tale lato (l6=32 R √3) Dopo ciò per
risolvere il problema della inscrizione del cubo nella sfera di raggio dato,
occorre sapere divi- dere un segmento assegnato in n (nel nostro caso 3) par-
ti eguali. Il problema, indipendentemente dalla teoria delle parallele, è
sempre risolubile grazie al seguente LEMMA. Se l'ipotenusa di un triangolo
rettangolo è divisa in n parti eguali e per i punti di divisione si conducono
le perpendicolari ad uno dei cateti esse lo divi- dono in n parti eguali. Sia
ABC un triangolo rettangolo, e sia l'ipotenusa BC divisa in n (5) parti eguali;
per i punti di divi- sione D, E, F, G conduciamo le perpendicolari ai cateti AC
e AB. Si riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK ecc. sono dei rettangoli e
che essendo EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i triangoli rettangoli EDP, DBM
sono eguali, e EP = DM e perciò AL = LK. Analogamente LK = KI = HI =
HC. Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo di un seg- mento dato, se
ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo numero di parti eguali, le
congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD, KE... risultano
perpendicolari al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si possa sempre,
indipendentemente dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere il problema
di dividere un segmento in un numero assegnato di parti eguali. Frattanto per
il caso di n = 5 il problema si risolve così: Preso un segmento tale che il suo
quintuplo sia maggiore del segmento dato (per esempio riportando cinque volte
consecutivamente la quarta parte del segmento assegnato), si descrive sopra di
esso come diametro la circonferenza, e poi con centro in uno degli estremi del
diametro e raggio eguale al segmento assegnato si descrive un'altra
circonferenza; il punto di intersezione delle due circonferenze è vertice di un
triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il diame- tro della prima
circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del diametro le
perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali. In modo
analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre parti
eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella sfera di
raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir- conferenza
di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un diametro CE della
sfera si conduce un piano, ed in esso si costruisce il triangolo ret- tangolo
di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato del triangolo equilatero costruito. Per
il punto medio O di CE (centro della sfera) si conduce la perpendicolare MN al
cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M e per N si conducono i piani
perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si costruisce il quadrato che ha EH
per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i simmetrici dei quattro ver- tici
rispetto ad O danno gli altri quattro vertici del cubo. Inscrizione
dell'ottaedro regolare nella sfera di raggio dato. Condotto per il centro della
sfera il piano perpendicolare al diametro EF, sia ABCD un quadrato inscritto
nel cerchio sezione. Unendo gli estremi del diametro EF con A, B, C, D si ha
l'ottaedro regolare inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli
equilateri, gli angoloidi sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al
vertice di triangoli isosceli aventi il lato eguale all'altez- za della faccia
e la base eguale al diametro della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro
che ha per verti- ci i centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il
tetraedro che ha per vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle
tre facce ivi congruenti è regolare. L'icosaedro regolare. Divisa una
circonferenza di centro V e raggio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in
essa il decagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari
A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le
perpendicolari al piano α della circonferenza, e si prendano su di esse i
segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è
perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano
C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano C3A3A4,
il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così
proseguendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2. Esso
è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α ed
al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la A4C4
perpendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un
rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3;
analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un
pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo angolo C1 C2 C3 è eguale
all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro,
analogamente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono
regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano
α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano
C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q
sta nel piano del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un
quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della
circonferenza circoscritta al 116 pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale
alla circonferenza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si ha:
(C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della
circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà
C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente
dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 =
B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo
si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si
ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del
pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede
subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla
VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce
che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due
cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono
C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo
DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del
pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi
il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila-
teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E aventi per lati
opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un icosaedro
avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due pentagoni C1C2C3-
C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi- lateri, ed è inscritto
nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista da D, C2, B2 e così
pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali degli spigoli C2DC2B2
si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3 risulta perpendicolare al
piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F equidistante da D, C2, B2. D'altra
parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono
perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è eguale alla C2F dell'altro, ed è F
interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per
lato il rag- gio della sfera circoscritta e per base lo spigolo dell'ico-
saedro quindi sono eguali. E, poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F
risultano eguali per il primo crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche
OFC4 = un retto; FC4 è dunque perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano
DC2B2; ossia C4 sta in questo piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3
sta in questo piano; e si ha: FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono
DC2B2B3C4 è un pentagono piano equilatero inscritto nella circonferenza di
centro F e raggio FD, ossia è un pentagono piano regolare ed è base della
piramide pentagonale regolare di vertice C3. Analogamente si dimostra che ogni
vertice dell'icosaedro è vertice di una piramide pentagonale regolare eguale.
La sezione normale del diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo
punto medio con i punti C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di
un triangolo isoscele che ha per lato l'altezza della faccia e per base la
diagonale del pentagono di base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni
diedro di ogni angoloide dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un
icosaedro regolare. Per costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si
può dunque procedere nel modo seguente: si determina il segmento C1C4 di cui
C1C2 è la parte aurea. si determina il centro Q della circonferenza
circoscritta al triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la
circonferenza di centro Q e raggio QC1. si inscrive in questa circonferenza il
pentagono regolare C1C2C3C4C5. si conduce per il centro Q la perpendicolare al
piano del pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si
ha nel punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il
raggio. si prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. si
conduce per V il piano perpendicolare al diametro DE. si abbassa dal vertice C1
la perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1 appartiene alla
circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. si abbassa da C2 la
perpendicolare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene alla
circonferenza di centro V. si prende il punto medio B1 dell'arco A1A2 e si
inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono regolare che ha questo
punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il pentagono B1B2- B3B4B5. si
unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1
aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6. Inscrizione dell'icosaedro regolare
nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E della fig. è rettangolo in C2 per-
ché i suoi vertici equidistano da O centro della sfera. In esso l'altezza C2Q =
r, raggio del pentagono C1C2C3C4- C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi
C2E = s5; perciò per la [8] (C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di
Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 = (DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha
il TEOREMA: Il quintuplo del quadrato che ha per lato il lato del pentagono di
base è eguale al quadruplo del quadrato del raggio della sfera circoscritta.
Premesso questo teorema, prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque
parti eguali. Preso DG eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen-
dicolare a DE sino ad incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha:
(DH)2 = DE · DG ossia (DH)2=2R·25 R=54 R2 120 DH è dunque eguale al
raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il
lato del decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si
toglie da OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per
Q e per V i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio
r si descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu-
namente i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed
unendo il vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque
vertici C tra loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C
opportuna- mente ai vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando
con R il raggio della sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con
l5 lo spigolo, con r il raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di
lato l5, con l10 la parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del decalfa
inscritti in questa circonferenza, con R' il raggio della sfera tangente agli
spigoli dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema del penta- gono
di lato l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si hanno le seguenti
relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal triangolo rettangolo DC2E
si ricava: R '=12 s5⋅a10
121 cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'icosaedro è
eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio
r, oppure è eguale all'apotema del decagono inscritto in questa circonferenza.
Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un triangolo
rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza parte
dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R'
–12=4s5–12=12(3s5–l5) e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2
–r2+s2 )= 125 101210 10 = 1 (4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1
(s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12 = 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il
quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosae- dro è eguale alla terza parte
del rettangolo che ha per lati il raggio della sfera circoscritta, e questo
raggio R au- mentato del raggio r della circonferenza circoscritta al
pentagono. La relazione si può anche scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53
Dal triangolo ON5D si ha invece: l2 l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 Si può
riconoscere infine che il piano diametrale pas- sante per i vertici D, B2, E
sega l'icosaedro secondo un esagono che ha due lati opposti eguali allo spigolo
del- l'icosaedro e gli altri quattro eguali all'altezza della faccia, e si può
dimostrare geometricamente che questo esagono ha la stessa estensione del
rettangolo che ha per lati s10 e R + a5. Tagliando invece l'icosaedro con un
piano diametrale perpendicolare al diametro DE si ottiene per sezione un
decagono regolare che ha il lato eguale alla metà dello spigolo dell'icosaedro
ed è inscritto in una circonferenza di raggio R', da cui risulta che la metà di
l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche dalla formula: R '= 12 s5 . 7.
Costruzione del dodecaedro regolare. e e quindi e Si ha pure: ossia Si ha
inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R · l 10; s52=2R · s10 123 3a2=3R2
–l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr; l52=R(2R–r) s 52 + l 52 = 4 R 2 l2 a2
+(5)=R2 10 2 Consideriamo nella fig. 36 la piramide pentagonale di
vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi K1, K2, K3, K4, K5 dei lati della
base sono alla loro volta vertici di un pentagono regolare di centro F che è
base di un'altra piramide di vertice C3 e spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 = C3K4 =
C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle facce late- rali della prima piramide
stanno sugli spigoli della se- conda e si ha: C N =C N =C N =C N =C N =2C K 3 1
̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3 K2=K2C3 K3=... i triangoli isosceli
N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo criterio e quindi N1N2 = N2N3 = N3N4
= N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1 è rettangolo in F ed N1K1 è un terzo
dell'ipotenusa, la perpendicolare al cateto C3F condotta da N1 incontra il
cateto C3F in un punto L tale che FL è un terzo di C3F. Lo stesso accade per
gli altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi N1N2N3N4N5 è un pentagono piano
equilatero in- scritto nella circonferenza di centro L e raggio LN1; os- sia è
un pentagono piano che ha per vertici i centri delle facce dell'icosaedro
congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri delle facce laterali della
piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i vertici di un altro
pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente in comune con esso
il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali della piramide di
vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago- 124 no piano
regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune con il primo ed uno in
comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è comune ai tre pentagoni.
Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici vertici dell'icosaedro si
ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni regolari eguali a
N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il vertice C3 ed il
centro L della base sono equidistanti dai vertici della base N1N2N3N4N5 e
quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro è
equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il dodecaedro
che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso allora il
punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce ̂adiacenti di
centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione normale di
tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che ha per lati
gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che unisce i
centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei triangoli
rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti L1N1, L2N1
eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che ha per lati
OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele che ha per
lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4 dell'icosaedro. Tali
elementi restano dunque gli stessi se si prende la sezione normale di un altro
diedro del dodecaedro; quindi questi 125 diedri son tutti eguali, e
possiamo concludere che il dodecaedro costruito è regolare, è inscritto nella
sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo più oltre la costruzione del
dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del dodecaedro regolare nella sfera
di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un dodecaedro regolare. In esso si può
inscrivere un cubo avente per vertici dei vertici del dodecaedro e per spigoli
delle diagonali delle facce del dodecaedro. Preso infatti il vertice A, e nelle
tre facce congruenti in A i vertici G, C, P; e presi i quattro vertici U, M, S,
K, del dodecaedro ad essi diametralmente opposti, questi otto punti sono
vertici di una figura i cui spigoli sono tutti eguali alle diagonali delle
facce del dodecaedro, os- sia al lato del pentalfa inscritto nella faccia.
Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici i vertici e per spigoli gli spigoli
di questa figura ivi concorrenti sono trirettan- goli; basterà dimostrare che
ad esempio il triedo di vertice A è trirettangolo, e per esempio che AG è
perpendi- colare ad AC. Tornando per un momento alla figura, osserviamo che se
dai vertici C ed I del pentagono regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari
CP, IQ al lato EG i trian- goli rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un
an- golo acuto eguali sono eguali e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC
è per costruzione un rettangolo di base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene
anche ripor- tando a partire dal punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12
CI, ed unendo P con C e Q con I. Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello
spigolo HB del dodecaedro, e presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri
GP'Q'A, KP'Q'C sono dei rettangoli; e perciò la P'Q' è perpendi- 127
colare alle Q'A e Q'C ed al loro piano AQ'C, e così pure è perpendicolare
alle P'G e P'K ed al loro piano GP'K. Il piano ABH che passa per P'Q' risulta
perpendicolare al piano AQ'C ed al piano GP'K, e la retta GA di questo piano
essendo perpendicolare alla intersezione AQ', come pure alla GP', è
perpendicolare anche al piano AQ'C come pure al piano GP'K; e quindi è
perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi il quadrilatero AGKC, che ha tutti
i lati eguali ha due angoli retti; e siccome lo stesso discorso si ripete per
la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA in un punto C della sua
intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare la CK sta nel piano
GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che sono dei quadrati le
altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi triedri di vertici G,
S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si dimostrano perpendicolari al
piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al lato AP di questo quadrato;
quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto nel do- decaedro, e tutti e
due sono inscritti nella sfera che ha per diametro la diagonale del cubo. Dalla
fig. risulta che i centri di due facce opposte del dodecaedro come L1 e L3
stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro O della sfera
circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di due facce
opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque nella fig.
