Grice e Fiore: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale musicale – scuola
di Celico – filosofia celicese – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Celico). Filosofo
celicese. Filosofo cosentino. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Celico,
Cosenza, Calabria. Grice: “If you are thinking that Fiore is the source for the
Cistercians, you are wrong – actually Fiore WAS a Cisctercian until he wasn’t
one! Pretty much like St. John’s!” -- da Floris, Italian philosopher, the
founder the order of Ciscercian order of San Giovanni in Fiore (vide, Grice,
“St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest of his life to
meditation and the recording of his prophetic visions. In his major works Liber
concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in Apocalypsim and Psalterium
decem chordarum. Da Floris illustrates
the deep meaning of history as he perceived it in his visions. History develops
in coexisting patterns of twos and threes. The two testaments represent history
as divided in two phases ending in the First and Second Advent, respectively.
History progresses also through stages corresponding to the Holy Trinity. The
age of the Father is that of the law; the age of the Son is that of grace,
ending approximately in 1260; the age of the Spirit will produce a spiritualized
church. Some monastic orders like the Franciscans and Dominicans saw themselves
as already belonging to this final era of spirituality and interpreted
Joachim’s prophecies as suggesting the overthrow of the contemporary
ecclesiastical institutions. Some of his views were condemned by the Lateran
Council. F.«… E lucemi dallato, il calavrese abate
F. di spirito profetico dotato» (ALIGHIERI (si veda), Paradiso. Filosofo.
Morte Pietrafitta, Beatificazione Nuncupato Santuario principale Abbazia
Florense Manuale F. è stato un abate, teologo e filosofo italiano. È venerato
come beato da parte dei florensi e dei gesuiti bollandisti, anche se non c'è
mai stata una beatificazione ufficiale da parte della Chiesa cattolica. Le
condizioni economiche della famiglia di F. erano agiate; il padre Mauro,
infatti, è tabulario o notaio. In passato si è ritenuto che la famiglia avesse
origini ebraiche, forse per spiegare l'atteggiamento benevolo di F. nei
confronti dell'Ebraismo. La sua casa natale viene collocata storicamente
dove sorge attualmente la chiesa dell'Assunta, edificata sicuramente sul
perimetro della casa natale dell'abate F.. Riceve le prime nozioni di
educazione scolastica a Cosenza. Ben presto è mandato a lavorare presso
l'ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul
posto di lavoro, anda a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il
padre riusce a fargli ottenere un posto presso la corte normanna a Palermo,
dove lavora prima a diretto contatto con il capo della zecca, poi con i notai
Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo, arcivescovo
Perche. Entrato in disaccordo anche coll’arcivescovo, si allontana
definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un viaggio in
Terrasanta. Gl’inizi Forse nel corso di questo viaggio matura un profondo
distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture.
Al ritorno in patria F. si ritira dapprima in una grotta nei pressi di un
monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a
Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui è riconosciuto e costretto ad incontrare
il padre, che lo ha dato per disperso. Al padre confessa di aver smesso di
lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re -- cioè il Signore Dio
nostro. Vive presso l'abbazia di Santa Maria della Sambucina, da cui si
allontana per andare a predicare dall'altra parte della valle, vivendo nei
pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino a Rende. Poiché
al tempo la predicazione di un laico non è ben accetta, F. compe un viaggio
fino a Catanzaro, dove il vescovo locale lo ordina sacerdote. Durante il
tragitto da Rende a Catanzaro si ferma nel monastero di Santa Maria di Corazzo,
dove incontra il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti,
rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Torna a predicare
nuovamente a Rende, con l'abito di sacerdote. Poco tempo dopo vestì l'abito
monastico, entrando nel monastero di Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia
benedettina, guidata dal beato Colombano, aspirava a seguire la regola
cistercense. Secondo le fonti più accreditate, Bonasso venne eletto abate
di Santa Maria di Corazzo, ma rinuncia, scappando dapprima nel monastero della Sambucina,
poi nel monastero del legno della croce di Acri. F. non ambiva a diventare
abate, ma a studiare le Sacre Scritture. Gli uomini più potenti di quel tempo,
riunitisi con lui a Sambucina, lo convinsero ad accettare la carica di abate di
quel monastero, all'epoca poverissimo. A Corazzo l'abate F. comincia a scrivere
la prima delle sue opere, La “Genealogia”, impiegando come suoi scribi frate
Giovanni e frate Nicola. In qualità di abate compe un viaggio all'abbazia di Casamari.
Durante questo periodo incontra il papa Lucio III, che gli concesse la licentia
scribendi. Con l'aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, inizia già a
Casamari la stesura delle sue opere principali: la “Concordia tra il vecchio e
il nuovo testamento” e l' “Esposizione dell'Apocalisse”. In quello stesso
periodo F. interpreta innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte
del defunto cardinale Angers. Da qui scature l'incoraggiamento del pontefice
Lucio III a scrivere le sue opere. Si reca a Verona, dove incontra il papa
Urbano III. Al ritorno si ritira a Pietralata, una località sconosciuta,
abbandonando definitivamente la guida dell'abbazia di Corazzo. I suoi monaci
non tolleravano il suo girovagare e lo stare sempre distante dall'abbazia e
pertanto fanno una petizione per risolvere la questione presso la curia. A
seguito di ciò, ottenne l'affiliazione dell'abbazia di Corazzo all'abbazia di
Fossanova e il papa Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali,
autorizzandolo a continuare a scrivere. Pietralata e protomonastero di
Fiore Vetere Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Abbazia Florense. A Pietralata, presumibilmente una contrada nei pressi di
Marzi-Rogliano, da lui ribattezzata Petra Olei, cominciarono a pervenire molti
seguaci. Il primo è Raniero da Ponza, che in seguito è legato apostolico in
Francia e Spagna sotto papa Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo
incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorre a sentire F. Pertanto F.
sale in Sila alla ricerca di un territorio che si puo abitare. Dopo varie
perlustrazioni, si ferma nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, nel comune
di San Giovanni in Fiore. A sei mesi di distanza dalla perlustrazione, abbandona
Pietralata e si trasferì con i suoi discepoli in Sila sul luogo prescelto.
Pietralata è un luogo avvolto nel mistero e ancora oggi non identificato con
sufficienti certezze. Dopo VI mesi dal trasferimento, il re Guglielmo il
Buono muore e gli subentra sul trono normanno Tancredi, già conte di Lecce. Sono
proprio i funzionari di Tancredi a contestare a F. l'insediamento in Sila, per
cui l'abate dove recarsi a Palermo per discutere con il re. Dopo un complesso
confronto tra i due, durante il quale Tancredi propose a F. di trasferirsi
presso l'abbazia della Matina allora in stato di grave declino (proposta
rifiutata in maniera decisa da F.), gli è concesso di restare in Sila, nel
luogo prescelto, facendogli dono di un vasto tenimento posto nelle adiacenze,
aggiungendo CCC pecore e XXX some di grano per il sostentamento della comunità
religiosa. Da qui in avanti comincia a costruire il protomonastero di Fiore
Vetere. Dopo la morte di Tancredi, subentra nel regno Enrico VI, figlio di
Federico Barbarossa, il quale concede a F. un vasto tenimento in Sila e
privilegi sovrani su tutta la Calabria. La Congregazione florense
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ordine florense
e Florensi. In questo periodo, dopo il diploma concesso da Enrico VI, F. fonda
i monasteri di Bonoligno e Tassitano e acquisce altri monasteri già
italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, F. si reca
a Roma ricevendo da papa Celestino III l'approvazione della congregazione
florense e dei suoi istituti. I florensi continuarono a colonizzare il
territorio assegnato e, affinché Fiore venisse articolato secondo lo schema
della Tav. XII, misero a coltura i territori di Bonolegno e di Faradomus,
facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il
progetto del novus ordo. Pertanto, con le acque del fiume Garga, attraverso il
canale cosiddetto badiale, fecondarono dapprima Bonolegno e poi Faradomus. Da
qui insorsero delle liti con i monaci greci del monastero dei tre fanciulli,
ubicato in prossimità di Caccuri, che contestarono ai florensi l'occupazione di
territori che secondo loro detenevano da tempi immemorabili. I poveri florensi
furono bastonati, malmenati e gli edifici in costruzione distrutti. Tuttavia
l'azione di costruzione dell'insediamento non si ferma, fintanto che l'abate
rimane in vita. F. muore presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel
monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti sono traslati
nell'abbazia di San Giovanni in Fiore quando la grande chiesa era ancora in
costruzione. L'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, continua l'opera
ampliando le fondazioni florensi; nel periodo del suo abbaziato, l'ordine
florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese,
ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria,
Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane
terre di Inghilterra, Galles e Irlanda. I grandi benefattori dell'abate
Gioacchino e dell'Ordine florense La Congregazione florense prima e l'Ordine
florense poi ebbero molti benefattori; fra i tanti vale la pena
ricordare: Signore di Oliveti: diede a F. la possibilità di vivere nel
ritiro di Pietralata. Tancredi il Normanno: concesse a Gioacchino il Locum
Floris, il Tenimentum Silae, 300 pecore e 112,5 quintali di grano annui. Enrico
VI di Svevia: concesse a Gioacchino il Tenimentum Floris e tanti privilegi
imperiali. Gilberto, vescovo di Cerenzia: concesse il tenimento Montemarco con
la relativa abbazia e filiazioni dipendenti. Celestino III: riconobbe la
Congregazione florense e i suoi istituti religiosi. Costanza d'Altavilla:
ratificò a Gioacchino tutti i beni posseduti dal Monasterio Sancti Johanni de
Flore. Umfredo Colino e Simone de Mamistra, Giustiziere Regio della Calabria:
concessero a Gioacchino la tenuta di Caput Album (capo Arvo). Ugolino,
cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina, Legato Apostolico in Sicilia: concesse
a Gioacchino la tenuta Albetum in Caput Gratium (Albeto di Capo Crati).
Federico II di Svevia: concesse a Gioacchino le tenute Caput Album e Caput
Gratis. Andrea, arcivescovo di Cosenza: concesse a Gioacchino la chiesa di San
Martino di Jove in Canale (Pietrafitta). Stefano, vescovo di Tropea, Gattegrima
e Simone de Mamistra (Giustiziere Regio della Calabria), signori di Fiumefreddo:
concessero a Giacchino la chiesa di Santa Domenica, con tutte le sue
dipendenze, compreso i tenimenti Flumen Frigidum e Barbaro. Culto
Gioacchino da Fiore con l'aureola, affresco, cattedrale di Santa Severina I
seguaci di F., subito dopo la sua morte, raccolsero la biografia, le opere e le
testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la
canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle
disposizioni del Concilio Lateranense IV, che dichiara eretiche alcune frasi
contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditato ingiustamente a F..
Tuttavia la seconda Costituzione Conciliare sull'errore dell'abate Gioacchino
dichiarò anche: "Con ciò, però, non vogliamo gettare un'ombra sul
monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi
l'insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso
Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero approvati o
corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera,
da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza
tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e
maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli" (Cost. 2). ALIGHIERI,
nella Divina Commedia, inserisce F. nel paradiso, tra la schiera dei beati
sapienti, corrispondenti agli odierni dottori della Chiesa, accanto a FIDANZA
(si veda), Mauro e AQUINO (si veda). Da ciò si desume il chiaro giudizio di
Dante, emesso 110 anni circa dopo la morte dell'abate calabrese. Un
secondo tentativo d'avvio della canonizzazione fu compiuto dall'abate Pietro
del monastero florense, che si recò ad Avignone per portare al Sommo Pontefice
tutta la documentazione relativa alle grazie e ai miracoli ottenuti tramite
l'abate F., sia durante la sua vita sia dopo la sua morte. È risaputo che
i cistercensi venerarono come beato l'abate F., elaborandone perfino l'antifona
per il 29 maggio. Si ritiene che ciò sia avvenuto quando i florensi furono
fatti confluire nella Congregazione cistercense calabro lucana. I gesuiti
bollandisti nel loro calendario liturgico e nel loro messale avevano incluso
l'abate Gioacchino come beato, fissando per lui nell'anno due festività celebrative. Il
vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all'Inquisizione i monaci
cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una
lampada sull'altare vicino al sepolcro dell'abate F.. Tale denuncia causò una
serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All'approssimarsi
dell'VIII centenario della morte dell'abate Gioacchino, il 25 giugno 2001
l'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l'iter per la
canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana. Postulatore della
Causa è stato nominato Gabrieli. Opere: Dialogi de prescientia Dei F.,
esortato da papa Lucio III, mise per iscritto la sua originale interpretazione
delle Sacre Scritture. Le sue opere principali sono: Concordia Novi ac
Veteris Testamenti Expositio in Apocalypsim Psalterium decem chordarum A queste
vanno aggiunte: Adversus Iudaeos- edizione Adversus Iudeos, Fonti per la
storia d'Italia 95, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Apocalypsis
Nova De Articulis Fidei - edizione De articulis fidei, Fonti per la storia
d'Italia 78, Roma, Tipografia del Senato. De prophetia ignota De Septem
Sigillis Dialogi de Praescientia Dei et de praedestinatione electorum -
edizione Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, Fonti per la
storia dell'Italia medievale. Antiquitates, Roma, Istituto storico italiano per
il Medio Evo Roma, Enchiridion super Apocalypsim Epistulae Inteligentia super
calathis ad abbatem Gaufridum Testamentum Universis Christi fidelibus
Exhortatorium Iudeorum Genealogia Liber Figurarum (scoperto da Leone Tondelli)
Poemata duo (Visio admirandae historiae, Hymnus de patria coelesti) Prefatio in
Apocalypsim Professio fidei Quaestio de Maria Magdalena Sermones Soliloquium
Tractatus super quattuor Evangelia - edizione Tractatus super quatuor
evangelia, Fonti per la storia d'Italia, Torino, Bottega d'Erasmo. Tractatus in
expositionem et regulae beati Benedicti Ultimis Tribulationibus Sono inoltre
conosciuti: Testi apocrifi: Liber contra Lombardum Super Hieremiam
Praemissiones e Super Esaiam De oneribus prophetarum Expositio super Sibillas e
Merlino Vaticinia de Summis Pontificibus (di dubbia provenienza) Altri
manoscritti vari, chiamati Opuscoli. Le intuizioni di Gioacchino da Fiore
Secondo Gian Luca Potestà nella sua recensione a Refrigerio dei Santi,
Gioacchino da Fiore, "segna comunque una svolta nella coscienza
escatologica medievale, in quanto è il primo a rompere il "tabù
agostiniano" riguardo ad Apocalisse 20 e ad avanzare, in modo cauto ma
netto l'idea che la ligatio Sathane per annos mille vada riferita al tempo
imminente di pace terrena, situato fra la prossima venuta dell'Anticristo e le
persecuzioni finali di Gog e Magog." Sulla stessa linea si pone Robert E.
Lerner che evidenza come il teorema di Sant'Agostino, della suddivisione della
storia in tre periodi: Ante legem, sub lege, sub gratia, viene rivisto da
Gioacchino che introduce nel dramma il quarto atto: Itaque tempus ante legem,
secundum sub lege, tertium sub evangelio, quartum sub spiritali
intellectu", dimostrando così la sua straordinaria originalità
interpretativa delle Sacre Scritture. Gioacchino da Fiore tra le tante
ebbe tre interessanti e originali intuizioni. Ha cercato e provato che
esistono diverse forme di concordia tra l'Antico e il Nuovo Testamento, il
primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo
indissolubilmente legato al periodo del Figlio. Da questo concetto, noto come
modello "binario della teologia della storia", data la piena
proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di "proiettare
con fiducia il corso della storia cristiana oltre l'età apostolica sino al
presente, e da qui verso il futuro." (Lerner) Sulla base di questo sistema
di concordanza tra i due Testamenti, attraverso lo studio accurato delle
Scritture, ritiene di poter scrutare nel futuro, assicurando che i due
Testamenti assicuravano le medesime certezze. Dopo di che passa ad interpretare
l'Apocalisse, l'ultimo libro del Nuovo Testamento, e anche qui ritrova a suo
modo di dire la continuità dell'intera storia della chiesa, passata, presente e
futura. Gioacchino ha sempre sostenuto a chiare lettere di essere un interprete
ispirato della Scrittura, piuttosto che un profeta, egli, infatti, rifuggì dal
rappresentare il tempo finale con parole diverse da quelle direttamente tratte
dalla Scrittura. Da questo concetto binario, F. elabora un "modello
ternario", connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo
con alcuni concetti fondamentali attraverso l'analisi teologico-iconografica
delle lettere "ALFA" e "OMEGA". Dallo sviluppo di queste
due concezioni basilari F. approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle
"tre Età della Storia terrena", sostenendo che se c'era stato il
tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre e il tempo in cui ha operato
prevalentemente il Figlio, allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà
prevalentemente lo Spirito Santo, che procede da Padre e dal Figlio. La
scansione del tempo che l'abate di Fiore elabora si basa sulle tre epoche
fondamentali: Età del Padre: corrispondente alle narrazioni dell'Antico
Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda; Età del
Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall'avvento di Gesù; Età dello
Spirito Santo: estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del
"millennio sabbatico", ovvero quel periodo in cui l'umanità
attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di
una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale,
tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica,
gerarchica, troppo materiale. L'età dello Spirito ricomprende le età precedenti
in un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l'uomo
rigenerato dallo svelamento dei misteri e s-secondo alcune interpretazioni- il
ricongiungimento di cristiani ed ebrei, fino ad ora divisi dalla parziale
illuminazione di Antico e Nuovo Testamento. Con tale teorema F. estende
il tempo della storia, proponendo la dilazione del tempo della salvezza. F.
elabora pertanto, prima il modello dell'albero dei due avventi, poi i tre
alberi, quello sviluppato nell'età del Padre, quello sviluppato nell'età del
Figlio e quello che si svilupperà nell'età dello Spirito Santo. F. crede di
vivere nella fase finale di una sesta età, cui ne seguirà una settima e ultima,
tutta intrastorica, fatta dell'incremento dei doni dello Spirito fino al
compimento del sabato eterno, stagione della pienezza della grazia donata.
Nell'età dello Spirito l'etica non ha più il carattere punitivo e rigido
dell'età del Padre: il disvelamento è una progressiva apertura verso un Dio
benevolente, essenzialmente Amore, in cui si muove da una Padre dell'Antico
Testamento, che è giudice/Dio guerriero/padrone dell'uomo e della natura
severo-vendicativo e misterioso/trascendente, al Figlio che dona la vita per la
salvezza dell'uomo mostrandosi come Amore e Verità, allo Spirito che completa
questa dimensione rivelata. L'inesorabilità della storia, secondo
Gioacchino, è data da un ossessionante computo delle generazioni, che a volte
valgono un'estensione di tempo a volte no. Con questo meccanismo complesso
elabora una sorta di "linea del tempo", che va dalla
"Genesi" al "Giudizio Universale". I due capi segnano i
confini estremi della storia della salvezza che si sviluppa all'interno di
questa linea del tempo. Gioacchino si chiede quanto è lunga questa linea del
tempo e a quale punto di questa linea egli si trova, quindi da qui sviluppa una
serie di calcoli e combinazioni teologiche del tutto originali. Lerner sostiene
che "Nella sua visione, ciò poteva essere conseguito soltanto con lo
studio il più approfondito della Scrittura ed egli si sentiva fiducioso che,
mediante nuove strategie di lettura, sarebbe stato in grado di portare alla
luce messaggi predittivi della Scrittura, che sino ad allora erano rimasti
segreti." Tutta la sua attività ha finito per qualificarlo come un
ambizioso pensatore cristiano, ricercatore irrefrenabile di parallelismi,
allusioni e predizioni. Il filosofo Giraldi sottolinea invece l'aspetto in cui F.
parla di età dello spirito riferendosi esplicitamente ad un ordo spiritualis
monachorum, una sorta di chiesa privilegiata di monaci - spiriti superiori - in
seno alla Chiesa di Cristo, e quindi non una chiesa alternativa. Nel suo
Monasterium delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma
dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o
alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro
stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia,
anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un
abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione che
mette in crisi l'organizzazione della chiesa che condanna pubblicamente le sue
idee e le sue opere nel concilio Lateranense: per l'affermazione di un
disvelamento progressivo di Dio in tre epoche che mette in crisi l'idea
dell'Unità delle Tre Persone divine, per la teoria di fondo secondo cui la
verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che
ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un'età di
perfezione. Monasterium All'interno dei suoi ossessionanti calcoli
cronosofici e millenaristi F. elabora anche uno schema di vita religiosa per il
tempo futuro, quello dello Spirito, riassunto nella tavola del Liber Figurarum.
Esso descrive una congregazione religiosa, raggruppata in un insediamento
denominato Monasterium, formata da persone con diversa spiritualità,
raggruppate sapientemente in sette oratori[1]: Oratorio della Santa Madre
di Dio e della Santa Gerusalemme: in tale oratorio si trova l'abate Oratorio di
San Giovanni Evangelista: dedicato alla vita contemplativa Oratorio di San
Pietro: dedicato agli anziani o ai deboli di salute, lavori manuali leggeri Oratorio
di San Paolo: dedicato allo studio Oratorio di San Stefano: dedicato a chi ha
inclinazione per la vita attiva Oratorio di San Giovanni Battista: per
sacerdoti e clerici Oratorio del santo patriarca Abramo: per laici coniugati e
le loro famiglie Al Monasterium potevano quindi partecipare laici coniugati e
non, clero secolare e conventuale, monaci spirituali. Tutti vivono sotto la
guida di un unico abate che presiede l'istituto religioso, disponendo e
regolando, per i gruppi e per ognuno, una sorta di scala d'accesso al Paradiso,
da conquistare vivendo nella comunità. L'insediamento religioso è strutturato a
modello di nuova Gerusalemme terrena con schema somigliante alla Gerusalemme
dei cieli. Il Monasterium gioachimita delinea diversi aspetti comportamentali e
sociali che rispettati saranno utili a varcare la porta d'accesso alla vita
eterna. Il passaggio da un oratorio ad un altro si conquista glorificando il
Padre eterno, ognuno per le proprie possibilità e a seconda del grado
spirituale concesso ad ogni singolo individuo da Dio. Il progresso spirituale
non è precluso a nessuno, per cui tutti possono aspirare ad accedere al
Paradiso. Il modello proposto dal Monasterium rappresentò una rivoluzione
per due aspetti: esso affranca ampi strati della società sia dalla
feudalità ecclesiastica sia da quella "baronale"; esso coinvolgeva
tutti i modelli religiosi integrando nel Monasterium perfino i laici, che al
tempo erano ai margini della vita religiosa e della società civile. Questo
modello monastico fu quindi osteggiato anche all'interno della chiesa del XIII
secolo. Diffusione del pensiero gioachimita Concilio Lateranense e prime
reazioni La complessa e innovativa teologia della storia generò tensioni,
specialmente nella scuola teologica di Parigi, storicamente a lui avversa. Il
Concilio Lateranense IV dichiara ERETICHE alcune frasi contro Lombardo di
un'opera sulla Trinità falsamente attribuita a F. Da questo equivoco se ne
generarono altri, fintantoché lo stesso Papa Innocenzo III con bolla informa il
vescovo di Lucca di non infamare l'abate F., giacché l'Abate è considerato
dalla Curia Romana un vero Cattolico (eum virum catholicum reputamus). Con
parole dello stesso tenore si espresse Papa Onorio III con la Bolla con cui dà
mandato all'arcivescovo di Cosenza (Luca Campano) di difendere i Monaci
Florensi dalle false accuse rivolte al loro fondatore. Neo Gioachimiti e
il Gioachimismo Lo stesso argomento in dettaglio: Gioachimismo. Nei secoli, il
pensiero di F. è stato studiato, divulgato e diffuso. Si possono distinguere
due gruppi di studiosi: i gioachiniani e gioachimiti, che hanno
rispettato fedelmente le opere originarie; gli pseudo gioachimiti o
gioachimisti, che hanno recepito solo in parte le tesi proposte, spesso
aggiungendo teoremi teologici estranei al pensiero originario. Tra i più grandi
sostenitori dell'abate calabrese furono certamente i monaci florensi che ne
seguirono la dottrina e l'esempio, ma egli suscitò interesse anche presso
alcuni monaci cistercensi tra i quali: Luca Campano: il primo dei seguaci
eloquenti, egli fu scriba dell'abate nell'abbazia di Casamari, poi abate della
Sambucina e infine Arcivescovo di Cosenza; a lui si ascrive una “vita” di
Gioacchino Raniero Da Ponza: monaco vissuto a stretto contatto con F., come
“socio”, a Pietralata e a Fiore; egli fu poi nominato da Papa Innocenzo III
legato Apostolico in Francia meridionale e Spagna e in quelle terre diffuse la
teologia di F., spargendo in quelle terre diversi semi che germineranno nel
corso del secolo XIII. l'abate Matteo da Fiore de la Tuscia, che fu il suo
primo successore e guidò la Congregazione Florense, finché non fu eletto
arcivescovo di Cerenzia. Egli ebbe il merito di far copiare, ricopiare, ovvero
duplicare tante volte tutte le opere di Gioacchino per diffonderle nei
principali centri religiosi della penisola italiana e in tutta Europa. Se le
opere di F. sono giunte fino ai nostri giorni gran merito va all'abate Matteo
da Fiore e agli scriba e amanuensi florensi che si adoperarono in questo immane
lavoro di copiatura e duplicazione. La teologia di F. grazie a questi tre
uomini si diffuse rapidamente, specialmente presso i Francescani spirituali
francesi e italiani in vario modo. Tra questi: Il provenzale Ugo de
Digne, Giovanni da Parma, discepolo di Ugo e Gerardo di Borgo San Donnino, discepolo
a sua volta di Giovanni da Parma, che si fece promotore del concetto relativo
al Vangelo Eterno; scomunicato per eresia, fu condannato al carcere a vita Tra
gli altri, si avvicinarono al pensiero di Gioacchino: Salimbene de Adam
da Parma, l'inglese Ruggero Bacone, la suora dell'ordine delle Umiliate
Guglielma la Boema, la consorella Maifreda da Pirovano e il teologo laico di
questo gruppo milanese Saramita, il francescano francese Pietro di Giovanni
Olivi, che influenza Giovanni di Rupescissa e Giovanni di Bassigny. il
provenzale Raymond Geoffroi, Ministro generale francescano. Ubertino da Casale,
immortalato nelle pagine di Dante, era insieme a Pietro di Giovanni Olivi in
Santa Croce a Firenze, il pesarese Clareno, riconosciuto fondatore dei
Fraticelli della vita povera, e i seguaci di quest'ultimo, amico di Ubertino da
casale. Michele da Cesena e Jacopone da Todi, l'eclettico spagnolo Arnaldo de Villanova,
Francesco d'Appignano (Francesco della Marchia), Guglielmo di Ockham, Giovanni
di Janduno, Marsilio da Padova, Bernard Délicieux, Gentile da Foligno, priore
generale degli agostiniani. Berti da Calci. Papa Celestino V, Cola di Rienzo, il
sassone Federico di Brunswick, lo spagnolo Francesc Eiximenis, Nicola di Buldesdorf,
SAVONAROLA (si veda). Certo quest'elenco è solo una piccola parte di un numero
molto più folto di uomini colti che sono stati influenzati dalla sua
teologia. Nonostante molti francescani spirituali abbiano subito condanne
e reclusioni come filo gioachimiti o ritenuti tali, l'influenza di Gioacchino
nell'ordine dei fraticelli d'Assisi rimase viva, sia nella prima fase sia nei
periodi successivi. La prova più eclatante è la presenza di Gioacchino
nell'arte medievale: Nell'apparato scultoreo e figurativo del Duomo di
Assisi, Nella Divina Commedia Gioacchino e le sue idee vengono citate
direttamente o indirettamente diverse volte Paradiso, la struttura urbanistica
che i francescani dettero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los
Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc. la struttura compositiva elaborata da
Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina, secondo lo studio di Pfeiffer
S.J. Anche nella Chiesa cattolica contemporanea, specialmente dopo il Concilio
Vaticano II, diversi osservatori individuano il fiorire della ecclesia
spiritualis di concezione gioachimita. Secondo l'analisi accurata di
Henri-Marie de Lubac, teologo gesuita e poi cardinale, fra questi protagonisti
della storia recente influenzati dal gioachimismo abbiamo: papa Giovanni XXIII
con la sua invocazione a <<una nuova Pentecoste», contrapponendo lo
«spirito» del Concilio alla sua «lettera» e nuova Chiesa «spirituale» al posto
di quella vecchia «carnale»; la <<Chiesa dei poveri>> del cardinale
Giacomo Lercaro e del suo teologo Dossetti, la corrente intellettuale dominante
nel cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo XX; Silone su papa
Celestino V, «figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di
gioachimismo»; la "teologia della speranza" del gesuita Michel de
Certeau e del protestante Jürgen Moltmann, ispirate dalle concezioni
escatologiche di Bloch. Obama fa di F. un punto di riferimento. Nella stesura
della sua tesi di laurea, lo cita a più riprese durante la sua campagna
elettorale per le presidenziali, che definisce come "maestro della
civilta' contemporanea" e "ispiratore di un mondo più giusto",
usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto
"change we can", per indicare la necessità di un cambiamento radicale
della storia, citando il portabandiera di una società più giusta, e pensando
all'apertura di un'epoca straordinaria, in cui lo spirito riusce a cambiare il
cuore degli uomini. Centro Studi F. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Il Centro
Internazionale Studi Gioachimiti cura l'edizione critica delle opere scritte da
F., conservate in diversi codici manoscritti sparsi in diversi luoghi del
mondo. Esso opera attraverso un Comitato Scientifico Internazionale e un
Comitato Editoriale Internazionale e promuove ogni cinque anni un Congresso
Internazionale di Studi a tema, relativo a F. e al F. Gioachimismo. A cadenza
annuale stampa la rivista Florensia che contiene studi connessi a Gioacchino e
al Gioachimismo. Causa di Beatificazione e celebrazioni dell'VIII
centenario della morte. L’arcivescovo di Cosenza-Bisignano Giuseppe Agostino ha
riaperto il processo di canonizzazione. Nello stesso anno il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali ha istituito il Comitato per le celebrazioni
dell'VIII centenario della morte dell'Abate F. per promuovere la conoscenza di F.
e del suo pensiero. Il programma fu redatto da Cosimo Damiano Fonseca,
Professore di Storia Medioevale all'Università degli Studi di Bari, Accademico
dei Lincei e direttore del Comitato scientifico del Centro Studi F. Il comitato
che ha agito, ha promosso tre congressi: il primo itinerante da Roma a
San Giovanni in Fiore, passando per Casamari, Fossanova, Anagni, Cosenza, Luzzi
e Pietrafitta, il secondo a Bari, il terzo a Palermo. Il Comitato per le
Celebrazioni ha anche promosso l'edizione della raccolta dei Codici Gioachimiti
F., l'Atlante delle Fondazioni Florensi, un libro sulle vicende dell'Ordine
Florense, un altro relativo ai Vaticini, conservati presso la biblioteca del
duomo di Monreale. F. e il Carattere Meridiano del Movimento Francescano
in Calabria Editor il testo Luca Parisoli Valente "Chiese conventi
confraternite e congreghe di Celico e Minnito" Frama Sud ^ Pasquale
Lopetrone, La Domus che dicitur mater omnia, soveria Mannelli, Rubbettino. Il
tempo dell'apocalisse, Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri,
San Giovanni in Fiore, Pubblisfera, Gioacchino da Fiore - Manuale di storia
della filosofia medievale ^ S. Magister, Riletture. Su F. non tramonta mai il
sole, chiesa.espressonline.it, Filmato audio Giraldi, Giraldi: dialogo con De
Lubac su Gioacchino Da Fiore, su YouTube, H. De Lubac, Posterità spirituale di
Gioacchino da Fiore, II. Da Saint-Simon ai nostri giorni", Jaca Book,
Milano, L'eretico obamita-Il profeta democratico si ispira a F,, mistico
medioevale Con la sua idea (fraintesa) del paradiso in terra aveva irretito la
modernità, su il Foglio, di Mattia Ferraresi USA: DON BAGET BOZZO, INTERESSANTE
CHE OBAMA CITI F.-una finezza culturale che vorrei capire meglio, di don Gianni
Baget Bozzo, a Adnkronos, Roma. Bibliografia: Gioacchino da Fiore,
Sull'Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra), Feltrinelli, Milano, F.,
Introduzione all'Apocalisse, (prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di
Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1996. F., Commento ad una profezia ignota, (a
cura di Matthias Kaup, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma. F.,
Trattato sui quattro vangeli, (a cur. Potestà, traduzione di Letizia
Pellegrini), Viella, Roma, 1999. F., Dialoghi sulla prescienza divina e
predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca Potestà), Viella, Roma. F.,
Il Salterio a dieci corde, (a cura di Troncarelli), Viella, Roma, F., Sermoni,
(a cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma. F., I sette sigilli/De septem
sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo Gatto), con un
saggio di Tagliapietra, Mimesis, Milano, Studi Antonio Maria Adorisio, La
“leggenda” del santo di Fiore / Beati F. abbatis miracula, Vechiarelli,
Manziana, Buonaiuti, Gioacchino da Fiore: i tempi, la vita, il messaggio, Collezione
meridionale, Roma, Carmelo Ciccia, ALIGHIERI (si veda) e F., in “La sonda”,
Roma; poi incluso nel libro dello stesso autore Impressioni e commenti,
Virgilio, Milano, Carmelo Ciccia, Dante e F., con postfazione di Ronconi,
Pellegrini, Cosenza. Carmelo Ciccia, La santità di F. (Par. XII), in Allegorie
e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, Carmelo
Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori: F...., Pellegrini, Cosenza, Luigi
Costanzo, Il profeta calabrese, Direzione della Nuova Antologia, Roma, Crocco, F.
e il gioachimismo, Liguori, Napoli, Francesco D'Elia, Gioacchino da Fiore un
maestro della civiltà europea- antologia dei testi gioachimiti tradotti e
commentati-, Rubbettino, Soveria Mannelli, Valeria de Fraja (a cura di),
Atlante delle fondazioni Florensi, vol. II, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli, Valeria de Fraja, Oltre Cîteaux. F. e l'ordine florense, Viella, Pietro
De Leo, F.: aspetti inediti della vita e delle opere, Rubbettino, Soveria Mannelli,
Henri de Lubac, La posterità spirituale di F., Jaca Book, Milano, Foberti, F.,
Sansoni, Firenze Gabrieli, Una Fiamma che brilla ancora, La Fama sanctitatis
dell'Abate Gioacchino, Comet Editor Press, Cosenza, Grundmann, Studien uber
Joachim von Floris, Leipzig-Berlin, Herbert Grundmann, Gioacchino da Fiore.
Vita e opere, a cura di G. L. Potestà, traduzione di S. Sorrentino, Viella,
Pasquale Lopetrone, Monastero di San Giovanni in Fiore-Repertorio del
cartulario, S. Giovanni in Fiore, Edizioni Pubblisfera, 1999. Pasquale
Lopetrone, La cripta dell’archicenobio florense: strutture originarie e
superfetazioni storiche, in «Florensia», Bollettino del Centro Internazionale
Studi Gioachimiti, Comunicazioni al 5º Congresso Internazionale di Studi F. –
San Giovanni in Fiore-Settembre 1999, Gioacchino da Fiore tra Bernardo di
Clarvaux e Innocenzo III», Edizioni Dedalo, Bari, Pasquale Lopetrone, La chiesa
abbaziale florense di San Giovanni in Fiore, Librare, Pasquale Lopetrone, La
localizzazione del protomonastero di Fiore. Cronaca dell’attività ricognitiva in
«Florensia», Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Pasquale
Lopetrone, Il proto monastero florense di Fiore, origine, fondazione, vita,
distruzione, ritrovamento, in «Abate Gioacchino» Organo trimestrale per la
causa di canonizzazione del Servo di Dio Gioacchino da Fiore, Tipografia
grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone, La «Domus que dicitur mater
omnium» - Genesi architettonica del proto Tempio del Monasterium florense, in
(a cura di) C. D. Fonseca, D. Rubis, F. Sogliano, Jure Vetere. Ricerche
archeologiche nella prima fondazione monastica di Gioacchino da Fiore, Rubettino,
Soveria Mannelli, Pasquale Lopetrone (a cura di), Atlante delle fondazioni
Florensi, vol. I, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, P. Lopetrone,
L’architettura florense delle origini, in AA. VV., F., Librare, S. Giov. in F. Pasquale
Lopetrone, La chiesa dell’archicenobio florense di San Giovanni in Fiore-
Cronologia, in «Abate Gioacchino» Organo trimestrale per la causa di
canonizzazione del Servo di Dio F., Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale
Lopetrone, Il modello della Chiesa Florense sangiovannese, in (a cura di) C. D.
Fonseca, I Luoghi di Gioacchino da Fiore- Atti del primo Convegno
internazionale di studio- Casamari, Fossanova, Carlopoli-Corazzo,
Luzzi-Sambucina, Celico, Pietrafitta- Canale, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Viella,
Roma, Pasquale Lopetrone, Il Cristo fotoforo florense Pubblisfera, F., Pasquale
Lopetrone L'effigie dell'abate Gioacchino da Fiore, in VIVARIUM - Rivista di
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Culture, civiltà, politica, Marega, F., in Heliopolis. Culture, civiltà,
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Lamezia Terme, Piromalli, Gioacchino da Fiore e Dante, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Gian Luca Potestà, Il Tempo dell'apocalisse - Vita di Gioacchino da
Fiore, Laterza, Bari, Prisco, Nuove scoperte sulle figure, sulle parole e sulle
pietre di Gioacchino da Fiore, Pubblisfera Prosperi, Gioacchino da Fiore e le
sculture del Duomo di Assisi, Dimensione Grafica Editrice, Marjorie Reeves e
Warwick Gould, Gioacchino da Fiore e il mito dell'evangelo eterno nella cultura
europea, Viella, Riedl (ed.), A Companion to Joachim of Fiore, Leiden, Brill, Francesco
Russo, Bibliografia gioachimita, L. S. Olschki, Firenze, Staglianò, L'abate
calabrese: fede cattolica nella Trinità e pensiero teologico della storia in F.;
presentazione di Gianfranco Ravasi, postfazione di Piero Coda, Libreria
editrice vaticana, Città del Vaticano, Andrea Tagliapietra, Gioacchino da Fiore
e la filosofia, il Prato, Saonara, Leone Tondelli, Il libro delle figure
dell'abate F. in collaborazione con Marjorie E. Reeves e Beatrice
Hirsch-Reich), S.E.I., Torino. Troncarelli, Il ricordo del futuro-Gioacchino da
Fiore e il gioachimismo attraverso la storia, Adda Editore, Ordine Florense
Abbazia Florense Ernesto Buonaiuti Herbert Grundmann Leone Tondelli Antonio
Piromalli Gioachimismo Giovanni apostolo ed evangelista Riforma spirituale
medioevale. Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
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Studi F., su centrostudi F. .it. Lettera dal Vaticano Neo-F., su
stereo-denken.de. F. e i “duo viri”. Una profezia per immagini, su esplorazioni
cosentine I TEMPI Il mezzogiorno d'Italia Le condizioni
politiche . Normanni . Bizantini. " Musulmani. Svevi ;. “I Pontefici. Le
condizioni religiose Tradizioni bizantine. MonachiSmo benedettino . Riforma
cisterciense. Gli Ebrei in Calabria. H 4 PLA VITA La
leggenda e la storia. Le fonti canoniche. Luca. Giacomo Greco. La
leggenda ufficiale. Accenni autobiografici. La vocazione monastica. Il
monachiSmo del tempo. La conversione profetica. I cronisti britannici. Le
opere. Da Casamari a F. IL MESSAGGIO La profezia gioachimita.
Metodo.La conoscenza biblica. L’interpretatazione allegorica. Concordie e
analogie. L’escatologia di F. gioachimita e la teologia economica. La
Trinità nella storia. Il passato, il presente, l’avvenire.
L’avvento del terzo stato. La Chiesa carnale, la società spirituale. La
scomparsa della Chiesa visibile. La suprema manife¬ stazione dello
Spirito. Chiesa di oggi e Chiesa di ,
»domani. IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI
GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI Archivio Storico per le
Province Napoletane, SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA NAPOLI IPOTESI
GIOACHIMITE SUGL’AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN
NAPOLI Mais si l'on voit partout des métaphores que deviendront les
faits? Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet Una delle più
suggestive ipotesi in ordine alle motivazioni della costruzione della
grandiosa chiesa esterna del monastero di S. Chiara a Napoli ed al
possibile modello della pianta è stata avanzata, nel 1995, da Caroline
Bruzelius Secondo questa tesi Sancia d'Aragona Maiorca, moglie di re
Roberto d'Angiò, avrebbe fondato la basilica ed il convento doppio di S.
Chiara per ospitarvi i «Francescani spirituali», vale a dire i frati
appartenenti ad una frangia rigorista e pauperista dell'Ordine
minoritico, avversata dal Papato e dalla dirigenza dell'Ordine stesso. I
Francescani spirituali si richiamavano, in particolare, anche alle idee
del mistico calabrese F., per sostenere la necessità di una radicale
riforma della Chiesa La basilica di Santa Chiara, dunque, sarebbe stata
«consacrata» intenzionalmente all'ideale della povertà apostolica 3 ,
così che le idee degli Spirituali avrebbero costituito, in sostanza,
l'unica giustificazione del progetto e la sola Bruzelius, Queen Sancia
ofMallorca and the convent church ofS.ta Chiara in Naples, in «Memoirs of
the American Academy in Rome», 40, 1995, pp. 82ss.; E ad., Le pietre di
Napoli. L'architettura religiosa nell'Italia angioina, 1266-1343, Roma,
Viella, 2005, pp. 150-175, edizione integrata rispetto alla precedente
inglese dal titolo The stones of Naples, Church Building in Angevin
Italy, London, Yale, ove le ipotesi avanzate nel 1995 vengono riprese, ribadite
ed articolatamente argomentate. Si denominavano «spirituali» appunto
perché viri spirituales, e cioè eletti destinati a vivere il terzo stato
della storia, quello dello Spirito, così come teorizzato da F.. Bruzelius,
Le pietre, eh.GAGLIONE chiave di lettura dell'edificio.
Esisterebbe, in particolare, un preciso rapporto tra la semplicissima pianta
rettangolare della basilica napoletana ed una delle figurae del Liber
figurarum, una raccolta di schemi miniati utilizzati sia per
l'esplicazione delle teorie storico- teologiche di Gioacchino che per
l'esercizio di pratiche contemplative e mistiche. La pianta rettangolare della
chiesa napoletana costituirebbe così, secondo tale tesi, una vera e
propria citazione della figura XVIII del codice del Seminario urbano di
Reggio Emi- lia del Liber 4 . L'area presbiteriale della basilica con il
coro dei frati sarebbe stata, anzitutto, ricalcata sullo spazio simbolico
corrispon- dente nella figura al Tertius status, quello dello Spirito
Santo, nel- l'ambito della settima ed ultima Età della storia del mondo.
In questa stessa Età si sarebbe giunti a quella rigenerazione della
Chiesa 5 che era tanto attesa e propagandata dai Francescani spirituali.
L'oratorio delle Clarisse, invece, avrebbe occupato lo spazio riservato,
sempre nel diagramma gioachimita, Poetava aetas, quel- la ormai
metastorica iniziata con la Resurrezione dei morti e carat- terizzata
dalla rivelazione della Gerusalemme celeste e dalla finale visione della
Pace. Tale tesi, pur avendo conseguito un ampio consenso 6 , ha
susci- tato altresì rilievi e critiche soprattutto con riguardo agli
effettivi contenuti del filospiritualismo dei due sovrani ed alla
verosimi- glianza storica della pretesa celebrazione monumentale, nella
basi- Cfr. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure
del- l'abate Gioachino da Fiore, Torino, SEI, 1953, voi. II, tav.
XVIIIa. Bruzelius, Le pietre, Cfr. infatti M. Righetti Tosti Croce,
Architettura tra Roma, Napoli e Avignone nel Trecento, in Roma, Napoli,
Avignone. Arte di Curia, Arte di Corte, a cur. Tornei, Torino, SEAT;
Musto, Franciscan Joachimism, at the court of Naples: a new appraisal, in
«Archi- vimi Franciscanum Historicum»; Freigang, Kathedralen ah
Mendikantenkirchen. Zur politischen Ikonographie der Sakralarchitektur unter
Karl L, Karl IL und Robert dem Weisen, in Medien der Macht: Kunst zur
Zeit der Anjous in Italien, Berlin, Reimer, 2001, pp. 51-52; V.M.
Mattano, La Basilica angioina di S. Chiara a Napoli. Apocalittica ed
escatologia, Napoli, La Città del Sole; C. Bozzoni, Recensione a C.
Bruzelius, Le pietre di Napoli..., in «Palladio». Analogamente a quanto si
sarebbe verificato per S. Chiara a Napoli, la simbologia gioachimita
della Figura delle Età del mondo avrebbe anche ispirato, direttamente o
indirettamente, le piante di alcune chiese francescane della Calabria a
partire da S. Francesco a Gerace, e cfr. M. Albano, L'Abbazia florense di
S. Maria di Fontelaureato a Fiumefreddo Bruzio, in «Arte Medievale»; Spanò, Insediamenti
Francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace, Soveria
Mannelli, Città Calabria edizioni, 2006, pp. 80ss. IPOTESI «GIOACHIMITE»
SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO lica napoletana, della teoria della storia elaborata
da F. e sostenuta dagli Spirituali 7 . Comunque, altre
conferme della tesi della derivazione gioachi- mita della pianta della
chiesa francescana sono state individuate, più di recente, nell'ambito di
una importante e preziosa monografia dedicata all' attività di Giotto a
Napoli 8 . Nel saggio appena menzio- nato, seguendo la lettura proposta
dalla Bruzelius, si sostiene che, conformemente allo schema della Figura
XVIII del Liber, che viene definita «tavola di concordanza (Concordia)
fra i secoli e i tempi, con i tre stati e le otto età» 9 , Giotto e la
sua bottega, riferendosi al Nuovo Testamento, abbiano dipinto alcuni
episodi della Vita di Cristo nelle cappelle della navata sinistra della
basilica. In quelle poste nella navata destra, invece, il Maestro avrebbe
realizzato scene dell'Antico Testamento, ed, in particolare, Storie di
Adamo, Noè, Abramo e Davide e, forse, anche della Creazione, di
Giuseppe, di Mosè, di Sansone e di Salomone. Nelle cappelle di entrambe
le navate queste scene sarebbero state articolate in quattro o,
addirit- tura, in sei riquadri per ciascuna cappella 10 . E
evidente che l'interpretazione della Figura del Liber nei ter- mini
appena esposti viene ad essere principalmente addotta quale conferma
«esterna» della notizia, riferita da Vasari, secondo la quale Giotto,
appena giunto a Napoli da Firenze «dipinse in alcune capelle del detto
monasterio di S. Chiara molte Storie del- l'Antico Testamento e Nuovo» 11
. Questa stessa notizia è stata in- Per tali critiche si rinvia a M.
Gaglione, Qualche ipotesi e molti dubbi su due fondazioni angioine a
Napoli: S. Chiara e S. Croce di Palazzo, in «Campania sacra»; Id., Allusioni
gioachimite nella basilica angioina di Santa Chiara a Napoli?, in «Studi
storici; Id., La basilica ed il monastero doppio di S. Chiara a Napoli in
studi recenti, in «Archivio per la Storia delle Donne», 4, 2007, pp.
127-198. 8 P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli, Electa,
2006, pp. 125ss., il quale riprende anche osservazioni di Mattano, La
Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., pp. 49ss.; pp. 83ss.; pp.
HOss. 9 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 116, fig. 64. Castris,
Giotto a Napoli, L'Edizione Giuntina delle Vite (1568) precisa: «Dopo, essendo
Giotto ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di
Calavria suo primogenito, il quale se trovava in Firenze, che per ogni
modo gli mandasse Giotto a Napoli, perciò che, avendo finito di fabricare
S. Chiara, monasterio di donne e chiesa reale, voleva che da lui fusse di
nobile pittura adornata. Giotto adunque, sentendosi da un re tanto lodato
e famoso chiamar e, andò più che volentieri a servirlo, e giunto dipinse
in alcune capelle del detto monasterio molte storie del Vecchio
Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse ch'e' fece in una di
dette GAGLIONE vece oggetto di ampio dibattito, non essendo mancato
infatti chi, sulla base di varie considerazioni, ha circoscritto
l'intervento di Giotto piuttosto al solo coro delle Clarisse, escludendo
che il Maestro abbia potuto operare anche nelle cappelle della chiesa esterna
di S. Chiara 12 . Infine, sempre nell'ambito della citata monografia, si
è sostenuto che la derivazione della pianta della basilica dalla
menzio- nata Figura risulterebbe più che probabile, poiché lo stesso
Liber Figurarum sarebbe stato ben conosciuto alla corte angioina.
Infatti, alcuni testimoni dell'opera e, in particolare, i manoscritti
Vaticano Latino 3822 e 4860, risulterebbero di fattura meridionale
proprio come il codice di Oxford, forse miniato nello scriptorìum di S.
Giovanni in Fiore. In particolare, le miniature del ms. Vat. Lat. 4860
rinvierebbero «alla speciosa cultura umbro-cavalliniana maturata a
Napoli» da Lello da Orvieto, Cristoforo Orimina e dall'anonimo Maestro delle
Tempere Francescane. Ad ogni modo, Sancia e Roberto avrebbero potuto
conoscere l'opera an- che in Provenza e nella Francia meridionale, ove si
trovarono in di- capelle furono, per quanto si dice, invenzione di Dante,
come per avventura furono anco quelle tanto lodate d'Ascesi delle quali
si è di sopra abastanza favellato; e se ben Dante in questo tempo era
morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gl'amici,
ragionamento». L'Edizione Torrentiniana (1550) invece: «Fu chiamato a
Napoli dal re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale
edificata da lui, alcune cappelle nelle quali molte storie del Vecchio e
Nuovo Testamento si veggono, dove ancora in una cappella sono molte
storie dell'Apocalisse, ordinategli, per quanto si dice, da Dante, fuoruscito
allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti», e cfr.
l'edizione digitale sinottica curata del Centro di Ricerche Informatiche
per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, biblio . cribecu .
sns . it/vas ari/consult azione/V as ari/indice. Cfr. Aceto, Pittori e
documenti della Napoli angioina: aggiunte ed espun- zioni, in
«Prospettiva». Per l'esame e la discussione delle diverse posizioni:
Leone de Castris, Giotto a Napoli, che, riguardo agli altri dipinti realizzati
da Giotto a S. Chiara, ritiene che nell'area presbiteriale della chiesa,
alle spalle dell'altare maggiore e del coro dei frati ed in corrispondenza
della Croce della Deposizione affrescata dall'altra parte del muro nel
coro delle Clarisse, dovesse invece essere l'Apocalisse ricordata dallo
stesso Vasari. Questo grande affresco era stato probabilmente eseguito
nei due riquadri posti ai lati della quadrifora centrale che si apre
nella parete divisoria tra la chiesa esterna e l'oratorio delle monache.
Proprio sulla stessa parete divisoria, dal lato dell'oratorio, era
affrescato appunto il" Compianto sul Cristo morto e le altre storie
cristologiche, tra le quali, verosimilmente, una Resurrezione ed un
Cristo giudice. Infine, tornando alla chiesa esterna, anche il para-
petto delle tribune era affrescato ma con figure di Angeli e di Profeti, mentre
le pareti superiori, probabilmente, non erano dipinte Leone de Castris,
Giotto a Napoli, cit., p. 146, figg. 115-116.verse occasioni ed ove, appunto, i
diagrammi gioachimiti erano certa- mente diffusi. E fin qui
l'importante contributo sulla presenza e sull'attività di Giotto a
Napoli. Partendo dall' asserita fattura meridionale dei citati
codici Va- ticani Latini, fattura che costituirebbe un indizio della
possibile circolazione degli stessi a Napoli e presso la corte angioina,
occorre rilevare che l'origine e la datazione di questi manoscritti è
partico- larmente controversa. Mentre il ms. Vat. Lat. 4860 è stato
variamente datato tra il secolo XIII e la prima metà del secolo XIV, e lo
si è altresì ritenuto «codice di ambiente benedettino-olivetano pa-
dovano» opera di un miniatore bolognese, il ms. Vat. Lat. 3822 è stato
invece datato piuttosto concordemente alla fine del secolo XIII, mentre
ne è dibattuta l'area di produzione: Parigi o l'area francese^ l'area
genericamente italiana, o più specificamente sici- liana 14 . E
necessario ricordare poi che il ms. Vat. Lat. 4860 non contiene la Figura
delle «Sette età», dalla quale si pretende sia stata ricavata la pianta
di S. Chiara e sia derivato il soggetto degli affre- schi che sarebbero
stati eseguiti da Giotto nella chiesa esterna 15. La stessa Figura manca
poi anche nel ms. Vat. Lat. 3822 16 . La suppo- Quanto al ms. Vat. Lat.
4860, contenente estratti da opere diverse di Gioacchino, la datazione al
secolo XIII è stata sostenuta da Bignami Odier, Hirsch Reich, Reeves e
Daniel, che lo assegnano ad un estensore francescano. La datazione alla
prima metà del secolo XIV, invece, è stata sostenuta da Kaup, Troncarelli e
De Fraja. In particolare, Wessley e Troncarelli parlano di «codice di
ambiente bene- dettino-olivetano padovano» opera di un miniatore
bolognese. Quanto all'origine del ms. Vat. Lat. 3822, contenente anch'esso
opere varie di Gioacchino, Troncarelli propende per Parigi o per l'area
francese, mentre Bignami Odier, Hirsch Reich e Reeves propendono
genericamente per l'area italiana, infine, all'area siciliana pensa
Patschovsky, e cfr. M. Rainini, Disegni dei tempi. Il «Liber Figurarum» e la
teologia figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma, Viella, Questo codice,
infatti, ai ff. 198r-204v, comprende un abbozzo del dia- gramma delle
Rotae di Ez. 1, e dei diagrammi degli alberi delle generazioni discen-
denti, del drago apocalittico, del misterium ecclesiae, dei tre cerchi
trinitari, della dispositio novi ordinis, degli alberi-scala
rappresentativi dei tre status e, di nuovo, dei cerchi trinitari, ed è
accompagnato da cinque fogli vuoti che avrebbero potuto accogliere almeno
altre dieci tavole di diagrammi, circostanza questa che conferma che
l'opera non era stata portata a termine, e rende improbabile l'eventuale
suppo- sizione di un testo incompleto perché privato, nel corso del
tempo, di alcune delle tavole originarie, e cfr. Rainini, Disegni dei
tempi, II codice, infatti, ai ff . 2v-3r, 4v-5r, 7r-8r, reca i diagrammi delle
genera- zioni ascendenti, del draco magnus et rufus, del tetragrammaton e
diverse versioni dei tre cerchi, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit.,
pp. 272-273. sizione dell'esecuzione delle miniature in ambiente
meridionale non può inoltre implicare necessariamente anche una
diffusione del Li- ber alla corte angioina. Quanto infine alla possibile
conoscenza del- l'opera da parte dei sovrani nel periodo in cui si
trovarono in Fran- cia, si tratta di una mera ipotesi, non suffragata,
allo stato, da alcun indizio o prova. C'è in realtà da
chiedersi se effettivamente la più volte citata Figura XVIII del codice
Reggiano del Liber abbia i contenuti «con- cordistici» che vi sono stati
da ultimo individuati. Occorre anzitutto premettere che per
«concordia», nell'ambito delle opere e delle teorie di Gioacchino, deve
intendersi «la corri- spondenza simmetrica tra gli avvenimenti narrati
nell'Antico Testa- mento per il popolo di Israele e quelli raccontati e
prefigurati nel Nuovo Testamento... per il nuovo Israele della
Chiesa. La Figura in esame del Liber Figurarum reca, al centro, il
già citato diagramma rettangolare e, ai margini, un testo fittamente
manoscritto. Tale testo, la cui traduzione può leggersi in appendice a
questa nota, è tratto dal libro V della Concordia Novi ac Veteris
Testamenti, opera di F. tradita dal codice Urbinate Latino 8 della Biblioteca
Apostolica Vaticana. Più precisamente è riportato il passo posto tra la I
e la II distinctio, destinato ad essere illustrato da una Figura
esplicativa che manca nel manoscritto Urbinate Latino, e che viene in
genere identificata proprio nella citata tavola XVIII del Liber Figurarum.
Orbene, il libro V della Concordia, dal quale è desunto il
com- Rainini, Disegni dei tempi. La più nota definizione gioachimita
della concordia è la seguente. Concordiam proprie dicimus similitudinem
eque proportionis novi ac ueteris testamenti, eque dico quo ad numerum
non quo ad dignitatem; cum uidelicet persona et persona, ordo et ordo,
bellum et bellum ex parilitate quidam mutuis se uultibus intuentur», e,
cioè, «chiamiamo propriamente «concordia» la somiglianza di equa
proporzione di Nuovo e Antico Testamento, e dico equa per quanto riguarda
il numero, non per quanto riguardo la dignità: come se per una certa
parità fossero rivolti l'uno di fronte all'altro persona e persona,
ordine e ordine, guerra e guerra», e cfr. ancora Id., ivi, p. 20, p. 33,
nota. 18 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, tav.
XVIILz, tratta dal codice del Liber conservato presso il Seminario
Vescovile di Reggio Emilia, ms. RI = El. Il codice della Concordia
precisa: «in hac figura declaratur magnum mysterium pertinens quam nimis
ad catholicam fidem, e, precedentemente, «secundum quod ostenditur in
presenti figura...». Quale tavola XVIII£ Tondelli, Reeves ed
Hirsch-Reich, pubblicano una variante semplificata, forse «non finita», della
stessa Figura, tratta dal codice del CORPUS CHRISTI (H. P. GRICE) Oxford (ms.
255 A), al f. 5r. Nello stesso codice tuttavia, al f. 8v, il diagramma
ricompare in forma omogenea a quella della tavola XVIIIa del Fig. 1 - La
figura XVIII del Liber figurarum (da Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich).
mento marginale alla nostra Figura, tratta delle storie principali
dell'Antico Testamento. Per esse viene proposta una interpreta- zione
fondata sull'esegesi spirituale, la quale, secondo F., avrebbe consentito
anche di preconizzare gli avvenimenti storici futuri. In altre parole, il
libro V «è un lungo commentario sui libri storici del Vecchio Testamento»
19 , ed «il suo contenuto è conside- revolmente diverso» 20 da quello
degli altri Libri della Concordia. Infatti, è piuttosto nei precedenti
libri, dal I al IV, che F. procede effettivamente ad esaminare o a
rinvenire i punti di «con- cordanza» tra le vicende ed i personaggi
narrati nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Nell'ambito del Liber
Figurarum, nello stesso codice di Reggio Emilia, poi, le figure
concordatarie sono altresì contenute piuttosto nelle tavole IX e X, e,
soprattutto, nelle tavole III e IV, da esaminare sinotticamente, ed
appunto denominate Con- cordia Veteris Testamenti et Novi. In
particolare, in queste due ultime tavole è tracciato un dettagliato
raffronto tra i personaggi e gli episodi dei due Testamenti, ad esempio
tra Adamo ed Azarias, Abramo e Zaccaria, Isacco o Elia e Giovanni
Battista, Giacobbe e Cristo e cosi via. Proprio per quanto appena
rilevato la Figura XVIII è stata quindi designata come tavola delle «Età
del mondo» 22 , delle «Sette età del mondo» ovvero delle «Sette età» 24
. codice di Reggio Emilia, e cfr. Rainini, Il «Liber Figurarum» nel
manoscritto Oxford, Corpus Christi College, ms. 255 A (=0), in Id.,
Disegni dei tempi, cit. 19 A. Tagliapietra, Opere principali, in G. da Fiore,
Sull'Apocalisse, Milano, Feltrinelli, Daniel, Abbott Joachim of Flore,
Liber de Concordia Noui ac Veteris Testamenti, Philadelphia, The American
Philosophical Society, il quale, appunto, osserva: «not only is Book Five
longer than the first four Books together, but its content is
considerably different from theirs». Le peculiarità del libro V rispetto
ai precedenti sono precisate dallo stesso Gioacchino: «etenim in hiis
quatuor libris parum agitur secundum spiritum, magis secundum litteram, hoc
est secundum concordiam littere et littere, scilicet duorum
testamentorum...oportet nos in hoc quinto libro de quibusdam gestis sollempnibus
que occurrerint spiritualiter agere ut ex multis testimoniis ostendamus
laboriosos rerum fines et post magnos agones et certamina pacem
uictoribus impartiri» (ConcordiaTagliapietra, Opere principali Tondelli,
Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, A. Crocco, Liber Figurarum, Ms.
Reggiano (RI), tav. XVIII (Biblioteca
del Seminario di Reggio Emilia). Le sette età del mondo, in L'Età dello
Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel Gioachimismo
medievale, Atti del II congresso internazionale di studi gioachimiti, S.
Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi F., Rainini, Il «Liber
Figurarum», cit., loc. ult. cit. La tavola XVIII del Liber ha infatti,
principalmente, lo scopo di illustrare la teoria escatologica della
storia elaborata da Gioac- chino ed incentrata sul susseguirsi di secula,
tempora ed etates in una prospettiva strettamente trinitaria, che
conferisce unitarietà alla storia stessa. Rifacendosi dunque
innegabilmente alla divisione settenaria delle età della storia già teorizzata
d’Agostino, F. colloca in modo originale la settima età, quella cioè del
raggiungimento della pax vera, della perfecta iustitia e della plenìtudo
veritatis et libertatis, entro il corso storico, aggiungendo poi una
Octava aetas quale «stadio finale ed eterno della storia umana». Perciò
la figura XVIII del Liber è suddivisa in un fregio inferiore,
rappresentante i sette secula dell'Età del Padre, in un fregio superiore,
che illustra i sette tempora dell'Età del Figlio, e infine in una parte
centrale raffigurante le sette Età del mondo, la settima delle quali,
corrispondente al momento storico in cui vive F. {tempus praesens), sarebbe
sfociata nel Tertius sta- tus dello Spirito Santo, cui, in conclusione,
avrebbe fatto seguito, appunto, Y Octava aetas 26. Ma passiamo a
leggere le brevi iscrizioni che illustrano il dia- gramma rettangolare
centrale della Figura XVIII, riprodotta nella figura 1 posta a corredo di
questa stessa nota. Occorre precisare che il diagramma deve essere
esaminato trasversalmente, nel senso del lato maggiore del rettangolo, da
sinistra a destra e dal basso all'alto, mentre il testo tratto dalla
Concordia e trascritto ai margini risulta vergato in senso perpendicolare
al diagramma stesso. Partendo dunque dal basso, rileviamo nell'ordine, nel
fregio inferiore {secula): primum seculum, Adam genera tiones X,
secundum seculum, Noe generationes X, tertium seculum, Abraam generationes
X, quartum seculum, Booz generationes X, quintum seculum, Joiada
generationes X, sextum seculum, ]eremia generationes X, septimum seculum,
Zacharia sacerdos, sabbatum, adventus Spiriti Sane ti, septima
etas; initiatio primi stati, primum status, secundum status,
tertium status; Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle
Figure, Cfr. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI) GAGLIONE nel
fregio centrale (etates): Adam, Noe, Abraam, Davit, transmigratio
Babilonie, lohannes Baptista, presens tempus; b) all'interno
della tromba: clarificatio Filii, clarificatio Spiriti
Sancii; e) Etas prima, etas secunda, etas tercia, etas quarta, etas
quinta, etas sexta, etas septima; nel fregio superiore
(tempora): initium Romanorum, Hysaia propheta; initiatio secundi
stati, primum tempus, Ozias generationes X, secundum tempus, Zorobabel,
tertium tempus, Christus genera- tiones X, quartum tempus, generationes
X, quintum tempus, generationes X, sextum tempus, generationes X,
septimum tempus; all'estremità destra del diagramma, dopo la linea
divisoria: etas octava, resurrectio mortuorum. Come può agevolmente
notarsi, nessuna delle iscrizioni menziona specificamente l'Antico o il Nuovo
Testamento; inoltre, per la maggior parte, i personaggi citati, e cioè
Adamo, Noè, Abramo, Booz, Ioiadà, Geremia, Davide, Ozias, Zorobabele ed
Isaia, rien- trano nell'Antico Testamento e risultano variamente
collocati lungo tutto il diagramma, sia in basso che al centro, oltre che
in alto. Solo Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo rientrano nel Nuovo
Testa- mento. Tuttavia, mentre Cristo è indicato nel fregio superiore
della Figura, che, sovrapponendo la stessa alla pianta di S. Chiara,
corrisponderebbe alla navata sinistra della basilica guardando l'altare
maggiore, Zaccaria, il sacerdote padre del Battista, è segnato nel fregio
inferiore, dal lato cioè della navata destra della chiesa. Giovanni Battista,
infine, è indicato nel fregio centrale, nei pressi della tuba, della
tromba apocalittica. Quindi, le iscrizioni appena riportate, così come il testo
marginale della Concordia, non consentono di affermare che la Figura
XVIII abbia prevalentemente contenuti concordistici, ovvero che la stessa
traduca graficamente concordanze tra personaggi dei due Testamenti, che
risultano infatti variamente posizionati a destra, a sinistra ed al
centro del diagramma. Non vi è, dunque, alcun elemento che possa indurre
a sostenere, almeno lette- ralmente, né la concentrazione dei personaggi
del Nuovo Testamento nel fregio superiore, né quella dei personaggi
dell'Antico nel fregio inferiore, così da poter «giustificare» la
collocazione dei cicli pittorici giotteschi corrispondenti, rispettivamente,
nella navata sinistra e nella navata destra della basilica di S.
Chiara. Potrebbe tuttavia sostenersi che la Figura gioachimita
abbia semplicemente costituito una fonte di ispirazione per la scelta
del soggetto dei cicli pittorici da eseguire sulle pareti delle
cappelle, oltre che per l'adozione della pianta dell'edificio, sicché non
ci si dovrebbe aspettare una corrispondenza letterale tra la tavola
XVIII del Liber e l'edificio concretamente realizzato. In altri termini,
la Figura stessa non avrebbe costituito né un programma decorativo,
né un progetto edilizio . Ma a ben vedere, proprio la mancanza di una
tale effettiva corrispondenza, congiuntamente ai seri dubbi avanzati in
ordine alla sua fondatezza storica 28 , rende ancor più fragile l'ipotesi
della «matrice gioachimita» della chiesa di S. Chiara a Napoli. Un
collegamento tanto evanescente con la Figura non consente infatti di
dimostrare in maniera convincente che la pianta ad aula rettangolare
della chiesa napoletana, invece di derivare dalle analoghe, diffusissime
piante delle chiese degli Ordini mendicanti, discenda proprio dal
diagramma gioachimita. Risulta inoltre eviden- temente impossibile
dimostrare che i cicli pittorici dell'Antico e del Nuovo Testamento,
realizzati, secondo il referto vasariano, nella stessa chiesa esterna,
invece di derivare dai numerosi cicli tipologici inaugurati dagli affreschi
dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano, discendano piuttosto dalle
speculazioni concordistiche gioachimite. Occorre invece chiedersi
se, pur abbandonando la discutibile ipotesi della valenza della Figura
XVIII quale modello o fonte di ispirazione, sia eventualmente
sostenibile, in altro modo, una «giu- stificazione» gioachimita della
scelta del programma decorativo di S. Chiara, incentrato, come si è
detto, sulle Storie dell'Antico e del Leone de Castris, ad esempio,
osserva che Mattano, nel suo saggio La Basilica angioina di S. Chiara a
Napoli, cit., sovrappone la Figura XVIII del Liber alla pianta della
chiesa «al contrario» rispetto a quanto ipotizzato dalla Bruzelius,
sicché Vociava etas non viene più a corrispondere al coro delle Clarisse, bensì
all'area del sagrato e del vestibolo della chiesa esterna. Questa lettura
è stata respinta dallo stesso Leone de Castris, perché presuppone non
«una ispirazione» ma «una volontà di corrispondenza piena fra la pianta
ed il diagramma» derivante da un improprio «uso del diagramma come
«progetto»». In altre parole, almeno per il programma architettonico, la
Figura gioachimita avrebbe costituito piuttosto una fonte di ispi-
razione che un modello seguito letteralmente dai costruttori, e cfr. Leone de
Castris, Giotto a Napoli, nota Cfr. i saggi indicati alla precedente nota Nuovo
Testamento. Non di rado, infatti, opere di scultura, di pit- tura e di
architettura sono state interpretate proprio facendo riferi- mento ad una
possibile matrice gioachimita. Ad esempio, il mosaico dell' 'Arbor vitae
nell'abside della basilica di S. Clemente a Roma avrebbe in qualche modo
anticipato visivamente l'esegesi gioachimita dell'Apocalisse di San Giovanni e
della Concordia 2, mentre un prezioso codice miniato da una bottega
avi- gnonese agli inizi del secolo XIV avrebbe risentito
dell'escatologismo e del «concordismo» gioachimita. Influenze delle opere
di F. sono state rinvenute altresì nella pianta e nella struttura
della stessa abbazia madre dell'Ordine florense a F. 31 , nelle sculture della
facciata del Duomo di S. Rufino 32 ad Assisi e negli affreschi della
basilica di S. Francesco 33 nella stessa città. Questa tesi viene
avanzata, per la verità, in maniera piuttosto vaga da E.R. Daniel, Joachim of Fiore:
Pattems of History in the Apocalypse, in The Apocalypse in the Middle
Ages, cur. Emmerson e McGinn, London, Cornell; per una lettura
teologica ortodossa dei mosaici in questione cfr. invece Barclay Lloyd, A
new look at the mosaics of San Clemente, in Omnia disce: Medieval studies
in memory of Boy le, O.P., a cura di AJ. Duggan, J. Greatrex, B. Bolton,
Ashgate, Aldershot. D'altra parte gli stessi mosaici vengono
correntemente datati intorno a quando F. non era ancora nato o era giovanissimo. Si
tratta del codice 55. K. 2 (Rossi) dell'Accademia Nazionale dei Lincei e
Corsiniana di Roma, e cfr. Frugoni, Manzari, Immagini di San Francesco in
uno Speculum humanae salvationis del Trecento, Padova, Editrici
Francescane, Cfr. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e
Messaggio in Gioac- chino da Fiore, Atti dell Congresso internazionale di
studi F., S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi F., secondo il
quale, l'assetto della chiesa abbaziale di S. Giovanni presenta peculiarità
che consentono di parlare di una tipologia gioachimita per Yicnografia
architettonica. Questi suoi connotati specifici, secondo Cadei, sono derivati
dalle tavole XII, XIII e XV del Liher figurarum. Lo stesso Autore non
manca poi di ricordare, a questo proposito, le divergenti opinioni di
Leone Tondelli, secondo il quale la Figura XII ha piuttosto carattere
idealistico ed utopico, non risultando che in nessuno dei monasteri
florensi si sia cercato di realizzare tale modello, e di Edith Pasztor
che, invece, vede nel diagramma la pianta concretissima delle strutture
«urbanistiche» del monastero, e cfr. anche V. De Fraja, Oltre Cìteaux. F. e
l'Ordine florense, Roma, Viella, Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture
del Duomo di Assisi, Spello, Dimensione Grafica, soprattutto sulla base
delle tavole delle Praemissiones di F., tradite dal codice 15 del
monastero benedettino di S. Pietro a Perugia. Prosperi, Gioacchino da Fiore e
Frate Elia. Dalle sculture simboliche del ad Con particolare riguardo
proprio alla basilica di S. Francesco si è affermato che il programma
iconografico prescelto per la deco- razione pittorica della chiesa
inferiore così come di quella superiore, nel 1253, avrebbe dovuto, nelle
intenzioni dei committenti, illu- strare l'inserimento dell'Ordine
francescano nella storia del mondo e della salvezza, storia articolata
nelle tre grandi fasi della legge, della grazia e dello spirito
teorizzate da F. e riprese dai Francescani spirituali. Questi ultimi,
infatti, identifica- rono nel proprio il nuovo Ordine monastico
preannunciato da F., individuando in San Francesco Valter Christus, il
nuovo messia, e, nel papa nemico, l'Anticristo. La ricostruzione
concordi- stica della storia operata da Gioacchino da Fiore venne così
comple- tata dai teologi Francescani spirituali in modo tale che «le
corrispon- denze tipologiche in ambito francescano vennero ampliate e
intese non in due ma in tre ricorsi successivi; il Nuovo Testamento
è adempimento della promessa dell'Antico, ma è, a sua volta, pro-
messa che si adempie sulla terra e nella storia, con l'avvento di
Francesco. Tuttavia, la condanna delYlntroductorius ad Evangelium
Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, opera che rappresentava la più
compiuta espressione delle teorie dei Francescani spirituali, comportò
l'interruzione dell'esecuzione del pro-gramma iconografico assisiate. Tracce
significative di questo originario apparato decorativo sono state ad ogni
modo rinvenute nelle vetrate a contenuto tipologico 36 delle tre bifore del
coro della basilica superiore, realizzate Duomo di Assisi ai primi dipinti
della Basilica di San Francesco, Spello, Dimensione Grafica, Da A. Cadei,
Assisi, S. Francesco: l'architettura e la prima fase della decorazione, in Roma.
