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Wednesday, November 13, 2024

GRICE ITALO A/Z F FI

 

Grice e Fiore: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale musicale – scuola di Celico – filosofia celicese – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Celico). Filosofo celicese. Filosofo cosentino. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Celico, Cosenza, Calabria. Grice: “If you are thinking that Fiore is the source for the Cistercians, you are wrong – actually Fiore WAS a Cisctercian until he wasn’t one! Pretty much like St. John’s!” -- da Floris, Italian philosopher, the founder the order of Ciscercian order of San Giovanni in Fiore (vide, Grice, “St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest of his life to meditation and the recording of his prophetic visions. In his major works Liber concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da Floris  illustrates the deep meaning of history as he perceived it in his visions. History develops in coexisting patterns of twos and threes. The two testaments represent history as divided in two phases ending in the First and Second Advent, respectively. History progresses also through stages corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that of the law; the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260; the age of the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders like the Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this final era of spirituality and interpreted Joachim’s prophecies as suggesting the overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his views were condemned by the Lateran Council. F.«… E lucemi dallato, il calavrese abate F. di spirito profetico dotato»  (ALIGHIERI (si veda), Paradiso. Filosofo. Morte Pietrafitta, Beatificazione Nuncupato Santuario principale Abbazia Florense Manuale F. è stato un abate, teologo e filosofo italiano. È venerato come beato da parte dei florensi e dei gesuiti bollandisti, anche se non c'è mai stata una beatificazione ufficiale da parte della Chiesa cattolica. Le condizioni economiche della famiglia di F. erano agiate; il padre Mauro, infatti, è tabulario o notaio. In passato si è ritenuto che la famiglia avesse origini ebraiche, forse per spiegare l'atteggiamento benevolo di F. nei confronti dell'Ebraismo. La sua casa natale viene collocata storicamente dove sorge attualmente la chiesa dell'Assunta, edificata sicuramente sul perimetro della casa natale dell'abate F.. Riceve le prime nozioni di educazione scolastica a Cosenza. Ben presto è mandato a lavorare presso l'ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, anda a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riusce a fargli ottenere un posto presso la corte normanna a Palermo, dove lavora prima a diretto contatto con il capo della zecca, poi con i notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo, arcivescovo Perche. Entrato in disaccordo anche coll’arcivescovo, si allontana definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta.  Gl’inizi Forse nel corso di questo viaggio matura un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria F. si ritira dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui è riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo ha dato per disperso. Al padre confessa di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re -- cioè il Signore Dio nostro. Vive presso l'abbazia di Santa Maria della Sambucina, da cui si allontana per andare a predicare dall'altra parte della valle, vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino a Rende.  Poiché al tempo la predicazione di un laico non è ben accetta, F. compe un viaggio fino a Catanzaro, dove il vescovo locale lo ordina sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si ferma nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontra il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Torna a predicare nuovamente a Rende, con l'abito di sacerdote. Poco tempo dopo vestì l'abito monastico, entrando nel monastero di Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia benedettina, guidata dal beato Colombano, aspirava a seguire la regola cistercense.  Secondo le fonti più accreditate, Bonasso venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinuncia, scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri. F. non ambiva a diventare abate, ma a studiare le Sacre Scritture. Gli uomini più potenti di quel tempo, riunitisi con lui a Sambucina, lo convinsero ad accettare la carica di abate di quel monastero, all'epoca poverissimo. A Corazzo l'abate F. comincia a scrivere la prima delle sue opere, La “Genealogia”, impiegando come suoi scribi frate Giovanni e frate Nicola. In qualità di abate compe un viaggio all'abbazia di Casamari. Durante questo periodo incontra il papa Lucio III, che gli concesse la licentia scribendi. Con l'aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, inizia già a Casamari la stesura delle sue opere principali: la “Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento” e l' “Esposizione dell'Apocalisse”. In quello stesso periodo F. interpreta innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Angers. Da qui scature l'incoraggiamento del pontefice Lucio III a scrivere le sue opere.  Si reca a Verona, dove incontra il papa Urbano III. Al ritorno si ritira a Pietralata, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell'abbazia di Corazzo. I suoi monaci non tolleravano il suo girovagare e lo stare sempre distante dall'abbazia e pertanto fanno una petizione per risolvere la questione presso la curia. A seguito di ciò, ottenne l'affiliazione dell'abbazia di Corazzo all'abbazia di Fossanova e il papa Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali, autorizzandolo a continuare a scrivere.  Pietralata e protomonastero di Fiore Vetere Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Abbazia Florense. A Pietralata, presumibilmente una contrada nei pressi di Marzi-Rogliano, da lui ribattezzata Petra Olei, cominciarono a pervenire molti seguaci. Il primo è Raniero da Ponza, che in seguito è legato apostolico in Francia e Spagna sotto papa Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorre a sentire F. Pertanto F. sale in Sila alla ricerca di un territorio che si puo abitare. Dopo varie perlustrazioni, si ferma nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, nel comune di San Giovanni in Fiore. A sei mesi di distanza dalla perlustrazione, abbandona Pietralata e si trasferì con i suoi discepoli in Sila sul luogo prescelto. Pietralata è un luogo avvolto nel mistero e ancora oggi non identificato con sufficienti certezze.  Dopo VI mesi dal trasferimento, il re Guglielmo il Buono muore e gli subentra sul trono normanno Tancredi, già conte di Lecce. Sono proprio i funzionari di Tancredi a contestare a F. l'insediamento in Sila, per cui l'abate dove recarsi a Palermo per discutere con il re. Dopo un complesso confronto tra i due, durante il quale Tancredi propose a F. di trasferirsi presso l'abbazia della Matina allora in stato di grave declino (proposta rifiutata in maniera decisa da F.), gli è concesso di restare in Sila, nel luogo prescelto, facendogli dono di un vasto tenimento posto nelle adiacenze, aggiungendo CCC pecore e XXX some di grano per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti comincia a costruire il protomonastero di Fiore Vetere. Dopo la morte di Tancredi, subentra nel regno Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, il quale concede a F. un vasto tenimento in Sila e privilegi sovrani su tutta la Calabria.  La Congregazione florense Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ordine florense e Florensi. In questo periodo, dopo il diploma concesso da Enrico VI, F. fonda i monasteri di Bonoligno e Tassitano e acquisce altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, F. si reca a Roma ricevendo da papa Celestino III l'approvazione della congregazione florense e dei suoi istituti.  I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e, affinché Fiore venisse articolato secondo lo schema della Tav. XII, misero a coltura i territori di Bonolegno e di Faradomus, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del novus ordo. Pertanto, con le acque del fiume Garga, attraverso il canale cosiddetto badiale, fecondarono dapprima Bonolegno e poi Faradomus. Da qui insorsero delle liti con i monaci greci del monastero dei tre fanciulli, ubicato in prossimità di Caccuri, che contestarono ai florensi l'occupazione di territori che secondo loro detenevano da tempi immemorabili. I poveri florensi furono bastonati, malmenati e gli edifici in costruzione distrutti. Tuttavia l'azione di costruzione dell'insediamento non si ferma, fintanto che l'abate rimane in vita.  F. muore presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti sono traslati nell'abbazia di San Giovanni in Fiore quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, continua l'opera ampliando le fondazioni florensi; nel periodo del suo abbaziato, l'ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.  I grandi benefattori dell'abate Gioacchino e dell'Ordine florense La Congregazione florense prima e l'Ordine florense poi ebbero molti benefattori; fra i tanti vale la pena ricordare:  Signore di Oliveti: diede a F. la possibilità di vivere nel ritiro di Pietralata. Tancredi il Normanno: concesse a Gioacchino il Locum Floris, il Tenimentum Silae, 300 pecore e 112,5 quintali di grano annui. Enrico VI di Svevia: concesse a Gioacchino il Tenimentum Floris e tanti privilegi imperiali. Gilberto, vescovo di Cerenzia: concesse il tenimento Montemarco con la relativa abbazia e filiazioni dipendenti. Celestino III: riconobbe la Congregazione florense e i suoi istituti religiosi. Costanza d'Altavilla: ratificò a Gioacchino tutti i beni posseduti dal Monasterio Sancti Johanni de Flore. Umfredo Colino e Simone de Mamistra, Giustiziere Regio della Calabria: concessero a Gioacchino la tenuta di Caput Album (capo Arvo). Ugolino, cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina, Legato Apostolico in Sicilia: concesse a Gioacchino la tenuta Albetum in Caput Gratium (Albeto di Capo Crati). Federico II di Svevia: concesse a Gioacchino le tenute Caput Album e Caput Gratis. Andrea, arcivescovo di Cosenza: concesse a Gioacchino la chiesa di San Martino di Jove in Canale (Pietrafitta). Stefano, vescovo di Tropea, Gattegrima e Simone de Mamistra (Giustiziere Regio della Calabria), signori di Fiumefreddo: concessero a Giacchino la chiesa di Santa Domenica, con tutte le sue dipendenze, compreso i tenimenti Flumen Frigidum e Barbaro. Culto  Gioacchino da Fiore con l'aureola, affresco, cattedrale di Santa Severina I seguaci di F., subito dopo la sua morte, raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV, che dichiara eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditato ingiustamente a F.. Tuttavia la seconda Costituzione Conciliare sull'errore dell'abate Gioacchino dichiarò anche: "Con ciò, però, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi l'insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli" (Cost. 2).  ALIGHIERI, nella Divina Commedia, inserisce F. nel paradiso, tra la schiera dei beati sapienti, corrispondenti agli odierni dottori della Chiesa, accanto a FIDANZA (si veda), Mauro e AQUINO (si veda). Da ciò si desume il chiaro giudizio di Dante, emesso 110 anni circa dopo la morte dell'abate calabrese.  Un secondo tentativo d'avvio della canonizzazione fu compiuto dall'abate Pietro del monastero florense, che si recò ad Avignone per portare al Sommo Pontefice tutta la documentazione relativa alle grazie e ai miracoli ottenuti tramite l'abate F., sia durante la sua vita sia dopo la sua morte.  È risaputo che i cistercensi venerarono come beato l'abate F., elaborandone perfino l'antifona per il 29 maggio. Si ritiene che ciò sia avvenuto quando i florensi furono fatti confluire nella Congregazione cistercense calabro lucana. I gesuiti bollandisti nel loro calendario liturgico e nel loro messale avevano incluso l'abate Gioacchino come beato, fissando per lui nell'anno due festività celebrative. Il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all'Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull'altare vicino al sepolcro dell'abate F.. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie.  All'approssimarsi dell'VIII centenario della morte dell'abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l'iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana. Postulatore della Causa è stato nominato Gabrieli.  Opere: Dialogi de prescientia Dei F., esortato da papa Lucio III, mise per iscritto la sua originale interpretazione delle Sacre Scritture. Le sue opere principali sono:  Concordia Novi ac Veteris Testamenti Expositio in Apocalypsim Psalterium decem chordarum A queste vanno aggiunte:  Adversus Iudaeos- edizione Adversus Iudeos, Fonti per la storia d'Italia 95, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Apocalypsis Nova De Articulis Fidei - edizione De articulis fidei, Fonti per la storia d'Italia 78, Roma, Tipografia del Senato. De prophetia ignota De Septem Sigillis Dialogi de Praescientia Dei et de praedestinatione electorum - edizione Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, Fonti per la storia dell'Italia medievale. Antiquitates, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Enchiridion super Apocalypsim Epistulae Inteligentia super calathis ad abbatem Gaufridum Testamentum Universis Christi fidelibus Exhortatorium Iudeorum Genealogia Liber Figurarum (scoperto da Leone Tondelli) Poemata duo (Visio admirandae historiae, Hymnus de patria coelesti) Prefatio in Apocalypsim Professio fidei Quaestio de Maria Magdalena Sermones Soliloquium Tractatus super quattuor Evangelia - edizione Tractatus super quatuor evangelia, Fonti per la storia d'Italia, Torino, Bottega d'Erasmo. Tractatus in expositionem et regulae beati Benedicti Ultimis Tribulationibus Sono inoltre conosciuti:  Testi apocrifi: Liber contra Lombardum Super Hieremiam Praemissiones e Super Esaiam De oneribus prophetarum Expositio super Sibillas e Merlino Vaticinia de Summis Pontificibus (di dubbia provenienza) Altri manoscritti vari, chiamati Opuscoli. Le intuizioni di Gioacchino da Fiore Secondo Gian Luca Potestà nella sua recensione a Refrigerio dei Santi, Gioacchino da Fiore, "segna comunque una svolta nella coscienza escatologica medievale, in quanto è il primo a rompere il "tabù agostiniano" riguardo ad Apocalisse 20 e ad avanzare, in modo cauto ma netto l'idea che la ligatio Sathane per annos mille vada riferita al tempo imminente di pace terrena, situato fra la prossima venuta dell'Anticristo e le persecuzioni finali di Gog e Magog." Sulla stessa linea si pone Robert E. Lerner che evidenza come il teorema di Sant'Agostino, della suddivisione della storia in tre periodi: Ante legem, sub lege, sub gratia, viene rivisto da Gioacchino che introduce nel dramma il quarto atto: Itaque tempus ante legem, secundum sub lege, tertium sub evangelio, quartum sub spiritali intellectu", dimostrando così la sua straordinaria originalità interpretativa delle Sacre Scritture.  Gioacchino da Fiore tra le tante ebbe tre interessanti e originali intuizioni.  Ha cercato e provato che esistono diverse forme di concordia tra l'Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio. Da questo concetto, noto come modello "binario della teologia della storia", data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di "proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l'età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro." (Lerner) Sulla base di questo sistema di concordanza tra i due Testamenti, attraverso lo studio accurato delle Scritture, ritiene di poter scrutare nel futuro, assicurando che i due Testamenti assicuravano le medesime certezze. Dopo di che passa ad interpretare l'Apocalisse, l'ultimo libro del Nuovo Testamento, e anche qui ritrova a suo modo di dire la continuità dell'intera storia della chiesa, passata, presente e futura. Gioacchino ha sempre sostenuto a chiare lettere di essere un interprete ispirato della Scrittura, piuttosto che un profeta, egli, infatti, rifuggì dal rappresentare il tempo finale con parole diverse da quelle direttamente tratte dalla Scrittura. Da questo concetto binario, F. elabora un "modello ternario", connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l'analisi teologico-iconografica delle lettere "ALFA" e "OMEGA". Dallo sviluppo di queste due concezioni basilari F. approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle "tre Età della Storia terrena", sostenendo che se c'era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio, allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, che procede da Padre e dal Figlio. La scansione del tempo che l'abate di Fiore elabora si basa sulle tre epoche fondamentali: Età del Padre: corrispondente alle narrazioni dell'Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda; Età del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall'avvento di Gesù; Età dello Spirito Santo: estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del "millennio sabbatico", ovvero quel periodo in cui l'umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. L'età dello Spirito ricomprende le età precedenti in un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l'uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e s-secondo alcune interpretazioni- il ricongiungimento di cristiani ed ebrei, fino ad ora divisi dalla parziale illuminazione di Antico e Nuovo Testamento.  Con tale teorema F. estende il tempo della storia, proponendo la dilazione del tempo della salvezza. F. elabora pertanto, prima il modello dell'albero dei due avventi, poi i tre alberi, quello sviluppato nell'età del Padre, quello sviluppato nell'età del Figlio e quello che si svilupperà nell'età dello Spirito Santo. F. crede di vivere nella fase finale di una sesta età, cui ne seguirà una settima e ultima, tutta intrastorica, fatta dell'incremento dei doni dello Spirito fino al compimento del sabato eterno, stagione della pienezza della grazia donata. Nell'età dello Spirito l'etica non ha più il carattere punitivo e rigido dell'età del Padre: il disvelamento è una progressiva apertura verso un Dio benevolente, essenzialmente Amore, in cui si muove da una Padre dell'Antico Testamento, che è giudice/Dio guerriero/padrone dell'uomo e della natura severo-vendicativo e misterioso/trascendente, al Figlio che dona la vita per la salvezza dell'uomo mostrandosi come Amore e Verità, allo Spirito che completa questa dimensione rivelata.  L'inesorabilità della storia, secondo Gioacchino, è data da un ossessionante computo delle generazioni, che a volte valgono un'estensione di tempo a volte no. Con questo meccanismo complesso elabora una sorta di "linea del tempo", che va dalla "Genesi" al "Giudizio Universale". I due capi segnano i confini estremi della storia della salvezza che si sviluppa all'interno di questa linea del tempo. Gioacchino si chiede quanto è lunga questa linea del tempo e a quale punto di questa linea egli si trova, quindi da qui sviluppa una serie di calcoli e combinazioni teologiche del tutto originali. Lerner sostiene che "Nella sua visione, ciò poteva essere conseguito soltanto con lo studio il più approfondito della Scrittura ed egli si sentiva fiducioso che, mediante nuove strategie di lettura, sarebbe stato in grado di portare alla luce messaggi predittivi della Scrittura, che sino ad allora erano rimasti segreti." Tutta la sua attività ha finito per qualificarlo come un ambizioso pensatore cristiano, ricercatore irrefrenabile di parallelismi, allusioni e predizioni. Il filosofo Giraldi sottolinea invece l'aspetto in cui F. parla di età dello spirito riferendosi esplicitamente ad un ordo spiritualis monachorum, una sorta di chiesa privilegiata di monaci - spiriti superiori - in seno alla Chiesa di Cristo, e quindi non una chiesa alternativa.  Nel suo Monasterium delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione che mette in crisi l'organizzazione della chiesa che condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere nel concilio Lateranense: per l'affermazione di un disvelamento progressivo di Dio in tre epoche che mette in crisi l'idea dell'Unità delle Tre Persone divine, per la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un'età di perfezione.  Monasterium All'interno dei suoi ossessionanti calcoli cronosofici e millenaristi F. elabora anche uno schema di vita religiosa per il tempo futuro, quello dello Spirito, riassunto nella tavola del Liber Figurarum. Esso descrive una congregazione religiosa, raggruppata in un insediamento denominato Monasterium, formata da persone con diversa spiritualità, raggruppate sapientemente in sette oratori[1]:  Oratorio della Santa Madre di Dio e della Santa Gerusalemme: in tale oratorio si trova l'abate Oratorio di San Giovanni Evangelista: dedicato alla vita contemplativa Oratorio di San Pietro: dedicato agli anziani o ai deboli di salute, lavori manuali leggeri Oratorio di San Paolo: dedicato allo studio Oratorio di San Stefano: dedicato a chi ha inclinazione per la vita attiva Oratorio di San Giovanni Battista: per sacerdoti e clerici Oratorio del santo patriarca Abramo: per laici coniugati e le loro famiglie Al Monasterium potevano quindi partecipare laici coniugati e non, clero secolare e conventuale, monaci spirituali. Tutti vivono sotto la guida di un unico abate che presiede l'istituto religioso, disponendo e regolando, per i gruppi e per ognuno, una sorta di scala d'accesso al Paradiso, da conquistare vivendo nella comunità. L'insediamento religioso è strutturato a modello di nuova Gerusalemme terrena con schema somigliante alla Gerusalemme dei cieli. Il Monasterium gioachimita delinea diversi aspetti comportamentali e sociali che rispettati saranno utili a varcare la porta d'accesso alla vita eterna. Il passaggio da un oratorio ad un altro si conquista glorificando il Padre eterno, ognuno per le proprie possibilità e a seconda del grado spirituale concesso ad ogni singolo individuo da Dio. Il progresso spirituale non è precluso a nessuno, per cui tutti possono aspirare ad accedere al Paradiso.  Il modello proposto dal Monasterium rappresentò una rivoluzione per due aspetti:  esso affranca ampi strati della società sia dalla feudalità ecclesiastica sia da quella "baronale"; esso coinvolgeva tutti i modelli religiosi integrando nel Monasterium perfino i laici, che al tempo erano ai margini della vita religiosa e della società civile. Questo modello monastico fu quindi osteggiato anche all'interno della chiesa del XIII secolo.  Diffusione del pensiero gioachimita Concilio Lateranense e prime reazioni La complessa e innovativa teologia della storia generò tensioni, specialmente nella scuola teologica di Parigi, storicamente a lui avversa. Il Concilio Lateranense IV dichiara ERETICHE alcune frasi contro Lombardo di un'opera sulla Trinità falsamente attribuita a F. Da questo equivoco se ne generarono altri, fintantoché lo stesso Papa Innocenzo III con bolla informa il vescovo di Lucca di non infamare l'abate F., giacché l'Abate è considerato dalla Curia Romana un vero Cattolico (eum virum catholicum reputamus). Con parole dello stesso tenore si espresse Papa Onorio III con la Bolla con cui dà mandato all'arcivescovo di Cosenza (Luca Campano) di difendere i Monaci Florensi dalle false accuse rivolte al loro fondatore.  Neo Gioachimiti e il Gioachimismo Lo stesso argomento in dettaglio: Gioachimismo. Nei secoli, il pensiero di F. è stato studiato, divulgato e diffuso. Si possono distinguere due gruppi di studiosi:  i gioachiniani e gioachimiti, che hanno rispettato fedelmente le opere originarie; gli pseudo gioachimiti o gioachimisti, che hanno recepito solo in parte le tesi proposte, spesso aggiungendo teoremi teologici estranei al pensiero originario. Tra i più grandi sostenitori dell'abate calabrese furono certamente i monaci florensi che ne seguirono la dottrina e l'esempio, ma egli suscitò interesse anche presso alcuni monaci cistercensi tra i quali:  Luca Campano: il primo dei seguaci eloquenti, egli fu scriba dell'abate nell'abbazia di Casamari, poi abate della Sambucina e infine Arcivescovo di Cosenza; a lui si ascrive una “vita” di Gioacchino Raniero Da Ponza: monaco vissuto a stretto contatto con F., come “socio”, a Pietralata e a Fiore; egli fu poi nominato da Papa Innocenzo III legato Apostolico in Francia meridionale e Spagna e in quelle terre diffuse la teologia di F., spargendo in quelle terre diversi semi che germineranno nel corso del secolo XIII. l'abate Matteo da Fiore de la Tuscia, che fu il suo primo successore e guidò la Congregazione Florense, finché non fu eletto arcivescovo di Cerenzia. Egli ebbe il merito di far copiare, ricopiare, ovvero duplicare tante volte tutte le opere di Gioacchino per diffonderle nei principali centri religiosi della penisola italiana e in tutta Europa. Se le opere di F. sono giunte fino ai nostri giorni gran merito va all'abate Matteo da Fiore e agli scriba e amanuensi florensi che si adoperarono in questo immane lavoro di copiatura e duplicazione. La teologia di F. grazie a questi tre uomini si diffuse rapidamente, specialmente presso i Francescani spirituali francesi e italiani in vario modo. Tra questi:  Il provenzale Ugo de Digne, Giovanni da Parma, discepolo di Ugo e Gerardo di Borgo San Donnino, discepolo a sua volta di Giovanni da Parma, che si fece promotore del concetto relativo al Vangelo Eterno; scomunicato per eresia, fu condannato al carcere a vita Tra gli altri, si avvicinarono al pensiero di Gioacchino:  Salimbene de Adam da Parma, l'inglese Ruggero Bacone, la suora dell'ordine delle Umiliate Guglielma la Boema, la consorella Maifreda da Pirovano e il teologo laico di questo gruppo milanese Saramita, il francescano francese Pietro di Giovanni Olivi, che influenza Giovanni di Rupescissa e Giovanni di Bassigny. il provenzale Raymond Geoffroi, Ministro generale francescano. Ubertino da Casale, immortalato nelle pagine di Dante, era insieme a Pietro di Giovanni Olivi in Santa Croce a Firenze, il pesarese Clareno, riconosciuto fondatore dei Fraticelli della vita povera, e i seguaci di quest'ultimo, amico di Ubertino da casale. Michele da Cesena e Jacopone da Todi, l'eclettico spagnolo Arnaldo de Villanova, Francesco d'Appignano (Francesco della Marchia), Guglielmo di Ockham, Giovanni di Janduno, Marsilio da Padova, Bernard Délicieux, Gentile da Foligno, priore generale degli agostiniani. Berti da Calci. Papa Celestino V, Cola di Rienzo, il sassone Federico di Brunswick, lo spagnolo Francesc Eiximenis, Nicola di Buldesdorf, SAVONAROLA (si veda). Certo quest'elenco è solo una piccola parte di un numero molto più folto di uomini colti che sono stati influenzati dalla sua teologia.  Nonostante molti francescani spirituali abbiano subito condanne e reclusioni come filo gioachimiti o ritenuti tali, l'influenza di Gioacchino nell'ordine dei fraticelli d'Assisi rimase viva, sia nella prima fase sia nei periodi successivi. La prova più eclatante è la presenza di Gioacchino nell'arte medievale:  Nell'apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi, Nella Divina Commedia Gioacchino e le sue idee vengono citate direttamente o indirettamente diverse volte Paradiso, la struttura urbanistica che i francescani dettero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc. la struttura compositiva elaborata da Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina, secondo lo studio di Pfeiffer S.J. Anche nella Chiesa cattolica contemporanea, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, diversi osservatori individuano il fiorire della ecclesia spiritualis di concezione gioachimita. Secondo l'analisi accurata di Henri-Marie de Lubac, teologo gesuita e poi cardinale, fra questi protagonisti della storia recente influenzati dal gioachimismo abbiamo: papa Giovanni XXIII con la sua invocazione a <<una nuova Pentecoste», contrapponendo lo «spirito» del Concilio alla sua «lettera» e nuova Chiesa «spirituale» al posto di quella vecchia «carnale»; la <<Chiesa dei poveri>> del cardinale Giacomo Lercaro e del suo teologo Dossetti, la corrente intellettuale dominante nel cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo XX; Silone su papa Celestino V, «figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di gioachimismo»; la "teologia della speranza" del gesuita Michel de Certeau e del protestante Jürgen Moltmann, ispirate dalle concezioni escatologiche di Bloch. Obama fa di F. un punto di riferimento. Nella stesura della sua tesi di laurea, lo cita a più riprese durante la sua campagna elettorale per le presidenziali, che definisce come "maestro della civilta' contemporanea" e "ispiratore di un mondo più giusto", usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto "change we can", per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia, citando il portabandiera di una società più giusta, e pensando all'apertura di un'epoca straordinaria, in cui lo spirito riusce a cambiare il cuore degli uomini. Centro Studi F. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Il Centro Internazionale Studi Gioachimiti cura l'edizione critica delle opere scritte da F., conservate in diversi codici manoscritti sparsi in diversi luoghi del mondo. Esso opera attraverso un Comitato Scientifico Internazionale e un Comitato Editoriale Internazionale e promuove ogni cinque anni un Congresso Internazionale di Studi a tema, relativo a F. e al F. Gioachimismo. A cadenza annuale stampa la rivista Florensia che contiene studi connessi a Gioacchino e al Gioachimismo.  Causa di Beatificazione e celebrazioni dell'VIII centenario della morte. L’arcivescovo di Cosenza-Bisignano Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione. Nello stesso anno il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha istituito il Comitato per le celebrazioni dell'VIII centenario della morte dell'Abate F. per promuovere la conoscenza di F. e del suo pensiero. Il programma fu redatto da Cosimo Damiano Fonseca, Professore di Storia Medioevale all'Università degli Studi di Bari, Accademico dei Lincei e direttore del Comitato scientifico del Centro Studi F. Il comitato che ha agito, ha promosso tre congressi:  il primo itinerante da Roma a San Giovanni in Fiore, passando per Casamari, Fossanova, Anagni, Cosenza, Luzzi e Pietrafitta, il secondo a Bari, il terzo a Palermo. Il Comitato per le Celebrazioni ha anche promosso l'edizione della raccolta dei Codici Gioachimiti F., l'Atlante delle Fondazioni Florensi, un libro sulle vicende dell'Ordine Florense, un altro relativo ai Vaticini, conservati presso la biblioteca del duomo di Monreale. F. e il Carattere Meridiano del Movimento Francescano in Calabria Editor il testo Luca Parisoli  Valente "Chiese conventi confraternite e congreghe di Celico e Minnito" Frama Sud ^ Pasquale Lopetrone, La Domus che dicitur mater omnia, soveria Mannelli, Rubbettino. Il tempo dell'apocalisse, Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri, San Giovanni in Fiore, Pubblisfera, Gioacchino da Fiore - Manuale di storia della filosofia medievale ^ S. Magister, Riletture. Su F. non tramonta mai il sole, chiesa.espressonline.it, Filmato audio Giraldi, Giraldi: dialogo con De Lubac su Gioacchino Da Fiore, su YouTube, H. De Lubac, Posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, II. Da Saint-Simon ai nostri giorni", Jaca Book, Milano, L'eretico obamita-Il profeta democratico si ispira a F,, mistico medioevale Con la sua idea (fraintesa) del paradiso in terra aveva irretito la modernità, su il Foglio, di Mattia Ferraresi USA: DON BAGET BOZZO, INTERESSANTE CHE OBAMA CITI F.-una finezza culturale che vorrei capire meglio, di don Gianni Baget Bozzo, a Adnkronos, Roma. Bibliografia: Gioacchino da Fiore, Sull'Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra), Feltrinelli, Milano, F., Introduzione all'Apocalisse, (prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1996. F., Commento ad una profezia ignota, (a cura di Matthias Kaup, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma. F., Trattato sui quattro vangeli, (a cur. Potestà, traduzione di Letizia Pellegrini), Viella, Roma, 1999. F., Dialoghi sulla prescienza divina e predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca Potestà), Viella, Roma. F., Il Salterio a dieci corde, (a cura di Troncarelli), Viella, Roma, F., Sermoni, (a cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma. F., I sette sigilli/De septem sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo Gatto), con un saggio di Tagliapietra, Mimesis, Milano, Studi Antonio Maria Adorisio, La “leggenda” del santo di Fiore / Beati F. abbatis miracula, Vechiarelli, Manziana, Buonaiuti, Gioacchino da Fiore: i tempi, la vita, il messaggio, Collezione meridionale, Roma, Carmelo Ciccia, ALIGHIERI (si veda) e F., in “La sonda”, Roma; poi incluso nel libro dello stesso autore Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, Carmelo Ciccia, Dante e F., con postfazione di Ronconi, Pellegrini, Cosenza. Carmelo Ciccia, La santità di F. (Par. XII), in Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori: F...., Pellegrini, Cosenza, Luigi Costanzo, Il profeta calabrese, Direzione della Nuova Antologia, Roma, Crocco, F. e il gioachimismo, Liguori, Napoli, Francesco D'Elia, Gioacchino da Fiore un maestro della civiltà europea- antologia dei testi gioachimiti tradotti e commentati-, Rubbettino, Soveria Mannelli, Valeria de Fraja (a cura di), Atlante delle fondazioni Florensi, vol. II, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, Valeria de Fraja, Oltre Cîteaux. F. e l'ordine florense, Viella, Pietro De Leo, F.: aspetti inediti della vita e delle opere, Rubbettino, Soveria Mannelli, Henri de Lubac, La posterità spirituale di F., Jaca Book, Milano, Foberti, F., Sansoni, Firenze Gabrieli, Una Fiamma che brilla ancora, La Fama sanctitatis dell'Abate Gioacchino, Comet Editor Press, Cosenza, Grundmann, Studien uber Joachim von Floris, Leipzig-Berlin, Herbert Grundmann, Gioacchino da Fiore. Vita e opere, a cura di G. L. Potestà, traduzione di S. Sorrentino, Viella, Pasquale Lopetrone, Monastero di San Giovanni in Fiore-Repertorio del cartulario, S. Giovanni in Fiore, Edizioni Pubblisfera, 1999. Pasquale Lopetrone, La cripta dell’archicenobio florense: strutture originarie e superfetazioni storiche, in «Florensia», Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Comunicazioni al 5º Congresso Internazionale di Studi F. – San Giovanni in Fiore-Settembre 1999, Gioacchino da Fiore tra Bernardo di Clarvaux e Innocenzo III», Edizioni Dedalo, Bari, Pasquale Lopetrone, La chiesa abbaziale florense di San Giovanni in Fiore, Librare, Pasquale Lopetrone, La localizzazione del protomonastero di Fiore. Cronaca dell’attività ricognitiva in «Florensia», Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Pasquale Lopetrone, Il proto monastero florense di Fiore, origine, fondazione, vita, distruzione, ritrovamento, in «Abate Gioacchino» Organo trimestrale per la causa di canonizzazione del Servo di Dio Gioacchino da Fiore, Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone, La «Domus que dicitur mater omnium» - Genesi architettonica del proto Tempio del Monasterium florense, in (a cura di) C. D. Fonseca, D. Rubis, F. Sogliano, Jure Vetere. Ricerche archeologiche nella prima fondazione monastica di Gioacchino da Fiore, Rubettino, Soveria Mannelli, Pasquale Lopetrone (a cura di), Atlante delle fondazioni Florensi, vol. I, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, P. Lopetrone, L’architettura florense delle origini, in AA. VV., F., Librare, S. Giov. in F. Pasquale Lopetrone, La chiesa dell’archicenobio florense di San Giovanni in Fiore- Cronologia, in «Abate Gioacchino» Organo trimestrale per la causa di canonizzazione del Servo di Dio F., Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone, Il modello della Chiesa Florense sangiovannese, in (a cura di) C. D. Fonseca, I Luoghi di Gioacchino da Fiore- Atti del primo Convegno internazionale di studio- Casamari, Fossanova, Carlopoli-Corazzo, Luzzi-Sambucina, Celico, Pietrafitta- Canale, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Viella, Roma, Pasquale Lopetrone, Il Cristo fotoforo florense Pubblisfera, F., Pasquale Lopetrone L'effigie dell'abate Gioacchino da Fiore, in VIVARIUM - Rivista di Scienze Teologiche, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (Cs) Pasquale Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (CS) Pasquale Lopetrone, Le prime fondazioni florensi in D. Dattilo (a cura di), Agger bruttius. Civiltà dell’interno, Ferrari editore, Rossano,  Stella Marega, Un simbolo nella storia. Il contributo alla riscoperta di F. in Sacrum Imperium, in Heliopolis. Culture, civiltà, politica, Marega, F., in Heliopolis. Culture, civiltà, politica, H. W. Pfeiffer, La Sistina Svelata, Libreria Editrice Vaticana, Roma, Piccoli, «L'Abbazia di Corazzo e Gioacchino da Fiore», Calabria Edizioni, Lamezia Terme, Piromalli, Gioacchino da Fiore e Dante, Rubbettino, Soveria Mannelli, Gian Luca Potestà, Il Tempo dell'apocalisse - Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza, Bari, Prisco, Nuove scoperte sulle figure, sulle parole e sulle pietre di Gioacchino da Fiore, Pubblisfera Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Dimensione Grafica Editrice, Marjorie Reeves e Warwick Gould, Gioacchino da Fiore e il mito dell'evangelo eterno nella cultura europea, Viella, Riedl (ed.), A Companion to Joachim of Fiore, Leiden, Brill, Francesco Russo, Bibliografia gioachimita, L. S. Olschki, Firenze, Staglianò, L'abate calabrese: fede cattolica nella Trinità e pensiero teologico della storia in F.; presentazione di Gianfranco Ravasi, postfazione di Piero Coda, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, Andrea Tagliapietra, Gioacchino da Fiore e la filosofia, il Prato, Saonara, Leone Tondelli, Il libro delle figure dell'abate F. in collaborazione con Marjorie E. Reeves e Beatrice Hirsch-Reich), S.E.I., Torino. Troncarelli, Il ricordo del futuro-Gioacchino da Fiore e il gioachimismo attraverso la storia, Adda Editore, Ordine Florense Abbazia Florense Ernesto Buonaiuti Herbert Grundmann Leone Tondelli Antonio Piromalli Gioachimismo Giovanni apostolo ed evangelista Riforma spirituale medioevale. Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata F., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. F. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Raniero Orioli, Gioacchino da Fiore, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Gioacchino da Fiore, su ALCUIN, Università di Ratisbona. Opere di F. / F. (altra versione), su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet Archive. Bibliografia su F., su Les Archives de littérature du Moyen Âge. F. Catholic Encyclopedia, Appleton, F. Santi, beati e testimoni, santiebeati.it.Centro Studi F., su centrostudi F. .it. Lettera dal Vaticano Neo-F., su stereo-denken.de. F. e i “duo viri”. Una profezia per immagini, su esplorazioni cosentine  I TEMPI   Il mezzogiorno d'Italia Le condizioni politiche . Normanni . Bizantini. " Musulmani. Svevi ;. “I Pontefici. Le condizioni religiose Tradizioni bizantine. MonachiSmo benedettino . Riforma cisterciense. Gli Ebrei in Calabria. H 4   PLA VITA   La leggenda e la storia. Le fonti canoniche. Luca. Giacomo Greco. La   leggenda ufficiale. Accenni autobiografici. La vocazione monastica. Il monachiSmo del tempo. La conversione profetica. I cronisti britannici. Le opere. Da Casamari a F. IL MESSAGGIO   La profezia gioachimita. Metodo.La conoscenza biblica. L’interpretatazione allegorica. Concordie e analogie.  L’escatologia di F. gioachimita e la teologia economica. La Trinità nella storia. Il passato, il presente,   l’avvenire. L’avvento del terzo stato. La Chiesa carnale, la società spirituale. La scomparsa della Chiesa visibile. La suprema manife¬  stazione dello Spirito. Chiesa di oggi e Chiesa di ,  »domani.  IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO  NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI Archivio Storico per le Province Napoletane, SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA  NAPOLI IPOTESI GIOACHIMITE SUGL’AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI Mais si l'on voit partout des métaphores  que deviendront les faits?   Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet  Una delle più suggestive ipotesi in ordine alle motivazioni  della costruzione della grandiosa chiesa esterna del monastero di  S. Chiara a Napoli ed al possibile modello della pianta è stata  avanzata, nel 1995, da Caroline Bruzelius Secondo questa tesi  Sancia d'Aragona Maiorca, moglie di re Roberto d'Angiò, avrebbe  fondato la basilica ed il convento doppio di S. Chiara per ospitarvi  i «Francescani spirituali», vale a dire i frati appartenenti ad una  frangia rigorista e pauperista dell'Ordine minoritico, avversata dal  Papato e dalla dirigenza dell'Ordine stesso. I Francescani spirituali  si richiamavano, in particolare, anche alle idee del mistico calabrese F., per sostenere la necessità  di una radicale riforma della Chiesa La basilica di Santa Chiara,  dunque, sarebbe stata «consacrata» intenzionalmente all'ideale  della povertà apostolica 3 , così che le idee degli Spirituali avrebbero  costituito, in sostanza, l'unica giustificazione del progetto e la sola Bruzelius, Queen Sancia ofMallorca and the convent church ofS.ta Chiara  in Naples, in «Memoirs of the American Academy in Rome», 40, 1995, pp. 82ss.;  E ad., Le pietre di Napoli. L'architettura religiosa nell'Italia angioina, 1266-1343,  Roma, Viella, 2005, pp. 150-175, edizione integrata rispetto alla precedente inglese  dal titolo The stones of Naples, Church Building in Angevin Italy, London, Yale, ove le ipotesi avanzate nel 1995 vengono riprese, ribadite ed articolatamente argomentate. Si denominavano «spirituali» appunto perché viri spirituales, e cioè eletti  destinati a vivere il terzo stato della storia, quello dello Spirito, così come teorizzato  da F.. Bruzelius, Le pietre, eh.GAGLIONE   chiave di lettura dell'edificio. Esisterebbe, in particolare, un preciso rapporto tra la semplicissima pianta rettangolare della basilica  napoletana ed una delle figurae del Liber figurarum, una raccolta di  schemi miniati utilizzati sia per l'esplicazione delle teorie storico-  teologiche di Gioacchino che per l'esercizio di pratiche contemplative e mistiche. La pianta rettangolare della chiesa napoletana  costituirebbe così, secondo tale tesi, una vera e propria citazione  della figura XVIII del codice del Seminario urbano di Reggio Emi-  lia del Liber 4 . L'area presbiteriale della basilica con il coro dei frati  sarebbe stata, anzitutto, ricalcata sullo spazio simbolico corrispon-  dente nella figura al Tertius status, quello dello Spirito Santo, nel-  l'ambito della settima ed ultima Età della storia del mondo. In  questa stessa Età si sarebbe giunti a quella rigenerazione della  Chiesa 5 che era tanto attesa e propagandata dai Francescani spirituali. L'oratorio delle Clarisse, invece, avrebbe occupato lo spazio  riservato, sempre nel diagramma gioachimita, Poetava aetas, quel-  la ormai metastorica iniziata con la Resurrezione dei morti e carat-  terizzata dalla rivelazione della Gerusalemme celeste e dalla finale  visione della Pace. Tale tesi, pur avendo conseguito un ampio consenso 6 , ha susci-  tato altresì rilievi e critiche soprattutto con riguardo agli effettivi  contenuti del filospiritualismo dei due sovrani ed alla verosimi-  glianza storica della pretesa celebrazione monumentale, nella basi- Cfr. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure del-  l'abate Gioachino da Fiore, Torino, SEI, 1953, voi. II, tav. XVIIIa.  Bruzelius, Le pietre, Cfr. infatti M. Righetti Tosti Croce, Architettura tra Roma, Napoli e  Avignone nel Trecento, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di Curia, Arte di Corte, a cur. Tornei, Torino, SEAT; Musto,  Franciscan Joachimism, at the court of Naples: a new appraisal, in «Archi-  vimi Franciscanum Historicum»; Freigang, Kathedralen  ah Mendikantenkirchen. Zur politischen Ikonographie der Sakralarchitektur unter Karl  L, Karl IL und Robert dem Weisen, in Medien der Macht: Kunst zur Zeit der Anjous in  Italien, Berlin, Reimer, 2001, pp. 51-52; V.M. Mattano, La Basilica angioina di S.  Chiara a Napoli. Apocalittica ed escatologia, Napoli, La Città del Sole; C.  Bozzoni, Recensione a C. Bruzelius, Le pietre di Napoli..., in «Palladio». Analogamente a quanto si sarebbe verificato per S. Chiara a  Napoli, la simbologia gioachimita della Figura delle Età del mondo avrebbe anche  ispirato, direttamente o indirettamente, le piante di alcune chiese francescane della  Calabria a partire da S. Francesco a Gerace, e cfr. M. Albano, L'Abbazia florense di  S. Maria di Fontelaureato a Fiumefreddo Bruzio, in «Arte Medievale»; Spanò, Insediamenti Francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace,  Soveria Mannelli, Città Calabria edizioni, 2006, pp. 80ss. IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO lica napoletana, della teoria della storia elaborata da F. e  sostenuta dagli Spirituali 7 .   Comunque, altre conferme della tesi della derivazione gioachi-  mita della pianta della chiesa francescana sono state individuate, più  di recente, nell'ambito di una importante e preziosa monografia  dedicata all' attività di Giotto a Napoli 8 . Nel saggio appena menzio-  nato, seguendo la lettura proposta dalla Bruzelius, si sostiene che,  conformemente allo schema della Figura XVIII del Liber, che viene  definita «tavola di concordanza (Concordia) fra i secoli e i tempi,  con i tre stati e le otto età» 9 , Giotto e la sua bottega, riferendosi al  Nuovo Testamento, abbiano dipinto alcuni episodi della Vita di  Cristo nelle cappelle della navata sinistra della basilica. In quelle  poste nella navata destra, invece, il Maestro avrebbe realizzato  scene dell'Antico Testamento, ed, in particolare, Storie di Adamo,  Noè, Abramo e Davide e, forse, anche della Creazione, di Giuseppe,  di Mosè, di Sansone e di Salomone. Nelle cappelle di entrambe le  navate queste scene sarebbero state articolate in quattro o, addirit-  tura, in sei riquadri per ciascuna cappella 10 .   E evidente che l'interpretazione della Figura del Liber nei ter-  mini appena esposti viene ad essere principalmente addotta quale  conferma «esterna» della notizia, riferita da Vasari, secondo  la quale Giotto, appena giunto a Napoli da Firenze «dipinse in  alcune capelle del detto monasterio di S. Chiara molte Storie del-  l'Antico Testamento e Nuovo» 11 . Questa stessa notizia è stata in- Per tali critiche si rinvia a M. Gaglione, Qualche ipotesi e molti dubbi su due  fondazioni angioine a Napoli: S. Chiara e S. Croce di Palazzo, in «Campania sacra»; Id., Allusioni gioachimite nella basilica angioina di Santa Chiara a  Napoli?, in «Studi storici; Id., La basilica ed il monastero  doppio di S. Chiara a Napoli in studi recenti, in «Archivio per la Storia delle Donne»,  4, 2007, pp. 127-198.   8 P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli, Electa, 2006, pp. 125ss., il  quale riprende anche osservazioni di Mattano, La Basilica angioina di S. Chiara a  Napoli, cit., pp. 49ss.; pp. 83ss.; pp. HOss.   9 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 116, fig. 64. Castris, Giotto a Napoli, L'Edizione Giuntina delle Vite (1568) precisa: «Dopo, essendo Giotto  ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo  primogenito, il quale se trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto  a Napoli, perciò che, avendo finito di fabricare S. Chiara, monasterio di donne e  chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata. Giotto adunque,  sentendosi da un re tanto lodato e famoso chiamar e, andò più che volentieri a  servirlo, e giunto dipinse in alcune capelle del detto monasterio molte storie del  Vecchio Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse ch'e' fece in una di dette GAGLIONE vece oggetto di ampio dibattito, non essendo mancato infatti chi,  sulla base di varie considerazioni, ha circoscritto l'intervento di  Giotto piuttosto al solo coro delle Clarisse, escludendo che il Maestro abbia potuto operare anche nelle cappelle della chiesa esterna di  S. Chiara 12 . Infine, sempre nell'ambito della citata monografia, si è  sostenuto che la derivazione della pianta della basilica dalla menzio-  nata Figura risulterebbe più che probabile, poiché lo stesso Liber  Figurarum sarebbe stato ben conosciuto alla corte angioina. Infatti,  alcuni testimoni dell'opera e, in particolare, i manoscritti Vaticano  Latino 3822 e 4860, risulterebbero di fattura meridionale proprio  come il codice di Oxford, forse miniato nello scriptorìum di S. Giovanni in Fiore. In particolare, le miniature del ms. Vat. Lat. 4860  rinvierebbero «alla speciosa cultura umbro-cavalliniana maturata a  Napoli» da Lello da Orvieto, Cristoforo Orimina e dall'anonimo Maestro delle Tempere Francescane. Ad  ogni modo, Sancia e Roberto avrebbero potuto conoscere l'opera an-  che in Provenza e nella Francia meridionale, ove si trovarono in di- capelle furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono  anco quelle tanto lodate d'Ascesi delle quali si è di sopra abastanza favellato; e se  ben Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene  fra gl'amici, ragionamento». L'Edizione Torrentiniana (1550) invece: «Fu chiamato  a Napoli dal re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata  da lui, alcune cappelle nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si  veggono, dove ancora in una cappella sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli,  per quanto si dice, da Dante, fuoruscito allora di Firenze e condotto in Napoli  anch'egli per le parti», e cfr. l'edizione digitale sinottica curata del Centro di Ricerche  Informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, biblio . cribecu . sns . it/vas ari/consult azione/V as ari/indice. Cfr. Aceto, Pittori e documenti della Napoli angioina: aggiunte ed espun-  zioni, in «Prospettiva». Per l'esame e la discussione delle diverse  posizioni: Leone de Castris, Giotto a Napoli, che, riguardo agli altri  dipinti realizzati da Giotto a S. Chiara, ritiene che nell'area presbiteriale della chiesa,  alle spalle dell'altare maggiore e del coro dei frati ed in corrispondenza della Croce  della Deposizione affrescata dall'altra parte del muro nel coro delle Clarisse, dovesse  invece essere l'Apocalisse ricordata dallo stesso Vasari. Questo grande affresco era  stato probabilmente eseguito nei due riquadri posti ai lati della quadrifora centrale che  si apre nella parete divisoria tra la chiesa esterna e l'oratorio delle monache. Proprio  sulla stessa parete divisoria, dal lato dell'oratorio, era affrescato appunto il" Compianto  sul Cristo morto e le altre storie cristologiche, tra le quali, verosimilmente, una  Resurrezione ed un Cristo giudice. Infine, tornando alla chiesa esterna, anche il para-  petto delle tribune era affrescato ma con figure di Angeli e di Profeti, mentre le pareti  superiori, probabilmente, non erano dipinte Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 146, figg. 115-116.verse occasioni ed ove, appunto, i diagrammi gioachimiti erano certa-  mente diffusi. E fin qui l'importante contributo sulla presenza e sull'attività  di Giotto a Napoli.   Partendo dall' asserita fattura meridionale dei citati codici Va-  ticani Latini, fattura che costituirebbe un indizio della possibile  circolazione degli stessi a Napoli e presso la corte angioina, occorre  rilevare che l'origine e la datazione di questi manoscritti è partico-  larmente controversa. Mentre il ms. Vat. Lat. 4860 è stato variamente datato tra il secolo XIII e la prima metà del secolo XIV, e lo  si è altresì ritenuto «codice di ambiente benedettino-olivetano pa-  dovano» opera di un miniatore bolognese, il ms. Vat. Lat. 3822 è  stato invece datato piuttosto concordemente alla fine del secolo  XIII, mentre ne è dibattuta l'area di produzione: Parigi o l'area  francese^ l'area genericamente italiana, o più specificamente sici-  liana 14 . E necessario ricordare poi che il ms. Vat. Lat. 4860 non  contiene la Figura delle «Sette età», dalla quale si pretende sia stata  ricavata la pianta di S. Chiara e sia derivato il soggetto degli affre-  schi che sarebbero stati eseguiti da Giotto nella chiesa esterna 15. La  stessa Figura manca poi anche nel ms. Vat. Lat. 3822 16 . La suppo- Quanto al ms. Vat. Lat. 4860, contenente estratti da opere diverse di  Gioacchino, la datazione al secolo XIII è stata sostenuta da Bignami Odier, Hirsch  Reich, Reeves e Daniel, che lo assegnano ad un estensore francescano. La datazione  alla prima metà del secolo XIV, invece, è stata sostenuta da Kaup, Troncarelli e De  Fraja. In particolare, Wessley e Troncarelli parlano di «codice di ambiente bene-  dettino-olivetano padovano» opera di un miniatore bolognese. Quanto all'origine  del ms. Vat. Lat. 3822, contenente anch'esso opere varie di Gioacchino, Troncarelli  propende per Parigi o per l'area francese, mentre Bignami Odier, Hirsch Reich e  Reeves propendono genericamente per l'area italiana, infine, all'area siciliana pensa  Patschovsky, e cfr. M. Rainini, Disegni dei tempi. Il «Liber Figurarum» e la teologia  figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma, Viella, Questo codice, infatti, ai ff. 198r-204v, comprende un abbozzo del dia-  gramma delle Rotae di Ez. 1, e dei diagrammi degli alberi delle generazioni discen-  denti, del drago apocalittico, del misterium ecclesiae, dei tre cerchi trinitari, della  dispositio novi ordinis, degli alberi-scala rappresentativi dei tre status e, di nuovo, dei  cerchi trinitari, ed è accompagnato da cinque fogli vuoti che avrebbero potuto  accogliere almeno altre dieci tavole di diagrammi, circostanza questa che conferma  che l'opera non era stata portata a termine, e rende improbabile l'eventuale suppo-  sizione di un testo incompleto perché privato, nel corso del tempo, di alcune delle  tavole originarie, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, II codice, infatti, ai ff . 2v-3r, 4v-5r, 7r-8r, reca i diagrammi delle genera-  zioni ascendenti, del draco magnus et rufus, del tetragrammaton e diverse versioni dei  tre cerchi, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit., pp. 272-273. sizione dell'esecuzione delle miniature in ambiente meridionale non  può inoltre implicare necessariamente anche una diffusione del Li-  ber alla corte angioina. Quanto infine alla possibile conoscenza del-  l'opera da parte dei sovrani nel periodo in cui si trovarono in Fran-  cia, si tratta di una mera ipotesi, non suffragata, allo stato, da alcun  indizio o prova.   C'è in realtà da chiedersi se effettivamente la più volte citata  Figura XVIII del codice Reggiano del Liber abbia i contenuti «con-  cordistici» che vi sono stati da ultimo individuati.   Occorre anzitutto premettere che per «concordia», nell'ambito  delle opere e delle teorie di Gioacchino, deve intendersi «la corri-  spondenza simmetrica tra gli avvenimenti narrati nell'Antico Testa-  mento per il popolo di Israele e quelli raccontati e prefigurati nel  Nuovo Testamento... per il nuovo Israele della Chiesa.   La Figura in esame del Liber Figurarum reca, al centro, il già  citato diagramma rettangolare e, ai margini, un testo fittamente  manoscritto. Tale testo, la cui traduzione può leggersi  in appendice a questa nota, è tratto dal libro V della Concordia Novi  ac Veteris Testamenti, opera di F. tradita dal codice Urbinate Latino 8 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Più  precisamente è riportato il passo posto tra la I e la II distinctio,  destinato ad essere illustrato da una Figura esplicativa che manca  nel manoscritto Urbinate Latino, e che viene in genere identificata  proprio nella citata tavola XVIII del Liber Figurarum.   Orbene, il libro V della Concordia, dal quale è desunto il com- Rainini, Disegni dei tempi. La più nota definizione gioachimita  della concordia è la seguente. Concordiam proprie dicimus similitudinem eque  proportionis novi ac ueteris testamenti, eque dico quo ad numerum non quo ad  dignitatem; cum uidelicet persona et persona, ordo et ordo, bellum et bellum ex  parilitate quidam mutuis se uultibus intuentur», e, cioè, «chiamiamo propriamente  «concordia» la somiglianza di equa proporzione di Nuovo e Antico Testamento, e  dico equa per quanto riguarda il numero, non per quanto riguardo la dignità: come  se per una certa parità fossero rivolti l'uno di fronte all'altro persona e persona,  ordine e ordine, guerra e guerra», e cfr. ancora Id., ivi, p. 20, p. 33, nota.   18 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, tav. XVIILz, tratta dal codice del Liber conservato presso il Seminario  Vescovile di Reggio Emilia, ms. RI = El. Il codice della Concordia precisa:  «in hac figura declaratur magnum mysterium pertinens quam nimis ad catholicam  fidem, e, precedentemente, «secundum quod ostenditur in presenti figura...».  Quale tavola XVIII£ Tondelli, Reeves ed Hirsch-Reich, pubblicano una variante  semplificata, forse «non finita», della stessa Figura, tratta dal codice del CORPUS CHRISTI (H. P. GRICE) Oxford (ms. 255 A), al f. 5r. Nello stesso codice tuttavia, al f.  8v, il diagramma ricompare in forma omogenea a quella della tavola XVIIIa del Fig. 1 - La figura XVIII del Liber figurarum (da Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich).   mento marginale alla nostra Figura, tratta delle storie principali  dell'Antico Testamento. Per esse viene proposta una interpreta-  zione fondata sull'esegesi spirituale, la quale, secondo F.,  avrebbe consentito anche di preconizzare gli avvenimenti storici  futuri. In altre parole, il libro V «è un lungo commentario sui libri  storici del Vecchio Testamento» 19 , ed «il suo contenuto è conside-  revolmente diverso» 20 da quello degli altri Libri della Concordia.  Infatti, è piuttosto nei precedenti libri, dal I al IV, che F.  procede effettivamente ad esaminare o a rinvenire i punti di «con-  cordanza» tra le vicende ed i personaggi narrati nell'Antico e nel  Nuovo Testamento. Nell'ambito del Liber Figurarum, nello stesso  codice di Reggio Emilia, poi, le figure concordatarie sono altresì  contenute piuttosto nelle tavole IX e X, e, soprattutto, nelle tavole  III e IV, da esaminare sinotticamente, ed appunto denominate Con-  cordia Veteris Testamenti et Novi. In particolare, in queste due  ultime tavole è tracciato un dettagliato raffronto tra i personaggi e  gli episodi dei due Testamenti, ad esempio tra Adamo ed Azarias,  Abramo e Zaccaria, Isacco o Elia e Giovanni Battista, Giacobbe e  Cristo e cosi via. Proprio per quanto appena rilevato la Figura XVIII  è stata quindi designata come tavola delle «Età del mondo» 22 , delle  «Sette età del mondo» ovvero delle «Sette età» 24 .  codice di Reggio Emilia, e cfr. Rainini, Il «Liber Figurarum» nel manoscritto Oxford,  Corpus Christi College, ms. 255 A (=0), in Id., Disegni dei tempi, cit.   19 A. Tagliapietra, Opere principali, in G. da Fiore, Sull'Apocalisse, Milano, Feltrinelli, Daniel, Abbott Joachim of Flore, Liber de Concordia Noui ac  Veteris Testamenti, Philadelphia, The American Philosophical Society, il quale, appunto, osserva: «not only is Book Five longer than the first four  Books together, but its content is considerably different from theirs». Le peculiarità  del libro V rispetto ai precedenti sono precisate dallo stesso Gioacchino: «etenim in  hiis quatuor libris parum agitur secundum spiritum, magis secundum litteram, hoc est  secundum concordiam littere et littere, scilicet duorum testamentorum...oportet nos  in hoc quinto libro de quibusdam gestis sollempnibus que occurrerint spiritualiter  agere ut ex multis testimoniis ostendamus laboriosos rerum fines et post magnos  agones et certamina pacem uictoribus impartiri» (ConcordiaTagliapietra, Opere principali Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, A. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav. XVIII (Biblioteca del  Seminario di Reggio Emilia). Le sette età del mondo, in L'Età dello Spirito e la fine  dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel Gioachimismo medievale, Atti del II congresso  internazionale di studi gioachimiti, S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di  Studi F., Rainini, Il «Liber Figurarum», cit., loc. ult. cit. La tavola XVIII del Liber ha infatti, principalmente, lo scopo  di illustrare la teoria escatologica della storia elaborata da Gioac-  chino ed incentrata sul susseguirsi di secula, tempora ed etates in  una prospettiva strettamente trinitaria, che conferisce unitarietà  alla storia stessa. Rifacendosi dunque innegabilmente alla divisione settenaria delle età della storia già teorizzata d’Agostino, F. colloca in modo originale la settima età, quella  cioè del raggiungimento della pax vera, della perfecta iustitia e della  plenìtudo veritatis et libertatis, entro il corso storico, aggiungendo  poi una Octava aetas quale «stadio finale ed eterno della storia  umana». Perciò la figura XVIII del Liber è suddivisa in un fregio  inferiore, rappresentante i sette secula dell'Età del Padre, in un  fregio superiore, che illustra i sette tempora dell'Età del Figlio, e  infine in una parte centrale raffigurante le sette Età del mondo, la  settima delle quali, corrispondente al momento storico in cui vive F. {tempus praesens), sarebbe sfociata nel Tertius sta-  tus dello Spirito Santo, cui, in conclusione, avrebbe fatto seguito,  appunto, Y Octava aetas 26.  Ma passiamo a leggere le brevi iscrizioni che illustrano il dia-  gramma rettangolare centrale della Figura XVIII, riprodotta nella  figura 1 posta a corredo di questa stessa nota. Occorre precisare che  il diagramma deve essere esaminato trasversalmente, nel senso del  lato maggiore del rettangolo, da sinistra a destra e dal basso all'alto,  mentre il testo tratto dalla Concordia e trascritto ai margini risulta  vergato in senso perpendicolare al diagramma stesso. Partendo dunque dal basso, rileviamo nell'ordine, nel fregio  inferiore {secula): primum seculum, Adam genera tiones X, secundum seculum, Noe generationes X, tertium seculum, Abraam generationes  X, quartum seculum, Booz generationes X, quintum seculum, Joiada generationes X, sextum seculum, ]eremia generationes X,  septimum seculum, Zacharia sacerdos, sabbatum, adventus Spiriti Sane ti, septima etas; initiatio primi stati, primum status, secundum status, tertium  status; Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, Cfr. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI) GAGLIONE nel fregio centrale (etates): Adam, Noe, Abraam, Davit, transmigratio Babilonie, lohannes  Baptista, presens tempus;   b) all'interno della tromba: clarificatio Filii, clarificatio Spiriti  Sancii;  e) Etas prima, etas secunda, etas tercia, etas quarta, etas quinta,  etas sexta, etas septima;   nel fregio superiore (tempora):  initium Romanorum, Hysaia propheta; initiatio secundi stati, primum tempus, Ozias generationes X,  secundum tempus, Zorobabel, tertium tempus, Christus genera-  tiones X, quartum tempus, generationes X, quintum tempus,  generationes X, sextum tempus, generationes X, septimum tempus; all'estremità destra del diagramma, dopo la linea divisoria:  etas octava, resurrectio mortuorum. Come può agevolmente notarsi, nessuna delle iscrizioni menziona specificamente l'Antico o il Nuovo Testamento; inoltre, per la  maggior parte, i personaggi citati, e cioè Adamo, Noè, Abramo,  Booz, Ioiadà, Geremia, Davide, Ozias, Zorobabele ed Isaia, rien-  trano nell'Antico Testamento e risultano variamente collocati lungo  tutto il diagramma, sia in basso che al centro, oltre che in alto. Solo  Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo rientrano nel Nuovo Testa-  mento. Tuttavia, mentre Cristo è indicato nel fregio superiore della  Figura, che, sovrapponendo la stessa alla pianta di S. Chiara, corrisponderebbe alla navata sinistra della basilica guardando l'altare  maggiore, Zaccaria, il sacerdote padre del Battista, è segnato nel  fregio inferiore, dal lato cioè della navata destra della chiesa. Giovanni Battista, infine, è indicato nel fregio centrale, nei pressi della  tuba, della tromba apocalittica. Quindi, le iscrizioni appena riportate, così come il testo marginale della Concordia, non consentono di  affermare che la Figura XVIII abbia prevalentemente contenuti  concordistici, ovvero che la stessa traduca graficamente concordanze  tra personaggi dei due Testamenti, che risultano infatti variamente  posizionati a destra, a sinistra ed al centro del diagramma. Non vi è,  dunque, alcun elemento che possa indurre a sostenere, almeno lette-  ralmente, né la concentrazione dei personaggi del Nuovo Testamento  nel fregio superiore, né quella dei personaggi dell'Antico nel fregio  inferiore, così da poter «giustificare» la collocazione dei cicli pittorici giotteschi corrispondenti, rispettivamente, nella navata sinistra  e nella navata destra della basilica di S. Chiara.   Potrebbe tuttavia sostenersi che la Figura gioachimita abbia  semplicemente costituito una fonte di ispirazione per la scelta del  soggetto dei cicli pittorici da eseguire sulle pareti delle cappelle,  oltre che per l'adozione della pianta dell'edificio, sicché non ci si  dovrebbe aspettare una corrispondenza letterale tra la tavola XVIII  del Liber e l'edificio concretamente realizzato. In altri termini, la  Figura stessa non avrebbe costituito né un programma decorativo,  né un progetto edilizio . Ma a ben vedere, proprio la mancanza di  una tale effettiva corrispondenza, congiuntamente ai seri dubbi  avanzati in ordine alla sua fondatezza storica 28 , rende ancor più  fragile l'ipotesi della «matrice gioachimita» della chiesa di S. Chiara  a Napoli. Un collegamento tanto evanescente con la Figura non  consente infatti di dimostrare in maniera convincente che la pianta  ad aula rettangolare della chiesa napoletana, invece di derivare dalle  analoghe, diffusissime piante delle chiese degli Ordini mendicanti,  discenda proprio dal diagramma gioachimita. Risulta inoltre eviden-  temente impossibile dimostrare che i cicli pittorici dell'Antico e del  Nuovo Testamento, realizzati, secondo il referto vasariano, nella  stessa chiesa esterna, invece di derivare dai numerosi cicli tipologici inaugurati dagli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in  Vaticano, discendano piuttosto dalle speculazioni concordistiche  gioachimite. Occorre invece chiedersi se, pur abbandonando la discutibile  ipotesi della valenza della Figura XVIII quale modello o fonte di  ispirazione, sia eventualmente sostenibile, in altro modo, una «giu-  stificazione» gioachimita della scelta del programma decorativo di S.  Chiara, incentrato, come si è detto, sulle Storie dell'Antico e del Leone de Castris, ad esempio, osserva che Mattano, nel suo saggio La  Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., sovrappone la Figura XVIII del Liber  alla pianta della chiesa «al contrario» rispetto a quanto ipotizzato dalla Bruzelius,  sicché Vociava etas non viene più a corrispondere al coro delle Clarisse, bensì all'area  del sagrato e del vestibolo della chiesa esterna. Questa lettura è stata respinta dallo  stesso Leone de Castris, perché presuppone non «una ispirazione» ma «una volontà  di corrispondenza piena fra la pianta ed il diagramma» derivante da un improprio  «uso del diagramma come «progetto»». In altre parole, almeno per il programma  architettonico, la Figura gioachimita avrebbe costituito piuttosto una fonte di ispi-  razione che un modello seguito letteralmente dai costruttori, e cfr. Leone de Castris, Giotto a Napoli, nota Cfr. i saggi indicati alla precedente nota Nuovo Testamento. Non di rado, infatti, opere di scultura, di pit-  tura e di architettura sono state interpretate proprio facendo riferi-  mento ad una possibile matrice gioachimita. Ad esempio, il mosaico dell' 'Arbor vitae nell'abside della basilica  di S. Clemente a Roma avrebbe in qualche modo anticipato visivamente l'esegesi gioachimita dell'Apocalisse di San Giovanni e della  Concordia 2, mentre un prezioso codice miniato da una bottega avi-  gnonese agli inizi del secolo XIV avrebbe risentito dell'escatologismo e del «concordismo» gioachimita. Influenze delle opere di F. sono state rinvenute altresì nella pianta e nella struttura  della stessa abbazia madre dell'Ordine florense a F. 31 , nelle sculture della facciata del Duomo di S. Rufino 32 ad  Assisi e negli affreschi della basilica di S. Francesco 33 nella stessa  città. Questa tesi viene avanzata, per la verità, in maniera piuttosto vaga da E.R.  Daniel, Joachim of Fiore: Pattems of History in the Apocalypse, in The Apocalypse in  the Middle Ages,  cur. Emmerson e McGinn, London, Cornell; per una lettura teologica ortodossa dei mosaici in  questione cfr. invece Barclay Lloyd, A new look at the mosaics of San Clemente,  in Omnia disce: Medieval studies in memory of Boy le, O.P., a cura di AJ.  Duggan, J. Greatrex, B. Bolton, Ashgate, Aldershot. D'altra parte  gli stessi mosaici vengono correntemente datati intorno a quando F. non era ancora nato o era giovanissimo. Si tratta del codice 55. K. 2 (Rossi) dell'Accademia Nazionale dei Lincei e  Corsiniana di Roma, e cfr. Frugoni, Manzari, Immagini di San Francesco in  uno Speculum humanae salvationis del Trecento, Padova, Editrici Francescane,  Cfr. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e Messaggio in Gioac-  chino da Fiore, Atti dell Congresso internazionale di studi F., S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi F., secondo il quale, l'assetto della chiesa abbaziale di S. Giovanni presenta  peculiarità che consentono di parlare di una tipologia gioachimita per Yicnografia  architettonica. Questi suoi connotati specifici, secondo Cadei, sono derivati dalle  tavole XII, XIII e XV del Liher figurarum. Lo stesso Autore non manca poi di  ricordare, a questo proposito, le divergenti opinioni di Leone Tondelli, secondo il  quale la Figura XII ha piuttosto carattere idealistico ed utopico, non risultando che  in nessuno dei monasteri florensi si sia cercato di realizzare tale modello, e di Edith  Pasztor che, invece, vede nel diagramma la pianta concretissima delle strutture  «urbanistiche» del monastero, e cfr. anche V. De Fraja, Oltre Cìteaux. F. e l'Ordine florense, Roma, Viella, Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Spello,  Dimensione Grafica, soprattutto sulla base delle tavole delle Praemissiones di  F., tradite dal codice 15 del monastero benedettino di S. Pietro a Perugia. Prosperi, Gioacchino da Fiore e Frate Elia. Dalle sculture simboliche del  ad Con particolare riguardo proprio alla basilica di S. Francesco si  è affermato che il programma iconografico prescelto per la deco-  razione pittorica della chiesa inferiore così come di quella superiore,  nel 1253, avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei committenti, illu-  strare l'inserimento dell'Ordine francescano nella storia del mondo  e della salvezza, storia articolata nelle tre grandi fasi della legge,  della grazia e dello spirito teorizzate da F. e  riprese dai Francescani spirituali. Questi ultimi, infatti, identifica-  rono nel proprio il nuovo Ordine monastico preannunciato da  F., individuando in San Francesco Valter Christus, il nuovo  messia, e, nel papa nemico, l'Anticristo. La ricostruzione concordi-  stica della storia operata da Gioacchino da Fiore venne così comple-  tata dai teologi Francescani spirituali in modo tale che «le corrispon-  denze tipologiche in ambito francescano vennero ampliate e intese  non in due ma in tre ricorsi successivi; il Nuovo Testamento è  adempimento della promessa dell'Antico, ma è, a sua volta, pro-  messa che si adempie sulla terra e nella storia, con l'avvento di  Francesco. Tuttavia, la condanna delYlntroductorius ad  Evangelium Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, opera che  rappresentava la più compiuta espressione delle teorie dei Francescani spirituali, comportò l'interruzione dell'esecuzione del pro-gramma iconografico assisiate. Tracce significative di questo originario apparato decorativo  sono state ad ogni modo rinvenute nelle vetrate a contenuto tipologico 36 delle tre bifore del coro della basilica superiore, realizzate Duomo di Assisi ai primi dipinti della Basilica di San Francesco, Spello, Dimensione  Grafica, Da A. Cadei, Assisi, S. Francesco: l'architettura e la prima fase della decorazione, in Roma. Atti della IV settimana di studi di storia dell'arte medievale  dell'Università di Roma «La Sapienza», a cura di A. M. Romanini, Roma, L'Erma di  Bretschneider, Cadei, Assisi, S. Francesco, è, in particolare, il Maestro di S.  Francesco, negli affreschi della navata della chiesa inferiore, a seguire il parallelismo  tra le Storie della passione di Cristo (Cristo depone gli abiti ai piedi della croce, Cristo  dall'alto della croce affida Maria a Giovanni, Discesa dalla croce, Deposizione, Com-  pianto, Apparizione di Cristo in Emmaus) e le Storie di San Francesco {Francesco  rinuncia ai beni paterni, Innocenzo III sogna Francesco sorreggente la Chiesa di Roma,  Predica alle creature, Francesco riceve le stimmate da un serafino, Morte di San Francesco  e scoperta delle stimmate sul suo corpo). Ad esempio, nella finestra I, designata anche come finestra VII, sono raf-  figurati episodi veterotestamentari quali prefigurazioni dei corrispondenti episodi  della Vita pubblica di Gesù, con i seguenti parallelismi: Davide viene a conoscenza  della morte di Saul, La disputa con i dottori nel Tempio; Giacobbe attraversa il Gior-  entro il 1250 ad opera di maestri tedeschi. L'iconografia delle stesse,  basata sulle corrispondenze tipologiche, avrebbe un sèguito in due  lancette del finestrone del transetto destro che completano il ciclo  dell'abside con le apparizioni post mortem di Cristo e gli antitipi 01  veterotestamentari delle apparizioni angeliche. Il complesso delle  vetrate del coro e del transetto verrebbe in tal modo a costituire  una serie tipologica triangolare, nella quale le Storie della vita di  Cristo farebbero da perno tra gli antitipi veterotestamentari e le  Storie della Genesi, da un lato, le Storie di San Francesco e di San-  t'Antonio^ dall'altro. Anche gli affreschi del transetto destro della  chiesa sarebbero contrassegnati da una impronta gioachimita. Tra  questi, la triade delle teofanie consistenti nella Maiestas, nelY Ascen- dano, Il battesimo di Gesù; Mosè e il Padre Etemo, La Trasfigurazione; La purificazione  del tempio, La cacciata dei mercanti dal tempio; L'ingresso di un re, L'ingresso di Gesù in  Gerusalemme; Abramo lava i piedi degli angeli, La lavanda dei piedi agli Apostoli; Il  banchetto del re Assuero, L'ultima Cena; Elia in preghiera sul monte Oreb, L'Orazione  nell'orto di Getsemani; Joab bacia Amasa, Il bacio di Giuda e la cattura di Cristo. L'interpretazione tipologica comporta l'uso di tipi o modelli che presentano  un'impronta in negativo o antitipo costituita da un'idea, una persona, o un avveni-  mento nell'Antico Testamento che prefigura un'idea, una persona, o un avveni-  mento nel Nuovo Testamento. Un esempio autorevole d'interpretazione tipologica  è offerto dallo stesso Vangelo (Matteo 12, 40): «Come infatti Giona rimase tre  giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e  tre notti nel cuore della terra», ove, l'episodio veterotestamentario (antitipo) di  Giona e della balena prefigura la morte e la resurrezione di Cristo. Sull'interpreta-  zione figurale o tipologica della Sacra Scrittura, cfr. H. Rondet, Thèmes bibliques,  éxégèse augustinienne , in Augustinus magister. Congrès intemational augustinien, Paris,  21-24 septembre 1954, Paris, Etudes Augustiniennes; M.  Simonetti, Lettura e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma,  Institutum Patristicum Augustinianum, 1985; H. De Lubac, Esegesi medievale. I  quattro sensi della Scrittura, Milano, Jaca; La terminologia esegetica nell'antichità. Atti del primo seminario di antichità cristiane, Bari, 25  ottobre 1984, Bari, EdiPuglia, 1987, nonché, più in generale, E. Auerbach, Figura,  in Id., Studi su Dante, a cura di D. Della Terza, Milano, Feltrinelli; Dael, Tipologia, estratto dal corso di Storia dell'Arte medioevale tenuto  presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, unigre.it/ rhetorica%20 biblica/studenti/TBC005/ TIPOLOGIA_-  van%20 Dael.doc; Kessler, Storie  sacre e spazi consacrati: la pittura narrativa nelle chiese medievali tra TV e XII secolo, in  L'arte medievale nel contesto: funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca, Cadei, Assisi, S. Francesco, secondo il quale i medaglioni  di San Francesco e di Sant'Antonio attualmente posti nel quadrilobo nella finestra  VII della basilica superiore ai lati del Cristo in gloria, proverrebbero dalle lancette  della quadrifora III posta nel transetto settentrionale della basilica superiore. sione e nella Trasfigurazione, poste nelle lunette di volta e nel tratto  superiore della vetrata centrale, rimanderebbe alla Dispositio novi  ordinis pertinens ad tercium statum ad instar superne Jerusalem ed alla  Rota in medio rotae, contenute nelle Figurae XII e XV del Liber  Figurarum. I sostenitori di questa tesi ammettono peraltro che tali  sottili richiami e reconditi significati ben difficilmente avrebbero  potuto esser colti dal comune visitatore, e che i principali fruitori  sarebbero stati piuttosto i soli Francescani spirituali.   Secondo questa opinione, in conclusione, la sintesi ed il com-  pletamento della teoria gioachimita della storia, operata dai France-  scani spirituali con l'individuazione nell'Ordine minoritico del novus ordo monastico destinato alla guida della società, avrebbe avuto,  quale esito iconografico, proprio l'affiancamento degli episodi della  vita di San Francesco alle tradizionali serie tipologiche vetero e  neotestamentarie in una prospettiva «rivoluzionaria».   Tuttavia, accanto a queste serie tipologiche che sarebbero state  ispirate dalle teorie gioachimite e spirituali, nella stessa basilica  superiore assisiate furono eseguite altre e ben più note scene vetero 40  e neotestamentarie, poste ancora una volta in collegamento con  ventotto episodi della Vita di San Francesco 42 , benché in una pro- [Cadei, Assisi, S. Francesco, ricorda infatti che, secondo lo  Schòne, si sarebbe trattato di un ciclo iconografico riservato ai soli Francescani  spirituali e che perciò era limitato al loro coro non accessibile al pubblico, circo-  stanza questa che ne favorì anche la successiva conservazione nonostante il muta-  mento del programma decorativo.  II ciclo dell'Antico Testamento, realizzato sulla parete nord, si compone di  sedici episodi e comincia con le Storie della Creazione nel registro superiore: Crea-  zione del mondo, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale, La cacciata  dal Paradiso terrestre, Il lavoro dei progenitori, Il sacrificio di Caino ed Abele, Caino  uccide Abele proseguendo, nel registro inferiore, con episodi della vita dei quattro  patriarchi biblici Noè, Abramo, Giacobbe e Giuseppe: La costruzione dell'arca,  L'ingresso di Noè e degli animali nell'arca, Il sacrificio di Isacco, La visita degli angeli  ad Abramo, Isacco benedice Giacobbe, Esaù davanti ad Isacco, Giuseppe calato nel  pozzo dai fratelli, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli in Egitto. II ciclo del Nuovo Testamento, collocato sulla parete sud, si compone di  sedici episodi e comincia con le Storie dell'infanzia di Cristo nel registro superiore:  Annunciazione, Visitazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione di Gesù al  tempio, Fuga in Egitto, Disputa nel tempio, Battesimo di Gesù. Nel registro inferiore,  invece, sono collocati gli episodi della Vita pubblica e della Passione di Cristo: Le  nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro, La cattura di Cristo nell'orto, Cristo davanti a  Pilato, La salita al Calvario, La Crocifissione, Il Compianto sul Cristo morto, Le pie  donne al sepolcro. A partire dalla parete destra dal lato dell'altare: San Francesco riceve l'omag-  gio dell'uomo semplice, Il Santo dona Usuo mantello al povero, Sogno del palazzo colmo  spettiva più moderata, ispirata questa volta alla Vita ufficiale del  Santo, la Legenda maior redatta da San Bonaventura. Proprio Bo-  naventura ed, in seguito, il probabile committente degli affreschi, il  cardinale francescano Matteo d'Acquasparta, si erano infatti oppo-  sti agli Spirituali rigoristi ed alla teoria da loro sostenuta secondo la  quale con l'avvento dell'Età dello Spirito si sarebbe pervenuti ad  uno scardinamento dell'ordine costituito già sulla terra e nella sto-  ria. L'Autore della Legenda, invece, ribaltò proprio la prospettiva di  un radicale mutamento «nella storia», sostenendo che i tempi nuovi  si sarebbero dispiegati su di un piano esclusivamente ultraterreno,  privo quindi di pericolose ricadute politiche. Ritornando dunque agli affreschi dell'Antico e del Nuovo Testamento che Giotto avrebbe eseguiti nella chiesa esterna di S.  Chiara, non risultano notizie, di fonte letteraria o documentaria,  dell'esistenza anche di un ciclo della Vita di San Francesco che  avrebbe potuto far pensare ad una consapevole imitazione del mo-  dello assisiate nella versione spirituale o piuttosto in quella bona-  venturiana. D'altra parte, al tempo della esecuzione degli affreschi  nella grande chiesa napoletana erano trascorsi decenni dai movimen-  tati inizi della decorazione della basilica di Assisi, vero e proprio  palinsesto iconografico della storia dell'Ordine. Inoltre, il contrasto  tra il papato e la dirigenza dello stesso Ordine minoritico, da un  lato, ed i dissidenti Spirituali dall'altro era giunto ormai, con papa di armi, Cristo appare al Santo in S. Damiano, Rinunzia alle vesti, Sogno di Innocenzo  III, Innocenzo III approva la Regola, Il Santo sul carro di fuoco, Frate Leone vede il  trono celeste destinato a San Francesco, Cacciata dei demoni da Arezzo, La prova del  fuoco, L'estasi di San Francesco, Il presepe di Greccio, Miracolo della fonte, Predica agli  uccelli, Morte del signore di Celano, La predica davanti ad Onorio III, San Francesco  appare ai frati riuniti in capitolo ad Arles, Stimmate, Morte e funerali, San Francesco  appare al vescovo di Assisi e a frate Agostino, Il patrizio Girolamo si accerta delle  stimmate, Le Clarisse di S. Damiano piangono il Santo, Canonizzazione, San Francesco  appare a Gregorio IX, Guarigione del gentiluomo di llerda, Resurrezione della gentil-  donna, Liberazione di Pietro d'Alife. Le posizioni di San Bonaventura vennero riprese dal cardinale Matteo  d'Acquasparta in tre suoi sermoni. Il cardinale, generale dell'Ordine dal 1287 al  1289, fu probabilmente l'ideatore del programma iconografico della navata della  basilica superiore e contrastò decisamente gli Spirituali guidati da Ubertino da  Casale. I tìtuli illustranti gli episodi della Leggenda francescana sono tratti dalla  Legenda maior, e cfr. E. Lunghi, San Francesco ad Assisi, Firenze, Passigli. Per l'ispirazione alla Legenda major, cfr. G. Ruf, Francesco e Bonaventura.  Un'interpretazione storico-salvifica degli affreschi della navata nella chiesa superiore di  San Francesco in Assisi alla luce della teologia di San Bonaventura, Assisi, Casa Francescana, e Cadei, Assisi, S. Francesco. Giovanni XXII, ad una persecuzione sistematica dei secondi, e,  come si è visto, al prevalere di posizioni moderate, circostanza que-  sta che sembra deporre contro la possibilità di citazioni iconografi-  che eccessivamente «eversive». Infine, l'assoluta impossibilità di ricostruire i contenuti ed i  soggetti delle scene vetero e neotestamentarie eventualmente realiz-  zate nella chiesa esterna di S. Chiara a Napoli non consente neppure  di accertare una eventuale, effettiva influenza sulle stesse di quella  più precisa ed articolata corrispondenza tra fatti, persone, figure e  adempimenti dei due Testamenti, che, secondo alcuni, sarebbe co-  munque derivata proprio dalla diffusione delle teorie di Gioacchino  tradotte poi in immagini La spiegazione della scelta delle scene dell'Antico e del Nuovo  Testamento per la decorazione di S. Chiara, a questo punto, può  essere piuttosto individuata proprio nella volontà di seguire il tradizionale filone tipologico, significativamente rinvenibile nello  stesso repertorio di Giotto. Il modello più prestigioso di tale filone era costituito dalla serie  degli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Le pareti Nell'antico refettorio dei Frati minori, oggi chiesa esterna del monastero  delle Clarisse, è posto l'affresco della Mensa del Signore, attribuito al Maestro di  Giovanni Barrile, la cui particolare iconografia sarebbe servita a celebrare i valori della povertà  e dell'umiltà, testimoniando così il particolare favore dei sovrani angioini per questi  ideali strenuamente propugnati dai Francescani spirituali, favore «ufficializzato» dal  contorno araldico dell'affresco, e cfr. F. Bologna, I pittori alla corte angioina di  Napoli, Roma, U. Bozzi; Leone de Castris, Giotto  a Napoli. Una lettura più articolata è stata  recentemente suggerita da C. Frugoni, Una solitudine abitata. Chiara d'Assisi,  Roma-Bari, Editori Laterza: nel nostro affresco, Cristo è posto  su di una montagna circondato dagli apostoli. In basso, San Pietro distribuisce il  pane alla folla in ascolto attingendo a cesti stracolmi. In primo piano sono inginoc-  chiati San Francesco, con la bisaccia della questua, e Santa Chiara, in orazione. Il  dettaglio della montagna rimanda al Vangelo di Giovanni (6, 3-15), ove al miracolo  della moltiplicazione segue il discorso del Cristo che si presenta alla folla come «il  vero pane sceso dal cielo». V Agnus Dei, ripetuto quattro volte alle estremità, co-  stituisce un ulteriore richiamo all'eucaristia. Sembrerebbe in tal modo prevalere  proprio il riferimento eucaristico ricorrente, peraltro, nella dedicazione ufficiale  della chiesa esterna all'Ostia santa, sicché, i frati riuniti nel refettorio per il frugale  pranzo garantito dalla carità di Dio, nel consumare il cibo del corpo, non avrebbero  dimenticato la necessità di nutrirsi di quello dell'anima, ben più prezioso del pane.  