37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il centro O ed è
O1O – O2O l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del triangolo OAO1, avente
per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il raggio O1A = r della
circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo raggio non è che
l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5 ossia AE ed AP.
Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il triplo del quadrato
dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo quindi: 3(AP)2=2R2
ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il lato del triangolo
equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il triplo del quadrato
del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di questo quadrato, ne
segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato del lato del
triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo inscrit- to, che è
anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro, è i due terzi
del lato del triangolo rego- lare inscritto nella circonferenza di raggio R.
Perciò per costruire il dodecaedro regolare inscritto nella sfera di raggio OA
= R si può procedere così. Si inscrive il triangolo equilatero nella
circonferenza di raggio R, e si prende i due terzi del lato. Si ha così lo
spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del pentalfa inscritto nella
faccia. Si determina la parte aurea di questo spigolo e si ha così AE = l5. Si
costruisce il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5; l'altezza di questo
triangolo rettangolo è il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia
del dodecaedro. Si costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto
r, l'altro cateto è l'apotema OO1 del dodecaedro. Preso un segmento O1O2 eguale
al doppio dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad
esso, si descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed
O2 e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è
simmetrico di A rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono
quattro vertici del cubo inscritto. Si conducono per A e per P i piani
perpendicolari ad AP. Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che
ha per diagonale AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si
hanno così gli altri quattro vertici del cubo. Nel piano AFG si completa il
pentagono regolare AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e
poi HBCIK ecc. 9. Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione
del problema della sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura i
triangoli AVO, CΘO, DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA
della cir- conferenza e la base eguale al lato del decagono regola- re
inscritto, quindi la circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del
decagono passa per Θ, V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della
circonferenza di raggio OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130
perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del
pentalfa inscritto nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella
maggiore ed è quindi parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella
maggiore: e quindi ΘV lato del pentagono inscritto nella minore è parte aurea
del lato del pentagono inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e
OYZ sono eguali perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e
quindi il lato del decagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del
decagono inscritto nella maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella
minore, essendo eguale al raggio della minore aumentato del lato del decagono
inscritto, è eguale al raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza
di centro O e raggio OV e descritta la circonferenza concentrica che ha per
raggio il lato VZ del decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e
sussistono le relazioni ora vedute, ed in particolare il lato del pentagono
regolare inscritto nella maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella
minore. Consideriamo ora le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del
dodecaedro, e siano O1 ed O2 i centri delle rispettive circonferenze
circoscritte ed r il loro raggio O1A = O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare
alle due facce e quindi anche il piano O1AO2 è perpendicolare a queste due
facce; esso coincide con il piano DEN5 della figura 36, passa per il punto K6
di questa figura ed è perpendi- colare allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è
perpendi- 131 colare a questo spigolo, e quindi taglia il piano della
faccia C2C3B2 secondo la K6B2 perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa
quindi per N4 ossia per il vertice B della figura 37; e siccome questo piano
O1AO2 passa an- che per il vertice U opposto al vertice A interseca la fac- cia
inferiore KILUV secondo la O2U e quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1;
quindi il pentagono O1AB- B1O2 è un pentagono piano. Analogamente è un penta-
gono piano O1O2UTT1; ed il piano O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono
ABB1UTT1. Analogamente è piano il pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i
lati ordinatamente eguali, gli angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di
vertice B1 e D1 eguali perché sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce
facilmente che anche gli angoli di vertice A e B del primo pentagono sono
rispettivamente eguali a quelli di vertice E e D del secondo. I due pentagoni
O1ABB1O2, O1EDD1O2 sono dunque eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi-
colari al lato comune O1O2 i loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD.
Così pure ΘN, ΘS, ΘG risultano eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ
è il centro di una circonferenza di raggio ΘB situata in un piano
perpendicolare a O1O2, nella quale è inscritto il pentagono piano regolare
BDNSG. Analogamente conducendo da C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra
che η è centro di una circonferenza (situata in un piano perpendicolare ad
O1O2) nella quale è inscritto il pentagono piano regolare CMTRH. 132
Siccome AE spigolo del dodecaedro è parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo
che il lato del pentagono inscritto nella circonferenza di raggio r è parte
aurea del lato del pentagono inscritto in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne
segue che il raggio r è parte aurea del raggio ΘB ossia, che questo raggio è
eguale al lato s10 del de- calfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Preso
ora su BΘ il segmento Θλ, eguale ad r il seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e
poiché O1AλΘ è un rettangolo per costruzione il triangolo ABλ è rettangolo. La
sua ipotenusa è l5, il cateto Bλ, è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad r.
Il rettangolo O1AλΘ è dunque un quadrato ed i piani delle due circonferenze di
centri O1 e Θ hanno una distanza eguale ad r. D'altra parte essendo l'apotema
O2B1 della faccia eguale alla metà di BΘ = s10, B1 è il punto medio del
segmento O2μ preso eguale a s10, e quindi BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è un
triangolo rettangolo di cui l'ipotenusa è eguale ad r+a5, il cateto μB1 è eguale
a a5 e quindi. Ma perciò (Bμ)2 = (r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10 e
siccome 10 10 10 10 10 10 r2=s10 ·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l
s si ottiene quindi ossia (Bμ)2 = s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi
anche BμO2Θ è un quadrato; e la distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la
faccia inferiore KILUV è eguale ad s10. Analogamente preso il punto η sopra
O1O2 tale che O2η = O1Θ = r esso è il centro della circonferenza di raggio s10
passante per CMTRH. NeseguecheΘη=ΘO2 –O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i
piani dei vertici BDNSG e CMTRH è eguale a l10, lato del decagono regolare
inscritto nella faccia del dodecaedro. La distanza tra le due facce opposte del
dodecaedro AEPQF e KILUV è eguale a 2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2
r + l 10 = r + s 10 = r + a 5 . 222 Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che
hanno per cateti r ed s10 si trae che le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5.
Siccome poi r è la parte aurea di s10, s10 a sua volta è la parte aurea di
O1O2; dunque la distanza 2a tra le due facce opposte del dodecaedro è divisa
dai piani degli al- 134 triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla
parte aurea di 2a, la parte rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di
s10 e la parte intermedia è la parte aurea di r ossia è il lato del decagono
inscritto nella fac- cia del dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di
centri Θ ed η hanno il raggio eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del
dodecaedro, hanno dalle due facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio
della faccia e dalle altre due facce distanza eguale al loro raggio ossia al
lato del decalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è
disegnata nel suo piano la sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita
dall'esagono PFQP'F'Q'. I punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle
facce della figura 37. I lati PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del
dodecaedro. BD e PN sono eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND
è il centro della sfera ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta,
DH è eguale ad s10. Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV,
risulta AB eguale ad l10. Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK =
r; condotta per K la perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che
AC = DE = r e BC = AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL,
KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N
sono allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135 parti, AK
eguale ad l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad
s10; preso allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed
OQ il raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro
punti medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16]
R'=l5+s5 2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta
che il rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato
GHNP e quindi si ha: 2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10
10 10 10 10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la
diagonale AN, e gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il
rettangolo di base AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il
rettangolo di base AB = l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo
di base AQ = a5 ed al- tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19']
2a·l10=r·s10 Dai triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136 [20]
R2=a2+r2 [21] R 2=a 2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 –
a25 R '2+(25 ) L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al
rettangolo di lati 2s10 e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed
s10. Si ha dunque: 2 s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52
= 4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 =
6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel
dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il
vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato
l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono
eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e
quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali
anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli
angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono
eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i
triangoli 137 PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le
due diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del
triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da
9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato
l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la
sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si
possono dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che
abbiamo trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il
dodecaedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla
prima e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici. Dato R si
determina come nell'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è
anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Si
determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo spigolo
del dodecaedro. L'altezza del triangolo
rettangolo che ha per cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del
dodecaedro inscritti è eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta
alla faccia del dodecaedro. Le proiezioni dei cateti di questo triangolo sono
l10 e s10, ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti
nella circonferenza circoscritta alla faccia. Si prende un segmento Θη = l10
lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti
ΘO1 = ηO2 = 138 r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro
della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del
dodecaedro. Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari ad
O1O2; in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2
eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse
i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B
stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e
che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici
del dodecaedro. Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si
uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il
dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto
alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte
aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è
s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso
precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5,
si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo
assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5
ed l5, la figura fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'.
139 Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli
circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro
inscritti nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può
fare così: nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2
... prendo OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici dell'icosaedro
inscritto nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 = L'1L'2 = ...
perché basi di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice eguale; 2o –
Il triangolo equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1 equidistante da
essi: questo centro X è il piede delle altezze di vertici L', L'1, L'2 dei
triangoli eguali ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo rettangolo OXL'1 =
ON1L1 perché l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è in comune; quin- di
XL'1 = L1N1; ma XL'1 è il raggio della circonferenza circoscritta alla faccia
dell'icosaedro, ed L1N1 è il raggio di quella circoscritta al pentagono del
dodecaedro; e quindi la proprietà è dimostrata geometricamente. LORIA – Le
scienze esatte nell'antica Grecia. IL SIMBOLO DELL'UNIVERSO. In relazione ai
poliedri regolari e specialmente al dodecaedro regolare dobbiamo ora
soffermarci alquanto a considerare le tre medie considerate anche dai
pitagorici, ossia la media aritmetica, la media geometrica e la media armonica.
Nicomaco attesta che Pitagora conosceva le tre proporzioni aritmetica,
geometrica ed armonica; e Giamblico attesta che nella sua scuola si
consideravano le tre me- die aritmetica, geometrica ed armonica. Si ha
proporzione aritmetica tra quattro numeri a, b, c, d quando a – b = c – d; la
proporzione è continua se b = c; ed in tal caso b è il medio aritmetico o la
media aritmetica di a e d e si ha: b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in
proporzione aritmetica, la definizione è la stessa ed il segmento b semisomma
dei due segmenti a e d è la loro media aritmetica. Cfr. NICOMACO, ed. Teubner;
e JAMBLICHI, Nicomachi Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G.
LORIA, Le scienze esatte. Si ha proporzione geometrica tra quattro numeri a, b,
c, d quando a : b = c : d, e per i segmenti quando il ret- tangolo dei medi è
eguale al rettangolo degli estremi. Con questa definizione non vi è bisogno
della teoria del- le parallele e della similitudine, non si considera il rap-
porto di due segmenti e non si sbatte nella questione della incommensurabilità.