Atti della IV settimana di studi di storia dell'arte medievale
dell'Università di Roma «La Sapienza», a cura di A. M. Romanini, Roma, L'Erma
di Bretschneider, Cadei, Assisi, S. Francesco, è, in particolare, il
Maestro di S. Francesco, negli affreschi della navata della chiesa
inferiore, a seguire il parallelismo tra le Storie della passione di
Cristo (Cristo depone gli abiti ai piedi della croce, Cristo dall'alto
della croce affida Maria a Giovanni, Discesa dalla croce, Deposizione,
Com- pianto, Apparizione di Cristo in Emmaus) e le Storie di San
Francesco {Francesco rinuncia ai beni paterni, Innocenzo III sogna
Francesco sorreggente la Chiesa di Roma, Predica alle creature, Francesco
riceve le stimmate da un serafino, Morte di San Francesco e scoperta delle
stimmate sul suo corpo). Ad esempio, nella finestra I, designata anche come
finestra VII, sono raf- figurati episodi veterotestamentari quali
prefigurazioni dei corrispondenti episodi della Vita pubblica di Gesù,
con i seguenti parallelismi: Davide viene a conoscenza della morte di
Saul, La disputa con i dottori nel Tempio; Giacobbe attraversa il Gior-
entro il 1250 ad opera di maestri tedeschi. L'iconografia delle stesse,
basata sulle corrispondenze tipologiche, avrebbe un sèguito in due lancette
del finestrone del transetto destro che completano il ciclo dell'abside
con le apparizioni post mortem di Cristo e gli antitipi 01
veterotestamentari delle apparizioni angeliche. Il complesso delle
vetrate del coro e del transetto verrebbe in tal modo a costituire una
serie tipologica triangolare, nella quale le Storie della vita di Cristo
farebbero da perno tra gli antitipi veterotestamentari e le Storie della
Genesi, da un lato, le Storie di San Francesco e di San- t'Antonio^
dall'altro. Anche gli affreschi del transetto destro della chiesa
sarebbero contrassegnati da una impronta gioachimita. Tra questi, la
triade delle teofanie consistenti nella Maiestas, nelY Ascen- dano, Il
battesimo di Gesù; Mosè e il Padre Etemo, La Trasfigurazione; La
purificazione del tempio, La cacciata dei mercanti dal tempio; L'ingresso
di un re, L'ingresso di Gesù in Gerusalemme; Abramo lava i piedi degli
angeli, La lavanda dei piedi agli Apostoli; Il banchetto del re Assuero,
L'ultima Cena; Elia in preghiera sul monte Oreb, L'Orazione nell'orto di
Getsemani; Joab bacia Amasa, Il bacio di Giuda e la cattura di
Cristo. L'interpretazione tipologica comporta l'uso di tipi o modelli che
presentano un'impronta in negativo o antitipo costituita da un'idea, una
persona, o un avveni- mento nell'Antico Testamento che prefigura un'idea,
una persona, o un avveni- mento nel Nuovo Testamento. Un esempio
autorevole d'interpretazione tipologica è offerto dallo stesso Vangelo
(Matteo 12, 40): «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel
ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti
nel cuore della terra», ove, l'episodio veterotestamentario (antitipo) di
Giona e della balena prefigura la morte e la resurrezione di Cristo. Sull'interpreta-
zione figurale o tipologica della Sacra Scrittura, cfr. H. Rondet, Thèmes
bibliques, éxégèse augustinienne , in Augustinus magister. Congrès
intemational augustinien, Paris, 21-24 septembre 1954, Paris, Etudes
Augustiniennes; M. Simonetti, Lettura e/o allegoria. Un contributo alla
storia dell'esegesi patristica, Roma, Institutum Patristicum
Augustinianum, 1985; H. De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi
della Scrittura, Milano, Jaca; La terminologia esegetica nell'antichità. Atti
del primo seminario di antichità cristiane, Bari, 25 ottobre 1984, Bari,
EdiPuglia, 1987, nonché, più in generale, E. Auerbach, Figura, in Id.,
Studi su Dante, a cura di D. Della Terza, Milano, Feltrinelli; Dael, Tipologia,
estratto dal corso di Storia dell'Arte medioevale tenuto presso la
Pontificia Università Gregoriana di Roma, unigre.it/ rhetorica%20 biblica/studenti/TBC005/
TIPOLOGIA_- van%20 Dael.doc; Kessler, Storie sacre e spazi
consacrati: la pittura narrativa nelle chiese medievali tra TV e XII secolo,
in L'arte medievale nel contesto: funzioni, iconografia, tecniche,
Milano, Jaca, Cadei, Assisi, S. Francesco, secondo il quale i medaglioni
di San Francesco e di Sant'Antonio attualmente posti nel quadrilobo nella
finestra VII della basilica superiore ai lati del Cristo in gloria,
proverrebbero dalle lancette della quadrifora III posta nel transetto
settentrionale della basilica superiore. sione e nella Trasfigurazione,
poste nelle lunette di volta e nel tratto superiore della vetrata
centrale, rimanderebbe alla Dispositio novi ordinis pertinens ad tercium
statum ad instar superne Jerusalem ed alla Rota in medio rotae, contenute
nelle Figurae XII e XV del Liber Figurarum. I sostenitori di questa tesi
ammettono peraltro che tali sottili richiami e reconditi significati ben
difficilmente avrebbero potuto esser colti dal comune visitatore, e che i
principali fruitori sarebbero stati piuttosto i soli Francescani
spirituali. Secondo questa opinione, in conclusione, la sintesi ed
il com- pletamento della teoria gioachimita della storia, operata dai
France- scani spirituali con l'individuazione nell'Ordine minoritico del
novus ordo monastico destinato alla guida della società, avrebbe avuto,
quale esito iconografico, proprio l'affiancamento degli episodi della
vita di San Francesco alle tradizionali serie tipologiche vetero e
neotestamentarie in una prospettiva «rivoluzionaria». Tuttavia,
accanto a queste serie tipologiche che sarebbero state ispirate dalle
teorie gioachimite e spirituali, nella stessa basilica superiore
assisiate furono eseguite altre e ben più note scene vetero 40 e
neotestamentarie, poste ancora una volta in collegamento con ventotto
episodi della Vita di San Francesco 42 , benché in una pro- [Cadei,
Assisi, S. Francesco, ricorda infatti che, secondo lo Schòne, si sarebbe
trattato di un ciclo iconografico riservato ai soli Francescani
spirituali e che perciò era limitato al loro coro non accessibile al pubblico,
circo- stanza questa che ne favorì anche la successiva conservazione
nonostante il muta- mento del programma decorativo. II ciclo
dell'Antico Testamento, realizzato sulla parete nord, si compone di
sedici episodi e comincia con le Storie della Creazione nel registro superiore:
Crea- zione del mondo, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato
originale, La cacciata dal Paradiso terrestre, Il lavoro dei progenitori,
Il sacrificio di Caino ed Abele, Caino uccide Abele proseguendo, nel
registro inferiore, con episodi della vita dei quattro patriarchi biblici
Noè, Abramo, Giacobbe e Giuseppe: La costruzione dell'arca, L'ingresso di
Noè e degli animali nell'arca, Il sacrificio di Isacco, La visita degli
angeli ad Abramo, Isacco benedice Giacobbe, Esaù davanti ad Isacco,
Giuseppe calato nel pozzo dai fratelli, Giuseppe si fa riconoscere dai
fratelli in Egitto. II ciclo del Nuovo Testamento, collocato sulla parete
sud, si compone di sedici episodi e comincia con le Storie dell'infanzia
di Cristo nel registro superiore: Annunciazione, Visitazione, Natività,
Adorazione dei Magi, Presentazione di Gesù al tempio, Fuga in Egitto,
Disputa nel tempio, Battesimo di Gesù. Nel registro inferiore, invece,
sono collocati gli episodi della Vita pubblica e della Passione di Cristo:
Le nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro, La cattura di Cristo
nell'orto, Cristo davanti a Pilato, La salita al Calvario, La
Crocifissione, Il Compianto sul Cristo morto, Le pie donne al sepolcro. A
partire dalla parete destra dal lato dell'altare: San Francesco riceve
l'omag- gio dell'uomo semplice, Il Santo dona Usuo mantello al povero,
Sogno del palazzo colmo spettiva più moderata, ispirata questa volta alla
Vita ufficiale del Santo, la Legenda maior redatta da San Bonaventura.
Proprio Bo- naventura ed, in seguito, il probabile committente degli
affreschi, il cardinale francescano Matteo d'Acquasparta, si erano
infatti oppo- sti agli Spirituali rigoristi ed alla teoria da loro
sostenuta secondo la quale con l'avvento dell'Età dello Spirito si
sarebbe pervenuti ad uno scardinamento dell'ordine costituito già sulla
terra e nella sto- ria. L'Autore della Legenda, invece, ribaltò proprio
la prospettiva di un radicale mutamento «nella storia», sostenendo che i
tempi nuovi si sarebbero dispiegati su di un piano esclusivamente
ultraterreno, privo quindi di pericolose ricadute
politiche. Ritornando dunque agli affreschi dell'Antico e del Nuovo
Testamento che Giotto avrebbe eseguiti nella chiesa esterna di S. Chiara,
non risultano notizie, di fonte letteraria o documentaria, dell'esistenza
anche di un ciclo della Vita di San Francesco che avrebbe potuto far
pensare ad una consapevole imitazione del mo- dello assisiate nella
versione spirituale o piuttosto in quella bona- venturiana. D'altra
parte, al tempo della esecuzione degli affreschi nella grande chiesa
napoletana erano trascorsi decenni dai movimen- tati inizi della
decorazione della basilica di Assisi, vero e proprio palinsesto
iconografico della storia dell'Ordine. Inoltre, il contrasto tra il
papato e la dirigenza dello stesso Ordine minoritico, da un lato, ed i
dissidenti Spirituali dall'altro era giunto ormai, con papa di armi,
Cristo appare al Santo in S. Damiano, Rinunzia alle vesti, Sogno di
Innocenzo III, Innocenzo III approva la Regola, Il Santo sul carro di
fuoco, Frate Leone vede il trono celeste destinato a San Francesco,
Cacciata dei demoni da Arezzo, La prova del fuoco, L'estasi di San
Francesco, Il presepe di Greccio, Miracolo della fonte, Predica agli
uccelli, Morte del signore di Celano, La predica davanti ad Onorio III, San
Francesco appare ai frati riuniti in capitolo ad Arles, Stimmate, Morte e
funerali, San Francesco appare al vescovo di Assisi e a frate Agostino,
Il patrizio Girolamo si accerta delle stimmate, Le Clarisse di S. Damiano
piangono il Santo, Canonizzazione, San Francesco appare a Gregorio IX,
Guarigione del gentiluomo di llerda, Resurrezione della gentil- donna,
Liberazione di Pietro d'Alife. Le posizioni di San Bonaventura vennero
riprese dal cardinale Matteo d'Acquasparta in tre suoi sermoni. Il
cardinale, generale dell'Ordine dal 1287 al 1289, fu probabilmente
l'ideatore del programma iconografico della navata della basilica
superiore e contrastò decisamente gli Spirituali guidati da Ubertino da
Casale. I tìtuli illustranti gli episodi della Leggenda francescana sono tratti
dalla Legenda maior, e cfr. E. Lunghi, San Francesco ad Assisi, Firenze,
Passigli. Per l'ispirazione alla Legenda major, cfr. G. Ruf, Francesco e
Bonaventura. Un'interpretazione storico-salvifica degli affreschi della
navata nella chiesa superiore di San Francesco in Assisi alla luce della
teologia di San Bonaventura, Assisi, Casa Francescana, e Cadei, Assisi, S.
Francesco. Giovanni XXII, ad una persecuzione sistematica dei secondi,
e, come si è visto, al prevalere di posizioni moderate, circostanza
que- sta che sembra deporre contro la possibilità di citazioni
iconografi- che eccessivamente «eversive». Infine, l'assoluta
impossibilità di ricostruire i contenuti ed i soggetti delle scene vetero
e neotestamentarie eventualmente realiz- zate nella chiesa esterna di S.
Chiara a Napoli non consente neppure di accertare una eventuale,
effettiva influenza sulle stesse di quella più precisa ed articolata
corrispondenza tra fatti, persone, figure e adempimenti dei due
Testamenti, che, secondo alcuni, sarebbe co- munque derivata proprio
dalla diffusione delle teorie di Gioacchino tradotte poi in immagini La
spiegazione della scelta delle scene dell'Antico e del Nuovo Testamento
per la decorazione di S. Chiara, a questo punto, può essere piuttosto
individuata proprio nella volontà di seguire il tradizionale filone tipologico,
significativamente rinvenibile nello stesso repertorio di Giotto. Il
modello più prestigioso di tale filone era costituito dalla serie degli
affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Le
pareti Nell'antico refettorio dei Frati minori, oggi chiesa esterna del
monastero delle Clarisse, è posto l'affresco della Mensa del Signore,
attribuito al Maestro di Giovanni Barrile, la cui particolare iconografia
sarebbe servita a celebrare i valori della povertà e dell'umiltà,
testimoniando così il particolare favore dei sovrani angioini per questi
ideali strenuamente propugnati dai Francescani spirituali, favore
«ufficializzato» dal contorno araldico dell'affresco, e cfr. F. Bologna,
I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma, U. Bozzi; Leone de
Castris, Giotto a Napoli. Una lettura più articolata è stata
recentemente suggerita da C. Frugoni, Una solitudine abitata. Chiara d'Assisi,
Roma-Bari, Editori Laterza: nel nostro affresco, Cristo è posto su di una
montagna circondato dagli apostoli. In basso, San Pietro distribuisce il
pane alla folla in ascolto attingendo a cesti stracolmi. In primo piano sono
inginoc- chiati San Francesco, con la bisaccia della questua, e Santa
Chiara, in orazione. Il dettaglio della montagna rimanda al Vangelo di
Giovanni (6, 3-15), ove al miracolo della moltiplicazione segue il
discorso del Cristo che si presenta alla folla come «il vero pane sceso dal
cielo». V Agnus Dei, ripetuto quattro volte alle estremità, co- stituisce
un ulteriore richiamo all'eucaristia. Sembrerebbe in tal modo prevalere
proprio il riferimento eucaristico ricorrente, peraltro, nella dedicazione
ufficiale della chiesa esterna all'Ostia santa, sicché, i frati riuniti
nel refettorio per il frugale pranzo garantito dalla carità di Dio, nel
consumare il cibo del corpo, non avrebbero dimenticato la necessità di
nutrirsi di quello dell'anima, ben più prezioso del pane. Gli eventuali,
ma labili, accenni spirituali erano, in tal caso, riservati ai soli frati
essendo il refettorio inaccessibile, di regola, ai laici. 45 Cadei,
Assisi, S. Francesco. della navata centrale erano infatti decorate con Storte
dell'Antico e del Nuovo Testamento, eseguite durante il pontificato di
papa Leone I, distrutte nel corso dei lavori di costruzione del nuovo S.
Pietro, ma fortunatamente descritte da Grimaldi e documentate dagli acquerelli
di Domenico Tasselli da Lugo. Le scene dell'Antico Testamento, tratte
soprattutto dalla Genesi e dall'Esodo, erano dipinte sulla parete destra,
mentre sulla parete sinistra si svolgeva un ciclo illustrante la Vita e
la Passione di Cristo. Questi affreschi costituirono: «il prototipo
fondamentale per le successive decorazioni con scene vetero e
neotestamentarie che da Roma si diffusero in tutta Italia e in gran parte
d'Europa... la prima e più completa esposizione per immagini dei
principali episodi biblici ed evangelici a livello di pittura
monumentale. Un folto gruppo di affreschi tipologici derivò direttamente
da quelli di S. Pietro, come nel caso delle decorazioni musive dell'atrio
della basi- lica abbaziale cassinense volute da Desiderio, dalle quali
derivarono ulteriormente le storie testamentarie di S. Angelo in Formis,
nonché degli affreschi di S. Pietro a Ferentillo, di S. Maria Immacolata
di Ceri, di S. Giovanni a Porta Latina, di S. Maria in Monte Domi-
nico a Marcellina, di S. Nicola a Castro dei Volsci, della cappella di S.
Tommaso nel duomo di Anagni, dell'Annunziata a Cori, ed anche [Cfr. A.
Tomei, La basilica dalla tarda antichità al secolo XV, in La basilica di
San Pietro a Roma, a cura di C. Pietrangelo Firenze, Cantini, nonché H. Kessler, «Caput et speculum
omnium ecclesiarum»: old St. Peter s and church deco- ration in medieval
Latium, in Italian church decoration of the Middle Ages and early
Renaissance: functions, forms and regional traditions, a cura di W. Tronzo,
Bologna, Nuova Alfa. II
ciclo pittorico veterotestamentario comprende diciotto scene, mentre
quello neotestamentario ne comprende ventinove conteggiando separatamente V
Ul- tima cena e la Lavanda dei piedi, e fu realizzato da tre o quattro
pittori. Nulla ha dunque a che vedere con questi affreschi la presenza
nella chiesa di quindici fratres paupertatis attestata dal Catalogo delle
chiese di Roma (Biblioteca Nazionale di Torino, Cod.), e da alcune
lettere di Angelo Clareno del 1313, e cfr. Angelo Clareno, Opera, I, Epistole,
a cura di L. von Auw, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo.
Più in generale, sostengono un collegamento tra gli Spirituali napoletani
e quelli romani, ed anzi una vera e propria influenza del
filospiritualismo di Sancia sulla politica di Cola di Rienzo: A. Collins, Greater
than Emperor. Cola di Rienzo
and the world of Fourteenth Century Rome, Ann Arbor, The University of
Michigan Press.; Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and thepolitics ofthe new age,
Berkeley, Los Angeles, New York, The University of California] dei restauri
cavalliniani degli affreschi di S. Paolo 48 e del ciclo di Vescovio. Gli
stessi affreschi vetero e neotestamentari della basilica superiore di
Assisi derivano dalle serie tipologiche di S. Pietro. Si tratta
certamente di cicli piuttosto complessi: così a S. Pietro gli episodi
veterotestamentari erano quarantasei, a S. Paolo trentotto, a Ceri
venticinque, e ad Assisi sedici 49 . Questo modello iconografico fu
ripreso ben presto in tutta Europa, come conferma anche una notizia
offertaci da Beda il Venerabile relativamente all'importazione da Roma
all'abbazia di S. Pietro a Wearmouth di tavole dipinte di contenuto
tipologico. Dal dodicesimo secolo in poi i cicli tipologici risultano
sempre più elaborati, come dimostra la pala d'altare di Klosterneuburg,
costituita da placche di bronzo smaltato champlevè, completata da Nicola
de Verdun Su questo ciclo cfr. S.
Romano, II cantiere di San Paolo fuori le mura: il contatto con i
prototipi, in Medioevo: i modelli. Atti del convegno internazionale di
studi Parma cur. Quintavalle, Parma-Milano, Università di
Parma-Mondadori Electa, Cfr. Romano, La morte di Francesco: fonti francescane e
storia dell'Ordine nella basilica di S. Francesco d'Assisi, in
«Zeitschrift fur Kunstgeschichte», ed E ad., La basilica di San Francesco ad
Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative, Roma, Viella, Constituto
ilio abbate Benedictus monasterio beati Petri apostoli, consti- tuto et
Ceolfrido monasterio beati Pauli, non multo post temporis spatio quinta vice
de Brittannia Romam adcurrens, innumeris sicut semper aecclesiasticorum
donis commodorum locupletatus rediit; magna quidem copia voluminum
sacrorum; sed non minori, sicut et prius, sanctarum imaginum munere
ditatus. Nam et tunc do- minicae historiae picturas quibus totam beatae
Dei genetricis, quam in monasterio maiore fecerat, aecclesiam in gyro
coronaret, adtulit; imagines quoque ad ornandum monasterium aecclesiamque
beati Pauli apostoli de concordia Veteris et Novi Te- stamenti summa
ratione conpositas exibuit; verbi gratia, Isaac Ugna, quibus inmo-
laretur portantem, et Dominum crucem in qua pateretur aeque portantem,
proxima super invicem regione, pictura coniunxit. Item serpenti in heremo
a Moyse exaitato, filium hominis in cruce exaltatum conparavit» e cfr.
Beda, Vita quinque sanctorum abbatum, IBiblioteca Augustana (Bibliotbeca
latina, Latinitas medievalis) a cur Harsch (Fachhochschule Augsburg)
basata su Venerabilis Baedae Opera Historica, ed. Plummer, Oxonii, E
typographeo Clarendoniano, fh-augsburg.de/~ Harsch/ Chronologia/ Lspost08/
Bede/bed quin.html. In alto nella pala sono poste diverse scene
veterotestamentarie accadute prima della legge {ante legem), al centro
sono le corrispondenti scene neotestamen- tarie (sub gratia), ed in basso
le corrispondenti scene veterotestamentarie sotto la legge (sub lege). Ad
esempio: le scene del Passaggio del Mar Rosso, del Battesimo di Cristo e
del «mare di bronzo» del tempio vanno considerate in corrispondenza; così
pure l'episodio di Giuseppe che viene messo nella cisterna, la deposizione di
Cristo nel sepolcro e Giona nel ventre del pesce, e così via, cfr. H.
Buschhausen, The Vennero redatti, inoltre, veri e proprio manuali proprio
allo scopo di indicare al pittore o allo scultore i collegamenti
tipologici tra gli episodi testamentari. Tra questi si ricorda il Victor
in Car- mine 52 , opera di un anonimo monaco cistercense inglese del
XII secolo, il quale, pur essendo contrario alla decorazione figurata
delle chiese, riteneva tuttavia ammissibili almeno le rappresentazioni
tipologiche poiché potevano fungere da efficaci libri laicorum. Ma,
certamente, la fonte primaria fu costituita dalla Glossa ordinaria di
Walafrido Strabone completata da Niccolò di Lira, vera e propria sintesi
dell'esegesi tipologica dei Padri della chiesa. Orbene, proprio i temi
tipologici rientravano certamente anche nel repertorio di Giotto. Oltre
alla discussa partecipazione del Mae- stro all'esecuzione di alcuni
episodi dell'Antico e del Nuovo Testa- mento nella basilica di S.
Francesco ad Assisi, sappiamo, soprat- tutto dalle Vite del Vasari, che
Giotto eseguì Storie dei due Testa- menti nella basilica di S. Pietro a
Roma, nella cappella palatina del Castelnuovo 56 a Napoli, e storie del
solo Nuovo Testamento nella SS. Annunziata a Gaeta. D'altro canto, la biografia dello
stesso Klosterneuburg Aitar of Nicholas of Verdun: Art, Theology and
Politics, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», Victor in
Carmine. Ein Handbuch der Typologie Nach der Handschrift des Corpus
Christi College, Cambridge, a cur. Wirth,
Berlin, Mann, Male, Le origini del gotico. L'iconografia medioevale e le sue
fonti, Mi- lano, Jaca, Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi,
in Giotto. Bilancio critico di sessantanni di studi e ricerche, Firenze,
Giunti; Zanardi, Giotto e Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della
pittura a fresco, Milano, Skira; T. De Wisselow, The date of the St.
Francis cycle in the upper Church of S. Francesco at Assisi: the evidence
of copies and considerations of method, in The art of the Franciscan
Order in Italy, a cura Cook, Leiden- Boston, Brill. Scrive
infatti Vasari: «il papa avendo vedute queste opere e piacendogli la
maniera di Giotto infinitamente, ordinò che facesse intorno intorno a San
Pietro Istorie del Testamento Vecchio e Nuovo: onde cominciando fece
Giotto a fresco l'Angelo di sette braccia che è sopra l'organo; e molte
altre pitture, delle quali parte sono state da altri restaurate a dì
nostri e parte nel rifondare le mura nuove, o state disfatte», e cfr.
anche A. Tomei, Giotto a Roma intorno al primo Giubileo, in La storia dei
Giubilei, a cur. Fossi, Roma, BNL, Questi affreschi furono ed andarono
purtroppo distrutti durante il regno di Ferrante d'Aragona, e cfr. Leone
de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 168ss. 57 Scrive Vasari:
«partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si fermò a Gaeta, dove gli
fu forza, nella Nunziata, far di pittura alcune storie del
Testamento Giotto lascia davvero poco spazio ai sospetti di spiritualismo
I suoi committenti e protettori erano strettamente legati alla
corte pontificia, come quel fra Mincio da Morrovalle, ministro
generale dell'Ordine minoritico, che lo chiamò ad Assisi o il cardinale Jacopo
Stefaneschi. Il Maestro, che aveva organizzato in ma- niera
imprenditoriale la propria bottega, non disdegnava inoltre di prestare
danaro e di acquistare terreni per investimento, ben lon- tano da
scrupoli pauperistici 59 . A Giotto, anzi, viene tradizionalmente attribuita la
canzone Molti son que che lodan povertade, che contiene una vera e
propria invettiva contro la povertà, ritenuta istigatrice di delinquenza,
causa di sovversione sociale e di ipo- crisia 60 . Ritornando
a S. Chiara, in realtà, i frammenti di affresco a contenuto narrativo più
sicuramente riconducibili a Giotto ed alla sua bottega sono quelli
conservati nel coro o oratorio interno delle monache. Sulla parete che
divide appunto l'oratorio dalla chiesa esterna può osservarsi ciò che
resta di un Compianto sul Cristo depo- sto, che lascia ipotizzare, pur in
mancanza di più precise evidenze, che l'intera parete fosse affrescata
con scene della Vita di Cristo, forse principalmente episodi della
Passione, secondo quanto realiz- zato nei cori di altri monasteri delle
Clarisse. In particolare, nel coro di S. Pietro in Vineis ad Anagni 61 ,
qualche tempo dopo la canonizza- Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non però
in modo che non vi si veggia benissimo il ritratto d'esso Giotto appresso
a un Crucifisso grande molto bello», per la citazione cfr. la precedente
nota 11. Lo ammette lo stesso Leone de Castris, Giotto a Napoli. Cfr. F. Antal, La pittura fiorentina e Usuo
ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino, Einaudi.
Giotto affittava telai ai tessitori meno abbienti realizzando profitti
del 120%. Alcuni documenti attestano il suo ruolo di garante di prestiti
e, nel 1314, risulta assistito da ben sei avvocati in atti contro debitori
morosi o insolventi. 60 Tra l'altro il componimento precisa: «Di
quella povertà ch'è contro a voglia/ Non è da dubitar ch'è tutta ria,/
Che di peccar è via, / Facendo ispesso a giudici far fallo;/ E d'onor
donne e damigelle spoglia;/ E fa far furto, forza e villania; /E ispesso
usar bugia/ E ciascun priva di onorato istallo». La canzone fu estratta dal
codice 47 pluteo 90 laurenziano, ragguagliata sul codice riccardiano e
pubblicata da F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori: dall'origine
della lingua infino al secolo decimosettimo, Prato, Ranieri Guasti. Cfr.
M. Rak, Vedere, ricordare, raccontare. Immagine e racconto in un appa-
rato pittorico dottrinale di una comunità femminile pauperista nel tardo
medioevo, in II collegio Principe di Piemonte e la chiesa di S. Pietro in
vineis in Anagni, a cura di M. Rak, Roma, INPDAP, nonché S. Romano, Gli
affreschi di San Pietro in vineis, ibidem, pp. 105ss. e C. Jaggi,
Frauenklóster im Spàtmittelalter. Die zione di Chiara
avvenuta nella cattedrale di quella città, ove fu conservata la relativa
bolla pontificia, e, comunque, entro il 1263, vennero appunto dipinte le
Storie della Passione di Cristo. Questo notevole ciclo si articola negli
episodi dell'Ingresso in Gerusalemme, Ultima cena e lavanda dei piedi,
Cattura e flagellazione di Cristo, Deposizione e discesa al limbo, Noli
me tangere e missione degli Apostoli, Giudizio universale, che dovevano
servire anzitutto come «strumento di memoria» nei momenti più
solenni della liturgia. All'atto della recita sottovoce {in secreto)
della preghiera eucaristica {canon missae) nel corso della messa, quelle
stesse scene consentivano alle Clarisse di ripercorrere, anche
visivamente, la storia della redenzione fino alla morte ed alla
resurrezione del Salvatore. Le sofferenze di Cristo, rappresentate in
maniera reali- stica e cruenta, offrivano dunque alle Clarisse occasioni
di medita- zione e di riflessione. Gli episodi della vita del Salvatore,
inoltre, erano costantemente richiamati negli scritti dedicati alle Vite
di San Francesco e di Santa Chiara, e per quest'ultima, già nella
Leggenda redatta da Tommaso da Celano. Perciò, gli affreschi
cristologici venivano a costituire, in definitiva, un grandioso prome-
moria non solo della vita del Salvatore, ma appunto anche delle «vite
parallele» di Chiara e di Francesco, ricostruibili per analogia dalle
osservatrici, e ricordate alle monache anche attraverso le letture
edificanti, i racconti orali e, soprattutto, la predicazione, non occor-
rendo necessariamente la realizzazione di cicli tipologici «completi» che
comprendessero cioè anche le Storie dei due Santi francescani Kirchen der
Klarissen una Dominikannerinnen, Monaco, Michael Imhof, II ciclo della
Passione nel coro delle monache di S. Pietro in vineis prosegue, in
realtà, con l'episodio della stimmatizzazione di San Francesco, che riporta
visi- vamente al parallelismo con Cristo. Vi sono rappresentati
inginocchiati anche una badessa attorniata da monache ed un frate accompagnato
da frati, in veste di donatori oranti. Lo stesso ciclo si conclude con un
riquadro nel quale sono dipinti i Santi Aurelia, Scolastica e Benedetto e
donatori. Nel coro delle monache della basilica di S. Chiara ad Assisi,
corrispondente all'attuale cappella di San Giorgio vennero eseguite, invece,
oltre che le Storie della Passione di Cristo, pur nell'ordine anomalo, da
sinistra, di Resurrezione, Deposizione dalla croce, e Deposizione nel
sepolcro, anche quelle àzW Incarnazione con l’Annunciazione , la Natività, e
l'Adorazione dei Magi, e cfr. C. Jaggi, Frauenklòster im Spàtmittelalter. A
Napoli dev'essere infine ricordato il notevole ed articolato ciclo della
Passione affrescato, sulle pareti del coro delle Clarisse della chiesa di
S. Maria Donnaregina vecchia, ispirato alla Legenda Aurea di Jacopo da
Varagine ed alle Meditationes Vitae Còristi dello pseudo-Bonaventura ed
articolato in diciassette scene. In particolare, in tre registri di
cinque scene ciascuno, più due: Come si è cercato di dimostrare, il
riferimento alla esaminata Figura gioachimita quale modello o fonte di
ispirazione per la scelta dei temi iconografici dei cicli pittorici
realizzati nella basilica di S. Chiara risulta, a ben considerare,
davvero piuttosto improbabile. Non molti anni or sono Richard
Krautheimer, nei Poscritti ad un suo aureo saggio di introduzione alla
iconografia architettonica, Ultima cena; Comunione degli Apostoli) Cristo
lava i piedi a San Pietro; Orazione di Cristo nell'orto; Cattura di Cristo con
l'episodio del San Pietro che taglia l'orecchio a Malco; Cristo al
cospetto dei sommi sacerdoti Anna e Cai/a, negazione di Pietro, derisione
di Cristo che viene privato dei vestiti per la prima volta, flagellazione
di Cristo; Cristo portato davanti a Pilato per il primo giudizio e poi
davanti ad Erode; Secondo giudizio di Cristo davanti a Pilato e nuova
flagellazione; Cristo privato delle vesti e sua ascesa al Calvario, nuova
spoliazione di Cristo ed innalzamento sulla croce; Crocifissione; Deposizione dalla croce,
lamentazione sul corpo e sepoltura di Cristo; Discesa al Limbo e
resurrezione di Cristo; Le Marie al sepolcro, «Noli me tangere»,
apparizioni di Cristo alla Vergine ed a Giuseppe d'Arimatea; Apparizioni
di Cristo alle due Marie di ritorno dal sepolcro, a Giacobbe figlio di Alfeo ed
a San Pietro; 1Cristo appare quattro volte agli Apostoli sul monte Tabor,
poi sul monte degli Olivi, cena ad Emmaus con l'episodio dell'Incredulità
di San Tommaso; Ascensione; Pentecoste. Tali scene avevano lo scopo di
suscitare la compassione delle mona- che per le ultime vicende di Cristo,
illustrando loro l'esempio delle Vergine Maria, non mancando, poi, di
suggerire paralleli con la Vita di San Francesco, e di offrire,
soprattutto nelle rappresentazioni dell'Ultima Cena, della Comunione degli
Apostoli e della Cena di Emmaus, l'occasione di una contemplazione
eucaristica che era loro preclusa dal vivo, durante l'elevazione
dell'ostia nel corso della messa, e cfr., in proposito, A.S. Hoch, The
«Passion» cycle: images to contemplate and imitate amid Clarissan
«clausura», in: The church of Santa Maria Donna Regina: art, iconography
and patronage in fourteenth-century Naples, a cura di Janis Elliott,
Aldershot, Ashgate. Per la traduzione italiana del saggio dal titolo originario
Introduction to an «Iconography of Medieval Architecture» , comparso sul
«Journal of Warburg and Cour- tauld Institutes», si veda R. Krautheimer,
Introduzione a un'i- conografia dell'architettura sacra medievale, in
Id., Architettura sacra paleocri- stiana e medievale, Torino, Bollati
Boringhieri, in particolare alle pp. 144ss., comprendente i Poscritti. In
questo saggio Krautheimer propone le sue osservazioni sulla «copia
parziale» architettonica che caratterizza l'imitazione, durante il Medioevo,
dei più prestigiosi edifici sacri non in termini di copia puntuale e
corrispondente («copia totale»), ma di copia rielaborata, e cfr. al
riguardo anche G. Bandmann, Early medieval architecture as bearer of mea-
ning, con introduzione di K. Wallis, e postille di H. J. Boker, New York,
Columbia, traduzione inglese del saggio originale in tedesco Mittelal-
terliche Architektur als Bedeutungstràger, Berlin e W. Schenkluhn, Iconografia
e iconologia dell'architettura medievale, in L'arte medievale nel
contesto: funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca. Per alcuni
rilievi critici sulla tesi della «copia parziale», cfr., comunque, B. Brenk,
Originalità e innovazione nell'arte medievale, in Arti e storia nel
Medioevo, a cura Castelnuovo e Sergi, Torino, Einaudi. GAGLIONE rilevava come spesso
l'interpretazione simbolica delle piante degli edifici medievali fosse
avvenuta post factum, e cioè dopo l'effettiva adozione delle forme decisa
per altre motivazioni. Molto frequente- mente, cioè, si è attribuito al
committente ed all'architetto ciò che nell'edificio aveva voluto vedere a
posteriori il teologo medievale, o, altrettanto spesso, solo l'interprete
moderno. Gli importanti studi iconologici di Aby Warburg e, in seguito, di
Erwin Panofsky e di Fritz Saxl hanno contribuito involontariamente anche
a scoper- chiare «una specie di vaso di Pandora» dal quale sono poi
fuoriuscite interpretazioni simboliche a tutti i costi, «per amore o per
forza». Invece, l'indagine sui significati dell'opera architettonica ed,
in ge- nere, dell'opera d'arte dovrebbe essere svolta in modo che quanto
«è possibile» diventi «probabile», perché «la relazione ipotizzata
abbia un carattere di causalità ben definito, rilevabile da numerosi e
dif- ferenti indizi» 64 . Sembra invece che proprio la
mancanza di questi «numerosi e differenti indizi» non consenta di
sostenere né l'ispirazione gioachi- mita degli affreschi, né la pretesa
matrice francescano-spirituale della pianta della basilica di S. Chiara a
Napoli. Gaglione, Krautheimer, Introduzione, cit., p. 146. Traduzione del testo
posto ai margini della Figura XVIII del Liber figurarum, tratto dalla
Concordia Novi ac Veteris Testamenti dall'edizione a cura di Tondelli,
Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure \ cit., voi. II, tav. XVIIIa. Come
illustrato in questa Figura, da Adamo fino a Giovanni Battista sono
trascorsi sei tempi ormai conclusi, durante i quali il Signore ha compiute le
sue opere sotto la legge ed i profeti, e nel settimo tempo si è riposato
dalle opere del primo stato, infatti la legge ed i profeti sono perdurati
fino a Giovanni Battista. Per tali motivi occorre attenersi a ciò che
affermano i Santi Dottori, in ordine al fatto che le due età, e cioè la
sesta e la settima, trascorrono insieme, sia perché, compiuti i sei
tempi, le anime dei giusti riposano in Cielo, sia perché al popolo di Dio
è stato concesso un tempo sabbatico durante il quale potesse riposare
dalla servitù della legge, una volta acquistata la libertà dello Spirito
Santo, poiché dov'è lo Spirito del Signore lì è la libertà.
Questa definizione delle sei età riguarda propriamente la persona
del Padre poiché, evidentemente, il Padre, per mostrarsi signore
effettivo di tutta la terra, ha preteso dai suoi sudditi l'assoluta
obbedienza dei sei tempi. Com- piutisi questi tempi, in seguito, nel
settimo tempo, il Padre mostra, a coloro che gli hanno obbedito,
l'affetto dell'amore e la libertà della grazia nello Spirito Santo,
perché lo stesso Spirito è amore, e dove c'è l'amore c'è la libertà.
Proprio per questo, infatti, l'Apostolo dice: «dove è lo Spirito del
Signore lì è la libertà». In conformità a tale generale definizione, riguardo
alle sei età del mondo occorre seguire quello che affermano i Santi
Dottori, e cioè che nel sesto giorno feriale è rappresentata la sesta età
del mondo, nel sabato è significata la settima età, e nella domenica
l'ottava età, e poiché il sesto giorno è destinato alla fatica, il
settimo è riservato al riposo. Quel sabato sarà dunque colmo della gioia e
della letizia di tutti gli eletti, e ciò sia perché l'esercito dei santi
martiri e degli altri giusti sarà riunito in Cielo e regnerà con Cristo,
sia perché al popolo di Dio verrà concessa quella tregua sabbatica perché
possa riposarsi dalla fatica della sofferenza che ha sopportato nel corso
dei sei tempi già quasi compiuti, e perchè obbedisca al Signore nella
libertà dello Spirito, poiché dov'è lo Spirito del Signore lì è la
libertà. Questa definizione delle sei età viene comunemente
riferita al Padre ed al Figlio, poiché Padre e Figlio sono un unico Dio.
Infatti, così come ciascuno dei due singolarmente considerato è vero Dio,
altresì considerati insieme essi non sono due dei ma un unico Dio, ed
avviene che alcune opere siano maggiormente somiglianti al Padre ed altre
al Figlio, così che essendo appunto uniti assieme si manifestano in una
forma unica anche se vengono chiamati distintamente con i loro nomi.
Diversa è la persona del Padre come diversa è la persona del Figlio,
tuttavia i due insieme considerati non sono due dei ma un unico Dio. E
poiché l'unico e lo stesso Spirito Santo procede non da uno solo dei due
ma da en- trambi, è chiaro che lo stesso Spirito sia in comunione con il
Padre ed il Figlio dai quali, appunto, procede all'infinito.
Questa definizione dei sei tempi o età concerne più propriamente la persona
del Figlio, il quale Figlio, certamente, per dimostrarsi maestro univer-
sale ha preteso un'assoluta osservanza della disciplina nel corso delle sei
età. Compiuti questi tempi, a coloro che operano con pazienza, Egli
mostra nel suo Spirito abbondanza d'amore e piena libertà di grazia,
poiché il timore non è compatibile con la carità, e perché la perfetta
carità allontana il timore. In questa Figura viene quindi esposto un
grande mistero riguardante particolar- mente la fede cattolica. Tutte le
cose che Dio ha fatto le ha fatte nella sapienza. La vera sapienza
consiste nel conoscere e nel comprendere il Creatore, ed, in particolare,
attraverso le cose che sono state rese visibili, nel comprendere i sui
aspetti invisibili e nel contemplare Colui che ci ha creati. Dice infatti il
Signore nel Vangelo: «il Padre mio opera nello stesso modo nel quale
opero anch'io». Perciò è come se dicesse: mio Padre ha operato così che
attraverso le opere compiute a sua immagine nel primo stato del tempo,
potesse dimostrare di essere vero Signore e vero Dio, ed anche io opero
cose simili in questo secondo stato, così che né il Padre potrebbe agire
senza di me, né io stesso potrei operare senza il Padre, e ciò per
dimostrare di essere identico a mio Padre, poiché egli è Dio così come
sono io stesso Dio, ed Egli stesso è onnipotente così come io sono
onnipotente. E, dunque, le opere del primo stato attengono specificamente
alla persona del Padre, mentre le opere del secondo stato riguar- dano la
persona del Figlio, e, d'altra parte, ad entrambi possono essere riferite
le opere di ciascuno dei due. Il Padre ed il Figlio sono infatti due
persone. Ciascuno di loro è Dio ed al contempo entrambi sono un unico
Dio. E così anche lo Spirito Santo viene detto Spirito del Padre perché
procede dal Padre ed in conformità a lui. Infatti non siete voi a parlare
ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Viene anche definito
Spirito del Figlio perché procede dal Figlio conformemente a lui, secondo
quanto si afferma: «Dio ha immesso nei nostri cuori lo Spirito del Figlio
che dice: Abba, Padre!». Ed altrettanto l'Apostolo dice dello Spirito
Santo: «dove è lo Spirito del Signore Ti è la libertà». La servitù
riguarda i sei giorni ed i sei giorni significano i sei tempi, la libertà
invece concerne il settimo giorno ovvero il settimo tempo. E proprio per
questo il settimo giorno ed il settimo tempo sono denominati sabato e
riposo. Bisogna considerare attentamente che dopo i sei tempi tribolati
del primo stato è stata concessa libertà e riposo nello Spirito Santo, e
considerare altresì fino a che punto il popolo dei fedeli abbia sopportato
la servitù ed il giogo della legge per servire il suo Signore nella
libertà dello Spirito, poiché, come dice l'Apostolo: «non avete ricevuto
lo Spirito della servitù ancora una volta nel timore, ma avete ricevuto
lo Spirito dell'adozione filiale» per il quale possiamo dire: «Abba,
Padre!». Perciò, poiché lo Spirito Santo procede dal Padre ed a questi spetta
il sabato e la libertà, era necessario in conformità a ciò, che la
settima età iniziasse dal momento in cui Cristo è venuto nel mondo, perché
questa età è stata concessa come il sabato per il popolo di Dio. E per
tale ragione è stato inviato nello stesso tempo lo Spirito Santo, perché
iniziasse quella età. Allo stesso modo, dopo i sei tempi faticosi di
questo secondo stato che, in conformità a tale spiegazione, è iniziato
con Ozia, ovvero con Mosè, verrà conferita al popolo Cristiano la
libertà, non vi è dubbio, nello Spirito Santo, affinché si vedano svelate
le cose che fino ad ora risultano ancora oscuramente percepibili solo
come di riflesso. E così noi stessi procederemo di glorificazione in
glorifi- cazione, e dallo Spirito del Signore verrà concessa la pace,
nonché il sollievo wmasSÈ dalla croce perché si possa trovare nel
Signore riposo dalle tribolazioni. Ciò accadrà dopo i sei faticosi tempi
del secondo stato che abbiamo detto essere pertinenti piuttosto al
Figlio, perché lo Spirito Santo dimostri di procedere dal Figlio di Dio.
Esso stesso lo definirò Spirito che procede dal Padre, perchè solo uno e
sempre lo stesso Spirito procede da entrambi. Per questa ragione la
glorificazione della settima età è stata rimandata fino a questi tempi, poiché
i tempi travagliati hanno impedito il riposo del sabato che è stato
concesso solo in parte e non integralmente, fino a che si compiano i
tempi del secondo stato che sono destinati alla fatica dei cristiani. È
dunque per quanto annunziato dal Padre e dal Figlio che crediamo che
ognuno di loro sia vero Dio, e, cioè, che il Padre non sia generato da
alcuno come Dio ed altresì che il Figlio derivi come Dio da Dio. Poiché,
in realtà, il Padre ed il Figlio, dai quali procede lo Spirito Santo, non
sono simultaneamente due dei ma un Dio solo, secondo quanto afferma il
Figlio nel Vangelo dicendo: «Quando verrà lo Spirito Santo che io invierò
a voi dal Padre», occorrerà che si concludano in altro modo le sette età,
in maniera che vengano conteggiate fino a Cristo cinque età, ed, inoltre, la
sesta fino alla definitiva incarcerazione di Satana, ed, ancora, la
settima fino alla resurrezione dei morti. IL SALTERIO A X
CORDE UN'IMMAGINE MUSICALE NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA
MEDIEVALE Questa ricerca si colloca all'interno del seminario
tenutosi a Pavia nel secondo semestre "Teologia e altri saperi
nel Medioevo" e vuole essere un contributo alia comprensione del
difficile rapporto tra teologia e musica in quest 1 epoca. In particolare
verra presa in esame la figura del salterio a dieci corde come esempio di
un punto di contatto tra le discipline. Quello die tradizionalmente e
considerato lo strumento biblico per eccellenza, viene infatti
"preso a prestito" da alcuni ambiti della riflessione teologica
medievale, che attraverso una interpretazione simbolica e allegorica ne
arricchisce l'originaria disposizione. Dopo una introduzione relativa
alia storia dello strumento in epoca biblica e medievale si
considereranno nello specifico il Discorso n. 9 di Agostino, in cui
l'autore recupera l'immagme in un contesto prevalentemente
teologico-morale, e si proporra quindi una disamina del Primo libro del
Salterio a dieci corde di F., per mettere in luce la valenza
mistico-escatologica che qui viene attribuita alio strumento. Il filo
conduttore della ricerca consiste dunque nel rintracciare, nell'ambito di
una riflessione che nasce e si sviluppa aH'interno di un contesto
dichiaratamente teologico, ma che trae motivi e sostegno argomentativo
dal riferimento all'immagine di uno strumento musicale, delle possibili
influenze, o in qualche modo degli spostamenti di traiettoria, dovuti
all'interazione tra le due discipline. Una breve storia del salterio a
dieci corde. L'interesse particolare per il salterio a dieci corde
ha origine nel testo biblico. Il Libro dei Salmi indica questo strumento
come il piu adatto per accompagnare il canto dei versi, e sembra essere
attribuita alio stesso Davide una certa abilita nella pratica di tale
arte. Se i risultati della moderna esegesi sembrano concordare
nell'attribuire alia figura di Davide un ruolo fondamentale nel processo
di rinnovamento e di consolidamento di una pratica musicale aH'interno
della comunita ebraica 1 , risulta ben piu problematica la collocazione
definitiva dello strumento in questione. La piu recente traduzione del
Testo Sacro, in diversi punti, preferisce rendere attraverso la locuzione
piuttosto generica di "strumento a corda" dei termini di poco
chiara comprensione musicologica. Il libro della Genesi, particolarmente
ricco di riferimenti a pratiche e strumenti musicali, identifica nel
kinnor lo strumento nel quale Davide eccelle. Dalla narrazione si
evincono delle caratteristiche che potrebbero awicinare come tipologia di
strumento il kinnor e la lira greca chiamata kithara 2 . D'altro canto,
pero, la pratica musicale di tale strumento prevede l'utilizzo di un
plettro per pizzicare le corde, il che sembra essere in contrasto con la
traduzione proposta nella versione dei Settanta: il termine psalterion
rimanda infatti etimologicamente al verbo psallein, che significa
letteralmente "pizzicare con le dita. Nel periodo dei Re la scena
musicale di Israele muta radicalmente: proprio sotto l'impulso di Davide
e di Salomone si sviluppa un'organizzazione e un'istituzionalizzazione
delle pratiche musicali all'interno della comunita. Nasce la figura del
musicista di professione, comincia a distinguersi in modo netto la musica
di corte dalla musica del Tempio, si costituisce una vera e propria
accademia come luogo dell'educazione musicale, e vengono inseriti,
accanto a quelli tradizionalmente usati, nuovi strumenti musicali. Alcuni
di questi, come per esempio il nevel, possono fornire delle utili
indicazioni a proposito del nostro strumento. Il nevel e certamente uno
strumento a corda: nella versione dei Settanta il termine e reso
attraverso l'utilizzo di tre parole distinte, una delle quali e proprio
psalterion. La Una tale interpretazione prende le mosse
direttamente dal testo biblico, che in piu punti sembra concordare
nell'attribuire a Davide il ruolo di "poeta" e di "musico":
cfr. 1 Sam 16, 16; 18, 10; 2 Sam 1, Per l'argomento del presente capitolo si
fara riferimento al testo di C. Sachs, Storia degli strumenti musicali,
Papini, Mondadori, Milano] trasposizione latina di questo termine tende a far
prevalere psalterium in tutti e tre i casi, tanto che nell'intera Vulgata
questo termine occorre diciassette volte. La traduzione puo far pensare
ad uno strumento simile all'arpa: lo stesso Gerolamo ci informa del fatto
che «psalterium lignum illud concavum unde sonus redditur superius habet.
Sembra quindi possibile associare la struttura del nevel a quella
dell'arpa verticale angolare, diffusa sia nell'area greca che in quella
fenicia. La questione e pero ulteriormente complicata da un altro termine
che nel libro dei Salmi compare frequentemente associato a nevel, ed e
legato strettamente alia problematica del salterio a dieci corde: il
termine asor. Questa parola letteralmente significa "dieci".
L'esegesi ha piuttosto uniformemente interpretato tale accostamento come
il riferimento ad uno strumento musicale con dieci corde. Piu recenti
studi musicologici hanno invece mostrato che il termine potrebbe essere
piu correttamente inteso non come attributo riferito a nevel, ma
come sostantivo. Come tale rimanderebbe quindi ad uno strumento
autonomo, a riguardo del quale e difficile formulare ipotesi. Potrebbe
essere infatti proprio questo lo strumento a dieci corde da cui ha preso
spunto la traduzione greca, come del resto non sembra possibile escludere
la possibility che il salterio a dieci corde sia stata una
"invenzione" dei traduttori greci e latini che non trova una
corrispondenza immediata nelle pratiche musicali ebraiche. La
problematica relativa alia classificazione degli strumenti a corda in
epoca medievale e ancora oggi piuttosto incerta. Sicuramente e
attestabile una ampia diffusione di arpe e cetre, che differivano pero
tra loro anche notevolmente per quanto riguarda la forma, le dimensioni,
il numero delle corde e le accordature. Il salterio e senza dubbio
riconducibile alia famiglia delle cetre, e in particolare ad uno
strumento a corde pizzicate provenienti dall'area meridionale del Vicino
Oriente, il qanum. Tale strumento si distingue dal santir, che
costituisce un'altra tipologia di cetra proveniente dall'area asiatica,
la cui pratica musicale prevedeva la percussione delle corde
attraverso l'utilizzo di bastoncini. Sembra interessante sottolineare che
la prima rappresentazione grafica medievale di uno strumento simile al
salterio risale ad un rilievo del 1184 che si trova a Santiago de
Compostela, e che [Dalla lettera di Gerolamo a Dardano. La citazione si
trova in C. Sachs, Storia degli strumenti musicali. Per una disamina
della questione in epoca medievale, oltre al gia citato testo di Sachs,
si veda: Giulio Cattin, La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1979;
e Alberto Gallo, La polifonia nel medioevo, EDT, Torino. in generale
tali rappresentazioni sono piuttosto rare prima del '300. Da queste
considerazioni si puo dunque concludere che all'epoca in cui maturano le
riflessioni di Agostino e di Gioacchino da Fiore esisteva uno strumento
chiamato salterio. D'altro canto la sua diffusione comincia ad avere una
certa ampiezza solo in una fase piuttosto tarda del medioevo. Bisogna
infine tenere presente sullo sfondo il difficile rapporto in epoca
medievale tra musica liturgica e pratiche strumentali, che rimane un
tenia di ampio dibattito per la storiografia moderna. Questo sembra
awalorare l'ipotesi secondo cui la ripresa deH'immagine dello strumento trae
origine da un contesto esegetico-teologico molto prima che
dall'osservazione di una pratica musicale vera e propria. Il Discorso n.9
di Agostino "Sul salterio a died corde". Il Discorso di
Agostino "Sul salterio a dieci corde" rappresenta un punto
essenziale per la comprensione e la formazione dell'immagine
"teologica" dello strumento in questione. Le attuali conoscenze
del corpus agostiniano non permettono di individuare con certezza ne la
data ne il luogo in cui tale discorso fu tenuto. Il recupero deirimmagine
del salterio si inquadra in questo caso all'interno di un contesto
propriamente teologico-morale: l'obiettivo e quello di delineare un
percorso di crescita morale per il credente basato sull'osservanza dei
dieci comandamenti. L'argomentazione trova quindi la sua forza nel
parallelismo che si instaura tra i dieci precetti divini e le dieci corde
del salterio. Il punto di partenza consiste nell'indicare la
necessita di trovare un accordo con «l'avversario», che viene identificato
con la parola di Dio, dal momento che «comanda cose contrarie a quelle
che fai tu» 5 . In un certo senso, quindi, l'avversario sarebbe meglio
identificabile con la nostra disposizione interiore, che ci allontana da
un comportamento moralmente corretto in senso cristiano. Seguire le
disposizioni interiori risulta infatti molto pericoloso nell'ottica
agostiniana, in quanto da un lato si e spinti ad assecondarle poiche
procurano un piacere immediato, dall'altro proprio tale piacere e
ricondotto alia sfera del sensibile e rappresenta quindi una minaccia per
la vita ultraterrena. Allora Agostino, Tractatus de decern
chordis; tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Trattato sul
salterio a dieci corde; in Agostino, Discorsi; sul vecchio testamento, Citta
Nuova, Roma. perche dovremmo camminare allietati da inutili canti che non
ci porteranno alcun vantaggio, dolci nel presente, amari in futuro? L'emergere
di questo tenia del canto ci permette di riferire lo stesso schema sopra
rilevato alia musica. Sembra delinearsi infatti una concezione
ambivalente di tale disciplina: da un lato, nel suo corretto uso,
rappresenta uno strumento di grande forza ed espressivita interiore, che
puo permettere all'uomo di innalzarsi verso la sfera divina. Dall'altro,
se considerata nella sua dimensione sensibile, puo essere la fonte di un
«appagamento dell'orecchio» che rappresenta un motivo di corruzione. Va
notato che una tale impostazione e riscontrabile in numerosi passi di
Agostino, in primis nel De musica, ed e un'eredita che l'ipponense riceve
da una lunga tradizione filosofica riconducibile come minimo a Platone 7
. La problematica ha avuto una grande fortuna nella discussione della
prima patristica 8 in relazione alle modalita della pratica religiosa, e
rimane uno sfondo obbligato per la comprensione della musica cristiana in
tutto il Medioevo 9 . Su questo sfondo Agostino introduce il tema
piu propriamente morale, recuperando la figura del salterio:
«ecco, porto il salterio, ha dieci corde [...]. Perche e aspro il suono
del salterio di Dio? Cantiamo tutti con il salterio a dieci corde. Vi
cantero quello che dovrete fare. Il decalogo della legge infatti ha
dieci comandamenti». 10 L'asprezza attribuita al suono dello
strumento non e evidentemente da ricondurre ad un ambito musicale, quanto
da intendere in senso figurato come metafora della difficolta del cammino
da compiere per ottenere la benevolenza divina. La giustificazione del
recupero deirimmagine dello strumento e indicata nel legame ideale che
si instaura tra i dieci comandamenti e le dieci corde. In relazione a
questo tema e da rilevare come Agostino, riprendendo una esegesi
molto diffusa, distingua i primi tre comandamenti, e quindi le prime
tre Si veda il VII libro delle Leggi, e il III libro della Repubblica, per
esempio. 8 Un'analisi piu puntuale di tale discussione,
interpretata in relazione alia concezione agostiniana, si trova in: P.
Sequeri, Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Citta del
Vaticano, 2005, cap. 2, pp. 45-106. 9 Si veda in particolare
l'ampia discussione sul rapporto tra musica cantata e musica strumentale,
e il problema della musica vulgaris in relazione alia musica liturgica.
Una disamina di tali questioni si trova nei testi gia citati di Giulio Cattin e
Alberto Gallo. 10 Agostino, Sul salterio a dieci corde., corde,
che rimandano ai doveri verso Dio, dai successivi sette, che danno
disposizioni relative al comportamento verso i propri simili. Sebbene
l'intento primario del discorso non sia un intento musicale, la metafora
istituita tra il percorso cristiano e la figura del salterio e portata
fino in fondo: dal corretto utilizzo dello strumento, che corrisponde al
rispetto disciplinato dei comandamenti, emerge il «canto nuovo», che si
contrappone al vecchio proprio come l'uomo nuovo, che nasce a seguito
della venuta di Cristo, si contrappone all'uomo dell'Antico Testamento.
Il canto d'amore che nasce con Cristo prende il posto del timore, che
lega l'osservanza della legge alia paura della punizione divina. E 1
questo il nocciolo argomentativo del discorso, e il tema viene ribadito
in piu punti. Al capitolo 8 Agostino afferma: «Cambiate il
comportamento. Prima amavate il mondo, ora amate Dio. Se lo fate con amore, cantate il canto nuovo.
Se lo fate con timore, ma lo fate, portate si il salterio, ma ancora non
cantate» n . Nel capitolo 13, che rappresenta il culmine del
discorso, l'argomentazione viene ribadita attraverso l'utilizzo di una
metafora che le conferisce una grande forza persuasiva. L'osservanza
dei comandamenti deve implicare contemporaneamente un atto di
ringraziamento a Dio per la grazia concessa, e un atto di repulsione e di
lotta interiore contro la passione sensibile. Il credente, quindi, deve
comportarsi da un lato come il suonatore di cetra che innalza le sue lodi
a Dio, dall'altro come il gladiatore che uccide senza compassione le
belve nell'arena. Il passo merita di essere citato testualmente:
«Negli spettacoli dell'anfiteatro il gladiatore e diverso da chi
suona la cetra. Nello spettacolo di Dio unica e la persona. Tocca le
dieci corde e ucciderai le dieci belve: fai insieme tutte e due le cose.
Tocchi la prima corda, con la quale si comanda di adorare un solo Dio,
cade la bestia della superstizione. Tocchi la seconda corda con la
quale non pronunci erroneamente il nome del Signore tuo Dio, cade
la bestia dell'errore delle nefande eresie che hanno creduto
falsamente. Tocchi la terza corda, per cui qualunque cosa fai la fai per
nella speranza del riposo futuro, viene uccisa la bestia, piu crudele
delle altre, dell'attaccamento a questo mondo. Lo stesso discorso vale
per i successivi sette comandamenti, che enunciano i nostri doveri verso
gli uomini, fino a che 11 M, p. 165. 12 Ivi, p.
173. «cadute tutte le bestie ti trovi sicuro e innocente nell'amore di Dio
e in mezzo alia societa umana. Quante bestie uccidi toccando le
dieci corde! Molti capi infatti si nascondono sotto questi vizi
capitali. Nelle singole corde non uccidi singole bestie, ma greggi di
bestie. Facendo in questo modo canterai il canto nuovo con amore, non
con timore. Il «canto nuovo», dunque, si puo innalzare attraverso
l'osservanza dei comandamenti divini. Si istituisce cosi una
contrapposizione tra l'uomo vecchio dell'Antico Testamento che basa sul
timore l'osservanza della Legge divina, e l'uomo nuovo che nasce con la
rivelazione di Cristo che basa sull'amore verso Dio e verso il prossimo
la propria condotta. In questa contrapposizione e centrale l'elemento del
canto: il canto esteriore, che si fonda sull'appagamento sensibile,
rappresenta la pratica musicale dell'uomo vecchio, mentre il canto
interiore, che innalza il nostro animo a Dio, e proprio dell'uomo nuovo.
E' quindi significativo come, attraverso il ricorso alia musica, Agostino
voglia argomentare la pericolosita delle passioni terrene. Nella sua
intrinseca ambivalenza e nella sua sfuggente duplicita, proprio la musica
diventa il modello della fragilita e della corruttibilita dell'uomo:
anche un elemento apparentemente cosi puro e spirituale puo trasformarsi
in una causa di corruzione per colui che non si comporta in
conformita alia parola di Dio. L'ammonimento, che trova il suo motivo e
il suo compimento all'interno di un contesto teologico-morale,
risulta certamente arricchito e reso persuasivo attraverso il ricorso a
questa metafora musicale. Negli ultimi capitoli del discorso
Agostino, seguendo uno schema piuttosto consolidato, traduce
l'argomentazione fino a questo punto esposta in un lessico
neotestamentario: il decalogo di Mose puo essere sintetizzato nelle
formule evangeliche «ama il prossimo tuo come te stesso» 14 e «non fare
agli altri cio che non vuoi sia fatto a te» 15 . Conseguentemente,
l'immagine del canto interiore ed esteriore viene riformulata attraverso
l'espressione «siate cristiani, perche e troppo poco chiamarsi
cristiani». 16 E' importante notare come le riflessioni qui
proposte siano presenti, seppur in maniera meno sistematica, nei commenti
di Agostino ai Salmi: nel commento al Salmo 32 compare il paragone tra i
dieci 13 Ivi, p. 175. 14 Mt 19, 19; Mc 12, 31;
Lc 10, 27. 15 Mt 7, 12; Lc 6, 31. 16 Agostino, Sul
salterio a dieci corde. comandamenti e le dieci corde del salterio, nel
commento al Salmo 143 il tema centrale del canto nuovo che nasce
attraverso la carita 17 . Questo particolare e di una certa rilevanza per
la nostra ricerca, dal momento che permette di dare per scontata la
conoscenza delle posizioni agostiniane da parte di Gioacchino da Fiore. E
1 del tutto implausibile infatti pensare che l'abate cistercense non
conoscesse il testo delle Enarrationes, mentre non sarebbe altrettanto da
dare per scontata la conoscenza del Discorso fin qui considerato. Senza
voler in questa sede risolvere un problema che meriterebbe una piu
approfondita indagine storiografica, si vuole rilevare che la ripresa
delle posizioni agostiniane da parte di F., in questo contesto
argomentativo, si riferisce sicuramente ai passi citati dell 1
Esposizione sui Salmi, mentre sembra trascurare alcuni elementi che pur
assumono una importanza non secondaria nel Discorso.
4. Il "Salterio a dieci corde" di F.: il contesto storico
e il Prologo Lo Psalterium decern chordarum rappresenta il
principale contributo di F. sul tema della trinita, ed e dunque da
inquadrare aH'interno di uno dei dibattiti piu accesi della discussione
teologica del XII secolo. In seguito al confronto, di vastissima
risonanza, che vide contrapposte le figure di Abelardo e di Bernardo di
Clairvaux, la disputa fu ravvivata dalla pubblicazione delle Sententiae
di Pietro Lombardo, tra gli anni 1155-1157. Le tesi contenute in
quest'opera suscitarono aspre [Si veda anche il commento al Salmo 91 dove
compare il tema sintetizzabile nella massima «siate cristiani, non ditevi
cristiani». Un altro tema particolarmente ricorrente nelle Enarrationes
consiste nella differenza tra la cetra e il salterio.
Nell'interpretazione agostiniana infatti in relazione alia differente
disposizione della cassa di risonanza i due strumenti rappresentano lo
spirito (il salterio, che ha la cassa disposta verso l'alto) e la carne
(la cetra, la cui cassa e invece orientata verso il basso). Il tema
compare in diversi passi: si veda 70 d 2, 11; 80, 5; 97, 5; 150, 6-7.
Particolarmente interessante e la formulazione nel commento al Salmo:
«c'e una differenza tra la cetra e il salterio. Gli esperti dicono che il
salterio ha nella parte superiore quel legno concavo su cui sono tese le
corde e fa da cassa di risonanza, mentre la cetra lo ha nella parte inferiore».
Il riconoscimento di un particolare cosi macroscopico non sembra certo
necessitare il riferimento a giudizi "esperti". Si potrebbe
pensare, addirittura, che Agostino non avesse mai visto personalmente gli
strumenti in questione. critiche da parte di diversi opposition 18 , tra i
quali proprio F.. Quest'ultimo, infatti, prende una posizione decisa contro
gli argomenti sostenuti dall'allievo di Abelardo, fino al punto di
vedere condannata la sua stessa opera nel IV Concilio Lateranense.
Il nocciolo della disputa e la distinzione tra sostanza e persone divine,
che risulta comunemente accettata nelle principali scuole teologiche del
XII secolo. F. arriva a sostenere la «follia» di una tale
impostazione, teorizzando, al contrario, la perfetta compenetrazione e
corrispondenza tra la sostanza e le persone della trinita. Nella sua
ottica, l'unita inscindibile che caratterizza la trinita non puo
prevedere distinzioni di alcuna sorta: e piuttosto il carattere
relazionale che permette di garantire la fusione perfetta tra le tre
persone, e alio stesso tempo il loro riconoscimento singolare, come
dimostra chiaramente la figura del salterio. Distinguendo la sostanza
dalle persone della trinita, invece, Lombardo «e come se mettesse tre
dieci al posto delle tre persone, e un quarto dieci al posto della
sostanza, come se Dio non fosse trinita, ma una quaternita» 19 . La
figura argomentativa che viene posta al centro della critica e quella
tradizionale dei tre rami provenienti dalla stessa radice: la sostanza,
secondo questa metafora, sarebbe distinguibile dalle tre persone divine,
proprio come i rami lo sono dalla radice, dalla quale pure tutti sono
generati. Per F., al contrario, l'immagine a cui si dovrebbe fare ricorso
e quella dell'acqua, che come linfa vitale scorre aH'interno dei rami
stessi. Da questi passi si puo dunque intuire come l'obiettivo polemico
principale sia proprio l'autore delle Sententiae, anche se e da rilevare
che il suo nome non viene mai citato esplicitamente. I nomi che ricorrono
in piu punti, invece, sono quelli degli eretici Sabellio e Ario, le cui
eresie consistono nel ridurre, il primo, la trinita ad una sola persona
20 , mentre il secondo nel separare in modo inconciliabile le tre
persone, che vengono distinte per grado dimensionale: «come se al Padre
offrisse dieci, al Figlio cinque, alio [Si ricorda ad esempio Gerhoh di
Reichersberg, le cui posizioni ebbero grande influenza sul Papa
Alessandro III, e Giovanni di Cornwall. Per un'analisi piu puntuale del
dibattito si veda G. L. Potesta, J/ tempo dell'Apocalisse. Vita di F., Laterza,
Roma Bari. G., ll salterio a dieci corde, tr. it. di F. Troncarelli, K. V.
Selge, Viella, Roma. Sabellio teorizza infatti la rigorosa unita e
indivisibility di Dio, formato da una sola persona, l'ipostasi, e tre
nomi, che descrivono le diverse forme o attributi propri della sua
manifestazione. Il figlio e lo Spirito Santo sono quindi soltanto
"modi" dell'apparire del Padre scelti in base al proprio
volere. Spirito Santo un numero piu piccolo». 21 La stesura
dell'opera si colloca all'interno di una vicenda biografica particolare,
di cui e lo stesso F. ad informarci. Il Prologo dell'opera, infatti,
consiste in un ripensamento a posteriori sulla genesi di questo «opuscolo
dedicato alio Spirito Santo», che rappresenta la terza delle sue opere
principali 23 . Il tenia principale su cui si insiste in queste pagine e
la spontaneita e l'immediatezza che hanno caratterizzato l'elaborazione e
la stesura di tale opera. Gli anni in cui questo awiene sono quelli del
soggiorno presso l'abazia di Casamari: anni di grande entusiasmo
intellettuale, in cui F., «lontano dagli affari del mondo, o quasi»,
arriva a sentirsi addirittura «un abitante della citta superiore, celeste
di Dio» 24 . Si tratta degli anni tra il 1182 e il 1185, in cui gli
sforzi intellettuali dell'abate sono rivolti alia Concordia Novi ac
Veteris Testament^ che sara portata a termine solo qualche tempo piu
tardi. E 1 proprio durante la stesura di quest'opera, infatti, che
l'animo di Gioacchino viene scosso da una inaspettata «esitazione nella
fede della trinita» 25 , che impone una riflessione su questo difficile
argomento. Il lavoro sulla Concordia viene quindi interrotto,
nell'interesse di una problematica costitutiva ed imprescindibile per
qualsiasi riflessione teologica. La stessa immediatezza che caratterizza
il sorgere del problema si ritrova nel percorso che porta alia scoperta
di una soluzione: «pregai [lo Spirito Santo] che si degnasse di
mostrarmi il sacro mistero della Trinita. E dicendo questo incominciai a
cantare i salmi. [...] Ed ecco subito mi si presento all'animo l'immagine
del salterio. F., II salterio a dieci corde. La tesi fondamentale di Ario
consiste nella negazione della consustanzialita tra il Padre e il Figlio, a
partire dall'idea che l'unita di Dio e incompatibile con la pluralita
delle persone divine. Il Figlio, quindi, non ha la stessa natura del
Padre, ma e la sua prima creatura, con la conseguenza che l'incarnazione
e la resurrezione di Cristo non possono essere considerati eventi divini.
il dibattito sull'arianesimo infiammo la disputa teologica del IV secolo,
e si concluse con la condanna delle tesi di Ario durante il Concilio di
Nicea. F., Il salterio a died corde, cit., p. 4. 23 Le altre
due opere che costituiscono il corpus principale gioachimita sono la
Concordia Novi ac Veteris Testamenti e I'Expositio in Apocalypsim. Va qui
notato che l'indicazione del "Salterio a dieci corde" come
"terza" opera e sostenuta conformemente alle istruzioni date
dallo stesso F.. Tale affermazione non e riconducibile a ragioni
cronologiche, quanto probabilmente ad un ripensamento tematico sui propri
scritti da parte dell'autore. F., Il salterio a dieci corde. 10 a
dieci corde e racchiuso nella sua forma stessa in modo chiaro e
comprensibile il mistero della trinita» 26 . Una vera e propria
illuminazione, che scaturisce dalla grazia divina: un percorso che sembra
orientarsi ben piu sul versante mistico che su quelle-
speculativo-razionale. In questo contesto il tenia del canto riveste un
ruolo essenziale, come chiave di accesso ad un'intima comunicazione con
la parola di Dio. Il concetto viene ribadito in un altro passo del Prologo:
«quando, con fervore di novizio cominciai ad amare il canto dei
salmi a causa di Dio, molti aspetti della scrittura divina che prima
leggendo non avevo potuto investigare, cominciarono a dischiudersi a me
che cantavo i salmi in silenzio. Il carattere mistico del canto, che puo
innalzare lo spirito verso quei misteri che risultano oscuri alia lettura
razionale, emerge in queste righe con estrema efficacia. Alio stesso
tempo, pero, non si puo trascurare l'elemento del canto silenzioso, che
sembra rimandare invece all'altro versante della concezione
platonico-agostiniana: la valenza corruttrice dell'elemento sensibile. Un
canto che viene quindi ricercato in un grado tale di purezza da poter
arrivare addirittura ad annullare se stesso. L'indicazione di F., in
questo punto, non sembra volersi spingere fino a questa paradossale
conclusione, che pur e stata teorizzata da diversi autori in epoca
medievale. Il recupero dell'elemento musicale, come si vedra, procede
piuttosto in conformita all'impianto complessivo dell'opera, finalizzato
ad «esaltare le potenzialita figurali e le implicazioni visive della
Sacra pagina. L'idea e di attingere a un repertorio di enti visibili per
accedere ah"invisibile. Si potrebbe dire che l'elemento figurato
incarna ed esplica, in un certo senso, il contenuto di verita degli
argomenti teorici qui proposti. Se da un lato questa incarnazione segna
anche il punto di partenza per un percorso spirituale che, pur procedendo
al di fuori del confine della razionalita logica, puo innalzare alle
sfere del divino, dall'altro lato la coerenza argomentativa non puo
essere garantita se non all'interno del riferimento ad un elemento
materiale, esperibile, concretamente attingibile. Il canto silenzioso non
sembra quindi poter arrivare ad eliminare la musicalita del canto
sensibile, quanto piuttosto si caratterizza come la prova tangibile di un
dissidio non ancora risolto, Potesta, II tempo dell'Apocalisse, di
un'ambivalenza strutturale nell'interpretazione della musica, che dovra
passare anche il confine del XII secolo prima di trovare una
soluzione. La struttura dell'opera permette una divisione interna in
due parti: la prima comprendente il libro primo, la seconda il libro
secondo e terzo. Tale distinzione interessa sia il contenuto semantico,
sia il periodo di stesura: e lo stesso F. ad informarci del fatto che
il secondo e il terzo libro «non li scrissi ne in quel luogo ne in
quell'epoca, ma dopo circa due anni». E 1 un'informazione non
sorprendente alia luce del contenuto, che sembra separato da una linea ben
definita. La differenza consiste nel fatto che, mentre nella prima parte
il "salterio" rappresenta lo strumento musicale fin qui
considerato, e la sua ripresa e relativa alia disputa sulla trinita, lo
stesso termine viene usato nella seconda parte per indicare il libro
biblico dei Salmi, a partire dal quale viene costruita una prospettiva
escatologica ed esegetica che si basa sul numero 150, che corrisponde
appunto al totale dei Salmi. Se la prima parte si contraddistingue, come
visto, per il carattere di immediatezza e spontaneita della riflessione,
la seconda appare, invece, certamente piu pensata, piu costruita, in
riferimento ad un ingente e puntuale recupero del testo sacro.
Caratteristiche che la avvicinano certamente piu alia produzione
escatologica di Gioacchino, che non al resto dell'opera. Si potrebbe
pensare, come afferma Potesta, che il materiale che forma questi libri
sia il risultato di una serie di appunti raccolti in circa un decennio di
riflessioni sulla Concordia e sull'Expositio, e che trova una
sistemazione definitiva piuttosto tarda. In ogni caso e evidente che e la
prima parte dell'opera ad interessare piu direttamente il tema della
nostra ricerca. Sara questa, dunque, l'oggetto del prossimo paragrafo. Il
"Salterio a dieci corde" di F.: il Libro Primo Il
Primo libro del Salterio a dieci corde parte dall'immagine dello
strumento musicale per indagare la «ricchezza dei misteri» in essa
contenuti. Misteri che derivano dall'origine divina, per cui «niente puo
esservi di sterile o vano» 30 . Il riferimento e, ovviamente, in primo
luogo al testo biblico, e in particolare alia figura di Davide, autore
dei Salmi, F., Il salterio a dieci corde.di cui vengono citati alcuni
passi che rimandano all'utilizzo del salterio nelle pratiche liturgiche
ebraiche 31 . La struttura del libro risulta divisa in sette capitoli, o
"distinzioni", in cui progressivamente vengono introdotti nuovi
elementi per una comprensione che passa dal piano della semplice
descrizione alio svelamento della prospettiva escatologica contenuta
nella forma dello strumento. La prima distinzione introduce la
figura del salterio, che viene descritto come uno strumento «bello di
forma, aggraziato per il suono, soave per la modulazione» 32 . Le
caratteristiche che compaiono in questo passo sono notevolmente diverse
da quelle che si sono viste prevalere nella descrizione agostiniana, in
cui «aspro e il suono dello strumento di Dio» 33 . Il riferimento e il
confronto con gli elementi contenuti nelle Enarrationes appare del resto
evidente fin dalle prime righe del capitolo: F. riprende, seppur in
maniera estremamente sintetica, la distinzione tra il salterio e la cetra
nella loro differente funzione spirituale, il paragone tra le dieci corde
e i dieci comandamenti, la differenza tra le prime tre corde e le successive
sette. E in seguito compare il tema dell 1 «uomo nuovo che e stato creato
a immagine di Dio» 34 , che nasce dal "canto nuovo" del salterio. Se
e facile dunque riconoscere sullo sfondo la presenza e la conoscenza
delle tesi agostiniane, risulta altrettanto semplice vedere come F.
proceda, ben presto, verso l'elaborazione di un percorso autonomo, che
per alcune implicazioni e addirittura contrastante con le posizioni
dell'ipponense. Sal. 80, 3: "Intonate il cantico e suonate il timpano, il
giocondo salterio e la cetra"; Sal. 150, 3: "Lodatelo col suono
della tromba, lodatelo col salterio e la cetra". 32 F., II
salterio a dieci corde, Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p.