Gli eventuali, ma labili, accenni spirituali erano, in tal caso, riservati ai soli frati  essendo il refettorio inaccessibile, di regola, ai laici.   45 Cadei, Assisi, S. Francesco. della navata centrale erano infatti decorate con Storte dell'Antico e  del Nuovo Testamento, eseguite durante il pontificato di papa Leone  I, distrutte nel corso dei lavori di costruzione del nuovo S. Pietro, ma fortunatamente descritte da Grimaldi e documentate dagli acquerelli di Domenico Tasselli da  Lugo. Le scene dell'Antico Testamento, tratte soprattutto dalla Genesi e dall'Esodo, erano dipinte sulla parete destra, mentre sulla  parete sinistra si svolgeva un ciclo illustrante la Vita e la Passione  di Cristo. Questi affreschi costituirono: «il prototipo fondamentale  per le successive decorazioni con scene vetero e neotestamentarie  che da Roma si diffusero in tutta Italia e in gran parte d'Europa... la  prima e più completa esposizione per immagini dei principali episodi  biblici ed evangelici a livello di pittura monumentale. Un folto  gruppo di affreschi tipologici derivò direttamente da quelli di S.  Pietro, come nel caso delle decorazioni musive dell'atrio della basi-  lica abbaziale cassinense volute da Desiderio, dalle quali derivarono  ulteriormente le storie testamentarie di S. Angelo in Formis, nonché  degli affreschi di S. Pietro a Ferentillo, di S. Maria Immacolata di  Ceri, di S. Giovanni a Porta Latina, di S. Maria in Monte Domi-  nico a Marcellina, di S. Nicola a Castro dei Volsci, della cappella di  S. Tommaso nel duomo di Anagni, dell'Annunziata a Cori, ed anche [Cfr. A. Tomei, La basilica dalla tarda antichità al secolo XV, in La basilica di  San Pietro a Roma, a cura di C. Pietrangelo Firenze, Cantini, nonché H.  Kessler, «Caput et speculum omnium ecclesiarum»: old St. Peter s and church deco-  ration in medieval Latium, in Italian church decoration of the Middle Ages and early  Renaissance: functions, forms and regional traditions, a cura di W. Tronzo, Bologna,  Nuova Alfa. II ciclo pittorico veterotestamentario comprende diciotto scene, mentre  quello neotestamentario ne comprende ventinove conteggiando separatamente V Ul-  tima cena e la Lavanda dei piedi, e fu realizzato da tre o quattro pittori. Nulla ha dunque a che vedere con questi affreschi la presenza  nella chiesa di quindici fratres paupertatis attestata dal Catalogo delle chiese di Roma  (Biblioteca Nazionale di Torino, Cod.), e da alcune  lettere di Angelo Clareno del 1313, e cfr. Angelo Clareno, Opera, I, Epistole, a  cura di L. von Auw, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Più in generale, sostengono un collegamento tra gli  Spirituali napoletani e quelli romani, ed anzi una vera e propria influenza del  filospiritualismo di Sancia sulla politica di Cola di Rienzo: A. Collins, Greater  than Emperor. Cola di Rienzo and the world of Fourteenth Century  Rome, Ann Arbor, The University of Michigan Press.; Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and thepolitics ofthe new age, Berkeley,  Los Angeles, New York, The University of California] dei restauri cavalliniani degli affreschi di S. Paolo 48 e del ciclo di  Vescovio. Gli stessi affreschi vetero e neotestamentari della basilica  superiore di Assisi derivano dalle serie tipologiche di S. Pietro. Si  tratta certamente di cicli piuttosto complessi: così a S. Pietro gli  episodi veterotestamentari erano quarantasei, a S. Paolo trentotto, a  Ceri venticinque, e ad Assisi sedici 49 . Questo modello iconografico  fu ripreso ben presto in tutta Europa, come conferma anche una  notizia offertaci da Beda il Venerabile relativamente  all'importazione da Roma all'abbazia di S. Pietro a Wearmouth di  tavole dipinte di contenuto tipologico. Dal dodicesimo secolo in  poi i cicli tipologici risultano sempre più elaborati, come dimostra la  pala d'altare di Klosterneuburg, costituita da placche di bronzo  smaltato champlevè, completata da Nicola de Verdun  Su questo ciclo cfr. S. Romano, II cantiere di San Paolo fuori le mura: il  contatto con i prototipi, in Medioevo: i modelli. Atti del convegno internazionale di studi  Parma cur. Quintavalle, Parma-Milano,  Università di Parma-Mondadori Electa, Cfr. Romano, La morte di Francesco: fonti francescane e storia dell'Ordine  nella basilica di S. Francesco d'Assisi, in «Zeitschrift fur Kunstgeschichte», ed E ad., La basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie  narrative, Roma, Viella, Constituto ilio abbate Benedictus monasterio beati Petri apostoli, consti-  tuto et Ceolfrido monasterio beati Pauli, non multo post temporis spatio quinta vice  de Brittannia Romam adcurrens, innumeris sicut semper aecclesiasticorum donis  commodorum locupletatus rediit; magna quidem copia voluminum sacrorum; sed  non minori, sicut et prius, sanctarum imaginum munere ditatus. Nam et tunc do-  minicae historiae picturas quibus totam beatae Dei genetricis, quam in monasterio  maiore fecerat, aecclesiam in gyro coronaret, adtulit; imagines quoque ad ornandum  monasterium aecclesiamque beati Pauli apostoli de concordia Veteris et Novi Te-  stamenti summa ratione conpositas exibuit; verbi gratia, Isaac Ugna, quibus inmo-  laretur portantem, et Dominum crucem in qua pateretur aeque portantem, proxima  super invicem regione, pictura coniunxit. Item serpenti in heremo a Moyse exaitato,  filium hominis in cruce exaltatum conparavit» e cfr. Beda, Vita quinque sanctorum  abbatum, IBiblioteca Augustana (Bibliotbeca latina,  Latinitas medievalis) a cur Harsch (Fachhochschule Augsburg) basata su Venerabilis Baedae Opera Historica, ed. Plummer, Oxonii, E typographeo  Clarendoniano, fh-augsburg.de/~ Harsch/ Chronologia/ Lspost08/ Bede/bed quin.html. In alto nella pala sono poste diverse scene veterotestamentarie accadute  prima della legge {ante legem), al centro sono le corrispondenti scene neotestamen-  tarie (sub gratia), ed in basso le corrispondenti scene veterotestamentarie sotto la  legge (sub lege). Ad esempio: le scene del Passaggio del Mar Rosso, del Battesimo di  Cristo e del «mare di bronzo» del tempio vanno considerate in corrispondenza; così  pure l'episodio di Giuseppe che viene messo nella cisterna, la deposizione di Cristo  nel sepolcro e Giona nel ventre del pesce, e così via, cfr. H. Buschhausen, The Vennero redatti, inoltre, veri e proprio manuali proprio allo  scopo di indicare al pittore o allo scultore i collegamenti tipologici  tra gli episodi testamentari. Tra questi si ricorda il Victor in Car-  mine 52 , opera di un anonimo monaco cistercense inglese del XII  secolo, il quale, pur essendo contrario alla decorazione figurata delle  chiese, riteneva tuttavia ammissibili almeno le rappresentazioni tipologiche poiché potevano fungere da efficaci libri laicorum. Ma,  certamente, la fonte primaria fu costituita dalla Glossa ordinaria di  Walafrido Strabone completata da Niccolò di Lira,  vera e propria sintesi dell'esegesi tipologica dei Padri della chiesa. Orbene, proprio i temi tipologici rientravano certamente anche  nel repertorio di Giotto. Oltre alla discussa partecipazione del Mae-  stro all'esecuzione di alcuni episodi dell'Antico e del Nuovo Testa-  mento nella basilica di S. Francesco ad Assisi, sappiamo, soprat-  tutto dalle Vite del Vasari, che Giotto eseguì Storie dei due Testa-  menti nella basilica di S. Pietro a Roma, nella cappella palatina del  Castelnuovo 56 a Napoli, e storie del solo Nuovo Testamento nella  SS. Annunziata a Gaeta. D'altro canto, la biografia dello stesso  Klosterneuburg Aitar of Nicholas of Verdun: Art, Theology and Politics, in «Journal of  the Warburg and Courtauld Institutes», Victor in Carmine. Ein Handbuch der Typologie Nach  der Handschrift des Corpus Christi College, Cambridge, a cur. Wirth, Berlin, Mann, Male, Le origini del gotico. L'iconografia medioevale e le sue fonti, Mi-  lano, Jaca, Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi, in Giotto. Bilancio critico  di sessantanni di studi e ricerche, Firenze, Giunti; Zanardi,  Giotto e Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a  fresco, Milano, Skira; T. De Wisselow, The date of the St. Francis cycle in the  upper Church of S. Francesco at Assisi: the evidence of copies and considerations of  method, in The art of the Franciscan Order in Italy, a cura Cook, Leiden-  Boston, Brill.  Scrive infatti Vasari: «il papa avendo vedute queste opere e piacendogli la  maniera di Giotto infinitamente, ordinò che facesse intorno intorno a San Pietro  Istorie del Testamento Vecchio e Nuovo: onde cominciando fece Giotto a fresco  l'Angelo di sette braccia che è sopra l'organo; e molte altre pitture, delle quali parte  sono state da altri restaurate a dì nostri e parte nel rifondare le mura nuove, o state  disfatte», e cfr. anche A. Tomei, Giotto a Roma intorno al primo Giubileo, in La  storia dei Giubilei, a cur. Fossi, Roma, BNL, Questi affreschi furono ed andarono  purtroppo distrutti durante il regno di Ferrante d'Aragona, e cfr. Leone  de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 168ss.   57 Scrive Vasari: «partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si fermò a  Gaeta, dove gli fu forza, nella Nunziata, far di pittura alcune storie del Testamento Giotto lascia davvero poco spazio ai sospetti di spiritualismo I  suoi committenti e protettori erano strettamente legati alla corte  pontificia, come quel fra Mincio da Morrovalle, ministro  generale dell'Ordine minoritico, che lo chiamò ad Assisi o il cardinale Jacopo Stefaneschi. Il Maestro, che aveva organizzato in ma-  niera imprenditoriale la propria bottega, non disdegnava inoltre di  prestare danaro e di acquistare terreni per investimento, ben lon-  tano da scrupoli pauperistici 59 . A Giotto, anzi, viene tradizionalmente attribuita la canzone Molti son que che lodan povertade, che  contiene una vera e propria invettiva contro la povertà, ritenuta  istigatrice di delinquenza, causa di sovversione sociale e di ipo-  crisia 60 .   Ritornando a S. Chiara, in realtà, i frammenti di affresco a  contenuto narrativo più sicuramente riconducibili a Giotto ed alla  sua bottega sono quelli conservati nel coro o oratorio interno delle  monache. Sulla parete che divide appunto l'oratorio dalla chiesa  esterna può osservarsi ciò che resta di un Compianto sul Cristo depo-  sto, che lascia ipotizzare, pur in mancanza di più precise evidenze,  che l'intera parete fosse affrescata con scene della Vita di Cristo,  forse principalmente episodi della Passione, secondo quanto realiz-  zato nei cori di altri monasteri delle Clarisse. In particolare, nel coro  di S. Pietro in Vineis ad Anagni 61 , qualche tempo dopo la canonizza- Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non però in modo che non vi si veggia benissimo il  ritratto d'esso Giotto appresso a un Crucifisso grande molto bello», per la citazione  cfr. la precedente nota 11. Lo ammette lo stesso Leone de Castris, Giotto a Napoli.  Cfr. F. Antal, La pittura fiorentina e Usuo ambiente sociale nel Trecento e nel  primo Quattrocento, Torino, Einaudi. Giotto affittava telai ai tessitori  meno abbienti realizzando profitti del 120%. Alcuni documenti attestano il suo  ruolo di garante di prestiti e, nel 1314, risulta assistito da ben sei avvocati in atti  contro debitori morosi o insolventi.   60 Tra l'altro il componimento precisa: «Di quella povertà ch'è contro a voglia/  Non è da dubitar ch'è tutta ria,/ Che di peccar è via, / Facendo ispesso a giudici far  fallo;/ E d'onor donne e damigelle spoglia;/ E fa far furto, forza e villania; /E ispesso  usar bugia/ E ciascun priva di onorato istallo». La canzone fu estratta dal codice 47  pluteo 90 laurenziano, ragguagliata sul codice riccardiano e pubblicata da F.  Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori: dall'origine della lingua infino al  secolo decimosettimo, Prato, Ranieri Guasti. Cfr. M. Rak, Vedere, ricordare, raccontare. Immagine e racconto in un appa-  rato pittorico dottrinale di una comunità femminile pauperista nel tardo medioevo, in II  collegio Principe di Piemonte e la chiesa di S. Pietro in vineis in Anagni, a cura di M.  Rak, Roma, INPDAP, nonché S. Romano, Gli affreschi di San  Pietro in vineis, ibidem, pp. 105ss. e C. Jaggi, Frauenklóster im Spàtmittelalter. Die      zione di Chiara avvenuta nella cattedrale di quella città, ove fu  conservata la relativa bolla pontificia, e,  comunque, entro il 1263, vennero appunto dipinte le Storie della  Passione di Cristo. Questo notevole ciclo si articola negli episodi  dell'Ingresso in Gerusalemme, Ultima cena e lavanda dei piedi, Cattura  e flagellazione di Cristo, Deposizione e discesa al limbo, Noli me tangere  e missione degli Apostoli, Giudizio universale, che dovevano servire  anzitutto come «strumento di memoria» nei momenti più solenni  della liturgia. All'atto della recita sottovoce {in secreto) della preghiera eucaristica {canon missae) nel corso della messa, quelle stesse  scene consentivano alle Clarisse di ripercorrere, anche visivamente,  la storia della redenzione fino alla morte ed alla resurrezione del  Salvatore. Le sofferenze di Cristo, rappresentate in maniera reali-  stica e cruenta, offrivano dunque alle Clarisse occasioni di medita-  zione e di riflessione. Gli episodi della vita del Salvatore, inoltre,  erano costantemente richiamati negli scritti dedicati alle Vite di San  Francesco e di Santa Chiara, e per quest'ultima, già nella Leggenda  redatta da Tommaso da Celano. Perciò, gli affreschi  cristologici venivano a costituire, in definitiva, un grandioso prome-  moria non solo della vita del Salvatore, ma appunto anche delle «vite  parallele» di Chiara e di Francesco, ricostruibili per analogia dalle  osservatrici, e ricordate alle monache anche attraverso le letture  edificanti, i racconti orali e, soprattutto, la predicazione, non occor-  rendo necessariamente la realizzazione di cicli tipologici «completi»  che comprendessero cioè anche le Storie dei due Santi francescani Kirchen der Klarissen una Dominikannerinnen, Monaco,  Michael Imhof, II ciclo della Passione nel coro delle monache di S. Pietro in vineis prosegue,  in realtà, con l'episodio della stimmatizzazione di San Francesco, che riporta visi-  vamente al parallelismo con Cristo. Vi sono rappresentati inginocchiati anche una  badessa attorniata da monache ed un frate accompagnato da frati, in veste di  donatori oranti. Lo stesso ciclo si conclude con un riquadro nel quale sono dipinti  i Santi Aurelia, Scolastica e Benedetto e donatori. Nel coro delle monache della  basilica di S. Chiara ad Assisi, corrispondente all'attuale cappella di San Giorgio vennero eseguite, invece, oltre che le Storie della Passione di Cristo,  pur nell'ordine anomalo, da sinistra, di Resurrezione, Deposizione dalla croce, e  Deposizione nel sepolcro, anche quelle àzW Incarnazione con l’Annunciazione , la Natività, e l'Adorazione dei Magi, e cfr. C. Jaggi, Frauenklòster im Spàtmittelalter. A Napoli dev'essere infine ricordato il notevole ed articolato ciclo della  Passione affrescato, sulle pareti del coro delle Clarisse  della chiesa di S. Maria Donnaregina vecchia, ispirato alla Legenda Aurea di Jacopo  da Varagine ed alle Meditationes Vitae Còristi dello pseudo-Bonaventura ed articolato  in diciassette scene. In particolare, in tre registri di cinque scene ciascuno, più due: Come si è cercato di dimostrare, il riferimento alla esaminata  Figura gioachimita quale modello o fonte di ispirazione per la scelta  dei temi iconografici dei cicli pittorici realizzati nella basilica di S.  Chiara risulta, a ben considerare, davvero piuttosto improbabile.   Non molti anni or sono Richard Krautheimer, nei Poscritti ad  un suo aureo saggio di introduzione alla iconografia architettonica,  Ultima cena; Comunione degli Apostoli) Cristo lava i piedi a San Pietro; Orazione di Cristo nell'orto; Cattura di Cristo con l'episodio del San Pietro che taglia  l'orecchio a Malco; Cristo al cospetto dei sommi sacerdoti Anna e Cai/a, negazione di  Pietro, derisione di Cristo che viene privato dei vestiti per la prima volta, flagellazione di  Cristo; Cristo portato davanti a Pilato per il primo giudizio e poi davanti ad Erode; Secondo giudizio di Cristo davanti a Pilato e nuova flagellazione; Cristo privato delle  vesti e sua ascesa al Calvario, nuova spoliazione di Cristo ed innalzamento sulla croce;   Crocifissione; Deposizione dalla croce, lamentazione sul corpo e sepoltura di  Cristo; Discesa al Limbo e resurrezione di Cristo; Le Marie al sepolcro, «Noli me  tangere», apparizioni di Cristo alla Vergine ed a Giuseppe d'Arimatea; Apparizioni  di Cristo alle due Marie di ritorno dal sepolcro, a Giacobbe figlio di Alfeo ed a San  Pietro; 1Cristo appare quattro volte agli Apostoli sul monte Tabor, poi sul monte degli  Olivi, cena ad Emmaus con l'episodio dell'Incredulità di San Tommaso; Ascensione;  Pentecoste. Tali scene avevano lo scopo di suscitare la compassione delle mona-  che per le ultime vicende di Cristo, illustrando loro l'esempio delle Vergine Maria,  non mancando, poi, di suggerire paralleli con la Vita di San Francesco, e di offrire,  soprattutto nelle rappresentazioni dell'Ultima Cena, della Comunione degli Apostoli e  della Cena di Emmaus, l'occasione di una contemplazione eucaristica che era loro  preclusa dal vivo, durante l'elevazione dell'ostia nel corso della messa, e cfr., in  proposito, A.S. Hoch, The «Passion» cycle: images to contemplate and imitate amid  Clarissan «clausura», in: The church of Santa Maria Donna Regina: art, iconography and  patronage in fourteenth-century Naples, a cura di Janis Elliott, Aldershot, Ashgate. Per la traduzione italiana del saggio dal titolo originario Introduction to an  «Iconography of Medieval Architecture» , comparso sul «Journal of Warburg and Cour-  tauld Institutes», si veda R. Krautheimer, Introduzione a un'i-  conografia dell'architettura sacra medievale, in Id., Architettura sacra paleocri-  stiana e medievale, Torino, Bollati Boringhieri, in particolare alle  pp. 144ss., comprendente i Poscritti. In questo saggio  Krautheimer propone le sue osservazioni sulla «copia parziale» architettonica che  caratterizza l'imitazione, durante il Medioevo, dei più prestigiosi edifici sacri non in  termini di copia puntuale e corrispondente («copia totale»), ma di copia rielaborata,  e cfr. al riguardo anche G. Bandmann, Early medieval architecture as bearer of mea-  ning, con introduzione di K. Wallis, e postille di H. J. Boker, New York, Columbia, traduzione inglese del saggio originale in tedesco Mittelal-  terliche Architektur als Bedeutungstràger, Berlin e W. Schenkluhn, Iconografia e  iconologia dell'architettura medievale, in L'arte medievale nel contesto:  funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca. Per alcuni  rilievi critici sulla tesi della «copia parziale», cfr., comunque, B. Brenk, Originalità e  innovazione nell'arte medievale, in Arti e storia nel Medioevo, a cura Castelnuovo  e Sergi, Torino, Einaudi.  GAGLIONE   rilevava come spesso l'interpretazione simbolica delle piante degli  edifici medievali fosse avvenuta post factum, e cioè dopo l'effettiva  adozione delle forme decisa per altre motivazioni. Molto frequente-  mente, cioè, si è attribuito al committente ed all'architetto ciò che  nell'edificio aveva voluto vedere a posteriori il teologo medievale, o,  altrettanto spesso, solo l'interprete moderno. Gli importanti studi  iconologici di Aby Warburg e, in seguito, di Erwin Panofsky e di  Fritz Saxl hanno contribuito involontariamente anche a scoper-  chiare «una specie di vaso di Pandora» dal quale sono poi fuoriuscite  interpretazioni simboliche a tutti i costi, «per amore o per forza».  Invece, l'indagine sui significati dell'opera architettonica ed, in ge-  nere, dell'opera d'arte dovrebbe essere svolta in modo che quanto «è  possibile» diventi «probabile», perché «la relazione ipotizzata abbia  un carattere di causalità ben definito, rilevabile da numerosi e dif-  ferenti indizi» 64 .   Sembra invece che proprio la mancanza di questi «numerosi e  differenti indizi» non consenta di sostenere né l'ispirazione gioachi-  mita degli affreschi, né la pretesa matrice francescano-spirituale  della pianta della basilica di S. Chiara a Napoli. Gaglione, Krautheimer, Introduzione, cit., p. 146. Traduzione del testo posto ai margini della Figura XVIII del Liber  figurarum, tratto dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti dall'edizione a  cura di Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure \ cit., voi. II,  tav. XVIIIa. Come illustrato in questa Figura, da Adamo fino a Giovanni Battista sono  trascorsi sei tempi ormai conclusi, durante i quali il Signore ha compiute le sue  opere sotto la legge ed i profeti, e nel settimo tempo si è riposato dalle opere del  primo stato, infatti la legge ed i profeti sono perdurati fino a Giovanni Battista.  Per tali motivi occorre attenersi a ciò che affermano i Santi Dottori, in ordine al  fatto che le due età, e cioè la sesta e la settima, trascorrono insieme, sia perché,  compiuti i sei tempi, le anime dei giusti riposano in Cielo, sia perché al popolo  di Dio è stato concesso un tempo sabbatico durante il quale potesse riposare  dalla servitù della legge, una volta acquistata la libertà dello Spirito Santo,  poiché dov'è lo Spirito del Signore lì è la libertà.   Questa definizione delle sei età riguarda propriamente la persona del  Padre poiché, evidentemente, il Padre, per mostrarsi signore effettivo di tutta  la terra, ha preteso dai suoi sudditi l'assoluta obbedienza dei sei tempi. Com-  piutisi questi tempi, in seguito, nel settimo tempo, il Padre mostra, a coloro che  gli hanno obbedito, l'affetto dell'amore e la libertà della grazia nello Spirito  Santo, perché lo stesso Spirito è amore, e dove c'è l'amore c'è la libertà. Proprio  per questo, infatti, l'Apostolo dice: «dove è lo Spirito del Signore lì è la libertà». In conformità a tale generale definizione, riguardo alle sei età del mondo  occorre seguire quello che affermano i Santi Dottori, e cioè che nel sesto giorno  feriale è rappresentata la sesta età del mondo, nel sabato è significata la settima  età, e nella domenica l'ottava età, e poiché il sesto giorno è destinato alla fatica,  il settimo è riservato al riposo. Quel sabato sarà dunque colmo della gioia e della  letizia di tutti gli eletti, e ciò sia perché l'esercito dei santi martiri e degli altri  giusti sarà riunito in Cielo e regnerà con Cristo, sia perché al popolo di Dio  verrà concessa quella tregua sabbatica perché possa riposarsi dalla fatica della  sofferenza che ha sopportato nel corso dei sei tempi già quasi compiuti, e perchè  obbedisca al Signore nella libertà dello Spirito, poiché dov'è lo Spirito del  Signore lì è la libertà.   Questa definizione delle sei età viene comunemente riferita al Padre ed al  Figlio, poiché Padre e Figlio sono un unico Dio. Infatti, così come ciascuno dei  due singolarmente considerato è vero Dio, altresì considerati insieme essi non  sono due dei ma un unico Dio, ed avviene che alcune opere siano maggiormente  somiglianti al Padre ed altre al Figlio, così che essendo appunto uniti assieme si  manifestano in una forma unica anche se vengono chiamati distintamente con i  loro nomi. Diversa è la persona del Padre come diversa è la persona del Figlio,  tuttavia i due insieme considerati non sono due dei ma un unico Dio. E poiché  l'unico e lo stesso Spirito Santo procede non da uno solo dei due ma da en-  trambi, è chiaro che lo stesso Spirito sia in comunione con il Padre ed il Figlio  dai quali, appunto, procede all'infinito.   Questa definizione dei sei tempi o età concerne più propriamente la persona del Figlio, il quale Figlio, certamente, per dimostrarsi maestro univer-  sale ha preteso un'assoluta osservanza della disciplina nel corso delle sei età.  Compiuti questi tempi, a coloro che operano con pazienza, Egli mostra nel suo  Spirito abbondanza d'amore e piena libertà di grazia, poiché il timore non è  compatibile con la carità, e perché la perfetta carità allontana il timore. In  questa Figura viene quindi esposto un grande mistero riguardante particolar-  mente la fede cattolica. Tutte le cose che Dio ha fatto le ha fatte nella sapienza.  La vera sapienza consiste nel conoscere e nel comprendere il Creatore, ed, in  particolare, attraverso le cose che sono state rese visibili, nel comprendere i sui  aspetti invisibili e nel contemplare Colui che ci ha creati. Dice infatti il Signore  nel Vangelo: «il Padre mio opera nello stesso modo nel quale opero anch'io».  Perciò è come se dicesse: mio Padre ha operato così che attraverso le opere  compiute a sua immagine nel primo stato del tempo, potesse dimostrare di  essere vero Signore e vero Dio, ed anche io opero cose simili in questo secondo  stato, così che né il Padre potrebbe agire senza di me, né io stesso potrei  operare senza il Padre, e ciò per dimostrare di essere identico a mio Padre,  poiché egli è Dio così come sono io stesso Dio, ed Egli stesso è onnipotente così  come io sono onnipotente. E, dunque, le opere del primo stato attengono  specificamente alla persona del Padre, mentre le opere del secondo stato riguar-  dano la persona del Figlio, e, d'altra parte, ad entrambi possono essere riferite  le opere di ciascuno dei due. Il Padre ed il Figlio sono infatti due persone.  Ciascuno di loro è Dio ed al contempo entrambi sono un unico Dio. E così  anche lo Spirito Santo viene detto Spirito del Padre perché procede dal Padre  ed in conformità a lui. Infatti non siete voi a parlare ma è lo Spirito del Padre  vostro che parla in voi. Viene anche definito Spirito del Figlio perché procede  dal Figlio conformemente a lui, secondo quanto si afferma: «Dio ha immesso  nei nostri cuori lo Spirito del Figlio che dice: Abba, Padre!». Ed altrettanto  l'Apostolo dice dello Spirito Santo: «dove è lo Spirito del Signore Ti è la libertà».  La servitù riguarda i sei giorni ed i sei giorni significano i sei tempi, la libertà  invece concerne il settimo giorno ovvero il settimo tempo. E proprio per questo  il settimo giorno ed il settimo tempo sono denominati sabato e riposo. Bisogna  considerare attentamente che dopo i sei tempi tribolati del primo stato è stata  concessa libertà e riposo nello Spirito Santo, e considerare altresì fino a che  punto il popolo dei fedeli abbia sopportato la servitù ed il giogo della legge per  servire il suo Signore nella libertà dello Spirito, poiché, come dice l'Apostolo:  «non avete ricevuto lo Spirito della servitù ancora una volta nel timore, ma  avete ricevuto lo Spirito dell'adozione filiale» per il quale possiamo dire: «Abba,  Padre!». Perciò, poiché lo Spirito Santo procede dal Padre ed a questi spetta il  sabato e la libertà, era necessario in conformità a ciò, che la settima età iniziasse  dal momento in cui Cristo è venuto nel mondo, perché questa età è stata  concessa come il sabato per il popolo di Dio. E per tale ragione è stato inviato  nello stesso tempo lo Spirito Santo, perché iniziasse quella età. Allo stesso  modo, dopo i sei tempi faticosi di questo secondo stato che, in conformità a  tale spiegazione, è iniziato con Ozia, ovvero con Mosè, verrà conferita al  popolo Cristiano la libertà, non vi è dubbio, nello Spirito Santo, affinché si  vedano svelate le cose che fino ad ora risultano ancora oscuramente percepibili  solo come di riflesso. E così noi stessi procederemo di glorificazione in glorifi-  cazione, e dallo Spirito del Signore verrà concessa la pace, nonché il sollievo wmasSÈ dalla croce perché si possa trovare nel Signore riposo dalle tribolazioni. Ciò  accadrà dopo i sei faticosi tempi del secondo stato che abbiamo detto essere  pertinenti piuttosto al Figlio, perché lo Spirito Santo dimostri di procedere dal  Figlio di Dio. Esso stesso lo definirò Spirito che procede dal Padre, perchè solo  uno e sempre lo stesso Spirito procede da entrambi. Per questa ragione la  glorificazione della settima età è stata rimandata fino a questi tempi, poiché i  tempi travagliati hanno impedito il riposo del sabato che è stato concesso solo in  parte e non integralmente, fino a che si compiano i tempi del secondo stato che  sono destinati alla fatica dei cristiani. È dunque per quanto annunziato dal  Padre e dal Figlio che crediamo che ognuno di loro sia vero Dio, e, cioè, che  il Padre non sia generato da alcuno come Dio ed altresì che il Figlio derivi come  Dio da Dio. Poiché, in realtà, il Padre ed il Figlio, dai quali procede lo Spirito  Santo, non sono simultaneamente due dei ma un Dio solo, secondo quanto  afferma il Figlio nel Vangelo dicendo: «Quando verrà lo Spirito Santo che io  invierò a voi dal Padre», occorrerà che si concludano in altro modo le sette età,  in maniera che vengano conteggiate fino a Cristo cinque età, ed, inoltre, la sesta  fino alla definitiva incarcerazione di Satana, ed, ancora, la settima fino alla  resurrezione dei morti.   IL SALTERIO A X CORDE   UN'IMMAGINE MUSICALE NELLA RIFLESSIONE  TEOLOGICA MEDIEVALE  Questa ricerca si colloca all'interno del seminario tenutosi  a Pavia nel secondo semestre "Teologia e  altri saperi nel Medioevo" e vuole essere un contributo alia  comprensione del difficile rapporto tra teologia e musica in quest 1 epoca.  In particolare verra presa in esame la figura del salterio a dieci corde  come esempio di un punto di contatto tra le discipline. Quello die  tradizionalmente e considerato lo strumento biblico per eccellenza,  viene infatti "preso a prestito" da alcuni ambiti della riflessione  teologica medievale, che attraverso una interpretazione simbolica e  allegorica ne arricchisce l'originaria disposizione. Dopo una  introduzione relativa alia storia dello strumento in epoca biblica e  medievale si considereranno nello specifico il Discorso n. 9 di Agostino, in  cui l'autore recupera l'immagme in un contesto prevalentemente  teologico-morale, e si proporra quindi una disamina del Primo libro  del Salterio a dieci corde di F., per mettere in luce la  valenza mistico-escatologica che qui viene attribuita alio strumento. Il  filo conduttore della ricerca consiste dunque nel rintracciare,  nell'ambito di una riflessione che nasce e si sviluppa aH'interno di un  contesto dichiaratamente teologico, ma che trae motivi e sostegno  argomentativo dal riferimento all'immagine di uno strumento musicale,  delle possibili influenze, o in qualche modo degli spostamenti di  traiettoria, dovuti all'interazione tra le due discipline. Una breve storia del salterio a dieci corde.   L'interesse particolare per il salterio a dieci corde ha origine nel  testo biblico. Il Libro dei Salmi indica questo strumento come il piu  adatto per accompagnare il canto dei versi, e sembra essere attribuita  alio stesso Davide una certa abilita nella pratica di tale arte. Se i risultati  della moderna esegesi sembrano concordare nell'attribuire alia figura  di Davide un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento e di  consolidamento di una pratica musicale aH'interno della comunita  ebraica 1 , risulta ben piu problematica la collocazione definitiva dello  strumento in questione. La piu recente traduzione del Testo Sacro, in  diversi punti, preferisce rendere attraverso la locuzione piuttosto  generica di "strumento a corda" dei termini di poco chiara  comprensione musicologica. Il libro della Genesi, particolarmente ricco di riferimenti a pratiche  e strumenti musicali, identifica nel kinnor lo strumento nel quale Davide  eccelle. Dalla narrazione si evincono delle caratteristiche che  potrebbero awicinare come tipologia di strumento il kinnor e la lira  greca chiamata kithara 2 . D'altro canto, pero, la pratica musicale di tale  strumento prevede l'utilizzo di un plettro per pizzicare le corde, il che  sembra essere in contrasto con la traduzione proposta nella versione  dei Settanta: il termine psalterion rimanda infatti etimologicamente al  verbo psallein, che significa letteralmente "pizzicare con le dita.  Nel periodo dei Re la scena musicale di Israele muta radicalmente:  proprio sotto l'impulso di Davide e di Salomone si sviluppa  un'organizzazione e un'istituzionalizzazione delle pratiche musicali  all'interno della comunita. Nasce la figura del musicista di professione,  comincia a distinguersi in modo netto la musica di corte dalla musica  del Tempio, si costituisce una vera e propria accademia come luogo  dell'educazione musicale, e vengono inseriti, accanto a quelli  tradizionalmente usati, nuovi strumenti musicali. Alcuni di questi,  come per esempio il nevel, possono fornire delle utili indicazioni a  proposito del nostro strumento. Il nevel e certamente uno strumento a  corda: nella versione dei Settanta il termine e reso attraverso l'utilizzo  di tre parole distinte, una delle quali e proprio psalterion. La     Una tale interpretazione prende le mosse direttamente dal testo biblico, che in piu  punti sembra concordare nell'attribuire a Davide il ruolo di "poeta" e di "musico":  cfr. 1 Sam 16, 16; 18, 10; 2 Sam 1, Per l'argomento del presente capitolo si fara riferimento al testo di C. Sachs, Storia  degli strumenti musicali, Papini, Mondadori, Milano] trasposizione latina di questo termine tende a far prevalere psalterium in  tutti e tre i casi, tanto che nell'intera Vulgata questo termine occorre  diciassette volte. La traduzione puo far pensare ad uno strumento  simile all'arpa: lo stesso Gerolamo ci informa del fatto che «psalterium  lignum illud concavum unde sonus redditur superius habet. Sembra  quindi possibile associare la struttura del nevel a quella dell'arpa  verticale angolare, diffusa sia nell'area greca che in quella fenicia. La  questione e pero ulteriormente complicata da un altro termine che nel  libro dei Salmi compare frequentemente associato a nevel, ed e legato  strettamente alia problematica del salterio a dieci corde: il termine asor.  Questa parola letteralmente significa "dieci". L'esegesi ha piuttosto  uniformemente interpretato tale accostamento come il riferimento ad  uno strumento musicale con dieci corde. Piu recenti studi musicologici  hanno invece mostrato che il termine potrebbe essere piu  correttamente inteso non come attributo riferito a nevel, ma come  sostantivo. Come tale rimanderebbe quindi ad uno strumento  autonomo, a riguardo del quale e difficile formulare ipotesi. Potrebbe  essere infatti proprio questo lo strumento a dieci corde da cui ha preso  spunto la traduzione greca, come del resto non sembra possibile  escludere la possibility che il salterio a dieci corde sia stata una  "invenzione" dei traduttori greci e latini che non trova una  corrispondenza immediata nelle pratiche musicali ebraiche.   La problematica relativa alia classificazione degli strumenti a corda  in epoca medievale e ancora oggi piuttosto incerta. Sicuramente e  attestabile una ampia diffusione di arpe e cetre, che differivano pero  tra loro anche notevolmente per quanto riguarda la forma, le  dimensioni, il numero delle corde e le accordature. Il salterio e senza  dubbio riconducibile alia famiglia delle cetre, e in particolare ad uno  strumento a corde pizzicate provenienti dall'area meridionale del  Vicino Oriente, il qanum. Tale strumento si distingue dal santir, che  costituisce un'altra tipologia di cetra proveniente dall'area asiatica, la  cui pratica musicale prevedeva la percussione delle corde attraverso  l'utilizzo di bastoncini. Sembra interessante sottolineare che la prima  rappresentazione grafica medievale di uno strumento simile al salterio  risale ad un rilievo del 1184 che si trova a Santiago de Compostela, e che [Dalla lettera di Gerolamo a Dardano. La citazione si trova in C. Sachs, Storia  degli strumenti musicali. Per una disamina della questione in epoca medievale, oltre al gia citato testo di  Sachs, si veda: Giulio Cattin, La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1979; e  Alberto Gallo, La polifonia nel medioevo, EDT, Torino. in generale tali rappresentazioni sono piuttosto rare prima del '300.   Da queste considerazioni si puo dunque concludere che all'epoca in  cui maturano le riflessioni di Agostino e di Gioacchino da Fiore esisteva  uno strumento chiamato salterio. D'altro canto la sua diffusione  comincia ad avere una certa ampiezza solo in una fase piuttosto tarda  del medioevo. Bisogna infine tenere presente sullo sfondo il difficile  rapporto in epoca medievale tra musica liturgica e pratiche strumentali,  che rimane un tenia di ampio dibattito per la storiografia moderna. Questo sembra awalorare l'ipotesi secondo cui la ripresa deH'immagine  dello strumento trae origine da un contesto esegetico-teologico molto  prima che dall'osservazione di una pratica musicale vera e propria. Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a died corde".   Il Discorso di Agostino "Sul salterio a dieci corde" rappresenta un  punto essenziale per la comprensione e la formazione dell'immagine  "teologica" dello strumento in questione. Le attuali conoscenze  del corpus agostiniano non permettono di individuare con certezza ne la  data ne il luogo in cui tale discorso fu tenuto. Il recupero deirimmagine  del salterio si inquadra in questo caso all'interno di un contesto  propriamente teologico-morale: l'obiettivo e quello di delineare un  percorso di crescita morale per il credente basato sull'osservanza dei  dieci comandamenti. L'argomentazione trova quindi la sua forza nel  parallelismo che si instaura tra i dieci precetti divini e le dieci corde del  salterio.   Il punto di partenza consiste nell'indicare la necessita di trovare un  accordo con «l'avversario», che viene identificato con la parola di Dio,  dal momento che «comanda cose contrarie a quelle che fai tu» 5 . In un  certo senso, quindi, l'avversario sarebbe meglio identificabile con la  nostra disposizione interiore, che ci allontana da un comportamento  moralmente corretto in senso cristiano. Seguire le disposizioni interiori  risulta infatti molto pericoloso nell'ottica agostiniana, in quanto da un  lato si e spinti ad assecondarle poiche procurano un piacere immediato,  dall'altro proprio tale piacere e ricondotto alia sfera del sensibile e  rappresenta quindi una minaccia per la vita ultraterrena. Allora     Agostino, Tractatus de decern chordis; tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Trattato  sul salterio a dieci corde; in Agostino, Discorsi; sul vecchio testamento, Citta Nuova,  Roma. perche dovremmo camminare allietati da inutili canti che non ci  porteranno alcun vantaggio, dolci nel presente, amari in futuro? L'emergere di questo tenia del canto ci permette di riferire lo stesso  schema sopra rilevato alia musica. Sembra delinearsi infatti una  concezione ambivalente di tale disciplina: da un lato, nel suo corretto  uso, rappresenta uno strumento di grande forza ed espressivita  interiore, che puo permettere all'uomo di innalzarsi verso la sfera  divina. Dall'altro, se considerata nella sua dimensione sensibile, puo  essere la fonte di un «appagamento dell'orecchio» che rappresenta un  motivo di corruzione. Va notato che una tale impostazione e  riscontrabile in numerosi passi di Agostino, in primis nel De musica, ed e  un'eredita che l'ipponense riceve da una lunga tradizione filosofica  riconducibile come minimo a Platone 7 . La problematica ha avuto una  grande fortuna nella discussione della prima patristica 8 in relazione alle  modalita della pratica religiosa, e rimane uno sfondo obbligato per la  comprensione della musica cristiana in tutto il Medioevo 9 .   Su questo sfondo Agostino introduce il tema piu propriamente  morale, recuperando la figura del salterio:   «ecco, porto il salterio, ha dieci corde [...]. Perche e aspro il suono del  salterio di Dio? Cantiamo tutti con il salterio a dieci corde. Vi cantero  quello che dovrete fare. Il decalogo della legge infatti ha dieci  comandamenti». 10   L'asprezza attribuita al suono dello strumento non e evidentemente da  ricondurre ad un ambito musicale, quanto da intendere in senso  figurato come metafora della difficolta del cammino da compiere per  ottenere la benevolenza divina. La giustificazione del recupero  deirimmagine dello strumento e indicata nel legame ideale che si  instaura tra i dieci comandamenti e le dieci corde. In relazione a questo  tema e da rilevare come Agostino, riprendendo una esegesi molto  diffusa, distingua i primi tre comandamenti, e quindi le prime tre Si veda il VII libro delle Leggi, e il III libro della Repubblica, per esempio.   8 Un'analisi piu puntuale di tale discussione, interpretata in relazione alia  concezione agostiniana, si trova in: P. Sequeri, Musica e mistica, Libreria Editrice  Vaticana, Citta del Vaticano, 2005, cap. 2, pp. 45-106.   9 Si veda in particolare l'ampia discussione sul rapporto tra musica cantata e musica  strumentale, e il problema della musica vulgaris in relazione alia musica liturgica.  Una disamina di tali questioni si trova nei testi gia citati di Giulio Cattin e Alberto  Gallo.   10 Agostino, Sul salterio a dieci corde., corde, che rimandano ai doveri verso Dio, dai successivi sette, che  danno disposizioni relative al comportamento verso i propri simili.  Sebbene l'intento primario del discorso non sia un intento musicale, la  metafora istituita tra il percorso cristiano e la figura del salterio e  portata fino in fondo: dal corretto utilizzo dello strumento, che  corrisponde al rispetto disciplinato dei comandamenti, emerge il  «canto nuovo», che si contrappone al vecchio proprio come l'uomo  nuovo, che nasce a seguito della venuta di Cristo, si contrappone  all'uomo dell'Antico Testamento. Il canto d'amore che nasce con Cristo  prende il posto del timore, che lega l'osservanza della legge alia paura  della punizione divina. E 1 questo il nocciolo argomentativo del discorso,  e il tema viene ribadito in piu punti. Al capitolo 8 Agostino afferma:   «Cambiate il comportamento. Prima amavate il mondo, ora amate  Dio.  Se lo fate con amore, cantate il canto nuovo. Se lo fate con  timore, ma lo fate, portate si il salterio, ma ancora non cantate» n .   Nel capitolo 13, che rappresenta il culmine del discorso,  l'argomentazione viene ribadita attraverso l'utilizzo di una metafora  che le conferisce una grande forza persuasiva. L'osservanza dei  comandamenti deve implicare contemporaneamente un atto di  ringraziamento a Dio per la grazia concessa, e un atto di repulsione e di  lotta interiore contro la passione sensibile. Il credente, quindi, deve  comportarsi da un lato come il suonatore di cetra che innalza le sue lodi  a Dio, dall'altro come il gladiatore che uccide senza compassione le  belve nell'arena. Il passo merita di essere citato testualmente:   «Negli spettacoli dell'anfiteatro il gladiatore e diverso da chi suona  la cetra. Nello spettacolo di Dio unica e la persona. Tocca le dieci  corde e ucciderai le dieci belve: fai insieme tutte e due le cose. Tocchi  la prima corda, con la quale si comanda di adorare un solo Dio, cade  la bestia della superstizione. Tocchi la seconda corda con la quale  non pronunci erroneamente il nome del Signore tuo Dio, cade la  bestia dell'errore delle nefande eresie che hanno creduto falsamente.  Tocchi la terza corda, per cui qualunque cosa fai la fai per nella  speranza del riposo futuro, viene uccisa la bestia, piu crudele delle  altre, dell'attaccamento a questo mondo. Lo stesso discorso vale per i successivi sette comandamenti, che  enunciano i nostri doveri verso gli uomini, fino a che     11 M, p. 165.   12 Ivi, p. 173. «cadute tutte le bestie ti trovi sicuro e innocente nell'amore di Dio e  in mezzo alia societa umana. Quante bestie uccidi toccando le dieci  corde! Molti capi infatti si nascondono sotto questi vizi capitali.  Nelle singole corde non uccidi singole bestie, ma greggi di bestie.  Facendo in questo modo canterai il canto nuovo con amore, non con  timore. Il «canto nuovo», dunque, si puo innalzare attraverso l'osservanza  dei comandamenti divini. Si istituisce cosi una contrapposizione tra  l'uomo vecchio dell'Antico Testamento che basa sul timore l'osservanza  della Legge divina, e l'uomo nuovo che nasce con la rivelazione di  Cristo che basa sull'amore verso Dio e verso il prossimo la propria  condotta. In questa contrapposizione e centrale l'elemento del canto: il  canto esteriore, che si fonda sull'appagamento sensibile, rappresenta la  pratica musicale dell'uomo vecchio, mentre il canto interiore, che  innalza il nostro animo a Dio, e proprio dell'uomo nuovo. E' quindi  significativo come, attraverso il ricorso alia musica, Agostino voglia  argomentare la pericolosita delle passioni terrene. Nella sua intrinseca  ambivalenza e nella sua sfuggente duplicita, proprio la musica diventa  il modello della fragilita e della corruttibilita dell'uomo: anche un  elemento apparentemente cosi puro e spirituale puo trasformarsi in  una causa di corruzione per colui che non si comporta in conformita  alia parola di Dio. L'ammonimento, che trova il suo motivo e il suo  compimento all'interno di un contesto teologico-morale, risulta  certamente arricchito e reso persuasivo attraverso il ricorso a questa  metafora musicale.   Negli ultimi capitoli del discorso Agostino, seguendo uno schema  piuttosto consolidato, traduce l'argomentazione fino a questo punto  esposta in un lessico neotestamentario: il decalogo di Mose puo essere  sintetizzato nelle formule evangeliche «ama il prossimo tuo come te  stesso» 14 e «non fare agli altri cio che non vuoi sia fatto a te» 15 .  Conseguentemente, l'immagine del canto interiore ed esteriore viene  riformulata attraverso l'espressione «siate cristiani, perche e troppo  poco chiamarsi cristiani». 16   E' importante notare come le riflessioni qui proposte siano presenti,  seppur in maniera meno sistematica, nei commenti di Agostino ai  Salmi: nel commento al Salmo 32 compare il paragone tra i dieci     13 Ivi, p. 175.   14 Mt 19, 19; Mc 12, 31; Lc 10, 27.   15 Mt 7, 12; Lc 6, 31.   16 Agostino, Sul salterio a dieci corde. comandamenti e le dieci corde del salterio, nel commento al Salmo 143  il tema centrale del canto nuovo che nasce attraverso la carita 17 . Questo  particolare e di una certa rilevanza per la nostra ricerca, dal momento  che permette di dare per scontata la conoscenza delle posizioni  agostiniane da parte di Gioacchino da Fiore. E 1 del tutto implausibile  infatti pensare che l'abate cistercense non conoscesse il testo  delle Enarrationes, mentre non sarebbe altrettanto da dare per scontata  la conoscenza del Discorso fin qui considerato. Senza voler in questa  sede risolvere un problema che meriterebbe una piu approfondita  indagine storiografica, si vuole rilevare che la ripresa delle posizioni  agostiniane da parte di F., in questo contesto argomentativo,  si riferisce sicuramente ai passi citati dell 1 Esposizione sui Salmi, mentre  sembra trascurare alcuni elementi che pur assumono una importanza  non secondaria nel Discorso.     4. Il "Salterio a dieci corde" di F.: il  contesto storico e il Prologo   Lo Psalterium decern chordarum rappresenta il principale contributo  di F. sul tema della trinita, ed e dunque da inquadrare  aH'interno di uno dei dibattiti piu accesi della discussione teologica del  XII secolo. In seguito al confronto, di vastissima risonanza, che vide  contrapposte le figure di Abelardo e di Bernardo di Clairvaux, la disputa  fu ravvivata dalla pubblicazione delle Sententiae di Pietro Lombardo, tra  gli anni 1155-1157. Le tesi contenute in quest'opera suscitarono aspre  [Si veda anche il commento al Salmo 91 dove compare il tema sintetizzabile nella  massima «siate cristiani, non ditevi cristiani». Un altro tema particolarmente  ricorrente nelle Enarrationes consiste nella differenza tra la cetra e il salterio.  Nell'interpretazione agostiniana infatti in relazione alia differente disposizione  della cassa di risonanza i due strumenti rappresentano lo spirito (il salterio, che ha  la cassa disposta verso l'alto) e la carne (la cetra, la cui cassa e invece orientata  verso il basso). Il tema compare in diversi passi: si veda 70 d 2, 11; 80, 5; 97, 5; 150,  6-7. Particolarmente interessante e la formulazione nel commento al Salmo:  «c'e una differenza tra la cetra e il salterio. Gli esperti dicono che il salterio ha  nella parte superiore quel legno concavo su cui sono tese le corde e fa da cassa di  risonanza, mentre la cetra lo ha nella parte inferiore». Il riconoscimento di un  particolare cosi macroscopico non sembra certo necessitare il riferimento a giudizi  "esperti". Si potrebbe pensare, addirittura, che Agostino non avesse mai visto  personalmente gli strumenti in questione. critiche da parte di diversi opposition 18 , tra i quali proprio F.. Quest'ultimo, infatti, prende una posizione decisa contro gli  argomenti sostenuti dall'allievo di Abelardo, fino al punto di vedere  condannata la sua stessa opera nel IV Concilio Lateranense. Il  nocciolo della disputa e la distinzione tra sostanza e persone divine, che  risulta comunemente accettata nelle principali scuole teologiche del XII  secolo. F. arriva a sostenere la «follia» di una tale impostazione,  teorizzando, al contrario, la perfetta compenetrazione e corrispondenza  tra la sostanza e le persone della trinita. Nella sua ottica, l'unita  inscindibile che caratterizza la trinita non puo prevedere distinzioni di  alcuna sorta: e piuttosto il carattere relazionale che permette di  garantire la fusione perfetta tra le tre persone, e alio stesso tempo il  loro riconoscimento singolare, come dimostra chiaramente la figura del  salterio. Distinguendo la sostanza dalle persone della trinita, invece,  Lombardo «e come se mettesse tre dieci al posto delle tre persone, e un  quarto dieci al posto della sostanza, come se Dio non fosse trinita, ma  una quaternita» 19 . La figura argomentativa che viene posta al centro  della critica e quella tradizionale dei tre rami provenienti dalla stessa  radice: la sostanza, secondo questa metafora, sarebbe distinguibile dalle  tre persone divine, proprio come i rami lo sono dalla radice, dalla quale  pure tutti sono generati. Per F., al contrario, l'immagine a cui  si dovrebbe fare ricorso e quella dell'acqua, che come linfa vitale scorre  aH'interno dei rami stessi. Da questi passi si puo dunque intuire come  l'obiettivo polemico principale sia proprio l'autore delle Sententiae,  anche se e da rilevare che il suo nome non viene mai citato  esplicitamente. I nomi che ricorrono in piu punti, invece, sono quelli  degli eretici Sabellio e Ario, le cui eresie consistono nel ridurre, il  primo, la trinita ad una sola persona 20 , mentre il secondo nel separare  in modo inconciliabile le tre persone, che vengono distinte per grado  dimensionale: «come se al Padre offrisse dieci, al Figlio cinque, alio [Si ricorda ad esempio Gerhoh di Reichersberg, le cui posizioni ebbero grande  influenza sul Papa Alessandro III, e Giovanni di Cornwall. Per un'analisi piu  puntuale del dibattito si veda G. L. Potesta, J/ tempo dell'Apocalisse. Vita di F., Laterza, Roma Bari. G., ll salterio a dieci corde, tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, Viella,  Roma. Sabellio teorizza infatti la rigorosa unita e indivisibility di Dio, formato da una sola  persona, l'ipostasi, e tre nomi, che descrivono le diverse forme o attributi propri  della sua manifestazione. Il figlio e lo Spirito Santo sono quindi soltanto "modi"  dell'apparire del Padre scelti in base al proprio volere. Spirito Santo un numero piu piccolo». 21   La stesura dell'opera si colloca all'interno di una vicenda biografica  particolare, di cui e lo stesso F. ad informarci. Il Prologo  dell'opera, infatti, consiste in un ripensamento a posteriori sulla genesi  di questo «opuscolo dedicato alio Spirito Santo», che rappresenta la  terza delle sue opere principali 23 . Il tenia principale su cui si insiste in  queste pagine e la spontaneita e l'immediatezza che hanno  caratterizzato l'elaborazione e la stesura di tale opera. Gli anni in cui  questo awiene sono quelli del soggiorno presso l'abazia di Casamari:  anni di grande entusiasmo intellettuale, in cui F., «lontano  dagli affari del mondo, o quasi», arriva a sentirsi addirittura «un  abitante della citta superiore, celeste di Dio» 24 . Si tratta degli anni tra il  1182 e il 1185, in cui gli sforzi intellettuali dell'abate sono rivolti  alia Concordia Novi ac Veteris Testament^ che sara portata a termine solo  qualche tempo piu tardi. E 1 proprio durante la stesura di quest'opera,  infatti, che l'animo di Gioacchino viene scosso da una inaspettata  «esitazione nella fede della trinita» 25 , che impone una riflessione su  questo difficile argomento. Il lavoro sulla Concordia viene quindi  interrotto, nell'interesse di una problematica costitutiva ed  imprescindibile per qualsiasi riflessione teologica. La stessa  immediatezza che caratterizza il sorgere del problema si ritrova nel  percorso che porta alia scoperta di una soluzione:   «pregai [lo Spirito Santo] che si degnasse di mostrarmi il sacro  mistero della Trinita. E dicendo questo incominciai a cantare i salmi.  [...] Ed ecco subito mi si presento all'animo l'immagine del salterio. F., II salterio a dieci corde. La tesi fondamentale di Ario  consiste nella negazione della consustanzialita tra il Padre e il Figlio, a partire  dall'idea che l'unita di Dio e incompatibile con la pluralita delle persone divine. Il  Figlio, quindi, non ha la stessa natura del Padre, ma e la sua prima creatura, con la  conseguenza che l'incarnazione e la resurrezione di Cristo non possono essere  considerati eventi divini. il dibattito sull'arianesimo infiammo la disputa teologica  del IV secolo, e si concluse con la condanna delle tesi di Ario durante il Concilio di  Nicea. F., Il salterio a died corde, cit., p. 4.   23 Le altre due opere che costituiscono il corpus principale gioachimita sono  la Concordia Novi ac Veteris Testamenti e I'Expositio in Apocalypsim. Va qui notato che  l'indicazione del "Salterio a dieci corde" come "terza" opera e sostenuta  conformemente alle istruzioni date dallo stesso F.. Tale affermazione non  e riconducibile a ragioni cronologiche, quanto probabilmente ad un ripensamento  tematico sui propri scritti da parte dell'autore. F., Il salterio a dieci corde. 10 a dieci corde e racchiuso nella sua forma stessa in modo chiaro e  comprensibile il mistero della trinita» 26 .   Una vera e propria illuminazione, che scaturisce dalla grazia divina: un  percorso che sembra orientarsi ben piu sul versante mistico che su  quelle- speculativo-razionale. In questo contesto il tenia del canto  riveste un ruolo essenziale, come chiave di accesso ad un'intima  comunicazione con la parola di Dio. Il concetto viene ribadito in un  altro passo del Prologo:   «quando, con fervore di novizio cominciai ad amare il canto dei  salmi a causa di Dio, molti aspetti della scrittura divina che prima  leggendo non avevo potuto investigare, cominciarono a dischiudersi  a me che cantavo i salmi in silenzio. Il carattere mistico del canto, che puo innalzare lo spirito verso  quei misteri che risultano oscuri alia lettura razionale, emerge in  queste righe con estrema efficacia. Alio stesso tempo, pero, non si puo  trascurare l'elemento del canto silenzioso, che sembra rimandare  invece all'altro versante della concezione platonico-agostiniana: la  valenza corruttrice dell'elemento sensibile. Un canto che viene quindi  ricercato in un grado tale di purezza da poter arrivare addirittura ad  annullare se stesso. L'indicazione di F., in questo punto, non  sembra volersi spingere fino a questa paradossale conclusione, che pur  e stata teorizzata da diversi autori in epoca medievale. Il recupero  dell'elemento musicale, come si vedra, procede piuttosto in conformita  all'impianto complessivo dell'opera, finalizzato ad «esaltare le  potenzialita figurali e le implicazioni visive della Sacra pagina. L'idea e  di attingere a un repertorio di enti visibili per accedere ah"invisibile. Si potrebbe dire che l'elemento figurato incarna ed esplica, in un  certo senso, il contenuto di verita degli argomenti teorici qui proposti.  Se da un lato questa incarnazione segna anche il punto di partenza per  un percorso spirituale che, pur procedendo al di fuori del confine della  razionalita logica, puo innalzare alle sfere del divino, dall'altro lato la  coerenza argomentativa non puo essere garantita se non all'interno del  riferimento ad un elemento materiale, esperibile, concretamente  attingibile. Il canto silenzioso non sembra quindi poter arrivare ad  eliminare la musicalita del canto sensibile, quanto piuttosto si  caratterizza come la prova tangibile di un dissidio non ancora risolto, Potesta, II tempo dell'Apocalisse, di un'ambivalenza strutturale nell'interpretazione della musica, che  dovra passare anche il confine del XII secolo prima di trovare una  soluzione.  La struttura dell'opera permette una divisione interna in due parti:  la prima comprendente il libro primo, la seconda il libro secondo e  terzo. Tale distinzione interessa sia il contenuto semantico, sia il  periodo di stesura: e lo stesso F. ad informarci del fatto che il  secondo e il terzo libro «non li scrissi ne in quel luogo ne in quell'epoca,  ma dopo circa due anni». E 1 un'informazione non sorprendente alia  luce del contenuto, che sembra separato da una linea ben definita. La  differenza consiste nel fatto che, mentre nella prima parte il "salterio"  rappresenta lo strumento musicale fin qui considerato, e la sua ripresa  e relativa alia disputa sulla trinita, lo stesso termine viene usato nella  seconda parte per indicare il libro biblico dei Salmi, a partire dal quale  viene costruita una prospettiva escatologica ed esegetica che si basa sul  numero 150, che corrisponde appunto al totale dei Salmi. Se la prima  parte si contraddistingue, come visto, per il carattere di immediatezza e  spontaneita della riflessione, la seconda appare, invece, certamente piu  pensata, piu costruita, in riferimento ad un ingente e puntuale recupero  del testo sacro. Caratteristiche che la avvicinano certamente piu alia  produzione escatologica di Gioacchino, che non al resto dell'opera. Si  potrebbe pensare, come afferma Potesta, che il materiale che forma  questi libri sia il risultato di una serie di appunti raccolti in circa un  decennio di riflessioni sulla Concordia e sull'Expositio, e che trova una  sistemazione definitiva piuttosto tarda. In ogni caso e evidente che e la  prima parte dell'opera ad interessare piu direttamente il tema della  nostra ricerca. Sara questa, dunque, l'oggetto del prossimo paragrafo.  Il "Salterio a dieci corde" di F.: il  Libro Primo   Il Primo libro del Salterio a dieci corde parte dall'immagine dello  strumento musicale per indagare la «ricchezza dei misteri» in essa  contenuti. Misteri che derivano dall'origine divina, per cui «niente puo  esservi di sterile o vano» 30 . Il riferimento e, ovviamente, in primo luogo  al testo biblico, e in particolare alia figura di Davide, autore dei Salmi, F., Il salterio a dieci corde.di cui vengono citati alcuni passi che rimandano all'utilizzo del salterio  nelle pratiche liturgiche ebraiche 31 . La struttura del libro risulta divisa  in sette capitoli, o "distinzioni", in cui progressivamente vengono  introdotti nuovi elementi per una comprensione che passa dal piano  della semplice descrizione alio svelamento della prospettiva  escatologica contenuta nella forma dello strumento.   La prima distinzione introduce la figura del salterio, che viene  descritto come uno strumento «bello di forma, aggraziato per il suono,  soave per la modulazione» 32 . Le caratteristiche che compaiono in questo  passo sono notevolmente diverse da quelle che si sono viste prevalere  nella descrizione agostiniana, in cui «aspro e il suono dello strumento  di Dio» 33 . Il riferimento e il confronto con gli elementi contenuti  nelle Enarrationes appare del resto evidente fin dalle prime righe del  capitolo: F. riprende, seppur in maniera estremamente  sintetica, la distinzione tra il salterio e la cetra nella loro differente  funzione spirituale, il paragone tra le dieci corde e i dieci  comandamenti, la differenza tra le prime tre corde e le successive  sette. E in seguito compare il tema dell 1 «uomo nuovo che e stato creato  a immagine di Dio» 34 , che nasce dal "canto nuovo" del salterio. Se e  facile dunque riconoscere sullo sfondo la presenza e la conoscenza delle  tesi agostiniane, risulta altrettanto semplice vedere come F.  proceda, ben presto, verso l'elaborazione di un percorso autonomo, che  per alcune implicazioni e addirittura contrastante con le posizioni  dell'ipponense. Sal. 80, 3: "Intonate il cantico e suonate il timpano, il giocondo salterio e la cetra";  Sal. 150, 3: "Lodatelo col suono della tromba, lodatelo col salterio e la cetra".   32 F., II salterio a dieci corde, Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 159.   34 Ef. 4, 24.   35 La problematica relativa al complesso rapporto tra Agostino e F. esula  dagli obiettivi di questa ricerca. Si vuole d'altra parte richiamare, almeno in  termini generali, lo sfondo entro il quale collocare la discussione. Potesta indica  proprio nel «confronto a distanza con l'inquietante ombra di Agostino un motivo  per capire il laborioso ed esitante procedere della ricerca teologica di F.  (Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit., p. 8). Il termine centrale del dibattito  consiste nel divieto espresso da Agostino di interpretare l'Apocalisse in chiave  millenaristica. Questo rappresenta un grande scoglio per lo sviluppo complessivo  della ricerca dell'abate calabrese, interessato, in primo luogo, proprio ad  un'interpretazione della storia a partire dall'analisi del testo dell'Apocalisse. In  particolare, la chiave di volta del pensiero gioachimita si basa sull'interpretazione  dei versetti del capitolo 20 come preannuncio di un'epoca terrena di cui e  imminente l'instaurazione. Su questo sfondo diversi sono gli elementi di  incompatibilita tra i due pensatori, che riguardano del resto le opere in cui la [Il punto di partenza di questo percorso consiste nell 1 inter pretare  in primo luogo il salterio secondo la sua forma esterna, senza fare  riferimento alia natura delle corde, che invece rappresenta il principale  motivo di interesse della ripresa agostiniana. La forma triangolare  rimanda alia perfezione e alia natura inscindibile dell'unita trinitaria:  ad ogni vertice puo infatti essere associato il nome di una delle tre  persone, come si puo vedere dalla figura 1 riportata in Appendice. Si  puo quindi immediatamente notare come ogni persona sia  costitutivamente messa in relazione alle altre: proprio come il vertice  non puo essere individuato se non come punto di incontro delle rette  che provengono dagli altri due. L'intero spazio delimitato dalla figura si  caratterizza quindi come uno spazio indissolubilmente unitario, in cui  ogni elemento non puo che definirsi nel rapporto con il tutto, ma alio  stesso tempo e individuabile in uno dei tre vertici. In questo complicato  rapporto e l'elemento relazionale a fondare le possibility di  comprensione da parte della mente umana: ogni persona non e  pensabile se non come relazione che si instaura con le altre due.   «ll concetto di trinita si riferisce, dunque, alia categoria di relazione  a qualcosa; e ugualmente quello di unita: la trinita a evitare il  singolare della parola di persona; l'unita a evitare la divisione nel  concetto di sostanza». 36   Sullo sfondo del riferimento polemico alle tesi di Lombardo,  risulta evidente come sia dunque la categoria di relazione ad indirizzare  e guidare la mente neiravvicinamento ad un mistero che per sua  essenza rimane inarrivabile per le nostre facolta razionali. Di fronte a  questa presa di coscienza non e piu concesso cercare di spingersi oltre,  quanto piuttosto e da accettare la massima di Bernardo secondo cui  «voler investigare cio e orgoglio, crederlo e pieta». Non resta dunque  che un atto di fede di fronte ad un tale mistero, che per sua natura  rimane «ineffabile». L'ineffabilita di tale mistero sembra riaprire nella prospettiva escatologica emerge in modo prevalente, come nel caso dell' Expositio.  L'interesse per l'Agostino musicus e quindi del tutto marginale, nel complesso del  pensiero di F., e viene qui richiamato solo per favorire la comprensione  della particolarita dell'approccio gioachimita nei confronti dello strumento del  salterio. Un tale confronto, del resto, potrebbe fornire qualche interessante  indicazione per una comprensione piu generale del problema. F., II salterio a died corde. L'utilizzo di questo termine per descrivere Palterita del mistero trinitario  rispetto alia nostra comprensione razionale avvicina curiosamente la riflessione di  F. ad un'area di indagine che ha avuto grande fortuna nell'eta moderna, riflessione uno spazio per l'elemento propriamente musicale: tra le arti  e tradizionalmente la musica, infatti, proprio a causa della sua non  corrispondenza con un corpo sensibile, della sua costitutiva  impalpability, ad avere il carattere piu sfuggente, apparentemente  altro. Ineffabile, appunto. Di fronte al fallimento delle nostre facolta  razionali, che devono dichiarare la resa, resta quindi all'uomo ancora  una possibility per mantenere aperto uno spiraglio, un punto di  contatto con il mistero divino: l'elemento musicale, attraverso cui  esprimere la propria invocazione di lode a Dio. Il salterio, in queste  pagine, cessa di essere interpretato esclusivamente come una forma  geometrica per cominciare ad essere considerato secondo la sua  disposizione originaria di strumento musicale. Ai vertici si puo quindi  collocare il termine "Santo", che ripetuto tre volte rappresenta la  perfezione del canto di lode, mentre nel foro della cassa di risonanza si  puo inscrivere il nome del "Signore Dio degli eserciti", simbolo  dell'onnipotenza divina. E proprio questo foro da un lato rappresenta  l'elemento da cui scaturisce la vibrazione sensibile che rende udibile il  canto, dall' altro il fine stesso verso cui tale canto e rivolto. L'ultimo passo compiuto da F. in questa prima distinzione  consiste nel mettere in relazione proprio questi due elementi  geometrici che contraddistinguono la forma del salterio: il triangolo e il  cerchio. Questa caratteristica permette di rimarcare la sfuggente  natura del mistero trinitario: nei vertici del triangolo sono infatti  distinguibili le persone divine, e d' altro canto il cerchio simboleggia la  loro intima connessione che forma un'unita inscindibile. La metafora  puo essere estesa al fatto che proprio in questa unita, cioe nell'elemento  circolare che rappresenta la cassa armonica da cui fuoriesce il suono, lo  strumento compie la sua funzione. La correttezza dell'argomentazione  e ulteriormente giustificata attraverso il riferimento al versetto di  Apocalisse 1, 8: "lo sono l'alfa e l'omega". L'essere atemporale di Dio, il  suo essere al principio come nella fine, e espresso in questo passo  biblico proprio in relazione alia prima e all'ultima lettera dell'alfabeto  greco, le cui raffigurazioni grafiche consistono in un triangolo e in un  cerchio. Il riferimento al passo biblico conclude gli sforzi di F. in questa prima distinzione: la perfezione del salterio, attraverso cui si  incarna in una forma compiuta il mistero trinitario, eleva ad una proprio nell'ambito della riflessione filosofico-musicale: si veda Jankelevitch, La musica e Vineffabile. Sebbene non si possa attribuire  a F., evidentemente, alcuna intenzionalita nell'utilizzo di questo termine,  il confronto tra le prospettive potrebbe portare ad interessanti conclusioni.  prospettiva che permette di abbracciare la perfezione dell'immagine di  Dio nella pienezza dei tempi. Di fronte a questo la ragione e costretta a  fermarsi, e proprio in quel punto deve cominciare il canto. Nella seconda distinzione F. insiste sull'elemento  relazionale come chiave interpretativa e risolutiva del mistero della  trinita. Ricorrendo ancora una volta aH'immagine del salterio, la  prospettiva e delineata attraverso l'osservazione per cui i tre vertici  non possono essere considerati elementi autonomi, ma relazionali,  prodotti dall'unione di due rette secanti. Rette che rappresentano  proprio l'unione di ogni vertice con gli altri due, in modo che nessun  punto potrebbe esistere se non in riferimento agli altri. Lo spazio che  pertiene ad ogni persona, non e pero da intendersi come il singolo  punto isolato, ma come l'angolo avente il suo vertice in quel punto, che  come tale e rappresentato dall'area che sta in mezzo ai lati dell'angolo  stesso. Si puo notare, quindi, che lo spazio di ogni persona coincide con  l'intera area del triangolo. Anzi, ogni area si costituisce in quanto tale,  cioe come porzione delimitata di spazio, proprio attraverso la relazione  con le altre due, che le impediscono di estendersi all'mfinito. La terza distinzione contiene una discussione prettamente teologica  sugli attributi delle tre persone divine, e riguarda in modo meno diretto  il tema della nostra ricerca. Si vuole solo osservare come anche questa  prospettiva permetta a F. di insistere sul concetto di relazione  come elemento centrale per una corretta interpretazione del problema:  la potenza, la sapienza e la carita, caratteristiche che vengono  tradizionalmente attribuite al Padre, al Figlio e alio Spirito Santo, non  sono da concepire come elementi distinti e separabili tra loro, dal  momento che «tutta la trinita e perfetta potenza, tutta la trinita e  perfetta sapienza, tutta la trinita e perfetto amore. Conseguentemente «non sono maggiori o hanno di piu le tre persone,  di quello che ha ciascuna, e non ha meno una, di quello che hanno le tre     insieme. Nella quarta distinzione si introduce un nuovo elemento  nell'interpretazione del salterio, che consiste nell'osservare che il  vertice superiore non e rappresentato attraverso un singolo punto, ma  da un segmento. Questo esprime la priorita del Padre da cui viene  generato il Figlio e successivamente lo Spirito Santo, che procede da  entrambi. L'argomentazione assume in queste pagine dei tratti piuttosto  originali, strutturandosi sulla base di un parallelismo ricercato tra F., II salterio a died corde. l'argomento teologico e la nostra modalita di scrittura. Il procedere  della scrittura cristiana da sinistra verso destra starebbe infatti a  conferma del fatto che la creazione ha inizio col Padre, che genera in  primo luogo il Figlio (lato e vertice sinistro), la cui unione produce lo  Spirito Santo (inteso come vertice destro). Al contrario, stando alle  Scritture, in epoca ebraica Cristo e stato concepito attraverso il corpo di  Maria «per opera dello Spirito Santo» Questo fatto e testimoniato dal  procedere della scrittura ebraica da destra verso sinistra. F.,  del resto, si rende conto che gli elementi introdotti in queste pagine  potrebbero indurre a pensare a una differenza di grado tra le persone  divine, il che sarebbe assolutamente errato. E 1 necessario, quindi,  spingere la lettura interpretativa ancora piu in la, osservando che il  segmento superiore e tale dal momento che in origine non e soltanto il  Padre, ma l'intera trinita, poiche «presso Dio non c'e mutamento, ne  l'ombra della vicissitudine. La forma trapezoidale del salterio indica  quindi che, fin dal principio, erano presenti le tre figure della trinita: e  questo l'argomento della quinta distinzione.   Il confronto tra la particolare considerazione del salterio che viene  fatta nella quarta e nella sesta distinzione, permette di mettere in luce  ancora una volta la peculiarity della riflessione di F. che,  basandosi sul recupero di un'immagine "musicale", oscilla tra le due  sponde della rigida argomentazione teologica e dell'emozione mistica  rappresentata dal canto. Il termine "Onnipotente" che compare nel  vertice del Padre viene qui sostituito da "chiediamo": il salterio torna a  essere uno strumento musicale attraverso cui innalzare la nostra  invocazione al divino. Ancora una volta, di fronte all'incertezza della  ragione, che si trova a dover contemplare l'incommensurabile  perfezione dell'eterna esistenza di Dio, sopravvive l'elemento musicale,  inteso da un lato come strumento di comprensione mistica del mistero  divino, dall'altro come ringraziamento per la grazia concessa. Su questo  sfondo F. riprende il filo della riflessione teorica:  l'affermazione dell'eterna esistenza della trinita lascia aperto il  problema relativo al suo manifestarsi all'interno del tempo umano:  perche il divino, essendo trino fin dal principio, non si e da subito rivelato  all'uomo nella sua essenza piu autentica?   La domanda introduce all'interno di una prospettiva escatologica,  che F. argomenta attraverso una riflessione sul percorso di  maturazione dell'uomo. Dio ha dovuto in un certo senso aspettare che     41 Mt 1,18; Lc 1,26-38; Gv 1,6.   42 Gcl,17. 17 l'uomo fosse in grado di comprendere la sua rivelazione: per questo a  quel «popolo ancora rozzo» 43 che fu quelle- dell'Antico Testamento si  mostro solo come Padre, perche la sua natura trina sarebbe stata  fraintesa in senso politeista. In seguito solo a qualche spirito  particolarmente elevato, come quello dei profeti, e stato dato di  comprendere il mistero, come dimostra Isaia che in piu punti si rivolge  "apertamente" al Figlio: «Signore, chi crede al nostro udito, e il braccio  di Dio a chi e stato rivelato? E salira come un virgulto davanti a lui e  come una radice dalla terra assetata» 44 . Solo con l'avanzare della  maturazione dell'uomo, cioe con il popolo cristiano, «piu vecchio  nell'eta» 45 , Dio si e potuto mostrare nella sua reale essenza. A questo  schema apparentemente binario, che si struttura in riferimento alia  contrapposizione Antico-Nuovo Testamento, F. fa seguire  un'interpretazione ternaria del tempo della storia dell'uomo, che viene  suddiviso in riferimento alle figure della trinita. L'argomento viene meglio sviluppato nel libro secondo, in cui  all'epoca del timore e a quella dell'amore, che tradizionalmente  corrispondono al tempo della Legge e quello inaugurato con la venuta  di Cristo, F. fa seguire una terza epoca, che sta per cominciare,  sotto il segno dello Spirito Santo. Proprio questa epoca rappresenta il  culmine del disegno divino: come la prima fu quella del Padre, e la  seconda non solo del Figlio, ma del Padre e del Figlio insieme, cosi la  terza sara l'epoca della trinita nella sua unita perfetta, in cui saranno  presenti nello stesso tempo il Padre, il Figlio e lo Spirito. Di fronte  aH'imminenza di questo tempo, che rappresenta il trionfo dei giusti,  l'intento e quello di ammonire «coloro che abitano in mezzo a Babilonia,  a fuggire da essa» 47 . Il richiamo al secondo libro permette di notare   F., II salterio a died corde, cit., p. 46.   44 Is 53,1.  F., Il salterio a died corde, cit., p. 47.   46 La compresenza di questi due modelli escatologici nel pensiero gioachimita e stato  fin da subito una questione centrale tra gli studiosi. Attorno a questo nodo si e  infatti orientato il dibattito ecclesiastico sulla duplice reputazione dell'abate, che  da un lato poteva essere letto come ortodosso (in relazione al modello binario),  dall'altro eterodosso (ponendo l'accento su quello ternario). La storiografia  successiva ha a lungo sottovalutato il problema. Alcuni studiosi hanno provato ad  interpretare il modello binario in relazione alia prospettiva storica e quello  ternario a quella mistica. Si noti che la questione costituisce un altro elemento di  forte distanza tra il pensiero di F. e quello di Agostino. Per una piu curata  riflessione sul tema si veda ancora: G. L. Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit.   47 F., Il salterio a died corde, cit., p. 172. La citazione rimanda al  versetto di Ap. 18, 4.18 come anche in questo contesto il limite della comprensione razionale,  che si deve arrestare di fronte alia grandezza del disegno divino,  rappresenta l'inizio di un nuovo percorso dove assolutamente centrale  e l'elemento musicale: «a noi ormai deve bastare di avere in questo  modo e fin qui contato le corde. [...] E 1 il tempo di dover cantare e  salmodiare»Tornando alia sesta distinzione, F. procede facendo  corrispondere alia tripartizione della storia tre tipologie di figure  umane, distinte tra loro in riferimento alia propria mansione principale.  Al livello piu basso si collocano i laici, di cui e proprio il lavoro manuale,  poi i chierici, che hanno come compito lo studio e l'insegnamento, e  infine i monaci che si caratterizzano per il canto di lode e la salmodia.  E 1 da notare come il percorso che si delinea attraverso queste tre figure  non rappresenta solo il riconoscimento di una differenziazione sociale  tra gli uomini, ma e anche l'indicazione per una crescita individuale  che innalza l'animo verso Dio. Questi tre stadi sono resi da F. attraverso una similitudine: «nello stato di timore baciamo i piedi, in  quello di apprendimento baciamo le mani, nella salmodia baciamo la  bocca». E dunque «e buono l'inizio nel bacio dei piedi, meglio la  perseveranza nel bacio della mano, l'ottimo e il compimento nel bacio  della sua bocca». L'elemento della bocca viene in questo contesto  recuperato, sulla scia di un'esegesi molto diffusa, per intendere il  mezzo attraverso cui si dispiega nel mondo la creazione e prende forma  il Verbo. Questo rimando ideale al bacio della bocca sembra quindi  voler ribadire come sia proprio l'elemento sonoro a mettere in  comunicazione l'uomo e Dio: da un lato come canto della salmodia,  mansione propria dell'uomo spiritualmente piu elevato, dall'altro come  espressione della potenza creatrice di Dio.   Solo nella settima distinzione F. prende in considerazione  direttamente il tema delle dieci corde dello strumento. Anche in questo F., II salterio a dieci corde. Si vuole osservare che la  lettura qui proposta, che insiste sull'elemento musicale, permette di attribuire al  terzo libro una valenza forse maggiore rispetto a quella che sembra generalmente  assumere. Se l'elemento musicale della salmodia, che contraddistingue la terza epoca, e l'elemento che permette di oltrepassare le facolta della ragione, dal  momento che l'avvento della pienezza divina sembra escludere la possibility di  una comprensione razionale, le pagine finali, dal momento che istruiscono sulle  modalita del canto, possono essere interpretate non solo come un «semplicissimo  libro che si limita a fornire indicazioni per la recita dei salmi, ma come un ammonimento di F. sul modo di  comportarsi per tutti coloro che vivranno il tempo dello Spirito. F., II salterio a dieci corde. caso possiamo distinguere un impiego musicale dell'immagine da uno  piu propriamente teologico. Il primo approccio si basa  sull'interpretazione delle corde come elemento produttore di suono. Da qui si osserva che le corde sono fissate indissolubilmente, alle loro  estremita, ai lati che simboleggiano il Figlio e lo Spirito, mentre la loro  vibrazione si propaga verso il vertice del Padre. Questo a intendere che  il nostro canto deve essere innalzato verso quest’ultimo a partire dal  messaggio della rivelazione contenuto nel Vangelo. D'altra parte, il  suono e reso udibile e prende corpo attraverso la cassa armonica  rappresentata dal cerchio, a sottolineare ancora una volta  1' indissolubility dell’essere trinitario. L'interpretazione piu  propriamente teologica delle corde e da collocare nel contesto  escatologico in cui si chiudeva la sesta distinzione. Il loro numero e la  loro disposizione rappresentano i gradi e la gerarchia degli eletti nella  citta divina, cosi che piu il grado si awicina a Dio, piu la corda e breve,  dal momento che sono meno coloro che riescono ad arrivarci. Alio  stesso modo ogni grado risuona secondo una propria nota, in modo che  «la diversita degli onori adorna meravigliosamente quella santa e  celeste patria, e la moderazione della diversita attraverso l'unita non  lascia nascere il livore. Forse in questa richiamo del suono acuto delle  corde piu vicine a Dio come espressione della difficolta insita nel  percorso per arrivarci si puo vedere un ultimo elemento di ripresa delle  argomentazioni agostiniane, che sembra del resto utile soltanto a  rimarcare la differenza tra le due impostazioni. Piu rilevante sembra  invece considerare come ultimo spunto di questo primo libro il tema  dell'armonia musicale che fornendo delle regole per il bel canto  awicina il nostro animo alia sfera divina. Dio fece questo perche le  corde, tra loro distinte, con i diversi suoni che producono, allietino con  la soavita della loro melodia quella santa citta di Dio, nella quale tutti,  gioiosi, hanno la loro dimora. Per tracciare un bilancio della ricerca condotta, bisogna affermare,  in primo luogo, che non emerge dai testi considerati una tesi "forte"  che possa sintetizzare una presa di posizione chiara. Certamente, nel     complesso, le indicazioni piu interessanti emergono dal testo di  F., in cui si nota che una lettura dell'opera orientata in senso  un po 1 piu musicale, potrebbe rappresentare una prospettiva  attraverso cui reinterpretare alcuni passi e metterne in luce alcune  sfumature. La ricerca, in definitiva, si pone quindi come un primo passo  che schiude degli orizzonti per una ricerca che potrebbe essere ampliata  in molte direzioni. Sullo sfondo, in primo luogo, e da rilevare che  l'analisi dei testi considerati si inserisce nella complessa problematica  del rapporto tra Gioacchino e Agostino, che deve trovare nell'ambito teologico e filosofico, ben prima che in quello musicale, i propri motivi  argomentativi. In quest'ottica, il confronto tra le due prospettive  musicali legate aH'immagine del salterio, proprio perche maturato  inevitabilmente sullo sfondo di un riferimento teologico e morale,  permette di mettere in evidenza qualche elemento utile per una  riflessione piu generale. Certamente la considerazione sarebbe da  allargare ad una analisi piu generale della problematica musicale nel  pensiero dei due autori, in particolare, almeno, al De Musica di Agostino. Infine, le indicazioni che qui abbiamo presentato per via teorica  potrebbero trovare sostegno da una ricerca piu dettagliata delle  pratiche musicali diffuse in ambito monastico nel XII secolo.   Si spera, in ogni caso, che la presente ricerca possa aver fornito  qualche elemento per la comprensione di uno strumento estremamente  affascinante e ricco di mistero, come il salterio a dieci corde. Tavola Illustrativa Prima distinzione: %. i n s .2  Seconda distinzione. Quarta distinzione: attraverso Gesu Cristo nell'unita dello Spirito Sesta distinzione:  attraverso Gesu-Cristo nell'unita dello Spirito.AGOSTINO, Tractatus de X chordis. Bellini, Cruciani, Tarulli, Trattato sul salterio a X corde; in Agostino, Discorsi sul   vecchio testamento, Citta Nuova, Roma].  AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, [tr. it. di T. Mariucci, V. Tarulli,   Esposizione sui salmi; in Agostino, Opera Omnia, voll. 25, 26, 27, Citta   Nuova, Roma 1979].  CATTIN, G., La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino. GALLO, A., La polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino. F., Psalterium dececm chordarum [tr. it. di F.   Troncarelli, K. V. Selge, II salterio a died corde, Viella, Roma].  POTESTA, G. L., Il tempo dell'Apocalisse. Vita di F., Laterza,   Roma Bari. SACHS, C, The history of musical instruments, Norton, Papini, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano. SEQUERI, P., Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Vaticano. Keywords: implicatura, Fusaro, implicatura musicale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fiore: implicature” – The Swimming-Pool Library. Gioacchino da Fiore. Fiore.