Abbiamo veduto inoltre che i pitagorici erano in grado di risolvere il problema
dell'ap- plicazione semplice, ossia di costruire il segmento quar- to
proporzionale dopo tre segmenti assegnati a, b, c, nel caso in cui il primo
segmento era maggiore di uno alme- no degli altri due, sempre s'intende senza
bisogno di pa- rallele. Se b è eguale a c, la proporzione è continua e b è il
medio geometrico tra a e d; la media geometrica di due segmenti è dunque il
lato del quadrato eguale al rettangolo degli altri due; ed abbiamo visto che i
pitagorici erano sempre in grado, come applicazione del teorema di Pitagora, di
costruire tale media geometrica. Quanto alla proporzione armonica e alla media
armo- nica, si dirà che quattro numeri a, b, c, d sono in propor- zione armonica
quando i loro inversi sono in proporzio- ne aritmetica, ossia quando 1a – 1b =
1c – d1 ; e conseguentemente b è medio armonico tra a e d quando l'in- verso di
b è eguale alla media aritmetica degli inversi degli altri due. Archita in un
suo frammento ci ha tramandato le defi- nizioni pitagoriche nel caso della
proporzione continua 142 di tre termini; le definizioni antiche
coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e della geome- trica,
la definizione della media armonica è invece diversa. Riportiamo il frammento
di Archita, inserendo per chiarezza gli esempi numerici. La media è aritmetica
quando i tre termini sono in un rapporto analogo di eccedente, vale a dire tali
che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo è precisa- mente quella di
cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta proporzione si trova che il
rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed il rapporto dei più piccoli è
più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in proporzione aritmetica perché 12 – 9 = 9
– 6. Il rapporto dei termini più grandi cioè il rapporto di 12 e di 9 è uguale
a 1+13, il rapporto dei più piccoli, cioè di 9 e di 6 è eguale 1+ 12 , ed 13 è
minore di 12 ). Si ha media geometrica, continua Archita, quando il primo
termine sta al secondo come il secondo sta al ter- zo, ed in questo caso il
rapporto dei più grandi è eguale al rapporto dei più piccoli (esempio: 6 è la
media geometrica di 9 e 4 perché 9 : 6 = 6 : 4); il medio subcontra- rio che
noi [Archita] chiamiamo armonico esiste quando [Cfr. DIELS, Die Fragmente der
Vorsokratiker, ed. Berlin; fr. 2o. Il frammento d’ARCHITA DA TARANTO (si veda) è
riportato nel testo greco dal Mieli a pag. 251 dell'opera più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la philosophie pythagoricienne)
ne dà la traduzione. 143 il primo termine passa il secondo di
una frazione di se stesso, identica alla frazione del terzo di cui il secondo
passa il terzo; in questa proporzione il rapporto dei ter- mini più grandi è il
più grande ed il rapporto dei più pic- coli il più piccolo (esempio: 8 è la
media aritmetica di 12 e di 6, perché 12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il
rapporto di 12 ad 8 è eguale a 1+12, quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore
di 13 )». Prima di Archita di TARANTO (si veda) (o dei pitagorici?) questa
proporzione è chiamata ὑπεναντία tradotto con subcontraria anche da LORIA (si
veda), perché secondo la definizione che abbiamo riportato, in questo caso
succede il contrario che nel primo. Da questa definizione si può trarre con
operazioni aritmetiche semplici la definizione moderna. Difatti se a, b, c,
formano proporzione armonica, ciò significa secondo Archita di TARANTO che a=b+
1na e b=c+1nc; ;dalle quali si deduce facilmente: n=a:(a–b)=c:(b–c)
a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57 Cfr. JAMBLICHI, Nicomachi Arith., ed
Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed. Teubner, pag. 135. 144 e quindi:
2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c b 2 a c Si può anche scrivere: b(a+
c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione numerica: a : a + c = 2 ac : c 2 a+c che,
secondo quanto attesta Nicomaco di Gerasa, Pitagora trasporta da Babilonia in
Grecia. In questa importantissima proporzione geometrica gli estremi sono due
numeri (o grandezze) qualunque, i medii sono ordinata- mente la loro media
aritmetica e la loro media armonica. Nel caso di segmenti, dalla penultima
relazione risulta la presumibile definizione geometrica della media armo- nica:
la media armonica b di due segmenti a e c è l'altez- za di un rettangolo avente
per base la media aritmetica dei due segmenti ed eguale al rettangolo che ha
per lati i due segmenti, ossia eguale anche al quadrato che ha per lato la
media geometrica dei due segmenti. E poiché la media aritmetica di due segmenti
a e c è maggiore del più piccolo di questi segmenti, ne segue che dati i due
segmenti a e c, costruita geometricamente la loro media aritmetica, per
determinare geometrica- mente anche la media armonica bastava risolvere il pro-
blema dell'applicazione semplice, in questo caso risolu- La testimonianza è di
Giamblico, cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc. bile sicuramente (anche senza la
teoria delle parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica
tra le tre medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media
armonica tra 12 e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero
il nome di armonica alla media sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono
ri- spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda
del tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze
rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la
nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tanto nella scala
pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo
conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra
le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia).
Ce lo dice, in parte, FILOLAO (si veda) in un suo frammento. Dice Filolao:
L'estensione dell'armonia è una QUARTA più una QUINTA [adoperiamo i termini
moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta
di nove ottavi. Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia
il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo
modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si I termini
di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner. Cfr.
CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; estende mediante l'aggiunta
di due corde intermedie che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il
tetracordo composto di quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle
del do, del fa, del sol e del do superiore (la corda intermedia nel doppio
tetracordo). Considerando le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze
od altezze dei suoni emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse
delle lunghezze, è noto come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le
lunghezze di queste corde. Egli trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la
metà di quella della prima, e che la lunghezza della seconda, cioè del fa era
semplicemente la media aritmetica delle lunghezze di queste due corde estreme.
Quan- to alla corda del sol, il cui suono dà all'orecchio la sensazione di un
intervallo rispetto al do inferiore eguale Questo tetracordo non è altro che la
lira d’Orfeo, strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il
canto. Osserva TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (Hoepli), che è notevole
che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della voce nella
declamazione. Infatti, INTERROGANDO (cf. Grice, ?p – interrogative mode,
indicative mode, imperative mode), la voce sale di UNA QUARTA; rinforzando,
cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di una quinta.
Occorre anche tener presente che l'ACCENTO dell'indo-europeo è un accento di
altezza. La vocale tonica è caratterizzata, non da un rinforzo della voce, come
in tedesco ed in inglese, ma d’una ELEVAZIONE. Il TONO greco antico consiste in
una ELEVAZIONE DELLA VOCE, la VOCALE TONICA è una VOCALE PIÙ ACUTA delle vocali
atone. L'intervallo è dato da Dionigi di Alicarnasso come un INTERVALLO D’UNA
QUINTA (MEILLET, Aperçu d'une histoire de la langue grecque,
Paris). all'intervallo del do superiore a quello del fa, ha una lunghezza
tale che le quattro lunghezze nel loro ordine formano una proporzione
geometrica. Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34 ,
23 , 12 ; od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima
corda, sono espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la
lunghezza della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo
dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la
media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica
a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze
che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della
prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde
estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media armonica delle lunghezze
delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente.
Se invece delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la
quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde
estreme, e la quarta la media armonica. In molti testi di fisica e di
matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che
le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione
armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle lunghezze
delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque Vediamo ora quali
medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino considerando gli
elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è immediata. Il cubo ha 12
spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri che danno le lunghezze
della prima, della terza e dell'ultima corda del sia vero che nella scala
naturale la lunghezza della corda del mi sia la media armonica delle lunghezze
del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala pitagorica. Nella scala
naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei rapporti semplici, e la
media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è 45 = lunghezza del mi;
come quella del re = 89 è la media armonica di quelle del do e del mi. La scala
pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul tetracordo; in esso la lunghezza
della terza corda (sol) è la media armonica delle lunghezze delle corde
estreme; la sua elevazione rispetto alla prima corda è la stessa di quella
dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la stessa elevazione che nel
greco parlato si verificava secondo Dio- nigi di Alicarnasso per la vocale su
cui cadeva l'accento tonico. E la denominazione di media armonica introdotta da
Archita deriva dalla proprietà della corda del sol nel tetracordo greco, e non
dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore della scala naturale, al- lora
inesistente. Filolao ci dice come venivano stabiliti gli intervalli nella scala
pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 : 34 =89 tra le due corde medie del
tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo dal do e dal sol si determinavano
le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi=
64, fa= 3, sol= 9 81 4 149 tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è
il cubo del primo numero dopo l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il
cubo armonia geometrica. I numeri dei suoi elementi presentano la stessa
relazione che presentano le tre cor- de prima, terza e quarta del tetracordo.
La stessa cosa, naturalmente potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12
spigoli, 8 facce e 6 vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il
raggio della sfera circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta
alla base pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono
regolare e del decalfa in 2, la = 16 . Nella scala naturale, invece, la
lunghezza del 3 27 mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80
100 del mi pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media
armonica tra il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la
quinta della nostra ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il
termine di media armonica per designare la media aritmetica delle inverse.
Così, e soltanto così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici
dovevano attribuire a questa media armonica, che con identica legge matematica
si presenta nella musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo
dell'universo. Naturalmente quest'errore si ripresenta nei testi di filosofia.
Robin, p.e., (ROBIN, La pensée grecque, Paris) prende per le quattro corde
della lira la bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai
numeri interi 6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la
terza alla quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. Cfr.
NICOMACO, ed. Teubner] essa inscritti, abbiamo trovato che: s10 + l10 = 2R. La
media aritmetica tra s10 e l10 è dunque R, mentre per la [9] la media
geometrica è r. Si può dunque costruire la me- dia armonica; indicandola con M
si avrà: (s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed
infine M = 45 R Così pure, considerando il raggio R e la somma R + r dei due
raggi, abbiamo trovato che la loro media geometrica è (R + r) · r = 3a2, dove a
indica l'apotema dell'ico- saedro. E quindi, indicando con M la media armonica
si ha: e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2 2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2
2s10·M=6a2; s10·M=3a2 sfera circoscritta all'icosaedro con il raggio della
circon- 151 ossia la media armonica tra la somma del raggio della ferenza
circoscritta al pentagono base ed il raggio della sfera, è l'altezza di un
rettangolo che ha per base il lato del decalfa inscritto in questa
circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato che ha per lato l'apotema
dell'icosaedro. Venendo a considerare gli elementi del dodecaedro regolare e
della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la presenza di due quaterne: la
prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10 tra i piani di due facce
opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici dalle due facce, e tra loro;
la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti de- terminati sopra di esso dai
due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè dai segmenti AE = s5, AN1 = EN =
l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue queste quater- ne di segmenti,
ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo precede. Ora, se indichiamo
con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della successione che si ottiene
prendendo come segmento consecutivo di un segmento la sua parte aurea, si ha:
a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo termine della successione è
la media aritmetica degli estremi. Si ha poi: b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac –
c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi D'altra parte, indicando con M la
media armonica de- gli estremi a, d, essa è tale che: ad=a+d ·M 2 ossia
sostituendo, che: bc=b·M dunque essa non è altro che il terzo segmento c.
Possia- mo perciò enunciare la proprietà che, se quattro seg- menti sono
segmenti consecutivi di una successione tale che ogni segmento è seguito dalla
sua parte aurea, accade che il secondo segmento ed il terzo sono
rispettivamente la media aritmetica e la media armonica degli estremi.
Esattamente la stessa cosa accade per le lunghezze della seconda e terza corda
del tetracordo rispetto alle lunghezze delle corde estreme. Considerando allora
la quaterna 2a, s10, r, l10 dei segmenti determinati sopra la congiungente i
vertici di due facce opposte del dodecaedro dai piani delle facce e dai piani
contenenti gli altri vertici si ha: 1o – la distanza s10, (ossia il lato del
decalfa inscritto nella faccia) è la parte aurea del doppio dell'apotema ed è
la media aritmetica tra il doppio dell'apotema ed il lato l10 del decagono in-
scritto nella faccia (ossia la distanza tra i piani conte- nenti i vertici
intermedi); 2o – La distanza tra uno di questi piani e la faccia più vicina,
ossia il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia, è la media
armoni- ca tra 2a ed l10. [Analogamente il lato l5 del pentagono regolare in-
scritto è la parte aurea del lato s5 del pentalfa, ed è la media aritmetica tra
il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4; mentre il lato AN
della punta del pentalfa è la media armonica tra il lato del pentalfa ed il
lato del pentagono NN1N2N3N4. Nel dodecaedro la distanza 2a delle facce
opposte, e nella faccia il lato del pentalfa, sono così suddivisi in modo da
costituire due quaterne di segmenti, tali che i segmenti medii si ottengono dagli
estremi prendendone la media aritmetica e quella armonica, esattamente come le
due corde medie del tetracordo si ottengono da quelle estreme. Prendendo come
segmenti estremi s10 ed r si trova per media aritmetica a [15]; e per la media
armonica M si ha: a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10 e per la [9]
a·M=s2 –r2=(s +r)(s –r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così pure la media
aritmetica tra s5 ed l5 è R' [16], e la media armonica è data da 2 (s5 – l5),
che equivale a 4 (s5 – R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del lato AN della
punta del pentalfa. In queste due quaterne il quarto segmento è la parte aurea
del primo, ed i due segmenti intermedi la media aritmetica e la media armonica
degli estremi. Si ha infine, indicando con M la media armonica di 2a ed s10:
154 (2a+s )·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10 e per la [17]
(2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra 2a ed s10 è
eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia. L'esistenza
di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi costituiti dagli
elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser sfuggita ai pitago-
rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra- cordo formato dagli
elementi 2a, s10, r ed deve avere costituito ai loro occhi una conferma
significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro regolare il
simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto questa
corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre ragioni
ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche perché
erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo. II
dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non vi è
che da leggere alcune pagine del Timeo di Platone. Riassumiamo servendoci della
versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che ogni specie di corpo ha profondità
ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di triangoli,
in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di triangoli e
corrispondentemen- [PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da ACRI, Milano] te
ogni poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano corrisponde al
numero tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro al numero dei
vertici che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto, corrisponde a una
retta che è individuata da due punti. Il punto, la retta, il piano o triangolo
ed il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i numeri: uno, due, tre
e quattro sono i numeri il cui insieme dà l'intera decade. Per il fatto che
ogni poligono è composto di triangoli, i pitagorici dicevano che il triangolo è
il principio della generazione. I triangoli, prosegue Timeo, nascono poi da due
specie di triangoli, il triangolo rettangolo isoscele ed il triangolo
rettangolo scaleno. Questi vengono posti come principii del fuoco e degli altri
corpi [elementi]; e con essi si compongono i quattro corpi [i quattro elementi,
ossia le superfici dei poliedri simboli dei quattro elementi]. Siccome di
triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in- numerevoli (distinti per la forma),
Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le seguenti proprietà: 1o – con due di
essi si compone un triangolo equilatero; 2o – l'ipotenusa doppia del cateto
minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore è triplo di quello del minore.