159. 34 Ef. 4, 24. 35 La problematica relativa al
complesso rapporto tra Agostino e F. esula dagli obiettivi di questa
ricerca. Si vuole d'altra parte richiamare, almeno in termini generali,
lo sfondo entro il quale collocare la discussione. Potesta indica proprio
nel «confronto a distanza con l'inquietante ombra di Agostino un motivo
per capire il laborioso ed esitante procedere della ricerca teologica di F.
(Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit., p. 8). Il termine centrale del
dibattito consiste nel divieto espresso da Agostino di interpretare
l'Apocalisse in chiave millenaristica. Questo rappresenta un grande
scoglio per lo sviluppo complessivo della ricerca dell'abate calabrese,
interessato, in primo luogo, proprio ad un'interpretazione della storia a
partire dall'analisi del testo dell'Apocalisse. In particolare, la chiave
di volta del pensiero gioachimita si basa sull'interpretazione dei
versetti del capitolo 20 come preannuncio di un'epoca terrena di cui e
imminente l'instaurazione. Su questo sfondo diversi sono gli elementi di
incompatibilita tra i due pensatori, che riguardano del resto le opere in cui
la [Il punto di partenza di questo percorso consiste nell 1 inter
pretare in primo luogo il salterio secondo la sua forma esterna, senza
fare riferimento alia natura delle corde, che invece rappresenta il
principale motivo di interesse della ripresa agostiniana. La forma
triangolare rimanda alia perfezione e alia natura inscindibile dell'unita
trinitaria: ad ogni vertice puo infatti essere associato il nome di una
delle tre persone, come si puo vedere dalla figura 1 riportata in
Appendice. Si puo quindi immediatamente notare come ogni persona
sia costitutivamente messa in relazione alle altre: proprio come il
vertice non puo essere individuato se non come punto di incontro delle
rette che provengono dagli altri due. L'intero spazio delimitato dalla
figura si caratterizza quindi come uno spazio indissolubilmente unitario,
in cui ogni elemento non puo che definirsi nel rapporto con il tutto, ma
alio stesso tempo e individuabile in uno dei tre vertici. In questo
complicato rapporto e l'elemento relazionale a fondare le possibility
di comprensione da parte della mente umana: ogni persona non e
pensabile se non come relazione che si instaura con le altre due.
«ll concetto di trinita si riferisce, dunque, alia categoria di
relazione a qualcosa; e ugualmente quello di unita: la trinita a evitare
il singolare della parola di persona; l'unita a evitare la divisione
nel concetto di sostanza». 36 Sullo sfondo del riferimento
polemico alle tesi di Lombardo, risulta evidente come sia dunque la
categoria di relazione ad indirizzare e guidare la mente
neiravvicinamento ad un mistero che per sua essenza rimane inarrivabile
per le nostre facolta razionali. Di fronte a questa presa di coscienza
non e piu concesso cercare di spingersi oltre, quanto piuttosto e da
accettare la massima di Bernardo secondo cui «voler investigare cio e
orgoglio, crederlo e pieta». Non resta dunque che un atto di fede di
fronte ad un tale mistero, che per sua natura rimane «ineffabile».
L'ineffabilita di tale mistero sembra riaprire nella prospettiva
escatologica emerge in modo prevalente, come nel caso dell' Expositio.
L'interesse per l'Agostino musicus e quindi del tutto marginale, nel complesso
del pensiero di F., e viene qui richiamato solo per favorire la
comprensione della particolarita dell'approccio gioachimita nei confronti
dello strumento del salterio. Un tale confronto, del resto, potrebbe fornire
qualche interessante indicazione per una comprensione piu generale del
problema. F., II salterio a died corde. L'utilizzo di questo termine per
descrivere Palterita del mistero trinitario rispetto alia nostra
comprensione razionale avvicina curiosamente la riflessione di F. ad
un'area di indagine che ha avuto grande fortuna nell'eta
moderna, riflessione uno spazio per l'elemento propriamente musicale: tra
le arti e tradizionalmente la musica, infatti, proprio a causa della sua
non corrispondenza con un corpo sensibile, della sua costitutiva
impalpability, ad avere il carattere piu sfuggente, apparentemente altro.
Ineffabile, appunto. Di fronte al fallimento delle nostre facolta
razionali, che devono dichiarare la resa, resta quindi all'uomo ancora
una possibility per mantenere aperto uno spiraglio, un punto di contatto
con il mistero divino: l'elemento musicale, attraverso cui esprimere la
propria invocazione di lode a Dio. Il salterio, in queste pagine, cessa
di essere interpretato esclusivamente come una forma geometrica per
cominciare ad essere considerato secondo la sua disposizione originaria
di strumento musicale. Ai vertici si puo quindi collocare il termine
"Santo", che ripetuto tre volte rappresenta la perfezione del
canto di lode, mentre nel foro della cassa di risonanza si puo inscrivere
il nome del "Signore Dio degli eserciti", simbolo
dell'onnipotenza divina. E proprio questo foro da un lato rappresenta
l'elemento da cui scaturisce la vibrazione sensibile che rende udibile il
canto, dall' altro il fine stesso verso cui tale canto e rivolto. L'ultimo
passo compiuto da F. in questa prima distinzione consiste nel mettere in
relazione proprio questi due elementi geometrici che contraddistinguono
la forma del salterio: il triangolo e il cerchio. Questa caratteristica
permette di rimarcare la sfuggente natura del mistero trinitario: nei
vertici del triangolo sono infatti distinguibili le persone divine, e d'
altro canto il cerchio simboleggia la loro intima connessione che forma
un'unita inscindibile. La metafora puo essere estesa al fatto che proprio
in questa unita, cioe nell'elemento circolare che rappresenta la cassa
armonica da cui fuoriesce il suono, lo strumento compie la sua funzione.
La correttezza dell'argomentazione e ulteriormente giustificata
attraverso il riferimento al versetto di Apocalisse 1, 8: "lo sono
l'alfa e l'omega". L'essere atemporale di Dio, il suo essere al
principio come nella fine, e espresso in questo passo biblico proprio in
relazione alia prima e all'ultima lettera dell'alfabeto greco, le cui
raffigurazioni grafiche consistono in un triangolo e in un cerchio. Il
riferimento al passo biblico conclude gli sforzi di F. in questa prima
distinzione: la perfezione del salterio, attraverso cui si incarna in una
forma compiuta il mistero trinitario, eleva ad una proprio nell'ambito
della riflessione filosofico-musicale: si veda Jankelevitch, La musica e
Vineffabile. Sebbene non si possa attribuire a F., evidentemente, alcuna
intenzionalita nell'utilizzo di questo termine, il confronto tra le
prospettive potrebbe portare ad interessanti conclusioni. prospettiva che
permette di abbracciare la perfezione dell'immagine di Dio nella pienezza
dei tempi. Di fronte a questo la ragione e costretta a fermarsi, e
proprio in quel punto deve cominciare il canto. Nella seconda distinzione F.
insiste sull'elemento relazionale come chiave interpretativa e risolutiva
del mistero della trinita. Ricorrendo ancora una volta aH'immagine del
salterio, la prospettiva e delineata attraverso l'osservazione per cui i
tre vertici non possono essere considerati elementi autonomi, ma
relazionali, prodotti dall'unione di due rette secanti. Rette che
rappresentano proprio l'unione di ogni vertice con gli altri due, in modo
che nessun punto potrebbe esistere se non in riferimento agli altri. Lo
spazio che pertiene ad ogni persona, non e pero da intendersi come il
singolo punto isolato, ma come l'angolo avente il suo vertice in quel punto,
che come tale e rappresentato dall'area che sta in mezzo ai lati
dell'angolo stesso. Si puo notare, quindi, che lo spazio di ogni persona
coincide con l'intera area del triangolo. Anzi, ogni area si costituisce
in quanto tale, cioe come porzione delimitata di spazio, proprio
attraverso la relazione con le altre due, che le impediscono di
estendersi all'mfinito. La terza distinzione contiene una discussione
prettamente teologica sugli attributi delle tre persone divine, e
riguarda in modo meno diretto il tema della nostra ricerca. Si vuole solo
osservare come anche questa prospettiva permetta a F. di insistere sul
concetto di relazione come elemento centrale per una corretta
interpretazione del problema: la potenza, la sapienza e la carita,
caratteristiche che vengono tradizionalmente attribuite al Padre, al
Figlio e alio Spirito Santo, non sono da concepire come elementi distinti
e separabili tra loro, dal momento che «tutta la trinita e perfetta
potenza, tutta la trinita e perfetta sapienza, tutta la trinita e
perfetto amore. Conseguentemente «non sono maggiori o hanno di piu le tre
persone, di quello che ha ciascuna, e non ha meno una, di quello che
hanno le tre insieme. Nella quarta distinzione si introduce
un nuovo elemento nell'interpretazione del salterio, che consiste
nell'osservare che il vertice superiore non e rappresentato attraverso un
singolo punto, ma da un segmento. Questo esprime la priorita del Padre da
cui viene generato il Figlio e successivamente lo Spirito Santo, che
procede da entrambi. L'argomentazione assume in queste pagine dei tratti
piuttosto originali, strutturandosi sulla base di un parallelismo
ricercato tra F., II salterio a died corde. l'argomento teologico e
la nostra modalita di scrittura. Il procedere della scrittura cristiana
da sinistra verso destra starebbe infatti a conferma del fatto che la
creazione ha inizio col Padre, che genera in primo luogo il Figlio (lato
e vertice sinistro), la cui unione produce lo Spirito Santo (inteso come
vertice destro). Al contrario, stando alle Scritture, in epoca ebraica
Cristo e stato concepito attraverso il corpo di Maria «per opera dello
Spirito Santo» Questo fatto e testimoniato dal procedere della scrittura
ebraica da destra verso sinistra. F., del resto, si rende conto che gli
elementi introdotti in queste pagine potrebbero indurre a pensare a una
differenza di grado tra le persone divine, il che sarebbe assolutamente
errato. E 1 necessario, quindi, spingere la lettura interpretativa ancora
piu in la, osservando che il segmento superiore e tale dal momento che in
origine non e soltanto il Padre, ma l'intera trinita, poiche «presso Dio
non c'e mutamento, ne l'ombra della vicissitudine. La forma trapezoidale
del salterio indica quindi che, fin dal principio, erano presenti le tre
figure della trinita: e questo l'argomento della quinta
distinzione. Il confronto tra la particolare considerazione del
salterio che viene fatta nella quarta e nella sesta distinzione, permette
di mettere in luce ancora una volta la peculiarity della riflessione di F.
che, basandosi sul recupero di un'immagine "musicale", oscilla
tra le due sponde della rigida argomentazione teologica e dell'emozione
mistica rappresentata dal canto. Il termine "Onnipotente" che
compare nel vertice del Padre viene qui sostituito da
"chiediamo": il salterio torna a essere uno strumento musicale
attraverso cui innalzare la nostra invocazione al divino. Ancora una
volta, di fronte all'incertezza della ragione, che si trova a dover
contemplare l'incommensurabile perfezione dell'eterna esistenza di Dio,
sopravvive l'elemento musicale, inteso da un lato come strumento di
comprensione mistica del mistero divino, dall'altro come ringraziamento
per la grazia concessa. Su questo sfondo F. riprende il filo della
riflessione teorica: l'affermazione dell'eterna esistenza della trinita
lascia aperto il problema relativo al suo manifestarsi all'interno del
tempo umano: perche il divino, essendo trino fin dal principio, non si e
da subito rivelato all'uomo nella sua essenza piu autentica?
La domanda introduce all'interno di una prospettiva escatologica,
che F. argomenta attraverso una riflessione sul percorso di maturazione
dell'uomo. Dio ha dovuto in un certo senso aspettare che 41
Mt 1,18; Lc 1,26-38; Gv 1,6. 42 Gcl,17. 17 l'uomo fosse
in grado di comprendere la sua rivelazione: per questo a quel «popolo
ancora rozzo» 43 che fu quelle- dell'Antico Testamento si mostro solo
come Padre, perche la sua natura trina sarebbe stata fraintesa in senso
politeista. In seguito solo a qualche spirito particolarmente elevato,
come quello dei profeti, e stato dato di comprendere il mistero, come
dimostra Isaia che in piu punti si rivolge "apertamente" al
Figlio: «Signore, chi crede al nostro udito, e il braccio di Dio a chi e
stato rivelato? E salira come un virgulto davanti a lui e come una radice
dalla terra assetata» 44 . Solo con l'avanzare della maturazione
dell'uomo, cioe con il popolo cristiano, «piu vecchio nell'eta» 45 , Dio
si e potuto mostrare nella sua reale essenza. A questo schema
apparentemente binario, che si struttura in riferimento alia
contrapposizione Antico-Nuovo Testamento, F. fa seguire
un'interpretazione ternaria del tempo della storia dell'uomo, che viene
suddiviso in riferimento alle figure della trinita. L'argomento viene meglio
sviluppato nel libro secondo, in cui all'epoca del timore e a quella
dell'amore, che tradizionalmente corrispondono al tempo della Legge e
quello inaugurato con la venuta di Cristo, F. fa seguire una terza epoca,
che sta per cominciare, sotto il segno dello Spirito Santo. Proprio
questa epoca rappresenta il culmine del disegno divino: come la prima fu
quella del Padre, e la seconda non solo del Figlio, ma del Padre e del
Figlio insieme, cosi la terza sara l'epoca della trinita nella sua unita
perfetta, in cui saranno presenti nello stesso tempo il Padre, il Figlio
e lo Spirito. Di fronte aH'imminenza di questo tempo, che rappresenta il
trionfo dei giusti, l'intento e quello di ammonire «coloro che abitano in
mezzo a Babilonia, a fuggire da essa» 47 . Il richiamo al secondo libro
permette di notare F., II salterio a died corde, cit., p. 46.
44 Is 53,1. F., Il salterio a died corde, cit., p. 47.
46 La compresenza di questi due modelli escatologici nel pensiero
gioachimita e stato fin da subito una questione centrale tra gli
studiosi. Attorno a questo nodo si e infatti orientato il dibattito
ecclesiastico sulla duplice reputazione dell'abate, che da un lato poteva
essere letto come ortodosso (in relazione al modello binario), dall'altro
eterodosso (ponendo l'accento su quello ternario). La storiografia
successiva ha a lungo sottovalutato il problema. Alcuni studiosi hanno provato
ad interpretare il modello binario in relazione alia prospettiva storica
e quello ternario a quella mistica. Si noti che la questione costituisce
un altro elemento di forte distanza tra il pensiero di F. e quello di
Agostino. Per una piu curata riflessione sul tema si veda ancora: G. L.
Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit. 47 F., Il salterio a died
corde, cit., p. 172. La citazione rimanda al versetto di Ap. 18,
4.18 come anche in questo contesto il limite della comprensione
razionale, che si deve arrestare di fronte alia grandezza del disegno
divino, rappresenta l'inizio di un nuovo percorso dove assolutamente
centrale e l'elemento musicale: «a noi ormai deve bastare di avere in
questo modo e fin qui contato le corde. [...] E 1 il tempo di dover
cantare e salmodiare»Tornando alia sesta distinzione, F. procede
facendo corrispondere alia tripartizione della storia tre tipologie di
figure umane, distinte tra loro in riferimento alia propria mansione
principale. Al livello piu basso si collocano i laici, di cui e proprio
il lavoro manuale, poi i chierici, che hanno come compito lo studio e
l'insegnamento, e infine i monaci che si caratterizzano per il canto di
lode e la salmodia. E 1 da notare come il percorso che si delinea
attraverso queste tre figure non rappresenta solo il riconoscimento di
una differenziazione sociale tra gli uomini, ma e anche l'indicazione per
una crescita individuale che innalza l'animo verso Dio. Questi tre stadi
sono resi da F. attraverso una similitudine: «nello stato di timore baciamo i
piedi, in quello di apprendimento baciamo le mani, nella salmodia baciamo
la bocca». E dunque «e buono l'inizio nel bacio dei piedi, meglio
la perseveranza nel bacio della mano, l'ottimo e il compimento nel
bacio della sua bocca». L'elemento della bocca viene in questo
contesto recuperato, sulla scia di un'esegesi molto diffusa, per
intendere il mezzo attraverso cui si dispiega nel mondo la creazione e
prende forma il Verbo. Questo rimando ideale al bacio della bocca sembra
quindi voler ribadire come sia proprio l'elemento sonoro a mettere
in comunicazione l'uomo e Dio: da un lato come canto della
salmodia, mansione propria dell'uomo spiritualmente piu elevato,
dall'altro come espressione della potenza creatrice di Dio.
Solo nella settima distinzione F. prende in considerazione
direttamente il tema delle dieci corde dello strumento. Anche in questo F.,
II salterio a dieci corde. Si vuole osservare che la lettura qui
proposta, che insiste sull'elemento musicale, permette di attribuire al
terzo libro una valenza forse maggiore rispetto a quella che sembra
generalmente assumere. Se l'elemento musicale della salmodia, che
contraddistingue la terza epoca, e l'elemento che permette di oltrepassare
le facolta della ragione, dal momento che l'avvento della pienezza divina
sembra escludere la possibility di una comprensione razionale, le pagine
finali, dal momento che istruiscono sulle modalita del canto, possono
essere interpretate non solo come un «semplicissimo libro che si limita a
fornire indicazioni per la recita dei salmi, ma come un ammonimento di F. sul
modo di comportarsi per tutti coloro che vivranno il tempo dello Spirito.
F., II salterio a dieci corde. caso possiamo distinguere un impiego musicale
dell'immagine da uno piu propriamente teologico. Il primo approccio si
basa sull'interpretazione delle corde come elemento produttore di suono.
Da qui si osserva che le corde sono fissate indissolubilmente, alle
loro estremita, ai lati che simboleggiano il Figlio e lo Spirito, mentre
la loro vibrazione si propaga verso il vertice del Padre. Questo a
intendere che il nostro canto deve essere innalzato verso quest’ultimo a
partire dal messaggio della rivelazione contenuto nel Vangelo. D'altra
parte, il suono e reso udibile e prende corpo attraverso la cassa
armonica rappresentata dal cerchio, a sottolineare ancora una volta
1' indissolubility dell’essere trinitario. L'interpretazione piu
propriamente teologica delle corde e da collocare nel contesto
escatologico in cui si chiudeva la sesta distinzione. Il loro numero e la
loro disposizione rappresentano i gradi e la gerarchia degli eletti nella
citta divina, cosi che piu il grado si awicina a Dio, piu la corda e
breve, dal momento che sono meno coloro che riescono ad arrivarci.
Alio stesso modo ogni grado risuona secondo una propria nota, in modo
che «la diversita degli onori adorna meravigliosamente quella santa
e celeste patria, e la moderazione della diversita attraverso l'unita
non lascia nascere il livore. Forse in questa richiamo del suono acuto
delle corde piu vicine a Dio come espressione della difficolta insita
nel percorso per arrivarci si puo vedere un ultimo elemento di ripresa
delle argomentazioni agostiniane, che sembra del resto utile soltanto
a rimarcare la differenza tra le due impostazioni. Piu rilevante
sembra invece considerare come ultimo spunto di questo primo libro il
tema dell'armonia musicale che fornendo delle regole per il bel
canto awicina il nostro animo alia sfera divina. Dio fece questo perche
le corde, tra loro distinte, con i diversi suoni che producono, allietino
con la soavita della loro melodia quella santa citta di Dio, nella quale
tutti, gioiosi, hanno la loro dimora. Per tracciare un bilancio della
ricerca condotta, bisogna affermare, in primo luogo, che non emerge dai
testi considerati una tesi "forte" che possa sintetizzare una
presa di posizione chiara. Certamente, nel complesso, le
indicazioni piu interessanti emergono dal testo di F., in cui si nota che
una lettura dell'opera orientata in senso un po 1 piu musicale, potrebbe
rappresentare una prospettiva attraverso cui reinterpretare alcuni passi
e metterne in luce alcune sfumature. La ricerca, in definitiva, si pone
quindi come un primo passo che schiude degli orizzonti per una ricerca
che potrebbe essere ampliata in molte direzioni. Sullo sfondo, in primo
luogo, e da rilevare che l'analisi dei testi considerati si inserisce
nella complessa problematica del rapporto tra Gioacchino e Agostino, che
deve trovare nell'ambito teologico e filosofico, ben prima che in quello
musicale, i propri motivi argomentativi. In quest'ottica, il confronto
tra le due prospettive musicali legate aH'immagine del salterio, proprio
perche maturato inevitabilmente sullo sfondo di un riferimento teologico
e morale, permette di mettere in evidenza qualche elemento utile per
una riflessione piu generale. Certamente la considerazione sarebbe
da allargare ad una analisi piu generale della problematica musicale
nel pensiero dei due autori, in particolare, almeno, al De Musica di
Agostino. Infine, le indicazioni che qui abbiamo presentato per via
teorica potrebbero trovare sostegno da una ricerca piu dettagliata
delle pratiche musicali diffuse in ambito monastico nel XII secolo.
Si spera, in ogni caso, che la presente ricerca possa aver fornito
qualche elemento per la comprensione di uno strumento estremamente
affascinante e ricco di mistero, come il salterio a dieci corde. Tavola
Illustrativa Prima distinzione: %. i n s .2 Seconda
distinzione. Quarta distinzione: attraverso Gesu Cristo nell'unita dello
Spirito Sesta distinzione: attraverso Gesu-Cristo nell'unita dello
Spirito.AGOSTINO, Tractatus de X chordis. Bellini, Cruciani, Tarulli, Trattato
sul salterio a X corde; in Agostino, Discorsi sul vecchio
testamento, Citta Nuova, Roma]. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, [tr.
it. di T. Mariucci, V. Tarulli, Esposizione sui salmi; in Agostino,
Opera Omnia, voll. 25, 26, 27, Citta Nuova, Roma 1979].
CATTIN, G., La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino. GALLO, A., La
polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino. F., Psalterium dececm chordarum
[tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, II salterio a died corde,
Viella, Roma]. POTESTA, G. L., Il tempo dell'Apocalisse. Vita di F.,
Laterza, Roma Bari. SACHS, C, The history of musical instruments, Norton,
Papini, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano. SEQUERI, P.,
Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Vaticano. Keywords: implicatura,
Fusaro, implicatura musicale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fiore:
implicature” – The Swimming-Pool Library. Gioacchino da Fiore. Fiore.
Grice e Fiormonte:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Domenico – filosofo.
Grice e Fiorentino: la ragione conversazionale e la
lingua dei romani – scuola di Sambiase – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Sambiase).
Filosofo italiano.
Sambiase, Lamerzia Terme, Catanzaro, Calabria. Grice: “I like Fiorentino; for
one, he influenced Gentile – Fiorentino managed to write two important tracts:
a systematic ‘manuale’, of ‘elementi di filosofia’ with a section on semantics,
communication, and language – his view of the latitudinal history of philosophy
– and a ‘storia della filosofia,’ again seen as a manual, literally handbook! Both very clear and to the right audience!” Figlio di
Gennaro, chimico e farmacista, e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio e
Bruno Sinopoli, rispettivamente zio e fratello di sua madre, entrambi
sacerdoti, e venne influenzato dal pensiero e dagli scritti di Capocasale e
Galluppi. Studia filosofia a Nicastro, sotto Marco e Crecca, insigni filosofi e
latinisti. Trascorre il suo tempo libero nel caffè letterario "Cherry Plum",
luogo d'élite che attira gli filosofi. Iniziò a farsi conoscere tra i coetanei
di Sambiase, costruendosi una discreta reputazione. Si trasferì a
Catanzaro dove intraprese gli studi di giurisprudenza. Sarebbe probabilmente
divenuto un avvocato se la filosofia non fosse stata la sua innata passione.
All'indomani dell'ignominosa resa del generale Ghio e dei suoi dodicimila
soldati borbonici a Soveria Mannelli, nell'incontrare Garibaldi a Maida,
Fiorentino gli si avvicinò per congratularsi del successo ottenuto gridando:
«Viva l'annessione, vogliamo l'annessione!» Dopo l'Unità d'Italia, venne
nominato, con decreto regio, professore di filosofia a Spoleto. La sua fama di
intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della sua natia regione.
Si iniziato in Massoneria, nella Loggia Felsinea di Bologna. Da Spoleto
presto passa a Maddaloni, dove approfondì sempre più i suoi studi. Pubblica Il
“panteismo” di Bruno. Rivedeva molto di sé nel carattere e nel martirio
di Bruno. La stessa affinità che, sia pure in chiave politica, ritrova Gioberti,
grande statista. Il saggio su Bruno gli valse la cattedra a Bologna che era
stata di Spaventa. Si occupa della storia della filosofia romana, contemporaneamente
si interessò dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto filosofi pocco
conosciuti, quale A B C D ed E. Scrosse “La filosofia romana”; Pomponazzi; e “Scritti
varii”. Seguì l'opera su Telesio data alle stampe in Firenze. Si trasferì
a Napoli e Pisa. A Pisa pubblica “Elementi di filosofia” e il Manuale di Storia
della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e spigliato. Fonda il
Giornale Napoletano. con le sue prefazione e note, pubblicò "Poesie Liriche
edite ed inedite di Tansillo" (Domenico Morano, Napoli). Altre opere: “Volgarizzazione
dell'Itinerario della mente a Dio di S. Bonaventura, dei Libri del Maestro,
Dell'immortalità dell'anima e Del libero arbitrio di Aurelio Agostino, del
Proslogio di Anselmo d’Aosta, Messina, Sul panteismo di Giordano Bruno”
(Napoli); Saggio storico sulla filosofia greca” (Firenze); “Pomponazzi, studi
storici sulla scuola bolognese e padovana del secolo XVI” (Firenze); “Telesio,
ossia studi storici sull'Idea della Natura nel Risorgimento [Rinascimento]
italiano” (Firenze); “La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, Scritti
vari di letteratura, poesia e critica, Napoli); “Elementi di filosofia,
Napoli); “Della vita e opere di Grazia, Napoli); “Manuale di storia della
filosofia, Napoli); “Il Risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, L. Lo
Bianco, Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Galati,
Interpretazione dell'opera, in «Archivio storico della filosofia italiana», Oldrini,
“La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento” (Bari); Di Giovanni, A cento
anni dalla nascita dell'idealismo italiano, in «Bollettino della Società
Filosofica Italiana», Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Il
contributo italiano alla Filosofia. Istituto dell'Enciclopedia. Formazione del
linguaggio. Il linguaggio e la prerogativa umana. Tra tutti gli animali l’uomo
solo parla. E poiché l’uomo solo è forsia (li'u^wujqko aito (Vi ntoli ia'ciiz
a, è naturale che tra cotesti due fatti |uU£li^tJtp si) cercato di trovare un
nesso necessario. Ammessa questa mutua connessione, la domanda che naturalmente
ne deriva, è questa. L’uomo parla perchè ragiona? O, al rovescio, ragiona
perchè parla? Teoria K tradizionalistica sull’origine del linguaggio e sua
critica. Le due opposte sentenze hanno trovato sostenitori. Una scuola detta de’
tradizionalisti non solo ha ammesso la necessità della parola per pensare, ma,
com’è inevitabile, riconosce necessaria la rivelazione divina per la origine
del linguaggio umano. Il corollario è perfettamente logico. Se l’uomo non può
inventar nulla senza pensare, e se, per pensare, c’è (i) [Principale
rappresentante moderno del tradizionalismo è il francese visconte Bonald).
Jrr*“ ilwlWuii) 6 JL^XÒru] di mestieri la parola, il linguaggio non poteva più
derivare dall’uomo. E quindi a lui dove essere stato rivelato dal divino. Una
difficoltà molto ovvia non è stata però tenuta in conto. Come si fa a capire il
linguaggio, se non è opera nostra, e se al suono esteriore non risponde nell’animo
nostro il pensiero associatovi? Perchè il cavallo, il cane, benché odano il suono
delle parole, non ne comprendono il significato! GIOBERTI, che rinfresca il
tradizionalismo, cerca di evitare questo scoglio, distinguendo il pensiero
primitivo, intuitivo, che precede il linguaggio, dal pensiero riflesso, che gli
tien dietro e lo presuppone. Il linguaggio, per GIOBERTI, non è il fattore
delle idee, ma l’istrumento indispensabile, perchè esse siano ripensate. Poiché
però le idee nell’intuito mancano di distinzione, anche lui dovette sostenere
la rivelazione per l’origine del linguaggio umano. Senza entrare in risposte
astruse, noi opponiamo a questa dottrina un fatto molto comune. Poiché l’intuito
delle idee è sempre presente, e poiché il suono del linguaggio colpisce il
bambino fin dal suo primo nascere, perchè questi noi comprende subito, nò
subito parla? Dati i due co-efficienti, l’intuito dell’idea e il suono esterno
della parola, l’intelligenza dove immantinenti balzar fuora. Ed intanto non è
così, e ci vuole un lavoro lento ed assiduo, prima d’ intendere il valore del linguaggio.
A (oM^Y^O l*< Tt.cC)) Teoria razionale. Lasciando dunque la mistica
spiegazione di una rivelazione dal divino, la quale s’impiglierebbe in altre
difficoltà, a spiegare, p. es., come il divino, puro spirito, puo sensibilmente
parlare, veniamo alla spiegazione umana. Linguaggio e universali. L’uomo parla
soltanto quando è capace di idee generali. Perciò noi abbiamo a<mr>v
fatto seguire alla formazione di queste la formazione del linguaggio, che è la
conseguenza. Come l’individuo è chiuso in sè ed irrelativo, così JL^ la
sensazione, che vi corrisponde, è muta. Il linguaggio è comuni chevolezza tra
spirito e spirito, e ciò che v’ha T di comune tra loro è, e non può essere
altro, che l’universale. 1***^*» (s) I nomi. L’universale ha però diversi
gradi, e sul primo formarsi non esprime altro che limi rappresentazione comune
a più individui percepiti. In questo si fonda l’imposizione dei nomi che si
desume sempre da quella proprietà che più ha colpito l’immaginazione di un [mainili
<U*^fvTcj.] popolo come il romano. Così, p. es., guardando il mare, imo può
rimanere più scosso dalla sua mobilità, un altro dalla nr sua ampiezza, un
altro dal suo colore. E da ciascuna di queste proprietà può imporgli un nome
diverso. Le altre note rimangono in seconda linea. Fermarsi sopra di una nota,
a preferenza di un’altra, dipende poi dal diverso genio del popolo – come il
romano -- che si crea il linguaggio. Perciò, non senza ragione la filologia, s’ingegna
d’indovinare le concezioni nascenti devòlversi popoli dalle radici delle parole
primitive. Il con questo metodo, riscontrando talune dai romani, che si trovano
le stesse, appresso tre rami di una sola razza, dimostra a che grado di civiltà
essi sono pervenuti prima di sparpagliarsi per varie ragioni. Comune, p. es., è
la parola che significa il umo. Dunque, prima di dividersi, questi popoli – il
popolo romano dal popolo umbro ed usco -- hanno appreso ad estrarre il succo
dalle uve. (A^tVvJ — Vc^fi IktcrrtsblC? <&Jt*/fl'n'tT tZjÉXjjrtmu Z Ain.
f"r2rH^-££ RaA^ L ^ia^AA*-**** t^x<^ 7 r •<!T- J e /e altre parti
del discorso. L’imposizione de’ nomi costituisce però la materia greggia di una
lingua. E corrisponde appunto alla virtù rappresentativa dello spirito romano.
L’attività dello spirito stesso è *signi-ficata* dal verbo, che è perciò l’elemento
organico, e dalla cui più perfetta determinazione dipende la perfezione
maggiore di una lingua. Le altre particelle, — preposizioni, congiunzioni,
avverbi, — esprimono l’elemento formale e categorico del pensiero. Esprimono
astrattamente le relazioni di cui sono capaci tanto gl’oggetti quanto l’attività
medesima del nostro pensiero. [ >*<0 non x 3) Radici e flessioni. Nel
nome e nel verbo si distingue la rappresentazione originaria da quelle
determinazioni che dip oi, nel processo del linguaggio, le si sogliono
aggiungere. C’è quindi in entrambi la radice e la flessione. Quando la lingua dei
romani è sul nascere, il nome ed il verbo sono espressi da un mono-sillabo – e.
g. ‘fa’ --, che rinchiude, come in un germe, la rappresentazione primitiva di
una cosa o di un’azione. Quando poi si comincia a distinguere meglio le
determinazioni che scampagnano o la cosa o l’azione, allora le varie
modificazioni della radice primitiva esprimono i numeri, i generi, i casi, le
persone, il tempo. E tali flessioni si dicono declinazioni o coniugazioni,
secondo che modificano il nome o il verbo. Di questi due elementi fondamentali
del linguaggio dei romani, il verbo va congiunto con la categoria di tempo, il
nome no. La ragione di tal divario è questa, che il verbo esprime l’azione, la
quale senza il tempo non si puo classificare con precisione; laddove il porne,
esprimendo il soggetto o l’oggetto de l’azione, stessa, *signi-fica* qualcosa
di iienjnuignte, e si circoscrive piuttosto con le relazioni spaziali. Nella ricca
lingua dei romani, difatti, tra i casi, che esprimono le diverse modificazioni
de’nomi, si trova quello che VARRONE chiama il caso locativo – che indica il
luogo dove la cosa si trova. Quanto più numerose e sottili sono le flessioni
che fissano le varie sfumature dell’azione tanto più ricca e più precisa è una
lingua – a nulla piu ricca che la degi romani. Quanto più fine sono le gradazioni
dell’azione che lo spirito romano può cogliere, e rivelare nel linguaggio dei
romani, tanto è maggiore l’attitudine civile -- artistica e scientifica. Dove,
invece, si arriva appena a significare 1’azione in una forma rozza, e quasi
direi all’ingrosso, quivi manca il genio civile -- artistico e la speculazione,
come nella lingua dei etruschi (‘toschi’). La perfezione dell’organismo
sintattico rivela la potenza creatrice ed inventiva del popolo romano. La
lingua romana mostra l’eccellenza di questa coltissima nazione. E criterio di
quella eccellenza è la compiuta forma del verbo, che nella lingua romana basta
ad esprimere ogni più delicata e fuggevol forma del pensiero. Le particelle. Condizione
primissima del filosofare è una lingua la quale jgossa astrarre, e fissare le
relazioni in sfe, ed indipendentemente dai proprii termini. Quindi le
particelle -- che diciamo preposizioni, congiunzioni ed avverbii -- e che sono
come le giunture del linguaggio, diventano un aiuto potentissimo, anzi un
istrumento indispensabile della speculazione filosofica romana. Per esse, noi
pensiamo le relazioni di tempo e di spazio, di causa e di effetto, di mezzo e
di fine, e simili, non solo in quanto si trovano, dirò così, incorporate coi
termini fra cui tramezzano, ma le pensiamo sciolte da ogni rappresentazione e
come concetti puri – come categorie. Il I “dove”, il II “quando”, il III “di” –
del genitivo soggetivo e del genitivo oggetivo --; il IV “da”, il V “per”,
esprimono il I luogo, il II tempo, la III proprietà, la IV provenienza, il V mezzo,
come *categorie* a se, che noi applichiamo ai nomi ed ai verbi, producendo così
l’organismo del *periodo*. L’abbondanza di tali particelle è parimenti indizio
della perfezione della lingua dei romani. [pajth'cfiiU'- i)] C’è dunque nella
lingua dei romani tre gradi. C’è la rappresentazione della cosa o dell’azione, espressa
dalla nuda radice. C’è la rappresentazione determinata per mezzo de’ concetti
puri, espressa dalla flessione; e ci sono infine i concetti puri, in s&J
astratti da ogni rappresentazione, e sono le particelle invariabili. Sviluppo delle lingue. I linguaggi barbari e
rozzi – come il toscano – “tosco”, dagl’antichi etruschi -- (si arrestano alle
prime, alle radici mono-sillabiche, alle semplici rappresentazioni; o, tutto al
più, riescono a con-glutinarle insieme. Una lingua sviluppata come la romana ha
flessioni. Ha cioè nomi e verbi perfettamente determinati; e Analmente ha un
ricco corredo di particelle signiflcabrici delle relazioni universali. Delle
particelle, di cui parliamo, la lingua romana ha maggior copia. Onde Xmo viene
la loro maggiore attitudine a *sig-nificare* i concetti speculativi. Gli
elementi delle lingue secondo Miiller. In conformità alle osservazioni da noi
riferite finora, giova allegare l’autorità di Muller ]\IiUl er J ), il quale,
dopo sottili indagini, conclude, che la lingua romana, passata pel crogiuolo
della grammatical comparata, è risultata composte di due elementi (Miiller,
Letture sulla scienza del linguaggio, e Nuove letture, trad. in ital. da
Nerucci] costitutivi; di una radice *attributiva* e di una radice dimostrativa.
Una radice attributiva serrve a *sig-nificare* una meidesima qualità primitiva,
che si attribuisce ad un qualche essere. Una radice dimostrativa, invece, serve
ad esprimere una determinazione meramente formale. Lq j flessioni, consistenti
nelle declinazioni de’ nomi, e nelle coniugazioni de’ verbi, nascono dalla
unione organica delle due differenti specie di radici in una sola espressione.
Di modo che, anche filologicamente, apparirebbe manifesta la distinzione
originaria di un *elemento attributivo* e di un *elemento dimostrativo* nella
lingua dei romani – Catone: HOMO FABER – questo homo faber -- ; che corrispondeno
al contenuto (o materia) il primo, ed alla *forma* del pensiero il secondo. La
compenetrazione di questi due elementi primitivi non è uguale in tutte le
famiglie delle lingue che si parlano. È perfetta, e perciò a mala pena discernibile,
nella lingua romana. È imperfetta, e, perciò più facilmente riconoscibile, nell’etrusco.
Apprendimento delle lingue. Altra è la funzione, che si richiede a formare la
lingua; altra è quella dello impararla, formata che sia; benché le due funzioni
abbiano, e debbano avere, alcunché di comune. Prevale rimmaginazione produttiva
nella formazione primitiva del linguaggio romano. Prevale la ri-produttiva
nella loro apprensione. Il bambino che nasce in una società progredita non deve
far altro che assimilarsi il linguaggio materno così coin 7 è stato tramandato.
Egli impiega in questo lavoro assimilativo i primi V anni della sua
fanciullezza, durante il qual tempo impara più, come diceva Gian Paolo, che non
in altrettanti anni eli accademia. La sua mente vergine e robusta si
arricchisce ben presto di quel tesoro tradizionale, eh’ ei si appropria e fa
suo, riponendolo nella fresca e tenace memoria. L’apprendimento delle lingue,
già si facile in questa prima età, si va poi di mano in mano rendendo
malagevole, perchè la memoria con gl’anni si affievolisce e diviene men facile
a ricevere, e men fedele nel ritenere. E il caso di Catone, che, sappendo che
il suo grecco non e eccelente, richiede d’un interprete – e anche quando visita
Firenze! [Riehter, grande scrittore umorista, tedesco]. Wikipedia Ricerca
Marco Porcio Catone politico, generale e scrittore romano Lingua Segui Modifica
Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri personaggi con lo
stesso nome, vedi Marco Porcio Catone (disambigua). Marco Porcio Catone Project
Rome logo Clear.png Censore della Repubblica romana Marco Porcio Caton
Major.jpg Particolare del Patrizio Torlonia, busto identificato con Catone il
Censore Nome originaleMarcus Porcius Cato Nascita Tusculum Morte Roma Coniuge Licinia
Salonia FigliMarco Porcio Catone Liciniano Marco Porcio Catone Saloniano Gens Porcia
Padre Marco Porcio Questura Edilità Pretura Consolato Censura Ceterum censeo
Carthaginem esse delendam. Per il resto ritengo che Cartagine debba essere
distrutta. (Porcio Catone) Marco Porcio Catone (in latino: Marcus Porcius Cato;
nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum – Roma) è stato un politico,
generale e scrittore romano, chiamato anche Catone il Censore (Cato Censor),
Catone il Sapiente (Cato Sapiens), Catone l'Antico (Cato Priscus), Catone il
Vecchio per aver superato di molto l'età media massima di vita allora a Roma o
Catone il Maggiore (Cato Maior) per distinguerlo dal pronipote Catone
l'Uticense. BiografiaModifica Ritratto Modifica Plutarco, autore delle
Vite parallele, dà questo ritratto di Catone: Quanto al suo aspetto, aveva
capelli rossastri e occhi azzurri, come ci rivela l'autore di questo poco
benevolo epigramma: “Rosso, mordace, occhiazzurro, Persefone neanche morto
accoglie Porcio in Ade. Fisicamente era ben piantato; il suo corpo s'adattava a
qualunque uso, era tanto robusto quanto sano, poiché fin da giovane si applicò
al lavoro manuale - saggio metodo di vita - e partecipò a campagne militari. Origini
familiari De re rustica, Nacque a
Tusculum, da un'antica famiglia plebea che si era fatta notare per qualche
servizio militare, ma non nobilitata dal fatto di aver rifiutato le più
importanti cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei suoi antenati
latini, perché divenisse agricoltore, attività alla quale egli si dedicò
costantemente quando non fu impegnato nel servizio militare. Ma, avendo
attirato l'attenzione di Lucio Valerio Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente
questore, edile, pretore e console percorrendo tutte le tappe del cursus
honorum assieme al suo vecchio protettore; divenne infine censore. Marco
Porcio Catone è considerato il fondatore della Gens Porcia. Ebbe due mogli: la
prima fu Licinia, una aristocratica della Gens Licinia, da cui ebbe come figlio
Marco Porcio Catone Liciniano; la seconda, è Salonia, figlia di un suo liberto,
sposata in tarda età dopo la morte di Licinia, da cui ebbe Marco Porcio Catone
Saloniano, nato quando il Censore aveva 80 anni. «I ladri di beni privati
passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze
e negli onori» (Marco Porcio Catone, citato in Aulo Gellio, Notti
attiche) Durante i suoi primi anni di carriera si oppose all'abrogazione della
lex Oppia, emanata durante la seconda guerra punica per contenere il lusso e le
spese esagerate da parte delle donne. Prestò servizio in Africa, come questore
con Scipione l'Africano ma lo abbandonò dopo un litigio a causa di presunti
sperperi. Egli comandò invece in Sardegna, dove per la prima volta mostrò la
sua rigidissima moralità pubblica, e in Spagna, che egli assoggettò
spietatamente, guadagnando di conseguenza la fama di trionfatore. Ricopre
il ruolo di tribuno militare nell'esercito di Manio Acilio Glabrione nella
guerra contro Antioco III il Grande di Siria, giocò un ruolo importante nella
battaglia delle Termopili e attaccando alle spalle Antioco permise la vittoria
dei romani, che segnò la fine dell'invasione seleucide della Grecia. Nel 189
a.C. condusse un processo sia contro Scipione l'Africano sia contro il fratello
Scipione l'Asiatico, accusandoli di aver concesso dei favori personali al re di
Siria Antioco III e di aver dissipato il tesoro dello Stato. Il caso degli
Scipioni consiste in uno dei più grandi scandali della Repubblica Romana,
considerando che, soprattutto Scipione L'Africano, era considerato l'eroe della
Seconda Guerra Punica. Opera pubblicaModifica La sua reputazione di
soldato era quindi consolidata; da quel momento in poi egli preferì servire lo
stato a casa, esaminando la condotta morale dei candidati alle cariche
pubbliche e dei generali sul campo. Pur non essendo egli personalmente
coinvolto nel processo per corruzione contro gli Scipioni (l'Africano e l'Asiatico),
fu tuttavia lo spirito che animò l'attacco contro di loro. Persino Scipione
l'Africano, che si rifiutò di rispondere all'accusa, affermando solo:
"Romani, questo è il giorno in cui io sconfissi Annibale", venendo
assolto per acclamazione, trovò necessario ritirarsi, auto-esiliandosi, nella
sua villa a Liternum. L'ostilità di Porcio Catone risaliva alla campagna
d'Africa quando discusse con Scipione per l'eccessiva distribuzione del bottino
tra le truppe, e la vita sfarzosa e stravagante che quest'ultimo conduceva.
Censore Al secondo tentativo, egli fu eletto censore ed esercitò questa carica
per quattro anni così bene che gli venne assegnato il soprannome di Censore
(anche per il suo carattere severo, per il suo austero moralismo e per
l'asprezza delle critiche rivolte da lui contro ogni indizio di corruzione
delle antiche virtù romane). Contro l'ellenismoModifica Catone si oppose
inoltre all'ellenizzazione, ossia il diffondersi della cultura ellenistica, che
egli riteneva minacciasse di distruggere la sobrietà dei costumi del vero
romano, sostituendo l'idea di collettività con l'esaltazione del singolo
individuo. Fu nell'esercizio della carica di censore che questa sua
determinazione fu più duramente esibita e ovviamente il motivo dal quale gli
derivò il suo celebre soprannome. Revisionò con inflessibile severità la lista
dei senatori e degli equites, cacciando da ogni ordine coloro che riteneva
indegni, sia per quanto riguarda la moralità, che per la mancanza dei requisiti
economici previsti. L'espulsione di Lucio Quinzio Flaminino per ingiustificata
crudeltà, fu un esempio della sua rigida giustizia. Contro il lusso La
sua lotta contro il lusso fu assai serrata. Impose una pesante tassa sugli
abiti e gli ornamenti personali, specialmente delle donne, e sui giovani
schiavi comprati come concubini o favoriti domestici (leggi sumptuariae). Nel
181 a.C. appoggiò la lex Orchia(secondo altri egli prima si oppose alla sua
introduzione, e successivamente alla sua abrogazione), la quale prescriveva un
limite al numero di ospiti in un ricevimento, e la lex Voconia, uno dei
provvedimenti che miravano a impedire l'accumulo di un'eccessiva ricchezza
nelle mani delle donne. Con le donne di casa, mogli, figlie o schiave, fu assai
severo, fino a sfiorare talvolta la tirannia; una delle cause di dissenso con
gli Scipioni, era proprio la libertà e il lusso che questi concedevano alle
loro donne. Nei confronti delle donne in realtà Catone appare quasi un
nemico, penalizzandole in ogni modo: ne limitò il lusso degli abiti e dei
gioielli, si oppose al possesso da parte della donna di denaro e ricchezza,
sempre in difesa dei valori morali della Repubblica. Contro i BaccanaliFu
assai disgustato, assieme a molti altri dei romani più conservatori, dalla
diffusione dei riti misterici dei Baccanali, che egli attribuì all'influenza
negativa dei costumi greci; perciò sollecitò con veemenza l'espulsione dei
filosofi greci (Carneade, Diogene lo Stoico e Critolao), che erano giunti come
ambasciatori da Atene, sulla base della pericolosa influenza delle idee diffuse
da costoro. Contro i medici Catone provava ripugnanza per i medici, che
erano principalmente greci. Ottenne il rilascio di Polibio, lo storico, e dei
suoi compagni prigionieri, chiedendo sprezzante se il Senato non avesse niente
di più importante da discutere del fatto che qualche greco dovesse morire a
Roma o nella sua terra. Era quasi ottantenne quando, secondo quanto dicono le
fonti biografiche, ebbe il suo primo contatto con la letteratura greca; anche
se, dopo aver esaminato i suoi scritti, è verosimile ritenere che possa aver
avuto un contatto con le opere greche per gran parte della sua vita.
Contro CartagineModifica Il suo ultimo impegno pubblico fu di spronare i suoi
compatrioti verso la terza guerra punica e la distruzione di Cartagine. Fu uno
dei delegati mandati a Cartagine per arbitrare tra i cartaginesi e Massinissa,
re di Numidia. La missione fu fallimentare e i commissari ritornarono a casa.
Ma Porcio Catone fu colpito dalle prove della prosperità dei cartaginesi a tal
punto da convincerlo che la sicurezza di Roma dipendesse dalla distruzione
totale di Cartagine. Da quel momento egli continuò a ripetere in Senato:
«Ceterum censeo Carthaginem delendam esse.» ("Per il resto ritengo che
Cartagine debba essere distrutta."). È noto che egli ripeteva ciò alla
conclusione di ogni suo discorso. Altre attivita Riguardo alle altre
questioni egli fece riparare gli acquedotti di Roma, pulire le fognature,
impedì a soggetti privati di deviare le acque pubbliche per il loro uso personale,
ordinò la demolizione di edifici che ostruivano le vie pubbliche, e costruì la
prima basilica nel Foro vicino alla Curia (Livio, "Historiae", 39.44;
Plutarco, "Marcus Cato"). Aumentò inoltre la somma dovuta allo stato
dai pubblicani per il diritto di riscuotere le tasse e allo stesso tempo
diminuì il prezzo contrattuale per la realizzazione di lavori pubblici.
MorteModifica Dalla data della sua carica di censore alla sua morte, avvenuta
nel 149 a.C. sotto il consolato di Manio Manilio Nepote e Lucio Marcio
Censorino, Porcio Catone non occupò nessun'altra carica pubblica, ma continuò a
distinguersi in Senato come tenace oppositore ad ogni nuova influenza.
Solo dopo la sua morte si iniziò la spedizione contro Cartagine, che lui aveva
voluto. La visione della società Per Porcio Catone la vita individuale
era un continuo auto-disciplinarsi, e la vita pubblica era la disciplina dei
molti. Egli riteneva il singolo pater come il principio della famiglia, e la
famiglia come il principio dello stato. Attraverso una rigida organizzazione
del suo tempo egli realizzò un'enorme quantità di lavoro; pretese inoltre la
medesima applicazione dai suoi dipendenti, e si dimostrò un marito e un padre
severo, un inflessibile e crudele padrone. Ci fu apparentemente poca
differenza, nel modo in cui trattava sua moglie e i suoi schiavi; il suo
orgoglio soltanto lo indusse a prestare una più calorosa attenzione verso i
figli. Riconoscimenti Per i romani stessi ci fu poco nella sua condotta
che sembrasse necessario censurare; fu sempre rispettato e considerato come un
esempio tradizionale degli antichi e più genuini costumi romani. Nel notevole
passo in cui Livio descrive il carattere di Porcio Catone, non c'è alcuna
parola di biasimo per la rigida disciplina della sua condotta domestica.
Opera letterariaModifica Porcio Catone è tra le principali personalità della
letteratura latina arcaica: egli fu oratore, storiografo e trattatista. Fu
autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva
difendere i valori tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti
dell'aristocrazia legata al circolo degli Scipioni, indirizzata al figlio
Marco, i Libri ad Marcum filium o Praecepta ad Marcum filium, di cui si
conserva per intero soltanto il Liber de agri cultura, in cui esamina,
soprattutto, l'azienda schiavile che tanto spazio si conquisterà poi in età
imperiale. Affrontò inoltre la tematica dei valori tradizionali romani anche in
un Carmen de moribus di cui sono ad oggi pervenuti pochissimi frammenti.
Fin dalla giovinezza si dedicò all'attività oratoria: pronunciò in tutta la sua
vita oltre centocinquanta orazioni,[4] ma sono attualmente conservati frammenti
di varia estensione riconducibili a circa ottanta orazioni diverse. Si
distinguono tra esse orationes deliberativae, ovvero discorsi pronunciati in
senato a favore o contro una proposta di legge, e orationes iudiciales,
discorsi giudiziari di accusa o difesa. Fu inoltre autore nella vecchiaia
della prima opera storiografica in lingua latina, le Origines, il cui argomento
era la storia romana dalla leggendaria fondazione fino al II secolo a.C.
Dell'opera, pur significativa dal punto di vista ideologico, si conservano
scarsi frammenti. Catone individua nel culmine del percorso educativo la
formazione di un vir bonus, dicendi peritus (uomo di valore, esperto nel dire),
espressione che sarà il cardine del successivo modello educativo romano. L'opera
letteraria di Porcio Catone, in particolare quella storica e oratoria, fu
elogiata da Cicerone, che definì il censore primo grande oratore romano, e il
più degno d'essere letto. Nella prima età imperiale, nonostante l'ideologia di
Porcio Catone coincidesse in buona parte con la politica restauratrice del mos
maiorum promossa da Augusto, l'opera di Porcio Catone fu oggetto di sempre
minore interesse. Con l'affermarsi delle tendenze arcaizzanti nel II secolo
d.C., invece, essa fu oggetto di grandi attenzioni, seppure a carattere
esclusivamente linguistico ed erudito: Gellio e Cornelio Frontone ne tramandarono
molti frammenti, e l'imperatore Adriano dichiarò di preferire Porcio Catone
anche allo stesso Cicerone. A partire dal IV secolo d.C. l'opera di Porcio
Catone iniziò a disperdersi, e se ne perse la conoscenza diretta. Grande
diffusione ebbero, invece, le raccolte di proverbi in esametri erroneamente
attribuite a Porcio Catone e denominate Disticha Catonis e Monosticha Catonis. Plutarco,
Vita di Marco Catone, Velleio Patercolo, Historiæ Romanæ ad M. Vinicium libri
duo, Saltini, Storia delle scienze agrarie, Dalle civiltà mediterranee al
Rinascimento europeo, 3ª ediz., Firenze, Nuova Terra Antica, Cicerone, Brutus,
Pontiggia - M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Milano,
Principato, Pontiggia - Grandi, p. 164. ^ U. Avalle - M. Maranzana, Pedagogia,
vol. I, Dall'età antica al Medioevo, Torino, Paravia, Brutus, Pontiggia –
Grandi Edizioni Scriptores rei rusticae, Venetiis, apud Nicolaum Ienson
[Contiene i De re rustica di Catone, Varrone, Columella e Rutilio Tauro
Palladio] (editio princeps). De agri cultura liber, Recognovit Henricus Keil,
Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, De agri cultura, ad fidem Florentini codicis
deperditi edidit Antonius Mazzarino, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, Marci
Porci Catonis Oratio pro Rhodiensibus. Catone, l'Oriente Greco e gli
Imprenditori Romani. Introduzione, Edizione Critica dei Frammenti, Traduzione
Ital. e Commento, a cura di Gualtiero Calboli, Bologna Traduzioni italiane
Catone, De re rustica, con note, [Traduzione di Giuseppe Compagnoni], Venezia,
nella stamperia Palese («Rustici latini volgarizzati»). Catone,
Dell'agricoltura, Versione di Alessandro Donati, Milano, Notari, 1929. Liber de
agricoltura, Roma, Ramo editoriale degli agricoltori, L'agricoltura, a cura di
Luca Canali e Emanuele Lelli, Milano, A. Mondadori, Opere, a cura di Paolo
Cugusi e Maria Teresa Sblendorio Cugusi, Torino, UTET, Per la bibliografia
specifica sul De agri cultura e sulle Origines si rimanda alle rispettive
voci) L. Alfonsi, Catone il censore e l'umanesimo romano, Napoli,
Macchiaroli, Astin, Cato the Censor, Oxford, Clarendon, Burckhardt, Cato der
Censor, Basel, Reinhardt, Cordioli, Marco Porcio Catone il censore e il suo
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Rosemberg e Sellier (rist. Firenze, La Nuova Italia). P. Fraccaro, Sulla
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Schultze, Marcucci, Studio critico sulle opere di Catone il maggiore, vol. I
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censorio, Pisa, succ. fratelli Nistri, Marmorale, Cato maior, Catania, G.
Crisafulli (II ed. Bari, Laterza). C. Ricci, Catone nell'opposizione alla
cultura greca e ai grecheggianti. Nota, Palermo, D. Lao e S. De Luca, Sciarrino, Cato
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Audiolibri di Marco Porcio Catone, su LibriVox. Marco Porcio Catone, su
Goodreads. Marco Porcio Catone, su Discografia nazionale della canzone
italiana, Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi. Biblioteca degli
scrittori latini con traduzione e note: M. Porcii Catonis quae supersunt opera,
Venetiis excudit Joseph Antonelli. Les agronomes latins, Caton, Varron, Columelle,
Palladius, avec la traduction en français, M. Nisard (a cura di), Paris, Firmin
Didot Fréres; Historicorum Romanorum Reliquiae, Hermannus Peter (a cura di),
vol. 1, in aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae. M. Catonis praeter librum de re
rustica quae extant, Henri Jordan (a cura di), Lipsiae, in aedibus B. G.
Teubneri. Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Letteratura. Carthago delenda est Locuzione latina di
Catone il Censore De agri cultura opera di Catone Origines opera di
Marco Porcio CATONE. ETICA Sentimento e appetito Principio dello spirito
pratico.L’azione riflessa. L’appetito. La sensazione e il sentimento. La
duplicità della tendenza appetitiva. Divario tra azione riflessa ed
appetito. L’appetito fondamentale. Piacere e dolore. Causa del piacere e
del dolore. Il sentimento principio d’azione. Tanto il piacere quanto il
dolore sono stati positivi. La condizione del piacere. Funzione biologica
del sentimento. Differenza tra sensazione e sentimento. Intensità o tono
del piacere o del dolore. Aristotele sulla natura del piacere. Desiderio
e istinto. Il desiderio. L’istinto. Origine dell’istinto: dottrina dello
Spencer e sua critica. Carattere dell’operare istintivo. Affetti e
passioni. L’affetto. La passione. Differenze tra l’affetto e la passione. Le
passioni in rapporto alla vita movale. Classificazione delle
sensazioni. Temperamento e carattere. Teoria antica dei temperamenti.
Classificazione dei temperamenti fatta dal Kant. Altra
classificazione dei temperamenti. Uguaglianza originaria o differenza
irriducibile delle nature individuali. Temperamento e
carattere. Carattere morale e virtù. Carattere. Carattere morale. Giudizio
valu- tativo o pratico. Motivi naturali e motivi etici. La scienza e la
virtù. Concetto della virtù. Il fine dell’uomo. Il fine della vita umana
secondo Aristotele. La eudemonia aristotelica. Il fine della vita
secondo Kant. Il sentimento morale. Concetto del senso morale. Origine
del senso morale. La volontà. Distinzione della volontà dalle attività
pratiche inferiori. Definizione della volontà. Ragion pratica,
fini, mezzi. Rapporto della volontà con l’appetito. La spontaneità dello
spirito nella volontà e la psico- logia empirica inglese. Motivi e
libero arbitrio, La quistione della libertà del volere.Critica del
concetto del libero arbitrio. La necessità del fine. Causalità etica,
educabilità e responsabilità. Critica del determinismo meccanico di
Herbert. Fatalismo e determinismo, Concetto del fato.concetto della
Provvidenza e il domma della grazia.
Critica del fatalismo. Il determinismo. Motivi generali o
determinismo sociale. I motivi generali. La statistica. Statistica e
libertà. Drobiscli. Legge morale. Origine della legge morale.Dottrina
teologica e sua critica. La dottrina kantiana. Dottrina
aristotelica. Edonismo e utilitarismo, Classificazione dei sistemi morali.
Cenno storico dell’edonismo e dell’utilitarismo. L’utilitarismo secondo
Mill. Critica della morale del Mill. Critica dell’edonismo ; Smitli e
Schopenhauer. L'amore. Imperativo categorico e idee modello. Teoria
kantiana dell’imperativo categorico. Teoria herbartiana delle idee
modello. Critica del forma- lismo kantiano ed herbartiano. Le virtù
singole. Classificazione aristotelica delle virtù. La liberalità e la magnanimità. La
giustizia. La giustizia nell’etica aristotelica. Giustizia commutativa e
giustizia distributiva. Capitolo Organismi etici. Origine della
famiglia. Primo nucleo sociale: la famiglia. Carattere etico della
famiglia umana. L’amore. La generazione e il valore etico della prole. Il
sentimento e il dovere. Gli elementi della famiglia e la definizione del
matrimonio. Organismo etico della famiglia . La famiglia come organismo
etico. La relazione tra i coniugi. Dottrina kantiana del
matrimonio. Dottrina di Platone e di Aristotele. Coiteli ia- sione
circa la relazione coniugale. Relazione tra genitori e figli. La
proprietà e l’eredità. Dissoluzione della famiglia e divorzio. Processo
storico della famiglia. Età barbarica. La famiglia antica. La schiavitù e la
clientela. Stabilità della famiglia ed ele- mento religioso delle
istituzioni domestiche. Indipendenza del valore etico della famiglia dalla
religione. Gli elementi etici della famiglia romana: la patria
potestà; l’eredità; l’adozione; le clientele. La società civile, Prima
limitazione etica del diritto di proprietà. Origine della società civile. Concetto
della società civile. Contratto. Valore etico del contratto.La giustizia nella
società civile.La libertà civile. La città. Passaggio dalla famiglia alla
società civile. Idealità della società civile. Genesi dello Stato. Gradi
della coscienza civile descritti da CICERONE. La patria e la città.La nazione e
lo Stato. Paragone tra famiglia, società civile e Stato. Sostanzialità dello
Stato. Diverse opinioni su l’origine dello Stato. Idea greca dello
Stato. Dottrina dell’origine divina dello Stato. Dottrine della origine
umana dello Stato: Lo Stato derivato dalla forza; lo Stato derivato
dall’istinto; lo Stato derivato dal contratto sociale; lo Stato derivato
da un’imperativo; lo Stato derivato da un' idea modello. Organismo
dello Stato, Rapporto fra lo Stato e i cittadini. La statolatria antica. L'individualismo
moderno. Stato politico e stato giuridico. La legge. Il governo. La
magistratura. Il fine dello Stato. Il diritto punitivo. Le relazioni
esterne dello Stato, e la guerra. La virtù politica. Organismo dei
poteri dello Stato. Lo Stato in quanto contiene altri organismi. Relazione
tra lo Stato e la famiglia. Stato e Comune. Stato e associazioni private. Stato
e Chiesa. Relazioni tra Stato e Stato. Lo Stato e la coscienza comune del
genere umano. Il commercio. Ravvicinamento progressivo tra i vari popoli.
I rapporti internazionali e la paco perpetua. arbitrato internazionale. La
diplomazia. La stampa, il fine dell’Unianitù e Ih storia. Invitato a
curare una nuova edizione degli “Elementi di Filosofia” accettai
volentieri l’ onorevole invito per due ragioni : una, che può parere
tutta personale : che cioè questo libro m’ è caro , perchè è il primo libro di
filosofia che io ho letto; e i dubbii, suscitati in me da a lettura
di esso, segnano nella mia vita il primo svealiarmi consapevole alla ricerca
filosofica. a -, ohe cosi mi si prestava recessione di soddisfare
im antico desiderio mio e di molti colleglli valorosi, di rimettere
in luce la prima edizione di questi Elementi, divenuta assai rara e quasi
introvabile, giudicata da noi di gran, lunga superiore alla seconda; „ a
quella cioè che è divulgata e ormai quasi sola nota , per le tante ristampe
stereotipe fattene da Morano, fino alla 23. a edizione (ossia alla 21 a
ristampa della seconda edizione. Ho detto che la prima ragione può
parere meramente personale. Ma tale, in fondo, non è . gia. cc la mia
esperienza m’è stata sempre indizio evidente d' un pregio intrinseco e
sostanziale del saggio, pur nella 2a edizione: un prègio che agli occhi
miei ha reso sempre preferibile questo di F. , con [Napoli,
Domenico Morano ; di pp- Ut). I i suoi difetti, a tutti gli altri saggi
di filosofia, che, prima o dopo di esso, sono stati pubblicati in Italia,
pur pregevoli quale per uno e quale per un altro rispetto. Questo m’è
sembrato che fosse atto, a differenza degli altri, se studiato come
va un saggio di filosofia, a muovere l’intelligenza e a far sentire
il bisogno di una elaborazione di concetti ulteriore, di una più salda
logica, di una più chiara e più alta coscienza; che è poi il fine a cui
può e deve mirare quella prima istituzione filosofica che viene
impartita ne’licei. Ci sono testi più ordinati, più lindi, più semplici,
più facili, più ricchi , e magari più moderni . Ma alla prova, prova
fatta, pur troppo da molti insegnanti subita da migliaia e migliaia
di giovani, — questi testi riescono o dannosi, o, per lo meno, inutili.
Parte, infatti, per la ricchezza del contenuto -- povera ricchezza! -- in
cui hanno voluto condensare, e quasi comprimere, a forza di oscuri
riassunti , quelle che sono giudicate le principali dottrine intorno a
ciascuna materia, parendo ai compilatori che sarebbe l acuna deplorevole nella
cultura liceale la mancanza di cotali notizie, sono riusciti
zibaldoni indigesti e indigeribili , che nello spirito) dei giovani non
hanno prodotto se non quello chel potevano produrre; nausea e disgusto,
non soltanto verso quei libri e quegli autori, ma verso la
stessa filosofia, di cui non si dava loro a conoscere altri più degni
rappresentanti. Parte, compilati con la preoccupazione dell’ordine ,
della chiarezza , della semplicità, con la falsa convinzione che quello
si ami a imparare, che non costi nessuna fatica; tralasciando ogni
discussione, evitando ogni concetto unjpo’ alto, che sia, o paia, in
contrasto col senso comune; togliendo, insomma, alla filosofia
niente meno che la sua propria natura hanno ammannite quello ohe potevano
ammannire: una non-filosofia; dando cosi a studiare quello che non
avrebbe fatto certo nè bene nè male; ma che perciò, forse, era
inutile studiare. Altro che soave licor negli orli del vaso, nè anche
goccia di succhi amari! L’esperimento d’un libro di questo genere ce l’ho
apch’io sulla coscienza; e ne fo questa pubblica confessione nella speranza di
sgravarmene in qualche modo. Anch’io commisi un anno, un anno solo, l’errore
di adottare un testo di psicologia facile facile , appunto perchè facile facile
, chè non aveva altro pregio. E il risultato che ne ebbi fu questo
: che gli alunni capirono sempre bene, senza mia fatica. e conferirono
sempre meglio, senza loro fatica; ma, infine, con mia vergogna non
piccola, mi accorsi che’ sapevano tutto, e pur non sapevano niente.
Il saggio filosofico non è detto che debba essere facile, nè
moderno, nè completo. La facilito, certo, è gran bella dote di un
libro ; ma quando questo libro - si vuol leggere in viaggio, per scacciar
la noia, o a letto, per pigliar sonno. La modernità, è un altro pregio
tutt’altro che trascurabile; ma quando non ci stia a scapito della verità e
dell’efficacia. La completezza, che è ciò che più si desidera da taluni
insegnanti nel saggio di F., una preoccupazione senza fondamento :
sia'perchè non ci può essere mai se non una completezza relativa; e al saggio
di F., così com’è disegnato, non manca nulla per potersi dire completo ;
sia perchè, nel nostro caso, li libro è d estinato a una propedeu tica,
filosofica, e dev’essere strumento di cultura, pungolo dell'ina
telligenza, e quasi direi , pietra di paragone della riflessione
speculativa. E in ciò la quantità delle cognizioni da comunicare non ci ha
proprio nulla I da vedere. Giacché, se si vuole che l’insegnamene
filosofico nei licei produca buoni frutti, bisogna che noi insegnanti ce
lo chiaviamo bene nel sommo della testa : non importa niente che gli
alunni abbiano questa o quella cognizione, e sia modernissima quanto si
voglia; sì importa, che imparino a pensare; ma a pensare per davvero,
riflettendo sul pensiero, e sforzandosi di farne un sistema logicamente
coerente. E questo è l’effetto che li ottiene dal. libro del F.; del
quale non sfuggono neppure a me i punti non ben saldi, che non son pochi,
nelle dottrine : ma che è il solo libro scolastico nostro, scritto
con un unico spirit o, co n uno sforzo costante j-) di organizzare la
Serie delle dottrine, quali che siano; discutendo sempre, e lasciando intravvedere
cosi una luce lontana , maggiore di quella che vi splende per
entro ; il solo libro 1 , per continuare a parlare con tutta franchezza,
che qbitu i a. pensai /( Meglio però vi abitua nella prima edizione,'
da me ora riprodotta; segnatamente nella parte che, ìiguaida la psicologia.
Non è questo il luogo da indagare i motivi che induceno F. a rimutare nella
seconda edizione, quasi tutti i primi undici capitoli del libro : nè
di indicare a uno a uno i mutamenti dottrinali che y’in- trodusse.
Certo è che per tali modificazioni il saggio venne profondamente
trasformato: l’idealista cedette all empirismo che saliva in auge. Il
kantiano stima che la psicologia genetica, come allora la chiamano in Germania,
potesse p dovesse rendere ragione dell’a priori ; che Darwin potesse compiere
e correggere Kant. L’a-priori kantiano, giunse a scrivere, è una
semplice fermata, che si traduce in queste parole. In noi c'è un’ attività
già preformata a compiere certe funzioni, senza di cui la
sperienza non si farebbe. La filosofìa accetta la tesi kantiana, e
domanda: come si è preformata ? E cerca di trovare la risposta in due
fattori: rassp cjazjpne e la; la prima che accumula, la seconda che
trasmette. Per loro mezzo, l’a priori dell’individuo e ciò eh’ è a posteriori
per la specie. Proprio quello che si dimostra assurdo nel c&p. Ili della l.
a edizione (IV della presente)! Il libro, insomma, è, diciamolo pure,
guastato dall’autore stesso. E non soltanto dal lato della
dottrina. Perchè, tormentato in questi primi capitoli fondamentali, e qua
e là, in tutti i punti più importanti, nello sforzo di rammodernarsi e
transigere, quasi, con le più recenti dottrine, esso perdette lajr
eschezza del primo getto, la stringatezza e solidità della primitiva
costruzione, raniijaa, onde era stata originariamente concepito. Rabberciato
alla meglio, si arruffò, e divenne aspro e difficile, di quella
difficoltà che non è allettativa dell’ingegno, ma durezza invincibile e
disperante. Perchè ciò che è logicamente ragionato, sebbene astruso, attrae e
ferma lo spirito, e lo costringe a pensare per assaporare il gusto
forte che dà la vittoria sulle difficoltà; ma ciò, che non fu
organicamente pensato, stanca ed opprime, ed allontana da sè. Pure il
manuale del F., cosi guastato, sè continuato a ristampare ogni anno, e a
studiare nei licei del Mezzogiórno, pel buono che sempre contene, per la
serietà onde appariva scritto. Oggi che torna nelle sembianze primitive
dovrebbe incontrare miglior fortuna. La psicologia, com’è in questa
rinnovata edizione, è un' esposizione veramente lucida, benché elementare, dei
gradi principali dell’attività costruttiva dello spirito teoretico; e,
quando non avesse altro merito, questo solo dovrebbe bastare a farlo sostituire
a quei compendia di psicologia empirica e descrittiva, che ora corrono per le
nostre scuole. Giacché, come vedranno da sé i signori colleghi, la psicologia
di F. è ijutt’altra cosa da, queir empirica descrizione e classificazione
dei fatti di coscienza, che tiene ordinariamente il
campo dell’insegnamento liceale. Quella descrizione e classificazione c'è
pure. Ma in piccola proporzione e in seconda linea, laddove la trattazione
mira alla comprensione filosofica dell'attività dello spirito nella sua
progressiva produzione del mondo teoretico, del mondo della scienza. Ora,
che giovi più richiamare l’attenzione dei giovani su quest'attività, anzi
che sulla minuta e grossolanamente sistematica conoscenza dei fenomeni
psichici, non credo che alcuno, a ben rifletterci, vorrà mettere in
dubbio. Siffatta conoscenza gioverà sempre ben poco, se pur mai gioverà: e
la sua utilità non potrà essere altra dall’utilità propria di ogni
speciale contenuto mentale. Invece è risaputo e convenuto, é già s’è
detto, che fine, della cultura del liceo non è di riempire, ma di formare il cervello.