 

Grice e Fiormonte: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Domenico – filosofo.

 

Grice e Fiorentino: la ragione conversazionale e la lingua dei romani – scuola di Sambiase – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sambiase). Filosofo italiano. Sambiase, Lamerzia Terme, Catanzaro, Calabria. Grice: “I like Fiorentino; for one, he influenced Gentile – Fiorentino managed to write two important tracts: a systematic ‘manuale’, of ‘elementi di filosofia’ with a section on semantics, communication, and language – his view of the latitudinal history of philosophy – and a ‘storia della filosofia,’ again seen as a manual, literally handbook! Both very clear and to the right audience!” Figlio di Gennaro, chimico e farmacista, e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio e Bruno Sinopoli, rispettivamente zio e fratello di sua madre, entrambi sacerdoti, e venne influenzato dal pensiero e dagli scritti di Capocasale e Galluppi. Studia filosofia a Nicastro, sotto Marco e Crecca, insigni filosofi e latinisti. Trascorre il suo tempo libero nel caffè letterario "Cherry Plum", luogo d'élite che attira gli filosofi. Iniziò a farsi conoscere tra i coetanei di Sambiase, costruendosi una discreta reputazione. Si trasferì a Catanzaro dove intraprese gli studi di giurisprudenza. Sarebbe probabilmente divenuto un avvocato se la filosofia non fosse stata la sua innata passione. All'indomani dell'ignominosa resa del generale Ghio e dei suoi dodicimila soldati borbonici a Soveria Mannelli, nell'incontrare Garibaldi a Maida, Fiorentino gli si avvicinò per congratularsi del successo ottenuto gridando: «Viva l'annessione, vogliamo l'annessione!»  Dopo l'Unità d'Italia, venne nominato, con decreto regio, professore di filosofia a Spoleto. La sua fama di intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della sua natia regione.  Si iniziato in Massoneria, nella Loggia Felsinea di Bologna.  Da Spoleto presto passa a Maddaloni, dove approfondì sempre più i suoi studi. Pubblica Il “panteismo” di Bruno.  Rivedeva molto di sé nel carattere e nel martirio di Bruno. La stessa affinità che, sia pure in chiave politica, ritrova Gioberti, grande statista. Il saggio su Bruno gli valse la cattedra a Bologna che era stata di Spaventa. Si occupa della storia della filosofia romana, contemporaneamente si interessò dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto filosofi pocco conosciuti, quale A B C D ed E. Scrosse “La filosofia romana”; Pomponazzi; e “Scritti varii”. Seguì l'opera su Telesio data alle stampe in Firenze. Si trasferì a Napoli e Pisa. A Pisa pubblica “Elementi di filosofia” e il Manuale di Storia della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e spigliato. Fonda il Giornale Napoletano. con le sue prefazione e note, pubblicò "Poesie Liriche edite ed inedite di Tansillo" (Domenico Morano, Napoli). Altre opere: “Volgarizzazione dell'Itinerario della mente a Dio di S. Bonaventura, dei Libri del Maestro, Dell'immortalità dell'anima e Del libero arbitrio di Aurelio Agostino, del Proslogio di Anselmo d’Aosta, Messina, Sul panteismo di Giordano Bruno” (Napoli); Saggio storico sulla filosofia greca” (Firenze); “Pomponazzi, studi storici sulla scuola bolognese e padovana del secolo XVI” (Firenze); “Telesio, ossia studi storici sull'Idea della Natura nel Risorgimento [Rinascimento] italiano” (Firenze); “La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, Scritti vari di letteratura, poesia e critica, Napoli); “Elementi di filosofia, Napoli); “Della vita e opere di Grazia, Napoli); “Manuale di storia della filosofia, Napoli); “Il Risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, L. Lo Bianco, Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Galati, Interpretazione dell'opera, in «Archivio storico della filosofia italiana», Oldrini, “La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento” (Bari); Di Giovanni, A cento anni dalla nascita dell'idealismo italiano, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Il contributo italiano alla Filosofia. Istituto dell'Enciclopedia. Formazione del linguaggio. Il linguaggio e la prerogativa umana. Tra tutti gli animali l’uomo solo parla. E poiché l’uomo solo è forsia (li'u^wujqko aito (Vi ntoli ia'ciiz a, è naturale che tra cotesti due fatti |uU£li^tJtp si) cercato di trovare un nesso necessario. Ammessa questa mutua connessione, la domanda che naturalmente ne deriva, è questa. L’uomo parla perchè ragiona? O, al rovescio, ragiona perchè parla? Teoria K tradizionalistica sull’origine del linguaggio e sua critica. Le due opposte sentenze hanno trovato sostenitori. Una scuola detta de’ tradizionalisti non solo ha ammesso la necessità della parola per pensare, ma, com’è inevitabile, riconosce necessaria la rivelazione divina per la origine del linguaggio umano. Il corollario è perfettamente logico. Se l’uomo non può inventar nulla senza pensare, e se, per pensare, c’è (i) [Principale rappresentante moderno del tradizionalismo è il francese visconte Bonald). Jrr*“ ilwlWuii) 6 JL^XÒru] di mestieri la parola, il linguaggio non poteva più derivare dall’uomo. E quindi a lui dove essere stato rivelato dal divino. Una difficoltà molto ovvia non è stata però tenuta in conto. Come si fa a capire il linguaggio, se non è opera nostra, e se al suono esteriore non risponde nell’animo nostro il pensiero associatovi? Perchè il cavallo, il cane, benché odano il suono delle parole, non ne comprendono il significato! GIOBERTI, che rinfresca il tradizionalismo, cerca di evitare questo scoglio, distinguendo il pensiero primitivo, intuitivo, che precede il linguaggio, dal pensiero riflesso, che gli tien dietro e lo presuppone. Il linguaggio, per GIOBERTI, non è il fattore delle idee, ma l’istrumento indispensabile, perchè esse siano ripensate. Poiché però le idee nell’intuito mancano di distinzione, anche lui dovette sostenere la rivelazione per l’origine del linguaggio umano. Senza entrare in risposte astruse, noi opponiamo a questa dottrina un fatto molto comune. Poiché l’intuito delle idee è sempre presente, e poiché il suono del linguaggio colpisce il bambino fin dal suo primo nascere, perchè questi noi comprende subito, nò subito parla? Dati i due co-efficienti, l’intuito dell’idea e il suono esterno della parola, l’intelligenza dove immantinenti balzar fuora. Ed intanto non è così, e ci vuole un lavoro lento ed assiduo, prima d’ intendere il valore del linguaggio. A (oM^Y^O l*< Tt.cC)) Teoria razionale. Lasciando dunque la mistica spiegazione di una rivelazione dal divino, la quale s’impiglierebbe in altre difficoltà, a spiegare, p. es., come il divino, puro spirito, puo sensibilmente parlare, veniamo alla spiegazione umana. Linguaggio e universali. L’uomo parla soltanto quando è capace di idee generali. Perciò noi abbiamo a<mr>v fatto seguire alla formazione di queste la formazione del linguaggio, che è la conseguenza. Come l’individuo è chiuso in sè ed irrelativo, così JL^ la sensazione, che vi corrisponde, è muta. Il linguaggio è comuni chevolezza tra spirito e spirito, e ciò che v’ha T di comune tra loro è, e non può essere altro, che l’universale. 1***^*» (s) I nomi. L’universale ha però diversi gradi, e sul primo formarsi non esprime altro che limi rappresentazione comune a più individui percepiti. In questo si fonda l’imposizione dei nomi che si desume sempre da quella proprietà che più ha colpito l’immaginazione di un [mainili <U*^fvTcj.] popolo come il romano. Così, p. es., guardando il mare, imo può rimanere più scosso dalla sua mobilità, un altro dalla nr sua ampiezza, un altro dal suo colore. E da ciascuna di queste proprietà può imporgli un nome diverso. Le altre note rimangono in seconda linea. Fermarsi sopra di una nota, a preferenza di un’altra, dipende poi dal diverso genio del popolo – come il romano -- che si crea il linguaggio. Perciò, non senza ragione la filologia, s’ingegna d’indovinare le concezioni nascenti devòlversi popoli dalle radici delle parole primitive. Il con questo metodo, riscontrando talune dai romani, che si trovano le stesse, appresso tre rami di una sola razza, dimostra a che grado di civiltà essi sono pervenuti prima di sparpagliarsi per varie ragioni. Comune, p. es., è la parola che significa il umo. Dunque, prima di dividersi, questi popoli – il popolo romano dal popolo umbro ed usco -- hanno appreso ad estrarre il succo dalle uve. (A^tVvJ — Vc^fi IktcrrtsblC? <&Jt*/fl'n'tT tZjÉXjjrtmu Z Ain. f"r2rH^-££ RaA^ L ^ia^AA*-**** t^x<^ 7 r •<!T- J e /e altre parti del discorso. L’imposizione de’ nomi costituisce però la materia greggia di una lingua. E corrisponde appunto alla virtù rappresentativa dello spirito romano. L’attività dello spirito stesso è *signi-ficata* dal verbo, che è perciò l’elemento organico, e dalla cui più perfetta determinazione dipende la perfezione maggiore di una lingua. Le altre particelle, — preposizioni, congiunzioni, avverbi, — esprimono l’elemento formale e categorico del pensiero. Esprimono astrattamente le relazioni di cui sono capaci tanto gl’oggetti quanto l’attività medesima del nostro pensiero. [ >*<0 non x 3) Radici e flessioni. Nel nome e nel verbo si distingue la rappresentazione originaria da quelle determinazioni che dip oi, nel processo del linguaggio, le si sogliono aggiungere. C’è quindi in entrambi la radice e la flessione. Quando la lingua dei romani è sul nascere, il nome ed il verbo sono espressi da un mono-sillabo – e. g. ‘fa’ --, che rinchiude, come in un germe, la rappresentazione primitiva di una cosa o di un’azione. Quando poi si comincia a distinguere meglio le determinazioni che scampagnano o la cosa o l’azione, allora le varie modificazioni della radice primitiva esprimono i numeri, i generi, i casi, le persone, il tempo. E tali flessioni si dicono declinazioni o coniugazioni, secondo che modificano il nome o il verbo. Di questi due elementi fondamentali del linguaggio dei romani, il verbo va congiunto con la categoria di tempo, il nome no. La ragione di tal divario è questa, che il verbo esprime l’azione, la quale senza il tempo non si puo classificare con precisione; laddove il porne, esprimendo il soggetto o l’oggetto de l’azione, stessa, *signi-fica* qualcosa di iienjnuignte, e si circoscrive piuttosto con le relazioni spaziali. Nella ricca lingua dei romani, difatti, tra i casi, che esprimono le diverse modificazioni de’nomi, si trova quello che VARRONE chiama il caso locativo – che indica il luogo dove la cosa si trova. Quanto più numerose e sottili sono le flessioni che fissano le varie sfumature dell’azione tanto più ricca e più precisa è una lingua – a nulla piu ricca che la degi romani. Quanto più fine sono le gradazioni dell’azione che lo spirito romano può cogliere, e rivelare nel linguaggio dei romani, tanto è maggiore l’attitudine civile -- artistica e scientifica. Dove, invece, si arriva appena a significare 1’azione in una forma rozza, e quasi direi all’ingrosso, quivi manca il genio civile -- artistico e la speculazione, come nella lingua dei etruschi (‘toschi’). La perfezione dell’organismo sintattico rivela la potenza creatrice ed inventiva del popolo romano. La lingua romana mostra l’eccellenza di questa coltissima nazione. E criterio di quella eccellenza è la compiuta forma del verbo, che nella lingua romana basta ad esprimere ogni più delicata e fuggevol forma del pensiero. Le particelle. Condizione primissima del filosofare è una lingua la quale jgossa astrarre, e fissare le relazioni in sfe, ed indipendentemente dai proprii termini. Quindi le particelle -- che diciamo preposizioni, congiunzioni ed avverbii -- e che sono come le giunture del linguaggio, diventano un aiuto potentissimo, anzi un istrumento indispensabile della speculazione filosofica romana. Per esse, noi pensiamo le relazioni di tempo e di spazio, di causa e di effetto, di mezzo e di fine, e simili, non solo in quanto si trovano, dirò così, incorporate coi termini fra cui tramezzano, ma le pensiamo sciolte da ogni rappresentazione e come concetti puri – come categorie. Il I “dove”, il II “quando”, il III “di” – del genitivo soggetivo e del genitivo oggetivo --; il IV “da”, il V “per”, esprimono il I luogo, il II tempo, la III proprietà, la IV provenienza, il V mezzo, come *categorie* a se, che noi applichiamo ai nomi ed ai verbi, producendo così l’organismo del *periodo*. L’abbondanza di tali particelle è parimenti indizio della perfezione della lingua dei romani. [pajth'cfiiU'- i)] C’è dunque nella lingua dei romani tre gradi. C’è la rappresentazione della cosa o dell’azione, espressa dalla nuda radice. C’è la rappresentazione determinata per mezzo de’ concetti puri, espressa dalla flessione; e ci sono infine i concetti puri, in s&J astratti da ogni rappresentazione, e sono le particelle invariabili.  Sviluppo delle lingue. I linguaggi barbari e rozzi – come il toscano – “tosco”, dagl’antichi etruschi -- (si arrestano alle prime, alle radici mono-sillabiche, alle semplici rappresentazioni; o, tutto al più, riescono a con-glutinarle insieme. Una lingua sviluppata come la romana ha flessioni. Ha cioè nomi e verbi perfettamente determinati; e Analmente ha un ricco corredo di particelle signiflcabrici delle relazioni universali. Delle particelle, di cui parliamo, la lingua romana ha maggior copia. Onde Xmo viene la loro maggiore attitudine a *sig-nificare* i concetti speculativi. Gli elementi delle lingue secondo Miiller. In conformità alle osservazioni da noi riferite finora, giova allegare l’autorità di Muller ]\IiUl er J ), il quale, dopo sottili indagini, conclude, che la lingua romana, passata pel crogiuolo della grammatical comparata, è risultata composte di due elementi (Miiller, Letture sulla scienza del linguaggio, e Nuove letture, trad. in ital. da Nerucci] costitutivi; di una radice *attributiva* e di una radice dimostrativa. Una radice attributiva serrve a *sig-nificare* una meidesima qualità primitiva, che si attribuisce ad un qualche essere. Una radice dimostrativa, invece, serve ad esprimere una determinazione meramente formale. Lq j flessioni, consistenti nelle declinazioni de’ nomi, e nelle coniugazioni de’ verbi, nascono dalla unione organica delle due differenti specie di radici in una sola espressione. Di modo che, anche filologicamente, apparirebbe manifesta la distinzione originaria di un *elemento attributivo* e di un *elemento dimostrativo* nella lingua dei romani – Catone: HOMO FABER – questo homo faber -- ; che corrispondeno al contenuto (o materia) il primo, ed alla *forma* del pensiero il secondo. La compenetrazione di questi due elementi primitivi non è uguale in tutte le famiglie delle lingue che si parlano. È perfetta, e perciò a mala pena discernibile, nella lingua romana. È imperfetta, e, perciò più facilmente riconoscibile, nell’etrusco. Apprendimento delle lingue. Altra è la funzione, che si richiede a formare la lingua; altra è quella dello impararla, formata che sia; benché le due funzioni abbiano, e debbano avere, alcunché di comune. Prevale rimmaginazione produttiva nella formazione primitiva del linguaggio romano. Prevale la ri-produttiva nella loro apprensione. Il bambino che nasce in una società progredita non deve far altro che assimilarsi il linguaggio materno così coin 7 è stato tramandato. Egli impiega in questo lavoro assimilativo i primi V anni della sua fanciullezza, durante il qual tempo impara più, come diceva Gian Paolo, che non in altrettanti anni eli accademia. La sua mente vergine e robusta si arricchisce ben presto di quel tesoro tradizionale, eh’ ei si appropria e fa suo, riponendolo nella fresca e tenace memoria. L’apprendimento delle lingue, già si facile in questa prima età, si va poi di mano in mano rendendo malagevole, perchè la memoria con gl’anni si affievolisce e diviene men facile a ricevere, e men fedele nel ritenere. E il caso di Catone, che, sappendo che il suo grecco non e eccelente, richiede d’un interprete – e anche quando visita Firenze! [Riehter, grande scrittore umorista, tedesco].  Wikipedia Ricerca Marco Porcio Catone politico, generale e scrittore romano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri personaggi con lo stesso nome, vedi Marco Porcio Catone (disambigua). Marco Porcio Catone Project Rome logo Clear.png Censore della Repubblica romana Marco Porcio Caton Major.jpg Particolare del Patrizio Torlonia, busto identificato con Catone il Censore Nome originaleMarcus Porcius Cato Nascita Tusculum Morte Roma Coniuge Licinia Salonia FigliMarco Porcio Catone Liciniano Marco Porcio Catone Saloniano Gens Porcia Padre Marco Porcio Questura Edilità Pretura Consolato Censura Ceterum censeo Carthaginem esse delendam. Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta. (Porcio Catone) Marco Porcio Catone (in latino: Marcus Porcius Cato; nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum – Roma) è stato un politico, generale e scrittore romano, chiamato anche Catone il Censore (Cato Censor), Catone il Sapiente (Cato Sapiens), Catone l'Antico (Cato Priscus), Catone il Vecchio per aver superato di molto l'età media massima di vita allora a Roma o Catone il Maggiore (Cato Maior) per distinguerlo dal pronipote Catone l'Uticense.  BiografiaModifica Ritratto Modifica Plutarco, autore delle Vite parallele, dà questo ritratto di Catone: Quanto al suo aspetto, aveva capelli rossastri e occhi azzurri, come ci rivela l'autore di questo poco benevolo epigramma: “Rosso, mordace, occhiazzurro, Persefone neanche morto accoglie Porcio in Ade. Fisicamente era ben piantato; il suo corpo s'adattava a qualunque uso, era tanto robusto quanto sano, poiché fin da giovane si applicò al lavoro manuale - saggio metodo di vita - e partecipò a campagne militari. Origini familiari De re rustica, Nacque  a Tusculum, da un'antica famiglia plebea che si era fatta notare per qualche servizio militare, ma non nobilitata dal fatto di aver rifiutato le più importanti cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei suoi antenati latini, perché divenisse agricoltore, attività alla quale egli si dedicò costantemente quando non fu impegnato nel servizio militare. Ma, avendo attirato l'attenzione di Lucio Valerio Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente questore, edile, pretore e console percorrendo tutte le tappe del cursus honorum assieme al suo vecchio protettore; divenne infine censore.  Marco Porcio Catone è considerato il fondatore della Gens Porcia. Ebbe due mogli: la prima fu Licinia, una aristocratica della Gens Licinia, da cui ebbe come figlio Marco Porcio Catone Liciniano; la seconda, è Salonia, figlia di un suo liberto, sposata in tarda età dopo la morte di Licinia, da cui ebbe Marco Porcio Catone Saloniano, nato quando il Censore aveva 80 anni. «I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori»  (Marco Porcio Catone, citato in Aulo Gellio, Notti attiche) Durante i suoi primi anni di carriera si oppose all'abrogazione della lex Oppia, emanata durante la seconda guerra punica per contenere il lusso e le spese esagerate da parte delle donne. Prestò servizio in Africa, come questore con Scipione l'Africano ma lo abbandonò dopo un litigio a causa di presunti sperperi. Egli comandò invece in Sardegna, dove per la prima volta mostrò la sua rigidissima moralità pubblica, e in Spagna, che egli assoggettò spietatamente, guadagnando di conseguenza la fama di trionfatore. Ricopre il ruolo di tribuno militare nell'esercito di Manio Acilio Glabrione nella guerra contro Antioco III il Grande di Siria, giocò un ruolo importante nella battaglia delle Termopili e attaccando alle spalle Antioco permise la vittoria dei romani, che segnò la fine dell'invasione seleucide della Grecia. Nel 189 a.C. condusse un processo sia contro Scipione l'Africano sia contro il fratello Scipione l'Asiatico, accusandoli di aver concesso dei favori personali al re di Siria Antioco III e di aver dissipato il tesoro dello Stato. Il caso degli Scipioni consiste in uno dei più grandi scandali della Repubblica Romana, considerando che, soprattutto Scipione L'Africano, era considerato l'eroe della Seconda Guerra Punica.  Opera pubblicaModifica La sua reputazione di soldato era quindi consolidata; da quel momento in poi egli preferì servire lo stato a casa, esaminando la condotta morale dei candidati alle cariche pubbliche e dei generali sul campo. Pur non essendo egli personalmente coinvolto nel processo per corruzione contro gli Scipioni (l'Africano e l'Asiatico), fu tuttavia lo spirito che animò l'attacco contro di loro. Persino Scipione l'Africano, che si rifiutò di rispondere all'accusa, affermando solo: "Romani, questo è il giorno in cui io sconfissi Annibale", venendo assolto per acclamazione, trovò necessario ritirarsi, auto-esiliandosi, nella sua villa a Liternum. L'ostilità di Porcio Catone risaliva alla campagna d'Africa quando discusse con Scipione per l'eccessiva distribuzione del bottino tra le truppe, e la vita sfarzosa e stravagante che quest'ultimo conduceva.  Censore Al secondo tentativo, egli fu eletto censore ed esercitò questa carica per quattro anni così bene che gli venne assegnato il soprannome di Censore (anche per il suo carattere severo, per il suo austero moralismo e per l'asprezza delle critiche rivolte da lui contro ogni indizio di corruzione delle antiche virtù romane).  Contro l'ellenismoModifica Catone si oppose inoltre all'ellenizzazione, ossia il diffondersi della cultura ellenistica, che egli riteneva minacciasse di distruggere la sobrietà dei costumi del vero romano, sostituendo l'idea di collettività con l'esaltazione del singolo individuo. Fu nell'esercizio della carica di censore che questa sua determinazione fu più duramente esibita e ovviamente il motivo dal quale gli derivò il suo celebre soprannome. Revisionò con inflessibile severità la lista dei senatori e degli equites, cacciando da ogni ordine coloro che riteneva indegni, sia per quanto riguarda la moralità, che per la mancanza dei requisiti economici previsti. L'espulsione di Lucio Quinzio Flaminino per ingiustificata crudeltà, fu un esempio della sua rigida giustizia.  Contro il lusso La sua lotta contro il lusso fu assai serrata. Impose una pesante tassa sugli abiti e gli ornamenti personali, specialmente delle donne, e sui giovani schiavi comprati come concubini o favoriti domestici (leggi sumptuariae). Nel 181 a.C. appoggiò la lex Orchia(secondo altri egli prima si oppose alla sua introduzione, e successivamente alla sua abrogazione), la quale prescriveva un limite al numero di ospiti in un ricevimento, e la lex Voconia, uno dei provvedimenti che miravano a impedire l'accumulo di un'eccessiva ricchezza nelle mani delle donne. Con le donne di casa, mogli, figlie o schiave, fu assai severo, fino a sfiorare talvolta la tirannia; una delle cause di dissenso con gli Scipioni, era proprio la libertà e il lusso che questi concedevano alle loro donne.  Nei confronti delle donne in realtà Catone appare quasi un nemico, penalizzandole in ogni modo: ne limitò il lusso degli abiti e dei gioielli, si oppose al possesso da parte della donna di denaro e ricchezza, sempre in difesa dei valori morali della Repubblica.  Contro i BaccanaliFu assai disgustato, assieme a molti altri dei romani più conservatori, dalla diffusione dei riti misterici dei Baccanali, che egli attribuì all'influenza negativa dei costumi greci; perciò sollecitò con veemenza l'espulsione dei filosofi greci (Carneade, Diogene lo Stoico e Critolao), che erano giunti come ambasciatori da Atene, sulla base della pericolosa influenza delle idee diffuse da costoro.  Contro i medici Catone provava ripugnanza per i medici, che erano principalmente greci. Ottenne il rilascio di Polibio, lo storico, e dei suoi compagni prigionieri, chiedendo sprezzante se il Senato non avesse niente di più importante da discutere del fatto che qualche greco dovesse morire a Roma o nella sua terra. Era quasi ottantenne quando, secondo quanto dicono le fonti biografiche, ebbe il suo primo contatto con la letteratura greca; anche se, dopo aver esaminato i suoi scritti, è verosimile ritenere che possa aver avuto un contatto con le opere greche per gran parte della sua vita.  Contro CartagineModifica Il suo ultimo impegno pubblico fu di spronare i suoi compatrioti verso la terza guerra punica e la distruzione di Cartagine. Fu uno dei delegati mandati a Cartagine per arbitrare tra i cartaginesi e Massinissa, re di Numidia. La missione fu fallimentare e i commissari ritornarono a casa. Ma Porcio Catone fu colpito dalle prove della prosperità dei cartaginesi a tal punto da convincerlo che la sicurezza di Roma dipendesse dalla distruzione totale di Cartagine. Da quel momento egli continuò a ripetere in Senato: «Ceterum censeo Carthaginem delendam esse.» ("Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta."). È noto che egli ripeteva ciò alla conclusione di ogni suo discorso.  Altre attivita Riguardo alle altre questioni egli fece riparare gli acquedotti di Roma, pulire le fognature, impedì a soggetti privati di deviare le acque pubbliche per il loro uso personale, ordinò la demolizione di edifici che ostruivano le vie pubbliche, e costruì la prima basilica nel Foro vicino alla Curia (Livio, "Historiae", 39.44; Plutarco, "Marcus Cato"). Aumentò inoltre la somma dovuta allo stato dai pubblicani per il diritto di riscuotere le tasse e allo stesso tempo diminuì il prezzo contrattuale per la realizzazione di lavori pubblici.  MorteModifica Dalla data della sua carica di censore alla sua morte, avvenuta nel 149 a.C. sotto il consolato di Manio Manilio Nepote e Lucio Marcio Censorino, Porcio Catone non occupò nessun'altra carica pubblica, ma continuò a distinguersi in Senato come tenace oppositore ad ogni nuova influenza.  Solo dopo la sua morte si iniziò la spedizione contro Cartagine, che lui aveva voluto.  La visione della società Per Porcio Catone la vita individuale era un continuo auto-disciplinarsi, e la vita pubblica era la disciplina dei molti. Egli riteneva il singolo pater come il principio della famiglia, e la famiglia come il principio dello stato. Attraverso una rigida organizzazione del suo tempo egli realizzò un'enorme quantità di lavoro; pretese inoltre la medesima applicazione dai suoi dipendenti, e si dimostrò un marito e un padre severo, un inflessibile e crudele padrone. Ci fu apparentemente poca differenza, nel modo in cui trattava sua moglie e i suoi schiavi; il suo orgoglio soltanto lo indusse a prestare una più calorosa attenzione verso i figli.  Riconoscimenti Per i romani stessi ci fu poco nella sua condotta che sembrasse necessario censurare; fu sempre rispettato e considerato come un esempio tradizionale degli antichi e più genuini costumi romani. Nel notevole passo in cui Livio descrive il carattere di Porcio Catone, non c'è alcuna parola di biasimo per la rigida disciplina della sua condotta domestica.  Opera letterariaModifica Porcio Catone è tra le principali personalità della letteratura latina arcaica: egli fu oratore, storiografo e trattatista. Fu autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva difendere i valori tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti dell'aristocrazia legata al circolo degli Scipioni, indirizzata al figlio Marco, i Libri ad Marcum filium o Praecepta ad Marcum filium, di cui si conserva per intero soltanto il Liber de agri cultura, in cui esamina, soprattutto, l'azienda schiavile che tanto spazio si conquisterà poi in età imperiale. Affrontò inoltre la tematica dei valori tradizionali romani anche in un Carmen de moribus di cui sono ad oggi pervenuti pochissimi frammenti.  Fin dalla giovinezza si dedicò all'attività oratoria: pronunciò in tutta la sua vita oltre centocinquanta orazioni,[4] ma sono attualmente conservati frammenti di varia estensione riconducibili a circa ottanta orazioni diverse. Si distinguono tra esse orationes deliberativae, ovvero discorsi pronunciati in senato a favore o contro una proposta di legge, e orationes iudiciales, discorsi giudiziari di accusa o difesa.  Fu inoltre autore nella vecchiaia della prima opera storiografica in lingua latina, le Origines, il cui argomento era la storia romana dalla leggendaria fondazione fino al II secolo a.C. Dell'opera, pur significativa dal punto di vista ideologico, si conservano scarsi frammenti. Catone individua nel culmine del percorso educativo la formazione di un vir bonus, dicendi peritus (uomo di valore, esperto nel dire), espressione che sarà il cardine del successivo modello educativo romano. L'opera letteraria di Porcio Catone, in particolare quella storica e oratoria, fu elogiata da Cicerone, che definì il censore primo grande oratore romano, e il più degno d'essere letto. Nella prima età imperiale, nonostante l'ideologia di Porcio Catone coincidesse in buona parte con la politica restauratrice del mos maiorum promossa da Augusto, l'opera di Porcio Catone fu oggetto di sempre minore interesse. Con l'affermarsi delle tendenze arcaizzanti nel II secolo d.C., invece, essa fu oggetto di grandi attenzioni, seppure a carattere esclusivamente linguistico ed erudito: Gellio e Cornelio Frontone ne tramandarono molti frammenti, e l'imperatore Adriano dichiarò di preferire Porcio Catone anche allo stesso Cicerone. A partire dal IV secolo d.C. l'opera di Porcio Catone iniziò a disperdersi, e se ne perse la conoscenza diretta. Grande diffusione ebbero, invece, le raccolte di proverbi in esametri erroneamente attribuite a Porcio Catone e denominate Disticha Catonis e Monosticha Catonis. Plutarco, Vita di Marco Catone, Velleio Patercolo, Historiæ Romanæ ad M. Vinicium libri duo, Saltini, Storia delle scienze agrarie, Dalle civiltà mediterranee al Rinascimento europeo, 3ª ediz., Firenze, Nuova Terra Antica, Cicerone, Brutus, Pontiggia - M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Milano, Principato, Pontiggia - Grandi, p. 164. ^ U. Avalle - M. Maranzana, Pedagogia, vol. I, Dall'età antica al Medioevo, Torino, Paravia, Brutus, Pontiggia – Grandi Edizioni Scriptores rei rusticae, Venetiis, apud Nicolaum Ienson [Contiene i De re rustica di Catone, Varrone, Columella e Rutilio Tauro Palladio] (editio princeps). De agri cultura liber, Recognovit Henricus Keil, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, De agri cultura, ad fidem Florentini codicis deperditi edidit Antonius Mazzarino, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, Marci Porci Catonis Oratio pro Rhodiensibus. Catone, l'Oriente Greco e gli Imprenditori Romani. Introduzione, Edizione Critica dei Frammenti, Traduzione Ital. e Commento, a cura di Gualtiero Calboli, Bologna Traduzioni italiane Catone, De re rustica, con note, [Traduzione di Giuseppe Compagnoni], Venezia, nella stamperia Palese («Rustici latini volgarizzati»). Catone, Dell'agricoltura, Versione di Alessandro Donati, Milano, Notari, 1929. Liber de agricoltura, Roma, Ramo editoriale degli agricoltori, L'agricoltura, a cura di Luca Canali e Emanuele Lelli, Milano, A. Mondadori, Opere, a cura di Paolo Cugusi e Maria Teresa Sblendorio Cugusi, Torino, UTET, Per la bibliografia specifica sul De agri cultura e sulle Origines si rimanda alle rispettive voci)  L. Alfonsi, Catone il censore e l'umanesimo romano, Napoli, Macchiaroli, Astin, Cato the Censor, Oxford, Clarendon, Burckhardt, Cato der Censor, Basel, Reinhardt, Cordioli, Marco Porcio Catone il censore e il suo tempo, Bergamo, Sestante, Corte, Catone Censore. La vita e la fortuna, Torino, Rosemberg e Sellier (rist. Firenze, La Nuova Italia). P. Fraccaro, Sulla biografia di Catone maggiore sino al consolato e le sue fonti, Mantova, G. Mondovì, (estr.). F. D. Gerlach, Marcus Porcius Cato der Censor, Basel, C. Schultze, Marcucci, Studio critico sulle opere di Catone il maggiore, vol. I [unico pubblicato], Analisi delle fonti, questioni varie, Orazioni del periodo consolare e degli anni posteriori fino alla censura, Orazioni del periodo censorio, Pisa, succ. fratelli Nistri, Marmorale, Cato maior, Catania, G. Crisafulli (II ed. Bari, Laterza). C. Ricci, Catone nell'opposizione alla cultura greca e ai grecheggianti. Nota, Palermo, D. Lao e S. De Luca, Sciarrino, Cato the Censor and the beginnings of Latin prose. From poetic translation to elite transcription, Columbus, Ohio State University Press, Fonti antiche Cicerone, Cato maior de senectute Cornelio Nepote, Vita M. Porcii Catonis Tito Livio, Ab Urbe condita, Plutarco, Vita Catonis maioris Marco Porcio Catone Uticense, bisnipote A a Marco Porcio Catone Catóne, Marco Porcio, detto il Censore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Plinio Fraccaro, CATONE, Marco Porcio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Catone, Marco Porcio detto il Censore, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Catóne, Marco Pòrcio, detto il Censóre, su sapere.it, De Agostini. Marco Porcio Catone, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Marco Porcio Catone, in Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia. Opere di Marco Porcio Catone, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di Marco Porcio Catone / Marco Porcio Catone (altra versione), su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Marco Porcio Catone, su Open Library, Internet Archive. Opere di Marco Porcio Catone, su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Marco Porcio Catone, su LibriVox. Marco Porcio Catone, su Goodreads. Marco Porcio Catone, su Discografia nazionale della canzone italiana, Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi. Biblioteca degli scrittori latini con traduzione e note: M. Porcii Catonis quae supersunt opera, Venetiis excudit Joseph Antonelli. Les agronomes latins, Caton, Varron, Columelle, Palladius, avec la traduction en français, M. Nisard (a cura di), Paris, Firmin Didot Fréres; Historicorum Romanorum Reliquiae, Hermannus Peter (a cura di), vol. 1, in aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae. M. Catonis praeter librum de re rustica quae extant, Henri Jordan (a cura di), Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri. Portale Antica Roma Portale Biografie Portale Letteratura. Carthago delenda est Locuzione latina di Catone il Censore  De agri cultura opera di Catone  Origines opera di Marco Porcio CATONE. ETICA  Sentimento e appetito Principio dello spirito pratico.L’azione riflessa. L’appetito. La sensazione e il sentimento. La duplicità della tendenza appetitiva. Divario tra azione riflessa ed appetito. L’appetito fondamentale. Piacere e dolore. Causa del piacere e del dolore. Il sentimento principio d’azione. Tanto il piacere quanto il dolore  sono stati positivi. La condizione del piacere. Funzione biologica del sentimento. Differenza tra  sensazione e sentimento. Intensità o tono del piacere o del dolore. Aristotele sulla  natura del piacere.  Desiderio e istinto. Il desiderio. L’istinto. Origine dell’istinto:  dottrina dello Spencer e sua critica. Carattere dell’operare istintivo. Affetti e passioni. L’affetto. La passione. Differenze tra l’affetto e la passione. Le passioni in rapporto alla  vita movale. Classificazione delle sensazioni. Temperamento e carattere. Teoria antica dei temperamenti. Classificazione dei  temperamenti fatta dal Kant. Altra classificazione  dei temperamenti. Uguaglianza originaria o differenza irriducibile delle nature individuali. Temperamento  e carattere. Carattere morale e virtù. Carattere. Carattere morale. Giudizio valu-  tativo o pratico. Motivi naturali e motivi etici. La scienza e la virtù. Concetto della virtù.  Il fine dell’uomo. Il fine della vita umana secondo Aristotele. La  eudemonia aristotelica. Il fine della vita secondo  Kant. Il sentimento morale. Concetto del senso morale. Origine del senso morale.  La volontà. Distinzione della volontà dalle attività pratiche inferiori.  Definizione della volontà. Ragion pratica, fini,  mezzi. Rapporto della volontà con l’appetito. La spontaneità dello spirito nella volontà e la psico-  logia empirica inglese. Motivi e libero arbitrio, La quistione della libertà del volere.Critica del  concetto del libero arbitrio. La necessità del fine.  Causalità etica, educabilità e responsabilità. Critica del determinismo meccanico di Herbert. Fatalismo e determinismo, Concetto del fato.concetto della Provvidenza e  il domma della grazia.  Critica del fatalismo. Il determinismo. Motivi generali o determinismo sociale. I motivi generali. La statistica. Statistica e  libertà. Drobiscli. Legge morale. Origine della legge morale.Dottrina teologica e  sua critica. La dottrina kantiana. Dottrina  aristotelica. Edonismo e utilitarismo, Classificazione dei sistemi morali. Cenno storico  dell’edonismo e dell’utilitarismo. L’utilitarismo secondo Mill. Critica della morale del Mill. Critica dell’edonismo ; Smitli e Schopenhauer. L'amore. Imperativo categorico e idee modello. Teoria kantiana dell’imperativo categorico. Teoria  herbartiana delle idee modello. Critica del forma-  lismo kantiano ed herbartiano.  Le virtù singole. Classificazione aristotelica delle virtù.  La liberalità  e la magnanimità. La giustizia. La giustizia nell’etica aristotelica. Giustizia commutativa e giustizia distributiva. Capitolo Organismi etici. Origine della   famiglia. Primo nucleo sociale: la famiglia. Carattere etico  della famiglia umana. L’amore. La generazione e  il valore etico della prole. Il sentimento e il dovere. Gli elementi della famiglia e la definizione del matrimonio. Organismo etico della famiglia . La famiglia come organismo etico. La relazione  tra i coniugi. Dottrina kantiana del matrimonio.  Dottrina di Platone e di Aristotele. Coiteli ia-  sione circa la relazione coniugale. Relazione tra  genitori e figli. La proprietà e l’eredità. Dissoluzione della famiglia e divorzio. Processo storico della famiglia. Età barbarica. La famiglia antica. La schiavitù e la clientela. Stabilità della famiglia ed ele-  mento religioso delle istituzioni domestiche. Indipendenza del valore etico della famiglia dalla religione. Gli elementi etici della famiglia romana: la patria potestà; l’eredità; l’adozione; le  clientele.  La società civile, Prima limitazione etica del diritto di proprietà. Origine della società civile. Concetto della società civile. Contratto. Valore etico del contratto.La giustizia nella società civile.La libertà civile. La città. Passaggio dalla famiglia alla società  civile. Idealità della società civile. Genesi dello Stato. Gradi della coscienza civile descritti da CICERONE. La patria e la città.La nazione e lo Stato. Paragone tra famiglia, società civile e Stato. Sostanzialità dello Stato.  Diverse opinioni su l’origine dello  Stato. Idea greca dello Stato. Dottrina dell’origine divina dello Stato. Dottrine della origine umana dello Stato: Lo Stato derivato dalla forza; lo Stato derivato dall’istinto; lo Stato derivato dal contratto  sociale; lo Stato derivato da un’imperativo; lo Stato  derivato da un' idea modello. Organismo dello Stato, Rapporto fra lo Stato e i cittadini. La statolatria  antica. L'individualismo moderno. Stato politico e stato giuridico. La legge. Il governo. La magistratura. Il fine dello Stato. Il  diritto punitivo. Le relazioni esterne dello Stato,  e la guerra. La virtù politica. Organismo  dei poteri dello Stato. Lo Stato in quanto contiene altri  organismi. Relazione tra lo Stato e la famiglia. Stato e Comune. Stato e associazioni private. Stato e  Chiesa. Relazioni tra Stato e Stato. Lo Stato e la coscienza comune del genere umano. Il commercio. Ravvicinamento progressivo tra i  vari popoli. I rapporti internazionali e la paco perpetua. arbitrato internazionale. La diplomazia. La stampa, il fine dell’Unianitù e Ih storia.  Invitato a curare una nuova edizione degli “Elementi di Filosofia” accettai  volentieri l’ onorevole invito per due ragioni : una,  che può parere tutta personale : che cioè questo libro m’ è caro , perchè è il primo libro di filosofia  che io ho letto; e i dubbii, suscitati in me da a  lettura di esso, segnano nella mia vita il primo svealiarmi consapevole alla ricerca filosofica. a -,  ohe cosi mi si prestava recessione di soddisfare im  antico desiderio mio e di molti colleglli valorosi, di  rimettere in luce la prima edizione di questi Elementi, divenuta assai rara e quasi introvabile, giudicata da noi di gran, lunga superiore alla seconda; „  a quella cioè che è divulgata e ormai quasi sola  nota , per le tante ristampe stereotipe fattene da Morano, fino alla 23. a edizione (ossia alla 21 a ristampa  della seconda edizione. Ho detto che la prima ragione può parere meramente personale. Ma tale, in fondo, non è . gia. cc  la mia esperienza m’è stata sempre indizio evidente d' un pregio intrinseco e sostanziale del saggio, pur  nella 2a edizione: un prègio che agli occhi miei ha  reso sempre preferibile questo di F. , con  [Napoli, Domenico Morano ; di pp- Ut).  I i suoi difetti, a tutti gli altri saggi di  filosofia, che, prima o dopo di esso, sono stati pubblicati in Italia, pur pregevoli quale per uno e quale  per un altro rispetto. Questo m’è sembrato che fosse atto, a differenza degli altri, se studiato come va  un saggio di filosofia, a muovere l’intelligenza e a far sentire il bisogno di una elaborazione di concetti ulteriore, di una più salda logica, di una più chiara  e più alta coscienza; che è poi il fine a cui può e  deve mirare quella prima istituzione filosofica che  viene impartita ne’licei. Ci sono testi più ordinati,  più lindi, più semplici, più facili, più ricchi , e  magari più moderni . Ma alla prova, prova fatta, pur  troppo da molti insegnanti subita da migliaia e  migliaia di giovani, — questi testi riescono o dannosi,  o, per lo meno, inutili. Parte, infatti, per la ricchezza  del contenuto -- povera ricchezza! -- in cui hanno voluto  condensare, e quasi comprimere, a forza di oscuri  riassunti , quelle che sono giudicate le principali  dottrine intorno a ciascuna materia, parendo ai compilatori che sarebbe l acuna deplorevole nella cultura  liceale la mancanza di cotali notizie, sono riusciti  zibaldoni indigesti e indigeribili , che nello spirito) dei giovani non hanno prodotto se non quello chel potevano produrre; nausea e disgusto, non soltanto  verso quei libri e quegli autori, ma verso la stessa filosofia, di cui non si dava loro a conoscere altri più degni rappresentanti. Parte, compilati con la  preoccupazione dell’ordine , della chiarezza , della  semplicità, con la falsa convinzione che quello si  ami a imparare, che non costi nessuna fatica; tralasciando ogni discussione, evitando ogni concetto  unjpo’ alto, che sia, o paia, in contrasto col senso    comune; togliendo, insomma, alla filosofia niente meno che la sua propria natura hanno ammannite quello ohe potevano ammannire: una non-filosofia; dando cosi a studiare quello che non avrebbe  fatto certo nè bene nè male; ma che perciò, forse,  era inutile studiare. Altro che soave licor negli orli  del vaso, nè anche goccia di succhi amari! L’esperimento d’un libro di questo genere ce l’ho  apch’io sulla coscienza; e ne fo questa pubblica confessione nella speranza di sgravarmene in qualche  modo. Anch’io commisi un anno, un anno solo, l’errore di adottare un testo di psicologia facile facile , appunto perchè facile facile , chè non aveva  altro pregio. E il risultato che ne ebbi fu questo :  che gli alunni capirono sempre bene, senza mia fatica. e conferirono sempre meglio, senza loro fatica;  ma, infine, con mia vergogna non piccola, mi accorsi  che’ sapevano tutto, e pur non sapevano niente.   Il saggio filosofico non  è detto che debba essere facile, nè moderno, nè  completo. La facilito, certo, è gran bella dote di  un libro ; ma quando questo libro - si vuol leggere  in viaggio, per scacciar la noia, o a letto, per pigliar sonno. La modernità, è un altro pregio tutt’altro che trascurabile; ma quando non ci stia a scapito della verità e dell’efficacia. La completezza, che è ciò che più si desidera da taluni insegnanti  nel saggio di F., una preoccupazione  senza fondamento : sia'perchè non ci può essere mai  se non una completezza relativa; e al saggio di F., così com’è disegnato, non manca nulla per  potersi dire completo ; sia perchè, nel nostro caso,  li libro è d estinato a una propedeu tica, filosofica, e dev’essere strumento di cultura, pungolo dell'ina  telligenza, e quasi direi , pietra di paragone della  riflessione speculativa. E in ciò la quantità delle cognizioni da comunicare non ci ha proprio nulla I  da vedere. Giacché, se si vuole che l’insegnamene  filosofico nei licei produca buoni frutti, bisogna che  noi insegnanti ce lo chiaviamo bene nel sommo della  testa : non importa niente che gli alunni abbiano questa o quella cognizione, e sia modernissima quanto si voglia; sì importa, che imparino a pensare;  ma a pensare per davvero, riflettendo sul pensiero,  e sforzandosi di farne un sistema logicamente coerente. E questo è l’effetto che li ottiene dal. libro del  F.; del quale non sfuggono neppure a me  i punti non ben saldi, che non son pochi, nelle  dottrine : ma che è il solo libro scolastico nostro,  scritto con un unico spirit o, co n uno sforzo costante j-)  di organizzare la Serie delle dottrine, quali che  siano; discutendo sempre, e lasciando intravvedere    cosi una luce lontana , maggiore di quella che vi  splende per entro ; il solo libro 1 , per continuare a  parlare con tutta franchezza, che qbitu i a. pensai /(  Meglio però vi abitua nella prima edizione,' da  me ora riprodotta; segnatamente nella parte che,  ìiguaida la psicologia. Non è questo il luogo da indagare i motivi che induceno F. a rimutare nella seconda edizione,  quasi tutti i primi undici capitoli del libro : nè di  indicare a uno a uno i mutamenti dottrinali che y’in-  trodusse. Certo è che per tali modificazioni il saggio venne profondamente trasformato: l’idealista cedette  all empirismo che saliva in auge. Il kantiano stima che la psicologia genetica, come allora la chiamano in Germania, potesse p dovesse rendere ragione dell’a priori ; che Darwin potesse compiere e correggere Kant. L’a-priori kantiano, giunse a  scrivere, è una semplice fermata, che si traduce in queste parole. In noi c'è un’ attività già preformata a compiere certe funzioni, senza di cui la sperienza non si farebbe. La filosofìa accetta la tesi kantiana, e domanda: come si è preformata ? E cerca  di trovare la risposta in due fattori: rassp cjazjpne e la; la prima che accumula, la seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori dell’individuo e ciò eh’ è a posteriori per la specie. Proprio quello che si dimostra assurdo nel c&p. Ili della l. a edizione (IV della presente)!  Il libro, insomma, è, diciamolo pure, guastato dall’autore stesso. E non soltanto dal lato della dottrina. Perchè, tormentato in questi primi capitoli fondamentali, e qua e là, in tutti i punti più importanti,  nello sforzo di rammodernarsi e transigere, quasi,  con le più recenti dottrine, esso perdette lajr eschezza del primo getto, la stringatezza e solidità della  primitiva costruzione, raniijaa, onde era stata originariamente concepito. Rabberciato alla meglio, si  arruffò, e divenne aspro e difficile, di quella difficoltà che non è allettativa dell’ingegno, ma durezza invincibile e disperante. Perchè ciò che è logicamente ragionato, sebbene astruso, attrae e ferma lo spirito, e lo costringe a pensare per assaporare il gusto forte che dà la vittoria sulle difficoltà; ma ciò, che non fu organicamente pensato, stanca ed opprime, ed allontana da sè. Pure il manuale del F., cosi guastato, sè  continuato a ristampare ogni anno, e a studiare nei licei del Mezzogiórno, pel buono che sempre contene, per la serietà onde appariva scritto. Oggi che torna nelle sembianze primitive dovrebbe incontrare miglior fortuna. La psicologia, com’è in questa rinnovata edizione, è un' esposizione veramente lucida, benché elementare, dei gradi principali dell’attività costruttiva dello spirito teoretico;  e, quando non avesse altro merito, questo solo dovrebbe bastare a farlo sostituire a quei compendia di psicologia empirica e descrittiva, che ora corrono per le nostre scuole. Giacché, come vedranno da sé i signori colleghi,  la psicologia di F. è ijutt’altra cosa da, queir empirica descrizione e classificazione dei fatti di coscienza, che tiene ordinariamente il campo dell’insegnamento liceale. Quella descrizione e classificazione c'è pure. Ma in piccola proporzione e in seconda linea, laddove la trattazione mira alla comprensione filosofica dell'attività dello spirito nella  sua progressiva produzione del mondo teoretico, del mondo della scienza. Ora, che giovi più richiamare l’attenzione dei giovani su quest'attività, anzi che sulla minuta e grossolanamente sistematica conoscenza dei fenomeni psichici, non credo che alcuno, a ben rifletterci, vorrà mettere in dubbio. Siffatta conoscenza gioverà sempre ben poco, se pur mai gioverà: e la sua utilità non potrà essere altra dall’utilità  propria di ogni speciale contenuto mentale. Invece è risaputo e convenuto, é già s’è detto, che fine, della cultura del liceo non è di riempire, ma di formare il cervello. Come essenzialmente formativa ed in sommo grado educatrice è appunto la coscienza, la quale può aversi a principio, e quale con l’aiuto di  questo libro può ottenersi, della posizione dello spirito umano nel mondo, dove non è spettatore, ma  attore e creatore, almeno del suo mondo. Questa coscienza è elemento necessario della cultura vera; ed è gran ventura per la scuola media italiana possedere questo libro atto a promuoverla. Ma F. non accenna questo. Ma F. non parla di, quest’altro, che pur si richiede dagl’alunni della classe liceale. Non si richiede, veramente, nè questo, nè quest’altro. I programmi liceali, gli ultimi che si siano  prescritti dal ministero, non parlano se non di elementi  di psicologia, lasciando alla coscienza scientifica degl’insegnanti d’intendere la psicologia secondo i proprii convincimenti e di darli quindi il contenuto corrispettivo. D’altra parte è proprio possibile, dato l’orario presente dell’insegnamento filosofico, fare studiare come si conviene, in un solo anno, a giovinetti appena giunti dal ginnasio, una trattazione di psicologia più estesa di questa del F. (che, si badi, sorpassa nella presente edizione di 40 pagine quella dell’edizione precedente)? Che, se dall’annunziata riforma della scuola media il nostro insegnamento, com’è giustamente nei voti di parecchi insegnanti, verrà concentrato, con orario maggiore, negli ultimi due anni del liceo (cani’era, quando questo libro e scritto), allora l’estensione delle due parti principali, in cui il libro è diviso, risponde puntualmente al programma dei due anni. Coteste due parti, per comodo delle scuole in cui se ne volesse adottare una sola, s’è pensato di pubblicarle questa volta in due volumetti separati. Nel primo dei quali per motivi didattici ho creduto opportuno dividere la psicologia dalla logica. Vero è che anche nella parte n si torna poi a trattare di psicologia. Ma è questione di parole, ove s'intenda con F. per psicologia quella parte della filosofia dello spirito che studia le forme fenomenologiche del sapere. Per gli stessi motivi didattici ho spezzato nella stampa il, discorso tutto seguito dall’autore, che, scrivendo, non prendeva mai flato. E si vanta di  non esser uso a scrivere con le seste e rileggere  quello che avesse una volta scritto. E ho diviso ogni capitolo in tanti paragrafi con speciali titoli, quanti sono i singoli argomenti speciali che vi sono toccati. Come, sempre per gli stessi motivi, ho messo  in corsivo termini tecnici, definizioni ed esempii. Altre modificazioni non ho introdotte, salvo lievi mutatnenti nei titoli dei capitoli, dove, non mi sembravano esattamente corrispondenti al contenuto di questi; e qua e là ho corretto alcuni pochi errori  di fatto, incorsi nel libro per disavvertenza, e che l’autore, avvertito, avrebbe corretti da sè. Della  forma non mi son permesso mutar altro che, in rarissimi casi, alcuna espressione non abbastanza chiara; come ho tolto via, poiché si tratta di libro scolastico, qualche arcaismo, che potesse parere affettato, e certe ripetizioni fastidiose di parole, a cui l'autore, quasi per vezzo, non badava. Note non ho voluto apporne se non di rado, e sempre tra parentesi quadre, a chiarimento di espressioni oscure. Ma ne ho voluto mettere sempre, brevissime, ai nomi dei filosofi citati dal F., per indicarne la patria, l’epoca e le opere più celebri o più notevoli. Potrà forse parere che ciò sia troppo  poco per alcuni, e troppo, e superfluo per altri. Ma la pratica della scuola e degl’esami mi ha indotto a fare come ho fatto. Note lunghe non sarebbero  state lette, o avrebbero distratto; oltre che sarebbero entrate in particolari storici fuor di luogo. Questi brevissimi cenni potranno bastare a non far parere un Carneade ogni filosofo che l’autore ricorda, e a rendere forse impossibili casi simili a quello che m'accadde nell’esame di un candidato esterno di licenza liceale, che mi da Kant per contemporaneo di ARISTOTELE. E siamo giusti. Vedendo sempre appaiati ARISTOTELE E KANT – KANTOTELE --, come fare a sospettare che l'uno era morto da venti secoli quando nacque l’altro? Avverto infine che, riproducendo l’edizione, credo tuttavia di riferire dalla edizione posteriore il capitolo sulle sensazioni in particolare, che nella prima mancava; perchè contiene notizie elementari, che è bene non sieno ignorate. E avvertirò pure che, eccetto differenze di poco conto, notate ai loroluoghi, nella logica e nell’etica, le due edizioni coincidono. Solo futolto nella  seconda un capitolo sul piacere e il dolore, che da me, s’intende, è riprodotto. Il periodo filosofico che ho in animo di traiteggiaro si travaglia pressoché tulio intorno alla ricerca dell’anima. Muovendo dai principi aristotelici, e contenendosi il più delle volte nel modesto ufficio del commentare. Il perchè, volendo io risalire all’origini di quella controversia, ho divisato farmi dalla dottrina aristotelica, e dopo averla guardata in sè, considerarla negli sviluppamene che partorirono i due com, greco ed arabo. In ARISTOTELE medesimo quella dottrina non si può diligentemente esaminare, se non riferendola alle altre rimanenti, onde si compone il sistema tuttoquanto. Ci e se in cotesti riferimenti la scienza sempre si amplia esi allarga, nel caso nostro il farlo è una necessità derivata dall’indole medesima della speculazione aristotelica, la quale ci  si  palesa consentanea con se stessa fin nelle ultime conseguenze di un primo sbaglio. Nelle menti volgari si un errore esi una verità possono essere inseriti, comeuna specie di episodio, nella struttura del sistema. Magl’ingegni veramente speculativi si guardano di cascare in questo fallo, tanto almeno,  quanto aloro basta  la  vista di guardarsene. La dottrina dell’anima, e più particolarmente poi quella dell’anima intellettiva, presso Aristotile, implica quelle medesime difficoltà che s’incontrano sin dai primi passi del sistema. Nel Saggio storico su la filosofia greca io toccai di queste  difficoltà,  emi studiai di  chiarirne  al  possibile  il  vero  nodo  elavera sorgente. Zeller  non  ha  guari  nella  sua  Filosofìa  dei  Greci  ne  faceva  una  distesa  rassegna,  e di nodo in nodo  mostrava  come  tutte  si  aggruppassero  nella  posizione  di  Aristotile  verso  Platone. Qui non  mi  è consentito  altro che  sfiorare  tutte  quelle  difficoltà,  e mostrare  come  riappaiano  nella  dot-  trina, della  quale  ora  discorriamo.  Si  vedranno  nella  psicologia  come  nella  metafisica  gli  stessi problemi, e  poi  le  stesse  soluzioni , o meglio  il  difetto  di  una  vera  soluzione. Platone  aveva  detto:  l’universale,  o l’idea,  è quanto  v’ha  di  vero  e di  sostanziale  nelle  cose; la  materia,  per  i contrario, è una mera  negazione,  un  non-ente.  L'idea  rimane  sopra  la  moltitudine  e la  varietà  dei  fenomeni,  una , identica, permanente.  Le  cose  mutano, ella  no;  le  cose  muoiono,  ella  dura  eterna. Tra  le  idee  ed  i sensibili corre dunque  un  dissidio  infinito,  a colmare  il  quale  Platone  non  sa  trovare efficace rimedio; onde il sistema  platonico  rimane  con  una  scissura  profonda  ed  irreparabile.  Aristotile  venuto  dopo, e fermo di  porvi  riparo,  delle  affermazioni  del  suo  maestro  parte  ritenne,  parte  rifiutò.  Parve  anche  a lui  che  l’idea  sola  fosse  la  verità  delle  cose;  ma  perciò  medesimo, a suo avviso,  ella non può stare nè sopra nè fuori di esse, ed anzi implicata in una materia di cui ella è la forma. All’idea sopra  le cose di Platone, Aristotile  sostituì l’idea  nelle  cose, o la  forma. Il  partito, a cui si  appigliò  lo  Stagirita  pare  a prima giunta il solo spediente  acconcio  a ricongiungere quei  due  mondi  che  Platone aveva  lasciato  staccati non solo, ma  opposti. La  materia e la forma, collegate insieme nell’unità  dell’individuo,  rappresentano  l'armonia di quei due conlrarii che Platone non aveva saputo riunire. Ed intanto in Aristotile quel  congiungimento  noi| è tanto saldo,  che  quei  due  contrarii  mal  collegati  non  si  rivoltino  soventi  l’un  contro  l’altro,  e non  si  mettano  in  aperta  rottura.  Ognuno  di  essi  si  tiene  in  grado  di  primeggiare su  l’altro, e fonda le  sue  pretese  sopra  esplicite  dichiarazioni  di  Aristotile  a suo  favore;  le  quali,  bilanciandosi in  modo  che  nessuno di  loro  penda,  tengono  l’animo  sospeso  ed  irresoluto.  Da  una  parte T universale non  può  stare  più  da  sè,  e cotesta  indipendenza  è accordata  soltanto  all’individuo,  dove  pare  che  consista  la vera  sostanza; dall’altra  l’universale  solo  è conoscibile,  esso  solo  è la verità.  Cosi  la  realtà e Fa’^erTIir  si  trovano  spartite quando  non  dovrebbero  essere.  La  realtà  si  l  appartiene  all’individuo; la  verità  all’universale.  Platone era stato conseguente  nel  riporre  nell’idea  e la sostanza e la  verità  delle  cose;  Aristotile,  invece,  ondeggia, e quasi  vorrebbe  gratificarsi  l’uno  e l’altro, accordando  all’  individuo  la  realtà  ed  all’  universale  la verità, con  un sistema  di  compensi  che  qui  non  approdano. Questa  contraddizione  è notata  molto  profondamente da Zeller , che la  sostiene  contro  le  osservazioni  del  Biese,  ed  è manifesta a chiunque  sappia  di  Aristotile la  dottrina  della  cognizione, e quella  delle  categorie. Questa  prima  contraddizione  ne  partorisce  parecchie altre. E primieramente,  se  la  scienza  non  è atta  a [Er  sagt  oline jene Bescbrinkung: dati  Wissen  geli  e nur  taf ’a Allgemeine , und ebeaso unbedingt: nur  das  Eiozelwesen  tei  eia  Sabstantielles. Die  Philoi. der  Griechen, vou  Zeller,  Zweite  Tbeil,  Zweìte  Auflage. cogliere  se  noe  la  forma  delle  cose, e questa  oon  ne  costituisce  l’intera  sostanza, ne conseguita  eh*  eHa  sarà imperfetta  e che non  corrisponde  alla realtà  delle  cose  conosciute,  le  quali si  trovano specchiate in  lei  soltanto  a metà. Che se  la  materia è un  elemento  indispensabile a fornire la  sussistenza dell’individuo, non  può  venire  esclusa  dalla  cognizione,  come  se  fosse  un  accidente,  o anzi un ostacolo. Ciò  era  ben  detto  secondo  i principii  platonici, ma  non  secondo  quelli  di  Aristotile. Intanto la materia è dichiarala inconoscibile, essendo priva di ogni determinatezza. Inoltre 1’inconoscibilità  della  materia  nuoce  alla  conoscibilità  delie  forme,  perchè  queste,  salvo  la  prima  e purissima  forma, sono tutte  implicate  nella  materia  non  solo,  ma s’ingradano in modo,  che la  inferiore  sìa  deve  considerare  come  potenza, e perciò  come  materia, per rispetto  all'altra  che le sta sopra. Aristotile difatti ha posto tal relazione tra la materia e la forma, qual’è quella che corre tra la potenza e l’atto; onde la materia per lui è la  potenza  della  forma, come la forma è l’atto della materia. Ora secondo questa  determinazione tutte le forme,  tranne una sola, la massima,  possono dirsi materia, e cosi l’inconoscibilità  della materia si  riverserà  eziandio  sopra le forme.  La  massima forma poi, il divino, in mentre che dovrebbe essere la più pura, e perciò la più lontana dalla  individualità,  è ella stessa un individuo. Ora  l’individualità divina contraddice  con  la  teorica  fondamentale, secondo cui ogni  individuo  dev’essere il sinolo di una materia e di una forma,  non potendosi 1 à «?’  «Xtj  «yva>»To;  xa8’  ocutijv.  Metapk.. 1 « Ein and  dasselbe  Diog  kana  tich  desihalb  io  dar  einen  Beziehong It  Stoff,  io  der  Andern  ala  Form,  in  jener  ala  Mogli  chea,  in  diesar  ala  Wirkliches  verhalteo. Zeller. - etere un individuo dove non abbia luogo punto di materia. In fine non si può scorgere dove propriamente Aristotile ponga il sostrato della individualità : non nella  forma  che,  stando  alla  teorica  della  cognizione, dovrebbe  essere  l’universale;  non  nella  materia,  la  quale  è indeterminatissima, e che tanto  acquista  di determinatezza, quanto la forma  ve  ne  impronta. Tale  per  sommi  capi  è il  capitale difetto del Lizio. Difetto  che  dalla  relazione  mal  definita  d’universale  e di  individuale , di materia  e di forma, si diffonde in tutte le altre teoriche, e le guasta in simil guisa, producendo un'incertezza ed un viluppo irresolubile. Non è dunque da maravigliare se quel sistema diede occasione a tante controversie  di  interpreti,  perchè  esso  si  acconciava  ai  più  opposti  avviamenti. Tutta  la  filosofia  nel  medio evo e nella rinascenza si  diede a risolvere quei problemi in opposte sentenze, credendo sempre di ormare i passi  di Aristotile. Nè, per vero dire,  mancavano fondamenti a questo conflitto di opinioni. Se non che ogni diversa età ha mutalo  aspetto  alla  ricerca,  pur  conservandone  integro  il  fondo.  Così la scolastica considera la relazione tra universale ed individuo come la più rilevantr. Di poi, tra  Aquinisti e Scotteti, prevalse la questione dell’individualità, e chi la ripose nella  materia, chi  nella  forma.  Da  ultimo  nella  rinascenza  si  cercò  nell’  anima e nelle sue facoltà quella partizione e quella incertezza, e si  domandò  quale  fosse il legame che stringe l’intelletto con le rimanenti  facoltà.   Le tre questioni degl’universali, della individualità e dell’ intelletto o ragione sono diversi aspetti di una stessa ricerca; e tult'e tre  mettono capo in Aristotile, e si connettono  insieme,  e si spiegano 1'una con l'altra nel loro storico sviluppamento, secondochò  parmi di vedere, e secondochè m’ingegnerò di provare. Lasciando stare per ora le teorici che sono aliene dal tema dell’anima, e restringendomi a quella  che  più  da  presso  vi  si  riferisce, Aristotile risguarda il  corpo e l’anima dell’uomo sotto l’annodamento medesimo di materia e di forma. Basta leggere il suo saggio dell’anima per chiarirsene pienamente. Il corpo fa le veci di materia o di soggetto. L’anima, per contrario, non può essere sostanza se non come forma di un corpo naturale che vita. E per corpo  animato -- che ha vita, Aristotile intende quello che  si  dice  organici. Quindi proviene la sua definizione di “anima”, ripetuta  in tutto il medio evo, ed in tutto il periodo del rinascimento, nè ancora se n’ è potuto escogitare una migliore. Anima,  Aristotile dice, è l’entelechia prima di un corpo naturale animato, che ha  vita. Bisogna intendere per tale definizione un corpo organico. Ora, benché l’entelechia avesse, nel linguaggio del Lizio, una determinatezza maggiore della forma, nondimeno “anima” è pur sempre la  forma del corpo organico, e ad esso annodata con legami non disleghevoli. Perciò ad Aristotile pare oziosa la ricerca se un corpo animato vivo e organico e “anima”  siano una sola e medesima cosa, nel modo stesso che riesce vano il voler sapere la differenza che passa tra il suggello e la cera su cui s’impronta. Imperocché se l’entelechia si dice propriamente in quanto  (“Sto boxili è®Tiv évreXt^sia nrzpàrn ata/xtctoj fvotxoZ dwà/zsi  txoxro; .róiaÙTO Si, axv ri òpyavixóv. ’ ori /ztv  oo!  oix  giTiv  |vx»ì  xwptsrÀ  toG  sw/xares.  è forza  motrice  e tinaie, essa è però, come  osserva Zeller,  sempre tutt’uno con la forma. La definizione  che  ha  dunque  Aristotile  dell’anima,  è quello di forma – animata --,o di entelechia inseparabile dal corpo organico animato con vita. Esi  badi,  che  Aristotile non vuol restringere in'nessun modo questa sua definizione – graduale, come la di ‘numero’, in una serie -- fondamentale, la quale è comune a le parti dell’anima – o le tre anime – come, dice Aristotile, la definizione di “figura”in geometria è applicabile a tutte le figure, o il concetto di numero al 1, al 2, al 3, e successivo. Ben si distinguono parecchie specie di anime, i cui “gradi” Aristotile determina cosi. Nutrizione, sensibilità, locomozione, intelligenza o ragione -- ordinate in modo che il grado superiore presuppone l’inferiore e non puo stare senza di esso. Però tutte coleste specie dell’ “anima” debbono convenire nella definizione comune. Barili, de Saint’Hilaire, riconosce questa necessità. Stando aq ueste deduzioni, la dottrina d’Aristotile procede fin qui sicura e senza esitazioni. Dove ci è moto prodotto per intrinseca energia, ci è “vita.” Dove  ci  è  vita,  ci è corpo ed anima,  cosa mossa e causa motrice.  Il corpo è la potenza e la materia. L’anima è l’entelechia e la forma. E come nella metafisica l’individuo (to tide) risulta da una materia e da una forma, cosi nel caso speciale degl’esseri e individui “animati” – o gl’animali --  il  loro compiuto concetto consta di un corpo organico (il corpo di Sileno di Socrate) e di anima. Ma tutta questa armonia viene rotta da una dubitazioneche Aristotile propone senza risolvere. Das gleiche Wesen wird aber auch eia Eodzweck sein, wie  ja Qberbaapt die Form voo der bewegenden und der Endursacbe nicht verscbieden ist. Solerti non die Form ala bewrgende Kraft wirkt, nennt aie Aristote- le Entelechie, ami somit definit i er die Seele ala die Entelechie uod naber ala die erste Entelechie cines nalQrlichen Kòrpers, welcher die Fahigkeit bat,  za leben. Zeller,  Zw.  Tbeil. La definition qu’il a donoée lui-méme au cb.  l«r  de ce livre doit donc ponvoir s’appliquer spécialement à chaque espìce d’ime qu’il a distiagatte. Ptychologit  d’Ariilole,  Paria. Arrivato all’intelligenza, Aristotile tentenna, e si perita di applicare a lei le determinazioni precedenti dell’anima, benché avesse prima detto che quella COMMUNE DEFINIZIONE – ‘graduale’ -- [di ‘anima’] fosse applicabile a tutti I gradi  -- come nel caso dei numeri -- differenti  di vita (bios, zoon). L’intelligenza (zoon logikon) pare ad Aristotele un  altro  genere  di  anima (psyche) e vita,  e perciò separabile nello stesso modo che l’eterno si separa dal perituro. Questa scappata (aporia)  d'Aristotile può riuscire inaspettata a quelli soltanto I quali non hanno seguito la filosofia del liceo lizio in tutto il suo svolgimento. Chi però ha posto mente alla irresolutezza  d’Aristotile nell’accordo proposto tra l’universale e l’individuo, ed ha visto continuare questa perplessità nella concezione della materia e della forma, nel legame tra il divino ed il mondo, e nella teorica della cognizione,  si accorge anzi che Aristotile non puo fare altrimenti. Nell’anima istessa ci è qualche cosa che tiene più della materia, e qualcosallro che fa le veci di  forma. Il senso e le facoltà inferiori di vita che sembrano un patire, e l’intelletto – o  la ragione --- che sembra attivo verso di loro. Anzi nell’intelletto (come parte terza dell’anima) medesimo, Aristotile discopre questa duplicità, la quale come e rimasa irreconciliata e contrastante nelle prime categorie dell’essere, così rimane qui negli ultimi  svi-  -- I appara enti dello spirito. Ciò che v’ha di peculiare nell’anima dell’uomo e la sua vita (Anthropos zoon logikon) è l’intelletto. Perciò noi ci fermeremo un poco più nel mostrare in che modo Aristotile ne avesse esposto la  natura. L’ intelletto – o la ragione, la terza parte dell’anima nella vita dell’uomo -- primieramente apparisce legato con le l altre facoltà – anima I e anima II -- non solo per la intuizione generale del sistema aristotelico, che fa ricomprendere ogni forma inferiore o sub-razionale -- nella superiore, ma per l’esercizio medesimo della sua attività, che non potrebbe recarsi in atto senza il sussidio delle due parti precedenti. Le cose estese sono ricevute nell’anima mediante le sensazioni,  le  quali sono perciò forme delle cose sensibili. Dopo questa maniera di forma, che richiede la presenza della materia, ve n’ha un’altra la quale si assomiglia alla sensazione, se non che non ha bisogno della materia presente. Da ultimo, la ragione, l’intelletto, eh’è forma delle forme, esercita verso le sensazioni ed i fantasmi la medesima azione che i fantasmi hanno esercitato su le sensazioni,  e le sensazioni su le cose sensibili. Cotalchè  come  la  sensazione non può aversi senza la materia, nè la immagine fantastica – e. g. centauro --  senza la  sensazione – di uomo e cavallo -- , così  l’atto della intelligenza o ragione non è possibile senza il fantasma. L’intelletto o ragione in questa prima posizione apparisce dunque legato indissolubilmente con  tutto il sistema tripartito  delle facoltà dell’anima nella vita dell’uomo. Nè  per la sola operazione la ragopme p intelligenza apparisce legata con l’organismo corporeo, ma per la sua intrinseca natura. Difatti  ella,  come  intelligenza, non è altro che ciò per cui l’anima ragiona, e non è nessuna cosa in atto prima di  pensare: ella è soltanto in  potenza. Che se riannodiamo questa teorica dell’  intelletto o ragione con  l’ altra  dell’ anima , si  scorgerà, che  come l’anima  e  legata  col corpo organico vivo organico animato,  così  l’ intelletto  è legato  con  l’anima; perciò qui Aristotile  la  chiama intelligenza  dell’anima: r»ì;  voC«). Ed  in  ultimo  risultamento avremo  il  corpo organico come subbietto o materia  dell’anima,  e questa come subbietto dell’intelligenza o ragione.  1x ed  Sii  roóro  omtc jit)  Atrèavépigva; puj&év    oùdé  ?uvior  ór*»  rs  Se  capri,  oèvexyxvj  »(»*  yxVTaspta  ri  àsoipstv.  * ùsre fj-nS’  aùroù  stvat  pùnv  /sride/tta»  àXX’  n t*vt»ì»,  ori  ^u»aró»  ò «pa  xaXaóptsvoi  rn (»®ó; (Xsyoi Si voó» wdtetvostroci  xeni oivei r, 'l'UX’t) où&t* èsTiv svspyda tmv ovroiv tepìv vosi». Altre  asserzioni  dello  stesso  Aristotile  accennano  però  alla  sentenza  opposta.  Già  abbiamo  visto  come  per  lui  l’intelligenza o ragione sia un altro “genere” di “anima”, e separabile, in mentre che le due anime dei  due gradi inferiori sono legate con gli organi. A questa testimonianza,  che sta *contro* alle cose precedenti, se ne  aggiunge  un’altra  ugualmente  esplicita,  dove  si  sostiene  che  il  “noo” – o spirito -- venga dal di fuori,  e che  solo sia “divino”. Si possono distruggere la riflessione, l’amore, l’odio,  il ricordarsi, perchè siffatte  modificazioni  appartengono  al  soggetto in cui alberga l’ intelligenza  e che  la  possiede. Ma  l’intelligenza o ragione o anima razionale medesima  è qualcosa  di  più  divino, è qualcosa d’impassibile.  Che se dopo tutte queste dichiarazioni,  che  riguar-dano il principio intellettivo nell’uomo, ricorriamo col pensiero all’intelligenza o ragione suprema , come vien descritta nella metafisica, esegnatamente nel  libro  dodicesimo,  la  difficoltà  da  noi  proposta  e  più  evidente.  Prima  si  dimostra  come  non  ci  siano  altre  sostanze che  quelle che  risultano  da  una  materia e da una  forma. Poi di forma in forma si arriva ad una suprema,  la quale non è punto  implicata  nella  materia, e che  perciò  si  svelle  dal  sistema  mondano,  e non  vi rimane  legata  se  non  per  un  filo  debolissimo, com’ è la  relazione  di  mosso e  di  movente.  Quella  forma  suprema,  che  doveva  accogliere in  sè tutte le forme  inferiori,  non  è potente  nemmanco  di  pensarle.  L’intelligenza  divina  rimane  staccata  dal mondo, se  non  fosse per il bisogno di ricorrere  ad  un  motore  ultimo -- ed  immobile.  Tale  rimane  nel  sistema delle  facoltà  umane l’ intelligenza -- è lo  stesso  difetto che  si  riproduce  in  ciascuna  parte. 1 AeiTtirai  «?* róv  voi!»  /ióvov  OùpaOev  eiwisuvai  xai  0eTov  ecvat  uo'vov.  De  gener.  anim.,  ctVedi  De  Anima. Rénan  si  è accorto  della  discrepanza  della  dottrina  su l’intelletto nel congegno del  sistema del lizio, e  la  dichiara un frammento di scuole più antiche,  d’Anassagora specialmente,  che viene citato  dallo  stesso  Aristotile. Ma colesta  spiegazione,  oltre  all’essere poco  degna  d’Aristotile, il  quale non  ne  avrebbe  saputo  misurare  tutta  l’importanza,  contrasta  col disegno  generale  del  sistema.  Saldata che  avrete  questa  screpolatur,  come  farete poi  per  tante  altre  che  rimarranno  scommesse  ed  irremediabili?  Poniamo  ancora  che  il legame  tra il divino  ed  il  mondo  si  rimeni  a questa  medesima  dottrina, e che tutta la Metafisica del lizio sia  un  episodio,  benché  un  po’  troppo  lunghetto. Si  risalderà  meglio la  rottura  tra  la  materia  e la  forma? Si spiegherà  meglio la  teorica  della cognizione,  sviluppata  negl’analitici? E se cotesta magagna s’insinua  in  tutte  le  particolari  trattazioni – “De Interpretatione” – la parola e segno d’una affezione dell’animo -- , come  si  fa  a dichiararla  un  frammento  slegato, ed a cacciarla via  dal  sistema? Altro,  a parer  nostro,  è  il dire che  il più  spedilo  e più logico avviamento  d’Aristotile sarebbe stato di continuare nella risoluta opposizione verso il  suo tutore all’Accademia,  ed  altro  il  negare  eh’  egli  in  questa  polemica  non  sia  proceduto  incerto,  parte  rifiutando e parte  ritenendo. Incauto  cercatore,  anche  lui,  di  conciliazioni  impossibili.  Della  prima e più spiccata contraddizione nel costruire l’individuo di materia e di forma  ho discorso di  sopra. Toccherò  ora  della  dottrina  della  cognizione. La  scienza  secondo  il  processo  del lizio  piglia  le  mosse  dalla  sensazione,  e procede,  sempre  più  sviluppandosi, per  molti gradi,  i quali sono  variamente  descritti, ma che si  possono  però  ridurre,  conforme  al1 (“Il  est  évident que  toute  cette  théorie  da  voù(  est  eropruntée  4  Anaxagore. — Averrhoès,  etc.,  psp.  l’esposizione  del  Barili,  de  Sant’Hilaire,  ai  seguenti. Sensazione cioè,  pensiero  nella  forma  volgare, ed  in  quanto  sottoslà  alle  impressioni  sensibili. Scienza  (ìttLotìiw) , é intelletto  (noo),  il quale è in relazione  cop  gl’inteUigibili. Riguardo alla sensazione non s’incontra difficoltà. La sensazione è la forma delle cose sensibili, che viene accolta da un’anima sensitiva. Nel sollevarsi poi dalla sensazione alla  scienza, Aristotile  ammette  moltè  sfumature,  die  talvolta  si  confondono,  ma  che  giova descrivere,  per far  vedere quanto sottile  osservatore  egli  fosse,  e come  per lui tutto il processo del pensiero non fosse altro che un continuo disvilupparsi dalle forme più materiali per rivestirne altre più generali epiù pure. Il grado immediato alla sensazione è per lui la Séga che lo stesso Saint-Hilaire traduce per “percezione”, e potrebbe pure dirsi opinione. Sopra cotesla percezione, o  opinione che  dir si voglia, pone  la fantasia  (pxvmaia.), la quale può dirsi un grado di sviluppamene maggiore, staccandosi  già  dall’oggetto sentito , più che  non  facessero i due  gradi precedenti,  i quali ne richiedevano  sempre l’immediata  presenza. La fantasia medesima si riferisce al fantasma (pàv touhx) ed all’inamagine (Uwv) ; imperocché essendo  la  fantasia  una  specie di  tramezzo  fra  la  sensazione  e la  scienza,  col  fantasma  si  accosta  più  all’intelletto, con  l’immagine  invece  si  accosta  più  all’obbielto. La scienza  e l’opinione possono accoppiarsi in certo qual modo, ed  il  loro  miscuglio    la  riflessione  ( <j>pó-  vjiJts). La  scienza,  1’opinione  e la riflessione  Sega, ppóvmatj), sono d’Aristotile comprese sotto un termine comune uttò^cs,  il quale è deputato  a significare l’attività  spontanea dell’anima,  doyecchè  la Stóvota discorre  da un oggetto in un altro. 1 1 Per la  determinazione  di  tatti  cotesti  gradi  del  pensiero,  vedi  Barth.  de Tali  sono  i primi  sviluppameli  della  scienza;  ma  ipoichè  ella  consiste  nel  dimostrare, e nel  far  vedere  le  cose nelle loro cagioni,  perciò  è necessario che  si  fermi  in  principi  assoluti  ed  indimostrabili.  Il  voOs  è l’intelletto  di  questi  primi  principi,  i quali  sono  i termini  della  dimostrazione. Se la sensazione  (afoots) dunque è il primo inizio della  scienza, l’intelletto (vo0«) n’è l’ultimorisultato.Chi ha tenuto d’occhio tutto il processo della cognizione, com’è descritto da Aristotile,  si  sarà  accorto  che conforme  a questa dottrina il vovg non può fermarsi se non nei principi più remoli  dalla  materia, e più  universali.  Essendo  l’apice  di  ogni  astrazione, esso  dev’essere  al  polo  opposto  della  sensazione,  che  si  trova  congiunta  con  la  materia  immediatamente.  Ed  intanto  il  punto  di  fermata  sono  i termini,  ossia  è la sostanza.  Ora  la sostanza, nonché sia l’universalissimo  essere,  è invece individuale; dunque il processo della  scienza, dopo  aver  percorso  tutte  le  forme  di  separazione  dalla  materia,  ricasca nella sostanza,  la  quale  è dalla materia  inseparabile. L’essere  e la  sostanza  sono  spesso  confusi  da  Ari-  stotile, eh’è quanto dire  la  più  astratta  delle  forme,  l’essere,  vi  si  scambia  con  la forma attuosa legata con  la  materia. La  sostanza  è per  lui  una  volta  il  neccssa- [Saint-Hilaire, Logique d'Arùtote,  Deuxìème  l’artie,  section  XI®,  -di.  9®.   * Ecco  come  il  Trendcleraburg  prova  questo  ufficio  proprio  del  veù;  aristotelico. « Noè;  in primis  et  ultimis  scienti»  priucipiis  rersatur.  Ita  Analyt.,  post.  I,  27,  Xiyu  yàp  *sùv  ù.pyn'1  éKcuni/in»-  Elh.  Nicom.  VI,  6.  7st  fTSToct  voùv  siva*  TÙv  xpyrZv.  Quteuaui  sit  xp%rj  (neque  euim  omnis ed  noJv  rediòit)  accuratius  defiuitur  Elh.  JVtc.,  Vi,  9,  ò pit  -/«.p  voós  ri»  opwv  u'J  oóx  sor*  /óyo;.  i.  e.  quorum  sulla  est  demoustratio  conclusione  «ffecta.  « Àristot., De  Aniti.  Commentario. 1 «L’idée de l’étre et l’idée de substance se coufoudent souvent aiosi pour Aristote.» Bar  ih.  Saiot-Iliiaire,  ioc.  cit., cb.  40.  rio  e 1’universale, un’altra volta il puro accidente ; un»  volta  forma,  un’  altra  volta  sinolo  di materia e di forma. Il  noo  aristotelico  adunque  una volta  si  ferma  ai  principi  (àp^wv),  un’altra volta ai termini  (ópwv),  i quali non sono altro che la sostanza.    in quest’ una soltanto  si  restringono  le  incertezze  di  quella  dottrina.  Il noo  allora veramente si conchiude e si  assolve,  quando si posa in se stesso. L’andare  di  pensiero in  pensiero implica un processo all’infinito , dal quale  Aristolile  si  mostra  sempre  alieno.  Sforzato  adunque  dalla  stessa  dialettica  egli  immedesima in questo atto supremo l’ intelletto el’ intelligibile, ed in cotesta medesimezza dell’intelletto con se stesso è riposta la sua vera assolutezza. Se ci fosse qualcosa di esterno, alla quale lo spirito dovesse stare sospeso, egli sarebbe da meno di lei. E fin qui tutto si accorda a maraviglia  con  la  natura  dello  spirito,  che  non  può  prendere  in  prestito  d’ altronde la  sua  compiutezza,    posare  altrove  che  in  se  stesso  ; ma in  che  modo  si  potrà  conciliare  cotesta  af-  fermazione con l’ altra che fa travagliare il noo intorno ai primi principi? Ed ecco una nuova irresolutezza, una nuova contraddizione. Lo spirito che una volta si  (Ecco come il medesimo Sant-Hilaire riassumo da parecchi luoghi della Metafilica la teorica di Aristotile, dove la sostanza apparisco una volta necessaria, un’ altra volta come reale, cioè come individuale. Non trattando qui di proposito questa teorica mi astengo dal citaro io stesso i luoghi del testo. La Science, douée de ces deux caractéres, du général et du nécessaire, «'applique donc surtout è ce qui est en soi, è lasubstance,  bien  plutùt  qu’anx  autres  catégorie»,  qui  ne  sont  que^d’accident.  La  substance,  l’étre  éel  (oùsia)  est  su  faste  de  la  Science:  et  c’esl  elle  spécialement  qne  le  philousophe  doit  étudier.  De  plus,  c’est  à une  seule  et  ménte  Science  de  recher-  « ber  et  les  principe  généraux  de l’étre , de  la  substance, et  Ics  principe  généraux  de  la  démonstration,  et  du  syllogisme  qui  la  coostitne.   eh.  »e.  “Si absolutum id est, quod ad nihil nisi ad seipsum rifertur, acquitur sane mentem, siquidem  absoluta est,  seipsam  cogitare. -- ferma  nei  principi  universali  e nella  sostanza; un’altra volta  che  si  conchiude  in  se  medesimo. Certamente  quest’ultima  conclusione è più  accettevole, e più  consentanea alla nozione  deirintellelto  espressa  precedentemente; ma ciò  non  toglie  il  fare  incerto  ed  anche  contraddittorio del  sistema. Se l’intelletto  non  è,  se  non  quando  pensa  in  atto; esso  non  può  compirsi,  se  non  nell’atto  suo  proprio.  Se  gl’intelligibili  non  si  differenziano  dall’atto  medesimo  che  li  pensa,  come  si  può  dire,  che l’ intelletto si  fermi  nei  primi  principi,  i quali in  tal  modo  dovrebbero  avere  un’ esistenza  indipendente?   Forse  ad  ovviare  a questi  ed a tutti  gli altri  inconvenienti  finóra  discorsi,  Aristotile  ricorse  allo  spariijmento  del noo in  due,  per  potere  più  facilmente  altrij  buirgli  le  più  conlradittorie  determinazioni. Il  quinto  capitolo  del  terzo dei libri  su  l’ anima  ospone  la  partizione  dell’intelletto  in  attivo  e passivo. Come  nella  natura  ci  è la  materia,  eh’ è lutto  in  potenza, e poi  la  causa  che  la  rechi  in  atto; così bisogna  che  coteste  differenze  si  trovino  pure  nell’anima.  In  lei  adunque vi  è un  intelletto,  che  può  tutto  divenire,  ed  mi  altro  che  può  tutto  fare. E come  l’agente  prevale  sul  paziente,  cosi l’ intelletto, che  tutto  fa,  è fornito  delle  migliori  prerogative;  è separato,  eh’  è quanto  dire  non  dipendente  da  nessun  organo,  è impassibile,  e non  ha  mistura  di  sorta;  perciò  è immortale  ed  eterno.  Per  contrario l’ intelletto, che  tutto  diviene,  è capace di  patire,  e perciò  è perituro,  e senza  l’aiuto dell’intelletto attivo  non  può  nulla  pensare.  Il noo  attivo così  descritto  apparisce  essere  quanto  nell’  uomo  v’ha  di  divino ; anzi, come  osserva Zeller,  esso  non  si  differenzia  punto  dallo  stesso  Dio.  E di  ciò   1 /.ai  !<mv  S pìv  Totovro  vsus  tw  Tra/Ta  ycvss&at, S Sì' r»  irà/Toc  iisiitv.  De Anim.) potrà capacitarsi chiunque si  faccia a riscontrare  la  dottrina  del  Noo  attivo  con  l’altr  del  Dio  aristotelico,,  come  si  trova  nel  dodicesimo  libro  della  Metafisica.  Se  non  chè  il noo  attivo,  da  alcuni  tolto  per  lo  stesso  Dio,,  non  si  può  considerare se  non  come  qualcosa  dell’anima.  Aristotile  medesimo,  se  da  una  parte  lo  chiama  il  divine  nell’  uomo  ; 1 dall’  altra  ci  ricorda  eh’  esso  ò un  altro  genere di  anima. 1 Intanto  è impossibile  concepire  due  essenze divine,  una  nell’anima  umana,  l’altra  separata;  e questa  contraddizione,  prodotta  dalla  solita  dubbietà.  D’Aristotile,  rimane  anch’  essa  irresolubile. 3  Gl’interpreti  d’Aristotile, e non  gliene  mancarono neppure  quando  fioriva  ancora  la  greca  filosofia,  cominciarono percip  a dissentire  sul  Noo  attivo,  secondochè  ci  attesta  Temistio.  Chi  voleva  farne  la  facoltà  che  coglie i supremi  principi  con  una  semplice  comprensione,  e senza bisogno  di  discorrere,  come  pare  avesse  intesa  Temistio  medesimo  (nè  era  certamente  senza  fondamento cotesta interpretazione):  chi  per  contrario  dal  dover  essere  sempre  in  atto  argomentò  che  non  potesse essere  altri,  salvochè  Dio;  ed  anche a cotesto  commento  dava  nerbo  la  descrizione  sovresposta  di  Aristotile.  Se  non  che,  obbiettava  lo  stesso  Temistio,  Aristotile  parla  dell’  intelletto  attivo  e del  passivo  come  di  diffe-  renze (rà;  Scxp cpas)  dell’anima  ; ed  il  porlo  in  Dio  ri-   1 el  Oeiov  è vaù?  ir  pòi  t ài  av9/Jwirov.  Et.  ffie.,  X,  7.   8 7t»o;  irti 59v.  Jìe  An im.,  lib.  Il,  cgp.  3,  § 9.   3 Die  ihatige  Vernunft  ist  mit  Eincm  Wort  nicht  atlein  dea  Guttliche  im  Menschen,  sondern  aie  ist  der  Sacbe  noch  von  dei»  gottlirhen  Geiste  selbat  nicht  veracliieden.  Andererseits  liess  sich  aber  freilich der ansserweltliche gòttliebe Geist nicht  wohl  ala  die  den  Kinzclncn  in"  oli  ricado  nnd  mittelst  der  Zengnnge  in  aie  iibcrgehcndo  Vernunft, ale ein  Theil  der  menschlichen  Sede  bezeichnen.  Aber  eine  Liisung  dieaea  Widersprucbs  so-  ebeà  wir  bei  Aristatclca  vergeblieh.  Zeller,  Phil  der  Grieche n.  pugnerebbe a questo esplicito  testo.  Il  Trendelerobnrg  nota  tutte  le  precedenti  dubbietà,    sa  risolversi  egli  medesimo  a miglior  partito,  che  a questo,  di  confes-  sare cioè  una  certa  cognazione  tra  il  Noo  attivo  e Dio, senza  però  spiegare  come  avvenga  nella  nostra  mente  questa  partecipazione  del  divino.Ben  si  accorge  che  Aristotile  nella  teorica  del  Noo  attivo  rompe  la  preclara  serie  delle  umane  facoltà, e del loro  progressivo  svi-'  luppo,  introducendovi  qualcosa  di  nuovo  e di  estrinseco, ma non  riporta  questa  rottura  ad  una  più  estesa,  che  noi  vedemmo  fin  da  principio  avvenuta  dentro'  la  costituzione  originaria dell’individuo. Al  dotto  critico  di  Berlino  non  Sfuggirono  però  i testi  ripugnanti, e la  ragionevolezza  delle  interpretazioni  contraddittorie,  benché egli  non  si  fosse  sforzato , come  di  poi  ha  fatto  Zeller,  di  risalire  alla  prima  scaturigine  di  quelle  con-  traddizioni divenute  necessarie. Chi disse: I’ intelletto  attivo  è il divino,  e Chi  lo  negò,  non  ebbe  certo  difetto  di  testi  per  convalidare  la  sua  chiosa. Brentano  non  ha  guari  pubblicava  un  libro  per  provare  che  il noo  è una facoltà  dell'  anima,  ma  senza  far  caso  delle  espressioni  che  si  possono  trarre  iti  opposto  senso.  Così,  a mò  d'esempio,  nel  libro  della  generazione  degli  animali  ò  detto che  l’ intelletto venga da  fuori, ed  egli interpreta doversi intenderà non del solo intelletto, ma ditutta l’anima  intellettiva. Che non abbia veduto  manifesta  1 Dopo riferite le parole d’Aristotile,  che  queste  differenze  di  attivo  o di  passivo  si  trovino  pare  nell’anima,  soggiunge.  « Qua)  serba  aperte  de  humano  agere  mimo. D’altra parte. Divina  mena  nibil  esse  potest , nisi   agens  intcllectus , a qno  veritas  rerum  manat Sed  quomodo   liut,  ut  Immani  mens  divine  particeps  sit,  dietimi  est  nusquam.  s Com-  meni.  Ariti,  de  Anima. [Vor  der  Hmd  sei  nnr  bemnrkt,  dass  nnter  dem  vou;  der  Svpy.Sev  in  den  Fòla*  eingeht, nidi t , wie  Manche  meinen , der  voù;  7ro‘V)Tt/o;  atleta, sonderò  die  ganze  ibujnj  vortrtxv  zn  versteben  ist.»  Die  Ptychologie l’oscillazione  d’Aristotile  dopo  le  profonde  osservazioni  di  Zeller,  che  pure  ha  letto,  a me  sembra  cosa  stranissima ; ma  ognuno, a vedere, si  vale  degl’occhi  suoi  e non  degli  altrui. Eppure  a lui è saltato negli  occhi  il  doppio  valore  del noo  aristotelico;  se  non  che,  invece  di  spiegare  la  causa  di  questa  duplicità,  ei  riconosce  una  sola  significazione  come  propria  della,  dottrina  ari-  stotelica,  l’altra come una  certa  metafora,  di  cui  Aristotile si  fosse  valso; lui  che  dalle  metafore  era  alienis-  simo. Come,  dice  il  Brentano,  noi  diciamo  sano  tanto  chi  ha  la  sanità, quanto  le  cose  che  conferiscono  a procurarla, cosi Aristotile  ha  potuto  chiamare noo  tanto  il  subbielto,  che  ha  in    il  pensiero,  come  il  desiderio  spirituale,  che  n’è un  corollario,  e il divino  che n’è il  principio creatore.1 Cosi nella  lingua  tedesca,  ei  soggiunge,  Geruch  vuol  dire  ugualmente  ed  il  senso  che  coglie  gli  odori,  e l’odore  come  qualità  dei  corpi.  E lutto  questo  va  bene; ma  Aristotile  piglia  il noo  tutte e due le  volte  in  significato  proprio  e serio;  tanto  nel  terzo  libro  dell’Anima,  dove  ne  parla  come  di  differenza dell’anima umana,  come  nella Metafisica,  dove  lo  descrive  come  primo  motore  immobile  nella  relazione  che  ha  con  lutto  l’universo.  E le  descrizioni  rinvergano  cosi  bene, che paia  sempre  lo  stesso  Noo  che  si  descrive : tanto  il  primo  motore  della  metafisica  rassomiglia  al noo  attivo  dei  libri  dell’anima! Da  qui  l’oscillazione  del  sistema  aristotelico,  che  nessuna  interpretazione,  o distinzione al  mondo  varrà  a far  cessare. des  Ariliotele,  intbetondere  teine  Lehre  vom  vojj  noi  n ti  xeg  vou  D*  Brentano,  Maini. 1a So knnnte  aucb  Aristoteles  nicht  bloss  das,  was  die  Gedanksn  io  sich  bat,  sonderà  aucb  das,  was  Folgc  dea  Deokes  iat,  wie  dea  geistige  Begebren , aber  auch  das , was  ala  Princip  die  Gedanken  bervorbringt, ala  #>9Ù;  bczeichoen.  Brentano. Una  nuova  difficoltà  ci  si  affaccia  nel  conciliare  le  due  differenze  che  Aristotile  introduce  nel  Noo,  perchè  il  passivo  è detto  corruttibile, e legato con  la  memoria,  col  desiderio,  con  tutte  le  altre facoltà  inferiori  ; e l’attivo, per  contrario,  immisto,  separabile,  e perciò  immortale: ed intanto  il  primo  ed  il  secondo  appartengono  del  pari  all’intelligenza,  che  n’  è il  genere  comune.  Aristotile nel  distinguere  il  Noo  in  passivo  ed  in  attivo  ha  voluto  occorrere a due condizioni,  imposte  entrambe  dal  suo  sistema.  Prima  ha  voluto  legare,  il  meglio  che  si  poteva,  l’ intelletto  con  le  facoltà  rimanenti; perciò  ha  dovuto  introdurre  in  esso  i fantasmi  per  intendere, i desideri per  volere;  e gli  uni  e gli  altri  si  fondano  su  la  sensibilità, e perciò su  la  materia,  su  la  possibilità  del  corpo. Dipoi  ha  voluto  far  dell’intelletto  la  facollà  che  pone  la  scienza,  che  coglie  l’universale  puro,  sceverato da  ogni  qualsiasi  possibilità, e che perciò  non  avesse  nessuna  mistura  di  potenza,  o di  materia,  e fosse  puro  atto.  Da  qui  la  distinzione  di  due  intelletti; uno che  attinge  ancora  alle  sorgenti  della  materia,  l’altro  che  non  vi  comunica  punto.  Perciò  vedemmo  che  l’intelletto puro  non  può  patire,  e consiste  tutto nell’ atto; mentre  chel’  intelletto  passivo  patisce,  ed  in  certo  senso  si  dee  dire  che  abbia  della  materia,  perchè  ogni  potenza  è materia,  considerata  per  rispetto all’ atto. Hegel  ha  cercato  di  conciliare  questa  contraddizione,  che  si  possa  cioè  dare  un  intelletto  che  partecipi  alla  materia,  dicendo che la  possibilità  nell’  intelletto  non  abbia  nessuna  materia,  perchè,  nel  pensare,  la  possibilità  è ella  mede-  sima un  essere  per  sè. 1 Però  conciliazione  siffatta  tien   [Die Moj>lichkeit  eelbst  ist  abcr  liier  nicht  Materie;  dar  Versta  mi  hat  nOinlicti  keine  Mitene,  scinderti  die  Moglickeit  geliort  zu  seiner  Substanz  eelbst.  Denn  das  Denken  ist  vielmrhr  dieses , nicbt an  sicli  za  sein  ; and.  v egeti  seiner  Reiobeit  ist  seme  Wirklickeit  nielli  das  Fùrcinandersein , scine    più  del  sistema  proprio  dell’ Hegel,  che  di  quello  di  Aristotile. Quindi  proviene  ancora l’ incertezza di  determinare  in  che  consista  veramente  l’intelletto  passivo.  Trendelemburg  ha  opinato  eh’esso  sia  costituito  da  tutte  le  facoltà  raccolte  quasi  in  un  nodo, e considerate come  condizioni  del  pensare.  Il  quale  può  aver  pigliato  il  nome  di  passivo  sia  perchè  vien  recato  a perfezione  dall’  intelletto  attivo,  sia  perchè  viene  occupato  dalle  cose esterne. 1  Tale  interpretazione  però  va  incontro  a questo  inconveniente,  di  rendere  inutile  la  distinzione  che  Aristotile aveva  fatto  tra  sentire;  immaginare  e pensare.  Se  il  pensare  non  è altro  che  il  sentire e l’ immaginare  annodati  insieme,  perchè  distinguerli  da  quello?  Non  bisogna  dimenticare  mai  che  dell’intelletto  in  generale  Aristotile  fece  un  altro  genere  di  anima. Pare  adunque  che  nello  sviluppo  della  intelligenza, medesima bisogna trovare quei gradi che appartengono al noo passivo, e gli altri che sono propri del  Noo attivo. Già di questo ultimo noi vedemmo che Aristotile avesse posto la funzione peculiare talvolta nei primi  principi, tal’altra nel ripiegarsi sopra di sè.  I gradi  precedenti  della  scienza,  che  del  resto  appartengono  certo  alla  intelligenza,  bisogna che si  attribuiscano  all’intelletto  passivo. Tale  è la  necessaria conclusione  a cui  si  perviene  a guardare  nel  lutt’  assieme  la  dottrina  aristotelica,  e cosi  vedo  che  ha  interpretato  pure Zeller,  che  nelle cose d’Aristotile Mogliclikeit  «ber  selbst  cin  Fursichsein.  Hegel , GeschicMe  der  Philoi. 1 a Qua?  a sensu inde ad imagiuationem mentera anteccssorunt, ad  rea  parcipiendas menti necessaria, sed  ad  intelligendas non suflìciunt. Orno es  iilas, qua?  p r eccedimi, facultates in  nnum  quasi  nodum  colleetas,  □natenus  ad  rea  cogitaodas  postula  nlur,  vouv  TtuSriTixo  v dietas  esse  innicamus. Trendclembnrg,  De  Anima, Comment. vede  molto  addentro,  ed  ha  grande  autorità. L’intelletto passivo  per  lui  consiste  in  quei  gradi  intermedi  che  stanno  tra  il  sollevarsi  delle  forze  rappresentative  ed  il  pensiero  compiuto  che  quieta  in sè stesso; in quel  processo riflessivo e discorsivo che Aristotile stesso  contrassegna con  la  parola  ScuvousOca. 1 Guardando ora tutta  insieme  la  dottrina  del noo  aristotelico, essa  ci  presenta  questa  contraddizione, di essere cioè  considerato  come  l’ultimo sviluppo  dell'  attività pensante  nell’uomo,  e di  essere  presupposto  fuori  dell’uomo,  perfetto,  compiuto  in  sè,  separato. È per questa  ragione  che  il noo  passivo  ci  vien  mostrato  come  processo,  come  discorso,  ed  il noo  attivo  come  intuizione; e che  il  primo  è tenuto in  minor conto del  secondo. Affinchè la  posizione  aristotelica  fosse  riuscita  precisa  e diritta, ei si  sarebbe dovuto disfare di  quell’universale separato,  ed  ambiguo,  e tener  fermo  nel  riguardare lo spirito  come  processo  rigoroso ed  ordinato.  Ma  per  fare  ciò,  non  bisognava  modificare  soltanto  la  dottrina  dell’  intelletto, sì  veramente  mutare  1’andadamento  generale  del sistema; cosa che  forse  non  era  da  pretendere  in quei tempi. Il concetto dello spirito come  sviluppo è risultato della  filosofia  moderna. Un  valoroso  storiografo  tedesco,  Prantl,  non  ha  dubitato  di  presentarci  come  genuino  sistema  di  Aristotile  quello  che  per  noi è piuttosto un  desiderio.    al  dotto  critico  manca  ingegno  o copia  di testi; ma  il suo  fare sa  troppo  di  moderno,  e perciò  di-  viene subito  sospetto. L’intelletto,  il noo  aristotelico,  è per  lui  una  immediata unità nella  duplicità  della  Giostra  essenza,  e da  un  lato  coglie  l’uno  trascendente,  il  divino,  dall’altro i  Zellcr.  molli,  l’individuo; o in  altri  termini  è l’unità  originaria  del  senso e della ragione, il  principio  e la  fine,  l’alfa  e  l’omega.1  In  un  luogo  dei  morali  nicomachei  si  dice  che  il  senso  è noo; e su tal  dichiarazione  il critico tedesco rifà da  capo  tutta  la  teorica  di  Aristotile.  Dove  gli  altri  avevan  visto un altro genere d’anima,  egli  scorge  un’originaria  medesimezza;  dove  gli  altri  avevan  trovato incertezze, egli  sicuramente  afferma  che  il noo aristotelico è sviluppo,  che  muovendo  dalle  impressioni  sensibili  arriva  sino  all’universale. L’intelletto,  dice Franti , secondo  il  modo  di  vedere aristotelico, non  è una  passiva  intuizione,  ma  un’attività  che  nel  progresso  del  suo  sviluppo  va  dalla  potenza  all’atto.  È un accrescimento  dentro    stesso,  Zuwachs  in  sich  selb&lhinein,  come  dice  il  critico  tedesco traducendo l’ iniSoais  ì<?>’  tàuro d’Aristotile.  Che  se  l’intelletto  si  dice  potenza , esso  è una potenza  tale  che  si  distingue  da  tutte  le  altre  non  solo  perchè  comprende gli  opposti,  ma  ancora  perchè  si  fonda  sopra  un  precedente  attuale.   La  continuità  dello  spirito  in  questo  processo  si  pare  a ciò, che  i primi  pensieri  si  distinguono  appena  dalle  sensibili  impressioni; talché  il  sapere  non è qualcosa  apparecchiato  d’avanzo,  ma  nasce  la  prima  volta  come  [Der  voi;  ist  fur  dia  Stale, vvas dea  Ange  fur  den  Korper i«t , rr  ist  die  anraittelbare  Einheit  in  der  Duplicil&t  nnseres  VVescn, deno  er  < rfasst  einerseits  das  trascendente  Eioe , Gòttlicbe , and  andrerseits  ist  er  cs  atich, welcher das  Einzelne, Viete ergreift, ja  es  wird  io  diesem  Sion , d.  li.  von  einem  wabrhaften  Antropologismns  aus, selbst  die  Sinneswabrnehraung  aiisdriiklicli  voi;  gena noi; und,indem  so  der  voi;  der  geistige  Sion  fQr  dia  beiderseitigen  Crtheile  ist, sowohl  fOr  jene, welche  ein  Ewìges  und  Crsprùnfjliebes  aussprerben,  als  aocb  ffir  jene , welche anf  das  Gcbiet  des  Vergliiglicheo  sich  beziehen , a»  kann  er  mit  Rccbt  der  Anfaog  und  das  Eode, das  vahre  A und  Q,  des  Apndeiktischeo  genannt  wcrdon. Getchichle  der  Logik. ], tale. 1 Quando il noo si  solleva, sopra  tutte  le  opposizioni, al  supremo  Uno,  ivi  pensa    stesso,  ed  il  pensiero ed  il  pensato  s’identificano: in tale  attività  egli  mostra  la  sua  eternità. Tal’è per  sommi  capi  la  teorica  del noo  aristotelico secondo Prantl: prima,  attività  originaria , unità  del  senso  e della  ragione; poi sviluppo  sino  al  pensare,  sviluppo tale  che  tra  le  impressioni  sensibili  ed  i primi  gradi  del  pensiero  v’è appena  differenza; infine processa  intimo,  ed  indipendente  dalla  materia,  fino  ad  attingere  il  pensiero  di    stesso,  e con  questo  l'eternità. Questa  esposizione toglie  ogni  dubbietà  ed  irresolutezza dal  sistema  aristotelico, e lo fa  rigorosamente  logico,  però,  a quel  che  mi  pare,  a scapito  della genuinità. Quella unità originaria sa troppo di moderno, e quella eternità conseguita dal nostro spirito nel  colmo del suo sviluppo è un’intuizione  moderna del  pari.  Ciò  che  mi  sembra  schiettamente  aristotelico  è il  concetta  dello  sviluppo  applicato  all’  attività  dello  spirilo; ma  il  pensare  puro  rimane  pur  sempre  staccato  dalla  serie  preclara  come  diceva  il  Trendelemburg.  Ammettendo  difatti  la  spiegazione  di Prantl,  il  Dio  aristotelico  sparisce, perchè  il  Noo  è perfetto e compiuto nello  spirito umano;  ed  il divino  di  Aristotile,  se  bisogna  a qualcosa,  è  per  cotesta  ultima  finalità. Prantl  tocca  dell’  intelletto  per  arrivare  al  cominciamento  della  Logica.  Per  lui l’ intelletto si  compie  nel  concetto,  cioè  nel  cogliere  l’universale,  il  quale  non  è    1Prantl, Und  indetti  dar  voù;  in  dem  Denkcn  dieses  bòchsten  Einen  aicb  se'btt  deukt, erreicbt er  das  Ziel  and  das  Zweck  seiner  Actnaliiat  : er  denkt  das  Angich  and  deukt  kiebei  steli  selbst  in  einer  Tbeilnabme  an  dem  Gedachten,  ao  dass  Denken  und  Gedacbtes  ideatiseli  siod ; in  solcber  TbStigkeit  erweister  arine  Ewigkeit.)  l’ atto  medesimo  dell’intendere  ; talmente  che  la  logica  s’ inizia    dove  la  psicologia  finisce.  L’ unilà  immediata  del  Noo è il principio della  psicologia;  l'unità  immediata  del  concetto  è il  cominciamento  della  logica. Prantl  fa  una  dotta  e profonda  investigazione  delie  categorie aristoteliche,  delle  quali  mi  rincresce  non  poter  qui  discorrere,  tanto  più  che  nel  Saggio  sulla  filosofia  greca  io  mi  trovai,  inconsapevolmente,  d’accordo  col  professore  tedesco  nei  risultati  di  quella  ricerca. Qui però non  voglio  omettere  di  dire  come  Prantl  si  accorge  che  lo  sviluppo  dello  spirito  si  riannoda  colla  dottrina  delle  categorie,  dove,  oltre  alle  determinazioni  estrinseche della  sostanza,  bisogna  ammettere un  processo  genetico ed  intimo.1  Ma  cotesto  processo  per  il  quale  la  sostanza  si  genera,  rimane  nel  sistema  aristotelico  ciò  che  direbbesi  una  semplice  esigenza.  Perchè  la  sostanza  diventi questa o quest’ altra essenza,  non  apparisce; e cosi  non  apparisce  neppure  nello  sviluppo  dello  spirito  la  necessità  del  passaggio  da  una  forma  all’altra ; perciò neppure la  necessità del noo,  che,  per  tal  causa,  può  dirsi  nell’  insieme  del  sistema  introdotto  da  fuora.  Prantl  ha  un  bel  chiamare  il noo  unità  immediata,  Ansich ; tutte coteste vedute  sono  più  profonde  come  scienza  che  vere  come  storia.  L’intelletto  separato,  il  motore  immobile  della  me- [Dass aber Aristotele eine  Selbstentwicklung  der  Denktliàtigkeit  voo  ciucili  erstcr  Stadium  aa  bis  tu  einem  letztea  wesentlicli  erreicbbsreu  Zieie  «nerkennt,  sahea  wir  gleicbfalls  scbon  obeu.... ; und so ist  ihiu  aucb  die  tìrsprùogliche  Conception  der  Begriffe  aio  erstcs  Lumittelbares.  Voglio riferire questa  osservazione  del  Praotl  eoo  le  parole  eoa  cui  I’ha  compendiata  un  mio  giovane  amico  in  una  bella  tesi  di  laurea:  a Cosi  intorno  all’individuo  si  raggnippano  amendue  i processi, nel processo gene  4ico,  o nel ytvsoàai  vltOÒiì  l’individualità,  la  sostanza  funziona  da  predi,  ceto,  ed  il  suo  soggetto  è la  materia  indeterminata;  uel  processo  categorica  funziona  da  soggetto,  e regge e sostiene tutte le  determinazioni  categoriche. Delle  varie  interpretazioni  dell'idea  platonica  e della  categoria  aristotelica, Tesi per  laurea  di  TOCCO (si veda). C -«V- tafisica,  resiste  ad  ogni  più  benevola  interpretazione. Certo  se Aristotile  avesse  volato e potuto essere  conseguente,  avrebbe pensato come lo fa pensare Prantl. Passando ora  dall’intelletto  alla  libertà  noi  troviamo  nella  dottrina  aristotelica  le  tracce  della  prima  indeterminatezza. Brandis ha  detto  che  la  libertà  secondo  Ari-  stotile consiste  nella  facoltà  che ha lo spirito di svilupparsi  da  sè e mediante se stesso  secondo  la  misura  della  sua  originaria  disposizione.  Ma,  domanda  con  molla  ragionevolezza il  Zeller,  a qual  parte  dell’anima  debbe  appartenere questo  sviluppo? Alla ragione  no,  perchè  immobile ed inalterabile; all’anima sensitiva  ed  appetitiva  nemmanco,  perchè  non  sono  capaci di  svilupparsi  con  libertà,  non  potendo  trovarsi  libertà  se  non  dov’è  la  ragione.  Rimarrebbe  l’intelletto  passivo,  al  quale, sia detto una  volta  per  sempre,  si  ricorre  d’ordinario  quando  si  scorge  l’impossibilità  di  dare  uno  scioglimento  risoluto; ma  esso  stesso  oscillando  tra  la  ragione e la sensibilità, avrebbe  bisogno,  al  pari  della  volontà,  di  uno  schiarimento  per  vedere  in  che  modo  si  possa  dare una  facoltà  che  partecipi  di  due  altre  cosi  opposte,  come  sono  il  senso e la ragione. Aristotile  stesso  accortosi  della  specie  di  altalena  che  fanno  la  ragione  pratica  ed  il  desiderio, li  rassomiglia  a due  palle  che  si  rimandano  da  uno all’ altro. Un  filosofo  francese,  Waddington,  taglia come  Alessandro  il  nodo,  invece  di  scioglierlo,  dicendo il principio, la  causa  dell’atto  volitivo  esser  l’io;  degli  altri atti essere soltanto partecipe, ma qui il caso  esser  diverso,  e sentirsi  assoluto e sovrano padrone. Ma  appunto  di  questo  Io  noi  cerchiamo  invano  in  Ari- [Zeller. Aristotile, De  anim.,  La Piicologia d’Ariiloliie,  esposta  da  Waddiogton  e Toltala  in  italiano  dalla  marchesa  Marianna  Floreozi  Waddington] stotile,  e vogliamo  scoprire dove  si  annida,  se  nella  ragione, o nella sensibilità, perchè  la  volontà  non  è facoltà  originaria,  come  non  è l’ intelletto  passivo,    l’intelletto  pratico.  La  vera  personalità  dello  spirito  è da  cercare  dunque  o nella  sensibilità, o nella ragione, almeno  secondo i dati  della  psicologia  aristotelica. La  scuola  ecclettica  di  Francia  ha ripetuto sempre che la volontà è l’Io, essendoché la ragione è impersonale ed i fatti sensibili traggono  origine  dal mondo esteriore. Con questa intuizione peculiare del loro sistema, ei si fanno ad interpretare Aristotile. Se non che la volontà per il filosofo greco non è una  facoltà originaria, quanto meno  perciò  può  essere  la  intera  personalità  dello  spirito! La  volontà è una specie di  risultante  prodotta  dal connubio della ragione col  desiderio. Le quali due facoltà essendo si opposte, rimane assai difficile il definire in quale di esse stia lalibera determinazione di se stessa.Quando Aristotile appaia la ragionespeculativa con le facoltà  rappresentative,  e ne  fa l’intelletto passivo; ovvero quando accoppia  la  ragione  pratica  col  desiderio, e ne fa la libera volontà,  rimane  sempre incerto  quale  dei  due  elementi  debba  prevalere: se la parte  sensitiva  ed  appetitiva  debba  trarre  dalla sua  la  ragione,  ed  introdurre in lei la  mutabilità  ed  il  patire;  ovvero se la ragione,  signoreggiando il senso e l’appetito, debba far questi  partecipi della propria  impassibilità  ed  eternità. Nella vera conciliazione  di  cotesti due opposti termini sarebbe stala riposta la persona  umana, se in Aristotilo  il loro accoppiamento non fosserimasto un accostamento esterno, e,  come  dicono  i tedeschi,  un  Zusmrmensetzung~  [Der Wille musa  demnach cioè ans Vernnnft  and  Bugiarde  snsam-  mengetetzte  Thatigheil saio. Aber  auf  welcber  Scita io dieser Verbiudong da&  eigentliche Wesen dea  Willens,  die  Krafta der  freieu  Selbslbestimmung liegt,  ist  sclmer za  sagea. Zeller. Esclusa  la  volontà,  dove  si  deve  dire  che  alberghi  la  persona  umana?  Talvolta  pare che Aristotile la faccia  consistere  nella  propria  ragione  di  ciascuno;  ma  la  ragione è un puro universale,  incapace di  mutazioni  e di patimenti, eterna ed impassibile. Ed invece la persona è il  subbietto  proprio, e la  causa intrinseca dei  suoi  mutamenti. Tal’ altra volta pare  che  Aristotile  attribuisca  la personalità all’anima,  in quanto  senziente  ed  appetitiva; ma, oltre che questa, come osserva Zelter, è incapace di produrre movimenti da sè, secondochè  sostiene Io stesso Aristotile,  viene  esplicitamente  esclusa,  dicendo  che  non  nell’anima,  ma nell’uomo in quanto consta di corpo e di anima, dee  riporsi il  subietto  dei  movimenti  sensibili. Il  corpo  intanto non è cagione del moto, perchè esso verso l’anima  è come la potenza verso l’atto.  Ecco  in  quali  difficoltà  ci  siamo imbattuti nel cercare dove consista la personalità  umana  secondo i principi d’Aristotele. Le quali difficoltà, a parer mio, procedono dal non aver Aristotile fatto  vedere  per  qual  modo  1’universale  si  determini,  per  intrinseca energia e per dialettica  necessità,  nel  particolare, e diventi individuo; e per  qual  modo poi l’individuo, rifacendo nel processo conoscitivo il cammino inverso del processo  genetico,  si  sollevi  dalle  determinazioni  particolari  ed  accidentali  all’universale  ed  all’  assoluto.  Non è già che siffatto  processo  non  sia stato  intraveduto  dall’acume di Aristotele, ma non è stato spiegato con sufficiente  chiarezza , perchè  le sue dottrine s’informassero tutte secondo quel  processo. Prantl accennando al processo genetico,  come  intimo,  e diverso  dal processo  categorico, e trovandone le tracce nella metafisica d’Aristotele, ed in altre  sue  opere,  ha  mostrato come la  determinazione dell’universale  nel  particolare,  il  concretarsi  della  forma  in  una  materia sia il primo postulato  di Aristotile. E spiegando dipoi come il noo, per assurgere alla  condizione  assoluta  di  pensiero,  ha  dovuto  essere  fin  da  principio  unità  originaria, individuo  ed  z universale,  senso e ragione, affinchè fosse possibile tutto lo sviluppo intrinseco dello  spirito, ha  posto  in  evidenza  il  secondo  postulato,  non  meno  del  primo  indispensabile.I due postulati che la critica di PRANTL richiede nel sistema aristotelico, nella metafisica il  primo,  nella  psicologia il  secondo,  sono  però, lo  ripetiamo, appena  intraveduti  da  Aristotile,  e non pienamente dedotti. Forse il concetto di sviluppo nello spirito è molto più evidente che non il processo genetico nella  sostanza; ma ciò non  toglie  tutte  le  irresolutezze,  ed  anche  le  contraddizioni,  che  noi  abbiamo  fatto notare,  giovandoci degli  studi  di  Zeller,  il  quale  ha  collocato  il  sistema di Aristotele nella sua vera luce, tanto per rispetto a Platone, come nel suo intrinseco organamento. Dalle cose premesse apparisce  chiaramente  quel  che  debba  dirsi  della  immortalità  dell'anima  secondo  Aristotile. Per  lui  tutto  ciò  che  si  altera è soggetto alla morte. Onde le facoltà sensitive,  le  appetitive,  le  rappresentative, e perfino l’intelletto  passivo  finiscono con  l’organismo  corporeo,  da  cui  dipendono, e con cui sono  indissolubilmente  legati. Solo  superstite  è per  Aristotile  l’intelletto attivo, il quale, se fosse provato che e da  solo la persona  umana,  basterebbe  ad  assicurare  l'immortalità. Ma  l'intelletto attivo è il solo  elemento  universale,  una  specie  della  ragione  impersonale  della  scuola  eccletlica, e perciò la sua durata non ha nulla che fare con la durata dell’individuo e della persona. Questo  intelletto  attivo  superstite,  slegato  che  sarà  dal  corpo, non  avrà    sensazioni,    fantasmi,    memoria, nè  desideri; e perciò neppure volontà, nè intelletto passivo; talché non potrà avere più  coscienza,    personalità  che  sodo  inseparabili  da  tutte  quelle  determinazioni. Che se si pon mente, come il noo attivo per pensare ha bisogno del passivo, noi potremo dire, che Aristotele non puo,  secondo  i suoiprincipii,  far  sopravvivere  l’intelletto  attivo  alla  morte dell’ intelletto passivo, e se,  non  ostante  la  forza  della  logica,  lo  ha  fatto,  ciò  ne    nuova  riprova , che per lui non e ben fermo il vero concetto del noo, e che una volta lo  poneva come termine supremo dello sviluppo psichico, un’altra volta ne lo stralciava, attribuendogli una esistenza separata, impassibile ed immortale. Aristotile non è pervenuto sino all’autogenesi dello spirito, perchè non si può creare quel  che  si  suppone  esterno  non  solo,  ma  sproporzionalo  alle  facoltà  umane.  L’ infinito  per  lui  ora  consisteva  nel  concetto  dello  spirito, ed ora in qualche cosa di esterno. Tolta l’ipostasi dell’universale che aveva ammesso Platone  per  ciascuna!  cosa,  ei  la  ritenne  per  rispetto a Dio, perciò il processo dello sviluppamento rimase dimezzato,  imbottendosi  in  un  termine  esteriore  che  gliene  impediva  il  proseguimento. Non  ci  è un’idea  preformata  della  natura, perciò la  natura può  svilupparsi  per  virtù  intrinseca; ma ;  ci  è l’ idea del divino sussistente d’avanzo, perciò lo spirito non  può  farsi:  egli  già  è fatto,  e non  gli  rimane  se  non  d’ insinuarsi  nel  mondo e di svegliarvi il  penisiero.  Questa  mi  pare  la  posizione  dell’aristotelismo. Aristotile  rimase  platonico  per  metà. Conti  è ricorso a cause esteriori ed accidentali per trovare una spiegazione  del  sistema  aristotelico, e perchè è il  primo ai nostri tempi che siasi dato a scrivere una storia della filosofìa in Italia, mette il conto di dare un saggio del suo modo di criticare I sistemi. Aristotile è passato dall’idealismo platonico alla scienza delle cose  reali e Perchè? Ecco la risposta del Conti, dacché la civiltà greca, uscendo da’propri confini, si distendeva nell’Asia con l’armi, era naturale che alle idealità interiori, tutte di raccoglimento, succedesse la scienza delle cose reali. Ma tutto colesto non ci ha nulla che fare. Prima di ogni cosa non è certo che Aristotile abbia pensato il suo sistema proprio al tempo che I Greci passarono in Asia. Ma, poniamo che sì, qual relazione ci è fra una spedizionea mano armata con una polemica su le idee? CONTI discorre dei vizi, pei quali i Greci vennero specialmente in mala voce, ed eccoti scoverta la causa, perchè la loro filosofia “non giunse mai al puro concetto di creazione, pernio della scienza. Anche qui la causa mi pare troppo lontana dall’effetto, e non  veggo  in  che  modo  la corruzione dei costumi greci potesse appannare il loro intelletto. Forse non concepirono tante cose vere e belle con tutte  quelle  passioni? Forse, ai tempi in cui fioriva l’accademia  platonica,  a  Firenze  non  dominavano  vizi  somiglianti?  Dai filosofi di  quel secolo parmi scorgere che quelle brutture fossero molto in voga,  e intanto giunsero al puro concetto della creazione non solo, ma concepirono perfettamente tutti i dommi  cattolici, e li disposarono alla filosofia. CONTI (si veda) inclina troppo a far la critica filosoficacon la nascita el’ educazione cristiana, con le rette inclinazioni del cuore, con il candore dei costumi; ma tutto ciò se prova afavore  del  suo  animo  bennato,  non    pari  fondamento  ad  apprezzarne  l’acume  critico [La  scienza  non  si giudica con la fede di buona condotta del curato. Ma lasciando queste osservazioni generali, che appartengono al suo criterio storico, voglio notare che nella teorica dell’intelletto d’Aristotile, egli ha frantesi lIÀ In la mente dello stagirita. Di lui, difatti, dice CONTI che distinse l’intelletto agente che fa intelligibili le cosdal possibile che le concepisce. Aristotile invece chiama intelletto possibile quello che tutto diventa, agente quello die tutto fa, come si può vedere nel testo medesimo dei libri dell’Anima che ho di sopra allegato. L’atto con cui l’intelletto concepisce gl’intelligibili, egli intelligibili medesimi sono tutt’uno. Non ci sono già le cose intelligibili distinte dal concetto; onde se Aristotile avesse posto veramente questa differenza tra i due intelletti, si sarebbe contraddetto. Eche CONTI travisa la dottrina aristotelica, si pare da ciò, che l’intelletto possibile per Aristotile precede l’agente, come la potenza precede l’alto; mentre per CONTI avviene il contrario, forse perchè non ha attinto questa distinzione dalla sorgente aristotelica, ma da qualche espositore che1’avea compreso male. Il peggio poi si è che CONTI ha l’aria di non sospettare eppure l’importanza di questo problema, non meno che di parecchi altri rilevantissimi, contento a sfiorarli leggermente, quando non li trasanda del tutto. Keywords: idealismo, l’idea di natura in Talesio, panteismo di Bruno, filosofo maiore, filosofo minore, Aosta, Agostino, filosofia roma antica, Catone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fiorentino” – The Swimming-Pool Library. Francesco Fiorentino. Fiorentino.

 

Grice e Fioretti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei pro-ginnasti – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercatale). Filosofo toscano.  Filosofo italiano. Mercatale, Cortona, Arezzo, Toscana – Grice:: “I like Fioretti; thought-provoking; he says Plato should never have chosen ‘dialogue’ as a philosophical genre, and he is right; in my long tutorial life at Oxford I NEVER asked a tutee to write a dialogue for me! If Plato were the standard, that’s what we’d do!” Autore di “Pro-Ginnasmo” (pro-ginnasio, ginnasio – cf. Deutsche progrymnasium), un'ampia raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci e latini agli scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la straordinaria versatilità e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse “Osservazioni di creanze e Esercizi morali. Critico acerrimo di Aristotele ed Ariosto, ed altri autori classici. È stato anche co-fondatore degl’Apatisti. Ha una vita indisciplinata. Il conte Giovanni Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più contenuta. Ma ha risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del conte, che immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma Fioretti accorto fuggì, e i partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del prete che recita: Resurrexit, non est hic.  Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò completamente stile di vita. Si dedicò alla filosofia. Rimase nel Palazzo di Oriuolo e cambia anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di nessuno, ad eccezione di Dio".  Pubblica numerosi saggi. Si dimostra diligente filologo e critico critico. Il suo capolavoro è la raccolta di poesie “Proginnasmi” (cf. ginnasio, pro-ginnasio, Deutsche pro-gymnasium), contenente critiche ai poeti romani. E stato dimenticato dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente franco.  Al suo pseudonimo era solito aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Coltellini, si concretizzò con l'obiettivo di riunire filosofi con abitudini salutari e politici impegnati.  Lasciò come ela sua biblioteca e i suoi scritti alla Chiesa di San Basilio. Altre opere: “Polifemo Briaco” Proginnasmi poetici” (Firenze, appresso Zanobi Pignoni, Firenze, nella Stamperia di Zanobi Pignoni), definita come "un'opera di grande erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i più singolari artifici della Poetica". Esercizi morali, Rimario e Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni. Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, e anche in Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca, Tiraboschi.  Luca, Scheda Biografica su Centro Ricerche Pratesi, Carmine Jannaco e Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia: Il Seicento.  Gian Vittorio Rossi, Pinacotheca, Colonia, Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini” (Ferrara, per Bernardino Pomatelli); Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij..., Venezia Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia, Venezia; Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia, Giusto Fontanini, “Della eloquenza italiana” (Roma Domenico Moreni,  storico-ragionata della Toscana..., I, Firenze Giovan Battista Corniani, I secoli della Letteratura italiana dopo il suo Risorgimento Commentario di G. B. Corniani, S. Ticozzi, II, Milano, Francesco Inghirami, Storia della Toscana, Biografia, Fiesole, Ciro Trabalza, La critica letteraria, Milano, Umberto Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con Dante attraverso il Seicento, Bari, Benedetto Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, Franco Croce, La discussione sull'Adone, in La Rassegna della letteratura italiana, Letteratura italiana (Marzorati), I minori, Milano Carmine Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, MilanoPio Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso, Firenze, Gianfranco Formichetti, Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Anton Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, “Il giovane istruito nella cognizione dei libri” Venezia, per Giuseppe Picotti, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,  8, Roma, per Luigi Perego Salvioni Stampator Vaticano,  Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Belloni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Benedetto Fioretti, noto anche come Udeno Nisiely e Fracastoro.  Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui Modifica La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita socialmente e culturalmente, anche se alcuni comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati. Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito. Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile, poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche maschili. Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi storici. Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività. Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità. Il suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza.Uno dei sinonimi maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.  Contesti storici e culturaliModifica L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme; la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni.  Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel saggio di Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio). Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile.  Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere.  Natura ed educazione Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.  La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9" la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione.  Vi è ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità.  Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi.  Mascolinità egemonica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo.  Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership. Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne".Pleck sostiene che una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta". Kimmel promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.  Critiche. Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per femminilizzarsi. Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella pubblicità. Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo ".   Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi.  La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza.  Altri vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica.  Tendenze contemporaneeModifica  L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo.  Secondo un documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari.  Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa).  Terminologia I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità. Shehan, Gale Researcher Guide for: The Continuing Significance of Gender, Gale, Cengage Learning, a b :// books.google.com/ books/ about/ Masculinity_and_ Femininity_ in_the_ MMPI_2. html? id =5KL Plmr9T7MC&q =%22what+ masculinity +and+ femininity +are%22bhttps:/ /books. google. com/books/ about/ Gender Nature_ and_Nurture.html?id=R6OPAgAAQBAJ&q=%22 biology +contributes %22+%22 masculinity +and+ femininity %22^ a bhttps://books. google.com/ books/ about/ The_ Sociology_ of_Gender. html?id=SOT qzUeqmN MC&q=%22+ biological+ or+genetic+ contributions%22 ^ Joan Ferrante,  Sociology: A Global Perspective, 7th, Belmont, CA, Thomson Wadsworth, What do we mean by 'sex' and 'gender'?, su who.int, World Health Organization .https:// books. google. com/ books? id=jWj5OBvTh1IC &q=% 22meanings+of+ manhood+ vary%22 http://sk.sage pub.com/ books/ theorizing- masculinities/n7. 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Voci correlate Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterniModifica The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di antropologia Effeminatezza termine  Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense  Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante solamente dal loro sesso  Wikipedia Il contenuto. Fioretti.  Keywords. Refs.: tipi di ginnasio: pais ragazzo (12-17 adolescens), 18-20 efebo; +20 neos. Oriuolo, progrinnasio, ginnasio, tre tipi di ginnasio: paides, 12-14, nuoi, o neoi, 15-18, 18+ efebi --. Terme – ginnasio e terme – giocchi nudi – nudita atletica – nudita eroica. Keywords: pro-ginnasmi. Luigi Speranza, “Grice e Fioretti” – The Swimming-Pool Library. Fioretti.