Con sei di questi triangoli si forma un triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr.
PROCLO, ed. Teubner. Per altre fonti cfr. lo CHAIGNET. Quanto si trova entro le
parentesi è stato aggiunto da noi per chiarimento.] versa, preso un triangolo
equilatero i diametri della cir- conferenza circoscritta passanti per i suoi
vertici lo de- compongono in sei di tali triangoli), e con quattro di questi
triangoli equilateri si ottiene il tetraedro regolare, «per mezzo del quale può
essere compartita una sfera in parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in
numero di ventiquattro». Con otto di tali triangoli equilateri si ottiene
l'ottaedro (composto dunque di 48 di tali triango- li); il terzo corpo,
l'icosaedro, ha venti facce triangolari ed equilatere, e quindi due volte
sessanta di tali triangoli elementari. Altri poliedri regolari con facce
triangolari non vi sono. Con il triangolo rettangolo isoscele si genera il
cubo; perché quattro triangoli isosceli formano un quadrato (od anche, il
quadrato è diviso dai diametri passanti per i vertici in quattro triangoli
rettangoli isosceli), e con sei quadrati si forma il cubo che consta così di
ventiquattro triangoli rettangoli isosceli. Rimane così, dice Timeo, ancora una
forma di composizione che è la quinta, di quella si è giovato Iddio per lo
disegno dell'universo. Timeo sembra proprio sicuro del fatto. Mieli esclude
assolutamente che i pitagorici fossero arrivati a riconoscere la impossibilità
dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta in nota, non dice se a
sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la dimostrazione d’Euclide nel
suo testo greco. A noi sembra che i pitagorici potevano benissimo pervenirvi;
ad ogni modo è certo che essi conoscevano i cinque poliedri che effettivamente
esistono. A questo punto Platone fa tacere Timeo, forse per riserva forse
perché nel caso del dodecaedro vi è qual- che differenza. Ma applicando il
medesimo metodo di decomposizione in triangoli alle facce del dodecaedro, il
pentagono con le sue diagonali dà il pentalfa, e la figura è divisa in trenta
triangoli rettangoli dai diametri passan- ti per i dieci vertici del pentalfa.
La superficie del dodecaedro viene perciò decomposta in 30×12 = 360 triangoli
rettangoli, i quali però questa volta non sono di quelli «bellissimi» cari a
Timeo. Ora il numero XII (che compare anche negli altri poliedri) ha già per
conto suo un carattere sacro ed universale. XII è il numero delle divisioni zodiacali e XII
in ROMA è il numero degli Dei consenti, XII è il NUMERO DELLE VERGHE DEL FASCIO
ROMANO, ed un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenutici stanno
ad indicare l'importanza del numero XII e del dodecaedro. Il numero CCCLX è poi
il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni
dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il
dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. Il
silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche a Robin, il quale
dice (ROBIN, La pensée grecque, Paris) che «au sujet du cinquième polyèdre
regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux. Robin non prospetta
alcuna ragione di tanto mistero. REGHINI, Il fascio littorio, nella rivista
«DOCENS»] La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi
scrittori. Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri,
dice che il quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag-
giunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della
faccia per vertice comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale
360 triangoli. Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci
facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni,
aggiunge che questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che
l'an- no poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come
l'universo contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua,
terra, così il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il
περιέχον), contiene i quattro poliedri regolari che li rappresentano. Abbiamo
veduto infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro
regolare; si può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per vertici i
centri delle facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro
regolare prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un
vertice del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti ALCINOO, De
doctrina Platonis, Parigi; Cfr. an- che l'opera di MARTIN – Études sur le Timée
de Platon, Paris, PLUTARCO, Questioni platoniche. Naturalmente si tratta
dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di precisarlo. e questi tre
fra loro si dimostra che si ottiene un tetrae- dro regolare. La tetrade dei
quattro elementi è contenuta nell'uni- verso, il κόσμος, e questo nella fascia,
come i quattro poliedri nel quinto e nella sfera circoscritta. Così la te-
trade dei punti, delle linee rette, dei piani e dei corpi è contenuta nello
spazio e lo costituisce; e quattro punti individuano il poliedro con il minimo
numero di facce ed individuano una sfera; così la somma dei primi quat- tro
numeri interi dà l'unità e totalità della decade (nume- ro che appartiene tanto
ai numeri lineari della serie natu- rale, quanto ai numeri triangolari, quanto
ai numeri pira- midali, e questo indipendentemente dal fatto di assume- re il
dieci come base del sistema di numerazione); così le quattro note del tetracordo
costituiscono l'armonia. Il tetraedro, la tetrade dei quattro elementi, la
tetractis dei quattro numeri, ed il tetracordo sono così intimamente legati tra
loro, ed ai quattro elementi del dodecaedro 2a, s10, r, l10 di cui ciascuno ha
per parte aurea quello che lo segue, e di cui i medii hanno rispetto agli
estremi esattamente la stessa relazione delle corde medie alle estreme del
tetracordo, e che individuano i quattro piani conte- nenti i vertici del
dodecaedro. E si comprende perché il catechismo degli Acusmatici identifichi
l'oracolo di Delfi (l'ombelico del mondo) alla tetractis ed all'armonia. La
parte aurea ha grandissima importanza nella strut- tura del pentalfa ed in
quella del dodecaedro simbolo [ROBIN, La pensée grecque, Paris dell'universo.
Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia tanta importanza
nell'architettura pre-periclea; e molte altre cose vi sarebbero da dire circa
l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria pitagorica, la co- smologia,
l'architettura e le varie arti. La digressione sarebbe però troppo lunga. Ci
limitere- mo ad osservare che in questo modo lo sviluppo della geometria
pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola) la inscrizione del
dodecaedro nella sfera ed il riconoscimento delle sue proprietà, come sappiamo
che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo l'attestazione di
Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione delle figure
platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a quello di
Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso; ma mentre
in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le proprietà
del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo di quella
stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note del
tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la geometria
alla cosmologia, e forniva la base e l'impul- [CANTOR, Vorlesungen über
Geschichte der Mathematik] Alla considerazione della media armonica si
connette, invece, il canone della statuaria di Polycleto; ROBIN, La pensée
grecque; LORIA, Le scienze esatte ecc.] so anche all'ascesi pitagorica; e si
comprende ora con una certa precisione, e non più vagamente, come Platone
potesse scrivere che «la geometria è un metodo per dirigere l'anima verso
l'essere eterno, una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di
rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», e che «è perfino
impossibile arrivare a una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e
l'intimo legame di que- st'ultima con la musica». Per i pitagorici e per
Platone la geometria era dunque una scienza sacra, ossia esote- rica, mentre la
geometria euclidea, spezzando tutti i contatti e divenendo fine a se stessa, degenerò
in una ma- gnifica scienza profana. Di questo particolare legame della
cosmologia con la musica, percepibile nel tetracordo formato dagl’elementi
costitutivi del dodecaedro, non è rimasta traccia, ma in questo caso riteniamo
che l'assenza di ogni traccia materiale non sia casuale, perché questo doveva
costituire uno degli insegnamenti segreti della nostra scuola; ed un indizio
del fatto è fornito dalla subita riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo
appena giunge a parlare del dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto
un passo abbastanza importante per la restituzione della geometria pitagorica,
non soltanto dal punto di vista moderno di restituzione dell'edificio
geometrico puro, ma dal punto di vista pitagorico inteso a studiare il cosmo
per scoprire LORIA, Le scienze esatte ecc.] le connessioni tra la geometria e
le altre scienze e discipline. Altre cose si potrebbero aggiungere in
proposito, ma anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς
πάντας πάντα ῥητά. Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del
conseguente teorema di Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle
parallele, della similitudine e della propor- zione, è dunque possibile
pervenire a tutte le scoperte dei pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica
restri- zione che il problema dell'applicazione semplice (para- bola) non si
può risolvere in tutti i casi, ma solo in un caso speciale, per quanto
importante e sufficiente a con- sentire il pieno sviluppo della geometria
pitagorica pia- na e solida come la abbiamo potuta restituire sin qui. Ed
abbiamo notato il fatto eloquente che per i problemi del- l'applicazione la
testimonianza addotta da Proclo non è quella autorevole di Eudemo, ma soltanto
quella di co- loro che stavano attorno ad Eudemo. Si obbietterà che questo non
basta a dimostrare con assoluta certezza che effettivamente quella che abbiamo
ricostituito sia tale e quale la geometria pitagorica. Lo sappiamo
perfettamente, ma sappiamo anche che, data la assoluta mancanza di ogni documento
diretto, del quale avremmo del resto dovuto tener conto come elemento per la
restituzione e non come documento di prova, non era possibile fare di più; e
sappiamo che in questa circostanza anche le prove indirette, che abbiamo
raccolto per via, hanno il loro valore a favore della nostra tesi. Nello
sviluppo della geometria pitagorica ci siamo limitati a quanto occorreva per
poter raggiungere i risultati menzionati da Proclo; ma si possono raggiungere
altri risultati ancora; ed una parte di essi li dovremo premettere per trattare
l'importante questione del «postulato» delle parallele. Il problema
dell'applicazione semplice, corrispondente alla risoluzione dell'equazione ax =
bc o ax = b2, si può risolvere nel caso in cui a sia maggiore di b o di c. Nel
caso che ciò non avvenga la certezza dell'esistenza della soluzione si può
avere solo quando si disponga della proprietà postulata da Euclide con il suo V
postu- lato. Una difficoltà analoga si incontra in altre importanti questioni.
Così, dati tre punti di una circonferenza, si dimostra che gli assi delle tre
corde passano per il centro; ma non si può dimostrare in generale che per tre
punti non allineati passa sempre una circonferenza. Ora, di fronte a questo
ostacolo che sbarra la strada all'ulteriore sviluppo della geometria, come
potevano comportarsi i pitagorici? Abbiamo veduto quali ragioni importanti
fanno ritenere che essi non hanno ammesso il postulato delle parallele e
nemmeno il concetto di paral- lele quale è definito da Euclide; ci proponiamo
adesso di mostrare come potevano, egualmente, superare la dif- ficoltà.