Come essenzialmente formativa ed in sommo grado educatrice è appunto la
coscienza, la quale può aversi a principio, e quale con l’aiuto di questo
libro può ottenersi, della posizione dello spirito umano nel mondo, dove non è
spettatore, ma attore e creatore, almeno del suo mondo. Questa coscienza
è elemento necessario della cultura vera; ed è gran ventura per la scuola
media italiana possedere questo libro atto a promuoverla. Ma F. non
accenna questo. Ma F. non parla di, quest’altro, che pur si richiede dagl’alunni
della classe liceale. Non si richiede, veramente, nè questo, nè
quest’altro. I programmi liceali, gli ultimi che si siano prescritti dal ministero,
non parlano se non di elementi di psicologia, lasciando alla coscienza
scientifica degl’insegnanti d’intendere la psicologia secondo i proprii
convincimenti e di darli quindi il contenuto corrispettivo. D’altra parte è
proprio possibile, dato l’orario presente dell’insegnamento filosofico, fare studiare
come si conviene, in un solo anno, a giovinetti appena giunti dal ginnasio, una
trattazione di psicologia più estesa di questa del F. (che, si badi,
sorpassa nella presente edizione di 40 pagine quella dell’edizione
precedente)? Che, se dall’annunziata riforma della scuola media il
nostro insegnamento, com’è giustamente nei voti di parecchi insegnanti,
verrà concentrato, con orario maggiore, negli ultimi due anni del liceo
(cani’era, quando questo libro e scritto), allora l’estensione delle due parti
principali, in cui il libro è diviso, risponde puntualmente al programma
dei due anni. Coteste due parti, per comodo delle scuole in
cui se ne volesse adottare una sola, s’è pensato di pubblicarle questa
volta in due volumetti separati. Nel primo dei quali per motivi didattici
ho creduto opportuno dividere la psicologia dalla logica. Vero è che anche
nella parte n si torna poi a trattare di psicologia. Ma è questione di
parole, ove s'intenda con F. per psicologia quella parte della filosofia
dello spirito che studia le forme fenomenologiche del sapere. Per gli
stessi motivi didattici ho spezzato nella stampa il, discorso tutto
seguito dall’autore, che, scrivendo, non prendeva mai flato. E si vanta
di non esser uso a scrivere con le seste e rileggere quello che
avesse una volta scritto. E ho diviso ogni capitolo in tanti paragrafi con
speciali titoli, quanti sono i singoli argomenti speciali che vi
sono toccati. Come, sempre per gli stessi motivi, ho messo in
corsivo termini tecnici, definizioni ed esempii. Altre modificazioni non
ho introdotte, salvo lievi mutatnenti nei titoli dei capitoli, dove, non
mi sembravano esattamente corrispondenti al contenuto di questi; e qua e
là ho corretto alcuni pochi errori di fatto, incorsi nel libro per disavvertenza,
e che l’autore, avvertito, avrebbe corretti da sè. Della forma non
mi son permesso mutar altro che, in rarissimi casi, alcuna espressione non
abbastanza chiara; come ho tolto via, poiché si tratta di libro scolastico,
qualche arcaismo, che potesse parere affettato, e certe ripetizioni fastidiose
di parole, a cui l'autore, quasi per vezzo, non badava. Note non ho
voluto apporne se non di rado, e sempre tra parentesi quadre, a chiarimento di
espressioni oscure. Ma ne ho voluto mettere sempre, brevissime, ai nomi dei
filosofi citati dal F., per indicarne la patria, l’epoca e le opere più
celebri o più notevoli. Potrà forse parere che ciò sia troppo poco
per alcuni, e troppo, e superfluo per altri. Ma la pratica della scuola e
degl’esami mi ha indotto a fare come ho fatto. Note lunghe non
sarebbero state lette, o avrebbero distratto; oltre che sarebbero entrate
in particolari storici fuor di luogo. Questi brevissimi cenni potranno
bastare a non far parere un Carneade ogni filosofo che l’autore ricorda, e
a rendere forse impossibili casi simili a quello che m'accadde nell’esame
di un candidato esterno di licenza liceale, che mi da Kant per
contemporaneo di ARISTOTELE. E siamo giusti. Vedendo sempre appaiati ARISTOTELE
E KANT – KANTOTELE --, come fare a sospettare che l'uno era morto da venti
secoli quando nacque l’altro? Avverto infine che, riproducendo
l’edizione, credo tuttavia di riferire dalla edizione posteriore il capitolo
sulle sensazioni in particolare, che nella prima mancava; perchè contiene
notizie elementari, che è bene non sieno ignorate. E avvertirò pure che,
eccetto differenze di poco conto, notate ai loroluoghi, nella logica e
nell’etica, le due edizioni coincidono. Solo futolto nella seconda un capitolo sul piacere e il dolore,
che da me, s’intende, è riprodotto. Il periodo filosofico che ho in animo di
traiteggiaro si travaglia pressoché tulio intorno alla ricerca dell’anima.
Muovendo dai principi aristotelici, e contenendosi il più delle volte nel
modesto ufficio del commentare. Il perchè, volendo io risalire all’origini di
quella controversia, ho divisato farmi dalla dottrina aristotelica, e dopo
averla guardata in sè, considerarla negli sviluppamene che partorirono i due
com, greco ed arabo. In ARISTOTELE medesimo quella dottrina non si può
diligentemente esaminare, se non riferendola alle altre rimanenti, onde si
compone il sistema tuttoquanto. Ci e se in cotesti riferimenti la scienza
sempre si amplia esi allarga, nel caso nostro il farlo è una necessità derivata
dall’indole medesima della speculazione aristotelica, la quale ci si
palesa consentanea con se stessa fin nelle ultime conseguenze di un
primo sbaglio. Nelle menti volgari si un errore esi una verità possono essere
inseriti, comeuna specie di episodio, nella struttura del sistema. Magl’ingegni
veramente speculativi si guardano di cascare in questo fallo, tanto
almeno, quanto aloro basta la
vista di guardarsene. La dottrina dell’anima, e più particolarmente poi
quella dell’anima intellettiva, presso Aristotile, implica quelle medesime
difficoltà che s’incontrano sin dai primi passi del sistema. Nel Saggio storico
su la filosofia greca io toccai di queste
difficoltà, emi studiai di chiarirne
al possibile il
vero nodo elavera sorgente. Zeller non
ha guari nella
sua Filosofìa dei
Greci ne faceva
una distesa rassegna,
e di nodo in nodo mostrava come
tutte si aggruppassero
nella posizione di
Aristotile verso Platone. Qui non mi è
consentito altro che sfiorare
tutte quelle difficoltà, e mostrare
come riappaiano nella
dot- trina, della quale
ora discorriamo. Si
vedranno nella psicologia
come nella metafisica
gli stessi problemi, e poi le stesse
soluzioni , o meglio il difetto
di una vera
soluzione. Platone aveva detto:
l’universale, o l’idea, è quanto
v’ha di vero e
di sostanziale nelle
cose; la materia, per i
contrario, è una mera negazione, un
non-ente. L'idea rimane
sopra la moltitudine
e la varietà dei
fenomeni, una , identica, permanente. Le
cose mutano, ella no; le cose
muoiono, ella dura
eterna. Tra le idee
ed i sensibili corre dunque un
dissidio infinito, a colmare
il quale Platone
non sa trovare efficace rimedio; onde il
sistema platonico rimane
con una scissura
profonda ed irreparabile.
Aristotile venuto dopo, e fermo di porvi
riparo, delle affermazioni
del suo maestro
parte ritenne, parte
rifiutò. Parve anche
a lui che l’idea
sola fosse la
verità delle cose;
ma perciò medesimo, a suo avviso, ella non può stare nè sopra nè fuori di esse,
ed anzi implicata in una materia di cui ella è la forma. All’idea sopra le cose di Platone, Aristotile sostituì l’idea nelle
cose, o la forma. Il partito, a cui si appigliò
lo Stagirita pare a
prima giunta il solo spediente
acconcio a ricongiungere
quei due
mondi che Platone aveva
lasciato staccati non solo,
ma opposti. La materia e la forma, collegate insieme
nell’unità dell’individuo, rappresentano
l'armonia di quei due conlrarii che Platone non aveva saputo riunire. Ed
intanto in Aristotile quel
congiungimento noi| è tanto
saldo, che quei
due contrarii mal
collegati non si
rivoltino soventi l’un
contro l’altro, e non
si mettano in
aperta rottura. Ognuno
di essi si
tiene in grado
di primeggiare su l’altro, e fonda le sue
pretese sopra esplicite
dichiarazioni di Aristotile
a suo favore; le
quali, bilanciandosi in modo
che nessuno di loro
penda, tengono l’animo
sospeso ed irresoluto.
Da una parte T universale non può
stare più da
sè, e cotesta indipendenza
è accordata soltanto all’individuo, dove
pare che consista
la vera sostanza; dall’altra l’universale
solo è conoscibile, esso
solo è la verità. Cosi
la realtà e Fa’^erTIir si
trovano spartite quando non
dovrebbero essere. La
realtà si l
appartiene all’individuo; la verità
all’universale. Platone era stato
conseguente nel riporre
nell’idea e la sostanza e la verità
delle cose; Aristotile,
invece, ondeggia, e quasi vorrebbe
gratificarsi l’uno e l’altro, accordando all’
individuo la realtà
ed all’ universale
la verità, con un sistema di
compensi che qui
non approdano. Questa contraddizione è notata
molto profondamente da Zeller ,
che la sostiene contro
le osservazioni del
Biese, ed è manifesta a chiunque sappia
di Aristotile la dottrina
della cognizione, e quella delle
categorie. Questa prima contraddizione ne
partorisce parecchie altre. E
primieramente, se la
scienza non è atta
a [Er sagt oline jene Bescbrinkung: dati Wissen
geli e nur taf ’a Allgemeine , und ebeaso unbedingt: nur das
Eiozelwesen tei eia
Sabstantielles. Die Philoi.
der Griechen, vou Zeller,
Zweite Tbeil, Zweìte
Auflage. cogliere se noe
la forma delle
cose, e questa oon ne
costituisce l’intera sostanza, ne conseguita eh*
eHa sarà imperfetta e che non
corrisponde alla realtà delle
cose conosciute, le
quali si trovano specchiate
in lei
soltanto a metà. Che se la
materia è un elemento indispensabile a fornire la sussistenza dell’individuo, non può
venire esclusa dalla
cognizione, come se
fosse un accidente,
o anzi un ostacolo. Ciò era ben
detto secondo i principii
platonici, ma non secondo
quelli di Aristotile. Intanto la materia è dichiarala
inconoscibile, essendo priva di ogni determinatezza. Inoltre
1’inconoscibilità della materia
nuoce alla conoscibilità
delie forme, perchè
queste, salvo la
prima e purissima forma, sono tutte implicate
nella materia non
solo, ma s’ingradano in modo, che la
inferiore sìa deve
considerare come potenza, e perciò come
materia, per rispetto all'altra che le sta sopra. Aristotile difatti ha posto
tal relazione tra la materia e la forma, qual’è quella che corre tra la potenza
e l’atto; onde la materia per lui è la
potenza della forma, come la forma è l’atto della materia.
Ora secondo questa determinazione tutte
le forme, tranne una sola, la massima, possono dirsi materia, e cosi
l’inconoscibilità della materia si riverserà
eziandio sopra le forme. La
massima forma poi, il divino, in mentre che dovrebbe essere la più pura,
e perciò la più lontana dalla individualità, è ella stessa un individuo. Ora l’individualità divina contraddice con la teorica
fondamentale, secondo cui ogni
individuo dev’essere il sinolo di
una materia e di una forma, non
potendosi 1 à «?’ «Xtj «yva>»To;
xa8’ ocutijv. Metapk.. 1 « Ein and dasselbe
Diog kana tich
desihalb io dar
einen Beziehong It Stoff,
io der Andern
ala Form, in
jener ala Mogli
chea, in diesar
ala Wirkliches verhalteo. Zeller. - etere un individuo dove
non abbia luogo punto di materia. In fine non si può scorgere dove propriamente
Aristotile ponga il sostrato della individualità : non nella forma
che, stando alla
teorica della cognizione, dovrebbe essere
l’universale; non nella
materia, la quale
è indeterminatissima, e che tanto
acquista di determinatezza,
quanto la forma ve ne
impronta. Tale per sommi
capi è il capitale difetto del Lizio. Difetto che
dalla relazione mal
definita d’universale e di
individuale , di materia e di
forma, si diffonde in tutte le altre teoriche, e le guasta in simil guisa,
producendo un'incertezza ed un viluppo irresolubile. Non è dunque da
maravigliare se quel sistema diede occasione a tante controversie di
interpreti, perchè esso
si acconciava ai
più opposti avviamenti. Tutta la
filosofia nel medio evo e nella rinascenza si diede a risolvere quei problemi in opposte
sentenze, credendo sempre di ormare i passi
di Aristotile. Nè, per vero dire,
mancavano fondamenti a questo conflitto di opinioni. Se non che ogni
diversa età ha mutalo aspetto alla
ricerca, pur conservandone
integro il fondo.
Così la scolastica considera la relazione tra universale ed individuo come
la più rilevantr. Di poi, tra Aquinisti
e Scotteti, prevalse la questione dell’individualità, e chi la ripose
nella materia, chi nella
forma. Da ultimo
nella rinascenza si
cercò nell’ anima e nelle sue facoltà quella partizione e
quella incertezza, e si domandò quale
fosse il legame che stringe l’intelletto con le rimanenti facoltà.
Le tre questioni degl’universali, della individualità e dell’ intelletto
o ragione sono diversi aspetti di una stessa ricerca; e tult'e tre mettono capo in Aristotile, e si
connettono insieme, e si spiegano 1'una con l'altra nel loro
storico sviluppamento, secondochò parmi
di vedere, e secondochè m’ingegnerò di provare. Lasciando stare per ora le
teorici che sono aliene dal tema dell’anima, e restringendomi a quella che
più da presso
vi si riferisce, Aristotile risguarda il corpo e l’anima dell’uomo sotto l’annodamento
medesimo di materia e di forma. Basta leggere il suo saggio dell’anima per
chiarirsene pienamente. Il corpo fa le veci di materia o di soggetto. L’anima,
per contrario, non può essere sostanza se non come forma di un corpo naturale
che vita. E per corpo animato -- che ha
vita, Aristotile intende quello che
si dice organici. Quindi proviene la sua definizione
di “anima”, ripetuta in tutto il medio
evo, ed in tutto il periodo del rinascimento, nè ancora se n’ è potuto escogitare
una migliore. Anima, Aristotile dice, è
l’entelechia prima di un corpo naturale animato, che ha vita. Bisogna intendere per tale definizione
un corpo organico. Ora, benché l’entelechia avesse, nel linguaggio del Lizio,
una determinatezza maggiore della forma, nondimeno “anima” è pur sempre la forma del corpo organico, e ad esso annodata
con legami non disleghevoli. Perciò ad Aristotile pare oziosa la ricerca se un
corpo animato vivo e organico e “anima”
siano una sola e medesima cosa, nel modo stesso che riesce vano il voler
sapere la differenza che passa tra il suggello e la cera su cui s’impronta.
Imperocché se l’entelechia si dice propriamente in quanto (“Sto boxili è®Tiv évreXt^sia nrzpàrn
ata/xtctoj fvotxoZ dwà/zsi txoxro;
.róiaÙTO Si, axv ri òpyavixóv. ’ ori /ztv
oo! oix giTiv
|vx»ì xwptsrÀ toG
sw/xares. è forza motrice
e tinaie, essa è però, come
osserva Zeller, sempre tutt’uno
con la forma. La definizione che ha
dunque Aristotile dell’anima,
è quello di forma – animata --,o di entelechia inseparabile dal corpo
organico animato con vita. Esi
badi, che Aristotile non vuol restringere in'nessun
modo questa sua definizione – graduale, come la di ‘numero’, in una serie --
fondamentale, la quale è comune a le parti dell’anima – o le tre anime – come,
dice Aristotile, la definizione di “figura”in geometria è applicabile a tutte
le figure, o il concetto di numero al 1, al 2, al 3, e successivo. Ben si
distinguono parecchie specie di anime, i cui “gradi” Aristotile determina cosi.
Nutrizione, sensibilità, locomozione, intelligenza o ragione -- ordinate in
modo che il grado superiore presuppone l’inferiore e non puo stare senza di
esso. Però tutte coleste specie dell’ “anima” debbono convenire nella
definizione comune. Barili, de Saint’Hilaire, riconosce questa necessità.
Stando aq ueste deduzioni, la dottrina d’Aristotile procede fin qui sicura e
senza esitazioni. Dove ci è moto prodotto per intrinseca energia, ci è “vita.”
Dove ci
è vita, ci è corpo ed anima, cosa mossa e causa motrice. Il corpo è la potenza e la materia. L’anima è
l’entelechia e la forma. E come nella metafisica l’individuo (to tide) risulta
da una materia e da una forma, cosi nel caso speciale degl’esseri e individui
“animati” – o gl’animali -- il loro compiuto concetto consta di un corpo
organico (il corpo di Sileno di Socrate) e di anima. Ma tutta questa armonia
viene rotta da una dubitazioneche Aristotile propone senza risolvere. Das
gleiche Wesen wird aber auch eia Eodzweck sein, wie ja Qberbaapt die Form voo der bewegenden und
der Endursacbe nicht verscbieden ist. Solerti non die Form ala bewrgende Kraft
wirkt, nennt aie Aristote- le Entelechie, ami somit definit i er die Seele ala
die Entelechie uod naber ala die erste Entelechie cines nalQrlichen Kòrpers,
welcher die Fahigkeit bat, za leben. Zeller, Zw.
Tbeil. La definition qu’il a donoée lui-méme au cb. l«r de
ce livre doit donc ponvoir s’appliquer spécialement à chaque espìce d’ime qu’il
a distiagatte. Ptychologit d’Ariilole,
Paria. Arrivato all’intelligenza, Aristotile tentenna, e si perita di
applicare a lei le determinazioni precedenti dell’anima, benché avesse prima
detto che quella COMMUNE DEFINIZIONE – ‘graduale’ -- [di ‘anima’] fosse
applicabile a tutti I gradi -- come nel
caso dei numeri -- differenti di vita
(bios, zoon). L’intelligenza (zoon logikon) pare ad Aristotele un altro
genere di anima (psyche) e vita, e perciò separabile nello stesso modo che
l’eterno si separa dal perituro. Questa scappata (aporia) d'Aristotile può riuscire inaspettata a
quelli soltanto I quali non hanno seguito la filosofia del liceo lizio in tutto
il suo svolgimento. Chi però ha posto mente alla irresolutezza d’Aristotile nell’accordo proposto tra l’universale
e l’individuo, ed ha visto continuare questa perplessità nella concezione della
materia e della forma, nel legame tra il divino ed il mondo, e nella teorica
della cognizione, si accorge anzi che
Aristotile non puo fare altrimenti. Nell’anima istessa ci è qualche cosa che
tiene più della materia, e qualcosallro che fa le veci di forma. Il senso e le facoltà inferiori di
vita che sembrano un patire, e l’intelletto – o
la ragione --- che sembra attivo verso di loro. Anzi nell’intelletto
(come parte terza dell’anima) medesimo, Aristotile discopre questa duplicità,
la quale come e rimasa irreconciliata e contrastante nelle prime categorie
dell’essere, così rimane qui negli ultimi
svi- -- I appara enti dello
spirito. Ciò che v’ha di peculiare nell’anima dell’uomo e la sua vita
(Anthropos zoon logikon) è l’intelletto. Perciò noi ci fermeremo un poco più
nel mostrare in che modo Aristotile ne avesse esposto la natura. L’ intelletto – o la ragione, la
terza parte dell’anima nella vita dell’uomo -- primieramente apparisce legato
con le l altre facoltà – anima I e anima II -- non solo per la intuizione
generale del sistema aristotelico, che fa ricomprendere ogni forma inferiore o
sub-razionale -- nella superiore, ma per l’esercizio medesimo della sua attività,
che non potrebbe recarsi in atto senza il sussidio delle due parti precedenti.
Le cose estese sono ricevute nell’anima mediante le sensazioni, le
quali sono perciò forme delle cose sensibili. Dopo questa maniera di
forma, che richiede la presenza della materia, ve n’ha un’altra la quale si
assomiglia alla sensazione, se non che non ha bisogno della materia presente.
Da ultimo, la ragione, l’intelletto, eh’è forma delle forme, esercita verso le
sensazioni ed i fantasmi la medesima azione che i fantasmi hanno esercitato su
le sensazioni, e le sensazioni su le
cose sensibili. Cotalchè come la
sensazione non può aversi senza la materia, nè la immagine fantastica –
e. g. centauro -- senza la sensazione – di uomo e cavallo -- , così l’atto della intelligenza o ragione non è
possibile senza il fantasma. L’intelletto o ragione in questa prima posizione
apparisce dunque legato indissolubilmente con
tutto il sistema tripartito delle
facoltà dell’anima nella vita dell’uomo. Nè
per la sola operazione la ragopme p intelligenza apparisce legata con
l’organismo corporeo, ma per la sua intrinseca natura. Difatti ella,
come intelligenza, non è altro
che ciò per cui l’anima ragiona, e non è nessuna cosa in atto prima di pensare: ella è soltanto in potenza. Che se riannodiamo questa teorica
dell’ intelletto o ragione con l’ altra
dell’ anima , si scorgerà,
che come l’anima e
legata col corpo organico vivo
organico animato, così l’ intelletto
è legato con l’anima; perciò qui Aristotile la
chiama intelligenza dell’anima:
r»ì; voC«). Ed in
ultimo risultamento avremo il
corpo organico come subbietto o materia
dell’anima, e questa come
subbietto dell’intelligenza o ragione.
1x ed Sii roóro
omtc jit) Atrèavépigva;
puj&év *» oùdé
?uvior ór*» rs
Se capri, oèvexyxvj
»(»* yxVTaspta ri
àsoipstv. * ùsre fj-nS’ aùroù
stvat pùnv /sride/tta»
àXX’ n t*vt»ì», ori
^u»aró» ò «pa xaXaóptsvoi
rn (»®ó; (Xsyoi Si voó» wdtetvostroci
xeni oivei r, 'l'UX’t) où&t* èsTiv svspyda tmv ovroiv tepìv vosi».
Altre asserzioni dello
stesso Aristotile accennano
però alla sentenza
opposta. Già abbiamo
visto come per
lui l’intelligenza o ragione sia
un altro “genere” di “anima”, e separabile, in mentre che le due anime dei due gradi inferiori sono legate con gli
organi. A questa testimonianza, che sta
*contro* alle cose precedenti, se ne aggiunge un’altra
ugualmente esplicita, dove
si sostiene che
il “noo” – o spirito -- venga dal
di fuori, e che solo sia “divino”. Si possono distruggere la
riflessione, l’amore, l’odio, il
ricordarsi, perchè siffatte
modificazioni appartengono al
soggetto in cui alberga l’ intelligenza
e che la possiede. Ma
l’intelligenza o ragione o anima razionale medesima è qualcosa
di più divino, è qualcosa d’impassibile. Che se dopo tutte queste dichiarazioni, che
riguar-dano il principio intellettivo nell’uomo, ricorriamo col pensiero
all’intelligenza o ragione suprema , come vien descritta nella metafisica,
esegnatamente nel libro dodicesimo,
la difficoltà da
noi proposta e
più evidente. Prima
si dimostra come
non ci siano
altre sostanze che quelle che
risultano da una
materia e da una forma. Poi di
forma in forma si arriva ad una suprema,
la quale non è punto implicata nella
materia, e che perciò si
svelle dal sistema
mondano, e non vi rimane
legata se non
per un filo
debolissimo, com’ è la
relazione di mosso e
di movente. Quella
forma suprema, che
doveva accogliere in sè tutte le forme inferiori,
non è potente nemmanco
di pensarle. L’intelligenza divina
rimane staccata dal mondo, se
non fosse per il bisogno di
ricorrere ad un
motore ultimo -- ed immobile.
Tale rimane nel
sistema delle facoltà umane l’ intelligenza -- è lo stesso
difetto che si riproduce
in ciascuna parte. 1 AeiTtirai «?* róv
voi!» /ióvov OùpaOev
eiwisuvai xai 0eTov
ecvat uo'vov. De
gener. anim., ctVedi
De Anima. Rénan si è
accorto della discrepanza
della dottrina su l’intelletto nel congegno del sistema del lizio, e la
dichiara un frammento di scuole più antiche, d’Anassagora specialmente, che viene citato dallo
stesso Aristotile. Ma
colesta spiegazione, oltre
all’essere poco degna d’Aristotile, il quale non
ne avrebbe saputo
misurare tutta l’importanza,
contrasta col disegno generale
del sistema. Saldata che
avrete questa screpolatur,
come farete poi per
tante altre che
rimarranno scommesse ed
irremediabili? Poniamo ancora
che il legame tra il divino
ed il mondo
si rimeni a questa
medesima dottrina, e che tutta la
Metafisica del lizio sia un episodio,
benché un po’
troppo lunghetto. Si risalderà
meglio la rottura tra
la materia e la
forma? Si spiegherà meglio
la teorica della cognizione, sviluppata
negl’analitici? E se cotesta magagna s’insinua in
tutte le particolari
trattazioni – “De Interpretatione” – la parola e segno d’una affezione
dell’animo -- , come si fa a
dichiararla un frammento
slegato, ed a cacciarla via dal sistema? Altro, a parer
nostro, è il dire che
il più spedilo e più logico avviamento d’Aristotile sarebbe stato di continuare
nella risoluta opposizione verso il suo
tutore all’Accademia, ed altro
il negare eh’
egli in questa
polemica non sia
proceduto incerto, parte
rifiutando e parte ritenendo.
Incauto cercatore, anche
lui, di conciliazioni
impossibili. Della prima e più spiccata contraddizione nel
costruire l’individuo di materia e di forma
ho discorso di sopra. Toccherò ora
della dottrina della
cognizione. La scienza secondo
il processo del lizio
piglia le mosse
dalla sensazione, e procede,
sempre più sviluppandosi, per molti gradi,
i quali sono variamente descritti, ma che si possono
però ridurre, conforme
al1 (“Il est évident que
toute cette théorie
da voù( est
eropruntée 4 Anaxagore. — Averrhoès, etc.,
psp. l’esposizione del
Barili, de Sant’Hilaire,
ai seguenti. Sensazione
cioè, pensiero nella
forma volgare, ed in
quanto sottoslà alle
impressioni sensibili. Scienza (ìttLotìiw) , é intelletto (noo),
il quale è in relazione cop gl’inteUigibili. Riguardo alla sensazione non
s’incontra difficoltà. La sensazione è la forma delle cose sensibili, che viene
accolta da un’anima sensitiva. Nel sollevarsi poi dalla sensazione alla scienza, Aristotile ammette
moltè sfumature, die
talvolta si confondono,
ma che giova descrivere, per far
vedere quanto sottile
osservatore egli fosse,
e come per lui tutto il processo
del pensiero non fosse altro che un continuo disvilupparsi dalle forme più
materiali per rivestirne altre più generali epiù pure. Il grado immediato alla
sensazione è per lui la Séga che lo stesso Saint-Hilaire traduce per
“percezione”, e potrebbe pure dirsi opinione. Sopra cotesla percezione, o opinione che
dir si voglia, pone la
fantasia (pxvmaia.), la quale può dirsi
un grado di sviluppamene maggiore, staccandosi
già dall’oggetto sentito , più
che non
facessero i due gradi precedenti, i quali ne richiedevano sempre l’immediata presenza. La fantasia medesima si riferisce
al fantasma (pàv touhx) ed all’inamagine (Uwv) ; imperocché essendo la
fantasia una specie di
tramezzo fra la
sensazione e la scienza,
col fantasma si
accosta più all’intelletto, con l’immagine
invece si accosta
più all’obbielto. La scienza e l’opinione possono accoppiarsi in certo
qual modo, ed il loro
miscuglio dà la
riflessione ( <j>pó- vjiJts). La
scienza, 1’opinione e la riflessione Sega, ppóvmatj), sono d’Aristotile comprese
sotto un termine comune uttò^cs, il
quale è deputato a significare
l’attività spontanea dell’anima, doyecchè
la Stóvota discorre da un oggetto
in un altro. 1 1 Per la determinazione di
tatti cotesti gradi
del pensiero, vedi
Barth. de Tali sono i
primi sviluppameli della
scienza; ma ipoichè
ella consiste nel
dimostrare, e nel far vedere
le cose nelle loro cagioni, perciò
è necessario che si fermi
in principi assoluti ed
indimostrabili. Il voOs è
l’intelletto di questi
primi principi, i quali
sono i termini della
dimostrazione. Se la sensazione
(afoots) dunque è il primo inizio della
scienza, l’intelletto (vo0«) n’è l’ultimorisultato.Chi ha tenuto
d’occhio tutto il processo della cognizione, com’è descritto da
Aristotile, si sarà
accorto che conforme a questa dottrina il vovg non può fermarsi se
non nei principi più remoli dalla materia, e più universali.
Essendo l’apice di
ogni astrazione, esso dev’essere
al polo opposto
della sensazione, che
si trova congiunta
con la materia
immediatamente. Ed intanto
il punto di
fermata sono i termini,
ossia è la sostanza. Ora la
sostanza, nonché sia l’universalissimo
essere, è invece individuale;
dunque il processo della scienza,
dopo aver percorso
tutte le forme
di separazione dalla
materia, ricasca nella
sostanza, la quale
è dalla materia inseparabile.
L’essere e la sostanza
sono spesso confusi
da Ari- stotile, eh’è quanto dire la
più astratta delle
forme, l’essere, vi
si scambia con la
forma attuosa legata con la materia. La
sostanza è per lui
una volta il
neccssa- [Saint-Hilaire, Logique d'Arùtote, Deuxìème
l’artie, section XI®,
-di. 9®. * Ecco
come il Trendcleraburg prova
questo ufficio proprio
del veù; aristotelico. « Noè; in primis
et ultimis scienti»
priucipiis rersatur. Ita
Analyt., post. I,
27, Xiyu yàp
*sùv ù.pyn'1 éKcuni/in»-
Elh. Nicom. VI,
6. 7st fTSToct
voùv siva* TÙv
xpyrZv. Quteuaui sit
xp%rj (neque euim
omnis ed noJv rediòit)
accuratius defiuitur Elh.
JVtc., Vi, 9, ò
pit -/«.p voós
ri» opwv u'J
oóx sor* /óyo;.
i. e. quorum
sulla est demoustratio
conclusione «ffecta. « Àristot., De Aniti.
Commentario. 1 «L’idée de l’étre et l’idée de substance se coufoudent
souvent aiosi pour Aristote.» Bar ih.
Saiot-Iliiaire, ioc. cit., cb.
40. rio e 1’universale, un’altra volta il puro
accidente ; un» volta forma,
un’ altra volta
sinolo di materia e di forma.
Il noo
aristotelico adunque una volta
si ferma ai
principi (àp^wv), un’altra volta ai termini (ópwv),
i quali non sono altro che la sostanza.
Nè in quest’ una soltanto si
restringono le incertezze
di quella dottrina.
Il noo allora veramente si
conchiude e si assolve, quando si posa in se stesso. L’andare di
pensiero in pensiero implica un
processo all’infinito , dal quale
Aristolile si mostra
sempre alieno. Sforzato
adunque dalla stessa
dialettica egli immedesima in questo atto supremo l’
intelletto el’ intelligibile, ed in cotesta medesimezza dell’intelletto con se
stesso è riposta la sua vera assolutezza. Se ci fosse qualcosa di esterno, alla
quale lo spirito dovesse stare sospeso, egli sarebbe da meno di lei. E fin qui
tutto si accorda a maraviglia con la
natura dello spirito,
che non può
prendere in prestito
d’ altronde la sua compiutezza,
nè posare altrove
che in se
stesso ; ma in che
modo si potrà
conciliare cotesta af-
fermazione con l’ altra che fa travagliare il noo intorno ai primi
principi? Ed ecco una nuova irresolutezza, una nuova contraddizione. Lo spirito
che una volta si (Ecco come il medesimo
Sant-Hilaire riassumo da parecchi luoghi della Metafilica la teorica di
Aristotile, dove la sostanza apparisco una volta necessaria, un’ altra volta
come reale, cioè come individuale. Non trattando qui di proposito questa
teorica mi astengo dal citaro io stesso i luoghi del testo. La Science, douée de ces deux
caractéres, du général et du nécessaire, «'applique donc surtout è ce qui est
en soi, è lasubstance, bien plutùt
qu’anx autres catégorie»,
qui ne sont
que^d’accident. La substance,
l’étre éel (oùsia)
est su faste
de la Science:
et c’esl elle
spécialement qne le philousophe doit
étudier. De plus,
c’est à une seule
et ménte Science
de recher- « ber
et les principe
généraux de l’étre , de la
substance, et Ics principe
généraux de la
démonstration, et du
syllogisme qui la
coostitne. eh. »e. “Si absolutum id est, quod ad nihil nisi ad
seipsum rifertur, acquitur sane mentem, siquidem absoluta est,
seipsam cogitare. -- ferma nei
principi universali e nella
sostanza; un’altra volta che si
conchiude in se
medesimo. Certamente
quest’ultima conclusione è più accettevole, e più consentanea alla nozione deirintellelto espressa
precedentemente; ma ciò non toglie
il fare incerto
ed anche contraddittorio del sistema. Se l’intelletto non
è, se non
quando pensa in
atto; esso non può
compirsi, se non
nell’atto suo proprio.
Se gl’intelligibili non
si differenziano dall’atto
medesimo che li
pensa, come si
può dire, che l’ intelletto si fermi
nei primi principi,
i quali in tal modo
dovrebbero avere un’ esistenza
indipendente? Forse ad
ovviare a questi ed a tutti
gli altri inconvenienti finóra
discorsi, Aristotile ricorse
allo spariijmento del noo in due,
per potere più
facilmente altrij buirgli
le più conlradittorie determinazioni. Il quinto
capitolo del terzo dei libri su l’
anima ospone la
partizione dell’intelletto in
attivo e passivo. Come nella
natura ci è la
materia, eh’ è lutto in
potenza, e poi la causa
che la rechi
in atto; così bisogna che
coteste differenze si
trovino pure nell’anima.
In lei adunque vi
è un intelletto, che
può tutto divenire,
ed mi altro
che può tutto
fare. E come l’agente prevale
sul paziente, cosi l’ intelletto, che tutto
fa, è fornito delle
migliori prerogative; è separato,
eh’ è quanto dire
non dipendente da
nessun organo, è impassibile, e non
ha mistura di
sorta; perciò è immortale
ed eterno. Per
contrario l’ intelletto, che
tutto diviene, è capace di
patire, e perciò è perituro,
e senza l’aiuto dell’intelletto
attivo non può
nulla pensare. Il noo
attivo così descritto apparisce
essere quanto nell’
uomo v’ha di
divino ; anzi, come osserva
Zeller, esso non
si differenzia punto
dallo stesso Dio. E
di ciò
1 /.ai !<mv S pìv
Totovro vsus tw
Tra/Ta ycvss&at, S Sì'
r» irà/Toc iisiitv.
De Anim.) potrà capacitarsi chiunque si
faccia a riscontrare la dottrina
del Noo attivo
con l’altr del
Dio aristotelico,, come
si trova nel
dodicesimo libro della
Metafisica. Se non
chè il noo attivo,
da alcuni tolto
per lo stesso
Dio,, non si
può considerare se non
come qualcosa dell’anima.
Aristotile medesimo, se
da una parte
lo chiama il
divine nell’ uomo ;
1 dall’ altra ci
ricorda eh’ esso ò
un altro
genere di anima. 1 Intanto è impossibile
concepire due essenze divine, una
nell’anima umana, l’altra
separata; e questa contraddizione, prodotta
dalla solita dubbietà.
D’Aristotile, rimane anch’
essa irresolubile. 3 Gl’interpreti
d’Aristotile, e non gliene mancarono neppure quando
fioriva ancora la
greca filosofia, cominciarono percip a dissentire
sul Noo attivo,
secondochè ci attesta
Temistio. Chi voleva
farne la facoltà
che coglie i supremi principi
con una semplice
comprensione, e senza
bisogno di discorrere,
come pare avesse
intesa Temistio medesimo
(nè era certamente
senza fondamento cotesta
interpretazione): chi per
contrario dal dover
essere sempre in
atto argomentò che
non potesse essere altri,
salvochè Dio; ed
anche a cotesto commento dava
nerbo la descrizione
sovresposta di Aristotile.
Se non che,
obbiettava lo stesso
Temistio, Aristotile parla
dell’ intelletto attivo
e del passivo come
di diffe- renze (rà;
Scxp cpas) dell’anima ; ed
il porlo in
Dio ri- 1 el
Oeiov è vaù? ir pòi t ài
av9/Jwirov. Et. ffie.,
X, 7. 8 7t»o;
irti 59v. Jìe An im.,
lib. Il, cgp.
3, § 9. 3 Die
ihatige Vernunft ist
mit Eincm Wort nicht atlein
dea Guttliche im
Menschen, sondern aie
ist der Sacbe
noch von dei»
gottlirhen Geiste selbat
nicht veracliieden. Andererseits
liess sich aber
freilich der ansserweltliche gòttliebe Geist nicht wohl
ala die den
Kinzclncn in" oli
ricado nnd mittelst
der Zengnnge in
aie iibcrgehcndo Vernunft, ale ein Theil
der menschlichen Sede
bezeichnen. Aber eine
Liisung dieaea Widersprucbs
so- ebeà wir
bei Aristatclca vergeblieh.
Zeller,
Phil der Grieche n.
pugnerebbe a questo esplicito
testo. Il Trendelerobnrg nota
tutte le precedenti
dubbietà, nè sa
risolversi egli medesimo
a miglior partito, che a
questo, di confes-
sare cioè una certa
cognazione tra il
Noo attivo e Dio, senza
però spiegare come
avvenga nella nostra
mente questa partecipazione del
divino.Ben si accorge
che Aristotile nella
teorica del Noo
attivo rompe la
preclara serie delle
umane facoltà, e del loro progressivo
svi-' luppo, introducendovi qualcosa
di nuovo e di
estrinseco, ma non riporta questa
rottura ad una
più estesa, che
noi vedemmo fin
da principio avvenuta
dentro' la costituzione
originaria dell’individuo. Al
dotto critico di
Berlino non Sfuggirono
però i testi ripugnanti, e la ragionevolezza delle
interpretazioni
contraddittorie, benché egli non
si fosse sforzato , come di poi ha
fatto Zeller, di
risalire alla prima
scaturigine di quelle
con- traddizioni divenute necessarie. Chi disse: I’ intelletto attivo
è il divino, e Chi lo
negò, non ebbe
certo difetto di
testi per convalidare
la sua chiosa. Brentano non
ha guari pubblicava
un libro per
provare che il noo
è una facoltà dell' anima,
ma senza far
caso delle espressioni
che si possono
trarre iti opposto
senso. Così, a mò
d'esempio, nel libro
della generazione degli
animali ò detto che
l’ intelletto venga da fuori,
ed egli interpreta doversi intenderà non
del solo intelletto, ma ditutta l’anima
intellettiva. Che non abbia veduto
manifesta 1 Dopo riferite le
parole d’Aristotile, che queste
differenze di attivo
o di passivo si
trovino pare nell’anima,
soggiunge. « Qua) serba
aperte de humano
agere mimo. D’altra parte.
Divina mena nibil
esse potest , nisi agens
intcllectus , a qno veritas rerum
manat Sed quomodo liut,
ut Immani mens
divine particeps sit,
dietimi est nusquam.
s Com- meni. Ariti,
de Anima. [Vor der
Hmd sei nnr
bemnrkt, dass nnter
dem vou; der
Svpy.Sev in den
Fòla* eingeht, nidi t , wie Manche
meinen , der voù; 7ro‘V)Tt/o;
atleta, sonderò die ganze
ibujnj vortrtxv zn
versteben ist.» Die
Ptychologie l’oscillazione d’Aristotile dopo
le profonde osservazioni
di Zeller, che
pure ha letto,
a me sembra cosa
stranissima ; ma ognuno, a
vedere, si vale degl’occhi
suoi e non degli
altrui. Eppure a lui è saltato
negli occhi il
doppio valore del noo
aristotelico; se non
che, invece di
spiegare la causa
di questa duplicità,
ei riconosce una
sola significazione come
propria della, dottrina
ari- stotelica, l’altra come una certa
metafora, di cui
Aristotile si fosse valso; lui
che dalle metafore
era alienis- simo. Come,
dice il Brentano,
noi diciamo sano
tanto chi ha
la sanità, quanto le
cose che conferiscono
a procurarla, cosi Aristotile
ha potuto chiamare noo
tanto il subbielto,
che ha in
sè il pensiero, come
il desiderio spirituale,
che n’è un corollario,
e il divino che n’è il principio creatore.1 Cosi nella lingua
tedesca, ei soggiunge,
Geruch vuol dire
ugualmente ed il
senso che coglie
gli odori, e l’odore
come qualità dei
corpi. E lutto questo
va bene; ma Aristotile
piglia il noo tutte e due le volte
in significato proprio
e serio; tanto nel
terzo libro dell’Anima,
dove ne parla
come di differenza dell’anima umana, come
nella Metafisica, dove lo
descrive come primo
motore immobile nella
relazione che ha
con lutto l’universo.
E le descrizioni rinvergano
cosi bene, che paia sempre
lo stesso Noo
che si descrive : tanto il
primo motore della
metafisica rassomiglia al noo
attivo dei libri
dell’anima! Da qui l’oscillazione del
sistema aristotelico, che
nessuna interpretazione, o distinzione al mondo
varrà a far cessare. des
Ariliotele, intbetondere teine
Lehre vom vojj
noi n ti xeg
vou D* Brentano,
Maini. 1a So knnnte aucb Aristoteles
nicht bloss das,
was die Gedanksn
io sich bat,
sonderà aucb das,
was Folgc dea
Deokes iat, wie
dea geistige Begebren , aber auch
das , was ala Princip
die Gedanken bervorbringt, ala #>9Ù;
bczeichoen. Brentano. Una nuova
difficoltà ci si
affaccia nel conciliare
le due differenze
che Aristotile introduce
nel Noo, perchè
il passivo è detto
corruttibile, e legato con
la memoria, col desiderio, con
tutte le altre facoltà
inferiori ; e l’attivo, per contrario,
immisto, separabile, e perciò
immortale: ed intanto il primo
ed il secondo
appartengono del pari
all’intelligenza, che n’ è
il genere comune.
Aristotile nel distinguere il Noo in
passivo ed in
attivo ha voluto
occorrere a due condizioni,
imposte entrambe dal
suo sistema. Prima
ha voluto legare,
il meglio che
si poteva, l’ intelletto
con le facoltà
rimanenti; perciò ha dovuto
introdurre in esso i
fantasmi per intendere, i desideri per volere;
e gli uni e gli
altri si fondano
su la sensibilità, e perciò su la
materia, su la
possibilità del corpo. Dipoi
ha voluto far
dell’intelletto la facollà
che pone la
scienza, che coglie
l’universale puro, sceverato da
ogni qualsiasi possibilità, e che perciò non
avesse nessuna mistura
di potenza, o di
materia, e fosse puro
atto. Da qui
la distinzione di
due intelletti; uno che attinge
ancora alle sorgenti
della materia, l’altro
che non vi
comunica punto. Perciò
vedemmo che l’intelletto puro non
può patire, e consiste
tutto nell’ atto; mentre
chel’ intelletto passivo
patisce, ed in
certo senso si
dee dire che
abbia della materia,
perchè ogni potenza
è materia, considerata per
rispetto all’ atto. Hegel ha cercato
di conciliare questa
contraddizione, che si
possa cioè dare
un intelletto che
partecipi alla materia,
dicendo che la possibilità nell’
intelletto non abbia
nessuna materia, perchè,
nel pensare, la
possibilità è ella mede-
sima un essere per
sè. 1 Però conciliazione siffatta
tien [Die Moj>lichkeit eelbst
ist abcr liier
nicht Materie; dar
Versta mi hat
nOinlicti keine Mitene,
scinderti die Moglickeit
geliort zu seiner
Substanz eelbst. Denn das Denken
ist vielmrhr dieses , nicbt an sicli
za sein ; and.
v egeti
seiner Reiobeit ist
seme Wirklickeit nielli
das Fùrcinandersein , scine più
del sistema proprio
dell’ Hegel, che di
quello di Aristotile. Quindi proviene
ancora l’ incertezza di
determinare in che
consista veramente l’intelletto
passivo. Trendelemburg ha
opinato eh’esso sia
costituito da tutte
le facoltà raccolte
quasi in un
nodo, e considerate come
condizioni del pensare.
Il quale può
aver pigliato il
nome di passivo
sia perchè vien
recato a perfezione dall’
intelletto attivo, sia
perchè viene occupato
dalle cose esterne. 1 Tale
interpretazione però va
incontro a questo inconveniente, di
rendere inutile la
distinzione che Aristotile aveva fatto
tra sentire; immaginare
e pensare. Se il
pensare non è altro
che il sentire e l’ immaginare annodati
insieme, perchè distinguerli
da quello? Non
bisogna dimenticare mai
che dell’intelletto in
generale Aristotile fece
un altro genere
di anima. Pare adunque
che nello sviluppo
della intelligenza, medesima
bisogna trovare quei gradi che appartengono al noo passivo, e gli altri che
sono propri del Noo attivo. Già di
questo ultimo noi vedemmo che Aristotile avesse posto la funzione peculiare
talvolta nei primi principi, tal’altra
nel ripiegarsi sopra di sè. I gradi precedenti
della scienza, che
del resto appartengono
certo alla intelligenza,
bisogna che si attribuiscano all’intelletto passivo. Tale
è la necessaria conclusione a cui
si perviene a guardare
nel lutt’ assieme
la dottrina aristotelica,
e cosi vedo che
ha interpretato pure Zeller,
che nelle cose d’Aristotile
Mogliclikeit «ber selbst
cin Fursichsein. Hegel , GeschicMe der
Philoi. 1 a Qua? a sensu inde ad
imagiuationem mentera anteccssorunt, ad
rea parcipiendas menti
necessaria, sed ad intelligendas non suflìciunt. Orno es iilas, qua?
p r eccedimi, facultates in nnum quasi
nodum colleetas, □natenus
ad rea cogitaodas
postula nlur, vouv
TtuSriTixo v dietas esse
innicamus. Trendclembnrg, De Anima, Comment. vede molto
addentro, ed ha
grande autorità. L’intelletto
passivo per lui
consiste in quei
gradi intermedi che
stanno tra il
sollevarsi delle forze
rappresentative ed il
pensiero compiuto che
quieta in sè stesso; in quel processo riflessivo e discorsivo che
Aristotile stesso contrassegna con la
parola ScuvousOca. 1 Guardando ora
tutta insieme la
dottrina del noo aristotelico, essa ci
presenta questa contraddizione, di essere cioè considerato
come l’ultimo sviluppo dell'
attività pensante nell’uomo, e di
essere presupposto fuori
dell’uomo, perfetto, compiuto
in sè, separato. È per questa ragione
che il noo passivo
ci vien mostrato
come processo, come
discorso, ed il noo
attivo come intuizione; e che il
primo è tenuto in minor conto del secondo. Affinchè la posizione
aristotelica fosse riuscita
precisa e diritta, ei si sarebbe dovuto disfare di quell’universale separato, ed
ambiguo, e tener fermo
nel riguardare lo spirito come
processo rigoroso ed ordinato.
Ma per fare
ciò, non bisognava
modificare soltanto la
dottrina dell’ intelletto, sì veramente
mutare 1’andadamento generale
del sistema; cosa che forse non
era da pretendere
in quei tempi. Il concetto dello spirito come sviluppo è risultato della filosofia
moderna. Un valoroso storiografo
tedesco, Prantl, non ha dubitato
di presentarci come
genuino sistema di
Aristotile quello che
per noi è piuttosto un desiderio.
Nò al dotto
critico manca ingegno
o copia di testi; ma il suo
fare sa troppo di
moderno, e perciò di-
viene subito sospetto.
L’intelletto, il noo aristotelico,
è per lui una
immediata unità nella
duplicità della Giostra
essenza, e da un
lato coglie l’uno
trascendente, il divino,
dall’altro i Zellcr. molli,
l’individuo; o in altri termini
è l’unità originaria del
senso e della ragione, il
principio e la fine,
l’alfa e l’omega.1
In un luogo
dei morali nicomachei
si dice che
il senso è noo; e su tal dichiarazione
il critico tedesco rifà da
capo tutta la
teorica di Aristotile.
Dove gli altri
avevan visto un altro genere d’anima, egli
scorge un’originaria medesimezza;
dove gli altri
avevan trovato incertezze,
egli sicuramente afferma
che il noo aristotelico è
sviluppo, che muovendo
dalle impressioni sensibili
arriva sino all’universale. L’intelletto, dice Franti , secondo il
modo di vedere aristotelico, non è una
passiva intuizione, ma un’attività che
nel progresso del
suo sviluppo va
dalla potenza all’atto.
È un accrescimento dentro sè
stesso, Zuwachs in
sich selb&lhinein, come
dice il critico
tedesco traducendo l’ iniSoais
ì<?>’ tàuro d’Aristotile. Che
se l’intelletto si
dice potenza , esso è una potenza
tale che si
distingue da tutte
le altre non
solo perchè comprende gli
opposti, ma ancora
perchè si fonda
sopra un precedente
attuale. La continuità
dello spirito in
questo processo si
pare a ciò, che i primi
pensieri si distinguono
appena dalle sensibili
impressioni; talché il sapere
non è qualcosa apparecchiato d’avanzo,
ma nasce la
prima volta come
[Der voi; ist
fur dia Stale, vvas dea Ange
fur den Korper i«t , rr ist
die anraittelbare Einheit
in der Duplicil&t nnseres
VVescn, deno er < rfasst
einerseits das trascendente
Eioe , Gòttlicbe , and
andrerseits ist er
cs atich, welcher das Einzelne, Viete ergreift, ja es
wird io diesem
Sion , d. li. von
einem wabrhaften Antropologismns aus, selbst
die Sinneswabrnehraung aiisdriiklicli voi;
gena noi; und,indem so der
voi; der geistige
Sion fQr dia
beiderseitigen Crtheile ist, sowohl
fOr jene, welche ein
Ewìges und Crsprùnfjliebes aussprerben,
als aocb ffir
jene , welche anf das Gcbiet
des Vergliiglicheo sich
beziehen , a» kann er
mit Rccbt der
Anfaog und das
Eode, das vahre A und
Q, des Apndeiktischeo genannt
wcrdon. Getchichle der Logik. ], tale. 1 Quando il noo si solleva, sopra tutte
le opposizioni, al supremo
Uno, ivi pensa
sè stesso, ed
il pensiero ed il
pensato s’identificano: in
tale attività egli
mostra la sua
eternità. Tal’è per sommi capi
la teorica del noo
aristotelico secondo Prantl: prima,
attività originaria , unità del
senso e della ragione; poi sviluppo sino
al pensare, sviluppo tale
che tra le
impressioni sensibili ed i
primi gradi del
pensiero v’è appena differenza; infine processa intimo,
ed indipendente dalla
materia, fino ad
attingere il pensiero
di sè stesso,
e con questo l'eternità. Questa esposizione toglie ogni
dubbietà ed irresolutezza dal sistema
aristotelico, e lo fa
rigorosamente logico, però,
a quel che mi
pare, a scapito della genuinità. Quella unità originaria sa
troppo di moderno, e quella eternità conseguita dal nostro spirito nel colmo del suo sviluppo è un’intuizione moderna del
pari. Ciò che
mi sembra schiettamente
aristotelico è il concetta
dello sviluppo applicato
all’ attività dello
spirilo; ma il pensare
puro rimane pur
sempre staccato dalla
serie preclara come
diceva il Trendelemburg. Ammettendo
difatti la spiegazione
di Prantl, il Dio
aristotelico sparisce,
perchè il Noo è
perfetto e compiuto nello spirito
umano; ed il divino
di Aristotile, se
bisogna a qualcosa, è
per cotesta ultima
finalità. Prantl tocca dell’
intelletto per arrivare
al cominciamento della
Logica. Per lui l’ intelletto si compie
nel concetto, cioè
nel cogliere l’universale,
il quale non
è 1Prantl, Und indetti
dar voù; in
dem Denkcn dieses
bòchsten Einen aicb
se'btt deukt, erreicbt er das
Ziel and das
Zweck seiner Actnaliiat
: er denkt das
Angich and deukt
kiebei steli selbst
in einer Tbeilnabme
an dem Gedachten,
ao dass Denken
und Gedacbtes ideatiseli
siod ; in solcber TbStigkeit
erweister arine Ewigkeit.)
l’ atto medesimo dell’intendere ; talmente
che la logica
s’ inizia là dove
la psicologia finisce.
L’ unilà immediata del
Noo è il principio della psicologia; l'unità
immediata del concetto
è il cominciamento della
logica. Prantl fa una
dotta e profonda investigazione delie
categorie aristoteliche,
delle quali mi
rincresce non poter
qui discorrere, tanto
più che nel
Saggio sulla filosofia
greca io mi
trovai, inconsapevolmente, d’accordo
col professore tedesco
nei risultati di
quella ricerca. Qui però non voglio
omettere di dire
come Prantl si
accorge che lo
sviluppo dello spirito
si riannoda colla
dottrina delle categorie,
dove, oltre alle
determinazioni estrinseche
della sostanza, bisogna
ammettere un processo genetico ed
intimo.1 Ma cotesto
processo per il
quale la sostanza
si genera, rimane
nel sistema aristotelico
ciò che direbbesi
una semplice esigenza.
Perchè la sostanza
diventi questa o quest’ altra essenza,
non apparisce; e cosi non
apparisce neppure nello
sviluppo dello spirito
la necessità del
passaggio da una
forma all’altra ; perciò neppure
la necessità del noo, che,
per tal causa,
può dirsi nell’
insieme del sistema
introdotto da fuora.
Prantl ha un
bel chiamare il noo
unità immediata, Ansich ; tutte coteste vedute sono
più profonde come
scienza che vere
come storia. L’intelletto
separato, il motore
immobile della me- [Dass aber Aristotele eine Selbstentwicklung der
Denktliàtigkeit voo ciucili
erstcr Stadium aa
bis tu einem
letztea wesentlicli erreicbbsreu
Zieie «nerkennt, sahea
wir gleicbfalls scbon
obeu.... ; und so ist ihiu aucb
die tìrsprùogliche Conception
der Begriffe aio
erstcs Lumittelbares. Voglio riferire questa osservazione
del Praotl eoo le parole
eoa cui I’ha
compendiata un mio
giovane amico in
una bella tesi
di laurea: a Cosi
intorno all’individuo si
raggnippano amendue i processi, nel processo gene 4ico,
o nel ytvsoàai vltOÒiì l’individualità, la
sostanza funziona da
predi, ceto, ed
il suo soggetto
è la materia indeterminata; uel
processo categorica funziona
da soggetto, e regge e sostiene tutte le determinazioni categoriche. Delle varie
interpretazioni dell'idea platonica
e della categoria aristotelica, Tesi per laurea
di TOCCO (si veda). C -«V-
tafisica, resiste ad
ogni più benevola
interpretazione. Certo se
Aristotile avesse volato e potuto essere conseguente,
avrebbe pensato come lo fa pensare Prantl. Passando ora dall’intelletto alla
libertà noi troviamo
nella dottrina aristotelica
le tracce della
prima indeterminatezza. Brandis
ha detto
che la libertà
secondo Ari- stotile consiste nella
facoltà che ha lo spirito di
svilupparsi da sè e mediante se stesso secondo
la misura della
sua originaria disposizione.
Ma, domanda con
molla ragionevolezza il Zeller,
a qual parte dell’anima
debbe appartenere questo sviluppo? Alla ragione no,
perchè immobile ed inalterabile;
all’anima sensitiva ed appetitiva
nemmanco, perchè non
sono capaci di svilupparsi
con libertà, non
potendo trovarsi libertà
se non dov’è
la ragione. Rimarrebbe
l’intelletto passivo, al
quale, sia detto una volta per
sempre, si ricorre
d’ordinario quando si
scorge l’impossibilità di
dare uno scioglimento
risoluto; ma esso stesso
oscillando tra la
ragione e la sensibilità, avrebbe
bisogno, al pari
della volontà, di
uno schiarimento per
vedere in che
modo si possa
dare una facoltà che
partecipi di due
altre cosi opposte,
come sono il
senso e la ragione. Aristotile
stesso accortosi della
specie di altalena
che fanno la
ragione pratica ed
il desiderio, li rassomiglia
a due palle che
si rimandano da uno
all’ altro. Un filosofo francese,
Waddington, taglia come Alessandro
il nodo, invece
di scioglierlo, dicendo il principio, la causa
dell’atto volitivo esser
l’io; degli altri atti essere soltanto partecipe, ma qui
il caso esser diverso,
e sentirsi assoluto e sovrano
padrone. Ma appunto di
questo Io noi
cerchiamo invano in
Ari- [Zeller. Aristotile, De
anim., La Piicologia d’Ariiloliie, esposta
da Waddiogton e Toltala
in italiano dalla
marchesa Marianna Floreozi
Waddington] stotile, e
vogliamo scoprire dove si
annida, se nella
ragione, o nella sensibilità, perchè
la volontà non è
facoltà originaria, come
non è l’ intelletto passivo,
nè l’intelletto pratico.
La vera personalità
dello spirito è da
cercare dunque o nella
sensibilità, o nella ragione, almeno
secondo i dati della psicologia
aristotelica. La scuola ecclettica
di Francia ha ripetuto sempre che la volontà è l’Io,
essendoché la ragione è impersonale ed i fatti sensibili traggono origine
dal mondo esteriore. Con questa intuizione peculiare del loro sistema,
ei si fanno ad interpretare Aristotile. Se non che la volontà per il filosofo
greco non è una facoltà originaria,
quanto meno perciò può
essere la intera
personalità dello spirito! La
volontà è una specie di
risultante prodotta dal connubio della ragione col desiderio. Le quali due facoltà essendo si
opposte, rimane assai difficile il definire in quale di esse stia lalibera
determinazione di se stessa.Quando Aristotile appaia la ragionespeculativa con
le facoltà rappresentative, e ne
fa l’intelletto passivo; ovvero quando accoppia la
ragione pratica col
desiderio, e ne fa la libera volontà,
rimane sempre incerto quale
dei due elementi
debba prevalere: se la parte sensitiva
ed appetitiva debba
trarre dalla sua la
ragione, ed introdurre in lei la mutabilità
ed il patire;
ovvero se la ragione,
signoreggiando il senso e l’appetito, debba far questi partecipi della propria impassibilità
ed eternità. Nella vera
conciliazione di cotesti due opposti termini sarebbe stala
riposta la persona umana, se in
Aristotilo il loro accoppiamento non
fosserimasto un accostamento esterno, e,
come dicono i tedeschi,
un Zusmrmensetzung~ [Der Wille musa demnach cioè ans Vernnnft and
Bugiarde snsam- mengetetzte
Thatigheil saio. Aber auf welcber
Scita io dieser Verbiudong da&
eigentliche Wesen dea
Willens, die Krafta der
freieu Selbslbestimmung liegt, ist
sclmer za sagea. Zeller.
Esclusa la volontà,
dove si deve
dire che alberghi
la persona umana?
Talvolta pare che Aristotile la
faccia consistere nella
propria ragione di
ciascuno; ma la
ragione è un puro universale,
incapace di mutazioni e di patimenti, eterna ed impassibile. Ed
invece la persona è il subbietto proprio, e la
causa intrinseca dei suoi mutamenti. Tal’ altra volta pare che
Aristotile attribuisca la personalità all’anima, in quanto
senziente ed appetitiva; ma, oltre che questa, come
osserva Zelter, è incapace di produrre movimenti da sè, secondochè sostiene Io stesso Aristotile, viene
esplicitamente esclusa, dicendo
che non nell’anima,
ma nell’uomo in quanto consta di corpo e di anima, dee riporsi il
subietto dei movimenti
sensibili. Il corpo intanto non è cagione del moto, perchè esso
verso l’anima è come la potenza verso
l’atto. Ecco in
quali difficoltà ci
siamo imbattuti nel cercare dove consista la personalità umana
secondo i principi d’Aristotele. Le quali difficoltà, a parer mio,
procedono dal non aver Aristotile fatto
vedere per qual
modo 1’universale si
determini, per intrinseca energia e per dialettica necessità,
nel particolare, e diventi
individuo; e per qual modo poi l’individuo, rifacendo nel processo
conoscitivo il cammino inverso del processo
genetico, si sollevi
dalle determinazioni particolari
ed accidentali all’universale ed
all’ assoluto. Non è già che siffatto processo
non sia stato intraveduto
dall’acume di Aristotele, ma non è stato spiegato con sufficiente chiarezza , perchè le sue dottrine s’informassero tutte secondo
quel processo. Prantl accennando al
processo genetico, come intimo,
e diverso dal processo categorico, e trovandone le tracce nella
metafisica d’Aristotele, ed in altre
sue opere, ha
mostrato come la determinazione
dell’universale nel particolare,
il concretarsi della
forma in una
materia sia il primo postulato di
Aristotile. E spiegando dipoi come il noo, per assurgere alla condizione
assoluta di pensiero,
ha dovuto essere
fin da principio
unità originaria, individuo ed z
universale, senso e ragione, affinchè
fosse possibile tutto lo sviluppo intrinseco dello spirito, ha
posto in evidenza
il secondo postulato,
non meno del
primo indispensabile.I due
postulati che la critica di PRANTL richiede nel sistema aristotelico, nella
metafisica il primo, nella
psicologia il secondo, sono
però, lo ripetiamo, appena intraveduti
da Aristotile, e non pienamente dedotti. Forse il concetto
di sviluppo nello spirito è molto più evidente che non il processo genetico
nella sostanza; ma ciò non toglie
tutte le irresolutezze, ed
anche le contraddizioni, che
noi abbiamo fatto notare,
giovandoci degli studi di
Zeller, il quale
ha collocato il
sistema di Aristotele nella sua vera luce, tanto per rispetto a Platone,
come nel suo intrinseco organamento. Dalle cose premesse apparisce chiaramente
quel che debba
dirsi della immortalità
dell'anima secondo Aristotile. Per lui
tutto ciò che
si altera è soggetto alla morte.
Onde le facoltà sensitive, le appetitive,
le rappresentative, e perfino
l’intelletto passivo finiscono con
l’organismo corporeo, da
cui dipendono, e con cui
sono indissolubilmente legati. Solo
superstite è per Aristotile
l’intelletto attivo, il quale, se fosse provato che e da solo la persona umana,
basterebbe ad assicurare
l'immortalità. Ma l'intelletto
attivo è il solo elemento universale,
una specie della
ragione impersonale della
scuola eccletlica, e perciò la
sua durata non ha nulla che fare con la durata dell’individuo e della persona.
Questo intelletto attivo
superstite, slegato che
sarà dal corpo, non
avrà nè sensazioni,
nè fantasmi, nè
memoria, nè desideri; e perciò
neppure volontà, nè intelletto passivo; talché non potrà avere più coscienza,
nè personalità che
sodo inseparabili da
tutte quelle determinazioni. Che se si pon mente, come il
noo attivo per pensare ha bisogno del passivo, noi potremo dire, che Aristotele
non puo, secondo i suoiprincipii, far
sopravvivere l’intelletto attivo
alla morte dell’ intelletto
passivo, e se, non ostante
la forza della
logica, lo ha
fatto, ciò ne
dà nuova riprova , che per lui non e ben fermo il vero
concetto del noo, e che una volta lo
poneva come termine supremo dello sviluppo psichico, un’altra volta ne
lo stralciava, attribuendogli una esistenza separata, impassibile ed immortale.
Aristotile non è pervenuto sino all’autogenesi dello spirito, perchè non si può
creare quel che si
suppone esterno non
solo, ma sproporzionalo alle
facoltà umane. L’ infinito
per lui ora
consisteva nel concetto
dello spirito, ed ora in qualche
cosa di esterno. Tolta l’ipostasi dell’universale che aveva ammesso
Platone per ciascuna!
cosa, ei la
ritenne per rispetto a Dio, perciò il processo dello sviluppamento
rimase dimezzato, imbottendosi in
un termine esteriore
che gliene impediva
il proseguimento. Non ci è
un’idea preformata della
natura, perciò la natura può svilupparsi
per virtù intrinseca; ma ; ci è
l’ idea del divino sussistente d’avanzo, perciò lo spirito non può
farsi: egli già è
fatto, e non gli
rimane se non d’
insinuarsi nel mondo e di svegliarvi il penisiero.
Questa mi pare
la posizione dell’aristotelismo. Aristotile rimase
platonico per metà. Conti
è ricorso a cause esteriori ed accidentali per trovare una
spiegazione del sistema
aristotelico, e perchè è il primo
ai nostri tempi che siasi dato a scrivere una storia della filosofìa in Italia,
mette il conto di dare un saggio del suo modo di criticare I sistemi.
Aristotile è passato dall’idealismo platonico alla scienza delle cose reali e Perchè? Ecco la risposta del Conti,
dacché la civiltà greca, uscendo da’propri confini, si distendeva nell’Asia con
l’armi, era naturale che alle idealità interiori, tutte di raccoglimento,
succedesse la scienza delle cose reali. Ma tutto colesto non ci ha nulla che
fare. Prima di ogni cosa non è certo che Aristotile abbia pensato il suo
sistema proprio al tempo che I Greci passarono in Asia. Ma, poniamo che sì,
qual relazione ci è fra una spedizionea mano armata con una polemica su le
idee? CONTI discorre dei vizi, pei quali i Greci vennero specialmente in mala
voce, ed eccoti scoverta la causa, perchè la loro filosofia “non giunse mai al
puro concetto di creazione, pernio della scienza. Anche qui la causa mi pare
troppo lontana dall’effetto, e non
veggo in che
modo la corruzione dei costumi
greci potesse appannare il loro intelletto. Forse non concepirono tante cose
vere e belle con tutte quelle passioni? Forse, ai tempi in cui fioriva
l’accademia platonica, a
Firenze non dominavano
vizi somiglianti? Dai filosofi di quel secolo parmi scorgere che quelle
brutture fossero molto in voga, e
intanto giunsero al puro concetto della creazione non solo, ma concepirono
perfettamente tutti i dommi cattolici, e
li disposarono alla filosofia. CONTI (si veda) inclina troppo a far la critica
filosoficacon la nascita el’ educazione cristiana, con le rette inclinazioni
del cuore, con il candore dei costumi; ma tutto ciò se prova afavore del
suo animo bennato,
non dà pari
fondamento ad apprezzarne
l’acume critico [La scienza
non si giudica con la fede di
buona condotta del curato. Ma lasciando queste osservazioni generali, che
appartengono al suo criterio storico, voglio notare che nella teorica
dell’intelletto d’Aristotile, egli ha frantesi lIÀ In la mente dello stagirita.
Di lui, difatti, dice CONTI che distinse l’intelletto agente che fa
intelligibili le cosdal possibile che le concepisce. Aristotile invece chiama
intelletto possibile quello che tutto diventa, agente quello die tutto fa, come
si può vedere nel testo medesimo dei libri dell’Anima che ho di sopra allegato.
L’atto con cui l’intelletto concepisce gl’intelligibili, egli intelligibili
medesimi sono tutt’uno. Non ci sono già le cose intelligibili distinte dal
concetto; onde se Aristotile avesse posto veramente questa differenza tra i due
intelletti, si sarebbe contraddetto. Eche CONTI travisa la dottrina
aristotelica, si pare da ciò, che l’intelletto possibile per Aristotile precede
l’agente, come la potenza precede l’alto; mentre per CONTI avviene il
contrario, forse perchè non ha attinto questa distinzione dalla sorgente
aristotelica, ma da qualche espositore che1’avea compreso male. Il peggio poi
si è che CONTI ha l’aria di non sospettare eppure l’importanza di questo
problema, non meno che di parecchi altri rilevantissimi, contento a sfiorarli
leggermente, quando non li trasanda del tutto. Keywords: idealismo, l’idea di
natura in Talesio, panteismo di Bruno, filosofo maiore, filosofo minore, Aosta,
Agostino, filosofia roma antica, Catone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Fiorentino” – The Swimming-Pool Library. Francesco Fiorentino. Fiorentino.
Grice e Fioretti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei pro-ginnasti – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Mercatale). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Mercatale, Cortona, Arezzo,
Toscana – Grice:: “I like Fioretti; thought-provoking; he says Plato should
never have chosen ‘dialogue’ as a philosophical genre, and he is right; in my
long tutorial life at Oxford I NEVER asked a tutee to write a dialogue for me! If Plato were the standard, that’s what we’d do!” Autore
di “Pro-Ginnasmo” (pro-ginnasio, ginnasio – cf. Deutsche progrymnasium), un'ampia
raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci e latini agli
scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la straordinaria versatilità
e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse “Osservazioni di creanze
e Esercizi morali. Critico acerrimo di Aristotele ed Ariosto, ed altri autori
classici. È stato anche co-fondatore degl’Apatisti. Ha una vita indisciplinata.
Il conte Giovanni Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più
contenuta. Ma ha risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del
conte, che immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma Fioretti accorto
fuggì, e i partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del
prete che recita: Resurrexit, non est hic.
Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò
completamente stile di vita. Si dedicò alla filosofia. Rimase nel Palazzo di
Oriuolo e cambia anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di
nessuno, ad eccezione di Dio".
Pubblica numerosi saggi. Si dimostra diligente filologo e critico
critico. Il suo capolavoro è la raccolta di poesie “Proginnasmi” (cf. ginnasio,
pro-ginnasio, Deutsche pro-gymnasium), contenente critiche ai poeti romani. E
stato dimenticato dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente
franco. Al suo pseudonimo era solito
aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la
mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità
dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa
accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Coltellini, si
concretizzò con l'obiettivo di riunire filosofi con abitudini salutari e
politici impegnati. Lasciò come ela sua
biblioteca e i suoi scritti alla Chiesa di San Basilio. Altre opere: “Polifemo
Briaco” Proginnasmi poetici” (Firenze, appresso Zanobi Pignoni, Firenze, nella
Stamperia di Zanobi Pignoni), definita come "un'opera di grande
erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i
più singolari artifici della Poetica". Esercizi morali, Rimario e
Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni. Raffaello Ramat, La critica ariostesca,
Firenze, e anche in Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca,
Tiraboschi. Luca, Scheda Biografica su
Centro Ricerche Pratesi, Carmine Jannaco e Martino Capucci, Storia letteraria
d'Italia: Il Seicento. Gian Vittorio
Rossi, Pinacotheca, Colonia, Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini”
(Ferrara, per Bernardino Pomatelli); Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij...,
Venezia Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia, Venezia;
Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia, Giusto Fontanini, “Della
eloquenza italiana” (Roma Domenico Moreni,
storico-ragionata della Toscana..., I, Firenze Giovan Battista Corniani,
I secoli della Letteratura italiana dopo il suo Risorgimento Commentario di G. B.
Corniani, S. Ticozzi, II, Milano, Francesco Inghirami, Storia della Toscana,
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Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con Dante attraverso il
Seicento, Bari, Benedetto Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Walter Binni,
Storia della critica ariostesca, Lucca Raffaello Ramat, La critica ariostesca,
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letteratura italiana, Letteratura italiana (Marzorati), I minori, Milano Carmine
Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, MilanoPio Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso,
Firenze, Gianfranco Formichetti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Anton
Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, “Il giovane istruito nella
cognizione dei libri” Venezia, per Giuseppe Picotti, Girolamo Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, 8,
Roma, per Luigi Perego Salvioni Stampator Vaticano, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Antonio Belloni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Benedetto Fioretti, noto anche
come Udeno Nisiely e Fracastoro. Mascolinità assieme di qualità,
caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui Modifica La
mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e
ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita
socialmente e culturalmente, anche se alcuni comportamenti considerati
maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati. Fino a che
punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di
dibattito. Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico
maschile, poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche
maschili. Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di
mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse
culture e periodi storici. Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e
socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità,
forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività. Il machismo è una
forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un
disprezzo per le conseguenze e la responsabilità. Il suo opposto può esser
espresso dal termine effeminatezza.Uno dei sinonimi maggiormente usati per
indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.
Contesti storici e culturaliModifica L'interpretazione ed il riconoscimento della
mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali.
Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme; la figura del
dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità
nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard
moderni. Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel saggio
di Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni
accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato
il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale
più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la
forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il
finto maschio). Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di
genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti
appartenere di diritto al genere maschile. Lo studio accademico della
mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli
anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della
mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti. Questo ha
portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di
mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per
l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di
costruzione sociale del genere. Natura ed educazione Competizione
sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità
che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura
in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o
il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del
condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni. La ricerca
sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle
caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico
per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è
fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata
"Fattore di trascrizione SOX9" la quale aumenta l'ormone antimulleriano
che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione. Vi è ampio dibattito poi
su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria
identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la
mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale
visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè
all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale
della mascolinità. Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità
può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita
culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o
creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un
esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della
barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e
trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi.
Mascolinità egemonica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Maschilismo. Esempio di maschio poco più che adolescente con
corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli
uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente
la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership. Connell
ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di
mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini
dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare:
"Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata
al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione
dominante degli uomini e la subordinazione delle donne".Pleck sostiene che
una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella
dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e
non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la
dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di
mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece
lo sono solo per finta". Kimmel promuove questo concetto, aggiungendo però
anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di
mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio
stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione
dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche
sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed
istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile. Critiche. Si
tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità
seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I
ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al
rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che
hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità,
all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui
cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità
nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per
femminilizzarsi. Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei
mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla
mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media
non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e
che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella
pubblicità. Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere
di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la
forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e
dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità
ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del
lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione
differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo ". Il
lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale.
Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della
mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto
di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o
meno profonda crisi. La crisi è anche stata spesso attribuita alle
politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli
uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del
proprio sesso d'appartenenza. Altri vedono il mercato del lavoro in
costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la
deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove
tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in
questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la
necessità e domanda di forza fisica. Tendenze contemporaneeModifica
L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi
effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla
concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi
decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno
instabile e mai raggiunto in modo definitivo. Secondo un documento
presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una
diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente
verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne
possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che
considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi
disturbi alimentari. Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono
riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati
dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune
giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di
raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in
casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o
dismorfismo muscolare (anoressia riversa). Terminologia I concetti di
mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a
costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al
plurale che di una singola tipologia di mascolinità. Shehan, Gale Researcher Guide
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Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterniModifica The Men's
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bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali
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mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità.
Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
antropologia Effeminatezza termine Michael Messner (sociologo) sociologo
statunitense Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi
derivante solamente dal loro sesso Wikipedia Il contenuto. Fioretti. Keywords. Refs.: tipi di ginnasio: pais
ragazzo (12-17 adolescens), 18-20 efebo; +20 neos. Oriuolo, progrinnasio,
ginnasio, tre tipi di ginnasio: paides, 12-14, nuoi, o neoi, 15-18, 18+ efebi
--. Terme – ginnasio e terme – giocchi nudi – nudita atletica – nudita eroica.
Keywords: pro-ginnasmi. Luigi Speranza, “Grice e Fioretti” – The Swimming-Pool
Library. Fioretti.
Grice e Firmiano:
la ragione conversazonale e il culto di Giove -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roman priest
and philosopher. Firmiano.