 

Grice e Firmiano: la ragione conversazonale e il culto di Giove -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roman priest and philosopher. Firmiano.

 

Grice e Firmico: la ragione conversazionale e il culto di Giove -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italianao. Alcuni scrittori che non si occuparono in modo particolare di filosofia, mostrarono di interessarsene.Così fece Siciliano, senatore, vir consularis, che, stancatosi presto dell'avvocatura, si dedica agli studi. Per le insistenze di Lalliano Mavorzio, che lo accolta molto amichevolmente quando era governatore della Campania, pubblica, per mantenere la promessa che aveva fatto in quell'occasione, un’opera di astrologia, "Mathesis", in otto libri, dedicata al suo protettore, allora proconsole d’Africa.E il più ampio trattato di quella materia che l’antichità abbia trasmesso. Il libro I è un’introduzione in cui l'astrologia è difesa dalle critiche degl'accademici e principalmente di Carneade. F. riconosce la difficoltà delle predizioni astrologiche, che spiega platonicamente con la debolezza della natura umana in cui lo spirito è legato al corpo terreno, ma se esso si libera dai vincoli di questo ed è consapevole della sua origine celeste, facilmente, con la divina ricerca della mente, consegue risultati difficili ed ardui. Firmico esalta la grandezza dello spirito, parla dell'affinità dello spirito con l’anima e l’intelletto delle stelle e accenna alla teoria della reminiscenza. Fonti di questa filosofia naturale si considerano Posidonio e CICERONE. Da POSIDONIO, e forse anche da Porfirio, può derivare altresì la discesa e l’ascesa dell'anima. Considerando i rapporti fra l’azione del cielo e la volontà dell'uomo, F. afferma che le stelle sono LA CAUSA delle passioni e dei impulsi malvagi dell'uomo.Lo spirito dell'uomo, per la sua origine divina, può sottrarsi al potere delle stelle.Anche queste tesi concordano, oltre che con il Platonismo, con il PORTICO posidoniano. I libri II-VIII trattano dell’astrologia propriamente detta. F. esige dai cultori dell'astrologia una condotta morale retta e pura e vieta loro di occuparsi di ciò che riguarda il principe, perchè, essendo divino, non è sottoposto alle stelle. In quest'opera, che offre una testimonianza importante del timore che nell’età dell’autore il potere dei cieli incute anche alle classi superiori, appaiono influssi stoici, in generale ma non sempre posidoniani, piuttosto che specificamente neo-platonici e se in certi punti l’intonazione religiosa e mistica concorda con lo spirito di questa scuola, si deve anche pensare al carattere generale della filosofia contemporanea. Nell'insieme, F. non può considerarsi il seguace di alcun indirizzo determinato. Scrive "il De errore profanarum religionum", che è una violenta polemica contro il paganesimo di cui chiede la distruzione dagli principi Costazio e Costante. Filosofo Italiano. Di lui restano pochissime notizie biografiche, per lo più desumibili dai suoi testi.  Siciliano, secondo la sua stessa testimonianza, Firmico e senatore e per qualche tempo avvocato, ma abbandona la professione per le inimicizie che la sua pratica gli procura, sicché la successiva condizione di otium gli permise di dedicarsi agli studia humanitatis. Pubblica, così, le sue due opere conservatesi: i Matheseos libri octo e, circa dieci anni dopo, il De errore profanarum religionum. Matheseos libri octo L'opera, il cui titolo completo è “De Nativitatibus sive Matheseos libri VIII”, è dedicata al governatore della Campania, Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano detto Mavorzio, e costituisce il più vasto trattato di astrologia conservatosi dall'antichità, frutto di esperienze e studi in campo neoplatonico. Il primo libro, a differenza degli altri sette di contenuto esclusivamente tecnico, contiene una vera e propria apologia morale dell'astrologia, scienza caduta in sospetto ai galilei, ma ampiamente praticata al tempo dell'autore per influsso della speculazione platonica. I restanti libri espongono diverse nozioni tecniche relative alla materia, con uno stile spesso compilatorio che però rende conto della sintesi di una lunga tradizione precedente.  F. Materno afferma che l'influenza degli astri si esercita sulla parte DIVINA dell'anima umana. Solo un animo puro e libero da ogni peccato può accostarsi all'astrologia, disciplina che pone in costante contatto col divino. Dimostra poi l'importanza dell'influsso degli astri nel determinare la vita umana, e la spiegazione della storia del mondo fin dall'età di Saturno alla luce di tale principio. Firmico espone i fondamenti dell'astrologia tra cui i segni, i pianeti, le case, le suddivisioni dello zodiaco (decani e termini), gli aspetti e, particolarmente importanti per l'astrologia di Materno, gli antiscia, ovvero il legame tra due segni in base alla loro distanza dai solstizi. Il libro contiene anche il tema natale di un aristocratico romano che ricopre diverse cariche importanti, e che è stato identificato con Lolliano Mavorzio, con Publilio Optaziano Porfirio o, con Ceionio Rufio Albino. Questo libro contiene anche alcuni avvertimenti per coloro che praticano l'astrologia: che bisogna sempre dare i propri responsi pubblicamente, e che bisogna rifiutarsi di studiare l'oroscopo del principe. In epoca romana, infatti, studiare l'oroscopo del sovrano pontifice massimo costituiva un reato di lesa maestà punibile con la morte.  Il Thema Mundi, contenuto nel Libro III, sezione ii del Matheseos Libro III presenta il concetto del Thema Mundi, l'oroscopo del mondo, poi fornisce un elenco delle delineazioni per ciascun pianeta in ciascuna casa. Tratta delle possibili delineazioni della Luna e dei Lotti della Fortuna e dello Spirito, della lunghezza della vita, della professione. Tratta delle delineazioni dei differenti segni in ciascun luogo e di ciascun pianeta. Tratta degli aspetti, anche di quelli più complicati, e della delineazione delle stelle fisse e del chronocrator. Tratta della condizione di nascita, della schiavitù, della malattia, della famiglia, del matrimonio e di temi simili. Include commenti sulle costellazioni e su gradi speciali. De errore profanarum religionum L'opera è successiva alla conversione di Materno al Cristianesimo, avvenuta in circostanze di cui si ignorano causa, luogo e tempo, ma inequivocabilmente testimoniata dall'opera apologetica De errore profanarum religionum. Nella tradizione del testo, l'opera è giunta priva delle pagine iniziali. La parte restante inizia passando in rassegna i culti naturalistici degli elementi dimostrandone l'assurdità. Considera poi quei culti di origine orientale che erano allora molto praticati presso i pagani: i misteri di Iside, Cibele, Mitra, il culto dei Coribanti, di Adone e altri. Sono applicati i principi di Evemero per dimostrare che tutte queste divinità non sono altro che uomini innalzati dopo la morte agli onori celesti e dei cui peccati gli uomini si servono per giustificare i propri. Con alcune fantasiose etimologie -- per esempio “Serapide” è fatto derivare da Σάρρας παίς, il figlio di Sara, cioè Isacco -- tenta di spiegare le origini di alcuni di esse a partire dai testi biblici; o ancora, egli dà notizie delle frasi e delle formule in codice usate nelle religioni misteriche, avvicinandole alle formule bibliche. La lingua di F. aspira alla purezza del classicismo ma non si sottrae agli influssi del suo tempo, abusando spesso di espedienti retorici, enfasi e incursioni nella lingua poetica. L'uso delle clausole metriche lo ricollega alla tradizione oratoria di CICERONE.  Lo stile dell'opera, in effetti, richiama da vicino quello degli africani Tertulliano e Arnobio, ricorrendo volentieri alla derisione e al sarcasmo.  Dell'opera colpisce il fanatismo quasi feroce con cui l'autore esorta gli imperatori Costante I e Costanzo II a perseguitare senza pietà i seguaci delle fedi fallaci. Non è infatti frequente nella filosofia trovare un'esplicita richiesta volta a sollecitare l'intervento dello stato contro i pagani, recuperando in un certo modo il disprezzo che i senatori hanno ai tempi della Repubblica per l'ellenizzazione della religione e della cultura romana -- essendo Quinto Fabio Massimo Verrucoso il più conosciuto contro l'ellenizzazione, mentre i maggiori difensori di questa furono la gens Cornelia. Ricordiamo a tale proposito che il primo imperatore a mettere fuori legge tutti i riti non cristiani e a perseguitarli apertamente fu Teodosio I. In quest'opera si coglie anche quello che dovette essere lo stato d'animo formatosi in molti nel breve lasso di tempo intercorso tra le persecuzioni dioclezianee e l'editto di Milano. Seppur F. appaia pienamente inserito nel filone della letteratura apologetica, la sua voce non giunse isolata al tempo dell'editto di Tessalonica promulgato da Teodosio I, ma nel corso del medio-evo rimase senza eco. La sua opera apologetica è considerata di particolare interesse per la storia delle religioni, riportando particolari di prima mano e plausibili sui culti misterici praticati in Sicilia in età tardo-antica. Paradossalmente e, invece, molto considerata la sua opera astrologica, la cui esaustività e leggibilità migliore rispetto all'opera di Marco Manilio giovarono alla trasmissione. Matheseos. Siciliae quam incolo et unde oriundus sum»; Matheseos libri octo, IV, proemio; Marchesi, Disegno storico della letteratura latina, Milano-Messina; L'opera contiene infatti un riferimento a un'eclissi anulare di sole. Mommsen. Hermes Brennan, F. The Hellenistic Astrology, hellenisticastrology. com/astrologers/ firmicus-maternus Neugebauer, «The Horoscope of Ceionius Rufius Albinus», The American Journal of Philology, L'unico testimone è un codice del X secolo, il Vaticanus Palatinus; F. L'errore delle religioni pagane, Introduzione, traduzione e note a cura di E. Sanzi, Roma 2006. ^ C. Marchesi, Disegno storico della letteratura latina, Messina-Milano. F., Matheseos edito da Kroll e Skutsch, Stuttgart, Teubner, Mathesis, Monat, Parigi Les Belles Lettres, Collection des Universités de France. In difesa dell'astrologia. Matheseos, a cura di Colombi, Udine, Mimesis; L'errore delle religioni pagane, a cura di Sanzi, Roma, Città Nuova; F. su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Niccoli, F., Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica F., su digilib LT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Opere di F. su MLOL, Horizons Unlimited Open Library, F.Internet Archive; F. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton. De errore profanarum religionum, Ziegler, Lipsiae, in aedibus Teubneri Matheseos . Kroll et F. Skutsch, Lipsiae, in aedibus Teubneri Portale Antica Roma   Astrologia  Biografie Portale Letteratura Categorie: Scrittori romani Astrologi romani Scrittori Romani Senatori romani Scrittori antichi Astrologia ellenistica Scholar and statesman who wrote an attack on religion that borrowed heavily from CICERONE. PORTICO. F. writes an essay on astrology. Giulio Firmico Materno. Firmico.  

 

Grice e Firmo: la ragione conversazionale e  Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of Porfirio and a pupil of Plotino and Amelio Gentiliano [si veda]. He is best known because of the essay “On abstinence,” that Porfirio dedicated to him, in which the arguments for vegetarianism are set out. Firmus had evidently resumed his carnivorous ways at the time the essay was written. Firmo Castricio. Firmo.

 