Osserviamo anzi tutto come sia noto come, conoscen- do comunque il teorema dei
due retti (proposizione Sac- cheri), si può, ammettendo il postulato di
Archimede, dimostrare con Legendre la unicità della non secante una retta data
passante per un punto assegnato (proprietà equivalente al postulato delle
parallele); e così pure osserviamo come il Severi, ammesso il suo postulato
delle parallele, dimostri, sempre con l'aiuto del postulato d’Archimede, la
unicità della non secante. La cosa è dunque possibile servendosi del postulato
d’Archimede; se non che, non possiamo pensare a ricorrere a questo postulato
perché Archimede è posteriore persino ad Euclide, e non è verosimile che i pitagorici
abbiano ammesso un postulato come quello di Archimede. D'altra parte, è vero
che il postulato d’Archimede basta per permettere di raggiungere il risultato;
ma è anche necessario ricorrere ad esso? E se non è necessario, potevano i
pitagorici, senza di esso ed in modo più sempli- ce, raggiungere il risultato,
dimostrare cioè la unicità della non secante una retta data passante per un
punto assegnato? BONOLA in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti etc., SEVERI,
Elementi di Geometria, Firenze. Vedremo di sì, e vedremo come; ma ci è
necessario per far questo premettere ancora altre proposizioni che si deducono
da quelle già viste. TEOREMA: Se due rette a e b sono perpendicolari entrambe
ad una stessa retta AB, ogni altra perpendicolare ad una di esse incontra anche
l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano le due rette a e b perpendicolari
alla AB; e da un punto P della a conduciamo la perpendicolare alla b. Il suo
piede Q è necessariamente distinto da B, perché altrimenti da B uscirebbero due
perpendicolari alla b. E siccome la AB e la PQ perpendicolari in pun- ti
diversi ad una stessa retta non possono incontrarsi, i punti P e Q devono stare
da una stessa parte rispetto ad AB. Unendo A con Q il triangolo ABQ è
rettangolo, e quindi ̂AQB è minore dell'angolo retto ^PQB; la QA divide quindi
in due parti quest'angolo retto, e siccome sappiamo che i due angoli acuti del
triangolo rettangolo sono complementari, i due angoli ̂AQP e ̂QAB risul- ta^no
eguali perché complementari di uno stesso angolo AQB. I due triangoli ABQ, QPA,
avendo inoltre eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché entrambi com- plementari
dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il secondo criterio; e quindi
l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo unica la perpendicolare per
P alla a essa coincide con la PQ, ossia la perpendicolare PQ alla a incontra la
b ed è ad essa perpendicolare. Osservazione: Un punto qualunque P o Q di una
delle due rette a o b ha dall'altra distanza costante. Infatti, essendo ABPQ un
rettangolo il lato PQ è eguale al lato opposto AB. Perciò due rette
perpendicolari ad una ter- za sono tra loro equidistanti. Viceversa, se un
punto P situato nel piano dalla parte di A rispetto alla b ha dalla b una
distanza PQ = AB, allora diciamo che questo punto P appartiene alla
perpendicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla a. Supponiamo infatti che
i due punti A e P situati dalla stessa parte della b abbiano dalla b distanze
eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può naturalmente appartenere alla AB,
altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P con A; allora anche Q e B sono
distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del triangolo rettangolo AQB è acuto e
complementare di ^BAQ; la QA divide quindi ^BQP, ed ̂AQB è complemento di ^AQP;
perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ in comune, AB = PQ e l'angolo compreso
eguale e sono perciò eguali; l'angolo ̂PAQ è dunque eguale al complemento ̂AQB
di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+ ̂QAP 168 è eguale ad un retto. Il
punto P sta dunque sulla a perpendicolare alla AB per A. Ne segue che ogni
altra retta passante per a non può essere tale che i suoi punti abbiano
distanza costante dalla b; si ha dunque la unicità della retta equidistante;
cioè il TEOREMA: Per un punto passa una ed una sola ret- ta equidistante da una
retta data. Il problema di condurre per un punto A la retta equi- distante da
una retta data b, si risolve immediatamente. Basta da A abbassare la
perpendicolare alla b; e poi da A la perpendicolare a questa. Abbiamo visto che
tutti i punti della a e soltanto essi hanno dalla b la distanza costante AB.
Questo si esprime con il TEOREMA: Il luogo geometrico dei punti del piano
situati da una stessa parte rispetto ad una retta data ed aventi da essa una
distanza costante assegnata è una retta. Questa proposizione è quella che il
Severi assume come postulato, chiamandolo il postulato delle parallele. Per noi
è un teorema conseguenza del teorema dei due retti e quindi del postulato
pitagorico della rotazione. Queste tre proposizioni sono tali che ognuna di
esse porta per conseguenza le altre due; vedremo infatti tra breve che dalla
proposizione ora stabilita si può dedurre il teorema dei due retti. Osserviamo
finalmente che l'aver dimostrato l'unicità della equidistante da una retta b
passante per un punto 169 assegnato A, non dice affatto che ogni altra
retta passante per A debba secare la b; possiamo soltanto dire che, se vi sono altre
rette passanti per A non secanti la b, esse non sono equidistanti dalla b:
ossia per ora abbiamo dimostrato la unicità della retta equidistante; e nulla
sappiamo della unicità della non secante. 3. Valgono per le rette equidistanti
alcuni teoremi analoghi a quelli valevoli per le rette parallele di Eucli- de.
TEOREMA: Se una retta ne incontra altre due e forma con esse angoli alterni
interni eguali esse sono equidistanti. Siano a e b le due rette
incontrate dalla trasversale AB, e siano gli angoli alterni interni eguali. Ne
segue che gli angoli coniugati interni sono supplementari. Se questi angoli
sono anche eguali, ossia se sono retti, le a e b sono perpendicolari entrambe
alla AB, e per il teorema precedente sono equidistanti. Se i due angoli sono
diseguali ed è per esempio ^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso ed ̂ABC
acuto. Abbassando da A la perpendicolare AH alla b, il piede H è situato ri-
170 spetto a B dalla parte dell'angolo acuto perché un trian- golo non
può avere più di un angolo retto od ottuso, e, siccome anche l'altro angolo
̂BAH del triangolo ret- tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide l'angolo
ottuso ̂BAD in due parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e quindi:
^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma ^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due retti:
quindi ^HAD=un retto; e le a e b perpendicolari alla AH sono due rette
equidistanti. Lo stesso accade se la AB forma con le a e b an- goli
corrispondenti eguali, angoli alterni esterni eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se
una trasversale seca due rette equidistanti, forma con esse angoli alterni
interni eguali, angoli alterni esterni eguali, ecc. Supponiamo che la AB (fig.
39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se fosse perpendicolare ad una di
esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed il teore- ma sussisterebbe. Se
non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti diseguali; sia p.e. BAD ottuso.
Condotta da A la perpendicolare comune alle due rette a, b essa divi- de BAD, e
nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH risulta complementare di ^BAH; e
quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+ ̂HAD=2 retti 171 ̂HBA+ ̂BAD=2
retti I due angoli coniugati interni sono dunque supplementari; e quindi gli
alterni interni sono eguali ecc. Non è però dimostrato che se due rette sono
equidistanti ogni secante della prima deve secare anche la seconda; perciò non
si può ancora risolvere p.e. il problema dell'applicazione semplice nel caso
generale. Diventa ora possibile la dimostrazione del teorema dei due retti
attribuita d’Eudemo ai pitagorici, dimostrazione alla quale si riferisce il
passo della Metafisica d’Aristotele. Condotta per il vertice A di un triangolo
ABC (fig. 1) la equidistante dal lato opposto BC, per l'eguaglianza degli
angoli alterni interni di vertici A e B, ed A e C il teorema si dimostra nel
modo ben noto. Naturalmente questa semplice dimostrazione è per noi un cavallo
di ritorno. Lo era anche per i pitagorici cui Eudemo attribuisce la
dimostrazione? Lo era anche per Aristotele? Se non lo era, ossia se non si basa
sopra il teorema delle rette equidistanti, derivante dal teorema dei due retti,
doveva necessariamente basarsi sopra questa proprietà delle rette equidistanti
ammessa per po- stulato o dedotta da un postulato equivalente; ma rimar- rebbe
con ciò inesplicabile la esistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei
due retti menzionata da Eutocio. Comunque questa dimostrazione si basa sopra le
proprietà delle rette equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si
accetti o non si usi il postulato d’Euclide. La equidistante è una non secante,
che a differenza delle altre eventuali non secanti (o parallele secondo la
definizione di Euclide) gode delle proprietà vedute, e consente perciò la
dimostrazione del teorema dei due retti. I pitagorici antichi, per le ragioni
che abbiamo vedu- to, non ammettevano né il postulato di Euclide né un
postulato sopra le rette equidistanti come quello di SEVERI (si veda). Se, come
crediamo, pervennero al concetto delle rette equidistanti, si fu come
conseguenza del teorema dei due retti da essi dimostrato con la ignota
dimostra- zione in tre tempi, e non viceversa. A meno che non si voglia
supporre che in un certo momento una parte dei pitagorici abbia creduto di
poter prendere come punto di partenza il concetto delle rette equidistanti, e
di trarne la dimostrazione del teorema dei due retti al posto dell'an- tica
dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al concetto delle rette equidi- stanti
Poseidonio e Gemino con lo scopo di eliminare il postulato di Euclide; ed altri
tentativi furono fatti come è noto in seguito, ma sempre in modo non rigoroso,
perché, come SACCHERI dimostra, l'ammettere che delle rette equidistanti
esistano effettivamente è da con- siderare come un nuovo postulato. Esso è il
postulato del Severi, equivalente alla proposizione SACCHERI, ed al nostro
postulato pitagorico della rotazione. VAILATI, Di un'opera dimenticata di SACCHERI,
in Scritti.] Per noi è un teorema perché è conseguenza del teore- ma dei due
retti, a sua volta conseguenza del postulato della rotazione. Per le ragioni
vedute è certo che gli antichi pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la
proposizione Saccheri, e la dimostravano in un modo che non è verosimile derivi
da un postulato delle rette equidistanti o dal concetto stesso di rette
equidistanti; mentre è per lo meno possibile che la dimostrazione si basasse
sopra un postulato come quello della rotazione. Se ammettevano questo
postulato, non solo ne pote- van dedurre il teorema dei due retti, e quello di
Pitagora, ma anche tutte le scoperte loro attribuite da Proclo-Eudemo, ed
inoltre la teoria delle equidistanti e, di rimando, la dimostrazione del
teorema dei due retti attribuita ad essi da Eudemo.Se una trasversale incontra
due rette equidistanti e da un punto di una di esse si conduce la retta
equidistante dalla trasversale, essa incontra anche l'altra. Sia m la
trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e sia P il punto
assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla b il segmento
BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con le a e b
angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono eguali per
il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano equidistanti. E
siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174 equidistante dalla m,
essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m condotta per P punto
della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione: il quadrilatero ABQP è
un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome una diago- nale fa coi
lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono equidistanti. Dunque nel
romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti. Questa distanza costante
si chiama altezza del romboide. TEOREMA: Se per il punto medio di un lato di un
triangolo si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa
incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il punto medio M del lato AB
(fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta equidistante dalla BC. Tutti
i punti della BC stanno da una stessa parte rispetto ad essa; i punti A e B
stanno da parte opposta rispetto ad essa, e quindi anche i punti A e C stanno
da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è tagliato in un suo punto N da
questa retta. Completiamo il romboide che ha per 175 lati
consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è equidistante dalla AB e
lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il vertice P compreso tra B
e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché corrispondenti rispetto alle
equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione analoga, i triangoli AMN, NPC
risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il punto medio di AC. Naturalmente
per la stessa ragione P è il punto medio di BC e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA
INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due lati di un triangolo è
equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di esso. Si dimostra per
assurdo, come conseguenza della unicità della equidistante dalla BC passante
per M, e della unicità del punto medio M. Come conseguenza di questi teoremi se
ne possono dimostrare degli altri sul fascio delle rette equidistanti, sul
trapezio, ecc.; si può risolvere il problema della divi- sione di un segmento
in un numero assegnato di parti eguali; si può dimostrare che le tre mediane di
un trian- golo si incontrano in un unico punto ecc.80 Ci limiteremo al seguente
teorema di cui abbiamo bisogno. TEOREMA: Se sul prolungamento di un lato di un
triangolo si prende un segmento eguale al lato, e per l’estremo del segmento si
conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il
prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN il triangolo dato; prendiamo sul
prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e sul prolunga- mento di AN il
segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema precedente la MN e la BC sono
equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN passante per B incontra il
prolungamento della AN nel punto C. Vogliamo ora dimostrare la proprietà,
fondamentale che per un punto assegnato A esterno ad una retta data b si può
condurre una sola retta che non la seca. In modo simile a questo si può
sviluppare la teoria delle rette e dei piani equidistanti e la teoria dei piani
equidistanti. Avremmo potuto premettere questi sviluppi, ottenendo poi con il
loro sussidio molte semplificazioni in varie questioni che abbiamo trattato, ma
con un po' di pazienza si è potuto fare a meno anche di essi. Dal punto A
conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal punto A conduciamo
la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b entrambi perpendicolari
alla AB non si possono incontrare. Si tratta di dimostrare che ogni altra retta
passante per A e distinta dalla a è una secante della b. Supponiamo se è
possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre alla a, almeno un'altra
retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A divide la m in due
semirette situate da parti opposte della a; consideriamo la semiretta m che
rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della b, ossia della
striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b situate ri- spetto
alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una delle semirette di
origine A e comprese nell'angolo ^B A a delle semirette AB ed a, la quale per
ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne possono essere altre
di origine A che non incontrano la semiretta 179 b; anzi ve ne sono di
sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese nell'angolo m^a ,
perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto N, siccome la
semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e lascerebbe
quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento BN
contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna
all'angolo ^mAa, , è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra
parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese
in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB
l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infatti, a partire da A su
questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio
M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è
equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che
significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante
della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle
secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A
comprese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta b
oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB, la
AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono
inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne
all'angolo C A a ; basta infatti 180 prendere un punto S qualunque sul
prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A,
passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta
b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi,
e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A
a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b
costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con
l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon-
denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita ordinatamente dalle altre;
e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste l'ultima
semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qualunque della
b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono delle altre.
Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la perpendicolare
comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono la AB e
precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmento BC; le
semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza biunivoca con i
punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di centro A comprese
tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i punti della spezzata
ortogonale ABC, estremi compresi. La AB è la prima delle semirette secanti, la
a l'ultima delle non secanti la b. Facciamo a questo punto una osservazione: La
corrispondenza biunivoca tra i punti del segmento BC e le semirette dell'angolo
convesso ̂BAC che proietta il segmento da un punto A fuori della retta BC,
permette di ordinare l'insieme delle semirette dell'angolo ^BAC. Per dedurre
dalla ordinabilità della retta la possibilità di ordinare le semirette di un
fascio, il Severi nota che occorre prima introdurre il postulato delle
parallele, e poi nella corrispondenza escludere dal fascio una delle semirette.
Tale duplice necessità scompare se, invece di ordinare le semirette in
corrispondenza con i punti di una retta, si può ordinare le semirette in
corrispondenza con i punti del perimetro di un rettangolo le cui diagona- li
passino per A, e la corrispondenza è completa, nessuna semiretta esclusa.
Naturalmente per fare questo bisogna conoscere i ret- tangoli indipendentemente
dal postulato delle parallele, cosa che si verifica appunto nello sviluppo di
questa no- stra geometria pitagorica. Stabilita in questo modo la ordinabilità
dell'insieme delle semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la AD,
e stabilito il verso di tale ordine; ed osservato che tali semirette sono
necessariamente secanti o non secanti della semiretta b, che ogni semiretta che
precede una secante è anche essa una secante ed ogni semiretta che segue una
non secante è anche essa una non secante, osserviamo ancora che come non esiste
l'ultima delle se- [SEVERI, Elementi di geometria] mirette secanti la b così da
un punto di vista puramente logico si potrebbe pensare che non esista o possa
non esistere la prima delle semirette non secanti la b; ossia che data una
semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre trovare delle altre
pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però osserva che partendo
dalla posizione iniziale AB, od anche AC, e girando intorno ad A sino ad
arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una secante è divenuta
alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è verificata proprio al
momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata ad un certo momento
per una posizione intermedia, prima del- la quale la semiretta si era mantenuta
sempre ancora se- cante e dopo la quale si è mantenuta sempre ancora non
secante. Insomma è intuitivamente evidente che esiste una ed una sola semiretta
che è la prima delle non se- canti; e tutto si riduce a mostrare che tale prima
non se- cante non è altro che la a. Da un punto di vista logico si presenta
corrisponden- temente la necessità di ricorrere ad un postulato; ed era
naturale e prevedibile che questo dovesse accadere, al- trimenti il postulato
della rotazione pitagorica (o l'equivalente proposizione Saccheri) sarebbe
stato equivalente al postulato di Euclide; soltanto che non si tratta del postulato
d’Archimede ma di un caso assai più semplice del postulato di continuità.
Bisogna ammettere come postulato la esistenza di una semiretta di separazione
delle due classi di semirette secanti e non secanti la b; verità talmente
evidente all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse
costituire un dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non
sentire neppure il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non
ha sentito il bisogno di postulare il postulato di continuità nei due casi che
abbiamo a suo tempo espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere
che ciò sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo
due secoli prima d’Euclide quando Pitagora per primo faceva della geometria una
scienza liberale. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è almeno
una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e secanti la b
da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una secante quindi
sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce subito, per assurdo,
la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi intendiamo mostrare
che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può essere la pri- ma non
secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è la prima e l'unica.
Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB (fig. 42) si conduce
la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal- la a e dalla b),
ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti la r sega la h
in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega come sappiamo la
r, perciò una semiretta per A che non seghi la b non può segare neppure la h;
in particolare la prima se- miretta che non sega la b non può segare la h ed è
quindi contenuta nella striscia ah. Dimostriamo adesso il TEOREMA FONDAMENTALE:
Per un punto non appartenente ad una retta data passa una ed una sola retta che
non la seca. Sia A il punto dato e b la retta data. Si con- duce da A la
perpendicolare AB alla retta data, e sia B il piede. Poi da A la semiretta a
perpendicolare alla AB dalla stessa parte della semiretta b e per il punto
medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad AB sempre dalla stessa parte
delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta r che forma con la
semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non secante qualunque della b
(eventualmente anche la prima). Allora la prima non secante, ossia la se-
miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di cui abbiamo ammessa
l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con la r o precede la r,
ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a un angolo ε≥δ dove
per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta allora per A la
semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la b in un punto
C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de. Dovendo essere
acuto l'angolo HAB del triangolo 185 rettangolo AHB, il piede H sta sulla
semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la BA un angolo ε 30°
e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la semi- retta a in un
punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta compresa nella striscia
ha, perché la s non incon- trando la b non incontra neppure la h, quindi B ed H
sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e quindi anche la a. Si ha
subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a BA, sarà il punto K com-
preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B dell'angolo ε in modo
che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla BA in A, va sulla a'
perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s, perpendicolari entrambi alla BD
sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H e D, D e la s stanno da parti
opposte rispetto alla a', e quindi anche D 186 e A; perciò il
segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla a'. Con la rotazione la s va
sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo ε penetrando perciò
nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un punto L. La DA forma
con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti ^DEK , ̂DAH eguali;
quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò l'angolo esterno ^DLK=2ε.
Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP = AL, ed uniamo P con L. I
triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e l'angolo compreso eguale
perché la trasversale CL forma con le due rette equidi- stanti a e b angoli
alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi ^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto
la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε; perciò le semirette LK
ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono allineati, ossia la s'
incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli angoli alla base
complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di BK. Facendo
ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la base BK su BA,
il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P della s' va sopra
la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora sul prolungamento di
AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla b. Dunque la s è una
secante della b. La prima non secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ;
ma abbiamo veduto che non può formare con la a neppure un angolo minore di δ;
quindi se esistesse una prima non secante la b distinta dalla a dovrebbe
soddisfare alla condizione di formare con la a un angolo che non dovrebbe esser
né maggiore, né eguale né minore dell'angolo S formato con la a da una non
secante qualunque r. Ne segue che, essendo impos- sibile soddisfare tali
condizioni, tale prima non secante distinta dalla a non esiste; e quindi la a è
una non secan- te della b, è la prima ed è l'unica tra tutte le semirette di
origine A e comprese tra la AB e la a, che non seca la b. Questa dimostrazione
si può facilmente trasformare in modo da fare a meno del movimento di rotazione
at- torno al punto B. Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della
rotazione, o l'equivalente teorema dei due retti (proposizione SACCHERI (si
veda)) o l'equivalente postulato di SEVERI (si veda) opra le rette
equidistanti, si può dimostrare il po- stulato di Euclide, sia ricorrendo al
postulato di Archi- mede, sia facendo a meno di ricorrere al postulato di Ar-
chimede, ed ammettendo soltanto la esistenza di quella semiretta di separazione
delle secanti dalle non secanti che alla intuizione degli antichi doveva
apparire indi- scutibile. Dimostrato il postulato d’Euclide si rientra
naturalmente nell'alveo della geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro
compito è finito. A noi interessava difatti la restituzione della geome- tria
pitagorica, non in quanto collimava con la geometria euclidea, ma in quanto ne
differiva. Che ne differisse sostanzialmente lo prova la esistenza di quella
arcaica dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata
sopra le proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa
dimostrazione abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero
il postu- lato pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo
veduto che ne segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso
particolare menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che
di lì si trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi
sviluppi arrivare a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e
sempre senza introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato,
abbiamo po- tuto pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale
consente da sola la più recente dimostrazione del teorema dei due retti
riportata da Aristotele ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene
quali obbiezioni si possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico
della rotazione, che presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la
capacità di riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma
questo è un problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa
invece vedere se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo
postulato della rotazione. Come riprova del fatto che essi non ammettevano il
postulato delle parallele, definite come in Euclide, abbiamo addotto la ragione
che per i pitagorici il concetto di infinito si identifica con quello di
imperfetto. Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico, si
potrebbe obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra il
concetto di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche, come
il concetto di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed
imperfetto, così, corrispondentemente, il concetto di immobilità si oppone a
quello di movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria
dell'altra. Seguendo una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di
infinito sia quello di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo
tenere presenti i legami che avvincevano le concezioni geometriche dei
pitagorici a quelle cosmologiche; e se nessuno ha mai veduto due rette
parallele nel senso anzi detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente
non si incontrano mai, viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il
movimento è un carattere essenziale della vita umana ed universale. Gl’astri,
ossia gli dei, si movevano eternamente nelle loro danze celesti. E secondo i
pitagorici, il movimento circolare era quello perfetto, forse non soltanto per
la sua regolarità e semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di
rotazione restavano im- [VERONESE, Appendice agli elementi di geometria, Padova]
mobili e partecipi della perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano
situata ad una qualsiasi distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche
essa, era ammettere quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione
intorno alla terra od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed
ammettere che l'angolo del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale
fosse eguale all'angolo delle posizioni iniziale e finale della retta, era
ammettere un fatto conforme alla intuizione e verificato dalla esperienza nel
campo raggiungibile dalla nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa
veramente onore ad Euclide di avere fatto senza del movimento dove ha potuto,
poiché nei suoi elementi è chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è
stato possibile. Se dunque Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima
di lui se ne do- veva fare uso ancora maggiore, ed abbiamo così una riprova che
i pitagorici ne fanno uso senza tanti scrupoli e che quindi potevano benissimo
anche servirsi di un postulato relativo al movimento di rotazione come quello
che abbiamo enunciato. Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava
intimamente tra loro le varie scienze venne tenuto sempre meno presente,
accentuan- dosi la tendenza a fare della geometria una scienza sepa- rata,
puramente logica; ed Euclide, ammettendo il suo postulato, raggiungeva il
doppio scopo di liberarsi sem- pre più dal concetto di movimento e di
procurarsi un 83 G. VERONESE, Appendice agli elementi etc.] mezzo comodo e
rapido per risolvere difficoltà che altri- menti si possono superare solo con
molto maggiore pa- zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che
non ha mai soddisfatto nessuno e che Alembert chiama lo scoglio e lo scandalo
della geometria. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari
da una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si
incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si
può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si
ammette il postulato pitagorico della rotazione o la proposizione Saccheri, si
ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette
anche il postulato di Archimede oppure il caso particolare del postulato di
con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendicolari in punti
distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che
una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad
essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto,
per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione.
Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A
rispetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe
appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P,
dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia
coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r:
quindi esse non si incon- trano.] tinuità che noi abbiamo adoperato, si ha che
la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non seca la b. Torniamo
dopo ciò ad esaminare la questione della seconda dimostrazione pitagorica del
teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo direbbe testualmente così. Sia il
triangolo αβγ e si conduca per α la parallela alla βγ καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ
παράλληλος ἡ. Qui appare il termine parallela e l'articolo determinativo ἡ ne
implica la riconosciuta unicità. Ma, anche ammettendo che Proclo riporta di
peso la dizione usata d’Eudemo, resta a vedere se Eudemo adopera il termine
parallela nella accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di
Euclide, e resta a vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva
anche in Eudemo dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi d’Euclide.
Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa
dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla
dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante.
Egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce
la retta di fianco o di fronte al lato. Anche in questo passo l'articolo ἡ
mostra che tale retta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nessun
modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente della
parola parallela non dà in proposito nessuna luce. Il termine è adoperato in
astronomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel linguaggio
ordinario d’Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle vite parallele.
Dal linguaggio ordinario è passato poi al linguaggio geometrico, ma quando e
con quale precisazione non risulta. Aristotele lo usa tre volte nella
Analitica, come termine geometrico, e sentenzia che coloro i quali si sforzano
di descrivere le parallele commettono una petizione di principio. Così come
stanno le cose il passo di’Eudemo e quello del suo maestro Aristotele non
provano affatto che la dimostrazione posteriore dei pitagorici si basasse sopra
una definizione delle parallele e sopra un relativo postu- lato eguali alla
definizione ed al postulato d’Euclide. E non è da escludere che questa retta
fosse la equidistante, e fosse chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica
non secante semplicemente per non essere ancora sorto il dubbio che oltre alla
equidistante vi potessero essere anche altre rette non secanti. In tal caso il
dubbio sarebbe sorto dopo, ed Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità
introducendo il suo postulato. In tal caso la dimostrazio- ne di Aristotele sarebbe
corretta se quella tal retta con- dotta per il vertice del triangolo si intende
che sia equi- distante, e sarebbe scorretta se concepita come parallela ne
fosse supposta senza base la unicità; mentre invece quella di Eudemo sarebbe
corretta se con il termine di parallela si intende la equidistante (la cui
unicità e le cui proprietà i pitagorici potevano desumere dal teorema dei due
retti) e sarebbe scorretta se designasse una parallela nel senso euclideo e non
si fosse ammesso o dimostrato il postulato di Euclide. Comunque i due passi, d’Aristotele
e d’Eudemo, non provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due
retti una dimostrazione identica a quella d’Euclide. Se, come ci sembra, questa
dimostrazione pitagorica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette
equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche questa dimostrazione era
indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si
incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'accordo
con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che
abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di
prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione
pitagorica. E notiamo ancora che, anche se non si vuole accordare che la
geometria pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pitagorico della
rotazione, la dimostrazione del postulato d’Euclide che abbiamo esposto si può
fare egualmente, se si ammette la proposizione SACCHERI od il postulato del SEVERI.
E siccome i pitagorici conoscevano certamente il teorema dei due retti
indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto che
essi potevano dal teorema dei due retti e senza postulato d’Archimede arrivare
a dimostrare la unicità della non secante. La questione non trascendeva i loro
mezzi, né certamente l'intelligenza di quei così detti primitivi. La
trasformazione del postulato di Euclide in teorema è un risultato secondario di
questo nostro studio. Ed esula dal carattere di questo studio, né ci presumia-
mo da tanto, il giudicare se l'assetto euclideo della geo- metria sia, da un
punto di vista teorico moderno, preferi- bile all'antico assetto che abbiamo
cercato di ricostituire. Naturalmente tutti i postulati sono comodi; e,
tagliando il nodo gordiano delle parallele con la spada del postula- to di
Euclide, le cose si semplificano. Ma dovendo scegliere tra il V postulato ed il
postulato pitagorico della rotazione quale dei due è meno ostico? Quale dei due
è meno restrittivo? L'apprezzamento in queste cose è anche un po' personale, e
noi lasciamo che ognuno scelga secondo i suoi gusti. A noi interessa constatare
che il postulato pitagorico della rotazione consente di dimostrare il teorema
dei due retti e quello di Pitagora indipendentemente dal postula- to e dalla
teoria delle parallele in un modo che ha tutta l'aria di essere l'antico, e
consente da solo di ottenere tutto lo sviluppo della geometria pitagorica; e
non ci consta che sinora si sia trovato un modo, non soltanto più
soddisfacente, ma un modo qualunque, di raggiungere lo stesso risultato. Il
postulato di continuità al quale abbiamo ricorso è servito soltanto per
risolvere l'ultima questione, quella di dimostrare il postulato d’Euclide in
modo non trascendente le possibilità dei pitagorici. Una volta introdotto, come
postulato, il V postulato d’Euclide, la proprietà enunciata dal postulato
pitagorico della rotazione viene a perdere ogni importanza. Non meraviglia
quindi il non trovarne alcuna traccia su- perstite. Sarebbe strano che fosse
accaduto diversamente quando ogni traccia di dimostrazione pitagorica si è
perduta ad eccezione della tarda dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se
la nostra ricostruzione corrisponde al vero, la introduzione del postulato d’Euclide
dovette sconvolgere profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto
è conforme alle notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide
cambiò l'ordine e le dimostrazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della
geo- metria, sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e
ricevette un'altra dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno
goduto per oltre venti secoli gl’elementi di Euclide, aggiungendosi a queste
condizioni sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato
alla esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della gloria
della scuola italica. Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della
nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fondamenta, nulla si è
salvato. Un destino avverso sembra essersi accanito contro l'opera vasta ed
ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime
pitagorico in CROTONE Cotrone; disperso l'ordine e la scuola, le scoperte e le
conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate.
Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra
natura, impede l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagoriche,
assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la
filosofia, intesa nel senso etimologico e pitagorico della parola, venne
occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del
moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere
salde basi, si è perduta a tutto beneficio della scuola greca posteriore. Per
quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche
cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla
funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di restituire l'opera
geometrica della scuola itala è stato per noi non soltanto un importante
argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel
terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti
di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed
all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a
rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto
intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi,
gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti,
preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore
della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo prendere
direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ. Keywords: implicature arimmetica, pitagorismo
romano. Cf. uomo, scuola pitagorica, filosofia italiana, filosofia italica, il
pitagorismo comparato con altri scuole, aristosseno e pitagora – crotone –
crotona – Taranto – metaponto, aristosseno, prima seguace del pitagorismo,
reghini, massoneria, esoterico, numeri sacri. Cf. Luigi Ferri,
L’interpretazione dei filosofi italiani sull’origine del pitagorismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrero” –
The Swimming-Pool Library. Leonardo Ferrero. Ferrero
Grice e Ferretti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’inter-soggetivo – scuola di Brusasco – filosofia torinese
– scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Brusasco). Filosofo italiano. Brusasco,
Torino, Piemonte. Grice: “I like Ferretti, for one, he wrote on
intersubjectivity which is a problem for Husserl: cogitamus; nobody speaks of
‘cogitamus --; one has to distinguish between my favoured –‘inter-subjectivity’
and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti has also philosophised on the infinite,
which poses a problem to my principle of conversational helpfulness.” Si laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino,
Macerata. Altre opere: Persona (Milano). Storia della filosofia romana (SEI,
Torino), “L’ntersoggettivo (Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg &
Sellier, Torino). Ricerca Soggetto (filosofia) termine Lingua Segui Modifica
(LA) «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat
veritas.» («Non uscire da te stesso, rientra in te: nell'intimo dell'uomo
risiede la verità.» (da La vera religione di Sant'Agostino) Il termine
soggetto che deriva dal latino subiectus(participio passato di subicere,
composto da sub, sotto e iacere gettare, quindi assoggettare) letteralmente
significa "quello posto sotto", "ciò che sta sotto".
Nella speculazione filosofica il termine ha assunto una varietà di
significati: un essere, sostrato sostanziale di qualità che lo
configurano particolarmente e accidentalmente; elemento soggettivo che
determina una data sostanza nella sua singolare peculiarità; termine che, in
età moderna, viene riferito alla coscienza individuale e all'autocoscienza intesa
come attività consapevole dell'io. Il ribaltamento di significato nella storia
del concettoModifica In filosofia il concetto di soggetto ha subito un
ribaltamento del suo significato originario. Inizialmente il termine si
riferisce a un concetto di essenzialità immutabile, ad una
"oggettività" ben determinata e certa. Successivamente il significato
si capovolge assumendo il valore di ciò che è apparentemente vero nell'ambito
della soggettività individuale. Il termine latino infatti traduce l'originario
greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol dire appunto "ciò che sta
sotto", ciò che secondo il pensiero antico è nascosto all'interno della
cosa sensibile come suo fondamento ontologico. Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calogero. La teoria sul pensiero
greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus) è la sostanza (sub
stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente
è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si
distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama
"accidente": anzi, è proprio la sostanza che sorregge gli accidenti
rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la loro apparenza nel
tempo e nello spazio. Sempre in Aristotele, poi, il soggetto assume anche
una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde al piano del soggetto
nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di partenza, la base a
cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato
mutevole. E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la
materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un
alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa
l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere
separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di
materia e di forma.» Un terzo aspetto particolare del soggetto in
Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il sostrato materiale delle
cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente connessa una forma, il
soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione indissolubile di
materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere identificato in primo
luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo con il
composto di entrambe». Il ribaltamento soggetto-oggetto inizia con
Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al pensiero soggettivo che
definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché l'attività senziente viene
concepita inizialmente come attributo del soggetto corporeo cui inerisce, «il
termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il
pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che esiste in sé e
che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella
stessa realtà si presenta come soggetto ciò che non si può pensare esistente se
non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé
indipendentemente dal suo essere conosciuto.» Nel lessico moderno, allora,
"soggetto" fa coppia con "oggetto": da una parte c'è
qualcuno che pensa, vuole, accetta, respinge, desidera, teme, ecc. (soggetto);
dall'altra, necessariamente, c'è qualcosa che è pensato, voluto, accettato,
respinto, desiderato, temuto, ecc. (oggetto). Soggetto assume una serie di
nuovi significati come "interiorità", "libertà" o anche
"umanità", in quanto contrapposte alla Natura ed alla cieca materia.
Dualismi come libertà/necessità, Spirito/Materia, Uomo/Natura, si possono
ricondurre a quello fondamentale soggetto/oggetto. Questo insieme di
significati è relativamente recente. Oggi si potrebbe meglio parlare di
"autocoscienza" o anche "mente" contrapposta a "realtà
esterna". Gli antichiModifica Nel pensiero antico, almeno tra i
presocratici, l'interiorità come già accennato non viene contrapposta alla
"realtà esterna": uomo e cosmosono concepiti in stretta unità.
Pertanto il primo pensiero greco non tematizza il soggetto. Il primo concetto
filosofico, archè, indica il fondamento della legge naturale e di quella umana.