Grice e Firmico: la
ragione conversazionale e il culto di Giove -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italianao. Alcuni
scrittori che non si occuparono in modo particolare di filosofia, mostrarono di
interessarsene.Così fece Siciliano, senatore, vir consularis, che, stancatosi
presto dell'avvocatura, si dedica agli studi. Per le insistenze di
Lalliano Mavorzio, che lo accolta molto amichevolmente quando era governatore
della Campania, pubblica, per mantenere la promessa che aveva fatto in
quell'occasione, un’opera di astrologia, "Mathesis", in otto libri,
dedicata al suo protettore, allora proconsole d’Africa.E il più ampio trattato
di quella materia che l’antichità abbia trasmesso. Il libro I è
un’introduzione in cui l'astrologia è difesa dalle critiche degl'accademici e
principalmente di Carneade. F. riconosce la difficoltà delle predizioni
astrologiche, che spiega platonicamente con la debolezza della natura umana in
cui lo spirito è legato al corpo terreno, ma se esso si libera dai vincoli di
questo ed è consapevole della sua origine celeste, facilmente, con la divina ricerca
della mente, consegue risultati difficili ed ardui. Firmico esalta la
grandezza dello spirito, parla dell'affinità dello spirito con l’anima e
l’intelletto delle stelle e accenna alla teoria della reminiscenza. Fonti
di questa filosofia naturale si considerano Posidonio e CICERONE. Da
POSIDONIO, e forse anche da Porfirio, può derivare altresì la discesa e
l’ascesa dell'anima. Considerando i rapporti fra l’azione del cielo e la
volontà dell'uomo, F. afferma che le stelle sono LA CAUSA delle passioni e dei
impulsi malvagi dell'uomo.Lo spirito dell'uomo, per la sua origine divina, può
sottrarsi al potere delle stelle.Anche queste tesi concordano, oltre che con il
Platonismo, con il PORTICO posidoniano. I libri II-VIII trattano
dell’astrologia propriamente detta. F. esige dai cultori dell'astrologia
una condotta morale retta e pura e vieta loro di occuparsi di ciò che riguarda
il principe, perchè, essendo divino, non è sottoposto alle stelle. In
quest'opera, che offre una testimonianza importante del timore che nell’età
dell’autore il potere dei cieli incute anche alle classi superiori, appaiono
influssi stoici, in generale ma non sempre posidoniani, piuttosto che
specificamente neo-platonici e se in certi punti l’intonazione religiosa e
mistica concorda con lo spirito di questa scuola, si deve anche pensare al
carattere generale della filosofia contemporanea. Nell'insieme, F. non può
considerarsi il seguace di alcun indirizzo determinato. Scrive "il De
errore profanarum religionum", che è una violenta polemica contro il
paganesimo di cui chiede la distruzione dagli principi Costazio e
Costante. Filosofo Italiano. Di lui restano pochissime notizie
biografiche, per lo più desumibili dai suoi testi. Siciliano, secondo la
sua stessa testimonianza, Firmico e senatore e per qualche tempo avvocato, ma
abbandona la professione per le inimicizie che la sua pratica gli procura,
sicché la successiva condizione di otium gli permise di dedicarsi agli studia
humanitatis. Pubblica, così, le sue due opere conservatesi: i Matheseos libri
octo e, circa dieci anni dopo, il De errore profanarum religionum. Matheseos
libri octo L'opera, il cui titolo completo è “De Nativitatibus sive Matheseos
libri VIII”, è dedicata al governatore della Campania, Quinto Flavio Mesio
Egnazio Lolliano detto Mavorzio, e costituisce il più vasto trattato di
astrologia conservatosi dall'antichità, frutto di esperienze e studi in campo
neoplatonico. Il primo libro, a differenza degli altri sette di contenuto
esclusivamente tecnico, contiene una vera e propria apologia morale
dell'astrologia, scienza caduta in sospetto ai galilei, ma ampiamente praticata
al tempo dell'autore per influsso della speculazione platonica. I restanti libri
espongono diverse nozioni tecniche relative alla materia, con uno stile spesso
compilatorio che però rende conto della sintesi di una lunga tradizione
precedente. F. Materno afferma che l'influenza degli astri si esercita
sulla parte DIVINA dell'anima umana. Solo un animo puro e libero da ogni
peccato può accostarsi all'astrologia, disciplina che pone in costante contatto
col divino. Dimostra poi l'importanza dell'influsso degli astri nel determinare
la vita umana, e la spiegazione della storia del mondo fin dall'età di Saturno
alla luce di tale principio. Firmico espone i fondamenti dell'astrologia tra
cui i segni, i pianeti, le case, le suddivisioni dello zodiaco (decani e
termini), gli aspetti e, particolarmente importanti per l'astrologia di
Materno, gli antiscia, ovvero il legame tra due segni in base alla loro
distanza dai solstizi. Il libro contiene anche il tema natale di un
aristocratico romano che ricopre diverse cariche importanti, e che è stato
identificato con Lolliano Mavorzio, con Publilio Optaziano Porfirio o, con
Ceionio Rufio Albino. Questo libro contiene anche alcuni avvertimenti per
coloro che praticano l'astrologia: che bisogna sempre dare i propri responsi
pubblicamente, e che bisogna rifiutarsi di studiare l'oroscopo del principe. In
epoca romana, infatti, studiare l'oroscopo del sovrano pontifice massimo costituiva
un reato di lesa maestà punibile con la morte. Il Thema Mundi, contenuto
nel Libro III, sezione ii del Matheseos Libro III presenta il concetto del
Thema Mundi, l'oroscopo del mondo, poi fornisce un elenco delle delineazioni
per ciascun pianeta in ciascuna casa. Tratta delle possibili delineazioni della
Luna e dei Lotti della Fortuna e dello Spirito, della lunghezza della vita,
della professione. Tratta delle delineazioni dei differenti segni in ciascun
luogo e di ciascun pianeta. Tratta degli aspetti, anche di quelli più
complicati, e della delineazione delle stelle fisse e del chronocrator. Tratta
della condizione di nascita, della schiavitù, della malattia, della famiglia,
del matrimonio e di temi simili. Include commenti sulle costellazioni e su
gradi speciali. De errore profanarum religionum L'opera è successiva alla
conversione di Materno al Cristianesimo, avvenuta in circostanze di cui si
ignorano causa, luogo e tempo, ma inequivocabilmente testimoniata dall'opera
apologetica De errore profanarum religionum. Nella tradizione del testo,
l'opera è giunta priva delle pagine iniziali. La parte restante inizia passando
in rassegna i culti naturalistici degli elementi dimostrandone l'assurdità. Considera
poi quei culti di origine orientale che erano allora molto praticati presso i
pagani: i misteri di Iside, Cibele, Mitra, il culto dei Coribanti, di Adone e
altri. Sono applicati i principi di Evemero per dimostrare che tutte queste
divinità non sono altro che uomini innalzati dopo la morte agli onori celesti e
dei cui peccati gli uomini si servono per giustificare i propri. Con
alcune fantasiose etimologie -- per esempio “Serapide” è fatto derivare da
Σάρρας παίς, il figlio di Sara, cioè Isacco -- tenta di spiegare le origini di
alcuni di esse a partire dai testi biblici; o ancora, egli dà notizie delle
frasi e delle formule in codice usate nelle religioni misteriche, avvicinandole
alle formule bibliche. La lingua di F. aspira alla purezza del classicismo
ma non si sottrae agli influssi del suo tempo, abusando spesso di espedienti
retorici, enfasi e incursioni nella lingua poetica. L'uso delle clausole
metriche lo ricollega alla tradizione oratoria di CICERONE. Lo stile
dell'opera, in effetti, richiama da vicino quello degli africani Tertulliano e
Arnobio, ricorrendo volentieri alla derisione e al sarcasmo. Dell'opera
colpisce il fanatismo quasi feroce con cui l'autore esorta gli imperatori
Costante I e Costanzo II a perseguitare senza pietà i seguaci delle fedi
fallaci. Non è infatti frequente nella filosofia trovare un'esplicita richiesta
volta a sollecitare l'intervento dello stato contro i pagani, recuperando in un
certo modo il disprezzo che i senatori hanno ai tempi della Repubblica per
l'ellenizzazione della religione e della cultura romana -- essendo Quinto Fabio
Massimo Verrucoso il più conosciuto contro l'ellenizzazione, mentre i maggiori
difensori di questa furono la gens Cornelia. Ricordiamo a tale proposito che il
primo imperatore a mettere fuori legge tutti i riti non cristiani e a perseguitarli
apertamente fu Teodosio I. In quest'opera si coglie anche quello che dovette
essere lo stato d'animo formatosi in molti nel breve lasso di tempo intercorso
tra le persecuzioni dioclezianee e l'editto di Milano. Seppur F. appaia
pienamente inserito nel filone della letteratura apologetica, la sua voce non
giunse isolata al tempo dell'editto di Tessalonica promulgato da Teodosio I, ma
nel corso del medio-evo rimase senza eco. La sua opera apologetica è
considerata di particolare interesse per la storia delle religioni, riportando
particolari di prima mano e plausibili sui culti misterici praticati in Sicilia
in età tardo-antica. Paradossalmente e, invece, molto considerata la sua opera
astrologica, la cui esaustività e leggibilità migliore rispetto all'opera di
Marco Manilio giovarono alla trasmissione. Matheseos. Siciliae quam incolo et
unde oriundus sum»; Matheseos libri octo, IV, proemio; Marchesi, Disegno
storico della letteratura latina, Milano-Messina; L'opera contiene infatti un
riferimento a un'eclissi anulare di sole. Mommsen. Hermes Brennan, F. The
Hellenistic Astrology, hellenisticastrology. com/astrologers/
firmicus-maternus Neugebauer,
«The Horoscope of Ceionius Rufius Albinus», The American Journal of Philology,
L'unico testimone è un codice del X secolo, il Vaticanus Palatinus; F. L'errore
delle religioni pagane, Introduzione, traduzione e note a cura di E. Sanzi,
Roma 2006. ^ C. Marchesi, Disegno storico della letteratura latina,
Messina-Milano. F., Matheseos edito da Kroll e Skutsch, Stuttgart, Teubner,
Mathesis, Monat, Parigi Les Belles Lettres, Collection des Universités de
France. In difesa dell'astrologia. Matheseos, a cura di Colombi, Udine, Mimesis;
L'errore delle religioni pagane, a cura di Sanzi, Roma, Città Nuova; F. su
Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Niccoli, F.,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica F., su digilib LT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Opere di F. su MLOL, Horizons Unlimited Open Library, F.Internet Archive;
F. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton. De errore profanarum religionum, Ziegler, Lipsiae, in
aedibus Teubneri Matheseos . Kroll et F. Skutsch, Lipsiae, in aedibus Teubneri Portale
Antica Roma Astrologia Biografie Portale Letteratura
Categorie: Scrittori romani Astrologi romani Scrittori Romani Senatori romani
Scrittori antichi Astrologia ellenistica Scholar and statesman who wrote an
attack on religion that borrowed heavily from CICERONE. PORTICO. F. writes an
essay on astrology. Giulio Firmico Materno. Firmico.
Grice e Firmo: la
ragione conversazionale e Roma antica --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of Porfirio and a pupil of
Plotino and Amelio Gentiliano [si veda]. He is best known because of the essay
“On abstinence,” that Porfirio dedicated to him, in which the arguments for
vegetarianism are set out. Firmus had evidently resumed his carnivorous ways at
the time the essay was written. Firmo
Castricio. Firmo.
Grice e Fisichella: all’isola -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del duello – scuola di Catania
-- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo
italiano. Catania, Sicilia. Grice: “I love Fisichella; for one, he was a
nobleman; for another, he died during Messina’s earthquake – leaving unfinished
quite a few essays – he philosophised on both ‘nature’ and ‘convention,’ and
the rationalist basis of his theory of contract is Griceian in nature, even if
he fills it with charming Roman detail!” Appartenente
alla nobile famiglia siciliana dei Fisichella, fu autore di famose saggi. Fu
responsabile della Biblioteca Civica di Catania. Insegna a Messina. Morì vittima
del terremoto di Messina. Altre opere: “Roma e il Mondo” (Coco); “Pena temporaria,
pena perpetua”; “Il concetto d’ “obbligazione naturale””; “Il concetto del
divorzio secondo la filosofia di Enrico VIII” (Carmelo de Stefano);
“Matrimonio, questione di stato – la legge di matrimonio”. Nominato
"bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno
scrittoio a schiena d'asino ancora conservato molte pagine del suo romanzo I
Viceré. Whoever has
glanced through the pages of any text-book on mercantile law will hardly
deny that contract is the handmaid if not actually the child of trade.
Merchants and bankers must have what soldiers and farmers seldom need,
the means of making and enforcing various agreements with ease and
certainty. Thus, turning to the special case before us, we should expect
to find that when Roma was in her infancy and when her free
inhabitants busied themselves chiefly with tillage and with petty
warfare, their rules of sale, loan, suretyship, are few and clumsy. Villages
do not contain lawyers. Even in towns, hucksters do not employ
them. Poverty of contract is in fact a striking feature of the early
Roman jurisprudenze, and can be readily understood in the light of the
rule just stated. The explanation given by Maine in ‘Ancient Law’ is
doubtless true, but does not seem altogether adequate. Maine points out
that the Roman house-hold consists of many families under the rule of
a paternal autocrat. Few freemen have what we should call legal
capacity. Consequently, there arose few occasions for a contract. This
may indeed account for the non-existence of agency, but not for
that of all other contractual forms. For, if the households had been
trading instead of farming corporations, they must necessarily have been
more ichly provided in this respect. The fact that their commerce is
trivial, if it exists at all, alone accounts completely for the
insignificance of the contract in their early law. The origin of the contract
as a feature of social life is therefore simultaneous with the birth of Ttade
and requires no further explanation. It is with the origin and history of
its individual forms that we shall deal. As Roman civilization progresses,
we find commerce extending, and contract growing steadily to be more
complex and more flexible. Before the end of the Roman republic the
rudimentary modes of agreement which suffice for the requirements of a
semi-barbarous people have been almost wholly transformed into the
elaborate system of contract preserved for us in the fragments of the
Antonine jurists. At the most remote period concerning which statements of
reasonable accuracy can be made, and which for convenience we may call
the “regal period,” we can distinguish three ways of securing the
fulfilment of a promise. The promise could be enforced either by the
person interested, or by the gods, or by the community. When, however, we
speak of *enforcement*, we must not think of what is now called specific
performance, a conception unknown to primitive Roman law. The only kind
of enforcement then possible is to make punishment the alternative of
performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society
just emerging from barbarism, is doubtless the most ancient protection to
promises. We find self-help to have been not only the mode by which the
anger of the individual is expressed, but also one of the authorised
means employed by a god – “il divino” -- or the community to signify
displeasure. This rough form of justice falls within the domain of law in
that the law allows it, and even encourages Romans to punish the
delinquent, whenever religion, or custom, has been violated. But as the
Romans grew more civilized and the nation larger, self-help proves a
difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly, the scope of self-help is
by degrees narrowed, and, at last, with the introduction of surer
methods, self-help becomes wholly obsolete. ‘Religious’ law, as
administered by a priest, or representatives of a god, is another
powerful agency for the support of promises. A violation of ‘fides,’ the
sacred bond formed between the parties to an agreement, is an act of
impiety which lays a burden on the conscience of the delinquent and may
even have entailed religious disabilities. “Fides” is of the essence of every
compact. But there are certain cases in which its violation is punished
with exceptional severity. If an agreement is solemnly made in the
presence a god – Roma had three: Giove, Mars, and Quirinus --, its breach is
punishable as an act of gross sacrilege. A third agency for the
protection of a promise is legal. This third agency consists of a penaltiy
imposed upon bad faith by the laws of Rome, the rules of the gens, or
the by-laws of the guild to which the delinquent belongs. What the
sanction is in each case we are left to conjecture. It may be
public disgrace, or exclusion from the guild, or the paying of a
fine. And if a promises is strengthened by an appeal to a god, so might another
be by an invocation of the people as witnesses. An agreement, then, might
be of three kinds, correspending to these three kinds of sanction. An agreement
may consist of an entirely formless
compact, or a solemn appeal to a gods, or a solemn appeal to the
people. A formless compact is called “pactum” in the language of the
Twelve Tables. A “pactum” is merely a distinct understanding between
parties who trust to each other, and in the infancy law, a pactum must have
been the kind of agreement most generally used in the ordinary business of
life. A pactum is doubtless the oldest of all agreements, since it
is almost impossible to conceive of a time when two Romans did not barter
an act and a promise as freely as they bartered goods and without the
accompaniment of any ceremony. A compact of this sort is protected by the
universal respect for “fides,” and its violation may perhaps have been
visited with penalties by the guild or by the gens. But intensely
religious as the early Romans were, there must have been cases in which
conscience was too weak a barrier against fraud, and when a slight penalty
was ineffectual. The fear of a god has to be reinforced by the fear
of the Roman. Self-help is the remedy which naturally suggests itself. In
The Twelve Tables a pactum appears in a negative shape, as a compact
by performing which retaliation or a law-suit may be avoided. If this
compact is broken, the offended party pursues his remedy. Similarly, where a positive
pactum is violated, the injured person must have had the option of
chastising (Gell. XX. 1. 14. Auct. ad Her. ii. 13. 20) the delinquent. The
injured Roman’s revenge may take the form of personal violence, seizure
of the other's goods, or the retention of a pawn already in his
possession. A Roman could choose his own mode of punishment. But, if
his adversary proves too strong for him, he doubtless had to go unavenged.
If the broken agreement belonged to either of the other classes,
the injured party has the whole support of the priesthood or the
community at his back, and thus is certain of obtaining satisfaction. It
is therefore plain that though formless agreements contain the germ
of a contract, a formless agreement could not produce a law of Contract. By
the very nature of a formless agreement or pactum, it lacks binding force. The
pactum’s sanction depends on the caprice of individuals, whereas
the essence of a contract is that the breach of an agreement is
punishable in a *particular* way. A further element is needed, and this is
supplied by the invocation of higher powers. At what period the
fashion is introduced of confirming promises by an appeal to a god it would be idle to guess. Originally, it
seems, the plain meaning of such an appeal is alone considered, and its
form is of no importance. Under the influence of custom or of the priesthood, such
an agreement assumes, by degrees, a formal character, and it is thus that
we find them in our earliest authorities. Since Religion and
Law are both at first the monopoly of the priestly order, and since the
religious form of a promise has its counterpart in earlier customs, the
strictly SECULAR forms of an agreement s peculiarly Roman. The religious forms are
evidently the older, and formal contract has therefore had a religious
origin. “Fides” being a divine thing, the most natural means of
confirming a promise was to place it under divine protection. This may be
accomplished in two ways, by “iusiurandum” or by “sponsio” -- each of
which is a solemn declaration, placing the promise or agreement
under the guardianship of a gods. Each of these two forms – the
iusiurandum and the sponsio -- has a curious history, and they are the earliest
specimens of a true Contract. A third method, and one peculiar to the Romans,
which naturally suggested itself for the protection of agreements, is to
perform the whole transaction in view of the people. Publicity ensures
the fairness of the agreement, and placed its ex- istence beyond dispute.
If the transaction was essentially a public matter, such as the official
sale of public lauds, or the giving out of public contracts, no
formality seems ever to have been required, so that even a formless
agreement – a mere ‘pactum’ -- is, in that case, binding. The same validity is secured
for a private contract, by having is publicly witnessed, and, the
next one is but one application of this principle. In testamentary law it
seems probable that the public will in a “comitiis calatis” is also
formless, whereas, in private, the testator may only give effect to his
will by formally saying to his fellow-citizens “testimonium, mihi
perhibetote.” Thus the two elements which turned a bare agreement into a
contract are religion and publicity. The naked agreement (pactum) need
not concern the philosopher, since, its validity as a contract never
receives complete recognition. But it will be the object of the following
consideration to show how the agreement GROWS into a contract by being invested
with a religious or public dignity, and to trace the subsequent
process by which this outward clothing is slowly cast off.
Formalism is the only means by which contract rises to an established
position. But when that position is fully attained we shall find that contract
discarding the form, and returning to the state of the bare agreement
from which it springs. “Iusiiurandum” is derived by some from “louisiurandum,”
which merely indicates that Jupiter or Giove – the root, Aryan, is that of
‘dius,’ as in ‘diuspiter,’ or ‘dius-pater’ – is the god by whom Romans swear.
To make an oath is to call upon some god to witness the integrity of the
swearer, and to punish him if he swerves from it. This appears from
the wording of the oath in Livio where Scipione says: -- Si sciens falio,
turn me, luppiter optime maxime, domum familiam remque meam pessimo leto
afficias” – It also appears from the oath upon the luppiter lapis given
by Polibio and Paolo Diacono, where a man throws down a flint and
says – “Si sciens folio, turn me Dispiter saliia urbe arceque bonis
eiiciat, uti ego hunc lapidem." A promise accompanied by an oath is
simply a UNI-LATERAL contract under religious sanction. An oath is in used
for the purpose of a contract. Cicerone remarks that the oath is proved
by the language of the XII Tables to have been in former times the most
binding form of promise (Off III. 31. 111). Since an th is morally
binding -- Of. Apul. de deo Socr. 5. = xxii. 53. -- in
the time of Cicerone, though it has then no LEGAL force, Cicerone’s implicature
is that, in earlier times, an oath is LEGALLY binding also. From
Dionisio we know that the altar of Ercole, the Ara Massima -- is the place at
which a solemn compact (“a-vvOrJKai”) ais made, while Plauto and
Cicerone inform us that such a compacts is solemnised by grasping the altar and
taking the oath. It would seem probable that a gods was consulted by the
taking of an auspice, *before* the oath is
made. Cicerone says that, even in a private affair, a Roman would take no
step without asking the advice of a god. And we may safely
conjecture that whenever a god was called upon to witness a solemn promie,
he was first enquired of, so that he might have the option of refusing
his assent by giving an unfavourable auspice. The terms of the oath
were known as “concepta uerba” and they are strictly construed. “Periurium” does
not mean mere false swearing. “Periurium” means the breach of an oath, the
commission of an act at variance with these “verba concepta”. There is
some dispute as to what are the exact consequences of such a breach.
Voigt thinks that “periurium” merely entails an excommunication from a religious
rite. Danz is clearly right in maintaining that its consequences are far more serious -- 1 Dion. 1. 40. 2
piaut. Rud. 5. 2. 49; Cic. Flace. 36. 90. 3; Biv. 1. 16. 28.; Seru.
ad Aen. 12. 13. " i.e. sciens fallere; Plin. Paneg.d'i.; Seneca,
Ben. iii. 37. 4. 8; Off. III. 29. 108; lus Nat. in. 229. 8 j{g„i. (j_ „_
g 149. -- A breach amounts in fact to complete outlawry. Cicerone says
that the “sacratae leges” of the ancients confirm the validity of an oaths. Now,
a “sacrata lex” is one which declares the transgressor to be “sacer” --
i. e., a victim devoted -- to some particular god, and “sacer” in the so-called
laws of Seruius Tullius and in The XII Tables is *the* epithet of condemnation
applied to the undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it
seems highly probable that the breaker of an oath becomes “sacer.” His
punishment, as Cicerone implicates, is death. The formula of an oath given
by Polibio is more comprehensive than that given by Paolo Diacono, for,
in it, the swearer prays that, if should he transgress, he may forfeit
not only the religious but also the civil rights of his Roman
countrymen. The oath-breaker is an utter outcast. As a gods could not
always execute vengeance in person, what the god does is to withdraw his
protection from the offender and leave him to the punishment of his Roman
fellow-men. – H. P. Grice adds: “The drawback to this old Roman method of
contract, as formulated by Polybius, is the same as that of the Law of my
country, England, which makes hanging the penalty for a slight theft. The
hanging penalty is out of all proportion to the injury inflicted by
a breach of the promise. So awful indeed was it, that no promise of an
ordinary kind could well be given in such a dangerous form, and
consequently the oath was not available for the -- 1 Festus, p.
318, s.u. sacratae. - Fest. p. 230, s.u. plorare. » Seru. ad Aen. 6. 609; Leg. ii. 9. 22. ^ ni. 25.
5 p. 114, s.u. lapideni. ' Liu. v. 11. 16.-- common affairs of daily life. The use of
the oath therefore disappears with the rise of other forms
of binding agreement, the severity of whose remedies is PROPORTIONATE to
the right which has been violated. At the same time, the breaking
of an oath comes to be considered as a merely *moral*, instead of a strictly
*legal*, offence. By the end of the Republic, an oath entails nothing more
serious than disgrace – “dedecus” – “or disgrice, as I prefer to spell it.” In
one instance only does the *legal* force of the oath survives. As late as
the days of Justinian, the service due to a patron by his freedman are
still promised under oath. But the penalty for the neglect of such
a service changes with the development of the law. Before the time
of The XII Tables, a former slave who neglects his former patron,
like the patron who injures his former slave, are no doubt “sacer”. The
former slave is an outlaw fleeing for his life, as we are told by Dionisio.
But in later times the heavy religious penalty disappears, and the “iurisiurandi
obligatio” is enforced by a special praetorian action: the “actio operarum.”
By the time of Ulpian, the effects of the “iurata operarum promissio” seem
indeed to have been identical with those of the “operarum stipulatio”,
though the forms of the two are still quite distinct. We may now
summarise this primitive mode of contract. The contract was a verbal
declaration, on the part of the promisor, couched in a solemn and
carefully -- 138 Dig. 1. 7. = Seru. ad Aen. 6. 609. s n, iq. *
38 Big. 1. 2 and 7. = of. 33 Dig, 1. 10. -- worded formula, the “concepta
uerba”, wherein he called upon a god (testari deos), to behold his good
faith and to punish him for a breach of it. The sanction is the
withdrawal of the protection by the god. The delinquent is then exposed
to death at the hand of any man who chooses to slay him. The
mode of release, if any, does not appear. In classical times it was the
acceptilatio, but this was clearly anomalous and resulted from the
similar juristic treatment of operae promissae and operae
iuratae. Now, though the point has been contested by high
authority, it scarcely admits of a doubt that there exists from very
early times *another* form, known as a “sponsio”, by which an agreements may
be made still under religious sanction. This method, as Danz points out, is
originally connected with a mere oath. The “sponsio” is derived from a stern
and solemn compact made under an oath to a god. Danz goes perhaps too far
when he identifies the two. “Sponsio” is, for Danz, just another name
for a sworn promise. The stages through which the “sponsio” pass tell
a different story. The word “sponsio” is closely connected with “(Tirovhrj,
a-rrevSeiv” – and, hence, a “sponsio” is literally, a pouring out of
wine, quite distinct from the convivial Xot^T) or “libatio”. A different derivation
is given by -- 138 Dig. 1. 7, fr. 3. Plaut. Rud. 5. 2. 52. 5
46 Dig. 4. 13. Danz, Sacr. Schutz, 5 Featus-p. 329 s.u. spondere. Leist,
Greco-It. B. G. p. 464, note o. -- Varrone’s and Verrius’s from “spons”,
the will, whence, according to Girtanner, a “sponsio” was a declaration of
the will (“I will,” not “I shall”), savours somewhat too strongly of classical
etymology. A pouring out of wine, as Leist shows, is a constant
accompaniment to the conclusion of a sworn compact of alliance (opKia
iriaTo). This sacrificial wine adds force to the oath. The wine is a symbol
of the blood which *would* be spilt if a god *were to be* insulted by a
breach of the oath made during this wine-pouring ceremony. In this then
its original form, a “sponsio” is nothing more than an accessory piece of
ceremonial. A second stage was brought about by the *omission* of the
oath AND the use of wine-pouring *alone* as the principal ceremony. This
made a less important agreement of a private nature. (An Indian friend of
mine tells me that, in the Indian Kama-Sutra, a sacrifice of wine
is customary at betrothals -- and comparison shows that the marriage
ceremonies of the Romans, in connection with which we find “sponsio” and “sponsalia”
applied to the betrothal and “sponsa” to the bride, are very like
those of other Aryan communities. We
may therefore clearly infer that at Rome also there was a time when
the pouring out of wine is a part of the marriage-contract. Thus, the
derivation of the “sponsio” from ‘wine-pouring’ receives independent
confirmation. In a third and last stage, a “sponsio” came to mean --
^ Lingua Latina VI. 7. 69. Festus, s. u. spotidere. ' Stip. p.
84. Greco-It. B. G. § 60. =
Leist, Alt-Ar. I. Civ. p. 443. Gell. IV. 4. Varro, Lingua Latina vi. 7. 70. Leist, loc. cit. –--
nothing more than a promise. It is easy to see how this came about. At first,
the promise takes its name from the explicit ceremony of wine-pouring
which gives to it binding force. In course of time, this name-giving
crucial wine-pouring ceremony is left out, as what H. P. Grice calls, a “taken
for granted.” The promise alone, provided words of style are correctly
used, retains its old use and its old name. From being a ceremonial
act, “sponsio” becomes a form of words. Such is the final stage of its
development. The importance attached to the use of the words in the
conversational dyad -- A: Spondesne? -- B: Spondeo. -- in preference to all others' thus
becomes clear. The conversational dyad: A: Spondesne? – B: Spondeo. – means: --
A: Do you promise by the sacrifice of wine? – B: I do so promise. -- Just
as one says, "I GIVE you my oath," when we do not even *dream*
of actually *TAKING* one! Another peculiarity of sponsio, noticed
though not explained by Gaius – HI. 93 m. 94 --, is the fact that it is used
in one exceptional case to make a binding agreement between a Romans and
a NON-Roman aliens, scil., at the conclusion of a treaty. Gaius expresses
surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice of pure
wine ((nrovBal aKprjToi) is one of the early formalities of an
international compact (opKia iria-Ta), it is natural that the expression
“spo'ndeo” survives on such occasions, even after the oath and the
wine-pouring had long vanished. “Sponsio” being then a religious act and
subsequently a religious formula, its sanctity is doubtless protected by a
pontiff with a suitable penalty. What the penalty was we cannot hope to
know, though clearly they are the forerunners of the penal “sponsio
tertiae partis” of the later procedure. Varrone informs us that, besides
being used at a betrothal, a “sponsio” may also be employed in a money (“pecunia”)
transaction. If “pecunia” includes *more* than money, we may well suppose
that cattle and other forms of property, which could be designated by
number are capable of being promised in this manner. Indeed it is by no
means unlikely that negotium was at one time the proper form for a loan of
money by *weight*, while “sponsio” is the proper form for a loan of
coined money -- “pecunia numerata.” The making of a “sponsio” for a
sum of money is at all events the distinguishing feature of the “actio
per sponsionem”, and though we cannot now enter upon the disputed history
of that action, its antiquity will hardly be denied. The account
here given of the origin and early history of the “sponsio” is so
different from the views taken by many excellent authorities that we
must examine their theories in order to see why they appear
untenable. One great class of commentators have held that the “sponsio” is
NOT a primitive institution, but was introduced at a date subsequeat to The XII
Tables. The adherents of this theory are afraid of admitting the existence, at
so early a period, of a form of contract so convenient and flexible
as the “sponsio”, and they also attach great weight to the fact that no
mention of “sponsio” occurs in The XII Tables! While it would doubtless
be an anachronism to ascribe to the early -- 1 Lingua Latina VI. 7. 70. 2
Karsten, Stip. p. 42. – “sponsio” the actionability and
breadth of scope which it had in later times, still it may very well
have been sanctioned by religious law, in ways of which nothing can
be known unless the pontifical Commentaries of Papirius' should some day be
discovered! As to the silence of The XII Tables on this subject, we are
told by Pomponius that they were intended to define and, more
importantly, REFORM the law rather than to serve as a comprehensive code.
Therefore they may well have passed over a subject like “sponsio” which is
regulated by the priest. Or, if The XII Tables did mention it, their
provisions on the subject may have been lost, like the provisions as to “iusiurandun”,
of which we know only through a casual remark of Cicerone’s. The early
date here attributed to the “sponsio” cannot therefore be disproved by any such
negative evidence. Let us see how the case stands with regard to
the question of origin. The theory best known at Oxford, owing to
its support by Maine, is that “sponsio” is a simplified form of a “nexum”,
in which the ceremonial falls away and the “nuncupatio” is left. Maine’s explanation
is so utterly obsolete that it is not worth refuting, especially since
Hunter's rebuttal of it. One fact which in itself is utterly fatal to
such Maine’s theory is that the “nuncupatio” is an assertion requiring no
reply – or ‘the securing of perlocutionary uptake,’ in the words of J. L.
Austin -- 1 Dion. III. 3(5. ^ 1 Dig- 2. 2. 4. 3
Off. m. 31. 111. Maine, Anc. Law, p. 326. Hunter, Bovian Law, . "
Gai. ii. 24. B. E. 2 -- whereas the *essential* thing
about the “sponsio” is that of a question coupled with an answer that
implicates the co-conversationalist’s implication in the matter via uptake –
cf. betting. Voigt follows Girtanner in maintaining that “spondere”
signifies "to declare one's will,” – as in “I will,” not “I shall” --
and he vaguely ascribes the use of “sponsiones” in the making of
agreements to an ancient custom existing at Rome as well as, more
generally, ‘somewhere in Latium.’ Girtanner agrees with the view here
expressed that a “sponsio” was known prior to The XII Tables, but thinks
that before The XII Tables, the “sponsio” was neither a contract (strictly
true if by contract we mean an agreement enforceable by action), nor an
act in the law, and that its use as a contract began later as a result of
Latin influenced. In another place, Girtanner expresses the opinion that the
introduction of the “sponsio” as a contract is due to legislation -- most
probably to the “Lex Silia.” The objections to this view are, first, that his –
indeed Varrone’s -- etymology is wrong, and, second, that the inference drawn
as to the original ‘signification’ of “spondere” involves us in rather serious difficulties.
An expression of the will can be made by a ‘formless,’ as Dummett calls
it, declaration as well as by a formal one. And if a *formless* agreement
be a “sponsio”, as it must be if a “sponsio” refers to *any* declaration
of the will, how are we to explain the *formal* or ceremonial importance,
attaching to the use of the particular words in what Grice calls the primeval
conversational dyad: A: Spondesne? – B: Spondeo. This view ignores the
religious nature of the “sponsio”, which I have endeavoured to
establish, and it forgets that a “sponsio,” being part of the marriage
ceremonial, one of the first subjects -- 1 Bom. EG. 1. p. 42. ' lb.
p. 43. 3 lus Nat. §§ 33-4. -- to be regulated by the
laws of Romulus after he married Ercilia (later a goddess, according to Ovid) is most probably one of the oldest Roman
institutions, instituted by Romulus – (It’s different with Henry VIII marrying
Anna Boleyn --. Again, as Esmarch observes the legislative origin
of a “sponsio” is a very rash hypothesis. We only know that the “Lex
Silia” introduces an improved procedure for matters which are already
actionable, and has a new formal contract been created by such a
definite act, we should almost certainly have been informed of this by,
say, Cicero! Danz, who also (wrongly) derives “sponsion” from spans,
the will; takes “spondere” to mean “sua sponte iurare,” and thinks
that a “sponsio” is exactly the same as a “iusiurandum,” i.e. nothing
more than an oath of any kind! Danz’s chief argument for this view is to
be found in Paolo Diacono, who gives “con-sponsor” = “coniurator.” But
why need we suppose that Paulus meant more than to give a synonym ?
in which case it by no means follows that spondere = iurare. For such a
statement as that we have absolutely no authority. Moreover, as we
saw above, “iusiurandum” is a *one-sided* (first-person singular)
declaration on the part of the promisor only. How, then, could the “sponsio”,
consisting, as it does, of a question and its answer, have sprung from
such a source? Especially since the “iusiurandum”, though no longer armed
with a legal sanction, is still used as late as the days of Plauto alongside
of the “sponsio” and in complete contrast to it? Girtanner, in his
reply to the "Sacrale Schutz" of Danz, maintains that “sponsio”
has nothing -- 1 Dion. n. 25. ^ ^. y_ far q. u. R. W. ii. 516.
^ Sacr. Schutz, p. 149. *' Ueber die Sponsio, p. 4 ft.
2—2 -- to do with an oath, but that it was is a simple
declaration of the individual will, and that “stipulatio” has its
origin in the respect paid to “fides.” This view however is even *less*
supported by evidence than Danz's. Arguing again from analogy, Girtanner
thinks that, as the Roman people regulated its affairs by expressing its
will publicly in the comitia, we may conjecture that a Roman individual
could validly express his will in a private affairs -- in other
words could make a binding sponsio. But this, as well as being a
wrong analogy, is a misapprehension of a leading principle of law. For,
as we have seen, no agreement resting simply upon the will of the
parties (i.e. pactun) is valid without some outward stamp being affixed
to it, in the shape of approval expressed by a god – notably Giove -- or
by the people. In more modem language, we may say that such
approval, tacit or explicit, religious or secular, is the original “causa
civilis” which distinguishes a “contractus” from, not a “pactum,” but a “pactio.”
Now, a popular vote in the comitia bears the stamp of public
approval as plainly as did the “nexum”. But a “sponsio”, requiring no witness, is
clearly NOT endorsed by the Roman people. The endorsement which the
“sponsio” needs in order to become a “contractus iuris civilis” must have
been of a religious nature, and that such was the case appears plainly if
we admit that “sponsio” originates in a religious ceremonial such as H.
P. Grice describes: “Will you, won’t you?” “I shall!” To recapitulate the view
here given, we conclude that “sponsio” is, if it existed, a primordial
institution -- 1 See Windsoheid, K. Y. fiir G. u. R. W. i. 291. -- of
the Roman and Latin peoples, which grows into its later form through
three stages. The “sponsio” is originally a sacrifice of wine annexed to
a solemn compact of alliance or of peace made under an oath to a gods. It
next became a sacrifice used as an appeal to a god in a compacts not
jtnade under oath such as a betrothal. Just as iusiurandum for many
purposes is sufficient without the pouring out of wine, so for other
purposes sponsio came to be sufficient without the oath. Lastly it becomes
a rather empty verbal formula, expressed in language by which the utterer
*implicates* -- to use Grice’s wording -- the accompaniment of a
wine-sacrifice, but at the making of which no sacrifice is actually
performed – but “deemed” to be performed – as in the Kantian view that to will
is to act. In this final stage, which continued to the days of
Justinian, its form is a question, put by the promisee, and its
AFFIRMATIVE answer, given by the promisor, each using the verb spondere. A: Filiam mihi spondesne? – B: Spondeo. – A: Centum
dari spondes? – B: Spondeo. Throughout its history this was a form which Roman citizens alone
could use, in which fact we clearly see religious exclusiveness and a further
proof of religious origin. Why they used question and answer rather
than plain statement is a minor point the origin of which no theory –
except Grice’s -- has yet accounted for (“In the beginning was the
Dia-Logos.”). As Grice – following Collingwood – in conversando intelligendo –
notes, the recapitulation by the promisee is obviously intended to secure the
complete understanding by the promisor of the exact nature of his
promise. Its sanction in the early period of which we are
treating is doubtless imposed by the priest, but owing to our almost
complete ignorance of the pontifical law – the popes were none of the
narcissists we now know! -- we cannot tell what that sanction is.
Having examined the ways in which an agreement could be made
binding under religious sanction, let us see how binding agreements
could be made with the approval of the *community*, or to use Cicerone’s
favourite phrase, “Populus romanus”. There is reason to believe that a secular
– or communitarian (free from immunity) class of contracts is less ancient
than the religious class, because “nexum” and “mancipium” or “municipium”
were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio
are found, as Leist dreams, in other Aryan civilizations. There is no
more disputed subject in the whole history of Roman law than the origin
and development of this one contract, termed the ‘nexum.’ Yet the facts
are simple, and though we cannot be sure that every detail is accurate,
we have enough information to see clearly what the transaction is like
as a whole. We know that, as per the genus-species diaresis – the “nexum”
is a “negotium per aes et libram,” a weighing of raw copper or
other commodity measured by weight in the presence of witnesses. That
the commodity so weighed is a loan' ; and that default in the re-payment of a
loan thus made exposed the borrower to bondage and savage
punishment at the hands of the lender (Hence: “Neither a lender nor a borrower
be”). We know also that the “nexum” exists as a loan before The XII
Tables, for the “nexum” is mentioned in them as something quite different
from a “municipium,” or “manicipium.” To assert, as Bechmann does, that since
nexum included conveyance as -- 1 Alt Ar. I. Civ. !•" Abt. pp. 435-443. 2 Gai. III. 173. 3
Mucins in Varro, L. L. 7. 105. " Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, B. E. L. § 22.
-- well as loan "mancipiuvique " must therefore be
an interpolation into the text of the XII Tables -- is an arbitrary
and unnecessary conjecture. The etymology of both “nexum” *and* “mancipium”
shows that they were distinct conceptions. A “mancipium” entails the
transfer of “manus”, ownership. “Nexum” entails the making of a bond
(cf. nectere, to bind), the precise equivalent of “obligatio” in the
later law. It is true that both nexum and mancipium required the use of
copper and scales, to measure in one case the price, in the other
the amount of the loan. But this coincidence by no means proves that the
two transactions are identical. Today, a deed is used both for leases and
for conveyances of real property, yet that would be a strange argument to
prove that a lease and a conveyance are the same thing! Here
however we are met by a difficulty. If, as some hold, and as I have tried
to prove, we must regard mancipium as an institution of prehistoric
times distinct from the purely contractual nexum, how are we to
explain the fact that nexum is used by Cicerone as *equivalent* to
mancipium, or as a general term signifying, “omne quod per aes et libram
geritur,” whether a loan, a will, or a conveyance? Now first we must
notice the fact that nexum had at any rate not always
been synonymous with mancipium, for if it had been so, there could
have been no doubt in the minds of -- 1 Kauf, p. 130. ^ Mommsen,
Hint. 1. 11. p. 162 n. 3 ad Fam. 7. 30; de Or. 3. 40; Top. 5. 28;
Farad. 5. 1. 35.; pro Mur. 2. * Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28
; Gallua Aelius in Festus, s.u. nexum ; Manilius in Varro, L. L. 7.
105. 24 -- Scaeuola and Varrone that a “res nexa” is the
same thing as a “res mandpata.” This Scaeuola and Varrone both deny.
We must also remember that Mucins Scaeuola was the Papinian of his day.
ManiUus, on the other hand, struck perhaps by the likeness in form
of the obsolete nexum to other still existing iwgotia per aes et Ubram,
seems to have made “nexum” into a generic term for this whole class of
transactions. In this, he was followed by Gallus Aelius'. The wider
meaning given by them to that which was a technical term at the period of
the XII Tables, apparently became the received opinion – received by
them! -- , partly for the very reason that nexum no longer had an
actual existence, partly because neon liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in
matters which had nothing to do with the original nexum, viz., in
the release of judgment-debts and of legacies per damnationem. One pecularity
mentioned by Gaius in the release of such a legacy seems altogether fatal
to the theory that manucipium was but a species of the genus nexum. Gaius
says that “nexi liberatio” could be used only for legacies of
things measured by weight. Such things were the sole objects of the true
nexum, whereas “res manucipii” included land and cattle. Therefore if manucipium
were only a species of nexum we should certainly find “nexi liberatio” applying
to legacies of “res mancipii”, but this, as Gaius shows, is not the
case. The view that nexum was the parent gestum per -- 1
Varro, L. L. vii. 105. ' Festus, p. 165, s. u. nexum. s Gai. III.
173-5. NEXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM-- aes et libram, and that mancipium is
the name given later to one particular form of nexum, is worth
examining at some length, because it is widely accepted, and because it
fundamentally affects our opinion concerning the early history of an
important contract. Bechmann thinks it more reasonable to suppose
that “nexum” *narrowed* from a general to a specific conception. But it
is scarcely conceivable that nexum should have had the vague
generic meaning of “quodcumque per aes et libram geritur” when it was
still a living mode of contract, and the technical meaning of “obligatio
per aes et libram” when such a contractual form no longer exists! What seems
far more likely is that “nexum” has a technical meaning -- until a nexum
ceases to be practiced, subsequently to the Lex Poetilia, and that its
loose meaning – or ‘disimplicature,’ to use Grice’s wording -- was
introduced in the later Republic, partly to denote the binding force of
any contract, partly as a convenient expression for any transaction
per aes et libram. Even in Cicerone we find the “nexum” used chiefly with
a view to elegance of style, in places where “mandpatio” would have been
a clumsy expression and where there could be no doubt as to Cicero’s
meaning. But when he is writing *history*, Cicero uses “nexum” in the sense
it has, even if he concedes that that sense is regarded by some as obsolete. 1
See Beohmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22. 2 lb. p. 131.
" Varro, I. c. — Pestus, s.u.
nexum. » Cf. ''nexu uenditi " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7. 5 Cio. de Or.
iii. 40. 159. 6 Har. Eesp. vii. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28. ' As in
pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. viii. 28.
1. Rejecting then as untenable the notion that nexum denotes a
variety of transactions, let us see how “nexum” originates. The most
obvious way of lending corn or copper or any other ponderable
commodity, was to weigh it out to the borrower, who would naturally at
the same time specify, by word of mouth, the terms on which he
accepted the loan. In order to make the transaction binding, an
obvious precaution would be to call in witnesses, or if the transaction
took place, as it most likely would, in the market-place, the mere publicity
of the loan would be enough. Thus it was that a nexum is originally made.
It was a *formless* agreement, necessarily accompanied by the act
of weighing, and made under public supervision in Rome’s market place –the
present Forum. The nexum deals only with commodities which may be measured with
a scale and a weight, and does not recognize the distinction between res
mancipi and res nee mancipi, — a strong argument that nexum and
mancipium are totally distinct affairs. The sanction of the nexum lies in
the acts of violence which the creditor might see fit to commit
against the debtor, if payment is not performed according to the terms of
his agreement. Personal violence is regulated by The XII Tables, in the
rules of “manus iniectio”. Before that time, it is safe to conjecture
that any form of retaliation against the person or property of the debtor
is freely allowed. The fixing of the number of witnesses at *five*
(why five?) which we find also in mancipium, is the only modification of
nexum that we know of prior to -- '
Gai. FUNCTION OF NEXAL WITNESSES. -- the XII Tables. Bekker suggests that this
change is one of the reforms of Servius Tullius, and that the *five*
witnesses, by representing the *five* classes of the Servian census,
personified the whole people – the Populus Romaus – (the five classes were: the
first class, the second class, the third class, the fourth class, and the fifth
class). This is a mere conjecture by Bekker – and ultimately by Servius Tullius
--, but a very plausible one! For we are told, by Dionysius, that Servius
made *fifty* enactments on the subject of contracts and crimes, and
in another passage of the same author, we find an analogous case of a law
which forbade the exposure of a child except with the approval of *five* witnesses
– one of each class, although usually five first-class citizens did! --. But
here a question has been raised as to what the witnesses did, other than
just BE there. The correct answer, I believe, is that given by Bechmann,
who maintains that the five witnesses approved the transaction as a
whole, and vouched for its being properly and fairly performed. Huschke,
on the other hand, claims that the function of the five witnesses is to
superintend the weighing of the copper, and that before the introduction
of coined money some such public supervision is necessary in order to
convert the raw copper into a lawful medium of exchange. This view
is part of Huschke's theory, that nexum had two marked peculiarities. A
nexum is a legal act performed under public authority, and it was the
recognised mode of measuring out copper money by weight. The
first part of Huschke's theory may be accepted without reserve. The
second part seems quite untenable. We have no evidence to show that
nexum was confined to loans of money or of -- 1 Akt. I. 22 ff. 2
jy_ IS -J jj. 15. * Kauf, I. p. 90. ^ Nex-um, p. 16 ff. -- copper.
Indeed we gather from a passage of Cicerone that corn is the earliest
object of nexum, while Gains states that anything measurable by
weight could be dealt with by nexi solutio. No inference in favour of
Huschke's theory can be drawn from the phrase “negotium per aes et lihram”,
for the phrase obviously dates from the more recent times when the
ceremony had only a formal significance, and when the aes rauduscidum is merely
struck against the scales. If then we reject the second part of Huschke's
theory, and admit, as , we certainly should, that nexum may deal with
any ponderable commodity, it is evident that his whole view as to
the function of the witnesses must collapse also. The reason is obviuous: the
very *idea* of turning copper from a merchandise into a legal tender is
obviously too sophisticated to have ever occurred to the mind of an early
Roman. As Bechmann rightly remarks,
the original object of the Roman state in *making* or minting coin
was not to create an authorised medium of exchange, but simply to
warrant the weight and fineness of the medium most generally used. The
view of Huschke is therefore a total anachronism. There is also
another interpretation of nexum radically different from the one here
advocated, and formerly given by some authorities at Oxford (they tell
me) but which has few if any supporters among modern jurists of the H. L.
A. Hart school, as I might call it. This view was founded upon a loosely
expressed and usually casual remark of Varrone – the grossest etymologist
Rome knew -- in which nexus is defined as -- 1 Cio. de Leg. Agr. ii.
30. 83. ^ in. 175. » Xauf, i. p. 87. * See Sell, Soheurl, Niebuhr,
Christiansen, Puohta, quoted in Danz, BSm. RG. ii. 25. -- a Roman
who gives *himself* into slavery for a debt which he owes (think indenture
by the Irish in New England). The inference drawn from this remark is that
the debtor's body, not the creditor's money, is the object of the nexvm,
and that a debtor who is selling himself by mancipium as a pledge for
the repayment of a loan is said to make a nexum. Such a theory does not
however harmonize with the facts, or indeed, with Roman dignity! The
evidence is entirely opposed to it, for Varrone’s statement admits
of quite a different implicature! Neither “nexum” nor Tnan- cipium
is ever found practised by a Roman upon his body! Nor *could* “nexum”
have applied to the debtor's body, for the idea of treating a debtor like
a res mmicipi or like a thing quod pundere numero C07istat, is absurd.
Again, if nexm = mancipium, the conveyance of the debtor's body as a
pledge must take effect as soon as the money is lent, therefore, by
thus becoming “nexus,” – not ‘nexum’ – the Roman must have been in
mancipio long before a default could occur, which is too strange to be
believed. Furthermore, being in mancipio, the Roman must have been capita
deminutus, which Quintilian expressly states that no nexal debtor
ever is! Clearly then, mancipium was under no circumstances a factor in
nexum,. Thus it would seem that the theory which regards
nexum as a loan of raw copper or other goods measurable by weight, is the
one beset with fewest difficulties. Such goods correspond pretty
nearly to what in the later law were called “res fungihiles”. -- 1
Varro, L. L. vii. 105 and see page 52. 2 nexum inire, Liu. vii. 19.
5. " Paul. Diao. p. 70, s. u. deminutus. * Decl. 311. --.
The borrower was not required to return the very same thing, but an equal
quantity of the same kind of thing. And this explains why nexum, the
first genuine contract amongst the Romans, should have received such
ample protection. A tool – such as a hammer --, or a beast of burden –
such as an ox -- could be lent with but little risk. Both the hammer and the ox
are easily identified. A loan of *corn* -- or, at a later stage, as Cicerone
suggests -- or *copper* -- would have
been attended with very great risk, had not the law been careful to ensure
the publicity of every such transaction. lusiurandum or sponsio
might no doubt have been used for making loans, but they both lacked the
great advantage of accurate measurement, which nexum owes to its
public character. It is the presence of the five witnesses – one for each
of the five social classes -- which raised nexum from a formless loan
into a contract of loan. This sketch of the original nexum is all
that can be given with certainty. The *details* of the picture cannot be filled in, unless, as
Grice does, we draw upon our
imagination. We do not know what verbal (or conversational, if two-part)
agreement (if any) passed between the borrower and the lender. It is
fairly certain that payment of *interest* on the loan might be made a
part of the contract, and not just because of the Jewish influence! We
cannot even be quite sure whether the scale-holder (“libripens”) is an
official, or a passer-by, as some have suggested, or a mere assistant.
Our description of the contract may then be briefly recapitulated
as follows: The form of the nexum consists of the weighing out
and delivery to the borrower of goods measurable by weight, in the
presence of witnesses -- five in number, since the time of Seruius Tullius,
who found out that by census, five were the classes of the Roman people), and whose
attendance ensures the proper performance of the ceremony. The total ownership
of the particular goods passes to the borrower, who is bound to
return an equal quantity of the same kind of goods. The specific terms of each
contract – e. g. “before too long” -- were approximately fixed by a
verbal agreement uttered at the time, at the market place. The sanction
consists of the violent measures which the creditor might choose to take
against a defaulting debtor. Before The XII Tables there seems to
have been no limit to the creditor's power of punishment – “The rope by
default,” as Grice puts it. Any violence against the debtor was approved
by custom and justified by the notoriety of the transaction, so that “self-help”
– or “help me God,” in Grice’s version -- is more easily exercised and probably more
severe in the case of “nexum” than in that of any other agreement.
The release (neooi solutio) is a ceremony preisely similar to that of the
nexum itself, the amount of the loan being weighed and delivered to the
lender, in presence of witnesses – possibly with the addition of the
exchange: “Thank you” “You are very welcome”. We have now examined the three
methods by which a binding promise was made in the earliest period
of Roman history. The next question which confronts us is whether there
existed at that time any *other* method. The forms of contract,
besides these three described – the pactum, the sponsio, and the nexum --,
which are found existing at the later period of The XII Tables, are:
fiducia, lex mancipi, uadimoniv/m, and dotis dictio. Did any of these
have their origin before this time? “Fiducia” is doubtful. “Lex mancipi” owed
its existence to an important provision -- 1 Gai. III. 174. -- of
that code. As to the origin of “vadimonium,” we cannot fee certain, but
judging from a passage in our ever trusted Gellius we are almost forced
to the conclusion that “uadimonium”
was *also* a creation of The XII Tables. Specifically, Gellius
speaks of " uades et subuades et XXV asses et taliones...omnisque
ilia XII Tabularum antiquitas." We know that (exactly) XXV asses is
the fine imposed by The XII Tables for cutting down a Roman’s tree.
Therefore, it would seem from the context that uades had also been
introduced by that code. The point cannot be settled, but the XII
Tables were at any rate the first enactments on the subject of which
anything is known. The only contract of which the remote antiquity is
beyond dispute is the so-called “dotis diction”. Dionysius informs
us that, in the earliest times – “I wasn’t there!” --, a dowry was given with daughters on their
marriage, and that, if the father could not afford this expense, his
client is bound to contribute. Hence, it is clear not only that dos
existed from very early times, but that custom even in remote antiquity
had fenced it about with strict rules. From Ulpian we know that dos could
be bestowed in three ways: by “dotis dictio”, by “dotis promissio”, or,
finally, by “dotis datio”. The promissio was a promise by stipulation, and the
datio was the transfer by mancipation or tradition of the property
constituting the dowry. These two are then easy to understand, even by the one
who was marrying! But this “dotis diction” *is* an obscure subject. It is
difficult to know whence it acquired its binding force as a contract, --
1 xTi. 10. 8. 2 II. 10. 3 Reg. vi. 1. – since, in form, it was *unlike*
all other contracts with which we are acquainted. Its antiquity is
evidenced not only by this peculiarity of form, but also by a passage in
the Theodosian Code which speaks of dotis dictio as conforming with the
ancient law. An illustration occurs in Terence where the father
says, "Dos, Pamphile, est decern talenta.” Pamphilus, the would-be son-in-law,
replies, "Accipio.” But we need not conclude that the transaction is
*always* formal, for the Theodosian Code, in permitting the use of any
form, seems rather to be restating the old law than making a new
enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian and by Gaius is that dotis
dictio may be validly used only by the bride, by her father or cognates
on the father's side, or by a debtor of the bride acting with her
authority. “Dictio” is a significant word, for Ulpian distinguishes
between dictum and promissum. “Dictum,” Ulpian says, is a mere statement.
“Promissum” a binding promise. This distinction doubtless applies in the
present case, since “dotis dictio” and dotis promissio are clearly
different. The following theories seem to be erroneous. Von Meykow holds
that dictio is adopted as a form of promise instead of sponsio for this
family affair of dos, in order not to hurt the feelings of the bride
and of her kinsmen by appearing to question their bona fides. That theory
would be a plausible explanation, if dictio could ever have meant a
-- 1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. ' 3. 13. 4. Reg. VI. 2. ^
Epit. ii. 9. 3. « 21 Dig. 1. 19. Diet. d. Rom. Brautg. p. 5 ff.
B. E. 3 -- promise, but from what Ulpian says, this can
hardly be admitted. Bechmann again connects dotis dictio with the
ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter. The dos, Bechmann thinks,
is promised by a sponsio made at the betrothal, so that the peculiar form
known as dotis dictio is originally nothing more than the
specification of a dowry already promised. The dotis dictio would
therefore have been at first merely a “pactum adiectam”, made actionable
in later times while still preserving its ancient form. The
objection to this theory is that it lacks evidence. The only passage (this
sordid play by Terence) in which dotis dictio is presented to us with a
context goes to show that this contract is in no way connected with
the act of betrothal. Another explanation is given by Czylharz, that dotis
diction is a formal contract. Czyllharz’s view is based on the scholia attached
to the passage of Terence, which say of the bridegroom's answer that
the bridegroom, “ille nisi diodsset ' accipio ' dos non esset."
Czylharz therefore looks upon the contract as an inverted stipulation.
The *offer* of a promise *is* made by the promisor. When *accepted* by
the promisee (via uptake), this offer becomes a contract. Though such a
process is quite in harmony with the notion of a contract, it would
have been a complete anomaly at Rome. We cannot believe that, if
acceptance, or uptake, by the promisee, had been a necessary part of the
dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he
has been so careful to impress -- 1 ESm. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. 2 Z. f. B.
G. vn. 243. -- upon us that the dotis dictio could be made “nulla
interrogatione praecedente”. Thus the view of Czylharz besides being in
itself improbable is almost entirely unsupported by evidence. The scholiast
on Terence need not *mean* that "accipio" is an indispensable
part of the transaction, but a “prop.” The would-be son-in-lawy may merely have
meant (or implicated) that the bridegroom (his self) at this juncture might decline
the proffered dos if he so chooses – as being too low -- This
interpretation of the would-be son-in-law’s implicature is indeed the one borne
out by lulianus and Marcellus, who do give formulae of dotis dictio
*without* any words of acceptance or challenge by the would-be bridgegoom.
A satisfactory solution of the problem seems to have been found by
Danz. Danz looks upon dos as having been due from the father (or generally
male ascendant) of the bride as an officium, pietatis. Danz quotes
passages from Cicerone in which he speaks of refusing to dower a
sister or a daughter as a most shameful thing. (Cicerone had lost his
daughter by this time). The source of the obligation lies in this
relationship to the *bride* -- not in any binding effect of the
dotis dictio itself. But in order that the obligation might be
actionable its amount had to be fixed. This is just what the dictio
accomplishes. It is an acknowledgment of the debt which custom decrees
that the bride's family must pay to the bridegroom. In this respect the
dos is precisely analogous to the debt of service which a former slave
owes as an officium to patron, and which
he acknowledges by the “iurata operarum promissio”. The dos and the
operae were both “officia pietatis”, but -- 1 23 Dig. 3. 44. ^ 23
Dig. 3. 59. ' Rom. BG. 1. 163. ^ See 23 Dig. 3. 2. ' piaut. Trin.
3. 2. 63 ; Cic. Quint. 31. 98. .3—2 -- it became
customary to specify their nature and their quantity. In the one case, this was done by an oath; in the other, by
a simple declaration. In both cases, the law gives an action to protect an
anomalous forms of agreement. What kind of action may be brought on a
dotis dictio is not known. Voigt states it to have been an “actio
dictae dotis”, for which he even gives the Austinian performative formula -- but
formula and action are alike, alas, purely conjectural. We can only infer
that the dotis dictio was actionable since it constitutes a valid contract. How
or when this comes to pass we cannot tell. An advantage of
Danz' theory is that it explains the capacity of the *three* classes of
persons by whom alone dotis dictio could be performed. The father (or
male ascendant) of the bride is bound to provide a dos under
penalty of ignominia. The bride, if
sui iuris, is bound to contribute to the support of the husband's
household – ‘house-work,’ children feeding, cleaning, education -- for exactly the same reason. A debtor of
the bride is bound to carry out her orders with respect to her assets in
his possession. Supposing her whole fortune to have consisted of a debt due to
her, it is evident that a dotis dictio by the debtor is the only way
in which this fortune could be settled as a dos at all. Thus, the
hypothesis that the dos is a debt morally due from the father of the
bride, or from the bride herself, whenever a marriage takes place,
completely explains the curious limitation with -- 1 XII Taf. II. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 3
Cio. Top. -- regard to the parties who could perform dotis dictio. The
nature of the transaction may then be summarized as follows: its form is
an oral declaration on the part of the bride's father (or male cognates), the
bride herself, and a debtor of the bride, that sets forth the nature and amount
of the property which he or she meant to bestow as dowry, and spoken
in the presence of the bridegroom. Land as well as moveables could be
settled in this manner. No particular formula is necessary. The
bridegroom might, if he liked, express himself satisfied with the
dos so specified. But his acceptance does not seem to have been an
essential feature of the proceeding. Most probably, he did not have to
speak at all – just run away! Its sanction does not appear, though we may
be sure that there was *some* action to compel performance of the
promise. This action, whatever it may have been, could of course be
brought by the bride's husband against the maker of the dotis
dictio. In the earliest times, the sanction, is possibly a purely
religious one. Now that we have seen the various ways in which a
binding contract could be made in the earliest period of Roman history,
we may consider briefly the general characteristics of that primitive
contractual system. The first striking point is that all every contract
hitherto mentioned is *unilateral*. The promisor alone is bound, and he is
not entitled, in virtue of the contract, to any counterperformance on the
part of the promisee. 1 Gai. Ep. 3. 9. A second point is that the *consent*
of the parties is not sufficient to bind them. Over and above that
consent, the agreement between them is required to bear the stamp of
divine or popular approval. Even in dotis dictio, as we have just
seen, a simple declaration uttered by the promisor is invested with the force of a contract merely
because the substance of that declaration is a transfer of property
approved and required by public opinion. We also notice that that the (Griceian)
*intention* of the each contracting party *is* expressed. However, the ‘utterance’
employed is not originally of any importance -- except in the one case of sponsion:
Spondesne? Spondeo -- provided the intention is, as Grice notes,
contextually clearly conveyed (cf. his remarks on ‘contextual cancellation’).
We must therefore modify the statement so commonly made that the
earliest known Roman contract is couched in a particular form of words.
For how did each of these particular forms originate and acquire the
shape in which we afterwards find it? By having long been used to
express an agreement which is binding though the type of utterance varies,
it gradually obtains a more technical significance. Consequently the formal
stage is definitely *not* the earliest stage of Contract. The most
primitive contract of all is not an agreement clothed with a form, but an
agreement clothed with the approval of the State – which includes its Religion.
The causes leading to the enactment of the great Reform Bill known
as The XII Tables are chiefly social. The indefinite state of the law
of the Roman state is the grievance which calls most loudly for a remedy.
A contract and a conveyance is but little respected. The powers of the
nexal creditor are sorely abused, and legal procedure in general is
most uncertain. Yet more than all else the law of torts and crimes need
radical reform. So that, though we possess but few actual fragments of The
XII Tables, we have enough to tell us that very little space is devoted
to reforms in the law of contract. This fact ought not to surprise
us, knowing as we do that commerce is still in a very backward
state. We hear nothing of any provision in The XII Tables
with respect to sponsio, but we know, from Cicero, that “iusiurandum” is
recognised and enforced. Dotis dictio is not mentioned. A new form, the
lex mancipi, -- 1 Off. HI, 31. 111.. -- was created by *one*
provision of this code, though its creation was not apparently intended
by the decemvirs, but was rather the result of some juristic
interpretation (or other). Vadimoniitm, a contract, is either created or
considerably modified by the XII Tables, and constitutes the earliest form of
suretyship. As the hard condition of nexal debtors is one of the
evils which leads most directly to the secession of the plebs and to the
consequent enactment of the new code, we should naturally expect to find this
or that law passed for their protection. Accordingly, it is with nexum
that the contractual clauses of the XII Tables are principally
concerned. The first provision as to the contract of the nexum is embodied
in the famous words which Festus transmits to us: CVM nexym
FACIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNCVPASSIT ITA ivs ESTO. This
was equivalent to saying that the language used by the party making a
nexum is to be strictly followed in determining what his rights and
liabilities should be. The fact that such a declaratory law is needed
discloses two features of the earlier nexum. The *act* of weighing, not
the words which accompanied that act, is the essence of the
original transaction. A scale was actually used -- and not symbolically
as it was in later days. The *terms* of a nexal loan are liable to be
disobeyed; if, for instance, -- Festus, p. 171, s.u. nuncupata pecunia.
-- the debtor had agreed to pay at the end of one year, it
might happen that a harsh creditor would enforce payment at the end of six
months. This shows that people are not feared, as witness, to the same
extent as is a god who presides over usiurandum and sponsio. The fact of
the loan is proved beyond question by the witnesses present,. But there
is evidently no sacred virtue in the utterance which go with the loan,
and these are not therefore binding simply because uttered in the addressee’s
hearing. This defect is what the XII Tables aims at correcting. The
Tables thenceforth place the *utterance* of a nexum on as strong a
footing as the utterance of a sponsio. Conditions as to the amount of
interest payable, the date of maturity of the loan, the security to be
given by the debtor, are all now inserted in the nuncupatio. And still more important is
the fact that the sum or amount of the loan itself could be
verbally announced at the ceremony. If the debtor utters: "I
hereby receive, and am bound to repay, XXV asses," this utterance is as
binding upon him *as if* the XXV asses had been actually weighed out to
him in copper. As long as the corn or copper (money) *is* really
weighed in the scale, nexum continues to be a natural and material method
of loan. But when, by the introduction of coined money it becomes possible
to count, instead of weighing, a given quantity of copper, nexum tends to
become an “artificial” and symbolical operation. The reason is, obviously,
that counting is far more simple than weighing. When a loan of XXV asses is
being made. it became customary to name this sum in the nuncupatio *without*
weighing it at all. The scale and the witness appear, as before. But the
scale is not used. The borrower, instead of taking XXV asses out of the
scale-pan, simply strikes the scale pan with a piece of copper, so as to
conform with the outward semblance of the transaction. Though the
weighing had been dispensed with, yet, by this rule of The XII
Tables, he is as much bound in the sum of XXV asses as though they had
actually been weighed out to him. Hence the important effect of the
clause. Given a proper coinage that clause transformed the loan of money
into a datio imaginana and the release of such a loan into an
imaginana solutio. The outward form of nexum remains the same, but the
actual process is greatly simplified. This change is doubtless not
intended when the rule is made by the Decemvirs. It is the result of a
more or less unconscious and probably gradual development. The
genuine weighing and the fictitious weighing doubtless exist side by
side. But it seems fairly certain that the introduction of coined money is
another of the Decemviral reforms. If so, we may assume that the nexum
changed from a ceremony performed with a scale into one performed
with copper and scales -- “negotium per aes et libram” -- not long
after the Decemviral legislation. Another important provision relating
to nexum modified the harsh remedy hitherto applied by the creditor
against the delinquent debtor. -- 1 Mommsen, Som. Munzw. p. 175. --
The words of the XII Tables have been fortunately preserved by Gellius', and
run as follows. AERIS CONFESSI REBVSQVE IVRE IVDICATIS XXX DIES IVSTI
SVNTO. POST DEINDE MANVS INIEGTIO ESTO. IN IVS DVCITO. NI IVDICATVM FACIT AVT QVIS ENDO
EO IN IVRE VINDICIT SECVM DVCITO VINCITO AVT NERVO AVT COMPEDIBVS XV
PONDO NE MINORE AVT SI VOLET MAIORE VINCITO. SI VOLET SVO VIVITO.
NI SVO VIVIT QVI EVM VINCTVM HABEBIT LIBRAS FARRIS ENDO DIES DATO. SI VOLET PLVS
DATO. There are two knotty points in this passage cited by Gellius. What
is the exact distinction between an acknowledged money debt – “aes confessum”
-- and a judgment obtained by regular process of Law – “res iure
iudicatae”? To what class of delinquents did the punishment apply?
It can hardly be doubted that “aes confessum” includes a debt contracted by a nexum,
as well as any other kind of debt the existence of which is not
denied by the debtor. E. g.: a debt incurred by formless agreement or by
sponsio may be an instance of “aes confessum”, provided the debtor
admitted his liability. But in a nexum this liability had already been
admitted solemnly and in front of a witness. To *deny* the existence of
a nexal debt is impossible, even for Descartes! Therefore, “aes confessum”
seems to be a term quite applicable to a debt contracted by a nexum. The
words “aeris nexi” are probably not used in the context because “aeris
confessi” has a wider meaning, and this law -- 1 XX. 1. 43. ^
Ihering, G. d. R. B. i. 156, note.
-- is apparently intended to cover much more than the one
case of nexal indebtedness. The other class of debts here described as “res iure
iudicatae” are no doubt judgment-debts. Where damages had been judicially
awarded to one of the parties to an action, some means have to be
provided of compelling payment from the other party. The executive in
those times was too weak to enforce its decisions, and self-help, as we
have seen, is the usual resource of an aggrieved Roman. The only
way in which the law could assist judgment creditors is by declaring what
extent of retaliation they might lawfully take. And this brings us to the
second question. In what cases is the “manus iniectio” to be exercised ? Voigt remarks that
The XII Tables never mention “manus iniectio” as being a means of
punishing default in a case of nexum. Voigt then proceeds to state that
the remedy for nexum was an “actio pecuniae nuncupatae”. Not only is this statement purely fanciful,
as there is no mention of “actio pecimiae nuncupatae” in any of our
authorities, but Voigt is surely ignored the evidence before him.
Admitting, as we must, that “nexum” is included among the cases named at
the beginning of the clause, we can scarcely avoid the further
conclusion long ago reached by Huschke that the rest of the clause, with
its XXX days of grace, manus iniectio, ductio in ius, and all the
consequences of disregarding the iudicatum, is a description of the
punishment to which a breach of --1 XII Taf, I. 169.-- nexum might lead,
as well as of that annexed to the other kinds of “aes confessum” and to “res
iure iudicatae.” The whole clause is one continuous statement, and to hold that
the latter part of it, beginning at Ni IVDICATVM FACIT, provides a
penalty solely for the case of judgment-debts, seems a very strained
and unnatural interpretation. Why explain “iudicatum” as referring only to
judgment indebtedness ? Just before it, in the text, we find the
direction “IN ivs DVCITO”, so that a nexal debtor after “manus iniectio”
evidently had to be brought into court. The precaution is probably a
new restraint upon the violence of creditors, in order that the
justice of their claims and the propriety of “manus iniectio” might be
judicially determined. But, if a judge had to pronounce upon the validity
of such proceedings, surely his decree might be described by the term “iudicatum”,
as found in the above passage. It involves a vicious circle to say that
the nature of “aes confessum” precludes the possibility of a
judicial decision, and that therefore “iudicatum” can only refer to a res
“iure iudicata”, that is, a judgment-debt. For in spite of this alleged
distinction, we find here that debtors of” aes confessum” and judgment-debtors
were treated in exactly the same way! Each of them is at first seized by
his creditor and brought into court. Now why should this have been
necessary in the case of a “iudicatus” more than in that of a “nexus”? For
a judgment debt seems to need judicial recognition just as little as a
nexal debt. And yet we find that “ductio in ius” is prescribed in both
cases. The only non-circular way of explaining the difficulty, is to take “iudicatum”
not as applying to a judgment-debt but, as being of the essence of a judicial decree. Let the creditor, the
Tables say, bring the debtor into court. Unless the debtor obeys the
decree of the court, or finds meanwhile a champion of his cause in the
court, let the creditor lead him off into private custody, and
fetter him. Thus the “ductio in ius”, the “iudicatum”, the “domum ductio”,
and the directions as to the right kind of fetters and the proper
quantity of food, must all have applied equally to “aes confessum,” including
“nexum,” and to “res iure iudicatae”. This view is confirmed by the
passage in which Livio describes the abolition of the severe
penalties of a nexum,. The bill by which this is done ordained, so Livio
tells us, " nequis, nisi qui noxam meruisset, donee poenam lueret,
in convpedibus aut in neruo teneretur … ita nexi soluti, cautumque in
posteru/m ne necterentur." This law, the “Lex Poetilia”, is
evidently passed for the relief of “nexi”, and relief is given by
abolishing the use of “compedes et neruum”. Now as this is the very
description of fetters given by the XII Tables in our text, it
seems certain that the language of the “Lex Poetilia” referred to this
clause of the Decemviral Code. Hence it follows that the punishment
provided by this code is nexum, which is the view already deduced
from the words of the XII Tables themselves. The contrary interpretation, which
is there- -- 1 PestuB, p. 376, s.u. uindex. ^ viii. 28.
-- fore probably erroneous, has strong supporters in Muirhead
and Voigt. But even though a “iudicatum” was thus necessary in order to
permit the nexal creditor to lead off his debtor into custody, we may
agree with Muirhead that the preliminary “manus iniectio” is within the
power of the nexal creditor without any judicial proceedings. The nexum
being a public transaction, a debt thereby contracted is so notorious as
to justify summary procedure. Before the XII Tables, when self-help
is subject to no regulations, this summary procedure could be carried to
all lengths in the way of severity and cruelty. But, when the XII Tables
interpo the “ductio in ius” for the protection of nexal debtors, no
other precaution against injustice was needful, and a preliminary trial
before the “manus iniectio” would have been so superfluous that we
cannot believe it to have ever been required. The elaborate
provisions for the punishment of debtors do not end with the text which
has come down to us and which has been quoted above. The substance,
though not the actual wording, of the remainder of the law has been
preserved by Gellius. As far as our text goes, the proceedings consist of
“manus iniectio,” the arrest or seizure of the debtor by the
creditor; “ductio in ius”, the bringing of the debtor into court,
that is, before the praetor or consid ; the “iudicatum,” a decree of the
praetor recognising the creditor's claim as just and the proceedings as --
' B. L. p. 158. ^ XII Taf. i. 629. ' xx. 1. 45-52. -- properly
taken. At this stage a vindex may step in on the debtor's behalf. What
was the exact nature of his intervention we cannot know, but from
Festus's definition, he seems to have been a friend of the debtor, who
denies the justice of his arrest and stands up in his defence. By the XII
Tables, this vindex has to be “of the same [social] class” as the debtor
whom he defendes and if his assertions prove to be false he is
liable to a heavy fine. If, on the other hand, his defence is satisfactory to
the Court, further proceedings are doubtless stayed. But if no satisfaction
is given either by the vindex or by the debtor, the creditor is entitled
to lead home his debtor in bondage -- though not in slavery -- and to
bind him with cords or with shackles of not less than 15 lbs. weight.