Grice e Fisichella: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del duello – scuola di Catania -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: “I love Fisichella; for one, he was a nobleman; for another, he died during Messina’s earthquake – leaving unfinished quite a few essays – he philosophised on both ‘nature’ and ‘convention,’ and the rationalist basis of his theory of contract is Griceian in nature, even if he fills it with charming Roman detail!” Appartenente alla nobile famiglia siciliana dei Fisichella, fu autore di famose saggi. Fu responsabile della Biblioteca Civica di Catania. Insegna a Messina. Morì vittima del terremoto di Messina. Altre opere: “Roma e il Mondo” (Coco); “Pena temporaria, pena perpetua”; “Il concetto d’ “obbligazione naturale””; “Il concetto del divorzio secondo la filosofia di Enrico VIII” (Carmelo de Stefano); “Matrimonio, questione di stato – la legge di matrimonio”. Nominato "bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino ancora conservato molte pagine del suo romanzo I Viceré. Whoever has glanced through the pages of  any text-book on mercantile law will hardly deny  that contract is the handmaid if not actually the  child of trade. Merchants and bankers must have  what soldiers and farmers seldom need, the means of making and enforcing various agreements with ease and certainty. Thus, turning to the special  case before us, we should expect to find that when Roma was in her infancy and when her free  inhabitants busied themselves chiefly with tillage  and with petty warfare, their rules of sale, loan,  suretyship, are few and clumsy. Villages do not  contain lawyers. Even in towns, hucksters do  not employ them. Poverty of contract is in fact  a striking feature of the early Roman jurisprudenze, and can  be readily understood in the light of the rule just stated. The explanation given by Maine in ‘Ancient Law’  is doubtless true, but does not seem altogether  adequate. Maine points out that the Roman house-hold consists of many families under the rule of a paternal autocrat. Few freemen have what we should call legal capacity. Consequently, there  arose few occasions for a contract. This may indeed  account for the non-existence of agency, but not  for that of all other contractual forms. For, if the  households had been trading instead of farming corporations, they must necessarily have been more  ichly provided in this respect. The fact that their commerce is trivial, if it exists at all, alone accounts completely for the insignificance of the contract in their early law. The origin of the contract as a feature of social life  is therefore simultaneous with the birth of Ttade  and requires no further explanation. It is with the  origin and history of its individual forms that we shall deal. As Roman civilization  progresses, we find commerce extending, and contract  growing steadily to be more complex and more  flexible. Before the end of the Roman republic  the rudimentary modes of agreement which suffice  for the requirements of a semi-barbarous people  have been almost wholly transformed into the  elaborate system of contract preserved for us in  the fragments of the Antonine jurists. At the most remote period concerning which statements of reasonable accuracy can be made,  and which for convenience we may call the “regal  period,” we can distinguish three ways of securing  the fulfilment of a promise. The promise could  be enforced either by the person interested,  or by the gods, or by the community. When, however, we speak of *enforcement*, we must not think  of what is now called specific performance, a conception unknown to primitive Roman law. The only kind  of enforcement then possible is to make punishment the alternative of performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society just emerging from barbarism, is doubtless the most ancient protection to promises. We find self-help to have been not only the mode by  which the anger of the individual is expressed, but  also one of the authorised means employed by a god – “il divino” -- or the community to signify displeasure. This rough form of justice falls within the domain of law in that the law allows it, and even encourages Romans to punish the delinquent, whenever  religion, or custom, has been violated. But as the Romans grew more civilized and the nation larger, self-help  proves a difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly, the scope of self-help is by degrees  narrowed, and, at last, with the introduction of surer  methods, self-help becomes wholly obsolete. ‘Religious’ law, as administered by a priest, or representatives of a god, is another  powerful agency for the support of promises. A  violation of ‘fides,’ the sacred bond formed between the parties to an agreement, is an act of impiety  which lays a burden on the conscience of the delinquent and may even have entailed religious disabilities. “Fides” is of the essence of every compact. But there are certain cases in which its violation is punished with exceptional severity. If an  agreement is solemnly made in the presence a god – Roma had three: Giove, Mars, and Quirinus --, its breach is punishable as an act of gross sacrilege. A third agency for the protection of a promise is legal. This third agency consists of a penaltiy imposed upon bad faith by the laws of Rome, the rules of the gens, or the  by-laws of the guild to which the delinquent  belongs. What the sanction is in each case we  are left to conjecture. It may be public  disgrace, or exclusion from the guild, or the paying  of a fine. And if a promises is strengthened by an appeal to a god, so might another be by  an invocation of the people as witnesses. An agreement, then, might be of three kinds, correspending to these three kinds of sanction. An agreement may consist of  an entirely formless compact,  or a solemn appeal to a gods, or a solemn  appeal to the people. A formless compact is called “pactum” in the  language of the Twelve Tables. A “pactum” is merely a  distinct understanding between parties who trust to each other, and in the infancy law, a pactum must have been the kind of agreement most generally used in the ordinary business of life. A pactum is doubtless the oldest of all agreements,  since it is almost impossible to conceive of a time  when two Romans did not barter an act and a promise as freely  as they bartered goods and without the accompaniment of any ceremony. A compact of this sort is  protected by the universal respect for “fides,” and  its violation may perhaps have been visited with  penalties by the guild or by the gens. But intensely  religious as the early Romans were, there must have  been cases in which conscience was too weak a barrier against fraud, and when a slight penalty was  ineffectual. The fear of a god has to be reinforced  by the fear of the Roman. Self-help is the remedy  which naturally suggests itself. In The Twelve Tables a pactum appears in a negative shape, as a compact by performing which retaliation or  a law-suit may be avoided. If this compact is broken, the offended party pursues  his remedy.  Similarly, where a positive pactum is violated, the  injured person must have had the option of chastising  (Gell. XX. 1. 14. Auct. ad Her. ii. 13. 20) the delinquent. The injured Roman’s revenge may take the form  of personal violence, seizure of the other's goods,  or the retention of a pawn already in his possession. A Roman could choose his own mode of punishment. But, if  his adversary proves too strong for him, he doubtless  had to go unavenged. If the broken agreement belonged to either of the other classes, the injured party has the whole support of the priesthood or the community at his back, and  thus is certain of obtaining satisfaction. It is  therefore plain that though formless agreements  contain the germ of a contract, a formless agreement could not produce a law of Contract. By  the very nature of a formless agreement or pactum, it lacks binding force. The pactum’s  sanction depends on the caprice of individuals,  whereas the essence of a contract is that the breach  of an agreement is punishable in a *particular* way. A further element is needed, and this is supplied  by the invocation of higher powers. At what period the fashion is introduced  of confirming promises by an appeal to a god  it would be idle to guess. Originally, it seems,  the plain meaning of such an appeal is alone considered, and its form is of no importance. Under the influence of custom or of the priesthood, such an agreement assumes, by degrees, a formal character,  and it is thus that we find them in our earliest  authorities.   Since Religion and Law are both at first the  monopoly of the priestly order, and since the religious  form of a promise has its counterpart in earlier customs, the strictly SECULAR forms of an agreement s peculiarly Roman. The religious forms are evidently the older, and  formal contract has therefore had a religious origin.  “Fides” being a divine thing, the most natural means  of confirming a promise was to place it under divine  protection. This may be accomplished in two ways, by “iusiurandum” or by “sponsio” -- each of which  is a solemn declaration, placing the promise or  agreement under the guardianship of a gods.  Each of these two forms – the iusiurandum and the sponsio -- has a curious history, and they are the earliest specimens of a true Contract. A third method, and one peculiar to the Romans, which naturally suggested itself for the  protection of agreements, is to perform the whole  transaction in view of the people. Publicity ensures  the fairness of the agreement, and placed its ex-  istence beyond dispute. If the transaction was  essentially a public matter, such as the official sale of  public lauds, or the giving out of public contracts,  no formality seems ever to have been required, so  that even a formless agreement – a mere ‘pactum’ -- is, in that case, binding. The same validity is secured for  a private contract, by having is publicly witnessed,  and, the next one is but one application of this  principle. In testamentary law it seems probable  that the public will in a “comitiis calatis” is also  formless, whereas, in private, the testator may only  give effect to his will by formally saying to his  fellow-citizens “testimonium, mihi perhibetote.” Thus the two elements which turned a bare agreement into a contract are religion and publicity.  The naked agreement (pactum) need not concern the philosopher,  since, its validity as a contract never receives complete recognition. But it will be the object of  the following consideration to show how the agreement GROWS into a contract by being invested with a religious or  public dignity, and to trace the subsequent process  by which this outward clothing is slowly cast off.  Formalism is the only means by which contract rises to an established position. But when that position is fully attained we shall find that contract discarding the form, and returning to the state  of the bare agreement from which it springs. “Iusiiurandum” is derived by some  from “louisiurandum,” which merely indicates that Jupiter or Giove – the root, Aryan, is that of ‘dius,’ as in ‘diuspiter,’ or ‘dius-pater’ – is the god by whom Romans swear.  To make an oath is to call upon some god to  witness the integrity of the swearer, and to punish  him if he swerves from it. This appears from the  wording of the oath in Livio where Scipione says: -- Si sciens falio, turn me, luppiter optime maxime, domum  familiam remque meam pessimo leto afficias” – It also appears from the oath upon the luppiter lapis given by  Polibio and Paolo Diacono, where a man throws  down a flint and says – “Si sciens folio, turn me Dispiter saliia urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc lapidem." A promise accompanied by an oath is simply a UNI-LATERAL contract under religious sanction.  An oath is in used for the purpose of a contract. Cicerone remarks that the oath is proved by the language of the XII Tables to  have been in former times the most binding form of  promise (Off III. 31. 111). Since an th is morally binding   -- Of. Apul. de deo Socr. 5. = xxii. 53.  --  in the time of Cicerone, though it has then no LEGAL force, Cicerone’s implicature is that, in  earlier times, an oath is LEGALLY binding also.  From Dionisio we know that the altar of Ercole, the Ara Massima -- is the place at which a solemn compact (“a-vvOrJKai”) ais made, while Plauto  and Cicerone inform us that such a compacts is solemnised by grasping the altar and taking the oath. It would seem probable that a gods was  consulted by the taking of an auspice,  *before* the oath is made. Cicerone says that, even in a private  affair, a Roman would take no step without asking the advice of a god. And we may safely  conjecture that whenever a god was called upon to  witness a solemn promie, he was first enquired of,  so that he might have the option of refusing his  assent by giving an unfavourable auspice. The terms  of the oath were known as “concepta uerba” and they are strictly construed. “Periurium” does  not mean mere false swearing. “Periurium” means  the breach of an oath, the commission of an act at  variance with these “verba concepta”. There is some dispute as to what are the exact  consequences of such a breach. Voigt thinks that “periurium” merely entails an excommunication from a religious  rite. Danz is clearly right in maintaining that  its consequences  are far more serious -- 1 Dion. 1. 40. 2 piaut. Rud. 5. 2. 49; Cic. Flace. 36. 90.   3; Biv. 1. 16. 28.; Seru. ad Aen. 12. 13.   " i.e. sciens fallere; Plin. Paneg.d'i.; Seneca, Ben. iii. 37. 4.  8; Off. III. 29. 108; lus Nat. in. 229. 8 j{g„i. (j_ „_ g 149. -- A breach amounts in fact to complete outlawry.  Cicerone says that the “sacratae leges” of the ancients confirm the validity of an oaths. Now, a “sacrata lex” is one which declares the transgressor to be “sacer” -- i. e., a victim devoted -- to some particular god, and “sacer” in the so-called laws of Seruius Tullius and in The XII Tables is *the* epithet of condemnation applied to the undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it seems highly probable that the breaker of an oath becomes “sacer.” His punishment, as Cicerone implicates, is death. The formula of an oath given by Polibio is more comprehensive than that given by Paolo Diacono, for, in it, the swearer prays  that, if should he transgress, he may forfeit not  only the religious but also the civil rights of his Roman countrymen. The oath-breaker is an utter outcast. As a gods could not  always execute vengeance in person, what the god does is to withdraw his protection from the offender  and leave him to the punishment of his Roman fellow-men.  – H. P. Grice adds: “The drawback to this old Roman method of contract, as formulated by Polybius, is the  same as that of the Law of my country, England, which makes hanging the penalty for a slight theft. The hanging penalty is out of all proportion to the injury  inflicted by a breach of the promise. So awful  indeed was it, that no promise of an ordinary kind  could well be given in such a dangerous form, and  consequently the oath was not available for the   -- 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. - Fest. p. 230, s.u. plorare.   » Seru. ad Aen. 6. 609; Leg. ii. 9. 22. ^ ni. 25.   5 p. 114, s.u. lapideni. ' Liu. v. 11. 16.--  common affairs of daily life. The use of the oath  therefore disappears with the rise of other forms of binding agreement, the severity of whose remedies is PROPORTIONATE to the right which has been  violated. At the same time, the breaking  of an oath comes to be considered as a merely *moral*, instead  of a strictly *legal*, offence. By the end of the Republic, an oath entails nothing more serious than disgrace – “dedecus” – “or disgrice, as I prefer to spell it.” In one instance only does the *legal* force of the oath  survives. As late as the days of Justinian, the service due to a patron by his freedman are still  promised under oath. But the penalty for the  neglect of such a service changes with the  development of the law. Before the time of The XII Tables, a former slave who neglects his former patron, like the patron who injures his former slave, are no doubt “sacer”. The former slave is an outlaw fleeing  for his life, as we are told by Dionisio. But in later times the heavy religious penalty disappears, and the “iurisiurandi obligatio” is enforced by a special praetorian action: the “actio operarum.” By the time of Ulpian, the effects of  the “iurata operarum promissio” seem indeed to have  been identical with those of the “operarum stipulatio”, though the forms of the two are still quite  distinct.   We may now summarise this primitive mode of contract. The contract was a verbal declaration, on the part of  the promisor, couched in a solemn and carefully --  138 Dig. 1. 7. = Seru. ad Aen. 6. 609. s n, iq. * 38 Big. 1. 2 and 7. = of. 33 Dig, 1. 10.   -- worded formula, the “concepta uerba”, wherein he called  upon a god (testari deos), to behold his good faith  and to punish him for a breach of it. The sanction is the withdrawal of the protection by the god. The delinquent is then exposed to death at the hand of any man who chooses to slay him.  The mode of release, if any, does not appear. In  classical times it was the acceptilatio, but this was  clearly anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae promissae and operae  iuratae.  Now, though the point has been contested  by high authority, it scarcely admits of a doubt  that there exists from very early times *another* form, known as a “sponsio”, by which an agreements may be made still under religious sanction. This method,  as Danz points out, is originally connected  with a mere oath. The “sponsio” is derived from a stern and solemn compact made under an oath to a god. Danz goes perhaps too far when he identifies  the two. “Sponsio” is, for Danz, just another name for a sworn promise. The stages through which the “sponsio” pass tell a  different story. The word “sponsio” is closely connected with “(Tirovhrj, a-rrevSeiv” – and, hence, a “sponsio” is literally, a  pouring out of wine, quite distinct from the convivial Xot^T) or “libatio”. A different derivation is given by -- 138 Dig. 1. 7, fr. 3. Plaut. Rud. 5. 2. 52.   5 46 Dig. 4. 13. Danz, Sacr. Schutz, 5 Featus-p. 329 s.u. spondere. Leist, Greco-It. B. G. p. 464, note o.  --  Varrone’s and Verrius’s from “spons”, the will, whence, according to Girtanner, a “sponsio” was a declaration of the will (“I will,” not “I shall”), savours somewhat too strongly of classical etymology. A pouring out of wine, as Leist shows, is a constant accompaniment to the conclusion of a sworn compact of  alliance (opKia iriaTo).  This sacrificial wine adds force to the oath. The wine is a symbol of the blood which *would* be spilt if a god *were to be* insulted by a breach  of the oath made during this wine-pouring ceremony. In this then its original form, a “sponsio” is nothing more than an accessory piece of ceremonial. A second stage was brought about by the *omission* of the oath AND the use of wine-pouring *alone* as the principal ceremony. This made a less important agreement of a private nature. (An Indian friend of mine tells me that, in the  Indian Kama-Sutra, a sacrifice of wine is customary at betrothals -- and comparison shows that  the marriage ceremonies of the Romans, in connection with which we find “sponsio” and “sponsalia” applied  to the betrothal and “sponsa” to the bride, are very  like those of other Aryan communities.  We may  therefore clearly infer that at Rome also there was a  time when the pouring out of wine is a part of the  marriage-contract. Thus, the derivation of the “sponsio” from ‘wine-pouring’ receives independent confirmation.  In a third and last stage, a “sponsio” came to mean --  ^ Lingua Latina VI. 7. 69. Festus, s. u. spotidere. ' Stip. p. 84. Greco-It. B. G. § 60. = Leist, Alt-Ar. I. Civ. p. 443.  Gell. IV. 4. Varro, Lingua Latina vi. 7. 70. Leist, loc. cit.  –-- nothing more than a promise. It is easy to see how this came about. At first, the promise takes its name from the explicit ceremony of wine-pouring which gives to it binding force. In  course of time, this name-giving crucial wine-pouring ceremony is left out, as what H. P. Grice calls, a “taken  for granted.” The promise alone, provided  words of style are correctly used, retains its old use and its old name. From being a  ceremonial act, “sponsio” becomes a form of words. Such is  the final stage of its development.   The importance attached to the use of the words in the conversational dyad -- A: Spondesne? -- B: Spondeo. --  in preference to all others' thus  becomes clear. The conversational dyad: A: Spondesne? – B: Spondeo. – means: -- A: Do you promise by the sacrifice of wine? – B: I do so  promise. -- Just as one says, "I GIVE you my oath," when we do not even *dream* of actually *TAKING* one!  Another peculiarity of sponsio, noticed though  not explained by Gaius – HI. 93 m. 94 --, is the fact that it is used in one exceptional case to make a binding  agreement between a Romans and a NON-Roman aliens, scil., at  the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice of pure wine ((nrovBal aKprjToi) is one of the early  formalities of an international compact (opKia iria-Ta),  it is natural that the expression “spo'ndeo” survives  on such occasions, even after the oath and the wine-pouring had long vanished.  “Sponsio” being then a religious act and subsequently a religious formula, its sanctity is doubtless  protected by a pontiff with a suitable penalty.  What the penalty was we cannot hope to know, though clearly they are the forerunners of the  penal “sponsio tertiae partis” of the later procedure.  Varrone informs us that, besides being used at a betrothal, a “sponsio” may also be employed in a money (“pecunia”)  transaction. If “pecunia” includes *more* than money,  we may well suppose that cattle and other forms of  property, which could be designated by number are capable of being promised in  this manner. Indeed it is by no means unlikely that negotium was at one time the proper form for a loan of money by *weight*, while “sponsio” is the  proper form for a loan of coined money -- “pecunia  numerata.” The making of a “sponsio” for a sum  of money is at all events the distinguishing feature  of the “actio per sponsionem”, and though we cannot  now enter upon the disputed history of that action,  its antiquity will hardly be denied. The account here given of the origin and early  history of the “sponsio” is so different from the views  taken by many excellent authorities that we must  examine their theories in order to see why they  appear untenable. One great class of commentators have held that the “sponsio” is NOT a primitive institution, but was introduced at a date subsequeat to The XII Tables. The adherents of this theory are afraid of admitting the existence, at so early a period,  of a form of contract so convenient and flexible  as the “sponsio”, and they also attach great weight to  the fact that no mention of “sponsio” occurs in The XII Tables! While it would  doubtless be an anachronism to ascribe to the early  -- 1 Lingua Latina VI. 7. 70. 2 Karsten, Stip. p. 42.     – “sponsio” the actionability and breadth of scope which  it had in later times, still it may very well have  been sanctioned by religious law, in ways of which nothing can be known unless the pontifical Commentaries of Papirius' should some day be discovered! As to the silence of The XII Tables on this  subject, we are told by Pomponius that they were  intended to define and, more importantly, REFORM the law rather than  to serve as a comprehensive code. Therefore they  may well have passed over a subject like “sponsio” which is regulated by the priest. Or,  if The XII Tables did mention it, their provisions on the  subject may have been lost, like the provisions as to “iusiurandun”, of which we know only through a  casual remark of Cicerone’s. The early date here attributed to the “sponsio” cannot therefore be disproved by any such negative  evidence. Let us see how the case stands with  regard to the question of origin.  The theory best known at Oxford, owing  to its support by Maine, is that “sponsio” is a  simplified form of a “nexum”, in which the ceremonial falls away and the “nuncupatio” is left. Maine’s explanation is so utterly obsolete  that it is not worth refuting, especially since Hunter's rebuttal of it. One fact which in  itself is utterly fatal to such Maine’s theory is that the “nuncupatio” is an assertion requiring no reply – or ‘the securing of perlocutionary uptake,’ in the words of J. L. Austin --     1 Dion. III. 3(5. ^ 1 Dig- 2. 2. 4.   3 Off. m. 31. 111. Maine, Anc. Law, p. 326. Hunter, Bovian Law, . " Gai. ii. 24.   B. E. 2   -- whereas the *essential* thing about the “sponsio” is that of a question coupled with an answer that implicates the co-conversationalist’s implication in the matter via uptake – cf. betting. Voigt follows Girtanner in maintaining that “spondere” signifies "to declare one's will,” – as in “I will,” not “I shall” --  and he vaguely ascribes the use of “sponsiones” in  the making of agreements to an ancient custom  existing at Rome as well as, more generally, ‘somewhere in Latium.’ Girtanner agrees with the view here expressed that a “sponsio” was  known prior to The XII Tables, but thinks that  before The XII Tables, the “sponsio” was neither a contract (strictly true if by contract we mean an agreement enforceable by action), nor an act in the law, and that its use as a contract began later as a result of Latin influenced. In  another place, Girtanner expresses the opinion that the introduction of the “sponsio” as a contract is due to legislation -- most probably to the “Lex Silia.” The objections to this view are, first, that his – indeed Varrone’s -- etymology is wrong, and, second, that the inference drawn as to the original ‘signification’ of “spondere” involves us in rather serious difficulties. An expression of the will can be made  by a ‘formless,’ as Dummett calls it, declaration as well as by a formal one.  And if a *formless* agreement be a “sponsio”, as it must  be if a “sponsio” refers to *any* declaration of the will,  how are we to explain the *formal* or ceremonial importance, attaching to the use of the particular words in what Grice calls the primeval conversational dyad: A: Spondesne? – B: Spondeo. This view ignores the religious  nature of the “sponsio”, which I have endeavoured to  establish, and it forgets that a “sponsio,” being part  of the marriage ceremonial, one of the first subjects   -- 1 Bom. EG. 1. p. 42. ' lb. p. 43.   3 lus Nat. §§ 33-4.  --  to be regulated by the laws of Romulus after he married Ercilia (later a goddess, according to Ovid)  is most  probably one of the oldest Roman institutions, instituted by Romulus – (It’s different with Henry VIII marrying Anna Boleyn --.  Again, as Esmarch observes the legislative  origin of a “sponsio” is a very rash hypothesis. We  only know that the “Lex Silia” introduces an improved  procedure for matters which are already actionable,  and has a new formal contract been created by such  a definite act, we should almost certainly have been  informed of this by, say, Cicero! Danz, who also (wrongly) derives “sponsion” from spans, the will; takes “spondere” to mean “sua sponte iurare,” and thinks that a “sponsio” is exactly the same as a “iusiurandum,” i.e. nothing more  than an oath of any kind! Danz’s chief argument for this view is to be found in Paolo Diacono,  who gives “con-sponsor” = “coniurator.” But why need  we suppose that Paulus meant more than to give a  synonym ? in which case it by no means follows that  spondere = iurare. For such a statement as that we  have absolutely no authority. Moreover, as we saw  above, “iusiurandum” is a *one-sided* (first-person singular) declaration on  the part of the promisor only. How, then, could the “sponsio”, consisting, as it does, of a question and its answer,  have sprung from such a source? Especially since  the “iusiurandum”, though no longer armed with  a legal sanction, is still used as late as the days of  Plauto alongside of the “sponsio” and in complete  contrast to it?  Girtanner, in his reply to the "Sacrale  Schutz" of Danz, maintains that “sponsio” has nothing  -- 1 Dion. n. 25. ^ ^. y_ far q. u. R. W. ii. 516.   ^ Sacr. Schutz, p. 149. *' Ueber die Sponsio, p. 4 ft.   2—2   -- to do with an oath, but that it was is a simple declaration of  the individual will, and that “stipulatio” has its origin  in the respect paid to “fides.” This view however  is even *less* supported by evidence than Danz's. Arguing again from analogy, Girtanner  thinks that, as the Roman people regulated its  affairs by expressing its will publicly in the comitia,  we may conjecture that a Roman individual could validly  express his will in a private affairs -- in other words  could make a binding sponsio. But this, as well  as being a wrong analogy, is a misapprehension of a  leading principle of law. For, as we have  seen, no agreement resting simply upon the will of  the parties (i.e. pactun) is valid without some  outward stamp being affixed to it, in the shape  of approval expressed by a god – notably Giove -- or by the people.  In more modem language, we may  say that such approval, tacit or explicit, religious or  secular, is the original “causa civilis” which distinguishes a “contractus” from, not a “pactum,” but a “pactio.” Now, a popular  vote in the comitia bears the stamp of public  approval as plainly as did the “nexum”. But a “sponsio”, requiring no witness, is clearly NOT endorsed by the Roman people. The endorsement  which the “sponsio” needs in order to become a “contractus iuris civilis” must have been of a religious nature,  and that such was the case appears plainly if we  admit that “sponsio” originates in a religious ceremonial such as H. P. Grice describes: “Will you, won’t you?” “I shall!” To recapitulate the view here given, we conclude that “sponsio” is, if it existed, a primordial institution -- 1 See Windsoheid, K. Y. fiir G. u. R. W. i. 291. -- of the Roman and Latin peoples, which grows into its  later form through three stages. The “sponsio” is originally  a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of  alliance or of peace made under an oath to a gods. It next became a sacrifice used as an appeal to a god in a compacts not jtnade under oath such as a betrothal. Just as iusiurandum for many purposes is sufficient without the pouring out of wine, so for  other purposes sponsio came to be sufficient without  the oath. Lastly it becomes a rather empty verbal formula,  expressed in language by which the utterer *implicates* -- to use Grice’s wording -- the accompaniment  of a wine-sacrifice, but at the making of which no  sacrifice is actually performed – but “deemed” to be performed – as in the Kantian view that to will is to act. In this final  stage, which continued to the days of Justinian, its form is a question, put by the promisee,  and its AFFIRMATIVE answer, given by the promisor, each using  the verb spondere. A: Filiam mihi spondesne? – B: Spondeo. – A: Centum dari spondes? – B: Spondeo. Throughout its history this was a form which Roman citizens alone could use, in which fact we clearly see religious exclusiveness and a further proof of religious origin. Why they used question and answer rather  than plain statement is a minor point the origin of which no theory – except Grice’s -- has yet accounted for (“In the beginning was the Dia-Logos.”). As Grice – following Collingwood – in conversando intelligendo – notes, the recapitulation by the promisee is obviously intended to secure the complete understanding by the promisor  of the exact nature of his promise.   Its sanction in the early period of which we  are treating is doubtless imposed by the priest,  but owing to our almost complete ignorance of the pontifical law – the popes were none of the narcissists we now know! -- we cannot tell what that sanction is.   Having examined the ways in which an  agreement could be made binding under religious  sanction, let us see how binding agreements could  be made with the approval of the *community*, or to use Cicerone’s favourite phrase, “Populus romanus”.  There is reason to believe that a secular – or communitarian (free from immunity) class of contracts is less ancient than the religious class,  because “nexum” and “mancipium” or “municipium” were peculiar to the  Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio  are found, as Leist dreams, in other Aryan  civilizations. There is no more disputed subject in the whole history of Roman law than the  origin and development of this one contract, termed the ‘nexum.’ Yet the  facts are simple, and though we cannot be sure that  every detail is accurate, we have enough information  to see clearly what the transaction is like as  a whole. We know that, as per the genus-species diaresis – the “nexum” is a “negotium per aes  et libram,” a weighing of raw copper or other  commodity measured by weight in the presence of  witnesses. That the commodity so weighed is a loan' ; and that default in the re-payment of a loan  thus made exposed the borrower to bondage and  savage punishment at the hands of the lender (Hence: “Neither a lender nor a borrower be”). We  know also that the “nexum” exists as a loan before The XII  Tables, for the “nexum” is mentioned in them as something  quite different from a “municipium,” or “manicipium.” To assert, as Bechmann does, that since nexum included conveyance as  --  1 Alt Ar. I. Civ. !•" Abt. pp. 435-443.   2 Gai. III. 173. 3 Mucins in Varro, L. L. 7. 105.  " Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, B. E. L. § 22.   --  well as loan "mancipiuvique " must therefore be an  interpolation into the text of the XII Tables -- is an  arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology of both “nexum” *and* “mancipium” shows that they were  distinct conceptions. A “mancipium” entails the transfer of “manus”, ownership. “Nexum” entails the making of  a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent  of “obligatio” in the later law. It is true that both  nexum and mancipium required the use of copper  and scales, to measure in one case the price, in the  other the amount of the loan. But this coincidence  by no means proves that the two transactions are identical. Today, a deed is used both for leases and  for conveyances of real property, yet that would be  a strange argument to prove that a lease and a  conveyance are the same thing! Here  however we are met by a difficulty. If, as some  hold, and as I have tried to prove, we must regard  mancipium as an institution of prehistoric times  distinct from the purely contractual nexum, how  are we to explain the fact that nexum is used  by Cicerone as *equivalent* to mancipium, or as a general term signifying, “omne quod per aes et libram geritur,” whether a loan,  a will, or a conveyance? Now first we must notice  the fact that nexum had at any rate not always been synonymous with mancipium, for if it had been so,  there could have been no doubt in the minds of  --  1 Kauf, p. 130. ^ Mommsen, Hint. 1. 11. p. 162 n.   3 ad Fam. 7. 30; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Farad. 5. 1. 35.; pro  Mur. 2.   * Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallua Aelius in Festus, s.u.  nexum ; Manilius in Varro, L. L. 7. 105.    24 -- Scaeuola and Varrone that a “res nexa” is the same  thing as a “res mandpata.” This Scaeuola and Varrone  both deny. We must also remember that Mucins  Scaeuola was the Papinian of his day. ManiUus, on  the other hand, struck perhaps by the likeness in  form of the obsolete nexum to other still existing  iwgotia per aes et Ubram, seems to have made “nexum”  into a generic term for this whole class of transactions. In this, he was followed by Gallus Aelius'.  The wider meaning given by them to that  which was a technical term at the period of the  XII Tables, apparently became the received opinion – received by them! -- ,  partly for the very reason that nexum no longer had  an actual existence, partly because neon liberatio,  the old release of nexum, had been adopted by  custom as the proper form of release in matters  which had nothing to do with the original nexum, viz., in the release of judgment-debts and of  legacies per damnationem. One pecularity mentioned by Gaius in the release of such a legacy  seems altogether fatal to the theory that manucipium  was but a species of the genus nexum. Gaius says  that “nexi liberatio” could be used only for legacies of  things measured by weight. Such things were the  sole objects of the true nexum, whereas “res manucipii”  included land and cattle. Therefore if manucipium  were only a species of nexum we should certainly  find “nexi liberatio” applying to legacies of “res mancipii”,  but this, as Gaius shows, is not the case.   The view that nexum was the parent gestum per  --  1 Varro, L. L. vii. 105. ' Festus, p. 165, s. u. nexum.   s Gai. III. 173-5. NEXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM-- aes et libram, and that mancipium is the name  given later to one particular form of nexum, is worth  examining at some length, because it is widely  accepted, and because it fundamentally affects our  opinion concerning the early history of an important  contract. Bechmann thinks it more reasonable to  suppose that “nexum” *narrowed* from a general to a  specific conception. But it is scarcely conceivable  that nexum should have had the vague generic  meaning of “quodcumque per aes et libram geritur” when it was still a living mode of contract, and the  technical meaning of “obligatio per aes et libram” when such a contractual form no longer exists! What seems far more likely is that “nexum” has a  technical meaning -- until a nexum ceases to be practiced, subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose  meaning – or ‘disimplicature,’ to use Grice’s wording -- was introduced in the later Republic, partly  to denote the binding force of any contract, partly  as a convenient expression for any transaction per  aes et libram. Even in Cicerone we find the “nexum” used chiefly with a view to elegance of style,  in places where “mandpatio” would have been a  clumsy expression and where there could be no doubt as  to Cicero’s meaning. But when he is writing *history*, Cicero uses “nexum” in the sense it has, even if he concedes that that sense is regarded by some as obsolete. 1 See Beohmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22.   2 lb. p. 131. " Varro, I. c. — Pestus, s.u. nexum.  » Cf. ''nexu uenditi " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7.   5 Cio. de Or. iii. 40. 159.   6 Har. Eesp. vii. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.  ' As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35.   8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. viii. 28. 1.  Rejecting then as untenable the notion that  nexum denotes a variety of transactions, let us  see how “nexum” originates. The most obvious way of  lending corn or copper or any other ponderable  commodity, was to weigh it out to the borrower,  who would naturally at the same time specify, by  word of mouth, the terms on which he accepted  the loan. In order to make the transaction binding,  an obvious precaution would be to call in witnesses,  or if the transaction took place, as it most likely  would, in the market-place, the mere publicity of the  loan would be enough. Thus it was that a nexum is originally made. It was  a *formless* agreement, necessarily accompanied by  the act of weighing, and made under public supervision in Rome’s market place –the present Forum. The nexum deals only with commodities which may be measured with a scale and a weight, and does not recognize the distinction between res mancipi  and res nee mancipi, — a strong argument that  nexum and mancipium are totally  distinct affairs. The sanction of the nexum lies in the acts of  violence which the creditor might see fit to commit  against the debtor, if payment is not performed  according to the terms of his agreement. Personal  violence is  regulated by The XII Tables, in the  rules of “manus iniectio”. Before that time, it is safe  to conjecture that any form of retaliation against the  person or property of the debtor is freely allowed.   The fixing of the number of witnesses at *five* (why five?) which we find also in mancipium, is the only  modification of nexum that we know of prior to --  ' Gai. FUNCTION OF NEXAL WITNESSES. -- the XII Tables. Bekker suggests that this change is one of the reforms of Servius Tullius, and that  the *five* witnesses, by representing the *five* classes of  the Servian census, personified the whole people – the Populus Romaus – (the five classes were: the first class, the second class, the third class, the fourth class, and the fifth class). This is a mere conjecture by Bekker – and ultimately by Servius Tullius --, but a very plausible one! For we are told, by Dionysius, that Servius made *fifty* enactments on the subject of contracts and crimes, and in another passage of the same author,  we find an analogous case of a law which forbade the  exposure of a child except with the approval of *five* witnesses – one of each class, although usually five first-class citizens did! --. But here a question has been raised as to  what the witnesses did, other than just BE there. The correct answer, I  believe, is that given by Bechmann, who maintains  that the five witnesses approved the transaction as a  whole, and vouched for its being properly and fairly  performed. Huschke, on the other hand, claims that  the function of the five witnesses is to superintend the  weighing of the copper, and that before the introduction of coined money some such public supervision is necessary in order to convert the raw copper  into a lawful medium of exchange. This view  is part of Huschke's theory, that nexum had two  marked peculiarities. A nexum is a legal act performed under public authority, and it was the  recognised mode of measuring out copper money by  weight.   The first part of Huschke's theory may be  accepted without reserve. The second part seems  quite untenable. We have no evidence to show  that nexum was confined to loans of money or of  --  1 Akt. I. 22 ff. 2 jy_ IS -J jj. 15.   * Kauf, I. p. 90. ^ Nex-um, p. 16 ff.  -- copper. Indeed we gather from a passage of Cicerone  that corn is the earliest object of nexum, while Gains states that anything measurable  by weight could be dealt with by nexi solutio. No  inference in favour of Huschke's theory can be  drawn from the phrase “negotium per aes et lihram”,  for the phrase obviously dates from the more recent  times when the ceremony had only a formal significance, and when the aes rauduscidum is merely  struck against the scales. If then we reject the  second part of Huschke's theory, and admit, as ,  we certainly should, that nexum may deal with any  ponderable commodity, it is evident that his whole view as to the function of the witnesses must collapse also. The reason is obviuous: the very *idea* of turning copper from a merchandise into a legal tender is obviously too sophisticated to have ever occurred to the mind of an early  Roman.  As Bechmann rightly remarks, the  original object of the Roman state in *making* or minting coin was  not to create an authorised medium of exchange,  but simply to warrant the weight and fineness of  the medium most generally used. The view of  Huschke is therefore a total anachronism.  There is also another interpretation of nexum  radically different from the one here advocated, and  formerly given by some authorities at Oxford (they tell me) but which  has few if any supporters among modern jurists of the H. L. A. Hart school, as I might call it. This view was founded upon a loosely expressed and usually casual remark of Varrone – the grossest etymologist Rome knew -- in which nexus is defined as --  1 Cio. de Leg. Agr. ii. 30. 83. ^ in. 175. » Xauf, i. p. 87.  * See Sell, Soheurl, Niebuhr, Christiansen, Puohta, quoted in  Danz, BSm. RG. ii. 25.  -- a Roman who gives *himself* into slavery for a debt  which he owes (think indenture by the Irish in New England). The inference drawn from this  remark is that the debtor's body, not the creditor's  money, is the object of the nexvm, and that a debtor  who is selling himself by mancipium as a pledge for the  repayment of a loan is said to make a nexum. Such a theory does not however harmonize with the  facts, or indeed, with Roman dignity! The evidence is entirely opposed to it, for  Varrone’s statement admits of  quite a different implicature! Neither “nexum” nor Tnan-  cipium is ever found practised by a Roman upon  his body! Nor *could* “nexum” have applied to the debtor's body, for the idea of treating a debtor like  a res mmicipi or like a thing quod pundere numero  C07istat, is absurd. Again, if nexm = mancipium, the  conveyance of the debtor's body as a pledge must take effect as soon as the money is lent,  therefore, by thus becoming “nexus,” – not ‘nexum’ – the Roman must have  been in mancipio long before a default could occur,  which is too strange to be believed. Furthermore, being in  mancipio, the Roman must have been capita deminutus, which  Quintilian expressly states that no nexal debtor ever  is! Clearly then, mancipium was under no circumstances a factor in nexum,.   Thus it would seem that the theory which  regards nexum as a loan of raw copper or other goods  measurable by weight, is the one beset with fewest difficulties. Such goods correspond pretty nearly  to what in the later law were called “res fungihiles”. -- 1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52.   2 nexum inire, Liu. vii. 19. 5.   " Paul. Diao. p. 70, s. u. deminutus. * Decl. 311.  --. The borrower was not required to return the very same thing, but an equal quantity of the same kind of thing. And this explains why nexum, the first genuine contract amongst the Romans, should have  received such ample protection. A tool – such as a hammer --, or a beast of  burden – such as an ox -- could be lent with but little risk. Both the hammer and the ox are easily identified. A loan of *corn* -- or, at a later stage, as Cicerone suggests -- or *copper* --  would have been attended with very great risk, had not the law been careful to ensure the publicity of every such transaction. lusiurandum  or sponsio might no doubt have been used for  making loans, but they both lacked the great  advantage of accurate measurement, which nexum  owes to its public character. It is the presence of the five witnesses – one for each of the five social classes -- which raised nexum from a formless loan  into a contract of loan.  This sketch of the original nexum is  all that can be given with certainty. The *details*  of the picture cannot be filled in, unless, as Grice does,  we draw  upon our imagination. We do not know what verbal (or conversational, if two-part)  agreement (if any) passed between the borrower and the  lender. It is fairly certain that payment  of *interest* on the loan might be made a part of the  contract, and not just because of the Jewish influence! We cannot even be quite sure whether the  scale-holder (“libripens”) is an official, or a passer-by, as some have  suggested, or a mere assistant.  Our description of the contract may then be  briefly recapitulated as follows:   The form of the nexum consists of the weighing out and  delivery to the borrower of goods measurable by  weight, in the presence of witnesses -- five in number, since the time of Seruius Tullius, who found out that by census, five were the classes of the Roman people), and whose  attendance ensures the proper performance of the  ceremony. The total ownership of the particular goods  passes to the borrower, who is bound to  return an equal quantity of the same kind of goods. The specific terms of each contract – e. g. “before too long” -- were approximately  fixed by a verbal agreement uttered at the time, at the market place. The sanction consists of the violent measures  which the creditor might choose to take against a  defaulting debtor. Before The XII Tables there seems to have been no limit to the creditor's power  of punishment – “The rope by default,” as Grice puts it. Any violence against the debtor  was approved by custom and justified by the notoriety of the transaction, so that “self-help” – or “help me God,” in Grice’s version -- is  more  easily exercised and probably more severe in the case  of “nexum” than in that of any other agreement.   The release (neooi solutio) is a ceremony preisely similar to that of the nexum itself, the amount  of the loan being weighed and delivered to the lender,  in presence of witnesses – possibly with the addition of the exchange: “Thank you” “You are very welcome”. We have now examined the three methods  by which a binding promise was made in the  earliest period of Roman history. The next  question which confronts us is whether there existed  at that time any *other* method. The forms of  contract, besides these three described – the pactum, the sponsio, and the nexum --, which are  found existing at the later period of The XII Tables, are:  fiducia, lex mancipi, uadimoniv/m, and dotis dictio.  Did any of these have their origin before this time?  “Fiducia” is doubtful. “Lex mancipi” owed its existence to an important provision  -- 1 Gai. III. 174. -- of that code. As to the origin of “vadimonium,”  we cannot fee certain, but judging from a passage  in our ever trusted Gellius we are almost forced to the conclusion  that “uadimonium”  was *also* a creation of The XII  Tables. Specifically, Gellius speaks of " uades et subuades et XXV asses et taliones...omnisque ilia XII Tabularum  antiquitas." We know that (exactly) XXV asses is the  fine imposed by The XII Tables for cutting down  a Roman’s tree. Therefore, it would seem from the  context that uades had also been introduced by that  code. The point cannot be settled, but the  XII Tables were at any rate the first enactments  on the subject of which anything is known. The only contract of which the remote antiquity is  beyond dispute is the so-called “dotis diction”.  Dionysius informs us that, in the earliest times – “I wasn’t there!” --,  a dowry was given with daughters on their marriage, and that, if the father could not afford this expense, his client is bound  to contribute. Hence, it is clear not only that dos  existed from very early times, but that custom even  in remote antiquity had fenced it about with strict  rules. From Ulpian we know that dos could be  bestowed in three ways: by “dotis dictio”, by “dotis promissio”, or, finally, by “dotis datio”. The promissio was a promise by stipulation, and the datio was the transfer by mancipation  or tradition of the property constituting the dowry. These two are then easy to understand, even by the one who was marrying! But this “dotis diction” *is* an obscure subject. It is difficult to know  whence it acquired its binding force as a contract, --   1 xTi. 10. 8. 2 II. 10. 3 Reg. vi. 1. – since, in form, it was *unlike* all other contracts with which we are acquainted. Its antiquity is  evidenced not only by this peculiarity of form, but  also by a passage in the Theodosian Code which  speaks of dotis dictio as conforming with the ancient  law. An illustration occurs in Terence where the  father says, "Dos, Pamphile, est decern talenta.” Pamphilus, the would-be son-in-law, replies,  "Accipio.” But we need not conclude that the transaction is *always* formal, for the Theodosian Code,  in permitting the use of any form, seems rather  to be restating the old law than making a new  enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian and by Gaius is that dotis dictio may be validly  used only by the bride, by her father or cognates on  the father's side, or by a debtor of the bride acting  with her authority. “Dictio” is a significant word, for  Ulpian distinguishes between dictum and promissum. “Dictum,” Ulpian says, is a mere statement. “Promissum” a binding promise. This distinction doubtless applies in the present case, since “dotis dictio” and dotis promissio are clearly different.  The following theories seem to be erroneous. Von Meykow holds that dictio is adopted  as a form of promise instead of sponsio for this family affair of dos, in order not to hurt the feelings of the bride and of her kinsmen by appearing to question their bona fides. That theory would be a plausible  explanation, if dictio could ever have meant a  --  1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. ' 3. 13. 4.  Reg. VI. 2. ^ Epit. ii. 9. 3. « 21 Dig. 1. 19. Diet. d. Rom. Brautg. p. 5 ff.   B. E. 3   --  promise, but from what Ulpian says, this can hardly be admitted. Bechmann again connects dotis dictio with  the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter.  The dos, Bechmann thinks, is promised by a sponsio made  at the betrothal, so that the peculiar form known as  dotis dictio is originally nothing more than the  specification of a dowry already promised. The dotis  dictio would therefore have been at first merely a “pactum adiectam”, made actionable in  later times while still preserving its ancient form.  The objection to this theory is that it lacks evidence. The only passage (this sordid play by Terence) in which  dotis dictio is presented to us with a context goes to  show that this contract is in no way connected  with the act of betrothal. Another explanation is given by Czylharz, that dotis diction is a formal contract. Czyllharz’s view is based on the scholia attached to the  passage of Terence, which say of the bridegroom's  answer that the bridegroom, “ille nisi diodsset ' accipio ' dos non esset."  Czylharz therefore looks upon the contract as an  inverted stipulation. The *offer* of a promise *is* made by the promisor. When *accepted* by the  promisee (via uptake), this offer becomes a contract. Though such a process  is quite in harmony with the notion of a contract,  it would have been a complete anomaly at Rome. We cannot believe that, if acceptance, or uptake, by the  promisee, had been a necessary part of the dotis  dictio, we should not have been so informed by  Gaius, when he has been so careful to impress  --  1 ESm. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. 2 Z. f. B. G. vn. 243.  -- upon us that the dotis dictio could be made “nulla  interrogatione praecedente”. Thus the view of  Czylharz besides being in itself improbable is  almost entirely unsupported by evidence. The scholiast on Terence need not *mean* that  "accipio" is an indispensable part of the transaction, but a “prop.” The would-be son-in-lawy may merely have meant (or implicated) that the bridegroom (his self) at this juncture might decline the proffered  dos if he so chooses – as being too low -- This interpretation of the would-be son-in-law’s implicature is indeed the one borne out  by lulianus and Marcellus, who do give formulae  of dotis dictio *without* any words of acceptance or challenge by the would-be bridgegoom.  A satisfactory solution of the problem seems  to have been found by Danz. Danz looks upon  dos as having been due from the father (or generally male  ascendant) of the bride as an officium, pietatis. Danz quotes passages from Cicerone in  which he speaks of refusing to dower a sister  or a daughter as a most shameful thing. (Cicerone had lost his daughter by this time). The  source of the obligation lies in this relationship  to the *bride* -- not in any binding effect of the dotis  dictio itself. But in order that the obligation might  be actionable its amount had to be fixed. This is just what the dictio accomplishes. It is an  acknowledgment of the debt which custom decrees that the bride's family must pay to the  bridegroom. In this respect the dos is precisely  analogous to the debt of service which a former slave  owes as an officium to  patron, and which he  acknowledges by the “iurata operarum promissio”. The  dos and the operae were both “officia pietatis”, but   -- 1 23 Dig. 3. 44. ^ 23 Dig. 3. 59. ' Rom. BG. 1. 163.   ^ See 23 Dig. 3. 2. ' piaut. Trin. 3. 2. 63 ; Cic. Quint. 31. 98.   .3—2   -- it became customary to specify their nature and  their quantity. In the one case,  this was done by an  oath; in the other, by a simple declaration. In  both cases, the law gives an action to protect an  anomalous forms of agreement. What kind of  action may be brought on a dotis dictio is not  known. Voigt states it to have been an “actio  dictae dotis”, for which he even gives the Austinian performative formula -- but formula and action are alike, alas, purely conjectural.  We can only infer that the dotis dictio was actionable since it constitutes a valid contract. How or  when this comes to pass we cannot tell.   An advantage of Danz' theory is that it explains the capacity  of the *three* classes of persons by whom alone dotis  dictio could be performed. The father (or male  ascendant) of the bride is bound to provide a dos  under penalty of ignominia.  The bride, if sui iuris, is bound to contribute to the support of the husband's household – ‘house-work,’ children feeding, cleaning, education  -- for exactly the same reason. A debtor of the bride is bound to carry out her orders with respect to her assets in his possession. Supposing her whole fortune to have consisted of a debt due to her, it is evident that  a dotis dictio by the debtor is the only way in  which this fortune could be settled as a dos at all.  Thus, the hypothesis that the dos is a debt  morally due from the father of the bride, or from  the bride herself, whenever a marriage takes place,  completely explains the curious limitation with --   1 XII Taf. II. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 3 Cio. Top. -- regard to the parties who could perform dotis  dictio. The nature of the transaction may then be  summarized as follows: its form is an oral declaration on the part of the bride's father (or male cognates), the  bride herself, and a debtor of the bride, that sets forth the nature and amount of the property which he or she meant to bestow as dowry, and spoken  in the presence of the bridegroom. Land as well as moveables could be settled in this manner. No particular formula is necessary. The bridegroom  might, if he liked, express himself satisfied with the  dos so specified. But his acceptance does not seem to have been an essential feature of the proceeding. Most probably, he did not have to speak at all – just run away! Its sanction does not appear, though we may be  sure that there was *some* action to compel performance of the promise. This action, whatever it may  have been, could of course be brought by the bride's husband against the maker of the dotis dictio. In the earliest times, the sanction, is possibly a purely religious one. Now that we have seen the various  ways in which a binding contract could be made in  the earliest period of Roman history, we may consider briefly the general characteristics of that primitive contractual system. The first striking point  is that all every contract hitherto mentioned is *unilateral*. The promisor alone is bound, and he is not entitled, in virtue of the contract, to  any counterperformance on the part of the promisee.  1 Gai. Ep. 3. 9.  A second point is that the *consent* of the parties  is not sufficient to bind them. Over and above that consent, the agreement between them is required to bear the stamp of divine or popular approval. Even in dotis dictio, as we have just seen,  a simple declaration uttered by the promisor is  invested with the force of a contract merely because  the substance of that declaration is a transfer of  property approved and required by public opinion.  We also notice that that the (Griceian) *intention* of the each contracting party *is* expressed. However, the ‘utterance’ employed is not originally of any importance -- except in the one case of sponsion: Spondesne? Spondeo -- provided the  intention is, as Grice notes, contextually clearly conveyed (cf. his remarks on ‘contextual cancellation’). We must therefore  modify the statement so commonly made that the  earliest known Roman contract is couched in a particular  form of words. For how did each of these particular  forms originate and acquire the shape in which  we afterwards find it? By having long been used  to express an agreement which is binding though the type of utterance varies, it gradually obtains a more technical significance. Consequently the formal stage is definitely *not* the earliest stage  of Contract. The most primitive contract of all is not an agreement clothed with a form, but an agreement clothed with the approval of the State – which includes its Religion.  The causes leading to the enactment  of the great Reform Bill known as The XII Tables are chiefly social. The indefinite state of the law of the Roman state is the grievance which calls most loudly  for a remedy. A contract and a conveyance is but  little respected. The powers of the nexal creditor are sorely abused, and legal procedure in general is most uncertain. Yet more than all else the law  of torts and crimes need radical reform. So that, though we possess but few actual fragments of The  XII Tables, we have enough to tell us that very  little space is devoted to reforms in the law of contract. This fact ought not to surprise us, knowing as we do that commerce is still in a  very backward state.   We hear nothing of any provision in The  XII Tables with respect to sponsio, but we know, from Cicero, that “iusiurandum” is recognised and enforced. Dotis dictio is not mentioned. A new form, the lex mancipi,  --  1 Off. HI, 31. 111..  -- was created by *one* provision of this code, though  its creation was not apparently intended by the decemvirs, but was rather the result of some juristic  interpretation (or other). Vadimoniitm, a contract, is either created or  considerably modified by the XII Tables, and constitutes the earliest form of suretyship. As the hard condition of nexal debtors is one  of the evils which leads most directly to the secession  of the plebs and to the consequent enactment of the  new code, we should naturally expect to find this or that law passed for their protection. Accordingly, it is with  nexum that the contractual clauses of the XII Tables  are principally concerned. The first provision as to  the contract of the nexum is embodied in the famous words  which Festus transmits to us: CVM nexym   FACIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNCVPASSIT   ITA ivs ESTO. This was equivalent to saying that  the language used by the party making a nexum  is to be strictly followed in determining what  his rights and liabilities should be. The fact that  such a declaratory law is needed discloses two  features of the earlier nexum. The *act* of weighing, not the words which  accompanied that act, is the essence of the original  transaction. A scale was actually used -- and not symbolically as it was in later days. The *terms* of a nexal loan are liable to be disobeyed; if, for instance,   --  Festus, p. 171, s.u. nuncupata pecunia.    --  the debtor had agreed to pay at the end of one year, it might happen that a harsh creditor would enforce payment at the end of six months. This shows that people are not feared, as witness, to the same extent as is a god who presides  over usiurandum and sponsio. The fact of the  loan is proved beyond question by the witnesses  present,. But there is evidently no sacred virtue in  the utterance which go with the loan, and these are  not therefore binding simply because uttered in the addressee’s hearing. This defect is what the XII  Tables aims at correcting. The Tables thenceforth  place the *utterance* of a nexum on as strong a  footing as the utterance of a sponsio. Conditions as to  the amount of interest payable, the date of maturity  of the loan, the security to be given by the debtor,  are all now inserted in the  nuncupatio.  And still more important is the fact that the sum  or amount of the loan itself could be verbally  announced at the ceremony. If the debtor utters: "I hereby receive, and am bound to repay, XXV asses," this utterance is as binding upon him *as if* the XXV asses had been actually weighed out to him in copper. As long as the corn or copper (money) *is* really  weighed in the scale, nexum continues to be a  natural and material method of loan. But when, by  the introduction of coined money it becomes possible  to count, instead of weighing, a given quantity of copper, nexum tends to become an “artificial” and symbolical operation. The reason is, obviously,  that counting is far more simple than weighing. When a loan of XXV asses is being made.  it became customary to name this sum in the nuncupatio *without* weighing it at all. The scale  and the witness appear, as before. But the scale is not used. The borrower, instead of taking XXV asses out of the scale-pan, simply strikes the scale pan with a  piece of copper, so as to conform with the outward  semblance of the transaction. Though the weighing  had been dispensed with, yet, by this rule of The  XII Tables, he is as much bound in the sum of XXV asses as though they had actually been weighed  out to him. Hence the important effect of the  clause. Given a proper coinage  that clause transformed the loan of money into  a datio imaginana and the release of such a loan  into an imaginana solutio. The outward form of nexum remains the same, but the actual process is greatly simplified. This change is doubtless  not intended when the rule is made by the  Decemvirs. It is the result of a more or less  unconscious and probably gradual development.  The genuine weighing and the fictitious weighing  doubtless exist side by side. But it seems fairly  certain that the introduction of coined money is another of the Decemviral reforms. If so, we may  assume that the nexum changed from a ceremony  performed with a scale into one performed with copper and scales -- “negotium per aes et libram” -- not long after the Decemviral legislation. Another important provision relating to  nexum modified the harsh remedy hitherto applied  by the creditor against the delinquent debtor.  -- 1 Mommsen, Som. Munzw. p. 175.  -- The words of the XII Tables have been fortunately preserved by Gellius', and run as follows. AERIS CONFESSI REBVSQVE IVRE IVDICATIS XXX DIES IVSTI SVNTO. POST DEINDE MANVS INIEGTIO ESTO.  IN IVS DVCITO. NI IVDICATVM FACIT AVT QVIS ENDO  EO IN IVRE VINDICIT SECVM DVCITO VINCITO AVT  NERVO AVT COMPEDIBVS XV PONDO NE MINORE AVT  SI VOLET MAIORE VINCITO. SI VOLET SVO VIVITO.  NI SVO VIVIT QVI EVM VINCTVM HABEBIT LIBRAS  FARRIS ENDO DIES DATO. SI VOLET PLVS DATO. There are two knotty points in this passage cited by Gellius. What is the exact distinction between an acknowledged money debt – “aes confessum” -- and a judgment obtained by regular process of Law – “res iure  iudicatae”? To what class of delinquents did  the punishment apply?  It can hardly be doubted that “aes confessum”  includes a debt contracted by a nexum, as  well as any other kind of debt the existence of which is not denied by the debtor. E. g.: a debt incurred by formless agreement or by sponsio may be an instance of “aes confessum”, provided  the debtor admitted his liability. But in a nexum  this liability had already been admitted solemnly  and in front of a witness. To *deny* the existence of a  nexal debt is impossible, even for Descartes! Therefore, “aes confessum” seems to be a term quite applicable to a  debt contracted by a nexum. The words “aeris nexi” are probably not used in the context because “aeris confessi” has a wider meaning, and this law --  1 XX. 1. 43. ^ Ihering, G. d. R. B. i. 156, note.    -- is apparently intended to cover much more than  the one case of nexal indebtedness.  The other class of debts here described as “res iure iudicatae” are no doubt judgment-debts. Where damages had been judicially awarded to one of the parties to an action, some means have to be provided of compelling payment from the other party. The executive in those times was too weak to enforce its decisions, and self-help, as we have seen, is  the usual resource of an aggrieved Roman. The  only way in which the law could assist judgment  creditors is by declaring what extent of retaliation they might lawfully take. And this brings us  to the second question. In what cases is the “manus iniectio” to be exercised ? Voigt remarks that The XII Tables never mention “manus iniectio”  as being a means of punishing default in a case of  nexum. Voigt then proceeds to state that the remedy  for nexum was an “actio pecuniae nuncupatae”.  Not  only is this statement purely fanciful, as there is  no mention of “actio pecimiae nuncupatae” in any of  our authorities, but Voigt is surely ignored the  evidence before him. Admitting, as we must, that “nexum” is included among the cases named at the  beginning of the clause, we can scarcely  avoid the further conclusion long ago reached by  Huschke that the rest of the clause, with its XXX days of grace, manus iniectio, ductio in ius, and all  the consequences of disregarding the iudicatum, is a  description of the punishment to which a breach of  --1 XII Taf, I. 169.-- nexum might lead, as well as of that annexed to the  other kinds of “aes confessum” and to “res iure iudicatae.” The whole clause is one continuous statement, and to hold that the latter part of it, beginning  at Ni IVDICATVM FACIT, provides a penalty solely  for the case of judgment-debts, seems a very strained and unnatural interpretation. Why explain “iudicatum” as referring only to judgment  indebtedness ? Just before it, in the text, we find  the direction “IN ivs DVCITO”, so that a nexal debtor  after “manus iniectio” evidently had to be brought  into court. The precaution is probably a new  restraint upon the violence of creditors, in order  that the justice of their claims and the propriety of  “manus iniectio” might be judicially determined. But, if a judge had to pronounce upon the validity of  such proceedings, surely his decree might be described by the term “iudicatum”, as found in the  above passage. It involves a vicious circle to say that the  nature of “aes confessum” precludes the possibility of  a judicial decision, and that therefore “iudicatum”  can only refer to a res “iure iudicata”, that is, a  judgment-debt. For in spite of this alleged distinction, we find here that debtors of” aes confessum” and judgment-debtors were treated in exactly the  same way! Each of them is at first seized by his  creditor and brought into court. Now why should  this have been necessary in the case of a “iudicatus”  more than in that of a “nexus”? For a judgment debt seems to need judicial recognition just as  little as a nexal debt. And yet we find that “ductio  in ius” is prescribed in both cases. The only non-circular way of explaining the difficulty, is to take “iudicatum” not as applying to a  judgment-debt but, as being of the essence of  a judicial decree. Let the creditor, the Tables say, bring the debtor into court. Unless the debtor  obeys the decree of the court, or finds meanwhile  a champion of his cause in the court, let the  creditor lead him off into private custody, and  fetter him. Thus the “ductio in ius”, the  “iudicatum”, the “domum ductio”, and the directions as  to the right kind of fetters and the proper quantity  of food, must all have applied equally to “aes confessum,” including “nexum,” and to “res iure iudicatae”.  This view is confirmed by the passage in which  Livio describes the abolition of the severe penalties of a nexum,. The bill by which this is done ordained, so Livio tells us, " nequis, nisi qui noxam  meruisset, donee poenam lueret, in convpedibus aut in  neruo teneretur … ita nexi soluti, cautumque in posteru/m ne necterentur." This law, the “Lex Poetilia”,  is evidently passed for the relief of “nexi”, and  relief is given by abolishing the use of “compedes et neruum”. Now as this is the very description of  fetters given by the XII Tables in our text, it  seems certain that the language of the “Lex Poetilia”  referred to this clause of the Decemviral Code.  Hence it follows that the punishment provided by  this code is nexum, which is the view already  deduced from the words of the XII Tables themselves. The contrary interpretation, which is there-  --  1 PestuB, p. 376, s.u. uindex. ^ viii. 28.   --  fore probably erroneous, has strong supporters in  Muirhead and Voigt. But even though a “iudicatum” was thus necessary  in order to permit the nexal creditor to lead off his  debtor into custody, we may agree with Muirhead that  the preliminary “manus iniectio” is within the power  of the nexal creditor without any judicial proceedings. The nexum being a public transaction, a debt  thereby contracted is so notorious as to justify  summary procedure. Before the XII Tables, when  self-help is subject to no regulations, this summary procedure could be  carried to all lengths in the way of severity and  cruelty. But, when the XII Tables interpo  the “ductio in ius” for the protection of nexal debtors,  no other precaution against injustice was needful,  and a preliminary trial before the “manus iniectio”  would have been so superfluous that we cannot  believe it to have ever been required.   The elaborate provisions for the punishment of  debtors do not end with the text which has come  down to us and which has been quoted above.  The substance, though not the actual wording, of  the remainder of the law has been  preserved by Gellius. As far as our text goes,  the proceedings consist of “manus iniectio,” the  arrest or seizure of the debtor by the creditor;  “ductio in ius”, the bringing of the debtor into  court, that is, before the praetor or consid ; the “iudicatum,” a decree of the praetor recognising the creditor's claim as just and the proceedings as --   ' B. L. p. 158. ^ XII Taf. i. 629. ' xx. 1. 45-52.  -- properly taken. At this stage a vindex may step  in on the debtor's behalf. What was the exact  nature of his intervention we cannot know, but from  Festus's definition, he seems to have been a friend of  the debtor, who denies the justice of his arrest and  stands up in his defence. By the XII Tables, this vindex has  to be “of the same [social] class” as the debtor whom he  defendes and if his assertions prove to be false he is liable to a heavy fine. If, on the other hand, his defence is satisfactory to the Court, further  proceedings are doubtless stayed. But if no satisfaction is given either by the vindex or by the  debtor, the creditor is entitled to lead  home his debtor in bondage -- though not in slavery -- and to bind him with cords or with shackles of not  less than 15 lbs. weight. Meanwhile, the law assumes that the debtor would prefer to live upon his  own resources. This shows that a nexal debtor is not always a bankrupt, and that it must often have  been the *will*, if not the power, to pay which is wanting in his case. As there exist in those days  no means of attaching a man's property, the only  alternative was to attach his body! If, however, the debtor is really a ruined man and can not  afford to support himself, the law bade the creditor to feed him on the barest diet, by giving him a pound of corn a day -- or more at the creditor's option. Here our textual information leaves off and we have to depend on Gellius' account. Gellius says that this stage of domum duetto and uinctio lasts LX days, and that during that period a com-   -- Gell. XVI. 10. 5. 2 Festus, s. u. uindex.   -- promise might be arranged which would stay further proceedings. Meanwhile on three successive “nundinae”, or market-days, the debtor had to be  brought into the comitiuni before the praetor, and  there the amount of his debt is publicly proclaimed. This is a second precaution intended to  protect the debtor by giving thorough publicity to the whole affair. At last, on the third market-day, and at the expiration of the LX days, the full  measure of punishment was meted out to the unfortunate delinquent. He was addictus by the praetor  to his creditor, and thus passed, from temporary detention, into permanent slavery.  The extreme penalty is said by Gellius to have  been death, and the words  in which the former is enacted are given by him  as follows: Tertiis nvndinis partis secanto. Si  PLVS MINVSVE SECVERVNT SE FRAVDE ESTO. The  meaning of Gellius’s utterance has been much disputed. Attempts have been made to soften its explicature. “On the third market-day, let the creditors cut up and divide the debtor's body. If any debtor should cut  more -- or less -- than his proper share, let the debtor not  suffer on that account." That this is how the  ancients understood the passage, we know from the  testimony of Gellius, Quintilian, and Tertullian. But Gellius and Dio Cassius, though they had no doubts as to the meaning of the law, both say that  --  Gell. XX. 1. 51. ^ Inst. or. iii. 6. 64. ^ Apol. 4.   B. E. 4  -- this barbarous practice of cutting a debtor in pieces  was *never* carried out. The law is thus what Grice calls “a dead letter”. Some commentators, whose views are  ably summed up by Muirhead, make the most  of this admission, and hold that the interpretation  of the utterance-part, “partis secanto,” should be entirely different.  They regard the division of the debtor's body by the creditor as too shocking a practice  to have existed at Rome. Muirhead assumes “secare” to refer -- as in a later phrase, “bonorwm section” -- to the division (sectio) – and sale presumably -- of the debtor's property, not his body.  In the event of his property being insufficient  to cover the debt, the debtor is, then -- as  Gellius informs us -- sold into slavery "beyond the Tiber” – for some reason (what the eyes no longer sees the heart no longer grieves for). The objections to Muirhead’s theory have  been well pointed out by Niebuhr. Not only is it  opposed to all the ancient authorities, who knew at  least the traditional meaning of the XII Tables as  handed down to them through many generations,  but it also conflicts with a well recognised principle  of early Law. That principle was that the goods of  a debtor are not, categorially and categorically, responsible for his debts. His *body* is to be made to suffer. Hs property cannot be touched. It is by  no means unusual for a nexal debtor to support  himself while in bondage. This can only be explained on the supposition that neither his property  nor his earnings are attachable by the creditor.  It is this exemption of property which accounts for -- > Gell.; Dio Cass.; R. Law, p. 208—9. ^ B. G. i. 630.  -- the severity of the nexal penalties. Now, a section (division), and sale, of the debtor's goods would have been  quite inconsistent with the whole system of personal execution so plainly set before us in the rest of the  law. The killing of the debtor was but a  fitting climax to his cruel fate. The inhumanity of  the proceeding is not likely to have been perceived by  men who tolerated such barbarities as the lex talionis  and the killing of a son by his paterfamilias. When  our authorities express astonishment  at the cruelty of the law, we must remember that  they also lived in a gentler age, in which the powers  even of the paterfamilias are curtailed, and  when they confess that they never knew of an  instance in which the law was executed. We  may discount their testimony by recollecting that  the nexal penalties of the XII Tables were abolished  centuries before they were even born! Comparative jurisprudence furnishes another  argument in favour of accepting the EXPLICATURE of  the utterance-part, "partis secanto." Kohler has collected  from different quarters various instances of customs  which closely correspond with this harsh treatment of the Roman debtor. Unless therefore we disregard analogy, probability, and the whole of the classical evidence, we must clearly take utterer of the XII Tables on his EXPLICATURE, and understand that the creditor could  choose between selling his debtor into slavery  "beyond the Tiber," OR putting him to death.  In the latter case, if there were more than one  --  ' Shakesp. v. dem Forum der Jurisp.   4—2  -- creditor, each might cut up the debtor’s body and each creditor carry off a piece.  There is a third clause of the XII Tables  in which nexum. is mentioned, but it does not alter  the form of the contract. As far as we can make  out, it simply declares that certain agents, mysteriously described as, “forcti et sanates,” shall have  an equal right to the advantages of nexum. There is a clause in the XII Tables intended to secure what Grice calls truthful testimony, that most  essential safeguard to Tieocum: Qui SE SIEEIT tes-   TARIER LIBRIPENSVE PVERIT NI TESTIMONIVM FATI-  ATVR IMPROBVS INTESTABILISQVE ESTO. That is,  whoever had been “testis” or “libripens” at the performance of a “nexum” or “mancipiwm” is was to give  his testimony as to the fact of the transaction, or as to its terms, under penalty of permanent  disqualification. This passage goes to show what  we also gather from other authorities, that the  libripens was a mere witness and not -- as some  have wrongly supposed -- a public official. The phrase "qui  libripens fuerit" IMPLICATES that any citizen might  fill the position. Since we find that the “libripens” is treated like any other witness, it seems clear  that he could not have been a public personage. We are now able to understand the meaning of  Varrone’s remark. "Liber qui suas operas in servitutem  pro pecwnia quam debet dat dum solueret nexus  uocatur." This merely means that a man who contracts a nexum, if unable to repay the  --  ^ See Pestus s. u. sanates, Bruns Font. p. 364.  2 Gai. II. 107 ; Ulp. Eeg. xx. 7.  -- loan and therefore subject to an “addiction”, was  obliged to serve like a slave, and retained the  epithet of “nexus” (cf. Irish indenture servitude in New England) till the debt was paid (cf. Vanderbilt). On the whole, then, the legislation of the XII  Tables produces intereting results. By increasing the importance of the *verbal* -- explicatural --  part of the ceremony, The XII Tables increase the flexibility of  the contract, and eventually change it from a real  into a merely symbolical transaction. The culminating  point of the change is reached when the money  constituting the loan is not even weighed out, but  merely named in the nuncupatio, with the borrower languidly striking the scale-pan with a piece of copper. Another interesting result is that, by fixing certain limits to the violence of  the creditor, the XII Tables soften the hardships endured by  the nexal debtor. Though the extreme penalty of  death is allowed,  this may not be  inflicted till the debtor had had many opportunities  and ample time to clear himself. The formula of the nexum having now acquired  great importance, its wording is soon  reduced to a definite shape running somewhat as  follows : " Quod ego tibi M lihras hoc aere aeneaque  libra dedi, eas tu 7nihi ... post annum ... cum semissario  foenore. . .dare damnas esto." -- This is the formula  adopted by Huschke and modified by Rudorff.  The utterance part, "damnas esto,” appear to be wrongly  rejected by Voigt, who disregards the analogy of  the solutio though that seems our safest guide.   The formula of said solutio is given by Gaius as  follows, though Karlowa's reading differs consider-  1 Nexum, p. 49, etc. -- ably from that of Huschke. Quod ego tihi tot  mill'ihus condemmatus sum, me eo nomine a te solvo liberoque hoc aere aeneaque libra: hanc tibi libram  primam postremximque expendo secunduTn legem publicam. The XII Tables did not, as far as we  know, contain any clauses affecting “sponsio” or “dotis dictio.” The existence of those forms at such an  early period has to be inferred from other sources,  and there is reason to assert  their great antiquity, which the silence of the  XII Tables cannot disprove. “Iusiurandum” is known  to have been approved by the XII Tables, but to  what extent we cannot tell. We may therefore  at once proceed to examine one of the most important innovations of the decemviral Code, viz.,  the contract which despite its ambiguous name is  known as the “lex mancipi.” The “lex mancipi,” as the  name indicates, is a covenant annexed to the  transaction known as mandpiMm (later as mMndpatio). Let us see first what “mancipium” is.  Ulpian says that it is the mode of transferring  property in “res mancipi”. Gaius describes its use  shortly as a fictitious sale, "imaginaria venditio,"  and states that it is only performed between  Roman citizens, and applied only to “res mancipi.” Gaius describes the ceremony. The parties meet  in the presence of five witnesses and of a Roman  (called “libripens”), who holds a pair of scales. The   -- 1 Cic. Off. III. 31 and see above, p. 39. ^ Beg. xix. 3.   8 I. 113.> I. 119-20.    -- *object* of the transfer Gaius supposes to be a slave. The alienor remains passive, but the alienee,  grasping the slave, solemnly declares aloud that  he owns the slave by right of purchase. The alienee then strikes  the scales with a piece of copper, and hands the  piece to the alienor as a symbol of the price paid.  Such is our meagre evidence as to the nature  of mancipium. On this slender foundation of fact  a vast amount of controversial theory has been  heaped up. One certainty alone can be deduced  from the evidence, that mancipium was not originally a general mode of conveyance, as Gaius and  Ulpian found it in their day. It beguins by being a *genuine* sale for cash, in which the price  paid by the alienee is weighed in the scales and  handed over to the alienor. The muncupatio, or  declaration made by the alienee, is merely explanatory of his right of ownership. The *grasping* of  the object by the alienee – never mind acceptance of the  price by the alienor – is no doubt originally the  essential element in the transfer. The utterance by the alienee probably had at first no more binding  effect than the utterance of the borrower in a nexum. We  may be sure that, in such a state of the law, disputes  would often arise as to the terms of the sale. And  it was probably to *prevent* such disputes that The  XII Tables made their famous rule: CVM NExyM   FAOIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNGVPASSIT ITA   IVS ESTO. The extraordinary emphasis (“not nuncu-  passit but lingua mmcupassit”) which is here laid upon the utterance of the ceremony is very striking.  Bechmann rightly argues that it would be wrong to take this rule as referring only to the leges mandpi,  but it seems that it is to the language as  ' distinct from the acts used in the ceremony that  the XII Tables meant to give force and validity.  The legal results which followed from seizing the  object of sale in the presence of witnesses, and  from weighing out the price to the seller, had  long since been thoroughly well recognised. What  The XII Tables now introduced was the recognition of the utterance which accompanied  this outward act. We can hardly accept the implicature which Bechmann assigns to the utterance.  Bechmann notes the contrast between words and acts which  is implied in the phrase “lingua nuncupassit”, but he  thinks that the object of the rule was to reconcile  the language of the transaction with its real nature.  Bechmann’s view is based on the assumption that even  before the XII Tables mancipium had changed from  a genuine into a fictitious sale. In other words, Bechmann assumes that, while the alienee professes to *buy*  the object with money weighed in the scales, he  really weighs no money, but hands to the  alienor a piece of copper, "quasi pretii loco." In  fact the “imaginaria uenditio” of classical times is, according to Bechmann, already in vogue. The  purpose of the XII Tables is therefore to confirm  this change, by declaring that the words, and not the  acts of the parties, should henceforth have legal  effect. It was as if this law said. Pay no attention  to the acts of the alienee, but listen to grasp his utterance. He is merely delivering a piece of copper -- 1 Kauf  --  but do not imagine that this is the whole price due.  In his declaration, the alienee states that the price  is such and such. Let that be considered the real  price of the object. Let also the outward ceremony be  regarded as a mere fiction. All this appears to be a very far-fetched interpretation of “lingua nuTwupassit”,  and the assumption on which Bechmann has based  it seems unwarranted, for more than one reason. We do not know that “mancipium” has  already turned into an “imaginaria uenditio”. There is not one shred of evidence to prove that such a  change had occurred before the XII Tables. So far  indeed from preceding the XII Tables, the change  would seem to have been directly caused by them.  Until coin was introduced, the weighing of the  purchase-money was clearly necessary. If, as there  is good reason to believe, coinage is finstituted  by the Decemvirs, the actual weighing must have  continued till their time. If, on the other hand, we  suppose that coined money is a much older  institution (Cornelius Nepos de uir. ill. 7. 8. attributes its invention to Servius Tullius), so that the  actual weighing had long been dispensed with, mancipium may still *not* have been an “imaginaria  uenditio”, because we can imagine no way in which a sale on *credit* could have been practised before the XII  Tables. How could a vendor have permitted his property to be conveyed to a purchaser for a nominal  and fictitious price, when the mancupatio was as yet devoid of legal force ? After the uti lingua nuncupassit of the XII Tables, the nuncupatio doubtless  specifies the exact amount of the purchase-money. This the alienor might lawfully claim. Moreover, before the Decemviral reforms, mancipium transfers full ownership to the purchaser,  and the seller might have clamoured in vain for his  money, unless he had previously taken security by  means of vxidvmoniwm or sponsio. For since a well  known provision of the XII Tables was that no  property should pass in things sold till the purchase-money was either paid or secured, we are bound to infer that, before this, the very reverse was the case. Property DID pass even when the price had  not been paid. Such having been the early law,  how can we hold, as Bechmann does, that the cash  payment of the purchase-money was frequently not required, though the forms of weighing etc. were  carried out in the original manner? He urges that  credit, not cash, must often have been employed, because we cannot reasonably suppose that cash  payment was possible in every case. But the force of his argument is weakened by the fact that mancipation is only practised to a limited extent. Tradition is the most ordinary mode of transfer employed in every-day life. And in a solemn affair  such as mancipium, where five witnesses and a scale-holder had to be summoned before anything could be done, it cannot have been a great hardship for the purchaser to be obliged to bring his purchase-money and weigh it on the spot. Instead of credit purchases having been usual before the XII Tables, --  1 2 Inst. 1. 41. , 2 j[^uf, I. p. 160. s ib. p. 1S8.  --   it seems likely that the XII Tables virtually introduced them. For, by enacting that NO property should pass until the price is paid or secured to the vendor, the Decemvirs make it possible for the  conveyance and the payment of the price to be  separately performed. Mancipium is thus made to  resemble in one respect a modern deed. The vendor who has executed a deed, before receiving the  purchase-money, has a vendor's lien upon the property for the amount of the price still owing to him. Similarly, the “mancipio dans” who had not  received the full price, retained his ownership of the  property until that full price is paid to him, or  security given for its payment.   We may therefore reject Bechmann's idea that  the utterance-part “lingua nuncupassit” refers principally  to the fixing of price in the muncupatio. That utterance-part simply gives legal force to the solemn utterance made in the course of mancipium. On the  one hand, the utterance-part binds the seller to abide by the  price named, and to deliver the object of sale in the  condition specified by the buyer. On the other  hand, the utterance-part compels the buyer to pay the full  price stated in the muncupatio, and to carry out all  such terms of the sale as are therein expressed.  In short, every “lex mancipi” embodied in the muncupatio becomes henceforth a binding contract.   It is natural to inquire next what kind of   agreement might constitute a “lex mancipi”. The muncupatio placed by Gaius in the mouth of the   purchaser runs thus: " Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emtus esto hoc  aere aeneaqiie libra.To this might no doubt be  annexed various qualifications, and these were the leges in question. Voigt indeed considers that  these leges might contain every conceivable provision. But Bechmann seems to come nearer to the  truth in stating that no provision conflicting with  the original conception of mancipium as a sale for  cash could be inserted in the muncupatio. For  instance, Papinian states that no suspensive condition could be introduced into the formula of  mancipiwm. The reason of this obviously is that  suspensive conditions are inconsistent with the  notion of a cash sale. The purchaser could not  take the object as his own and then qualify this  proceeding by a condition rendering the ownership  doubtful, A resolutive condition is also out of the  question, for when the mancipium is transferred  the ownership and the price is paid, it would have  been absurd to say that the occurrence of some  future event would rescind the sale. The transfer is in theory instantaneous. No future event may affect it.   The following then are a few cases in which the  “lex mancipi” could or could not be properly used:  The creation of an usufruct by reservation  could be thus made', and the formula is given to us  by Paulus : " Emtus mihi esto pretio dedvxito usu-  frtijctu*."   Property could thereby be warranted free  --  1 XII Taf. II. 469. ^ y^t. Frag. 329.   3 Vat. Frag. 47. * Vat. Frag. -- from all servitudes by the addition to the nuncupatio  of the words "uti optimus matvimiisque sit^." The  means by which the vendor is punished if the  property fails to reach this standard of excellence  are worth examining, though! The contents and description of landed  property might be inserted in the nuncupatio, and if  they were so inserted the vendor is bound to  furnish as much as was agreed upon. Failing this,  the deceived purchaser, so Paolo Diacono tells us, could  bring against the vendor an actio de modo agri,  which entailed damages in duplum.  The accessories of the thing sold, destined  to be passed by the same conveyance, are also  doubtless be mentioned.  We might naturally have supposed that  the quality of this or that slave or of this or that specimen of cattle could have been  described just as well as the content of an estate.  Cicero says : "Cum ex XII Tabulis satis erat ea  praestari quue essent lingua nuncupata" -- as though  descriptions of all kinds might be given in the  nuncupatio. Nevertheless Bechmann has shown  that such is not the case, inasmuch as we find no  traces of any action grounded upon a false description  of quality. The only actions which we find to  protect mancipium are the actio auctoritatis and the  actio de modo agri. There is no authority for  supposing, as Voigt does, that the actio de modo  agri is not a technical but a loose term used by  Paolo Diacono. According to Voigt, there was an action  --  1 18 Dig. 1. 59. ^ Sent. i. 19. 1. ^ Off. iii. 16. 65.   « Eauf, I. p. 249. ^ XII Taf.  (the name of which has perished) to enforce all the  terms of a nuncupatio of whatever kind. The so-called actio de modo agri would then have been only  a variety of this general action. This theory is  inadmissible. In making his solemn list of  the actiones in dztpZwm ^Paolo Diacono would hardly have  used the clumsy phrase “actio de modo agri”, if there  had been a comprehensive term including that  very thing. Consequently, the general *description* of a specific slave or a specimen of cattle in the nuncwpatio does not seem to have  been in practice allowed. The greater protection  thus afforded to a purchaser of land than to one  of other res mancipi may probably be explained by  the fact that land is not, and could not, be conveyed inter praesentes, whereas a slave or an ox could  be brought to the scene of the mancipiwrn and their  purchaser sees exactly what is was buying. Provisions as to credit and payment  by instalment might also be embodied as leges in  the nwncupatio. This has been denied by Bechmann,  Keller, and Ihering, but their reasons seem far from  convincing. We may indeed fully admit their view  for the period prior to the XII Tables, since there  was then no coinage, and mancipium was an absolute  conveyance of ownership. But once coinage is introduced, when mancipium is capable of  transferring dominium only after payment of the  price, and when the oral part of mancipium receives legal validity from the XII Tables, the  whole situation changes.   1 Sent. I. 19. 1. 2 j^auf, i. p. 42. 3 Imt. 33.   •> Geist d. R. R., ii. 530.   -- If it be said that credit is inconsistent with the  notion of mancipium as an unconditional cash transac-tion, we may reply that this exceptional lex is  clearly authorised by the XII Tables, since its use is  implied in the legislative change above mentioned.  If it be urged that no action can be found to enforce  any such lex, the obvious answer is that no action is needed, inasmuch as the ownership does not vest  in the vendee till the vendor's claims were satisfied. Therefore, if the vendee never pays at all, the  vendor's simple remedy is to recover his property  by a “rei uindicatio”. Nor is there much force in the  argument that clauses providing for credit would  have been out of place in the nuncupatio because  inconsistent with the formula, “Hanc rem meam esse  aio, mihique emta esto." On the one hand it is  probably a mistake to suppose that this fixed form is *always* used. The expression, “uti lingua  nuncupassit,” seems to implicate that the oral part  of mancipium and nexum is to be framed so as  best to express the intentions of the parties. The  same conclusion may be drawn from the comparison  of the formulae of mancipatio given in Gaius. On  the other hand, admitting that " hanc rem meam esse  aio, etc." is a necessary part of the nuncupatio, it  must have been used in mancipations made on  credit, which by the XII Tables could not convey  immediate ownership, and the existence of which in  classical times no one denies. We are forced then  to conclude either that "hanc rem meam esse aio"  is not the phrase used at a sale on credit, or else --  1 2 Inst. 1. 41 and see p. 58. '' i. 119 and ii. 104.   -- that it becomes so far a stereotyped form of words  that it could be used NOT only as conveying its EXPLICATURE,  but also as applying to credit transactions which the  Decemviral Code so clearly contemplated. It is  indeed inconceivable that if the price is, as every  one admits, specified in the mmcupatio, the terms of  payment should not have been specified also.   It is worth while to notice how the legal  conception of mancipium is indirectly altered by  the XII Tables. That very important clause which  prevented the transfer of ownership in things sold,  until a full equivalent is furnished by the vendee,  had the effect of separating the two elements of  which mancipimn consisted. Delivery of the wares  and receipt of the price are at first simultaneous. Later, they could be effected singly. Thus  mancipium becomes a mere conveyance, and after a  while, as is natural, the notion of sale almost  completely disappears, so that mancipium came to  be what it was in Gaius's system, the universal mode  of alienating “res mancipi”.   The “lex mancipi”, as we have now considered it,  is an integral part of the formula of viancipium  which the vendee or alienee solemnly uttered.  Gaius and Ulpian give us no hint that the vendor or  alienor plays any part beyond receiving the price  from the other party. But is this really so?  Could the vendee have known how to word his  formula if the vendor remains altogether silent ? We have therefore to enquire what share the vendor took in framing the  --  1 2 Inst. 1. 41.     -- vendor's dicta. 65   leges mancipi, and how the lex mancipi was  enforced against him. The part played by the vendor is denoted  in many passages of the Digest by the word “dicere”. In others, the word “praedicere,” or “commemorare” expresses the same idea, and we find that the  vendor sometimes made a written and sealed declaration. The object of such dicta was to describe  the property about to be sold and they necessarily  preceded the mancipium, or actual conveyance. They are thus no part of the mancipatory ceremonial and are quite distinct from the nuncupatio uttered by  the vendee, which explains their not being mentioned  by Gaius in his account of mancipatio. It is to such  dicta that Cicerone doubtless alludes', when he says  that by the XII Tables the vendor is bound to  furnish only "quae essent lingua nimcupata" but  that in course of time " a iureconsultis etiam reticentiae poena est constituta." The reticentia here  mentioned was evidently not that of the vendee,  but was a concealment by the vendor of some defect in the object which he wished to sell, and hence this passage is useful as showing the contrast  between nuncupatio and dictum. The former might  repeat the statements contained in the latter, thus  turning them into true leges mancipi, and this explains the fact that “lex mancipi” (or, in the Digest, “lex uenditionis”), is sometimes used in the derived  1 e.g. 21 Big. 1. 33, and 18 Dig. Dig. 1. 21. fr. 1. » 19 Dig. 1. 41. * 19 Dig. 1. 13. fr. 6.  5 19 Dig. 1. 6. fr. 4. « i. 119.   = Off. III. 16. 8 19 Dig. 1. 17. fr. 6.   B. E. 5,   -- interpretation of the vendor's dictum, as well as with the  primary meaning or interpretation – or explicature -- of the vendee's nwncupatio. The  leges embodied in the nuncupatio were thus binding  on the vendor, whereas his dictum is at first of no  legal importance. But in course of time the dicta come also to be regulated, and though their terms are not formal and are never required to be  identical with those of the nwncupatio, yet it is essential that the vendor, in making them, should  not *conceal* any serious defects in the property. The  dictum itself produced no obligation. That could only  be created by incorporating the dictum, into the nuncupatio. The only function of dictum seems to have  been to exempt the vendor from responsibility and  from all suspicion of fraud. This is well illustrated  by a case to which Cicero' refers, where Gratidianus  the vendor “fails” to mention, " nominatim dicere  in lege mancipi " (here used in the secondary interpretation),  some defect in a house which he was selling. Cicero remarks that, in his opinion, Gratidianus is bound to make up to the vendee any loss occasioned  by his silence. Bechmann questions whether the  action brought against Gratidianus was the “ocii'o  eniti or the actio auotoritatis. But from the way in  which Cicero speaks, it seems almost certain that he had been trying to bring a new breach of bona fides  under the operation of the actio emti, and had not been  pleading in a case of actio auctoritatis, which would  scarcely have been open to such freedom of interpretation. We cannot therefore agree with Bechmann that dicta not embodied in the nv/ncupatio  -- 1 Or. 1. 89. 178. 2 Kauf, i. p. 257.   -- could be treated as nuncupata and made the ground  for an actio auctoritatis, though we know that in  later times they may be enforced by the actio emti.  The distinction between the formal nuncupata and  the informal dicta is never lost sight of, so far as  we can discover from any of our authorities, nor is  dictum ever said to have been actionable until long  after the actio emti is introduced. The matters  contained in the dicta of the vendor were descriptions of fixtures or of property passing with an  estate', (of servitudes to which an estate was  subject, or of servitudes enjoyed by the estate. It  is noticeable that these are all mere statements of  fact and that they exactly agree with the definition  given by Ulpian, who expressly excludes from dictum  the idea of a binding promise. Thus the distinction  between nuncujpatio and dictio may be contrasted. Nwmupatio belonged only to mancipium,, whereas  dictio might appear in sales of res nee mancipi as well  as in mancipatory sales. Nuncupatio is a solemn and binding formula;  dictio was formless and, until the introduction of the  actio emti, not binding.   Nuncupatio does not touch  upon the quality of the thing sold, whereas dictio  might give, and eventually is bound to give, full  information on this point.   We must notice in conclusion what Bechmann  --  1 19 Big. 1. 26. = 21 Big. Cio. Or. I. 39. 179. * 21 Big. 1. 19.   « 19 Big. -- has pointed out that lex, besides meaning a condition embodied in a sale or mancipation, signifies  also a general statement of the terms of a sale or  hire. This sense occurs in Varrone, Vitruvio, Cicerone, &c., and should be borne in mind, in order to avoid  confusion and to understand such passages correctly. The methods by which the true leges nuneitpatae could be enforced are two. Actio de modo agri. Of this we only know  that it aims at recovering double damages from the  vendor who inserts in the nuncupatio a false statement as to the acreage of the land conveyed; Actio auctoritatis (so called by modern civilians). This was an action to enforce auctoritas, an  obligation created by the XII Tables, whereby the  vendor who had executed a mancipatory conveyance  is bound to support the vendee against all persons  evicting him or claiming a paramount title. “Auctor”  apparently means one who supplies the want of legal  power in another, and thereby assists him to maintain  his rights. It is so used in “tutela”, of the guardian  who gives auctoritas to the legal acts of his ward.  In the present case, “auctor” means one who makes  good another man's claim of title by defending it. This explains why the obligation of auctoritas  varied in duration according to the nature of the  thing sold. Thus, if the thing was a moveable (e.g.  an ox, or a slave) the auctoritas of the vendor lasted I year, since the usucapio of the vendee made it un- --  1 Eauf, I. p. 265. 2 £. ^ vi. 74. » i. 1. 10.   « Part. or. 31. 107. ^ Leuel, Z. d. Sav. Stift. E. A. in. 190.   s Lenel, Ed. perp. p. 424. ' Cic. Gaec. 19. 54.    necessary after that time. But if the thing sold was  land, usucapion may not, by the XII Tables, take  place in less than II years, and the avctoritas is prolonged accordingly. The penalty for an unsuccessful assertion of auctoritas was a sum equal  to twice the price paid. This shows that at the  date of the XII Tables, as we have seen, mancipium is still a genuine sale and involved the payment  of the full cash price. The same conclusion is drawn from Paolo Diacono’s express statement that unless the purchase money is received no auctoritas is incurred. This last rule is a logical (analytical, conceptual) sequence or corollary  of the enactment that no property vested until  payment is fully made. It is conceptually impossible  that the vendee should need the protection of an  auctor before he himself acquires title.   The question has been much debated however by so-called analytic masters of jurisprudence, such as H. L. A. Hart – as to whether  this liability of a vendor to defend his purchaser's  title arose ipso iure out of the mancipation, or  whether it was the product of a special agreement.  The latter view is held by Karlowa, a tuttee of Hart’s - and Ihering – another one! --  but the weight of evidence against it seems to be  overwhelming. Paolo Diacono expressly states that warranty of  title is given in sales of res nee maiicipi by the  stipulatio duplae, but exists ipso iure in sales by  mancipation.  Varrone says that if a slave is not conveyed   -- 1 Cio. Top. i. 23. 2 Paul. Sent. ii. 17. 2-3.   3 L. A. 75. Geist des R. R. m. 540.   5 See Girard, in N. E. H. de D. 1882. (6me Annge) p. 180.   6 Sent. II. 17. 1-3. ^ R. R.  --  by mancipation, his purchaser's title should be  protected by means of what Varrone calls a “stipulatio smvplae uel duplae.” What Varrone is getting at, via implicature, is that, in a cases of mancipation such a  step is obviously (conceptually) unnecessary.  In recommending forms for contracts of  sale, Varrone therefore aptly advises the use of the stipulatio in sales  of res nee mancipi'. Varrone gives no such advice and  mentions no stipulatory warranty in the case of res  mancipi, which proves our (and Varrone’s) point. We find that there are two ways in which  the vendor could escape the liability of aitctoritas. Either the vendor could refuse to mancipate, or he could have a merely nominal price inserted in the  nuncupatio -- the real price being a matter of private  understanding between him and the vendee -- so that  the penalty for failing to appear as auctor becomes a  negligible quantity. This we actually find in a mancipatio HS nummo uno, of which an inscription is preserved the terms' where the object in mentioning so small a sum must have been to minimise the  poena dupli in case the purchaser M'as evicted. Both  these expedients to avoid liability are absolutely  fatal to the theory of a special nwncupdtio as the  source of auctoritas. In short, from all this evidence  we must conclude that, after the enactment of  the XII Tables, mandpium contains an implied  warranty of the vendee's title.   The origin of the heavy penalty for failing to  uphold successfully a purchaser's title has also been  much debated (what hasn’t?). Bechmann'' attributes its severity to  --  1 R. E. n. 2. 6, and 3. 8. " Plant. Pers. 4. 3. S7.   » Bruns, Font: 251. * Kauf, i. p. 121.   -- a desire to punish the vendor who had suffered his  vendee to say "hanc rem meam esse aio," when he KNOWS that such was NOT the case. This would  have been to punish the vendor for reticentia, which  was not done till much later times, as we know from  Cicerone. Moreover as we cannot be sure that  the phrase " hanc rem meam esse aio " is invariably  used in mancipium, this view of Bechmann's comes  too near to the theory of the nuncupative origin of  auctoritas, not to mention the fact that it fails to  explain why the penalty was duphmi instead of simplum! The best theory is probably that of Ihering. Ihering sees in the “poena dupli” a form of the penalty  for furtum nee manifestum. It may be true, as  Girard points out, that the actio auctoritatis is not an actio furti in every respect. The sale of land to which the seller has no good title lacks the  great characteristic of furtum, that of being committed inuito domino. The real owner of the land  may be entirely ignorant of the transaction! Still it is plain that the conscious keeping and selling  of what one KNOWS to be another man's property is  a kind of theft – say, the Brooklyn Bridge --. In that primitive condition of  the law, it was thought unnecessary to  impose different penalties on the bona fide vendor  whose trespass was unconscious or, as Grice prefers, UN-intentional, and on the vendor who  is intentionally fraudulent. This “poena dupli” can  hardly be explained as a “poena infttiationis”, for if  such, would not Paolo Diacono have been sure to mention  it among his other instances of the latter penalty?   -- ^ Geist des R. R. in. 229.   ' loc. eit. p. 216. " Paul. Sent. Auctoritas is supplied by the vendor  whenever any third person, within the statutory  period of one or two years, attacks the ownership of  the vendee by a m uindicatio, or by a uindioatio  libertatis causa if the thing sold is a slave, or by  any other assertion of paramount title. Bechmann  seems to be right in holding that the warranty of  title also extends to all real servitudes enjoyed  by the property, and to any other accessiones which  had been incorporated in the nwncwpatio. To attack  the vendee's claim in that respect is to attack  a part of the res mancipata. Hence actio avctoritatis is the remedy mentioned in connection  with the true leges mancipi, and we may hold, with  Bechmann and Girard, that the actio auctoritatis  and the actio de modo agri are the only available  methods of punishment for the non-fulfilment of a  lex mancipi.   How the vendor is brought into court as  aioctor is a question not easy to answer. But in  Cicerone we find an action described as being “in  auctorem praesentem,” and apparently opening with  the formula. “Quando in iure te conspicio, quaero  anne fias auctor." The opening words do not lead us  to suppose that the vendor is summoned, but  rather that he had casually come into court. This  formula is probably uttered by the judge, in every  case of eviction, before the inauguration of the actio  avxytoritatis, in order to give the defendant an opportunity of answering and so of avoiding the charge.   --  loc. cit. p. 203.   3 Gaec. 19. 64 ; Mm: 12. 26. < Lenel, Ed. Perp. If no answer is made to the judge’s implicatural question, the  vendor is held to have defaulted, and the vendee  might properly proceed to bring his actio auctoritatis for punitive damages. But supposing that the  “auctor” duly appeared to defend his vendee, what  were his duties? It is not probable that he takes  the place of the vendee as defendant, because “auctor” does not seem to imply this, and because  the vendor having conveyed away all his rights had  no longer any interest in the property. The most  probable solution seems to be that which regards  the “auctor” simply as an indispensable witness. In  the XII Tables we know what severe penalties are laid upon a witness who did not appear, as well as  upon one who bears false testimony. Now an auctor  who appears but fails to prove his case is  clearly a false witness. One who fails  to  appear is an absconding witness. This is probably an additional reason for the severe punishment  inflicted on the auctor by the XII Tables. Thus the ingenious supposition of Voigt', that the vendor  cannot possibly have incurred so heavy a penalty by  mere silent acquiescence in the nuncupatio of the vendee, and must therefore have made a nuncupatio  of his own in which he repeats the words used by  the vendee, seems to be purely gratuitous as well  as wholly unsupported by evidence. Another question to be considered is: did auctoritas apply solely to the warranty of things alienated by mancipium -- or did it also apply to things alienated by in iure cessio? An answer in --  » XII Taf. ii. 120.  – on the broader side is given by Huschke who cites  Gaius as proving that mancipatio and in iure  cessio have identical effects. But this is at best a  loose statement of Gaius's, and cannot prevail against  the stronger evidence which goes to prove that  auctoritas is a feature peculiar to mancipmm. Bekker points out that in iure cessio cannot have  produced the obligation of auctoritas, because the in  iure cedcTis takes no part in the proceedings beyond  making default, and cannot therefore have made  deceptive representations rendering him in any way  responsible. In iure cessio must then have been  from its very nature a conveyance without warranty, and Paolo Diacono confirms this inference by stating that the three requisites of auctoritas are mancipatio, payment of the price, and delivery of  the res – ox or slave.  The Lex mancipi in its primary meaning, is a  clause forming part of the mmcupatio spoken by the  vendee in the course of mancipiimi, and constituting  a binding contract. It might embody descriptions  of quantity, specifications of servitudes whether  active or passive, conditions as to payment, and any  other provisions not conflicting with the original  conception of mancipium as a cash sale.   In its secondary, derived, loose, meaning, which we must carefully distinguish, it referred to the dicta made by  the vendor.   -- Nexum, p. 9. ^ li. 22.   s Akt. I. p. 33, note 10. * Sent. ii. 17. 1-3.  We even find lex mancipi applied to the terms  of sale as a whole, including nuncupatio, dicta, and  any other private agreement between the parties  respecting the sale. The two means of enforcing leos mancipi in its PROPER (and only) sense were actio de modo agri and actio auctoritatis.   Auctoritas is an implied warranty of title introduced by the XII Tables into every mancipatory conveyance, subject to the condition precedent that the  vendee must have received the goods and paid the  price. If the vendee is evicted, his proper remedy  is the actio auctoritatis (most probably, an instance  of “legis actio sacramento”), the object of which was  to recover punitive damages of double the amount of  the price paid, and which could be brought against  the vendor within II years, if the object sold  was an immoveable, and within one year, if a  moveable – an ox or a slave, or two.  Since the lew mancipi is often credited with a  still wider function, we are next brought to consider  the agreement known as fidticia.  The agreement of fiducia is thought by  many scholars to have been a species of lex mancipi,  and consequently a creation of the XII Tables.  Among those who thus regard fiducia as an agreement contained in the nuncupatio are Huschke,  Voigt, Eudorfif, and Moyle. The first philosopher of  any weight – if however, not Oxonian -- who disputed the correctness of this view  --  1 Girard, I.e. p. 207. ^ Nexum, pp. 76, 117.   s XII Taf. II. 477. * Z. fur EG. xi. 52.   5 App. 2 to his ed. of the Inst.  – is Ihering, and, the bad thing, is that he is now being followed by Bekker – not to mention Bechmami, and Degenkolb. The view held by  theis bunch of philosophers would seem to be the only tenable one, alas.  They assert that “fiducia” is not a part of mancipium. Fiducia is simply an ancillary agreement tacked  on to mancipium and couched in no specific form.  The argument against the former theory are that fiducia might exist in cases of in iure  cessio as well as in cases of mancipium. Now in  iure cessio gives no opportunity for the introduction  of nuncupative contract. How then can a nuncupatio containing a fiducia have been introduced  among the formalities of the uindicatio?  Doh! We know that the actio fiduciae is bonae  fidei, and ionae fidei actions are of comparatively  late (i. e. sophisticated) introduction. How then is this fact to be  reconciled with the theory which derives fiducia from  the nuncupatio of the XII Tables ? Voigt states that  the actio fidiuiiae is but one form of the ordinary  action on a lex mxmcipi (in fact, Voigt regards every lex mancipi as having been  actionable). But Voigt gives no explanation of the  surprising fact that fiducia alone of all the species of  lex mancipi should have been provided with an actio  bonae fidei.  If we admit that the  only actions based upon mancipium are the actio  auxitoritatis and the actio de modo agri, how can  the actio fiduciae be classed with either ?  Geist des R. R. ii. p. S56. = Akt. i. 124.   3 Kauf, i. p. 287. « Z. fur RG. ix. p. 171.   " XII Taf. II. The strongest piece of evidence which we  possess in favour of Ihering's theory (which Ihering never saw) may well consist of a bronze tablet inscribed with the terms of a pactum fiduciae which  Degenkolb has carefully criticised and which seems  to be conclusive in favour of our view. It contains,  not a copy of the words used in mancipation, but a  report of the substance of a fiduciary transaction.  The mancipation is said to have taken place first,  fidi fiduciae causa, and then the terms of the fiducia  are said to have been arranged in a pactum conuentum between the parties: Titius and Baianus. It is  evident from the language of the tablet that this  fiduciary compact is independent of the mancipatio  and informally expressed. Any attempt, such as  those made by Huschke and Rudorff, to reconstruct  the formula of fiducia, and to fit such a formula into  the nuncupatio of mancipium, is necessarily futile.  Voigt has even taken pains to give us the language  used in the arbitrimn by which, according to him,  fiducia is enforced. This bold restoration is a good  instance of Voigt's method of supplementing history, -- or ‘inventing’ it, as Grice prefers --  but it cannot be said materially to advance our  knowledge of things.   We are nowhere told that fiducia could not be  applied to cases of traditio, and a priori there  is no reason why this should not have been the  case. Yet all our instances of its use connect it  solely with mancipatio or in iure cessio*, and all the  --  1 Printed in C. I. L. No. 5042 and Bruns, Font. p. 251.   2 Z. filr EG. IX. pp. 117—179. '' XII Taf. ii. p. 480.   * Isid. Orig. v. 25. 23 ; Gai. ii. 59 ; Boeth. ad Gic. Top.] authorities, except Muther, are agreed in  thus limiting its scope. If indeed we could extend  fiducia to cases of traditio, it would be very hard to  see why there should not have been a contractibs  fiduciae as well as a contraxitus cotnmodati, depositi or  pignoris. We know from Gaius  that fiducia is often practised with exactly the same purpose as  pignut or depositum, and we may reasonably infer  that it is the presence of mancipaiio or in iure  cessio which causes the transaction to be described,  not as pigrms or depositum, but as fiducia. If we  admit that fiducia is never connected with traditio,  we can readily see why it never becomes a distinct  contract. Bechmann' points out that in iure cessio  or mancipatio is naturally regarded as the principal feature in such transactions as adoptions,  emancipations, coemtiones, etc. The solemn transfer  of ownership is in all these cases so prominent,  that fiducia was always regarded as a mere pactum  adiectum. If then we cannot admit fiducia to any higher  rank than that of a formless pactum, it follows that  the actio fiduciae, being borme fidei, and therefore  most unlikely to have existed at the period of the  XII Tables, must have originated many years later  than fidvMa itself, which as a modification of  mancipatio probably dated from remote antiquity;  This may serve as an excuse for discussing ^tfcia in  this place, although the XII Tables do not actually  mention it. But it must have existed soon after  that legislation, since it was the only mode of accom-  --  1 Sequestration," ii. 60. s Kauf] plishing the emancipation of a filiusfamilias as based  upon the XII Tables. The theory that fiducia originated long before  the actio fiduciae is corroborated by the account  which Gaius gives of the peculiar form of usucapio  called usureceptio. This is the method by which  the former owner of property which had been mancipated or ceded by him subject to a fiducia may recover his ownership by one year's uninterrupted  possession. It differs from ordinary usucapio only  in the fact that the trespass is deliberate, and that  immoveable as well as moveable things – a slave, two slaves -- could be thus  reacquired in one year instead of in two. This  peculiarity as to the time involved may perhaps be  explained by supposing that the objects of fiducia  were originally persons (slaves) and therefore res mobiles, or  else consisted of whole estates which, like hereditates,  would rank in the interpretation of the XII Tables as  ceterae res. Now ii fiducia had been incorporated, as  some think, in the formula oi mancipium, and had been  actionable by means of an actio fiduciae based on the  lex mancipi, could not the owner have recovered the  value of his property by bringing this action, instead  of having been forced to abide the tedious and doubtful  result of a whole year's possession ? The fact noted  by Gaius that where no money is paid no usureceptio is necessary, simply follows from the well-known rule  that an in iure cedens as well as a mancipio dans does  not lose his dominium until the price had been fully  paid to him. We may therefore conclude that mancipatio fiduciae causa resembled in its effect any  --  1 II. 59-60.    -- other mancipatio. If this be the case, then fduda must for many years have  been an informal and non-actionable pactum, supported by fides and by nothing else. Bechmann  holds that' the object of the fiduciary mancipation is  expressed in the nuncupatio by the insertion of  the utterance-part, “fidi fiduciae causa”. But this is a minor  point which it is impossible to determine with  certainty. Fiducia then may be briefly described as a  formless pactum, adiectwm, annexed to Tmrndpatio or  in iure cessio, but not originally enforceable by action. Fiducia thus has no claim at this early date to  be considered as a contract.  On the other hand, vadimonium is a contract which we  know to have been mentioned – if not introduced -- by the XII Tables^. Gellius, however, speaks  of the ancient uades as having completely passed  away in his time, so that in the opinion of Karlowa we can scarcely hope to discover the original form  of the institution. The most thorough inquiry into  the question is that made by Voigt, who treats the authorities and sources with the minutest care,  but whose conclusions, typically, do not always seem to be well  founded. Let us first examine the essence of the transaction, a point as to which there is no doubt.  Vas meant a surety, and uadimonium the contract  by which the surety bound himself. Thus uadem --   1 Kauf, I. p. 294. " Gell. xvi. 10. 8.   » ibid. * L.A. p. 324.   ^ Phil. Hist. Abhandl. der k. S. Ges. d. Wiss.  --  IMOS'irM. 81   poscere^ means to require a surety, vadem dare to  provide a surety, uadem accipere to take a man  as surety for another man, and uadari either to give  surety or to be a surety. From the point of view  of the principal (“uadimonium dans”) uadimonium  sistere means to appear in due course uadimonium  deserere, to make default, while uadivionium differre  meant to postpone the obligation which the ims had  undertaken. The penalty for nonperformance was  the payment (depensio) by the uas of the sum promised by his principal, who however was bound to  repay him. There might be more than one uas. Voigt is probably right in stating that the  svbuas was a surety for the performance of the  obligation by the original uas''. There are  two kinds of luidimonium: that which secured the performance of some contract';  and that which secured the appearance of the party  in court, =bail'. Under the first of these heads  Voigt places the satisdatio secundum mancipium  which is found in the Baetic Fiduciae Instrumentumi  as well as in Cicerone, but whether or not this satisdatio was given in the form of a uadimonium must  remain undetermined ; though, if it had been so  given, we might perhaps have expected Cicerone to  use the technical phrase.  --  1 Cio. Rep. II. 36. 61; Var. L. L. vi. 8. 74.   ' Cio. Fin. ii. 24. 79. ^ Cic. Brut. i. 18. 3.   " Prise. Gram. i. 820. ^ Cic. Quint. 8. 29.   6 Cic. ad Brut. i. 18. 3. ; Plaut. Bud. 3. 4. 72.   ' I. c. p. 307. ^ Varro, L. L. vi. 7. 71.   » Cio. Off. IV. 10. 45. " ad Att. v. 1. 2.   B. E.] Next comes the question, in what form was  uadimonium origiQally made?  The verbal nature of the primitive contract seems to be proved by the passages that Voigt quotes while he also completely denrolishes the old view which regarded uadimonium as having always been  a kind of stipulation, and points out Varrone’s express statement that uas and sponsor were not the  same thing. On the other hand it is plain that  uadimonium had come by Cicerone's time to denote  a mere variety of the stipulation, a fact which may  be gathered from his language' and that of Varrone,  as well as from the frequent use of promittere in  passages describiag the contract. The later aspect  of uadimonium, need not however detain us, and  we may occupy ourselves solely with its primitive  form. Leist seems to think that both uadimonium and praediatura were binding, like the  sponsio, in virtue of a sacred " word-pledge," or in  other words that " Vas sum" “Praes sum'' had a  formal value analogous to that of " spondeo." This  view he bases on the etymology of vms, praes and  their cognates in the Aryan languages, but an examination of Pott^ Curtius' and Dernburg' serves  to show how entirely obscure that etymology is. If  we cannot be sure whether “uas” is derived from “fari,” --   1 Gic. ad Qu. fr. ii. 15. 3. ; Ovid, Am. i. 12. 23 : uadimmia  garrula; etc.   a L. L. VI. 7. 71. 3 Q„int. 7. 29. * loc. cit.   6 Etymol. Forsch. iv. p. 612. « Civ. Stud. iv. 188.   ' Pfdr. ] to speak, uadere, to go, or from an Indo-Germanic  root meaning to bind, it is clearly impossible to  build any theory on so insecure a foundation. Moreover, whatever the true etymology of “uas” may  ultimately be proved to be, we can find in the above  derivations no suggestion of a binding religious  significance such as we discover in sponsio. Voigt boldly assumes a knowledge of the  ancient ceremony, and assigns to the iwtdimonium  connected with the sale of a farm the following  formula. “Ilium fundum qua de re agitur tihi habere  recte licere, haec sic recte fieri, et si ita faMum non  erit, turn x aeris tihi dare promitto." This is not  only purely imaginary, like many of Voigt 's reconstructed formulae, but the unilateral form in which  it is expressed has no justification from historical  sources. The scope of promittis promitto in a  stipulation is well established, but how can promitto in an unilateral declaration have had any  binding effect? Voigt justifies his view by a comparison with dotis dictio and iurata operarum promissio'^, but in both of these there was a binding power behind the verbal declaration.  The word “promitto” alone could never have produced  the desired effect, unless we admit the principle laid  down by Voigt that an unilateral promise is sufficient to create a binding obligation, which is merely  to beg the question! (Warnock takes this position in his “Object of Moralty” – but he finds ‘begging the question’ not as objectionable “as other of my Oxonian colleagues do” – He is Irish). If indeed we take promittere in  its ordinary sense, we cannot doubt that uadimonium  in Cicerone’s time was contracted by sponsio or stipu-  -- lus Nat.] latio, but on the other hand it is equally certain that  the ancient uadimonium, whatever it was, disappeared  soon after the “Lex Aebutia.” The old form known to the Decemvirs cannot  then be stated with the absolute certainty which  Voigt seems to assume, but we may hazard one  theory as to its nature which appears not im-  probable, or at least far less so than that of an  unilateral promissio. Gaius tells us that there  were several ways of making uadimonia, and that  one of them was the ancient method of iusiurandwm.  That this was an exceptional method is proved by  our rarely finding it in use and its adoption is  almost inconceivable, except in the earliest times  when the oath is fairly common as a mode of  contract. We may be sure that the old uadimonium  is embodied in some particular form of words, else  it is hard to imagine how the penalty could have  been specified. But if so, and if we exclude sponsio,  as we are bound to do, what form of words could  have had such binding force as an oath? The rarity  of this oath in Gellius’s time may have induced him  to state that it had quite disappeared, while Gaius  may have mentioned it in order to make his list  of vadimonia complete.   Further, on examining the remedies for a breach  of iitsiurandum, we find that self-help was resorted  to, just as it was in cases of nexum. And when  self-help began to be restrained by law, the natural  --   ' IV. 185. 2 e.g. 2 Dig. 8. 16.  --  substitute would have been manus iniectio. Now  there is good reason to believe that the early  iwbdimonium is  enforced by the legis actio per  maniis iniectionem, and as Karlowa rightly says, we  cannot imagine such a severe penalty to have been  entailed by an ordinary sponsio. Iusiurandum, on  the contrary, may easily have had this peculiarity,  since it is the only form of verbal contract which  we know to have been protected by means of self-help. Again, nanus iniectio seems to have been employed  not only by the principal against the uas, but also by the uas against the principal. When Gaius states  that sponsores were authorized by a Lex Puhlilia  to proceed by manus iniectio against a principal  on whose behalf they had spent money (“depensum”),  he seems to show that facts and circumstances  are sometimes recognized as a source of legal  obligation. But we are bound to reject this explanation, since no obligation “ex re” was recognized  until much later in the Roman jurisprudence. It  is far more likely that, as Muirhead suggests, the  Lex Puhlilia merely extended to sponsores the  remedy already available to nodes; so that sponsio  became armed with the manus iniectio simply on  the analogy of its older brother uadimonium. The  theory here put forward as to the early form of  uadim.oniu/ni must remain a pure conjecture in the  absence of positive evidence. But its connection  with iusiurandum is at least a possibility. 1 Karlowa, L. A. p. 325 : Voigt, XII Taf. ii. 495.   2 L. A. p. 324. 3 R. L. p. 166.  This vexed question may however be summed up. In the legal system of the XII Tables  uadimonium was a contract of suretyship, possibly  entered into by iusiurandwm, and probably entailing  manus iniectio, (a) if the surety (uas) failed to fulfil  his obligation, or if the principal (uadimonium  dans) failed to refund to his surety any money  expended on his behalf  In later times uadimonium was clothed  in the ordinary sponsio and its old form had  completely disappeared.   There are a few other fragmentary  provisions in the XII Tables, which relate to  contracts and require a brief notice.  Paulus speaks of an actio in duplimi as  given by the XII Tables ex causa depositi. This  cannot have had any connection with the actio  depositi of the Institutes and Digest, for the latter  was an invention of the Praetor {honoraria), and  therefore could not have appeared till towards the  end of the Kepublic, while its usual penalty was  simplum, not duplum. Voigt explains^ this action  of the XII Tables as an instance of actio fduciae  based upon a fiducia cvrni amico. But we cannot  admit that fiducia at such an early period was  actionable at all', and still less can we base on  Voigt's assumption the further theory that every  breach of fiducia must have had a penalty of du-  plum annexed to it. The conjecture made by   1 Sent. II. 12. n. ^ XII. Taf. ii. 4. 79. ACTIO EX CAV8A DEPOSIT!. Ubbelohde' that the actio ex causa depositi of the  XII Tables was an actio de perfidia seems still more  rash than that of Voigt, and has deservedly met with  but little favour.   There are two points to be noted in this statement of Paulus. He states that the action was ex causa  depositi: he does not call it actio depositi. He does not say how the depositum was  made, but implies that it might be made by traditio  as well as by Tnancipatio, which also goes against  Voigt 's theory.   It was an ancient rule^ that if a man used the  property of another in a manner of which that other  did not approve, he was guilty of common theft, and  was punishable in duplum like any other fur nee  manifestus. It seems therefore quite reasonable  to suppose that the XII Tables mentioned this  kind o{ furtumi as arising ex causa depositi. If so,  the penalty of duplum mentioned by Paulus is no  mystery. It was merely the ordinary penalty as-  signed to furtum nee manifestum, and depositum as  a contract had nothing to do with it. Hence this  actio ex causa depositi does not properly belong to  our subject at all.   II. Gaius° says that by the pignoris capio of,  the XII Tables the vendor of an animal to be  used for sacrifice could recover its value if the  purchaser refused to pay the price, and a man  who had let a beast of burden in order to raise  money for a sacrifice could recover the amount of  --  1 Gesch. der ben. R. G. p. 22. ^ gai. iii. 196. » iv. 28.    the hire. Hardly anything is known of the legis  actio per pignoris capionem, but it was evidently  some proceeding in the nature of a distress, through  which the injured party could make good his claim  by seizing the property of the delinquent. The  only points in which this passage of Gains is in-  structive are these. First, we are here shewn what  were evidently exceptional instances of the legal  liability of a man's property, as distinguished from  his person, for his breaches of agreement. Secondly,  we here have conclusive proof that the consensual  contracts of sale and hire were unknown at the  period of the XII Tables: these two special instances in which the contracts were first recognised  were both of a religious nature, and the makers of  the XII Tables do not seem to have dreamt that  other kinds of sale or hire needed the least protec-  tion. Thus for many years to come the most  ordinary agreements of every-day life, such as hire,  sale or pledge, were completely formless, depended  solely on the honesty of the men who made them,  and were not therefore, properly speaking, contracts  at all. The principle of the old Roman law that  neither consent nor conduct could create an obliga-  tion ex contractu, but that every contract must be  clothed in a solemn form, appears in the fullest  force throughout the XII Tables. At the threshold of a new period we may pause  to review briefly the ground already covered, and to  observe the very different aspect of our future field  of inquiry.  We find the legal system of the XII Tables to  have possessed five distinct forms of contract,  iusiurandum (including uadimonium ?), sponsio, dotis  dictio, neooum, and leoc mancipi. But though the  list sounds imposing enough, these forms were still  primitive and subject to many serious limitations. Roman citizens only were capable of using  them, and hence they were useless for purposes of  foreign trade. They all alike required the presence of  the contracting parties, and were therefore available  only to persons living in or near Rome. They all required the use of certain formal  words or acts, so that, if the prescribed formula or  action was not strictly performed, the intended  contract was a nullity. The remedies for a breach of contract,  except in the case of nexum and lex mancipi, were  probably of the vaguest description, and may have  consisted only of self-help carried out under certain  pontifical regulations. A system with so many flaws was plainly  incapable of meeting the many needs which grew  out of immense conquests and rapidly extending  trade. Accordingly by the end of the Republic we  find that the law of contract had wholly freed itself  from every one of these four defects : Contracts had been introduced in which  aliens as well as Romans could take part.  Means had been devised for making con-  tracts at a distance. Forms had by degrees been relaxed or  abolished. Remedies had been introduced by which."  not only the old contracts but all the many new ones were made completely actionable. The question now before us is: how had this  wonderful development been achieved? It is customary in histories of Roman Law to  subdivide the period from the XII Tables to the  end of the Republic into two epochs, the one before  the Lex Aebutia, the other subsequent to that law. The reason for this subdivision is that the Lea:  Aebutia is supposed to have abolished the legis  actio procedure and to have introduced the so-called  formulary system, which enabled the Praetors to  create new forms of contract by promulgating  in their Edict new forms of action.   Such a division doubtless has the merit of giving  interest and definiteness to our history, but it has two  great drawbacks : First, that we do not know what  the Lex Aebutia did or did not abolish ; and secondly,  that its date is impossible to determine.  As to its provisions, the two passages in which  the law is mentioned by Gains ^ and Gellius''' merely  prove that the legis actio system of procedure and  various other ancient forms had become obsolete as  a result of the Lex Aebutia. But that these were  not suddenly abolished is proved by the well-known  fact that Plautus and Cicero refer more often to the  procedure by legis actiones than they do to that per  formulas. The most plausible theory seems to be  that which regards the Lex Aebutia as having  merely authorized the Praetors and Aediles to  publish new formulae ia their annual Edicts. But  even this is nothing more than a conjecture.   The date of the Lex Aebutia is also involved in obscurity, as is proved  by the fact that scarcely two writers agree upon the  question". It seems clear that a law about which so  little is known is no proper landmark. The plan  here adopted will therefore be a different one. We  shall content ourselves with a detailed examination  of each of the kinds of contracts which we know  to have existed at Rome between the XII Tables  and the beginning of the Empire, treating in a  separate section of each contract and its history  down to the end of the period. By this means  we may avoid confusion and repetition, though the  period in hand, extending as it does over nearly five  hundred years, is perhaps inconveniently large to  be thus treated as a whole.   1 IV. 30. ' XVI. 10. 8.   ' A. V. c, 584 according to Poste and Moyle ; 513 aecording  to Voigt ; 507 according to Muirhead ; etc.  Nexvm. The severity and unpopularity of nexum did not prevent its continuance for  at least one hundred years after the modifications  made in it by the XII Tables. Its character  remained unchanged, until at last the Roman  people could suffer it no longer. In A. v. c. 428'  a certain nesous was so badly treated by his creditor that a reform was loudly demanded. The Lex  Poetilia Papiria was the outcome of this agitation.  CICERONE (si veda), LIVIO (si veda), and VARRONE (si veda) have each given a short  account of the famous law, and from these it  may be gathered that its chief provisions were as  follows :   That fetters should ia future be used only  upon criminals. That all insolvent debtors in actual bondage  who could swear that they had done their best to  meet the claims of their creditors °, should be set  free. According to Liyy, but Dionysius makes it 452.   2 Bep. II, 30. 40. 59. s viii. 28. * L. L. vii. 5. 101.  ' Next qui bonam copiam iurarent : cf. Lex lul. Mun. 113, -- That no one should again be neccus for  borrowed money, i.e. that manus iniectio and the  other ipso iure consequences of nescum should  henceforth cease.   Varro is the one writer who mentions the  qualification that it was only nexi qui honam copiam  iurarent who were set free. But Cicero and Livy  may well have thought this an unnecessary detail,  considering what an immense improvement had  been made by the statute in the condition of all  future borrowers. A clause of the Lex Coloniae luliae  Genetiuae^ shows that imprisonment for debt was  still permitted, but that the effects of ductio were  much softened, the uinctio neruo ant compedibus  and the capital punishment being abolished along  with the addictio. But diici inhere was still within  the power of the magistrate^, and Karlowa" seems to  be right in holding that this was not a new kind of  ductio originating subsequently to the Lex Poetilia (Papiria).  The Praetor doubtless always had the power to  order that a iudicatus should be taken and kept in  bonds. But this was a very different thing from  the utterly abject fate of the nexus under the XII  Tables. It was only therefore the special severities  consequent upon nexum that can have been abolished  by the Lex Poetilia. Nexum itself was not abro-  gated, for the way in which later authors speak of it  shows that there still survived, if only in theory, a  form bearing that name and creating an obligation.  But as soon as its summary remedies were taken  --  1 cap. 61; Bruna, Font. 2 Lex Bubr. cap. 21 ; Bruns, Font. p. 98. ^ L. A. p. 165.   --  away, neocum became less popular as a mode of  contract and gave way to the more simple obligatio uerbis. Another reason for its being disused, wlien  it no longer had the advantage of entailing capital punishment, was that the introduction and wide-  spread use of coinage made the use of scales  unnecessary. Stipulatio, which required no accessories and no witnesses, was now the easiest mode  of contracting a money loan. We shall see in the  next section that it came to have still further  points of superiority, and thus it was certain to  supersede newum, when neoswii ceased to have  special terrors for the delinquent debtor. The solutio per aes et libram which we find in  Gaius, as a survival of solutio nesd, was not  the release of nexii/m, but the similar release used  for discharging a legacy per darrmationem or a  judgment debt. Its continued existence is no proof  that neam/rn survived along with it, for in later days  it had nothing to do with the release of borrowed  money. But though nexum proper certainly died  out before the Empire, we have seen' how the  meaning of the word became more vague and com-  prehensive. By the end of the Republic we find  neocum used to describe essentially different transactions, and simply denoting any negotiwm per aes  et libram. There is no authority for Bekker's opinion that sponsio  is enforceable before the XII Tables by the legis  -- actio Sacramento, nor do we know that it gave  rise to any action, but notwithstanding this fact we  have seen good reason for concluding that it existed  at Rome from the earliest times. As we found that  its origin was religious, and as the XII Tables do  not mention it, we may regard the remedies for a  breach of sponsio as having been regulated by  pontifical law, down to the time when condictiones  were introduced. In the law of this last period  sponsio appears in three capacities. As a general form of contract adapted to  every conceivable kind of transaction.  As a form much used in the law of procedure. As a mode of contracting suretyship. Its binding force was the same in all these three  adaptations, but its history was in each case different.  Thus sponsio was used as a general form of contract  down to the time of Justinian, though it had then  long since disappeared as a form of suretyship. And  there were statutes affecting the sponsio of surety-  ship which had nothing to do with the sponsio of  contract or of procedure. It will therefore be con-  venient to treat, under three distinct heads, of the  three uses to which sponsio became adapted, remem-  bering always that in form, though not in all its  remedies, it was one and the same institution.   I. Sponsio as a general form of contract.   We have seen that the form of sponsio consisted  of a question put by the promisee and answered  by the promisor, each of whom had to use the  --  1 AU.i. p. 147.  word spondere. For example : Qu. : Sponden ticam  gnatam filio uxorem meo? Ans.: Spondeo^." Qu. :  Centum dari spondes?" Ans.: " Spondeo." This  form was available only to Roman citizens. But  there subsequently came into existence a kindred  form called stipulatio, which could be used by  aliens also, and could be expressed in any terms  whatsoever, provided the meaning was made clear  and the question and answer corresponded.   The connection between sponsio and stipulatio  is the first question which confronts us. There is no  doubt that sponsio was the older form of the two,  because (i) it alone required the use of the formal  word spondere, (ii) it was strictly iuris ciuilis, where-  as stipulatio was iuris gentium^, and (iii) it had to be  expressed in the present tense (e.g. dari spondes?)  whereas stipulatio admitted of the future tense (e.g.  dabis ? fades ?), which Ihering^ has shown to be a  sign of later date. Since the rise of the tits gentivm,  was certainly subsequent to the XII Tables, we are  justified in ascribing to the stipulatio a comparatively  late origin, though the precise date cannot be fixed  with certainty.   Though stipulatio was a younger and a simpli-  fied form, yet it is always treated by the classical  jurists as practically identical with sponsio. Both  were verbal contracts ex interrogatione et responsione,  and their rules were so similar that it would have  been waste of time and useless repetition to discuss  them separately. Varro, L. L. vi. 7. 70. ^ Qaius in. 92.   3 Gaius loc. cit. Geist d. B. B. ii. 634.  The derivation of stipulatio has been variously  given. Isidorus derived it from stipula, a straw ;  Paulus Diaconus and Varro" from stips, a coin;  and the jurist Paulus*, followed by the Institutes,  from stipulus, firm. The latter derivation is doubtless the correct one^ but it does not help us much. What we wish to know is the process by which a  certain form of words came to be binding, so that  it was distinctively termed stipulatio, the firm transaction. Now if we conclude, as Voigt does', that  the stipulatio and the sponsio were both imported from Latium, their marked difference with respect  to name, age and form must remain a mystery. Whereas we may solve, or rather avoid, this diffi-  culty by acknowledging that sponsio was the parent  of stipulatio, and that the latter was but a further  stage in the simplification of sponsio which had  been steadily going on since the earliest times.  We have already reviewed the three stages through  which sponsio seems to have passed. Stipulatio in  all probability represents a fourth and wider stage  of development. The binding force of a promise  by question and answer, apart from any religious  form, at last came to be realized after centuries of  use, and as soon as the promise became more  conspicuous than the formal use of a sacred word,  the word spondere was naturally dropped, and with  [Orig. 5. 24. - s. u. Stipem.   3 L. L. VI. 7. 69-72. * Sent. v. 7. 1.   ^ See Ihering, Geist ii. § 46, note 747, who compares the  German Stab, Stift, bestatigen, bestiindig.   6 lus Nat. II. 238. '' Ihering, Geist ii. p. 585.   B. E.] it fell away the once descriptive name sponsio, to  make way for that of stipulatio, now a more correct  term for the transaction. Thenceforward, as a matter  of course, stipulatio became the generic name, while  sponsio was used to denote only the special form spon-  desne? spondeo.   The precise date of the final change is a matter  of guess-work. But as stipulatio was the form avail-  able to aliens^ it was probably the influx of strangers which made the Romans perceive that their old  word spondere, only available to Roman citizens,  was inconvenient and superfluous. Unless contracts  with aliens had become fairly common, the need of  the untrammelled stipulatio would hardly have been  felt. Therefore it seems no rash conjecture to suppose  that the stipulatio was flrst used between Romans  and aliens, and first introduced about A.V.C. 512*,  the date generally assigned to the creation of the  new Praetor qui inter peregrinos ius dicebat.   As to the form of the stipulation. Ihering and Christiansen have expressed  the opinion that originally the promisor does not  merely say spondeo, faciam, daho, etc., as in most of  the known instances, but repeated word for word all  the terms of the promise as expressed in the question  put by the promisee. This view is based upon the  passages in Gaius and the Digest, which lay great  stress upon the minute correspondence necessary between the question and the answer in a vaHd  --  ' Gai. III. 93. 2 Liu ^^j-^ ^ix. Geist II. 582. Inst, des B. B. p. 308.   •^ in. 92. « 45 Dig.] stipulation. It is hard to see how such a rule could  have arisen unless there had been some danger of  a mistake in the promisor's reply, and if this reply  had been confined to the one word spondeo,  promitto, or faciani, a mistake would hardly have  been possible. Hence this view seems highly probable. Voigt gives the following account of  the origin of the various formulae.  The form spondesne ? spondeo is the oldest  of all, and dates back into very early times which is probably quite correct. But in a more recent  work this view expressed in "lus Naturale" is unfortunately abandoned, and Voigt regards sponsio as a  Latin innovation. This seems surely to place the birth of  sponsio far too late in Roman history. The looser form dabisne? dabo is found in  Plautus, and was no doubt, as Voigt says^ a product  of the ius gentium and first introduced for the benefit  of aliens. Lastly, the origin of the forms promittis ?  promitto, and fades? faciam^, is placed by Voigt  not earlier than the beguming of the Empire. But  his reasons for so doing seem most inadequate. If  the form dabisne? dabo occurs in Plautus, the form  fades? fadam, which is essentially the same, can  hardly be attributed to a later period. And since   1 Ius Nat. IV. 422 ft.   2 See Liu. iii. 24. 5, A.v.c. 295, and iii. 56. 4, A.v.c. 305.   3 Bom. RG. i. p. 43. Pseud. 1. 1. 112, A.v.c. 663.  5 /. N. IV. 424.Of. Gaius] prondttam is used by Cicero as a synonym for  spondea/m}, and fidepromittere was an expression  used in stipulations, as Voigt admits, two centuries  before the end of the Republic'-', it seems rash to  affirm that promittere, the shortened phrase, was  not used in stipulations until the time of the  Empire. We may therefore attribute both of these  forms to republican times. The admissibility of condicio and dies as  qualifications to a stipulation must always have  been recognized, since a promise deals essentially  with the future and requires to be defined. The insertion of a conventional penalty into  the terms of the contract was probably practised  from the very first, whenever facere and not dare  was the purport of the promise, because the candictio  certi was older than the condictio incerti, and therefore for many years an unliquidated claim would  have been non-actionable unless this precaution had  been taken. We have now seen that verbal contract by ques-  tion and answer, whether called sponsio or stipulatio,  existed long before it became actionable. When it  finally became so is uncertain, though we know  what forms the action took. Condictio certae pecuniae.   Gains' speaks of a Lex Silia as having introduced  the legis actio per condictionem for the recovery of  certa pecunia credita. This law is mentioned nowhere  else, and its date can only be approximately fixed. Cic. pro Mur. 41. 90. ^ I. N.] We know from Cicero that pecwnia credita, a re"  money loan, might in his time originate in  ways, by datio (mutuum), expensilatio, or stipulatio.  But we cannot infer from this that the Lex Silia  made all those three forms of loan actionable, for  mutuum and expensilatio, as will presently be seen,  were certainly of more modern origin than the  condictio certae pecuniae. It appears indeed that  stipulatio was the original method of creating pecunia  credita: consequently the Lex Silia must have  simply provided for the recovery of loans made by  sponsio or stipulatio. It is noticeable, moreover,  that Gaius speaks as though by this law money  debts had merely been provided with a new action :  he does not imply that stiptdatio or sponsio was  thereby introduced, as Voigt' and Muirhead have  ventured to infer. Their view is surely an un-  warrantable inference, for if the Lex Silia had  created so new and important a contract as stipu-  latio, Gaius would hardly have expressed so much  surprise at the creation of a new form of action to  protect that contract. His language seems clearly  to imply that pecunia credita was already known,  and was merely furnished by this law with a new  remedy. We may conclude then that pecunia  credita must have existed before the Lex Silia, and  can only have been created by stipulatio. Stipulatio   ' Rose. Com. 5. 14.  Puohta, Imt. 162. 3 Cf. the dare, credere, expensum ferre of the Instrumentum  fiduciae in Bruns, p. 2-51, with the dare, gtipulari, and expensum  ferre of Rose. Com. 5. 13-14, and see Voigt, lus Nat. it. 402.   * Ills Nat. II. 243. R. L.] cannot, therefore, have been introduced by this law,  though it probably was thereby transferred from the  religious to the secular code.   The age of the Lex Silia has been variously  given', but there are no trustworthy data, and any  attempt to fix it must be somewhat conjectural.  The only thing we do know is that this law must  have been enacted a considerable time before the  Lex Aquilia of A.V.C. 467, for the latter law pun-  ished" the adstipulator who had given a fraudulent  release, and as this release must have applied to the  stipulatio certae rei of the Lex Galpurnia', it is evident  that the Lex Aquilia must have been younger than  the Lex Calpurnia, which, as we shall see, was itself  younger than the Lex Silia.   We may perhaps approximate even more closely  to the date of the Lex Silia. Muirhead^ has con-  jectured with much plausibility that the introduction  of the condictio certae pecmviae was a result of the  abolition of the nexal penalties, or in other words  that the Lex Silia followed soon after the Lex  Poetilia of A.v.c. 428. There are several strong  points in favour of this hypothesis. It explains Gaius' difiiculty as to the reason  why condictio was introduced. For when the terrors  of nexum were abolished, it was natural to substitute  some penalty of a milder description and not to let  defaulting debtors go entirely unpunished. Now [According to Voigt, I. N. iv. 401. Gai. Of. quanti ea res est in Gai. loc. cit. with 13 Dig. 3. 4.  * R. L.] this is just what the condictio certae pecuniae,  with its sponsio poenalis tertiae partis, presumably  accomplished, for like neocum it dealt only with  pecunia.   (ii) This hypothesis helps us also to understand  why the condictio certae pecuniae should have been  introduced before the cmidictio certae rei, thus  making a stipulation of certa pecunia actionable,  while a stipulation of res certa had not this protec-  tion. As we found above', the introduction of coin  must have made the stipulatio certae pecuniae a very  convenient substitute for nexiom. It was therefore  natural to give a remedy to this stipidatio and so to  make it take the place of nexum as a binding  contract of loan; while certa res, never having had  and therefore not immediately requiriag a remedy,  was not protected by condictio until several years  later. We can also see why the condictio ceiiae  pecuniae should have been the only condictio fur-  nished with so severe a penalty as the sponsio  poenalis. It was because money loans had been  jealously guarded in the days of nexum, and it was  therefore thought proper to protect the money loan  by stipulation far more carefully than the promise of  a res certa.   All these seem strong points in confirmation  of Muirhead's hypothesis. By connecting stipulatio  and condictio with the downfall of nexum and of its  manus iniectio, we not only get a plausible date for  the Lex Silia, but what is far more important, we obtain a satisfactory explanation of the curious fact  that, while stipulationes were made actionable, they  were not all made so at once. The forms of condictio under the legis actio system  are not known, but under the formulary system, this  condictio had the following formula: Si paret N^  N'egidium A" Agerio HS X dare oportere, iudesc, iV™  Negidium A" Agerio X condemna. s. n. p. a} Its  peculiar sponsio will be given in another place. Condictio triticaria or certae rei.   The Lex Calpurnia, which must have preceded  the Leoo Aquilia^ and must therefore have been  enacted earlier, extended the legis  actio per condictionem to stipulations of triticum, corn,  {condictio triticaria) ; and this, being soon interpreted  by the jurists as including every debt of res certa,  gave rise to the condictio certae rei. This new kind  of condictio omitted, for the reason above '-stated, the  sponsio and restipulatio tertiae partis, in place of  which the defendant merely promised to the plaintiff  a numnvus wnus which was never exacted or paid.  Therefore, as the severer law invariably precedes the  milder, we might be sure that the Lex Silia with its  heavy penalty was older than the Lex Calpurnia  with its nominal fine*, even if Gains had not clearly  led us to this conclusion by the order in which he  mentions the two laws'.   The formula ran thus : Si paret N'^ Negidiwm A"  Agerio tritici optimi X modios dare oportere, qvtanti   1 Gai. IV. 41. Lenel, Ed. Perp. 187. Voigt, I. N. III. 792.   ' Keller, Civilp. 20. « Gains].   ea res est, tantam pecuniam, index, iV™ Negidium A"  Agerio condemna. s. n. p. a.  Condictio incerti.   The above condictio triticaria, or certae rei, was  in course of time extended by the interpretation of  the jurists or by the Praetor's Edict to res incertae,  and gave rise to a condictio incerti, which was the  proper action on a stipulation involving facere or  praestare or some other object of indefinite value.  The thing promised might be defined as quanti in-  terest, or quanti ea lis aestimata erit etc., and it is  plain how much this comprehensive mode of expression must have increased the adaptability and  general usefulness of the stipulation. In this way,  for instance, the cautio damni infecti and the stipulations of warranty were doubtless always expressed.  The nature of this condictio may perhaps be best  understood from its formula, which was as follows :  Quod A^ Agerius de N" Negidio incertum stipulatus  est, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"  Agerio dare facere oportere, eius iudex, N™ Negidium  A" Agerio condemna. s. n. p. aJ' This was so far  an advance upon the condictio certae rei that, the  condemnatio here left the damages entirely to the  discretion of the judge; but it was still a stricti  iuris action, in which no equitable pleas were ad-  mitted on the part of the defendant.  {d) Actio ex stipulatu.   We have seen that the condictiones certae pecuniae  and certae rei were due to legislation, and the con-  dictio incerti to juristic interpretation: it remains  1 Voigt, RG. I. pp. 601-2. 2 (jai. to inquire what was the origin of the actio ex  stiffulatu, i.e. the honae fidei action on a stipulation  for incertwm dare or for certwm facere^, which  completed this series of legal remedies. Its ap-  pearance was an event of great importance to the  subsequent history of contract, since it applied ex-  clusively to stipulations containing a honae fidei  clausula, and it was by means of this action alone  that such stipulations were enforced I Voigt's explanation of its origin is that the actio ex stipulatu  was devised as the proper remedy for fidepromissio  and for the cautio rei uxoriae. But it is very doubtful if the date can be  fixed with such exactness. There is nothing to  show that the actio ex stipulatu did not exist earlier  than those particular forms of stipulation ; and if it  had been, as Voigt thinks, the original action on a  fideproTnissio, it would probably have been known as  actio ex fidepromisso or by some such descriptive  name.   The introduction of the doli clausula is the most  important event in the whole history of the stipulatio,  yet the exact moment at which this took place is  hard, if not impossible, to fix. Girard* attributes its  invention to C. Aquilius Gallus. But if this had  been the case, CICERONE (si veda) would hardly have overlooked  the fact. On the other hand Voigt, who rightly  identifies the actio ex stipulatu with the action on a   1 Bethmann-Hollweg, C. P. p. 267.   2 44 Dig. 4. 4. fr. 15-16.   3 I. N. IV. 407. Gellius iv. 1, 2.   * N. Rev. Hist, de Droit, xiii. 93. ^ Off. in. 14. 60.     doli clausula, and regards the two as inseparable,  places the introduction of doli clausula earlier than  the time of Cicero, because that writer mentions the  actio ex stipulatu among the " indicia in quibus ad-  ditur ' ex fide bona^.' " The introduction of the first  clausida doli was, according to Voigt", made by the  words fides, in fidepromissio, and "quod melius aequius  sit" in the cautio rei uxoriae. This conjecture is  unsupported by evidence; for though we know that  cautio rei ihxoriae and fidepromissio^ were both  actionable by the actio ex stipulatu, and therefore  must have contained doli clausulae, we have no  right to assume that they were the first of their  kind. We cannot, moreover, follow Voigt in supposing  the actio ex stipidatu to have been expressly invented  for fidepromissio and cautio rei uxoriae. We have to  presuppose the existence of a condictio incerti before  the doli clausula could become actionable, since a  claim of damages for dolus is necessarily an incertum; and there is no reason why the actio ex  stipulatu should not have been developed from the  condictio incerti by mere interpretation. Its essential  connection with the stipulatio containing the clausula  doli may readily be admitted, but we cannot be  certain what were the first stipulations containing  clausulae of the kind. The doli clausidae are well summarized by Voigt as follows:   1 I. N. IV. 413. 