Eraclito vede un'unica legge, un'armonia generale, operante nella natura e
nella mente umana, il Lògos. Parmenide afferma che lo stesso è pensare ed
essere, ed «è necessario che il dire ed il pensare siano essere. Per Anassagora
il Noùs è l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa ed
agisce. In tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto ed
oggetto. I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in generale
il concetto di realtà, verso la quale ostentano uno scetticismo o un
relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul mondo
umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere" al
quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il compito
proprio del filosofo diventa: conosci te stesso». La ricerca si orienta verso
l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e male, virtù e
vizio, giusto ed ingiusto, ecc. Con Platone il concetto diventa Idea, da
sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e divino. Platone afferma
la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le loro copie sensibili), ma
attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene confermata l'unità tra
soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale unità viene sottratta alla
sfera propriamente umana. La vita individuale è sede della dòxa, apparenza ed
errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione dell'essere ideale, porta
alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista della dòxa, si presenta come
"fuga dal mondo" ed "esercizio di morte". Aristotele elabora
un'ampia teoria sul soggetto, che coincide appunto con l'upo-kéimenon: è il
substrato, il fondamento su cui poggiano le qualità accidentali (soggetto
metafisico); è il soggetto grammaticale, di cui si dicono i vari predicati
(soggetto logico). Aristotele afferma che la sostanza pare che sia in primo
luogo il soggetto di ogni cosa. Alla sostanza competono numerosi altri aspetti
(potenza, atto, materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del contesto; ma
tutti questi aspetti o significati afferiscono a quello fondamentale, che è la
sostanza come soggetto. Perciò il soggetto umano, nel senso moderno, è solo un
caso particolare di sostanza e di soggetto. Riassumendo la posizione
greca: con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che nella realtà del Cosmo
l'Uomo e la Natura costituissero una unità o un'armonìa, o un rapporto di
tensione, dove un principio unico (arché) li univa, e dove in ogni caso la
sostanza (ciò che è esterno alla nostra mente) prevale ontologicamente sul
soggetto (la mente). Con il Neoplatonismo la coppia soggetto/oggetto si
presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo della realtà (che si
manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a quello oggettivo
(Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o Uno, anzi sono
derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so di esistere» non
è che un riflesso, una manifestazione particolare dell'autocoscienza dell'Uno,
che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha di nuovo la coincidenza tra
soggetto e oggetto e l'"assorbimento" dell'intelletto umano in una
dimensione intellettiva universale. Sulla scorta di Aristotele, nel
Medioevo il soggetto assume un significato oggettivo: il soggetto del discorso,
l'argomento di cui si parla. Questo uso è corrente nel mondo anglosassone
(subject, sinonimo di matter). Nonostante le apparenze, nemmeno Agostino si
oppone al realismo filosofico: il suo protagonista è sì l'anima, l'interiorità;
ma, come per Platone, l'anima vive e pensa grazie all'illuminazionedivina: il
soggetto umano dipende in tutto da una Verità che lo trascende. Col
Cristianesimo si ha comunque ad una nuova concezione di Dio rispetto a quella
greca: non più come entità impersonale, o semplice fondamento oggettivo della
natura, ma come Soggetto vivo e pensante, di cui l'uomo è immagine e
somiglianza. Nella disputa sugli universali, Aquino prende posizione a favore
del realismo, nel contesto tuttavia di un'autocoscienza del soggetto ricondotta
alla trascendenza divina. Su questa strada anche il Rinascimento descrive
variamente l'interiorità come contatto con l'universale che si riflette
nell'umano. Anima mundi (Ficino), Mens insita omnibus (Bruno), Intelletto
(Cusano), sono espressioni e dottrine che esprimono quest'adesione del soggetto
umano alla dimensione cosmica del Soggetto assoluto: l'uomo è un microcosmo che
contiene in sé gli estremi opposti dell'universo, in quanto specchio dell'Uno
dal quale proviene tutta la realtà. La natura partecipa di questa soggettività
universale, essendo tutta viva e animata, non un meccanismo automatizzato ma
abitata da forze e presenze nascoste. Si verificano due processi paralleli: con
Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica della Natura; con
Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto. Questo duplice
processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e riflette la nuova
consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere sulla Natura.
Cartesio parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono molteplici Idee, di
varia natura (il significato cartesiano è differente da quello platonico: esse
sono solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro che a queste Idee
corrisponda una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto tra il mio
pensiero e le Idee spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia rappresentazione
mentale) non esiste materialmente: esso può essere immaginato, inventato,
anticipato, ecc. Ma vi è soprattutto l'errore, ovvero la non-esistenza reale
dell'oggetto pensato come reale. Quindi si può esercitare un costante dubbio circa
la esistenza reale dell'oggetto, ma non si può mai dubitare della presenza
delle Idee nella mente né dell'esistenza dell'io che dubita. Cartesio ha
fortemente sbilanciato la coppia soggetto/oggetto a favore del primo termine.
La celebre proposizione del "Cogito, ergo sum" riassume un lungo
ragionamento che si può esprimere così: Posso dubitare di essere ingannato
riguardo qualunque verità (dubbio iperbolico), ma non posso ingannarmi sul
fatto di essere io il soggetto ingannato; Se sto dubitando e ponendomi queste
domande è necessario che io esista almeno quando me le pongo; Poiché infatti
posso liberamente dubitare di tutto, non posso invece dubitare del mio libero
atto del dubitare, di essere un pensiero che dubita; L'attributo necessario
alla mia sostanza è il pensiero, poiché non sono in grado di concepirmi
distinto da esso. Su questa base Cartesio costruisce un prototipo di quella che
si può definire "metafisica del soggetto", dove l'io individuale
diventa la prima sostanza, in ordine logico, e l'unica che possa costituire il
fondamento dell'esistenza di tutte le altre. Determinante per la successiva
elaborazione sul soggetto è il dualismo res cogitans/res extensa. Il pensiero è
contrapposto alla Natura ed alla materia, che Cartesio identifica con l'estensione
spaziale degli oggetti. Dal dualismo res cogitans/res extensa si svilupperà il
meccanicismo come visione matematica e deterministica della Natura. Dopo
Cartesio restano alcuni punti fermi: L'autocoscienza umana non si
aggiunge alla coscienza delle altre cose, ma è, per definizione, antecedente ad
esse (Kant dirà: a priori) poiché soltanto nell'autocoscienza si manifesta
tutto il resto; Le cose, che il senso comune vuole esistenti di per sé,
esistono anzitutto nella coscienza; la loro esistenza indipendente come
sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza è perciò il sub-iectum delle
altre cose, poiché mi viene data preliminarmente rispetto ad esse ed è capace
di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la sostanza vera diviene la
sostanza che si interroga sulla Verità. Con Leibniz tuttavia si ha una nuova
metafisica del soggetto, più complessa del semplice dualismo cartesiano, basata
sulla pluralità delle sostanze, che torna a riunificare la dimensione del
pensiero con quella dell'essere secondo l'ottica platonico-aristotelica; le
idee, vere e proprie realtà pensanti che si esprimono nel soggetto metafisico
(la monade, corrispondente nell'uomo alla sua mente) hanno di nuovo il ruolo di
fondamento della verità. Infatti il giudizio, nella sua forma logica “S è P”, è
vero quando il predicato è già contenuto nel soggetto, che è la sua causa o,
per dirla con Leibniz, la sua ragion sufficiente. Il soggetto logico S esprime
la sostanza reale o monade, che quindi è la causa della verità, sia in senso
logico (come soggetto del giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente
del predicato). Se è vero che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio
di Leibniz), la ragione di tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo
stesso. Leibniz descrive un soggetto già simile all'uomo moderno, come
individuo indipendente dagli altri («la monade non ha porte né finestre»),
dotato di una sua energia vitale (appetitus) e di una libertà e finalità sua
propria (l'entelechiaaristotelica), ma inserendolo entro un quadro organico
d'insieme, fondato sul concetto scolastico di armonia prestabilita.
L'empirismo inglese, prima con John Locke e poi più decisamente con Hume,
reagisce a questa sostanzializzazione del soggetto criticando sia la nozione di
sostanza (Locke), che poi quella stessa di soggetto (Hume). Ma in tal modo
l'empirismo perviene allo scetticismo, all'impossibilità di poggiare la
concordanza tra soggetto e predicato su solide basi: ne va di mezzo la
possibilità della conoscenza scientifica. Come in Cartesio, seppur partendo da
una prospettiva opposta, gli empiristi giungono così a un dualismo, ad una
frattura tra la dimensione soggettiva dell'esperienza, e quella oggettiva della
realtà esterna.Questa frattura tra la realtà e le sue rappresentazioni soggettive
derivanti dall'esperienza verrà radicalizzata da Kant come opposizione tra
fenomeno e cosa in sé (vedi oltre). Concludendo sul pensiero moderno:
all'opposto di quello antico, ora è il soggetto a prevalere sull'oggetto
esterno, fino a diventare esso stesso un'entità metafisica autonoma (Cartesio),
generando per reazione la negazione della sostanza (empirismo). Kant e
l'IdealismoModifica Con Kant si ha la "rivoluzione copernicana" che
mette il soggetto al centro del sistema della conoscenza, facendo ruotare gli
oggetti intorno alle sue forme a priori (quelle sensibili, cioè spazio e tempo,
e le dodici categorie dell'intelletto). Il soggetto da individuo si fa soggetto
trascendentale o puro: l'Io penso. Le forme a priori, infatti, su cui si fonda
l'oggettività delle conoscenze empiriche, a loro volta poggiano su una forma
universale, che è appunto il soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso deve poter
accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe
rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato. Il pensare
dunque è un atto originario dell'io puro. Scrive ancora Kant. La chiamo
originaria, poiché essa è quella autocoscienza che, col produrre la
rappresentazione "Io penso", non può essere preceduta da nessun'altra
rappresentazione, poiché condizione a priori di tutte le altre
rappresentazioni». Il soggetto empirico, l'io in carne ed ossa, deve la sua
stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma preesistente dell'io
penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici. L'Io penso kantiano non
ha però un carattere sostanziale o metafisico come quello cartesiano, poiché è
soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi contenuti sono i pensieri che
i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà fenomenica, ben distinta
dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste indipendentemente e al di fuori del
soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In questo limite conoscitivo del
soggetto si manifestano il criticismo e l'avversione di Kant per la metafisica
razionalistica. In Kant non abbiamo una metafisica del soggetto vera e propria,
ma piuttosto una visione antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e
fisici) tra gli oggetti naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad
un soggetto generale, generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo.
Da Kant all'idealismo il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé.
Avremo così un soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio
metafisico della realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia
di quella dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling
l'Ioassoluto è l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io
o Natura: l'identità di questi due termini è un'unione "immediata", attingibile
solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite intuizione. Veniva
perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e oggetto tipica della
metafisica neoplatonica. La dialettica soggetto/oggetto Soggetto e
oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati secondo Hegel nel momento in cui
la ragioneprende coscienza che l'uno non può esistere senza l'altro, che un
oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e viceversa. A differenza di
Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben conoscevano una tale
dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la ragione stessa che
opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza, mentre nella
metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori, sin
dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da sola.
Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due termini
contrapposti. Hegel identifica esplicitamente il soggetto con l'Assoluto,
ed infine col divino cristiano, ma diversamente dai suoi predecessori li
congiunge in forma "mediata", generando quindi nuovamente un
dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è
espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito», ma quel che ancora
mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi della vita umana
nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così egli elabora la
nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed assoluto che però
inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana consiste in un
progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito, proprio attraverso
le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e dei popoli. Le
diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono narrate nella
Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata della
autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza sensibile), ma
poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più universale.
Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è
l'autocoscienza dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie
all'opera mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato
alla Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo
"sistema filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e
Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso
cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri
di Dio") viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza
universale o Spirito. Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale,
storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e
soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per
l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx
il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza
collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel
sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo
sulla Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non
sono più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma
piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il
Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si
lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di
significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio
filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte
esistenziale dell'uomo moderno. Il soggetto oggi La filosofia già da un
secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto". Il
soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi
all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si
è messa) al centro del mondo. La rivoluzione copernicana esprime un ottimismo
della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e
l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione
soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della Natura. Secondo
Aristotele costituito da una materialità informe, originaria e primitiva, pura
potenza priva di atto. Aristotele, Metafisica,
Aristotele, Enciclopedia Treccani, Dizionario di filosofia Parmenide,
Perì Phýseos (Sulla natura), Platone, Fedone, Aristotele, Metafisica,
Salatiello, L'autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sé
in san Tommaso d'Aquino, Pontificia Università Gregoriana, Roma. Ad esempio
Paracelso nel suo Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de
caeteris spiritibus parla apertamente di entità spirituali responsabili di ogni
legge e avvenimento di natura. Piro, Spontaneità e ragion sufficiente.
Determinismo e filosofia dell'azione in Leibniz, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma Homo Laicus: Berkeley. Kant, Critica della Ragion pura,
Hegel, Fenomenologia dello spirito, introduzione Vedere introduzione alla
Scienza della Logica. Boulnois, Généalogies du sujet. De saint Anselme AOSTA (si veda) à
Malebranche, Parigi, Vrin, Alain de Libera, Naissance du Sujet (Archéologie du
Sujet I), Parigi, Vrin, Libera, La quête de l'identité (Archéologie du Sujet),
Parigi, Vrin, Alain de Libera, La double révolution. L'acte de penser I (Archéologie du Sujet), Parigi,
Vrin. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nella cultura antica La
Nuova Italia, Milano, Bompiani. Parisoli, Il soggetto e la sua identità. Mente
e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi Medievali,
Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione alla ricerca
fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana, Thiel, The
Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes
to Hume, New York, Oxford Individuo Oggetto (filosofia) Portale Filosofia:
accedi alle voci che trattano di filosofia
Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del
pensiero Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui
l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io) Il
contenuto. While
subjectivity and objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only that
it can always be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The
inter-subjective” sounds Butlerian in English! Keywords: ‘l’intersoggetivo’, I
soggetti, soggetto e oggeto, inter soggetti – la questione dell’oggetto
nell’intersoggetivo – ‘the common ground’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferretti” –
The Swimming-Pool Library. Giovanni
Ferretti. Ferretti.
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