Meanwhile, the law assumes that the debtor would prefer to live upon his
own resources. This shows that a nexal debtor is not always a bankrupt, and
that it must often have been the *will*, if not the power, to pay which is
wanting in his case. As there exist in those days no means of attaching a
man's property, the only alternative was to attach his body! If, however,
the debtor is really a ruined man and can not afford to support himself,
the law bade the creditor to feed him on the barest diet, by giving him a
pound of corn a day -- or more at the creditor's option. Here our
textual information leaves off and we have to depend on Gellius' account.
Gellius says that this stage of domum duetto and uinctio lasts LX days, and
that during that period a com- -- Gell. XVI. 10. 5. 2 Festus, s. u.
uindex. -- promise might be arranged which would stay
further proceedings. Meanwhile on three successive “nundinae”, or
market-days, the debtor had to be brought into the comitiuni before the
praetor, and there the amount of his debt is publicly proclaimed. This is
a second precaution intended to protect the debtor by giving thorough
publicity to the whole affair. At last, on the third market-day, and at
the expiration of the LX days, the full measure of punishment was meted
out to the unfortunate delinquent. He was addictus by the praetor to his
creditor, and thus passed, from temporary detention, into permanent
slavery. The extreme penalty is said by Gellius to have been death,
and the words in which the former is enacted are given by him as
follows: Tertiis nvndinis partis secanto. Si PLVS MINVSVE SECVERVNT SE
FRAVDE ESTO. The meaning of Gellius’s utterance has been much disputed. Attempts
have been made to soften its explicature. “On the third market-day, let the
creditors cut up and divide the debtor's body. If any debtor should
cut more -- or less -- than his proper share, let the debtor not
suffer on that account." That this is how the ancients understood
the passage, we know from the testimony of Gellius, Quintilian, and
Tertullian. But Gellius and Dio Cassius, though they had no doubts as to
the meaning of the law, both say that -- Gell. XX. 1. 51. ^ Inst.
or. iii. 6. 64. ^ Apol. 4. B. E. 4 -- this barbarous practice
of cutting a debtor in pieces was *never* carried out. The law is thus
what Grice calls “a dead letter”. Some commentators, whose views are ably
summed up by Muirhead, make the most of this admission, and hold that the
interpretation of the utterance-part, “partis secanto,” should be
entirely different. They regard the division of the debtor's body by
the creditor as too shocking a practice to have existed at Rome. Muirhead
assumes “secare” to refer -- as in a later phrase, “bonorwm section” -- to the division
(sectio) – and sale presumably -- of the debtor's property, not his body.
In the event of his property being insufficient to cover the debt, the
debtor is, then -- as Gellius informs us -- sold into slavery
"beyond the Tiber” – for some reason (what the eyes no longer sees
the heart no longer grieves for). The objections to Muirhead’s theory
have been well pointed out by Niebuhr. Not only is it opposed to
all the ancient authorities, who knew at least the traditional meaning of
the XII Tables as handed down to them through many generations, but
it also conflicts with a well recognised principle of early Law. That
principle was that the goods of a debtor are not, categorially and
categorically, responsible for his debts. His *body* is to be made to
suffer. Hs property cannot be touched. It is by no means unusual for
a nexal debtor to support himself while in bondage. This can only be
explained on the supposition that neither his property nor his earnings are
attachable by the creditor. It is this exemption of property which
accounts for -- > Gell.; Dio Cass.; R. Law, p. 208—9. ^ B. G. i. 630. --
the severity of the nexal penalties. Now, a section (division), and sale, of
the debtor's goods would have been quite inconsistent with the whole
system of personal execution so plainly set before us in the rest of
the law. The killing of the debtor was but a fitting climax to his
cruel fate. The inhumanity of the proceeding is not likely to have been
perceived by men who tolerated such barbarities as the lex talionis
and the killing of a son by his paterfamilias. When our authorities
express astonishment at the cruelty of the law, we must remember
that they also lived in a gentler age, in which the powers even of
the paterfamilias are curtailed, and when they confess that they never
knew of an instance in which the law was executed. We may discount
their testimony by recollecting that the nexal penalties of the XII
Tables were abolished centuries before they were even born! Comparative
jurisprudence furnishes another argument in favour of accepting the EXPLICATURE
of the utterance-part, "partis secanto." Kohler has
collected from different quarters various instances of customs
which closely correspond with this harsh treatment of the Roman debtor.
Unless therefore we disregard analogy, probability, and the whole of
the classical evidence, we must clearly take utterer of the XII Tables on
his EXPLICATURE, and understand that the creditor could choose between
selling his debtor into slavery "beyond the Tiber," OR putting
him to death. In the latter case, if there were more than one -- '
Shakesp. v. dem Forum der Jurisp. 4—2 -- creditor, each might
cut up the debtor’s body and each creditor carry off a piece. There
is a third clause of the XII Tables in which nexum. is mentioned, but it
does not alter the form of the contract. As far as we can make out,
it simply declares that certain agents, mysteriously described as, “forcti et
sanates,” shall have an equal right to the advantages of nexum. There is
a clause in the XII Tables intended to secure what Grice calls truthful
testimony, that most essential safeguard to Tieocum: Qui SE SIEEIT
tes- TARIER LIBRIPENSVE PVERIT NI TESTIMONIVM FATI- ATVR
IMPROBVS INTESTABILISQVE ESTO. That is, whoever had been “testis” or
“libripens” at the performance of a “nexum” or “mancipiwm” is was to give
his testimony as to the fact of the transaction, or as to its terms, under
penalty of permanent disqualification. This passage goes to show
what we also gather from other authorities, that the libripens was
a mere witness and not -- as some have wrongly supposed -- a public
official. The phrase "qui libripens fuerit" IMPLICATES that any
citizen might fill the position. Since we find that the “libripens” is
treated like any other witness, it seems clear that he could not have
been a public personage. We are now able to understand the meaning
of Varrone’s remark. "Liber qui suas operas in servitutem pro
pecwnia quam debet dat dum solueret nexus uocatur." This merely
means that a man who contracts a nexum, if unable to repay the -- ^
See Pestus s. u. sanates, Bruns Font. p. 364. 2 Gai. II. 107 ; Ulp. Eeg.
xx. 7. -- loan and therefore subject to an “addiction”, was obliged
to serve like a slave, and retained the epithet of “nexus” (cf. Irish
indenture servitude in New England) till the debt was paid (cf. Vanderbilt). On
the whole, then, the legislation of the XII Tables produces intereting
results. By increasing the importance of the *verbal* -- explicatural --
part of the ceremony, The XII Tables increase the flexibility of the
contract, and eventually change it from a real into a merely symbolical
transaction. The culminating point of the change is reached when the
money constituting the loan is not even weighed out, but merely
named in the nuncupatio, with the borrower languidly striking the
scale-pan with a piece of copper. Another interesting result is that, by
fixing certain limits to the violence of the creditor, the XII Tables soften
the hardships endured by the nexal debtor. Though the extreme penalty
of death is allowed, this may not
be inflicted till the debtor had had many opportunities and ample
time to clear himself. The formula of the nexum having now acquired great
importance, its wording is soon reduced to a definite shape running
somewhat as follows : " Quod ego tibi M lihras hoc aere
aeneaque libra dedi, eas tu 7nihi ... post annum ... cum semissario
foenore. . .dare damnas esto." -- This is the formula adopted by
Huschke and modified by Rudorff. The utterance part, "damnas esto,” appear
to be wrongly rejected by Voigt, who disregards the analogy of the
solutio though that seems our safest guide. The formula of said
solutio is given by Gaius as follows, though Karlowa's reading differs
consider- 1 Nexum, p. 49, etc. -- ably from that of Huschke. Quod ego
tihi tot mill'ihus condemmatus sum, me eo nomine a te solvo liberoque
hoc aere aeneaque libra: hanc tibi libram primam postremximque expendo
secunduTn legem publicam. The XII Tables did not, as far as we know,
contain any clauses affecting “sponsio” or “dotis dictio.” The existence
of those forms at such an early period has to be inferred from other
sources, and there is reason to assert their great antiquity, which
the silence of the XII Tables cannot disprove. “Iusiurandum” is
known to have been approved by the XII Tables, but to what extent
we cannot tell. We may therefore at once proceed to examine one of the
most important innovations of the decemviral Code, viz., the contract
which despite its ambiguous name is known as the “lex mancipi.” The “lex
mancipi,” as the name indicates, is a covenant annexed to the
transaction known as mandpiMm (later as mMndpatio). Let us see first what “mancipium”
is. Ulpian says that it is the mode of transferring property in “res
mancipi”. Gaius describes its use shortly as a fictitious sale,
"imaginaria venditio," and states that it is only performed
between Roman citizens, and applied only to “res mancipi.” Gaius describes
the ceremony. The parties meet in the presence of five witnesses and of a
Roman (called “libripens”), who holds a pair of scales. The --
1 Cic. Off. III. 31 and see above, p. 39. ^ Beg. xix. 3. 8 I.
113.> I. 119-20. -- *object* of the transfer Gaius supposes to
be a slave. The alienor remains passive, but the alienee, grasping
the slave, solemnly declares aloud that he owns the slave by right of
purchase. The alienee then strikes the scales with a piece of copper, and
hands the piece to the alienor as a symbol of the price paid. Such
is our meagre evidence as to the nature of mancipium. On this slender
foundation of fact a vast amount of controversial theory has been
heaped up. One certainty alone can be deduced from the evidence, that mancipium
was not originally a general mode of conveyance, as Gaius and Ulpian
found it in their day. It beguins by being a *genuine* sale for cash, in which
the price paid by the alienee is weighed in the scales and handed
over to the alienor. The muncupatio, or declaration made by the alienee, is
merely explanatory of his right of ownership. The *grasping* of the
object by the alienee – never mind acceptance of the price by the alienor
– is no doubt originally the essential element in the transfer. The utterance
by the alienee probably had at first no more binding effect than the
utterance of the borrower in a nexum. We may be sure that, in such a
state of the law, disputes would often arise as to the terms of the sale.
And it was probably to *prevent* such disputes that The XII Tables
made their famous rule: CVM NExyM FAOIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA
NVNGVPASSIT ITA IVS ESTO. The extraordinary emphasis (“not
nuncu- passit but lingua mmcupassit”) which is here laid upon the
utterance of the ceremony is very striking. Bechmann rightly argues that
it would be wrong to take this rule as referring only to the leges
mandpi, but it seems that it is to the language as ' distinct from
the acts used in the ceremony that the XII Tables meant to give force and
validity. The legal results which followed from seizing the object
of sale in the presence of witnesses, and from weighing out the price to
the seller, had long since been thoroughly well recognised. What The
XII Tables now introduced was the recognition of the utterance which
accompanied this outward act. We can hardly accept the implicature which
Bechmann assigns to the utterance. Bechmann notes the contrast between
words and acts which is implied in the phrase “lingua nuncupassit”, but
he thinks that the object of the rule was to reconcile the language
of the transaction with its real nature. Bechmann’s view is based on the
assumption that even before the XII Tables mancipium had changed
from a genuine into a fictitious sale. In other words, Bechmann assumes
that, while the alienee professes to *buy* the object with money weighed
in the scales, he really weighs no money, but hands to the alienor
a piece of copper, "quasi pretii loco." In fact the “imaginaria
uenditio” of classical times is, according to Bechmann, already in vogue.
The purpose of the XII Tables is therefore to confirm this change,
by declaring that the words, and not the acts of the parties, should
henceforth have legal effect. It was as if this law said. Pay no
attention to the acts of the alienee, but listen to grasp his utterance.
He is merely delivering a piece of copper -- 1 Kauf -- but do not imagine that this is the
whole price due. In his declaration, the alienee states that the
price is such and such. Let that be considered the real price of
the object. Let also the outward ceremony be regarded as a mere fiction.
All this appears to be a very far-fetched interpretation of “lingua nuTwupassit”,
and the assumption on which Bechmann has based it seems unwarranted, for more
than one reason. We do not know that “mancipium” has already turned into
an “imaginaria uenditio”. There is not one shred of evidence to prove that
such a change had occurred before the XII Tables. So far indeed
from preceding the XII Tables, the change would seem to have been
directly caused by them. Until coin was introduced, the weighing of
the purchase-money was clearly necessary. If, as there is good
reason to believe, coinage is finstituted by the Decemvirs, the actual
weighing must have continued till their time. If, on the other hand, we
suppose that coined money is a much older institution (Cornelius Nepos de
uir. ill. 7. 8. attributes its invention to Servius Tullius), so that the
actual weighing had long been dispensed with, mancipium may still *not* have
been an “imaginaria uenditio”, because we can imagine no way in
which a sale on *credit* could have been practised before the XII
Tables. How could a vendor have permitted his property to be conveyed to a
purchaser for a nominal and fictitious price, when the mancupatio was as
yet devoid of legal force ? After the uti lingua nuncupassit of the XII
Tables, the nuncupatio doubtless specifies the exact amount of the
purchase-money. This the alienor might lawfully claim. Moreover, before the
Decemviral reforms, mancipium transfers full ownership to the purchaser,
and the seller might have clamoured in vain for his money, unless he had
previously taken security by means of vxidvmoniwm or sponsio. For since a
well known provision of the XII Tables was that no property should
pass in things sold till the purchase-money was either paid or secured, we are
bound to infer that, before this, the very reverse was the case. Property DID
pass even when the price had not been paid. Such having been the early
law, how can we hold, as Bechmann does, that the cash payment of
the purchase-money was frequently not required, though the forms of
weighing etc. were carried out in the original manner? He urges that
credit, not cash, must often have been employed, because we cannot
reasonably suppose that cash payment was possible in every case. But the
force of his argument is weakened by the fact that mancipation is only
practised to a limited extent. Tradition is the most ordinary mode of
transfer employed in every-day life. And in a solemn affair such as
mancipium, where five witnesses and a scale-holder had to be summoned
before anything could be done, it cannot have been a great
hardship for the purchaser to be obliged to bring his purchase-money and
weigh it on the spot. Instead of credit purchases having been usual before
the XII Tables, -- 1 2 Inst. 1. 41.
, 2 j[^uf, I. p. 160. s ib. p. 1S8. -- it seems likely that the XII Tables
virtually introduced them. For, by enacting that NO property should pass
until the price is paid or secured to the vendor, the Decemvirs make it
possible for the conveyance and the payment of the price to be
separately performed. Mancipium is thus made to resemble in one respect a
modern deed. The vendor who has executed a deed, before receiving
the purchase-money, has a vendor's lien upon the property for the amount
of the price still owing to him. Similarly, the “mancipio dans” who had
not received the full price, retained his ownership of the property
until that full price is paid to him, or security given for its
payment. We may therefore reject Bechmann's idea that the
utterance-part “lingua nuncupassit” refers principally to the fixing of
price in the muncupatio. That utterance-part simply gives legal force to the
solemn utterance made in the course of mancipium. On the one hand, the
utterance-part binds the seller to abide by the price named, and to
deliver the object of sale in the condition specified by the buyer. On
the other hand, the utterance-part compels the buyer to pay the
full price stated in the muncupatio, and to carry out all such
terms of the sale as are therein expressed. In short, every “lex mancipi”
embodied in the muncupatio becomes henceforth a binding contract.
It is natural to inquire next what kind of agreement might
constitute a “lex mancipi”. The muncupatio placed by Gaius in the mouth of
the purchaser runs thus: " Hunc ego hominem ex
iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emtus esto hoc aere
aeneaqiie libra.To this might no doubt be annexed various qualifications,
and these were the leges in question. Voigt indeed considers that
these leges might contain every conceivable provision. But Bechmann seems to
come nearer to the truth in stating that no provision conflicting
with the original conception of mancipium as a sale for cash could
be inserted in the muncupatio. For instance, Papinian states that no
suspensive condition could be introduced into the formula of mancipiwm.
The reason of this obviously is that suspensive conditions are
inconsistent with the notion of a cash sale. The purchaser could
not take the object as his own and then qualify this proceeding by
a condition rendering the ownership doubtful, A resolutive condition is
also out of the question, for when the mancipium is transferred the
ownership and the price is paid, it would have been absurd to say that
the occurrence of some future event would rescind the sale. The
transfer is in theory instantaneous. No future event may affect it.
The following then are a few cases in which the “lex mancipi” could
or could not be properly used: The creation of an usufruct by
reservation could be thus made', and the formula is given to us by
Paulus : " Emtus mihi esto pretio dedvxito usu-
frtijctu*." Property could thereby be warranted free -- 1
XII Taf. II. 469. ^ y^t. Frag. 329. 3 Vat. Frag. 47. * Vat. Frag. --
from all servitudes by the addition to the nuncupatio of the words
"uti optimus matvimiisque sit^." The means by which the vendor is
punished if the property fails to reach this standard of excellence
are worth examining, though! The contents and description of landed
property might be inserted in the nuncupatio, and if they were so
inserted the vendor is bound to furnish as much as was agreed upon.
Failing this, the deceived purchaser, so Paolo Diacono tells us, could
bring against the vendor an actio de modo agri, which entailed damages in
duplum. The accessories of the thing sold, destined to be passed by
the same conveyance, are also doubtless be mentioned. We might
naturally have supposed that the quality of this or that slave or of this
or that specimen of cattle could have been described just as well as the
content of an estate. Cicero says : "Cum ex XII Tabulis satis erat
ea praestari quue essent lingua nuncupata" -- as though
descriptions of all kinds might be given in the nuncupatio. Nevertheless
Bechmann has shown that such is not the case, inasmuch as we find
no traces of any action grounded upon a false description of
quality. The only actions which we find to protect mancipium are the
actio auctoritatis and the actio de modo agri. There is no authority
for supposing, as Voigt does, that the actio de modo agri is not a
technical but a loose term used by Paolo Diacono. According to Voigt,
there was an action -- 1 18 Dig. 1. 59. ^ Sent. i. 19. 1. ^ Off.
iii. 16. 65. « Eauf, I. p. 249. ^ XII Taf. (the name of which
has perished) to enforce all the terms of a nuncupatio of whatever kind.
The so-called actio de modo agri would then have been only a variety of
this general action. This theory is inadmissible. In making his solemn
list of the actiones in dztpZwm ^Paolo Diacono would hardly have
used the clumsy phrase “actio de modo agri”, if there had been a comprehensive
term including that very thing. Consequently, the general *description* of
a specific slave or a specimen of cattle in the nuncwpatio does not seem to
have been in practice allowed. The greater protection thus afforded
to a purchaser of land than to one of other res mancipi may probably be
explained by the fact that land is not, and could not, be conveyed inter
praesentes, whereas a slave or an ox could be brought to the scene of the
mancipiwrn and their purchaser sees exactly what is was
buying. Provisions as to credit and payment by instalment might also
be embodied as leges in the nwncupatio. This has been denied by
Bechmann, Keller, and Ihering, but their reasons seem far from
convincing. We may indeed fully admit their view for the period prior to
the XII Tables, since there was then no coinage, and mancipium was an
absolute conveyance of ownership. But once coinage is introduced, when
mancipium is capable of transferring dominium only after payment of
the price, and when the oral part of mancipium receives legal validity
from the XII Tables, the whole situation changes. 1 Sent. I.
19. 1. 2 j^auf, i. p. 42. 3 Imt. 33. •> Geist d. R. R., ii.
530. -- If it be said that credit is inconsistent with the
notion of mancipium as an unconditional cash transac-tion, we may reply that
this exceptional lex is clearly authorised by the XII Tables, since its
use is implied in the legislative change above mentioned. If it be
urged that no action can be found to enforce any such lex, the obvious
answer is that no action is needed, inasmuch as the ownership does not
vest in the vendee till the vendor's claims were satisfied. Therefore, if
the vendee never pays at all, the vendor's simple remedy is to recover
his property by a “rei uindicatio”. Nor is there much force in the
argument that clauses providing for credit would have been out of place
in the nuncupatio because inconsistent with the formula, “Hanc rem meam
esse aio, mihique emta esto." On the one hand it is probably a
mistake to suppose that this fixed form is *always* used. The expression,
“uti lingua nuncupassit,” seems to implicate that the oral part of
mancipium and nexum is to be framed so as best to express the intentions
of the parties. The same conclusion may be drawn from the
comparison of the formulae of mancipatio given in Gaius. On the
other hand, admitting that " hanc rem meam esse aio, etc." is a
necessary part of the nuncupatio, it must have been used in mancipations
made on credit, which by the XII Tables could not convey immediate
ownership, and the existence of which in classical times no one denies.
We are forced then to conclude either that "hanc rem meam esse
aio" is not the phrase used at a sale on credit, or else -- 1 2 Inst. 1. 41 and see p. 58. '' i. 119 and
ii. 104. -- that it becomes so far a stereotyped form of
words that it could be used NOT only as conveying its EXPLICATURE,
but also as applying to credit transactions which the Decemviral Code so
clearly contemplated. It is indeed inconceivable that if the price is, as
every one admits, specified in the mmcupatio, the terms of payment
should not have been specified also. It is worth while to notice
how the legal conception of mancipium is indirectly altered by the
XII Tables. That very important clause which prevented the transfer of
ownership in things sold, until a full equivalent is furnished by the vendee,
had the effect of separating the two elements of which mancipimn
consisted. Delivery of the wares and receipt of the price are at first
simultaneous. Later, they could be effected singly. Thus mancipium becomes
a mere conveyance, and after a while, as is natural, the notion of sale
almost completely disappears, so that mancipium came to be what it
was in Gaius's system, the universal mode of alienating “res mancipi”.
The “lex mancipi”, as we have now considered it, is an integral
part of the formula of viancipium which the vendee or alienee solemnly
uttered. Gaius and Ulpian give us no hint that the vendor or
alienor plays any part beyond receiving the price from the other party.
But is this really so? Could the vendee have known how to word his
formula if the vendor remains altogether silent ? We have therefore to
enquire what share the vendor took in framing the -- 1 2 Inst. 1.
41. -- vendor's dicta. 65 leges mancipi, and how
the lex mancipi was enforced against him. The part played by the
vendor is denoted in many passages of the Digest by the word “dicere”.
In others, the word “praedicere,” or “commemorare” expresses the same idea, and
we find that the vendor sometimes made a written and sealed declaration. The
object of such dicta was to describe the property about to be sold and
they necessarily preceded the mancipium, or actual conveyance. They are
thus no part of the mancipatory ceremonial and are quite distinct from the
nuncupatio uttered by the vendee, which explains their not being
mentioned by Gaius in his account of mancipatio. It is to such
dicta that Cicerone doubtless alludes', when he says that by the XII
Tables the vendor is bound to furnish only "quae essent lingua
nimcupata" but that in course of time " a iureconsultis etiam
reticentiae poena est constituta." The reticentia here mentioned was
evidently not that of the vendee, but was a concealment by the vendor of
some defect in the object which he wished to sell, and hence this
passage is useful as showing the contrast between nuncupatio and dictum.
The former might repeat the statements contained in the latter,
thus turning them into true leges mancipi, and this explains the fact
that “lex mancipi” (or, in the Digest, “lex uenditionis”), is sometimes used in
the derived 1 e.g. 21 Big. 1. 33, and 18 Dig. Dig. 1. 21. fr. 1. » 19
Dig. 1. 41. * 19 Dig. 1. 13. fr. 6. 5 19 Dig. 1. 6. fr. 4. « i.
119. = Off. III. 16. 8 19 Dig. 1. 17. fr. 6. B. E.
5, -- interpretation of the vendor's dictum, as well as with
the primary meaning or interpretation – or explicature -- of the vendee's
nwncupatio. The leges embodied in the nuncupatio were thus binding
on the vendor, whereas his dictum is at first of no legal importance. But
in course of time the dicta come also to be regulated, and though their
terms are not formal and are never required to be identical with
those of the nwncupatio, yet it is essential that the vendor, in making them, should
not *conceal* any serious defects in the property. The dictum itself
produced no obligation. That could only be created by incorporating the
dictum, into the nuncupatio. The only function of dictum seems to have
been to exempt the vendor from responsibility and from all suspicion of
fraud. This is well illustrated by a case to which Cicero' refers, where
Gratidianus the vendor “fails” to mention, " nominatim dicere
in lege mancipi " (here used in the secondary interpretation), some
defect in a house which he was selling. Cicero remarks that, in his opinion,
Gratidianus is bound to make up to the vendee any loss occasioned by his
silence. Bechmann questions whether the action brought against
Gratidianus was the “ocii'o eniti or the actio auotoritatis. But from the
way in which Cicero speaks, it seems almost certain that he had been
trying to bring a new breach of bona fides under the operation of the
actio emti, and had not been pleading in a case of actio auctoritatis,
which would scarcely have been open to such freedom of interpretation. We
cannot therefore agree with Bechmann that dicta not embodied in the
nv/ncupatio -- 1 Or. 1. 89. 178. 2 Kauf, i. p. 257. -- could
be treated as nuncupata and made the ground for an actio auctoritatis,
though we know that in later times they may be enforced by the actio
emti. The distinction between the formal nuncupata and the informal
dicta is never lost sight of, so far as we can discover from any of our
authorities, nor is dictum ever said to have been actionable until
long after the actio emti is introduced. The matters contained in
the dicta of the vendor were descriptions of fixtures or of property passing
with an estate', (of servitudes to which an estate was subject, or
of servitudes enjoyed by the estate. It is noticeable that these are all
mere statements of fact and that they exactly agree with the
definition given by Ulpian, who expressly excludes from dictum the
idea of a binding promise. Thus the distinction between nuncujpatio and
dictio may be contrasted. Nwmupatio belonged only to mancipium,, whereas
dictio might appear in sales of res nee mancipi as well as in mancipatory
sales. Nuncupatio is a solemn and binding formula; dictio was formless
and, until the introduction of the actio emti, not binding.
Nuncupatio does not touch upon the quality of the thing sold,
whereas dictio might give, and eventually is bound to give, full
information on this point. We must notice in conclusion what
Bechmann -- 1 19 Big. 1. 26. = 21 Big. Cio. Or. I. 39. 179. * 21
Big. 1. 19. « 19 Big. -- has pointed out that lex, besides meaning
a condition embodied in a sale or mancipation, signifies also a general
statement of the terms of a sale or hire. This sense occurs in Varrone,
Vitruvio, Cicerone, &c., and should be borne in mind, in order to
avoid confusion and to understand such passages correctly. The
methods by which the true leges nuneitpatae could be enforced are two. Actio de
modo agri. Of this we only know that it aims at recovering double damages
from the vendor who inserts in the nuncupatio a false statement as to the
acreage of the land conveyed; Actio auctoritatis (so called by modern
civilians). This was an action to enforce auctoritas, an obligation
created by the XII Tables, whereby the vendor who had executed a
mancipatory conveyance is bound to support the vendee against all
persons evicting him or claiming a paramount title. “Auctor”
apparently means one who supplies the want of legal power in another, and
thereby assists him to maintain his rights. It is so used in “tutela”, of
the guardian who gives auctoritas to the legal acts of his ward. In
the present case, “auctor” means one who makes good another man's claim
of title by defending it. This explains why the obligation of auctoritas
varied in duration according to the nature of the thing sold. Thus, if
the thing was a moveable (e.g. an ox, or a slave) the auctoritas of the
vendor lasted I year, since the usucapio of the vendee made it un- -- 1
Eauf, I. p. 265. 2 £. ^ vi. 74. » i. 1. 10. « Part. or. 31. 107. ^
Leuel, Z. d. Sav. Stift. E. A. in. 190. s Lenel, Ed. perp. p. 424.
' Cic. Gaec. 19. 54. necessary after that time. But if the thing
sold was land, usucapion may not, by the XII Tables, take place in
less than II years, and the avctoritas is prolonged accordingly. The penalty
for an unsuccessful assertion of auctoritas was a sum equal to twice the
price paid. This shows that at the date of the XII Tables, as we have
seen, mancipium is still a genuine sale and involved the payment of
the full cash price. The same conclusion is drawn from Paolo Diacono’s express
statement that unless the purchase money is received no auctoritas is
incurred. This last rule is a logical (analytical, conceptual) sequence or
corollary of the enactment that no property vested until payment is
fully made. It is conceptually impossible that the vendee should need the
protection of an auctor before he himself acquires title. The
question has been much debated however by so-called analytic masters of
jurisprudence, such as H. L. A. Hart – as to whether this liability of a
vendor to defend his purchaser's title arose ipso iure out of the
mancipation, or whether it was the product of a special agreement.
The latter view is held by Karlowa, a tuttee of Hart’s - and Ihering – another
one! -- but the weight of evidence against it seems to be
overwhelming. Paolo Diacono expressly states that warranty of title is given
in sales of res nee maiicipi by the stipulatio duplae, but exists ipso
iure in sales by mancipation. Varrone says that if a slave is not
conveyed -- 1 Cio. Top. i. 23. 2 Paul. Sent. ii. 17. 2-3.
3 L. A. 75. Geist des R. R. m. 540. 5 See Girard, in N. E. H. de
D. 1882. (6me Annge) p. 180. 6 Sent. II. 17. 1-3. ^ R. R. -- by mancipation, his purchaser's
title should be protected by means of what Varrone calls a “stipulatio
smvplae uel duplae.” What Varrone is getting at, via implicature, is that, in a
cases of mancipation such a step is obviously (conceptually)
unnecessary. In recommending forms for contracts of sale, Varrone
therefore aptly advises the use of the stipulatio in sales of res nee
mancipi'. Varrone gives no such advice and mentions no stipulatory
warranty in the case of res mancipi, which proves our (and Varrone’s)
point. We find that there are two ways in which the vendor could escape
the liability of aitctoritas. Either the vendor could refuse to mancipate, or he
could have a merely nominal price inserted in the nuncupatio -- the real
price being a matter of private understanding between him and the vendee
-- so that the penalty for failing to appear as auctor becomes a
negligible quantity. This we actually find in a mancipatio HS nummo uno, of
which an inscription is preserved the terms' where the object in
mentioning so small a sum must have been to minimise the poena dupli
in case the purchaser M'as evicted. Both these expedients to avoid
liability are absolutely fatal to the theory of a special nwncupdtio as
the source of auctoritas. In short, from all this evidence we must
conclude that, after the enactment of the XII Tables, mandpium contains
an implied warranty of the vendee's title. The origin of the
heavy penalty for failing to uphold successfully a purchaser's title has
also been much debated (what hasn’t?). Bechmann'' attributes its severity
to -- 1 R. E. n. 2. 6, and 3. 8. " Plant. Pers. 4. 3.
S7. » Bruns, Font: 251. * Kauf, i. p. 121. -- a desire
to punish the vendor who had suffered his vendee to say "hanc rem
meam esse aio," when he KNOWS that such was NOT the case. This
would have been to punish the vendor for reticentia, which was not
done till much later times, as we know from Cicerone. Moreover as we
cannot be sure that the phrase " hanc rem meam esse aio " is
invariably used in mancipium, this view of Bechmann's comes too
near to the theory of the nuncupative origin of auctoritas, not to
mention the fact that it fails to explain why the penalty was duphmi
instead of simplum! The best theory is probably that of Ihering. Ihering sees
in the “poena dupli” a form of the penalty for furtum nee manifestum. It
may be true, as Girard points out, that the actio auctoritatis is not an
actio furti in every respect. The sale of land to which the seller has no
good title lacks the great characteristic of furtum, that of being
committed inuito domino. The real owner of the land may be entirely
ignorant of the transaction! Still it is plain that the conscious keeping and
selling of what one KNOWS to be another man's property is a kind of
theft – say, the Brooklyn Bridge --. In that primitive condition of the
law, it was thought unnecessary to impose different penalties on the bona
fide vendor whose trespass was unconscious or, as Grice prefers,
UN-intentional, and on the vendor who is intentionally fraudulent. This “poena
dupli” can hardly be explained as a “poena infttiationis”, for if
such, would not Paolo Diacono have been sure to mention it among his
other instances of the latter penalty? -- ^ Geist des R. R. in.
229. ' loc. eit. p. 216. " Paul. Sent. Auctoritas is supplied
by the vendor whenever any third person, within the statutory
period of one or two years, attacks the ownership of the vendee by a m
uindicatio, or by a uindioatio libertatis causa if the thing sold is a
slave, or by any other assertion of paramount title. Bechmann seems
to be right in holding that the warranty of title also extends to all
real servitudes enjoyed by the property, and to any other accessiones
which had been incorporated in the nwncwpatio. To attack the
vendee's claim in that respect is to attack a part of the res mancipata.
Hence actio avctoritatis is the remedy mentioned in connection with the
true leges mancipi, and we may hold, with Bechmann and Girard, that the
actio auctoritatis and the actio de modo agri are the only
available methods of punishment for the non-fulfilment of a lex
mancipi. How the vendor is brought into court as aioctor is a
question not easy to answer. But in Cicerone we find an action described
as being “in auctorem praesentem,” and apparently opening with the
formula. “Quando in iure te conspicio, quaero anne fias auctor." The
opening words do not lead us to suppose that the vendor is summoned,
but rather that he had casually come into court. This formula is
probably uttered by the judge, in every case of eviction, before the
inauguration of the actio avxytoritatis, in order to give the defendant
an opportunity of answering and so of avoiding the charge. -- loc. cit. p. 203. 3 Gaec. 19. 64 ;
Mm: 12. 26. < Lenel, Ed. Perp. If no answer is made to the judge’s
implicatural question, the vendor is held to have defaulted, and the
vendee might properly proceed to bring his actio auctoritatis for
punitive damages. But supposing that the “auctor” duly appeared to defend
his vendee, what were his duties? It is not probable that he takes
the place of the vendee as defendant, because “auctor” does not seem to imply
this, and because the vendor having conveyed away all his rights
had no longer any interest in the property. The most probable
solution seems to be that which regards the “auctor” simply as an
indispensable witness. In the XII Tables we know what severe penalties are
laid upon a witness who did not appear, as well as upon one who bears false
testimony. Now an auctor who appears but fails to prove his case is
clearly a false witness. One who fails to appear is an absconding witness. This
is probably an additional reason for the severe punishment inflicted on
the auctor by the XII Tables. Thus the ingenious supposition of Voigt',
that the vendor cannot possibly have incurred so heavy a penalty by
mere silent acquiescence in the nuncupatio of the vendee, and must
therefore have made a nuncupatio of his own in which he repeats the words
used by the vendee, seems to be purely gratuitous as well as wholly
unsupported by evidence. Another question to be considered is: did auctoritas
apply solely to the warranty of things alienated by mancipium -- or did it
also apply to things alienated by in iure cessio? An answer in -- » XII Taf. ii. 120. – on the broader
side is given by Huschke who cites Gaius as proving that mancipatio and
in iure cessio have identical effects. But this is at best a loose
statement of Gaius's, and cannot prevail against the stronger evidence
which goes to prove that auctoritas is a feature peculiar to mancipmm. Bekker
points out that in iure cessio cannot have produced the obligation of
auctoritas, because the in iure cedcTis takes no part in the proceedings
beyond making default, and cannot therefore have made deceptive
representations rendering him in any way responsible. In iure cessio must
then have been from its very nature a conveyance without warranty, and Paolo
Diacono confirms this inference by stating that the three requisites of
auctoritas are mancipatio, payment of the price, and delivery of the res
– ox or slave. The Lex mancipi in its primary meaning, is a clause
forming part of the mmcupatio spoken by the vendee in the course of
mancipiimi, and constituting a binding contract. It might embody
descriptions of quantity, specifications of servitudes whether
active or passive, conditions as to payment, and any other provisions not
conflicting with the original conception of mancipium as a cash
sale. In its secondary, derived, loose, meaning, which we must
carefully distinguish, it referred to the dicta made by the vendor.
-- Nexum, p. 9. ^ li. 22. s Akt. I. p. 33, note 10. * Sent.
ii. 17. 1-3. We even find lex mancipi applied to the terms of sale
as a whole, including nuncupatio, dicta, and any other private agreement
between the parties respecting the sale. The two means of enforcing
leos mancipi in its PROPER (and only) sense were actio de modo agri and actio
auctoritatis. Auctoritas is an implied warranty of title introduced
by the XII Tables into every mancipatory conveyance, subject to the condition
precedent that the vendee must have received the goods and paid the
price. If the vendee is evicted, his proper remedy is the actio
auctoritatis (most probably, an instance of “legis actio sacramento”),
the object of which was to recover punitive damages of double the amount
of the price paid, and which could be brought against the vendor
within II years, if the object sold was an immoveable, and within one
year, if a moveable – an ox or a slave, or two. Since the lew
mancipi is often credited with a still wider function, we are next
brought to consider the agreement known as fidticia. The agreement of
fiducia is thought by many scholars to have been a species of lex
mancipi, and consequently a creation of the XII Tables. Among those
who thus regard fiducia as an agreement contained in the nuncupatio are
Huschke, Voigt, Eudorfif, and Moyle. The first philosopher of any
weight – if however, not Oxonian -- who disputed the correctness of this
view -- 1 Girard, I.e. p. 207. ^ Nexum, pp. 76, 117. s
XII Taf. II. 477. * Z. fur EG. xi. 52. 5 App. 2 to his ed. of the
Inst. – is Ihering, and, the bad thing, is that he is now being followed
by Bekker – not to mention Bechmami, and Degenkolb. The view held by theis
bunch of philosophers would seem to be the only tenable one, alas. They
assert that “fiducia” is not a part of mancipium. Fiducia is simply an
ancillary agreement tacked on to mancipium and couched in no specific
form. The argument against the former theory are that fiducia might exist
in cases of in iure cessio as well as in cases of mancipium. Now in
iure cessio gives no opportunity for the introduction of nuncupative
contract. How then can a nuncupatio containing a fiducia have been
introduced among the formalities of the uindicatio? Doh! We know
that the actio fiduciae is bonae fidei, and ionae fidei actions are of
comparatively late (i. e. sophisticated) introduction. How then is this
fact to be reconciled with the theory which derives fiducia from the
nuncupatio of the XII Tables ? Voigt states that the actio fidiuiiae is
but one form of the ordinary action on a lex mxmcipi (in fact, Voigt regards
every lex mancipi as having been actionable). But Voigt gives no
explanation of the surprising fact that fiducia alone of all the species
of lex mancipi should have been provided with an actio bonae
fidei. If we admit that the only actions based upon mancipium are
the actio auxitoritatis and the actio de modo agri, how can the
actio fiduciae be classed with either ? Geist des R. R. ii. p. S56. =
Akt. i. 124. 3 Kauf, i. p. 287. « Z. fur RG. ix. p. 171.
" XII Taf. II. The strongest piece of evidence which we
possess in favour of Ihering's theory (which Ihering never saw) may well consist
of a bronze tablet inscribed with the terms of a pactum fiduciae which
Degenkolb has carefully criticised and which seems to be conclusive in
favour of our view. It contains, not a copy of the words used in
mancipation, but a report of the substance of a fiduciary
transaction. The mancipation is said to have taken place first,
fidi fiduciae causa, and then the terms of the fiducia are said to have
been arranged in a pactum conuentum between the parties: Titius and Baianus. It
is evident from the language of the tablet that this fiduciary
compact is independent of the mancipatio and informally expressed. Any
attempt, such as those made by Huschke and Rudorff, to reconstruct
the formula of fiducia, and to fit such a formula into the nuncupatio of
mancipium, is necessarily futile. Voigt has even taken pains to give us
the language used in the arbitrimn by which, according to him,
fiducia is enforced. This bold restoration is a good instance of Voigt's
method of supplementing history, -- or ‘inventing’ it, as Grice prefers --
but it cannot be said materially to advance our knowledge of things.
We are nowhere told that fiducia could not be applied to cases of
traditio, and a priori there is no reason why this should not have been
the case. Yet all our instances of its use connect it solely with
mancipatio or in iure cessio*, and all the -- 1 Printed in C. I. L.
No. 5042 and Bruns, Font. p. 251. 2 Z. filr EG. IX. pp. 117—179. ''
XII Taf. ii. p. 480. * Isid. Orig. v. 25. 23 ; Gai. ii. 59 ; Boeth.
ad Gic. Top.] authorities, except Muther, are agreed in thus limiting its
scope. If indeed we could extend fiducia to cases of traditio, it would
be very hard to see why there should not have been a contractibs
fiduciae as well as a contraxitus cotnmodati, depositi or pignoris. We
know from Gaius that fiducia is often
practised with exactly the same purpose as pignut or depositum, and we
may reasonably infer that it is the presence of mancipaiio or in
iure cessio which causes the transaction to be described, not as
pigrms or depositum, but as fiducia. If we admit that fiducia is never
connected with traditio, we can readily see why it never becomes a
distinct contract. Bechmann' points out that in iure cessio or
mancipatio is naturally regarded as the principal feature in such transactions
as adoptions, emancipations, coemtiones, etc. The solemn transfer
of ownership is in all these cases so prominent, that fiducia was always
regarded as a mere pactum adiectum. If then we cannot admit fiducia
to any higher rank than that of a formless pactum, it follows that
the actio fiduciae, being borme fidei, and therefore most unlikely to
have existed at the period of the XII Tables, must have originated many
years later than fidvMa itself, which as a modification of
mancipatio probably dated from remote antiquity; This may serve as an
excuse for discussing ^tfcia in this place, although the XII Tables do
not actually mention it. But it must have existed soon after that
legislation, since it was the only mode of accom- -- 1
Sequestration," ii. 60. s Kauf] plishing the emancipation of a
filiusfamilias as based upon the XII Tables. The theory that fiducia
originated long before the actio fiduciae is corroborated by the account
which Gaius gives of the peculiar form of usucapio called usureceptio.
This is the method by which the former owner of property which had been
mancipated or ceded by him subject to a fiducia may recover his ownership by
one year's uninterrupted possession. It differs from ordinary usucapio
only in the fact that the trespass is deliberate, and that
immoveable as well as moveable things – a slave, two slaves -- could be
thus reacquired in one year instead of in two. This peculiarity as
to the time involved may perhaps be explained by supposing that the
objects of fiducia were originally persons (slaves) and therefore res
mobiles, or else consisted of whole estates which, like
hereditates, would rank in the interpretation of the XII Tables as
ceterae res. Now ii fiducia had been incorporated, as some think, in the
formula oi mancipium, and had been actionable by means of an actio
fiduciae based on the lex mancipi, could not the owner have recovered
the value of his property by bringing this action, instead of
having been forced to abide the tedious and doubtful result of a whole
year's possession ? The fact noted by Gaius that where no money is paid
no usureceptio is necessary, simply follows from the well-known rule
that an in iure cedens as well as a mancipio dans does not lose his
dominium until the price had been fully paid to him. We may therefore
conclude that mancipatio fiduciae causa resembled in its effect any -- 1 II. 59-60. -- other mancipatio.
If this be the case, then fduda must for many years have been an informal
and non-actionable pactum, supported by fides and by nothing else.
Bechmann holds that' the object of the fiduciary mancipation is expressed in the nuncupatio by the insertion
of the utterance-part, “fidi fiduciae causa”. But this is a minor
point which it is impossible to determine with certainty. Fiducia
then may be briefly described as a formless pactum, adiectwm, annexed to
Tmrndpatio or in iure cessio, but not originally enforceable by action.
Fiducia thus has no claim at this early date to be considered as a
contract. On the other hand, vadimonium is a contract which we know
to have been mentioned – if not introduced -- by the XII Tables^. Gellius,
however, speaks of the ancient uades as having completely passed
away in his time, so that in the opinion of Karlowa we can scarcely hope to
discover the original form of the institution. The most thorough inquiry
into the question is that made by Voigt, who treats the authorities and
sources with the minutest care, but whose conclusions, typically, do not
always seem to be well founded. Let us first examine the essence of
the transaction, a point as to which there is no doubt. Vas meant a
surety, and uadimonium the contract by which the surety bound himself.
Thus uadem -- 1 Kauf, I. p.
294. " Gell. xvi. 10. 8. » ibid. * L.A. p. 324. ^
Phil. Hist. Abhandl. der k. S. Ges. d. Wiss. -- IMOS'irM. 81 poscere^ means to
require a surety, vadem dare to provide a surety, uadem accipere to take
a man as surety for another man, and uadari either to give surety
or to be a surety. From the point of view of the principal (“uadimonium
dans”) uadimonium sistere means to appear in due course uadimonium
deserere, to make default, while uadivionium differre meant to postpone
the obligation which the ims had undertaken. The penalty for
nonperformance was the payment (depensio) by the uas of the sum promised
by his principal, who however was bound to repay him. There might be more
than one uas. Voigt is probably right in stating that the svbuas was a
surety for the performance of the obligation by the original
uas''. There are two kinds of
luidimonium: that which secured the performance of some contract'; and that
which secured the appearance of the party in court, =bail'. Under the
first of these heads Voigt places the satisdatio secundum mancipium
which is found in the Baetic Fiduciae Instrumentumi as well as in Cicerone,
but whether or not this satisdatio was given in the form of a uadimonium
must remain undetermined ; though, if it had been so given, we
might perhaps have expected Cicerone to use the technical phrase. -- 1 Cio. Rep. II. 36. 61; Var. L. L. vi. 8.
74. ' Cio. Fin. ii. 24. 79. ^ Cic. Brut. i. 18. 3. " Prise.
Gram. i. 820. ^ Cic. Quint. 8. 29. 6 Cic. ad Brut. i. 18. 3. ;
Plaut. Bud. 3. 4. 72. ' I. c. p.
307. ^ Varro, L. L. vi. 7. 71. » Cio. Off. IV. 10. 45. " ad Att. v. 1.
2. B. E.] Next comes the question, in what form was
uadimonium origiQally made? The verbal nature of the primitive contract
seems to be proved by the passages that Voigt quotes while he also
completely denrolishes the old view which regarded uadimonium as having
always been a kind of stipulation, and points out Varrone’s express
statement that uas and sponsor were not the same thing. On the other hand
it is plain that uadimonium had come by Cicerone's time to denote a
mere variety of the stipulation, a fact which may be gathered from his
language' and that of Varrone, as well as from the frequent use of
promittere in passages describiag the contract. The later aspect of
uadimonium, need not however detain us, and we may occupy ourselves
solely with its primitive form. Leist seems to think that both
uadimonium and praediatura were binding, like the sponsio, in virtue of a
sacred " word-pledge," or in other words that " Vas
sum" “Praes sum'' had a formal value analogous to that of " spondeo."
This view he bases on the etymology of vms, praes and their
cognates in the Aryan languages, but an examination of Pott^ Curtius' and
Dernburg' serves to show how entirely obscure that etymology is. If
we cannot be sure whether “uas” is derived from “fari,” -- 1 Gic. ad Qu. fr. ii. 15. 3. ; Ovid, Am.
i. 12. 23 : uadimmia garrula; etc. a L. L. VI. 7. 71. 3
Q„int. 7. 29. * loc. cit. 6 Etymol. Forsch. iv. p. 612. « Civ.
Stud. iv. 188. ' Pfdr. ] to speak, uadere, to go, or from an
Indo-Germanic root meaning to bind, it is clearly impossible to
build any theory on so insecure a foundation. Moreover, whatever the true
etymology of “uas” may ultimately be proved to be, we can find in the
above derivations no suggestion of a binding religious significance
such as we discover in sponsio. Voigt boldly assumes a knowledge of
the ancient ceremony, and assigns to the iwtdimonium connected with
the sale of a farm the following formula. “Ilium fundum qua de re agitur
tihi habere recte licere, haec sic recte fieri, et si ita faMum non
erit, turn x aeris tihi dare promitto." This is not only purely
imaginary, like many of Voigt 's reconstructed formulae, but the unilateral
form in which it is expressed has no justification from historical
sources. The scope of promittis promitto in a stipulation is well
established, but how can promitto in an unilateral declaration have had
any binding effect? Voigt justifies his view by a comparison with dotis
dictio and iurata operarum promissio'^, but in both of these there was a
binding power behind the verbal declaration. The word “promitto” alone
could never have produced the desired effect, unless we admit the
principle laid down by Voigt that an unilateral promise is sufficient to
create a binding obligation, which is merely to beg the question!
(Warnock takes this position in his “Object of Moralty” – but he finds ‘begging
the question’ not as objectionable “as other of my Oxonian colleagues do” – He
is Irish). If indeed we take promittere in its ordinary sense, we cannot
doubt that uadimonium in Cicerone’s time was contracted by sponsio or
stipu- -- lus Nat.] latio, but on the other hand it is equally certain
that the ancient uadimonium, whatever it was, disappeared soon
after the “Lex Aebutia.” The old form known to the Decemvirs cannot
then be stated with the absolute certainty which Voigt seems to assume,
but we may hazard one theory as to its nature which appears not im-
probable, or at least far less so than that of an unilateral promissio.
Gaius tells us that there were several ways of making uadimonia, and
that one of them was the ancient method of iusiurandwm. That this
was an exceptional method is proved by our rarely finding it in use and
its adoption is almost inconceivable, except in the earliest times
when the oath is fairly common as a mode of contract. We may be sure that
the old uadimonium is embodied in some particular form of words,
else it is hard to imagine how the penalty could have been
specified. But if so, and if we exclude sponsio, as we are bound to do,
what form of words could have had such binding force as an oath? The
rarity of this oath in Gellius’s time may have induced him to state
that it had quite disappeared, while Gaius may have mentioned it in order
to make his list of vadimonia complete. Further, on examining
the remedies for a breach of iitsiurandum, we find that self-help was
resorted to, just as it was in cases of nexum. And when self-help
began to be restrained by law, the natural -- ' IV. 185. 2
e.g. 2 Dig. 8. 16. -- substitute would have been manus iniectio.
Now there is good reason to believe that the early iwbdimonium is enforced by the legis actio per maniis
iniectionem, and as Karlowa rightly says, we cannot imagine such a severe
penalty to have been entailed by an ordinary sponsio. Iusiurandum,
on the contrary, may easily have had this peculiarity, since it is
the only form of verbal contract which we know to have been protected by
means of self-help. Again, nanus iniectio seems to have been
employed not only by the principal against the uas, but also by the
uas against the principal. When Gaius states that sponsores were
authorized by a Lex Puhlilia to proceed by manus iniectio against a
principal on whose behalf they had spent money (“depensum”), he
seems to show that facts and circumstances are sometimes recognized as a
source of legal obligation. But we are bound to reject this explanation,
since no obligation “ex re” was recognized until much later in the Roman
jurisprudence. It is far more likely that, as Muirhead suggests,
the Lex Puhlilia merely extended to sponsores the remedy already
available to nodes; so that sponsio became armed with the manus iniectio
simply on the analogy of its older brother uadimonium. The theory
here put forward as to the early form of uadim.oniu/ni must remain a pure
conjecture in the absence of positive evidence. But its connection
with iusiurandum is at least a possibility. 1 Karlowa, L. A. p. 325 :
Voigt, XII Taf. ii. 495. 2 L. A. p. 324. 3 R. L. p. 166. This
vexed question may however be summed up. In the legal system of the XII
Tables uadimonium was a contract of suretyship, possibly entered
into by iusiurandwm, and probably entailing manus iniectio, (a) if the
surety (uas) failed to fulfil his obligation, or if the principal
(uadimonium dans) failed to refund to his surety any money expended
on his behalf In later times uadimonium was clothed in the ordinary
sponsio and its old form had completely disappeared. There
are a few other fragmentary provisions in the XII Tables, which relate
to contracts and require a brief notice. Paulus speaks of an actio
in duplimi as given by the XII Tables ex causa depositi. This
cannot have had any connection with the actio depositi of the Institutes
and Digest, for the latter was an invention of the Praetor {honoraria),
and therefore could not have appeared till towards the end of the
Kepublic, while its usual penalty was simplum, not duplum. Voigt
explains^ this action of the XII Tables as an instance of actio
fduciae based upon a fiducia cvrni amico. But we cannot admit that
fiducia at such an early period was actionable at all', and still less
can we base on Voigt's assumption the further theory that every
breach of fiducia must have had a penalty of du- plum annexed to it. The
conjecture made by 1 Sent. II. 12. n. ^ XII. Taf. ii. 4.
79. ACTIO EX CAV8A DEPOSIT!. Ubbelohde' that the actio ex causa depositi
of the XII Tables was an actio de perfidia seems still more rash
than that of Voigt, and has deservedly met with but little favour.
There are two points to be noted in this statement of Paulus. He states
that the action was ex causa depositi: he does not call it actio
depositi. He does not say how the depositum was made, but implies
that it might be made by traditio as well as by Tnancipatio, which also
goes against Voigt 's theory. It was an ancient rule^ that if
a man used the property of another in a manner of which that other
did not approve, he was guilty of common theft, and was punishable in
duplum like any other fur nee manifestus. It seems therefore quite
reasonable to suppose that the XII Tables mentioned this kind o{
furtumi as arising ex causa depositi. If so, the penalty of duplum
mentioned by Paulus is no mystery. It was merely the ordinary penalty
as- signed to furtum nee manifestum, and depositum as a contract
had nothing to do with it. Hence this actio ex causa depositi does not
properly belong to our subject at all. II. Gaius° says that
by the pignoris capio of, the XII Tables the vendor of an animal to be used for sacrifice could recover its value if
the purchaser refused to pay the price, and a man who had let a
beast of burden in order to raise money for a sacrifice could recover the
amount of -- 1 Gesch. der ben. R. G. p. 22. ^ gai. iii. 196. » iv.
28. the hire. Hardly anything is known of the legis actio
per pignoris capionem, but it was evidently some proceeding in the nature
of a distress, through which the injured party could make good his
claim by seizing the property of the delinquent. The only points in
which this passage of Gains is in- structive are these. First, we are
here shewn what were evidently exceptional instances of the legal
liability of a man's property, as distinguished from his person, for his
breaches of agreement. Secondly, we here have conclusive proof that the
consensual contracts of sale and hire were unknown at the period of
the XII Tables: these two special instances in which the contracts were first
recognised were both of a religious nature, and the makers of the
XII Tables do not seem to have dreamt that other kinds of sale or hire
needed the least protec- tion. Thus for many years to come the most
ordinary agreements of every-day life, such as hire, sale or pledge, were
completely formless, depended solely on the honesty of the men who made
them, and were not therefore, properly speaking, contracts at all.
The principle of the old Roman law that neither consent nor conduct could
create an obliga- tion ex contractu, but that every contract must
be clothed in a solemn form, appears in the fullest force
throughout the XII Tables. At the threshold of a new period we may
pause to review briefly the ground already covered, and to observe
the very different aspect of our future field of inquiry. We find
the legal system of the XII Tables to have possessed five distinct forms
of contract, iusiurandum (including uadimonium ?), sponsio, dotis
dictio, neooum, and leoc mancipi. But though the list sounds imposing
enough, these forms were still primitive and subject to many serious
limitations. Roman citizens only were capable of using them, and hence
they were useless for purposes of foreign trade. They all alike
required the presence of the contracting parties, and were therefore
available only to persons living in or near Rome. They all required
the use of certain formal words or acts, so that, if the prescribed
formula or action was not strictly performed, the intended contract
was a nullity. The remedies for a breach of contract, except in the
case of nexum and lex mancipi, were probably of the vaguest description,
and may have consisted only of self-help carried out under certain
pontifical regulations. A system with so many flaws was plainly
incapable of meeting the many needs which grew out of immense conquests
and rapidly extending trade. Accordingly by the end of the Republic
we find that the law of contract had wholly freed itself from every
one of these four defects : Contracts had been introduced in which
aliens as well as Romans could take part. Means had been devised for
making con- tracts at a distance. Forms had by degrees been relaxed
or abolished. Remedies had been introduced by which." not
only the old contracts but all the many new ones were made completely
actionable. The question now before us is: how had this wonderful
development been achieved? It is customary in histories of Roman Law
to subdivide the period from the XII Tables to the end of the Republic
into two epochs, the one before the Lex Aebutia, the other subsequent to
that law. The reason for this subdivision is that the Lea: Aebutia
is supposed to have abolished the legis actio procedure and to have
introduced the so-called formulary system, which enabled the Praetors
to create new forms of contract by promulgating in their Edict new
forms of action. Such a division doubtless has the merit of giving
interest and definiteness to our history, but it has two great drawbacks
: First, that we do not know what the Lex Aebutia did or did not abolish
; and secondly, that its date is impossible to determine. As to its
provisions, the two passages in which the law is mentioned by Gains ^ and
Gellius''' merely prove that the legis actio system of procedure
and various other ancient forms had become obsolete as a result of
the Lex Aebutia. But that these were not suddenly abolished is proved by
the well-known fact that Plautus and Cicero refer more often to the
procedure by legis actiones than they do to that per formulas. The most
plausible theory seems to be that which regards the Lex Aebutia as
having merely authorized the Praetors and Aediles to publish new
formulae ia their annual Edicts. But even this is nothing more than a
conjecture. The date of the Lex Aebutia is also involved in
obscurity, as is proved by the fact that scarcely two writers agree upon
the question". It seems clear that a law about which so
little is known is no proper landmark. The plan here adopted will
therefore be a different one. We shall content ourselves with a detailed
examination of each of the kinds of contracts which we know to have
existed at Rome between the XII Tables and the beginning of the Empire,
treating in a separate section of each contract and its history
down to the end of the period. By this means we may avoid confusion and
repetition, though the period in hand, extending as it does over nearly five
hundred years, is perhaps inconveniently large to be thus treated as a
whole. 1 IV. 30. ' XVI. 10. 8. ' A. V. c, 584 according
to Poste and Moyle ; 513 aecording to Voigt ; 507 according to Muirhead ;
etc. Nexvm. The severity and unpopularity of nexum did not prevent its
continuance for at least one hundred years after the modifications
made in it by the XII Tables. Its character remained unchanged, until at
last the Roman people could suffer it no longer. In A. v. c. 428' a
certain nesous was so badly treated by his creditor that a reform was loudly
demanded. The Lex Poetilia Papiria was the outcome of this
agitation. CICERONE (si veda), LIVIO (si veda), and VARRONE (si veda) have
each given a short account of the famous law, and from these it may
be gathered that its chief provisions were as follows : That
fetters should ia future be used only upon criminals. That all
insolvent debtors in actual bondage who could swear that they had done
their best to meet the claims of their creditors °, should be set
free. According to Liyy, but Dionysius makes it 452. 2 Bep.
II, 30. 40. 59. s viii. 28. * L. L. vii. 5. 101. ' Next qui bonam copiam
iurarent : cf. Lex lul. Mun. 113, -- That no one should again be neccus
for borrowed money, i.e. that manus iniectio and the other ipso
iure consequences of nescum should henceforth cease. Varro is
the one writer who mentions the qualification that it was only nexi qui
honam copiam iurarent who were set free. But Cicero and Livy may
well have thought this an unnecessary detail, considering what an immense
improvement had been made by the statute in the condition of all
future borrowers. A clause of the Lex Coloniae luliae Genetiuae^ shows
that imprisonment for debt was still permitted, but that the effects of ductio
were much softened, the uinctio neruo ant compedibus and the
capital punishment being abolished along with the addictio. But diici
inhere was still within the power of the magistrate^, and Karlowa"
seems to be right in holding that this was not a new kind of ductio
originating subsequently to the Lex Poetilia (Papiria). The Praetor
doubtless always had the power to order that a iudicatus should be taken
and kept in bonds. But this was a very different thing from the
utterly abject fate of the nexus under the XII Tables. It was only
therefore the special severities consequent upon nexum that can have been
abolished by the Lex Poetilia. Nexum itself was not abro- gated,
for the way in which later authors speak of it shows that there still
survived, if only in theory, a form bearing that name and creating an
obligation. But as soon as its summary remedies were taken -- 1
cap. 61; Bruna, Font. 2 Lex Bubr. cap. 21 ; Bruns, Font. p. 98. ^ L. A. p.
165. -- away, neocum became less popular as a mode of
contract and gave way to the more simple obligatio uerbis. Another reason
for its being disused, wlien it no longer had the advantage of entailing
capital punishment, was that the introduction and wide- spread use
of coinage made the use of scales unnecessary. Stipulatio, which required
no accessories and no witnesses, was now the easiest mode of contracting
a money loan. We shall see in the next section that it came to have still
further points of superiority, and thus it was certain to supersede
newum, when neoswii ceased to have special terrors for the delinquent
debtor. The solutio per aes et libram which we find in Gaius, as a
survival of solutio nesd, was not the release of nexii/m, but the similar
release used for discharging a legacy per darrmationem or a
judgment debt. Its continued existence is no proof that neam/rn survived
along with it, for in later days it had nothing to do with the release of
borrowed money. But though nexum proper certainly died out before
the Empire, we have seen' how the meaning of the word became more vague
and com- prehensive. By the end of the Republic we find neocum used
to describe essentially different transactions, and simply denoting any
negotiwm per aes et libram. There is no authority for Bekker's
opinion that sponsio is enforceable before the XII Tables by the
legis -- actio Sacramento, nor do we know that it gave rise to any
action, but notwithstanding this fact we have seen good reason for
concluding that it existed at Rome from the earliest times. As we found
that its origin was religious, and as the XII Tables do not mention
it, we may regard the remedies for a breach of sponsio as having been
regulated by pontifical law, down to the time when condictiones
were introduced. In the law of this last period sponsio appears in three
capacities. As a general form of contract adapted to every conceivable
kind of transaction. As a form much used in the law of procedure. As
a mode of contracting suretyship. Its binding force was the same in all
these three adaptations, but its history was in each case
different. Thus sponsio was used as a general form of contract down
to the time of Justinian, though it had then long since disappeared as a
form of suretyship. And there were statutes affecting the sponsio of
surety- ship which had nothing to do with the sponsio of contract
or of procedure. It will therefore be con- venient to treat, under three
distinct heads, of the three uses to which sponsio became adapted,
remem- bering always that in form, though not in all its remedies,
it was one and the same institution. I. Sponsio as a general form
of contract. We have seen that the form of sponsio consisted
of a question put by the promisee and answered by the promisor, each of
whom had to use the -- 1 AU.i. p. 147. word spondere. For
example : Qu. : Sponden ticam gnatam filio uxorem meo? Ans.:
Spondeo^." Qu. : Centum dari spondes?" Ans.: "
Spondeo." This form was available only to Roman citizens. But
there subsequently came into existence a kindred form called stipulatio,
which could be used by aliens also, and could be expressed in any
terms whatsoever, provided the meaning was made clear and the
question and answer corresponded. The connection between sponsio
and stipulatio is the first question which confronts us. There is
no doubt that sponsio was the older form of the two, because (i) it
alone required the use of the formal word spondere, (ii) it was strictly
iuris ciuilis, where- as stipulatio was iuris gentium^, and (iii) it had
to be expressed in the present tense (e.g. dari spondes?) whereas
stipulatio admitted of the future tense (e.g. dabis ? fades ?), which
Ihering^ has shown to be a sign of later date. Since the rise of the tits
gentivm, was certainly subsequent to the XII Tables, we are
justified in ascribing to the stipulatio a comparatively late origin,
though the precise date cannot be fixed with certainty.
Though stipulatio was a younger and a simpli- fied form, yet it is
always treated by the classical jurists as practically identical with
sponsio. Both were verbal contracts ex interrogatione et
responsione, and their rules were so similar that it would have
been waste of time and useless repetition to discuss them
separately. Varro, L. L. vi. 7. 70. ^ Qaius in.
92. 3 Gaius loc. cit. Geist d. B. B. ii. 634. The derivation of stipulatio
has been variously given. Isidorus derived it from stipula, a straw
; Paulus Diaconus and Varro" from stips, a coin; and the
jurist Paulus*, followed by the Institutes, from stipulus, firm. The
latter derivation is doubtless the correct one^ but it does not help us
much. What we wish to know is the process by which a certain form of
words came to be binding, so that it was distinctively termed stipulatio,
the firm transaction. Now if we conclude, as Voigt does', that the
stipulatio and the sponsio were both imported from Latium, their marked
difference with respect to name, age and form must remain a
mystery. Whereas we may solve, or rather avoid, this diffi- culty by
acknowledging that sponsio was the parent of stipulatio, and that the
latter was but a further stage in the simplification of sponsio which
had been steadily going on since the earliest times. We have
already reviewed the three stages through which sponsio seems to have
passed. Stipulatio in all probability represents a fourth and wider
stage of development. The binding force of a promise by question
and answer, apart from any religious form, at last came to be realized
after centuries of use, and as soon as the promise became more
conspicuous than the formal use of a sacred word, the word spondere was
naturally dropped, and with [Orig. 5. 24. - s. u. Stipem. 3
L. L. VI. 7. 69-72. * Sent. v. 7. 1. ^ See Ihering, Geist ii. § 46,
note 747, who compares the German Stab, Stift, bestatigen,
bestiindig. 6 lus Nat. II. 238. '' Ihering, Geist ii. p. 585.
B. E.] it fell away the once descriptive name sponsio, to make way
for that of stipulatio, now a more correct term for the transaction.
Thenceforward, as a matter of course, stipulatio became the generic name,
while sponsio was used to denote only the special form spon- desne?
spondeo. The precise date of the final change is a matter of
guess-work. But as stipulatio was the form avail- able to aliens^ it was
probably the influx of strangers which made the Romans perceive that their
old word spondere, only available to Roman citizens, was inconvenient
and superfluous. Unless contracts with aliens had become fairly common,
the need of the untrammelled stipulatio would hardly have been
felt. Therefore it seems no rash conjecture to suppose that the
stipulatio was flrst used between Romans and aliens, and first introduced
about A.V.C. 512*, the date generally assigned to the creation of
the new Praetor qui inter peregrinos ius dicebat. As to the
form of the stipulation. Ihering and Christiansen have expressed the
opinion that originally the promisor does not merely say spondeo, faciam,
daho, etc., as in most of the known instances, but repeated word for word
all the terms of the promise as expressed in the question put by
the promisee. This view is based upon the passages in Gaius and the
Digest, which lay great stress upon the minute correspondence
necessary between the question and the answer in a vaHd -- '
Gai. III. 93. 2 Liu ^^j-^
^ix. Geist II. 582. Inst, des B. B. p. 308. •^ in. 92. « 45 Dig.] stipulation.
It is hard to see how such a rule could have arisen unless there had been
some danger of a mistake in the promisor's reply, and if this reply
had been confined to the one word spondeo, promitto, or faciani, a
mistake would hardly have been possible. Hence this view seems highly
probable. Voigt gives the following account of the origin of the
various formulae. The form spondesne ? spondeo is the oldest of
all, and dates back into very early times which is probably quite correct.
But in a more recent work this view expressed in "lus Naturale"
is unfortunately abandoned, and Voigt regards sponsio as a Latin
innovation. This seems surely to place the birth of sponsio far too late
in Roman history. The looser form dabisne? dabo is found in Plautus,
and was no doubt, as Voigt says^ a product of the ius gentium and first
introduced for the benefit of aliens. Lastly, the origin of the forms
promittis ? promitto, and fades? faciam^, is placed by Voigt not
earlier than the beguming of the Empire. But his reasons for so doing seem
most inadequate. If the form dabisne? dabo occurs in Plautus, the
form fades? fadam, which is essentially the same, can hardly be
attributed to a later period. And since 1 Ius Nat. IV. 422
ft. 2 See Liu. iii. 24. 5, A.v.c. 295, and iii. 56. 4, A.v.c.
305. 3 Bom. RG. i. p. 43. Pseud. 1. 1. 112, A.v.c. 663. 5 /.
N. IV. 424.Of. Gaius] prondttam is used by Cicero as a synonym for
spondea/m}, and fidepromittere was an expression used in stipulations, as
Voigt admits, two centuries before the end of the Republic'-', it seems
rash to affirm that promittere, the shortened phrase, was not used
in stipulations until the time of the Empire. We may therefore attribute
both of these forms to republican times. The admissibility of
condicio and dies as qualifications to a stipulation must always
have been recognized, since a promise deals essentially with the
future and requires to be defined. The insertion of a conventional penalty
into the terms of the contract was probably practised from the very
first, whenever facere and not dare was the purport of the promise,
because the candictio certi was older than the condictio incerti, and
therefore for many years an unliquidated claim would have been
non-actionable unless this precaution had been taken. We have now
seen that verbal contract by ques- tion and answer, whether called
sponsio or stipulatio, existed long before it became actionable. When
it finally became so is uncertain, though we know what forms the
action took. Condictio certae pecuniae. Gains' speaks of a Lex
Silia as having introduced the legis actio per condictionem for the
recovery of certa pecunia credita. This law is mentioned nowhere
else, and its date can only be approximately fixed. Cic. pro Mur. 41. 90. ^ I.
N.] We know from Cicero that pecwnia credita, a re" money loan,
might in his time originate in ways, by datio (mutuum), expensilatio, or
stipulatio. But we cannot infer from this that the Lex Silia made
all those three forms of loan actionable, for mutuum and expensilatio, as
will presently be seen, were certainly of more modern origin than
the condictio certae pecuniae. It appears indeed that stipulatio
was the original method of creating pecunia credita: consequently the Lex
Silia must have simply provided for the recovery of loans made by
sponsio or stipulatio. It is noticeable, moreover, that Gaius speaks as
though by this law money debts had merely been provided with a new action
: he does not imply that stiptdatio or sponsio was thereby introduced,
as Voigt' and Muirhead have ventured to infer. Their view is surely an
un- warrantable inference, for if the Lex Silia had created so new
and important a contract as stipu- latio, Gaius would hardly have
expressed so much surprise at the creation of a new form of action to
protect that contract. His language seems clearly to imply that pecunia
credita was already known, and was merely furnished by this law with a
new remedy. We may conclude then that pecunia credita must have
existed before the Lex Silia, and can only have been created by
stipulatio. Stipulatio ' Rose. Com. 5. 14. Puohta, Imt. 162. 3 Cf. the dare,
credere, expensum ferre of the Instrumentum fiduciae in Bruns, p. 2-51,
with the dare, gtipulari, and expensum ferre of Rose. Com. 5. 13-14, and
see Voigt, lus Nat. it. 402. * Ills Nat. II. 243. R. L.] cannot,
therefore, have been introduced by this law, though it probably was
thereby transferred from the religious to the secular code.
The age of the Lex Silia has been variously given', but there are
no trustworthy data, and any attempt to fix it must be somewhat
conjectural. The only thing we do know is that this law must have
been enacted a considerable time before the Lex Aquilia of A.V.C. 467,
for the latter law pun- ished" the adstipulator who had given a
fraudulent release, and as this release must have applied to the
stipulatio certae rei of the Lex Galpurnia', it is evident that the Lex
Aquilia must have been younger than the Lex Calpurnia, which, as we shall
see, was itself younger than the Lex Silia. We may perhaps
approximate even more closely to the date of the Lex Silia. Muirhead^ has
con- jectured with much plausibility that the introduction of the
condictio certae pecmviae was a result of the abolition of the nexal
penalties, or in other words that the Lex Silia followed soon after the
Lex Poetilia of A.v.c. 428. There are several strong points in
favour of this hypothesis. It explains Gaius' difiiculty as to the reason
why condictio was introduced. For when the terrors of nexum were abolished,
it was natural to substitute some penalty of a milder description and not
to let defaulting debtors go entirely unpunished. Now [According to
Voigt, I. N. iv. 401. Gai. Of. quanti ea res est in Gai. loc. cit. with 13
Dig. 3. 4. * R. L.] this is just what the condictio certae
pecuniae, with its sponsio poenalis tertiae partis, presumably
accomplished, for like neocum it dealt only with pecunia.
(ii) This hypothesis helps us also to understand why the condictio
certae pecuniae should have been introduced before the cmidictio certae
rei, thus making a stipulation of certa pecunia actionable, while a
stipulation of res certa had not this protec- tion. As we found above',
the introduction of coin must have made the stipulatio certae pecuniae a
very convenient substitute for nexiom. It was therefore natural to
give a remedy to this stipidatio and so to make it take the place of
nexum as a binding contract of loan; while certa res, never having
had and therefore not immediately requiriag a remedy, was not
protected by condictio until several years later. We can also see
why the condictio ceiiae pecuniae should have been the only condictio
fur- nished with so severe a penalty as the sponsio poenalis. It was
because money loans had been jealously guarded in the days of nexum, and
it was therefore thought proper to protect the money loan by
stipulation far more carefully than the promise of a res certa.
All these seem strong points in confirmation of Muirhead's
hypothesis. By connecting stipulatio and condictio with the downfall of
nexum and of its manus iniectio, we not only get a plausible date
for the Lex Silia, but what is far more important, we obtain a
satisfactory explanation of the curious fact that, while stipulationes
were made actionable, they were not all made so at once. The forms
of condictio under the legis actio system are not known, but under the
formulary system, this condictio had the following formula: Si paret
N^ N'egidium A" Agerio HS X dare oportere, iudesc, iV™
Negidium A" Agerio X condemna. s. n. p. a} Its peculiar sponsio will
be given in another place. Condictio triticaria or certae rei.
The Lex Calpurnia, which must have preceded the Leoo Aquilia^ and
must therefore have been enacted earlier, extended the legis actio
per condictionem to stipulations of triticum, corn, {condictio
triticaria) ; and this, being soon interpreted by the jurists as
including every debt of res certa, gave rise to the condictio certae rei.
This new kind of condictio omitted, for the reason above '-stated,
the sponsio and restipulatio tertiae partis, in place of which the
defendant merely promised to the plaintiff a numnvus wnus which was never
exacted or paid. Therefore, as the severer law invariably precedes
the milder, we might be sure that the Lex Silia with its heavy
penalty was older than the Lex Calpurnia with its nominal fine*, even if
Gains had not clearly led us to this conclusion by the order in which he
mentions the two laws'. The
formula ran thus : Si paret N'^ Negidiwm A" Agerio tritici optimi X
modios dare oportere, qvtanti 1 Gai. IV. 41. Lenel, Ed. Perp. 187.