2 I. N. IV. 407.   3 Boeth. ad Top. 17. 66. " 23 Dig. 4. 26.   s 45 Dig. 1. 122. « I. N. iv. 411.Quod melius aequius erit," as in " cautio  rei uxoriae. Fide, in fidepromissio.  Si quid dolo in ea re factum sit. DoluTn Tnalum, huic rei abesse afuturuinque  esse spondesne^ ?" Gui rei si dolus malus non abest, non  abfuerit, quanti ea res est tantam pecuniam, dari  spondes? The date of each of these forms is, however,  impossible to determine. The cases of contracts by  stipulation in which doli clausulae are found have  been collected by Voigt*, but need not be enumerated  here.   The effect of the clausula was to convert the  action on the stipulation containing it from a stricti  iuris action into a bonaefidei action, in which equitable  defences might be entertained by the judge. This expansion is effected by introducing the words "dare  facer e oportere ex fide bona" in the INTENTIO of the  action. If "ex fide bona " had not appeared in the  formula of an actio ex stipulatu, the action would  simply have been a condictio incerti. It seems therefore reasonable to suppose that the actio ex stipulatu  was nothing more than a development of the condictio  incerti, and that the words ex fide bona, perhaps  suggested by the actio emti, were inserted to suit the  liberal language of the stipulation.   In praetorian stipulations the doli clausula was  1 4 Dig. 8. 31. ^ 46 Dig. 7. 19, 50 Dig. 16. 69.   3 46 Dig. 1. 38. fr. 13. " I. N. iv. 416 ff. an usual part of the fonnula; e.g. in cautio legis  Falcidiae, stipulatio iudicatum soltii', stipulatio ratam  rem haberi^, etc. But in conventional stipulations it  was purely a matter of choice whether the doli  clausula should be inserted or not. We must not fancy that the actio de dolo and  the exceptio doli, which Cicero attributes to his  colleague C. Aquilius Gallus', had anything in com-  mon with the actio ex stipulatu based upon a  clausula doli^. The former remedies were a pro-  tection against fraud where no agreement of a  contrary kind had been made", whereas the action  on a stipulation containing the clausula doli was  available only when dolus maltts had been specially  excluded by agreement. Hence it follows that  where the stipulation had omitted the clausula doli  there can have been no remedy for dolus until the  great reform introduced by Aquilius Gallus. As soon as stipulations of all kinds had thus  become actionable, and had probably passed out of  the hands of the Pontiffs into the far more popular  jurisdiction of the Praetor, the law of contract  received an extraordinary stimulus, and we find the  stipulation producing entirely new varieties of obli-  gation, though its form in each kind of contract re-  mained of course substantially the same. Here are  some of the purposes for which stipulatio was em-   1 35 Big. 3. 1. = 46 Big. 1. 33.   » 46 Big. 8. 22. fr. 7. Off. in. 14. 60. Nat. B. in. 30. 74. Voigt, I. N. 3. 319.   ' See the case of Canius, in Cio. Off', in. 14. 58-60.  --   ployed, apart from its uses in procedure and surety-  ship.   (1) It produced a special form of agency by  means of adstipulatio. The promisee who wished  a claim of his to be satisfied at some far-off period,  when he might himself be dead, had only to  get a friend to join with him in receiving the  stipulatory promise. This friend could then at any  time prosecute the claim with as good right as the  principal stipulator, and the law recognised him as  agent for the latter. Even a slave could in this way  stipulate on behalf of his master.  In consequence of its universal adaptability,  the stipulation gave rise to nmiatio. The reducing  to a simple verbal obligation of some debt or  obligation based upon different grounds (e.g. upon a  sale, legacy, etc.) was accomplished by stipulatio, and  known as expromissio debiti proprii.It created a rudimentary assignability of  obligations by virtue of delegatio, another form of  nouatio. In the one case, the debtor was changed,  and the creditor was authorised by the former  debtor to stipulate from the new debtor the amount  of the former debt : in the other case {expromissio  debiti alieni) the creditor was changed, and the new  creditor stipulated from the debtor the amount owed  by him to the former creditor. It also created the notion of correal obli-  gation, by which two or more promisors in a  stipulation made themselves jointly responsible for  the whole debt, and so gave additional security to   1 Gai. III. 117. = .? Inst. 17. 1.   Ill   the promisee. The effects of this will be seen in a  later section. It served to embody in a convenient shape  any special condition annexed to a separate contract  — e.g. a promise to pay the price agreed upon in  a sale', and the stipulationes simplae et duplae  annexed to sales of res nee mancipi^. Thus an  enforceable contractus adiectus could be made on the  analogy of a pactum adiectum. It clothed in an actionable form so many  different kinds of agreements that it would be  impossible to exhaust the list. For instance, agree-  ments as to interest^ wagers, the promise of a  dowry, the making of a compromise, the creation of  an usufruct, could all be thrown into stipulations  either single or reciprocal, and thus turned into  binding obligations.  Most of the events in the history of this  immense development of stipulatio are impossible to  fix at any given period, though the attempt to do so  has been often made. Yet the invention of one  famous stipulation can be exactly dated, from its  bearing the name of Cicero's colleague, C. Aquilius  Gallus, and having therefore been invented by him  in the year of his Praetorship^. This Aquilian  formula, which operated as a general release of all  obligations, and which the Institutes' give us in full,  is an excellent instance of the usefulness of the  stipulation, and it also clearly shows what long and   1 Cato, R. R. 146. Varro, R. R. ii. 3.  Plant. Most. Plant. Bacch. 4. 8. 76. « A.v.c. 688. ' 3 Inst. 29. 2. elaborate forms this contract sometimes assumed in later times, so that all kinds of terms, descriptions or warranties might without difficulty be  incorporated in a single comprehensive formula.  It was probably this increasing length of stipu-  lations which caused them to be put in writing,  and induced lawyers to publish formulae in which  they should be expressed. Both of these results  had already taken place in the time of Cicero. He  not only speaks of written stipulations, but also  describes the composition of stipulatory formulae as  one of the chief literary occupations of a leading  lawyer'. We know from a constitution of the  Emperor Leo, which changed the law in this respect,  that the written stipulations of the Republic and  early Empire were merely put into writing for the  sake of evidence". The writing in itself constituted  no contract, and raised no presumption in favour of  the existence of a contract; but the written stipulation had to conform with all the rules of the  ordinary spoken stipulation, since it was nothing  but a spoken stipulation recorded in writing.   The legislative changes of the period were mostly  devoted to modifications in the stipulations of  suretyship. But in a few cases the ordinary stipu-  lation was itself affected. By the Lex Titia of A.v.c. 416—426° stipu-  lations for the payment of money lost at gambling  were declared void. Various laws against usury were enacted,   1 de leg. i. 4. 14. 2 3 Inst. 15. 1.   ' Voigt in Phil. Hist. Ber. der S. G. der W. xiii. 257.    all of which affected the stipulation, since that was  the mode in which fenus was usually contracted. The Lex Cinaia de mwieribus of A. v. c. 550,  the object of which was to restrain lavish gifts to  pleaders and public men, naturally limited all stipu-  lations between parties within range of the prohibi-  tion, and in the corresponding condictio gave rise to  the exceptio legis Ginciae, which probably ran thus :  ...si in ea re nihil contra legem Ginciam factum  sit...   (iv) The Praetor C. Aquilius Gallus, as above  mentioned^, instituted in his Edict the exceptio doli  mali, and thereby nullified stipulations which, how-  ever perfect ia form, had been procured by fraud.  This exceptio was of course inapplicable to cases in  which the stipulation contained a clausula doli. Sponsio in the law of Procedure.   The original function of the processual sponsio  seems to have been that of helping to decide the  question at issue by expressing it in the form of a  wager. As a common feature of practice, sponsio  made its appearance in many other different connections, and sometimes developed into the more modern  stipulatio. We find it employed: As a means of obtaining a decision by a  wager, in which the contention of either party was  succinctly stated and so submitted to the judge.  This was known as sponsio praeitodicialis. As a means of fixing a penalty, as well as  of obtaining a decision, in (a) the condictio certae   1 p. 109.  B. E. 8    pecuniae or the interdicts, in which case it was  known as sponsio poenalis. As a mode of giving security ; for instance  in the uindicatio, where we find the stipulatio pro  praede litis et uindiciarum.   Bekker's classification^ does not exactly correspond  with this one. He divides processual sponsiones into  (A) sponsiones made in the course of a trial, as to the chief question,   (6) as to conditions and incidental matters,  and (B) sponsiones made apart from a trial, with a view to some future trial,  with no such view.   The objection to this classification seems to be  that the whole of this second class are not properly processual sponsiones at all. Sponsio praeiudicialis' was a promise to pay  a fixed sum, made by the plaintiff to the defendant,  and conditioned upon the plaintiff's defeat. It is  accompanied by a similar promise (restipulatio) on  the part of the defendant, conditioned upon his defeat.  These mutual sponsiones were in fact nothing more  than a bet on the result of the action. They generally  involved a merely nominal sum, and were perhaps first  introduced in the actio per sponsionem in rem, as a  means of settling the question of ownership without  employing the larger and more costly sacramentum  of five hundred asses'. The date of their origin is  impossible to fix, but the custom of making such  sponsiones and having them decided by a judge 1 Akt. I. 257. 2 Gai. iv. 94. 165. Baron, p. 403.   seems to have been one of great antiquity, and  must have existed long before the sponsio became  armed with any condictio. The very notion of a  bet submitted to a judge as a means of deciding  rights of property seems, as Sir Henry Maine has  said ', to savour of the primitive time when the judge  was simply a man of wisdom called in to arbitrate  between two disputants. Moreover, it is hard to  imagine that the actio per sponsionem in rem could  have been introduced in any but the most ancient  times, when in Cicero's age there were the rei  uindicatio sacramento and the far simpler m uindicatio per formulam petitoriam to accomplish the  same objects There is therefore every probability  that the actio per sponsionem was at least as old as  the legis actio sacramento. According to Voigt* the  procedure per sponsionem was the original form also  of the actio Publiciana introduced in A.v.C. 519. In  Cicero's time it was still a favorite method of pro-  cedure for all sorts of litigation.   In questions as to property the plaintiff  might choose whether he preferred to bring an actio  per formfublam, petitoriam, or one per sponsionem^.  If he chose the latter course, the defendant was  compelled sponsions se defenders.   (b) In really trivial praeiitdicia the question  was stated in the formula and sent straight to the  i^tdex without any condemnation, but the procedure   1 E.H. of I. 259.   2 KeUer, C. P. § 28. ^ j. j^. ly. 506. " e.g. Caec. 8.   5 Lex Ruhr. e. 21, 22; Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gaius, iv. 91.  ^ Gai. IV. 44.   8—2 in this case was not necessarily based upon a sponsio  praeiudicialis and might be a simple preliminary  inquiry ordered by the Praetor.   The sponsio praeiudidalis thus worked in a  peculiarly roundabout way; its penalty was nomi-  nal and not therefore its real object, and it brought  about a decision on the main question by treat-  ing that question as a thing of secondary importance. Sponsio poenalis in the condictio, was pecu-  liar to the legis actio per condictionem introduced by  the Lex Silia. It was accompanied by a restipulatio,  so that either party to the action promised to the  other a penalty of one-third ' in the event of losing  his case. Eudorff" reconstructs the formula of this  sponsio as follows. Si pecuniam certam creditam qua  de re agitur mihi debes, earn pecuniam cum tertia  parte amplius dare spondes? But this seems incorrect, since from CICERONE (si veda)’s language we gather  that the sponsio was for the tertia pars only; the  sum in dispute plus one-third is never mentioned.  The formula then was probably as follows: Si  pecuniam certam creditam qua de agitur mihi debes,  dus pecuniae tertiam partem dare spondes? Hence  Rudorff seems also wrong in stating that the condemnatio of the formula in the corresponding condictio  must have involved the principal sum plus one-third.  Voigt ^ more correctly holds that the condemnatio can  only have involved the summa sponsionis. We can   1 Cic. Base. Com. 5. 14. 2 Ed. Perp. p. 103.   '' " legititnae partis sponsio facta est." Rose. Com. 4. 10.  * Rom. RG. II. 142. ^ j_ j^ m 741^     see that, as Gains implies, this sponsio is just as  much praeiudicialis as that of the actio per sponsionem, giving as it did a ground for the decision of the  main question ; but it was also distinctly poenalis, be-  cause the sum which it involved was worth having  and worth extorting from the unsuccessful party,  and therefore the condemnatio was carried out in  the usual manner. The principal sum in dispute  was then no doubt quietly paid, since the decision as  to the sponsio tertiae partis had also settled to whom  the disputed sum belonged. In the private interdicts (possessoria and  restitutoria) if the party to whom the interdict was  addressed chose to dispute it, he might do so by  challenging the plaintiff to make a sponsio and  restipulatio, the rights of which should be deter-  mined by recuperatores. This sponsio differed from  the former by being purely poenalis and having  no trace of praeiudicium for its object ; by being  in factwm concepta. The origin of these two uses of sponsio cannot be  dated, in one case because we do not know the  date of the Lex Silia, and in the other case because  we do not know when the possessory interdict was  first granted by the Praetor. But it is fairly certain  that the sponsio poenalis of the interdict was more  modern than the sponsio poenalis of the condictio,  partly because it had no sort of connection with a  praeiudicium, which seems to have been the original  object of the processual sponsio, and partly because  it was in factum concepta.   1 IV. 93, 94. 2 Gai. iv. 166; Cic. Caec, 8. 23. Another purpose for which the sponsio was  adopted in procedure was to give bond against pos-  sible losses. It thus furnished a substitute for the  old form of obligation contracted by the praes in  real actions. The stipulatio pro praede litis et uindi-  ciarum, accompanied by sureties ', was given by the  plaintiff who wished to bring an actio per sponsionem  in rem, or who disputed an interdict, and the amount  promised in the stipulation was double the value  of the property in dispute.   Another contract of the same kind was the  stipulatio ivdicatum solui ', by which the plaintiff in  an actio per formulam petitoriam obtained a promise  from the defendant that he would pay up the value  of the property in dispute and of its fructus, in the  event of being defeated in the action.   Voigt gives imaginary formulae for these two  stipulations", but in reality we do not know much  about them. Stipulations of this kind were not  peculiar to the law of procedure. They were simply  varieties of the cautio, a very common method of  securing future rights, and they had their counter-  part in the cautio damni infecti, cautio Muciatm,  cautio legis Falcidiae and all the praetorian stipula-  tions. The origin of the cautiones in general cannot  however be dated: we know merely that they must  have been invented subsequently to the introduction  of the condictio.   III. Sponsio as a means of Suretyship. The introduction of the new idea of correal obli- [Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gai. iv. 91-94.   2 46 Dig. 7. 20 ; Gai. rr. 89. ' Im Nat.] gation which resulted from the use of the stipulation,  naturally leads to the use of the stipulation as a mode  of suretyship. For if three sponsores promised the  same sum to the same stipulator, the latter obviously  had three times as good security as if he had put  his question to one sponsor instead of to three. The consequence was that sponsor soon  acquired the special meaning of a co-promisor or  surety, and this change probably took place soon  after the sponsio became actionable by the Lex Silia.  But if the surety -sponsor had had no recourse against  the principal-spojisor whose debt he had been com-  pelled to satisfj"^, his case would have been hard indeed.  To provide against this hardship, the Lex Publilia '  of A. V. c. 427 enacted:  That the surety-spo?iso?' might make use  of an actio depensi against the principal debtor for  the amount spent on his behalf, That the mode of procedure in this actio  depensi should be the legis actio per manus iniec-  tionem, and that the penalty should be duplum. That the principal debtor should however  have six months' grace for the repayment of his  surety, but, That a surety who paid a gambling-debt on  behalf of his principal should forfeit his right of  action.   This law is alluded to by Plautus, and was  clearly prior to the introduction of fidepromissio. Voigt in Phil. Hist. Ber. der k. s. Ges. d. Wiss. xlii. p. 259.   2 Gai. IV. 22. 171.  In later times the surety had in the actio mandati  a further remedy against the principal sponsor.   2. About the beginning of the fifth century, as  new forms of stipulatio grew up alongside of the old  sponsio, another sort of suretyship was introduced  under the name oi fidepromissio. It was so called  because the sureties entered into a stipulation con-  taining the words : Fide tua promittis? fide mea promitto. The new form is no doubt devised for the  benefit of foreigners and marked the further growth  of ius gentium. It seems to have been treated as  exactly equivalent to sponsio, for sponsio as well as  fidepromissio could only be used to secure a verbal  obligation. Since it is coupled with sponsio in the  Lex Apideia, and since the heirs of sponsores and  fidepromissores were both alike free from the obliga-  tion of their predecessors it is fairly certain that  the actio depensi and inanus iniectio of the Leoo  Publilia must have been extended to fidepromissio  by interpretation. The fidepromissor also had the  remedy of the actio mandati, but this was of later  origin. The Lex Apuleia de sponsoribus et fide promissoribus applying to both Italy and  the provinces, gave to any sponsor or fidepromissor  who had paid more than his aliquot share of the  principal debt a right to bring the severe actio  depensi against each of his co-promisors to recover  the amount overpaid. This law, giving as it did  protection to the sponsor against his co-sponsor, was   ' Gai. III. 119 ; iv. 137. 2 Gai. in. 120.   ' Gai. III. 127. " Voigt, I. N.] the natural complement to the Lex Puhlilia which  had already secured him against the principal  debtor. The object of the next law, Lex Furia de sponso-  ribus et fidepromissoribus of A.V.c. 536 \ is rather  obscure, but it seems to have re-enacted the Lex  Apuleia with reference to Italy only, and probably  provided the spmisor with a more thorough mode of  redress. What this mode was the language of Gains ^  does not make plain ; but Moyle is no doubt wrong  in asserting ' that it was the actio pro socio, unmis-  takably of much later origin. Its only clearly new  enactment was that sponsores or fidepromissores in  Italy, whose guarantee was for an unlimited period,  should be liable for two years only. This limited  liability Voigt thinks was perhaps borrowed from  the rules applying to the uas.   Lastly, the Lex Cicereia (Studemund) of uncertain  date, but which must have been passed, since it ignored fideiussio, gave further  protection to sureties by enacting :   (<x) That any creditor who secured his debt by  taking sponsores or fidepromissores must announce  the amount of the debt and the number of the  sureties before they gave their adpromissio. If he failed to do this, any surety might  within 30 days institute a praeiudicium to inquire  into his conduct ; and if the judge declared that the  required announcement had not been made, all the  sureties were freed from their liability*. This law   1 L. Furius Philue was Praetor in that year. Voigt, I. N. iv. 424.   2 ni. 122. 2 Inst. Gai. iii. 123. REPUBLIC. was subsequently, we know, extended by interpretation to fideiussores.  Another form of suretyship was at last devised, by which obligations other than verbal ones  could be similarly secured. This was done by a  stipulation containing the words "fide tua ivbes? fide  mea ivheo" and it was hence known as fideiussio.  It must have been iuvented about the beginning of  the sixth century, and was doubtless needed, as Voigt  suggests^, in order to provide a form of suretyship  for the newly invented real and consensual con-  tracts ". Its chief points of difference from the other  two forms were that it applied to all kinds of  contractual obligations ; the heir of the fideiussor  was bound by the same obligation as his predecessor ;  and (c) the provisions of the foregoing legislation as  to sponsio and fidepromissio did not as a rule apply  to fideiussio. The only point of resemblance was  that the fideiussor, like the sponsor and fidepromissor, had the actio mandati^ against his principal,  whereas the sponsor and probably the fidepromissor  had the actio depensi of the Lex Puhlilia in addition  to the more modem remedy.   The Lex Cornelia mentioned by Gains * as affect-  ing all sureties alike, whether sponsores, fidepromis-  sores or fideiussores, has been shown by Voigt ' to be  a part of the Lex Cornelia swmtuaria. Two sections of this act provided: That no surety should validly become re-   1 I. N. IV. 425. 2 Gai. ni. 119.   » Gai. m. 127. » in. 124.  Phil. Hist. Ber. der k. s. Ges. der Wiss.  BXPMNSILATIO] sponsible for more than two million sesterces on  behalf of the same person in any given year. Except  in the case of dos^, whatever liability was contracted  over and above that amount was void. That no suretyship of any sort should be  valid when given for a gambling debt I   In thus tabulating all the laws on this subject,  we must not omit to mention the rule applying to  all forms of suretyship alike, that if the surety had  guaranteed a lesser sum than the principal debt, his  guarantee held good, but if a larger sum or a different thing, the guarantee became void. In conclusion, it is very remarkable how largely  the law of suretyship was developed by means of  legislation. The reason was, that while sufficient  means existed for enforcing the mutual obligations of  debtor and creditor, there were no rules to regulate  the relations of debtor and surety, or of sureties  among one another. The old uadimonium was apparently inadequate, while the newer uadimonium,  as we saw, was but a form of stipulatio, and the  ordinary condictio would clearly have been inapplic-  able to cases of this kind. Hence it became necessary that legislation should intervene. So many irreconcilable  statements have been made as to the nature of the  peculiarly Roman contract of the expensilatio that no one can hope  to describe it with perfect accuracy. Confident   1 20,000 according to Dauz, B. BG. ii. 83.   2 Gai. m. 124-5. Voigt, Bom. BO. See a full summary of the various opinions in Danz, B. BG.] assertions on the subject serve only to show our  real ignorance, and ignorant we must be, owing to  the vagueness of the evidence. Yet it is only as to  the form of the contract that much controversy has  prevailed. Its operation and its history are tolerably  certain. Form: Our ignorance respecting the mode in  which the contract was made is partly due to  the fact that tabulae, which meant account-books  in general, meant also a chirograph, or a written  stipulation, or an ordinary note-book. We can  never be quite sure in what sense a technical term  of such ambiguity is used in any given passage.  Everyone agrees that the entry of a debt in the  creditor's account-book imposed a correspbnding  obligation upon the debtor, and the theory that  debts were entered for this purpose in separate  documents has been exploded ever since Savigny'''  refuted it. But the question so difficult to answer  is this : what sort of account-book was the codex in  which these binding entries were made ? We gather  from Cicero's speech for Roscius the actor that there  were in his day at least two principal books in general  use, aduersaria ', and codex or tabulae rationwm. The former was a day-book, in which the details of  every-day business were jotted down, while the latter  was a carefully kept ledger, containing a summary  of the household receipts and expenditure, copied at  regular intervals from the aduersaria. These two [See Wunderlich, Liu. oblig. p. 19.   s Verm. Schrif. Also called ephemeris. Prop.] books were also used by bankers (argentarii) ; and in  their codew or ledger were entered their accounts-  current with their different customers '. Similarly in  the codex of the householder there were probably  separate accounts, on separate folios, under such  heads as ratio praedii, ratio locitlorum, &c.^ There  was sometimes used a book known as (3) kalendanum,  in which the interest on loans was computed and  entered ', the making of loans at interest being  hence called kalendarium exercere.   (a) Some writers are of opinion that these  book -debts were entered by the creditor in the main  codex, and that this codex was a mere cash-book.  In that case, unless the debt was a loan actually  paid in cash, it must have been entered on both  sides of the account, debtor as well as creditor,  otherwise the book would not have balanced. This  twofold entry is said to have been called transcriptio;  and nomen transcripticium would accordingly have  been the name applied to an}' debt contracted in  that manner. The weakness of this theory lies in the  clumsiness of the alleged twofold method of entry;  we can scarcely believe that an imaginary receipt  would have been credited in the account simply  for the purpose of making both sides balance. More-  over it is unwise to assume, as these writers do  in support of their theory, that the Roman method  of keeping accounts was an easy matter and therefore  needed but few books ; for in a large town house, or  on a large estate with bailiffs, tenants and slaves to   1 2 Big. 13. 10 and 2 Dig. 14. 47. - 33 Dig. 8. 23.   3 12 Dig. 1. 41 and 33 Dig.] be provided for, it seems far more likely that the  accounts should have been elaborate and the account-  books numerous. According to Voigt, book-debts (nomina)  were entered in a (4) codex accepti et expensi  kept for the express purpose. Whether such a  fourth book existed, or whether the rationes accepti  et eccpensi were kept as a separate account in the  main codex rationum, is a question which our  authorities hardly enable us to answer. This  does not however seem very important, and it is  certainly impossible to tell in any given passage  whether the author is speaking of the main codex, or of the codex accepti et expensi (4), which  Voigt supposes to have been a distinct book. His  theory is plausible, for codex accepti et expensi would  be a very natural name for a book containing only  expensa lata and accepta lata. But we may fairly  doubt the existence of this fourth book, partly because there is no passage which clearly distinguishes  it from the other account-books, and partly because  it is hard to see why the books of a Roman house-  hold, though clearly numerous, should have been  thus needlessly multiplied. Why should not 'no-  mina facere'-' have meant " to open an account"  with a man, and why could not such an account  have been opened as well on a folio of the principal ledger as on a folio of the imaginary codex  accepti et expensi ? Perhaps a banker may have  found it worth his while to keep, as Voigt supposes,  a separate book for his loans and book-debts, but we  [Cic. 2 Verr. i. 36. 92 ; Seneca, Ben. in.] cannot imagine that this would have been the common  practice of ordinary householders, when their codex  would have done equally well. Eaypensilatio was the name of the transaction,  while the entry itself was called nomen; and the  term nomen transcripticium, which has been ex-  plained as the equivalent of nomen, because the  entry was transcribed from the aduersaria into the  codex, or because it was copied into both sides of the  account, seems rather to have denoted only a nomen  of a novatory character'. That nomen could produce  an original obligation is proved by the cases of Visel-  lius Varro" and of Canius' in which there is no  mention of transcriptio. Further Gaius clearly im-  pKes* that the nomen transcripticium is but one  instance of the use of expensilatio, and the cases  cited by him are purely novatory. Voigt therefore  is probably right in distinguishing the ordinary  nomen which created an obligation, from the nomen  transcripticium, which novated an obligation already  existent. If so, the name transcripticium comes from  the fact that a debt entered in one place as owed by Titius  might be transcribed into another part of the codex  as owed by Negidius (transcriptio a persona in per-  sonam), or a debt owed by Negidius, on account of (e.g.)  a sale, might be embodied in an expensilatio and  thus converted from a honae fidei into a stricti iuris   1 See Gaius in. 128. ^ Val. Max. vni. Cic. Off. ueluti nominibus transcripticiis ," in. 130. obligation by being entered in the codex {transcriptio  a re in personam). Some passages are supposed to describe the entry  of book-debts in the books not only of the debtor and  creditor, but of third persons also' ; but it is difficult  to imagine that any man would have entered in the  midst of his own accounts a record of transactions  which did not actually concern him. Here again we  may believe that the ambiguity of the word tabulue  has led the commentators astray. What they have  taken for the account-books of a third party may  have meant simply his memorandum or note-book.  Salpius^ has endeavoured to explain away the  difficulty by asserting that these tabulae of third  parties really mean in every instance the tabulae of  either debtor or creditor. But the passages do not  seem to be capable of bearing such an interpretation,  and it appears far more likely that the word tabulae  has caused all the difficulty. To summarise then this view of the Literal  Contract, we may believe it to have been made by  an entry written by the creditor on a separate folio  of the codex (2) or chief household ledger, and that  its form was very probably that given by Voigt' as  follows:   "HS X a Numerio Negidio promissa tfcc. expen-  sa Numerio Negidio fero in diem " ; whereupon the  debtor might, if he liked, make this corresponding  entry in his codex: "HS X Aulo Agerio promissa Jkc,  Aulo Agerio refero in diem,."   1 E.g. Cio. Att. IV. 18; Rose. Com. i.l; de Or. Novation, p. 95. 3 Bam. BG. i. 64. In cases of novation, the form would be as follows: Creditor: "HS X a Lucio Titio dehita expensa  Numerio Negidio fero in diem" (transcriptio apersona  in personam), or else : "HS X a Numerio Negidio ex  emti causa dehita expensa Numerio Negidio fero in  diem (transcriptio a re in personam). As in the  previous case, the debtor might make similar entries  in his codex.   Having thus opened an account, which could  only be done with the authorisation of the debtor,  the creditor would naturally enter on the same page  such items as payment of interest on the debt,  payment of the principal on account, &c. According  to Voigt, the entries showing repayment of the  principal would be made in the following form :  "HS X a Numerio Negidio dehita accepta Numerio  Negidio fero." Such an entry constituted a valid  release and went by the name of acceptilatio. Voigt thinks that the acceptilatio, as here given, was made  first by the debtor, and that the creditor followed him  with a corresponding accepti relatio. But the word  acceptum seems rather to imply that the release was  looked upon from the creditor's point of view. It is  therefore more likely to have been the creditor who  took the initiative in entering the acceptilatio, just  as he did in enteiing the expensilatio, while the debtor  perhaps followed him with an accepti relatio.   We know from Cicero^ that expensilatio could be  used to create an original obligation, while Gaius  tells us that it was much used for making an assign-  ment or a novation. Where however a loan made in  1 ib. p. 65. 2 Off. III. 14. 58-60.   B. E. -- cash was entered in the creditor's book, the contract  was regarded as a case not of expensilatio but of  mutuum, and the entry was called nomen arcarium}.  This name seems to have come from the fact that  the money was actually drawn from the area or  money-chest; and in such case the entry on the  creditor's books constituted no fresh obligation, but  served merely as evidence of the mutuum,.   History: The old theory of its origin, given by  Savigny and Sir Henry Maine, is that ecopensilaiio  was a simplified form of neacum. They argued that  the word expensum pointed clearly to the fiction  of a money -loan made by weight. But they never  succeeded in explaining how it happened that the  nexal loan should have produced a contract so  strangely difierent from itself.   The newer theory, which Voigt has ably set  forth ^ is far more intelligible and agrees with all  the facts. Its merit lies in recognising expensilatio  as a device first used by bankers and merchants  and subsequently adopted by the rest of the com-  munity. Nothing indeed could be plainer than the  commercial origin of expensilatio. Like the negoti-  able instrument of modem times it is a striking  instance of the extent to which Trade has moulded  the Law of Contract. This institution probably did  not originate at Rome, but the Greek bankers of  Southern Italy may have adopted and used it  centuries before we hear of its existence. It seems  to have been first iatroduced* by the Greek argen-   1 Gaius in. Cic. Top. Z. N. II. 244 ft. * Voigt, mm. RG. --  torn or tarpezitae (TpaTre^Tai), who came to Rome  about A. V. c. 410 — 440, and took the seven shops  known as tabernae ueteres^ on the East side of the  Porum^ Their numbers were subsequently increased,  when the tabernae nouae were also occupied by them.  Their business was extremely varied and their system  of book-keeping doubtless highly developed. They  made loans^, received deposits*, cashed cheques  {perscriptionesY, managed auctions', and exchanged  foreign monies for a commission (collybusy. They  also used codices accepti et expensi, in which, as we  have seen, accounts-current were kept with their  customers. We learn from LIVIO (si veda) that the expensilatio thus introduced by them becomes a common transaction among private individuals. It cannot have been long before the  conception of pecunia credita was extended so as  to cover book-debts as well as stipulations ; but  we do not know the exact date. From CICERONE (si veda)  however we learn that pecunia expensa lata was a  branch of pecunia credita within the scope of the  Lex Silia, and that the proper remedy for its  enforcement was the condictio certae pecuniae with  its sponsio tertiae partis. As Voigt" has well  pointed out, the expensilatio presupposes the existence throughout the community of a high standard  of good faith. It was therefore ill adapted for   ' Liu. XXVI. 27. 2 Liu. vii. 21.   3 Plaut. Cure. 5. 2. 20. * ib. 2. 3. 66.   5 ib. 3. 62-65. « Cio. Caec. 6. 16.   ? Cio. Att. XII. 6. 1. 8 2 Dig. 14. 47.   ^ Liu. XXXV. 7. ^'' Rose. Com. 5. 14.  11 I. N. II. 420.   9—2    general use among the Greeks, whose bad faith was  proverbial'. The fact that it was at Rome, and at  Rome only, that this contract received full legal  recognition, is proved by Gains' doubts" as to  whether a peregrin could be bound by a nomen  transcripticiwn. By the end of the Republic eocpen-  silatio was at its height of favour, but it died out,  except among bankers, soon after the time of Gains,  for in Justinian's day it was unknown. Chirographvm and Stngrapha are  forms of written contract borrowed, as their name  implies, from Greek custom, and chiefly used by peregrins, as Gaius informs us°. The distinction between  the two was purely formal, the one being signed by  the debtor (cAiro^rrop/i Mm), and the other being written  out in duplicate, signed by both parties, and kept by  each of them (syngraphay. These foreign instru-  ments at first produced nothing more than a pactum  nudrmi, for wherever we find syngrapha mentioned  in Plautus, it denotes a mere agreement (pactum),  the terms of which had been committed to writing  and which was certainly not actionable, while chirographum, never occurs in his plays. The Roman  magistrates, finding these instruments recognised by  aliens, ventured at length to enforce debts ew syngrapha, and thus their legal validity was secured^  They had received, some sort of recognition by the   1 Plaut. Asin. 1. 3. 47." m. 133. s III. 134.   * See Diet, thirteenth cent, in Heimbach, Greditum p. 520, and  Ascon. in Gic. Verr. i. 36.   s Cic. pro Rah. Post. 3. 6; Har. resp. 13. 29 ; Phil. ii. 37. 95 ;  ad Att. Yi. 1. 15 ; ii. v. 21. 10 ; ib. vi. 2. 7.  -- time of CICERONE (si veda), but when they were first enforced  does not appear, though it was certainly late in the  history of the Republic. Gneist has advanced the  theory that in Cicero's time neither chirographum  nor syngrapha was a genuine literal contract, but  only a document attesting the fact of a loan, which  could always be rebutted by evidence aliunde. This  theory is the more plausible because Gains himself  does not seem certain as to the binding nature of  these documents   An interesting passage in Theophilus is sometimes said to give the form in which litterarum  obligatio proper, i.e. expensilatio, was contracted. This view is certainly wrong, for the context  shows that Theophilus meant to describe a contract  signed by the creditor and known as chirographum. As a sample of how chirographa were made, the  Latin translation of this instrument may therefore  be quoted. Centum aureos quos mihi ex caussa  locationis dehes tu ex conuentione et confessione litterarum tuanrni dabis?" And to this the debtor  wrote the following answer: Ex conuentione deheo  litterarum nuearutn. This was evidently not a nomen  transcripticium, but a chirographum or syngrapha,  since Gaius expressly states debere se aut daturum  se scribere to be the usual phraseology of such  instruments. Both parties also seem here to have  been present, whereas one of the chief advantages  of expensilatio was that it enabled debts (by expensi-  latio) and assignments (by transcriptio) to be validly  made without requiring the presence of the parties   1 Form. Vertr. p. 113. ' in. 134. » Paraphr. in. 21.   .   concerned. Heimbach is therefore wrong in taking  the above passage as equivalent to " Eacpensos tiM  tuli ? Expensos mihi tulisti. The transaction is  evidently different from expensilatio, and can have  been nothing else than a dhirographtim. Another  specimen chirographum preserved in the Digest^  shows that the promise or acknowledgement was  sometimes made in a letter from the debtor to the  creditor.   > Cred. p. 330. 2 2 Dig. 14. 47.   Consensual Contracts.   Art. 1. Emtio Venditio. The forms of con-  tract hitherto examined have been distinguished from  most of the contracts of modern law in one or more  of the following respects :  They were confined to Roman citizens.  They were unilateral.   They were capable of imposing obligations  only by virtue of some particular formality. They were available only inter praesentes.   The contract which we are now about to consider  was modem in all its aspects:  It was open to aliens as well as to citizens.  It was bi-lateral.  It rested only upon the consent of the  parties, required no formality, and could be re-  solved like any modem contract into a proposal by  one party' which became a contract when accepted  by the other party.   1 Plant. Epid.] It could be made at any distance, provided  the parties clearly understood one another's meaning. How then can the formal contracts of the older  law ever have produced such a modem institution to  all outward appearance as the consensual contract of  sale?   The elements which make up the popular conception of sale are usually fourfold ; they consist of: The agreement by which buyer and seller  determine to exchange the wares of the latter for  the money of the former;  The transfer of the wares from the seller to  the buyer;   The pajrment of the price by the buyer to  the seller;  The representation, express or implied, of  the seller to the buyer, that his wares are as good in  point of quantity or quality as they are understood  to be. Mandpatio was at first a combination of the  second and third elements above-mentioned. It is a transfer of ownership followed by an immediate payment of the price. Subsequently, the payment became separated from the trans-  fer, so that mancipatio represented only the second  element. The fourth element, that of warranty,  existed to a certain extent in those sales in which  the transfer of property was made by moundpatio,  and this fourth element we shall consider further in  a later section. But throughout the early history of  Rome the first element, indispensable wherever a  sale of any kind takes place, was completely unrecognised by the law. The reason is that the  preliminary agreement between buyer and seller was  nothing more than a pactum, an agreement without  legal force because usually without form. The parties  might always of course embody their agreement of  sale in a sponsio and restipulatio, but in such a case  all that the law would recognise would be the re-  ciprocal sponsiones, not the agreement itself Why,  we may ask, was recognition ever accorded to this  preliminary pactum ? In other words, what was the  origin of emtio uenditio, which turned the pactum  into a contract?  Bekker's plausible theory' adopted by Muirhead"  is that contracts of sale were originally entered into  by means of reciprocal stipulations, and that the actio  emti was but a modification of the actio ex stipulatu founded on those stipulations, while it borrowed  from the actio ex stipulatu its characteristic bonae  fidei clause. But how then did the notion of bona  fides arise in the actio ex stipulatu itself? Bekker  seems to have put the cart before the horse, and  Mommsen" holds the far more reasonable view that  the actio emti was the original agency by which  bona fides found its way into the law of contract, in  which case the actio ex stipulatu must have been not  the prototype but the copy of the actio emti.   The origin of the actio emti was indeed very  curious, since it seems clearly to have been suggested  and moulded by the influence of public law. The  sales of public property, which used at first to be   1 Akt. I. 158. ^ Bom. Law, p. 334.   3 Z. der Sav. Stift. R. A. yi. carried out by the consuls and afterwards by the quaestors, became increasingly frequent as the  conquests of Rome were multiplied, and as the  supplies of booty, slaves and conquered lands becomes more and more plentifiTl. The purchase by  the State of materials and military supplies was  also of frequent occurrence, as the wealth of Rome  increased. Now these public emtiones and iiendi-  tiones constantly occurring between private citizens  and the State were founded upon agreements neces-  sarily formless. The State could clearly not make a  iusiurandum or a sponsio, but the agreements to  which the State was a party (according to the  fundamental principle laid down at the beginning  of this inquiry that the sanction of publicity was as  strong as that of religion) were no less binding than  the formal contracts of private law. A public breach  of bona fides would have been notorious and disgraceful. Whenever therefore the State took part  in emtio uenditio, the agreement of sale was thereby  invested with peculiar solemnity; and thus in course  of time the pactum uenditionis became so common as  an inviolable contract that the actio emti uenditi was  created in order to extend the force of the public  eTTitio uenditio into the realm of private law. As  soon as this action was provided, emtio uenditio  became a regular contract, which was necessarily  bilateral because performance of some sort was  required from both parties. An action could thus  be brought either by the buyer against a seller  who refused to deliver (actio emti), or by the  ^ MommseD, Z. der Sav. Stift. E. A.] seller against a buyer who failed to pay (actio  uenditi). The history of the words emere uendere is in-  structive. We can see that at first they were not  strictly correlative. Vendere or uenumdare meant to  sell, not in the sense of agreeing upon a price, but  in the sense of transferring in return for moneys ;  while eniere meant originally to take or to receive,  without reference to the notion of buying''. But  neither emere nor uendere was at first a technical  term. Emere subsequently got the specialized sense  of purchasing for money as distinct from permutare,  to barter ^, but this particular shade of meaning seems  like the actio to have had a public origin. The old  technical expression for the purchase of goods at public  sale was emtio sub hasta or sub corona, while the object  of the sales was to get money for the treasury, and  therefore the consideration was naturally paid by  purchasers in coin. These public uenditioiies thus  led to three results: The agreement of sale came to the front as  the element of chief importance, and as a transac-  tion possessing all the validity of a contract. The word emere came to denote the act of,  buying for money, as distinct from permutatio which  meant buying in kind. The uenditio of public law resting wholly upon  consent, which was probably signified by a lifting up of  the hand in the act of bidding*, and being necessarily  a transaction bonae fidei, it follows that when emtio   ^ Voigt, I. N. IV. 519. Paul. Diac. s. u. emere.   2 21 Dig. 1. 19. fr. 5. * Cf. the word manceps. uenditio is made actionable in private law, consent  was the only thing required to make the contract  perfectly binding, and that the rules applicable to  it were those, not of iiis strictwm, but of bona  fides. The complete recognition of emMo uenditio is only attained by degrees. The first step in that  direction seems to have been the granting of an  exceptio rei uenditae et traditae to a defendant  challenged in the possession of a thing which he had  honestly obtained by purchase and delivery. The  second step was the introduction of the actio Puhliciana, through which a plaintiff, deprived of the  possession of a thing that had been sold and de-  livered to him by the owner or by one whom  he honestly believed to be the owner, might recover  it by the fiction of usucapio. These remedies, the exceptio and the actio, were  necessary complements to one another. The former  is a defensive, the latter an offensive weapon, and  they both served to protect a bona fide purchaser  who had by fair means obtained possession of an  object to which in strict law another might lay claim. The exceptio rei uenditae et traditae was  founded upon an Edict worded somewhat as follows:  SI QVIS ID QVOD VENDIDIT ET TRADIDIT NONDVM  VSVCAPTVM PETET, EXCEPTIONEM DABO; and in   the formula of an action by the seller to recover the  thing sold this exceptio would have been introduced  thus:... si non earn rem qua de agitur J.' Agerius 1 Gai. IV. 36. 2 44 j)ig^ I Voigt, I. N. ACTIO PYBLIOIANA N" Negidio vendidit et tradidit Its effect was to   protect the bona fide purchaser even of a res mancipi  against the legal owner who attempted to set up his  dominium ex iure Quiritium. On the other hand  the actio Publiciana in its alternative form, was  based on two Edicts worded somewhat as follows: SI QVIS ID QVOD EI TRADITVM EST EX IVSTA  CAVSA A DOMINO ET NONDVM VSVCAPTVM PETET,  IVDICIVM DABO SI QVIS ID QVOD BONA FIDE EMIT ET EI  TRADITVM EST NON A DOMINO ET NONDVM VSV-  CAPTVM PETET, IVDICIVM DABO I   The precise wording of these Edicts is much dis-  puted, but the question of their correct emendation  is too large to be discussed here. The formula of an  actio Publiciana based on the second Edict is given  by Gaius '" and ran as follows : Si quern hominem A^  Agerius* emit et qui ei tradittis est anno possedisset,  turn si eum hominem de quo agitur eius ex iure Quiri-  tium esse oporteret, quanti ea res erit, tantam pecuniam,  iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato, s. n.p. a. The usefulness of these actions as a protection to  sale is apparent. They secured the buyer in posses-  sion of the object sold to him until usucapio had  ripened such possession into full dominium; but  they were useful only when his possession had been  interrupted and he wished to recover it. On the  other hand, the exceptio rei uenditae et traditae pro-   1 Voigt, I. N. IV. 478.   2 Voigt, /. N. IV. 479. 2 IV. 36.   BONA FIDE here iDserted by Voigt, I. N. iv. 483, of. 6 Diri.] tected him till the period of tisucapio agaiost the  former owner; but it was only usefal where his  possession had not been interrupted. The date of  the actio Publidana and of this exceptio are not  to be fixed with absolute certainty; but it is quite  clear that neither of them had anything to do  with a Praetor Publicius mentioned by Cicero as  having existed about A.v.c. Though there  is no mention of either actio or exceptio in the  writers of the Republican period, yet it is clear  from some passages of Plautus that the tradition  of res mancipi sold was in his time a transaction protected by the law, and Voigt has shrewdly  argued that both actio and exceptio must be older  than the actio emti, because the latter aimed at  securing delivery (habere licere) which would have  been of no use had not delivery already been protected  by legal remedies. Now the Fasti Gapitolini report a  Consul M. Publicius Malleolus, and the  conjecture that he was the author of the actio Publi-  dana seems very plausible. The exceptio rei uen-  ditae et traditae was probably somewhat older, for  the defensive would naturally precede, not follow, the  offensive remedy. Nor can this exceptio in Voigt 's  opinion have been contemporary with the actio  Publidana, because it does not bear the name of  exceptio Publidana, which it otherwise would have  borne ° This argument does not seem to me strong, 1 Cie. Cluent. 45. 126.   2 Cure. 4. 2. 8 ; Fers. 4. 3. 64 ; Epid. 3. 2. 23.   ' I. N. XV. 469. < = Praetor in a.v.c. 519. Voigt, I. N. IV. 505. 6 I. N.] since we know that the famous exceptio doli was not  called exceptio Aquiliana. But the point is not an  important one. It is enough to be able to say with  approximate certainty that the exceptio rei uenditae  et traditae and the actiones Puhlicianae were introduced by some Praetor. Still the agreement of sale was not yet enforce-  able as such. In private affairs it remained what it  had been from the time of the XII Tables, a formless  agreement supported only by the mores of the com-  munity, whereas in public affairs it was still techni-  cally a pactum as before, except that the publicity  of sales made by the Quaestors gave to their terms  a peculiarly binding force. The solemnity always  attaching to transactions done in the presence of the  people was, as we have seen, at the root of this respect  paid to the public uenditio. At last the Praetor of some year decided to  make the emiio uenditio of private law the ground  of an action, and thus put it on a level with the  public uenditiones. We do not know the terms of  the important Edict by which the actio emti was  introduced, but the formula of the action (ex uendito)  brought by the seller is partly given by Gains and must have been as follows: Quod Aulus Agerius  mensam N" Negidio uendidit, quidqvid paret oh earn  rem iV™ Negidium A" Agerio dare facere oportere  ex fide bona'', eius, index, N™ Negidium A" Agerio  condemnato. s. n. p. a. The intentio here was exactly  the same as that of the actio ex stipulatu, and was  probably its prototype, both of them being equally  1 IV. 131. 2 cio. Off.  --  bonae fidei actions. The formula of the action (ex  emto) brought by the purchaser was worded in like  fashion: Quod A' Agerius de N" Negidio hominem  quo de agitur emit, quidquid oh earn rem N^ Negidium  A" Agerio dare facer e oportet ex fide bona, eiv^, index,   t&C. (&C. The age of the actio emti has been very hotly  disputed, and the most knotty question has been  whether the action existed or not in the days of  Plautus, who died A.v.c. 570. The chief opponent  of the affirmative theory has been Bekker, but the  arguments of Demelius", Costa', Voigt* and Bech-  mann' are so convincing that little doubt on the  subject can any longer be entertained. It appears  absolutely certain that the actio emti was a feature  of the law as Plautus knew it. An elaborate proof of  this proposition has been so well given by Demelius  and Costa that it is not necessary to do more than  sum up the evidence. The contract of emtio uenditio is discussed  by Sex. Aelius Paetus Catus (Cos. A.V.C.) probably in his Tripertita, and by C. Liuius Drusus  (Cos. A.v.c.)«. The aedilician Edict, which presupposed  that emtio uenditio was actionable, is mentioned by  Plautus '.   (iii) We find in Plautus many passages which  are only intelligible on the supposition that emtio   ' AU. I. 146, note 38. ^ z.fiir SG.Dir. Pnvato. * I. N. iv. 542.   5 Kauf, Dig. --  venditio was actionable. For instance in Mostel-  laria^, where the son of Theuropides pretends to  have bought a house, and where the owner of the  house is represented as begging for a rescission of  the sale, we cannot suppose, as Bekker does', that  fides was the only thing which bound the owner. Had it not been for the existence of the actio emti  he could not have been represented as trying to have  the sale cancelled. Again, in Act 5, Scene 1, the slave Tranio advises his master Theuropides to call the owner into  court and bring an action for the mancipation of the  house, and this can be nothing else than a reference  to the actio ex emto. In the same play° it is also  plain that hona fides was a principle controlliiig the  iudicium ex emto. Again in Persa ' it is clear that Sagaristio, when  selling the slave-girl, would not have taken such  pains to disclaim all warranty if he could not have  been compelled by the actio emti to make good the  loss sustained by the purchaser. To prevent this  liability Sagaristio is careful to throw the whole  periculum on the buyer. Why should he have done  so, had there been no actio emti? Again in Rudens the leno, who had taken  earnest-money for the sale of a slave girl and had  then absconded with her, would not have been so  much afraid of meeting the buyer Plesidippus, if he   1 3. 1. and 2. de Empt. Vend. Cf. Gai. iv. 181. « 3. 1. 139.   8 4. 4. 114. and 4. 7. 5.   B. E.--  had not feared the actio emti. And when the slave  girl was finally abiudicata from the leno *, Demelius  and Costa are unquestionably right in regarding this  as a result of a iudicivmi ex emto. Bekker's opinion  that it was the result of a uindicatio in libertatem  seems hardly to agree with the fact that the leno is  not represented as knowing of her free status till  two scenes later'. We might multiply instances, but the evidence is so fully given by others that it is  not worth repeating. The general conclusion to be  drawn from the above facts is that emtio uenditio  became actionable before A.v.c. 550; and, if our  argument be right, later than the date of the  actio Publiciana. From Plautus we gather further that arrha or  arrhabo, the pledge or earnest money which Gaius  mentions in this connection, was often given to bind  the bargain of sale as well as other bargains. From  this it has been argued that pure consensus must have  been insufficient to make the contract binding'; but,  if that be so, why should the arrha have been used  in Gains' day, when we know that sale was purely  consensual ? In Rudens " it is clear that the arrhabo  was not a necessary part of the transaction, but a  mere piece of evidence, so that arrhahonem acceperat  simply means uendiderat^. The use of arrhaho is  mentioned also in Mostellaria^ and Poenulus^. It  was probably forfeited by the purchaser in case the  bargain fell through. Bekker, Heid. Krit. Jahrschrift, « Brid. Prol. Having now seen how the actio emti uenditi  originated and what was its probable age, let us see  what obligations were imposed by the conclusion of  the sale upon each of the parties to it: Upon the purchaser (emtor). His chief duty was reddere pretium, to pay  the price agreed upon, and if the price consisted  partly of things in kind, his duty was to deliver  them " ; but according to Voigt  there is no obligation upon him to do more than deliver.  A duty which the purchaser seems very early  to have acquired was that of compensating the seller  for mora on his part. Upon the vendor (tienditor-). His chief duty is rem praestare (or rem habere  licere), to give quiet possession to the vendee. But  this does not include the obligation to convey  dominium ex iure Quiritium.   The actio emti, as we have now examined it,  enforced three things: recognition of the consensual agreement of sale, delivery by the seller,  prompt payment by the buyer. Thus it deals  with three of the elements involved in the general  conception of sale. The fourth element, that of  warranty, remains to be considered. We know that this fourth element is covered  by the actio emti in the time of Ulpian, but it does  not seem to have been so during the Eepublic.  Both Muirhead' and Bechmann* have involved the   ' Varro, R. R. n. 2. 6. ^ Cato, R. R. 150.   3 /. N. in. 985. ^ 19 Dig. 1. 38 fr. 1.   « 19 Dig. 1. 11. " 19 Dig. 1. 30 ; 18 Dig. 1. 25.  R. Law, p. 285.. ^ Kauf. i. 505.   10—2    subject in unnecessary difficulty by confusing a honae  fidei contract of sale with one in which warranty  was employed. They speak as though bona fides  included warranty, a proposition not necessarily tnie  and of which we have no proof. It appears, on the  contrary, that the actio emti to enforce warranty was  of much later origin than the actio emti to enforce  consensual sale '. We have therefore to inquire how  warranty was originally given and how it was made  good. The only kind of warranty which we have hitherto  encountered is that against eviction implied in every  mancipatio and enforced by the actio auctoritatis.  This method was but of limited scope, since it ap-  plied only to res mancipi.   After the introduction of the condictio incerti, it  became possible to embody warranties in the form of  a stipulation. This was accomplished in one or more  of the following ways. The stipulatio duplae specified the warranty  given by the vendor, and provided in case of a breach  for liquidated damages in the shape of a poena dupli,  which was doubtless copied from the duplwm of the  a^tio auctoritatis. The best specimens of this stipulation are texts 1 and 2 of the Transylvanian Tablets  printed by Bruns. It was apparently used in those  sales of res mancipi, which were consummated not by  mancipatio but by traditio '. Its superiority to the  warranty afforded by the actio auctoritatis was that  it guaranteed quality as well as title, which the actio [Girard, Slip, de Garantte, N. R. H. de D. Font. VARRONE (si veda), B. R.] auctoritatis could not do. The Tablets indeed show  that the warranties against defects in this stipulation  "were exceedingly comprehensive, and that it defended  against eviction not only the buyer, but also those in  privity with him (emtorem eumue ad quern ea res per-  tinebit). We also find a stipulatio simplae, of which  the best instances are texts 3 and 4 of the Transylvanian Tablets and which, according to VARRONE (si veda) might  be used as an alternative to the stipulatio duplae, if  preferred by the two parties. Its aim in securing the  buyer against eviction and defects was precisely the  same as that of the former stipulation; its only  difference being that the damages were but half  the former amount, i.e. were exactly measured by  the price of the thing sold. Girard and Voigt are  probably wrong in identifying this stipulation used  for res mancipi with the next one, which was  apparently used only in sales of res nee mancipi.  Another stipulation of frequent occurrence  was the stipulation recte habere licere. This guaran-  teed quiet possession so far as the seller was con-  cerned. Its scope was therefore not so wide as that  of the stipulatio siviplae or duplae. The vendor  simply promised recte habere licere, but specified no  penalty in the event of his non-performance, so that  the action on the stipulation must have been a  condictio incerti, in which the damages were assessed  by the judge. The import of the word 'recte' was  doubtless not the same as that of ex fide bona ; but,   1 R. R. II. 2. 5.    as Bechmann points out, it simply implied a  waiver of technical objections. A stipulation as to quality alone is mentioned by VARRONE (si veda) as annexed to the sale of oxen and  other res mancipi. The vendor simply promised  sanos praestari, so that in this case also the remedy  was condictio incerti for judicial damages. A satisdatio secundum mancipiimi is also  mentioned by Cicero' and in the Baetic Tablet ^  But its nature and form are quite uncertain. Its  name implies that it had some connection with  auctoritas, and the most likely theory seems to be  that it was a stipulation of suretyship, by which  security was given for the auctor, either to insure  his appearance (and if so, it was a form of uadimo-  nium/') or to guarantee his payment of the poena  dupli, in the event of eviction (and if so, it was a  form oifideiiissio). The three first of the above stipulations prove  that even in the early Empire (a.d. 160 is the sup-  posed date of the Transylvanian Tablets) actio emii  was not yet an action for implied warranty. Ulpian's  language also indicates that the implication of warranty was a new doctrine in his day '.   Thus far we have seen that stipulations of war-  ranty were customary, and that by the stipulatio  duplae or simplae both title and quality were  secured. The next step was to make these stipu-   1 Kauf. I. p. 639. ^ ii. 5. 11.   » ad Att. V. 1. 2. * Bruns, Fcmtes, p. 251.   " Varro, vi. 7. 54. ^ gge Girard, loc. cit. p. 551.   ' 21 Dig. 1. 31 fr. 20.     lations compulsory, and this was first accomplished  by the Aediles, in their Edict regulating, among  other things, sales in the open market. Plautus  mentions this Edict, and refers to the rule of red-  hibitio which it enforced \ The first positive mention  of aedilician regulations as to warranty occurs however in CICERONE (si veda) and from this it appears that the  Aediles first compelled a stipulatio duplae in the sale  of slaves. This innovation was doubtless intended to  punish slave dealers, who were, as Plautus shows, a  low and dishonest class, by imposing upon them the  old penalty of duplum. The two aedilician actions  which could be brought, if the stipulatio duplae had  not been given, were the actio redhibitoria, avail-  able within two months, and by which the vendor  had to restore the duplum of the price"; the  actio quanti emtoris intersit, available within six  months for simple damages. Further than this,  however, the law of the Republic did not advance.  It was not till the day of Trajan and Septimius  Severus that the stipulations of warranty were  compulsory for other things than slaves*, and we  cannot therefore here trace the development of  warranty to its consummation.   Art. 2. LocATio Condvctio. The word locare  has no technical equivalent in Oxonian English, for it sometimes expresses the fact of hiring, sometimes that of  being hired. It means literally to place, to put out.   1 Capt. i. 2. 44 ; Bud. 2. 3. 42 ; Most. 3. 2. 113.   2 Off. III. 17. 71.   3 21 Dig. 1. 45. « 21 Dig. 1. 28.  5 Girard, N. B. H. de D. viii. p. 425.   As we say that a capitalist places his money, so the  Romans said of him pecunias locat\ The State was  said opios locare when it paid a contractor for doiag  a job, while the gladiator who got paid for fight-  ing was said operas locare. This contract was con-  sensual and bi-lateral like emtio uenditio, and had a  very similar origin. It is easy indeed to see that for  a long time there was no distinction made between  locatio and uenditio. The latter meant originally, as  we have seen, to transfer for a consideration, and  thus included the hire as well as the sale of an  object. Festus accordingly says that the locationes  made by the Censors were originally called uendi-  tiones ^ The confusion thus produced left its traces  deeply imprinted in the later law, for we find Gaius'  remarks on locatio condiictio chiefly devoted to a  discussion of how in certain doubtful cases the  line should be drawn between that and emtio uenditio. Like emtio uenditio, this contract was developed  in connection with the administration of public business. The public affairs in which contractual relations  necessarily arose were of four kinds: Sales of public property, such as land, slaves,  etc., which devolved upon the Quaestors. This class  of transactions produced the contract of emtio uen-  ditio, as above explained. Contracts for the hire of public servants,  generally known as apparitores. These were the  lictores and other attendants upon the different [Most. Festus, s. u. uenditiones. Mommsen, Z. der Sav. Stif. R. A.] magistrates, and were naturally engaged by those  whom they respectively served. This hiring gave  rise to the contract known as condiictio operarum,  while the offer of such services to the State con-  stituted locatio operarum. Business agreements connected with public  work, such as the building of temples or bridges,  the collection of revenue, etc. This class was in  charge of the Censors \ and developed the contract  of locatio operis, while the transaction viewed from  the standpoint of the contractor became known as  conductio operis. Agreements for the supply of various kinds  of necessaries for the service of the State, such as  beasts of burden, waggons, provisions, etc. This  hiring produced the contract known as conductio rei,  while the contractors who supplied such commodities  were said rem locare. Thus the first group of public transactions gave  birth to the contract of sale in private law, while the  three last groups each became the parent of one of  the three forms of the contract of hire. Just as uenditio seems to have been the original  equivalent of locatio, so must emtio have been the  original term for what was afterwards known as  conductio. Conducere can originally have applied  only to the second class of agreements; it must  have denoted the collecting and bringing together  of a body of apparitores. Afterwards, when the  notion of hiring became conspicuous, conducere doubt-  less lost its narrow meaning, and was extended to 1 Liu. xMi. 3. the pther two kinds of hire, as the correlative to  locare. The wholly distinct origin of these various kinds  of locatio conductio, and the fact that they were  transacted by different magistrates, are sufficient  reasons for the curious distinction which the classical  jurisprudence always drew between locatio conductio  r&i, operis and operarum. A trace of the old word  emere as equivalent to conducere always remained in  the word redemtor, meaning a contractor for public  works. This term was never applied to the apparitor,  since it was he who took the initiative and who was thence regarded as a locator operarwm. When the conception of locatio conductio became  separated from that of emtio uenditio it is impossible  to determine. But since the two transactions appear in Plautus distinct as well as enforceable, and since  the contract of sale was only recognised shortly before  Plautus's day, the conceptions of sale and of hire probably becomes quite distinct before either transaction  became actionable. We can trace in many passages  of Plautus the three forms locatio rei", locatio operis,  locatio operarum; and it can hardly be imagined  that these contracts could have been so common and  so distinctly marked had they not been provided  with actions. Voigt ' however is of opinion that the  three different forms of locatio conductio became  actionable at different periods. Locatio conductio [Mommsen, Pseud.; Merc. 3. 2. 17.   3 Bacch. i. 3. 115 ; Persa, 1. 3. 80. Aul. 2. 4. 1 ; Merc. 3. 4. 78 ; Epid. 2. 3. 8.  = I. N. IV. 596, ff. AGE OF THE VARIOUS FORMS] operis and operarwm he places earliest, and admits  that they were known as contracts by the middle of  the sixth century, which would bring them very  nearly to the age of emtio uenditio ; but from  CATONE (si veda) he infers that locatio conductio rei was of later  origin and that it did not become actionable until  the first half of the seventh century. The earliest  actual mention that we possess of locatio conductio is  by Quintus Mucins Scaevola, author of books on  the IxiS Giuile'', whom CICERONE (si veda) quotes, though we  cannot tell whether the quotation refers to all  kinds of locatio conductio or only to the locatio  conductio operis. Certain it is that in CATONE (si veda) locatio  conductio rei seems to be treated rather as emtio  uenditio fructus rei. It is also remarkable that lo-  catio conductio rei is seldom mentioned in Plautus and so briefly that we can form no conclusion as to  whether it was or was not actionable; whereas on  the contrary locatio conductio operis and operarum  appear very often and exhibit all the marks of thoroughly developed contracts. For instance, the  locatio conductio operancni in Asinaria contains a  lex commissoria, and that in Bacchides'' provides for a  bond to be given by the locator operarum binding  him to release the person whose operae he had been  employing, as soon as the work was finished. Again  in Miles Gloriosus the technical term improbare  opus is used to express the rejection of work badly  carried out by a contractor. All this points to the   1 R. B. 149. 2 i.y.c. 661-672. Off. in. 17. 70.   * R. R. 149, 150. 5 Cure. 4. 1. 3 ; Merc. 3. 2. 17.   6 1. 8. 76. ' 1. 1. 8. ? 4. 4. 37. existence of an action for locatio conductio operarum  and for locatio conductio operis at the time when  Plautus wrote'; hut Voigt seems right in concluding  that locatio conductio rei did not become actionable  till a good deal later.   The origin of this action, as of the actio emti, was  in the Praetor's Edicts and in form it differed but  little from the actio emti uenditi. Like the latter it  was bonae fidei^ and its form {ex locato) must have  been as follows : Quod A^ Agerius N" Negidio  operas locauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negi-  dium A" Agerio dare facere oportere ex fide bona,  eius, iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato.  s. n. p. a. Like emtio uenditio it is also clear that  locatio conductio of all kinds could be made by mere  consensus, and that from the first it must have been  a 6onae fidei contract like its prototjrpe.   The writings of CATONE (si veda) are our chief authority for  the existence of the locatio conductio operis and  operarum in the second half of the seventh century,  and for the manner in which these locationes were  contracted. It appears to have been customary to  draw up with care the terms (leges locationis) of such  contracts, and when these were committed to writing,  as they doubtless must have been, they exactly  corresponded to the contracts made in modem  times between employers and contractors.   Already in the Kepublican period the jurists had   ^ So Demelins, Z.filr RG. ii. 193 ; Bechmann, Kauf. i. p. 526 j  but Bekker denies it Z.fUr RG. iii. 442. .50 Dig. 16. 5. ^ Cic. N. D. iii. 30. 74 ; Off. a. 18. 64.   * R. R.] begun to subdivide the classes of contracts above  mentioned.   (1) They distinguished between various sorts of  locatio cmiductio rei. There was rei locatio friiendae in which the use of the object was granted ^  rei locatio ut eadem reddatur in which the object  itself had to be returned, and rei locatio ut eiusdein  generis reddatur '' in which a thing of the same kind  might be returned. The two kinds of locatio condiictio operis  were also most probably distinguished at an early  date into: locatio rei faciendae in which a thing  was given out to be made (epyov), and locatio  operis faciendi in which a job was given out to be  done {aTTOTeXea/jia). Locatio condvxtio operarum alone does not  seem to have been subdivided in any way. The object of these distinctions is doubtless to  define in each case the rights and duties of the  conductor. The technical expression for the remu-  neration in locatio conductio was m,erx, and it was  always a sum of money, probably because it was  originally paid out of the aerarium and therefore  could not conveniently have been given in kind. The fact that in Plautus the word pretium was often  used instead of merx, shows that the distinction  between locatio conductio and emtio uenditio was still  of recent origin when he wrote; but our general  conclusion must be that this contract was known [Gai. III. 145 ; Lex agraria, c. 25.   2 19 Dig. 2. 31 ; 34 Dig. Dig. 2. 30 ; 50 Dig. VARRONE (si veda) , L. L.] to him in some at least of its forms, and that in  all its branches it arrived at full maturity in the  Republican period.   It is worth remembering that the Lex Rhodia  de iactu, the parent of the modern law of general  average, was enforced by means of this action. The  owner sued the ship's magister ex locato, and the  magister forced other owners to contribute by suing  them ex conducto\ This law was discussed in Re-  publican times by Servius Sulpicius and Ofilius".   Art. 3. Before proceeding further with our  history of the ius gentmm contracts we must notice  the important innovation made by the Edict Pacta  conuenta, the author of which was C. Cassius Longinus, Praetor A.v.c. 627'. We have seen how the  pactum uenditionis and the pactwn locationis had  been recognised and transformed into regular con-  tracts about seventy years before this time. The  present Edict gave legal recognition to pacta in  general, and thus rendered immense assistance in  the development of formless contract.  Its language was somewhat as follows: PACTA CONVENTA, QVAE NEC VI NEC DOLO MALO NEC ADVEESVS LEGES PLEBISCITA EDICTA MAGISTKATVVM  FACTA ERVNT, SERVABO. The scope of the Edict was, however, less broad  than might at iirst be supposed. It might well be  understood to mean that all lawful agreements would  thenceforth be judicially enforceable. But as a  matter of fact the test of what should constitute [Camazza, Bir. Com. Dig. 2. 2. fr. 3.   3 Voigt, Bom. EG. i. 591.  2 Big.] EDICT an enforceable pactum lay in the discretion of  the individual Praetor. He might or might not  grant an action, according as the particular agreement set up by the plaintiff did or did not appear  to him a valid one. This Edict was therefore  nothing more than an official announcement that the  Praetor would, in proper cases, give effect to pacta  which had never before been the objects of judicial  cognizance. It needs no explanation to show what  important results such an Edict was sure to produce,  even in the hands of the most conservative Praetors;  and accordingly we find that in the next century new  varieties of formless contract arose from the habitual  enforcement by the Praetor of corresponding pacta.   The mode in which tentative recognition was  accorded to the new praetorian pacta was the  devising of an actio in factum^ to suit each new set  of circumstances. The formula of such an action  simply set forth the agreement, and directed the  judge to assess damages if he should find it to  have been broken. This was doubtless the means  by which societas, mandatum, depositivm, commoda-  tum, pignus, hypotheca, receptum, constitutum — in  short, all the contractual relations originating in  the last century of the Republic — were at first  protected and enforced. A curious historical parallel  might be drawn between these actiones in factum  and our "actions on the case." Not only are the  terms almost synonymous, but the adaptability of  each class of actions to new circumstances was  equally remarkable; and the part played by the  1 2 Dig. 14. 7. fr. 2.   -- latter class in the expansion of the English Law of  Tort bears a striking reseniblance to that played  by the former in the development of the Roman  Law of Contract.   We shall see specimens of the actio in factum  based upon the edict Pacta conuenta, when we come  to examine the various contracts of the later Re-  public which all owed their origin to the Praetor's  Edict.   Art. 4. Mandatvm. The age of the actio man-  dati is difficult to fix, but there are good reasons for  believing that it was the third bonae fidei action  devised by the Praetor, and that it is older than  the actio pro socio. Mandatv/m was an agreement  whereby one person, at the request of another, usually his friend', undertakes the gratuitous performance of something to the interest of that others  In short, it is a special agency in which the agent  received no remuneration. Its gratuitous character is essential, for where the agent is paid, the  transaction is regarded as a case of LOCATIO CONDUCTIO.  We know that the testamentum per aes et libram was  virtually a mandatum to the familiae emtor', and  that fideicommissa, which began to be important  towards the end of the Republic, were nothing but  mandata; it is plain too that as an informal transaction mandatum, must always have been practised  long before it became recognised by the Praetor.   The earliest piece of direct evidence which we 1 Cie. Eosc. Am. 39. 112. == Gai. iii. 156.   s Gai. II. 102. 4 Ulp. Frag. 25. 1-3.   » Auot. ad Her. MAJVDATVAf. 161   have as to the actio mandati is that it existed in  A.V.C. 631 under the Praetorship of S. lulius Caesar.  It is probable that the action was then of recent  origin, and represented the first-fruits of the Edict  Pacta conuenta^, for Caesar treated it as non-  hereditary, whereas the Praetor Marcus Drusus soon  afterwards granted an actio in h&redem according to  the rule of the later law''   From Plautus it distinctly appears that Tnandatum  was a well developed institution in his day, but there  is no evidence to prove that an actio mandati already  existed. The transaction is often mentioned', and  must have been necessary in the active commercial  life which Plautus has pourtrayed. In Trinummus,  for instance, we see a regular case of mandatvm  generate. The phrase "mandare fidei et fiduciae"  here indicates that fides pure and simple is the  only support on which mandatum rested, and that  there was no motive beyond friendly feeling to  compel the performance of the mandatum. On the  other hand the word infamia is thought to have had  a technical meaning, as an allusion to the fact that  the actio mxvndati was fam,osa ^ ; but this is surely  a flimsy basis for Demelius' opinion that the actio  mandati was in existence as early as the middle of  the sixth century *.   It seems much safer to regard this action as   1 Voigt, Rom. EG. i. 681. ^ 17 Dig. 1. 53.   ' E.g. Bacch. 3. 3. 71-5 ; Gapt. 2. 2. 93 ; Asin. 1. 1. 107 ;  Epid. 1. 2. 27, 31 ; Gist. i. 2. 53.< 1. 2. 72-121.   5 Cic. pi-o S. Rose. 38. Ill ; Gaec. 3. 7. Z. fur EG. II. 198 ; Costa, Dir. Priv. p. 390.   B. E. 11   -- younger than those of emtio iienditio and locatio  conductio, and to trace its origin to the influence of  the Edict Pacta conuenta. The earliest form of  relief granted to the agent against his mandator was  doubtless an actio in factwrn,, based upon that Edict,  and having a formula of this kind:   Si paret N™ Negidium A" Agerio, cv/ni is in  potestate l!- Titii esset, mandauisse ut pro se solioeret,  et A™ Agerium emancipatum soluisse, quanti ea res  erit, tantam pecuniam index N^ Negidium A" Agerio  condemna. s. n. p. a.   When at length the Praetor was prepared to recognise mandatum as a regular contract of the ius  duile, he placed it on an equal footing with the older  bonae fidei contracts by granting the actio mandati,  with its far more flexible formula in ius concepta.  The actio mandati directa brought by the principal  against the agent had the following formula:   Quod A' Agerius N" Negidio rem curandam man-  dauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"  Agerio darefacerepraestare oportere ex fide bona, eius,  iudex, N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.   In the actio contraria, by which the agent sued  the principal, the formula began as above, but the  condemnatio was different, thus:   quidquid paret ob eam rem A™ Agerium N"   Negidio dare facere praestare oportere e. f. b. eius  A™ Agerium N" Negidio condemna. s. n. p. a.   Or again, where the claims and counter-claims  were conflicting, the condemnatio might be made  still more indefinite, thus:   1 17 Dig. 1. 