Voigt, I. N. III. 792. ' Keller, Civilp. 20. « Gains].
ea res est, tantam pecuniam, index, iV™ Negidium A" Agerio
condemna. s. n. p. a. Condictio incerti. The above condictio triticaria, or certae
rei, was in course of time extended by the interpretation of the
jurists or by the Praetor's Edict to res incertae, and gave rise to a
condictio incerti, which was the proper action on a stipulation involving
facere or praestare or some other object of indefinite value. The
thing promised might be defined as quanti in- terest, or quanti ea lis
aestimata erit etc., and it is plain how much this comprehensive mode of
expression must have increased the adaptability and general usefulness of
the stipulation. In this way, for instance, the cautio damni infecti and
the stipulations of warranty were doubtless always expressed. The nature
of this condictio may perhaps be best understood from its formula, which
was as follows : Quod A^ Agerius de N" Negidio incertum
stipulatus est, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"
Agerio dare facere oportere, eius iudex, N™ Negidium A" Agerio
condemna. s. n. p. aJ' This was so far an advance upon the condictio
certae rei that, the condemnatio here left the damages entirely to
the discretion of the judge; but it was still a stricti iuris
action, in which no equitable pleas were ad- mitted on the part of the
defendant. {d) Actio ex stipulatu. We have seen that the
condictiones certae pecuniae and certae rei were due to legislation, and
the con- dictio incerti to juristic interpretation: it remains 1
Voigt, RG. I. pp. 601-2. 2 (jai. to inquire what was the origin of the actio
ex stiffulatu, i.e. the honae fidei action on a stipulation for
incertwm dare or for certwm facere^, which completed this series of legal
remedies. Its ap- pearance was an event of great importance to the
subsequent history of contract, since it applied ex- clusively to
stipulations containing a honae fidei clausula, and it was by means of
this action alone that such stipulations were enforced I Voigt's
explanation of its origin is that the actio ex stipulatu was devised as
the proper remedy for fidepromissio and for the cautio rei uxoriae. But
it is very doubtful if the date can be fixed with such exactness. There
is nothing to show that the actio ex stipulatu did not exist
earlier than those particular forms of stipulation ; and if it had
been, as Voigt thinks, the original action on a fideproTnissio, it would
probably have been known as actio ex fidepromisso or by some such
descriptive name. The introduction of the doli clausula is
the most important event in the whole history of the stipulatio,
yet the exact moment at which this took place is hard, if not impossible,
to fix. Girard* attributes its invention to C. Aquilius Gallus. But if
this had been the case, CICERONE (si veda) would hardly have
overlooked the fact. On the other hand Voigt, who rightly
identifies the actio ex stipulatu with the action on a 1
Bethmann-Hollweg, C. P. p. 267. 2 44 Dig. 4. 4. fr. 15-16.
3 I. N. IV. 407. Gellius iv. 1, 2. * N. Rev. Hist, de Droit,
xiii. 93. ^ Off. in.
14. 60. doli clausula, and regards the two as
inseparable, places the introduction of doli clausula earlier than
the time of Cicero, because that writer mentions the actio ex stipulatu
among the " indicia in quibus ad- ditur ' ex fide bona^.' " The
introduction of the first clausida doli was, according to Voigt",
made by the words fides, in fidepromissio, and "quod melius
aequius sit" in the cautio rei uxoriae. This conjecture is
unsupported by evidence; for though we know that cautio rei ihxoriae and
fidepromissio^ were both actionable by the actio ex stipulatu, and
therefore must have contained doli clausulae, we have no right to
assume that they were the first of their kind. We cannot, moreover,
follow Voigt in supposing the actio ex stipidatu to have been expressly
invented for fidepromissio and cautio rei uxoriae. We have to
presuppose the existence of a condictio incerti before the doli clausula
could become actionable, since a claim of damages for dolus is
necessarily an incertum; and there is no reason why the actio ex
stipulatu should not have been developed from the condictio incerti by
mere interpretation. Its essential connection with the stipulatio
containing the clausula doli may readily be admitted, but we cannot
be certain what were the first stipulations containing clausulae of
the kind. The doli clausidae are well summarized by Voigt as
follows: 1 I. N. IV. 413. 2 I. N. IV. 407. 3 Boeth. ad
Top. 17. 66. " 23 Dig. 4. 26. s 45 Dig. 1. 122. « I. N. iv.
411.Quod melius aequius erit," as in " cautio rei uxoriae. Fide, in fidepromissio. Si quid dolo in ea re
factum sit. DoluTn Tnalum, huic rei abesse afuturuinque esse spondesne^
?" Gui rei si dolus malus non abest, non abfuerit, quanti ea
res est tantam pecuniam, dari spondes? The date of each of these forms is, however,
impossible to determine. The cases of contracts by stipulation in which
doli clausulae are found have been collected by Voigt*, but need not be
enumerated here. The effect of the clausula was to convert
the action on the stipulation containing it from a stricti iuris
action into a bonaefidei action, in which equitable defences might be
entertained by the judge. This expansion is effected by introducing the words
"dare facer e oportere ex fide bona" in the INTENTIO of the
action. If "ex fide bona " had not appeared in the formula of
an actio ex stipulatu, the action would simply have been a condictio
incerti. It seems therefore reasonable to suppose that the actio ex
stipulatu was nothing more than a development of the condictio
incerti, and that the words ex fide bona, perhaps suggested by the actio
emti, were inserted to suit the liberal language of the
stipulation. In praetorian stipulations the doli clausula was
1 4 Dig. 8. 31. ^ 46 Dig. 7. 19, 50 Dig. 16. 69. 3 46 Dig. 1. 38.
fr. 13. " I. N. iv. 416 ff. an usual part of the fonnula; e.g. in
cautio legis Falcidiae, stipulatio iudicatum soltii', stipulatio
ratam rem haberi^, etc. But in conventional stipulations it was
purely a matter of choice whether the doli clausula should be inserted or
not. We must not fancy that the actio de dolo and the exceptio doli,
which Cicero attributes to his colleague C. Aquilius Gallus', had
anything in com- mon with the actio ex stipulatu based upon a
clausula doli^. The former remedies were a pro- tection against fraud
where no agreement of a contrary kind had been made", whereas the
action on a stipulation containing the clausula doli was available
only when dolus maltts had been specially excluded by agreement. Hence it
follows that where the stipulation had omitted the clausula doli
there can have been no remedy for dolus until the great reform introduced
by Aquilius Gallus. As soon as stipulations of all kinds had thus
become actionable, and had probably passed out of the hands of the
Pontiffs into the far more popular jurisdiction of the Praetor, the law
of contract received an extraordinary stimulus, and we find the
stipulation producing entirely new varieties of obli- gation, though its
form in each kind of contract re- mained of course substantially the
same. Here are some of the purposes for which stipulatio was em-
1 35 Big. 3. 1. = 46 Big. 1. 33. » 46 Big. 8. 22. fr.
7. Off. in. 14. 60. Nat. B. in. 30. 74. Voigt, I. N. 3. 319.
' See the case of Canius, in Cio. Off', in. 14. 58-60. -- ployed, apart from its uses in procedure
and surety- ship. (1) It produced a special form of agency
by means of adstipulatio. The promisee who wished a claim of his to
be satisfied at some far-off period, when he might himself be dead, had
only to get a friend to join with him in receiving the stipulatory
promise. This friend could then at any time prosecute the claim with as
good right as the principal stipulator, and the law recognised him
as agent for the latter. Even a slave could in this way stipulate
on behalf of his master. In consequence of its universal
adaptability, the stipulation gave rise to nmiatio. The reducing to
a simple verbal obligation of some debt or obligation based upon
different grounds (e.g. upon a sale, legacy, etc.) was accomplished by
stipulatio, and known as expromissio debiti proprii.It created a
rudimentary assignability of obligations by virtue of delegatio, another
form of nouatio. In the one case, the debtor was changed, and the
creditor was authorised by the former debtor to stipulate from the new
debtor the amount of the former debt : in the other case
{expromissio debiti alieni) the creditor was changed, and the new
creditor stipulated from the debtor the amount owed by him to the former
creditor. It also created the notion of correal obli- gation, by
which two or more promisors in a stipulation made themselves jointly
responsible for the whole debt, and so gave additional security to
1 Gai. III. 117. = .? Inst. 17. 1.
Ill the promisee. The effects of this will be seen in
a later section. It served to embody in a convenient shape any
special condition annexed to a separate contract — e.g. a promise to pay
the price agreed upon in a sale', and the stipulationes simplae et
duplae annexed to sales of res nee mancipi^. Thus an enforceable
contractus adiectus could be made on the analogy of a pactum adiectum. It
clothed in an actionable form so many different kinds of agreements that
it would be impossible to exhaust the list. For instance, agree-
ments as to interest^ wagers, the promise of a dowry, the making of a
compromise, the creation of an usufruct, could all be thrown into
stipulations either single or reciprocal, and thus turned into
binding obligations. Most of the events in the history of this
immense development of stipulatio are impossible to fix at any given
period, though the attempt to do so has been often made. Yet the
invention of one famous stipulation can be exactly dated, from its
bearing the name of Cicero's colleague, C. Aquilius Gallus, and having
therefore been invented by him in the year of his Praetorship^. This
Aquilian formula, which operated as a general release of all obligations,
and which the Institutes' give us in full, is an excellent instance of
the usefulness of the stipulation, and it also clearly shows what long
and 1 Cato, R. R. 146. Varro, R. R. ii. 3. Plant. Most.
Plant. Bacch. 4. 8. 76. « A.v.c. 688. ' 3 Inst. 29. 2. elaborate forms
this contract sometimes assumed in later times, so that all kinds of
terms, descriptions or warranties might without difficulty be
incorporated in a single comprehensive formula. It was probably this
increasing length of stipu- lations which caused them to be put in
writing, and induced lawyers to publish formulae in which they
should be expressed. Both of these results had already taken place in the
time of Cicero. He not only speaks of written stipulations, but
also describes the composition of stipulatory formulae as one of
the chief literary occupations of a leading lawyer'. We know from a
constitution of the Emperor Leo, which changed the law in this
respect, that the written stipulations of the Republic and early
Empire were merely put into writing for the sake of evidence". The
writing in itself constituted no contract, and raised no presumption in
favour of the existence of a contract; but the written stipulation had to
conform with all the rules of the ordinary spoken stipulation, since it
was nothing but a spoken stipulation recorded in writing. The
legislative changes of the period were mostly devoted to modifications in
the stipulations of suretyship. But in a few cases the ordinary
stipu- lation was itself affected. By the Lex Titia of A.v.c.
416—426° stipu- lations for the payment of money lost at gambling
were declared void. Various laws against usury were enacted, 1
de leg. i. 4. 14. 2 3 Inst. 15. 1. ' Voigt in Phil. Hist. Ber. der
S. G. der W. xiii. 257. all of which affected the stipulation,
since that was the mode in which fenus was usually contracted. The
Lex Cinaia de mwieribus of A. v. c. 550, the object of which was to
restrain lavish gifts to pleaders and public men, naturally limited all
stipu- lations between parties within range of the prohibi- tion,
and in the corresponding condictio gave rise to the exceptio legis
Ginciae, which probably ran thus : ...si in ea re nihil contra legem
Ginciam factum sit... (iv) The Praetor C. Aquilius Gallus, as
above mentioned^, instituted in his Edict the exceptio doli mali,
and thereby nullified stipulations which, how- ever perfect ia form, had
been procured by fraud. This exceptio was of course inapplicable to cases
in which the stipulation contained a clausula doli. Sponsio in the
law of Procedure. The original function of the processual
sponsio seems to have been that of helping to decide the question
at issue by expressing it in the form of a wager. As a common feature of
practice, sponsio made its appearance in many other different
connections, and sometimes developed into the more modern stipulatio. We
find it employed: As a means of obtaining a decision by a wager, in
which the contention of either party was succinctly stated and so
submitted to the judge. This was known as sponsio
praeitodicialis. As a means of fixing a penalty, as well as of
obtaining a decision, in (a) the condictio certae 1 p. 109.
B. E. 8 pecuniae or the interdicts, in which case it
was known as sponsio poenalis. As a mode of giving security ; for
instance in the uindicatio, where we find the stipulatio pro praede
litis et uindiciarum. Bekker's classification^ does not exactly
correspond with this one. He divides processual sponsiones into (A)
sponsiones made in the course of a trial, as to the chief question,
(6) as to conditions and incidental matters, and (B) sponsiones
made apart from a trial, with a view to some future trial, with no
such view. The objection to this classification seems to be that
the whole of this second class are not properly processual sponsiones at
all. Sponsio praeiudicialis' was a promise to pay a fixed sum, made
by the plaintiff to the defendant, and conditioned upon the plaintiff's
defeat. It is accompanied by a similar promise (restipulatio) on
the part of the defendant, conditioned upon his defeat. These mutual
sponsiones were in fact nothing more than a bet on the result of the
action. They generally involved a merely nominal sum, and were perhaps
first introduced in the actio per sponsionem in rem, as a means of
settling the question of ownership without employing the larger and more
costly sacramentum of five hundred asses'. The date of their origin
is impossible to fix, but the custom of making such sponsiones and
having them decided by a judge 1 Akt. I. 257. 2 Gai. iv. 94.
165. Baron, p. 403. seems to have been one of great antiquity,
and must have existed long before the sponsio became armed with any
condictio. The very notion of a bet submitted to a judge as a means of
deciding rights of property seems, as Sir Henry Maine has said ',
to savour of the primitive time when the judge was simply a man of wisdom
called in to arbitrate between two disputants. Moreover, it is hard
to imagine that the actio per sponsionem in rem could have been
introduced in any but the most ancient times, when in Cicero's age there
were the rei uindicatio sacramento and the far simpler m uindicatio per
formulam petitoriam to accomplish the same objects There is therefore
every probability that the actio per sponsionem was at least as old
as the legis actio sacramento. According to Voigt* the procedure
per sponsionem was the original form also of the actio Publiciana
introduced in A.v.C. 519. In Cicero's time it was still a favorite method
of pro- cedure for all sorts of litigation. In questions as
to property the plaintiff might choose whether he preferred to bring an
actio per formfublam, petitoriam, or one per sponsionem^. If he
chose the latter course, the defendant was compelled sponsions se
defenders. (b) In really trivial praeiitdicia the question
was stated in the formula and sent straight to the i^tdex without any
condemnation, but the procedure 1 E.H. of I. 259. 2
KeUer, C. P. § 28. ^ j. j^. ly. 506. " e.g. Caec. 8. 5 Lex
Ruhr. e. 21, 22; Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gaius, iv. 91. ^ Gai. IV.
44. 8—2 in this case was not necessarily based upon a sponsio
praeiudicialis and might be a simple preliminary inquiry ordered by the
Praetor. The sponsio praeiudidalis thus worked in a
peculiarly roundabout way; its penalty was nomi- nal and not therefore
its real object, and it brought about a decision on the main question by
treat- ing that question as a thing of secondary importance. Sponsio
poenalis in the condictio, was pecu- liar to the legis actio per
condictionem introduced by the Lex Silia. It was accompanied by a
restipulatio, so that either party to the action promised to the
other a penalty of one-third ' in the event of losing his case.
Eudorff" reconstructs the formula of this sponsio as follows. Si
pecuniam certam creditam qua de re agitur mihi debes, earn pecuniam cum
tertia parte amplius dare spondes? But this seems incorrect, since from CICERONE
(si veda)’s language we gather that the sponsio was for the tertia pars
only; the sum in dispute plus one-third is never mentioned. The
formula then was probably as follows: Si pecuniam certam creditam qua de
agitur mihi debes, dus pecuniae tertiam partem dare spondes? Hence
Rudorff seems also wrong in stating that the condemnatio of the formula in the
corresponding condictio must have involved the principal sum plus
one-third. Voigt ^ more correctly holds that the condemnatio can
only have involved the summa sponsionis. We can 1 Cic. Base. Com.
5. 14. 2 Ed. Perp. p. 103. '' " legititnae partis sponsio
facta est." Rose. Com. 4. 10. * Rom. RG. II. 142. ^ j_ j^ m
741^ see that, as Gains implies, this sponsio is just
as much praeiudicialis as that of the actio per sponsionem, giving as it
did a ground for the decision of the main question ; but it was also
distinctly poenalis, be- cause the sum which it involved was worth
having and worth extorting from the unsuccessful party, and
therefore the condemnatio was carried out in the usual manner. The
principal sum in dispute was then no doubt quietly paid, since the
decision as to the sponsio tertiae partis had also settled to whom
the disputed sum belonged. In the private interdicts (possessoria
and restitutoria) if the party to whom the interdict was addressed
chose to dispute it, he might do so by challenging the plaintiff to make
a sponsio and restipulatio, the rights of which should be deter-
mined by recuperatores. This sponsio differed from the former by being
purely poenalis and having no trace of praeiudicium for its object ; by
being in factwm concepta. The origin of these two uses of sponsio
cannot be dated, in one case because we do not know the date of the
Lex Silia, and in the other case because we do not know when the
possessory interdict was first granted by the Praetor. But it is fairly
certain that the sponsio poenalis of the interdict was more modern
than the sponsio poenalis of the condictio, partly because it had no sort
of connection with a praeiudicium, which seems to have been the
original object of the processual sponsio, and partly because it
was in factum concepta. 1 IV. 93, 94. 2 Gai. iv. 166; Cic. Caec, 8.
23. Another purpose for which the sponsio was adopted in procedure
was to give bond against pos- sible losses. It thus furnished a
substitute for the old form of obligation contracted by the praes
in real actions. The stipulatio pro praede litis et uindi- ciarum,
accompanied by sureties ', was given by the plaintiff who wished to bring
an actio per sponsionem in rem, or who disputed an interdict, and the
amount promised in the stipulation was double the value of the
property in dispute. Another contract of the same kind was
the stipulatio ivdicatum solui ', by which the plaintiff in an
actio per formulam petitoriam obtained a promise from the defendant that
he would pay up the value of the property in dispute and of its fructus,
in the event of being defeated in the action. Voigt gives
imaginary formulae for these two stipulations", but in reality we do
not know much about them. Stipulations of this kind were not
peculiar to the law of procedure. They were simply varieties of the
cautio, a very common method of securing future rights, and they had their
counter- part in the cautio damni infecti, cautio Muciatm, cautio
legis Falcidiae and all the praetorian stipula- tions. The origin of the
cautiones in general cannot however be dated: we know merely that they
must have been invented subsequently to the introduction of the
condictio. III. Sponsio as a means of Suretyship. The
introduction of the new idea of correal obli- [Cic. 2 Verr. i. 45. 115;
Gai. iv. 91-94. 2 46 Dig. 7. 20 ; Gai. rr. 89. ' Im Nat.] gation
which resulted from the use of the stipulation, naturally leads to the
use of the stipulation as a mode of suretyship. For if three sponsores
promised the same sum to the same stipulator, the latter obviously
had three times as good security as if he had put his question to one
sponsor instead of to three. The consequence was that sponsor soon
acquired the special meaning of a co-promisor or surety, and this change
probably took place soon after the sponsio became actionable by the Lex
Silia. But if the surety -sponsor had had no recourse against the
principal-spojisor whose debt he had been com- pelled to satisfj"^,
his case would have been hard indeed. To provide against this hardship,
the Lex Publilia ' of A. V. c. 427 enacted: That the surety-spo?iso?'
might make use of an actio depensi against the principal debtor for
the amount spent on his behalf, That the mode of procedure in this actio
depensi should be the legis actio per manus iniec- tionem, and that the
penalty should be duplum. That the principal debtor should however have
six months' grace for the repayment of his surety, but, That a surety who
paid a gambling-debt on behalf of his principal should forfeit his right
of action. This law is alluded to by Plautus, and was
clearly prior to the introduction of fidepromissio. Voigt in Phil. Hist. Ber.
der k. s. Ges. d. Wiss. xlii. p. 259. 2 Gai. IV. 22.
171. In later times the surety had in the actio mandati a
further remedy against the principal sponsor. 2. About the
beginning of the fifth century, as new forms of stipulatio grew up
alongside of the old sponsio, another sort of suretyship was
introduced under the name oi fidepromissio. It was so called
because the sureties entered into a stipulation con- taining the words : Fide
tua promittis? fide mea promitto. The new form is no doubt devised for
the benefit of foreigners and marked the further growth of ius
gentium. It seems to have been treated as exactly equivalent to sponsio,
for sponsio as well as fidepromissio could only be used to secure a
verbal obligation. Since it is coupled with sponsio in the Lex
Apideia, and since the heirs of sponsores and fidepromissores were both
alike free from the obliga- tion of their predecessors it is fairly
certain that the actio depensi and inanus iniectio of the Leoo
Publilia must have been extended to fidepromissio by interpretation. The
fidepromissor also had the remedy of the actio mandati, but this was of
later origin. The Lex Apuleia de sponsoribus et fide promissoribus
applying to both Italy and the provinces, gave to any sponsor or
fidepromissor who had paid more than his aliquot share of the
principal debt a right to bring the severe actio depensi against each of
his co-promisors to recover the amount overpaid. This law, giving as it
did protection to the sponsor against his co-sponsor, was '
Gai. III. 119 ; iv. 137. 2 Gai. in. 120. ' Gai. III. 127. "
Voigt, I. N.] the natural complement to the Lex Puhlilia which had
already secured him against the principal debtor. The object of the next
law, Lex Furia de sponso- ribus et fidepromissoribus of A.V.c. 536 \ is
rather obscure, but it seems to have re-enacted the Lex Apuleia
with reference to Italy only, and probably provided the spmisor with a
more thorough mode of redress. What this mode was the language of Gains
^ does not make plain ; but Moyle is no doubt wrong in asserting '
that it was the actio pro socio, unmis- takably of much later origin. Its
only clearly new enactment was that sponsores or fidepromissores in
Italy, whose guarantee was for an unlimited period, should be liable for
two years only. This limited liability Voigt thinks was perhaps borrowed
from the rules applying to the uas. Lastly, the Lex Cicereia
(Studemund) of uncertain date, but which must have been passed, since it
ignored fideiussio, gave further protection to sureties by enacting
: (<x) That any creditor who secured his debt by taking
sponsores or fidepromissores must announce the amount of the debt and the
number of the sureties before they gave their adpromissio. If he
failed to do this, any surety might within 30 days institute a
praeiudicium to inquire into his conduct ; and if the judge declared that
the required announcement had not been made, all the sureties were
freed from their liability*. This law 1 L. Furius Philue was
Praetor in that year. Voigt, I. N. iv. 424. 2 ni. 122. 2 Inst. Gai.
iii. 123. REPUBLIC. was subsequently, we know, extended by
interpretation to fideiussores. Another form of suretyship was at last devised,
by which obligations other than verbal ones could be similarly secured.
This was done by a stipulation containing the words "fide tua ivbes?
fide mea ivheo" and it was hence known as fideiussio. It must
have been iuvented about the beginning of the sixth century, and was
doubtless needed, as Voigt suggests^, in order to provide a form of
suretyship for the newly invented real and consensual con- tracts
". Its chief points of difference from the other two forms were that
it applied to all kinds of contractual obligations ; the heir of the
fideiussor was bound by the same obligation as his predecessor ;
and (c) the provisions of the foregoing legislation as to sponsio and
fidepromissio did not as a rule apply to fideiussio. The only point of
resemblance was that the fideiussor, like the sponsor and fidepromissor,
had the actio mandati^ against his principal, whereas the sponsor and
probably the fidepromissor had the actio depensi of the Lex Puhlilia in
addition to the more modem remedy. The Lex Cornelia mentioned
by Gains * as affect- ing all sureties alike, whether sponsores,
fidepromis- sores or fideiussores, has been shown by Voigt ' to be
a part of the Lex Cornelia swmtuaria. Two sections of this act
provided: That no surety should validly become re- 1 I. N. IV.
425. 2 Gai. ni. 119. » Gai. m. 127. » in. 124. Phil. Hist.
Ber. der k. s. Ges. der Wiss. BXPMNSILATIO] sponsible for more than two
million sesterces on behalf of the same person in any given year.
Except in the case of dos^, whatever liability was contracted over
and above that amount was void. That no suretyship of any sort should
be valid when given for a gambling debt I In thus tabulating
all the laws on this subject, we must not omit to mention the rule
applying to all forms of suretyship alike, that if the surety had
guaranteed a lesser sum than the principal debt, his guarantee held good,
but if a larger sum or a different thing, the guarantee became void. In
conclusion, it is very remarkable how largely the law of suretyship was
developed by means of legislation. The reason was, that while
sufficient means existed for enforcing the mutual obligations of
debtor and creditor, there were no rules to regulate the relations of
debtor and surety, or of sureties among one another. The old uadimonium
was apparently inadequate, while the newer uadimonium, as we saw, was but
a form of stipulatio, and the ordinary condictio would clearly have been
inapplic- able to cases of this kind. Hence it became necessary that
legislation should intervene. So many irreconcilable statements have
been made as to the nature of the peculiarly Roman contract of the
expensilatio that no one can hope to describe it with perfect accuracy.
Confident 1 20,000 according to Dauz, B. BG. ii. 83. 2
Gai. m. 124-5. Voigt, Bom. BO. See a full summary of the various opinions in
Danz, B. BG.] assertions on the subject serve only to show our real
ignorance, and ignorant we must be, owing to the vagueness of the
evidence. Yet it is only as to the form of the contract that much
controversy has prevailed. Its operation and its history are
tolerably certain. Form: Our ignorance respecting the mode in
which the contract was made is partly due to the fact that tabulae, which
meant account-books in general, meant also a chirograph, or a
written stipulation, or an ordinary note-book. We can never be
quite sure in what sense a technical term of such ambiguity is used in
any given passage. Everyone agrees that the entry of a debt in the
creditor's account-book imposed a correspbnding obligation upon the
debtor, and the theory that debts were entered for this purpose in
separate documents has been exploded ever since Savigny''' refuted
it. But the question so difficult to answer is this : what sort of
account-book was the codex in which these binding entries were made ? We
gather from Cicero's speech for Roscius the actor that there were
in his day at least two principal books in general use, aduersaria ', and
codex or tabulae rationwm. The former was a day-book, in which the details
of every-day business were jotted down, while the latter was a
carefully kept ledger, containing a summary of the household receipts and
expenditure, copied at regular intervals from the aduersaria. These two [See
Wunderlich, Liu. oblig. p. 19. s Verm. Schrif. Also called
ephemeris. Prop.] books were also used by bankers (argentarii) ; and in
their codew or ledger were entered their accounts- current with their
different customers '. Similarly in the codex of the householder there
were probably separate accounts, on separate folios, under such
heads as ratio praedii, ratio locitlorum, &c.^ There was sometimes
used a book known as (3) kalendanum, in which the interest on loans was
computed and entered ', the making of loans at interest being hence
called kalendarium exercere. (a) Some writers are of opinion that
these book -debts were entered by the creditor in the main codex,
and that this codex was a mere cash-book. In that case, unless the debt
was a loan actually paid in cash, it must have been entered on both
sides of the account, debtor as well as creditor, otherwise the book
would not have balanced. This twofold entry is said to have been called transcriptio;
and nomen transcripticium would accordingly have been the name applied to
an}' debt contracted in that manner. The weakness of this theory lies in
the clumsiness of the alleged twofold method of entry; we can scarcely
believe that an imaginary receipt would have been credited in the account
simply for the purpose of making both sides balance. More- over it
is unwise to assume, as these writers do in support of their theory, that
the Roman method of keeping accounts was an easy matter and
therefore needed but few books ; for in a large town house, or on a
large estate with bailiffs, tenants and slaves to 1 2 Big. 13. 10
and 2 Dig. 14. 47. - 33 Dig. 8. 23. 3 12 Dig. 1. 41 and 33 Dig.] be
provided for, it seems far more likely that the accounts should have been
elaborate and the account- books numerous. According to Voigt,
book-debts (nomina) were entered in a (4) codex accepti et expensi
kept for the express purpose. Whether such a fourth book existed, or
whether the rationes accepti et eccpensi were kept as a separate account
in the main codex rationum, is a question which our authorities
hardly enable us to answer. This does not however seem very important,
and it is certainly impossible to tell in any given passage whether
the author is speaking of the main codex, or of the codex accepti et expensi
(4), which Voigt supposes to have been a distinct book. His theory
is plausible, for codex accepti et expensi would be a very natural name
for a book containing only expensa lata and accepta lata. But we may
fairly doubt the existence of this fourth book, partly because there is
no passage which clearly distinguishes it from the other account-books,
and partly because it is hard to see why the books of a Roman
house- hold, though clearly numerous, should have been thus
needlessly multiplied. Why should not 'no- mina facere'-' have meant
" to open an account" with a man, and why could not such an
account have been opened as well on a folio of the principal ledger as on
a folio of the imaginary codex accepti et expensi ? Perhaps a banker may
have found it worth his while to keep, as Voigt supposes, a
separate book for his loans and book-debts, but we [Cic. 2 Verr. i. 36.
92 ; Seneca, Ben. in.] cannot imagine that this would have been the
common practice of ordinary householders, when their codex would
have done equally well. Eaypensilatio was the name of the
transaction, while the entry itself was called nomen; and the term
nomen transcripticium, which has been ex- plained as the equivalent of
nomen, because the entry was transcribed from the aduersaria into
the codex, or because it was copied into both sides of the account,
seems rather to have denoted only a nomen of a novatory character'. That
nomen could produce an original obligation is proved by the cases of
Visel- lius Varro" and of Canius' in which there is no mention
of transcriptio. Further Gaius clearly im- pKes* that the nomen
transcripticium is but one instance of the use of expensilatio, and the
cases cited by him are purely novatory. Voigt therefore is probably
right in distinguishing the ordinary nomen which created an obligation,
from the nomen transcripticium, which novated an obligation already
existent. If so, the name transcripticium comes from the fact that a
debt entered in one place as owed by Titius might be transcribed into
another part of the codex as owed by Negidius (transcriptio a persona in
per- sonam), or a debt owed by Negidius, on account of (e.g.) a
sale, might be embodied in an expensilatio and thus converted from a
honae fidei into a stricti iuris 1 See Gaius in. 128. ^ Val. Max.
vni. Cic. Off. ueluti nominibus transcripticiis ," in.
130. obligation by being entered in the codex {transcriptio a re in
personam). Some passages are supposed to describe the entry of
book-debts in the books not only of the debtor and creditor, but of third
persons also' ; but it is difficult to imagine that any man would have
entered in the midst of his own accounts a record of transactions
which did not actually concern him. Here again we may believe that the
ambiguity of the word tabulue has led the commentators astray. What they
have taken for the account-books of a third party may have meant simply
his memorandum or note-book. Salpius^ has endeavoured to explain away
the difficulty by asserting that these tabulae of third parties
really mean in every instance the tabulae of either debtor or creditor.
But the passages do not seem to be capable of bearing such an interpretation,
and it appears far more likely that the word tabulae has caused all the
difficulty. To summarise then this view of the Literal Contract, we
may believe it to have been made by an entry written by the creditor on a
separate folio of the codex (2) or chief household ledger, and that
its form was very probably that given by Voigt' as follows:
"HS X a Numerio Negidio promissa tfcc. expen- sa Numerio
Negidio fero in diem " ; whereupon the debtor might, if he liked,
make this corresponding entry in his codex: "HS X Aulo Agerio
promissa Jkc, Aulo Agerio refero in diem,." 1 E.g. Cio.
Att. IV. 18; Rose. Com. i.l; de Or. Novation, p. 95. 3 Bam. BG. i. 64. In
cases of novation, the form would be as follows: Creditor: "HS X a
Lucio Titio dehita expensa Numerio Negidio fero in diem"
(transcriptio apersona in personam), or else : "HS X a Numerio
Negidio ex emti causa dehita expensa Numerio Negidio fero in diem (transcriptio
a re in personam). As in the previous case, the debtor might make similar
entries in his codex. Having thus opened an account, which
could only be done with the authorisation of the debtor, the
creditor would naturally enter on the same page such items as payment of
interest on the debt, payment of the principal on account, &c.
According to Voigt, the entries showing repayment of the principal
would be made in the following form : "HS X a Numerio Negidio dehita
accepta Numerio Negidio fero." Such an entry constituted a
valid release and went by the name of acceptilatio. Voigt thinks that the
acceptilatio, as here given, was made first by the debtor, and that the
creditor followed him with a corresponding accepti relatio. But the
word acceptum seems rather to imply that the release was looked
upon from the creditor's point of view. It is therefore more likely to
have been the creditor who took the initiative in entering the
acceptilatio, just as he did in enteiing the expensilatio, while the
debtor perhaps followed him with an accepti relatio. We know
from Cicero^ that expensilatio could be used to create an original
obligation, while Gaius tells us that it was much used for making an
assign- ment or a novation. Where however a loan made in 1 ib. p.
65. 2 Off. III. 14. 58-60. B. E. -- cash was entered in the
creditor's book, the contract was regarded as a case not of expensilatio
but of mutuum, and the entry was called nomen arcarium}. This name
seems to have come from the fact that the money was actually drawn from
the area or money-chest; and in such case the entry on the
creditor's books constituted no fresh obligation, but served merely as
evidence of the mutuum,. History: The old theory of its origin,
given by Savigny and Sir Henry Maine, is that ecopensilaiio was a
simplified form of neacum. They argued that the word expensum pointed
clearly to the fiction of a money -loan made by weight. But they
never succeeded in explaining how it happened that the nexal loan
should have produced a contract so strangely difierent from itself.
The newer theory, which Voigt has ably set forth ^ is far more
intelligible and agrees with all the facts. Its merit lies in recognising
expensilatio as a device first used by bankers and merchants and
subsequently adopted by the rest of the com- munity. Nothing indeed could
be plainer than the commercial origin of expensilatio. Like the
negoti- able instrument of modem times it is a striking instance of
the extent to which Trade has moulded the Law of Contract. This
institution probably did not originate at Rome, but the Greek bankers
of Southern Italy may have adopted and used it centuries before we
hear of its existence. It seems to have been first iatroduced* by the
Greek argen- 1 Gaius in. Cic. Top. Z. N. II. 244 ft. * Voigt, mm.
RG. -- torn or tarpezitae (TpaTre^Tai), who came to Rome about A.
V. c. 410 — 440, and took the seven shops known as tabernae ueteres^ on
the East side of the Porum^ Their numbers were subsequently
increased, when the tabernae nouae were also occupied by them.
Their business was extremely varied and their system of book-keeping
doubtless highly developed. They made loans^, received deposits*, cashed
cheques {perscriptionesY, managed auctions', and exchanged foreign
monies for a commission (collybusy. They also used codices accepti et
expensi, in which, as we have seen, accounts-current were kept with
their customers. We learn from LIVIO (si veda) that the expensilatio thus
introduced by them becomes a common transaction among private individuals. It
cannot have been long before the conception of pecunia credita was
extended so as to cover book-debts as well as stipulations ; but we
do not know the exact date. From CICERONE (si veda) however we learn that
pecunia expensa lata was a branch of pecunia credita within the scope of
the Lex Silia, and that the proper remedy for its enforcement was
the condictio certae pecuniae with its sponsio tertiae partis. As
Voigt" has well pointed out, the expensilatio presupposes the
existence throughout the community of a high standard of good faith. It
was therefore ill adapted for ' Liu. XXVI. 27. 2 Liu. vii.
21. 3 Plaut. Cure. 5. 2. 20. * ib. 2. 3.
66. 5 ib. 3. 62-65. « Cio. Caec. 6. 16. ? Cio. Att.
XII. 6. 1. 8 2 Dig. 14. 47. ^
Liu. XXXV. 7. ^'' Rose. Com. 5. 14. 11 I. N. II. 420.
9—2 general use among the Greeks, whose bad faith was
proverbial'. The fact that it was at Rome, and at Rome only, that this
contract received full legal recognition, is proved by Gains'
doubts" as to whether a peregrin could be bound by a nomen
transcripticiwn. By the end of the Republic eocpen- silatio was at its
height of favour, but it died out, except among bankers, soon after the
time of Gains, for in Justinian's day it was unknown. Chirographvm and
Stngrapha are forms of written contract borrowed, as their name
implies, from Greek custom, and chiefly used by peregrins, as Gaius informs
us°. The distinction between the two was purely formal, the one being
signed by the debtor (cAiro^rrop/i Mm), and the other being written
out in duplicate, signed by both parties, and kept by each of them
(syngraphay. These foreign instru- ments at first produced nothing more
than a pactum nudrmi, for wherever we find syngrapha mentioned in
Plautus, it denotes a mere agreement (pactum), the terms of which had
been committed to writing and which was certainly not actionable, while
chirographum, never occurs in his plays. The Roman magistrates, finding
these instruments recognised by aliens, ventured at length to enforce
debts ew syngrapha, and thus their legal validity was secured^ They had
received, some sort of recognition by the 1 Plaut. Asin. 1. 3.
47." m. 133. s III. 134. * See Diet, thirteenth cent, in
Heimbach, Greditum p. 520, and Ascon. in Gic. Verr. i. 36. s
Cic. pro Rah. Post. 3. 6; Har. resp. 13. 29 ; Phil. ii. 37. 95 ; ad Att.
Yi. 1. 15 ; ii. v. 21. 10 ; ib. vi. 2. 7. -- time of CICERONE (si veda),
but when they were first enforced does not appear, though it was
certainly late in the history of the Republic. Gneist has advanced
the theory that in Cicero's time neither chirographum nor syngrapha
was a genuine literal contract, but only a document attesting the fact of
a loan, which could always be rebutted by evidence aliunde. This
theory is the more plausible because Gains himself does not seem certain
as to the binding nature of these documents An interesting
passage in Theophilus is sometimes said to give the form in which
litterarum obligatio proper, i.e. expensilatio, was contracted. This view
is certainly wrong, for the context shows that Theophilus meant to
describe a contract signed by the creditor and known as
chirographum. As a sample of how chirographa were made, the Latin
translation of this instrument may therefore be quoted. Centum aureos quos mihi ex
caussa locationis dehes tu ex conuentione et confessione litterarum
tuanrni dabis?" And to this the
debtor wrote the following answer: Ex conuentione deheo litterarum
nuearutn. This was evidently not a nomen transcripticium, but a
chirographum or syngrapha, since Gaius expressly states debere se aut
daturum se scribere to be the usual phraseology of such
instruments. Both parties also seem here to have been present, whereas
one of the chief advantages of expensilatio was that it enabled debts (by
expensi- latio) and assignments (by transcriptio) to be validly
made without requiring the presence of the parties 1 Form. Vertr.
p. 113. ' in. 134. » Paraphr. in. 21. . concerned.
Heimbach is therefore wrong in taking the above passage as equivalent to
" Eacpensos tiM tuli ? Expensos mihi tulisti. The transaction is
evidently different from expensilatio, and can have been nothing else
than a dhirographtim. Another specimen chirographum preserved in the
Digest^ shows that the promise or acknowledgement was sometimes
made in a letter from the debtor to the creditor. > Cred.
p. 330. 2 2 Dig. 14. 47. Consensual Contracts. Art. 1.
Emtio Venditio. The forms of con- tract hitherto examined have been distinguished
from most of the contracts of modern law in one or more of the
following respects : They were confined to Roman citizens. They
were unilateral. They were capable of imposing obligations
only by virtue of some particular formality. They were available only
inter praesentes. The contract which we are now about to
consider was modem in all its aspects: It was open to aliens as
well as to citizens. It was bi-lateral. It rested only upon the
consent of the parties, required no formality, and could be re-
solved like any modem contract into a proposal by one party' which became
a contract when accepted by the other party. 1 Plant. Epid.] It
could be made at any distance, provided the parties clearly understood
one another's meaning. How then can the formal contracts of the
older law ever have produced such a modem institution to all
outward appearance as the consensual contract of sale? The
elements which make up the popular conception of sale are usually fourfold ;
they consist of: The agreement by which buyer and seller determine
to exchange the wares of the latter for the money of the former;
The transfer of the wares from the seller to the buyer; The
pajrment of the price by the buyer to the seller; The
representation, express or implied, of the seller to the buyer, that his
wares are as good in point of quantity or quality as they are
understood to be. Mandpatio was at first a combination of the
second and third elements above-mentioned. It is a transfer of ownership
followed by an immediate payment of the price. Subsequently, the payment became
separated from the trans- fer, so that mancipatio represented only the
second element. The fourth element, that of warranty, existed to a
certain extent in those sales in which the transfer of property was made by
moundpatio, and this fourth element we shall consider further in a
later section. But throughout the early history of Rome the first
element, indispensable wherever a sale of any kind takes place, was
completely unrecognised by the law. The reason is that the preliminary
agreement between buyer and seller was nothing more than a pactum, an
agreement without legal force because usually without form. The
parties might always of course embody their agreement of sale in a
sponsio and restipulatio, but in such a case all that the law would
recognise would be the re- ciprocal sponsiones, not the agreement itself
Why, we may ask, was recognition ever accorded to this preliminary
pactum ? In other words, what was the origin of emtio uenditio, which
turned the pactum into a contract? Bekker's plausible theory'
adopted by Muirhead" is that contracts of sale were originally
entered into by means of reciprocal stipulations, and that the
actio emti was but a modification of the actio ex stipulatu founded on
those stipulations, while it borrowed from the actio ex stipulatu its
characteristic bonae fidei clause. But how then did the notion of
bona fides arise in the actio ex stipulatu itself? Bekker seems to
have put the cart before the horse, and Mommsen" holds the far more
reasonable view that the actio emti was the original agency by
which bona fides found its way into the law of contract, in which
case the actio ex stipulatu must have been not the prototype but the copy
of the actio emti. The origin of the actio emti was indeed
very curious, since it seems clearly to have been suggested and
moulded by the influence of public law. The sales of public property,
which used at first to be 1 Akt. I. 158. ^ Bom. Law, p. 334.
3 Z. der Sav. Stift. R. A. yi. carried out by the consuls and afterwards
by the quaestors, became increasingly frequent as the conquests of
Rome were multiplied, and as the supplies of booty, slaves and conquered
lands becomes more and more plentifiTl. The purchase by the State of
materials and military supplies was also of frequent occurrence, as the
wealth of Rome increased. Now these public emtiones and iiendi-
tiones constantly occurring between private citizens and the State were
founded upon agreements neces- sarily formless. The State could clearly
not make a iusiurandum or a sponsio, but the agreements to which
the State was a party (according to the fundamental principle laid down
at the beginning of this inquiry that the sanction of publicity was
as strong as that of religion) were no less binding than the formal
contracts of private law. A public breach of bona fides would have been
notorious and disgraceful. Whenever therefore the State took part in
emtio uenditio, the agreement of sale was thereby invested with peculiar
solemnity; and thus in course of time the pactum uenditionis became so
common as an inviolable contract that the actio emti uenditi was
created in order to extend the force of the public eTTitio uenditio into
the realm of private law. As soon as this action was provided, emtio
uenditio became a regular contract, which was necessarily bilateral
because performance of some sort was required from both parties. An
action could thus be brought either by the buyer against a seller
who refused to deliver (actio emti), or by the ^ MommseD, Z. der Sav.
Stift. E. A.] seller against a buyer who failed to pay (actio
uenditi). The history of the words emere uendere is in- structive.
We can see that at first they were not strictly correlative. Vendere or
uenumdare meant to sell, not in the sense of agreeing upon a price,
but in the sense of transferring in return for moneys ; while
eniere meant originally to take or to receive, without reference to the
notion of buying''. But neither emere nor uendere was at first a
technical term. Emere subsequently got the specialized sense of
purchasing for money as distinct from permutare, to barter ^, but this
particular shade of meaning seems like the actio to have had a public
origin. The old technical expression for the purchase of goods at
public sale was emtio sub hasta or sub corona, while the object of
the sales was to get money for the treasury, and therefore the
consideration was naturally paid by purchasers in coin. These public
uenditioiies thus led to three results: The agreement of sale came
to the front as the element of chief importance, and as a transac-
tion possessing all the validity of a contract. The word emere came to
denote the act of, buying for money, as distinct from permutatio
which meant buying in kind. The uenditio of public law resting
wholly upon consent, which was probably signified by a lifting up
of the hand in the act of bidding*, and being necessarily a
transaction bonae fidei, it follows that when emtio ^ Voigt, I. N.
IV. 519. Paul. Diac. s. u. emere. 2 21 Dig. 1. 19. fr. 5. * Cf. the
word manceps. uenditio is made actionable in private law, consent
was the only thing required to make the contract perfectly binding, and
that the rules applicable to it were those, not of iiis strictwm, but of
bona fides. The complete recognition of emMo uenditio is only
attained by degrees. The first step in that direction seems to have been
the granting of an exceptio rei uenditae et traditae to a defendant
challenged in the possession of a thing which he had honestly obtained by
purchase and delivery. The second step was the introduction of the actio
Puhliciana, through which a plaintiff, deprived of the possession of a
thing that had been sold and de- livered to him by the owner or by one
whom he honestly believed to be the owner, might recover it by the
fiction of usucapio. These remedies, the exceptio and the actio,
were necessary complements to one another. The former is a
defensive, the latter an offensive weapon, and they both served to
protect a bona fide purchaser who had by fair means obtained possession
of an object to which in strict law another might lay claim. The
exceptio rei uenditae et traditae was founded upon an Edict worded somewhat
as follows: SI QVIS ID QVOD VENDIDIT ET TRADIDIT NONDVM VSVCAPTVM
PETET, EXCEPTIONEM DABO; and in the formula of an action by the
seller to recover the thing sold this exceptio would have been
introduced thus:... si non earn rem qua de agitur J.' Agerius 1 Gai.
IV. 36. 2 44 j)ig^ I Voigt, I. N. ACTIO PYBLIOIANA N" Negidio vendidit et
tradidit Its effect was to protect the bona fide purchaser even of
a res mancipi against the legal owner who attempted to set up his
dominium ex iure Quiritium. On the other hand the actio Publiciana in its
alternative form, was based on two Edicts worded somewhat as
follows: SI QVIS ID QVOD EI TRADITVM EST EX IVSTA CAVSA A DOMINO ET
NONDVM VSVCAPTVM PETET, IVDICIVM DABO SI QVIS ID QVOD BONA FIDE EMIT ET
EI TRADITVM EST NON A DOMINO ET NONDVM VSV- CAPTVM PETET, IVDICIVM
DABO I The precise wording of these Edicts is much dis-
puted, but the question of their correct emendation is too large to be
discussed here. The formula of an actio Publiciana based on the second
Edict is given by Gaius '" and ran as follows : Si quern hominem
A^ Agerius* emit et qui ei tradittis est anno possedisset, turn si
eum hominem de quo agitur eius ex iure Quiri- tium esse oporteret, quanti
ea res erit, tantam pecuniam, iudex, N™ Negidium A" Agerio
condemnato, s. n.p. a. The usefulness of these actions as a protection
to sale is apparent. They secured the buyer in posses- sion of the
object sold to him until usucapio had ripened such possession into full
dominium; but they were useful only when his possession had been
interrupted and he wished to recover it. On the other hand, the exceptio
rei uenditae et traditae pro- 1 Voigt, I. N. IV. 478. 2
Voigt, /. N. IV. 479. 2 IV. 36.
BONA FIDE here iDserted by Voigt, I. N. iv. 483, of. 6 Diri.] tected him
till the period of tisucapio agaiost the former owner; but it was only
usefal where his possession had not been interrupted. The date of
the actio Publidana and of this exceptio are not to be fixed with
absolute certainty; but it is quite clear that neither of them had
anything to do with a Praetor Publicius mentioned by Cicero as
having existed about A.v.c. Though there is no mention of either actio or
exceptio in the writers of the Republican period, yet it is clear
from some passages of Plautus that the tradition of res mancipi sold was
in his time a transaction protected by the law, and Voigt has shrewdly
argued that both actio and exceptio must be older than the actio emti,
because the latter aimed at securing delivery (habere licere) which would
have been of no use had not delivery already been protected by
legal remedies. Now the Fasti Gapitolini report a Consul M. Publicius
Malleolus, and the conjecture that he was the author of the actio
Publi- dana seems very plausible. The exceptio rei uen- ditae et
traditae was probably somewhat older, for the defensive would naturally
precede, not follow, the offensive remedy. Nor can this exceptio in Voigt
's opinion have been contemporary with the actio Publidana, because
it does not bear the name of exceptio Publidana, which it otherwise would
have borne ° This argument does not seem to me strong, 1 Cie.
Cluent. 45. 126. 2 Cure. 4. 2. 8 ; Fers. 4. 3. 64 ; Epid. 3. 2.
23. ' I. N. XV. 469. < = Praetor in a.v.c. 519. Voigt, I.
N. IV. 505. 6 I. N.] since we know that the famous exceptio doli was not
called exceptio Aquiliana. But the point is not an important one. It is
enough to be able to say with approximate certainty that the exceptio rei
uenditae et traditae and the actiones Puhlicianae were introduced by some
Praetor. Still the agreement of sale was not yet enforce- able as
such. In private affairs it remained what it had been from the time of
the XII Tables, a formless agreement supported only by the mores of the
com- munity, whereas in public affairs it was still techni- cally a
pactum as before, except that the publicity of sales made by the
Quaestors gave to their terms a peculiarly binding force. The solemnity
always attaching to transactions done in the presence of the people
was, as we have seen, at the root of this respect paid to the public
uenditio. At last the Praetor of some year decided to make the emiio
uenditio of private law the ground of an action, and thus put it on a
level with the public uenditiones. We do not know the terms of the
important Edict by which the actio emti was introduced, but the formula
of the action (ex uendito) brought by the seller is partly given by Gains
and must have been as follows: Quod Aulus Agerius mensam N"
Negidio uendidit, quidqvid paret oh earn rem iV™ Negidium A" Agerio
dare facere oportere ex fide bona'', eius, index, N™ Negidium A"
Agerio condemnato. s. n. p. a. The intentio here was exactly the
same as that of the actio ex stipulatu, and was probably its prototype,
both of them being equally 1 IV. 131. 2 cio. Off. -- bonae
fidei actions. The formula of the action (ex emto) brought by the
purchaser was worded in like fashion: Quod A' Agerius de N" Negidio
hominem quo de agitur emit, quidquid oh earn rem N^ Negidium
A" Agerio dare facer e oportet ex fide bona, eiv^, index,
t&C. (&C. The age of the actio emti has been very
hotly disputed, and the most knotty question has been whether the
action existed or not in the days of Plautus, who died A.v.c. 570. The
chief opponent of the affirmative theory has been Bekker, but the
arguments of Demelius", Costa', Voigt* and Bech- mann' are so
convincing that little doubt on the subject can any longer be
entertained. It appears absolutely certain that the actio emti was a
feature of the law as Plautus knew it. An elaborate proof of this
proposition has been so well given by Demelius and Costa that it is not necessary
to do more than sum up the evidence. The contract of emtio uenditio
is discussed by Sex. Aelius Paetus Catus (Cos. A.V.C.) probably in his
Tripertita, and by C. Liuius Drusus (Cos. A.v.c.)«. The aedilician
Edict, which presupposed that emtio uenditio was actionable, is mentioned
by Plautus '. (iii) We find in Plautus many passages
which are only intelligible on the supposition that emtio '
AU. I. 146, note 38. ^ z.fiir SG.Dir. Pnvato. * I. N. iv. 542. 5
Kauf, Dig. -- venditio was actionable.
For instance in Mostel- laria^, where the son of Theuropides pretends
to have bought a house, and where the owner of the house is
represented as begging for a rescission of the sale, we cannot suppose,
as Bekker does', that fides was the only thing which bound the owner. Had
it not been for the existence of the actio emti he could not have been
represented as trying to have the sale cancelled. Again, in Act 5,
Scene 1, the slave Tranio advises his master Theuropides to call the owner
into court and bring an action for the mancipation of the house,
and this can be nothing else than a reference to the actio ex emto. In
the same play° it is also plain that hona fides was a principle
controlliiig the iudicium ex emto. Again in Persa ' it is clear that
Sagaristio, when selling the slave-girl, would not have taken such
pains to disclaim all warranty if he could not have been compelled by the
actio emti to make good the loss sustained by the purchaser. To prevent
this liability Sagaristio is careful to throw the whole periculum
on the buyer. Why should he have done so, had there been no actio
emti? Again in Rudens the leno, who had taken earnest-money for the
sale of a slave girl and had then absconded with her, would not have been
so much afraid of meeting the buyer Plesidippus, if he 1 3.
1. and 2. de Empt. Vend. Cf. Gai. iv. 181. « 3. 1. 139. 8 4. 4.
114. and 4. 7. 5. B. E.-- had not feared the actio emti. And
when the slave girl was finally abiudicata from the leno *,
Demelius and Costa are unquestionably right in regarding this as a
result of a iudicivmi ex emto. Bekker's opinion that it was the result of
a uindicatio in libertatem seems hardly to agree with the fact that the
leno is not represented as knowing of her free status till two
scenes later'. We might multiply instances, but the evidence is so fully
given by others that it is not worth repeating. The general conclusion to
be drawn from the above facts is that emtio uenditio became
actionable before A.v.c. 550; and, if our argument be right, later than
the date of the actio Publiciana. From Plautus we gather further that
arrha or arrhabo, the pledge or earnest money which Gaius mentions
in this connection, was often given to bind the bargain of sale as well
as other bargains. From this it has been argued that pure consensus must
have been insufficient to make the contract binding'; but, if that
be so, why should the arrha have been used in Gains' day, when we know
that sale was purely consensual ? In Rudens " it is clear that the
arrhabo was not a necessary part of the transaction, but a mere
piece of evidence, so that arrhahonem acceperat simply means uendiderat^.
The use of arrhaho is mentioned also in Mostellaria^ and Poenulus^.
It was probably forfeited by the purchaser in case the bargain fell
through. Bekker, Heid. Krit. Jahrschrift, « Brid. Prol. Having now seen
how the actio emti uenditi originated and what was its probable age, let
us see what obligations were imposed by the conclusion of the sale
upon each of the parties to it: Upon the purchaser (emtor). His chief
duty was reddere pretium, to pay the price agreed upon, and if the price
consisted partly of things in kind, his duty was to deliver them
" ; but according to Voigt there is
no obligation upon him to do more than deliver. A duty which the
purchaser seems very early to have acquired was that of compensating the
seller for mora on his part. Upon the vendor (tienditor-). His
chief duty is rem praestare (or rem habere licere), to give quiet
possession to the vendee. But this does not include the obligation to
convey dominium ex iure Quiritium. The actio emti, as we have
now examined it, enforced three things: recognition of the consensual
agreement of sale, delivery by the seller, prompt payment by the buyer.
Thus it deals with three of the elements involved in the general
conception of sale. The fourth element, that of warranty, remains to be
considered. We know that this fourth element is covered by the actio
emti in the time of Ulpian, but it does not seem to have been so during
the Eepublic. Both Muirhead' and Bechmann* have involved the
' Varro, R. R. n. 2. 6. ^ Cato, R. R. 150. 3 /. N. in. 985. ^
19 Dig. 1. 38 fr. 1. « 19 Dig. 1. 11. " 19 Dig. 1. 30 ; 18
Dig. 1. 25. R. Law, p. 285.. ^ Kauf. i. 505. 10—2
subject in unnecessary difficulty by confusing a honae fidei
contract of sale with one in which warranty was employed. They speak as
though bona fides included warranty, a proposition not necessarily
tnie and of which we have no proof. It appears, on the contrary,
that the actio emti to enforce warranty was of much later origin than the
actio emti to enforce consensual sale '. We have therefore to inquire
how warranty was originally given and how it was made good. The
only kind of warranty which we have hitherto encountered is that against
eviction implied in every mancipatio and enforced by the actio
auctoritatis. This method was but of limited scope, since it ap-
plied only to res mancipi. After the introduction of the condictio
incerti, it became possible to embody warranties in the form of a
stipulation. This was accomplished in one or more of the following ways. The
stipulatio duplae specified the warranty given by the vendor, and
provided in case of a breach for liquidated damages in the shape of a
poena dupli, which was doubtless copied from the duplwm of the
a^tio auctoritatis. The best specimens of this stipulation are texts 1 and 2 of
the Transylvanian Tablets printed by Bruns. It was apparently used in
those sales of res mancipi, which were consummated not by
mancipatio but by traditio '. Its superiority to the warranty afforded by
the actio auctoritatis was that it guaranteed quality as well as title,
which the actio [Girard, Slip, de Garantte, N. R. H. de D. Font. VARRONE
(si veda), B. R.] auctoritatis could not do. The Tablets indeed show that
the warranties against defects in this stipulation "were exceedingly
comprehensive, and that it defended against eviction not only the buyer,
but also those in privity with him (emtorem eumue ad quern ea res
per- tinebit). We also find a stipulatio simplae, of which the
best instances are texts 3 and 4 of the Transylvanian Tablets and which,
according to VARRONE (si veda) might be used as an alternative to the
stipulatio duplae, if preferred by the two parties. Its aim in securing
the buyer against eviction and defects was precisely the same as
that of the former stipulation; its only difference being that the
damages were but half the former amount, i.e. were exactly measured
by the price of the thing sold. Girard and Voigt are probably wrong
in identifying this stipulation used for res mancipi with the next one,
which was apparently used only in sales of res nee mancipi. Another
stipulation of frequent occurrence was the stipulation recte habere
licere. This guaran- teed quiet possession so far as the seller was
con- cerned. Its scope was therefore not so wide as that of the
stipulatio siviplae or duplae. The vendor simply promised recte habere
licere, but specified no penalty in the event of his non-performance, so
that the action on the stipulation must have been a condictio
incerti, in which the damages were assessed by the judge. The import of
the word 'recte' was doubtless not the same as that of ex fide bona ;
but, 1 R. R. II. 2. 5. as Bechmann points out, it
simply implied a waiver of technical objections. A stipulation as to
quality alone is mentioned by VARRONE (si veda) as annexed to the sale of oxen
and other res mancipi. The vendor simply promised sanos praestari,
so that in this case also the remedy was condictio incerti for judicial
damages. A satisdatio secundum mancipiimi is also mentioned by Cicero'
and in the Baetic Tablet ^ But its nature and form are quite uncertain.
Its name implies that it had some connection with auctoritas, and
the most likely theory seems to be that it was a stipulation of
suretyship, by which security was given for the auctor, either to
insure his appearance (and if so, it was a form of uadimo- nium/')
or to guarantee his payment of the poena dupli, in the event of eviction
(and if so, it was a form oifideiiissio). The three first of the
above stipulations prove that even in the early Empire (a.d. 160 is the
sup- posed date of the Transylvanian Tablets) actio emii was not
yet an action for implied warranty. Ulpian's language also indicates that
the implication of warranty was a new doctrine in his day '. Thus
far we have seen that stipulations of war- ranty were customary, and that
by the stipulatio duplae or simplae both title and quality were
secured. The next step was to make these stipu- 1 Kauf. I. p. 639. ^ ii. 5. 11. » ad Att. V. 1. 2. * Bruns,
Fcmtes, p. 251. " Varro, vi. 7. 54. ^ gge Girard, loc. cit. p.
551. ' 21 Dig. 1. 31
fr. 20. lations compulsory, and this was first
accomplished by the Aediles, in their Edict regulating, among other
things, sales in the open market. Plautus mentions this Edict, and refers
to the rule of red- hibitio which it enforced \ The first positive
mention of aedilician regulations as to warranty occurs however in CICERONE
(si veda) and from this it appears that the Aediles first compelled a
stipulatio duplae in the sale of slaves. This innovation was doubtless
intended to punish slave dealers, who were, as Plautus shows, a low
and dishonest class, by imposing upon them the old penalty of duplum. The
two aedilician actions which could be brought, if the stipulatio duplae
had not been given, were the actio redhibitoria, avail- able within
two months, and by which the vendor had to restore the duplum of the
price"; the actio quanti emtoris intersit, available within
six months for simple damages. Further than this, however, the law
of the Republic did not advance. It was not till the day of Trajan and
Septimius Severus that the stipulations of warranty were compulsory
for other things than slaves*, and we cannot therefore here trace the
development of warranty to its consummation. Art. 2. LocATio
Condvctio. The word locare has no technical equivalent in Oxonian English,
for it sometimes expresses the fact of hiring, sometimes that of being
hired. It means literally to place, to put out. 1 Capt. i. 2. 44 ;
Bud. 2. 3. 42 ; Most. 3. 2. 113. 2 Off. III. 17. 71. 3
21 Dig. 1. 45. « 21 Dig. 1. 28. 5 Girard, N. B. H. de D. viii. p.
425. As we say that a capitalist places his money, so the
Romans said of him pecunias locat\ The State was said opios locare when
it paid a contractor for doiag a job, while the gladiator who got paid
for fight- ing was said operas locare. This contract was con-
sensual and bi-lateral like emtio uenditio, and had a very similar
origin. It is easy indeed to see that for a long time there was no
distinction made between locatio and uenditio. The latter meant
originally, as we have seen, to transfer for a consideration, and
thus included the hire as well as the sale of an object. Festus
accordingly says that the locationes made by the Censors were originally
called uendi- tiones ^ The confusion thus produced left its traces
deeply imprinted in the later law, for we find Gaius' remarks on locatio
condiictio chiefly devoted to a discussion of how in certain doubtful
cases the line should be drawn between that and emtio uenditio. Like
emtio uenditio, this contract was developed in connection with the
administration of public business. The public affairs in which contractual
relations necessarily arose were of four kinds: Sales of public
property, such as land, slaves, etc., which devolved upon the Quaestors.
This class of transactions produced the contract of emtio uen-
ditio, as above explained. Contracts for the hire of public
servants, generally known as apparitores. These were the lictores
and other attendants upon the different [Most. Festus, s. u.
uenditiones. Mommsen, Z. der Sav. Stif. R. A.] magistrates, and were
naturally engaged by those whom they respectively served. This hiring
gave rise to the contract known as condiictio operarum, while the
offer of such services to the State con- stituted locatio operarum. Business
agreements connected with public work, such as the building of temples or
bridges, the collection of revenue, etc. This class was in charge
of the Censors \ and developed the contract of locatio operis, while the
transaction viewed from the standpoint of the contractor became known
as conductio operis. Agreements for the supply of various
kinds of necessaries for the service of the State, such as beasts
of burden, waggons, provisions, etc. This hiring produced the contract
known as conductio rei, while the contractors who supplied such commodities
were said rem locare. Thus the first group of public transactions
gave birth to the contract of sale in private law, while the three
last groups each became the parent of one of the three forms of the
contract of hire. Just as uenditio seems to have been the original
equivalent of locatio, so must emtio have been the original term for what
was afterwards known as conductio. Conducere can originally have
applied only to the second class of agreements; it must have
denoted the collecting and bringing together of a body of apparitores.
Afterwards, when the notion of hiring became conspicuous, conducere
doubt- less lost its narrow meaning, and was extended to 1 Liu. xMi.
3. the pther two kinds of hire, as the correlative to locare. The
wholly distinct origin of these various kinds of locatio conductio, and
the fact that they were transacted by different magistrates, are
sufficient reasons for the curious distinction which the classical
jurisprudence always drew between locatio conductio r&i, operis and
operarum. A trace of the old word emere as equivalent to conducere always
remained in the word redemtor, meaning a contractor for public
works. This term was never applied to the apparitor, since it was he who
took the initiative and who was thence regarded as a locator
operarwm. When the conception of locatio conductio became separated
from that of emtio uenditio it is impossible to determine. But since the
two transactions appear in Plautus distinct as well as enforceable, and
since the contract of sale was only recognised shortly before
Plautus's day, the conceptions of sale and of hire probably becomes quite
distinct before either transaction became actionable. We can trace in
many passages of Plautus the three forms locatio rei", locatio
operis, locatio operarum; and it can hardly be imagined that these
contracts could have been so common and so distinctly marked had they not
been provided with actions. Voigt ' however is of opinion that the
three different forms of locatio conductio became actionable at different
periods. Locatio conductio [Mommsen, Pseud.; Merc. 3. 2. 17. 3
Bacch. i. 3. 115 ; Persa, 1. 3. 80. Aul. 2. 4. 1 ; Merc. 3. 4. 78 ; Epid.
2. 3. 8. = I. N. IV. 596, ff. AGE OF THE VARIOUS FORMS] operis and
operarwm he places earliest, and admits that they were known as contracts
by the middle of the sixth century, which would bring them very
nearly to the age of emtio uenditio ; but from CATONE (si veda) he infers
that locatio conductio rei was of later origin and that it did not become
actionable until the first half of the seventh century. The
earliest actual mention that we possess of locatio conductio is by
Quintus Mucins Scaevola, author of books on the IxiS Giuile'', whom CICERONE
(si veda) quotes, though we cannot tell whether the quotation refers to
all kinds of locatio conductio or only to the locatio conductio
operis. Certain it is that in CATONE (si veda) locatio conductio rei
seems to be treated rather as emtio uenditio fructus rei. It is also
remarkable that lo- catio conductio rei is seldom mentioned in Plautus
and so briefly that we can form no conclusion as to whether it was or was
not actionable; whereas on the contrary locatio conductio operis and
operarum appear very often and exhibit all the marks of thoroughly
developed contracts. For instance, the locatio conductio operancni in
Asinaria contains a lex commissoria, and that in Bacchides'' provides for
a bond to be given by the locator operarum binding him to release
the person whose operae he had been employing, as soon as the work was
finished. Again in Miles Gloriosus the technical term improbare
opus is used to express the rejection of work badly carried out by a
contractor. All this points to the 1 R. B. 149. 2 i.y.c. 661-672.
Off. in. 17. 70. * R. R. 149, 150. 5 Cure. 4. 1. 3 ; Merc. 3. 2.
17. 6 1. 8. 76. ' 1. 1. 8. ? 4. 4. 37. existence of an action
for locatio conductio operarum and for locatio conductio operis at the
time when Plautus wrote'; hut Voigt seems right in concluding that
locatio conductio rei did not become actionable till a good deal
later. The origin of this action, as of the actio emti, was
in the Praetor's Edicts and in form it differed but little from the actio
emti uenditi. Like the latter it was bonae fidei^ and its form {ex
locato) must have been as follows : Quod A^ Agerius N" Negidio
operas locauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negi- dium A" Agerio
dare facere oportere ex fide bona, eius, iudex, N™ Negidium A"
Agerio condemnato. s. n. p. a. Like emtio uenditio it is also clear
that locatio conductio of all kinds could be made by mere
consensus, and that from the first it must have been a 6onae fidei
contract like its prototjrpe. The writings of CATONE (si veda) are
our chief authority for the existence of the locatio conductio operis
and operarum in the second half of the seventh century, and for the
manner in which these locationes were contracted. It appears to have been
customary to draw up with care the terms (leges locationis) of such
contracts, and when these were committed to writing, as they doubtless
must have been, they exactly corresponded to the contracts made in
modem times between employers and contractors. Already in the
Kepublican period the jurists had ^ So Demelins, Z.filr RG. ii. 193
; Bechmann, Kauf. i. p. 526 j but Bekker denies it Z.fUr RG. iii.
442. .50 Dig. 16. 5. ^ Cic. N. D. iii. 30. 74 ; Off. a. 18. 64.
* R. R.] begun to subdivide the classes of contracts above
mentioned. (1) They distinguished between various sorts of
locatio cmiductio rei. There was rei locatio friiendae in which the use of the
object was granted ^ rei locatio ut eadem reddatur in which the
object itself had to be returned, and rei locatio ut eiusdein
generis reddatur '' in which a thing of the same kind might be
returned. The two kinds of locatio condiictio operis were also most
probably distinguished at an early date into: locatio rei faciendae in
which a thing was given out to be made (epyov), and locatio operis
faciendi in which a job was given out to be done
{aTTOTeXea/jia). Locatio condvxtio operarum alone does not seem to
have been subdivided in any way. The object of these distinctions is
doubtless to define in each case the rights and duties of the
conductor. The technical expression for the remu- neration in locatio
conductio was m,erx, and it was always a sum of money, probably because
it was originally paid out of the aerarium and therefore could not
conveniently have been given in kind. The fact that in Plautus the word pretium
was often used instead of merx, shows that the distinction between
locatio conductio and emtio uenditio was still of recent origin when he
wrote; but our general conclusion must be that this contract was
known [Gai. III. 145 ; Lex agraria, c. 25. 2 19 Dig. 2. 31 ;
34 Dig. Dig. 2. 30 ; 50 Dig. VARRONE (si veda) , L. L.] to him in some at least
of its forms, and that in all its branches it arrived at full maturity in
the Republican period. It is worth remembering that the Lex
Rhodia de iactu, the parent of the modern law of general average,
was enforced by means of this action. The owner sued the ship's magister
ex locato, and the magister forced other owners to contribute by suing
them ex conducto\ This law was discussed in Re- publican times by Servius
Sulpicius and Ofilius". Art. 3. Before proceeding further with
our history of the ius gentmm contracts we must notice the
important innovation made by the Edict Pacta conuenta, the author of
which was C. Cassius Longinus, Praetor A.v.c. 627'. We have seen how the
pactum uenditionis and the pactwn locationis had been recognised and
transformed into regular con- tracts about seventy years before this
time. The present Edict gave legal recognition to pacta in general,
and thus rendered immense assistance in the development of formless contract. Its
language was somewhat as follows: PACTA CONVENTA, QVAE NEC VI NEC DOLO
MALO NEC ADVEESVS LEGES PLEBISCITA EDICTA MAGISTKATVVM FACTA ERVNT,
SERVABO. The scope of the Edict was, however, less broad than might
at iirst be supposed. It might well be understood to mean that all lawful
agreements would thenceforth be judicially enforceable. But as a
matter of fact the test of what should constitute [Camazza, Bir. Com. Dig.
2. 2. fr. 3. 3 Voigt, Bom. EG. i. 591. 2 Big.] EDICT an enforceable pactum lay in
the discretion of the individual Praetor. He might or might not
grant an action, according as the particular agreement set up by the plaintiff
did or did not appear to him a valid one. This Edict was therefore
nothing more than an official announcement that the Praetor would, in
proper cases, give effect to pacta which had never before been the
objects of judicial cognizance. It needs no explanation to show
what important results such an Edict was sure to produce, even in
the hands of the most conservative Praetors; and accordingly we find that
in the next century new varieties of formless contract arose from the
habitual enforcement by the Praetor of corresponding pacta.
The mode in which tentative recognition was accorded to the new
praetorian pacta was the devising of an actio in factum^ to suit each new
set of circumstances. The formula of such an action simply set
forth the agreement, and directed the judge to assess damages if he
should find it to have been broken. This was doubtless the means by
which societas, mandatum, depositivm, commoda- tum, pignus, hypotheca,
receptum, constitutum — in short, all the contractual relations originating
in the last century of the Republic — were at first protected and
enforced. A curious historical parallel might be drawn between these
actiones in factum and our "actions on the case." Not only are
the terms almost synonymous, but the adaptability of each class of
actions to new circumstances was equally remarkable; and the part played
by the 1 2 Dig. 14. 7. fr. 2. -- latter class in the
expansion of the English Law of Tort bears a striking reseniblance to
that played by the former in the development of the Roman Law of
Contract. We shall see specimens of the actio in factum based
upon the edict Pacta conuenta, when we come to examine the various
contracts of the later Re- public which all owed their origin to the
Praetor's Edict. Art. 4. Mandatvm. The age of the actio
man- dati is difficult to fix, but there are good reasons for
believing that it was the third bonae fidei action devised by the
Praetor, and that it is older than the actio pro socio. Mandatv/m was an
agreement whereby one person, at the request of another, usually his
friend', undertakes the gratuitous performance of something to the interest of
that others In short, it is a special agency in which the agent
received no remuneration. Its gratuitous character is essential, for where
the agent is paid, the transaction is regarded as a case of LOCATIO
CONDUCTIO. We know that the testamentum per aes et libram was
virtually a mandatum to the familiae emtor', and that fideicommissa,
which began to be important towards the end of the Republic, were nothing
but mandata; it is plain too that as an informal transaction mandatum,
must always have been practised long before it became recognised by the
Praetor. The earliest piece of direct evidence which we 1 Cie.
Eosc. Am. 39. 112. == Gai. iii. 156. s Gai. II. 102. 4 Ulp. Frag.
25. 1-3. » Auot. ad Her. MAJVDATVAf. 161 have as to the
actio mandati is that it existed in A.V.C. 631 under the Praetorship of
S. lulius Caesar. It is probable that the action was then of recent
origin, and represented the first-fruits of the Edict Pacta conuenta^,
for Caesar treated it as non- hereditary, whereas the Praetor Marcus
Drusus soon afterwards granted an actio in h&redem according to
the rule of the later law'' From Plautus it distinctly appears that
Tnandatum was a well developed institution in his day, but there is
no evidence to prove that an actio mandati already existed. The
transaction is often mentioned', and must have been necessary in the
active commercial life which Plautus has pourtrayed. In Trinummus,
for instance, we see a regular case of mandatvm generate. The phrase
"mandare fidei et fiduciae" here indicates that fides pure and
simple is the only support on which mandatum rested, and that there
was no motive beyond friendly feeling to compel the performance of the
mandatum. On the other hand the word infamia is thought to have had
a technical meaning, as an allusion to the fact that the actio mxvndati
was fam,osa ^ ; but this is surely a flimsy basis for Demelius' opinion
that the actio mandati was in existence as early as the middle of
the sixth century *. It seems much safer to regard this action
as 1 Voigt, Rom. EG. i. 681. ^ 17 Dig. 1. 53. ' E.g.
Bacch. 3. 3. 71-5 ; Gapt. 2. 2. 93 ; Asin. 1. 1. 107 ; Epid. 1. 2. 27, 31
; Gist. i. 2. 53.< 1. 2. 72-121. 5 Cic.
pi-o S. Rose. 38. Ill ; Gaec. 3. 7. Z. fur EG. II. 198 ; Costa, Dir. Priv.
p. 390. B. E. 11
-- younger than those of emtio iienditio and locatio conductio, and
to trace its origin to the influence of the Edict Pacta conuenta. The
earliest form of relief granted to the agent against his mandator
was doubtless an actio in factwrn,, based upon that Edict, and having
a formula of this kind: Si paret N™ Negidium A" Agerio, cv/ni
is in potestate l!- Titii esset, mandauisse ut pro se solioeret, et
A™ Agerium emancipatum soluisse, quanti ea res erit, tantam pecuniam
index N^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. When
at length the Praetor was prepared to recognise mandatum as a regular contract
of the ius duile, he placed it on an equal footing with the older
bonae fidei contracts by granting the actio mandati, with its far more
flexible formula in ius concepta. The actio mandati directa brought by
the principal against the agent had the following formula:
Quod A' Agerius N" Negidio rem curandam man- dauit, quidquid
paret oh earn rem N™ Negidium A" Agerio darefacerepraestare oportere
ex fide bona, eius, iudex, N"^ Negidium A" Agerio condemna. s.
n. p. a. In the actio contraria, by which the agent sued the
principal, the formula began as above, but the condemnatio was different,
thus: quidquid paret ob eam rem A™ Agerium N"
Negidio dare facere praestare oportere e. f. b. eius A™ Agerium
N" Negidio condemna. s. n. p. a. Or again, where the claims
and counter-claims were conflicting, the condemnatio might be made
still more indefinite, thus: 1 17 Dig. 1. 12. fr. 6. --
quidquid paret oh earn rem alterum alteri dare facere praestare
oportere e. f. b. eius alterum alteri condemna. s. n. p. a.'
Unfortunately we do not know the language of the Edict by which the
actio mandati was instituted; but the fact that it was modelled on the actions
of sale and hire is one that nobody disputes. There is no
direct authority for assuming the existence of an actio in factum in this
case, as there is in the cases of commodatum and depositum, where
we have Gaius' express statement to that effects But it is clear, from
Gaius' allusion to "quaedam causae" and from his use of
"uelut," that double formulae existed in many other actions. We
may well accept Lenel's ingenious theory' that the exist- ence of
an actio contraria always indicates the existence of formulae in ius and
in factum conceptae, and the assumption here made is therefore no
rash conjecture. The conception of mandatum changed
somewhat before the end of the Republic. It meant at first any charge
general or special*. But by Cicero's time it had acquired the narrow
meaning, which it retained throughout the classical period, of a
par- ticular trust ^, while procuratio was used of a general trust
°, and its remedy was the actio negotiorum ges- torum ' Thus
it still remains for us to inquire to what 1 Lenel, Ed. Perp. p. 235. 2 Gai. IV. 47. ' Ed. Perp.
p. 202. * Cato, R. R. 141-3. = 17 Dig. 1. 48. 6 Cic. Top. 10. 42. '
Gai. in 3 Dig. -- extent procuratio, i.e. general agency, was
practised, as distinguished from mandatv/m generate, i.e. special
agency with general instructions, and how general agents (procuratores)
were appointed. Now it is one of the most striking features of
the Boman Law that agency of this sort was unknown until almost the
end of the Republic. How and why so great a commercial people as the
Romans managed to do without agency, is a question that has
received many different answers. We may be sure that mandatum was
practised long before it ever became actionable, but if so, it was
practised informally and had no legal recognition. The circumstance which
made it almost impossible for general agency to exist was that the Romans
held fast to the rigid rule: id quod nostrum est sine facto nostra
ad ahum transferri nan potest \" Such a rule evidently had its
origin in the early period when contracts were strictly formal, and when
he alone who uttered the solemn words or who touched the scales was
capable of acquiring rights. In a formal period the rule was natural
enough; but the curious thing is that it should not have been
relaxed as soon as the real and consensual contracts became
important. This fact has sometimes been accounted for on
ethical grounds. It has been said that the keen legal conscience of the
Romans made them loth to depart from the letter of the law by admitting
that a man who entered into a contract could possibly thereby
acquire anjdihing for anybody else. But the true > 50 Dig. 17.
11. -- reason seems rather to have been a practical one —
that the existence of an agency of status precluded that of an agency of
contract. Thus we know that householders as a rule had sons or slaves who
could receive promises by stipulation, though they could not bind
their paterfamilias by a disadvantageous contract; and so to a limited
extent agency always existed within the Roman family. It is also
obvious that, in an age when men seldom went on long journeys, the
necessity for an agent or fully empowered representative cannot have been
seriously felt. Plautus shows however that agency was not developed
even in his day, when travel had become comparatively common. In
Trimimmus and Mostel- laria, for instance, no prudent friend is charged
with the affairs of the absent father, and consequently the
spendthrift son makes away with his father's goods by lending or selling
them as he pleases. We can however mark the various stages by which the
Roman Law approximated more and more closely to the idea of true
agency. 1. The oldest class of general agents were the tutor
es to whom belonged the management (gestio) of a ward's or woman's
affairs, and the curatores of young men and of the insane. The next
oldest kind of general agents are the cognitores, persons appointed to
conduct a particular piece of litigation , and not to be confounded with
the cognitores of praediatura. They were ori- [Pemice, Labeo, i. 489.
" Trin. 1. 2. 129; Most. 1. 1. 74. 3 2 Verr. in. 60. 137 ;
Gaee. 14. * Lex. Malae. 63 ; Cio. Har. Resp.] ginally appointed
only in cases of age or illness and their general authority was limited
to the management of the given suit. Gaius has shown us how they were
able to conduct an action by having their names inserted in the condemnation.
Whether they existed or not under the legis actio procedure is
uncertain ; but they probably did, since we know that they were at first
appointed in a formal manner. Subsequently the Edict extended their powers to
the informally appointed procuratores. The action by which these
agents were made responsible to their principals is after Labeo's time the
actio mandati. During the Republic however and before his time the
jurists do not seem to have regarded the relation between cognitor and
principal as a case of mandatum, but simply gave an action corresponding
to each particular case, as for instance an actio depositi if the
cognitor failed to restore a depositwn. Procuratores are persons who in
Cicero's day act as the agents and representatives of persons
absent on public business. They often appear to have been' the freedmen
of their respective principals, and their functions were doubtless modelled on
those of the curatores. The connection between curatores and procuratores
is seen in the Digest where pupilli and absent in- dividuals are
often coupled together', while the ' Auot. ad Her. ii; 20. " Gai. iv. 86.
3 Gai. IV. 83. < 17 Dig. 1. 8. fr. 1. = Quint. 19. 60-62 ;
-2 Verr. v. 7. 13 ; Lix lui. Mm. 1. « Gaec. 57. • ' Cio. Or. 2. 249. 8 29
Dig. 7. 2. fr. 3 ; 47 Dig. 10. 17. fr. 11 ; 50 Dig. 17. 124. -- definitions
of procurator show that his power is confined to occasions on which his
principal is absent and the word procuratio itself indicates that
it was copied from the curatio of furiosi ^ or of prodigi.
One passage of Gaius " seems to imply that the procurator is
not always carefully distinguished from the negotioruTn gestor or
voluntary agent, and Pernice interprets some remarks of CICERONE (si
veda) as indicating the same fact. From this he infers with much
likelihood that the remedy against the procurator is originally not the
actio mandati but the actio negotiorum gestorum. Even in Labeo's time
the actio mandati was probably not well established in the case of
procuratores, though it was so by the time of Gains. A procurator
might conduct litigation for the absent principal; but the acquisition of
property through an agent was not clearly established even in
Cicero's time °, though the principal could always bring an action for
the profits of a contract made in his name". 4.
Negotiorum gestio was a relation not based upon contract, but consisted m
the voluntary in- tervention of a self-appointed agent, who
undertook to administer the affairs of some absent or deceased
friend. In the Institutes it is classed as a form of 1 Paul. Diac.
s.u. cognitor. ' Lex agr. c. 69. 3 IV. 84. ^ Top. 42 and 66. "
17 Dig. 1. 6. fr. 1. Labeo, I. 494. ' 4 Dig. 4. 25. fr. 1. 8 3 Dig.
3. 33. " Cic. Att. vi. 1. 4. i» 3 Dig. 3. 46. fr. 4. -- ,
quasi-contract, and it was always regarded as a relation closely
analogous to mandatum^. The mode of enforcing claims made by
the negotiorum gestor and his principal against one another was the
actio negotiormn gestorum, which might, like the actio mandati, be either
directa or contraria. It was based upon an Edict worded thus: SI
QVIS NEGOTIA ALTERIVS, SIVE QVIS NEGOTIA QVAE CVIVSQVE CVM IS MORITVR
FVERINT, GESSERIT, IVDICIVM EO NOMINE DABOl We do not know the date
of this Edict, but it was certainly issued before the end of the
Republic, inasmuch as the action founded upon it was discussed by
Trebatius and Ofilius'. This action had a formula in ills concepta which
ran somewhat as follows: Quod N' Negidius negotia A^ Agerii gessit,
qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium A" Agerio
dare facere praestare oportet ex fide bona, tantam pecuniam index
JV'" Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. Another means by
which agency could practically be brought about was adstipulatio. This is not a
case of true agency [cf. H. P. GRICE, ACTIONS AND EVENTS], for the
adstipulator acquired the claim in his own name, and if he sued upon it,
he did so of course in his own right: yet he was treated as agent for the
other stipulator and made liable to the actio mandati^. 6. Fideiussio
was probably treated as a form of special agency almost from the time of
its invention, Dig. Big. Big. Lenel, Ed. Perp. Gai.] since we know that
it possessed the remedy of the actio mandati as early as the time of
Quintus Mucius Scaevola Art. 5. SociETAS. This was the common
name given to several kinds of contract by which two or more
persons might combine together for a common profitq,ble purpose to which
they contributed the necessary means. These contracts could be
formed by mere consent of the parties, and except in the case of
societas uectigalis they were dissolved by the death of any one member,
so that even societas in perpetuum meant only an association for so long
as the parties should live '. Ulpian distinguishes four kinds
of societas": (1) omnium honorum, (2) negotiationis alicuius, (3)
rei unius, and (4) uectigalis. The first of these has no
counterpart in our modem law, but may be described as a contractual
tenancy in common. The second and third may be treated under one head, as
societates quaestuariae, corresponding to modem contracts of
partnership. The fourth may best be regarded as the Roman
equivalent of the modem corporation. Except in the case of this
fourth form, which was in most respects unique, the remedy of a
socius who had been defrauded, or who considered that the agreement
of partnership had been violated, or who wished for an account or a
dissolution, was either an actio in factum or the more comprehensive
actio pro socio. Dig. Big. Dig. 2. 5. * Cic. Rose. Com. Both these
actions were of praetorian origin, and the former was doubtless the
experimental mode of relief which prepared the way for the introduction
of the latter. At first we may fairly suppose the Praetor to have
granted an actio in factwm adapted to the particular case, with a formula
worded somewhat as follows : 8i paret iV™ N™ cum A" A° pactum
bonuentum fecisse de societate ad rem certam emendam ideoque renuntiauisse
societati ut solus em^ret^, quanti ea res est tantam pecuniam, iudex, N'^
iV™ A" A" condemna. s. n. p. a. When the pactum
societatis had thus been protected, and the juristic mind had grown
accustomed to regard societas in the light of a contract, the Praetor
then doubtless announced in his Edict that he would grant an actio pro
socio to any aggrieved member of a societas. In this way agreements
of partnership became fully recognised as contracts, and were provided
with an actio in iiis conoepta, the formula of which must have been
thus expressed': Quod A' Agerius cum N" Negidio
sodetatem coiit universoru/m quae ex quaestu veniunt, quidquid oh
eam rem N"^ Negidium A" Agerio (or alterum alteri) pro socio
dare facere praestare oportet ex fide bona, eius iudex N™ Negidium
A" Agerio (or alterum alteri) condemna. s. n. p. a. The
superiority of this honae fidei action to the former remedy, as a mode of
adjusting com- plicated disputes arising out of a partnership, is
too obvious to require explanation. The actio in 1 17 Dig. Big. 2,
65. ir. 4. 3 Lenel, Ed. Perp. p. 237. -- factum may
still however have proved useful in certain cases. Societas
appears in Plautus with much less dis- tinctness than either of the other
three consensual contracts. Socius is not used by him in a
technical or commercial sense, but means only companion ^ or
co-owner^. The nearest approach to an allusion to societas in its more
recent form is to be found in Rudens^ where the shares of socii are
mentioned; but this is no reason for supposing that Plautus knew of
societal as a contract. The date of the actio pro socio is impossible to
fix, though Voigt suggests that the Praetor P. Kutilius Rufas must have
been its author in the year 646 ^ Abso- lute certainty on the subject is
unattainable, because we cannot tell whether this Rutilius originated
or merely mentioned the edict, nor can we positively identify him
with the Praetor of a.v.c. 646. On these points there is hopeless
controversy", so that they must remain unsettled. But what we can
do with a certain measure of accuracy, is to trace the process by
which societal came to be regarded as a contractual relation, and slowly
grew in importance till it called for the creation by the Praetor of
a honae fidei action to protect it. This action certainly existed
about the end of the seventh century, for it is mentioned in the Lex
Julia Municipalis of 1 Bacch. 5. 1. 19 ; Cist. 4. 2. 78. '
Bud. i. 3. 95. ' 1. 4. 20 and 2. 6. 67. * lus N. IV. 603 note
204. 5 38 Dig. 2. 1. " See Husehke, Z. fur Civ. wnd
Proc. 14. 19 ; Schilling, Inst. A.V.C. 709 ^ and was discussed by Quintus
Mucius Scaevola. A closer approximation to the date of its
"origin seems to be impossible. 1. Societas omnium
bonorum. The original conception of SOCIETAS (cf. Grice’s Aristotelian
Society) seems not to have been that of a commercial combination, but
of a family. Not indeed that the term societas was ever applied to
the association of father, mother, children and cognates; but they were
practically regarded as a single body, each member of which was
bound by solemn ties to share the good or bad fortune which befell the
rest. The duty of avenging the death of a blood-relation, the duty of
providing a certain portion for children, as enforced by the
querela inofficiosi testamenti, the obsequia which children owed to their
parents, are illustrations of the principle. Now this body, the family,
could hold common property: and here is the point at which the family
touches the institution of partner- ship. The technical term which
expressed the tenancy in common of brothers in the family property
(hereditas), was consortivmi, and the brother co-tenants were called
consortes. This institution of consortium was of great antiquity, being
even found in the Sutras. It is compared by Gellius to the relation of
societas, and arose from the descent or devise of the patrimonial estate
to several children who held it undivided. Division might at any
time be made among them by the actio familiae 1 Bruns, Font. p.
107. ^ gaj. ni. 149 ; Cic. Off. in. 17.
70. » Cie. 2 Veir. ii. 3. 23; Paul. Diao. 72. " Leist, Alt.-Ar. lus
Gent. p. 414. > i. 9. 12. -- erciscundas \ but they might
often prefer to continue the consortium, either because the property
was small, or because they wished to carry on an es- tablished
family business. If the latter course was adopted, the tenancy in common
became a partner- ship, embracing in its assets the whole wealth of
the partners ; and it is easy to see how this natural part-
nership, if found to be advantageous, would soon be copied by voluntary
associations of strangers. Thus socius, as we know from CICERONE (si
veda), was often used as a synonym of censors, and there can be no
doubt that consortium was the original pattern of the societas
omnium bonorum". That there were some differences between the rules
of consortium and those of societas does not affect the question. For
instance, the gains of the consortes were not brought into the common
stock, but those ot socii were; while the death of a socius dissolved the
societas, but that of a consors did not ^ dissolve the consortium.
These points of difference and others probably arises from the
juristic interpretation applied to societas, when it had once become
fairly recognised as a purely commercial contract. But consortium and
societas omnium bonorum have two points in common which show that
they must have been historically connected, In societas omnium, bonorum
there was a complete and immediate transfer of property from the
indi- viduals to the societas'', whereas the obligations of [- Paul.
Diao. s. u. erctum. ^ Brut. i. 2. 3 Leist, Soc. 24 ; Pernioe, Z.
der S. Stift. R. A. in. 85. i 17 Dig, 2. 52. * Pernice, Labeo See Pernice,
Laieo i. 85-6. ' 17 Dig. 2.] each remained distinct and were not shared by
the others'. Now this is exactly what would have happened in
consortium : the property would have been common, but the obligation of
each consors would have remained peculiiar to himself, The
treatment of socii as brothers' is clearly also a reminiscence of
consortiv/m ; and this conception of fratemitas, being peculiar to the
societas omnium bonorum^, makes its connection with the old con-
sortium still more evident. The fraternal character of this
particular societas is responsible for the existence of a generous
rule which subsequently, under the Empire, became extended so as to
apply to the other kinds of societas^ The rule was that no defendant in
an actio pro socio should be condemned to make good any claim
beyond the actual extent of his means ^ This was known as the
beneficium competentiae ; and it gave rise to a qualified formula for the
actio pro socio, as follows: Quod A' Agerius cum N" Negidio
societatem omnium bonorum emit, quidquid 6b earn, rem iV"'
Negidium A° Agerio dare f. p. oportet ex f. b. dumtaxat in id quod i\r*
Negidius facere potest, quodue dolo malo fecerit quominus possit, eius
index N™ Negidiwm A" Agerio condemna. s. n. p. a. 2.
Societas negotii uel rei alicuius. This second form of partnership
must have been the most common, since it was presumed to be in-
tended whenever the term societas was alone used '. 1 17 Dig. 2. 3.
2 17 Dig. 2. 63. ' 17 Dig. 2. 63. * 17 Dig. 2. 63. fr. 1. 42 Dig.
1. 16 and 22. « 17 Dig. It has also been derived from consortium
by Lastig. His theory is that consortes, or brothers, when they
undertake a business in partnership with one another, often modify their
relations by agreement. The special agreement, he thinks, then becomes
the conspicuous feature of the partnership, and the relations thus established are
copied by associations not of consortes but of strangers. The object
of the theory is to explain the correal obligation of partners. This
correality did not however exist at Rome, except in the case of banking
partnerships, where we are told that it is a peculiar rule made by
custom, so that Lastig's theory lacks point. A further objection is that
this theory does not explain, but is absolutely inconsistent with, the
existence of the actio pro socio as an actio famosa. The fraternal
relations existing between consortes may never have suggested such a remedy,
for CICERONE (si veda) in his defence of Quinctius lays great stress on the
enormity of the brother's conduct in having brought such a humiliatiag
action against his client. Another explanation of the actio pro socio
is given by Leist". He derives it from the actio so- cietatis
given by the Praetor against freedmen who refused to share their earnings
with their patrons. This societas of the patron must have been a
one- sided privilege, like his right to the freedman's 1 Z.
filr ges. Handelsrecht. xxiv. 409-428. 2 As in 26 Dig. 7. 47.
6. 3 14 Dig. 3. 13. 2 ; 17 Dig. 2. 82. * Auet. ad Her.
ii. 13. 19 ; 2 Dig. 14. 9, 5 As Perniee has pointed out, Labeo i.
p. 94. 6 Soc. p. 32. -- services' ; for the freedman could never
have brought an action against his patron, since he was not
entitled to any share in the patron's property. The actio
societatis was therefore a penal remedy available only to the patron, and
consequently it cannot pos- sibly have suggested the bilateral actio pro
socio of partners. Nor can the bonae fidei character of the actio
pro socio be explained if we assume such an origin. The most
reasonable view appears to be that which regards the actio pro socio as
the outcome of necessity. The Praetor saw partnerships springing up
about him in the busy life of Rome. He saw that the mutual relations of
socii were unregulated by law, as those of adpromissores had been
before the legislation described above in Chapter v. He found that
an actio in factum, based on the Edict Paxta conuenta, was but an
imperfect remedy; and as an addition to the Edict was then the
simplest method of correcting the law, it was most natural for him
to institute an actio pro socio, in which bona fides was made one of the
chief requisites simply because the mutual relations of socii had
hitherto been based upon fides Societas uectigalium uel pMicanorwm.
This kind of societas was a corporation rather than a partnership,
and we have proof in Livy that such corporations existed long before the
other kinds of societas came to be recognised as contracts. These
1 38 Dig. 2. 1. 2 Cie. Quint. 6. 26 ; Q. Rose. 6. 16 ; S.
Rose. 40. 116 ; 2 Verr. III.] societates acted as war-contractors^ collectors
of taxes , and undertakers of public works'. In one passage in LIVIO
(si veda) they are called redemtores, and we find three societates during
the second Punic War in A.v.c. 539" supplying the State with arms,
clothes and com. It was perhaps the success of these societates
publica- norwm" which iatroduced the conception of commercial and
voluntary partnership. But still they are utterly unlike partnerships', so
that their his- tory must have been quite different from that of
the other societates. They were probably derived from the ancient
sodalitates or collegia^, which were per- petual associations, either
religious (e.g. augurium collegia), or administrative {quaestorum
collegia), or for MUTUAL BENEFIT (cf. H. P. Grice), like the guilds of
the Middle Ages (fabrorwm collegia). This theory of their origia is
based upon three points of strong resem- blance which seem to justify us
in establishing a close connection between societas and collegium: Both
were regulated by law", and were established only by State
concessions or charters. Both had a perpetual corporate existence,
and were not dissolved by the death of any one member "-
(3) Both were probably of Greek origin. We > Liu. XXXIV. 6
in a.v.c. 559. ^ Liu. xxvii. 3 (a.v.c. 544). » Liu. XXIV. 18
(A.V.C. 540) ; Cic. 2 Verr. i. 50. 150. • XLii. 3 (a.v.c. 581). ' Liu.
xxiii. 48-9. " Liu. xxxix. 44 ; XXV. 3. '3 Dig. 4. 1.
8 Lex rep. of a.v.c. 631, cap. 10 ; Cic. leg. agr. ii. 8. 21 ; pro
domo 20. 51 ; PUnc. 15. 36. 9 GaiuB, 3 Dig. 4. 1 ; 47 Dig. 22.
1. "I 28 Dig. 5. 59 fr. 1 ; 17 Dig. 2. 59 ; Cic. Brut. i.
1. B. E. 12 -- are told that societates
publiccmorum existed at Athens', while Gaius^ derives from a law of
Solon the rule applying to all collegia, that they might make
whatever bye-laws they pleased, provided these did not conflict with the
public law. These three facts may well lead us to derive this
particular form of societas from the collegium. We know further that the
jurists looked upon it as quite different from the ordinary societas, and
that it did not have the actio pro socio as a remedy'- The
president or head of the societas was called manceps*, or magister if he
dealt with third parties ', and the modes of suretyship which it used in
its corporate transactions were praedes and praedia', another mark
perhaps of its semi-public origin. Arist. Bep. Ath. 52. 3 and of. Voigt,
I. N. ii. 401. 2 47 Dig. 22. 4.
3 Voigt, Rom. BG. i. 808. * Ps. Asc. in Cio. Diu. ; Paul. Diao. 151
s. u. manceps ; Cio. dam. 10. 25 ; Cic. Plane. 26. 64.
' Paul. Diac. s. u. magisterare ; Cic. Att. v. 5. 3 ; Cio. 2 Verr.
11. 70. 169 ; ib. III. 71. 167. ' Lex Mai. We have not yet really
dis- posed of all the consensual contracts, for we now come to a
class of obligations entered into without formality and by the mere
consent of the parties, but in which that consent is signified in one
particular way, i.e. by the delivery of the object in respect of which
the contract is made. The contracts of this class have therefore been termed REAL
contracts, though they may with equal propriety be called consensual. The
oldest of them all is mutumn, the gratuitous loan of res fungibiles, and
it stands apart from the other contracts of its class in such a
marked way, that its peculiarities can only be understood from its
history. It differed from the other so-called real contracts, im having
for its remedy the condictio, an actio stricti iuris; in being the
only one which conveyed ownership in the objects lent, and did not
require them to be returned in specie. Both peculiarities requfre
explanation. The most important function of contract in early times is the
making of money loans, and for this the Romans had devices peculiarly
their own, Tiexum, sponsio, and earpensilatio. But these are
available only to Roman CITIZENS (cf. Grice: OXONIANS), so that the legal
reforms constituting the so-called ius gentium naturally included new
methods of performing this particular transaction. One such innovation was the
modification of sponsio, already described, and the rise of stipulatio in
its various forms : another was the recognition of an agreement
followed by a payment as constituting a valid contract, which might be
enforced by the condictio, like the older sponsio and expensilatio. This
innovation is the contract known as mutum. It doubtless originates in
custom, and is crystallised in the Edict of some reforming prætor. As
its object was money, or things analogous to money in having no
individual importance, such as com, seeds, &c., the object naturally
did not have to be returned in, specie by the borrower.
Though the bare agreement to repay was suffi- ciently binding as
regards the principal sum, the payment of interest on the loan could not
be pro- vided for by bare agreement, but had to be clothed in a
stipulation. This rule may have been due to the fact that mutuum was
originally a loan firom friend to friend ; but it rather seems to
indicate that bare consensus was at first somewhat reluctantly
tolerated. In Plautus mutuum appears as a gratuitous loan, generally
made between friends^ and in sharp con- [Cure. 1. 1. 67 and 2. 3. 51 ;
Paeud. D trast to foenus, a loan with interest', which was
always entered into by stipulation. When mutuv/m is used by Plautus to
denote a loan on which interest is payable, we must therefore understand
that a special agreement to that effect had been entered into by
stipulation, since mutuum was essentially gratuitous. From
three passages " it is evident that mutuum was recoverable by action
in the time of Plautus* (circ. A. V. c. 570), and it seems probable that LIVIO
(si veda) also uses it in a technical sense. If then we place the
date of the Lex Aebutia as late as A.v.c. 513, and suppose, as Voigt does
', that mutuum being a iuris gentium contract must have been
subsequent to that law, we shall be led to conclude that mutuum
came into use about the second quarter of the sixth century. This theory
as to date is supported by the fact, which Karsten points out, that
mutuum would hardly have been possible without a uniform legal
tender, and that Rome did not appropriate to herself the exclusive right
of coinage till A.v.c. 486. We thus see that the introduction of mutuum
and that of emtio uenditio, i.e. of the first real and the first
consensual contract, took place at about the same time. As regards
its peculiar remedy we know that money lent by mutuum was recoverable by
a con- dictio certae pecujiiae, with the usual sponsio and 1
Asin. Trin. 3. 2. 101 ; 4. 3. 44 ; Bacch. 2. 3. 16. 3 Cure. A.v.c.
560. ^ xxxii. 2. 1. » Of A.v.c. 555. 6 I. N. IV. 614. ' Slip. restipulatio
tertiae partis\ It seems, like expensila- tio, to have received this
stringent remedy by means of juristic interpretation, which extended the
meaning and the remedy of pecimia certa credita so as to cover this
new form of loan. Thus we find credere often used by Plautus in the sense
of making a miwtvm/m *. When this final extension had been made
iu the meaning of pecunia credita, we may reconstruct the Edict on
that subject as follows ° : SI CERTVM PETETVR DE PECVNIA QVAM QVIS
CREDIDERIT EXPENSVMVE TVLERIT MVTVOVE DEDERIT NEVE EX IVSTA CAVSA SOLVERIT
PROMISERITVE, DE EO IVDICIVM DABO. The iudicium here referred to was the
condictio certae pecuniae, the formula of which has already been
given*. We know that mutuvm, could be applied to other
fungible things besides money, such as wine, oil or seeds, and in those
cases the remedy must have been the condictio triticaria'^.
FoENVS NAVTIGVM {Bdveiov vavTiKov). A con- tract very similar to
mviuvm,, which we know to have existed in the Republican period, since we
find it mentioned by Seruius Sulpicius * and entered into by Cato',
was foeniis nauticum, a form of marine insurance resembling bottomry^. It
consisted of a money loan (pecunia traiecticia) to be paid back by
the borrower, — invariably the owner of a ship, Cic. Rose. Com. 4. 13.
2 As in Pers. 1. 1. 37; Merc. 1. 1. 58; Pseud. 1. 5. 91. Voigt, I.
N. IV. 616. •* p. 104. » 12 Dig. 1. 2. 8 22 Dig. 2. 8. ' Plutarch,
Cat. Mai. 21. ' Camazza, Dir. Com. p. 176 ff. only in the
event of the ship's safe return from her voyage. A slave or freedman of
the lender apparently went with the ship to guard against fraud'; but
there was no hjrpothecation of the ship, as in a modem bottomry
bond. The contract resembled mutuum in being made without
formality; but its marked peculiarities were: That it was confined
to loans of money, And to loans from insurers to ship-owners, And
because of the great risk it was not a gratuitous loan, but always bore
interest at a very high rate/ It is, however, quite possible that
this interest was not originally allowed as a part of the formless
contract, but that it was customary, as Labeo states ', to stipulate for
a severe poena in case the loan was not returned. If that be so, the
stipulatory poena spoken of by Seruius and Labeo must have been the
forerunner in the Republican period of the onerous interest mentioned by
Paulus'' as an inherent part of this contract in his day. The next three
real contracts are not mentioned by Gains, who apparently took his
classification fi-om Seruius Sulpicius, and it therefore seems certain
that in the time of Seruius and during the Republic they were not
re- garded as contracts, but as mere pacta praetoria.
Commodatum was the same transaction as mutuum applied to a
different object. In mutuum there was a gratuitous loan of money or other
res fungihilis, 1 Plut. Gat. 1. 0.; 45 Dig. 1. 122 fr. 1. 22
Big. 2. 7. ' 22 Big. Big.] CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM]whereas in commodatum
the gratuitous loan was one of a res nonfungihilis ' Both
were originally acts of friendship, as their gratuitous nature implies.
Plautus shows us that in his day the loan of money was not distinguished
from that of other objects, for he uses commodare^ and iitendwm
dare^ in speaking of a money loan, as well as in describing genuine cases
of commodatum. We do not, however, discover from Plautus that commodatum,
was actionable in his time, as mmiuwrn clearly was. Vtendmn dare, we may
note, is in his plays a more usual term than commodare. If it be
asked why the condictio was not extended to commodatum as it was to
mutwu/m, the answer is that the latter always gave rise to a liquidated
debt, whereas in a case of commodatum the damages had first to be
judicially ascertained, and for this purpose the condictio was manifestly not
available. The earliest mention of commodatum as an actionable agreement
occurs in the writings of Quintus Mucins Scaevola (ob. A.v.c. 672) quoted
by Ulpian" and Gellius. CICERONE (s veda) significantly omits to
mention it in his list of bonae fidei contracts, and the Lex lulia
Municipalis (a.v.c. 709) contains no allusion to it. The peculiar rules
of the agreement seem to have become fixed at an early date. Quintus
Mucins Scaeuola is said to have decided that culpa leuis ^
e.g. a scyphus, Plaut. Asin. 2. i. 38 or a chlamys, Men. i. i. 94.
2 Asin. 3. 3. 135. « Persa, 1. 3. 37. Aul. 1. 2. 18 ; Bvd. Dig. Bruns,
Font. AGE OF COMMODATVM] should be the measure of responsibility required
from the bailee (is cui commodatur), and to have established the
rule as to furtum usus, in cases where the res commodata was improperly
used. It seems therefore probable that the Praetor recognised commodatum
at first as a pactum praetoriwn, and granted for its protection an actio
in factum, with the following formula: Si paret A™ Agerium N"
Negidio rem qua de agitur commodasse (or utendam dedisse)
eamque A" Agerio redditam non esse, quanti ea res erit, tantam
pecuniam N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. The
agreement between bailor and bailee pro- bably did not come to be
regarded as a regular contract until after the time of CICERONE (si veda).
We must therefore place the introduction of the actio commodati at least
as late as A.v.c. 710, and by so doing we explain CICERONE (si veda)’s
silence. Whatever conclusion we shall arrive at as to depositum must
almost necessarily be taken as applying to commodatum, also. They both
had double forms of action in the time of Gaius neither is mentioned by
Cicero, and Scaevola evidently dealt with them both together. Hence
their simultaneous origin seems almost certain. The actio commodati is
said to have been instituted by a prætor pacuuius'', who, like PLAUTO (si
veda), used the words utendum dare instead of com- modare. The terms of
his Edict must therefore have been: 1 IV. 47. 2 13 Dig. 6.
1. CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. QVOD QVIS VTENDVM DEDISSE
DICETVR, DE EO IVDICIVM DABOl The author of this Edict was
formerly supposed by Voigt to be Pacuuius Antistius Labeo",
the father of Labeo the jurist ; but this statement has recently
been withdrawn' on the ground that this Pacuuius, having been a pupil of
Seruius Sulpicius, could not have been Praetor as early as the time
of Quintus Mucius. If however the above theory as to the dates be
correct, Voigt's former view may be sound: Q. Mucius may have been
speaking of the actionable pactum, while Pacuuius may have been the
author of the true contract. The aMio com- modati directa had a formula
as follows: Qiiod A' Agerius N" Negidio rem q. d. a. commodauit
(or utendam dedit) quidquid oh earn rem M™ Negi- dium A"
Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona, eius iudex N"
Negidiwm A' Agerio con- demna. s. n. p. a. It was doubtless in this
form that the action on a commodatum was unknown to CICERONE (si
veda). He must have been familiar only with the actio in factvmi, and for
that very reason he must have regarded com/modatwm not as a contract, but
as a pactum conuentum. The most general word denoting the
bestowal of a trust by one person upon another was commendare, and Voigt
shows that corrvmendaiumh is the technical term 1 I. N. III. 969. 2
I. N. B. HG. 1 Dig. 2. 2.
44. Plant. Trin. 4. 3. 76 ; Cio. Fam. ii. 6. 5 ; 16 Diff. 3. 24 ; Cic.
Fin. IR. RG. i. App. 5. for a particular kind of pactum. If the object
of commendatio is the performance of some service, the relation is
a case of mandatwm. If its object is the keeping of some article in safe
custody, the relation is described as depositvm. This case clearly
shows how arbitrary is the distinction drawn by the Roman jurists between
real contract and consensual contract. Though starting, as we have
seen, from the same point, mandatum came to be classed as a consensual,
and depositv/m as a real contract. This was simply because the latter
dealt, while the former did not deal, with the possession of a
definite res. Depositum distinctly appears in Plautus as an
agreement by which some object is placed in a man's custody and committed
to his care, though deponere is not the word generally used by
Plautus to denote the act of depositing. He prefers the phrase
seruandimi dare, corresponding to utendvmi dare, which we found to be his
usual expression for commodatum. These very words, semandum dare,
were also used by Quintus Mucins Scaevola in discussi Dg depositum, but we
cannot ascertain from his language whether or not the actio depositi
was already known to him. He may merely have been discussing an
actionable pactum,. Nor can we infer from any passage of Plautus the
existence of depositum as a contract in his time. He seems CICERO
(si veda) Fin. III. 20. 65. 2 Plant. Merc. Dig. 3. 24 ; Plant. Merc. Bacch.
Merc. 2. 1. 14 ; Cure. 2. 8. 66 ; Bacch. 2. 8. 10. 8 Gell. VI. 15.
2. rather to represent it, as CICERONE (si veda) does, in the light
of a friendly relation based simply on fides '^-j and in most of
the Plautine passages the transaction is that which was afterwards known
as depositum irregulare, i.e. the deposit of a package containing money
either at a banker's ', or with a friend. Some have thought that there
must have been an action in Plautus' time for the protection of
such important trusts, but Demelius° points out that the actio
furti (to which Paulus alludes as actio ex catosa depositi) would have
afforded ample protection in most cases; and it would be extremely rash
to infer that either commodatum or d&positwm was actionable in
the sixth century of the City. At first sight it even looks as though
depositum, was not protected by any action in the days of Cicero.
The passages in which he mentions it' appear to treat the restoration of
the res deposita rather as a moral than a legal duty. Similarly
where he enumerates the bonae fidei actions, where he mentions the persons
qui bonam fidem praestare debent, and where he describes the indicia
de fide mala'^', he entirely leaves out the actio depositi and does not make
the slightest allusion to depositum. But all this is equally true of
commodatum. And since we have the clearest evidence that com-
modatum. was actionable in the time of Quintus 1 2 Verr. it. 16.
36. Merc. 2. 1. 14. 5 Cure. 2. 3. 66. * Bacch. Costa, Dir. Priv. p.
320. « Z. fur RG. ii. 224. ' Farad, iii. 1. 21 ; Off. i. 10. 31 ;
iii. 25. 95. 8 Off. Top. N. D. Gai.] Mucius ScaeuolaS we can hardly avoid
the con- viction that depositurn also was actionable in his day by
means of an actio in fojctvmi, whereas the actio depositi was not introduced,
as Voigt holds, till the beginning of the eighth century. This theory of
development, already applied to mandatum and societas, has the advantage,
not only of explaining why commodatwm and depositvmi were not
numbered among hoTiae fidei contractus, but also of accounting for the
existence in Gains' day of their double formulae which have puzzled so
many jurists. We may then believe that depositurn was first made
actionable between A.v.c. 650 and 670 as a pactum praetorium, and with
the protection of an actio in factum concepta as given by Gains: Si paret
A™ Agerium apud N™ Negidiwm mensam argenteam deposuisse eamque dolo
N^ Negidii A" Agerio redditam nan esse, quanti ea res erit, tantam
pecuniam, iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato. s. n. p.
a. This formula was doubtless the only one pro- vided for depositumi
down to the end of Cicero's career. But about A.v.c. 710^ juristic
interpre- tation began to regard commodatvmi and depositurn as
genuine contracts iuris ciuilis, and thereupon a second formula was
iutroduced into the Edict, with- out disturbing the earlier one, so that
depositurn, like commodatwm, was finally recognised as a contract. Dig.
6. 5. Earn. EG. See Muirhead's Gaim. Dig. Dig.; Trebatius was trib.
pleb. We know that the Praetor's Edict by which this change was
brought about ran somewhat thus: QVOD NEQVE TVMVLTVS NEQVE INCENDII NEQVE
RVINAE NEQVE NAVFRAGII CAVSA DEPOSITVM SIT IN SIMPLVM, EAEVM AVTEM
RERVM QVAB SVPRA COMPREHENSAE SVNT IN IPSVM IN DVPLVM, IN HEREDEM EIVS
QVOD DOLO MALO EACTVM ESSE DICETVR QVI MORTWS SIT IN SIMPLVM, QVOD
IPSIVS IN DVPLVM IVDICIVM DABO'. The penalty of dwplwm shows that,
where the depositwn had been compelled by adverse cir- cumstances,
a violation of the contract was regarded as peculiarly disgraceful and
treacherous. In other cases, where the depositwn was made under
ordinary circumstances, the amount recovered was simplwm, and the
new formula must have been that given by Gaius " as follows : Quod
A' Agenus apud N™ Negidium mensam argenteam, deposuit qua de re agitur,
quidquid oh earn rem JSf™ Negidium A" Agerio dare facere oportet ex
fide bona, eius index N™ Negidiv/m A" Agerio condemnato. s. n. p.
a. PiGNVS. The giving and taking of a pledge appears in Plautus as
a means of securing a promise, but seems then to have belonged to
the class of friendly acts which the law does not condescend to enforce.
In Gaptiui for instance, the slave who had been pledged is demanded in a
purely informal way, and in Rudens pignus is a mere token given to prove
that the giver is speaking the truth. Its connection with arrhabo is very
close. Each served to show that an agreement is seriously [Dig.] meant
by the parties, or was a means of securing credit as a substitute for
money, and if the agreement was broken, the pignus or arrhabo was
doubtless kept as compensation. This practice of giving pawns or
pledges was probably of great antiquity, but we hear nothing of it from
legal sources, simply because it was an institution founded on mores
alone. It probably applies only to moveables and res nee mancipi\ for res
mancipi could be dealt with by a pactvmi fiduciae annexed to mancipatio.
Gaius derives the word from pugnuTn, because a pledge was handed
over to the pledgee. But the correct derivation is doubtless from the
same root as pactum, pepigi, Pacht, Pfand. Pignus must mean a thing
fixed or fastened, and so a security. And this derivation suits the word
in the phrase pignoris capio equally well, without leading us to suppose
that the custom of giving a pledge is in any way derived from the
pignoris capio of the legis actio system. We do not know when
pignus becomes a contract, though it certainly is so before the end of
the Republic. Long before being recognised as such it doubtless
enjoys the protection of an actio in factum, with a formula as follows:
Si paret A^ Agerium N Negidio ratem q. d. a. oh pecuniam debitam pignori
dedisse, eamque pecuniam solutam, eoue nomine satisfactum esse, aut per N™
Negidium stetisse quominus soluatur, eamque ratem q. d. a. A" Agerio
redditam rum esse, quanti ea res erit, tantam, &c.^ In course
Bechmann, Kauf, ii. 416. '' 50 Big. 16. 238. ' ibid. Dernburg, FJr. i. p.
49 ; Beitr. zur vrgl. Sprachforsch. Lenel] of time the actio pigneraticia
was introduced as an alternative remedy, and Ubbelohde ' has argued
that since its place in the edict was between commodatum and
depositum, the Praetor must have introduced the actio pign&raiicia
after the actio com/modati and before the actio depositi ; which seems a
very plausible conjecture. We have no direct evidence of the existence of
an actio pigneraticia earlier than the time of Alfenus Varus, a jurist of
the later Republic. It is not mentioned by CICERONE (si veda). In short
everything points to the origin of the contract of pigrms as
corresponding in age to that of commodatum and depositum. The language of the edict by
which pignus was made a contract has not survived, while the formula of
its actio pigneraticia resembled of course that of the actio depositi,
and need not therefore be given. Though pignus is doubtless a very
inadequate security from the point of view of the pledgor, since it
might at any time be alienated or destroyed, it is the only form which
appears to be common in Plautus, and of fiducia he shows us not a trace. Pignus
seems to have been much used for making wagers, and pignore certare was
probably as common as sponsione certare. The contracts of a kindred
nature which seem to have arisen even sooner than pignus will be
discussed in the next chapter. 1 6. der ben. Bealcont. jjjgr. Costa, Dir. Priv. p. 262. * Bekker,
Akt.] We have examined in a former chapter the early origin of the
pactwm fidudae^, a formless agreement annexed to a solemn
conveyance, by which the transferee of the object conveyed as security
agreed to reconvey, as soon as the debt was paid, or whenever a given
condition should arise. As a result of the Edict Pacta conuenta,
and before Cicero's time'', this pactum became en- forceable by the actio
fiduciae. This action was in factum, like the others of its
class, and its function was to award damages, but it could not otherwise
compel the actual recon- veyance of the object. Its formula must have
been worded as follows^ : Si paret A™ Ageriwm N" Negidio
fwndum quo de agitur oh pecuniam debitam fiduciae causa mancipio
dedisse, eamque pecuniam solutam eoue nomine satis- f actum esse, aut per
N™' Negidium stetisse quominus solueretur, eumque fwndum redditum non
esse, nego- [Cie. Off. in. 15. 61. 3 Lenel, Ed. Perp. p. 233.
B. E.] tiumue ita actum non esse ut inter honos T)ene agier oportet
et sine fraudatione, quanti ea res erit tantwm pecuniam index N™ Negidium
A" Agerio condemna. s. n. p. a. The peculiar clause
"ut inter honos bene agier oportet"'^ virtually made this a
bonae fidei action. That fact may perhaps explain vfhyfiduda was
never protected by a formula in ius coTicepta, and hence was never
regarded as a true contract. We have seen that there were two ways in
which a tangible security might be given: the object might be conveyed
with a pactum fiduciae, providing that it should be reconveyed on the
fulfilment of a certain condition, or else the mere detention of the
object might be granted on similar terms. In the former case the
pledge or its value could be recovered by the actio fiduciae, in the
latter by the actio pigneraticia whose origin we have just discussed. But
neither fiducia nor pignus is a contract of pledge pure and simple. Each
consists of an agreement plus a delivery of the object. The abstract
conception of mortgage, i.e. pledging by mere agreement, is a distinct
advance upon both these methods. The contract which embodies this
form of pledge is known as hypotheca ; and as its name indicates it was
borrowed from the Greeks, from whom the Romans also took the Lex
Rhodia de iactu and the foeitms nauticum. Precisely the same
contract is found in the speeches of Demos- CICERONE (si veda) Top.]
thenes' under the name of v-trodr)Kr\, which could he applied to
moveables or immoveables, and even to articles not yet in existence. The
Romans how- ever regarded hypotheca not as a contract but as a
pactum. It is quite certain that a legal conception so
refined as the pactum hypothecae could not have had a place in the
legal system of the XII Tables. There are passages in Festus and
Dionysius in which the words si quid pignoris and eveyypat^eiv have
been supposed to indicate the existence of some such practice at an
early period. But the evidence is much too vague to supply trustworthy
data, and we may confidently assert that mortgage was unknown to
the early law. Accordingly, we find that hy- potheca was introduced and
made actionable by slow degrees. Its popular name was pignus oppo-
situm, as distinct from pignus depositum, the ordinary pignut above
described. Its LQtroduction seems to have been one of the
many legal innovations produced by the large immigration of strangers into Rome
after the Second Punic War. These strangers must generally have
become tenants of Roman landlords, since the lack of ius commercii
prevented their buying lands or houses, and in order to secure his rent,
the only resource open to the landlord was to take the household goods
of these tenants as security. Such household goods {inuecta illata)
probably constituted in most cases the only wealth of the foreign
immigrant, conse- [Dernburg, Pfdr. s.u. nancitor. Dernburg, Pfdr.] quently
the landlord could not remove them, and the method of pignus was not
available. The ex- pedient which suggested itself was that the
tenant should pledge his goods without removal, by means of a
simple agreement. The relation thus created was the original form of
hypotheca and was precisely analogous to that of a modern chattel
mortgage. As the idea was introduced by foreigners ', it was
very natural that this agreement of pledge should have received a foreign
name. Another class to whom the new expedient was applied were the
free agricultural tenants (coloni) whose sole wealth often
consisted of their tools and other agricultural stock^. The necessity of
making a pledge without removal is obvious in their case also. I.
It was for the protection of landlords that a Praetor Saluius introduced
the interdictum Salui- anum, which seems to have been the first
legal recognition that hypotheca received. Its date is not known.
Formerly the Praetor Salvius Iulianus, author of the Edictum perpetuum,
was regarded as the inventor of this interdict, but his own
language in the Digest^ contradicts this supposition. The most
reasonable theory is that the interdict origi- nated before the Edict
Pacta conuenta (A.v.c.) at about the end of the sixth century.
The fact that Plautus knew hypotheca as a mere nudum pactum can
hardly be doubted. It is true that he not only uses, as Terence does a
little later, 1 Dernburg, Pfdr. Big. 15. 3. 1. » 1.S Dig. 7.
22. * Demelius, Z.filr RG. ii. 232. 5 Phorm.] the phrase
pignori opponere ' to denote the making of a pledge by mere agreement;
but he also men- tions the Greek technical term eTndi^Krj and seems
to use hypotheca as a metaphor'^. The testimony to be gathered from these
passages does not however prove that hypotheca was actionable'.
The contents of the interdictum Saluianum can- not be given with
certainty. We only know two things about it: that it was a remedy of
limited scope, being available only against the tenant or pledgor,
but not against third parties to whom he had transferred or sold or
pledged the goods, and that the interdict is prohibitory and forbids
the pledgor to prevent the landlord from seizing the objects which had
been mortgaged. This first proposition is distinctly stated by a
constitution of Gordian, but flatly contradicted by a passage in the
Digest. The latter authority, however, seems open to strong suspicion and
the fact that the actio Serviana is presumably introduced because the
interdictum Salvianum is inadequate further goes to prove the correctness
of Gordian's constitution. We may be fairly certain that the
interdict was prohibitory, like the interdictum utrvbi, and not
restitutory, as Huschke would have it'; since the weight of authority is
in favour of the former 1 Pseud. 1. 1. 85. * True. 2. 1. i.
3 Costa, Dir. priv. p. 264 ; Dernburg, Pfdr., God. = Dig. Lenel, Z. der Sav. Stiftung, R. A,
iii. 181. 7 Studien] view^ We may therefore accept KudorfiPs
restora- tion of its formula, which runs as follows: Si is homo quo
de agitur est ex his rebus de quibus inter te et conductorem (colonum,
&c. &c.) conuenit, ut quae in eu/m fwndum quo de agitw inducta
illata ibi nata factaue essent ea pignori tibi pro mercede
eiusfimdi essent, neque ea merces tibi soluta eoue nomine satisfactum,
est aut per te stat quaminu^s soluatur, ita quo- minus eum ducas uim
fieri ueto. II. The second remedy introduced to enforce the
formless agreement of mortgage was the actio Seruiana, which was far more
efficacious. Its author cannot have been Seruius Sulpicius Rufus, the
Mend of CICERONE (si veda), because he never is prætor urbanus, and
the action must have existed long before his time. The Praetor who
devised it was doubtless one of the many Seruii Sulpicii whose names
constantly appear in the fasti consulares, and its age is probably
not much less than that of the interdictum Saluianum. The action
was certainly younger than the interdict, and an improvement upon it,
because the jurists treated the law of mortgage under the head of
interdict', which indicates that this was the form of the original
remedy. We may be sure that the interdict is older than the Edict Pacta
conuenta, for otherwise it would not have been needed. And as soon
as pa(Aa were thus legally recognised, it is safe to say that a
more perfect remedy for hypotheca was sure ' Dernburg, Pfdr. p. 59;
Bachofen, Pfdr. p. 13; Keller, Re- cemion. p. 977 and Eudorff, Pfandkl.
p. 210 ; Lenel, Ed. Perp. p. 394.
2 Pfandkl. p. 209. Of. Budorff, Ed. Perp. 282. '
Dernburg, Pfdr.] to be devised. The probability is then that the actio
Seruiana was one of the first products of the Edict Pacta conuenta,
partly because we know that the interdict was an imperfect remedy, partly
because hypotheca was much in vogue at that early date. Thus we may
gather from Plautus' allusions that hypotheca was already in a well
developed state about A.v.c. 570. CATONE (si veda) the Censor also seems
to have alluded to it, and Caec. Statins, as cited by Festus",
unquestionably did so. The curious circumstance that CICERONE (si veda)
should have mentioned it only twice may perhaps be accounted for by
the fact that PIGNUS in its looser sense (in sensu lato) is always a
synonym for hypotheca, and as he mentions it so seldom in its Greek form,
we may suppose that hypotheca is then only just coming into general
use. We know that pignus in the narrower sense (in sensu stricto) is distinguished
by Ulpian from hypotheca as sharply as we distinguish a pawn from a
mortgage, but the earlier writers lead us to infer that the term
pignus oppositum, or simply pignus, was originally the equivalent of
hypotheca. The effect of the actio Serviana was probably a mere
enlargement of the scope of the interdictwm Salvianum, giving the
landlord a legal hold upon the inuecta illata of his tenant even in the
possession of third parties. But since the right of thus pledging
by agreement was as yet recognised only as between the colonus or the
house-tenant and his landlord, 1 jj. i{. 146. s.u. reluere.Att. n.
17 and Fam. xiii. 56. Dig.] hypotheca was a transaction still confined to a
small class. A final improvement is effected, perhaps shortly
after the one just mentioned, when the prætor grants an action on. the
analogy of the actio Serviana, upon all agreements of pledge of
whatever description. From the creation of this action, known as
cuctio quasi Serviana or hypothecaria ,
or simply Serviana, dated the introduction of a law of mortgage
applicable to objects of all kinds. The name hypothecaria, which we find
applied only to the last of these three remedies, implies either that
this was the only action available for all forms of hypotheca, or
else that the Greek term was not introduced until the contract had thus
become general. The formula of the CKtio quasi Seruiana or hypo-
thecaria was of course in factum concepta, because the pactum hypothecae
never was treated as a contractus iuris civilis, though it became in reality
as binding as any contract. The words are restored by Lenel as
follows, in an action by the mortgagee against a third party: Si paret
inter A™ Agerium et Ludum Titium, conuenisse ut ea res qua de agitur
A° Agerio pignori hypothecaeue esset propter pecuniam debitam,
eamque rem tunc cum conueniebat in bonis D Titiifuisse, eamque pecuniam
neque solutam neque eo nomine satisfactum esse neque per A Agerium,
stare quominus soluatur, nisi eares A" Agerio arbitratu-tuo
Inst. Dig. Bachofen, Pfdr. Ed. perp.; cf. Dernburg, Pfdr.; cf. Budorfl] restituetur,
quanti ea res erit, tantam pecuniam index N'" Negidium A"
Agerio condemna. s, n. p. a. No mortgage can be of much practical use
unless it empowers the creditor to sell the thing pledged, so as to
cover his loss. But it is evident that the mere pledgee or mortgagee
could have had no in- herent right to sell or convey what did not belong
to him. This was an advantage possessed by fiduoia, since the
property was fully conveyed and could therefore be disposed of as soon as
the condition was broken. The only way out of the difficulty both
in pignus and hypotheca was to make a condition of sale part of the
original agreement. This was unnecessary under the Empire when the power of
sale came to be implied in every hypotheca, but during the Republic
the power had to be explicitly reserved, or else the vendor was liable for
conversion (furtumy. Even Gains " speaks as though a pactum de
uendendo was usual in his time. Labeo describes a sale eoc pacta convento,
but the usual name for the clause of the agreement containing the power
of sale was lex ccmimissoria. When it became possible to insert
such a clause is uncertain, but Demburg seems right in maintaining that,
as the lex commissoria was known to Labeo and to the far more ancient
Greek law, it must certainly have been customary at Rome long before the
end of the Republic. Dig.; Demburg, Pfdr. Dig. = Pfdr. as against
Baehofen, Pfdr.] The custom of committing hypothecae to writing
(tabulae), which is indicated by Gaius', doubtless pre- vailed also in
the Republican period, the object of the writing being simply to
facilitate proof When we translate hypotheca by the English
word mortgage, we must not forget that the latter denotes technically a
conveyance defeasible by con- dition subsequent, closely resembling
^cZwcia, where- as the former denoted the mere creation of a lien.
On the other hand it is true that our modem mortgage has lost its
original resemblance to fidma, and has now become almost identical with
hypotheca. Praediatvea is a peculiar form of suretyship which the
Roman jurists never treated as a contract, though it doubtless had a very
ancient origin. It was connected with the public emtiones and
locationes, and was the regular method by which contractors or
undertakers of public work gave bond to do their work properly. The
transaction resembles the giving of sponsores in private law. The friends
of the contractor who are willing to be his sureties (praedes)
appear before the Praetor or other magistrate, and entered into a
verbal contract by which they bound them- selves with all that they
possessed. The magistrate, we are told, asked each surety " Praesne
es?" and the surety answered "Praes"\ This has every
appearance of having been a formal contract like sponsio, and it is
difficult to accept the view of Mommsen ^ who considers that the
publicity of the » 20 Dig. 1. 4 ; 22 Dig. 4. 4. 2 Paul.
Diao. s.u. Praes. ' Stadtr. von Salpema] transaction leads us to infer its
formless character. If we follow him in assuming that praedes and
praedia were purely public institutions, how can we explain the existence
of the praedes litis et vindiciarum, who certainly appears in private suits,
and how can we understand those passages in Plautus and CICERONE
(si veda) which clearly refer to praedes and praedia in private
transactions? If then we deny to prædiatura an exclusively public character, we
must class it with sponsio and uadimonium as another formal mode of
giving security. The etymology which explains the word præs as being
the adverbial form of præsto is undoubtedly false. Ihering and Goppert
suppose that it comes from the same root as praedium, and means one
who undertakes a liability. But in the Lex agraria the spelling is
praeuides instead of praedes, and this indicates rather that the true
derivation is from prae and uas ', in the sense of " one who comes
forth and binds himself verbally Pott thinks that vas is the generic
term for surety, and that præs is a composite word meaning a surety who
makes good (præstare) what he undertakes. Where the derivation is
so uncertain no safe conclusion may be arrived at, and the origin of the
contract must, in this case as in that of the primitive vadimonium,
remain an enigma. Cf. aduersariw,
Gai. Plaut. Men.; CICERONE (si veda) Cio. Att.Eivier, Untersuch. Z.fiir RG. Fas bomfari, or vas
from a root meaning, to bind. Dernbur'g, P/dr.; Eivier, Untersueh. Etym.
Forsch. The obligation of the praes was enforced by compulsory sale, the
details of which we unfortunately do not know. The expression prædes vendere
shows approximately how the right was enforced, but it is uncertain
whether this means to sell the property of the surety, or merely to sell
the claim of the State against him K Besides the personal
responsibility thus assumed by the praes, there was another kind of
security known as praedium which the principal might be required to
give. If the praedes furnished by him were not sufficient, praediwm might
be required as an additional safeguard; but we also find that
praedes or praedia might be separately given. The form in which a bond of
praedia had to be made was a written acknowledgment in the Treasury
(praediorum apud aerarium subsignatio), and the only object capable of
serving or being pledged as a praedium was landed property owned by a
Roman citizen, and possessing all the qualities of a res mancipi.
Hence the seciirity of praedia could not in many instances have been
available, for the whole of solwm prouinciale and the holdings of
ager publicus in the possession of occupatorii would of course have been
excluded. The amount of Cio. Phil. 11. 31. 78 ; aes Malac. cap.
64-5. 2 Dernburg, Pfdr. i. p. 28. '
CICERONE (si veda) 2 Verr. i. 54. 142. Goppert, Z.filr EG. iv. p.
288. ' Lex agraria of a.v.c. 643 ; Lex Put. parieti faciendo,
Bruns, Font. p. 272, aes Malac. cap. 64. ' ae» Malac. e.g. Lex
Acilia repet., and Festus s.u. quadrantal, 8 Cic. Place. 32. 80. praedia
which had to be given was entirely in the magistrate's discretion and to
help him in his decision we find that there existed praediorum
cognitores who were probably persons appointed to assess the value of
praedia, and responsible to the State if their information was
wrong. As to the nature of the transaction effected by praediorum
subsignatio, there can be no doubt that the old theory held by Savigny
and others is incorrect, and that the State did not in virtue of svbsignatio
become absolute owner of the praedia. Rivier and Demburg have demonstrated
that the State merely acquired a lien, and that praediorum subsignatio
was therefore a species of mortgage. The classical sources fully support
this view, and it is certain that while the property was subject to
this lien its owner still had the right to sell it and to exercise
other rights of ownership. A public sale (venditio prædiorum) follows
closely no doubt upon the default of the debtor, but does not necessarily
accompany the sale of the goods of the praedes (uenditio praedium). At Rome the
former sale was made by the praefecti aerario, and in the Lex Malacitana
the duumvirs or decuriones are empowered to make it. A peculiarity of
the sale of praedia was that the ' Lex agraria, 73-4 ; Bruns, Font.
p. 84. 2 aes Malac. cap. 65. 3 Savigny Heid. Jahrsch. 1809, p.
268 ; Walter, E. G. p. 587 ; Hugo, R. G. 449. * Pfdr. 1. p. 33. VARRONE (si veda) L. L.; Lex
agraria, Dig. 17. 205. ^ Gai. ii.
61 ; CICERONE (si veda) Cie. 2 Verr. i. 55. 144. 8 cap. 64; Bruns, Font.
p. 146. dominiwm residing in the owner became instantly transferred
to the praediaior or purchaser from the State, without any act on the
owner's part. The only advantage reserved to the dispossessed owner
was an exceptional right of recovering his property from the purchaser by
usurec&ptio, i.e. conscious usucapio S one of the few instances in
which it was possible to exercise usucapio otherwise than with a
bona fide colour of title. In this case, as the praedia were always land,
the statutory period of two years was necessary to complete the
adverse possession. The lex praediatoria mentioned in the aes
Malacitanum" has been thought to be a statute of unknown date; but
it more probably denotes some collection of traditional terms used in
praediatura and analogous to a lex uenditionis in a contract of
sale. The restoration of praediatoria in Gains is doubtful, and censoria seems
much to be preferred. The operation of praediatura as a general lien
on all the property of the praes is probably recognised in the Republican
period, although Demburg has doubts on this point. Such a lien is found
in the Lex Malacitana in the time of Domitian, but this may have been an
extension to the public aerarium of the general hypotheca belonging to
the Imperial Fiscus. At any rate, there is no evidence that the
lien did not exist in our period; and if it 1 Gai. Boecking, Rom. Priv.
Pfdr. irssv. did, we can readily see
that the security of praediatura was superior to that of sponsio. It is
perhaps natural that the subject of praedes and praedia should be
obscure, for the complicated nature of the law of praediatura is attested
by CICERONE (si veda) who states that certain lawyers make it a
special study. Art. 4. AcTiONES ADiECTiciAE. Besides introducing the actio
mandati, the praetor's edict enlarged the scope of agency by instituting
several other important actions. These were the actiones quod
iussu, exercitoria, institoria, tributoria, de peculio and de in rem
uerso. In all of them alike the Praetor's object was to fasten responsibility
on some superior with whose consent, or on whose behalf, contracts
had been made by an inferior. They are known as actiones adiecticiae,
because they were considered as supplementing the ordinary actions
which could be brought against the inferior himself As they made the principal
liable on the contracts of a subordinate, it is plain that they must
have been a most useful substitute for the complete law of agency
which the Romans always lacked. The fact that they all had formulae in
ius conceptae points to a late origin, but they all doubtless
origi- nated before the end of the Republic. The actio quod iussu
was an action in which a son or slave, who had made a contract at
the bidding of his pater familias, was treated as a mere conduit
pipe, and by which the obligation was directly imposed on the pater
familias who had [Balb. = 14 Dig. 1. 5. fr. 1. authorized it. Since Labeo
mentioned the action as though its practice was well developed in his
day, we may fairly suppose that iussus was made actionable in Republican
times. The formula is as follows: Quod iussu N^ Negidii A"
Agerius Gaio, cum is in potestate N'' Negidii esset, togam uendidit qua
de re agitur, quidquid oh earn rem Oaium jUium A° Agerio dare
facere oportet ex fide hona, eius iudex iV™ Negidium patrem A"
Agerio condemna. s. n. p. a. Here the express comniand of the superior was
the source of his obligation. The actio exercitoria was an action in
which a ship owner or charterer {exercitor) was held
directly responsible for the contracts of the ship master (magister
nauis). Its formula probably ran as follows: Quod A^ Agerius de Lmio
Titio magistro eius nauis quam N' Negidius exercebat, eius rei causa in
quam L' Titius ibi praepositus fuit, incertum stipulatus est qua de
re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium A" Agerio praestare
oportet ex fide bona eius N™' Negidium A" Agerio condemna. s. n. p.
a.- It was known to Ofilius in the eighth century of the city*, and
was very probably even older than his day. The necessities of trade were
obviously the source from which this particular form of agency
sprang, because in an age of great commercial activity, when even
bills of lading were not yet introduced, it was expedient that the
delivery of goods or the [Dig. 4. 1. fr. 9. ^ x4 Big. Baron, Abh. aus dem
B. C. P. ii. 181. Dig. 1. 1. fr. 9. making of contracts by the master
should be equivalent to a direct transaction with the ship owner
himself. (3) The actio institoria no doubt had a like
commercial origin. This was an action by which the person who employed a
manager (institor) in a busiuess from which he drew the profits, was
made liable for the debts and contracts of the manager. This action
was known as early as the days of Seruius Sulpicius^, and its formula
closely resem- bled that of the actio exerdtoria. The difference
between these two and the actio quod iussu con- sisted simply in the fact
that the iiissus or autho- rization was special in the one case, and
general in the other two. In the actiones exercitoria and insti-
toria an implied general authority was ascribed to the agent in virtue of
his praepositio^, whereas in the actio quod iussu the agent had only an
express special authority. Thus the magister nauis and the institor
were genuine instances of general agents ; and we find therefore, as we
should have expected, that the acts of the magister and institor only
bound the master when strictly within the scope of their
authority'. This is an excellent instance of the manner in which
Mercantile Law has developed the same rules in ancient as in modem
times. The actio tributoria is that by which a master was compelled
to pay over to the creditors of a son or slave trading with his consent
whatever [Dig. 3. 5. fr. 1. Dig.; Oosta, Azioni, Dig. tribui, 14 Dig. 4. 5. 5. B. E.
14 profits he had received from the business. The formula ran thus :
Quod J.' Agerius de L" Titio qui in potestate N'' Negidii est, cum
is sciente N" Negidia merce peculiari negotiaretur, -infiertum
stipulatus est qua de re agitur, quidquid ex ea merce et quod eo
nomine receptum est ob earn rem iV™ Negidium .4." Agerio tribuere
oportet, eius dumtaxat in id quod minus dolo malo N Negidii A' Agerius
tribuit, N'^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. This
action was mentioned by Labeo ' and was there- fore probably as old as
the other actions of this class. The knowledge and tacit approval of the
superior were here the source of his obligation. The actiones de
peculio and de in rem uerso are proceedings by which the master is
required to make good any obligation contracted by his son or
slave, to the extent of the son's or slave's peculium, or of such gain as
had accrued to himself {in rem uersum) from the contract. Their
peculiarity, as GAIO (si veda) has told us and as a recent writer
conclusively shows, was that they had one formula with an alternative
condemnatio, which may be reconstructed as follows : Quod A' Agerius de Lwdo
Titio cum is in potestate JV Negidii esset, incertmn stipulatus est qua
de re agitur, quidquid ob earn rem Lucius Titius A" Agerio praestare
oportet ex fde bona, eius iudex N'^ Negidium A" Agerio, dumtaxat de
peculio quod penes N"^ Negidium est, uel siquid in rem N*
Negidii inde versv/m est, condemna. s. n. p. a. This [Dig. Baron, Dig. 4.
7. Baron; cf. Lenel, Ed. perp. formula might be so modified that the actio
de peculio and the actio de in rem uerso could be brought either
separately or together. These actions were known to Alfenus Varus^, and
it is safe to say that they were introduced some time before the
end of the Republic. The knowledge or consent of the superior did not
here have to be proved. The difference between the actio tributoria
and the actio de peculio was considerable. By the former the master
contributed his profits and then shared in the distribution as an
ordinary creditor. But by the latter he became a preferred creditor, and
deducted from his profits the whole amount owed to him by the son
or slave. The peculium in the latter case was in fact only the balance
remaining after the debts of the son to him had been satisfied.
Art. 5. CoNSTiTVTVM AND Receptvm. To- wards the end of the Republic
we find two kinds of formless contract by which a debt could be
created, and both of which seem to have sprung fi-om the requirements
of Roman commerce I. Gonstitutmn. The chief characteristics of this
contract may be gathered from the constitution by which Justinian
ftised together the actio recepticia and the actio pecuniæ constitutæ as
well as from allusions in the Digest. It seems to have been a formless
promise of payment at a particular date; depending on the existence of a
prior indebtedness to which the Dig. Ihering, Geist Cod. constitutwm
became accessory; unconditional; enforced by an actio pecuniae constitutae of prætorian
origin which was in some cases perpetua and in others armalis ; and
available to persons of all classes. Constitutwm is discussed by Labeo,
and is mentioned by CICERONE (si veda) in a way which makes it certain
that the actio pecuniae constitutae existed in his day. The action
originated in the prætor's edict, and it was thereby provided with a
penal sponsio similar to that of the condictio certae pecuniae.
This leads us to infer that pecwnia constituta was treated by the
Praetor as analogous to pecunia credita; especially as Gains states that
pecwnia credita strictly means only an unconditional obligation to pay
money, while we know from Justinian's constitution that unless
constitutvmi was unconditional no action would lie. But why should the
penal sponsio of the actio pecuniae constitutae have been so much heavier
than that of the condictio, namely dimidiae instead of tertian
partis? The reason given by TEOFILO (si veda) is that constitutum is generally
entered into by a debtor in order to gain time for the payment of a
debt already due, and that the prætor institutes this severe action in order to
discourage insolvent debtors from this practice. Labeo on the
contrary says that constitutvm is made actionable in order to
enforce the payment of debts not yet due. Both li Dig. God. Big. Quint.
Dig. Gai. IT. 171. 8 Paraphr. Dig. Labeo and Theophilus are probably right ',
but each takes a one-sided view. The Praetor's aim presu- mably was
to enforce the payment of any debt, due or not due, which the debtor had
made a renewed promise to pay at a particular date. The breach of a
repeated promise (for constitutum always implied a previous promise or
indebtedness) was doubtless regarded by the Praetor as a singularly
flagrant breach of faith; and hence he compelled the defendant to join in
a penal sponsio dimidiae partis. This actio per sponsionem was not
however the only remedy for a breach of constitutum. The Digest
shows that the usual form of redress was an actio in factum, which
probably had a formula as follows: Si paret Nwmeriimi Negidium Aulo
Agerio X millia Kal. Ian. se soluturwn constituisse, neque earn
pecuniam soluisse, neque per Agerium stetisse quo- minus solueretur,
eamque pecuniam cum constituehatur debitam fuisse, quanti ea res est, tantam
pecuniam, Nunierium Negidium Aulo Agerio condemna ; and that this
actio in factum, existed in Gaius' time as an alternative remedy seems
probable from his language. It is not likely that the actio in
factum arose simultaneously with the other; and of the two Puchta* is
almost certainly right in assigning the earlier date to the actio per
sponsionem, because the custom of sponsione prouocare suggests an ancient
origin. This sponsio, like that of the condictio, is præiudicialis, but
it also contained a strongly penal element. Its penal character is [Bruns,
Z. f. EG. Dig. Bruns. Inst. CONTRACTS NOT CLASSIFIED] no doubt the reason why
the action may not be brought against the heir of the constituens, and
why it is annalis. As Bruns shows, the remedy after one year is probably
the actio in factum', by which the plain amount of the constitutum mayalone
be recovered. Constitutum may be employed for the renewal of the
promisor's own debt {const, debiti proprii), as well as of another man's (const,
debiti alieni), and this distinction is early allowed". In the
later law it could also be used to reinforce and render actionable
an “obligatio naturalis”. But this feature probably did not exist at the
origin of the action", for the Praetor could only have had in mind
pecunia eredita, when he inflicted such a heavy penalty. The effect
of constitutwm was simply to reinforce the old obligation by supplying a
more stringent remedy. It never produced novation as stipulatio or
expensilatio would have done. The agreement by which shipmasters,
innkeepers and stablemen {nautae, caupones, stabularii) undertook to take
care of the goods or property of their customers was known as receptum,
and was enforced by means of an actio de recepto as rigorously as
the duties of common carriers are enforced by the Common Law".
The edict is expressed as follows: navtae CAVPONES stabvlarii qvod
cvivsqve salvvm fore RECEPERINT NISI RESTITVENT, IN EOS IVDICIVM
DABO; Bruns) Dig. Bruns, Camazza, Dir. Com. and the remedy was an
ordinary actio in factvm, authorising the judge to assess damages for the
loss or non-production of the goods. But the contract which more
nearly concerns us is receptum argentariorum, the nature of which
has been a subject of much controversy. This is a formless promise
to pay on behalf of another man, and we gather from GIUSTINIANO that
it is capable of creating an original debt; capable of being made
svb conditione or in diem, and enforced by an actio recepticia, which is
perpetua; while TEOFILO (si veda) tells us that it is confined
to bankers (argentarii). Bruns indeed supposes that receptum was a
formal contract iuris ciuilis, while according to Voigt it is a species
of expensilatio devised by the argentarii. Lenel however proves that
receptum argentariorum is introduced and regulated by the prætor in the
same part of the Edict in which he treats of the recepta nautarum,
cauponarum and stabulariorum. This appears from the fact that in 13 Big.
5. 27 and 28, constituere has evidently been substituted
by Tribonian and his colleagues for recipere. Ulpian treats of
constitutwm in his book on the Edict. But the passage quoted in the
Digest is from his book on the Edict, in which we know that he discussed the clause Nautae caupon^s
statularii. So also POMPONIO (si veda), who discussed recepta Cod. Z. fur RG.
fiSm. EG. Z. der Sav. Stift. Dig. Dig.
nautarvm, &c. and constitutum, is described as mentioning the
latter. Gains also is represented to have dealt with constitutum in the
very same book in which he treated of recepta nautarum. We must
conclude, either that all these writers introduced into their discussion
of recepta naviarum &c. the totally irrelevant subject of constitutum,
or that the subject thus introduced was not constitutum but receptum
argentariorum. If the latter conclusion is correct, as we may well believe that
it must be, it follows that receptum, argentariorum was, like the
other recepta, regulated by the Praetorian Edict, and was therefore not a
contract iuris ciuilis. By analogy with the other recepta we may further
conclude that receptum argentariorum was formless, and hence cannot
have been a species of eoopensilatio. The remedy is of course an actio in
factum. Recipere is used by CICERONE in the sense of undertaking a
personal guarantee, but with no clearly technical meaning. Justinian
states that the ouctio recepticia was objectionable on account of its
solemnia verba, and Lenel has explained this to mean that the actio
recepticia, being necessarily in factum like those of the other recepta,
had to contain the words "si paret soluturwm recepisse.
n^que soluisse quod solui recepit, of which recipere was a
technical term. This term, being misunderstood by the Greeks, was
translated in Justinian's time Dig.; Vig. = Dig. Phil.; ad Fam. by
constitmre. It is almost certain that the actio recepticia was known
before the end of the Republic, since Labeo evidently discussed it. The function of receptum
probably is to provide an international mode of assigning
indebtedness, because transcriptio a persona in persona/m was not
available to peregrins'. The existence of the debt between the creditor
and the original debtor was clearly not affected by the obligation of the
argen- tarius who had made a receptum; and from the passages above
cited Lenel also infers that receptum pro alio was the only known form
which the contract ever took. In short, it seems to have closely resembled
the acceptance of a modem bill of exchange, and it is doubtless made by
the argentarius on behalf of his clients or correspondents. Dig.
Lenel, Z. der Sav. Stift. Carnazza, Dir. Com. We have now traced the
development of the Roman Law of Contract from an early stage of
Formalism, in which few agreements were actionable, and those few provided
with imperfect remedies, to the almost complete maturity to which it
had attained by the end of the Republic. Of all the contracts which we
have examined, nexum and vadimonium seem to be the only two that
became obsolete during this period, while the new contracts of Praetorian
origin, such as depositum and constitutum, attain their full growth. So
that the jurists of the empire find little to do besides the work of
interpretation and amplification. The one great improvement, and almost
the only one, which the law of contract undergoes subsequently to our period, is
the introduction of the actiones praescriptis uerbis, by which the scope
of real contract is immensely enlarged. In other respects, the law of
the republic has the credit of having generated that wonderful system of contract
which later ages have scarcely ever failed to copy, and which lies at the
root of so much of English Law. Keywords: il duello, “del contratto” – giocco come
contratto – wrestling as a contract, fencing as a contract, contract bridge as
a contract -- pena temporaria, pena perpetua, divorzio, matrimonio, stato,
legge, devere naturale, obbligazione naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Fisichella” – The Swimming-Pool Library. Francesco Fisischella. Fisischella.
Grice e Fitio: la
ragione conversazionale e la setta di Reggio -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. A
Pythagorean, cited by Giamblico.
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