12. fr. 6.   -- quidquid paret oh earn rem alterum alteri   dare facere praestare oportere e. f. b. eius alterum  alteri condemna. s. n. p. a.'   Unfortunately we do not know the language of  the Edict by which the actio mandati was instituted;  but the fact that it was modelled on the actions of  sale and hire is one that nobody disputes.   There is no direct authority for assuming the  existence of an actio in factum in this case, as there  is in the cases of commodatum and depositum, where  we have Gaius' express statement to that effects  But it is clear, from Gaius' allusion to "quaedam  causae" and from his use of "uelut," that double  formulae existed in many other actions. We may  well accept Lenel's ingenious theory' that the exist-  ence of an actio contraria always indicates the  existence of formulae in ius and in factum conceptae,  and the assumption here made is therefore no rash  conjecture.   The conception of mandatum changed somewhat  before the end of the Republic. It meant at first  any charge general or special*. But by Cicero's  time it had acquired the narrow meaning, which it  retained throughout the classical period, of a par-  ticular trust ^, while procuratio was used of a general  trust °, and its remedy was the actio negotiorum ges-  torum '   Thus it still remains for us to inquire to what   1 Lenel, Ed. Perp. p. 235.   2 Gai. IV. 47. ' Ed. Perp. p. 202.  * Cato, R. R. 141-3. = 17 Dig. 1. 48.   6 Cic. Top. 10. 42. ' Gai. in 3 Dig.  --  extent procuratio, i.e. general agency, was practised,  as distinguished from mandatv/m generate, i.e. special  agency with general instructions, and how general  agents (procuratores) were appointed.   Now it is one of the most striking features of the  Boman Law that agency of this sort was unknown  until almost the end of the Republic. How and  why so great a commercial people as the Romans  managed to do without agency, is a question that  has received many different answers. We may be  sure that mandatum was practised long before it  ever became actionable, but if so, it was practised  informally and had no legal recognition. The circumstance which made it almost impossible for  general agency to exist was that the Romans held  fast to the rigid rule: id quod nostrum est sine  facto nostra ad ahum transferri nan potest \" Such  a rule evidently had its origin in the early period  when contracts were strictly formal, and when he  alone who uttered the solemn words or who touched  the scales was capable of acquiring rights. In a  formal period the rule was natural enough; but  the curious thing is that it should not have been  relaxed as soon as the real and consensual contracts  became important.   This fact has sometimes been accounted for on  ethical grounds. It has been said that the keen legal  conscience of the Romans made them loth to depart  from the letter of the law by admitting that a man  who entered into a contract could possibly thereby  acquire anjdihing for anybody else. But the true   > 50 Dig. 17. 11.   -- reason seems rather to have been a practical one —  that the existence of an agency of status precluded  that of an agency of contract. Thus we know that  householders as a rule had sons or slaves who could  receive promises by stipulation, though they could  not bind their paterfamilias by a disadvantageous  contract; and so to a limited extent agency always  existed within the Roman family. It is also obvious  that, in an age when men seldom went on long  journeys, the necessity for an agent or fully empowered representative cannot have been seriously  felt. Plautus shows however that agency was not  developed even in his day, when travel had become  comparatively common. In Trimimmus and Mostel-  laria, for instance, no prudent friend is charged with  the affairs of the absent father, and consequently the  spendthrift son makes away with his father's goods  by lending or selling them as he pleases. We can however mark the various stages by  which the Roman Law approximated more and  more closely to the idea of true agency.   1. The oldest class of general agents were the  tutor es to whom belonged the management (gestio)  of a ward's or woman's affairs, and the curatores of  young men and of the insane.  The next oldest kind of general agents are  the cognitores, persons appointed to conduct a particular piece of litigation , and not to be confounded  with the cognitores of praediatura. They were ori-  [Pemice, Labeo, i. 489. " Trin. 1. 2. 129; Most. 1. 1. 74.   3 2 Verr. in. 60. 137 ; Gaee. 14.   * Lex. Malae. 63 ; Cio. Har. Resp.] ginally appointed only in cases of age or illness and  their general authority was limited to the management of the given suit. Gaius has shown us how  they were able to conduct an action by having their  names inserted in the condemnation. Whether they  existed or not under the legis actio procedure is  uncertain ; but they probably did, since we know that  they were at first appointed in a formal manner. Subsequently the Edict extended their powers to the  informally appointed procuratores. The action by  which these agents were made responsible to their principals is after Labeo's time the actio mandati. During the Republic however and before his time  the jurists do not seem to have regarded the relation  between cognitor and principal as a case of mandatum,  but simply gave an action corresponding to each particular case, as for instance an actio depositi if the  cognitor failed to restore a depositwn. Procuratores are persons who in Cicero's  day act as the agents and representatives of  persons absent on public business. They often  appear to have been' the freedmen of their respective principals, and their functions were doubtless modelled on those of the curatores. The  connection between curatores and procuratores is  seen in the Digest where pupilli and absent in-  dividuals are often coupled together', while the   ' Auot. ad Her. ii; 20. " Gai. iv. 86.   3 Gai. IV. 83. < 17 Dig. 1. 8. fr. 1.   = Quint. 19. 60-62 ; -2 Verr. v. 7. 13 ; Lix lui. Mm. 1.   « Gaec. 57. • ' Cio. Or. 2. 249.   8 29 Dig. 7. 2. fr. 3 ; 47 Dig. 10. 17. fr. 11 ; 50 Dig. 17. 124.   -- definitions of procurator show that his power is confined to occasions on which his principal is  absent and the word procuratio itself indicates  that it was copied from the curatio of furiosi ^ or of  prodigi.   One passage of Gaius " seems to imply that the  procurator is not always carefully distinguished  from the negotioruTn gestor or voluntary agent, and  Pernice interprets some remarks of CICERONE (si veda) as indicating the same fact. From this he infers with much  likelihood that the remedy against the procurator is originally not the actio mandati but the actio  negotiorum gestorum. Even in Labeo's time the  actio mandati was probably not well established in  the case of procuratores, though it was so by the  time of Gains. A procurator might conduct litigation for the  absent principal; but the acquisition of property  through an agent was not clearly established even  in Cicero's time °, though the principal could always  bring an action for the profits of a contract made  in his name".   4. Negotiorum gestio was a relation not based  upon contract, but consisted m the voluntary in-  tervention of a self-appointed agent, who undertook  to administer the affairs of some absent or deceased  friend. In the Institutes it is classed as a form of   1 Paul. Diac. s.u. cognitor. ' Lex agr. c. 69.   3 IV. 84. ^ Top. 42 and 66. " 17 Dig. 1. 6. fr. 1. Labeo, I. 494. ' 4 Dig. 4. 25. fr. 1.   8 3 Dig. 3. 33. " Cic. Att. vi. 1. 4.   i» 3 Dig. 3. 46. fr. 4.  -- ,   quasi-contract, and it was always regarded as a  relation closely analogous to mandatum^.   The mode of enforcing claims made by the  negotiorum gestor and his principal against one  another was the actio negotiormn gestorum, which  might, like the actio mandati, be either directa or  contraria. It was based upon an Edict worded thus: SI QVIS NEGOTIA ALTERIVS, SIVE QVIS NEGOTIA  QVAE CVIVSQVE CVM IS MORITVR FVERINT, GESSERIT, IVDICIVM EO NOMINE DABOl   We do not know the date of this Edict, but it  was certainly issued before the end of the Republic,  inasmuch as the action founded upon it was discussed  by Trebatius and Ofilius'. This action had a formula  in ills concepta which ran somewhat as follows: Quod N' Negidius negotia A^ Agerii gessit, qua  de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium A"  Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona,  tantam pecuniam index JV'" Negidium A" Agerio  condemna. s. n. p. a. Another means by which agency could practically be brought about was adstipulatio. This is not a case of true agency [cf. H. P. GRICE, ACTIONS AND EVENTS], for the  adstipulator acquired the claim in his own name,  and if he sued upon it, he did so of course in his own  right: yet he was treated as agent for the other  stipulator and made liable to the actio mandati^.   6. Fideiussio was probably treated as a form of  special agency almost from the time of its invention,  Dig. Big. Big. Lenel, Ed. Perp. Gai.] since we know that it possessed the remedy of the  actio mandati as early as the time of Quintus Mucius  Scaevola  Art. 5. SociETAS. This was the common name  given to several kinds of contract by which two or  more persons might combine together for a common  profitq,ble purpose to which they contributed the  necessary means. These contracts could be formed  by mere consent of the parties, and except in the  case of societas uectigalis they were dissolved by the  death of any one member, so that even societas in  perpetuum meant only an association for so long as  the parties should live '.   Ulpian distinguishes four kinds of societas": (1)  omnium honorum, (2) negotiationis alicuius, (3) rei  unius, and (4) uectigalis.   The first of these has no counterpart in our  modem law, but may be described as a contractual  tenancy in common. The second and third may be  treated under one head, as societates quaestuariae,  corresponding to modem contracts of partnership.  The fourth may best be regarded as the Roman  equivalent of the modem corporation.   Except in the case of this fourth form, which  was in most respects unique, the remedy of a socius  who had been defrauded, or who considered that the  agreement of partnership had been violated, or who  wished for an account or a dissolution, was either an  actio in factum or the more comprehensive actio pro  socio. Dig. Big. Dig. 2. 5. * Cic. Rose. Com. Both these actions were of praetorian origin, and  the former was doubtless the experimental mode of  relief which prepared the way for the introduction of  the latter. At first we may fairly suppose the  Praetor to have granted an actio in factwm adapted  to the particular case, with a formula worded somewhat as follows : 8i paret iV™ N™ cum A" A° pactum  bonuentum fecisse de societate ad rem certam emendam  ideoque renuntiauisse societati ut solus em^ret^, quanti  ea res est tantam pecuniam, iudex, N'^ iV™ A" A"  condemna. s. n. p. a. When the pactum societatis  had thus been protected, and the juristic mind had  grown accustomed to regard societas in the light of a  contract, the Praetor then doubtless announced in  his Edict that he would grant an actio pro socio to  any aggrieved member of a societas. In this way  agreements of partnership became fully recognised  as contracts, and were provided with an actio in iiis  conoepta, the formula of which must have been thus  expressed':   Quod A' Agerius cum N" Negidio sodetatem coiit  universoru/m quae ex quaestu veniunt, quidquid oh  eam rem N"^ Negidium A" Agerio (or alterum alteri)  pro socio dare facere praestare oportet ex fide bona,  eius iudex N™ Negidium A" Agerio (or alterum  alteri) condemna. s. n. p. a.   The superiority of this honae fidei action to  the former remedy, as a mode of adjusting com-  plicated disputes arising out of a partnership, is  too obvious to require explanation. The actio in   1 17 Dig. Big. 2, 65. ir. 4.   3 Lenel, Ed. Perp. p. 237. --  factum may still however have proved useful in  certain cases.   Societas appears in Plautus with much less dis-  tinctness than either of the other three consensual  contracts. Socius is not used by him in a technical  or commercial sense, but means only companion ^ or  co-owner^. The nearest approach to an allusion to  societas in its more recent form is to be found in  Rudens^ where the shares of socii are mentioned;  but this is no reason for supposing that Plautus  knew of societal as a contract. The date of the  actio pro socio is impossible to fix, though Voigt suggests that the Praetor P. Kutilius Rufas  must have been its author in the year 646 ^ Abso-  lute certainty on the subject is unattainable, because  we cannot tell whether this Rutilius originated or  merely mentioned the edict, nor can we positively  identify him with the Praetor of a.v.c. 646. On  these points there is hopeless controversy", so that  they must remain unsettled. But what we can do  with a certain measure of accuracy, is to trace the  process by which societal came to be regarded as a  contractual relation, and slowly grew in importance  till it called for the creation by the Praetor of a  honae fidei action to protect it. This action certainly  existed about the end of the seventh century, for  it is mentioned in the Lex Julia Municipalis of   1 Bacch. 5. 1. 19 ; Cist. 4. 2. 78.  ' Bud. i. 3. 95. ' 1. 4. 20 and 2. 6. 67.   * lus N. IV. 603 note 204.  5 38 Dig. 2. 1.   " See Husehke, Z. fur Civ. wnd Proc. 14. 19 ; Schilling, Inst. A.V.C. 709 ^ and was discussed by Quintus Mucius  Scaevola. A closer approximation to the date of  its "origin seems to be impossible.   1. Societas omnium bonorum. The original conception of SOCIETAS (cf. Grice’s Aristotelian Society) seems not to  have been that of a commercial combination, but of  a family. Not indeed that the term societas was  ever applied to the association of father, mother,  children and cognates; but they were practically  regarded as a single body, each member of which  was bound by solemn ties to share the good or bad  fortune which befell the rest. The duty of avenging  the death of a blood-relation, the duty of providing  a certain portion for children, as enforced by the  querela inofficiosi testamenti, the obsequia which  children owed to their parents, are illustrations of  the principle. Now this body, the family, could  hold common property: and here is the point at  which the family touches the institution of partner-  ship. The technical term which expressed the  tenancy in common of brothers in the family property (hereditas), was consortivmi, and the brother  co-tenants were called consortes. This institution  of consortium was of great antiquity, being even  found in the Sutras. It is compared by Gellius to the relation of societas, and arose from the  descent or devise of the patrimonial estate to several  children who held it undivided. Division might at  any time be made among them by the actio familiae   1 Bruns, Font. p. 107. ^ gaj. ni. 149 ; Cic. Off. in. 17. 70.   » Cie. 2 Veir. ii. 3. 23; Paul. Diao. 72.   " Leist, Alt.-Ar. lus Gent. p. 414. > i. 9. 12.   --  erciscundas \ but they might often prefer to continue  the consortium, either because the property was  small, or because they wished to carry on an es-  tablished family business. If the latter course was  adopted, the tenancy in common became a partner-  ship, embracing in its assets the whole wealth of the  partners ; and it is easy to see how this natural part-  nership, if found to be advantageous, would soon be  copied by voluntary associations of strangers. Thus  socius, as we know from CICERONE (si veda), was often used as  a synonym of censors, and there can be no doubt  that consortium was the original pattern of the  societas omnium bonorum". That there were some  differences between the rules of consortium and those  of societas does not affect the question. For instance, the gains of the consortes were not brought  into the common stock, but those ot socii were; while  the death of a socius dissolved the societas, but that  of a consors did not ^ dissolve the consortium. These  points of difference and others probably arises from  the juristic interpretation applied to societas, when  it had once become fairly recognised as a purely  commercial contract. But consortium and societas  omnium bonorum have two points in common which  show that they must have been historically connected, In societas omnium, bonorum there was a complete  and immediate transfer of property from the indi-  viduals to the societas'', whereas the obligations of [- Paul. Diao. s. u. erctum. ^ Brut. i. 2.   3 Leist, Soc. 24 ; Pernioe, Z. der S. Stift. R. A. in. 85.  i 17 Dig, 2. 52. * Pernice, Labeo See Pernice, Laieo i. 85-6. ' 17 Dig. 2.] each remained distinct and were not shared by the  others'. Now this is exactly what would have  happened in consortium : the property would have  been common, but the obligation of each consors  would have remained peculiiar to himself, The  treatment of socii as brothers' is clearly also a  reminiscence of consortiv/m ; and this conception of  fratemitas, being peculiar to the societas omnium  bonorum^, makes its connection with the old con-  sortium still more evident.   The fraternal character of this particular societas  is responsible for the existence of a generous rule  which subsequently, under the Empire, became  extended so as to apply to the other kinds of societas^  The rule was that no defendant in an actio pro socio  should be condemned to make good any claim beyond  the actual extent of his means ^ This was known as  the beneficium competentiae ; and it gave rise to a  qualified formula for the actio pro socio, as follows:   Quod A' Agerius cum N" Negidio societatem  omnium bonorum emit, quidquid 6b earn, rem iV"'  Negidium A° Agerio dare f. p. oportet ex f. b.  dumtaxat in id quod i\r* Negidius facere potest,  quodue dolo malo fecerit quominus possit, eius index  N™ Negidiwm A" Agerio condemna. s. n. p. a.   2. Societas negotii uel rei alicuius.   This second form of partnership must have been  the most common, since it was presumed to be in-  tended whenever the term societas was alone used '.   1 17 Dig. 2. 3. 2 17 Dig. 2. 63. ' 17 Dig. 2. 63.   * 17 Dig. 2. 63. fr. 1. 42 Dig. 1. 16 and 22.   « 17 Dig. It has also been derived from consortium by  Lastig. His theory is that consortes, or brothers,  when they undertake a business in partnership  with one another, often modify their relations  by agreement. The special agreement, he thinks,  then becomes the conspicuous feature of the partnership, and the relations thus established are copied  by associations not of consortes but of strangers. The object of the theory is to explain the correal obligation of partners. This correality did not however exist at Rome, except in the case of banking  partnerships, where we are told that it is a peculiar  rule made by custom, so that Lastig's theory lacks  point. A further objection is that this theory does not  explain, but is absolutely inconsistent with, the existence of the actio pro socio as an actio famosa. The  fraternal relations existing between consortes may never have suggested such a remedy, for CICERONE (si veda) in  his defence of Quinctius lays great stress on the  enormity of the brother's conduct in having brought  such a humiliatiag action against his client. Another explanation of the actio pro socio is  given by Leist". He derives it from the actio so-  cietatis given by the Praetor against freedmen who  refused to share their earnings with their patrons.  This societas of the patron must have been a one-  sided privilege, like his right to the freedman's   1 Z. filr ges. Handelsrecht. xxiv. 409-428.   2 As in 26 Dig. 7. 47. 6.   3 14 Dig. 3. 13. 2 ; 17 Dig. 2. 82.   * Auet. ad Her. ii. 13. 19 ; 2 Dig. 14. 9,   5 As Perniee has pointed out, Labeo i. p. 94.   6 Soc. p. 32.  --   services' ; for the freedman could never have brought  an action against his patron, since he was not entitled  to any share in the patron's property. The actio  societatis was therefore a penal remedy available  only to the patron, and consequently it cannot pos-  sibly have suggested the bilateral actio pro socio  of partners. Nor can the bonae fidei character of  the actio pro socio be explained if we assume such  an origin. The most reasonable view appears to be that  which regards the actio pro socio as the outcome of  necessity. The Praetor saw partnerships springing  up about him in the busy life of Rome. He saw  that the mutual relations of socii were unregulated  by law, as those of adpromissores had been before  the legislation described above in Chapter v. He  found that an actio in factum, based on the Edict  Paxta conuenta, was but an imperfect remedy; and  as an addition to the Edict was then the simplest  method of correcting the law, it was most natural  for him to institute an actio pro socio, in which  bona fides was made one of the chief requisites  simply because the mutual relations of socii had  hitherto been based upon fides Societas uectigalium uel pMicanorwm.   This kind of societas was a corporation rather  than a partnership, and we have proof in Livy that  such corporations existed long before the other kinds  of societas came to be recognised as contracts. These   1 38 Dig. 2. 1.   2 Cie. Quint. 6. 26 ; Q. Rose. 6. 16 ; S. Rose. 40. 116 ; 2 Verr.  III.] societates acted as war-contractors^ collectors of taxes ,  and undertakers of public works'. In one passage in  LIVIO (si veda) they are called redemtores, and we find three  societates during the second Punic War in A.v.c. 539"  supplying the State with arms, clothes and com. It  was perhaps the success of these societates publica-  norwm" which iatroduced the conception of commercial and voluntary partnership. But still they are utterly unlike partnerships', so that their his-  tory must have been quite different from that of the  other societates. They were probably derived from  the ancient sodalitates or collegia^, which were per-  petual associations, either religious (e.g. augurium  collegia), or administrative {quaestorum collegia), or  for MUTUAL BENEFIT (cf. H. P. Grice), like the guilds of the Middle  Ages (fabrorwm collegia). This theory of their  origia is based upon three points of strong resem-  blance which seem to justify us in establishing a  close connection between societas and collegium: Both were regulated by law", and were  established only by State concessions or charters. Both had a perpetual corporate existence,  and were not dissolved by the death of any one  member "-   (3) Both were probably of Greek origin. We   > Liu. XXXIV. 6 in a.v.c. 559. ^ Liu. xxvii. 3 (a.v.c. 544).   » Liu. XXIV. 18 (A.V.C. 540) ; Cic. 2 Verr. i. 50. 150.  • XLii. 3 (a.v.c. 581). ' Liu. xxiii. 48-9.   " Liu. xxxix. 44 ; XXV. 3. '3 Dig. 4. 1.   8 Lex rep. of a.v.c. 631, cap. 10 ; Cic. leg. agr. ii. 8. 21 ; pro  domo 20. 51 ; PUnc. 15. 36.   9 GaiuB, 3 Dig. 4. 1 ; 47 Dig. 22. 1.   "I 28 Dig. 5. 59 fr. 1 ; 17 Dig. 2. 59 ; Cic. Brut. i. 1.   B. E. 12   --  are told that societates publiccmorum existed at  Athens', while Gaius^ derives from a law of Solon  the rule applying to all collegia, that they might  make whatever bye-laws they pleased, provided  these did not conflict with the public law.   These three facts may well lead us to derive this  particular form of societas from the collegium. We  know further that the jurists looked upon it as quite  different from the ordinary societas, and that it did  not have the actio pro socio as a remedy'- The  president or head of the societas was called manceps*,  or magister if he dealt with third parties ', and the  modes of suretyship which it used in its corporate  transactions were praedes and praedia', another  mark perhaps of its semi-public origin. Arist. Bep. Ath. 52. 3 and of. Voigt, I. N. ii. 401.   2 47 Dig. 22. 4. 3 Voigt, Rom. BG. i. 808.   * Ps. Asc. in Cio. Diu. ; Paul. Diao. 151 s. u. manceps ; Cio. dam.   10. 25 ; Cic. Plane. 26. 64.   ' Paul. Diac. s. u. magisterare ; Cic. Att. v. 5. 3 ; Cio. 2 Verr.   11. 70. 169 ; ib. III. 71. 167.  ' Lex Mai. We have not yet really dis-  posed of all the consensual contracts, for we now  come to a class of obligations entered into without  formality and by the mere consent of the parties, but in which that consent is signified in one particular way, i.e. by the delivery of the object in  respect of which the contract is made. The contracts of this class have therefore been termed REAL  contracts, though they may with equal propriety be  called consensual. The oldest of them all is mutumn,  the gratuitous loan of res fungibiles, and it stands  apart from the other contracts of its class in such  a marked way, that its peculiarities can only be  understood from its history. It differed from the  other so-called real contracts, im having for its  remedy the condictio, an actio stricti iuris; in  being the only one which conveyed ownership in the  objects lent, and did not require them to be returned  in specie. Both peculiarities requfre explanation. The most important function of contract in early times is the making of money loans, and for this the Romans had devices peculiarly their own,  Tiexum, sponsio, and earpensilatio.  But these are available only to Roman CITIZENS (cf. Grice: OXONIANS), so  that the legal reforms constituting the so-called ius  gentium naturally included new methods of performing this particular transaction. One such innovation was the modification of sponsio, already  described, and the rise of stipulatio in its various  forms : another was the recognition of an agreement  followed by a payment as constituting a valid  contract, which might be enforced by the condictio,  like the older sponsio and expensilatio. This innovation is the contract known as mutum. It  doubtless originates in custom, and is crystallised  in the Edict of some reforming prætor. As its object was money, or things analogous to  money in having no individual importance, such as  com, seeds, &c., the object naturally did not have to  be returned in, specie by the borrower.   Though the bare agreement to repay was suffi-  ciently binding as regards the principal sum, the  payment of interest on the loan could not be pro-  vided for by bare agreement, but had to be clothed  in a stipulation. This rule may have been due to  the fact that mutuum was originally a loan firom friend  to friend ; but it rather seems to indicate that bare  consensus was at first somewhat reluctantly tolerated. In Plautus mutuum appears as a gratuitous loan, generally made between friends^ and in sharp con-  [Cure. 1. 1. 67 and 2. 3. 51 ; Paeud. D   trast to foenus, a loan with interest', which was  always entered into by stipulation. When mutuv/m  is used by Plautus to denote a loan on which interest  is payable, we must therefore understand that a  special agreement to that effect had been entered  into by stipulation, since mutuum was essentially  gratuitous.   From three passages " it is evident that mutuum  was recoverable by action in the time of Plautus*  (circ. A. V. c. 570), and it seems probable that LIVIO (si veda)  also uses it in a technical sense. If then we place  the date of the Lex Aebutia as late as A.v.c. 513,  and suppose, as Voigt does ', that mutuum being a  iuris gentium contract must have been subsequent  to that law, we shall be led to conclude that mutuum  came into use about the second quarter of the sixth  century. This theory as to date is supported by the  fact, which Karsten points out, that mutuum would  hardly have been possible without a uniform legal  tender, and that Rome did not appropriate to herself  the exclusive right of coinage till A.v.c. 486. We  thus see that the introduction of mutuum and that  of emtio uenditio, i.e. of the first real and the first  consensual contract, took place at about the same  time. As regards its peculiar remedy we know that  money lent by mutuum was recoverable by a con-  dictio certae pecujiiae, with the usual sponsio and   1 Asin. Trin. 3. 2. 101 ; 4. 3. 44 ; Bacch. 2. 3. 16.   3 Cure. A.v.c. 560. ^ xxxii. 2. 1. » Of A.v.c. 555.  6 I. N. IV. 614. ' Slip. restipulatio tertiae partis\ It seems, like expensila-  tio, to have received this stringent remedy by means  of juristic interpretation, which extended the meaning  and the remedy of pecimia certa credita so as to cover  this new form of loan. Thus we find credere often  used by Plautus in the sense of making a miwtvm/m *.   When this final extension had been made iu  the meaning of pecunia credita, we may reconstruct  the Edict on that subject as follows ° :   SI CERTVM PETETVR DE PECVNIA QVAM QVIS  CREDIDERIT EXPENSVMVE TVLERIT MVTVOVE DEDERIT NEVE EX IVSTA CAVSA SOLVERIT PROMISERITVE, DE EO IVDICIVM DABO. The iudicium here  referred to was the condictio certae pecuniae, the  formula of which has already been given*.   We know that mutuvm, could be applied to other  fungible things besides money, such as wine, oil or  seeds, and in those cases the remedy must have been  the condictio triticaria'^.   FoENVS NAVTIGVM {Bdveiov vavTiKov). A con-  tract very similar to mviuvm,, which we know to  have existed in the Republican period, since we find  it mentioned by Seruius Sulpicius * and entered into  by Cato', was foeniis nauticum, a form of marine  insurance resembling bottomry^. It consisted of a  money loan (pecunia traiecticia) to be paid back  by the borrower, — invariably the owner of a ship, Cic. Rose. Com. 4. 13.   2 As in Pers. 1. 1. 37; Merc. 1. 1. 58; Pseud. 1. 5. 91. Voigt, I. N. IV. 616. •* p. 104. » 12 Dig. 1. 2.   8 22 Dig. 2. 8. ' Plutarch, Cat. Mai. 21.   ' Camazza, Dir. Com. p. 176 ff. only in the event of the ship's safe return from her  voyage. A slave or freedman of the lender apparently  went with the ship to guard against fraud'; but there  was no hjrpothecation of the ship, as in a modem  bottomry bond.   The contract resembled mutuum in being made  without formality; but its marked peculiarities  were:  That it was confined to loans of money, And to loans from insurers to ship-owners,  And because of the great risk it was not  a gratuitous loan, but always bore interest at a very  high rate/ It is, however, quite possible that this  interest was not originally allowed as a part of  the formless contract, but that it was customary, as  Labeo states ', to stipulate for a severe poena in case  the loan was not returned. If that be so, the stipulatory poena spoken of by Seruius and Labeo must  have been the forerunner in the Republican period  of the onerous interest mentioned by Paulus'' as  an inherent part of this contract in his day. The next three real  contracts are not mentioned by Gains, who apparently took his classification fi-om Seruius Sulpicius,  and it therefore seems certain that in the time of  Seruius and during the Republic they were not re-  garded as contracts, but as mere pacta praetoria.   Commodatum was the same transaction as mutuum  applied to a different object. In mutuum there was  a gratuitous loan of money or other res fungihilis,   1 Plut. Gat. 1. 0.; 45 Dig. 1. 122 fr. 1.  22 Big. 2. 7. ' 22 Big. Big.] CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM]whereas in commodatum the gratuitous loan was one  of a res nonfungihilis '   Both were originally acts of friendship, as their  gratuitous nature implies. Plautus shows us that in  his day the loan of money was not distinguished from  that of other objects, for he uses commodare^ and  iitendwm dare^ in speaking of a money loan, as well  as in describing genuine cases of commodatum. We  do not, however, discover from Plautus that commodatum, was actionable in his time, as mmiuwrn clearly  was. Vtendmn dare, we may note, is in his plays  a more usual term than commodare. If it be asked  why the condictio was not extended to commodatum  as it was to mutwu/m, the answer is that the latter  always gave rise to a liquidated debt, whereas in a  case of commodatum the damages had first to be  judicially ascertained, and for this purpose the condictio was manifestly not available. The earliest mention of commodatum as an actionable agreement occurs in the writings of Quintus  Mucins Scaevola (ob. A.v.c. 672) quoted by Ulpian"  and Gellius. CICERONE (s veda) significantly omits to mention  it in his list of bonae fidei contracts, and the Lex lulia  Municipalis (a.v.c. 709) contains no allusion to it.  The peculiar rules of the agreement seem to have  become fixed at an early date. Quintus Mucins  Scaeuola is said to have decided that culpa leuis   ^ e.g. a scyphus, Plaut. Asin. 2. i. 38 or a chlamys, Men. i. i.  94.   2 Asin. 3. 3. 135. « Persa, 1. 3. 37. Aul. 1. 2. 18 ; Bvd. Dig. Bruns, Font. AGE OF COMMODATVM] should be the measure of responsibility required from  the bailee (is cui commodatur), and to have established  the rule as to furtum usus, in cases where the res  commodata was improperly used. It seems therefore  probable that the Praetor recognised commodatum  at first as a pactum praetoriwn, and granted for  its protection an actio in factum, with the following  formula: Si paret A™ Agerium N" Negidio rem qua  de agitur commodasse (or utendam dedisse) eamque A" Agerio redditam non esse, quanti ea res erit,  tantam pecuniam N"^ Negidium A" Agerio condemna.  s. n. p. a. The agreement between bailor and bailee pro-  bably did not come to be regarded as a regular  contract until after the time of CICERONE (si veda). We must  therefore place the introduction of the actio commodati at least as late as A.v.c. 710, and by so doing we  explain CICERONE (si veda)’s silence. Whatever conclusion we  shall arrive at as to depositum must almost necessarily be taken as applying to commodatum, also.  They both had double forms of action in the time  of Gaius neither is mentioned by Cicero, and  Scaevola evidently dealt with them both together.  Hence their simultaneous origin seems almost  certain. The actio commodati is said to have been  instituted by a prætor pacuuius'', who, like PLAUTO (si veda), used the words utendum dare instead of com-  modare. The terms of his Edict must therefore  have been:   1 IV. 47. 2 13 Dig. 6. 1. CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   QVOD QVIS VTENDVM DEDISSE DICETVR, DE EO  IVDICIVM DABOl   The author of this Edict was formerly supposed  by Voigt to be Pacuuius Antistius Labeo", the  father of Labeo the jurist ; but this statement has  recently been withdrawn' on the ground that this  Pacuuius, having been a pupil of Seruius Sulpicius,  could not have been Praetor as early as the time of  Quintus Mucius. If however the above theory as to  the dates be correct, Voigt's former view may be  sound: Q. Mucius may have been speaking of the  actionable pactum, while Pacuuius may have been  the author of the true contract. The aMio com-  modati directa had a formula as follows: Qiiod A' Agerius N" Negidio rem q. d. a. commodauit (or  utendam dedit) quidquid oh earn rem M™ Negi-  dium A" Agerio dare facere praestare oportet ex  fide bona, eius iudex N" Negidiwm A' Agerio con-  demna. s. n. p. a. It was doubtless in this form  that the action on a commodatum was unknown to CICERONE (si veda). He must have been familiar only with the  actio in factvmi, and for that very reason he must  have regarded com/modatwm not as a contract, but as  a pactum conuentum. The most general word  denoting the bestowal of a trust by one person  upon another was commendare, and Voigt shows that corrvmendaiumh is the technical term   1 I. N. III. 969. 2 I. N. B. HG.  1 Dig. 2. 2. 44. Plant. Trin. 4. 3. 76 ; Cio. Fam. ii. 6. 5 ; 16 Diff. 3. 24 ; Cic.  Fin. IR. RG. i. App. 5. for a particular kind of pactum. If the object of  commendatio is the performance of some service,  the relation is a case of mandatwm. If its object is the keeping of some article in safe custody, the  relation is described as depositvm. This case clearly shows how arbitrary is the distinction  drawn by the Roman jurists between real contract and  consensual contract. Though starting, as we have  seen, from the same point, mandatum came to be  classed as a consensual, and depositv/m as a real  contract. This was simply because the latter dealt,  while the former did not deal, with the possession  of a definite res. Depositum distinctly appears in Plautus as an  agreement by which some object is placed in a  man's custody and committed to his care, though  deponere is not the word generally used by Plautus  to denote the act of depositing. He prefers the  phrase seruandimi dare, corresponding to utendvmi  dare, which we found to be his usual expression for  commodatum. These very words, semandum dare,  were also used by Quintus Mucins Scaevola in discussi Dg depositum, but we cannot ascertain from his  language whether or not the actio depositi was  already known to him. He may merely have been  discussing an actionable pactum,. Nor can we  infer from any passage of Plautus the existence  of depositum as a contract in his time. He seems  CICERO (si veda) Fin. III. 20. 65. 2 Plant. Merc. Dig. 3. 24 ; Plant. Merc. Bacch. Merc. 2. 1. 14 ; Cure. 2. 8. 66 ; Bacch. 2. 8. 10.   8 Gell. VI. 15. 2. rather to represent it, as CICERONE (si veda) does, in the light of  a friendly relation based simply on fides '^-j and in  most of the Plautine passages the transaction is that  which was afterwards known as depositum irregulare,  i.e. the deposit of a package containing money either  at a banker's ', or with a friend. Some have thought that there must have been  an action in Plautus' time for the protection of such  important trusts, but Demelius° points out that  the actio furti (to which Paulus alludes as actio ex  catosa depositi) would have afforded ample protection  in most cases; and it would be extremely rash to  infer that either commodatum or d&positwm was  actionable in the sixth century of the City. At first sight it even looks as though depositum,  was not protected by any action in the days of  Cicero. The passages in which he mentions it'  appear to treat the restoration of the res deposita  rather as a moral than a legal duty. Similarly  where he enumerates the bonae fidei actions, where he mentions the persons qui bonam fidem praestare debent, and where he describes the indicia  de fide mala'^', he entirely leaves out the actio depositi  and does not make the slightest allusion to depositum. But all this is equally true of commodatum. And since we have the clearest evidence that com-  modatum. was actionable in the time of Quintus   1 2 Verr. it. 16. 36. Merc. 2. 1. 14.   5 Cure. 2. 3. 66. * Bacch. Costa, Dir. Priv. p. 320. « Z. fur RG. ii. 224.   ' Farad, iii. 1. 21 ; Off. i. 10. 31 ; iii. 25. 95.  8 Off. Top. N. D. Gai.] Mucius ScaeuolaS we can hardly avoid the con-  viction that depositurn also was actionable in his  day by means of an actio in fojctvmi, whereas the  actio depositi was not introduced, as Voigt holds, till  the beginning of the eighth century. This theory of development, already applied to  mandatum and societas, has the advantage, not only  of explaining why commodatwm and depositvmi were  not numbered among hoTiae fidei contractus, but also  of accounting for the existence in Gains' day of their  double formulae which have puzzled so many jurists.  We may then believe that depositurn was first made  actionable between A.v.c. 650 and 670 as a pactum  praetorium, and with the protection of an actio in  factum concepta as given by Gains: Si paret A™  Agerium apud N™ Negidiwm mensam argenteam  deposuisse eamque dolo N^ Negidii A" Agerio redditam nan esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam,  iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato. s. n.  p. a. This formula was doubtless the only one pro-  vided for depositumi down to the end of Cicero's  career. But about A.v.c. 710^ juristic interpre-  tation began to regard commodatvmi and depositurn  as genuine contracts iuris ciuilis, and thereupon a  second formula was iutroduced into the Edict, with-  out disturbing the earlier one, so that depositurn, like  commodatwm, was finally recognised as a contract. Dig. 6. 5. Earn. EG. See Muirhead's Gaim. Dig. Dig.; Trebatius was trib. pleb. We know that the Praetor's Edict by which this  change was brought about ran somewhat thus: QVOD  NEQVE TVMVLTVS NEQVE INCENDII NEQVE RVINAE  NEQVE NAVFRAGII CAVSA DEPOSITVM SIT IN SIMPLVM,  EAEVM AVTEM RERVM QVAB SVPRA COMPREHENSAE  SVNT IN IPSVM IN DVPLVM, IN HEREDEM EIVS QVOD  DOLO MALO EACTVM ESSE DICETVR QVI MORTWS  SIT IN SIMPLVM, QVOD IPSIVS IN DVPLVM IVDICIVM   DABO'. The penalty of dwplwm shows that, where  the depositwn had been compelled by adverse cir-  cumstances, a violation of the contract was regarded  as peculiarly disgraceful and treacherous. In other  cases, where the depositwn was made under ordinary  circumstances, the amount recovered was simplwm,  and the new formula must have been that given by  Gaius " as follows : Quod A' Agenus apud N™ Negidium mensam argenteam, deposuit qua de re agitur,  quidquid oh earn rem JSf™ Negidium A" Agerio dare  facere oportet ex fide bona, eius index N™ Negidiv/m  A" Agerio condemnato. s. n. p. a.  PiGNVS. The giving and taking of a  pledge appears in Plautus as a means of securing a  promise, but seems then to have belonged to the  class of friendly acts which the law does not condescend to enforce. In Gaptiui for instance, the slave  who had been pledged is demanded in a purely informal way, and in Rudens pignus is a mere token  given to prove that the giver is speaking the truth. Its connection with arrhabo is very close. Each  served to show that an agreement is seriously [Dig.] meant by the parties, or was a means of securing  credit as a substitute for money, and if the agreement was broken, the pignus or arrhabo was doubtless  kept as compensation. This practice of giving pawns  or pledges was probably of great antiquity, but we  hear nothing of it from legal sources, simply because  it was an institution founded on mores alone. It probably applies only to moveables and res nee mancipi\  for res mancipi could be dealt with by a pactvmi  fiduciae annexed to mancipatio. Gaius derives the  word from pugnuTn, because a pledge was handed  over to the pledgee. But the correct derivation is  doubtless from the same root as pactum, pepigi,  Pacht, Pfand. Pignus must mean a  thing fixed or fastened, and so a security. And  this derivation suits the word in the phrase pignoris  capio equally well, without leading us to suppose that  the custom of giving a pledge is in any way derived  from the pignoris capio of the legis actio system.   We do not know when pignus becomes a contract,  though it certainly is so before the end of the  Republic. Long before being recognised as such it  doubtless enjoys the protection of an actio in factum,  with a formula as follows: Si paret A^ Agerium N Negidio ratem q. d. a. oh pecuniam debitam pignori  dedisse, eamque pecuniam solutam, eoue nomine satisfactum esse, aut per N™ Negidium stetisse quominus  soluatur, eamque ratem q. d. a. A" Agerio redditam  rum esse, quanti ea res erit, tantam, &c.^ In course  Bechmann, Kauf, ii. 416. '' 50 Big. 16. 238. ' ibid.  Dernburg, FJr. i. p. 49 ; Beitr. zur vrgl. Sprachforsch.  Lenel] of time the actio pigneraticia was introduced as an  alternative remedy, and Ubbelohde ' has argued that  since its place in the edict was between commodatum  and depositum, the Praetor must have introduced  the actio pign&raiicia after the actio com/modati and  before the actio depositi ; which seems a very plausible conjecture. We have no direct evidence of the  existence of an actio pigneraticia earlier than the  time of Alfenus Varus, a jurist of the later Republic. It is not mentioned by CICERONE (si veda). In short  everything points to the origin of the contract of  pigrms as corresponding in age to that of commodatum and depositum. The language of the edict by which pignus was made a contract has not  survived, while the formula of its actio pigneraticia  resembled of course that of the actio depositi, and  need not therefore be given. Though pignus is doubtless a very inadequate  security from the point of view of the pledgor, since  it might at any time be alienated or destroyed, it is  the only form which appears to be common in  Plautus, and of fiducia he shows us not a trace. Pignus seems to have been much used for making  wagers, and pignore certare was probably as common  as sponsione certare. The contracts of a kindred nature which seem to  have arisen even sooner than pignus will be discussed  in the next chapter.   1 6. der ben. Bealcont.  jjjgr. Costa, Dir. Priv. p. 262. * Bekker, Akt.] We have examined in a  former chapter the early origin of the pactwm  fidudae^, a formless agreement annexed to a solemn  conveyance, by which the transferee of the object  conveyed as security agreed to reconvey, as soon as  the debt was paid, or whenever a given condition  should arise. As a result of the Edict Pacta conuenta,  and before Cicero's time'', this pactum became en-  forceable by the actio fiduciae.   This action was in factum, like the others of its  class, and its function was to award damages, but  it could not otherwise compel the actual recon-  veyance of the object. Its formula must have been  worded as follows^ :   Si paret A™ Ageriwm N" Negidio fwndum quo de  agitur oh pecuniam debitam fiduciae causa mancipio  dedisse, eamque pecuniam solutam eoue nomine satis-  f actum esse, aut per N™' Negidium stetisse quominus  solueretur, eumque fwndum redditum non esse, nego- [Cie. Off. in. 15. 61.   3 Lenel, Ed. Perp. p. 233.   B. E.] tiumue ita actum non esse ut inter honos T)ene agier  oportet et sine fraudatione, quanti ea res erit tantwm  pecuniam index N™ Negidium A" Agerio condemna.  s. n. p. a.   The peculiar clause "ut inter honos bene agier  oportet"'^ virtually made this a bonae fidei action.  That fact may perhaps explain vfhyfiduda was never  protected by a formula in ius coTicepta, and hence  was never regarded as a true contract. We have seen that there  were two ways in which a tangible security might be  given: the object might be conveyed with a  pactum fiduciae, providing that it should be reconveyed on the fulfilment of a certain condition, or  else the mere detention of the object might be  granted on similar terms. In the former case  the pledge or its value could be recovered by  the actio fiduciae, in the latter by the actio pigneraticia whose origin we have just discussed. But  neither fiducia nor pignus is a contract of pledge  pure and simple. Each consists of an agreement  plus a delivery of the object. The abstract conception of mortgage, i.e. pledging  by mere agreement, is a distinct advance upon both  these methods. The contract which embodies this  form of pledge is known as hypotheca ; and as its  name indicates it was borrowed from the Greeks,  from whom the Romans also took the Lex Rhodia  de iactu and the foeitms nauticum. Precisely the  same contract is found in the speeches of Demos-   CICERONE (si veda) Top.] thenes' under the name of v-trodr)Kr\, which could  he applied to moveables or immoveables, and even  to articles not yet in existence. The Romans how-  ever regarded hypotheca not as a contract but as a  pactum.   It is quite certain that a legal conception so refined  as the pactum hypothecae could not have had a place  in the legal system of the XII Tables. There are  passages in Festus and Dionysius in which the  words si quid pignoris and eveyypat^eiv have been  supposed to indicate the existence of some such  practice at an early period. But the evidence is  much too vague to supply trustworthy data, and we  may confidently assert that mortgage was unknown  to the early law. Accordingly, we find that hy-  potheca was introduced and made actionable by  slow degrees. Its popular name was pignus oppo-  situm, as distinct from pignus depositum, the ordinary  pignut above described.   Its LQtroduction seems to have been one of the  many legal innovations produced by the large immigration of strangers into Rome after the Second Punic  War. These strangers must generally have become  tenants of Roman landlords, since the lack of ius  commercii prevented their buying lands or houses,  and in order to secure his rent, the only resource  open to the landlord was to take the household goods  of these tenants as security. Such household goods  {inuecta illata) probably constituted in most cases  the only wealth of the foreign immigrant, conse- [Dernburg, Pfdr. s.u. nancitor. Dernburg, Pfdr.] quently the landlord could not remove them, and  the method of pignus was not available. The ex-  pedient which suggested itself was that the tenant  should pledge his goods without removal, by means  of a simple agreement. The relation thus created  was the original form of hypotheca and was precisely  analogous to that of a modern chattel mortgage.   As the idea was introduced by foreigners ', it was  very natural that this agreement of pledge should  have received a foreign name. Another class to  whom the new expedient was applied were the free  agricultural tenants (coloni) whose sole wealth often  consisted of their tools and other agricultural stock^.  The necessity of making a pledge without removal  is obvious in their case also.   I. It was for the protection of landlords that  a Praetor Saluius introduced the interdictum Salui-  anum, which seems to have been the first legal  recognition that hypotheca received. Its date is not  known. Formerly the Praetor Salvius Iulianus,  author of the Edictum perpetuum, was regarded as  the inventor of this interdict, but his own language  in the Digest^ contradicts this supposition. The  most reasonable theory is that the interdict origi-  nated before the Edict Pacta conuenta (A.v.c.)  at about the end of the sixth century.   The fact that Plautus knew hypotheca as a mere  nudum pactum can hardly be doubted. It is true  that he not only uses, as Terence does a little later, 1 Dernburg, Pfdr. Big. 15. 3. 1.   » 1.S Dig. 7. 22. * Demelius, Z.filr RG. ii. 232.   5 Phorm.]  the phrase pignori opponere ' to denote the making  of a pledge by mere agreement; but he also men-  tions the Greek technical term eTndi^Krj and seems  to use hypotheca as a metaphor'^. The testimony  to be gathered from these passages does not however  prove that hypotheca was actionable'.   The contents of the interdictum Saluianum can-  not be given with certainty. We only know two  things about it: that it was a remedy of limited  scope, being available only against the tenant or  pledgor, but not against third parties to whom he  had transferred or sold or pledged the goods, and  that the interdict is prohibitory and forbids  the pledgor to prevent the landlord from seizing  the objects which had been mortgaged. This first proposition is distinctly stated by  a constitution of Gordian, but flatly contradicted  by a passage in the Digest. The latter authority,  however, seems open to strong suspicion and the  fact that the actio Serviana is presumably introduced because the interdictum Salvianum is  inadequate further goes to prove the correctness of  Gordian's constitution. We may be fairly certain that the interdict  was prohibitory, like the interdictum utrvbi, and  not restitutory, as Huschke would have it'; since  the weight of authority is in favour of the former   1 Pseud. 1. 1. 85. * True. 2. 1. i.   3 Costa, Dir. priv. p. 264 ; Dernburg, Pfdr., God.  = Dig. Lenel, Z. der Sav. Stiftung, R. A, iii. 181.  7 Studien] view^ We may therefore accept KudorfiPs restora-  tion of its formula, which runs as follows: Si  is homo quo de agitur est ex his rebus de quibus inter  te et conductorem (colonum, &c. &c.) conuenit, ut quae  in eu/m fwndum quo de agitw inducta illata ibi nata  factaue essent ea pignori tibi pro mercede eiusfimdi  essent, neque ea merces tibi soluta eoue nomine satisfactum, est aut per te stat quaminu^s soluatur, ita quo-  minus eum ducas uim fieri ueto.   II. The second remedy introduced to enforce  the formless agreement of mortgage was the actio  Seruiana, which was far more efficacious. Its author  cannot have been Seruius Sulpicius Rufus, the Mend  of CICERONE (si veda), because he never is prætor urbanus, and  the action must have existed long before his time.  The Praetor who devised it was doubtless one of the  many Seruii Sulpicii whose names constantly appear  in the fasti consulares, and its age is probably not  much less than that of the interdictum Saluianum.  The action was certainly younger than the interdict,  and an improvement upon it, because the jurists  treated the law of mortgage under the head of interdict', which indicates that this was the form of the  original remedy. We may be sure that the interdict  is older than the Edict Pacta conuenta, for otherwise  it would not have been needed. And as soon as  pa(Aa were thus legally recognised, it is safe to say  that a more perfect remedy for hypotheca was sure   ' Dernburg, Pfdr. p. 59; Bachofen, Pfdr. p. 13; Keller, Re-  cemion. p. 977 and Eudorff, Pfandkl. p. 210 ; Lenel, Ed. Perp. p.  394.   2 Pfandkl. p. 209. Of. Budorff, Ed. Perp. 282.   ' Dernburg, Pfdr.] to be devised. The probability is then that the actio  Seruiana was one of the first products of the Edict  Pacta conuenta, partly because we know that the  interdict was an imperfect remedy, partly because  hypotheca was much in vogue at that early date.  Thus we may gather from Plautus' allusions that  hypotheca was already in a well developed state  about A.v.c. 570. CATONE (si veda) the Censor also seems to  have alluded to it, and Caec. Statins, as cited by Festus", unquestionably did so.  The curious circumstance that CICERONE (si veda) should have  mentioned it only twice may perhaps be accounted  for by the fact that PIGNUS in its looser sense (in sensu lato) is  always a synonym for hypotheca, and as he mentions  it so seldom in its Greek form, we may suppose that  hypotheca is then only just coming into  general use. We know that pignus in the narrower  sense (in sensu stricto) is distinguished by Ulpian from hypotheca as  sharply as we distinguish a pawn from a mortgage,  but the earlier writers lead us to infer that the  term pignus oppositum, or simply pignus, was originally the equivalent of hypotheca. The effect of the actio Serviana was probably a  mere enlargement of the scope of the interdictwm  Salvianum, giving the landlord a legal hold upon  the inuecta illata of his tenant even in the possession  of third parties. But since the right of thus pledging  by agreement was as yet recognised only as between  the colonus or the house-tenant and his landlord,   1 jj. i{. 146. s.u. reluere.Att. n. 17 and Fam. xiii. 56. Dig.] hypotheca was a transaction still confined to a small  class. A final improvement is effected, perhaps  shortly after the one just mentioned, when the  prætor grants an action on. the analogy of the actio Serviana, upon all agreements of pledge of whatever  description. From the creation of this action, known  as cuctio quasi Serviana  or hypothecaria , or simply  Serviana, dated the introduction of a law of mortgage applicable to objects of all kinds. The name  hypothecaria, which we find applied only to the last  of these three remedies, implies either that this was  the only action available for all forms of hypotheca, or  else that the Greek term was not introduced until  the contract had thus become general. The formula of the CKtio quasi Seruiana or hypo-  thecaria was of course in factum concepta, because  the pactum hypothecae never was treated as a contractus iuris civilis, though it became in reality as  binding as any contract. The words are restored  by Lenel as follows, in an action by the mortgagee  against a third party: Si paret inter A™ Agerium et  Ludum Titium, conuenisse ut ea res qua de agitur A°  Agerio pignori hypothecaeue esset propter pecuniam  debitam, eamque rem tunc cum conueniebat in bonis D  Titiifuisse, eamque pecuniam neque solutam neque eo  nomine satisfactum esse neque per A Agerium, stare  quominus soluatur, nisi eares A" Agerio arbitratu-tuo  Inst. Dig. Bachofen, Pfdr. Ed. perp.; cf. Dernburg, Pfdr.; cf. Budorfl] restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam index  N'" Negidium A" Agerio condemna. s, n. p. a. No mortgage can be of much practical use unless  it empowers the creditor to sell the thing pledged,  so as to cover his loss. But it is evident that the  mere pledgee or mortgagee could have had no in-  herent right to sell or convey what did not belong to  him. This was an advantage possessed by fiduoia,  since the property was fully conveyed and could  therefore be disposed of as soon as the condition was  broken. The only way out of the difficulty both in  pignus and hypotheca was to make a condition of  sale part of the original agreement. This was unnecessary under the Empire when the power of sale  came to be implied in every hypotheca, but during  the Republic the power had to be explicitly reserved, or else the vendor was liable for conversion  (furtumy. Even Gains " speaks as though a pactum  de uendendo was usual in his time. Labeo describes  a sale eoc pacta convento, but the usual name for the  clause of the agreement containing the power of sale  was lex ccmimissoria. When it became possible to  insert such a clause is uncertain, but Demburg  seems right in maintaining that, as the lex commissoria was known to Labeo and to the far more  ancient Greek law, it must certainly have been  customary at Rome long before the end of the  Republic. Dig.; Demburg, Pfdr. Dig. = Pfdr. as against Baehofen, Pfdr.] The custom of committing hypothecae to writing  (tabulae), which is indicated by Gaius', doubtless pre-  vailed also in the Republican period, the object of  the writing being simply to facilitate proof   When we translate hypotheca by the English  word mortgage, we must not forget that the latter  denotes technically a conveyance defeasible by con-  dition subsequent, closely resembling ^cZwcia, where-  as the former denoted the mere creation of a lien.   On the other hand it is true that our modem  mortgage has lost its original resemblance to fidma,  and has now become almost identical with hypotheca. Praediatvea is a peculiar form of suretyship which the Roman jurists never treated  as a contract, though it doubtless had a very ancient  origin. It was connected with the public emtiones  and locationes, and was the regular method by which  contractors or undertakers of public work gave bond  to do their work properly. The transaction resembles the giving of sponsores  in private law. The friends of the contractor who are willing to be his sureties (praedes) appear  before the Praetor or other magistrate, and entered  into a verbal contract by which they bound them-  selves with all that they possessed. The magistrate,  we are told, asked each surety " Praesne es?" and  the surety answered "Praes"\ This has every  appearance of having been a formal contract like  sponsio, and it is difficult to accept the view of  Mommsen ^ who considers that the publicity of the   » 20 Dig. 1. 4 ; 22 Dig. 4. 4.   2 Paul. Diao. s.u. Praes. ' Stadtr. von Salpema] transaction leads us to infer its formless character.  If we follow him in assuming that praedes and  praedia were purely public institutions, how can we  explain the existence of the praedes litis et vindiciarum, who certainly appears in private suits, and  how can we understand those passages in Plautus  and CICERONE (si veda) which clearly refer to praedes and praedia  in private transactions? If then we deny to prædiatura an exclusively public character, we must class it with sponsio and uadimonium as another  formal mode of giving security. The etymology which explains the word præs as  being the adverbial form of præsto is undoubtedly false. Ihering and Goppert suppose that it comes  from the same root as praedium, and means one who  undertakes a liability. But in the Lex agraria the  spelling is praeuides instead of praedes, and this  indicates rather that the true derivation is from  prae and uas ', in the sense of " one who comes forth  and binds himself verbally Pott thinks that vas is the generic term for surety, and that præs is a composite word meaning a surety who makes  good (præstare) what he undertakes. Where the  derivation is so uncertain no safe conclusion may be  arrived at, and the origin of the contract must, in  this case as in that of the primitive vadimonium,  remain an enigma. Cf. aduersariw, Gai. Plaut. Men.; CICERONE (si veda) Cio. Att.Eivier, Untersuch. Z.fiir RG. Fas bomfari, or vas from a root meaning, to bind. Dernbur'g, P/dr.; Eivier, Untersueh. Etym. Forsch. The obligation of the praes was enforced by compulsory sale, the details of which we unfortunately  do not know. The expression prædes vendere  shows approximately how the right was enforced,  but it is uncertain whether this means to sell the  property of the surety, or merely to sell the claim  of the State against him K Besides the personal responsibility thus assumed  by the praes, there was another kind of security  known as praedium which the principal might be  required to give. If the praedes furnished by him  were not sufficient, praediwm might be required as  an additional safeguard; but we also find that  praedes or praedia might be separately given. The form in which a bond of praedia had to be  made was a written acknowledgment in the Treasury  (praediorum apud aerarium subsignatio), and the  only object capable of serving or being pledged as a  praedium was landed property owned by a Roman  citizen, and possessing all the qualities of a res  mancipi. Hence the seciirity of praedia could not  in many instances have been available, for the  whole of solwm prouinciale and the holdings of  ager publicus in the possession of occupatorii would  of course have been excluded. The amount of Cio. Phil. 11. 31. 78 ; aes Malac. cap. 64-5.  2 Dernburg, Pfdr. i. p. 28. ' CICERONE (si veda) 2 Verr. i. 54. 142.  Goppert, Z.filr EG. iv. p. 288.   ' Lex agraria of a.v.c. 643 ; Lex Put. parieti faciendo, Bruns,  Font. p. 272, aes Malac. cap. 64.  ' ae» Malac. e.g. Lex Acilia repet., and Festus s.u. quadrantal,  8 Cic. Place. 32. 80. praedia which had to be given was entirely in the  magistrate's discretion and to help him in his  decision we find that there existed praediorum  cognitores who were probably persons appointed  to assess the value of praedia, and responsible to  the State if their information was wrong. As to the nature of the transaction effected by  praediorum subsignatio, there can be no doubt that  the old theory held by Savigny and others is incorrect, and that the State did not in virtue of svbsignatio become absolute owner of the praedia. Rivier and Demburg have demonstrated that the State  merely acquired a lien, and that praediorum subsignatio was therefore a species of mortgage. The  classical sources fully support this view, and it is  certain that while the property was subject to this  lien its owner still had the right to sell it and to  exercise other rights of ownership. A public sale  (venditio prædiorum) follows closely no doubt  upon the default of the debtor, but does not necessarily accompany the sale of the goods of the praedes (uenditio praedium). At Rome the former sale was  made by the praefecti aerario, and in the Lex Malacitana the duumvirs or decuriones are empowered to  make it. A peculiarity of the sale of praedia was that the   ' Lex agraria, 73-4 ; Bruns, Font. p. 84.   2 aes Malac. cap. 65. 3 Savigny Heid. Jahrsch. 1809, p. 268 ; Walter, E. G. p. 587 ;  Hugo, R. G. 449.   * Pfdr. 1. p. 33. VARRONE (si veda) L. L.; Lex agraria, Dig. 17. 205. ^ Gai. ii. 61 ; CICERONE (si veda) Cie. 2 Verr. i. 55. 144. 8 cap. 64; Bruns, Font. p. 146. dominiwm residing in the owner became instantly  transferred to the praediaior or purchaser from the  State, without any act on the owner's part. The  only advantage reserved to the dispossessed owner  was an exceptional right of recovering his property  from the purchaser by usurec&ptio, i.e. conscious  usucapio S one of the few instances in which it was  possible to exercise usucapio otherwise than with a  bona fide colour of title. In this case, as the  praedia were always land, the statutory period of  two years was necessary to complete the adverse  possession. The lex praediatoria mentioned in the aes  Malacitanum" has been thought to be a statute of  unknown date; but it more probably denotes some  collection of traditional terms used in praediatura  and analogous to a lex uenditionis in a contract of  sale. The restoration of praediatoria in Gains is doubtful, and censoria seems much to be preferred. The operation of praediatura as a general lien  on all the property of the praes is probably recognised in the Republican period, although Demburg has doubts on this point. Such a lien is found  in the Lex Malacitana in the time of Domitian,  but this may have been an extension to the public  aerarium of the general hypotheca belonging to the  Imperial Fiscus. At any rate, there is no evidence  that the lien did not exist in our period; and if it  1 Gai. Boecking, Rom. Priv. Pfdr.  irssv. did, we can readily see that the security of praediatura was superior to that of sponsio. It is perhaps natural that the subject of praedes  and praedia should be obscure, for the complicated  nature of the law of praediatura is attested by CICERONE (si veda) who states that certain lawyers make it a  special study. Art. 4. AcTiONES ADiECTiciAE. Besides introducing the actio mandati, the praetor's edict enlarged the scope of agency by instituting several  other important actions. These were the actiones  quod iussu, exercitoria, institoria, tributoria, de peculio  and de in rem uerso. In all of them alike the Praetor's object was to fasten responsibility on some  superior with whose consent, or on whose behalf,  contracts had been made by an inferior. They  are known as actiones adiecticiae, because they were  considered as supplementing the ordinary actions  which could be brought against the inferior himself As they made the principal liable on the contracts  of a subordinate, it is plain that they must have  been a most useful substitute for the complete law  of agency which the Romans always lacked. The  fact that they all had formulae in ius conceptae  points to a late origin, but they all doubtless origi-  nated before the end of the Republic. The actio quod iussu was an action in which  a son or slave, who had made a contract at the  bidding of his pater familias, was treated as a mere  conduit pipe, and by which the obligation was  directly imposed on the pater familias who had [Balb. = 14 Dig. 1. 5. fr. 1. authorized it. Since Labeo mentioned the action as  though its practice was well developed in his day, we may fairly suppose that iussus was made actionable in Republican times. The formula is as follows: Quod iussu N^ Negidii A" Agerius Gaio, cum is  in potestate N'' Negidii esset, togam uendidit qua de  re agitur, quidquid oh earn rem Oaium jUium A°  Agerio dare facere oportet ex fide hona, eius iudex  iV™ Negidium patrem A" Agerio condemna. s. n. p. a. Here the express comniand of the superior was the  source of his obligation. The actio exercitoria was an action in which  a ship owner or charterer {exercitor) was held directly responsible for the contracts of the ship master (magister nauis). Its formula probably ran as follows:  Quod A^ Agerius de Lmio Titio magistro eius nauis  quam N' Negidius exercebat, eius rei causa in quam  L' Titius ibi praepositus fuit, incertum stipulatus est  qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium  A" Agerio praestare oportet ex fide bona eius N™'  Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.- It was  known to Ofilius in the eighth century of the city*,  and was very probably even older than his day. The necessities of trade were obviously the source  from which this particular form of agency sprang,  because in an age of great commercial activity,  when even bills of lading were not yet introduced,  it was expedient that the delivery of goods or the [Dig. 4. 1. fr. 9. ^ x4 Big. Baron, Abh. aus dem B. C. P. ii. 181. Dig. 1. 1. fr. 9. making of contracts by the master should be equivalent to a direct transaction with the ship owner  himself.   (3) The actio institoria no doubt had a like  commercial origin. This was an action by which  the person who employed a manager (institor) in a  busiuess from which he drew the profits, was made  liable for the debts and contracts of the manager.  This action was known as early as the days of  Seruius Sulpicius^, and its formula closely resem-  bled that of the actio exerdtoria. The difference  between these two and the actio quod iussu con-  sisted simply in the fact that the iiissus or autho-  rization was special in the one case, and general in  the other two. In the actiones exercitoria and insti-  toria an implied general authority was ascribed to the  agent in virtue of his praepositio^, whereas in the  actio quod iussu the agent had only an express special  authority. Thus the magister nauis and the institor  were genuine instances of general agents ; and we  find therefore, as we should have expected, that the  acts of the magister and institor only bound the  master when strictly within the scope of their  authority'. This is an excellent instance of the  manner in which Mercantile Law has developed the  same rules in ancient as in modem times. The actio tributoria is that by which a  master was compelled to pay over to the creditors  of a son or slave trading with his consent whatever [Dig. 3. 5. fr. 1. Dig.; Oosta, Azioni, Dig.  tribui, 14 Dig. 4. 5. 5. B. E. 14 profits he had received from the business. The  formula ran thus : Quod J.' Agerius de L" Titio qui  in potestate N'' Negidii est, cum is sciente N" Negidia  merce peculiari negotiaretur, -infiertum stipulatus est  qua de re agitur, quidquid ex ea merce et quod eo  nomine receptum est ob earn rem iV™ Negidium .4."  Agerio tribuere oportet, eius dumtaxat in id quod  minus dolo malo N Negidii A' Agerius tribuit,  N'^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.  This action was mentioned by Labeo ' and was there-  fore probably as old as the other actions of this class.  The knowledge and tacit approval of the superior  were here the source of his obligation. The actiones de peculio and de in rem uerso are proceedings by which the master is required  to make good any obligation contracted by his son or  slave, to the extent of the son's or slave's peculium,  or of such gain as had accrued to himself {in rem  uersum) from the contract. Their peculiarity, as  GAIO (si veda) has told us and as a recent writer conclusively shows, was that they had one formula with  an alternative condemnatio, which may be reconstructed as follows : Quod A' Agerius de Lwdo Titio  cum is in potestate JV Negidii esset, incertmn stipulatus est qua de re agitur, quidquid ob earn rem Lucius  Titius A" Agerio praestare oportet ex fde bona, eius  iudex N'^ Negidium A" Agerio, dumtaxat de peculio  quod penes N"^ Negidium est, uel siquid in rem N*  Negidii inde versv/m est, condemna. s. n. p. a. This [Dig. Baron, Dig. 4. 7. Baron; cf. Lenel, Ed. perp. formula might be so modified that the actio de  peculio and the actio de in rem uerso could be  brought either separately or together. These actions  were known to Alfenus Varus^, and it is safe to say  that they were introduced some time before the  end of the Republic. The knowledge or consent of  the superior did not here have to be proved.   The difference between the actio tributoria and  the actio de peculio was considerable. By the former  the master contributed his profits and then shared in  the distribution as an ordinary creditor. But by the  latter he became a preferred creditor, and deducted  from his profits the whole amount owed to him by  the son or slave. The peculium in the latter case  was in fact only the balance remaining after the  debts of the son to him had been satisfied.   Art. 5. CoNSTiTVTVM AND Receptvm. To-  wards the end of the Republic we find two kinds of  formless contract by which a debt could be created,  and both of which seem to have sprung fi-om the requirements of Roman commerce  I. Gonstitutmn. The chief characteristics of this contract may be  gathered from the constitution by which Justinian  ftised together the actio recepticia and the actio  pecuniæ constitutæ as well as from allusions in  the Digest. It seems to have been a formless promise of payment at a particular date; depending on  the existence of a prior indebtedness to which the Dig. Ihering, Geist Cod. constitutwm became accessory; unconditional; enforced by an actio pecuniae constitutae of prætorian  origin which was in some cases perpetua and in  others armalis ; and available to persons of all classes. Constitutwm is discussed by Labeo, and is mentioned by CICERONE (si veda) in a way which makes it certain  that the actio pecuniae constitutae existed in his day.  The action originated in the prætor's edict,  and it was thereby provided with a penal sponsio  similar to that of the condictio certae pecuniae. This  leads us to infer that pecwnia constituta was treated  by the Praetor as analogous to pecunia credita; especially as Gains states that pecwnia credita strictly means only an unconditional obligation to pay money,  while we know from Justinian's constitution that  unless constitutvmi was unconditional no action would  lie. But why should the penal sponsio of the actio  pecuniae constitutae have been so much heavier than  that of the condictio, namely dimidiae instead of  tertian partis? The reason given by TEOFILO (si veda) is that constitutum is generally entered into by a  debtor in order to gain time for the payment of a  debt already due, and that the prætor institutes this severe action in order to discourage insolvent  debtors from this practice. Labeo on the contrary  says that constitutvm is made actionable in order  to enforce the payment of debts not yet due. Both li Dig. God. Big. Quint. Dig. Gai. IT. 171. 8 Paraphr. Dig. Labeo and Theophilus are probably right ', but each  takes a one-sided view. The Praetor's aim presu-  mably was to enforce the payment of any debt, due  or not due, which the debtor had made a renewed  promise to pay at a particular date. The breach of a repeated promise (for constitutum always implied  a previous promise or indebtedness) was doubtless  regarded by the Praetor as a singularly flagrant  breach of faith; and hence he compelled the defendant to join in a penal sponsio dimidiae partis.   This actio per sponsionem was not however the  only remedy for a breach of constitutum. The Digest  shows that the usual form of redress was an actio in  factum, which probably had a formula as follows:  Si paret Nwmeriimi Negidium Aulo Agerio X  millia Kal. Ian. se soluturwn constituisse, neque earn  pecuniam soluisse, neque per Agerium stetisse quo-  minus solueretur, eamque pecuniam cum constituehatur  debitam fuisse, quanti ea res est, tantam pecuniam,  Nunierium Negidium Aulo Agerio condemna ; and  that this actio in factum, existed in Gaius' time  as an alternative remedy seems probable from his  language. It is not likely that the actio  in factum arose simultaneously with the other; and  of the two Puchta* is almost certainly right in  assigning the earlier date to the actio per sponsionem, because the custom of sponsione prouocare suggests an ancient origin. This sponsio, like that of  the condictio, is præiudicialis, but it also contained a strongly penal element. Its penal character is [Bruns, Z. f. EG. Dig. Bruns. Inst. CONTRACTS NOT CLASSIFIED] no doubt the reason why the action may not be brought against the heir of the constituens, and why  it is annalis. As Bruns shows, the remedy  after one year is probably the actio in factum',  by which the plain amount of the constitutum mayalone be recovered. Constitutum may be employed for the renewal of  the promisor's own debt {const, debiti proprii), as  well as of another man's (const, debiti alieni), and  this distinction is early allowed". In the later  law it could also be used to reinforce and render actionable an “obligatio naturalis”. But this feature  probably did not exist at the origin of the action",  for the Praetor could only have had in mind pecunia  eredita, when he inflicted such a heavy penalty.  The effect of constitutwm was simply to reinforce the  old obligation by supplying a more stringent remedy.  It never produced novation as stipulatio or expensilatio would have done. The agreement by which shipmasters, innkeepers  and stablemen {nautae, caupones, stabularii) undertook to take care of the goods or property of their customers was known as receptum, and was enforced  by means of an actio de recepto as rigorously as the  duties of common carriers are enforced by the Common  Law". The edict is expressed as follows: navtae CAVPONES stabvlarii qvod cvivsqve salvvm fore RECEPERINT NISI RESTITVENT, IN EOS IVDICIVM DABO;  Bruns) Dig. Bruns, Camazza, Dir. Com. and the remedy was an ordinary actio in factvm,  authorising the judge to assess damages for the loss  or non-production of the goods. But the contract which more nearly concerns us  is receptum argentariorum, the nature of which has  been a subject of much controversy. This is a formless promise to pay on behalf of  another man, and we gather from GIUSTINIANO that it is capable of creating an original debt; capable  of being made svb conditione or in diem, and enforced by an actio recepticia, which is perpetua;  while TEOFILO (si veda) tells us that it is confined to bankers (argentarii). Bruns indeed supposes that  receptum was a formal contract iuris ciuilis, while  according to Voigt it is a species of expensilatio  devised by the argentarii. Lenel however proves that receptum argentariorum is introduced  and regulated by the prætor in the same part of  the Edict in which he treats of the recepta  nautarum, cauponarum and stabulariorum. This  appears from the fact that in 13 Big. 5. 27 and  28, constituere has evidently been substituted by Tribonian and his colleagues for recipere. Ulpian  treats of constitutwm in his book on the  Edict. But the passage quoted in the Digest is  from his book on the Edict, in which we know  that he discussed the clause Nautae caupon^s statularii. So also POMPONIO (si veda), who discussed recepta Cod.  Z. fur RG.  fiSm. EG. Z. der Sav. Stift. Dig. Dig.  nautarvm, &c. and constitutum, is described as mentioning the latter. Gains also is represented to have dealt with constitutum in the very same book in which he  treated of recepta nautarum. We must conclude, either that all these writers  introduced into their discussion of recepta naviarum &c. the totally irrelevant subject of constitutum, or  that the subject thus introduced was not constitutum but receptum argentariorum. If the latter conclusion is correct, as we may well believe that it must be, it  follows that receptum, argentariorum was, like the  other recepta, regulated by the Praetorian Edict, and  was therefore not a contract iuris ciuilis. By analogy with the other recepta we may further conclude that  receptum argentariorum was formless, and hence  cannot have been a species of eoopensilatio. The  remedy is of course an actio in factum. Recipere is used by CICERONE in the sense of undertaking a personal guarantee, but with no clearly  technical meaning. Justinian states that the ouctio  recepticia was objectionable on account of its solemnia verba, and Lenel has explained this to mean  that the actio recepticia, being necessarily in factum  like those of the other recepta, had to contain the   words "si paret soluturwm recepisse. n^que  soluisse quod solui recepit, of which recipere was  a technical term. This term, being misunderstood  by the Greeks, was translated in Justinian's time Dig.; Vig. = Dig. Phil.; ad Fam. by constitmre. It is almost certain that the actio  recepticia was known before the end of the Republic, since Labeo evidently  discussed it. The function of receptum probably is to provide  an international mode of assigning indebtedness, because transcriptio a persona in persona/m was not  available to peregrins'. The existence of the debt  between the creditor and the original debtor was  clearly not affected by the obligation of the argen-  tarius who had made a receptum; and from the  passages above cited Lenel also infers that receptum  pro alio was the only known form which the contract ever took. In short, it seems to have closely resembled the acceptance of a modem bill of exchange, and it is doubtless made by the argentarius on behalf of his clients or correspondents. Dig. Lenel, Z. der Sav. Stift. Carnazza, Dir. Com. We have now traced the development of the  Roman Law of Contract from an early stage of  Formalism, in which few agreements were actionable, and those few provided with imperfect remedies, to the almost complete maturity to which it had  attained by the end of the Republic. Of all the contracts which we have examined,  nexum and vadimonium seem to be the only two that became obsolete during this period, while the  new contracts of Praetorian origin, such as depositum  and constitutum, attain their full growth. So that the jurists of the empire find little to do besides the work of interpretation and  amplification. The one great improvement, and almost the only one, which the law of contract undergoes subsequently to our period, is the introduction of the  actiones praescriptis uerbis, by which the scope of real contract is immensely enlarged. In other respects, the law of the republic  has the credit of having generated that wonderful system of contract which later ages have scarcely  ever failed to copy, and which lies at the root of so  much of English Law. Keywords: il duello, “del contratto” – giocco come contratto – wrestling as a contract, fencing as a contract, contract bridge as a contract -- pena temporaria, pena perpetua, divorzio, matrimonio, stato, legge, devere naturale, obbligazione naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fisichella” – The Swimming-Pool Library. Francesco Fisischella. Fisischella.

 

Grice e Fitio: la ragione conversazionale e la setta di Reggio -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.

 

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